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Ferruccio Masini

Franz Kafka
La metamorfosi del significato

ANANKE
I saggi di Ferruccio Masini raccolti
in questo libro costituiscono una vera
e propria interpretazione comples­
siva dell’opera narrativa del grande
scrittore praghese, attenta sia alle
modalità espressive dei testi, sia ai
risvolti di ordine metafisico-religioso
disseminati nella sua scrittura.
Tra l’argomentazione dialettica, che
è sintomo di un’entità spezzata, e la
magia di un'Unità dove tutto ripose­
rebbe in quiete però senza vita, Kafka
introduce un quid tertium, l’allegoria,
che diviene lo strumento magico in
cui la potenza distruttiva del negativo
“si risolve nel dominio magico della
distruzione che essa stessa realiz­
za”, in un “incantesimo vivente” che
costringe la distruzione a diventare
creazione, qualcosa che edifica. La
soluzione di Kafka ‘scrittore’ fu di
condurre a compimento quella distru­
zione, così come il paradosso del
nichilismo kafkiano sta nel fatto che
la conoscenza costituisce la via gno­
stico-negativa che conduce al compi­
mento dell’essere. “L'essere - scrive
Masini - sta alla quiete, al compi­
mento, all’inattività come l’avere
(il possedere) sta all’impazienza,
all’estinzione, alla lotta”. L’unica via
per alludere all’Essere, a quel mondo
spirituale che è l'unico esistente, è
un'autodistruzione equivalente a
una metamorfosi. "Metamorfosi del
significato, vale a dire, nel linguaggio
di Kafka, divenire noi stessi metafo­
re, così da raggiungere quella realtà
ultima, sepolta nell'identità magica
di significato e significante”.
“Questo mondo è il nostro stes
so smarrimento, ma come tale è
un’entità indistruttibile, o meglio:
qualcosa che può essere distrutta
solo col portarla tino in tondo, non
col rinunciarvi”
Franz Ka/ka

Ferruccio Masini (1928-1988)«? stalo


un personaggio eclettico: poeta, nar
ratore, saggista, filosofo, regista leal
rale, docente universitario nonché
autore di un libro fondamentale dedi
cato a Nietzsche, Lo scriba del caos
(ed. 11 Mulino 1978). È inoltre autore
di molti saggi dedicati ai maggiori
scrittori tedeschi.
In questa collana è stata pubblicata nel
2006 la sua Filosofia dell’avventura.

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<r.
Collana di filosofia
diretta da Marco Vozza
Ferruccio Masini

Franz Kafka
La metamorfosi del significato

A cura di
Emilio Carlo Corriera

ANANKE
©2010 ANANKE srl
Tutti i diritti riservati / All rights reserved
ANANKE srl
Via Lodi 271C - 10152 Torino (Italy)
www.ananke-edizioni.com E-Mail: info@ananke-edizioni.com

ISBN 978-88-7325-330-3
Indice

I.e ‘segnature’ di Kafka di Emilio Carlo Corriero................................ 7

Franz Kafka - La metamorfosi del significato

I Tra l’Esserci e l’Esistenza....................................................... 33


Spiritualità ebraica in Franz Kafka..................................................33
La dialettica esistenziale negli scritti extra-narrativi di Kafka ...58
Per un’interpretazione di Franz Kafka .......................................... 80

II L’incantesimo e la logica......................................................... 91
Cosa sono i simboli per Kafka?...................................................... 99
Introduzione a II Processo...............................................................115
Nel labirinto della colpa ................................................................. 120

III In via allusiva .......................................................................... 131


Profilo di un’interpretazione: il linguaggio allusivo...................131
Kafka o del «pozzo di Babele»...................................................... 140
Franz Kafka: una distruzione che edifica .................................... 161
La Cognizione del dolore................................................................ 171
Metamorfosi del significato............................................................ 183

IV Le Lettere ................................................................................ 193


Il vessillo di Robinson..................................................................... 193
Introduzione a Lettere a Milena.................................................... 221

Appendice ...................................................................................... 229

5
Le ‘segnature’ di Kafka
di Emilio Carlo Corriero

I
Come da un risveglio da uno stato di torpore, di innocenza e beati­
tudine originarie, come strappati all’abbraccio dell’Essere per essere
gettati nell’Esserci, così, sovente, i protagonisti di Kafka cominciano
per usare un’espressione cara a Ferruccio Masini - la loro avventura'.
Così il procuratore Joseph K., di prima mattina, già desto nel letto nella
vana attesa della consueta colazione, è sorpreso dall’irruzione di “due
rozze guardie” e di un ispettore che apparentemente senza causa gli no­
tificano lo stato di arresto; così il commesso viaggiatore Gregor Samsa
si risveglia da sogni agitati sotto forma di insetto, ma, questo, “non era
un sogno”; così pure l’agrimensore K., giunto a tarda sera nel paese
sprofondato nella neve, trova riparo per la notte presso la locanda su di
un pagliericcio nella sala di mescita; svegliato dal giovane Schwarzer,
che dubita di quello straniero, si fa forte delle proprie ragioni (Grün­
de), sostenute solo dalla sua parola e poi confermate, ‘pare’, dalla voce
all'altro capo del telefono cui Schwarzer è appeso; vinta momentanea­
mente la disputa, riesce a ritrovare il sonno che il giorno dopo, al risve­
glio, lo lascerà in uno spaesamento definitivo da cui non potrà uscire.
11 risveglio, o più in generale lo spaesamento iniziale in cui è calato il
protagonista kafkiano (si pensi per esempio al giovane Karl Rossmann
di Amerika sulla nave, proveniente dall’Europa, che entra nel porto di
New York), ci conduce all’interno del cerchio dell’Esserci, in quella
solitudine che è la condizione di partenza de\Y avventura, e, in fondo, il
marchio della colpa della separazione tra mondo immanente e mondo
trascendente. Così come al risveglio si ha la necessità di ri-conoscere
quanto si è lasciato la sera prima prendendo sonno, in maniera analoga
i personaggi di Kafka sono posti in apertura dinanzi a questa ri-cogni­
zione, con la differenza, però, che se sul piano reale tutto perfettamente
coincide con le attese, sospesi, traditi, smarriti, appaiono, invece, i li-

I F. Masini, Filosofia dell’avventura, a cura di Marco Vozza, Ananke, Torino, 2006.

7
velli metafisico, legale, etico o morale. Il linguaggio di Kafka aderisce
certo alle cose prossime, ma come nota giustamente Lukacs, proprio e
solo per sottolineare e rimarcare l’assurdo che diversamente - aggiun­
giamo noi - si farebbe surreale perdendo di efficacia nell’onirico sans
emploi. Il particolare, in Kafka, permane stabile e ben delineato nei suoi
contorni ad accentuare la distanza dal livello metafisico che appunto ap­
pare ‘saltato’ e bisognoso di una rettifica. Ma, qui, non v’è rettifica che
tenga. Ogni via che si possa imboccare in questo isolamento è sempre
e soltanto un dilazionare, un ritardare, un rinviare, ché - avverte Kafka
- “c’è una mèta, ma non una via; ciò che chiamiamo via è un indugia­
re”. Al risveglio, poi, come confida Joseph K. alla signora Grubach si è
“colti di sorpresa”, “si è poco preparati”; “in banca, per esempio, sono
preparato, una cosa del genere là non mi potrebbe succedere”. Nel tor­
pore del risveglio v’è il segnale di una separazione tra sovrannaturale e
naturale che accompagna fra alterne vicende lo spaesamento del perso­
naggio kafkiano connotandone l’agire (e questo avviene distintamente
nel Processo e nel Castello, ove i Magistrati o i Signori sono pervasi da
una sonnolenza che è appunto il senso di questo indistinto in cui Kafka
ci conduce, e in cui le azioni dei protagonisti appaiono prive di senso e
anzitutto inefficaci).
Ma torniamo allo stato iniziale e cruciale - che segna il passo dell’in­
tero procedere delle narrazioni kafkiane - poiché in esse più che mai
trova conferma quanto afferma Masini a proposito dell’avventura, in
quanto essa in generale “si dà nel suo cominciare a, in un momentum in
cui il non-possibile e il possibile convivono in un loro misterioso intrec­
cio, in una loro sottile ed enigmatica convergenza”2. NeW incipit del­
l’avventura, che è poi la decisione dell’autore all’opera e dell’opera dal
possibile, v’è già lo smarrimento in cui l’autore ci conduce. “L’opera di
Kafka - scrive Masini introducendone le Lettere - rappresenta il luogo
in cui il suo autore si è ‘perduto’, dove ha perduto la sua ‘patria consa­
pevole’ ”. Non si tratta di un artificio letterario o di un espediente atti ad
attrarci in un enigma da cui si può uscire seguendo le trame più o meno
cifrate che l’autore vi avrebbe immesso; né si tratta di rinvenire fra gli
scritti extra-narrativi (e dunque in una presunta intimità a se stesso da
parte di Kafka) una chiave di interpretazione che dischiuda il significato
dell’opera o, più pretenziosamente ancora, la filosofia tutta dell’autore.
Semplicemente il cominciare a dell’opera kafkiana è già l’atto di una

2 F. Masini, Filosofia dell’avventura, cit., pag. 25.

8
separazione catastrofica dell’Esserci del singolo dal fondo impossedibi-
le dell’Essere, ossia dall’assoluta Libertà dell’Essere. E a questa sepa­
razione corrisponde quella mescolanza di possibile e non-possibile che
Irò va espressione nelle ‘zone di confine’ che fanno da scenario vivente
alle disavventure del protagonista; il villaggio è infatti quanto di più
prossimo vi sia al Castello, qui vigono leggi che non corrispondono a
lineile del resto del mondo, ma ciò avviene con una tale naturalezza da
far dubitare che altrove se non qui vi sia realmente Legge; in maniera
analoga accade con l’arresto di Joseph K., che determina una condizio­
ne di ‘sospensione’ (egli è libero di circolare eppure si trova agli arresti)
Ira l’estrema vicinanza alla Legge, cui però non sa guardare se non con
gli occhi di una separazione che vuole essere rimarginata dalla volontà
di sapere, e la prossimità relativa al resto del mondo nel quale può con-
tinuare a lavorare e ad agire. In ambo i casi, e in ambo le direzioni, una
condizione di estrema e pericolosa estraneità.
Rinvenendo una certa continuità fra Amerika, il Processo e il Ca­
stello, Max Brod scriveva nel 1927, a postfazione dell’incompiuto ro­
manzo Amerika, che a costituire il tema di fondo di questi tentativi è
appunto il tema dell’estraneità e dell’isolamento in mezzo agli uomini.
"La situazione di chi è sotto accusa nel Processo, l’essere straniero, non
invitato, nel Castello, lo stato di abbandono di un adolescente inesperto
in mezzo all’infuriare della vita in Amerika [..ciò che qui è in gioco
sarebbe, per Brod, l’integrazione del singolo nella comunità umana ma,
in quanto ciò coinvolge la giustizia suprema, anche l’integrazione del
singolo nel regno di Dio. L’Esserci vuol dire per il Kafka di Masini “ri­
svegliarsi dall’ipnosi dello stato di innocenza” e sentirsi subito mancare
il terreno sotto i piedi (come avviene nel Dialogo col devoto, dove l’ir­
resistibile estraneità esistenziale è descritta come “una febbre, un mal
di mare in terraferma, una specie di lebbra”); la colpa dell’Esserci, che
è poi l’Esserci stesso, si profila nell’heideggeriano nicht-zu-Hause-sein,
nella sua Unheimlichheit. Già connessa allo spaesamento dell’Esserci
è, però, la tensione al ritomare-a-casa, al volersi nuovamente a casa, al
possedere’ nuovamente quanto si è perso, per un bisogno metafisico di
sicurezza, che è poi bisogno del ‘proprio’ Grund. Ma, nella separazione
e nell’isolamento che costituiscono l’Esserci, la tensione al fondamento
dell’Esistenza non può che tradursi nell’agire contro lo sradicamento
in cui ci si avverte ‘gettati’. Tale sradicamento illude però il soggetto
di essere superficiale: il procuratore K. si sa pur sempre procuratore di
banca, non mette in dubbio (come potrebbe senza perdersi definitiva-

9
mente?) la sua innocenza, così come la sua stessa ipseità, agisce nel­
l’anomalo procedimento “come se” si trattasse di un affare tra gli altri
che quotidianamente conduce a buon fine, ma i sostegni abituali che
via via si illude di ricuperare gli sono del tutto inutili, se non addirittura
nocivi. Allo stesso modo l’agrimensore K. si sa chiamato al Castello
- ma non ha con sé alcun documento, solo la sua parola -, ha un attimo
di esitazione (forse si tratta di un errore?), ma subito si riprende, quando
all’altro capo del telefono cui parla Schwarzer viene confermata la sua
assunzione; eppure in realtà all’altro capo del telefono è solo “un canto
e un brusio”, ché “non esiste un collegamento telefonico preciso con il
castello”; e allora la lettera di Klamm? Ma questa non ha valore lega­
le: è una semplice lettera privata (peraltro scritta senza cognizione dei
fatti) e “una lettera privata di Klamm ha naturalmente molta più impor­
tanza di un documento amministrativo; solo non ha - avverte il sindaco
- quel significato che lei [K.] attribuisce”. C’è dunque ancor sempre solo
la parola di K., ed essa richiede appunto - anche e soprattutto per lo stesso
K. - un qualche riconoscimento. Un riconoscimento cui aspira lo stesso
Joseph K. del Processo. Certo, qui in gioco è il riconoscimento della sua
assoluta innocenza, ma pur sempre di riconoscimento si tratta. Si vuole il
riconoscimento perché si vuole affermare (o ri-affermare) un’identità che
in realtà si è persa nello spaesamento dell’Esserci e che tuttavia è l’indi­
struttibile in noi: “l’essenza stessa dell’Esserci in quanto è libertà”, e per
essa si è ‘indotti’ a lottare, a domandare, a cercare, infine a voler sapere.
Già, perché il nodo (e lo snodo) della narrazione kafkiana è appunto il
voler sapere. Si obbietterà, e a ragione, che non sempre i protagonisti di
Kafka sono preda di questo demone che vuol sapere; basti l’esempio di
Gregor Samsa, il quale dopo il primo moto d’orrore (“Che mi è succes­
so?”) si mette a divagare sull’infelicità della propria condizione lavorati­
va ed è lo spettacolo del grigio cielo piovoso a ‘immalinconirlo’, nuli’al­
tro. Ma il movimento inquisitorio coinvolge invece qui il lettore il quale,
vivendo l’estraneità del protagonista, non può non porsi la domanda, non
può non voler sapere perché mai quel commesso viaggiatore sia ora in
quello stato, e viene così inevitabilmente trascinato in quell’isolamento e
con esso nella dinamica a vuoto del Fragen.
L’Esserci dell’uomo (e dì) Kafka è l’Esserci qui e ora, è apparte­
nenza ad un essere determinato ed è assieme apparente estraneità al­
l’Essere cui sempre, però, appartiene; è dunque una non-partecipazio-
ne alla Vita che si traduce nella colpa, nella solitudine che è tuttavia
per Kafka anche segno di vocazione: segno estremo di un compito che

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l'uomo stesso è, e che Kafka identificò per sé con la scrittura.
Si è detto che nell’Esserci è già presente lo slancio al di là del cerchio
che esso delimita, nella direzione di un fondamento per quel nulla che
l’Esserci stesso è, un fondamento che è per Kafka l’Esistenza o meglio
l’esistenziarsi dell’Esserci stesso nella Libertà: dunque un fondamento
che propriamente si nega in quanto fondamento. Ora, se l’Esserci, in
quanto qui e ora, è salvo nel suo cominciare V avventura, perso ‘ap­
pare’ (e appare soltanto) il suo appartenere all’Essere (“la parola Sein
significa in tedesco tutte e due le cose: Da-sein e Ihm-gehören (Esser­
ci e Appartener-Gli)”, così scrive Kafka nelle sue Considerazioni sul
peccato, il dolore, la speranza e la vera via). La distanza dell’Esserci
dall'Esistenza, suo impossedibile fondamento, si presenta incolmabile;
Joseph K. come l’agrimensore K. si sprofondano nella loro lotta, nel
loro Fragen, nel loro Streben verso il Sapere, e anziché liberare il pro­
prio Esserci al fondamento non-fondamento della Libertà, affondano
sempre di più le radici nel loro estraniamento e nella loro solitudine,
('creano una ragione, una causa, che però infine non è che illusione di
un avere, di un possesso; e perdono dunque di vista l’essere, tuttavia
avverte Kafka - “non esiste un avere, ma unicamente un essere”. La
distanza tra Limmanenza spaesata dell’Esserci e la misteriosa trascen­
denza determina dunque un impulso ineluttabile all’agire, un agire che
si traduce sempre - con Goethe - in una sciagurata tätige Unwissenheit,
un'operosa insipienza. Non c’è, infatti, un sapere che possa essere rag­
giunto sulla strada del Fragen, c’è solo il conatus a vuoto di questo
voler sapere che in fondo è semplicemente Unwissenheit', “avvicinarsi
a una mèta - scrive Masini - è per ciò stesso allontanarsene, il tentare di
rendere accessibile una mèta è bloccare lo sforzo verso di essa in una
serie di conati a vuoto, di sforzi senza risultato, di impossibili dilazioni
che non sono appropriazioni, ma parodia, parodia della ricerca e dello
sforzo, parodia dello spasimo”.
Dialogo e lotta, agiti dai personaggi nel loro voler sapere, non sono
che espressioni della loro impazienza. E di fatto nell’impazienza, che
ha in Kafka la stessa radice della colpa e che istituisce e struttura l’iso­
lamento dell’Esserci, che rinveniamo il tentativo di sfuggire al proprio
destino e per la via sbagliata, giacché “l’invito alla lotta - avverte Kafka
nelle Considerazioni - (in quanto espressione di impazienza - nota Ma­
sini) è uno dei mezzi più efficaci della seduzione del male. È come la
lotta con le donne, che finisce a letto”(si pensi alla seduzione e alla
promiscuità col potere dei personaggi femminili di Kafka), del resto

11
l’impazienza è il solo vero e proprio peccato capitale, “per essa gli uo­
mini sono stati cacciati [dal Paradiso], e per essa non vi fanno ritorno”.
E l’impazienza ad accompagnare il procuratore Joseph K. all’esecu­
zione, è quell’impazienza di sostare nell’essere, resistendo al Fragen,
che lo spinge a revocare l’avvocato Huld (“la capisco” disse l’avvocato
“lei è impaziente”) e che gli fa rifiutare le possibilità dell’assoluzione
apparente o del rinvio prospettate dal pittore Titorelli, o dallo stesso
commerciante Block - già coinvolto, e da molto più tempo, in un pro­
cesso analogo a quello di Joseph K. {“das Warten ist nicht nutzlos” dice
il commerciante “inutile è solo intervenire da sé”).
In modo analogo per l’agrimensore K., che con impazienza si ostina
nel voler il riconoscimento di una capacità per la quale è stato chiamato
al Castello; è per impazienza che egli cerca, come gli rimprovera Frieda
(proiettando su K. le sue stesse ambizioni, messe così bene in luce da
Pepi nelle ultime pagine del manoscritto), nelle persone che incontra
solo appigli che possano condurlo a Klamm o, più in alto, al Castello;
ed è ancora con impazienza che K. rimprovera duramente Barnabas, a
suo modo di vedere inadempiente nel suo ruolo di messaggero, ignaro
che questi, al suo primo incarico, indugia nel recapitare i messaggi pen­
sando in tale procedura una qualche vicinanza alle vie del Castello.
L’impazienza che ‘muove’ al riconoscimento della Libertà dell’Es-
serci si profila nel voler sapere dei vari K., come una volontà di posses­
so, ma su questa via non c’è che l’illusione di un possesso che non potrà
mai aver luogo. Su questa via c’è sempre e solo sviamento. “La libertà
- scrive Massimo Cacciari a commento del Castello in una chiara affi­
nità alle tesi di Masini - è solo nel suo esser-riconosciuta. Ma soltanto
aprendosi alla propria ‘infondatezza’, soltanto se affermata come ‘ciò’
che non può essere nostro possesso, potrà aprirsi al riconoscimento del­
l’altro e all’essere riconosciuta”3. L’errore di K. consiste nel pensare
nella lotta quell’agire che possa disserrare l’Altro, nell’intendere dun­
que la lotta in quanto animata dalla ‘propria’ volontà di sapere, come
capace di condurre al fondamento dell’Esserci. “Si potrebbe dire - con
lo Schelling di Erlangen (1821), con ‘il primo dei filosofi dell’Esisten­
za’, con il pensatore che rappresenta l’arcano della crisi del ‘sapere’ (e
riteniamo che le acute e fruttuose basi teoretiche dell’interpretazione
di Ferruccio Masini ci legittimino ora in questo slancio) - che l’errore
nasce dal mero voler sapere. Basta quindi non voler sapere per esse­

3 M. Cacciari, Hamletica, Adelphi, Milano, 2009, pag. 64.

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re garantiti dall’errore. E questo è infatti il rimedio casalingo di cui
si servono i più. Ma [...] il voler sapere non dipende dall’uomo: egli
vuole sapere prima ancora di sapere che vuol sapere. [...] L’uomo si
ritrova quindi già immerso per natura in un sapere, e precisamente in
quel sapere in cui si traspone quando, contrapponendosi all’eterna li­
bertà che egli doveva essere, si fa soggetto sciente”4. Noi diremmo con
Masini, ripercorrendo Kafka: quando compie, suo malgrado, la separa­
zione catastrofica dell’Esserci. “Ora - continua Schelling - dal momento
che questo sapere è sorto perché egli ha trasformato in oggetto l’eterna
libertà smuovendola, per così dire, dal proprio posto, la conseguenza
non potrà naturalmente essere che una deformazione del sapere, e la
presenza nella conoscenza umana di una mescolanza di vero e di fal­
so. È in questo sapere misto e impuro che noi viviamo per natura”, e
nel quale - è il caso di dire - Kafka ci conduce con la sua opera, che è
appunto il luogo ove l’autore (e in fondo l’uomo stesso) si è ‘perduto’,
il luogo della aporia della Libertà in cui siamo ‘gettati’ e che non può
trovare soluzioni sulla via di qualsivoglia Wissen. “L’uomo è caduto in
errore - afferma poco più avanti il filosofo di Leonberg - proprio perché
ha separato in sé il naturale dal sovrannaturale. Coloro quindi che si
battono - e qui un pensiero corre veloce a quanto Masini dice a proposito
ile Ila ‘lotta’, come espressione di quell’impazienza che è la colpa stessa
per quel dualismo parteggiano in fondo proprio per quella colpa del­
l’uomo”5.
La separazione dell’Esserci dal fondo abissale della Libertà è segno
di quella mancanza di pienezza che esorta, come si è visto, l’Esserci ad
una tätige Unwissenheit. Tuttavia se, come dice il commerciante Block,
"aspettare non è inutile”, è forse l’attesa, allora, la struttura esistenziale
che permette all’Esserci di raggiungere il suo fondamento impossibile?
Ma la pazienza dell’attesa richiederebbe una quiete che è già più che un
sapere, un sapere diverso da quello cui può aspirare l’Esserci nel suo
voler sapere.
Kafka non può permettersi come Barth o come l’amato Kierkegaard né
il ‘salto’ né la fede nel Trascendente; a ciò oppone piuttosto l’attesa - l’at-
tesa messianica che qui pare tradursi tuttavia nell’attesa di Un messaggio
de II’imperatore che non potrà mai giungere al suo umile destinatario.

4 F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a


cura di Luigi Pareyson, Mursia, Milano, ed. 1990, pag. 222 e segg.
5 F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen, cit., pag. 223.

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Raccolta al suo capezzale la voce dell’imperatore morente, il messag­
gero si è “messo subito in moto [...] Ma la folla è così enorme; e le sue
dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volereb­
be! [...] Ma invece si stanca inutilmente! Ancora cerca nelle stanze del
palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse
non si sarebbe a nulla”. Paradossalmente - scrive Masini nel 1960 -
Kafka ironizza tristemente sulla venuta del Messia, “Costui verrà - egli
dice - quando non sarà più necessario, non verrà che il giorno dopo il
suo arrivo, l’ultimissimo”. Kafka vive l’attesa, ma il suo messianesimo
- sostiene Masini -, in quanto privo del legame alla Scrittura che ne co­
stituisce il centro di gravitazione, viene “corroso dall’assurdo”.
Se dunque nemmeno l’attesa può rappresentare quella struttura esi­
stenziale in grado di eliminare la distanza, Masini ritiene di inserire un’ul­
teriore struttura, volta, questa, pur con tutte le difficoltà che in essa si
mantengono, a motivare l’atteggiamento di Kafka “come poeta”: si tratta
della fede nell’immanenza. Se l’Esserci appare come un limite invalica­
bile al di là del quale “cade nel nulla la nullificazione della trascendenza”,
detta trascendenza non può che riporsi nell’Esserci stesso. Si propone
ancora una volta l’assalto al limite “non tanto per trascenderlo quanto per
ritrovarvi il senso dell’azione medesima; della nostra appartenenza ad
esso”. La parola Sein in tedesco - lo abbiamo visto - significa tutte e due
le cose Dasein e Ihmgehören (Esserci e Appartener-Gli), è dunque in
questo appartener-Gli la possibile trascendenza dell’isolamento del Da­
sein, che si compie nell’Unità immanente deli' ego-mundus?
In ciascuno di noi è presente - dice Kafka - etwas Gemeines: l’indi­
struttibile unità dell’Essere che costituisce il legame indissolubile fra
gli uomini e che - potremmo dire noi - sta come impossibile fondamen­
to (e custode) dell’Esserci. Se è vero che la Legge di tale ‘appartenere’
sfugge a qualsivoglia Fragen, nel Glauben avviene qualcosa di diverso:
credere significa - scrive Kafka nel terzo quaderno in ottavo - liberare
l’indistruttibile che è in noi, che è più esattamente liberarsi o, meglio
ancora, essere indistruttibile, in definitiva essere assolutamente. Quel-
r indistruttibile che è Uno (“ogni uomo lo è contemporaneamente, esso
è comune a tutti”), liberato nel Glauben, rappresenterebbe per Masini
“l’oscura cabala dell’individualismo assoluto”, per il quale il Messia
verrà - come scrive Kafka nelle Considerazioni - “quando nessuno di­
struggerà questa possibilità, quando nessuno tollererà la distruzione, e
dunque le tombe si scoperchieranno. Questa è forse anche la dottrina
cristiana, sia nell’indicare concretamente l’esempio da seguire, che è

14
un esempio individualistico, sia nell’indicare simbolicamente la resur­
rezione del mediatore in ogni singolo individuo.”
Dunque una preferenza per la via cristiana? La genericità del linguag­
gio di Kafka, secondo Masini, non ci induce a crederlo. Della via cri­
stiana Kafka pare salvare esclusivamente - e però ancora ebraicamente
- il ruolo di mediazione di cui ogni uomo è, in quanto credente, sempre
possibile protagonista. La fede nell’immanenza parla per l’esattezza di
un individualismo assoluto della fede e dunque di una resurrezione del
mediatore all’interno di ciascuno di noi. L’Uomo è infatti, come scrive
Masini, “il mediatore di se stesso ed è quindi l’uomo che annullerà il
nulla e che non tollererà più l’annientamento. L’uomo è un compito in
atto che ha in sé la sua stessa autorealizzazione, l’uomo non ha contro
di sé la verità, ma diviene la verità: l’uomo non è una via - ché una via
è indugio - ma un fine, una mèta”. Ma una tale dinamica esistenziale è
possibile solo entro una struttura che abbia come Grund ‘mobile’ l’im-
possedibile fondamento della Libertà.
È solo nell’uomo, nell’Esserci del suo isolamento, che risiede l’atto
del possibile ricongiungimento con la libertà dell’esistenza, poiché essa
era già il suo fondamento non-fondamento che lo custodiva (e tuttora lo
custodisce) in sé. Scrive Kafka nelle sue Considerazioni:
L’essere umano ha libera volontà, e precisamente in tre modi:
In primo luogo, era libero quando ha voluto questa vita; adesso certo
non può più farla tornare indietro, perché non è più quello che allora
l’ha voluta, se non nella misura in cui, vivendo, mette in atto la sua
volontà di un tempo.
In secondo luogo, è libero perché di questa vita può scegliere l’anda­
mento e il percorso.
In terzo luogo, è libero perché, essendo colui che un giorno tornerà ad
essere, ha la volontà di attraversare la vita a qualsiasi condizione, e in
questo modo di pervenire a sé, per una strada di sua scelta [...].
Questi sono i tre modi della libera volontà; ma essendo simultanei,
essi sono un’unica cosa, e in fondo lo sono a tal punto che non resta
posto per la volontà, sia essa libera o non-libera6.
E come non pensare - e qui eccediamo nuovamente le tesi dell’in­
terpretazione di Ferruccio Masini, ma al contempo troviamo conferma
di quanto sostenevamo sopra - alle parole di Schelling pronunciate a
Erlangen nel 1821: “Nell’uomo soltanto toma ad esserci quell’abissale

(, F. Kafka, Aforismi e frammenti, scelta e introduzione di F. Masini, a cura di G. Schiavoni,


BUR, Milano, 2004, pag. 70.

15
libertà; [...] Nell’uomo si agita certamente l’oscuro ricordo di essere sta­
to una volta l’inizio, la potenza (Macht), il centro assoluto di tutto”7.
A fondamento dell’uomo risiede l’eterna e assoluta Libertà (nella sua
connessione alla volontà originaria e illimitata), ma nel tentativo di og-
gettivarla, allorché l’uomo “tenta di procurarsene un sapere”, essa sfugge
via e non c’è modo di ricuperarla se non astenendosi da quella cieca vo­
lontà di sapere. In Kafka vi è appunto il dramma di una Libertà ‘perduta’
che vuole riconquistare se stessa, però sulla via della volontà di sapere.
Ciò che connota l’irraggiungibile Altro - che è poi l’indistruttibile in noi
- è una Signoria, una Potenza, una Forza che sfugge a ogni definizio-
ne/cattura, e dunque alla rah'o del voler sapere, e che pure è, tuttavia,
sempre e in ogni luogo, a fondamento di ogni possibile Wissen (sapere).
Come nota Elias Canetti in Der andere Prozess, non v’è scrittore che
più e meglio di Kafka abbia avuto consapevolezza delle dinamiche del
potere, della potenza (Macht), nel loro carattere terreno: a questa forma
di potere Kafka tenta di sottrarsi in ogni modo8, ma così facendo allude
ad un potere altro, originario, che è quello del Sein. Il potere nella sua
essenza è, infatti, in strettissima relazione con l’assoluta Libertà, e non
v’è pensatore che abbia messo in luce tale intima connessione meglio
di Schelling9. L’eterna libertà è l’eterno voler-potere, l’eterno Mögen,
il voler-potere in sé; e di esso non si può avere alcun Wissen (Sapere),
giacché esso stesso è Weisheit (Sapienza). “Sapienza - scrive Schelling
- è ancor più che sapere: è il sapere in quanto è anche pratico. [...] La
parola ebraica che significa sapienza designa originariamente signoria,
potenza, forza. Nella sapienza soltanto è la potenza e la forza, poiché essa
è ciò che è in tutto, ma, proprio per questo, anche ciò che è al di sopra di
tutto. [...] Cantando questa sapienza un antico poema orientale si chiede:

7 F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen, cit., pag. 211.


8 “Siccome - scrive Canetti - teme il potere in ogni sua forma, siccome l’unico intento della sua
vita è di sottrarsi al potere in ogni suo aspetto, egli lo sente, lo individua, lo nomina o gli dà
risalto ovunque là dove altri lo accetterebbero con naturalezza" |E. Canetti, L'altro processo.
Le lettere di Kafka a Felice, trad, it., Guanda, Parma, 2003, pag. 121]. Tuttavia, ritengo che
l’operazione di Kafka non sia quella di ‘esorcizzare’ il potere, così da porsi al riparo dalle sue
dinamiche, bensì sia piuttosto quello di ‘nominare’ il potere, divenuto espressione di quella
‘volontà di potenza’ decisa nella separazione dal fondo dell’Essere, al fine di alludere al po­
tere - ‘perduto’ - nella sua connessione all’Essere originario, e dunque alla Potenza in quanto
è Sapienza.
9 Mi permetto di rinviare il lettore che fosse interessato al nesso qui identificato o più in genera­
le al rapporto tra Volontà e Libertà al mio Vertigini della Ragione, Schelling e Nietzsche. Pref.
di M. Cacciali, Rosenberg & Sellier, Torino, 2008.

16
■«Dove si vuole trovare la sapienza, e dov’è il luogo dell’intelligenza?
Nessuno sa dove essa sia, né la si trova nel paese dei viventi. L’abisso
dice: non è in me, e il mare dice: neppure presso di me». Il significato
è il seguente: la sapienza non sta in nessuna cosa singola, non abita nel
paese dei viventi perché non si ferma in nessun luogo, ma passa attra­
verso tutto, come il vento di cui tutti sentono il sibilo, ma nessuno può
dire ove si trova la sua dimora.”10 Come non pensare al Processo, dove
in ogni angolo può annidarsi una cancelleria, dove ogni sottotetto può
divenire una sala d'udienza, dove un anonimo ripostiglio può divenire
una sala per le punizioni corporali, dove ovunque aleggia invadente
la Legge? Come non pensare poi al Castello, che altro non è che “un
misero paese, un insieme di casupole”, ove la Legge vige imperscruta­
bile fra gli abitanti del villaggio (come una tradizione fatta di semplice
esperienza vissuta), anche se sembra annidarsi, misteriosa, all’interno
ili quell’unica torre che troneggia fra quelle casette in pietra “come se
un tetro abitante costretto per giuste ragioni a restarsene chiuso nella
stanza più remota della casa, avesse sfondato il tetto e fosse sorto per
mostrarsi al mondo”. Come se - diciamo noi - la Sapienza dell’eterna
libertà, che è a fondamento dell’Esserci, fosse stata fatta oggetto della
coscienza e avesse così determinato la vana ricerca di un voler sapere
(“nell’uomo - scrive Schelling - questa sapienza non c’è più [...] in lui
non è rimasto che il sapere") che mai potrà ri-aprire le porte di quella
torre senza rinunciare a questa che è in fondo volontà di potenza, e sen­
za anzi trasfigurare quest’ultima nella più assoluta volontà di amare.
L’opera di Kafka è dunque l’immersione nell’Indistinto, in cui l’uo­
mo si è ‘perduto’, e mette in scena il vano procedere della volontà di
sapere, con un linguaggio allegorico che semplicemente allude (ecco
qui profilarsi l’interpretazione di Masini che nelle pagine che seguono
Uova puntuale definizione nel capitolo che abbiamo intitolato L« via
allusiva) alla possibilità di un sapere altro, alla Weisheit originaria. La
V la prospettata è sempre e solo un ‘via di qui’, non è mai un conoscere
tiglio di una volontà di sapere che è sempre volontà di potenza - che
dischiuda il nucleo della Libertà nella possibilità di colmare la distan­
za fra significante e significato, ma solo l’allusione allegorica ad una
mèta immanente ‘via da ogni sapere’. La volontà di sapere si definisce
sempre e solo come non-via, come sviamento che deforma l’irraggiun­
gibile mèta.

IO F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen, cit., pag. 208.

17
Ecco allora che il mondo terrificante e opprimente dei Signori non è
che l’aspetto che la Libertà, chiusa in quella torre, offre a chi, immer­
so nella colpa di quella originaria separazione, si ostina nella sua täti­
ge Unwissenheit e guarda ad essa con gli occhi del mero voler sapere.
“La Sapienza grida per le strade”11 la sua esclusione, ma grida invano,
poiché chi la cerca non sa amarla, chi la cerca la cerca animato dalla
volontà di sapere e non dall’amore per la Sapienza. “Chi si leva per
essa di buon mattino - dice il libro della Sapienza - non faticherà, la
troverà alla sua porta”, ma scrive Kafka nel terzo quaderno in ottavo
“chi cerca non trova, chi non cerca viene trovato”. Abbiamo visto che
in Kafka non c’è la resa incondizionata all’attesa; l’errore deve dun­
que darsi nella modalità di quel ‘cercare’, quando questo rimane un
mero voler sapere, che è sempre un ‘cercare’ fuori di sé: una tensione
determinata già nella separazione dell’Esserci dall’impossedibile ar-
ché della Libertà. Eppure “il castello si ‘apre’ - scrive Cacciari - a chi
entra in se stesso, rivolgendosi al proprio ‘fondo’ per solo impeto di
amore gratuito. Per ogni altra ‘intenzione’ esso è il Chiuso che non
può essere penetrato se non venendo distrutto”11 12. Il castello si apre
dunque a chi riconosce nel chiuso di quella misera torre l’originaria
colpa di quella separazione dell’Esserci dal fondo impossedibile della
Libertà, e sa quindi resistere alla seduzione della volontà di sapere.
Naturalmente la soluzione di Kafka non è quella che possa offrire
un filosofo (ché egli non lo è), è piuttosto quella, già accennata, della
via allegorica. È la via che accetta la distruzione già avviata in quel­
la remota separazione dell’Esserci e la porta a compimento in una
“distruzione che edifica”. L’indistruttibile che è in noi come etwas
Gemeines equivale all’Unità della verità, e questa Unità è la Legge:
la Legge dell’Unità stessa. La verità di questa Unità è sottratta alla
comprensione della volontà di sapere, essa sfugge a ogni Be-schrei-
ben kafkiano, giacché la possibilità del discorso - scrive Masini - è
bloccata nella prima affermazione dell’Identità. La volontà di sapere
circoscrive questa Identità sottraendola, per mezzo di negazioni, a tut­
to ciò che è diverso da essa; ma la verità è Una e indivisibile, dunque
ogni Be-schreiben cade nell’errore divenendo al più “articolazione
favolosa di un discorso che tenta di spiegare l’inesplicabile”. Tra l’ar­
gomentazione di ogni Fragen, che è sintomo di un’Unità spezzata e la

11 Proverbi, I, 20.
12 M. Cacciari, Hamletìca, cit., pag. 53.

18
magia di un’Unità dove A = A, e dove però tutto riposerebbe in quiete
e dunque senza vita, Kafka introduce un quid tertiunv. l’allegoria. La
scrittura allegorica, in quanto sintesi di argomentazione dialettica e
magia, diviene lo strumento magico in cui la potenza distruttiva del
negativo (la negazione dialettica) “non si risolve nella distruzione, ma
nel dominio magico della distruzione che essa stessa realizza”, e si ha
cosi la prospettiva di un compimento del mondo attuato mediante la
■ uà distruzione. Un “incantesimo vivente” - così lo chiama Kafka -
I he costringe la distruzione a diventare creazione. Il senso della scrit­
tura allegorica sta appunto in questa “distruzione che edifica in forza
dcH'incantesimo”. Ma la volontà di creare non è in fondo volontà di
amare? E quale più alta volontà di amare se non quella volontà di
creare di colui che intende fare di se stesso una metafora?
La soluzione di Kafka ‘scrittore’ fu quella di condurre a compi­
mento quella distruzione che non ha davanti a sé una possibile via che
I onduca alla mèta, ma solo il possibile ‘via di qui’ che per Kafka si
approfondirà nella distruzione di sé, in quanto ultimo baluardo del­
la conoscenza e della volontà di sapere. “E lo stesso gradino della
conoscenza che deve essere distrutto - scrive Masini nel 1988 in un
lesto che avrebbe dovuto introdurre gli aforismi di Kafka -, poiché
proprio questo è l’ostacolo della conoscenza stessa: distruggere se
■lessi come gradino equivale a costruire la distruzione stessa, a fare
di essa la «vera via». Il paradosso del nichilismo kafkiano sta nel fatto
che la conoscenza costituisce la via gnostico-negativa che conduce
al compimento dell’essere. L’essere sta alla quiete, al compimento,
all'inattività come l’avere (il possedere) sta all’impazienza, all’esi-
lazione e alla lotta”. E l’unica via per alludere all’Essere, al mondo
spirituale che è il solo ad esistere, è “un’autodistruzione, che infine
continua Masini - è metamorfosi. “Metamorfosi del significato, vale
a dire, nel linguaggio di Kafka, divenire noi stessi «metafore», così da
I aggiungere quella realtà ultima che è sepolta nell’identità magica di
significato e significante”.
In fondo tutte queste similitudini dicono soltanto che l’Inconcepibile
è inconcepibile, e questo si sapeva. Ma altre sono le cose che ci affa­
ticano ogni giorno.
A questo punto uno disse: «Perché vi opponete? Se seguiste le simi­
litudini, voi stessi diverreste similitudini, e quindi sareste liberi dal
travaglio quotidiano».
Un altro disse: «Scommetto che anche questa è una similitudine».

19
Disse il primo: «Hai vinto».
Disse il secondo: «Ma purtroppo soltanto nella similitudine».
Disse il primo: «No, nella realtà; nella similitudine hai perduto»13. 14

II

A metà degli anni ’80 e quindi a pochi anni dalla morte che avvenne nel
1988, Ferruccio Masini attendeva per l’editore Rizzoli alla realizzazione
di un volume che contenesse gli aforismi e i frammenti di Kafka. Come
si evince dallo scambio epistolare che Masini intrattenne all’epoca con
Evaldo Violo, storico direttore editoriale della BUR, il volume - nelle
intenzioni del curatore - avrebbe dovuto avere per titolo Le segnature
dell’uomo, un’espressione che si richiamava esplicitamente alla mistica
ebraica. Di quel libro, che verrà poi pubblicato nel 2004 a cura di Giulio
Schiavoni con il titolo Aforismi e frammenti™, Masini ebbe però solo il
tempo di redigere l’introduzione Metamorfosi del significato-, saggio che
oggi apre il volume suddetto e che nelle pagine seguenti è riproposto a
conclusione del capitolo In via allusiva. Proprio in questo scritto - come
si vedrà - si fa più chiaro cosa Masini intendesse con l’espressione ‘se­
gnature’.
L’impianto originario suggerito da Masini nella lettera a Violo del 1°
agosto 1982 prevedeva una suddivisione del volume “su due assi fonda-
mentali in corrispondenza speculare tra loro. Il primo riguardala] l’uo­
mo colto come universo interiore, il secondo la società vista come proie­
zione della sua forza creativa, ma anche delle sue contraddizioni, delle
sue inquietudini e dei suoi orizzonti utopici”. In quest’ottica, le due parti
sarebbero state a loro volta suddivise in sottosezioni, quali da una parte,
la conoscenza, l’arte, la natura, il tempo e la morte, l’Eros, e, dall’altra, la
storia, il progresso, l’utopia, il pregiudizio e le convenzioni sociali, la ri­
volta, il potere; aspetti e caratteri intrinseci ed estrinseci dell’essere uma­
no che a tutta prima sembrerebbero esaurire in una sorta di descrizione
antropologica il significato del titolo che si immaginava di assegnare alla
raccolta. Tuttavia, l’espressione ‘segnature’ assume una tale pregnanza
all’interno della cultura e della mistica ebraiche, e poi in particolare rela­
zione all’opera kafkiana, da non poter essere liquidata troppo alla svelta.

13 F. Kafka, Delle similitudini, in Racconti, trad. it., Mondadori ‘i Meridiani ', Milano, 2006, pag.
508.
14 F. Kafka, Aforismi e frammenti, trad, it., a cura di G. Schiavoni, BUR, Milano, 2004.

20
Come spiega Scholem nel suo 11 nome di Dio'5, nella tradizione cab­
balistica è quasi sempre presente “la concezione simbolica delle lettere
come segnature segrete del divino presenti in tutte le sfere e in tutti i
gradi del processo della creazione”16. In ebraico l’espressione ‘ot’ oltre
a indicare la ‘lettera’ significa anche il segno, la ‘segnatura’, e il plurale
'otot’ indica ‘prodigi’ e ‘segni miracolosi’; inoltre, nella sua connes­
sione al verbo atah che significa venire - secondo il nesso suggerito
intorno al 1200 da Isacco il Cieco, il primo cabbalista provenzale -, sta
a significare una tensione profetica rivolta al futuro, appunto a “ciò che
viene”. In questo ambito, l’espressione ‘ot’ racchiude, dunque, al suo
interno la concezione del linguaggio sulla quale da sempre i mistici di
culture differenti, ebraica come musulmana, cristiana come induista,
concordano rinvenendo in esso “una dignità, una dimensione immanen­
te I...] che mira a comunicare qualcosa di non-comunicabile, qualcosa
clic rimane inespresso e che, se mai si potesse esprimere, non avrebbe
comunque un significato, un «senso» comunicabile”17.
Nella interpretazione di Azriel (1160c. - 1238c.) e di altri cabbalisti,
la conoscenza garantita dalle ‘segnature’ è comunque una conoscenza
ili second’ordine. Nel processo di emanazione della Sapienza, la vo­
lontà originaria si scompone nel pensiero: un pensiero che per Azriel
si traduce in definitiva con la scrittura, e quindi con la Torah. Uscendo
dal grembo di questa volontà originaria, i contenuti di essa vengono at­
tualizzati nella forma della sophia, che però viene distinta in un livello
superiore (haskel, che corrisponde al latino intelligere) di un “pensiero
i he pensa se stesso”, e in un livello inferiore che è la sophia in senso
proprio “in cui compaiono le essenze, ovvero le cifre {Signaturen) di
tutte le cose già come contenuto di tale pensiero”18. Se l’intero crea­
to - e dunque ogni cosa che lo costituisce - rinvia simbolicamente, in
(pianto contenuto di quel pensiero primordiale, alla legge che in esso
opera, in ogni cosa si può cogliere un ‘riflesso’ di un mondo superiore
a cui tuttavia ogni singola cosa appartiene. Le lettere che compongono
la scrittura non sono che “un graduale ispessimento e una cristallizza­
zione condensata di quelle intime segnature delle cose che rimandano

I' G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, trad. it., Adelphi, Milano,
2005.
IO G. Scholem, Il nome di Dio, cit., pag. 44 (corsivo mio).
17 G. Scholem, Il nome di Dio, cit., pag. 13.
IH G, Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, trad, it., Marietti, Genova, 1986, pag. 32.

21
al corrispondente medium della creazione nel suo progressivo formarsi
e condensarsi”19.
Ma la parola delle segnature, che è poi la stessa parola della Torah,
non determina un significato fisso, non afferra un contenuto perché
non è mai un avere; presentandosi all’interno del processo di ema­
nazione come seconda sefirah, la parola delle segnature si offre nella
sua pienezza, carica dell’assoluto che in sé racchiude. Ogni parola e,
di più, ogni ‘segnatura’ in generale dischiude un non-finito: un eter­
namente interpretabile, che può quindi solo alludere all’inesprimibile
en-Sof (letteralmente al Non-Finito) e dunque mai com-prenderlo. “Si
tratta - scrive ancora Scholem parlando della concezione mistica della
Torah - della tesi dell’infinita significanza [Sinnesfülle] della paro­
la divina, comunque la si voglia definire. Anche la parola che è già
passata nelle segnature, cioè la parola in senso stretto, già mediata,
ha ancora il carattere dell’assoluto. Tuttavia, se si dà una parola di
Dio, essa certamente deve essere del tutto diversa dalla parola umana.
Essa attinge tutto, tutto comprende in sé e, a differenza della parola
umana, non può ridursi all’interno di un unico particolare contesto di
significanza. In altri termini: questa parola è oggetto di interpretazio­
ne infinita, anzi è l’interpretabile per eccellenza [das Deutbare sch­
lechthin]”20. Siamo qui nell’ambito della rivelazione ebraica, che non
si presenta come significato stabile, bensì come evento infinitamente
interpretabile.
Se, come dice Hoffmann21, in Kafka si ritrovano nello stile e nel sen­
tire ad esso sotteso elementi propri della mistica ebraica, indirizzati alla
definizione di una sorta di nuova-cabbala, ciò si deve al fatto che ogget­
to della descrizione kafkiana è, proprio come avviene per la letteratura
mistica, ciò che non può essere descritto, “di qui - scrive Masini - la
sua risoluzione in favole dialettiche o in «parabole» e la sua traslazione
negli elementi deformanti del mito.”
E in particolar modo il paradosso, metafora che abbonda nella pro­
duzione aforistica, a rivelare, nell’opera di Kafka, l’intimo legame con
la produzione dei mistici: “esso [il paradosso] è la segnatura - scrive
Masini nel saggio Metamorfosi del significato - di quell’infinità abbon­

19 G. Scholem, Il nome di Dio. cit., pag. 42.


20 G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., pag. 96.
21 Si veda per esempio W. Hoffmann, Kafka und die jüdische Mystik, in «Stimmen der Zeit»,
190 (1972), pagg. 230-248.

22
danza di senso che si nasconde nella parola divina che, come osserva­
va Scholem in proposito, si differenzia dalla parola umana, poiché «è
onniavvolgente, onniabbracciante e non può, al pari di quest’ultima,
essere unicamente riferita a uno specifico significato». Essa è «infini­
tamente interpretabile», è «l’interpretabile per eccellenza».” La for­
mula possibile al Kafka degli aforismi - ma ritengo al Kafka scrittore
in generale - diviene dunque il paradosso, inteso non come semplice
irasgressione del principio di non-contraddizione, bensì come forma
secolarizzata della rivelazione”. Una rivelazione che - è bene ram­
mentarlo -, in accordo con la tradizione cabbalista, si presenta come
T infinitamente interpretabile, rinviando sempre al di là di un qualsi­
voglia significato stabile (a tal riguardo risulta efficace l’espressione
delle “settanta facce della Torah”, usata sovente dai cabbalisti). Se il
paradosso degli aforismi riecheggia evidentemente le formule della
I abbaia, esso non fa che ripetere quell’assalto al limite - portato dal-
l'Esserci alla struttura che lo istituisce nella sua ‘gettatezza’ - che è il
proprium della narrazione kafkiana in generale. Di qui, dunque, l’idea
di porre Le segnature di Kafka come titolo di questa mia introduzione
.h saggi kafkiani di Ferruccio Masini, a significare da un lato il carattere
essenziale (neo-cabbalistico potremmo dire con Hoffmann) dell’opera
dello scrittore Kafka, tutta tesa alla creazione di significanti [Signatu-
/■<•//1 carichi di un potenziale infinitamente interpretabile; e, dall’altro,
la dedizione ermeneutica di Masini all’opera di Kafka che, resistendo
ad ogni ermeneutica della ‘traduzione in un significato stabile’, sugge-
lisce una via interpretativa la quale, entrando nella tensione provocata
nelle opere di Kafka fra il reale e l’Altro, ne comprende il carattere
semplicemente allusivo, puntando l’attenzione sulla centralità e sulla
irriducibile Unheimlichkeit dell’uomo. Un’ermeneutica degli scritti di
katka, chiarisce Masini, deve essere possibile, ma deve tenere presenti
assieme, per un verso, l’impossibilità di un fondamento stabile (che si
presenta come il paradiso perduto dal quale l’uomo è stato cacciato) e,
per l’altro, l’impossibilità di una mèta raggiungibile, sempre temperan­
do il metodo che privilegia letture filosofiche o religiose e il metodo
biologico, più attento alla forma espressiva. Si tratterà certo di un’er­
meneutica interminabile, ma non di un’ermeneutica filosofica quale è
quella che possa accompagnare per esempio gli scritti di un Nietzsche
I ni quali Masini prestò una attenzione costante), dove i significanti, via
da ogni fondamento esterno all’esperienza vissuta, trovano unità in un
I ampo di significato che essi stessi determinano, e in cui le metafore, le

23
immagini, insomma ogni Beschreiben, si identificano senza residuo con
i concetti che richiamano22.
L’ermeneutica che possa essere riservata all’opera di Kafka deve
invece porsi, secondo Masini, nella tensione che dette immagini e me­
tafore esercitano tra “la logica e la magia”, tra il realismo delle descri­
zioni e l’assurdo delle situazioni, ponendosi su di una via che può solo
essere allusiva', di qui la definizione del linguaggio di Kafka come di
un linguaggio allusivo, espressione che racchiude sotto di sé il progetto
ermeneutico proposto, e seguito negli anni, da Ferruccio Masini. L,'’al­
lusione di Kafka rinvia però - e qui accenniamo soltanto alla relazione
che il pensiero e l’opera di Kafka hanno con il nichilismo -, ad un fondo
dell’Essere, ad un paradiso perduto, che ha vissuto in virtù dell’isola­
mento dell’uomo un progressivo impoverimento del Bene. In questo
generale depauperamento dell’Essere, di cui narra Kafka nei suoi ro­
manzi e nei suoi racconti, indagando così anche la ‘disperata’ questione
(alla quale, secondo Scholem, Kafka darebbe una risposta affermativa)
“se il paradiso non abbia subito, con la cacciata dell’uomo, una perdi­
ta [ancor] più grave di quella subita dall’uomo stesso”23, Dio non sa
più fungere da fondamento dell’Essere in generale e del linguaggio in
particolare. Ma che ne è, dunque, di un linguaggio dal quale Dio sem­
bra essersi ritirato? Ecco, allora, che si comprende l’impegno di Kafka
nella direzione di una distruzione che porta a compimento l’originaria
separazione, e però così facendo costruisce tramite il linguaggio stesso,
che rimane - come per ogni poeta - carico di un assoluto significare,
una rete di rinvìi e di allusioni che ri-animano nella loro “perfezione
infranta” (caratteristica questa della produzione letteraria di Kafka) il
progetto spezzato dell’Essere.

All’interno dell’imponente produzione critica, letteraria, poetica e


pittorica di Ferruccio Masini, l’attenzione prestata a Franz Kafka è
sicuramente centrale. L’interesse per lo scrittore di Praga si generò, di
fatto, in Masini già a metà degli anni ’50 concretizzandosi nei primi
scritti fortemente connotati in senso esistenzialistico, per accompagnarlo
negli anni ’70 e ’80 negli approfondimenti di quei primi e fondamentali

22 Si veda a tal proposito F. Masini, Lo scriba del Caos, il Mulino, Bologna, 1978. In riferimento
all’interpretazione di Ferruccio Masini all’opera di Nietzsche e alle conseguenti implicazioni
in ambito di ermeneutica filosofica, mi permetto di rinviare il lettore al mio Nietzsche, oltre
l'abisso. Declinazioni italiane della 'morte di Dio', Marco Valerio, Torino, 2007.
23 G. Scholem, Il nome di Dio, cit., pag. 102.

24
approcci a Kafka, che si incrociarono e sovrapposero proficuamente
alle traduzioni di autori come Nietzsche e Benn, Hoffmann e Paracelso,
Jaspers e Celan, o alle letture critiche di scrittori come Kleist o Jünger - o
di ‘classici’ come Pascal, Novalis o Schlegel, dei quali Ferruccio Masini
curò le edizioni italiane -, determinando quella che oggi a posteriori
possiamo presentare come un’interpretazione complessiva dell’opera
ili Kafka che salvaguarda costantemente l’autonomia dell’interprete
rispetto all’opera e al suo autore. Di fatto, in Masini, ogni lavoro critico
è intriso di un fondo filosofico-letterario che lo anima e che rimane a
sostenere l’argomentazione senza tradire la cura ermeneutica prestata
al testo; una filosofia, quella di Masini, che non potè esprimersi nella
"gloriosa chiarezza del tutto disvelato”, ma che alluse - è il caso di dire,
per rimanere sul terreno di Kafka - ad una dimensione non-possedibile
cd esistenziale che trovò certamente espressione negli aforismi della
Iliosofia dell’avventura, ma anche in ciascuno dei suoi scritti critico-
11 losofici: penso in particolar modo all’opera su Nietzsche del 1978, Lo
vi riha del Caos.
In un contesto così ampio e difficile da dipanare, i saggi su Kafka
qui di seguito proposti, offrendo uno sguardo chiaro e preciso di un
autore tanto enigmatico quanto fondamentale nel panorama letterario e
lilosofico contemporaneo, hanno la forza di andare al di là dello stesso
kalka, contribuendo a delineare, se accolti nella consapevolezza della
poliedricità e della intensità della sua produzione, il profilo filosofico-
letterario complesso e sfaccettato di Ferruccio Masini.
Come si evince dalla pur provvisoria bibliografia curata da Bernhard
Arnold Kruse nel 1998 per l’Istituto Italiano di Studi Germanici, ol­
treché dalla mole di annotazioni e appunti, in parte conservati presso
l'Archivio Bonsanti di Firenze, Kafka fu una costante del lavoro critico
ili Masini. Oltre a dedicargli, da docente a Siena, un intero corso univer­
sitario nell’Anno Accademico 1973/1974 {Il problema dell’avanguar­
dia storica in Germania: F. Kafka), Masini scrisse sul noto romanziere
diversi articoli (nei quali probabilmente emerge con più chiarezza il
confronto con gli schemi ideologici degli anni ’60 e ’70), per l’Unità,
per la Posta Letteraria del Corriere del Ticino, e per altri giornali e rivi­
ste: articoli di cui abbiamo solo voluto offrire un saggio in Appendice al
Ime di non appesantire un testo già ricco di materiali. Masini compose,
inoltre, nel 1986 due sceneggiature per le rappresentazioni teatrali in­
titolate Il cavaliere del secchio e i Colloqui con Kafka (messe in scena
.1 I irenze nello stesso anno), e lavorò, fra gli anni ’70 e ’80, al progetto

25
(che però non vide mai la luce) di una serie televisiva in sei puntate
dedicata allo scrittore praghese.
I saggi che qui presentiamo e che testimoniano, soprattutto nelle in­
troduzioni e nelle curatele alle edizioni Garzanti, Rizzoli e Mondadori,
il significato dell’interpretazione di Masini nell’ambito della ricezione
italiana di Kafka, non esauriscono la produzione kafkiana di Masini; è
certo, tuttavia, che la continuità teorica che li caratterizza può a giusto
titolo costituire l’asse fondamentale attorno al quale ruota il lavoro er­
meneutico e filosofico del noto germanista, offrendo sia una via di ac­
cesso alla comprensione della scrittura di Kafka, narrativa e non, sia un
raro esempio di critica letteraria non parassitarla dell’opera, viva anzi
di una propria autonomia di pensiero che va ben al di là dell’opera in
oggetto, senza mai tradirne la lettera, tenendo sempre presente l’intima
corrispondenza e complementarità del metodo filologico e del metodo
contenutista.
In apertura di questo libro, al capitolo Tra VEsserci e TEsistenza,
sono posti tre saggi, scritti tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni
’60 all’interno di una cornice tipicamente esistenzialista, ove centrale è
appunto il tema della separazione dell’Esserci dal fondo dell’Esistenza.
Tale isolamento, che istituisce la ‘gettatezza’ del personaggio kafkiano
e dell'uomo Kafka in generale, e che ne costituisce l’impossibile pro­
gettualità rivolta a quel fondamento perduto, rappresenterà negli anni la
base teorica per l’interpretazione di Ferruccio Masini.
Alla fine degli anni ’50, Masini ha davanti a sé, e apprezza più di altri
lavori contemporanei, i primi studi di Remo Cantoni, che problematiz­
zano i nuclei teorici della produzione kafkiana, senza semplificazioni e
riduzionismi, spostando sul piano dell’esistenzialismo l’insicuritas teo­
logica e la ‘crisi della ragione’ che emergono con chiarezza dall’opera
di Kafka. Sempre in questi anni, Kafka è posto ai margini dalla cultura
marxista - a cui si rifà, potremmo dire oggi, da ‘indipendente’ lo stesso
Ferruccio Masini -, la quale vede nell’agire a vuoto del protagonista
kafkiano l’inevitabile resa allo status quo, propria di un certo pessi­
mismo piccolo-borghese di tendenza conservatrice. In particolar modo
risulta fondamentale in questo contesto, al di là della lettura lukàcsiana
che vede nei personaggi kafkiani la tipica alienazione di cui è vittima
l’uomo nella società capitalistica, l’opera di Günter Anders, Pro und
contra Kafka, il quale, in polemica diretta con lo stesso Max Brod, met­
te in guardia rispetto ad una ‘moda kafkiana’ di far cultura che se non
legittima direttamente il ‘male’, quantomeno ne difende la necessità.

26
Anders esorta sostanzialmente alla lettura di un Kafka depotenziato de­
gli aspetti filosofici, i quali sarebbero utili semplicemente ad una inter­
pretazione comoda e arrendevole della modernità, che Anders intende
ni ogni modo scongiurare.
A partire dal 1963, anno in cui si tiene a Liblice in Cecoslovacchia
un convegno su Kafka, una parte della cultura marxista comincia a ope-
rare un importante recupero dell’opera kafkiana. Masini saluta con fa­
vore tale movimento culturale sottolineando come Kafka abbia saputo
descrivere “la fenomenologia dei modi nei quali si presenta il miste­
ro di un mondo alienato. Un mistero che è anche, al limite, il mistero
dell’uomo e del suo farsi e contraddirsi, del suo «divenire», cioè, nel
vasto e imprevedibile teatro della realtà non mai positivisticamente o
idealisticamente risolvibile in una formula conoscitiva assoluta”. Da
una tale lettura di Kafka, quale si profila nel suddetto convegno, emer­
ge una cultura marxista che pare (almeno agli occhi di Masini) sapere
accoglierne V umanesimo e sembra presentarsi in grado di ‘tollerare’ il
mistero, tutto esistenziale, dell’impossibilità di una ‘integrazione’ defi­
nitiva dell’uomo, di un’irriducibile scarto che è proprio di una dimen-
sione umana della quale si deve tener conto.
Temperando la lettura marxista con questa fenomenologia dell’uomo
e della sua irriducibile ‘integrazione’, Masini potrà leggere, nello spa­
zio offerto da una lettura di tipo esistenzialistico (penso nuovamente a
Cantoni che nel 1970 uscirà col suo Cosa ha veramente detto Kafka,
ma naturalmente anche al Camus de II mito di Sisifo, già del 1942), lo
paesamento dei personaggi di Kafka come il vano sforzo di percorrere
le vie della volontà di sapere per riconquistare il fondo perduto dell’Es-
serci (che nella mistica ebraica si presenta come volontà originaria).
Ne 11’uomo e poeta Kafka si manifesterà, secondo Masini, il tentativo
di percorrere la via allegorica al fine di portare a compimento quella
distruzione che, iniziata con Toriginaria separazione dell’Esserci, cul­
mina così in una “distruzione che edifica”: che crea mondi e vie che non
indicano ma alludono soltanto al fondo mai possedibile dell’Esistenza.
Nel suo lavoro di esegesi sull’opera di Kafka, Masini tiene salda la
barra a metà strada fra un’interpretazione attenta alla modalità espres­
siva e un’interpretazione metafisico-religiosa rivolta al sottofondo fi­
losofico e in particolare alla simbologia kafkiana. Proprio in relazione
alla simbologia dello scrittore praghese, i motivi interpretativi si in­
trecciano inevitabilmente con la tradizione ebraica a cui a suo modo
appartiene. Qui risultano determinanti, in un primo tempo, da un lato

27
le letture ‘teologiche’ dell’amico Max Brod (come per esempio Franz,
Kafka. Glauben und Lehre) che vedono nella visione kafkiana del mon­
do moderno, preda di solitudine e angoscia, la pena per il distacco dal
precetto divino; dall’altro, la lettura di Walter Benjamin (Franz Kafka.
Zur zehnten Wiederkehr seines Todestages), che legge nell’impoveri­
mento del mondo moderno una legge a cui non può sfuggire nemmeno
la Tradizione, che in questa secolarizzazione si trova depauperata della
propria sostanza, scarna impalcatura priva di contenuto.
Nel capitolo 11 di questa raccolta, L’incanto e la Logica, sono ap­
punto collocati quei saggi di Masini che accompagnano da vicino la
produzione simbolica di Kafka. Accanto ai commenti al Processo com­
pilati negli anni ’80 per gli editori Garzanti e Rizzoli e che fuggono
strade interpretative troppo aderenti a prospettive filosofiche che inevi­
tabilmente finiscono per forzare la lettera kafkiana, troviamo lo scritto
di incerta cronologia Che cosa sono i simboli per Kafka? (probabil­
mente composto tra il 1960 e il 1970): saggio che, in tono tipicamente
conferenziale, accompagna l’ascoltatore/lettore all’interno dei campi
di significato della simbologia kafkiana, accennando a quell’infinità
interpretabilità della stessa. Negli anni in cui compone il saggio sud­
detto, Masini conosce già certamente il libro fondamentale del grande
germanista Giuliano Baioni, allievo di Ladislao Mittner, Kafka. Ro­
manzo e parabola (1962); libro nel quale, anche in polemica con la
lettura meta-storica di Max Brod, leggendo la condizione esistenziale
del mondo borghese contemporaneo a Kafka in connessione con la con­
dizione della cultura ebraica dinanzi alla secolarizzazione, il romanzo
(tipica modalità espressiva ‘borghese’) è letto come l’infinito tentativo
di spiegazione della parabola. In questo tentativo, si concretizzerebbe in
Kafka una sorta di ‘simbolicità assoluta’ (secondo l’espressione coniata
sempre da Baioni nell’altro suo libro, molto apprezzato e citato non
solo da Masini, Kafka. Letteratura ed ebraismo, pubblicato nel 1984)
che genera in una sorta di ‘macchina delle metafore’ immagini le quali
andrebbero colte nella loro enigmaticità offerta anzitutto dal paradosso:
figura retorica esplicitamente utilizzata da Kafka negli aforismi, ma che
abbiamo visto costituire una presenza costante dell’intera produzione
dello scrittore di Praga.
La via allegorica imboccata da Kafka a metà “tra la logica e la ma­
gia”, si presenta come il ‘ponte’(de 11’omonimo racconto), appunto pa­
radossale, capace di servire a quell’infinito passaggio tra il significante
e il significato, a costo di rinunciare però a intenderlo come connessione

28
stabile e definitiva: un ponte vivente, animato dalla stessa volontà di
creare, un ponte che, proprio in virtù di ciò, può voltarsi e così crollare.
Questa impossibilità di un passaggio certo dal significante al significato
permette all’interprete una lettura al più allusiva, ed è questo il tema di
fondo dei saggi (scritti fra gli anni ’70 e ’80) del capitolo III (In via allu­
siva), che si apre con lo scritto (Il linguaggio allusivo) che accompagna
tutte le edizioni Garzanti curate da Masini.
Passando per un’indagine della sofferenza e del dolore e per il vano
tentativo di dare un senso alle pene che accompagnano l’essere umano
in generale e dei personaggi di Kafka nello specifico, il capitolo si con­
clude con il saggio Metamorfosi del significato: uno degli ultimi scritti
ili Masini che, delineando una prospettiva estrema suggerita da Kafka,
vede in questa ‘macchina delle metafore’ l’esortazione asintotica che va
oltre l’incantesimo della scrittura, suggerendo infine all’uomo di fare di
se stesso una metafora.
Il libro si chiude con il capitolo che accoglie le introduzioni di Masi-
ni all’epistolario di Kafka. Il vessillo di Robinson e l’introduzione alle
Lettere a Milena costituiscono la più salda indagine di Masini intor­
no alla ‘scrittura’ di Kafka, rifiutando definitivamente di leggere negli
scritti extra-narrativi la chiave di accesso alle metafore kafkiane, e anzi
attribuendo giustamente a queste Lettere il carattere di genere letterario
a sé stante, al pari dei racconti e dei romanzi.

29
Nella realizzazione di questo lavoro sono tante le persone da ringra­
ziare. In particolar modo il mio ringraziamento va a Costanza e Sabi­
na Masini che hanno sostenuto e incoraggiato il progetto con grande
disponibilità e somma cordialità. Mi preme poi ringraziare il direttore
di collana Marco Vozza che ha affidato a me la cura di questo testo e
a cui si deve l’originaria intuizione di raccogliere gli scritti kafkiani di
Ferruccio Masini. Un sincero ringraziamento, carico di riconoscenza,
va inoltre a Massimo Cacciari e a Marco Ravera che, come per altri
miei lavori, hanno accompagnato con entusiasmo e attenzione il pro­
cedere di questo libro.
Mi fa piacere sottolineare la cordiale disponibilità che ho trovato al-
l'Archivio Bonsanti presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, e ringra­
ziare in particolare Ilaria Spadolini, che ha agevolato con la massima
cortesia le mie ricerche.
La correzione delle bozze si deve poi alla paziente cura di Grazia
Francone che ringrazio vivamente. Infine, nel reperimento dei mate­
riali e nella revisione dei testi prezioso e costante sono stati l’aiuto e il
sostegno di Chiara Norzi, a cui va il mio grazie più affettuoso.
Ferruccio Masini

Franz Kafka
La metamorfosi del significato
I

Tra l’Esserci e l’Esistenza


Spiritualità ebraica in Franz Kafka
(La parabola dell’assurdo)
«Ritorna dal tuo popolo» - disse il rabbi Mevi.
Il rabbi Elieser rifiutò con un gioco di parole.
F. K. Diari

I1

Il problema Kafka è una questione sempre aperta.


Forse è necessario che sia così; forse, se K. stesso potesse risponderci
ci direbbe che non è tanto necessario trovare una soluzione interpretati­
va per via di conoscenza, quanto divenire invece noi quella soluzione.
Non si conosce se non a condizione di realizzare in noi ciò che vo­
gliamo conoscere, non si ottiene se non si diviene ciò che si vuole otte­
nere. Conoscere ha ancora il significato biblico di «compenetrazione».
«Tu sei il compito. Non un discepolo, né da lontano né da vicino»I2.
«Non tutti possiamo vedere la verità, ma ciascuno può esserla»3.
L’arco della bruciante, assoluta esperienza kafkiana, la sua attualità
nono oggi così lontane dall’esaurimento che più che mai il problema
Kafka rischia di essere difficilmente obbiettivabile.
Il nostro sarà dunque un tentativo di approssimazione condotto più
che sulla falsariga delle numerose interpretazioni a sfondo positivo o
negativo, esoterico, cristiano, nichilista, freudiano ecc., sull’esame di
quei testi (i Tagebücher, gli Acht Oktavhefte e le Betrachtungen) che si
rivelano maggiormente utili al nostro scopo, non trascurando per questo
di tenere sott’occhio le altre opere principali del grande scrittore.

I Prima parte del saggio apparsa in «La Rassegna mensile in Israel», XXIII, 1957, n. 4, pagg.
170-177 (N.d.C.).
ì Citerò, tutte le volte che sarà possibile insieme all’edizione francese, riportata per comodità
del lettore, anche quella originale tedesca. Journal intime, Traduz. Klossowski, Grasset, Paris,
1948, pag. 252. «Du bist die Aufgabe. Kein Schüler weit und breit» Gesammelte Werke, S.
bischer, Verlag, 1953, Betrachtungen, pag. 41 n. 22.
I Journal, cit., pag. 300; G. W., cit., pag. 94. Das dritte Oktavheft', «Nicht jeder kann die Wahr­
heit sehn, aber sein».

33
Il nostro compito è dunque quello di articolare questi nuclei di
meditazione e di individuarne la particolare struttura affinché pos­
sa emergere quella spiritualità che non esitiamo a definire di fondo
ebraico', ma vedremo anche affiorare, su questo orizzonte, quei motivi
più riflessi e coscienti della Lebensanschauung kafkiana nel caratteri­
stico timbro esistenziale che è loro proprio.
È difetto comune di gran parte degli interpreti tendere a cogliere in
un nesso sistematico tutti gli aspetti di questa contraddittoria persona­
lità, così profondamente riluttante a lasciarsi fissare in una definizione
esauriente; è inevitabile che tutte queste disamine critiche si siano
orientate verso una impostazione aprioristica nell’analisi del pensiero
kafkiano, sollecitate forse dal bisogno di concludere in senso positivo
il risultato di tanti sforzi.
Ma pur riconoscendo che la problematica kafkiana è impregnata di
religiosità spiccatamente semita, è veramente lecito dire - come fa ad
esempio il Matteucci - che addirittura si esprime in essa allegoricamen­
te la tragedia del Vecchio Testamento?4
La caratteristica positiva della crisi perpetua di K. è forse proprio
quella che crede di vedere in essa il Brod, assertore convinto del sioni­
smo e del rinnovamento religioso ebraico?5
O forse è d’altra parte risolutiva la tesi di Don Petronio che in K. la­
menta l’assenza dell’anima6 o quella del Robertazzi7 - soltanto per fare
alcuni nomi a titolo indicativo - che vede in K. il trionfo dell’irraziona­
lismo con la conseguente estromissione della psicologia e della morale
dai suoi protagonisti?
L’interpretazione di tipo trascendentista, cristiano, del Rougemont8 e
del Bo9 mostrano il fianco alla critica, come pure quella di un Groethuy-
e di uno Spaini11 orientate verso una valutazione esoterica, mentre
sen10 11

4 B. Matteucci, F. K. o l’allegoria del V. T. In «Vita e pensiero», 1952, III, Milano.


5 Cfr. M. Brod, F. Kafkas Glauben und Lehre, Kurt-Desch, München, 1948.
6 Don Petronio, K. Bo e Paoli, in «L’avvenire d’Italia», 30 dicembre 1934.
7 M. Robertazzi, Poesia e realtà (Ilprocesso), Guanda, Modena, 1934.
8 Denis Rougemont, Le procès, in «La nouvelle Revue Française», 1° maggio 1934, pag. 868.
9 C. Bo, Nota su F. K„ in «L’orto», Bologna, 1934, n. 5, settembre-ottobre.
10 B. Groethuysen, A propos de K„ in «La Nouvelle Revue Française» Paris, aprile 1933, pag.
588 segg.
11 A. Spaini, Introduzione a «America» di F. K., Torino, Einaudi, 1945.

34
quella del Necco12 si lascia ipnotizzare dalla cosiddetta simbolomania
kafkiana; forse - tra tutti - gli studi del Cantoni13 si rivelano più spas­
sionati perché inclinano decisamente ad una localizzazione puramente
problematica dei contenuti teoretici della trascrizione artistica kafkiana.
Ma non possiamo qui perderci in tanto labirinto di idee che forse
hanno tutte il pregio di portare un contributo, sia pure parziale, alla
questione; vorremmo soltanto esprimere la necessità di premettere alla
medesima due importanti pregiudiziali:
A) La valutazione storica dei contributi ambientali che sul piano sociale-
religioso e hlosofìco-letterario possono avere influito, più o meno signifi-
I ativamente, sul formarsi e l’evolversi di K.: Praga, per esempio, che, con
Id ice espressione, fu detta (Rocca) «la capitale del mistero», crogiolo di
lazze e di cultura; la letteratura giudaizzante da Meyrink a Brod; l’occiden-
lalismo decadente e il naturalismo mistico di un Hlavàcék e di uno Šleihav;
I problemi delle comunità sionistiche; le correnti di studi talmudici; le idee
ilei Chassidim; l’esoterismo cabalistico; per non parlare dell’Espressioni-
■mo, della scristianizzazione della cultura, di certe paternità spirituali che
I ollegano Kafka a Dostoevskij, a Nietzsche, a Kierkegaard, a Strindberg.
lì non si dimentichi la rivolta del cristianesimo protestante all’idea­
lismo, la restaurazione dogmatica, non scevra di problematicismo irra­
zionalistico, di un Gross, Luetzert, Brunner.
L’opera di K. sta a cavallo tra il superamento espressionista del natu-
I .disino impressionistico, non privo di singolari ritorni e rigerminazioni,
superamento che maturò appunto tra il 1910 e il 1912, e l’incubazione
della Neue Sachlichkeit, del nuovo realismo, che si delineò dopo la fine
della prima guerra mondiale e della rivoluzione sociale tedesca.
Il problema della personalità e della metafisica sono al vertice della
speculazione filosofica di quel tempo, dai fenomenologi agli storicisti,
dalle Lebensphilosophien a Bergson: non bisogna trascurare quindi le ge-
neiali costanti dell’epoca per capire l’atteggiamento teoretico-religioso
'li K., rivolto particolarmente a quella reazione antidealista che metterà
I apo all’esistenzialismo e, più precisamente, a quella forma di esso che,
ni terreno religioso, prenderà il nome di teologia della crisi. Nel 1919
miniti, un professore di teologia di Basilea, Carlo Barth, pubblicherà per
In prima volta il suo famoso Commentario della Lettera ai Romani.
Il) La seconda pregiudiziale che volevamo tener presente è questa:

I( i Necco, Realismo e Idealismo nella lett. ted. moderna, Bari, Laterza, 1937.
I K. Cantoni, La coscienza inquieta, Milano Verona, Mondadori, 1949.

35
K. è vissuto in quel periodo di crisi che precedette e seguì la prima guer­
ra mondiale; nel 1910 inizia i suoi Diari, nel 1912 il romanzo America.
Nei primi anni della guerra, all’età di trent’un anni, lavora al Processo
e nel 1919 una serie di quattordici racconti appare sotto il titolo Un
medico di campagna', pubblica anche Nella colonia penale. Mentre -
secondo l’elenco del Brod - il manoscritto della Meditazione è inviato
all’editore nel 1912 (anno in cui fu scritta la Metamorfosi), una lettura
del Castello risale al marzo del 1922.
La generazione dell’espressionismo ha tenuto K. a battesimo e ha
deposto in lui il suo spirito inquieto, le sue dissolventi e feroci anti­
nomie; l’ebraismo gli ha dato quella caratteristica intransigenza dei
personaggi biblici, quella specie di crudeltà dialettica per cui l’uomo
pone sempre in questione se stesso davanti a Dio14.
K. è segnato dal marchio del suo tempo e dall’angoscia secolare della
sua razza. Più del Rougemont, che non vede in K. tanto il dramma dell’uo­
mo senza Dio quanto quello di un uomo destinato a Dio, che però non lo
conosce perché ignora Cristo, mi sembra abbia scrutato addentro il Canto­
ni15: la disperazione kafkiana è il risultato di una insecuritas teologica e di
un processo alla ragione in cui si fissa il termine «esistenzialismo».
In realtà, la sintesi tra immanenza e trascendenza (è questo il piano
inclinato su cui scivola tutta la sua epoca) rimane impossibile per K. Il
suo compito - in fondo - è denunciare questa impossibilità; è additare
con coraggio quella frattura incolmabile con la consapevolezza della di­
sperazione che sta al principio della tragedia: ma è l’assoluta singolari­
tà, l’incomunicabilità di questa posizione ciò che la corrode in se stessa,
senza neppure prospettarla apocalitticamente sul piano sociale - come
fecero i drammaturghi tedeschi dell’Espressionismo, da Hasenclaver
a Toller -, mantenendola quindi ben distante anche da quel titanismo
nietzschiano che è essenzialmente un pessimismo attivo, una Bejahung
di fronte ai valori dell’esistenza. Kafka sa di assumere su di sé tutta la
negatività del suo tempo, non sfugge a questa enorme responsabilità
che è costata per lui la scissione dalla comunità religiosa, dalla fami­
glia, dagli ideali normativi della sua educazione israelita.
Il dinamismo senza orizzonte e la lotta senza riposo succedono in lui
alla quieta venerazione dei contenuti tradizionali di fede; nel segreto di

14 «Ma per me è una questione di vita o di morte decidere se tu sei o non sei qui» (Journ., cit.,
pag. 280).
15 R. Cantoni, Introduz. al Castello, Mondadori, 1955.

36
questo tormento, nella tragica acquiescenza ai fantasmi è l’oscura forza
della sua anima slava e la perspicacia simbolica, incatenata agli enigmi
metafisici, della sua razza.
K. amava Kierkegaard, certo, ma dal grande solitario di Kopenha­
gen deriva soprattutto il senso della distanza qualitativa che inabissa
l'uomo di fronte a Dio, proprio come farà Barth, e se attinge alle fonti
(lell’irrazionalismo, non è già perché egli sia un mistico alla maniera di
( 'liestov: e se si trincera cupamente alla frontiera dell’immanenza non è
per sciogliere un inno doloroso e dionisiaco all’amor fati, come accadrà
per Nietzsche. K. è una fiaccola che brucia consumando in se stessa,
nelle proprie desolate, strazianti antinomie, tutta l’assurdità della crisi
I he divora gli uomini al crollo dei grandi sistemi idealistici sulla soglia
ilei secolo. Come si autodefinisce, egli è forse una fine o un principio: ci
par di ascoltare il riecheggiamento, peraltro sostanzialmente dissimile,
ilcH’fcce Homo, dell’ultimo discepolo di Dioniso.
Non può filosofare a martellate - come quest’ultimo - (anche Zara-
Ihustra è tramontato) perché il suo martello ha l’impugnatura che arde16
c maneggiarlo come vorrebbe gli è ormai impossibile: l’anima di K.,
-«»stanzialmente ebraica, non gli consente di liberarsi dall’eredità del
passato con la scettica indifferenza e l’ironica spregiudicatezza degli
occidentali imbevuti di spirito volterriano.
l’er questo si consuma in lui il martirio della chiusura esistenziale di
I route alla quale cedono tutti gli antemurali del sentimento, della ragio­
ne, e dell’esaltazione17.
Il bene - egli dice - in un certo senso, è desolante18: egli neppure ha
l.i forza di rifiutarlo (ah, quel mondo dell’armonia gli è caro come era
« aro a Dostoevskij, anche se quest’ultimo aveva quella forza!): tuttavia
egli circonda questa esigenza (perché, cos’altro è, se non un’esigenza?)
«li lutto l’assurdo di cui lo rende capace la sua immensa capacità d’os­
ci vatore e l’arte diventerà così per lui il filtro dell'assurdo nel quale la
lealtà può essere sognata nel suo sogno più vero.
Perché egli è un immenso sognatore che vede ad occhi ben aperti
«lentro il suo sogno.

K- Iniirn., cit., pag. 316.


I ' Per certi riguardi la metafisica di K. è, come quella heideggeriana, una metafisica del nulla.
«Ma dovunque io mi volga mi viene incontro l’ondata nera». Diari, a cura di Cantoni, Mon­
dadori, 1953, II, pag. 149.
IH Journ., cit., pag. 254; G. W., cit., pag. 42, n. 30 «Das Gute ist in gewissen Sinne trostlos».

37
Il Bene è dunque un castello cui l’agrimensore K. non arriverà mai,
è la salvezza della nuova nascita, è l’esistere: l’uomo, sottratto all’etica
della legge, diventa uno zimbello nelle mani di un Dio celato in un in­
visibile tribunale; la follia della ragione, la follia di una colpa che non è
colpa, di un peccato che nasce con noi stessi, fa del commesso viaggia­
tore Gregor Samsa un orribile mostro.
Ma Kafka non dice, come Kierkegaard, che l’uomo ha sempre tor­
to davanti a Dio e tuttavia, non potendo sostituire niente alla fede dei
suoi padri distrutta, formula quel paradosso nel quale sarà imprigiona­
ta l’umanità dei due grandi conflitti mondiali di questa prima metà di
secolo; il paradosso dello spirito che attraverso lo stoicismo dell’arte
cerca la propria autenticità nel cerchio incomunicabile di un’esperien­
za irripetibile, interamente bruciata in se stessa.
Forse la divinità dell’assurdo è la sola che egli veramente ami, ma è
forse il Dio d’Àbramo, il Dio «grande, potente e terribile» che si ricorda
della sua misericordia? No: il nome ineffabile della Bibbia diventa in K.
un cielo muto che «non ha eco che per il muto»19, il tetragramma sacro
rivelato dal Dio di Israele al suo popolo diventa per lui il geroglifico del­
l’assurdo, «l’urto della luce nella smorfia del viso che rilutta»20. Quella
codificazione della legge sacra che è la Mishnà per gli Ebrei formulava
questa regola: «Ciascuno è in diritto di pronunciare una benedizione per
il male così come ne pronunzia una per il bene»21: Kafka, che sente il
Bene come desolante, che sente oscurarsi il volto del Dio misericordioso
per veder lampeggiare solo quello del Dio grande e terribile, finisce per
benedire soltanto il male. Questo doppio aspetto di un Dio giudice spieta­
to (Elohim) e di un Dio provvido soccorritore (Ihvh), irrigidito nella sua
intima opposizione, si trasferirà anche nella teologia barthiana che non
potrà del tutto sottrarsi all’accusa di «marcionismo»: in K. - come si vede
- è polarizzato l’aspetto negativo.
Il male è il mondo sensibile - dirà ancora quest’ultimo - ma esiste uni­
camente il mondo spirituale e il male è il suo abisso. Contraddirebbe dun­
que tale visione univoca di Dio quest’ultima affermazione, che il male sia
soltanto la necessità della nostra eterna evoluzione. Chi si fa uccidere, ma
osa guardare il mondo, è colui che vive nell’attimo della propria eterna

19 Journ., cit., pag. 299; G. W„ cit., pag. 91 Das dritte Okt.


20 Journ., cit., pag. 264.
21 Berakhoth, 9, 5.

38
evoluzione che è l’attimo stesso della propria caduta22. Un’altra delle fon­
damentali antinomie - dunque - che sono le costellazioni immutabili del
pensiero di questo scrittore.
Senza neppure avvedersene K. ha del peccato la stessa nozione di Bar­
ili: «Il peccato non è una caduta o una serie di cadute nella vita dell’uomo,
ma la caduta che già ha avuto luogo col suo vivere come uomo. Il pecca­
lo ha luogo prima ancora che si verifichi nella coscienza o subcoscienza
ili questo o quell’uomo. Il peccato era già divenuto legge del mondo»23.
Ma Kafka, diversamente da Barth, non giungerà all’autonegazio­
ne: egli vorrebbe autoredimersi, o meglio, si sforza, coi suoi mezzi
umani, di venire a capo del proprio destino. Così facendo, però, non
oppone che il suo Sì al No di Dio e rende quindi irrimediabile la pro­
pria condanna.
Lasciamo stare per ora questo parallelo col barthismo che ci por-
lerebbe troppo lontano: un’indiretta conferma a quanto sopra sta nel
latto che K. non solo soffre l’assenza della fede, ma anche quella della
preghiera (e noi sappiamo quanta importanza abbia la pratica della pre­
ghiera per l’ebraismo). «Non si può dimostrare - annota nel suo diario
se la preghiera sia di aiuto»24. Tuttavia le sue impersonali invocazioni
hanno una biblica potenza25: costituiscono una sublime contradictio in
ad/ectis. Si è detto26 che egli deforma e nega l’umanità (a proposito
della Metamorfosi) per l’affermazione paradossale della divinità, ma
non è così. Egli trova già negata e offesa l’umanità: è un dato, questo,
meli minabile, è la sua Geworfenheit. Si direbbe quindi il contrario, che
l'essenza stessa della divinità implichi l’annichilimento dell’uomo.
La problematica originariamente religiosa di K. rimane quindi stati­
on ancorata a quel punto limite in cui è prossima a sganciarsi dai suoi
presupposti trascendenti.
La rivelazione è un fatto storico superato; il thema decidendum ab­
bandona il terreno delle verità divine per scegliersi quello dell’uomo:
qui l'uomo è implicato nel suo Àriyov Siòòvcu - nel suo render conto - e
se v’è un rimando alle verità metafisiche è questo l’assurdo della sua

'' lourn., cit., passim pagg. 251-262.


.' I K. Barth, Römerbrief, Evangelischer Verlag Zollikon, Zürich, 1947, pag. 151.
! I Diari, II, cit., pag. 8.
1 s Diari, II, cit, pagg. 122,124, 168.
'!• R. Paoli, Spavento dell'Infinito, in «Frontespizio», Firenze, Vallecchi, settembre 1933, pag. 5
segg.

39
situazione. In questo spasimo dell’assurdo la condanna è già sempre
un dato, (si direbbe l’ontologica proiezione heideggeriana del Verfall,
l’essere decaduto), e l’uomo è consegnato ad essa come al suo vero e
proprio esser-ci (Dasein).
L’uomo sa inoltre che il giudizio ultimo sarà, comunque, un giudi­
zio sommario e tuttavia, contro tutte queste evidenze, la sua ragione si
dibatte, la sua vitalità si consuma, per rimediare alla situazione, o per
lo meno per trovare in essa una specie di lugubre adattamento (pensate
alle operazioni di Gregor, nella Metamorfosi, dopo la constatazione del
suo inevitabile stato). L’autenticità nuova dell’uomo-Kafka sta qui, nel
cercare, ad onta di tutto, nonostante sia costretto a vivere prima ancora di
nascere, nel cercare di distruggere l’impostura nella quale riparano tutti
coloro che fuggono da se stessi, nel tentare, cioè, una giustificazione della
propria vita o della propria morte: questo è creare la propria possibilità
spirituale di vita ed è un compito cui non ci si può sottrarre27. 28
Questa esistenziale speranza di liberazione è radicata in una situa­
zione reale - l’/iz'c et mine dell’esser-ci - che esige prese di posizione
concrete e si foggia nell’arte - come allegoria tragica del nostro destino
- lo strumento della liberazione stessa.
Per il peccato di Adamo, gli uomini non divennero dèi, come promet­
teva falsamente Satana, ma conoscenza divina1*.
Ma in questa lotta Kafka, autentico figlio del suo popolo, sa essere
umile e nudo davanti a Dio. «La sua stanchezza - egli scrive - (e si com­
prende che parla di sé), è quella del gladiatore dopo il cimento, il suo
lavoro l’imbiancatura dell’angolo di una camera di funzionario»29.
Se v’è dunque un giudice, ben venga, e sia pure sommario il suo giu­
dizio: questo martire della quotidianità, questo Durchschnittsmensch, che
però è ben determinato, tragicamente nel suo esser-se-stesso-per-sempre,
busserà a tutte le porte, non si arrenderà, cercherà, cercherà fino a che
avrà la forza di resistere al male, a quel fiume di distruzioni che cresce in
lui smisuratamente.
Per questo K. sente l’impegno assoluto della sua opera (è questa, in
fondo, ancora la coscienza estetica dell’Espressionismo che concepisce
l’arte come forma in cui si consuma il creatore, offerta paradossale al

27 Journ., cit., pagg. 309-310 passim.


28 Journ.. cit., pag. 203.
29 Journ.. cit., pag. 256. Cfr. anche nei Diari, II, cit., pag. 89 ... «possiedo ancora un po’ di tena­
cia ebraica».

40
1 .ogos, Urlaut, voce originaria dell’esserci): «La capacità di descrivere
I a mia sognante vita interiore ha respinto tutto il resto tra le cose se­
condarie e lo ha orrendamente atrofizzato» così egli scrive, e annota
in parentesi le tappe della sua autopunizione, del suo itinerario verso
1 espressione totale, «rinuncia alla professione, matrimonio ... »30.

II31

1 inizio delle narrazioni kafkiane ha luogo - per lo più - con un risve­


glio - (forse l’eco della Wandlung espressionista?) -, quasi dal sogno
fossimo ridestati bruscamente a quel reale che ci impone di agire senza
speranza, subito e senza indugio; piantato in quella irrevocabile dimen­
sione, (c’è sempre un amaro stupore nel contemplarla), il meccanismo
ilei cervello comincia a produrre le sue immagini allucinate.
Pur vivendo, apparentemente, in co-esistenza con gli altri, l’uomo di
K. non si sente a casa propria. È il nicht-zu Hause-sein heideggeriano
per cui uno si sente spaesato (unheimlich); è questa la caratteristica in­
determinatezza in cui Tesserci si profila sullo sfondo opaco del nulla e
del nessun luogo.
L’artificio di K. sta - a questo punto - nel mostrarci questa situazio­
ne come quella di un altro, sogno, che per l’appunto è quello vero, un
sogno assurdo che non dovrebbe essere e che non offre via di scam­
po alla coscienza presente e insopprimibile. Questa gelida visione
del mondo è crudamente luminosa, è una chiarità diurna, senza zone
d'ombra, spietata; è in atto un processo in cui gli imputati siamo noi
e nessuno ci accusa che sia a noi noto e non esiste un’accusa per così
dire ragionevole; ma sta di fatto che noi ci siamo in tanto in quanto c’è
un 'accusa su di noi, un tribunale davanti e dietro di noi cui non si può
e non si vuole sfuggire.
risserei vuol dire per K. risvegliarsi dall’ipnosi dello stato di inno-
I rnza e sentirsi subito mancare il terreno sotto i piedi: esserci è af-
Iimitare quel tribunale che vuole, con strani indugi e atroci lentezze di
procedura, la nostra testa, e continuare nondimeno le nostre operazioni
mondane nelle quali consiste l’apparente stabilità del nostro vivere.
I nostri discorsi vorrebbero rendere almeno intelligibili i nudi fatti e si

HI Diari, II, cit., pag. 57.


i I Seconda parte del saggio apparsa in «La Rassegna mensile in Israel», XXIII, 1957, n. 5, pagg.
218-233 (N.d.C.).

41
affaticano per riuscirci, ma ricominceremo sempre dal punto di partenza
e così via, sempre... Estrarre l’assurdo dai visceri ed esaminarlo obbietti­
vamente, senz’ira: questa è la folle intenzione dei protagonisti kafkiani.
Ma costoro sanno contenere l’urlo anche quando si curvano sull’abis­
so. Così K. è lo stesso uomo del sottosuolo di Dostoevskij. (Non si di­
mentichi che lo scrittore russo è il padre di quelle generazioni in rivolta
che aprono in Europa, dalla prima rivoluzione naturalista alla vigilia della
prima guerra mondiale, con Strindberg e poi Wedekind e Schnitzler, le
porte massicce della coscienza. Quella dissoluzione - di cui tanto si parla
riguardo a K. - nasce appunto dalla stessa oggettivazione crudele che Do­
stoevskij imponeva ai suoi personaggi, ai suoi «demoni»).
L’uomo di K. è dunque un uomo solo («Io devo stare solo. Ciò che
ho prodotto finora è tutto effetto della mia solitudine» ... «La paura del­
l’unione, dell’immedesimarsi. In tal caso io non sarò mai più solo»32: è
l’anonimo singolo che ha tagliato le radici che lo stringevano al suo hu­
mus natale, alla sua famiglia, alla sua comunità politico-religiosa.
Si direbbe che - contrariamente a quanto pensa il Piovene33 - non è
tanto l’umanità kafkiana una figura astratta depauperata di caratteri pe­
culiari, quanto piuttosto l’espressione dell’uomo medio, appartenente
alla quotidianità (Alltäglichkeit), come già sopra dicemmo, V average
man, nel suo processo realizzante una modalità esistenziale autentica. Il
nome - in ogni caso - non conta, e se lo ha, lo ha per un puro caso (come
il Gregor Samsa della Metamorfosi).
E non è neppure una creatura senz’anima - come afferma un po’ trop­
po polemicamente il Don Petronio34 -: direi piuttosto che è l'uomo in
cerca della sua anima, perché quella realtà sociale, dalla quale tutti mu­
tuano una larva di consistenza, gli è estranea, è caduta oltre le sue spalle
e appartiene ad essa soltanto nei limiti in cui vi è gettato e radicato.
Forse può sembrare un anti-comunitario, un assoluto ribelle, ma la
sua è quasi una paradossale vocazione («...sono un uomo chiuso, taci­
turno, poco socievole, malcontento senza che ciò costituisca per me una
infelicità poiché è soltanto il riflesso della mia meta»)35.
D’altra parte, come non ritrovare in lui l’uomo della diaspora, l’ebreo

32 Diari, I, cit., pagg. 236-237; cfr. Diari, I, cit., pag. 241 e anche, per la violenza dell’apostrofe,
II, pag. 25.
33 Articolo su La Metamorfosi, ne «L’Ambrosiano», Milano, 2 luglio 1933, Voi. II.
34 Cit., ibid.
35 Diari, I, cit., pag. 243.

42
errante confinato nel ghetto delle grandi metropoli, il «disumanato» e
in quella crisi della civiltà nella quale Marx vedeva il manifestarsi del­
l’alienazione cui l’uomo, in forza della struttura dei rapporti di produ­
zione, era costretto a fare di se stesso?
È il singolo fuori della sua chiesa, l’ebreo Kafka che - secondo il
Klossowski36 - tenta «une exégèse personnelle du Mal et du Bien», «for­
me particulière de kabbala»: ma la costante antinomica, la climax esi­
stenziale di questa ricercata affermazione autentica dell’esser religioso
porterà forse alla negazione paradossale dello stesso esser-religioso?
Parlare dell’umiliazione razziale o del naufragio nell’inferno civilizzato
dell’uomo moderno non basta a farci comprendere l’angoscia kafkiana
che ha radici nel secolare tormento del suo popolo, nell’infinita dignità
e grandezza del suo dolore37.
L’uomo di K. è dunque tutto il contrario di un’astrazione, è il Giobbe
moderno che non può colloquiare con Dio perché ha perduto il senso
della sua legge insieme a quello della sua paternità, e se l’allucinata dia­
lettica del suo monologo è lontana dall’afflato mistico di un Kierkegaard,
v’è tuttavia in essa la nobiltà d’un atteggiamento che cresce nella soppor­
tazione del male con impeto sovrumano. «Tu sei ridicolmente bardato per
questo mondo»38, si dice K. con desolata rassegnazione: eppure questa
stessa condanna è la condizione della libertà perché egli aggiunge ancora:
« lo spirito non diviene libero che a partire dal momento in cui cessa di
essere un appoggio»39.
Chi cerca un appoggio negli altri è anche in se stesso un appoggio:
chi è fuori di tutto ciò, dis-centrato, divelto, non è un appoggio neppure
per se stesso, è così lanciato nel vuoto, è un nudo che è gettato nella
deiezione dell’esserci', direbbe Heidegger.
Basta aver seguito il richiamo della libertà per essere perduti: «Se hai
seguito una volta sola il suono illusorio del campanello notturno, non
c’è più rimedio per te»40.
Che cosa diventa allora la vita? «Un’immagine della mia esistenza
sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e neve, infilata obliqua­
mente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine

36 Cit., pag. 24 dell’Introduction.


37 Frequenti sono i riferimenti biblici nei Diari, cit., pagg. 119-121-123 ecc.
38 G. IV., cit., Betrachtungen über Sunde, u. s. w. pag. 43, n. 44.
39 G. IV., cit., pag. 48, n. 78.
40 II messaggio dell'Imperatore, Frassinelli, Torino, 1952, pag. 10.

43
d’una grande pianura, in una buia notte invernale»41.
La solitudine dell’uomo libero è dunque un marchio umiliante, un’in­
genita incapacità di vivere, un’assenza e una malattia mortale: il solita­
rio si contempla senza speranza e senza più commozione.
Qui tuttavia è ancora la fedeltà a se stesso, nel virile consegnarsi
a sé, alla propria necessità e libertà, apertura e chiusura insieme del
proprio destino. Ripetiamo ancora una volta le parole di K. intorno
al significato della parola tedesca sein: essere non implica soltanto
l’esser-ci, ma l’essere indissolubilmente legato al fatto medesimo del
nudo esserci come tale42 Jo (Ihmgehorerì).
E in questo essere - disperatamente - se stesso è la radice dello stato
nebuloso e incoerente in cui, dal punto di vista interiore, brancolano i
personaggi kafkiani, così vuoti di psicologia nel senso arguto del ter­
mine: di qui ha origine quel sapore di spaesamento che corrode i loro
discorsi insensati nell’apparente elefantiasi logica, quella cavillosa
follia che ama costruire sulla sabbia argomentando senza requie.
Si è detto - a questo proposito - che questo modo di procedere ricorda
la casistica talmudica, quasi fosse un abito mentale semplicemente: v’è
di più: la casistica kafkiana, il suo engorgement, sono architetture di
cristallo in un’aria rarefatta: tutte queste anime o manichini di anime
sono come sospese nel vuoto.
Eppure, nonostante tutto, l’uomo di K. agisce. Sotto questo riguardo
l’asserita simbolomania kafkiana è un non senso, poiché non è già, il
suo, un problema di conoscenza sondabile per vie esoteriche; sotto que­
sto linguaggio, peraltro allusivo e non analogico4,0, è celato un enigma di
verità che si risolve nei termini del reale, perché questi sono i suoi veri
termini; e non si tratta infine di conoscere platonicamente la verità o di
vedere «quasi per speculum in aenigmate», ma di diventare esistenzial­
mente noi la verità stessa. Fare la teoria della verità è cercare le vie che
possono condurci ad essa, ma le vie sono soltanto dilazioni, non esiste
che lo Scopo44.
Non ognuno può vedere la verità - dice infatti K. - ma ognuno può
esserla45. L’uomo è infatti - in conseguenza del peccato di Adamo - non

41 Diari, II, cit., pag. 76.


42 G. IV., cit., pag. 44, n. 46.
43 Journ., cit., pag. 263.
44 G. W., cit., pag. 303 (Fragmente).
45 Journ., cit., loc. cit.; G. W., cit., loc. cit.

44
I )io, ma conoscenza divina (das göttliche Erkennen)46.
Quello di K. è certamente, nelle sue origini, un problematismo meta­
llico, ma l’esasperazione, la polarizzazione del rapporto assoluto tra­
scendenza-immanenza finisce per costituire una permanente struttura
aporetica ed antinomica che non trova via di sbocco se non nell 'agire,
nella favola di quella poesia disperata che è l’azione.
Tutto sconfina nell’azione: forse per questo K. trova in quel Goe-
the, che tanto egli amava, il suo inverosimile commento. «Es ist nichts
schrecklicher als eine tätige Unwissenheit»47, diceva Goethe; e non è for­
se quella di K. una «tätige Unwissenheit», un’operosa ignoranza?
D’altra parte, anche la letteratura dei dottori d’Israele è pervasa da
un serio anelito verso l’Azione e rinvia continuamente alla Scrittura che
iminonisce l’uomo di non sprecare gli anni fuggitivi proprio perché è
i nduco: «Noi vorremmo - dice il Midrash al Genesi48 - che la vita fosse
come un’ombra proiettata da un muro o da un albero, ma essa è come
I ombra d’un uccello in pieno volo» e nella Mishnà si legge «il giorno
è corto, il lavoro considerevole, i lavoratori indolenti, la ricompensa
grande e il padrone della casa ci è alle costole»49.
Niente è più lontano da K. dell’abito contemplativo. «Vi sono due
possibilità - egli dice -: farsi infinitamente piccoli oppure esserlo. La
seconda è compimento e quindi inazione, la prima è cominciamento
e quindi azione»50. «Il contemplativo - aggiunge - è in un certo senso
i olili che vive con l’ambiente, costui s’attacca alla cosa viva, cerca di
prendere il vento. Io a tutto questo mi rifiuto»51.
lì tuttavia, ecco le caratteristiche formulazioni antinomiche: « Colui che
. crea non trova, ma chi non cerca è trovato»52. «Teoricamente non v’è che
una possibilità perfetta di felicità: credere aU’indistruttibile in sé, senza
aspirarvi»53.
Ma che cosa bisogna cercare, oppure piuttosto - secondo il punto di
\ isla personalistico delTebraismo kafkiano - Chi bisogna cercare?

Ih G. W., Das dritte Oktavheft, pag. 102.


17 Maximen, 367.
IH Gen. R., 96, 2.
I*> l'irké Aboth, cap. 2, par. 20.
*o .lourn., cit., pag. 274.
'I lourn., cit., pag. 308.
* ’ (ì. IV., cit., pag. 94.
"• I lourn., cit., pag. 266; G. W., cit., pag. 47, n. 69. Betrachtungen.

45
«L’uomo - scrive K. - non saprebbe vivere senza la confidenza in
qualche cosa d’indistruttibile in sé, mentre tanto l’indistruttibile quanto
la confidenza possono rimaner nascoste. Una delle possibilità d’espres­
sione di questo rimaner nascosto è la credenza in un Dio personale»54.
Ma se non v’è questa credenza, se manca il Chi della ricerca, se non
si ha questo SrtocpaiveoScu di ciò che è nascosto, nessuno potrà dire che
ciò che si cela sia un dio personale: il termine ad quem della ricerca
rimane dunque un impersonale Che cosa, assolutamente coperto, non
quel dio di Abramo che la religione insegna a venerare, non quel dio
che si definisce il primo perché non ha padre, l’ultimo perché non ha
fratelli e che fuori di sé non ha altri, perché non ha figli.
Ecco il dio rigorosamente monoteista del Talmud che K. non sente
più sotto la forma della fede e che tuttavia non naufraga ancora nell’Es­
sere dei filosofi perché in troppi modi, contraddittoriamente dunque, K.
mostra di presentirlo come Dio personale.
E ben chiaro che come Sostanza, come Necessità, Dio rimane indiffe­
rente alla sorte dell’uomo: è il dio di Spinoza davanti al quale non vale
ridere né piangere né maledire; ma K. non si preoccupa às\Y intelligere -
come abbiamo già detto -: per lui si tratta di essere o no redento, di essere
salvato, di esistenziarsi, e quindi è inevitabile che questo dio non possa
essere che personale, anche se soltanto terribile e non misericordioso.
L’assoluta trascendenza di Dio porta K. a considerarlo come imperscru­
tabile: è il Dio che si nasconde nel tetragramma sacro - Jhvh: il suo nome, -
come vuole la tradizione rabbinica, - non poteva essere pronunciato se non
nel servizio del tempio e fuori di lì doveva essere sostituito con un altro.
K. sente su di sé soprattutto la terribilità di questo Dio: è il suo pungolo
nelle carni, e non ne parla mai. Come potrebbe chiamarlo? Adonai forse,
come nel culto della sinagoga o pronunciarne dovrebbe il nome, a bassa
voce, come avverte il Talmud, riferendosi al gran sacerdote che così faceva
quando crebbe il numero dei dissoluti?
E forse un delitto capitale - come riteneva un oscuro rabbino del III
secolo - l’enunciazione esplicita di quel nome?
K. è indubbiamente suggestionato dalla concezione talmudica della
divinità e insiste sul suo carattere ineffabile a tal punto da oscurarne
Telemento personale. Allontanandosi sempre più dalla Rivelazione fa
singolarmente sua la preoccupazione dei rabbini di tener distinto l’uomo
da Dio, quasi fossero separati da un incolmabile abisso, e così ignora la

54 Journ., cit., pag. 260.

46
misericordia e la grazia del Creatore - che però l’ebraismo gli riconosce
tanto è attratto dalla profondità di quell’abisso.
Il punto di distacco dal mondo religioso ebraico sta soprattutto qui:
la maestà di Dio non è più il sostegno dell’uomo e rischia di divenire -
come avverte il Talmud palestiniano - quella di un idolo che pare vicino
e invece è lontano perché non può far niente per il suo fedele55.
Il dio di K. si irrigidisce nell’ambigua, ermetica impenetrabilità di un
idolo - così almeno lo costruisce, allontanandolo da sé, la sua cabala indi­
viduale manca quindi quella spirituale immanenza del Dio nell’uomo,
quella che i rabbini significavano con il termine di Shekhinà, che vuol
dire residenza. E assente così quella vicinanza della Rüakh Hà-kódesh
(spirito santo) che conforta l’uomo dell’assistenza divina.
In K. sono presenti, a un tempo, il motivo dell’assoluta trascendenza
e quello dell’infinita divina inconoscibilità, ma, diversamente da quanto
caratterizza l’esperienza mistica in genere, questo Abgrund non ha ponti.
I .o dimostri il fatto che K. ignora la preghiera, prima ancora della fede.
Si è detto (Paoli) che in lui la deformazione dell’umanità corrisponde
;il l’affermazione paradossale della divinità, ma se questo accadesse in
loto si verificherebbe quello che il Paoli non pensa nemmeno, l’esplicita
leologizzazione in senso barthiano della Weltanschauung di K.
Se è vero che questi vede il mondo umano sub specie mortis, non
si dissocia da questa la visione del medesimo sub specie alacritatis e
l'opposizione muta, implacabile, della Divinità [Deus absconditus) che
non dà ragione di sé. Sono dunque vere a un tempo le due cose, che lo
sviluppo dell’umanità è un crescere della potenza di morire56 e che il
i lelo è muto, un’eco soltanto al muto57.
La divinità dunque si cela dietro le quinte del reale, invisibile e inafferra-
hile, oscura e tirannica, mentre l’uomo si affanna, si dispera in uno spasimo
vano, in una speranza crudele ed inutile: chiede, interroga (quanta implora­
zione è dietro la sua pacatezza!) per rendersi conto del perché tutto intorno
a lui è questa cifra assurda, rimanda a qualcuno che non si concede.
Se esiste un uomo siffatto, oserei dire che non è già il suo annichili­
mento l’affermazione, sia pur paradossale, della divinità, bensì il con­
nu rio: un uomo siffatto sta a significare che v’è un annichilimento tanto
più angoscioso in quanto è il frammento di un paradiso perduto, la ri-

Berakhoth, 13 a.
Vi G. IV., cit., pag. 123.
' 7 G. IV., cit., pag. 91.

47
frangenza di un miraggio insensato, è - per usare le parole di K. - «la
cima d’una fiamma infernale»58.
A questo punto non si può parlare più di Dio: si parla di colpa e an­
che dell’indistruttibile, della cacciata e anche del paradiso, di verità e
d’unità, ma di Dio non più: se a volte il discorso passa radente su questo
argomento, è con una specie di raccapriccio.
«Vista con occhio primitivo, la vera e propria inconfutabile verità, non
turbata da alcuna cosa esteriore (martirio, sacrificio per essere umano,
ecc.) è soltanto il dolore fisico. Strano che il dio del dolore non sia stato il
dio principale delle prime religioni (ma soltanto, forse, delle successive).
A ogni malato il suo dio domestico, al malato di polmoni il dio della
soffocazione. Come si può aspettare il suo arrivo se non si è parte di lui
già prima dell’orribile unione?»59.
Ma che cosa ha determinato quella separazione dall’Uno originario
al punto che questo è divenuto così assolutamente problematico?
K. avverte interiormente quest’Uno come legge dell’Unità, ma è un
presentimento assurdo, intermittente, inevitabile, che ora allieta, senza
ragione, ora, e più spesso, angoscia: è forse un sogno - si dice - un so­
gno di cui la terrestre pesantezza del nostro esserci ha smarrito il senso,
così che il gusto di quell’unità si è perduto.
Che cosa ha provocato l’irreparabile frattura? K. rammenta il peccato
originale e trasferisce anche nei pensieri intorno al medesimo la struttura
caratteristicamente antinomica della propria meditazione. Sembra acco­
starsi all’insegnamento del Talmud quando ritiene che, con il peccato,
l’uomo erediti la morte, ma se ne discosta allorché identifica la ribellione
a Dio, ribellione coessenziale all’esserci60, in un peccato di conoscenza.
(La conoscenza non è altro che volontà). Anzi per K. la conoscenza è
insieme un gradino e un ostacolo alla vita eterna, ed è quindi necessario
distruggere quell’ostacolo e praticamente distruggersi - perché noi sia­
mo quell’ostacolo - per costruire il gradino che è la distruzione61.
Ma contro gran parte della letteratura rabbinica K. pensa che peccato
e salvezza siano avvenimenti eterni, ed è convinto anche della necessità
della cacciata, perché solo per questo motivo si può stimare che il para-

58 Diari, I, cit., pag. 238.


59 Diari, II, cit., pag. 173.
60 «Das Böse ist der Sternhimmel des Guten» - G. W. cit., pag. 90. D. d. Okt.
61 Journ., cit., pag. 305 passim - G. W., cit., pag. 105. D. d. Okt.

48
diso non sia stato distrutto62.
Questa implicanza di positivo-negativo fa sì che anche nel suo atteg­
giamento individuale di fronte ai valori normativi della comunità, K.
trovi la condizione positivo-negativa per evolversi. E l’istante decisivo
dell’evoluzione umana - egli dice - dura sempre63.
Perché tu sei il compito64 e non un discepolo: tu sei scelta, responsa­
bilità, lotta e rischio65.
È un’altra tematica esistenziale quella che si profila a questo punto:
in quell’insistenza sulla probabile forza massima del negativo che attra­
verso la lotta può rendere imminente la decisione tra follia e sicurezza66
•• Fare il negativo ci è ancora imposto; il positivo ci è già dato»67.
Siamo ancora una volta vicini a Barth più che a Kierkegaard o me­
glio, è sempre Kierkegaard il punto di riferimento consapevole68, tutta­
via l’angolazione kafkiana ci ripropone singolarmente la tesi di questo
grande discepolo di Kierkegaard, il giovane pastore di Safenwill.
Siamo lontani dal salto qualitativo e prossimi invece a quella accentua­
zione radicale della negatività del peccato che è a un tempo, paradossal­
mente, come autotrasparenza della disperazione e del naufragio umani, il
no del no di Dio e quindi l’attimo della salvezza, l’intervento del Sì. Ma
a questa conclusione K. non può giungere, la passività della teologia bar-
lliiana ha dietro di sé il riformismo di Lutero e di Calvino: nello scrittore
cèco invece, l’umanismo attivistico della spiritualità ebraica convive con
una segreta fiducia nell’immanenza, la sua Arbeitsmöglichkeif*.
K. rimane dunque paralizzato nella sua antinomia fecondata dal nega-
livo, dal dinamismo paradossalmente negativo: non ha afferrato l’ultimo
lembo del mantello ebraico di preghiera, ma, d’altro canto, non partecipa
del positivo né dell’estremo negativo che si rovescia in positivo.
Egli crede in un istante decisivo dell’evoluzione umana - VAugen­
blick kierkegaardiano-barthiano - che dura sempre, ma è esclusivo e

til G. W. cit., pag. 101. D. d. Okt.


(i I Journ., cit., pag. 248.
e I G. IV., cit., Betrachtungen, pag. 41 n. 22.
ti*i Cfr. il motivo nietzschiano - Also Sprach Zarathustra, Leipzig, 1903, pag. 16: «Was gross ist
um Menschen, das ist, dass er eine Brücke und kein Zweck ist: was geliebt werden kann am
Menschen, das ist, dass er ein Übergang und ein Untergang ist».
mi Diari, II, cit., pag. 173.
h ' G. WZ, cit., Betrachtungen, pag. 42, n. 27.
fiK Diari, I, cit., pag. 242.
ii‘> "Wer Wunder tut, sagt: Ich kann die Erde nicht lassen» G. W., cit., pag. 85.

49
irripetibile: «... per questo - egli dice - i movimenti spirituali e rivolu­
zionari che mettono in non cale tutto ciò che fu una volta, lo fanno a
giusto titolo perché niente è stato ancora prodotto»70.
Questo impegno dell’uomo, nella sua solitudine per la salvezza, ram­
menta il tema chassidico della redenzione, secondo il quale questa non
poteva essere raggiunta se non a condizione di rifiutare lo scalino del
compagno e rimanere invece nel proprio.
E tuttavia K. non è - come crede il Brod - in marcia verso la santità,
poiché, chiuso com’è nel suo isolamento, non vede possibilità di salute. Il
suo rimane un esilio eterno, un viaggio senza fine verso la Terra Promes­
sa, anche se tutta l’esaustione del negativo è pervasa dal tema messianico
proiettato nell’assurdo, dall’intenzione (Cavvanà) verso la meta ultima
che liberi dall’esilio (Schekhinà).
Narra la tradizione dei Chassidim71 di uno Zaddik (sant’uomo) che
attendeva con molta ansia la sua redenzione e pareva un padre che
aspetta il suo unico figlio di ritorno da un paese straniero, un padre
amoroso che non può dormire perché è tutto proteso nell’ansietà di un
messo che almeno gli annunzi quando il figlio suo verrà.
E costretto a vegliare perché il minimo rumore lo fa trasalire e sta in
vedetta per lunghe ore sulla torre della sua casa e indugia poi immobile
alla finestra e infine, se ode dischiudersi la porta, si precipita verso di
quella per vedere se il visitatore non sia proprio colui che egli attende.
Anche K. vive in questa attesa, ma il suo messianesimo, perso il centro
di gravità scritturale, è corroso dall’assurdo; è addirittura l'acmè del
suo nichilismo attivistico, il bagliore ultimo della sua disperata poesia.
Dice dunque K.72 che fu offerto agli uomini di diventare dei re o dei
messaggeri di re73. Costoro, che sono in realtà dei fanciulli, preferirono,
alla maniera di questi, diventare messaggeri. Nessuno volle essere il re
e quindi una legione di messi percorre il mondo e non v’è alcuno cui
recare il messaggio, per la qual cosa si gridano vicendevolmente un
messaggio divenuto insensato.
Volentieri - aggiunge K. - metterebbero fine alla loro miserabile vita,
ma non lo possono perché hanno prestato un giuramento (il giuramen-

70 Journ., cit., pag. 248; G. W., cit., pagg. 39-40, n. 6. Betrachtungen.


71 M. Buber, La leggenda del Baalscem, trad. Dante Lattes, Israel, Firenze, 1925.
72 Journ., cit., pag. 259.
73 Nel Talmud si parla di «messaggeri» per dare una dimostrazione dell’onnipotenza divina
- Meklhiltà su Esodo, 12,1; B. b. 25 a. M., Friedmann, 1870.

50
to dell’azione - così penserei di interpretare); devono consegnare quel
messaggio anche se non esiste un destinatario.
Invertendo i termini, è espresso il medesimo concetto in quel mifabi-
le racconto che è «La costruzione della muraglia cinese» : «L’imperato­
re ha inviato a te, singolo miserabile suddito, ombra minuscola fuggita
nelle più remote lontananze, via dall’ammagliante sole imperiale, a te,
proprio a te ha inviato un messaggio dal suo letto di morte ... »74.
Tutti gli sforzi per raggiungere questo umile destinatario risultano
vani: le difficoltà sono immense e insormontabili anche se il messaggero
è un uomo forte, tenace, instancabile. È impossibile attraversare la città
imperiale, «il centro del mondo in cui si addensa tutta la sua feccia». E
chi attende, attende da sempre, seduto presso la sua finestra, e sogna quel
messaggio quando viene la sera.
Tra il messaggero e colui cui deve essere recapitato c’è sempre un
abisso: tra la legge dell’UNO e l’interiorità del singolo che ne ha soltan-
lo un intermittente presentimento c’è sempre un abisso: tra la ragione
della condanna e l’imputato, tra l’agrimensore e il Castello, tra la vita,
■ la vita possibile», di G. Samsa e la disumanazione della non vita, c’è
sempre un abisso.
E K. annota in un qualche punto del suo diario. «Niente, niente, nien­
te. Debolezza, annichilimento. Cima di una fiamma infernale uscita dal
suolo»75.
E poi, come sferzato dal suo stesso assurdo che gli ritorna addosso,
aggrappandosi alla sua carne, alla sua mente, al suo annichilimento gri­
gio di «pover’uomo» «... io ho il diritto di essere illimitatamente dispe­
rato della mia situazione»76.
Si è forse verificata quella terza possibilità di castigo conseguente al
peccato originale, quella possibilità più spaventosa, che la vita eterna cioè
rimanga inaccessibile a chi continua egualmente a tendervi? Noi eravamo
siati creati per il paradiso, certo, - ammette K. - ma la nostra destinazione
e cambiata, o meglio è resa impossibile77. Ed ecco l'inevitabile, desolata
constatazione: «Il male sa del Bene, ma il Bene ignora il male»78.
Che fare allora? Trincerato alle frontiere del nulla combatte l’uomo

/•I II Messaggio ecc., cit., pag. 210.


75 Diari, I, cit., pag. 238.
/<> Diari, II, cit., pag. 168 ma cfr. anche Diari, II, cit., pag. 120,4 luglio.
77 C. W„ cit., pag. 105. D. d. Okt.
78 G. W„ cit., pag. 84.

51
come se ancora ci fosse una vittoria per lui e non si accorge che così
facendo ribadisce ai suoi piedi le catene. «Uno dei mezzi del male è il
dialogo»79, dirà K.
Ma il dialogo è nei romanzi di K. la scalata, verso il Castello e verso
F incommensurabile Tribunale, lo strumento della lotta, di quella lotta che
è uno dei più efficaci mezzi di seduzione del Male80.
In questo naufragio nell’insensata fatica di Sisifo («Io non credevo
nulla: non facevo che questionare») la problematica kafkiana trova il
punto di convergenza delle sue strutture narrative: è un cavillare sterile,
una rarefazione che avvolge i gesti e fa procedere lentissimamente la
realtà come sotto un peso enorme: la disperazione del messaggio si cala
in un discettare tranquillo, rivolto al poco, soffocato dal groviglio delle
sue spente e tragiche perplessità. Tutte le operazioni intramondane cui
si abbandona o meglio si dona ingenuamente Kafka acquistano poco a
poco il grigiore di una muraglia compatta sotto la quale si rannicchia lo
sforzo dell’uomo.
Questo male è la lotta e la lotta è impazienza, un’impazienza colpe­
vole, di arrivare prima di essere chiamati - «... a causa dell’impazienza
essi non ritornano nel paradiso terrestre»81.
Ci viene ancora inevitabile il richiamo a Barth; tutte le azioni umane per
giustificarsi davanti a Dio sono titanismo, sono esasperazione del distacco,
ribadiscono l’irrimediabile frattura: il non disperarsi fino in fondo è ritar­
dare il naufragio totale che getterà l’uomo sulle sponde della Grazia.
Ma a K. non può arrivare la voce di Dio fuori della tempesta come
arrivò a Giobbe; la linea mortale - la Todeslinie - non può essere supe­
rata: egli si ferma al punto in cui Barth diceva «Noi tutti siamo mani e
restiamo chiaramente vuoti»82.
La disperazione di voler essere - disperatamente - se stesso non
coincide mai con la propria autonegazione'. K. dunque prepara in sé
la propria consumazione senza attuarla. «Tu dici sempre di morire
e pertanto non muori mai»83. Che cosa lo trattiene? L’attivismo e il
gusto dell’immanenza, la necessità di portare a termine il proprio de­
stino, che cosa?

79 G. W„ cit., pag. 84.


80 G. W., cit., pag. 40 n. 7, Betrachtungen.
81 Journ., cit., pag. 247.
82 Römerbrief, cit., pag. 126.
83 Journ., cit., pag. 289.

52
Le chiavi di quel messaggio agognato, la liberazione dell’uomo o me­
glio, di quell’Indistruttibile che sta dentro l’uomo, la sua redenzione, la
sua Cavvanà sono forse riposte in quell’individualismo religioso assoluto
che fa dire a K. parole come queste? «Il messia verrà allorché l’indi-
vidualismo della fede più irrefrenabile sarà divenuto possibile, allorché
nessuno annienterà più questa possibilità, nessuno tollererà più l’annien-
lamento, dunque quando si apriranno le tombe. E forse là tutta la dottrina
cristiana, tanto nella dimostrazione attuale dell’esempio che deve essere
seguito, d’un esempio individualista, quanto nella dimostrazione della re­
surrezione del Mediatore all’interno dell’uomo particolare»84.
Una soluzione cristiana dunque?85.
La genericità del linguaggio kafkiano non ci induce a crederlo, anche
per la costante ambivalenza che l’accompagna: quel mediatore è anco-
la, ebraicamente, l’uomo che si redime in se stesso, e questo messia -
per il cui avvento ci si travaglia - verrà forse soltanto allora quando non
sarà più necessario, non verrà che - paradossalmente - il giorno dopo il
aio arrivo, non l’ultimo giorno, ma l’ultimissimo86.
V’è inoltre in K. una diffidenza insormontabile - tipicamente semita - a
I appresentarsi l’Eternità come l’arresto del tempo: egli si domanda come
potrebbe essere giustificato il tempo e noi stessi in una siffatta eternità87.
Siamo ancora al livello della caratteristica «chiusura» in cui si inse-
I iscono elementi contraddittori, dall’individualismo assoluto della fede
■ili'attesa dell’impossibile messia, ma è indubbio il lievito esistenziali­
sta di questo già deformato ebraismo.
A questo punto si rende forse maggiormente chiaro il significato del-
I abbandono della tradizione famigliare patriarcale e comunitaria che ha
un risalto eminente in tutta la formazione della personalità kafkiana.
Anche intellettualmente la sua posizione è lontana: nel diario non af-
Itonta mai con deciso interesse una questione ebraica e menziona il Baal
Schem con tono indifferente, non tratta per nulla gli argomenti dibattuti
nelle riunioni dei Chassidim e si limita a dire che quivi si discutono «al­
legramente» i problemi del Talmud88.

H I lourn., cit., pagg. 297-298 - G. IV., cit., pag. 90.


«s «Christus, Augenblick» G. IV., cit., pag. 112, D. v. Okt. - Diari, I, cit., pag. 257.
Hfi Journ., cit., pag. 298.
H ’ lourn., cit., pagg. 307-309.
1 Diari, II, cit., pag. 134: cfr. anche Diari, II, cit., pagg. 103-104-105, dove si parla del Baal
Schem.

53
E infine, pur ammirando un po’ esternamente «i bei distacchi energici
del mondo ebraico»89 non esita a dire: «Che cosa ho io in comune con gli
ebrei? Non ho si può dire niente in comune con me e contento di poter re­
spirare, dovrei mettermi quieto in un angolo»90.
Ma da questa riflessione è evidente che il suo non fu un atto di orgo­
glio, ma una desolata, inevitabile rinuncia.
E per non occuparci della questione con il padre - che ebbe tanta
importanza nella vita di K. - (si pensi alla famosa lettera), ci limiteremo
a dire che se nel padre vedeva l’inefficacia del ritualismo e la profonda
estraneità d’un costume mentale e d’un carattere, in tutto il resto l’of­
fendeva l’inautenticità dell’adesione allo spirito ebraico91.
Disperatamente librato tra l’assurdità della colpa e l’assurdità della
propria escatologia, K. è consapevole di trovarsi al vertice delle anti­
nomie che hanno fatto di lui «un reticolato vivente, un cancello che sta
ritto e vuol cadere»92.
Fuori della Torà, negatosi a quella legge che impone il matrimonio
come dovere religioso (Kiddushin - santificazione)93, sente di non ave­
re più appigli - non ha antenati né nozze né discendenti - e paragona
malinconicamente la sua esistenza all’esitazione prima della nascita,
soffre il tormento di non essere ancora nato94 e di dover tuttavia girare
per le strade e parlare con gli uomini95.
Tutta la vita è una caccia infernale, i battitori dirigono la preda verso
il soccorso96, ma la preda è l’uomo e il soccorso in qualche luogo, dove?
Non rimane che «servirsi del cavallo di chi assale, per la propria caval­
cata»97, ma la cavalcatura che K. ha scelto è proprio quella che più di
ogni altra conduce alla perfezione - come stimava Eckhart - il dolore98.

89 Diari, I, cit., pag. 263. Spesso l’ebraismo è per K. fonte di commozione; lo chiama allora il
suo ebraismo cfr. Diari, I, cit., pag. 98.
90 Diari, II, cit., pag. 3.
91 «Raccapricciante ciò che è meramente schematico» Diari, II, cit., pag. 22.
92 Diari, II, cit., pag. 20.
93 E K. stesso a citare il Talmud «un uomo senza donna non è una creatura umana», Diari, I, cit.,
pag. 130.
94 Diari, II, cit., pag. 179, pag. 167.
95 Diari, II, cit., pag. 179.
96 Diari, II, cit., pag. 178.
97 Diari, II, cit., pag. 179.
98 « In questo mondo, soffrire è soffrire, ma nell’altro, dove si ha la liberazione di questo dolore dal
suo opposto, soffrire diventa beatitudine». G. W., cit., pag. 108.

54
In esso affonda e si dice: non lagnarti". Bisogna, infine, essere contenti
della propria sofferenza. E lo dice con uno stoicismo senz’enfasi, con
la virile consapevolezza di chi sa di possedere un’arma, forse la sola, di
fronte al «vero avversario».
Non è il vero avversario a ispirare un coraggio infinito?100. Il dolore
è veggenza che ci consente di contemplare sub specie aeternitatis il
inondo delle cose, i miserabili frantumi dell’essere: ed a chi guarda
in una forma superiore, tanto più superiore quanto più irraggiungibile,
indipendente dunque, che segue sue proprie leggi di moto, si apre una
via nuova «incalcolabile, gioconda, ascendente»101.
In questo nuovo atteggiamento, che non esiterei a definire goethiano,
, bloccato il nichilismo di K.: l’ironia di G. Samsa che contempla il
proprio disfacimento diventa solitaria mistica dell’eroismo. E il nostro
poeta dunque, mistico senza fede, identifica la sua impossibile forma di
credenza nell’esistere; perché credere è essere {Existenz}.
«Credere significa liberare in sé l’indistruttibile o più esattamente
liberarsi, o più esattamente essere indistruttibile o più esattamente es­
sere»102.
Con queste parole K. ci dà la cifra più pura, e forse più impraticabi­
le, della verticalità umana, impegnata nel suo compito esistenziale: è
il pensiero di oggi, il dramma e l’esigenza di oggi che si riflette in K.
come allo stato nascente di tutta la più viva problematica.
L'humus caratteristicamente ebraico di questa posizione allontana K.
dalle acrobazie speculative a sfondo decadente dell’esistenzialismo di
un Sartre e impone una diversa prospettiva a quest’uomo del sottosuolo
« he ha rotto le regole della ben preordinata quadriglia103, ma che è tanto
legato alla spiritualità del suo popolo da ritenere il celibato, il marchio
di Sisifo, la solitudine, la tragedia della sterilità dell’uomo moderno.
Kafka è una presenza estrema alla nostra contemporaneità come può
esserlo Unamuno: al pari del grande spagnolo egli vive fino in fondo il
suo destino di morte pur essendo sempre nella condizione di non poter
ne dover morire, la tortura della fede o della grazia pur essendo sem­
pre nella condizione di strappare l’una o conquistare l’altra.

w Diari, II, cit., pag. 166.


100 Journ., cit., pag. 252.
101 Diari, II, cit., pag. 169, cfr. anche Diari, II, cit., pag. 186.
IO?. G. IV., cit., pag. 89 D. d. Okt.
MH Journ., cit., pag. 301; G. W., cit., pag. 100. D. d. Okt.

55
Si muore senza morire - egli dirà nel suo supremo sconforto «Con­
tinuamente la visione di un largo coltello da salumiere che dal fianco mi
entra nel corpo con grande rapidità e con regolarità meccanica, e taglia
fette sottilissime le quali, data la velocità, volano via quasi arrotolate»104.
Una figurazione, questa, che rinvia ancora una volta alla letteratura
talmudica in cui la morte è rappresentata come la cosa più solida che Dio
abbia creato a castigo del peccato: nella sua fenomenologia compare an­
che il motivo che la esprime a somiglianza d’un crup, di uno spasimo alla
gola per il quale, come una spina, quando si tenta di afferrarla, lacera una
matassa di lana tosata, così la morte strazia le membrane della gola105.
Ma il colmo del tragico sta per K. nel fatto che la morte non è una
fine definitiva, il dolore non cessa con questa: «Il più crudele della mor­
te: una fine apparente causa un dolore reale»106.
Le lamentazioni che si fanno al capezzale del defunto non hanno - si
domanda K. paradossalmente - forse per oggetto il fatto che egli non è
ancora morto nel vero senso della parola?107
«La nostra salute - afferma ancora - è certamente la morte, ma non que­
sta»108. E soltanto un cambiamento di cella, da una che già si detesta a
un’altra che ben presto si imparerà a detestare (K. pensa ironicamente alla
metempsicosi e si domanda se il suo non sia il gradino più basso)109. Tutta­
via - ed ecco il rovesciamento della continua implicanza antinomica - an­
che se non c’è redenzione, io voglio essere degno di ciò ad ogni istante110. 111
Se v’è una santità nell’eroismo, queste parole danno ragione a Brod.
Ma diremo di più: la parabola dell’assurdo prevede una possibilità, una
sola, un filo di speranza al quale si aggrappa l’uomo nell’istante decisivo;
che qualcuno, il padrone per esempio, fermi il prigioniero nel momento
in cui viene effettuato il cambio di cella per dire agl’invisibili guardiani:
«Costui non dovete rinchiuderlo di nuovo. Viene con me»1".
Ci piace concludere con questo pensiero che ci rammenta la parola del

104 Diari, I, cit., pag. 232; cfr. Diari, II, cit., p. 180, 22 marzo; p. 141, 19 settembre.
105 Berakhoth, 8 a.
106 G. IV., cit., pag. 122, ma cfr. anche il pensiero precedente «Das Grausamste des Todes liegt
darin: dass er den wirklichen Schmerz des Endes bringt, aber nicht das Ende».
107 Journ., cit., pag. 311.
108 «Unsere Rettung ist der Tod, aber nicht dieser.» G. W. cit., pag. 123 D. v. Okt.
109 Diari, 11, cit., pag. 167.
110 Diari, I, cit., pag. 188.
111 Diari, II, cit., pag. 251; ma cfr. anche Diari, II, cit., pag. 145,25 settembre.

56
grande maestro, e non solo di letteratura, del nostro Kafka: Goethe.
«Ci muove il racconto di quella buona azione, la visione di quel­
l'armonico oggetto: sentiamo perciò di non essere interamente in una
contrada straniera, ci immaginiamo di essere più vicini alla nostra terra
natale verso la quale aspira impazientemente ciò che è migliore e più
intimo in noi»112.
Il presentimento di una liberazione definitiva non può essere confuta­
lo neppure dalla logica necessità che essa non debba aver luogo, perché
è proprio questa sconfortante prospettiva la premessa insostituibile di
quella liberazione113.

I I.’ Wilhelm Meisters Lehrjahre Vili, I.


II ' Diari. II, cit., pag. 151 passim.

57
La dialettica esistenziale negli scritti
extra-narrativi di Kafka114

La nostra analisi tende a liberare la personalità di Kafka da certe ge­


neriche valutazioni interpretative che sconfinano sul terreno filosofico
senza una sufficiente base d’appoggio e mirano in sostanza più ad una
rettificazione unilaterale della problematica kafkiana che a dame il retto
intendimento critico storico115.
Altre, invece116, pur non essendo prive di intuizioni felici, tendono a
restringere arbitrariamente la portata di quest’ultima nell’autobiografismo
allegorizzante e nella tragedia psicologica dell’ebraismo in genere, le qua­
li cose non bastano - da sole - a spiegarci Kafka. Non è neppure giusto pre­
cludere la possibilità di una valutazione, anche dal punto di vista letterario,
più completa dell’opera kafkiana, imponendo una rigida fedeltà alla «let­
tera» nella interpretazione della «narrativa», poiché in verità dietro quella
v’è una concezione totale dell’esistenza che esige un chiarimento117.
Che il realismo «trasfigurato» di Kafka non sia allegoria è vero118, ma
questo non esclude la necessità di una ermeneutica poiché, altrimenti, il
compito della critica si ridurrebbe a ben poco.
Non è nostra intenzione - data la natura del presente saggio - appro­
fondire criticamente il problema dei contributi positivi offerti dagli stu­
diosi: ricordiamo soltanto, per incidenza, gli studi del Cantoni119, di O.
Navarro120, del Paoli121, del Rocca122, e rimandiamo, per l’analisi dello
stile e della tecnica kafkiane, alle pregevoli ricerche del Bo123.
Troppo pregiudizialmente teologizzanti le osservazioni del Rouge-

114 In «Aut Aut», 45 (1958), pagg. 116-137 (N.d.C.).


115 Pensiamo, per es. a quella del Don Petronio, Avvenire d’Italia, 30.XII.34 e del Robertazzi,
Poesia e realtà, Modena, Guanda, 1934.
116 B. Matteucci, F. K. o l’allegoria del Vecchio testamento, in «Vita e pensiero», 1952-III.
117 A. Spaini, Introduzione a // Processo, Torino, Frassinella 1952.
118 G. Necco, Realismo e idealismo nella lett. ted. moderna, Bari, Laterza, 1937.
119 R. Cantoni, Introduzione a II Castello, Mondadori, 1948, II ed., 1955; inoltre R. Cantoni, In­
troduzione ai Diari curati dal Brod, Mondadori, 1955. Introduzione a Lettere a Milena, trad.
E. Pocar, Mondadori, 1954.
120 O. Navarro, Kafka e la crisi della fede, Torino, Taylor, 1948.
121 R. Paoli, Spavento dell’infinito, in «Frontespizio», settembre, 1933, pag. 5 e segg., Firenze,
Vallecchi.
122 E. Rocca, Uno che risuscita: F. K., in «Pegaso», 1933, pag. 108 e segg., Milano-Firenze.
123 C. Bo, Nota su F. K., in «L’orto» 1934, n. 5, sett. - ott., Bologna.

58
mont124 - per quanto attiene al problema interpretativo - e nebulose quelle
del Groethuysen125. Per la biografia, ottimo è il testo di Max Brod126.
Indubbiamente gli scritti extra-narrativi di F. K. aprono all’investiga­
zione critica un vasto orizzonte, nel quale tutto il significato della restante
opera kafkiana riceve non poca luce: d’altro canto, l’importanza di una
analisi che mantenga come base della sua ricerca questo materiale docu­
mentario, risulta tanto più evidente quanto più sappia connettere armoni­
camente in una sintesi costruttiva i vari elementi o frammenti di pensiero
dei quali sia pervenuta in possesso attraverso l’indagine interpretativa.
L’enigmaticità della fisionomia interiore di F. K. costituisce ormai
una premessa di rito ad ogni scritto che intenda portare un contributo
alla complessa questione, ma proprio perché consapevoli dell’impor-
lanza di questa preliminare avvertenza (la quale in fondo mira a lasciare
intatto il segreto suggestivo della personalità di K.), siamo indotti a dire
che il fondo di questo «enigma» si riproporrà anche al termine della
ricerca, nella sua fondamentale inviolabilità. Ci basterà, pertanto, rile­
vare due circostanze attraverso le quali il problema Kafka giustifica, per
così dire, il fatto di dover rimanere tale, almeno per ora, ad onta di ogni
tentativo di soluzione o di chiarificazione ermeneutica.
Per prima cosa, la struttura permanente di tutta la meditazione di K. in­
torno a se stesso e intorno a quei problemi che costituiscono V humus del­
le sue Betrachtungen über Sünde, Leid, Hoffnung und den wahren Weg,
degli Acht Oktavhefte'I11, dei Tagebücher 1910-1923128, ha un carattere
assolutamente aporetico e antinomico.
La categoria del paradosso costituisce il motivo dinamico intrinseco
in quelle meditazioni che trovano il loro orizzonte filosofico espresso
nei termini di una dialettica qualitativa che si trova allo stato germinale
come l’unica possibilità di un ripensamento da parte dello studioso per
intendere il senso ultimo delle riflessioni kafkiane.

I .’4 B. Rougemont, Le procès, in «La Nouvelle Revue Française», V - 1934, p. 868.


125 Groethuysen, À propos de K., in «La Nouvelle Revue Française», aprile 1933, pag. 588 e
segg. - Tralasciamo di dare una più ampia e aggiornata bibliografia per non appesantire mag­
giormente questa nota introduttiva. A titolo di semplice curiosità, ricordiamo la stroncatura di
G. Papini, Loggia dei busti, Vallecchi, 1954, priva di serietà scientifica e molto vicina ad una
farneticazione senile.
I ’(> M. Brod, Franz Kafka una biografia, Verona-Milano. Mondadori, 1956.
I .’7 In Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande, Gesammelte Werke, 117 herausgegeben von M.
Brod, S. Fischer, Verlag, Frankfurt am Main, 1954.
I.’K Fd. Brod, cit.

59
Una dialettica evidentemente congeniale a quella di Kierkegaard, co­
nosciuto e apprezzato da Kafka, anche se considerato, in fondo, distante
da lui129: una dialettica dunque intesa a riproporre, oltre gli schemi e le
mediazioni idealistiche, la concreta fenomenologia dell’esistenza, una
dialettica della vita nella quale l’uomo Kafka si dibatte e soffre e lotta,
stretto nel cerchio delle sue possibilità.
Già è stata notata la parentela che lega il nostro scrittore agli spiriti
tempestosi del secolo scorso: anche lui «uomo del sottosuolo» come
Dostoevskij, filosofo della crudeltà come Nietzsche, nichilista assetato
di profanazioni, smembrato dal «relativo» come Strindberg130. Ma non
possono neppure essere sottaciuti altri nomi come quelli di Lutero, di
Pascal, di Dilthey, che ricorrono, più o meno spesso, nei diari, accanto
a quelli di Kleist, di Moerike, di Werfel, di Wedekind, di Flaubert, di
Grillparzer. Ai rapporti con Goethe accenneremo in seguito.
Un secondo punto da tenersi presente in via preliminare per giusti­
ficare - come si è detto - la irriducibile persistenza dell’enigma Kafka
può essere chiarito in questi termini: il nostro scrittore ama il nascondi­
mento letterale della verità proprio per l’aderenza al significato e alla
dimensione esistenziale della medesima.
In altre parole, la coincidenza di verità e esistenza esclude che l’ap­
prossimazione teorica possa bastare a risolvere la questione di vita (in
cui ne va della vita) che, lungi dal porsi sul piano discorsivo, si copre
nella formulazione aforistica sibillina, (grata, più che a Kierkegaard,
a Nietzsche) e con ciò stesso si apre ad una partecipazione intuitiva,
come se esigesse che l’anima del lettore dovesse divenire quella di co­
lui che ha lasciato sulla pagina una vivente testimonianza di sé.
Questa considerazione ci sembra legittimata dalla sfiducia di K. per
ogni forma di conoscenza intesa come adeguazione intellettuale nella
quale l’uomo di carne e d’ossa è dissociato dal puro soggetto teoreti­
co e quasi retrocesso a mera finzione, mentre la realtà vera, integrale,
dell’uomo implica l’esistenziarsi dell’atto di conoscenza che è scelta,
responsabilità, lotta e rischio131 «Nicht jeder kann die Wahrheit sehen,

129 «Flaubert und Kierkegaard wussten ganz genau, wie es mit ihnen stand, hatten den gerarden
Willen, das war nicht Berechnung, sondern Tat. Bei dir aber eine ewige Folge von Berechnun­
gen, ein ungeheurlicher Wellengang» Ed. Brod, cit., Tagebücher, pag. 512.
130 Per una particolare analogia cfr. Tagebücher, cit., pag. 574 e Dostoevskij, Memorie del sotto­
suolo, Sansoni, Firenze, 1943, pagg. 7-49.
131 La spiegazione come debolezza della convinzione, cfr. Das dritte Oktavheft, in op. cit., pag. 85;
cfr. Tagebücher, cit., pag. 375.

60
aber sein»132, dirà K., e quindi ogni uomo sarebbe il mezzo, - per cui ne
va del suo esserci -, lo strumento vivente della conoscenza.
«Tu sei il compito, non un discepolo, né da vicino né da lontano»133,
aggiunge ancora. Il rapporto tra il discepolo e il maestro sembra vacil­
lare nella sua genericità astratta, nel suo insormontabile dualismo (così
come il rapporto tra puro soggetto e oggetto di conoscenza) di fronte
all'affermazione di un compito che si colloca già da sempre in colui che
ricerca se stesso come thema decidendum.
Cerchiamo dunque di annodare, momento per momento, gli elementi
significativi della tematica kafkiana intesa appunto come tematica esi­
stenziale.
Si è detto di una conoscenza da realizzarsi nella propria intimità sen­
za aiuti dall’esterno, senza oracoli da consultare e quindi nella libertà,
senza che lo spirito sia un appoggio per se stesso134.
Affiora così il motivo della solitudine come proiezione di un dato
insopprimibile, di una condizione inevitabile nella quale l’uomo Kafka
si trova abbandonato e deietto.
Una solitudine che è quasi un grido di rivolta, una exacerbatio del
dolore: «Ich werde mich bis zur Besinnungslosigkeit von allen absper-
i en. Mit allen nicht verfeinden, mit niemanden reden»135. Talora la solitu­
dine è sentita, in rapporto alla ipotizzata convivenza matrimoniale, come
la «possibilità ascetica» di mantenersi in se stessi senza incorrere nella
punizione del Beisammensein, dello stare insieme, costituita dal coito136.
Altre volte sembrerebbe che la solitudine, fuori del «rumore» mondano,
sia anche un mezzo necessario affinché il mondo venga spontaneamente
a smascherarsi («sei völlig still und allein»)137. Accade che essere soli sia
pci K. una specie di vocazione138 ed infatti egli, che ha paura di immede-
Iinarsi, ritiene la solitudine la condizione insostituibile per fare qualcosa,
per «creare» («Ich muss viel allein sein. Was ich geleistet habe, ist nur ein

I '2 Non tutti possono vedere la verità, ma ognuno può esserla. Das d. Okt., pag. 94.
I I ' Hetrachtungen in op. cit., pag. 41, n. 22.
I 14 »Der Geist wird erst frei, wenn er aufhoert Halt zu sein». Bertracht., cit., pag. 43, n. 44.
I '•> 'Mi isolerò da tutti fino allo stordimento. Mi inimicherò con tutti, non parlerò con nessuno»,
Tagebücher, cit., pag. 317.
I '6 Tagebücher, cit., pag. 315.
I I ' Hetrachtungen, cit., pag. 54.
I IH Tagebücher, cit., pag. 319.

61
Erfolg des Alleinseins»)139 e per rimanere arbitro di quella «disponibili­
tà» che è rivolta appunto a questo scopo. («Allein könnte ich vielleicht
einmal meinen Posten wirklich aufgeben») (ibid., loc. cit.).
Talora è lo stesso sentimento della propria indegnità a determina­
re la rottura di un rapporto umano e a provocare «il rintanarsi» in se
stesso, poiché proprio attraverso l’altro, Kafka acquista una maggiore
consapevolezza «spaventosa», della sua deiezione e della «maggiore»
impossibilità di salvezza140.
L’indegnità come tale, l’irredimibilità della propria situazione, que­
sto tonalizzarsi della solitudine nel senso della colpa, rimandano alla
categoria della eccezionalità nella quale Kafka interpreta se stesso.
E questa un’eccezionaiità essenzialmente negativa, un’oscura cer­
tezza, ben lontana da quell’incertezza angosciosa che per Kierkegaard
caratterizzerà la vita religiosa, il tormento di essere nudi davanti a Dio,
il momento di Abramo, l’eletto; l’eccezionaiità kafkiana si perde nei
meandri del dispregio di se stesso («...im Gefühl, Stellvertrete meiner
innem Leere zu sein, die ausschliesslich ist und nicht einmal übermäs­
sig gross»)141 e si traspone in una figurazione di nuda straziata bellezza,
quella del San Sebastiano, per cui K. dice, con triste ironia, che si sen­
tirebbe di far da modello142.
Comunque tale eccezionalità viene dichiarata espressamente143 ed
è configurata come un’immobile forza di gravità che condiziona tut­
ti i movimenti e si pone al di fuori di ogni logica e di ogni giustizia.
Un’eccezionaiità paradossalmente data e con ciò stesso insindacabile.
«So wie du in der verzweifelten Sterbestunde nicht über Recht und
Unrecht meditieren kannst, so nicht im verzweifelten Leben»144.
Questa eccezionalità che circoscrive esistenzialmente l’isolamento
della solitudine è la cifra di una deiezione costitutiva dell’esserci stesso
ed è quindi intimamente connessa alla sua Geworfenheit, nonché a quel
particolare aspetto di essa per cui, come diceva Kierkegaard che il pec­
cato è Pisolante assoluto perché soltanto mio, così Heidegger afferma
l’inerenza all’esserci della sua Jemeinigkeit (l’essere-sempre-mio).

139 Ibid., pag. 311.


140 Lettere a Milena, cit., pag. 233, pag. 224.
141 Tagebücher, cit., pag. 345.
142 Ibid. pag. 242: «Ich soll dem Maler Ascher nakt zu einem heilligen Sebastian Modell stehn».
143 Tagebücher, cit., pag. 544.
144 Tagebücher, cit. pag. 557.

62
L’esserci in quanto tale è abbandonato alla Verfallenheit che rap­
presenta il marchio della sua intrinseca disumanizzazione, il suo
mcatenamento145, in altre parole la finitudine come peccato e il pec­
cato come colpa originaria. Lo stato di peccato è dunque quello nel
quale ci troviamo indipendentemente dalla colpa.
L’esistente è un esserci che implica l’appartenenza assoluta a quel
determinato esserci che esso stesso è146. Un’appartenenza che è con­
danna, per cui la vita è una strada d’autunno che non riceve che foglie
morte'41, una pertica inutile incrostata di brina e di neve, in un campo
profondamente sconvolto, ai limiti di una immensa pianura'4".
Per questo avvertire la propria solitudine e la propria eccezionalità
negativa cooriginarie alla sua deiezione esistenziale, l’uomo-Kafka e o
l'uomo di Kafka acquista consapevolezza di sé come di qualcosa-che-
mm-dovrebbe-essere, inabissandosi quindi in quella situazione senza
appello che è la sua colpa.
11 silenzio dunque intorno a sé, una inconcepibile diversità dagli al­
ti i, la unicità mostruosa; tutto questo determina un chiuso tormento,
« liiuso contro tutto'49. Per questa condizione, che paradossalmente si
articola nel desiderio dei figli150 nel desiderio di una comunità e di una
legge, per questo Zustand der Qual (condizione tormentosa), egli sente
preclusa la possibilità della vita creativa («So als wäre mir... die Mögli-
• likeit des ruhig schaffenden Lebens verschlossen»)151 e quindi avverte
la mancanza di un fondamento, l'impossibilità del suo più-proprio-po-
ler essere.
I .a possibilità come fondamento gli è distante al punto che quasi po-
stulare quella possibilità gli pare un assurdo, l’assurdità di una assurdi­
tà non ci sono distanze da superare'51 - egli dice - è altrettanto assurdo
domandare quanto aspettare.
Di fronte a quella possibilità - la liberazione di Sisifo dalla sua con-

I I ’ Propriamente K. parla di un duplice incatenamento, cfr. Betracht., cit., pag. 46 n. 66. Ma su


questo argomento torneremo più oltre.
I 16 Betracht., cit., pag. 44. n. 46.
I I ' - Wie ein Weg im Herbst», ecc. Das dritte Oktavheft, cit., pag. 82.
I 18 /’«geiu/cAer, cit., pag. 446.
I I') Tagebücher, cit., pag. 557.
I MI «lis scheint so arg, Junggselle zu sein», ibid., pag. 160.
I"‘l //ür/., pag. 556.
IV « lis sind keine Entfernungen zu überwinden. Daher Fragen und Warten sinnlos», Tagebücher,
cit., pag. 480.

63
danna, che non è solo quella del celibe disperatamente assetato di fi­
gliolanza carnale (immortalità ebraica, come diceva Unamuno), Kafka
rimane nell’atteggiamento di chi guarda il vuoto perfetto, poiché que­
sta possibilità-fondamento è anche una possibilità senza fondamento e
quindi una possibilità impossibile.
Di qui la situazione affettiva dei Diari, tonalizzata prevalentemen­
te sul gelo del cuore153 sul rimprovero vuoto154 sulla «Uebelkeit von
mir»155 sulla miseria di sé156 sul vuoto interiore157 sullo «Schwaches
Tempo»158 dell’esistenza.
Correlativo allo stato di spaesamento {fJnheimlich-keit) che dà il cli­
ma alla narrativa kafkiana, ma di cui si ritrovano notazioni puntuali
anche nei Diari'59, si ha dal punto di vista teoretico, uno stato di confu­
sione di fronte alla possibilità «filosofica» come tale160.
Questa Verwirrung, questo smarrimento, si traduce nel questionare a
vuoto161, vale a dire nell’attestazione più piena di una mancanza di quel­
la fede che forse potrebbe avvicinare - dandole un fondamento - quella
possibilità di liberazione. Kafka stesso dice: «Una volta non compren­
devo perché le mie domande dovessero rimanere senza risposta. Oggi
non comprendo come abbia potuto credere {anche soltanto) possibile
porre quelle questioni. In realtà non credevo un bel nulla: non facevo
che questionare» Evidentemente il fragen, che peraltro è anche Zögern
(esitare)162, è antitetico alla fede che non pone domande e quindi anche
la sola presunzione di «questionare» esclude ab imis la possibilità di
ottenere la risposta gratis data.
Sia detto per inciso che questo abito del questionare, legato ad una

153 Die Herzenskaelte, Tagebücher, cit., pag. 436.


154 «Heute wage ich es nicht einmal, mir Vorwürfe zu machen, ln diesen leeren Tag hineingerun-
fen hätte das einen ekelhaften Widerhall», ibid., pag. 32.
155 Ibid., pag. 444.
156 Ibid., pag. 161-162; «Ich elender Mensch», ibid, pag. 312.
157 Tagebücher, cit., pag. 345.
158 Ibid., pag. 279.
159 «Und sinnlos leer ich. Ich bin wirklich wie ein verlorenes Schaf in der Nacht und im Gebirge
oder wie ein Schaf, das diesem Schaf nachlauft. So verlorem zu sein und nicht die Kraft ha­
ben, es zu beklagen», ibid., pagg. 329-330 e 345.
160 Dovremmo dire «teosofica», ma sembra che K. desse un certo credito a Steiner di cui si parla,
nel Diario, a questo proposito. Ibid., pag. 57.
161 Betrachtungen, cit., pag. 43, n. 36.
162 Ibid., pag. 42, n. 26.

64
psicologia tipicamente ebraica e addirittura all’indole mentale dei com­
mentatori talmudici, si manifesta nella narrativa kafkiana in maniera
assai caratteristica, attraverso quella subtilitas che è una vera e propria
elefantiasi della logica deragliata nella inconsistenza febbrile dei vari
Joseph K. e agrimensori K. Questionare si pone dunque sotto la peren­
ne insegna del dubbio che potrebbe costituire per Kafka, così come era
accaduto per Kierkegaard, lo stesso «demoniaco»163.
Tuttavia il demoniaco come angoscia di fronte al bene, cioè di fronte
a quella possibilità di cui sopra parlavamo, non può spiegarsi in K. con il
k lerkegaardiano «rifiuto» della propria salvezza.
Kafka allude a questa angoscia dicendo: «La nostra arte è quella di
essere accecati dalla Verità: la luce sulla smorfia del viso che rilutta:
ipiesto soltanto è vero; nuli’altro»164.
L'angoscia di fronte al Bene ha dunque nel nostro scrittore un valore
particolare che ci sarà chiaro più avanti quando tratteremo della natura
ilei Bene o meglio della possibilità che gli corrisponde.
Tornando al «questionare», che ha come termini equivalenti la lotta
e il dialogo, cerchiamo di analizzare il senso di queste espressioni.
«Il mezzo di seduzione di questo mondo - così egli scrive - e il segno
I lie avverte sul carattere effimero di questo mondo, non sono che una
medesima cosa... Ma il peggio è che dopo una seduzione riuscita noi
ilimentichiamo l’avvertimento ed è così, infine, che il Bene ci ha trasci­
nato nel male e lo sguardo della donna nel suo letto»165.
«Uno dei mezzi del male è il dialogo»166.
«Uno dei mezzi di seduzione più efficaci del male è l’invito alla lotta
(./,(' Aufforderung zum Kampf). E come la lotta con le donne che finisce
a letto»167.
Il dialogo e la lotta non sono che manifestazioni di impazienza', nel-
I uno e nell’altra - che sono strutture cooriginarie poiché il dialogo è
mia modalità della lotta alla stessa guisa che quest’ultima può consi­
gn arsi una modalità del dialogo - non si va oltre di un passo, bensì al
I imtrario, si ribadisce la propria chiusura in quanto l’uno e l’altra sono

lai ■ Perché il dubbio è il demoniaco che sta tra il cielo e terra»: Kierkegaard, Diario, vol. I, a cura
di C. Fabro, Morcelliana, 1951, pag. 130.
lui Tagebücher, cit., pag. 46, n. 63.
lai Ibid., pag. 53, n. 105.
Itili Das dritte Oktavheft, cit., pag. 84.
Ili ' Das dritte Oktavheft, cit., pag. 118.

65
tentativi di fuggire la sofferenza, di sottrarsi al proprio destino (aspetto
negativo dell’angoscia)168.
L’impazienza, poi, è la radice stessa della colpevolezza ed è l’impa­
zienza il lievito del dialogo e della lotta: l’impazienza dell’agrimensore
K. di arrivare al castello, l’impazienza del protagonista de II processo
che lo spinge a conoscere la propria imputazione e ad uscire dalla diffi­
coltà del proprio stato.
Interessante a questo proposito l’interpretazione kafkiana del «pec­
cato originale». «A causa dell’impazienza essi sono stati cacciati dal
Paradiso, a causa della pigrizia non vi ritornano. Forse non è che un
solo peccato originale: l’impazienza. A causa dell’impazienza essi sono
stati cacciati, a causa dell’impazienza essi non vi ritornano»169.
L’impazienza, evidentemente, vuole trascendere con le sue semplici
forze la differenza qualitativa che separa l’uomo dal Bene, dalla Ve­
rità, da quella sua unica possibilità di salvezza che è a un tempo una
destinazione revocata e deviata, il nostro esistenziale riferimento ad un
assurdo primum, il Paradiso, che un Abgrund invalicabile separa da noi.
Ora si comprende come questa possibilità abbia il suo fondamento fuori
dell’esserci umano e cada quindi oltre questo.
Infatti tale Verità è radicalmente altro dall’uomo: la si non-definisce
attraverso una specie di teologia negativa: «Le cornacchie affermano
che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è fuori di
dubbio, ma non dimostra niente contro il cielo poiché il cielo appunto
significa: impossibilità di cornacchie»170.
Di qui si spiega che K. possa dire: «Il male conosce il bene, ma il
Bene ignora il Male»171; «Il cielo è muto, un’eco soltanto al muto»172;
«II Bene è, in un certo senso, desolante»173; «La verità è indivisibile:
non può dunque da se stessa conoscersi: chi la vuole conoscere deve
essere menzogna»174; «Il Male è il cielo stellato del bene».
Il Male sarebbe dunque una necessaria frattura nell’Essere e l’esser-

168 «Tu puoi sottrarti ai dolori del mondo, questo ti è liberamente posto e corrisponde alla tua
natura: ma forse è proprio il fatto di sottrarti Tunica sofferenza che potresti evitare», Betra­
chtungen, cit., pag. 53, n.103.
169 Betrachtungen, cit., pag. 39, n. 3; anche Das dritte Oktovheft, cit., pag. 72.
170 Betrachtungen, cit., pag. 42, n. 32.
171 Das d. Okt. cit., pag. 84.
172 Ibid., pag. 91.
173 lbid., pag. 85: «Das Gute ist in gewissem Sinne trostlos».
174 Ibid., pag. 99.

66
< 1 sarebbe appunto un essere-consegnato a questa limitazione, una con­
dizione di terribile assenza perché noi non sappiamo nulla dell’Essere,
non ne abbiamo esperienza, non abbiamo gustato i frutti dell’Albero
della Vita. Questa è, in definitiva, la struttura esistenziale del peccato,
la sua paradossalità.
Il richiamo a Kierkergaard è soltanto apparente: in realtà, per l’esa­
sperata polarità dell’umano e del trascendente e per l’accentuazione
de II'irreparabile naufragio del primo, che è condannato all’assoluta
negatività, il pensiero di K. ci ricorda quello di Barth. Per quest’ulti­
mo, infatti, il Male non può considerarsi agostinianamente un «defec-
ins entis», bensì si identifica nell’esserci stesso, nella sua costituzione
eieaturale.
Così l’uomo per il pastore di Safenwill si risolve nell’ Ich-oder-Ni-
< lits di Böhme175. Ed ecco quindi il vuotarsi di quella possibilità, postu-
l.ila in forza di una dialettica che lega l’esserci alla verità attraverso una
struttura rigidamente antinomica.
Tuttavia questo Bene, questa Verità, si proiettano in un mondo spi­
ni naie nel quale si risolve la realtà tutta, in questo senso, in rapporto
di esserci, il mondo spirituale potrebbe acquistare il valore di un fon­
damento.
«Non vi è altro mondo che il mondo spirituale (eine geistige Welt): ciò
i he noi chiamiamo mondo sensibile (sinnliche Welt) è il Male nel mondo
■•pirituale e ciò che noi chiamiamo Male non è che la necessità di un mo­
mento della nostra eterna evoluzione»176.
Il valore dialettico del male come stimolo del negativo è messo in
i Inaro da quest’ultima proposizione che apre una prospettiva più conso­
lante rispetto a quanto abbiamo detto intorno alla sproporzione assoluta
nail finito e lo infinito. Si potrebbe aggiungere che l’uomo può divenire
< iò che attualmente non-è, ma che non può non essere, per il fatto stesso
i he nella sua stessa negatività traspare la rassicurante premessa di un
i ompimento.
li entrata a questo punto nel nostro orizzonte la certezza e si è addi-
iillura sostituita alla speranza, ove questa certezza sia pienamente con-
.ipevole. «Il fatto che non vi sia altro mondo che quello spirituale ci

I '*> Ibid., pag. 90. Per l’analisi dei rapporti che riconducono K. a Barth cfr. il mio studio Spiritua­
lità ebraica in F. K., La parabola dell’assurdo, in «La Rassegna di Israel», Aprile - Maggio,
XX1I-XXIIII, 1957.
I ’ti Hetrachtungen, cit., pag. 44, n. 54. Il peccato, come momento necessario della nostra evolu­
zione, implica che non deve essere tolto.

67
toglie la speranza e ci dà la certezza»177.
La certezza dunque si tematizza in rapporto alla Totalità-Realtà del
mondo spirituale, alla sua Indistruttibilità, e costituisce {'apertura del-
l’esserci, il senso della sua evoluzione (di cui il male è un momento ne­
cessario). La problematizzazione più approfondita della certezza ce la
schiuderà infine come angoscia positiva per cui Tesserci può riscattarsi
dal nulla e dare un diverso fondamento alla sua più propria possibilità.
Resterà quindi da vedere come si articola esistenzialmente quella
nuova possibilità di salvezza e in che cosa paradossalmente essa si vada
concretando.
Per il momento però si tratta di mettere in chiaro la struttura di questa
Indistruttibilità e di precisare se si può fin da ora ammettere un’evolu­
zione positiva da parte dell’esserci.
Il carattere problematico della certezza si preannuncia già nel fatto
che essa può restare coperta - come si è detto -, ma la sua intima dram­
maticità è già sensibile nella circostanza che l’uomo è cittadino del cie­
lo e insieme della terra, incatenato a due opposti, e quindi questo mondo
spirituale, che potrebbe appartenere alla terra - essere il regno dell’uo­
mo sulla terra - non può essere mai in definitiva circoscritto come pure,
per ragioni esattamente contrarie, quello trascendente178.
Tuttavia, per questa natura bifronte che fa l’uomo medium mundi,
egli è aperto a tutte le possibilità, che possono essere anche ignote e di
cui deve essere ritrovata la via, ma riguardo alle quali bisogna «osare»
(anticipazione di una tematica «attivistica»)179.
L’Indistruttibile come possibilità è una struttura immanente in cia­
scun uomo, per cui ognuno è al tempo stesso sé e gli altri, è {'Existenz.
«L’indistruttibile è uno: esso è ciascun uomo in particolare e nello
stesso tempo è comune a tutti, di qui quella comunicazione indissolubi­
le tra gli uomini che è senza esempio»180.
L’indistruttibile è anche il Sommo Bene, la felicità («Teoricamente
non vi è che una possibilità perfetta di felicità: credere all’Indistruttibi-

177 Betrachtungen, cit., pag. 46, n. 62.


178 Betrachtungen, cit., toc. cit., n. 66.
179 «Ich gebe es zu... dass es in mir Möglichkeiten gibt, nahe Möglichkeiten, die ich noch nicht
kenne: aber nur den Weg zu ihnen finden und, wenn ich ihn gefunden habe, wagen!» Tagebü­
cher, cit., pag. 575.
180 Betrachtungen, cit., pag. 47, n. 70-71.

68
le in sé senza aspirarvi»)181. Confidare (Vertrauen) nell’Indistruttibile,
anche se tanto l’Indistruttibile quanto la confidenza possano rimaner
nascoste, costituisce la possibilità stessa della Vita182.
Questa Indistruttibilità equivale ad Unità™ e questa Unità è la Leg­
ge, la Legge stessa dell’Unità, la superiore costanza della norma.
D’altro canto essa presenta in rapporto all’uomo dei caratteri nega­
tivi: non si manifesta che in maniera intermittente poiché una voce op­
posta (la radicale negatività dell’esserci) tende a far perdere il gusto di
quella Unità («Die Gegenstimme... mir die Einigkeit verleidet»).
Quel contrarium fa sì che chi trova l’unità sia triste, quasi da questa
si sentisse diminuito nella sua egoità individuale.
Proprio a causa di questa intermittenza (è un «zeitweiliges Gebot»)
la Legge interiore è paragonabile a un sogno e come il sogno sembra
assurda (sinnlos), discontinua (ohne Zusammenhang), inevitabile (un­
vermeidlich), irripetibile (einmalig), rallegrante e insieme angosciante
senza ragione (grundlos beglückend oder ängstigend), incomunicabile
nella sua totalità e insieme avida di comunicarsi.
E K. spiega perché questa Legge-Sogno presenta una fisionomia
così ambigua e contradditoria: è assurda poiché soltanto quando io non
l’osservo posso sussistervi (hier bestehn), discontinua, perché non so chi
l'ha imposta e a che scopo essa tenda: inevitabile, perché mi prende alla
sprovvista (unvorbereitet) come il sogno sorprende il dormiente che, al­
lorquando si dispone a dormire, deve attendere ai sogni: essa è irripetibile
o almeno sembra tale, infatti per la ragione che non posso osservarla essa
non si mescola al reale e conserva perciò la sua intatta irripetibilità: ral­
legra e angoscia senza ragione, ma la seconda eventualità è assai più fre­
quente della prima. Essa non è comunicabile poiché non la si può cogliere
e per questa ragione essa non aspira nemmeno a comunicarsi.
Potremmo concludere per il momento che la struttura della certezza
I in quanto questa può essere coperta) e quella della stessa Indistruttibili-
i.i Unità cui essa rimanda si presentano essenzialmente aporetiche pun-
Imitizzando dunque la cifra assurda nella quale sono tematizzate. In che
mollo allora può aversi un’apertura dell’esserci a quella possibilità di ri-

IHI Ibid., n. 69.


IH2 Ibid., pag. 44, n. 50.
IH I Ibis vierte Oktavheft, in op. cit. pag. 110-112. Preferiamo la lezione seguita anche dal Klos­
sowski (Journal intime, Paris, 1945, p. 305 in nota) che contrariamente all’avviso di Brod (ediz.
rii. pag. 456) legge «Einigkeit» invece di «Ewigkeit» (Eternità).

69
scatto la quale sembrerebbe essere accennata dal ritrovamento, sia pure
problematico, di una certezza e di un Indistruttibile? E che senso può
avere parlare ancora di un’evoluzione nella situazione dell’Esserci?
Un primo chiarimento lo possiamo rinvenire là dove K. scrive che
«fare il negativo ci è imposto»184 e che il terreno della /otta non può es­
sere abbandonato, fosse anche questa una inutile lotta per ciò che ci è
estraneo, che non ha nulla in comune con noi ed è quindi inattingibile185.
«Nulla mi è donato - dirà ancora K. in una lettera a Milena186 - e tutto deve
essere acquistato, non solo il presente e l’avvenire, ma anche il passato:
ciò che ad ogni uomo è dato, anche questo deve essere acquistato ed è
forse la fatica più grave».
Ma in che cosa esprime questa lotta e qual è la sua forma autentica?
Non è certo il contemplativo che può darci una risposta: costui s’attacca
alla cosa viva, cerca di «prendere il vento»187. «Vi sono - dice invece K.
- due possibilità: farsi infinitamente piccoli oppure esserlo. La seconda
è compimento, quindi inattività (Untätigkeit), la prima è principio e
quindi Azione»188.
Per questo l’azione costituisce la struttura autentica del nostro esser­
ci, la sua determinazione esistenziale; a questa si riconduce l’istante de­
cisivo (der entscheidende Augenblick) dell’evoluzione umana il quale
perdura sempre (immerwährend)'*9-, ed è soltanto attraverso l’assurdo
del nostro operare e la negatività dei risultati che si realizza nell’uomo
la consapevolezza del compito.
L’azione umana è condannata allo scacco e anche quella dell’Azione
è solo un’apparenza di verità190, ma il compito che si propone in essa e
per essa esaurisce la totalità dell’orizzonte dell’esserci e per questo il
suo è «Schein von Unendlichkeit»191.

184 Betrachtungen, eit, pag. 42 n. 27 «Das Negative zu tun, ist es uns noch auferlegt; das Positive
ist uns schon gegeben».
185 Chi ha sentito il richiamo della lotta che è quello della libertà, è, in un certo senso, perduto.
«Se hai seguito una volta sola il suono del campanello notturno, non c’è più rimedio per te». Il
messaggio dell'imperatore, Frassinelli, Torino, 1952, pag. 10.
186 Lettere a Milena, cit., pag. 342.
187 Das vierte Okfavheft, cit., pag. 114.
188 Betrachtungen, cit., pag. 50, n. 90.
189 lbid., pagg. 39-40, n. 6.
190 Propriamente solo quell’azione, che si diparte dalla contemplazione per ritornare ad essa è la
verità. Das vierte Oktavheft, cit. pag. 117.
191 Das dritte Oktavheft, cit., pag. 99.

70
Il compito (Aufgabe), tonalizzando sentimentalmente come nostalgia
infinita, apre una strada interminabile: percorrendola si ascoltano i canti
dell’azione, quelli che il grande maestro di Kafka, direi quasi il suo
Virgilio, Goethe, gli aveva insegnato ad ascoltare; quelli che risuona­
no nell’anima ebraica attraverso tanti motivi della letteratura talmudica
che il nostro scrittore ben conosceva192.
Tuttavia, anche questa apertura si risolve in una insanabile chiusura
c ribadisce anzi l’incatenamento, il nudo fatto della nostra espulsione
eterna dal Paradiso e del nostro inutile vagabondaggio alla volta della
terra promessa: perché proprio colui che cerca è destinato a non trovare
inai'93. «Wer sucht findet nicht, aber wer nicht sucht, wird gefunden».
Ed ecco dunque il deserto spirituale dove i cadaveri delle carovane
dei nostri giorni giacciono abbattuti, ecco la disperazione «che stra­
zia»194 quella che sente incrinarsi e fendersi tutto ciò che tocca.
I suoi fantasmi germinano in un crepuscolo di sangue e crescono
nella notte; i fantasmi sono i diavoli assurdi che ci ossessionano, quei
diavoli che sono legione e che quindi non possono darci neppure l’unità
littizia per la quale si renderebbe possibile la seduzione perfetta e si
consumerebbe quindi in maniera perfetta il loro inganno195.
II fatto che essi siano numerosissimi fa sì che la presenza dello Spi­
nto di Dio dentro di noi, come indizio dell’Unità, sia la radice della
nostra atroce inquietitudine che - direbbe Böhme - è un Feuerathem, un
id ito infuocato di Dio.
Ma è proprio a questo punto che il chiudersi dell’Azione come aper­
tura alla possibilità, implica dialetticamente la struttura esistenziale del-
I’ungos'cza positiva come protensione dell’esserci in vista di una para­
dossale evoluzione di quella possibilità che abbiamo veduta bloccata
nell'Azione. Siamo giunti così alla genesi del mondo artistico di K.,
id la spiegazione cioè del «valore per la salvezza» che hanno avuto per
Ini le sue «osservazioni». Solo in questo momento l’attività letteraria
si inserisce nel quadro della fenomenologia esistenziale acquistando il
i arattere di una liberazione chiaroveggente e ascendente dell’uomo.

l'il C’fr. il mio saggio citato, pag. 211.


I *>3 Das dritte Oktavheft, cit, pag. 94.
I‘M «... und ich komme in eine Verzweiflung, die mich zerreist», Tagebücher, cit., pag. 341. Qual­
che mese prima aveva annotato le terribili parole: «Nichts, nichts, nichts. Schwäche, Selbst­
vernichtung, durch den Boden gedrungene Spitze einer Höllenflamme», pag. 313.
I ‘>5 Tagebücher, cit., pagg. 280-281.

71
«Strana, piena di mistero, forse pericolosa, forse liberatrice conso­
lazione dello scrivere: uscire dalla fila degli assassini, osservazione dei
fatti. Osservazione dei fatti, in quanto si crea una più alta forma di os­
servazione, più alta, non più acuta, e quanto più è alta, tanto più è inat­
tingibile muovendoci dalla “fila”, tanto più diventa indipendente, tanto
più segue sue proprie leggi di moto, tanto più la sua via è incalcolabile,
gioconda, ascendente»196.
Almeno negli anni giovanili, K. sente una grande fiducia nelle sue
qualità artistiche e indica anche il modo particolare della sua ispira­
zione ravvisandolo in una felice (e infelice) disposizione spirituale che
afferra certe leggi di armonia, collocando ogni cosa al suo posto esat­
to. «Se butto giù una frase senza scelta, per esempio - Egli guardava
dalla finestra - essa è già perfetta»197. Ma già qualche anno dopo, da
un’osservazione del diario198 si avverte che questa costruzione vacilla
sulle fondamenta: in luogo di quell’entusiasmo è subentrato il vuoto, lo
smarrimento: «Essere così perduto e non avere la forza di lamentarsi».
V’è tuttavia nell’oggettivare il proprio dolore e nel fantasticarci so­
pra - le quali cose peraltro non sono né menzogna né quietivi della
sofferenza - una sovrabbondanza di grazia, una pienezza di energie che
traboccano nel momento stesso in cui il dolore ha soverchiato ogni re­
sistenza e distrutto ogni forza.
D’altro canto l’instabilità di questo stato, escludendo in modo or­
rendo tutto ciò che ad esso sembra incompatibile (matrimonio, società
ecc.) è lo sgomento di chi vola sulle cime più alte nella continua tortura
del precipitare199.
Ancora una volta la meditazione kafkiana annoda i suoi intrecci pro­
blematici proprio intorno a quel punto della fenomenologia esistenziale
nel quale in un primo momento sembrava fosse agevole rintracciare
un’apertura alla possibilità del riscatto e della liberazione.
Si ripropone così quell’irrisolvibile scissione che lacera l’esistente: v’è
un orologio interiore che ha un suo battito demoniaco in cui ha sede una
vita disumanata - è l’eterna percussione dell’esserci contro i muri della

196 Tagebücher, cit., pagg. 563-564.


197 Tagebücher, cit., pagg. 41-42. Sempre in quello stesso anno scriveva: «Mein Glück, meine
Fähigkeiten und jede Möglichkeit, irgendwie zu nützen, liegen seit jeher im Literarischen».
ibid., pag. 57. È in questo luogo che K. parla dell’arte come chiaroveggenza tanto più comple­
ta quanto v’è più calma nell’entusiasmo.
198 Tagebücher, cit., pag. 329.
199 Tagebücher, cit., pag. 420.

72
sua cella - e un orologio esteriore che scandisce il suo tempo estraneo
faticosamente avvolto nelle nebbie200.
Ma la solitudine come spietata osservazione di sé, come tragico
avancement en soi même verso lo spettro della propria «chiusura», la
solitudine, questa esacerbazione, questo «groviglio di follia e di dolo­
re» che affonda nel gorgo della sua esistenziale impossibilità; ebbene,
proprio questa solitudine «colpevole» comincia ora ad impallidire.
«La solitudine che a me per la maggior parte mi fu da sempre impo­
sta, in parte fu da me ricercata - ma non era anche ciò costrizione? - è
ora interamente spogliata di ambiguità e si rivolge all’esterno»201.
Siamo alla soglia di un nuovo momento: quello nel quale K. pense­
rà ad un assalto al limite {Ansturm gegen die Grenze) come estremo
tentativo di aprire quella possibilità nella quale Tesserci riceve il suo
fondamento. Sarebbe un assalto dal basso (von unten), dalla parte de­
gli uomini (von den Menschen her) contro l’ultimo limite terreno: lo
spunto per una nuova cabala, per una nuova dottrina esoterica nella
quale Tindividuo si riconcili con la umanità e attui Tunità immanente
con essa. A questo punto approderebbe positivamente la sopportazione
mansueta del proprio dolore202 e l’esigenza di figli, di nozze, di ante­
nati203: quella magia della vita di cui i figli sono una vivente testimo­
nianza204, quella calda intima appropriazione del senso della comunità e
della storia, quella fortuna di trovarsi cogli uomini.
Ma questo assalto non sarebbe follia? E questo «inseguimento» non
sarebbe ancora lo strazio di lasciarsi attraversare dall’inseguimento me­
desimo? K. è giunto alla consapevolezza che bisogna in definitiva essere
contenti della propria sofferenza205, che l’infelicità è necessaria206, che
in essa è racchiuso il senso dell’esistere, ma tuttavia la sofferenza non è
ancora l’esistere, essa è ancora Tesserci come negatività assoluta.
La struttura orizzontale dell’Esistenza come possibilità dell’Unità
umana rivela la sua precarietà prima ancora di un impegno deciso in que-

.’<M) Tagebücher, cit., pag. 552.


.’01 Tagebücher, cit., pagg. 552-553.
202 «Das Leiden ist das positive Element dieser Welt... », Das v. O„ pag. 108.
•’03 «L'infinita, profonda, calda, redentrice felicità di mettersi a sedere vicino alla cesta del pro­
prio bambino, di fronte alla madre», Tagebücher, cit., pag. 555.
.'04 La magia della vita: Tagebücher, cit., pag. 554. «Das ist das Wesen der Zauberei, die nicht
schafft, sondern ruft». Forse i figli sono opera di magia: Lettere a Milena, cit., pag. 159.
.’OS Tagebücher, cit., pag. 444. «Sich ruhig ertragen ...», Tagebücher, cit., pag. 1913.
206 Tagebücher, cit. pag. 466.

73
sto senso: K. non sa liberarsi a questo punto dall’ipnosi della sua oscura
theologia crucis e si abbandona al messianismo insensato come «panora­
ma dell’attesa». La direzione verso l’umanità è smarrita: anche l’amore è
sperimentato come attesa, possibilità che non ci viene incontro207.
E l’amore dunque diventa la definizione di un desiderio di morte.
«Sempre soltanto il desiderare di morire e il reggersi ancora; questo
soltanto è amore»208.
II tema dell’Azione viene ripreso ancora una volta e distorto nel cli­
ma messianico del messaggio, un messaggio che non arriverà mai209, un
messaggio che gli uomini si gridano l’uno l’altro senza comprendersi.
«Fu loro offerto una volta - scrive K. nelle sue Meditazioni - di di­
venire dei re o dei messaggeri di re. A somiglianza dei fanciulli essi
vollero tutti essere dei messaggeri. È per questo che i messaggeri sono
legione che percorre il mondo e poiché non vi è alcun re si gridano gli
uni agli altri i messaggi divenuti insensati. Volentieri essi metterebbero
fine alla loro miserabile vita, ma non osano farlo a causa del giuramento
che hanno prestato»210.
Quel giuramento è il giuramento dell’azione che lega l’uomo alla sua
fatica di Sisifo, alla sua scelta assurda, al suo esserci che è consegna alla
propria immutabile deiezione.
Così si chiude definitivamente una prospettiva senza sbocco e rima­
ne l’angoscia che attraversa Tesserci tematizzandosi ora come attesa
di una nuova nascita, ora come il messianismo dell’io, l’albeggiare
dell’individualismo assoluto della fede (cfr. più avanti): quanto a colui
che soffre questa terribile esitazione prima della nascita non gli rimane
che il tormento di non essere ancora nato e di dover girare per le strade
e parlare cogli uomini211.
Oltre il fallimento dell’azione riproposta sul piano messianico in una
convergenza allucinata, oltre l’attesa di quell’Amore che non verrà mai,
che cos’altro resta per fondare la possibilità spirituale, se non la creden­
za come forma negativa di adesione a quella possibilità?

207 Tagebücher, cit., pag. 573.


208 «Immer nur das Verlangen zu sterben und das Sich-noch-Halten, das allein ist Liebe», Tage­
bücher, cit., pag. 325.
209 La costruzione della muraglia cinese, nel Messaggio dell'imperatore, cit., pag. 210.
210 Betrachtungen, cit., pag. 444, n. 47.
211 «Das Zögern vor der Geburt»[...] «Mein ist das Zögern vor der Geburt», Tagebücher, cit., pag.
561. Cfr. anche ibid., pag. 577.

74
Molti luoghi dell’opera kafkiana ci riportano a questa che noi crediamo
sia l'ultima e più disperata aporia della sua fenomenologia esistenziale.
L’indistruttibile può rivelarsi all’uomo nella forma della credenza
in un Dio personale212 e la wahnsinnige Kraft des Glaubens sta in una
negazione poiché non si può non vivere e la credenza è la possibilità
della vita213.
La struttura irrazionalistica della credenza - pura forma senza conte­
nuto, cifra paradossale che rinvia ad un inviolabile Tu, come termine
della invocazione214 - si sostituisce dunque a quella attivistica e dell’an­
goscia messianica, imponendo la sua netta verticalità.
«Una gabbia andò alla ricerca d’un uccello»215, dice K. volendo si­
gnificare appunto che non Tesserci si muove incontro alla sua più pro­
pria possibilità, ma questa va verso di lui per imprigionarne la disperata
libertà. L’intenzionalità della ricerca si eclissa dinanzi alla Fede che
crede all’indistruttibile in sé senza aspirarvi216 ed è questa la possibili­
tà teoricamente perfetta della Felicità, alla quale Tesserci si apre solo
rinunciando alla sua colpevole aspirazione che a nient’altro serve se
non a far divergere il cammino. Ora è chiaro perché K. abbia detto che
«chi cerca non trova, ma chi non cerca è trovato»217, confermando con
queste parole che a parte hominis non si dà possibilità di salvezza, ma
che questa, gratis data, cade come una verticale sull’esserci giunto alla
propria autonegazione. La fenomenologia esistenziale si riduce forse
alla barthiana teologia del paradosso per cui il no umano del no divino
implica il sì della grazia?
Sarebbe certamente azzardato portare K. a queste estreme conse­
guenze anche se per quest’ultimo la fede è piegarsi dinanzi all’incom-
prensibilità della giustizia di Dio.
La fede come atto divino, la presenza di Cristo in noi è estranea a K. e
l'oltrepassamento della Todeslinie rimane assolutamente problematico.
Fgli non si preoccupa nemmeno di definire come Unità Trascendente
quella possibilità da cui dipende il fondamento e la salvezza dell’esser-

2 12 Betrachtungen, cit., pag. 44, n. 50.


13 Ibid., pag. 54, n. 109.
214 «Erbarme dich meiner, ich bin sündig bis in alle Winkel meines Wesens» Tagebücher, cit.,
pag 508. È qui che K. ironizza amaramente sulla sua «arme Dialektik».
.’ 15 Betrachtungen, cit., pag. 41, n. 16.
.’ 16 Ibid., pag. 47, n. 69.
217 loc. cit.

75
ci. Kafka tematizza, proprio per l’impossibilità di delineare l’arco della
redenzione, il fatto tragico che si nasconde sotto quest’ultimo enigma:
e si ha un’angoscia di chi si abbandona con entusiasmo al proprio per­
secutore218, un’angoscia più abissale di ogni altra che è forse - dice K.
- la parte migliore di se stesso219.
La fenomenologia del bisogno metafisico porta alla visione del mon­
do sub specie mortis220 ed è per questo che egli pone nella morte quella
possibilità di salvezza, nella morte come liberazione e insieme come
castigo. La idea semita di un Dio giustiziere è contaminata dalla crudel­
tà luterana di un Dio implacabile.
La possibilità spirituale sta certamente nella giustificazione della propria
vita (o della propria morte), ma questa giustificazione non è nient’altro che
la morte stessa, che è castigo (giudizio sommario) e grazia (liberazione).
«Solo la nostra nozione del tempo - così egli scrive221 - ci fa parlare di
giudizio ultimo, mentre è del giudizio sommario che si tratta».
Con una specie di lugubre compiacenza (ma non v’è gran distanza
tra l’atroce Bejahung nietzschiana che accetta anche l’eterno ritorno) e
questa esasperazione ebraica della condanna carnale, K. ci dà spesso lo
spettacolo della sua esecuzione sommaria.
«Continuamente la rappresentazione di un largo coltello da salumie­
re che rapidissimamente e con meccanica regolarità entra dal fianco in
me e taglia fette assai sottili le quali, a causa del veloce lavoro volano
via quasi arrotolate»222. «Stamani, per la prima volta da lungo tempo, di
nuovo la gioia di immaginare un coltello girato nel mio cuore». «Una
vecchia grande spada da cavaliere con l’elsa a forma di croce era infila­
ta nella mia schiena fino all’impugnatura... »223.
«La sua mano contro la mia gola» dice K. parlando dell’angoscia,
di «questa» angoscia, in una lettera a Milena224, e si dipinge come quel
«folle Diogene» che prega Alessandro di scostarsi e lasciarlo esposto ai
raggi implacabili del sole, di un sole «invariabilmente bruciante tale da

218 «Metaphysisches Bedürfnis ist nur Todesbedürfnis», Tagebücher, cit., pag. 275.
219 Tagebücher, cit., pag. 305
220 Ibid., p&g.YYl.
221 Ibid., pag. 457, ma cfr. anche ibid., pagg. 312, 530, 577.
222 Lettere a Milena, pag. 127.
223 Ibid., pag. 158.
224 Lettere a Milena, cit., pag. 127.

76
farlo impazzire»225. Così con quello stesso sudore d’angoscia K. suppli­
ca di essere giustiziato dalla Verità che è un sole nei cui raggi terribili
si torce e si denuda lo spasimo umano.
Questa «verità» accecante dinnanzi alla quale unica nostra «arte»
è quella di lasciarsi accecare: «la luce smorfia del viso che rilutta»226,
questa Verità ci ricorda la Necessità spinoziana che bisogna aequo ani­
mo ferre e di fronte alla quale non vale ridere, lugere, detestarsi, quella
crudele Beatitudine che - secondo Chestov227 - da Socrate, a Nietzsche,
a Kierkegaard costituisce la triste filosofia dell’accettazione ed è la «be­
lila qua non occisa homo non potest vivere».
La morte è dunque il castigo stesso della liberazione-, «La felicità
consisteva in questo, che veniva il castigo ed io libero, persuaso e felice
gli davo il benvenuto: uno spettacolo che doveva commuovere gli Dei e
anche questa commozione degli Dei io la sentivo fino alle lacrime»228.
E Kafka invoca questo «Tribunale invisibile»229 che nasconde un Dio
crudele230, ma tuttavia il suo grido implorante è diretto a lui affinché
prenda questo «intreccio di follia e di dolore»231, lo prenda nelle brac­
cia, cioè nell’abisso («Nimm mich auf in deine Arme, das ist die Tiefe,
nimm mich auf in die Tiefe, weigerst du dich jetzt, dann später»)232. E
dunque la morte la nostra salute, ma non questa233 poiché questa è sol­
iamo una fine apparente che causa un dolore reale234.
Se la morte è il castigo della liberazione dovrà essere anche la libe­
razione dal castigo: sono queste due possibilità che si implicano para­
dossalmente nel fatto stesso della morte.
«Non è contraddire il presentimento di una liberazione definitiva (ei­
ner endgültigen Befreiung) se, il giorno successivo, la prigionia rimane
ancora immutata o se addirittura si incrudelisce, o se espressamente si

225 Ibid., pag. 243.


226 Betrachtungen, loc. cit.
227 Chestov, Il sapere e la libertà, Bocca, Milano, 1943, pag. 201.
228 Tagebücher, cit., pag. 546.
.'29 «Ich habe immerfort eine Anrufung im Ohr: «Kämest du unsichtbares Gericht!», Tagebücher,
cit., pag. 31.
2 10 «Ist Gott ein theatralischer Triumphwagen», Tagebücher, cit., pag. 522.
211 «Geflecht aus Narrheit und Schmerz», Tagebücher, cit., pag. 505.
2 '2 Ibid., loc. cit.
213 Das vierte Oktavheft, cit., pag. 123.
2 14 Ibid., pag. 122.

77
dichiara che essa non deve mai cessare. Tutto questo può piuttosto es­
sere il necessario presupposto della liberazione definitiva235.
Ci si può affidare alla morte come alla grande giornata del perdo­
no236. V’è dunque un filo di assurda speranza al quale si aggrappa l’uo­
mo che, anche se non c’è una redenzione, vuole essere degno di ciò ad
ogni istante: può darsi, se la morte è soltanto il passaggio da una cella
all’altra, che qualcuno fermi il prigioniero nel momento in cui viene
effettuato il cambio di sede per dire agli invisibili guardiani: «Costui
non dovete rinchiuderlo di nuovo. Viene con me»237.
Morte-giustizia-grazia sono forse l’ultimo aspetto, e il più paradossa­
le, di quel prospettare la possibilità di una giustificazione al nostro es­
serci che costituisce il fondamento della nostra più propria possibilità.
Ciò che è più opprimente sta nel dover sopportare la certezza del­
l’eterna ed unica giustificazione della nostra condizione temporale238 239 e
in questo appunto sta la fede, ma la fede è un naufragio umano che non
approda alle sponde della Grazia poiché questa riposa nell’oscuro enig­
ma della nostra morte come punizione e liberazione insieme.
La disperazione di voler essere disperatamente se stesso non coincide
mai con la propria assoluta autonegazione: per questo la tematica religio­
sa di K. non può essere in definitiva portata sulle posizioni kierkegaardia-
ne-barthiane, ma rimane ancorata alle sue irriducibili antinomie.
La passività dell’esserci dinanzi alla sua giustificazione extra-tempo­
rale non è mai assoluta in K. poiché la struttura attivistica della possibi­
lità umana non scompare mai del tutto di fronte a quella della possibilità
divina accessibile attraverso la fede.
Ecco la ragione per cui K. tematizza in altro modo l’atto della cre­
denza, come la liberazione in se stesso dellTndistruttibile che è più
esattamente liberarsi o meglio ancora essere indistruttibile, in definitiva
essere assolutamente. «Glauben heisst: das Unzörstbare in sich befreien
oder richtiger; sich befreien, oder richtiger, unzörstbar sein, oder rich­
tiger: sein»™. È questa l’oscura cabala dell’individualismo assoluto -
assalto che viene a suo modo dal basso - per cui il Messia verrà allorché
nessuno annienterà più la possibilità di questa fede e non tollererà que-

235 Tagebücher, cit., pag. 541.


236 «Grösser Versöhnungstag», Tagebücher, cit., pag. 534.
237 Betrachtungen, cit., pag. 40, n. 13.
238 Betrachtungen, cit., pag. 52, n. 99.
239 D.d.Okt., cit., pag. 89.

78
sto annientamento: dunque quando le tombe si apriranno. Allora si avrà
la resurrezione del Mediatore all’interno di ogni uomo particolare (der
Aufstehung des Mittlers im einzelnen Menschen)240.
Si tratterebbe dunque di realizzare quell’Essere (Esistenza) che è in
noi come possibilità, ma non è a questo punto la Fede un riproporre
\'azione sul piano dell’Esistenzialità autentica?
Rimane il fatto che la meditazione kafkiana non evade oltre le sue
paradossali divergenze e acquista un suo caratteristico significato solo
se si resta fedeli alla struttura di questa problematica che afferma l’Esi­
stenza come «possibilità» aporeticamente fondabile. Le considerazioni
ili Kafka che abbiamo esaminato attraverso i loro punti salienti, i loro
inestricabili nodi, portano conclusivamente alla visione dialettica di
quella possibilità che al di là dello scacco si ripropone come necessità
ili essere sempre degno di una redenzione anche se questa non è data241,
necessità di «servire con tutto il cuore»242, di obbedire anche se non
siamo di fronte a nessun comando243: esistenziarsi dunque, attraverso la
rottura dell’esserci244, che è forse la base esclusiva, anche se estrema­
mente precaria, di ogni possibilità.
E questa fedeltà al proprio destino, questa Standfestigkeit, questa sal­
dezza, quella per la quale non si intende l’evoluzione come un Nach-
cìnemandern-Stern-Wollen (un voler andare su un’altra stella) la parola
conclusiva che cogliamo da una pagina del diario di K. come l’espres-
sione più semplice e forse più sublime della sua dolorosa umanità: «Mi
basterebbe star ben vicino a me stesso; mi basterebbe poter concepire il
posto dove sto come un posto diverso»245.

'IO Ibid., pagg. 88-89.


' 11 -Wenn auch keine Erlösung kommt, so will ich doch jeden Augenblick ihrer würdig sein»,
Tagebücher, cit., pag. 249.
’ I.' “Die Möglichkeit, aus voller Brust zu dienen», Tagebücher, cit., pag. 574.
' 1.1 Tagebücher, cit., pag. 358.
' I I «Schematisch ist es so, in Wirklichkeit sind Gegenkräfte da, nur um eine Kleinigkeit-die
leben-und qualerhaltende Kleinigkeit-weiniger wild als jene, ich der beiden Opfer». Tagebü­
cher, cit., p. 556.
’ 15 Tagebücher, cit. pag. 561.

79
Per un’interpretazione di Franz Kafka
J246

«Strega! - grido voltandomi indietro, mentre lei rientrando in negozio


agita una mano nell’aria fra lo sprezzante e il soddisfatto - Strega! Non
t’ho chiesto che una palata dell’ultima qualità e tu non me l’hai voluta
dare. E con ciò mi sollevo verso le regioni delle Montagne Gelate per
non tornare mai più».
Così termina quel racconto incantato e triste, sottile e terribile che è
Il cavaliere del secchio, questa figura innaturale che la fame rende così
stranamente leggera e che in una gelida e chiara mattina invernale esce
di casa, cavalcando il suo secchio, in cerca di un po’ di carbone per
sopravvivere. Se v’è un segno, diremmo tonale, che all’analisi critica
chiarisce fin da principio il fondo dell’emozione realistica nell’opera
kafkiana, questo segno penetrante e sottolineante in modo egregio lo
essenziale, è un’atmosfera rarefatta, di estrema e tagliente geometria:
questa raggelata costante emotiva della prosa kafkiana è una specie di
invernale incantesimo in cui tutte le cose appaiono nette e cristalline,
immobili e trasparenti: la purezza di questo disegno anche se ha un suo
alone spettrale conferisce alla solidità d’impianto dell’opera un senso
di strana e assurda leggerezza. Non dimentichiamo quanto ebbe a dire
Lukàcs a questo proposito: «Questa onnipresenza del realismo si con­
ferma naturalmente soprattutto nei particolari, basta pensare a Kafka
dove il più inverosimile, il più irreale appare come reale in virtù della
forza suggestiva dei particolari».
Inverno e fame, dunque, sono lo scenario di questo Cavaliere del sec­
chio, lo scenario di un’esistenza che, come quella dello stesso Kafka,
pare bilanciarsi tra contrari equilibri, sotto la spinta di forze contrastanti
che insieme la sorreggono e la tormentano.
Come il Cavaliere del secchio vola a mezz’aria tra il terreno e le nubi,
tra la strada e l’aperto cielo, così Kafka si lacera tra due rive, tra due sen­
timenti contrastanti, tra due orizzonti che potremmo definire, per usare
una terminologia utile forse al caso nostro, Vesserei e l’esistenza. E che
così possano e debbano essere intesi questi opposti e antinomici campi di
realtà è lo stesso Kafka a suggerircelo esplicitamente in quei brevi e afori-

246 Prima parte del saggio apparsa ne «La posta letteraria» del Corriere dei Ticino, anno VI - N.
5 - Lodi, 5 Marzo 1960 (N.d.C.).

80
stici scritti extra-narrativi che vanno sotto il nome di «Considerazioni sul
peccato, il dolore, la speranza e la vera via» i quali, con le «Meditazioni»
degli anni 1917-1919, gli Otto Quaderni in ottavo e i diari coevi, formano
10 sfondo e la preistoria dell’intera opera kafkiana.
Cerchiamo di determinare questi due stati che non sono, come ri­
tiene il Tauber, due «campi dell’essere» (espressione questa piuttosto
approssimativa e anche inesatta, come si vedrà in seguito, andando in
fondo alla questione) ma invece quello dell’esserci e dell’esistenza.
L’esserci è l’approfondimento della parola essere, poiché l’essere (sein)
è anche sempre esserci (Dasein), vale a dire non semplicemente essere,
ina essere qui e ora, appartenenza cioè a un essere così determinato. La
qual cosa, in altre parole, significa appartenenza dell’essere a quell’es-
serci che esso è, in quella costitutiva finitudine che è appunto il limite
dell’esserci come tale. Questo dice Kafka: «La parola essere significa
in tedesco due cose: esserci e appartenenza ad esso».
Questa situazione dell’esserci è un dato ineliminabile, è la realtà
«senza aggiunte», una dimensione «chiusa» - senza uscite - è quello
che Kafka chiama «stato di tormento», la sua miseria, il suo «nulla», «il
poveruomo che sono».
Il carattere di questa struttura «data» è quello dell’abbiezione, del­
l’abbandono: «abbandonato non dagli uomini» - diceva in una pagina
di diario del ‘22 - «ma da me in rapporto agli uomini, dalla mia forza in
relazione agli uomini...» («L’amore per me non ama te»).
È questa la sua assoluta lontananza dalla vita, dagli altri, dalle leg­
gi, dai comuni dolori. È questa la sua assoluta «esitazione prima della
nascita», un non-essere-ancora, un nulla bruciante che pesa come un
marchio. Un nulla che tuttavia si muove, cerca, e - soprattutto - soffre.
È una non-partecipazione alla vita - osserva Kafka citando un passo
dei Veda - «di questa vita nel mondo sarò partecipe soltanto finché non
sarò redento e poi morirò». È situarsi di fronte alla natura, «agli occhi
della malvagia», dinnanzi a un sistema di relazioni sociali (la famiglia,
11 lavoro, la cultura religiosa tradizionale, ecc.) che non hanno un senso,
che hanno perduto il loro «senso». A questo mondo Kafka si sente ter­
ribilmente estraneo, anche se vi è terribilmente legato.
Egli è cittadino di due mondi: il suo sta a quello di tutti gli altri come
un deserto ad un terreno messo a coltura. La solitudine kafkiana è quindi
ad un tempo dannazione e vocazione, libertà e schiavitù, quella schiavitù
che si ritrova in fondo alla libertà stessa («Se hai seguito una volta il suo­
no illusorio del campanello notturno, non c’è più scampo per te»).

81
L’esserci è sempre un esserci singolo, una prospettiva sul mondo
irriducibile alle altre, ma è anche l’uomo disumanato delle società ca­
pitalista e imperialista, l’uomo ridotto a cosa dalla società borghese, lo
uomo massificato e quindi totalmente estraniato a se stesso, quell’uomo
che è diventato il durchschnittmensch, l’uomo medio, quotidiano, una
specie di ebreo errante senza Dio né patria. Quest’uomo è il risultato di
una diaspora che non è soltanto religiosa, è confinato in un ghetto che
non è soltanto quello degli ebrei.
Smembrato da quei conflitti che partecipano di un’età che ha dato
all’Europa l’Espressionismo, anche Kafka è il figlio in lotta con il pa­
dre (cfr. per es. «Il figlio» di Hasenclever), una generazione in lotta
con le altre; anche Kafka assume in sé molto di quella tragica emble­
matica dell’Espressionismo, anche se non condivide di esso lo slancio
apocalittico ed è salvato da una classica «misura» di fronte all’urlo di­
rompente e suicida. Tuttavia una dinamica irrazionale scende anche nei
protagonisti della sua narrativa, dibattendosi nelle regioni ancestrali del
subconscio che diverranno dominio della psicanalisi, e approfondendo
quel delirio in sordina, dell’io, destinato a diventare furore iconoclasta.
La solitudine di Kafka è dannazione - abbiamo detto - e vocazione insie­
me. Dannazione poiché implica una costrizione a restare «alla vigilia del­
la nascita» e quindi a girare per le strade del mondo e a parlare con gli uo­
mini senza che la parola riesca mai ad essere «comunicazione», senza che
rincontro possa diventare mai una «partecipazione». Dannazione perché
è in fondo invidia di quella «infinita, calda, profonda felicità redentrice
di star vicino alla cesta del proprio bambino, di fronte alla madre». Qui
- osserva Kafka - c’è un po’ del sentimento che dice: «Tu non conti più
a meno che tu lo voglia. Per contro il sentimento di chi non ha figli dice:
Tu conti sempre - volere o no - ogni istante sino alla fine, nello strazio dei
nervi, sempre tu conti e senza risultato. Sisifo era scapolo».
Dannazione e chiusura che si ribadiscono ancora in parole come que­
ste: «Senza antenati, senza nozze, senza discendenti, con una voglia sel­
vaggia di antenati, di nozze e di discendenti, ma troppo lontano per me».
La bestia è l’immagine simbolica di questa solitudine e la tana è il
suo ambiente naturale. La solitudine di Kafka è quella bestia nella tana.
E questa bestia è un ibrido, è specie individua.
Ma questa solitudine è anche - abbiamo detto - vocazione. «Sono un
uomo chiuso, taciturno, poco socievole, malcontento - scriverà Kafka
in una pagina del suo diario - senza che ciò costituisca per me un’infe­
licità, perché è soltanto il riflesso della mia mèta». E ancora «Io devo

82
stare solo, ciò che ho fatto finora è tutto effetto della mia solitudine.»
«Tu sei un compito non un discepolo, né da vicino, né da lontano».
Quella appartenenza all’esserci che è da sempre, importa dunque una
volontaria segregazione, un tragico e disperato «essere per sé» («Sisifo
era celibe»). Ma colui che vive con l’ambiente - dirà ancora Kafka - (il
contemplativo cioè) s’attacca alla cosa viva, cerca di prendere il vento.
«Costui cerca negli altri un appoggio, rendendosi lui stesso un appog­
gio per gli altri.» Ma lo spirito non diviene libero «se non a partire dal
momento in cui cessa di essere appoggio».
Da questo rifiuto di «prendere il vento», da questo fondamentale im­
pegno ad essere per sé, fuori di una chiesa, di un’istituzione collettiva,
di una gerarchia prestabilita di valori, di una tradizione, di una strada
già segnata... scaturisce la libertà per l’esistenza, la disponibilità per
la liberazione dell’esserci, disponibilità, responsabilità, scelta e rischio
che possono essere premesse per l’edificazione di un valore e di una
società autentica in cui sia possibile una «comunicazione», un’integra­
zione vivente di ciascuno degli altri.
Alla solitudine, che porta con sé il sentimento della «colpa» e quin­
di l’angoscia della propria indegnità, l’angoscia del proprio non-amo-
re, del proprio inverno - angoscia che forse ha origine sociale, più che
strettamente religiosa - sottentra dunque la solitudine come segno di
una vocazione, di un compito, come sigillo dello spirito.
È a questo punto che potremmo delineare i tentativi per rompere il
cerchio dell’esserci, tentativi cooriginari dell’esserci stesso, tentativi
che mirano a dare un fondamento a quel «nulla» che è Tesserci, un fon­
damento di valore che risolva in sé il non-valore dell’esserci. Sarà questo
materia di un prossimo articolo: per ora ci limitiamo ad anticipare che il
fondamento dell’esserci è per Kafka resistenza o meglio Vesistenziarsi.
Tuttavia tale fondamento è anche un non-fondamento, un’impossibile-
possibilità, una chiusura che blocca, volta per volta, ogni possibilità di
apertura. Che cosa rimarrà infine? È dunque l’assoluto nullismo o l’asso­
luta disperazione la posizione conclusiva di Franz Kafka?
In realtà in lui non esistono posizioni «conclusive», il «senso» della
sua ricerca è sempre fenomenologicamente «aperto» a nuove soluzioni
e in perenne equilibrio dinamico. Proprio riconducendosi a quell’esser-
ci tagliato fuori dalla verità e dalla salvezza, Kafka troverà tuttavia la
premessa dell’una e dell’altra in una specie di stoicismo dell’arte o veg­
genza o osservazione realistica dei fatti e sarà in ciò che Kafka sentirà
esaurirsi il proprio compito umano.

83
II247

Questa nostra analisi è dunque fenomenologica perché enuclea dal con­


testo degli scritti kafkiani utili sotto questo riguardo (considerazioni,
meditazioni, diari, ecc.) i diversi orizzonti possibili dell’esistenza, -
possibili e impossibili perché il carattere di tutti questi tentativi è quello
dell’implicanza antinomica; vale a dire, ognuno di questi è legato al suo
scacco, ognuno di questi è nullificato in se stesso.
Il fondamento dell’esserci è 1’esistenza o meglio l’esistenziarsi, ma
tale fondamento è anche un non-fondamento, un’impossibile possibili­
tà, una chiusura che blocca, volta per volta, ogni possibile apertura.
Che cosa rimarrà infine? È dunque l’assoluto nullismo e l’assoluta di­
sperazione la posizione conclusiva di F. Kafka? In Kafka non esistono
posizioni conclusive, il senso della sua ricerca è sempre fenomenologi­
camente aperto a nuova soluzioni in un perenne equilibrio dinamico. Il
senso della sua ricerca è intenzionalmente aperto. Dirò di più: proprio
riconducendosi a quell’esserci tagliato fuori dalla verità e dalla salvez­
za, Kafka troverà infine la premessa dell’una e dell’altra in una specie
di stoicismo dell’arte o veggenza o osservazione realistica dei fatti che
esauriscono in fondo il compito umano di F. Kafka.
Ma su ciò vedremo meglio in seguito.
Esaminiamo dunque queste strutture esistenziali, queste forme di una
possibile-impossibile salvezza e liberazione. Ne abbiamo già studiato
le premesse in quella libertà come accettazione di una solitudine che
diventa strumento autentico di ricerca.
Niente è più raccapricciante - diceva Goethe - di una operosa igno­
ranza {Eine Tätige Unwissenheit). Infatti colui che non sa e, cionono­
stante, agisce, lascia apparire una specie di tragica ironia dietro di lui
- un po’ come l’Edipo sofocleo quando fa ricerche sulla sua origine e
ciò facendo va incontro alla propria catastrofe.
Colui che non sa e non può sapere e, ciononostante, agisce e non si
dà tregua e infine, agendo, trova una via sbagliata (ché non può trovare
vie giuste perché non sa) e l’insegue fino in fondo (in fondo c’è forse
la sua distruzione ad attenderlo), questo Edipo della narrativa kafkiana,
questo protagonista - uomo medio e non eroico - delle sue vicende, è

247 La seconda parte del saggio apparve sempre ne «La posta letteraria» del Corriere del Ticino.
nel N. 8 del 16 aprile 1960. La presente versione, tuttavia, data l’impossibilità di reperire la
copia pubblicata, si basa esclusivamente sul testo dattiloscritto conservato presso l’Archivio
Bonsanti di Firenze, (N.d.C.).

84
I autore, o meglio il rispecchiamento di una tematica tragica in cui si
racchiude la prima struttura esistenziale di quel tentativo di liberazione
di cui abbiamo già parlato. In altre parole la salvezza sta nell’agire
agire comunque, agire senza fermarsi, agire sino alla reductio ad ab­
surdum dell’azione medesima. Gregor Samsa agisce adattandosi alla
sua spaventosa situazione di bestia immonda, il procuratore K. vuole ad
ogni costo conoscere l’accusa (altrimenti come potrà difendersi), l’agri­
mensore K. vuole entrare in contatto con quelli del castello.
Ma avvicinarsi ad una mèta è perciò stesso allontanarsene, il tentare
di rendere accessibile una mèta è bloccare lo sforzo verso di essa in una
serie di conati a vuoto, di sforzi senza risultato, di impossibili dilazioni
( he non sono appropriazioni, ma parodia, parodia della ricerca e dello
sforzo, parodia dello spasimo.
La tranquillità apparente con cui si rispecchia la vicenda dell’azione,
la calma atroce con cui si descrivono tutte le sue capillari modalità, l’ele-
l.mtiasi logica del discorso (o meglio del dialogo), tutto questo costitui­
sce la maschera realistica di un assurdo. Giustamente Lukàcs osservava
( he l’arte di Kafka riesce ad essere realistica poiché essa fa emergere
sull’ondata nera del nulla tutte le cose essenziali, i particolari selezionati
secondo una visione non già naturalistica e collezionistica, bensì sintetica
c pregnante. Così è ricuperato il mondo, così, dice Lukàcs, l'incubo non
diventa mai predica. Ma non è già che nel mondo venga intravista l’alle-
goria di una soggettiva proiezione metafisica oltre il mondo a tutto danno
dunque dell’unità poetica, bensì è dall’allegoria del nulla, che insegue il
mondo come lo spettro insegue il corpo, è da questa allegoria - se si vuole
i Inumarla così - che emerge il mondo, venendo a ricollocarsi in una tra­
scendenza che pur essendo insidiata dal nulla non è mai problematizzata
ni punto da corrompere l’unità poetica.
Il Lukàcs ha messo giustamente in luce la questione del realismo
in h. Kafka, ma appunto questo realismo è poetico ed è quindi, come
lealismo, non invalidato da altre componenti decadenti poiché non già
il mondo presuppone l’allegoria, ma l’allegoria presuppone il mondo. Il
mondo di K. è un mondo compatto, la sua favola è certamente assurda,
uni non scalfisce la sua realtà. Il mondo è trascendenza ineliminabile, e
I esigenza della rappresentazione mira a debellare il nulla che intorbida
I immagine del mondo, a guarire il mondo stesso dalla sua lebbra: l’esi-
eenza del realismo kafkiano è annullare il nulla.
Ma ritorniamo ancora una volta alla prima struttura da noi esaminata.
I attivismo è dunque la prima struttura di quella possibile-impossibile

85
esistenza che è il compito di F. Kafka, un attivismo che ha radici nella
letteratura rabbinica, nello spirito del Talmud. “Noi vorremmo - dice il
Midrash al Genesi - che la vita fosse come un’ombra proiettata da un
muro o da un albero, ma essa è come l’ombra di un uccello in pieno
volo”- e nella Mishnà si legge “il giorno è corto, il lavoro considerevole,
i lavoratori indolenti, la ricompensa grande e il padrone della casa è alle
costole”. La deformatio, dal punto di vista religioso, si ha nella conce­
zione di un Dio personale, che è inintelligibile tetragramma sacro, irrigi­
dimento di un idolo spietato (Elohim e non Geova). Il Chi della ricerca
è un Bene che non risponde, un bene “desolante” un cielo muto “che ha
un’eco soltanto al muto”, un Bene assurdo, un Bene paradossale, un’Esi
stenza inaccessibile (Il Castello, La Legge dell’unità nel Processo, ecc).
Questo Bene - se vogliamo questo indistruttibile - esaspera la distanza
qualitativa che lo divide dal Male, dall’Esserci. E questo tema è certa
mente assai più protestante che ebraico, più vicino a Barth e alla teologia
dialettica e a Kierkegaard che al Talmud. Potremmo anzi dire che, quasi
barthianamente, tutti i tentativi per superare l’abisso che divide l’uomo
da Dio ritornano in ulteriori abissi che si spalancano tra uomo e Dio. Dia
attrae l’uomo respingendolo. E il dialogo - il dialogo di Giobbe avvici­
nava Dio, ma quello di Kafka lo allontana smisuratamente perché è un
dialogo indiretto, un dialogo cogli uomini in funzione forse di un dialogo
con Dio - il dialogo dunque è uno dei mezzi del male - dirà Kafka. Cosa
fanno i personaggi di Kafka se non fare domande e avanzare risposte
inutili, sempre, disperatamente inutili? Questa modalità dell’attivismo (il
dialogai come pure l’altra, la lotta (la seduzione del male è un invito alla
lotta) o l’altra, l’impazienza (a causa dell’impazienza essi non ritorneran­
no mai nel paradiso terrestre), non sono dunque che titanismo dinanzi al
Chi della ricerca, titanismo dinanzi alla trascendenza di questo Chi.
Credere all’indistruttibile in sé senza aspirarvi: questo, dice Kafka, sa­
rebbe la possibilità della gioia. Nella tematica attivistica rientra anche il
tema del messaggio che non può essere mai recapitato perché nessuno
ha voluto essere destinatario, vale a dire re, ma tutti messaggeri di re. I
quindi tutti si urlano reciprocamente un messaggio diventato insensato.
Diversamente da Barth e da Kierkegaard, Kafka non può opporre hi
fede e il salto qualitativo a questa incolmabile distanza tra l’uomo e la
trascendenza. Alla fede Kafka sostituisce l’attesa - l’attesa messianica
- che potrebbe costituire dunque un’altra possibile struttura esistenziale,
attesa peraltro assurda perché priva di un centro di gravità scritturale
come accadeva nell’ebraismo. In questa attesa (fede negativa) si so-

86
pende l’azione e ogni tentativo di salvezza, in questa attesa si cancella
ogni presunzione di merito nei riguardi della salvezza proprio perché
dice Kafka “chi cerca non trova, ma chi non cerca è trovato.”
Nell’attesa si inserisce il tema messianico, ma questo è un viaggio
»enza fine verso la terra di Chanaan, e la deformazione della tradizione
I liassidica del padre che attende il figlio diventa in K. l’attesa del ales­
aggio dell’imperatore. “L’imperatore ha inviato a te, singolo misera­
bile suddito, ombra minuscola fuggita nelle più remote lontananze, via
il » II’ammaliante sole imperiale, a te proprio a te, ha inviato un messag­
gio dal suo letto di morte...”
l utti gli sforzi per raggiungere questo umile destinatario risultano
vnni: le difficoltà sono immense e insormontabili anche se per avven­
ni! a il messaggero fosse un uomo forte, tenacissimo, instancabile. E
Impossibile attraversare la città imperiale “il centro del mondo in cui si
addensa tutta la sua feccia” senza contare poi che il messaggio è quello
■ li un morto. “Ma tu stai seduto presso la tua finestra e sogni quel mes-
•.aggio quando viene la sera”.
Paradossalmente Kafka ironizza tristemente sulla venuta del Messia.
( ustui verrà - egli dice - quando non sarà più necessario, non verrà che
il giorno dopo il suo arrivo, l’ultimissimo.
Ancora una volta dunque l’implicanza antinomica inerente alla strut-
luia esistenziale blocca la possibilità di fondare esistenzialmente l’es-
serci, di dargli cioè un fondamento in un essere soprasensibile (Bene) o
in un Dio personale in cui della concezione ebraica è polarizzato Tap­
pe Ilo di un giudice implacabile.
Ma v’è ancora un tentativo, dopo quello attivistico e [quello] del­
l'attesa messianica, un “tentativo per assurdo” poiché si identifica nella
morte, come puro fatto biologico. La morte, pertanto, dovrebbe mettere
m rapporto Tesserci con la sua liberazione. Ma anche la morte non è
accesso alla beatitudine o se lo è, costituisce un varco così angusto e
impraticabile verso di essa da potersi considerare del tutto inutile a far­
li-la raggiungere. La morte infatti si modalizza come giustizia (e quindi
I mne esecuzione sommaria) oppure come puro passaggio da una situa­
zione dell’esserci ad un’altra situazione dell’esserci, passaggio che non
II induce all’esistenza. La morte costituisce in molti romanzi e racconti
ili Kafka la soluzione artistica della vicenda (Il Processo, La metamor­
fosi, La condanna e anche II Castello secondo le intenzioni dell’auto-
ie). Questa morte che è giustizia è una sete d’annientamento e di puni-
lone; per questo la rappresentazione di essa è così insistita, rinviando

87
a figurazioni lugubri e corpulente che si rifanno talora alla letteratura
talmudica. Ne prenderemo una a titolo di esempio: “Continuamente la
visione di un largo coltello da salumiere che dal fianco mi entra nel cor­
po con grande rapidità e regolarità meccanica e taglia fette sottilissime
le quali data la velocità volano via quasi arrotolate”.
Se non è una tortura definitiva o lenta, come nella Colonia penale,
la morte è un transito che non ha mai fine, un vagabondare silenzioso
e assorto la cui pena è tutta intima. Ricordiamo le parole del cacciatore
Gracco “Son qui, altro non so, altro non posso fare. La mia barca è senza
timone, naviga col vento laggiù nelle infime regioni della morte”. Qui la
morte non è una fine ed è questo il suo aspetto più crudele - dice espres­
samente Kafka - “che una fine apparente causa un dolore reale”. Dunque
la morte - dirà ancora - è la nostra salvezza, ma non questa morte. Si
muore - così - senza morire. Le lamentazioni che si fanno al capezzale del
defunto hanno per oggetto il fatto che egli non è ancora morto nel vero
senso della parola. La morte è un cambiamento di cella: può darsi anche
che il padrone fermi il guardiano per dire “Costui viene con me”. Ma la
morte come tale non è che una nuova versione dell’esserci, non è che una
lugubre variazione sull’immutabile tema, una tragica parodia della fine.
Niente dunque? Non avrà mai fine questo intreccio di follia e di do­
lore? A questo punto vediamo dunque che né l’azione né l’attesa né la
morte possono dare un fondamento all’esserci mettendolo in relazione
con l’esistenza. L’esserci rimane un limite invalicabile al di là del quale
cade nel nulla la nullificante trascendenza, e la legge stessa dell’unità
che parrebbe immanente all’esserci si rivela contradditoria come in un
sogno, più spettro di verità sognata che verità in atto.
Riteniamo però di inserire in questa nostra considerazione fenome­
nologica anche una nuova struttura che articola una tematica esisten­
ziale di tipo immanente, struttura che pur mantenendosi problematica e
per così dire priva di un preciso contenuto viene in definitiva a spiegarci
l’atteggiamento di Kafka come poeta.
Questa struttura esistenziale è la fede nell’immanenza, la fede come
atto umano in cui si propone ancora una volta l’assalto al limite, non
tanto per trascenderlo, quanto per ritrovarvi il senso dell’azione mede­
sima, della nostra appartenenza ad esso.
Credere significa liberare in sé l’indistruttibile o più esattamente li­
berarsi o più esattamente essere indistruttibile o più esattamente essere.
Credere è dunque esistenziarsi? Ma credere in che cosa?
Abbiamo detto prima di una fede nell’immanenza, di una fedeltà al li­

88
mite proprio perché Kafka parla di un individualismo assoluto della fede,
ili ima resurrezione del mediatore all’interno dell’uomo particolare come
li indizione per la venuta del Messia. È infatti l’uomo il mediatore di se
slesso ed è quindi l’uomo che annullerà il nulla e che non tollererà più
I annientamento. L’uomo è un compito in atto che ha in sé la sua stessa
autorealizzazione, l’uomo non ha contro di sé la verità, ma diviene la verità:
I ' uomo non è una via - ché una via è indugio - ma un fine, una mèta.
La positività di questo atteggiamento, che rimane imprecisato pro­
prio perché questo assalto dal basso al limite rimane per così dire sof­
focato in una ricerca e in una prospettiva, tale positività va ricercata
h e II’accettazione kafkiana della sofferenza, nel riconoscimento della
sua validità. “Non lagnarti - egli dice - affonda nel dolore”. “Il dolore
e l’elemento positivo di questo mondo, anzi l’unico collegamento di
questo col positivo”. “Anche se non c’è redenzione io voglio rendermi
degno di ciò ad ogni istante”.
I aì disperazione radicale che vede da un lato bloccata la trascendenza
nell’aporia e nel nulla, porta ad una solidificazione compatta dell’esser-
( I in cui è piantata. L’esistenza come struttura dell’esserci acquista ora
una sua dimensione, questa dimensione si inserisce bruscamente nella
v ila umana quasi a riproporre il tormento di doversi porre in relazione
( un gli altri in qualche modo, di dovere opporre allo sfacelo di una quo­
tidianità minata dal nulla, quelle testimonianze dell’arte che sono brani
di discorsi strappati al silenzio, capitoli di un’autobiografia che si dà in
icnnini di assoluta e tragica contemplazione.
“La dimensione dell’arte è una forse pericolosa forse redentrice os­
servazione dei fatti in quanto in essa si crea una specie di osservazione
superiore; e quanto più è superiore [e...] tanto più diventa indipenden-
le, tanto più segue sue proprie leggi di moto, tanto più la sua via è incal-
■ I (labile gioconda ascendente.”
L’esistenza non è quindi un dato, è la direzione originaria ad una
lealtà nella quale l’uomo può emergere dal dato, può consistere sul dato
stesso dandosi una significazione e prendendo radici nel suo mondo
modificandosi e conquistandosi. La fonte del realismo kafkiano sta in
<|ilesta veggenza del dolore che permette il superamento di quella linea
mortale in cui la stessa disperazione diventa senz’eco, sterile spasimo.
Su [di] un mondo minato dal nulla, Kafka eleva questo reticolato
\1 vente delle sue opere in cui una problematica esistenziale di tipo ori­
ginariamente religioso [che] assume la fisionomia di una problematica
del finito e che, attraverso le paradossali implicanze della prima, rinvia

89
al destino umano e alla sua prospettiva di lotta.
La possibilità di servire con tutto il cuore - di cui parla K. - è la possi­
bilità di servire la realtà e la misura di questa osservazione che è azione
(perché la realtà non si solidifica nei fatti ma prende vita e si anima e
diviene plasticamente), tale misura contemplativa costituisce in ultima
analisi quel fertile paese di Chanaan verso il quale anche il Cavaliere
del secchio naviga nelle gelide mattine d’inverno.

90
II

L’incantesimo e la logica

Nella1 città dei vecchi alchimisti e dei golem, dei rigattieri del
,'hetto e dei manichini di cera, nella città in cui sembrano ancora va-
giibondare le ombre di Rodolfo II e del Rabbi Löw nasce il 3 luglio
INK3 Franz Kafka, «uno degli scrittori fondamentali - lo si consideri
h no un realista o un mistico - del nostro secolo» (E. Fischer). Come
l.i Vienna di Schnitzler e di Kraus, di Broch e di Musil, la Praga di
k afka rappresenta il polo di una cultura mitteleuropea le cui estreme
propaggini raggiungono l’intermezzo tra i due conflitti mondiali e,
ni certi casi, addirittura l’esistenzialismo fìlosofico-letterario del se-
. ondo dopoguerra. Ma più che per Rilke e Werfel e indubbiamente
hi maniera diversa che per un Meyrink o un Kubin, Praga rappre­
senta per Kafka un paradossale crogiolo di tradizione e avanguardia,
'l'immaginazione demoniaca e di rigorosa amministrazione interiore
ilell’incubo e dei suoi paesaggi reali: proprio questa «capitale del
mistero» - mai direttamente menzionata nei romanzi o nei racconti
ili Kafka - è in essi presente come una oscura chiave problematica
i d emblematica, con le suggestioni della sua «aura stregata» e le
In/zarrie un po’ spettrali dei suoi eterni viandanti che come funam­
boli dell’irreale sembrano scivolare nei vicoli o arrampicarsi nella
i aiefatta solitudine delle sue torri.
Ma il prodigio di Kafka sta appunto nell’aver assorbito tutta questa
■ preistoria» e nell’averla trascesa con un eccezionale colpo d’ala che
lo distanzia infinitamente dalla Dekadenzliteratur della sua città natale,
■ ome pure dalle fantasie esoteriche di un Meyrink o dall’estro malinco­
nico e un po’ spiritato dei pellegrini di Čapek.

I Posto come introduzione agli scritti di Kafka editi da Garzanti a partire dal 1974, (N.d.C.).

91
L’ebraismo

Kafka proveniva da una famiglia ebrea appartenente a quell’élite be­


nestante di lingua tedesca la cui fisionomia era quella di una precaria
isola etnica incastrata neWAltstadt ai limiti del ghetto. Indubbiamente
l’ebraismo - su cui tanto insiste W. Jens - costituisce un fondamentale
termine di riferimento per intendere Kafka: a questo humus, infatti, egli
attinge la segreta forza attrattiva delle sue «rotte» inconsuete su sco­
nosciuti mari verso porti lontani e forse irraggiungibili. Nel raccontare
«per frammenti» la «storia universale» della propria «anima», Kafka
fonde acribia talmudica e parabola chassidica, misticismo rabbinico e
rituale definitivamente secolarizzato: ma accanto al «numinoso» della
leggenda va ricompresa in questo orizzonte una straordinaria capacità
radioattiva di scandaglio nelle pieghe più riposte dell’anima moder­
na. Se l’agonia dell’impero austro-ungarico può costituire in essa solo
l’orizzonte storico-sociale più immediato, altre e ben più profonde e
labirintiche sono le stratificazioni geologiche di quel mondo borghese
in cui quest’anima sembra smarrirsi fuggendo le proprie contraddizioni
attraverso nuove contraddizioni, sul filo di prodigiose o orrende meta
morfosi. Su questa soglia crepuscolare, dove il fascino simbolico del
vecchio «mantello della preghiera ebraica» si è convertito nella sug­
gestione infinita di una gnosi nichilista celata sotto il velo dell’ironia o
il compiaciuto inganno della parabola, le rovine di un mondo di signi­
ficati divenuti indecifrabili e assurdi mandano i loro stanchi bagliori a
chi, come Kafka, sta calato giù nel «pozzo di Babele» e porta su di sé
le ulcere di un escluso, il marchio dello sbandito dal mondo dei padri;
altro non resta che fecondare la propria malattia con i segni enigmatici
di una scrittura («la capacità di descrivere la mia sognante vita interio­
re») pericolosamente estranea alle forme tangibili della salvezza e della
prosecuzione carnale. Tuttavia è questo, più di qualsiasi altro, l’unico
«messaggio nella bottiglia» portato fino a noi dalle onde tempestose e
dalle mortali bonacce di un tempo in cui scrivere può essere un’arma di
lotta, m anche l’ultima forza di preghiera del non credente («Schreiben
als Form des Gebets»),

La «lettera al padre»

«Senza antenati, senza nozze, senza discendenti» annoterà Kafka nei


suoi Tagebücher (Diari), «con una voglia selvaggia di antenati, di noz

92
tc. e di discendenti. Tutti mi porgono la mano: antenati, nozze e discen­
denti, ma troppo lontano da me». Certo il tanto discusso e citato Brief
,m den Vater (Lettera al padre), scritto nel 1919, quando già da due anni
si erano manifestati i sintomi più gravi della malattia che porterà Kafka
itila tomba, può costituire Tilluminante documento di una situazione di
i un ditto con l’autorità paterna che agli occhi di un figlio ipersensibile e
già «segnato» si dilata nell’incombente e schiacciante presenza del Dio
biblico, di uno spietato Jahveh, nel cui nome assoluto e impronunciabi­
le la letteratura classica della cabbaia vede iscritto il tessuto vivente del­
la Torah. Indubbiamente sullo sfondo di questo conflitto sta quello che
oppone ad un ebraismo orientale rigidamente conservatore nel preser-
vare le forme dell’antica spiritualità rabbinica e tenacemente fedele alle
Imiti mistiche del chassidismo, un ebraismo occidentale spregiudicato
c scettico in cui il processo di assimilazione liberale-borghese ha ine-
V iiabilmente distrutto ogni legame con la stessa comunità nella quale
soltanto, per la mentalità religiosa ebraica, è possibile la salvezza. Vale
pei Kafka, in questo caso, ciò che un nostro insigne studioso, Claudio
Magris, afferma plasticamente a proposito dell’ebreo orientale Joseph
Koth: «Così si giunge a una perfetta coincidenza tra l’espatriazione del
superstite asburgico, la disintegrazione umana e religiosa deìV Ostjude
r l’incomunicabile frantumazione dell’uomo moderno - o più precisa­
mente di quello occidentale - in genere». E’ tenendo conto di questo
orizzonte più ampio che occorre guardarci dal privilegiare l’elemento
psicoanalitico nell’interpretazione di Kafka, per non cadere in quella
sorta di «lettura a rovescio», come egli stesso chiama la psicologia.

Anni di formazione

\ Praga il giovane Franz frequenta il «ginnasio tedesco» e quindi giuri-


prudenza: comincia così quella faticosa rincorsa del raggio necessario
h tracciare il cerchio - così egli esprime nel suo diario - a cui non giun-
rri à mai. «Il pianoforte, il violino, le lingue, la germanistica, l’antisio-
msmo, il sionismo, l’ebraico, il giardinaggio, la falegnameria, la lette-
i.ilura, i tentativi di matrimonio, la propria abitazione»: tutti tentativi
Iaditi in cui potremmo compendiare a grandi linee la biografia esteriore
ili Kafka. Agli anni della giovinezza e degli studi (1901-07) risale Tap­
pi mdistato letterario sotto l’influsso dei circoli praghesi, della rivista
•Der Kunstwart» e, successivamente, del Gespräch über Gedichte (Di-
-.1 orso sulla poesia) di H. von Hofmannsthal. La prima pubblicazione

93
è del 1908: si tratta di otto schizzi o scenette di vita quotidiana apparsi
con il titolo Betrachtung (Meditazione) nella rivista «Hyperion»: l’an­
no successivo sempre sulla stessa rivista uscirono i due Dialoghi (con
l’orante e con l'ubriaco) la cui stesura è del 1904-1905: si tratta di una
parte di Beschreibung eines Kampfes (Descrizione di una battaglia), il
più antico racconto di Kafka pervenutoci (M. Brod). Sono gli anni in
cui vanno nascendo le amicizie più durature e importanti (Max Brod,
Oskar Baum, Felix Weltsch). Il giovane Kafka manifesta le sue simpa­
tie per il socialismo, facendo sue le tendenze ateistiche e ribelli della
Freie Schule, ma sarà questo un entusiasmo destinato a dileguarsi ben
presto: resta in lui una radicale diffidenza per ogni effettivo rivolgi­
mento rivoluzionario, al di là del quale gli sembrerà di scorgere, già fin
troppo presto, «segretari, impiegati e politici di professione», i «mo­
derni sultani» di una società politica burocratizzata. Alla formazione
di Kafka concorreranno, in particolar modo, la conoscenza di Mach, a
cui Wagenbach ricollega - forse non a torto - «il preminente elemento
descrittivo» presente nell’opera dello scrittore fino al 1912. Oltre ad
Alfred Weber, professore di economia politica a Praga nel 1904, Kafka
si occupa (dal 1902 al 1906) di Brentano, partecipando agli incontri
del cafè Louvre e alle lezioni del brentanista Anton Marty. Non è sen­
za importanza il fatto che le Considerazioni sul peccato, il dolore, la
speranza e la vera via, composte tra l’ottobre del 1917 e il febbraio del
1918, poco prima, cioè, della lettura di Kierkegaard, debbano farsi risa
lire all’influenza del mondo analitico, di derivazione brentaniana, nella
fondazione dei giudizi etici. Ma Wagenbach, il più autorevole biografo
di Kafka, non riesce a chiarire esaurientemente in che misura questa
influenza diventi operante nell’architettura delle Meditazioni, dove la
struttura dell’intenzionalità sembra essere utilizzata per sviluppare, fino
alle sue estreme aporie, l’immanenza dell’oggetto alla coscienza (in
questo caso determinati temi biblici simbolicamente intrecciati a consi­
derazioni metafisiche e morali).

Gli interessi letterari

Un capitolo a parte della biografia di Kafka riguarda l’estensione e la


portata dei suoi interessi letterari, delle sue simpatie e antipatie: è nota
la sua ostilità al romanzo psicologico di stampo tradizionale, come pure
alle forme naturalistiche e neoromantiche. Wagenbach ha accertato il
limitato influsso della lirica (Gorge, Hofmannsthal) sullo scrittore pra

94
,diese e ricorda la spiccata predilezione di questi per la letteratura diari-
-lica o di memorie, le confessioni intime (Amiel, Byron, Hebbel, Grill­
parzer, i Colloqui di Eckermann) e gli epistolari (Goethe, Grabbe, Van
( iogh). Ad essa fa riscontro la diffidenza per l’avanguardia in genere
(si pensi a scrittori come Döblin, Becher, e, in parte almeno, Werfel),
nonché la fondamentale estraneità all’ambiente letterario praghese e ai
.noi tumultuosi tentativi d’evasione dal «ghetto linguistico» (Wagenba-
. li). All’ammirazione, e direi quasi al culto, per Goethe si accompagna
l'amore per i maestri dello stile come Flaubert, o per quegli scrittori,
. onie Kleist, Strindberg, Dostoevskij o Robert Walzer, che lasceranno
le loro tracce nell’evoluzione dello scrittore.
('onciusi gli studi giuridici Kafka inizia in modo stabile, nel luglio
1908 (sono dell’anno precedente gli Hochzeitsvorbereitungen auf dem
I unde, Preparativi di nozze in campagna), le proprie esperienze profes­
sionali presso l’istituto di assicurazioni di infortuni sul lavoro di Praga.
Viaggia in Italia settentrionale con l’amico Brod, a Parigi, in Svizzera, a
I ipsia e a Weimar. Intanto, nel 1910, comincia i Diari. In quello stesso
unno si definiscono nettamente gli interessi per la letteratura jiddish, a cui
m aggiungerà più tardi (1911-12) lo studio della mistica e del chassidismo
ebraico-orientale. Dall’ottobre al novembre del 1912 viene scrivendo le
parti più importanti del romanzo Der Verschollene (Lo scomparso), che
verrà pubblicato nel 1927 con il titolo Amerika (America). Il primo capi­
li ilo di questo romanzo appare nel maggio 1913, con il titolo Der Heizer
ill fuochista), nella collana «Der jügste Tag» di K. Wolff.

«America»

Solto l’imitazione dickensiana (David Copperfield), espressa nella vi-


I cnda del sedicenne Karl Rossmann fatto emigrare dai genitori negli
Siati Uniti, America nasconde i temi centrali della problematica kafkia­
na: la colpa senza colpa, la metamorfosi come distacco, l’esperienza
ilei rapporti interumani assoggettati all’arbitrio e alla prevaricazione dei
putenti e sempre sfuggenti nelle loro ambigue motivazioni. Ma a diffe-
lenza di molti personaggi, come Josef K. di Der Prozess (Il Processo),
il kossmann del romanzo americano è quel singolare «innocente» la
I ni colpa si ribalta, per così dire, nella disarmata estraneità interiore
itila macchina micidiale del mondo capitalista (Emrich) o si esprime nel
soggiacere alle oscure suggestioni dell’inconscio (Politzer). A proposi-
lo delle implicazioni critico-sociali dell’opera è stato giustamente rile-

95
vato (Goldstücker) che in Rossmann s’incarna la condizione di quelle
generazioni dell'isola ebraico-tedesca di Praga a cui il tramonto della
fase ascendente del capitalismo toglieva, per così dire, il terreno sotto
i piedi. Nell’episodio del fuochista risulta evidente l’analogia Kafka-
Kleist proprio in ordine al tentativo, comune a entrambi, di staccarsi
dalle illusioni e dalle contraddizioni del proprio status sociale mercé un
approdo liberatore alla classe subalterna. Nel caso di Kafka, quest’aper­
tura, presente anche nella figura dell’agrimensore K. di Das Schloss (Il
Castello), verso il proletariato, prefigurato appunto nel fuochista, si sal­
da strettamente - sempre secondo Goldstücker - all’orrore di un mondo
disumanizzato che la statua della Libertà, troneggiante al limitare del
porto di New York, lungi dall’occultare, mette sinistramente in evi­
denza. Anche il teatro naturale di Oklahoma, con cui l’ultimo capitolo
(secondo Brod, ma non Loose) del romanzo sembra indicare una sorta
di soluzione utopica, è visto, in antitesi alla dinamica brutalmente pre­
varicatrice della società borghese, come quell’«ideale comunità umana»
(Loose) in cui ognuno potrà finalmente, attraverso un lavoro divenuto
gioco, realizzare se stesso. Il tema utopico di una società non più go­
vernata dall’ideologia del possesso è chiaramente presente nelle forme
comunitarie d’esistenza descritte in Beim Bau der chinesischen Mauer
(Costruzione della muraglia cinese) e in Josephine, die Sängerin oder
Das Volk der Mäuse (Giuseppina la cantante ovvero il popolo dei sorci).
All’autunno 1912 risalgono anche i due primi grandi racconti di Kafka:
Das Urteil (La sentenza) e Die Verwandlung (La metamorfosi).
Kafka trascorre la sua vita come un lungo esilio o un terribile indugio
prima della nascita: non vive, come Klee, nell’eremo cosmico dei «non
nati», ma dietro un tavolo d’ufficio, con il sorriso freddo e vuoto di chi
veglia atroci notti, lottando contro l’emicrania e gli incubi di un’immagi­
nazione implacabile.

«Il Processo»

A questo eterno vagabondaggio prima della nascita - e anche prima


della morte come avviene in Der Jäger Graccus (Il cacciatore Gracco)
- corrisponde nel Processo (scritto in gran parte nella seconda metà del
1914) il paradosso di una legge che - scrive Kafka in Vor dem Geset:
(Intomo alla questione delle leggi) - è nota esclusivamente a coloro
che stanno fuori della legge stessa. Per altro verso, chi non la cono­
sce è sempre e comunque colpevole e non può sottrarsi al suo rigore.

96
• Vedi, Willem», si legge all’inizio del Processo, «costui ammette di
non conoscere la legge e al tempo stesso afferma di essere innocente».
Volersi dimostrare a tutti i costi innocente, cercare una difesa del resto
assurda, perché i giudici ti condanneranno sulla base delle tue stesse
parole, quasi fossi tu a evocare il castigo, non fa altro che ribadire una
colpevolezza che al di là dei suoi teologici paradossi e dei suoi demo­
niaci e apocalittici fondali ebraico-tedeschi, trova la sua radice nella
slessa condizione esistenziale del borghese deliberato a sfuggirsi attra­
verso una selva di autogiustificazioni e di presunte certezze (Emrich).
Si è detto che II processo è la proiezione di quei fantasmi assetati di
angue e di distruzione di cui Kafka parla spesso nei suoi diari, ma è
altresì esatto affermare che questo romanzo ci consente di penetrare
nella torbida atmosfera del mondo capitalista più di quanto sia riuscito
a lare il Mann dei Buddenbrooks (Goldstücker). E questo è possibile
proprio perché esiste una degradante solidarietà tra lo stesso Josef K. e
I suoi inaccessibili giudici, all’interno della quale il labirinto della co­
scienza s’aggroviglia fino a sommergere la nozione stessa della colpa.

«Un medico di campagna»

Agli anni successivi alla stesura del Processo risale la composizione


di importanti racconti, che verranno in parte pubblicati nel 1919 con
il titolo Ein Landarzt (Un medico di campagna). Abbandonata Praga
nel settembre del 1917, Kafka si trasferisce a Ziirau presso la sorella
( )ttla: nei sei anni successivi le peggiorate condizioni di salute lo co-
'.ti ingeranno a periodi di cura da un sanatorio all’altro. Intanto rompe
definitivamente il fidanzamento con Felice Bauer, alla quale era stato
unito, con alterne vicende, dall’agosto del 1914. Della relazione con
Milena Jesenskà, conosciuta a Merano nel 1920, resteranno le splen­
dide lettere Briefe an Milena (Lettere a Milena), pubblicate nel 1952.

«Il Castello»

Dal gennaio al settembre del 1922 Kafka lavorò al Castello. La po-


lulimensionalità di questo romanzo ha dato luogo a molteplici e an-
I he divergenti interpretazioni: lo si è letto, infatti, in chiave teologica,
psicologica, sociologica e si è cercato di determinare univocamente il
significato del «castello» (la trascendenza rispetto alla comunità umana
del villaggio, la sede del male in senso manicheo, la grazia o la potestà

97
divina). Così pure si è visto nella stessa professione del protagonista,
l’agrimensore (Landvermesser) K., un’allusione all’insensatezza e alla
temerarietà di quel suo voler misurare (vermessen) una distanza incol­
mabile. Al castello - che è un «labirinto» (Pongs) - K. non arriverà mai:
non potrà far altro che girarvi attorno in una sorta di circolo insensato.
Il romanzo, incompiuto, avrebbe dovuto concludersi - secondo la testi­
monianza di Brod - con il permesso accordato all’agrimensore, ormai
agonizzante, di soggiornare nel villaggio.
Solo nel 1923, un anno prima della morte, la dolorosa esistenza di
Kafka sembra rischiararsi nell’amore di Dora Dymant, una ventiduenne
ebrea polacca, e sarà in questo periodo di relativa serenità che nascono
le ultime opere: Der Bau (La tana) e Giuseppina la cantante ovvero il
popolo dei topi.
Intanto, sin dal settembre del 1923, Kafka si è trasferito a Berlino
e continua la pubblicazione dei suoi racconti: l’ultimo a uscire è Ein
Hungerkünstler (Un artista del digiuno), apparso nel 1922 sul fascicolo
d’ottobre della «Neue Rundschau».
Ricondotto dall’amico Brod, nel marzo dell’anno successivo, a Praga, a
causa dell’aggravarsi del male (tubercolosi alla faringe), il grande scrittore
boemo morirà il 3 giugno 1924 nel sanatorio di Kierling presso Vienna.

98
Cosa sono i simboli per Franz Kafka?2

Sappiamo quanto sia difficile entrare nel mondo poetico di Franz Kafka:
molte delle interpretazioni che si sono avute fino ad oggi si sono rivelate
in contraddizione tra loro, oppure un enigma nell’enigma, o addirittura
superficiali. Spesso l’interprete ha creduto di vedere troppe cose e si è
niarrito, altre volte ha finito per sovrapporre le sue personali concezio­
ni filosofiche o filosofico-religiose sul testo studiato e ha “inventato” un
ideale filo conduttore per orientarsi. Contro l’abuso delle interpretazio­
ni in chiave esoterica o filosofico-esistenziale o teologizzante ha certo
reagito la critica di stretta osservanza filologica, come quella abbastan­
za recente di Friedrich Beissner il quale testualmente scrive “La diffe-
imi/.a dell’interesse e del metodo consiste nel fatto che tali interpreta­
zioni (quelle filosofiche, sociologiche, religiose, ecc.) concepiscono la
poesia solo come notizia o testimonianza del comportamento spirituale
del poeta, della sua epoca, della sua nazione e la mettono in relazio­
ne con altre documentazioni dello spirito del tempo, mentre invece il
biologo non vuole svalorizzare la parola, la parola nella sua precisa
i ontìgurazione riducendola al guscio subito buttato via di un cosiddetto

i i mtenuto concettualmente afferrabile, bensì indugia su di essa e pone

hi questione del suo valore espressivo”3.


Indubbiamente questa reazione filologico-estetica contro gli eccessi
delle interpretazioni troppo dotte e a modo loro unilaterali non è priva di
una sua intrinseca validità e sarebbe bene che la si tenesse presente per
evitare il soffocamento esegetico o la congestione erudita. A mio parere
i ti correrebbe temperare i due metodi o meglio rendere il metodo di tipo
i < »iitenutista funzionalmente aderente a quello filologico-estetico, met-
ii lido in chiaro la loro intima corrispondenza e complementarità, così
clic ogni analisi estetica venisse a ricevere un solido punto d’appoggio
ni traverso quella delle idee sottostanti alla scrittura e inversamente la ri­
flessione sui significati di quest’ultima non venisse dissolta in una pura
disquisizione sui pregi formali. L’aderenza al testo e all’espressione non
deve bloccare [però] la ricerca dell’interprete diretta a chiarire soprattutto
In verità “umana” dell’opera kafkiana e quindi le incidenze storiche, so-

' A quanto risulta allo stato, il saggio che segue è inedito. Come si evince dai pochi riferimenti
presenti nel testo e dalla nota dell’Archivio Bonsanti che accompagna il dattiloscritto, si tratta
probabilmente di una conferenza tenuta da Ferruccio Masini fra il 1960 e il 1970 (N.d.C.).
i F. Beissner, F. Kafka der Erzähler, Kohlkammer Verlag, Stuttgart, 1952, pagg. 7-8.

99
ciali, filosofiche, religiose che eventualmente possono identificarsi quali
componenti oggettive di quella verità e quali sue giustificazioni reali.
Ma non voglio tediare i miei gentili ascoltatori con una lunga pre­
messa che d’altronde ha lo scopo di mostrare il limite necessario di
un’indagine sui “simboli” kafkiani. Tale limite sta nel fatto che in un
discorso di questo genere non intende esaurire sul piano puramente ra
zionale il valore di questi simboli che sono appunto, nella loro sostanza,
vere e proprie realtà poetiche, indisgiungibili dal loro valore o dalla
loro dimensione poetica. Il mondo di Kafka, come si esprime nei suoi
romanzi e nei suoi racconti, non è semplicemente un mondo cifrato clic
rinvia ad un significato nascosto non direttamente distinguibile ed espri
mibile, ma soprattutto un mondo in cui il significato è immanente alla
rappresentazione poetica come tale e costituisce il “peso specifico” della
realtà di quella. L’abbaglio più grande che si potrebbe prendere a propo­
sito di Kafka sta nel considerarlo un puro autore immaginario, fabulatori»)
o surreale, e nel vedere i suoi racconti come pure fantasie assolutamente
gratuite che possono significare qualsiasi cosa o non significarne nessu
na: fantasie di una mente malata o suggestionata dalla propria immagina­
zione, prigioniera di essa come di un gioco attraverso il quale lo scrittoi e
si diverte a mostrare cose paradossali quali, per esempio, una scimmia
divenuta uomo che tiene una relazione accademica sul suo passato di
scimmia, oppure un modesto commesso viaggiatore che alla mattina, di
punto in bianco, si vede trasformato in un mostruoso scarafaggio, oppure
le strane vicende di un processo che improvvisamente viene a coinvolge
re un pacifico cittadino senza nessuna precisa imputazione, ecc.
Se volessimo restare attaccati ad una interpretazione letterale uccide
remmo lo spirito dell’opera artistica di Franz Kafka: questo è il pericolo
di una ricerca puramente filologico-estetica. Ed è così, proprio perche
la realtà e la totalità del mondo poetico kafkiano includono in sé anche
un significato che trascende la lettera, rimanda ad un particolare valli
fazione e concezione delle cose del mondo, della vita, dei rapporti con
i propri simili.
Ed è questa la ragione per cui si parla di “simboli” in Franz Kafkn,
simboli viventi in cui non v’è distinzione tra significato universale e pai
ticolare realtà poiché l’uno e l’altra sono intrinsecamente compenetrati eil
anzi non si potrebbe pensare quel significato universale se non prendesse
forma e non giungesse ad espressione proprio in quella particolare realta
E questa la concezione goethiana certamente non sconosciuta a Kafkn
per Goethe infatti {Maximen und Reflexionen, 314) nella vera simbologia

100
il particolare non rappresenta l’universale adombrandolo quasi fosse un
»ugno, un lontano riflesso luminoso, bensì lo incarna come rivelazione
'I vente dell’imperscrutabile. Nel particolare c’è dunque presente la tota­
lità: per questo - dice ancora Goethe - tutto ciò che accade “è simbolico”,
, legato cioè al resto, rimanda al resto, è il centro di un mondo che ha
in ogni suo punto un centro e quindi un’infinità di centri. La particolare
ambiguità” dei simboli di Franz Kafka deriva dall’aspetto paradossale
ilclle sue rappresentazioni simboliche, che sono situazioni estremamente
indurali e al tempo stesso assolutamente paradossali. Tutto questo non è
ili atto rivelazione, bensì piuttosto chiusura, coprimento, ed è piuttosto la
rivelazione di un problema che la soluzione di esso. In altre parole i sim-
I’«»li di Kafka hanno un doppio aspetto: sono rivelatori e al tempo stesso
oscuranti: accennano ad un significato e al tempo stesso lo escludono;
aprono e chiudono il loro possibile significato esprimendo così una realtà
umana assolutamente problematica. Il significato universale espresso e
inni-espresso nei simboli dell’opera kafkiana è l’inquietante apparizione
ili una problema, non già una certezza o una precisa incontrovertibile presa
ili jwsizione di fronte alla realtà. Per questo il loro tono è particolarmente
enigmatico e non ammettono d’essere circoscritti in termini rigorosi. Vi
|m »ssono essere determinate opere d’arte riducibili ad un preciso vocabo­
li io di significati; per esempio nel Faust di Goethe, il Faust stesso appare
11 mie l’incarnazione della sete di conoscenza la quale può placarsi soltanto
nell’azione, rimanda cioè a quel vangelo tutto goethiano che s’inizia con
Ir parole “In principio v’era l’azione”. In Kafka invece ogni personaggio
appare ridimensionato su una situazione del tutto paradossale ed implica
un significato molto più complesso che tuttavia si risolve completamente
nella rappresentazione: personaggi e cose, in Kafka, sono calati in una
estrema concretezza che è quella della vita di tutti i giorni, anche se ogni
nvvenimento è insensibilmente spostato sul piano inclinato dell’assurdo:
< Iregor Samsa, ad esempio, il protagonista della Metamorfosi, è uno sca­
li faggio che continua a pensare come un uomo, che è cosciente della tra­
sh umazione, ma si preoccupa delle cose che lo circondano che se “nulla”
il importante fosse avvenuto. L’assurdo è dato insieme alla realtà stessa,
assurdo e realtà concrescono, camminano sugli stessi binari, ma l’assurdo,
appunto per questo, non resta astratto, non rimane al margine, diventa
mi elemento reale, e la realtà, per altro verso, acquista una deformazione
assurda sotto la sua apparente rigorosissima coerenza.
Dobbiamo dunque tornare a dire che in Kafka simbolo e realtà coin-
I ulono nella verità umana ed esemplare, paradigmatica, dell’opera

101
d’arte: il significato della realtà è dato simbolicamente nei termini nudi
e crudi della realtà stessa, così come la viene esprimendo e plasmando
l’artista: in questo senso si potrebbe dire che i suoi scritti sono parabole,
la chiave delle quali sta nella sempre maggior comprensione della realtà
stessa da parte del lettore.
L’universo poetico di Kafka è l’universo dei suoi simboli, dei suoi
caratteri metaforici, delle sue cifre, ma in queste è contenuto proprio
quell’universo reale che l’artista ha problematizzato. L’arte diventa in
tal modo lo strumento per portare ad evidenza questa problematizzazio­
ne del mondo. Attraverso le sue coordinate simboliche l’arte ci avvicina
all’essenza della realtà, lungi dallo staccarci o svincolarci da essa, ci
restituisce il senso più immediato di questa realtà: le sue mediazioni
simboliche servono a questa immediatezza ontologica.
“Nel destarsi, un mattino, da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò
trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto.” Così comincia quel
racconto che porta un titolo apparentemente mitico - La metamorfosi
- e, poiché questa orrenda trasformazione non è un sogno e veramente
il commesso viaggiatore Gregor Samsa è divenuto un insetto “enorme
[...] dalle zampe pietosamente sottili rispetto alla sua mole”, è logico
domandarci se questo fatto non racchiuda un senso non del tutto risol
vibile nel puro paradosso. Che cosa significa questa “metamorfosi”, per
quale ragione un pacifico, solerte, piccolo borghese - quale è il giovane
Gregor Samsa - preoccupato di sostenere economicamente la propria
famiglia, diligente nel lavoro, affettuoso coi genitori e la sorella, si
viene a trovare in una situazione che non potrebbe essere interpretala
soltanto in chiave di malattia o neppure come il verificarsi di una mi
steriosa condanna. Tutto questo sarebbe ancora troppo generico e non
spiegherebbe, poi, tutte le conseguenze che si vengono a produrre in
seguito a questa metamorfosi nei rapporti di Gregor con la famiglia c
con il suo ufficio. È interessante notare che Gregor non prova orrore
o disperazione, ma dopo il primo moto di stupore (“Che m’è succès
so?”) si mette a divagare ed è lo spettacolo del grigio cielo piovoso u
“immalinconirlo”, nient’altro. Anzi cercherà di riaddormentarsi (“e se
dormissi ancora un po’ e dimenticassi tutte queste stupidaggini?”) e,
non riuscendoci, si metterà a pensare alla propria professione non senza
scontento e rammarico (“Dio mio! - pensò - che professione faticosa mi
sono scelta! Tutti i santi giorni in viaggio. Le preoccupazioni sono mag
giori di quando lavoravo in proprio, in più c’è il tormento del viaggiare;
l’affanno delle coincidenze, i pasti irregolari, poco buoni...”) e volai

102
neri manderebbe al diavolo tutte queste cose se non ci fosse il debito
ilei genitori da pagare. Ma ancora cinque o sei anni e poi punto e basta.
< Iregor Samsa avrebbe detto al principale dall’a alla zeta tutto quel che
pensava di lui e del lavoro e si sarebbe clamorosamente licenziato.
Tra queste e altre divagazioni, Gregor indugia ancora nel letto,
preoccupandosi del ritardo e della possibilità di buttarsi malato. Quan­
to alle sue condizioni di salute, salvo un certo stato di torpore che gli
toglie un po’ le forze, si sente benissimo, “provava anzi un appetito
Inori dell’ordinario”.
Ma che significa tutto questo? Non è dunque veramente consapevole
ili quel che gli è successo? La metamorfosi è una sciocchezza o addi-
iiltura qualcosa a cui non si pensa, qualcosa che non può determinare
•.crie conseguenze e a cui in un modo o nell’altro si può rimediare: tutto
questo non viene detto espressamente, ma è intuibile dal comportamen­
to ili Gregor che risponde attraverso la porta alle domande della mam­
ma con un “Sì sì, grazie, mamma, m’alzo subito”. E anche il fatto che
la voce sia mutata (“ad essa si mescolava un pigolio lamentoso impossi­
bile a reprimere quasi salisse dai precordi che lasciava le parole solo in
mi primo momento intatte: subito ne alterava i suoni a un punto tale da
lai dubitare d’aver inteso bene”), anche questo fatto che solo epidermi-
I amente lo spaventa non lo induce a dare un indirizzo diverso ai propri
pensieri, staccandoli dall’ostinato proposito di rientrare nella normalità
delle abitudini quotidiane. “Voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, ve­
stirsi, soprattutto far colazione, e poi pensare al resto, perché si rendeva
i mito che se fosse rimasto a meditare in letto non sarebbe mai arriva­
li! a una conclusione ragionevole”. Riguardo a queste “fantasie della
mattinata” era soltanto curioso di vedere come si sarebbero dissolte. E
um he il cambiamento di voce, il preannuncio di un grosso raffreddore,
"questa malattia professionale dei commessi viaggiatori”.
E indubbio che tutto ciò non riveste per il commesso viaggiatore
I Iregor Samsa alcuna importanza, è soltanto un incidente che sarebbe
potuto accadere forse anche alla persona inviata dall’ufficio per chia­
me i motivi del ritardo, il signor procuratore. (Gregor si chiese se un
morno non sarebbe potuto accadere anche al procuratore quel che stava
■i, cadendo a lui: in sé la cosa doveva essere possibile.) Dopo l’episodio
della visita del procuratore, l’incontro con i famigliari, le scene di or­
nile e di sgomento, l’acquistata mobilità sulle sue zampette di insetto,
la rabbia del padre che con un bastone lo ricaccia e la ferita dovuta alla
II u sa precipitosa, la situazione sembra farsi più chiara anche per lo stes-

103
so Gregor, nel senso che il suo adattamento è un progressivo acquisto
di coscienza delle sue possibilità animali e dei suoi gusti (non ama più
il latte né i cibi freschi). Ormai sono caduti tutti i rapporti col mondo
esterno salvo quello con la sorella che gli porta da mangiare (“Neanche
i genitori volevano che Gregor morisse di fame, ma, incapaci di assi­
stere ai suoi pasti, preferivano essere informati da una terza persona”).
Gregor resta al margine della vita famigliare, ne ascolta le conversazio­
ni furtivamente e ne avverte le sensibili novità (sentiva spesso i genitori
lodare la sorella cui prima rimproveravano di essere una buona a nulla)
ormai egli prende coscienza che il suo nuovo stato non gli permette­
rà più di aiutare la famiglia con il proprio lavoro (“Quando parlavano
della necessità di guadagnare denaro, Gregor abbandonava la porta e
si buttava sopra la pelle fresca del divano bruciando di vergogna e di
tristezza”) e questo è per lui la massima sofferenza. La coscienza che
Gregor acquista col tempo - come si legge più avanti - riguarda il mo­
dificarsi della senso-percettualità animale: pur potendo ancora pensa­
re e valutare se stesso e gli altri come fa un essere umano, la nuova
struttura fisica viene a determinare in lui nuove e diverse condizioni di
coscienza (la violenza dell’appetito, il prolungarsi dei sonni, il crescere
cioè in estensione della vita vegetativa e animale). Non si ha un vero e
proprio ottundersi della coscienza umana, ma un suo sopravvivere ac­
canto a nuove determinazioni istintive che rendono possibile a Gregor
il disporre del suo corpo in un modo diverso da prima. Nei riguardi
della famiglia persistono gli stessi sentimenti di una volta, anche se ora
le sue premure devono necessariamente prendere una forma diversa -
quella per esempio di nascondersi sotto il divano o sotto il lenzuolo per
non destare il raccapriccio della sorella. La gratitudine per la sorella,
il desiderio di vedere la madre, l’attrazione irresistibile per la musica
- nutrirsi di musica - sono ancora momenti umani che scuotono l’apatia
bestiale in cui affonda Gregor in tutto vittima dei bisogni fisiologici e
delle abitudini proprie della bestia per quanto riguarda i suoi movimenti
nella stanza e i suoi lunghi letarghi, l’invincibile ripugnanza ai rumori,
ecc. Dopo i primi tempi, l’assistenza alla bestia diventa ‘cattiva’, l’iso­
lamento sempre più penoso, c’è anche la vecchia vedova addetta alle
pulizie che sbeffeggia Gregor chiamandolo “Fatti avanti, vecchio scara
fone!”, e con una mela scagliatagli dal padre e rimastagli conficcata nel
dorso, Gregor cessa col tempo di dormire e di mangiare. La morte non
si fa attendere molto, ché - come scrive Kafka - “in Gregor la decisione
di sparire era, se possibile, ancor più ferma di quella della sorella”, li

104
soltanto questo pensare alla famiglia “con tenero affetto”, quest’ulti­
mo sguardo che egli dà alla madre addormentata, sono gli ultimi atti
Umani’ prima della fine. Con quanto ho fin qui detto non ho proposto
incora nessuna spiegazione concreta riguardo al contenuto simbolico
della Metamorfosi, ma soltanto enucleato alcuni elementi utili per una
possibile spiegazione. Gregor è allucinato dal lavoro, vive in funzione
del lavoro, la sua umanità si è completamente alienata (= perduta) nel
lavoro e la metamorfosi è l’oggettivazione di uno stato interiore che già
esiste, l’oggettivazione del suo essere alienato. Gregor come l’uomo di
oggi non vive nell’intimità con se stesso, non è presso di sé, ma presso
le cose, prigioniero di un mondo di lavoro, schiacciato in un ingranag-
"io che ha distrutto la sua umanità o in cui egli ha distrutto la sua uma­
nità. Il risveglio terribile di Gregor da una serie di sogni agitati è un ri­
sveglio ad una realtà prima di quel momento coperta e mascherata dalla
sicurezza che dà il lavoro, dalla falsa concretezza di una vita alienata.
Il risveglio non è una presa di coscienza della propria alienazione, ma
soltanto l’inizio di una materializzazione simbolica di questa alienazio­
ne. Essere alienati, disumanati nella sfera del lavoro, nell’asservimento
.11 bisogni imposti da una società priva di valori umani, implica appunto
essere bestializzati e questa realtà dell’uomo di oggi è manifesta nella
metamorfosi. Gregor Samsa è un mostro appunto perché si è reso tale e,
mu la stessa apatia con cui aveva vissuto la sua preesistente vita umana,
vive ora la sua vita sub-umana e animale: il mondo dei sentimenti fami-
eliari che fino a quel momento aveva giustificato il sacrificio di Gregor,
In sua alienazione nel lavoro, si rivela anch’esso un mondo insensato!
Perché egli ora è divenuto un estraneo, un essere che non capisce, o
addirittura egli, Gregor, come essere umano, non esiste più né per i
genitori né per la sorella: essi non gli parlano neppure. Dal ribrezzo
passano alla più violenta insofferenza - talora, come il padre, al furore:
l'ospite mostruoso sta rovinando la loro vita e Gregor stesso lo sa (per
questo vuole sparire), ma quel che è peggio, le condizioni economiche
della famiglia non sono poi così precarie come sembravano a Gregor. Il
padre si rivela un uomo ancora robusto in grado di lavorare ed esistono
inoltre dei risparmi che possono servire ad estinguere il debito: la sorel­
la diventa per i genitori un conforto e una speranza. Singolare è appunto
la conclusione del racconto. Essi (i genitori) videro una conferma dei
loro freschi sogni e delle loro buone intenzioni quando, al termine della
i orsa, la figliola si alzò per prima, “stirando il suo giovane corpo”.

La metamorfosi è dunque non già un’invenzione fantastica che sgre-

105
tola la compagine del reale con il suo gioco gratuito, bensì la rivelazio­
ne simbolica di quello che rappresenta l’ultimo significato del reale. La
vita di Gregor è nuli’altro che un dimenticarsi, uno strumentalizzarsi,
un meccanificarsi, nella bruta disumanità del lavoro, in cui si riflette
l’essenza della civiltà moderna, l’oblio del proprio Selbst, del proprio
Sé nell’esteriorità della vita di relazione, nella schiavitù del bisogno
economico, nel “lavoro per il lavoro”, nel sacrificio quotidiano desti
nato a dare una sicurezza economica al nucleo famigliare, nell’illusio­
ne di dare, con ciò, anche una consistenza alla propria vita, secondo
un’impersonale necessità che è quella di tutti e di nessuno, una specie
di feticcio nato dall’ordine e dalla normatività borghese. Già in Nietzsche
troviamo una critica alla società come depositaria di un falso valore che
annulla il singolo riducendolo a bestia da lavoro. “Si loda - egli scrive - il
diligente, sebbene egli danneggi con questa diligenza la forza visiva dei
suoi occhi o l’originalità e la freschezza del suo spirito: si onora e com­
piange il giovane non per amore di lui stesso, ma perché uno Strumen,«»
devoto e privo di riguardi verso se stesso - un cosiddetto brav’uomo - in
causa della morte di quel giovane andò perduto per la società”.
Ma mentre per Nietzsche questa opera di demolizione sarcastica di
una determinata società e di un determinato codice di valori mira a ri
proporre l’individuo nella sua libertà, restaurando l’ideale aristocratico
dell’uomo antico precristiano e al tempo stesso cercando in un nuovo
creatore di valori la base di un superamento del Cristianesimo, per Kafka
la condizione dell’individuo alienato non è in alcun modo accidentale,
ma fa parte di una struttura fondamentale del vivere nel mondo, del eoe
sistere con altri. L’individuo non può sfuggire alla sua alienazione, specie
se per lui questa rappresenta l’unica maniera per darsi esistenza - un’esi
stenza come abbiamo visto mostruosa -, richiamando su di sé l’attenzione
degli altri, riuscendo ad essere ‘qualcosa’ per gli altri e forse anche per
se stesso. Si pensi, per esempio, a quell’altro breve racconto intitolalo
Il digiunaiore, dove si assiste all’ossessione di un povero diavolo pei
la sua professione di digiunatore “a tempo indeterminato”. Costui vuole
imporsi all’ammirazione di tutti, come un digiunatore unico al mondo,
maestro nella sua arte fino al punto di poter proseguire indefinitamente il
proprio ‘numero’. Purtroppo però è la stessa regola del gioco - il costumi-
sociale - a prescrivergli un limite. Il direttore del circo lo “costringe” a
interrompere, proprio quando egli si sentiva maggiormente desideroso di
proseguire, sicuro di poter “continuare” e mostrare per intero la sua arte.
Col tempo anche il numero del digiunatore perde ogni interesse per il

106
pubblico, ma lui continuerà egualmente a digiunare, dissolvendosi nella
paglia della sua gabbia, dopo un numero interminabile di giorni in cui
lilialmente, a dispetto di tutti e nella totale indifferenza del pubblico, ha
potuto dar veracemente tutto se stesso.
Non rappresenta, anche il digiunatore, un uomo “alienato”, per cui
1 alienazione ha propriamente il significato di un non volere disperata­
mente la vita?
Il lavoro, la professione eretti a ragione esclusiva di vita hanno ap­
punto questo senso: distruggere la vita, isolare in una terribile e squal­
lida solitudine dove nessuno può far giungere lo sguardo perché non
interessa, è, in definitiva, un destino, una follia, che nessuno può com­
prendere. Ma come il racconto la Metamorfosi si conclude stranamente
con l’allusione alla ragazza che stira il suo giovane corpo, così quello
ilei digiunatore ha termine con un’immagine non molto dissimile, se si
liene presente l’identico significato che si nasconde in entrambe. Fatta
pulizia nella gabbia dove si era consumato il digiunatore si procedette
.1 collocarvi una pantera. Ma giova citare il brano: “Fu un sensibile
-ollievo anche per i più ottusi vedere la belvetta dare le volte in quel­
la gabbia vuota da tanto tempo. Non mancava di nulla. Il cibo che le
piaceva, i guardiani glielo portavano senza aver da pensarci su: pareva
1 he neanche la libertà le facesse difetto; quel nobile corpo provvisto di
lutto quanto occorreva a sbranare sembrava portar seco anche la libertà;
pareva che le si fosse annidata in qualche punto delle fauci; e da quelle
I alici la gioia di vivere erompeva con tale violenza che per gli spettatori
non era facile resistervi”.
A ben osservare l’immagine della ragazza che rivela d’un tratto col
suo movimento quasi felino la giovinezza e la vita del suo corpo e quella
della pantera dalle cui fauci erompe la gioia di vivere hanno un comune
punto di riferimento. V’è qualcosa che né Gregor Samsa né il digiunatore
hanno mai conosciuto, qualcosa che è forse solo istinto, pienezza di forza
lovane e quasi selvaggia, turgore vitale, indolenza senza pensieri, gioia
di vivere - se volete - e questo qualcosa è 1’esistenza come flusso di libera
terrestrità ed insieme risolutezza e abbandono, saldo possesso delle cose.
Ma era proprio tutto questo che mancava a Kafka il quale fa così parlare
un suo personaggio, uno dei suoi tanti “alter ego”. “Non è mai successo
I he io fossi convinto della realtà della mia esistenza: le cose che ho in­
torno mi appaiono talmente logore, da farmi credere che la loro vita sia
I h inai trascorsa e che stiano sprofondando nel nulla. Io sono di continuo
nssillato dal desiderio, caro signore, di sapere come sono le cose prima

107
che si mostrino a me. Hanno una felice tranquilla esistenza: deve essere
così, spesso odo gente che parla di esse in questo modo.”
Ma credere sarebbe già esistere, credere all’esistenza delle cose
sarebbe già divenire centro di quella esistenza, ritrovarsi: “Credere -
scrive Kafka in altro luogo - significa: liberare in sé l’indistruttibile o
più esattamente liberarsi, o più esattamente: essere indistruttibile, o più
esattamente: essere.”
E il dramma di Kafka è tutto in questa desolazione di chi non crede,
di chi non ha radici, di chi è disperatamente solo nella sua triste giornata
invernale, sospeso a mezz’aria come il cavaliere del secchio che viene
trascinato dal vento, aggrappato al suo secchio sopra la via gelata alla
ricerca di un pezzo di carbone per resistere ai rigori della stagione. Al
cavaliere del secchio nessuno dà nulla e la carbonaia fa finta di non
sentirlo, approfittando del fatto che il freddo lo ha reso così leggero,
così fioco e spettrale: così a chi non crede nelle cose, le cose non danno
nulla, diventano ostili, compatte come un muro di bronzo.
Kafka ha sentito attraverso la sua sinistra, spenta, a volte struggen
te poesia della vita quotidiana, meglio forse di tanti altri autori suoi
contemporanei - pensiamo a Rilke - perché più teso all’essenziale, più
elementare, più lontano dal bisogno di liricizzare la realtà, Kafka ha
sentito profondamente il dramma del nostro tempo, nello sfasciamento
dell’impero asburgico con la prima guerra mondiale, nella dissoluzione
del mondo ebraico-borghese di Praga, nella rottura con ogni ordine. Nei
suoi personaggi si manifesta oggettivamente la coscienza dell’uomo
comune, del piccolo borghese, del modesto impiegato, del subalterno,
del funzionario, del giovane di famiglia benestante, una coscienza le cui
strutture sono state analizzate dal filosofo Heidegger che ne ha mostrato
la vuota impersonalità. La coscienza di chi è nel mondo sempre e sol­
tanto in rapporto agli altri e mai in rapporto a se stesso, la coscienza di
un Si fa, un Si dice, che non sottintende nessun individuo determinato,
ma solo appunto il Si di questa “coscienza dell’uomo-massa”, perché
quando uno afferma “Si è detto così e così” “Si è fatto questo o quello"
non assume la sua responsabilità, il suo giudizio con quel che si è detto
e fatto. Si copre con la responsabilità e il giudizio degli altri, “lo fanno
tutti” e quindi lo faccio anch’io, lo dicono tutti e quindi lo dico anch’io,
Io faccio parte di questi tutti o meglio io come io non esisto più quando
dico questi tutti. Essi sono il dio della civiltà moderna, la massa senza
nome e senza corpo, la massa che dirige il corso degli eventi, che fa c
disfà le fortune degli individui e delle cose, la massa come feticcio. Ma

108
quella di Kafka non è una reazione a questa Massa in nome dell’indivi-
tluo: egli mostra anche come si scomponga la coscienza dell’individuo
mentificandosi quando tale coscienza non è più coscienza sociale, ma
solo coscienza disperatamente chiusa in se stessa, coscienza di sé, asso­
luta, che “rifiuta” gli altri.
La bestia che si fabbrica la tana cercandovi riparo contro ogni possi­
bile insidia proveniente dall’esterno finisce per aver paura di sé, anche
Li sicurezza che nessuno potrà entrare o distruggere non le basta: una
terribile paura si nasconde in questo spiare dall’esterno la propria tana
e la bestia fa questo, nel corso delle sue numerose esplorazioni. La be­
stia diventa il maggior nemico per se stessa, per effetto appunto di un
involontario sdoppiamento. E anche la tana può essere ricompresa nella
lana di una bestia più grande e quindi destinata a servire ai suoi fini.
Non v’è salvezza neppure per chi è solo e crede di bastare a se stesso,
per chi si è radicalmente isolato dagli altri. Anche l’artista del trapezio
I Ite vive solo, sempre, lassù in alto senza voler mai discendere per poter
esercitarsi” sempre nel suo gioco-vita, deve sopportare il dolore terribile
ilei viaggi quando la troupe si sposta da un luogo all’altro, e finisce per
voler portare all’estremo il suo gioco, richiedendo un’altra sbarra per il
suo trapezio: “con quella sola sbarra tra le mani, come farei a vivere!”
dice al suo impresario. Ed è anche questo un segno della disperazione
• lie gradatamente si impadronirà dell’artista, la disperazione di quel suo
I liiuso mondo che deve essere sempre più complicato. Né verso gli altri
né lontano dagli altri c’è dunque una via di uscita: Kafka oggettiva nei
• imboli dei suoi racconti la coscienza dell’uomo-massa e quella dell’uo-
mo-singolo riducendo Luna e l’altra all’assurdo. Il tormento di voler es­
ile disperatamente se stesso (e quindi il bisogno di opporsi radicalmen­
te all'alienazione, alla distruzione di se stesso negli altri) disumanizza
l'uomo quanto il tormento di non voler essere disperatamente se stesso.
L'ufficiale del racconto Nella colonia penale è così entusiasticamente
.11lucinato dalla macchina di tortura ideata dal suo “vecchio comandante”
e così rapito dalla su precisione, dal suo congegno (c’è l’adorazione della
macchina tipica dell’uomo moderno), che finirà per sottoporsi egli stesso
alla tortura mortale, lasciandosi lacerare le carni dagli aghi di cristallo
I he anziché scrivere sul suo corpo le parole della legge, lo maciulleranno
essendo la macchina improvvisamente “impazzita”.
Quest’uomo vuole essere disperatamente se stesso in questo cieco
Innatismo dell’opera meccanica di cui conosce tutti i segreti e che egli
ha curato meticolosamente con le proprie mani mettendo al servizio di

109
essa la sua intelligenza. Ma è un’opera di crudeltà inaudita e l’uomo la
cui coscienza è scissa e pervertita non se ne avvede: cercherà una tra­
sfigurazione mostruosa nel sorriso del condannato che è giunto all’ora
sesta di tortura e può, attraverso le ferite, leggere come una rivelazione
quel che gli aghi terribili hanno scritto su di lui. Ma non ci sarà rivela­
zione per chi volontariamente si è sottoposto alla tortura e alla morte:
“Era rimasto come in vita; non il minimo segno della redenzione pro
messa; quel che tutti gli altri avevano trovato nella macchina, l’ufficiale
non ve l’aveva trovato; le labbra erano serrate, gli occhi aperti avevano
l’espressione della vita, lo sguardo era tranquillo e convinto, la fronle
era trafitta dalla punta del grosso pungiglione di ferro.”
È evidente che Kafka non propone nei suoi simboli una soluzione ai
problemi, bensì mostra in questo modo come ogni possibile soluzione
sfoci in un paradosso, come la situazione stessa dell’esistenza sia un
paradosso.
La realtà dove l’uomo diventa una bestia di lavoro è quella della
tortura ed è sempre simbolizzata da Kafka come condanna, come atte
sa, come ricerca, come lotta inutile, come condanna non giustificata da
una colpa, come ricerca che è divenuta folle perché ha perso quasi la
ragione di se stessa! La realtà è condanna o per lo meno imputazione
che esige la tua testa e tuttavia in essa sta nascosta l’esistenza alla quale
non ci si può avvicinare cercando di giustificarsi di fronte all’imputa
zione (come nel racconto intitolato il Processo), perché questo modo di
avvicinarsi corrisponde in verità ad un allontanamento, ad un rendere
sempre maggiormente inevitabile la condanna definitiva.
Chiedere, sofisticare, tentare di persuadere il guardiano che sta dinanzi
alla porta della Legge non serve a nulla, proprio perché bisognerebbe
credere all’indistruttibile in sé senza aspirarvi, come dice Kafka. Il cielo è
muto - dirà ancora - non è un’eco che per il muto. Il cielo non risponde, da
quel cielo si è caduti o si è stati espulsi prima ancora del peccato (lo stato
di peccato è quello in cui noi ci troviamo indipendentemente dalla col
pa). Quel cielo, quell’esistenza, sono inattingibili e Kafka chiamerà tutto
questo con vari nomi, Il Castello, la Legge, il Tribunale, il Messaggio ma
esso non è che 1’esistenza, l’indistruttibile. Dietro i vari simboli di Kafkn
si nasconde sempre questa possibilità impossibile la quale non giunge
mai a capovolgersi nel suo opposto - a divenire una impossibilità possi
bile - proprio perché la via per giungervi è sbagliata. Chi cerca non trova
ma chi non cerca è trovato. Così scrive. Chi cerca usa cioè la sua pochez
za umana per osare una scalata impossibile: 1’esistenza è già presente, è

110
già sotto i nostri occhi, e tuttavia la nostra vista è troppo debole. Scrive
Kafka “Con la vista più potente si può dissolvere il mondo. Davanti ad
occhi deboli esso si solidifica, davanti ad occhi più deboli esso mostra il
pugno, davanti ad occhi più deboli ancora esso è senza vergogna, esso
scanna colui che osa guardarlo”.
Un’interpretazione teologico-religiosa (come quella di Max Brod,
l amico di Kafka a cui si riportano salvo varianti molti altri critici) si è
imposta in termini e in categorie consuete e può presentare non senza
soverchia difficoltà il mondo dei simboli kafkiani come un mondo di
imboli religiosi: ma questa interpretazione trascura, forse perché sug­
gestionata dalla simpatia di Kafka per Kierkegaard, simpatia comunque
nata soltanto negli anni, quando il pensiero di Kafka era già maturo, tra­
scura, dicevamo, un fondamentale punto di partenza. La crisi di Kafka
nasce dalla crisi dei valori immediati oserei dire tangibili dell’esistenza
la questo riguardo, può essere assai indicativo il suo rapporto con il
padre che addirittura “annichiliva” il figlio, respingendolo al margine
lidia famiglia e aggravandolo di un terribile senso di colpa e d’impo­
tenza). Questa crisi, anche se non è priva di un suo valore religioso,
non scaturisce tanto dall’oscurarsi dei valori spirituali dalla rottura con
la tradizione e con i suoi punti d’appoggio comunitari dell’ebraismo,
quanto da un sentimento d’impotenza e di smarrimento indicibile di­
nanzi alla pura possibilità dell’esistenza, è dunque una crisi più profon­
di di chi ha perduto il nesso con la propria comunità e con il proprio
mondo di credenze per un bisogno di libertà e per un esasperarsi di
tendenze razionalistiche.
11 mondo degli animali ha una posizione di primo piano negli scritti
ili Kafka. Si pensi per esempio ai cavalli “non terreni”, come egli stesso
ilice, che appaiono nel bellissimo racconto Un medico di campagna. Qui
si narra che un medico viene bruscamente chiamato al capezzale di un
infermo e non ha una cavalcatura per mettersi in viaggio. Incontra però
uno strano individuo che se ne sta accoccolato in un porcile e con esso
line animali focosissimi e inquietanti. «“Olà fratello, olà sorella!” gridò
In stalliere, e due cavalli, forti animali dai fianchi poderosi, le gambe
i.iccolte sotto il corpo, abbassando come cammelli le teste ben fatte, si
spinsero fuori l’uno dietro l’altro, col solo sforzo del volgere i loro fian-
I hi attraverso la porta che riempivano completamente». Questi cavalli
porteranno il medico a destinazione in una corsa vertiginosa e quasi so­
prannaturale, lo strapperanno alle abitudini pacifiche e tranquille della
■mi casa e della sua vita domestica, come obbedendo ad un misterioso

111
potere o essendo essi stessi una incarnazione di questo misterioso pote­
re terranno il povero medico in loro balia, anche al termine della stra­
nissima visita e non lo ricondurranno mai più a casa. “Nudo, esposto al
gelo di questo secolo sciagurato, su una carrozza reale, con cavalli ir­
reali, vado vagando per il mondo, io povero vecchio.” Se lo scarafaggio
in cui si trasforma Gregor Samsa è, come abbiamo detto, l’oggettivarsi,
il materializzarsi della sua condizione di uomo che ha perduto se stesso
e con se stesso la propria umanità, questi cavalli possenti e indoma­
bili sono l’oggettivarsi di un misterioso potere che irrompe improv­
visamente nella vita di un uomo, vita tranquilla ma senza significato,
un potere che dormiva nell’intimo medesimo di quell’uomo e che ora
appare come terribile e fosca affermazione di un mondo abbandonato
e sotterraneo (escono da un porcile “vuoto da anni”) non sopraterreno
(i cavalli sono semplicemente chiamati da Kafka “non terreni”) fino a
quel momento caduto in oblio. La violenza di quelle creature distrugge
ogni ordine ed ogni pacifico modo di essere, riporta nell’instabilità e
nella desolazione: esse fanno sentire quanto sia effimero quell’ordine
e ne mettono in luce la precarietà con la vitale baldanza del loro istinto
dissolvitore in cui si afferma brutalmente la libertà selvaggia della vita.
Anche questi animali sono ambigui, perché mentre da un lato paiono
ubbidire ad ordini superiori ed essere quindi appartenenti ad una sfera
spirituale dell’esistenza, dall’altro hanno una singolare parentela con
lo stalliere sensuale il quale li chiama appunto “Fratello e sorella”. Si
potrebbe quasi dire che essi rappresentino gli estremi imperscrutabili: la
bestialità pura e la spiritualità pura in cui anche l’ultimo limite terrestre
è superato: il medico infatti viene da essi condotto a salvare un uomo,
a svolgere quasi un ufficio di sacerdote, perché è chiaro che la piaga
nel fianco del suo paziente non rappresenta in alcun modo un semplice
male fisico. Ma egli è incapace di curarla e così i cavalli finiranno per
riprenderselo e trascinarlo in una corsa senza fine.
Come vedete una delle principali costanti nella narrativa kafkiana è
l’instabilità, la smisurata oscillazione tra gli opposti, tra il tutto che si
vanifica nel nulla e il nulla che si fa compatto e bronzeo come una realtà
ostile ed insopprimibile. La vita, egli dirà, è un perpetuo svolgimento
che non permette di rendersi conto di che cos’è che si svolge. Instabilità
e incertezza: tutto il racconto dedicato alla costruzione della Muraglia
cinese non è null’altro che una complicazione all’infinito di questa in­
certezza: le distanze nell’immenso paese in cui si lavora alla gigantesca
muraglia si dilatano inverosimilmente, tra i sudditi e l’imperatore non

112
ci può essere comunicazione possibile, anche le strutture del tempo,
come quelle dello spazio, si scompaginano e il nuovo infinito della re-
latività diventa ancora più agghiacciante, per il suo infinito frazionarsi
ili tante regioni di spazio e di tempo particolari che non hanno nessi tra
loro perché nulla può coordinarle.
Anche la speranza della comunicazione viene ridotta all’assurdo
come nella leggenda del messaggio dell’imperatore. L’imperatore con­
iala un messaggio al suo nunzio bisbigliandoglielo all’orecchio mentre
si trova sul letto di morte. Il destinatario di questo messaggio abita mol­
lo lontano e sei tu. Questa può essere dunque la “tua” salvezza. Come
Li porta, che si richiude inesorabile di fronte al piccolo uomo che nel
I acconto Davanti alla legge ha atteso per una vita intera il momento di
oltrepassarla, era stata aperta soltanto per lui, riguardava unicamente
lui, così il messaggio è destinato a un “singolo”. Il messaggero dunque
si mette in marcia ma già il palazzo imperiale è smisuratamente grande
avanzando ora un braccio ora l’altro egli si fa strada attraverso la mol­
titudine [...]. Ma la folla è così grande: non ha mai fine. Se fosse libero
il campo, come volerebbe [...]. Ma invece come sono inutili i suoi sfor-
/1 : ancora cerca di aprirsi un varco nelle sale del palazzo interno; mai ne
potrà uscire; e se questo gli riuscisse a che gioverebbe? Ci sono ancora
mlìniti cortili, infinite porte, infiniti saloni pieni di folla innumerevole”.
I se riuscisse finalmente a precipitarsi fuori dell’ultima porta - ma mai
questo potrà accadere - ci sarebbe ancora tutta la città imperiale dinanzi
h lui, il centro del mondo, in cui si addensa tutta la sua feccia”. E la
leggenda si conclude con le sconsolate amare parole “Ma tu stai seduto
piesso la tua finestra, e sogni quel messaggio, quando viene la sera.”
E una fiaba, forse, una delle più belle fiabe nate dalla disperazione
senza uscita in cui vive l’uomo di oggi, la fiaba dell’impossibile speran-
/II e dell’impossibile desiderio, la fiaba del ritrovamento e del possesso
oggi negati all’uomo da questo terribile, spaventoso complicarsi delle
I use e della sua stessa coscienza. A questo punto anche l’ironia, questa
sottile ironia kafkiana che si nasconde in molte sue “invenzioni” ed è
immediatamente afferrabile nei suoi schizzi e caricature dettate da un
impulso nervoso, da uno squallido buonumore - anche questa ironia,
i he a volte è tragica e spaventosa - non esiste più. Questo destinatario

ilei messaggio attende, attenderà ancora, attenderà sempre con il viso ri­
volto verso le terre sterminate dove si addensa tutta la feccia del mondo,
ni tenderà nel tramonto della sua vita impossibile, che si gli dischiuda
dinanzi un impossibile cielo. Attendere, e questa è la sua forza; in que-

113
sta attesa la sua umanità si ricompone come in un gesto severo, virile
ed eroico. V'è una pazienza e una rassegnazione che costituiscono quel
che v’è di propriamente grande nell’uomo nell’ora della sconfitta, que­
sto resta “indistruttibile”. Ed è una fedeltà al proprio destino al quale
l’uomo non può e non deve sottrarsi - per Kafka questo destino era il
suo destino di scrittore - ed egli ha scritto umilmente la sua pena, quella
che gli uomini vivono, ma non scrivono. Ha scritto, al tempo stesso,
con timore e tremore, anche la gioia che resta nascosta nel fondo di ogni
uomo, la gioia cioè di servire con tutta l’anima, di obbedire anche se
non c’è nessun comando, di assolvere un mandato che mai fu conferito.
Questo è per Kafka il mezzo per rendersi degno di una redenzione an­
che se una redenzione non esiste.

114
Introduzione a II Processo*

(Jnesto frammento di romanzo, poiché, pur essendo stato scritto il ca­


pitolo conclusivo, manca ancora la descrizione di «alcuni stadi del mi­
sterioso processo» (M. Brod), risale al periodo compreso tra l’agosto
ilei 1914 (come si apprende dai Diari) e il gennaio dell’anno seguente
ima la stesura dell’ultimo capitolo è datata prima dell’ottobre 1915),
apparve a cura di Brod, con il titolo di lavoro, Der Prozeß (che gli ave­
va dato lo stesso Kafka), soltanto nel ’25, un anno dopo la morte del
suo autore. Un’occasione esterna del romanzo può essere individuata
nella rottura del fidanzamento con Felice Bauer che venne decisa in un
hotel berlinese, l’«Askanischer Hof», il 12 luglio 1914, definito dallo
stesso Kafka «ein Gerichtshof», una «corte di giustizia»; ma non è forse
estranea alla genesi del romanzo la suggestione del Delitto e castigo
ilostoevskijano che Kafka aveva letto intorno al 1912 (alla primavera
ilei ’14 si fa invece risalire la conoscenza delle lettere di Dostoevskij
dalla prigionia). La storia della ricezione è ricca di motivazioni e di
Valutazioni critiche orientate ora sul piano delle corrispondenze biogra-
liehe, ora su quello dell’interrogazione metafisica, suggerita ab initio
dallo stesso Brod che vedeva, tra l’altro, proprio nell’impossibilità di
intingere la suprema istanza giudicante da parte del protagonista Jo-
■i-l K. l’impossibile compimento di un’opera destinata a progredire in
infinitum. Adorno, invece, sottolineava nel romanzo l’oscura e terribi­
li- profezia del «nuovo ordine» hitleriano, di quella mostruosa buro-
I razia della morte che sovvertiva i fondamenti stessi del diritto nella
piu inumana delle persecuzioni, mentre H.J. Schoeps e M. Buber sono
•.fusibili alle motivazioni spiritualistico-religiose della redenzione ed
I . Goldstücker rivolge il suo interesse al modo con cui, nel romanzo,
V iene scandagliata la torbida atmosfera del mondo capitalista, in misu­
ri artisticamente più pregnante di quanto sia riuscito a fare il Thomas
Mann dei Buddenbrook. In epoca più recente si ha una svolta decisiva
11spetto alle valutazioni e interpretazioni in chiave teologica, politica o
lilosofica tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta. Le letture di taglio
cimeneutico da H. Gadamer a J. Habermas, o quelle più decisamente
hualizzate alla analisi stilistico-formale aprono la strada ad un modulo
interpretativo dove è maggiormente articolato l’interesse per le strutture
ilinamico-espressive del testo in rapporto alla storia della sua influenza

I Introduzione a F. Kafka, Il Processo, trad. it. di C. Moena, Garzanti, Milano, 1984 (N.d.C.).

115
e della sua fortuna letteraria. Il romanzo resta comunque aperto ad una
molteplicità di percorsi proprio in forza della sua radicale insondabilità
che ne costituisce l’intima, inesauribile ricchezza, tanto da far pensa­
re ad una proiezione drammaticamente attuale del destino umano di
fronte alla mannaia di un’autogiustificazione che altro non può essere,
paradossalmente, se non l’assunzione totale della colpa fino alle ultime
conseguenze. Il procuratore di banca Josef K. è Tanti-eroe moderno per
eccellenza, la cui alienazione interiore è giunta al punto da considerare
il problema del senso della propria vita come qualcosa di mostruosa­
mente estraneo alla norma e al sistema di regole e certezze su cui era ve­
nuto costruendo la tranquilla ragionevolezza della propria inalterabile
quotidianità. Di conseguenza egli non può che respingere la colpa come
la cosa più innaturale di questo mondo. «Ma io non sono colpevole»,
disse K., «è un errore. Come può mai essere colpevole un uomo? E qui
siamo tutti uomini, l’uno come l’altro». Ma gli risponde il sacerdote:
«E giusto [...] ma è proprio così che parlano i colpevoli». Josef K. non
è l’innocente Karl Rossmann di America, che non si ritiene tale, ma lo
è proprio perché è la sua stessa interiore fedeltà alla legge a impedirne 1
l’integrazione in quel mondo del lavoro a cui invece K. è interiormente
consegnato, al punto da considerare il suo processo come un semplice
«affare» (W. Emrich). «Era stato capace», si legge nel Processo, «dì
farsi una posizione di rilievo in banca in un tempo relativamente breve e
di mantenersi in questa posizione riconosciuta da tutti, ora doveva solo
applicare al processo le capacità che evidentemente possedeva, e non
c’era dubbio che tutto sarebbe finito bene. Prima di tutto, se si voleva
ottenere qualcosa, era necessario eliminare fin dall’inizio ogni pensiero
di una possibile colpa. Non c’era nessuna colpa. Il processo era solo un
grosso affare, come già ne aveva conclusi tanti a vantaggio della banca,
un affare entro il quale, come di regola, erano in agguato diversi perico
li, da cui appunto bisognava difendersi».
«Non c’era nessuna colpa»: pur tuttavia proprio questo voler esor­
cizzare la possibilità stessa della colpa, è la colpa, ed è una colpa pin
profonda e ineluttabile di quanto possa minimamente immaginare chi
vive nell’oblio di sé, vale a dire nell’ordine di quella «medietà del quo­
tidiano» in cui Heidegger vedeva l’affermazione della struttura ontolo
gico-esistenziale dell’«inautentico». La falsa ottica della colpa in cui si
muove Josef K. è in definitiva quella dettata da quel buon senso che si
nutre di certezze giuridiche, di stabilità e univocità indefettibili e nun
discusse, di tutto quel sistema di regole, di garanzie, di controassicurn

116
/ioni, di autodifese, di calcoli e di finalità obiettive di cui è contesta­
la la ratio. Questo universo apparentemente così catafratto e inattac­
cabile, per cui l’impensabile non può essere che liquidato mercé una
preventiva razionalizzazone, si rifrange, decomponendosi, nel mondo
Hel tribunale, nei suoi solai ammuffiti, nelle sue cancellerie fatiscenti,
in quel «grosso organismo giuridico» (le varie istanze giudiziarie con
lutto il complicato e inaccessibile apparato dei loro organi istruttori e
inquisitori) che si presenta, agli occhi di K., «in uno stato di perenne
precarietà», a tentare di modificare il quale in qualche piccola cosa c’è
il rischio di scavarsi il terreno sotto i piedi «mentre il grosso organismo
■a procura rapidamente una sostituzione altrove». La distanza tra i ten­
utivi di difesa e di salvaguardia legale, ai quali si collegano quelli, del
testo previsti dalla prassi stessa dei procedimenti giudiziari, di aggirare
l'ostacolo mediante stratagemmi di varia natura, vie traverse rese pra­
ticabili dalla corruzione o dalle circostanze, e il rigore incomprensibile
ili quell’«assoluto» che è la legge si va facendo sempre più incolmabile
nella lenta progressione del romanzo verso il suo esito fatale. Alla pre­
meditata linea di difesa di Josef K. corrisponde l’indeterminatezza delle
■me possibilità piuttosto congetturate e ipotetiche che fondate e reali,
mia indeterminatezza labirintica che diventa sempre più vischiosamente
paralizzante, quasi fosse il moltiplicarsi medesimo degli sforzi ad acce­
lerare il cieco movimento di una frana che erode ogni fragile appiglio,
Imo a svuotare comicamente la stessa quieta ostinatezza del tentativo,
losef K. è trasceso dal gioco ironico di un assurdo che si rovescia in
quello della stessa possibilità di salvezza, per cui «nell’assoluzione vera
love fosse mai possibile ottenerla) gli atti processuali devono essere
lilialmente eliminati, scompaiono del tutto dal procedimento, non solo
I h cusa, ma anche il processo, e persino la sentenza vengono distrutti,
tulio viene distrutto».
li nella latitudine di questo assurdo che naufragano tutti i tentativi
I a ben poco serve apprendere che esiste un’assoluzione «apparente»,
ulne a quella «vera», per la quale i giudici «non hanno il grande di­
ttilo di liberare dall’accusa, hanno però di certo il diritto di sciogliere
■ Iall’accusa», o che si potrebbe dare altresì la possibilità, come spiega
iK.il pittore Titorelli, del cosiddetto «rinvio», consistente «nel mante­
nere permanentemente il processo alla fase processuale più bassa». La
decomposizione dell’ordine della ratio nell’universo impenetrabile del
li ilninale si accompagna ad una degradazione di qualsiasi regola mora­
le. di qualsiasi correttezza legalistica fino a coinvolgere la stessa giusti-

117
zia. Questa degradazione diventa visibile nello sfacelo degli ambienti,
nel disordine e nella sporcizia di quelli che dovrebbero essere i luoghi
deputati. Le stesse persone misteriosamente vicine agli imperscrutabili
amministratori della legge, quelle persone a cui K. si rivolge per otte­
nere l’aiuto, come il pittore Titorelli, vivono in case malsane e cadenti,
abitate da ratti, con mura sfondate e sinistri gorgogli di liquame nau­
seabondo. In questi ripostigli ingombri di scartoffie e ciarpame, su cui
aleggia la squallida atmosfera di incuria secolare e che per l’impronta
immemorabile di questa miseria ricordano la stalla da cui escono, nel
racconto Un medico di campagna, i «cavalli non terreni», in questo
mondo in cui, dice Kafka, «un solo boia potrebbe sostituire l'intero tri
bunale», sembrano annidarsi gerarchie infernali, tanto più abominevoli
quanto più sovrane. Ma in realtà - come nota Emrich - «questi impiegati
del tribunale rappresentano la stessa impersonale potenza della vita e
della realtà sensibile che veniva riservata nella prima opera [Descrizio­
ne di una battaglia] ai fenomeni naturali». Tutto questo ci rimanda alili
segreta struttura portante del romanzo, tutta incentrata sulla scissione
e le ambivalenze inconciliabili della coscienza, sul gioco di specchi
deformanti che riflettono continuamente i volti di un enigma sempre
sfuggente e pur tuttavia sempre eguale, piantato in quella che Benju
min chiamerebbe l’impenetrabilità del quotidiano. E’ l’enigma di un
tribunale che «non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni, ti lascia
andare quando vai»; ma è anche l’enigma del male, vale a dire di quella
peccaminosità che Kafka aveva prospettato, nelle sue Betrachtungen.
non estranee ad una certa influenza kierkegaardiana, in termini molto
vicini al tema Processo'. «Noi siamo peccatori non soltanto per avci
assaggiato l’albero della scienza, ma anche per non aver ancora assag- 1
giato l’albero della vita. Peccaminosa è la condizione in cui troviamo, • I
ciò indipendentemente da ogni colpa».
Ma assaggiare l’albero della vita «non è e non può essere una dimo
strazione della propria innocenza, bensì esattamente il suo contrario»: è I
questo il fondo dell’enigma: solo la necessità della colpa fa riconoscere I
l’impossibilità della vita, ma è z7 passaggio attraverso la colpa a di­
schiuderne la possibilità. Per questo il tribunale è attratto dalla colpa e 1
la cerca là dove c’è: chi non arriva a comprendere il richiamo inesplicu
bile della vita, come K., si affanna nel sottrarsi alla colpa, distruggendo
il mistero che in essa lo concerne. Per questo K. è colto dal proposito
insensato di redigere un’istanza nella quale l’intera sua vita fosse rie J

1
vocata «in ogni sua minima azione e avvenimento», un’impresa per Ih 1

118
(piale sarebbe stato necessario «un lavoro quasi interminabile». Anche
questa pretesa di autogiustificazione totale ha, alle sue radici, «un unico
peccato capitale», come dirà Kafka nelle Betrachtungen-. «E’ a causa
(lell’impazienza che [gli uomini] sono stati cacciati [dal paradiso], è a
c ausa dell’impazienza che non vi tornano». Bisognerebbe forse com­
portarsi come Block, il miserabile cliente dell’avvocato Huld, che si ri­
bella a K. con queste parole: «[...] allora si ricordi la vecchia sentenza:
per chi è sospettato, è meglio il movimento della quiete, perché colui
che sta fermo può sempre, anche senza saperlo, trovarsi sul piatto di una
bilancia ed essere pesato con i suoi peccati».
Una preziosa chiave interpretativa del Processo potrebbe essere colta
nella parabola Davanti alla legge, raccontata nel capitolo nono, e nel
li attempo Un sogno (collocabile forse dopo rincontro con Titorelli)
( he pur appartenendo al romanzo vennero pubblicati da Kafka nella
I accolta Un medico di campagna. La rivelazione del guardiano che, ap­
prestandosi a chiudere la porta della Legge urla all’uomo di campagna,
ormai giunto allo stremo della vita, le terribili parole: «Qui nessun altro
poteva ottenere di essere ammesso, perché questa entrata era destinata
solo a te», si salda con la lettura del proprio nome inciso sulla lapide
li inerari da parte di K. nel preciso momento in cui questi precipita nella
■ profondità impenetrabile» del sepolcro. Si tratta, in entrambi i casi,
di una rivelazione negativa che coincide con la stessa distruzione di
ibi ha languito a lungo nell’attesa o di chi, come il K. del Processo,
h.i lottato infaticabilmente contro il tribunale invisibile. Alla fine del
k »manzo l’esecuzione sommaria di quest’ultimo fa balenare ancora una
volta tutta l’ambiguità di una storia che nasconde nelle sue pieghe, nel
pclido profilo della sua ermetica «purezza», l’immagine di una contrad­
dizione tra il timore della morte e il riconoscimento della morte come
ilvezza. In questa contraddizione s’inscrive il destino di uno scrittore
■ he proprio nell’esperienza e nella cognizione del dolore sembra allu-
ilrre al mysterium tremendum di una giustizia «ai confini dell’umano»
I traduce il senso del suo avvicinamento a questo mistero in quello ine­
splicabile dell’arte. «Tenere stretto da oggi il diario!», annotava Kafka
nei Tagebücher. «Scrivere regolarmente! Non rinunciare! Anche se la
icdenzione non viene, voglio però esserne degno ad ogni momento».

119
Nel labirinto della colpa5

«Se hai seguito una volta sola il suono illusorio del


campanello notturno, non c’è più rimedio per te.»
F. Kafka

In una lezione tenuta nel 1957 presso la School of Psychiatry a Washin­


gton e poi pubblicata sulla rivista «Merkur » con il titolo Colpa e sensi
di colpa, Martin Buber osservava, a proposito del Processo di Kafka,
che tutto l’insieme del tribunale, dell’imputato e della gente che gli sta
attorno potrebbe essere chiamato «labirintico». Tutto questo disordine
condotto all’assurdo rimanda, secondo Buber, ad un «ordine segreto»
che non può essere indicato «neppure in via allusiva»: questo ordine
potrebbe manifestarsi solo laddove Josef K., l’accusato del Processo,
giungesse a confessare la sua colpa, ma a questa confessione egli non
perverrà mai e così il filo che potrebbe condurre fuori dal labirinto non
può essere in alcun modo raggiunto in questo libro. Il labirinto resta un
intricato cammino senza via d’uscita.
Tuttavia K. percorre questo labirinto: lo percorre fino a consegnarsi
con una strana docilità, che sembra nascondere una mutata coscienza, ai
suoi carnefici per l’esecuzione della condanna capitale. Ed è questo er­
rare nel labirinto che altro non è, a mio giudizio, se non il labirinto stes
so della colpa, l’arduo tema del Processo. Purtuttavia l’identificazione
del labirinto in questi termini non è data esplicitamente nel romanzo: i
già dal suo incipit la colpa è presentata come una realtà puramente ipo­
tetica che viene immediatamente esclusa dalla coscienza. «Qualcuno
doveva aver calunniato Joseph K. perché, senza che avesse fatto niente
di male [c.n.], una mattina fu arrestato». Le circostanze dell’arresto, per
quanto inspiegabili, sembrano comprese nell’ordine della quotidiani
tà, nel senso che ne rappresentano una trascurabile smagliatura, hanno
l’aspetto di un incidente neppure tanto rilevante. Immediatamente K. si
sforza di ricondurre a quest’ordine quel che gli sta succedendo. «In fin
dei conti K. viveva in uno stato di diritto, dappertutto regnava la pace,
le leggi erano tutte in vigore, chi osava coglierlo di sorpresa in casa
sua? Egli era sempre incline a prender le cose quanto più possibile alla
leggera, a credere al peggio solo quando il peggio era arrivato, a non

5 Introduzione a F. Kafka, Il Processo, trad. it. di E. Franchetti, Milano, Rizzoli, 19gfi,


(N.d.C.).

120
cautelarsi per il futuro neppure quando tutto lo minacciava.»
K. pensa dunque di starsene tranquillamente «al gioco», poteva trat­
tarsi di una «commedia» o anche di «uno scherzo montato dai colle­
glli»: l’importante è non commettere alcuna imprudenza. Ed ecco che
K. ritiene perfettamente coerente con le regole di un comportamento
responsabile esibire i propri documenti d’identità e invitare le guardie
a mostrargli il mandato di arresto. Ma fin da questi primi avvenimenti
non si tarda a comprendere che la logica dei fatti è alterata; che quanto
sia accadendo non può essere compreso nella norma del quotidiano:
non può esservi alcun dialogo effettivo tra K. e gli uomini venuti ad
arrestarlo, nessuna possibilità di accordo su cose «ragionevoli».
Si direbbe dunque che «altra» sia la logica della situazione in cui
K. si trova inesorabilmente coinvolto: non quella del senso e neppure
quella della colpa, la cui presupposizione risulta quasi un trascurabile
dettaglio, ma quella di un progressivo slittamento fuori da ogni nor­
ma e da ogni coerenza, quasi fosse questa la logica imponderabile e
lacunosa del sogno che purtuttavia ha il peso di una realtà ineludibile,
e addirittura schiacciato sulla realtà stessa. Solo che questa realtà è dis­
solta nel suo fondamento: la non formulabilità dell’accusa equivale alla
sua irrealtà e tutto si svolge come se non fosse in questione la colpa di
K.. ma solo una serie di procedure arbitrarie, incontrollabili, o meglio
d residuo del loro disfacimento tra comportamenti tanto imprevedibili
quanto ottusi (quelli delle guardie e dell’ispettore) e la condizione di as­
surda impotenza della loro vittima alla quale viene lasciata, nonostante
I arresto, ampia libertà di movimento: «Non posso neppure dirle che lei
r accusato - dice l’ispettore - o piuttosto non so se lei lo sia. Lei è in ar­
resto, questo è esatto, di più non so». E ancora: «Lei è in arresto, certo,
ma questo non le deve impedire di esercitare la sua professione. E non
dovrà intralciare neppure il suo tenore di vita abituale».
L’imputazione è un’incognita che sembra del tutto secondaria e mar­
in naie rispetto alla successione degli eventi: se non fosse per la febbrile
inquietudine di K., per l’affollarsi dei suoi pensieri e dei suoi interro­
gativi, si direbbe che questa imputazione sia del tutto ipotetica e con­
getturale, sia un dato puramente immaginario, un’eventualità remota ed
evanescente. Tutto questo si combina con l’altro dato immaginario: la
t olpa, che non viene neppure presa in considerazione da K., saldamente
ancorata com’è, fino all’incontro con il sacerdote, nel capitolo nono, a
una prospettiva rigorosamente pragmatica di valutazione dei fatti, alle
i ategorie logiche del giudizio. E la sua incrollabile, ostinata fiducia nel

121
potere del buon senso, nel dispositivo univoco e infallibile della ragione
a fargli pensare di essere di fronte a un semplice «affare» da risolvere,
un «grosso affare» non dissimile da quelli che gli si presentano quoti­
dianamente dinanzi nella pratica della sua professione di funzionario di
banca. La possibilità della colpa viene preventivamente esorcizzata non
tanto dalla coscienza della propria innocenza, quanto dal fatto che pei
K. potrebbe esistere solo una colpa oggettivamente determinata e cir­
costanziata, definibile sulla base di un preciso ordinamento normativo.
La sua concezione «giuridica» della colpa gli impedisce di pensare che
questa possa essere «altro», qualcosa che «attira» le autorità come pre­
scrive una legge imperscrutabile. Nel dialogo del capitolo nono questa
convinzione viene ribadita con le parole: «Io però non sono colpevole»
disse K. «è un errore. Come può mai un uomo in genere essere colpevo­
le. Qui siamo pur sempre tutti uomini, gli uni quanto gli altri.»
Questa arrogante presunzione d’innocenza non è tuttavia che la con­
ferma della presenza della colpa e non a caso il sacerdote risponderà a K.:
«Questo è vero [...] ma così parlano i colpevoli». In parte della letteratura
rabbinica, infatti, questa presunzione è letteralmente invertita: «Non c’è
un giusto sulla terra che agisca bene e non pecchi» (Eccles. VII, 20); «Se
un uomo vede venire sofferenze su di sé, esamini le sue azioni, come è
detto: “Cerchiamo le nostre vie ed esaminiamole, e torniamo al Signo­
re”» (Lament. Ili, 40); «Se esaminando le proprie azioni, non ha trovalo
in esse la causa delle sue sofferenze, le attribuisca al trascurare la Torah,
come è detto: “Felice l’uomo che tu, oh Dio, castighi, e a cui insegni la
tua legge”» (Salmo XCIV, 12). «La grande colpa dell’uomo - diceva il
Rabbi Bunam ai suoi chassidim - non sono i peccati che commette: la ten
tazione è potente e la forza dell’uomo è poca! La grande colpa dell’uomo
è che in ogni momento potrebbe convertirsi e non lo fa».
Escludere da sé la colpa è parlare il linguaggio della colpa, perche
questa è talmente incarnata in noi da divenire la nostra stessa esistenza
Commentando la parabola Dinanzi alla legge, M. Susman osservava
«Il brivido gelido che spira da questa leggenda, dice: la colpa - e una
colpa di natura particolare - è posta ineluttabilmente con la nostra vita.
È l’annientamento che impedisce ogni accesso al reale. Questa colpa è
posta col ritrarsi di Dio da noi e col fatto che noi abbiamo perduto nel
rapporto con lui anche il rapporto con noi stessi e con il mondo: essa è
posta col fatto che noi non sappiamo più che cosa dobbiamo fare».
E evidente che il segreto rinvio a una colpa inconfessabile e indicibile
può costituire una delle molteplici chiavi di lettura del Processo-, in que

122
sto senso poco importa, in fondo, che questa colpa sia vista come una
Iregressione, di cui Kafka è peraltro consapevole, nei confronti di quella
pienezza dell’«umano» che è rappresentata dal matrimonio e dalla fami­
glia, dalla comunità religiosa, dal lavoro. Alla base dell’indefinita esten­
sione semantica del concetto di colpa, così come appare nelle confessioni
ilei Diari e delle Lettere, e quindi tenendo conto degli elementi biografici
I he hanno contribuito a strutturarlo (la rottura del primo fidanzamento
I on Felice Bauer sancita il 12 luglio 1914 nella «corte di giustizia» del
berlinese Askanischer Hof, sede dell’«altro processo»), sta in ogni caso
una tendenziale interpretazione teologico-esistenziale nel senso proposto
■ la G. Baioni. Egli considera infatti il Processo come un «dramma reli­
gioso» sia pure ex negativo: «La sua colpa [di K.] è quella di non avere
alcuna colpa. La sua angoscia quella di non poter confessare». E ancora:
■■ I .'eroe kafkiano insomma è sì colpevole, ma non più per il suo peccato,
bensì per la sua caparbia volontà di non peccare».
E importante tuttavia sottolineare come questo «incolpevole» parli il
linguaggio della colpa: il labirinto della colpa è il labirinto delle parole. È
nei discorsi di questo «incolpevole» che si esprime il tentativo non tanto di
attuare una determinata strategia difensiva, quanto di rimuovere la colpa
• lai la propria coscienza e in questo senso è giusto quanto notava I.C. Henel
•.ni fatto che «Josef K. non è poi così convinto della propria innocenza,
II une va affermando, e che prende il processo più seriamente di quanto non
voglia ammetterlo». Lo sviamento e nient’altro è il male (Böse ist das, was
ablenkf) e le parole sono appunto lo sviamento come labirinto. E a questo
punto che il tema del giudizio e quello della colpa risultano indissolubil­
mente intrecciati, tanto che l’uno non può essere compreso indipendente­
mente dall’altro: l’uno trova nell’altro il suo riflesso speculare.
Proprio per il fatto che la colpa è rimossa, essa diventa quella inco­
rnila che organizza la macchina giudiziaria del Processo. Ma questa
••macchina» che dovrebbe essere resa funzionale a un procedimento che
ih certi la colpevolezza dell’imputato e si concluda quindi con una sen-
lenza di assoluzione o di condanna viene letteralmente fatta a pezzi dal
••giurista» Kafka. Si tratta di una disgregazione ironica e quasi di una
..ucastica parodia che utilizza, per così dire, i relitti di una civiltà giudi-
ziuria inabissata nel tempo per comporli in una cifra sottilmente infer­
nale, anche se apparentemente inoffensiva: una cifra in cui convergono
barbarie e astrazione, una sensualità torpida e l’ambigua trascendenza
ili quell'imperscrutabile ultimo giudice che Lukàcs chiamerebbe atheos
ubsconditus. Nel Processo non si celebra, in realtà, alcun processo e

123
non si pronuncia nessun giudizio: quel tribunale sembra sepolto in una
inattingibile lontananza che perseguita senza perseguitare, ti lascia libe­
ro pur stringendoti in una terribile morsa: esso «non vuole niente da te.
Ti accetta quando vieni e ti congeda quando vai».
Quel tribunale sta in realtà al di là dello stesso giudizio, poiché si
pone oltre la stessa distinzione di bene e male, oltre ogni possibile dua­
lità. La coincidentia oppositorum ci divide da esso come quel «muro
del paradiso - direbbe Cusano - oltre il quale abita Dio». «L’unica ca­
pace di giudicare - aveva scritto Kafka nei Quaderni in ottavo - è la
parte in causa; ma essa, come tale, non può giudicare. Perciò nel mondo
non esiste una vera possibilità di giudizio, ma solo un riflesso.» Eb­
bene è in questo «riflesso» che annegano gli sforzi smisurati di K. per
giungere a capo della sua difesa. È in questo riflesso che all’incognita
della colpa nell’accusato K. corrisponde l’incognita della legge negli
organi dei tribunale, nelle intricate gerarchie dei suoi funzionari. Ma
Kafka non si arresta qui: quella incognita diventa produttiva di effetti,
nel senso che da essa discende la reductio ad absurdum di ogni «via».
«Esiste un punto d’arrivo - aveva detto Kafka nelle sue Considerazio­
ni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via - ma nessuna via;
ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione.» La «via» che
K. intende percorrere come predisposizione di una strategia difensiva
contro il tribunale è condizionata dall’automeccanica di una logica che
si rivela nel suo automatismo distruttivo, nella sua vuota tautologia
come un processo di morte. L’«esitazione» dinanzi alla colpa è la con­
dizione di chi permane nel labirinto e i suoi tentativi di trovare una via
di scampo, un’approssimazione anche se minima ad una «soluzione»,
sono condannati a schiantarsi, senza tragedia, lentamente e fatalmente,
vorrei dire morbidamente, contro il paradosso irrazionale della Legge
che potrebbe anche essere vista come la «muraglia del bene». Scriveva
acutamente Cari Einstein in un suo saggio dei tardi anni Venti, Forma
e concetto, pubblicato postumo nel ‘70: «A ogni realizzazione del mon
do si contrappone dialetticamente un processo altrettanto significativo:
quello con cui si priva il mondo di senso. Attraverso il metodo logico
non si può pervenire a un’unificazione di tutta la realtà, e la validità del
fenomeno logico è enormemente limitata. Ma proprio per la debolezza
del suo assunto, esso è appassionatamente difeso dall’uomo. Con la lo
gica non si fa che eliminare caratteri e fatti scomodi, diffìcilmente adal
tabili; essa rappresenta una riduzione del reale a favore di soluzioni con
gruenti, una selezione con cui attingere una continuità senza attriti» (trad

124
il. G. Zanasi). È l’aleatorietà, l’arbitrarietà, la casualità delle situazioni,
il complicarsi delle congetture, il loro inevitabile, tranquillo contraddirsi
h determinare il collasso di quella «logica» a cui è tenacemente attaccato
K.: «Si aggiunge, - dice a un certo momento l’avvocato - se l’istante
In pressione, che prima della decisione, appena l’intera documentazione
sarà stata raccolta, tutti gli atti, e dunque anche quella prima comparsa,
saranno esaminati, naturalmente nel contesto. Purtroppo però il più delle
volte neppure questo è vero, di solito la prima comparsa viene messa
nel posto sbagliato o va addirittura smarrita, e anche nel caso che resti al
suo posto fino alla fine, è molto se vi si dà un’occhiata, secondo quanto
risultava all’avvocato sia pure solo per sentito dire. Tutto ciò era deplore­
vole, ma non è del tutto ingiustificato.» Gli stessi funzionari del tribuna­
le suscettibili e ombrosi, vendicativi come bambini, si dissolvono come
possibili interlocutori nell’imponderabilità dei loro umori, nella gratuità
delle loro decisioni, nella incertezza che li costringe talora a recarsi dal­
l'avvocato «per consiglio» «e dietro di loro un usciere porta gli atti, al-
nimenti tanto segreti»; «[...] possono manifestare con risolutezza nuove
intenzioni, favorevoli alla difesa, e poi andare diritti alla loro cancelleria
ed emettere per il giorno dopo un’ordinanza contenente l’esatto contrario,
h u se molto più severa per l’imputato di ciò a cui miravano inizialmente e
su cui avevano affermato di essersi completamente ricreduti».
Lo stesso carattere ubiquitario del tribunale che ha i suoi uffici quasi
in ogni solaio e al quale si accede anche dalla squallida cameretta di
I itorelli rimanda a una totalità disgregata, ma purtuttavia onnipotente
c onninvadente, benché nascosta dietro una inimmaginabile scala ge-
mrchica. Si potrebbe dire che il tribunale è ovunque e in nessun luogo,
quasi come un invisibile universo concentrazionario in cui si riflette la
slessa ambiguità costitutiva della legge: esso infatti decide fuori di se
siesso, al di là delle sue stesse istanze e delle aule di dibattimento.
«“Pare che lei non si sia ancora fatta un’idea complessiva del tribuna­
le" disse il pittore, teneva le gambe divaricate e batteva con la punta dei
piedi sul pavimento. “Ma dato che è innocente, non ne avrà nemmeno
Insogno. A tirarla fuori ci penserò io.” “E come farà?” chiese K. “Proprio
poco fa ha detto lei stesso che il tribunale è completamente inaccessibile
iille prove.” “Inaccessibile solo alle prove che vengono addotte davanti
al tribunale” disse il pittore, e alzò l’indice come se K. avesse trascurato
una distinzione sottile. “Ma le cose vanno diversamente per quello che si
I crea di fare dietro il tribunale pubblico, cioè nelle camere di consiglio,
nei corridoi o anche per esempio qui, nello studio”».

125
Lo stesso processo è una «cosa» del tutto indipendente da chi vi è
coinvolto, sia esso imputato o avvocato: accade così che esso sfugga
inesplicabilmente a ogni controllo, passi sotto la competenza di corti
inaccessibili e si ritragga così in una dimensione ignota e insondabile:
«non si sa più nulla del processo e non se ne saprà più nulla».
Ogni tentativo di K. per orientarsi su una possibile linea di difesa pre­
cipita nell’incertezza e nell’errore perché il quadro della situazione muta
continuamente: il tribunale diventa un castello di congetture, di suppo­
sizioni subito smentite, di argomentazioni tortuose, di sviamenti. Certo
v’è ancora in lui una volontà di lotta: «A questi sforzi non era lecito ri­
nunciare, bisognava organizzare e controllare tutto, il tribunale si sarebbe
finalmente trovato davanti un imputato che sapeva far valere i suoi dirit­
ti». Ma questa sfida resta sempre senza risposta. K. si ostina a ritenere
che proprio dall’esistenza di funzionari infidi e corrotti poteva derivargli
qualche vantaggio, come dichiara a Titorelli: «Se con le relazioni perso­
nali si potevano rendere i giudici così malleabili, come diceva l’avvocato,
allora le relazioni del pittore coi giudici vanitosi erano particolarmente
importanti e comunque tutt’altro che da sottovalutare».
La logica di questa strategia difensiva è una logica strumentale per­
ché presume di introdurre nell’alcatorietà degli eventi e nell’irraziona
lità dei comportamenti una coerenza e una concatenazione causale che
sono funzionali soltanto al pregiudizio di una razionalizzazione resti
inane nei suoi stessi presupposti perché viene immediatamente risuc­
chiata e distorta da coloro che dovrebbero costituirne i supporti ogget­
tivi: sia Huld che Titorelli che Bloch, come pure le donne incontrate da
K., sgretolano e vanificano ogni certezza, ribaltando ogni univoca mec­
canica concettuale in un intricato sviluppo di ipotesi e di labili conget
ture in cui appunto quella logica si perverte e si degrada. Ma in realta,
nella sua presunzione di introdurre nell’aleatorio e nell’imprevedibile
una benché minima congruenza, essa si rende funzionale proprio alla ri
mozione della colpa che si nutre dì questa logica opposta, per il suo ca­
rattere semplificatorio e riduttivo, a ogni tensione paradossale e a ogni
choc liberatorio. Il labirinto dei discorsi, delle situazioni, della casistica,
della corruzione, della stessa inerzia contagiosa in cui K. si smarrisce,
tradisce appunto questa rimozione, ne costituisce addirittura il riflessi!
oggettivo. Si potrebbe aggiungere che la stessa sporcizia dei solai, lo
stesso squallore degli ambienti oscuri e malsani ingombri di ciarpame
miserabile, le stesse presenze umane trasandate e derelitte, sopraffatte
dalla devastazione sordidamente immanente alle cose, altro non sia che

126
l'affiorare di una indecenza interiore che è quella di K. e non già del
tribunale. In questo senso è forse accettabile la tesi di Neumann che
vede il processo come un «processo di pensiero» riferibile esclusivamen­
te a una singola prospettiva, quella di Josef K.: è proprio l’inaccessibili­
tà e inafferrabilità del tribunale a rendere possibile questa deformazione
poiché ad altro non può pervenire il punto di vista individuale espresso
dal mondo umano con tutta la sua infinita inadeguatezza: sono le stesse
caratteristiche personali di K. a proiettarsi in questa immagine distorta
del tribunale. Anche lo schizzo osceno che K. vede disegnato in un li­
bro della legge nella cancelleria del tribunale viene ricondotto da J.M.S.
l’asley a una esegesi del Talmud secondo la quale il motivo dell’atto ses­
suale, che nella scrittura veterotestamentaria deve essere compreso come
lappresentazione sensibile dell’unione di Israele con la divinità, diventa
occasione di monito per ogni lettura moralizzante e falsificante.
Anche queste considerazioni rafforzano la tesi di una fenomenologia
della colpa espressa nella figura del labirinto e quindi nell’inganno di
una proiezione simbolica. Il culmine di questo autoinganno sta nel pro­
getto di K., allorché si decide ad abbandonare l’avvocato e medita di
scrivere lui stesso una propria memoria. «La comparsa richiedeva cer­
io un lavoro pressoché infinito. Anche senza avere un carattere molto
ansioso era facile convincersi che portare a termine la comparsa fosse
impossibile. Non per pigrizia o perfida astuzia, che come impedimenti a
terminarla potevano valere solo per l’avvocato, ma perché non sapendo
qual era attualmente l’accusa e ancor meno quali sarebbero state le sue
possibili estensioni, non restava che riportare alla memoria l’intera vita
nei minimi atti ed eventi, rappresentarla ed esaminarla da tutti i lati.»
Le ultime battute del dialogo tra K. e il cappellano nel capitolo nono,
dove è contenuta la parabola Davanti alla legge, sembrano ribadire l’ir­
riducibilità di K. nella difesa delle sue «ragioni»: «No,» disse il sacer­
dote «non bisogna credere che tutto è vero, bisogna solo credere che
lutto è necessario.» «“Un’opinione desolante” disse K. “Della menzo­
gna si fa ordinamento del mondo”.» Ma ecco che subito all’inizio del
I apitolo successivo, con cui si conclude questo frammento di romanzo,
K. si abbandona con una strana arrendevolezza ai due uomini che gli
si presentano dinanzi, nel suo appartamento, «in finanziera, pallidi e
rassi, con cilindri a quanto pareva non rientrabili». Questa docilità non
corrisponde a una maturata coscienza di colpa, ma solo al fatto che
questo «esito» del processo è ormai sentito come necessario. «Senza
i he la visita gli fosse stata annunciata, K., anche lui vestito di nero,

127
sedeva su una sedia vicino alla porta e si infilava lentamente dei guanti
nuovi che si tendevano all’estremo delle dita, nell’atteggiamento di chi
attende degli ospiti.» La docilità di K. non è l’atteggiamento di chi si
sottomette a un verdetto, consapevole della colpa che lo giustifica, ma
quello di chi si piega alla necessità e altro non chiede a se stesso se
non di «conservare sino alla fine la mente che serena ripartisce». È in
questo modo che il processo si è trasformato poco a poco nella sen
tenza, poiché - come aveva detto il sacerdote - «il giudizio non arriva
di colpo». La necessità si è sostituita alla verità: la verità della colpa
è diventata la necessità della colpa, come aveva affermato ancora lo
stesso cappellano: « [...] non bisogna credere che tutto è vero, bisogna
solo credere che tutto è necessario». Ora K. tace: di fronte al mutismo
dei suoi carnefici quel poco che dice, lo dice soltanto a se stesso: non
c’è più nulla da argomentare e nulla su cui interrogare. Forse, a questo
punto, egli si rende conto che anche nella più atroce delle commedie il
grottesco orrore della fine nasconde una segreta liberazione. Nei Quii
derni in ottavo Kafka aveva scritto: «Conosci te stesso non significa
Ossérvati. Ossérvati è la parola del serpente. Significa: Fatti padroni-
delie tue azioni. Ma tu lo sei già, sei padrone delle tue azioni. Questa
frase pertanto significa: Ignorati! Distruggiti! Dunque una cosa cattiva
E solo chi si china profondamente ne ode anche il messaggio buono,
che dice: “Per fare di te stesso quello che sei”». Si potrebbe collegare a
questo pensiero l’annotazione contenuta nei Diari'. «La gioia consisteva
nel fatto che il castigo sopraggiungeva e io gli davo il benvenuto cosi
libero convinto e felice». Ma non è su questo accordo che si chiude la
cupa cadenza musicale delle ultime pagine del Processo'. K. non arriva
ancora a «ignorarsi» e a «distruggersi», anche se si rende perfettamen
te conto «che sarebbe stato suo dovere afferrare il coltello, mentre gli
oscillava sopra da mano a mano, e infilarselo in corpo». Per questo la
pena diventa - come osserva W.H. Sokel - «la ripetizione e l’eternizza
zione della colpa» non diversamente da quel che avviene ne\YInferno
dantesco. K. muore «come un cane», scannato selvaggiamente dalle
mani dell’uomo che gli gira due volte il coltello nel cuore. E questa è la
sopravvivenza della «vergogna». «Esiste - potremmo dire con Marcuse
- la colpa per un’azione che non è stata compiuta: la liberazione.» k
non si è liberato: ha subito ancora una volta la seduzione torpida e senza
pace del «labirinto».
Kafka attende alla stesura del Processo, un romanzo rimasto incompiuto
anche se non privo del capitolo conclusivo, tra l’agosto del 1914 (come

128
risulta dai Diari) e il gennaio dell’anno seguente (alla prima metà di di­
cembre del ‘ 14 risale la parabola Davanti alla legge). L’opera venne pub­
blicata a cura di Max Brod, con il titolo provvisorio che gli aveva dato il
.no autore, Der Prozess, nel 1925, un anno dopo la morte di Kafka. Nota
giustamente Giuliano Baioni che non è possibile comprendere «la genesi
ili un romanzo come II processo senza ricordare che le lettere a Felice sono
un’unica, monotona, testarda confessione da parte di Kafka della sua colpa
ili essere scrittore». E indubbiamente proprio il travagliato fidanzamento
con Felice e la necessità di trovare una giustificazione della propria esisten-
/a fuori dalla normalità della condizione matrimoniale nella letteratura e
soltanto in essa costituisce in qualche modo lo sfondo di questo romanzo
concepito come un allucinato paesaggio interiore nel quale autodenuncia e
accusa sono misteriosamente intrecciate. «La capacità di descrivere la mia
sognante vita interiore ha respinto tutto il resto tra le cose secondarie e lo ha
I nrendamente atrofizzato né cessa di atrofizzarlo.» In una sua conversazio­
ne con Janouch, Kafka aveva espresso in questi termini il suo giudizio su
lohannes R. Becher: «[...] in essi [nei versi di Becher] le parole non diven­
utilo un ponte, bensì soltanto un muro alto e insormontabile».
«È proprio qui - osserva Paolo Chiarini a questo proposito - che
emerge il paradosso fondamentale di cui si nutre l’opera dell’autore
praghese: come il protagonista del Processo (lo ha rilevato molto bene
< indiano Baioni) è colpevole di voler conoscere la Legge, giacché la
verità può essere bensì “vissuta”, ma non posseduta, così la scrittura di
Kafka, l’unica forma di vita cui egli aderisce totalmente, innalza tra lui
I I ' “altra” esistenza un “muro alto e insormontabile” che le parole non
I ir scono a valicare: esse non possono fare altro che rendere trasparente
quest’ostacolo, assumere piena consapevolezza di una siffatta assenza,
ili questa irriducibile alterità.» La colpa consisterebbe dunque nel «non
vivere immediatamente nella verità, ma [nel] credere che essa possa
essere detta, farsi oggetto di scrittura».
La convergenza tra autobiografia e romanzo sembra travalicare, a
questo punto, la torturante lacerazione di Kafka nel suo rapporto con
felice Bauer, per stabilirsi nei termini di una antinomia irrisolvibile
ti a chi dice di essere soltanto letteratura e quindi porta in sé il marchio
inumano di questa condizione e chi vede nella «strana, misteriosa forse
pericolosa, forse redentrice consolazione dello scrivere» la possibilità
ili «uscire dalla fila degli assassini».
Mi pare tuttavia che la dimensione problematica del Processo trascenda
nuche questa prospettiva interpretativa e richieda un approccio ermeneuti­

129
co come quello che ho tentato di compiere nelle pagine precedenti. Non si
dimentichi che la parabola Davanti alla legge, come pure il frammento Un
sogno (collocabile forse dopo rincontro con Titorelli), possono essere visti
come immagini speculari di un identico enigma, quello che viene espresso
dal guardiano quando apprestandosi a chiudere la porta della Legge urla
all’uomo di campagna, ormai giunto allo stremo della vita, le terribili pa­
role: «Qui nessuno poteva ottenere accesso, questa entrata era destinata
unicamente a te». Della colpa come labirinto dunque è possibile avere solo
una rivelazione negativa che coincide con la stessa distruzione di chi ha
languito a lungo nell’attesa o di chi, come il K. del Processo, ha lottato
infaticabilmente senza neppure conoscere il senso ultimo della sua lotta
La scrittura si pone così come la colpa di chi vive, con timore e tremore,
«ai confini dell’umano» e si sforza di leggere nel geroglifico dell’esistenza
come condizione «peccaminosa» in cui ci troviamo «indipendentemente
da ogni colpa» (Considerazioni) il senso di una redenzione possibile, quasi
questa non potesse essere data che dall’attraversamento della colpa stessa
perseguito temerariamente dalla scrittura. Ma proprio qui sta l’ebbrez/a
della lotta definitiva poiché, come dice Kafka: «È dal vero avversario che
t’invade un coraggio senza confini».

130
Ill

In via allusiva

Profilo di un’interpretazione: il linguaggio allusivo1

Negli aforismi e frammenti di diario raccolti negli otto Oktavhefte


Kafka scriveva, sotto la data del 7 dicembre 1917: «Per tutto ciò che
sia al di fuori del mondo sensibile il linguaggio può essere usato solo
in maniera allusiva [andeutungsweise}, mai invece in maniera anche
soltanto approssimativamente comparativa, dal momento che esso, cor-
lispondentemente al mondo sensibile, tratta unicamente del possesso e
delle sue relazioni». Si potrebbe prendere le mosse da questo pensiero
per cercare di stabilire in termini corretti, senza indebite sovrapposi­
zioni aprioristiche, una linea interpretativa riguardo l’opera kafkiana o
meglio i termini in cui si pone il problema del suo significato.
Se il piano immediato di scrittura (e quindi di lettura) su cui si di­
spone un racconto di Kafka, qualunque sia la sua forma (relazione, pa­
tibola, pseudoconfessione, cronaca epica, fiaba, leggenda o aneddoto
leggendario), non esaurisce la totalità del significato o dei significati
hi esso presenti, su quale altro piano dovrà orientarsi la comprensione
ermeneutica, così da raggiungere, appunto, queste totalità?
Direi che questo è un piano sovrareale o infrareale non ci aiuta molto:
e un fatto che esso interseca profondamente quello della immediatezza
dove si organizza la logica «comportamentale» del senso comune e anche
I pici l’ipertrofia legalistico-sofistica (quasi una talmudica Grübelei) carat­
ici istica della cristallina e talora sottilmente ironica prosa kafkiana.

L’estraneo

Ma allo stesso modo con cui vengono tolti al «gesto» i «sostegni tradi­
zionali» (Benjamin), così anche questa logica viene neutralizzata attra-
' arso la tematizzazione artistica dell’ovvio o del familiare, che diventa
in tal guisa il massimamente ambiguo, l’estraneo. Si direbbe che KafkaI

I II seguente saggio accompagna le edizioni Garzanti delle opere di Kafka dal 1974 (N.d.C.).

131
rovesci la tesi husserliana del mondo come «familiarità universale», in
cui è nascosta la possibilità di rendersi noto dell’estraneo. Questa «fa­
miliarità», in cui si danno significati apparenti, rimanda, in Kafka, a unii
sostanziale estraneità, all’annullamento di ogni significato. Il movimento
dal non-essere-noto al noto, in cui si realizza l’autocomprensione husser­
liana dell’io e del mondo, è per Kafka inverso: va dal noto al non-essere-
noto, dalla presunta stabilità del giudizio al vanificarsi di ogni certezza,
dalla speranza dell’attesa al vanificarsi di ogni attesa. A misura che il
mondo dell’ovvio viene intaccato, l’orrore dell’estraneo si trasferisce in
esso, quasi sotto la sua superfìcie: a misura che la vita si cerca, si derea
lizza, nel senso che il senso stesso della ricerca si obnubila e si smarrisce.
Ogni sapere-di-più - per parafrasare ancora Husserl - diventa un non-sa
pere progressivo, parallelamente al frantumarsi del mondo come orizzon
te del sapere e della certezza come fede nel mondo.

Il linguaggio allusivo

In quanto piano di linguaggio i cui referenti non sono sensibili, ma


«esterni» al mondo sensibile {sinnliche Welt), l’intero assetto semantico
della scrittura allusiva non può più essere governato dal riferimento al
possesso o alle categorie di relazione, come accade invece per l’«altro»
linguaggio corrispondente alla dimensione dell’immediatezza. Quando
Kafka sottolinea il carattere allusivo e non comparativo di questo secoli
do piano extra-sensibile del linguaggio, intende ribadire appunto questa
differenza. Una differenza che con eccessiva disinvoltura gli interpreti
si sono affrettati a trasferire sul terreno ontologico-metafìsico, mentir
invece si tratta di una differenza semiologia, analoga a quella esistente
tra denotazione e connotazione. È proprio tenendo presente lo spazio
multivalente e ambiguo creato dalla connotazione, rispetto alla rigidi!
fissazione univoca di significati operata dalla denotazione, che si può
cogliere il fondo allusivo del linguaggio - cui si riferisce Kafka - come
un surplus di senso poeticamente concreto, irriducibilmente a conven
zioni predeterminate. Un linguaggio allusivo è un linguaggio per figlile
semantiche il cui valore - come scrive Genette rinviando a Sartre - «non
è dato nelle parole che [le] compongono poiché dipende da uno scarto
tra queste e quelle che il lettore percepisce mentalmente al di là di esse
“in un perpetuo superamento della cosa scritta”».
La virtualità allusiva del linguaggio fa sprofondare in una voragine il
mondo dei significati nel momento stesso in cui sembra alludere a esso,

132
Potremmo chiarire tutto ciò con una figura emblematica (un’immagi­
ne grafica dell’allegoria - la chiamerebbe Benjamin): quella del ponte.
Il singolarissimo ponte descrittoci da Kafka nella «parabola» che porta
questo titolo (Die Brücke) non sa librarsi compiutamente sopra l’abisso
per raggiungere l’altra riva: infatti, quando questo sta per accadere e un
passo umano cammina su di lui, esso si volge a guardare «chi» lo sta
percorrendo. E nel tornare indietro, precipita lacerandosi - proprio come
una creatura umana - sugli aguzzi ciottoli del torrente. Il linguaggio è un
• ponte» che raggiunge l’altra riva, cioè sormonta l’abisso tra significante
e significato, solo allorché nessuno lo «percorre»: diversamente esso è
impraticabile e lascia aperto l’abisso. Le figure del linguaggio allusivo o,
se vogliamo, la scrittura allegorica, nel senso benjaminiano di un riman­
ilo a una molteplicità profonda e soggettiva di significati, sono l’estremo
limite umano della possibilità che ha il linguaggio di divenire ponte.
Questo resta saldo su se stesso solo allorquando non serve a nessuno,
ma quando, come il linguaggio, si umanizza, non può rimandare che a
lignificati prodotti nel momento dell’ambivalenza e del labirinto, signi-
lieati assenti o impossibili.

Gesto e monogramma

I a critica kafkiana ha fatto largamente ricorso alle figure della metafo-


ia. dell’allegoria, del simbolo, della parabola, ma senza un preliminare
esame critico della legittimità del loro uso. Un preventivo accertamento
avrebbe potuto sgombrare il campo da quel groviglio d’interpretazio­
ni teologizzanti (da Max Brod a Rochefort) o ontologico-esistenziali
iHinrich) che hanno spesso preteso di mediare in termini sistematici i
■ geroglifici» e di sciogliere su base teorica i sigilli simbolici dei testi
kafkiani. E invece alla luce di un’operazione critica strettamente con­
nessa alla loro dimensione semantica, senza presupposizioni apriori-
•ln he, che si può mettere in evidenza come sia la stessa articolazione
allusiva del linguaggio a intenzionare un mondo di significati ora di-
II hiuso nel monogramma allegorico (si pensi alla iscrizione del nome
In .ef K. nel racconto Un sogno), ora espresso come parabola negativa,
um appena trasparente nell’ultima spettralità del gesto.
Nel gesto, infatti, si trapianta figurativamente questo parlare per immagi­
ni! he nella loro segreta valenza sembrano trascendere la specificità retori-
• I della metafora per una rifondazione semantica del discorso poetico.
Si pensi al movimento della sorella di Gregor che si alza dal sedile del

133
tram «stirando il suo giovane corpo», un movimento che ricorda quello
della pantera nella gabbia del digiunatore: «quel nobile corpo provvisto
di tutto quanto occorre a sbranare sembrava portare seco anche la libertà;
pareva che le [alla giovane pantera] si fosse annidata in qualche punto delle
fauci; e da quelle fauci la gioia di vivere erompeva con tanta violenza che
per gli spettatori non era facile resistervi».
Con altro significato, si ricordi l'atteggiamento del digiunatore che sul
punto di morire «sollevò un po’ il capo e parlò colle labbra appuntite come
per un bacio proprio aU’orecchio del sorvegliante», o il gesto della mo­
glie del carbonaio che nel Cavaliere del secchio si scioglie il grembiule e
lo agita facendo sollevare l’esile figura dell’innaturale cavaliere sospeso a
mezz’aria dal vento gelido.
Non ci pare convincente la tesi di E. Zolla, che riprendendo un’idea
di Wladimir Rabi vede in Kafka «l’ultimo grande scrittore chassidi
co e cabbalistico» nel quale la tradizione mistica ebraica dovrebbe
costituire «l’oasi dalla quale egli guarda il mondo moderno». In real
tà, la presunta distanza di Kafka dal mondo moderno ha ben diverso
valore da quello che gli vorrebbe attribuire Zolla e non equivale in
nessun modo a una critica spiritualista legata ai valori permanenti e
trascendenti della tradizione. È proprio invece la presenza di questo
nostro tempo («il mio tempo», dirà Kafka, «cui mi sento molto vi
cino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di
rappresentare») nell’opera dello scrittore a radicalizzare, in una sorta
di «cabbaia» individuale a sfondo nichilista, quegli elementi antire­
staurativi e paradossali della tradizione cabalistico-chassidica per i
quali lo stesso avvento del Messia è legato a condizioni impossibili,
al giorno, cioè, in cui tutte le lacrime di Esaù si saranno disseccate,
Per questo l’allegoria nichilista dei racconti kafkiani non adombra il
divino «nulla originario» (q/'in gamur) dei cabalisti, identificato con
la stessa infinità di Dio (En-Sof), né quello dell’eckhartiano «fondu
mento senza fondamento», ma un sortilegio nullificante immanente
alla stessa quotidianità. Oltre la precarietà del possesso di un mondo
di cose (come emerge nel Dialogo col devoto), questo nulla intacc»
ogni possibile fondamento, separa il desiderio dalla cosa desidera tu,
l’attesa dal Messia, la speranza dal sabbath, il singolo da antenati o
discendenti.
È questo nulla a creare le antitesi: «esse fanno sì che si vada fino in
fondo, che ci sia ricchezza senza lacune, ma soltanto come una tigni »
nella ruota della vita».

134
«La metamorfosi»

Non si ha, in Kafka, un'interrelazione tra «mondo narrato» e figura alle­


gorica, quasi che quest’ultima sia un «diversivo» del racconto, un dop­
pio fondo o una feritoia sull’onirico, sul «mondo sotterraneo», come
iiccade in E.T.A. Hoffmann. Il racconto kafkiano costituisce un unico
blocco le cui commessure sono perfette e senza vuoti, il continuum del
narrato è senza fratture e scarti: ma proprio per questa ragione la com­
pattezza del narrato, così ancorata all’osservazione dei fatti, al realismo
ili una descrizione puntuale e addirittura pointilliste, non esaurisce la
totalità dei significati aperta dall’articolazione allusiva della scrittura.
I a totalità del narrato trascende il narrato, nel senso che si potrebbe
dire, con Husserl, a proposito di questi racconti: «Io esperisco cose,
ina non esperisco “un senso d'essere”, cose in quanto senso». L’asse
nietasemantico del racconto è questo «senso d’essere» che si sottrae
al nudo «così è» (so sein) della «trattazione» narrativa e costituisce il
perno invisibile dello straniamento allegorico. Ma non è - si badi bene
il dato dell’oggettività quotidiana a essere straniato nell’allegoria: è
paradossalmente quest’ultima a straniarsi nel quotidiano. Questo costi-
luisce, in definitiva, la cifra massimamente allusiva, la vera e propria
pietrificazione o scrittura «runica» dell’allegorico.

La reificazione

I -a verità della Metamorfosi diventa così, in questa prospettiva, quella


stessa della reificazione. In questa sta l’intima verità del quotidiano,
I un le sue ristrette cerehie d’interessi, con l’avvilente solerzia della
macchina da lavoro (il commesso viaggiatore Gregor Samsa). La meta-
lura dello scarafaggio è appunto una metafora dell’uomo reificato; ma
proprio questa verità, che non può dissolversi in una fantasia onirica
o in un gioco surreale, viene deliberatamente elusa dai vari compo­
nenti della famiglia e da Gregor stesso. Tuttavia la dinamica di questo
spossamento bestiale o meglio autorivelazione dell’uomo non-umano
I isulta perfettamente inserita nel tic-tac dell’esistenza borghese, anche
se viene censurata dalla coscienza, rimossa in un suo «luogo» riservato
al sozzume e all’inconfessabile. Questo atteggiamento è presente nello
»lesso Gregor, in cui emerge il momento sacrificale della reificazione
piccolo-borghese: dopo il primo moto di stupore «Che cosa mi succe­
de?», egli trova naturale seppellirsi nel suo oscuro involucro corporeo,

135
riducendo progressivamente il campo stesso della coscienza alle per­
cezioni degli stimoli elementari. Nessun orrore, quindi, da parte di chi
si ritrova nel suo corpo così come da sempre è stato, all’interno di un
orizzonte angusto d’appetiti e di volizioni subumane.

I racconti

Il nulla germina e cresce negli interstizi di una realtà quotidiana che sembra
così compatta e univoca, si spalanca all’improvviso precipitando il medico
di campagna lontano dalla sua casa e dai suoi affetti in uno sconfinato «de­
serto di neve», trascinato nella sua carrozza da cavalli «non terreni» su una
strada per cui non è dato ritorno. Ma il nulla s’insinua anche nel terribile
incantesimo dell’irrazionale che scaglia il figlio, nel racconto Zz/ sentenza,
al di là del parapetto del fiume, con sulle labbra una tragica confessione
d’amore per i suoi genitori. Sono le «fragorose trombe del nulla» a me­
scolare la colpa al castigo e il castigo alla colpa, la rassegnazione alla lotta
e la lotta alla rassegnazione, l’impazienza alla violenza e la pazienza alla
colpevole pigrizia. Se, come dice la cabbaia, il male è un vaso infranto del
bene («il cielo stellato del bene», scrive Kafka), anche la ricerca di una pei
fezione identificata come sovrumanità solitaria e inaccessibile - il trapezista
di Erstes Leid (Primo dolore) e «l’artista del digiuno» con quel suo terribile
«malcontento di sé» - è un’ironica demoniaca negazione del bene, e l’os
sessionante strategia di difesa dal mondo esteriore (La tana) altro non poti a
essere che una reductio ad absurdum del mito di una salvezza privilegiata
perché solo nostra. E il nulla divorare la follia di tutti coloro che non vollero
essere re ma messaggeri di re e poiché esistono solo messaggeri «che ga
loppano attraverso il mondo» e più nessun re, «si gridano l’un l’altro mes­
saggi divenuti insensati». Anche nell’eterno crepuscolo di chi alla finestra
attende da sempre il messaggio dell’imperatore o di chi veleggia «senza
timone» nelle «infime regioni della morte» senza giungere mai a morire (//
cacciatore Gracco) è avvertibile la presenza del nulla, quasi fosse un’intcr
minabile pausa, un vuoto orrendo scavato tra domanda e risposta. La do
manda deve avere già da sempre in sé la sua risposta e forse è addirittura hi
risposta - dirà Kafka - che va in cerca della domanda, «la segue nei sentieri
più assurdi, cioè più lontani dalla risposta stessa». La secolarizzazione del
nulla dei mistici si opera, in Kafka, attraverso il rovesciamento del proble
ma della domanda e del significato. «Le domande [...] che non rispondom >
a se stesse nel nascere, non trovano mai risposta» (28 dicembre 1915). Cosi
avviene per il significante che se non nasce «con» il suo significato, se non

136
«è» il significato, rimanda a un significato impossibile. Poiché, in realtà,
■ non vi sono distanze da superare» e l’assurdo della domanda, come del-
r «attesa o del lamento» sta nel percorrere una distanza inesistente, dilatata
nll'infinito dai sogni dell’azione, dall’ingannevole seduzione alla lotta («Se
hai seguito una volta l’ingannevole suono del campanello notturno, non c’è
più rimedio per te»).

La profondità negativa

I racconti di Kafka rappresentano in questo senso - per usare un’espres-


ione riferita da Benjamin all’allegoria del dramma barocco - «un infinito
progresso dentro la profondità». Ma si tratta appunto di una profondità
negativa, l’«apparenza deH’infinito nel vuoto abisso del male», poiché
nlla base di questa ricerca sta appunto la prevaricazione di chi vuole co­
si mire il «regno della spiritualità assoluta», raggiungere l’assoluta soli­
tudine di quel sapere totale dischiuso in qualche modo dall’arte come
icalizzazione ateistica di quello stesso potere divino che secondo una
leggenda talmudica costruì il mondo con le ventidue lettere dell’alfabeto
sacro. Di qui la «malattia» allegorica - secondo Benjamin -: proprio a
I ausa di questo circolo vizioso che distacca significante da significato,
•le cose si sottraggono nel loro semplice essere per poi presentarsi [...]
mine una rete di enigmatici rinvìi allegorici e, inoltre, come polvere». In
questa prospettiva è giusto parlare, come fa G. Anders (cui si sono rifatti
taluni interpreti italiani), di un movimento, in Kafka, verso una trascen­
denza che non è quella del passato, né di un regno di là da venire, ma
nel mondo realmente esistente. Questo mondo esistente (e inattingibile)
non è tuttavia il termine di una ricerca di possesso. Essere nel mondo per
■ hi, come Kafka, è inchiodato a un costante indugio prima della nascita
non equivale neppure a lasciarsi possedere e perciò distruggere dal gio­
co delle sue apparenze: essere nel mondo significa identificarsi in esso
I ( ime in una regione di significati («In che regione? Non la conosco. Là
tutto corrisponde, una cosa trapassa dolcemente nell’altra. So che quella
legione esiste da qualche parte, ma non so dove sia, e non riesco ad avvi-
■ marmici»). Per i mistici della cabbaia l’universo è intessuto di simboli
■ he conducono gradatamente all’essere reale, il quale non è più un segno,
mu l’ultima segnatura, la «grande cosa significata»; in questo orizzonte,
insegna lo Zohar, non esiste divaricazione tra il segno artificiale e la cosa
significata, perché l’uno come l’altra sono al tempo stesso realtà e sogno,
esteriorità e interiorità, sensibilità e astrazione.

137
L’assunzione del negativo

«Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato
con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. Con
questa - che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa - ho affrontato
gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento
molto vicino, e che non ho diritto di combattere ma, in un certo senso,
di rappresentare». L’uso che Kafka fa di questa «debolezza», di questa
incapacità e impossibilità di vivere, di questa mancanza di forza per
la vita è ben diverso dalla estraniazione estetica in cui Hofmannsthal
proiettava il mistero di quel «sognare da desti» in cui sta l’assenza della
vita, cioè il mondo autosufficiente della letteratura. Con quelle favo­
le dialettiche (Benjamin chiamava «favole per dialettici» le leggende
di Kafka) che sono i suoi racconti, Kafka trasferisce, rovesciandola,
l’esegesi allegorico-mistica della tradizione ebraica al punto zero di una
scrittura in cui le segnature mistiche diventano «un monumento di reti
cenza e di ambiguità» (Genette), vale a dire una letteratura che si auto
distrugge ponendosi come scrittura allegorica (instrument magique) e
al tempo stesso come articolazione dialettica del negativo.
In Kafka la parabola non costituisce l’esorcizzazione poetica del ne
gativo, ma la sua dialettizzazione paradossale, così da consentirgli di
divenire l’asse metasemantico del narrato.

Lo straniamento

Lungi dall’essere, quello delle metafore, «un mondo della salvezza» (W.
Emrich) esso risponde a una funzione di straniamento poiché mostra 11
non-senso sotto l’apparenza del senso, il problematico e il precario sotto
lo schermo della legge. E su questa linea che è possibile cogliere l’oscil
lazione degli aghi magnetici nel grande campo metaforico dell’opeiii
kafkiana, dove la tradizione diventa favola (Il nuovo avvocato), la parli
boia cronaca epica (Un vecchio foglio), e il «vecchio malsano quartini-
ebraico in cui si continua a camminare come in un sogno» (Janoucli),
anche se non esiste più, una città imperiale agli estremi confini del mondi i
(Eine Kaiserliebe Botschaft, Un messaggio dell’imperatore).
Lo straniamento del bestiale nell’umano (Relazione per l’accade
mia) o dell’umano nel bestiale (La talpa gigante, La tana ecc.) si ricon
duce alla stessa logica della leggenda che essendo un tentativo di spie
gare l'inspiegabile deve, a causa della sua provenienza da un fondo di

138
verità, concludersi nuovamente nell’inspiegabile (Prometeo). Frugando
negli interstizi del quotidiano Kafka modella le sue favole, in cui l’as­
se dell’argomentazione è accompagnato da una «sorta d’incantesimo»:
proprio questo - egli afferma - impedisce che si possa evadere dall’in­
cantesimo nella logica e dalla logica nell’incantesimo; questa sintesi
dialettica di argomentazione e magia si realizza infatti come un «quid
lertium», come «un incantesimo vivente o una distruzione del mondo
che, invece di distruggere, edifica». In questo senso la curva ascendente
del nichilismo si arresta nell’universo poetico di una scrittura che sem­
brerebbe dominata da un’unica forza di gravità, quella orientata sulla
perfezione negativa dello spasimo - In der Strafkolonie (Nella colonia
penale), Un sogno -, ma che invece si rivela essa stessa capace di susci­
tare nuove linee di forza. Dove conducono queste linee di forza? Verso
I piella «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazio­
ne dello scrivere» di cui parla Kafka nei suoi Diari!
Certo, egli dice anche questo: ma sarebbe dunque la sua ancora una
volta la letteratura come menzogna, come teodicea abscondita, giustifica­
zione o sublimazione umanistico-borghese del dolore? E chiaro che Kafka
sla oltre tutto ciò, proprio perché questa ambivalente «consolazione» pre­
suppone che si esca «dalle fila degli assassini», che si osservino «i fatti»,
l utto questo significa abbandonare per sempre la beatificazione lettera-
I ia dell’autopossesso borghese espressa nei termini dell’«universalmente
limano»; quel che importa è osservare i fatti e ciò non è possibile se non
si ha uno sguardo spietato, il cattivo sguardo del «negativo».
Se è vero quel che scrive Adorno che «l’inumanità dell’arte deve sopra-
V anzare quella del mondo per amore dell’umano», è innegabile che questa
c non altra è stata la strada percorsa da Kafka per giungere fino a noi.
Soltanto mediante il riconoscimento della necessaria inumanità di
una letteratura che intende distruggere il mondo, ma non senza essersi
smarrita in esso fino a ritrovare in quello la fine e il senso della sua
l itica, è possibile strappare Kafka al decrepito mausoleo di significati
dell’occidente borghese e mantenere intatta la forza di un enigma che
I iliuta e al tempo stesso esige l’interpretazione, proprio perché l’enigma
della poesia vuol diventare enigma umano.
«Amaro, amaro, ecco la parola più importante. Come farò a mettere
insieme con frammenti un racconto alato?».

139
Kafka o del «pozzo di Babele»2 3 4

Delle metafore
Molti si lagnano che le parole dei saggi siano sempre di nuovo soltan­
to metafore, non applicabili invero nella vita quotidiana, mentre noi
abbiamo unicamente questa. Quando il saggio dice: «Va’ al di là»,
non pensa che si debba passare dall’altra parte, cosa che si potrebbe
pur sempre fare se l’esito di questo cammino ne valesse la pena; in­
tende, invece, un qualche favoloso dall’altra parte, qualcosa che non
conosciamo, che neppure da lui può essere più precisamente indicato
e che dunque non può aiutarci in alcun modo quaggiù. Tutte queste
metafore vogliono propriamente dire soltanto che l’inafferrabile è
inafferrabile e questo lo sapevamo già.
Ma ciò su cui ci affatichiamo ogni giorno sono altre cose.
Al che uno disse: «Perché riluttate? Se assecondaste le metafore, di­
ventereste metafore voi stessi e sareste così affrancati dalla quoti­
diana fatica». Un altro disse: «Scommetto che anche questa è una
metafora».
Il primo disse: «Hai vinto».
Il secondo disse: «Purtroppo solo nella metafora».
Il primo disse: «No, in realtà; nella metafora tu hai perduto».
F. Kafka'

Negli aforismi e frammenti di diario raccolti negli otto quaderni in otta


vo Kafka scriveva sotto la data dell’8 dicembre 1917: «Per tutto quanto
sta al di fuori del mondo sensibile il linguaggio può essere usato solo
in via allusiva, mai, invece, in maniera anche soltanto approssimati
vamente comparativa, dal momento che esso, corrispondentemente al
mondo sensibile, tratta unicamente del possesso e delle sue relazioni»'*.
Occorre prendere le mosse da questo pensiero per cercare di stabil ire
in termini corretti, senza indebite sovrapposizioni aprioristiche, la li
nea dell’interpretazione, o meglio i termini in cui si pone, nell’ambito
dell’opera kafkiana, il problema del significato. Esso, infatti, non è
risolvibile nell’insieme delle parole e non si collega alTimmediatn

2 In «Il piccolo Hans», n. 3, luglio-settembre 1974, pagg. 128-155; anche in F. Masini, Lo sguurdn
della Medusa, Bologna, 1977, pagg. 89-109; e in F. Masini, U travaglio del disumano. Per inni
fenomenologia, Bibliopolis, Napoli, 1982, pagg. 255-280 (N.d.C.).
3 F. Kafka, Sämtliche Erzählungen, Frankfurt a. M. - Hamburg, 1970, pag. 411.
4 F. Kafka, Das dritte Oktavheft, in Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande, Frankfurt a. M
1953, pag. 92 (ma si veda anche Betrachtungen, ivi, pag. 45).

140
comprensione logica di quanto è esplicitamente detto o narrato. Se il
piano immediato di scrittura (e quindi di lettura), su cui si dispone una
determinata narrazione, qualunque sia la sua forma propria (relazione,
parabola, pseudo-confessione, cronaca epica etc.), non esaurisce, anzi
e ben lontano dall’esaurire la totalità del significato o dei significati,
su quale altro piano dovrà orientarsi la comprensione ermeneutica?
( he sia un piano sovra- o infrareale poco importa: sta di fatto che questo
piano, pur intersecandosi profondamente con quello dell’immediatezza,
dove si organizza la logica apparente del senso comune, la psicologia
comportamentale della quotidianità, una tecnica rigorosamente descrit­
tiva, costituisce per se stesso una dimensione radicalmente altra. Infatti
le motivazioni di quella logica quanto più si infittiscono nella catena so­
listica delle loro deduzioni, tanto più sembrano straniate, e quella stessa
descrizione quanto più sembra aderente all’oggetto, tanto più lascia in­
ha vedere, come in una rilevazione cristallografica, insospettabili sezioni
di sfaldamento. Proprio l’intersecarsi di questi distinti piani di scrittura
11 manda a una doppia modalità semantica del linguaggio. Se esso, infat-
11, sembra apparentemente risolversi in un ambito di referenti sensibili,
in realtà la sua valenza segreta, la sua articolazione poetica più profonda
i.uino di esso un linguaggio i cui referenti reali sono esterni al mondo
sensibile. Di qui il piano di scrittura ‘allusivo’ necessario appunto allor-
I In- venga messo in gioco un linguaggio che vuole essere usato per tutto
quanto sta fuori del mondo sensibile. È su questo piano che vengono
meno le categorie del possesso e delle sue relazioni, quali sono quelle
I In- articolano il linguaggio allorché si riferisce al mondo sensibile. Ma
Kafka sottolinea chiaramente la modalità strutturale di questo spazio al­
lusivo distinguendo la via dell’allusione da quella della comparazione
e del confronto sia pure soltanto approssimativo. E dicendo ‘allusione’
I Kafka usa l’avverbio «andeutungsweise»: in via allusiva) non rende sol­
iamo immediatamente percepibile la specifica accezione semantica del
V ri bo andeuten con il quale si esprime il dar notizia, il lasciar trapelare
ni via indiretta o nascosta, ma anche le implicazioni della storia etimolo-
l'ii a della parola deuten che rimanda all’atto del significare, come pure
dia possibilità dell’ambiguità che sta in ogni espressione che traduca o
rniplicemente accenni {deuten auf) a qualcosa.
I ra un piano di scrittura (o di linguaggio) indirizzato al mondo sensi-
in Ir o estraneo a questo esiste dunque una distinzione analoga a quella
h il indotta dalla semiologia tra denotazione e connotazione. E evidente
i he mentre la denotazione si riferisce a determinati significati univoci,

141
strettamente connessi ad un mondo governato dalla convenzione socia­
le che fissa rigidamente le sue norme, la connotazione crea uno spazio
multivalente e ambiguo, prospetticamente fluido, in cui il centro stesso
della significazione si arricchisce di un surplus poeticamente concreto
e inesauribile. Quando Kafka si riferisce a un linguaggio che altrimenti
non può essere impiegato se non «andeutungsweise», in via allusiva,
essendo i suoi referenti ‘esterni’ al mondo sensibile, si riferisce appunto
a quelle figure semantiche il cui valore - come scrive Genette - «non è
dato nelle parole che l[e] compongono poiché dipende da uno scarto tra
queste parole e quelle che il lettore percepisce mentalmente al di là di
esse “in un perpetuo superamento della cosa scritta” [Sartre]»5.
La Kafka-Forschung ha largamente fatto ricorso a queste figure,
dalla metafora al simbolo, dall’allegoria alla parabola, ma senza un
preliminare esame critico della legittimità del loro uso in rapporto alla
specifica modalità strutturale della scrittura kafkiana e al problema ei
meneutico cui essa fa capo. Di qui il viluppo d'interpretazioni teologi-
co-esistenziali o genericamente metafisiche che per troppo tempo hanno
falsato con un’intrusione di presupposizioni estranee e non giustificate
l’immagine di uno scrittore alla cui fondamentale ambiguità si è voluto
comunque dare un senso e uno scioglimento.
Lo spazio allusivo di questa scrittura è rappresentato da Kafka stesso
con una parabola, quella del ponte gettato sopra un abisso. Questo poti
te non può mai essere percorso perché quando ciò avviene ed un pass» >
umano comincia a inoltrarsi sul suo dorso, esso si volge a guardali'
chi lo sta appunto percorrendo. «Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un
grassatore? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore?». E il ponte si
volge indietro a guardare. «Il ponte che si volta!? Non ero ancor voltalo
e già precipitavo ed ero già dilaniato e infilzato dai ciottoli aguzzi chi­
mi avevano sempre fissato così pacificamente attraverso l’acqua scro­
sciante»6. Il ponte di Kafka raggiunge dunque 1’‘altra’ riva solo quando
nessuno lo percorre: così il linguaggio delle figure allusive agenti conic
significanti, il cui rinvio porta a significati non costituiti, non dati, pura
mente possibili o forse soltanto assenti. Percorrere il ponte delle figure
allusive significa allacciare significante e significato, ma il significarne
che vuole ‘guardare’ il significato, cessa di condurre al significato, allo
stesso modo del ponte che dovendo trovare il suo significato nel soste

5 G. Genette, Figure. Retorica e Strutturalismo, trad. it. di F. Madonia, Torino, 1969, pag. 197
6 F. Kafka, //ponte, in II messaggio dell'imperatore, trad. it. di A. Rho, Torino, 1952, pag I.'

142
nere colui che gli è affidato («Compensa insensibilmente l’incertezza
del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra
come un Dio montano»), si trova poi nell’impossibilità di condurlo e
cade per la sua stessa avida curiosità di conoscerlo.
La distinzione dei piani di linguaggio comporta una conseguenza
assai rilevante in ordine alla scrittura kafkiana come pratica di signifi­
canti. Se essa infatti non si risolve nella pura logica quantificante e reifi­
cante del senso comune, nel realismo selettivo dei dettagli (che lo stesso
I .ukàcs ammirava), nella proliferazione giuridico-curialesca dei discor­
si dominati da una sorta di talmudica Grübelei, ciò avviene (e sta qui
la sorgente della sua suggestione poetica) perché il perno del racconto
è esterno al racconto stesso. Attraverso le maglie di un linguaggio di
cose, tutto addensato nella descrizione dell’immediatezza e della quoti­
dianità, non importa se trasposta talora in cifra infrareale, emblematica
o fiabesca, filtra 1’‘altro’ linguaggio, la cui macchina allusiva rimanda
ad una totalità distrutta di significati inesistenti o assenti. La scrittura
viene così ‘orientata’ sul piano di questo secondo linguaggio e in que­
sto senso diventa allegorica: in questo modo si va costituendo come un
continuo scarto tra ciò che è dato e ciò che è da costituire, tra ciò che è
letto e ciò che è da leggere, tra ciò che è quotidiano e afferrabile e ciò
che è opera di magia ed è quindi inafferrabile. Si comprende quindi la
tagione per la quale le categorie del possesso e le sue relazioni di cau­
sa e effetto etc. non possano in alcun modo corrispondere allo statuto
allegorico di quelle figure allusive che si sottraggono perentoriamente
ad ogni ordine, e ad ogni sistemazione non solo logico-razionale, ma
dica. L’‘assurdo’ di cui tanto si è parlato a proposito della narrativa
kafkiana è l’altra faccia dell’ovvietà e dell’evidenza, meglio ancora, è
la faccia interna di queste ultime, quale si lascia cogliere dallo sguardo
curiosamente ‘malato’ di chi soffre il «mal di mare in terraferma»7, la
vertigine dell’irrealtà, l’insicurezza del possesso: «Io ero così incerto di
lutto che possedevo effettivamente solo quel che tenevo in mano o in
bocca o quanto era almeno sul punto di arrivarci»8.
L’esperienza è «incerta» e «fluttuante» (W. Benjamin) perché è al
lempo stesso esperienza del reale e del possibile. Poiché l’uno non può
essere distinto dall’altro, essa diventa enigmatica. Ma la sua problema-

' «1st es nicht dieses Fieber, diese Seekrankheit auf festem Lande eine Art Aussatz?», Beschrei­
bung eines Kampfes, Frankfurt a. M., 1946, pag. 41.
H Brief an den Vater, in Hochzeitsvorbereitungen, cit., pag. 191.

143
ticità non si presenta in forma drammatica e il suo alone d’angoscia è
come brace che arde sotto la cenere. L’ovvio è semplicemente divenuti)
imperscrutabile. Quando l’esperienza si solleva da questo suo margine
irreale-reale, esprimendosi come favola poetica, - come nel Cavaliere
del secchio o nel Cacciatore Gracco - essa diventa Gleichnis, ma il
termine del suo rinvio è assente.
Ciò è possibile proprio perché il modulo semantico che governa que­
sta scrittura, lungi dal situarsi sull’asse della comparazione o del con­
fronto, trascende ogni confronto e ogni comparazione, facendo slittare
la causa nell’effetto e viceversa, così che il castigo precede la colpa, e
la rassegnazione di fronte al male, come, per altro verso, la lotta diventa
una forma stessa del male.
L’ontologia di Kafka è secondo G. Anders un’‘ontologia del non-es
sere’. Ma l’essere del non-essere non è, è fantasma. È dunque una pseu­
do-ontologia, nel senso che l’uomo di Kafka agisce ‘come se’ esistesse,
poiché non può dimostrare se stesso. Anders cita giustamente, a questo
proposito, il Gespräch mit einem Beter. «Non c’è mai stato tempo in cui
io fossi convinto, per me stesso, della mia vita». Il Cogito ergo sum è
per Kafka divenuto «senza forza» («kraftlos») - osserva Anders9. Cosi
privo di forza che la scoperta dell’Io è potuta diventare paradossalmen­
te addirittura la dimostrazione della propria inesistenza. «La ragione è
semplice: l’Io trovato da Kafka è da lui scoperto come un “estraneo"
- l’estraneo tuttavia non “è”; infatti la parola ‘essere’ significa, come
Kafka scriverà dieci anni dopo le Betrachtungen [è il titolo, quale risul
ta dall’indice, degli scritti pubblicati da Kafka nel fascicolo di gennaio-
febbraio 1908 della rivista «Hyperion»], due cose in tedesco: ‘esserci’ e
‘appartenergli’». E a chi «appartiene», è lecito dire: «Ergo sum»10. 11
Le precisazioni di Anders sono indubbiamente suggestive e spiegano
in termini di dissoluzione ontologica la condizione estraniata di Katka c
del suo personaggio, la loro fondamentale assenza di status ontologico,
al loro Unheimlichkeit. Ma tutto questo non deve essere consideralo
come un dato negativo. È su questa ‘negatività’ che lavora il pensiero
semantico ed è su questa che si articola il discorso allegorico. L’inal
tingibile trascendenza del mondo non riguarda in realtà il mondo comi'
«mondo della potenza totalitariamente istituzionalizzato»11 - come seri

9 G. Anders, Kafka pro undeontra. Die Prozess-Unterlagen, München, 1951,pag. 19.


10 Ibid.
11 Ivi, pag. 21.

144
ve Anders - bensì il mondo come sfera dei significati. Essere nel mondo
non è ancora essere ‘nel’ significato poiché questo ‘essere’ è ancora
un ‘possedere’ e il possesso del mondo è deviazione nel mondo. L’es-
sere-nel-mondo dovrebbe invece costituirsi al di fuori del possesso e
ilell’avere: essere nel mondo non comporta un possesso dei significati,
ma una possibilità di vivere alla loro radice il senso dei significati. Non
Iesistere alle metafore, dunque, ma divenire noi stessi metafore. Nel
mondo come ‘teatro’ del possesso la condizione di Kafka è quella di un
uomo «kraftlos», «senza forze». Eppure è proprio questo ‘sfinimento’
a consentirgli di assumere il negativo del proprio tempo, così da sentirsi
sospeso al filo di una svolta decisiva: «Io sono fine o principio».
Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato
con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti.
Con questa - che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa - ho affron­
tato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi
sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere, ma, in un
certo senso, di rappresentare12.
Proprio la divaricazione tra significante e significato operata dalla scrittu­
ri allegorica consente di spingerci più lontano rispetto ai termini andersiani
ilei l’ontologia del non-essere o dell’estraneazione e di mettere in evidenza
la nascosta potenza di quel negativo che se da un lato riflette l’estranea­
zione, dall’altro rende in realtà possibile il capovolgimento dell’ideologia
ilei significato come «oggetto» del possesso nella pratica straniante del
significante, per la quale risulta superato il piano ideologico della lette­
li mira. Questo rovesciamento è possibile proprio in quanto il significante

ualizza, mediante l’articolazione del negativo, per cui l’essere nel mondo
si rivela come un essere-smarriti-nel-mondo, il passaggio dall’‘avere’ al-
l 'essere’. Per questo Kafka scrive: «Non esiste un avere, esiste solo un
essere»13. Quest’affermazione viene visualizzata nella sua ambivalen­
za, nel senso che l’essere implica un arrivare fino in fondo nel negativo
I quell’essere che anela all’ultimo respiro, alla soffocazione»), ma anche
I|iiell’«indistruttibile in sé» cui non è lecito aspirare secondo la logica del
I »ossesso: «Teoricamente esiste una perfetta possibilità di gioia: credere

I 1 I Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, trad. it. di I.A. Chiusano, in Confessioni e immagini,
Milano, 1942, pagg. 137-38.
I ' Retrachtungen über Sünde, Leid, Hoffnung und den wahren Weg, in Hochzeitsvorbereitun­
gen, cit.. pag. 42. «Seine Antwort auf die Behauptung er besitze vielleicht, sei aber nicht, war
nur Zittern und Herzklopfen», ivi, pag. 43.

145
nell’indistruttibile in sé e non aspirarvi»14. Quella di Kafka è dunque una
pratica allegorica del negativo in cui si aprono, proprio in forza del nega­
tivo stesso, le frontiere dei significanti. Che significa ottenere una manciata
di carbone per chi, come il Kübelreiter, ondeggia perennemente sospinto
dal vento gelido, a mezz’aria tra la strada e «lo scudo d’argento» del cielo'?
Forse riuscire ad essere così ‘pesanti’ da poter toccare terra? Questo vor­
rebbe dire avere accesso ad un mondo umano, a quella stessa quotidianità
che in fondo è complicata e ostile quanto la cristallina indifferenza del cielo
invernale; questo significherebbe nascere ad un ‘senso’ umano. Proprio la
descrizione di questo stato di sospensione in questo terribile ‘fra’ costituì
see il compito di chi ha assunto il negativo del proprio tempo. Descrivere,
nel senso di un Beschreiben che iscrive l’ambiguità dei segni in un movi
mento ‘circoscrivente’ (be < &.&X.bi ‘intorno a’), non è ancora trascrivere
l’impossibile nel possibile, infrangere l’abbagliante gelida estraneità del
cielo e la dura sordità degli abitanti della terra, poiché finché si appartiene
al disumano, condizionati dalla paura o dalla ricerca ossessiva della sicu
rezza (come l’animale della Tana) o resi estranei a noi stessi dall’abbrutli
mento reificante di un’esistenza immolata al lavoro (il Gregor Samsa della
Metamorfosi), non si può diventare ‘metafore’. Si è preda della dialettica
avere-non avere, stregati dall’ideologia del possesso. E si risponde ancora
alle parole dei saggi; «Tutte queste similitudini in fondo vogliono soltan
to dire che l’inafferrabile è inafferrabile e questo lo sapevamo già». Ma è
proprio su questa linea sottile del «nur Gleichnisse» («solo metafore») clic
si muove la scrittura di Kafka come articolazione significante del negativo
che se per un verso mostra la verità dell’uomo divenuto bestia o messaggn >
insensato e vittima-carnefice di se stesso (Nella colonia penale), per l’altu i
rimanda ad una trascendenza del mondo come mondo del significato. In
questa scrittura - a ben vedere - si nasconde l’arte di «essere abbagliati dalla
verità». «Vera è la luce sulla smorfia del viso che rilutta, nient’altro»15.
Alla parola tedesca Gleichnis corrispondono diversi significati in
italiano: Gleichnis, infatti, può tradursi con parabola, ma anche con
similitudine, allegoria, metafora. Provvisoriamente possiamo intenda e
questo termine in riferimento a quello spazio allusivo da cui abbiamo
preso le mosse allorché abbiamo distinto da quello quotidiano, cioè ri
ferito alla quotidianità, un linguaggio privo di referenti reali in quanto
estraneo al mondo sensibile e non applicabile ad esso. Nel discorso Von

14 Ivi, pag. 47.


15 Ivi, pag. 46.

146
den Gleichnissen si ripropone, sia pure in modi diversi, quella stes­
sa distinzione: solo che ora il mondo sensibile è propriamente defini­
to come il mondo del quotidiano travaglio, «tägliches Leben»; l’altro
inondo è un «Drüben», un «dall’altra parte», un mondo di Gleichnisse,
ili metafore. La tensione antinomica tra questi mondi reciprocamente
estranei ricorda singolarmente la caratteristica ambiguità-estraneità del
inondo secondo Husserl. «La familiarità - scrive G. Brand - è insieme
estraneità. Il mondo come familiarità universale è, in un certo senso, la
possibilità del rendersi noto dell’estraneità, la possibilità che l’ignoto si
trasformi continuamente in noto. In questo movimento noi avvertiamo
sempre uno sfondo ignoto, il quale però, a sua volta, è sempre igno­
to soltanto nella possibilità del rendersi noto»16. Se rovesciamo questa
alfermazione c’incontriamo con Kafka. La «familiarità universale del
mondo», in cui si danno significati stabili e definitivi, nasconde la sua
estraneità nella quale quei significati si dissolvono, diventano umbratili
o inafferrabili: al limite, quell’estraneità porta all’annullamento di ogni
significato dato. Il movimento è l’opposto di quello dell’Io husserliano.
11 movimento dal non-essere-noto al noto, in cui si realizza per Husserl
T autocomprensione dell’Io e del mondo, va per Kafka dal noto al non-
essere-noto, dalla presunta certezza all’annebbiarsi di ogni certezza,
dalla stabilità della presenza all’assenza di ogni stabilità e di ogni pre­
senza, dalla quiete rassicurante dell’abitudine alla vertigine di un insen­
sato smarrimento. A misura che l’autoestraneazione dell’Io dal mondo
si compie, l’orrore di questo mondo, divenuto abisso agghiacciante,
acquista un’inspiegabile compattezza, prendendo la forma stessa delle
11 ise, aderendo alla fatica incessante dei discorsi. Il terrificante vuoto
dell’estraneo si mantiene nel modo dell’essere familiare. A misura che
la vita si cerca, si smarrisce, e l’Io che vuole e crede di possedersi, si
perde. Ogni sapere di più - potremmo dire rovesciando Husserl - è un
non sapere progressivo, nel senso che il mondo come orizzonte del non
■ apere si frantuma, così come la certezza della fede nel mondo17. Scrive
Kafka che la «distruzione di questo mondo sarebbe il nostro compito»
■ se noi fossimo in grado di distruggerlo». Ma è proprio questo che non
aamo in grado di fare.

16 G. Brand, Mondo, Io e Tempo nei manoscritti inediti di Husserl, trad. it. di E. Filippini, Mila­
no, 1960, pag. 66.
I ' •< L’essere del mondo non va dimostrato - qualsiasi dimostrazione lo presuppone sempre. Non
va nemmeno attinto attraverso conclusioni induttive - per la stessa ragione», E. Husserl, Ms
K. Ili 6, pag. 137 cit. da G. Brand, loc. cit.

147
Noi non possiamo distruggere questo mondo perché non l’abbiamo
costruito come qualcosa di a sé stante, ma vi ci siamo perduti dentro,
più ancora: questo mondo è il nostro stesso smarrimento, ma come
tale è, esso medesimo, un’entità indistruttibile, o meglio: qualcosa
che può essere distrutta solo col portarla sino in fondo, non col rinun­
ciarvi, dove occorre osservare peraltro, che anche il portarla sino in
fondo non può essere altro che un seguito di distruzioni, sempre però
nell’ambito del mondo stesso18.
A questa aporia estrema giunge il movimento dal noto al non-noto,
dal familiare all’estraneo: questo movimento non è quello della cono­
scenza, ma della parabola, e parabola è ancora un termine per indicare
Gleichnis. Compito dell’uomo è la distruzione del mondo (esso - dice
Kafka - «è in contrasto col nostro spirito»), ma l’uomo si smarrisce
nel mondo così da fare di quello il suo stesso smarrimento e in quanto
tale esso diventa indistruttibile. Si può distruggere qualcosa solo se lo
si porta sino in fondo («nur durch seine Zu-Ende-Führung»)19, se gli si
dà un ‘compimento’; per questo lo smarrimento non può finire: esso si
compie a forza di distruzioni. La totalità del mondo si dilata fino a ri­
comprendere in sé al tempo stesso questa volontà di compimento, in cui
si smarrisce, e questa volontà di distruzione, che divora se medesima
senza far vacillare l’indistruttibilità del mondo che è quella del nostro
stesso smarrimento. L’aporia del discorso kafkiano è quella stessa della
parabola, la quale implica - come dirà Benjamin a proposito dell’allego­
ria - «un infinito progresso dentro la profondità»20; vale a dire, sono ap­
punto i modi negativi della distruzione e dello smarrimento (dal punto
di vista della scrittura: i modi dello straniamento allegorico) a condurre
fino in fondo la ricerca del significato. Ma questo significato non può
essere mai raggiunto proprio perché viene ricercato nella profondila
del significante, cioè in quella indistruttibilità dello smarrimento che è
quella stessa del mondo in cui siamo perduti. Il non-sapere progressivo
diventa in questo modo «un infinito progresso dentro la profondità», in
altri termini, un sapere allegorico. È su queste diramazioni aporetiche
che è possibile dunque individuare le coordinate strutturali del Gleichnis
quale asse semantico su cui si articola la scrittura kafkiana come pratica
di significanti destinati a costituire uno spazio allusivo costellato di ne­

18 Gli otto quaderni in ottavo, in Confessioni, cit., pag. 126.


19 Das vierte Oktavheft, in Hochzeitsvorbereitungen, cit., pag. 109.
20 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, trad. it. di E. Filippini, Torino, 1971, pag. 251

148
gazioni, di paradossi, di interrogativi e di condizionali: di parole senza
‘entroterra’. Sono queste modalità interne della scrittura allegorica a
costruire il rinvio, distruggendone al tempo stesso il termine ad quem.
In tal modo esse realizzano, proprio in quanto significanti allegorici,
una Verfremdung dei significati: così si spiega il rovesciamento della
lamiliarità universale del mondo nella sua insondabile estraneità, come
pure quel progredire nello smarrimento (che è il mondo stesso) fino ad
una paradossale convergenza di compimento e distruzione.
Nel discorso Von den Gleichnissen lo spazio allusivo del segno, della
scrittura allegorica, emerge come spazio divaricante significante da signi-
licato. Quel Drüben cui rimanda il saggio quando dice «Va’ al di là», è un
••favoloso dall’altra parte» che non conosciamo e che non ci è di nessun
làuto quaggiù. Ciò non equivale a escludere, come oziosa e gratuita, l’esor­
tazione dei saggi, ma insinua il sospetto che la familiarità universale del
mondo sia apparente, che la quotidianità sia complicata, che il mondo sia
indistruttibile appunto perché s’identifica nel nostro stesso smarrimento.
Per comprendere quel «sagenhafte Drüben» bisogna avere spezzato la lo­
gica di quella familiarità, la tentazione di quell’indistruttibile smarrimento
un cui rientra anche il tema della lotta come seduzione esercitata dal male
c dei messaggeri che si gridano l’un l’altro un messaggio divenuto insen­
sato). Bisogna, cioè, non pensare più in termini di possesso il regno dei
significati (la posseduta familiarità universale del mondo).
Per questo lo spazio semantico costruito dal segno allegorico è con-
II addi stinto dalla negazione, dal non: le figure allusive sono attraversate
dalla negazione che non è soltanto la negazione del loro poter essere
altro da se stesse («L’inafferrabile è inafferrabile»). L’allusione non
ili schiude un regno del significato, una regio similitudinis, ma solo uno
stato di sospensione, una non-nascita, un indugio, un’interminabile at­
tesa prima della nascita («Non essere ancora nati e già costretti a girare
per le strade e a parlare con gli uomini»21). Questo stato di sospensione è
esemplarmente presente nel Cavaliere del secchio che vola a mezz’aria
uà il gelo della latitudine quotidiana e la durezza implacabile del cielo.
Proprio questo stato intermedio implica la distruzione di ogni media­
zione capace di saldare una dimensione all’altra: ed è una distruzione
nonica: «Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe di­
struggere il cielo. Ciò è fuor di dubbio, ma non dimostra nulla contro il

I Diari 1910-1923, 2 volt., trad. it. di E. Pocar, Milano, 1953, II, pag. 179.

149
cielo, poiché i cieli significano appunto: impossibilità di cornacchie»’-’.
Il «nur Gleichnisse» equivale appunto a questa «Unmöglckeit von
Krähen» («impossibilità di cornacchie»), nel senso che presuppone
l’impossibilità del discorso sull’‘altro’. L’unica possibilità data al nega­
tivo è quella di distruggere ogni possibilità che non sia quella delfini
possibile. Il nulla dei mistici viene così secolarizzato: esso non è più il
limite ontologico della creatura né l’ultima inaccessibile essenza della
divinità, ma quella possibilità nientificante che viene integrata nelle ap
parenze del quotidiano, nella quotidianità dell’esistenza, nel compiersi
delle metamorfosi e delle distanze insormontabili.
La lingua del nulla s’insinua nello spazio allusivo della scrittuni
come quella forza che distrugge ogni significato sul filo tagliente di unii
metafora: «Il cielo è muto: fa da eco soltanto al muto» («Der Himmel
ist stumm, nur dem Stummen Widerhall»22 23).
Il discorso Von den Gleichnissen è costituito da un primo lungo ca
poverso in cui le parole dei saggi vengono giudicate dal punto di vista
dei’molti’, i quali si lagnano appunto che queste parole siano sempre
soltanto metafore (possiamo assumere provvisoriamente la parola Glei
chnis in questo significato, salvo le precisazioni che seguiranno). Kalla
non dice affatto che cosa si debba intendere per Gleichnisse. Dice sol
tanto che l’espressione «Va’ al di là» del saggio non può essere intesa in
senso letterale poiché questo «al di là», questo «dall’altra parte» {Dm
ben) è «sagenhaft»: «qualcosa che noi non conosciamo, che neppuic
egli [il saggio] può indicare con maggior precisione, e che perciò non
ci è in alcun modo di aiuto quaggiù». Le uniche determinazioni di questo
Drüben sono dunque di ordine negativo; non conoscibili, non definibili
o precisabili, non utili per il quotidiano e per i bisogni del quotidiano. A
conclusione di queste determinazioni negative si dice che le metafon
altro non vogliono dire che se stesse: se esse sono inafferrabili è perdu'
«l’inafferrabile è inafferrabile»: «Das Unfassbare unfassbar ist».
Questo giudizio tautologico (A = A) ci riconduce ad un procedi
mento caratteristico del Beschreiben kafkiano, per il quale qualcosa
non diventa oggetto di comprensione mercé Lintervento di mediazioni
analitico-discorsive capaci di esplicitarlo, bensì resta sottratto ad ogni
comprensione in quanto la possibilità del discorso è bloccata nella pimi
autoaffermazione dell’identità. Il Beschreiben è l’operazione che cii

22 Betrachtungen, cit., pag. 42.


23 Das dritte Oktavheft, cit., pag. 91.

150
eo-scrive questa identità sottraendola, per mezzo di negazioni, a tutto
ciò che è altro da essa, ad ogni tentativo di spiegazione o di dimostra­
zione. È per questa ragione che Kafka dichiara «indivisibile» la verità:
■ La verità è indivisibile, quindi non può conoscere se stessa: chi la
vuole conoscere deve essere menzogna»24.
Dall’indivisibilità della verità discende l’impossibilità di un discorso che
sia capace di comunicare la verità dell’essere. Ogni discorso non può essere
che menzogna. «Confessione e bugia sono la stessa cosa. Per poter confes­
sare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è;
non si può comunicare se non ciò che non siamo, cioè la menzogna. Solo
nel coro ci potrebbe essere una certa verità»25. Lo stesso Kafka stabilisce
una relazione tra inafferrabilità e incomunicabilità a proposito del coman­
damento interno. Esso non solo è «assurdo», «incoerente», «irripetibile»,
■ fonte di gioie e di terrori infondati», ma «incomunicabile perché è inaffer­
rabile, eppure proprio per questo pretende di essere comunicato»26.
Questa esigenza di comunicazione è paradossalmente legata alla
impossibilità, l’inafferrabile esige di essere comunicato pur sapendosi
incomunicabile. Ma è proprio di qui che ha origine la dimensione del
lavoloso, del mitico, del leggendario {sagenhaft). Alla fine del Prome­
teo si legge: «La leggenda cerca di spiegare l’inesplicabile» e subito
dopo: «Poiché essa proviene da un fondo di verità, deve finire di nuovo
nell’inesplicabile»27.
Ma non aveva detto Kafka in Von den Gleichnissen che quando il
saggio dice «Va’ al di là» («Gehe hinüber»), intende «un qualche favo­
loso dall’altra parte» («irgendein sagenhaftes Drüben»)? Anche questo
Drüben, dunque, appartiene al Sagenhaftes. Al pari delle quattro arbi­
trarie varianti del mito di Prometeo, anche la metafora tenta di spiegare
I inesplicabile e proprio perché nasce da un fondo di verità deve finire
nell’inesplicabile.
La Be-schreibung è dunque, in quanto articolazione ‘favolosa’ di un
discorso che tenta di spiegare l’inesplicabile, un movimento circolare
che ritorna su se stesso e solo in questo modo ‘circoscrive’ il suo ogget­
to, nel senso che lo inscrive, per negazioni, nella sfera del non-definibi-
le, nel luogo dell’inesplicabile.

' I Betrachtungen, cit., pag. 48.


,'s Confessioni e immagini, cit., pag. 355.
.’(> Ivi, pag. 129.
' ' Prometheus, in Das dritte Oktavheft, cit., pag. 100.

151
E in questo procedimento che interviene la dialettica antinomica do­
manda-risposta: anch’essa appartiene a quella modalità fondamentale
di scrittura che è costituita dal Beschreiben. Così come non esiste una
via, perché esiste soltanto una mèta, anche la domanda non può mai
costruirsi come strada per una risposta. È lo stesso destino dell’anima
che non solo non può essere penetrata, ma addirittura ignora se stessa:
«Colui che osserva l’anima non può penetrare nell’anima; esiste però
una linea marginale in cui viene in contatto con essa. Ciò che si sco­
pre in tale contatto è che anche l’anima ignora se stessa. Perciò deve
necessariamente restare ignota»28. È la sorte perentoria di chi cerca:
«Chi cerca trova, ma chi non cerca è trovato»29. Le vie sono puramente
negative, nel senso che non sono neppure vie. La domanda, l’anima,
il comandamento interiore sono attraversati dalla stessa negatività in
forza della quale quanto più affondano in se stessi, tanto più ribadi­
scono la loro impenetrabilità al discorso, all’esplicazione e quindi alla
loro autogiustificazione razionale. Questa negatività viene radicalizzata
da Kafka a proposito della domanda. «Perché è insensato domandare'?
- scriveva nei Tagebücher Lamentarsi significa far domande e aspet­
tare la risposta. Le domande, però, che non rispondono a se stesse nel
nascere, non trovano mai risposta. Non ci sono distanze tra chi doman­
da e chi risponde. Non ci sono distanze da superare. Assurdo quindi
domandare e aspettare»30.
Le metafore dei saggi si sottraggono alla domanda e assurdo è lagnar
si che esse siano «solo metafore», allo stesso modo con cui è assurdo
domandare e aspettare, presumere cioè che tra la domanda e la risposta
ci sia una distanza da valicare. In realtà, tra la domanda e la risposta non
c’è nessuna distanza: la qual cosa è lo stesso che dire: c’è una distanza
infinita come quella che divide il messaggio dell’imperatore dal suo
destinatario, la distanza tra la vita e la morte, quella che il cacciatore
Gracco non riuscirà mai a colmare, condannato com’è a veleggiare con
la sua barca acherontea nelle lagune crepuscolari di una morte mai de

28 Confessioni e immagini, cit., pag. III.


29 Das dritte Oktavheft, cit., pag. 94. Il gioco paradossale delle antitesi ricorda Meister Eckhart
«Du soit in suchen, also du in niena vindest, suchest du in nit, so vindest du in», Pred. XV, DW
I, pag. 253. Che Kalka conoscesse Eckhart lo si può desumere da una lettera a Oskar Pollok ilei
9 novembre 1903: «Leggo Fechner, Eckhart. Certi libri sono come chiavi di sale sconosciute del
proprio castello» (in K. Wagenbach, Kafka. Biografia della giovinezza, trad. it. di P. Corazza,
Torino, 1972, pag. 138).
30 Diari, II, cit., pag. 102.

152
linitivamente consumata. Ma Kafka è, nella sua riflessione, esplicito:
solo le domande che già rispondono a se stesse sul nascere trovano una
risposta: esse sono già la risposta. Questa affermazione ricorda quella
del discorso Von den Gleichnissen'. «Allora uno disse: Perché riluttate?
Se assecondaste le metafore, diverreste voi stessi metafore e sareste
liberi dalla quotidiana fatica». C’è dunque una possibilità che la do­
manda cessi di essere una modalità della negazione, destinata cioè a
ricadere perpetuamente su se stessa, domanda che divora se medesi­
ma fino a porsi essa stessa come risposta trasformando l’interrogante
ne 11’interrogato: «Che cosa ti disturba? Che cosa intacca i puntelli del
tuo cuore? Che cosa va brancicando alla maniglia della tua porta? Che
cosa ti chiama dalla strada e tuttavia non entra dal portone aperto? Ah,
è proprio colui che tu disturbi, di cui intacchi i puntelli del cuore, della
cui porta vai brancicando la maniglia, che tu chiami dalla strada e dal
cui portone aperto non vuoi entrare»31.
La risposta a questa drammatica e incalzante sequenza d’interrogativi
c il rovesciamento di questi stessi interrogativi nel modo di una perfetta
reciprocità. La costruzione a incastro del gioco della domanda e della
risposta determina una figura perfettamente simmetrica, quasi un’erma
bifronte. Il primo volto è l’esatto inverso dell’altro, ma l’uno e l’altro
si corrispondono in quanto identici. Questo significa che la domanda è
sviante perché occulta l’identità della domanda-risposta, dell’interrogan-
le-interrogato. La domanda rovescia la realtà e la realtà, di conseguenza,
rovescia la domanda. Ma la realtà è l’identico: la realtà più nascosta e più
lontana è sepolta nell’identità magica di significante e significato come
nell’allegoria dello Zohar, per il quale non esiste «un segno artificiale, ir­
reale, e una cosa significata reale» poiché l’uno e l’altra sono egualmente
insieme realtà e segni. «De sorte que - annota Serouya - les phénomènes
cl les textes ne sont pas seulement l’expression, le reflet d’un monde su-
prasensible, mais ils ont tous deux une double réalité, réalité extérieure et
sensible, réalité intérieure et abstraite»32.

'I Fragmente, in Hochezeitsvorbereitungen, cit., pag. 290.


H. Serouya, La Kabbale, Paris, 1947, pag. 201. Rilevando la profonda appartenenza del «mon­
do kafkiano» alla genealogia della mistica ebraica e in particolare alla tradizione talmudica, G.
Scholem rammenta la parabola raccontata da Origene nel suo commentario ai Salmi. Secondo
questa parabola, risalente a un dotto ebreo membro dell’accademia rabbinica di Cesarea, le
Sacre Scritture sono simili a una grande casa con innumerevoli stanze. Dinanzi a ogni stanza
sta una chiave, ma non è quella giusta, poiché tutte le chiavi sono state confuse insieme. Il
compito, grande e difficile, dell’uomo è quello di trovare le chiavi giuste (Zur Kabbala und
ihrer Symbolik, Frankfurt a. M., 1973, pagg. 22-23).

153
Per questo non vi sono distanze da superare. La domanda separata dalla
risposta, ‘in attesa’ della risposta, implica la rottura dell’identità magica di
significante e significato. La domanda diventa così il sintomo di una scis
sione che si presenta nella forma dello sdoppiamento, ma è la realtà stessa
che nel passo sovracitato si sdoppia in una passività che è l’esatto rovescio
dell’azione. Al fondo di questa reciproca convergenza di domanda e rispo­
sta sta l’identità misteriosa del domandante che si risponde e rispondendosi
si manifesta come l’annientamento puro e semplice della domanda. È inte­
ressante il fatto che sia un altro, un terzo, a domandare e a rispondere, per
cui lo sdoppiamento avviene a partire da un soggetto esterno. V’è dunque
un duplice sdoppiamento; quello di chi pone la domanda e dà la risposta da
un lato e, dall’altro, quello di chi è coinvolto nella domanda e nella risposta
in quanto nell’una si presenta come l’opposto dell’altra.
Quando si ha la rottura dell’identità il gioco della domanda diventa
insensato nel senso che la domanda si reitera coinvolgendo le stesse
convenzioni grammaticali (distinzione tra discorso diretto e didascalia),
come nel frammento seguente. Qui la domanda che si autointerroga si
prolunga in un movimento che mira a spezzare l’isolamento della do­
manda stessa fino ad intaccare anche la non-risposta (il silenzio):
«Non riuscirai mai ad attingere acqua dalle profondità di questo pozzo».
«Quale acqua? Quale pozzo?»
«Chi è che m’interroga?»
Silenzio.
«Quale silenzio?»33 34
Kafka giunge addirittura a presentarci il caso estremo della risposta
che si sostituisce alla domanda, quasi volesse sigillare in questo modo
la paradossalità della domanda che se anche fosse risposta potrebbe
solo determinare un «continuo sviamento». «Un rovesciamento. In ag­
guato, timorosa, striscia piena di speranza la risposta intorno alla domati
da, cerca disperatamente nel suo volto inaccessibile, la segue nelle vie pii)
assurde, cioè che tendono il più possibile a distanziarsi dalla risposta»14.
La scrittura allegorica costituisce - abbiamo detto - quello spazio al
lusivo in cui il gioco e il movimento stesso dei significanti si combina
all’assenza del centro, vale a dire all’assenza o all’inattingibilità del si

33 Fragmente, eit., pagg. 337-38.


34 Betrachtungen, cit., pagg. 47-48. Si veda anche Fragmente, cit., pag. 327 e «Das Leben [com»
la domanda] ist eine fortwährende Ablenkung, die nicht eimal zur Besinnung darüber kom
men lässt, wovon sie ablenkt», ivi, pag. 334.

154
purificato. L’identità della domanda-risposta è proposta attraverso il varco
esiguo aperto dalle «parole dei saggi» che sono appunto «nur Gleichnis­
se». Se queste metafore istituissero un confronto, stabilissero i raccordi di
riferimento, le mediazioni comparative tra significante e significato non
sarebbero «soltanto metafore» e nulla più che metafore. Ma il fatto è che
sono «soltanto metafore»: vale a dire articolazioni dello spazio allusivo,
non della comparazione. Ciò avviene perché in esse si esprime l’unica
possibilità del negativo, quella cioè di distruggere ogni possibilità che
non sia quella dell’impossibile. È ciò che vuol dire Kafka quando tra
« argomentazione» e «magia» individua un quid tertium, cioè una terza
modalità del discorso, quella allegorica. «Alla sua argomentazione si af­
fianca una sorta d’incantesimo. A un’argomentazione ci si può sottrarre
evadendo nel mondo della magia, a un incantesimo riparando nella logi­
ca, ma l’uno e l’altro insieme ti schiacciano, tanto più che, uniti, danno
luogo a un quid tertium: un incantesimo vivente o una distruzione del
mondo che, invece di distruggere, edifica»35.
L’argomentazione della scrittura è dunque tale che grazie al suo in­
cantesimo, distruggendo il mondo, lo edifica. Questo rovesciamento è
implicito nella scrittura come pratica del negativo. Le favole dialettiche
ili Kafka gravitano in questo campo di forze d’intensità schiacciante
dove la pratica della scrittura innesta sul movimento distruttivo della
dialettica la magia della sostituzione infinita dei significanti: esse sono
quell’‘altra’ letteratura che portando il mondo alla fine ne costituisce
mio nuovo. Questa dimensione non si sostiene più ad un vecchio centro,
ma ad un non-luogo in cui si apre il campo sterminato del gioco dei signi­
ficanti, lo spazio delle allusioni. Il non-luogo della letteratura si combina
alla caratteristica ambivalenza dell’allegoria nel senso in cui la concepisce
W. Benjamin: «soprattutto per colui che ha presente l’esegesi allegorica -
scrive Benjamin - è del tutto incontestabile che quei requisiti del significare
acquistano tutti, appunto col loro alludere ad altro, una potenza che li fa
apparire incommensurabili con le cose profane e che li può innalzare, anzi
santificare, su un piano più alto. Per cui il mondo profano allegoricamente
considerato è insieme promosso di rango e svalutato»36.
La scrittura allegorica si propone sotto questo profilo come una sintesi
ili argomentazione dialettica e magia. Essa diventa un instrument magique
in cui la potenza distruttiva del negativo (la negazione dialettica) non si

35 Confessioni e immagini, cit., pag. 142.


W» Origine del dramma barocco, cit., pag. 184.

155
risolve nella distruzione, ma nel dominio magico della distruzione che essa
stessa realizza. Si ha ancora una volta la paradossale prospettiva di un com­
pimento del mondo attuato mediante la distruzione del mondo stesso. Ma
la potenza magica che costringe la distruzione a diventare un mondo di edi
ficazione e a ingranarsi nella creazione stessa del mondo è appunto quello
che Kafka chiama «incantesimo vivente». Il senso della scrittura allegorica
sta qui: nella «distruzione che edifica in forza delfincantesimo».
Le cose vengono abbandonate nel loro semplice essere - direbbe
Benjamin - per presentarsi alla considerazione allegorica «come una
rete di enigmatici rinvìi» e inoltre «come polvere». Alla radice di
questa ambivalenza sta il rifiuto di una ricerca umile e paziente della
verità per la tracotanza di esperire un sapere assoluto; si ribadisce in
tal modo il superbo isolamento dell’Io, la sua titanica aspirazione a
realizzare l’esperienza della libertà passa attraverso la violazione ili
ogni norma. «Ciò che alletta - nota ancora Benjamin - è l’apparenza
della libertà nello scandagliare il proibito; l’apparenza dell’autonomia
- nella secessione della comunità dei devoti; l’apparenza dell’infinito
- nel vuoto abisso del male. Perché è di di tutte le virtù di aver davanti
a sé una fine - il loro esempio, cioè, in Dio: così come ogni deprava
zione dischiude un infinito progresso dentro la profondità»37. È la pro
fondità del significato a spalancare un abisso tra significante e signih
cato. La genesi della scrittura allegorica sta in questo capovolgimento
che precipita l’alto nel basso (la torre di Babele diventa il pozzo ili
Babele) e riduce la totalità a immagine cifrata, a frammento, runa,
vanificando la bellezza simbolica. «La falsa apparenza della totalità
- nota Benjamin - si spegne. Perché l’eidos si oscura, la similitudine
vien meno, e il cosmo, in ciò, s’inaridisce»38.
La scrittura allegorica di Kafka riceve un’illuminazione decisiva dal
le geniali intuizioni benjaminiane: in base a queste essa può essere colla
come una modalità della distruzione che edifica. Se essa infatti implica
la distruzione della totalità del significato, per altro verso la sua è un
che una continua inarrestabile discesa nella profondità del significato,
In questo senso essa non può sottrarsi ad una fondamentale ambigui
tà che del resto è strutturalmente connessa alla pluralità di rimandi pi o
pria del discorso allegorico: questa ambiguità è il tipico modo di essere
della ‘peccaminosità’ allegorica, del sottile pervertimento di chi non

37 /vi, pag. 251.


38 Ivi, pag. 186.

156
può cogliere l’immagine se non come frammento e di chi si lascia se­
durre - come direbbe Benjamin - dall’«apparenza dell’infinito nel vuoto
abisso del male». Le articolazioni di questa scrittura come assunzione
ilei negativo si riconducono all’ambiguità come modalità specifica del­
la scrittura allusiva. Tutto ciò è evidente nei grandi temi kafkiani: dal
rapporto con la colpa e con la legge, alla solitudine del ‘superuomo’ ne­
gativo concepito come eccezione infelice (Primi dolori, Un artista del
digiuno), al motivo della lotta espressa nella forma talmudico-sofistica
del dialogo che non è poi mai un vero dialogo, ma neppure il suo op­
posto. Ma al di là di questa ambiguità che si esprime appunto allorché
l’allegoria costruisce i suoi rinvìi vanificandoli in quanto il significato
e sempre un non-luogo e un non-senso, cioè un’assenza, sta un ferreo
giudizio d’identità: l’inafferrabile è inafferrabile.
11 limite dell’ambiguità allegorica è dunque soltanto il silenzio, quel
muto linguaggio delle figure grafiche, delle segnature criptiche (come le
lettere del nome Josef K. o quelle incise sul corpo del condannato nella
( olonia penale), dove ancora una volta rivelazione e scempio coinci­
dono, liberazione e esecuzione sommaria s’identificano. In questa pro­
spettiva le metafore concettuali di Kafka sono avvicinabili al «silenzio
delle sirene». In esse, come in quel silenzio, i significati si negano ed i
saggi che fanno metafore delle loro parole usano forse la stessa astuzia
con cui Ulisse fingeva di udire estasiato - nella kafkiana ritrascrizione
del mito - il loro canto inesistente.
Ma è proprio di qui che acquista un senso quella «distruzione che edi-
liea». «Perché riluttate? - dice uno dei molti nel discorso Von den Glei­
chnissen - Se assecondaste le metafore, diverreste metafore voi stessi».
I >i fendersi dalle metafore significa pretendere di identificarle in termini di
lealtà data e quindi dare ad esse un senso che le svuota del loro non-senso:
solo metafore reificate possono essere utili per il quotidiano travaglio. Ma
la liberazione da questo sta nell’essere metafore, vale a dire nell’intendere
le metafore come l’unica realtà, così da lasciarsi vivere in essa (esiste un
unico mondo, quello spirituale, afferma Kafka nelle Betrachtungen39), stac-
I .usi cioè dall’esserci cui si appartiene, consistere in ‘altro’, non già nella
dimensione dei significati ridotti a cose, utilizzati come cose o ideologizzati
. I ime valori, bensì in quella dei significanti che sono appunto sciolti dal
I ilerimento a un centro, possibilità pure dell’impossibile. L’invito ad asse-

in «Die Tatsache, dass es nichts anderes gibt als eine geistige Welt, nimmt uns die Hoffnung und
gibt uns die Gewissheit», Betrachtungen, cit., pag. 46.

157
condare le metafore è ancora una metafora che si aggiunge alla metafora.
Anziché sciogliere il non-senso delle parole dei saggi si invita a divenire, a
crescere con questo non-senso. Esplicitare una metafora è in realtà un pro­
durre nuove metafore: sta in ciò il movimento interno alla scrittura allego­
rica come dis-centramento di significanti, come produzione di sostituzioni
infinite all’interno di una totalità finita40. Le successive battute del dialogo
che si stabilisce tra chi ha rivolto questo invito e F'altro’ non mirano - come
sostiene B. Allemann41 - a radicalizzare la distinzione tra il mondo delle
metafore e quello della quotidianità: il discorso della metafora è una fuga
dal quotidiano solo per un ritorno al quotidiano.
Cosa significa il fatto che assecondare le metafore è diventare noi
stessi metafore? Che solo dando alla nostra realtà esistenziale il sen
so di una metafora, facendo cioè di essa un significante che rimanda
continuamente a se stesso e non ad altro, una domanda che ha già da
sempre in sé la sua risposta, solo in questo modo è possibile liberarsi
dal quotidiano travaglio. Questa affermazione è senz’altro ancora una
volta una metafora («Scommetto che anche questa è una metafora»):
vale a dire non si esce dal cerchio della metafora. Dire che per salvarsi
occorre ‘essere’ la salvezza, così come per comprendere la saggezza
dei saggi occorre ‘essere’ questa saggezza, è infatti ancora una meta
fora: essa ci indica che il senso della liberazione è immediatamente
vissuto in termini di identificazione: significante e significato non sono
più separati e l’abisso è colmato. Chi dunque scommette che questa
sia una metafora, ha vinto. Ma se pretende di dire che vince solo
metaforicamente e non nella realtà, ha perduto: affermare infatti clic
è una metafora a farci comprendere il senso della metafora significa
aver compreso che non esiste una via che porta dall’interno all’estei
no, dal significante al significato, dall’immagine alla realtà, giacche
nell’interno, nel significante, nell’immagine, sta chiusa la realtà: essn
è quella profondità del senso che deve farsi esperienza, vita.
Paradossalmente si potrebbe dire che il senso del quotidiano tra
vaglio sta nel quotidiano stesso, ma questa dimensione deve appunto
arricchirsi nella sua potenzialità significante, arricchirsi di senso al
suo interno ed essere compresa appunto a partire dalla metafora. Il
senso della esistenza si dà realmente solo nella metafora, in quanto è

40 Si vedano, a questo proposito, le illuminanti pagine di J. Derrida, L’écriture et la différent r


Paris, 1967, pagg. 49 segg. a cui siamo molto debitori.
41 B. Allemann, «Von den Gleichnissen», in «Deutsche Philologie» 83 11964| pag. 104.

158
in essa che si costituisce originariamente, senza rinviare a nulla al di
liiori di sé. Per Kafka dunque la sola comprensione reale è data attra­
verso la metafora: per questo chi vince la scommessa perché afferma
ciò, la vince nella realtà e la perde metaforicamente, nel senso che il
prodursi delle metafore discopre una struttura reale. Se fosse soltanto
una metafora dire che la salvezza sta in una metafora, questo signifi­
cherebbe che il piano della metafora non tocca mai quello della realtà
c che la metafora della metafora non realizza mai un significato reale.
I. invece è solo allontanandosi dal significato reale che lo si ritrova; è
solo all’interno del significante che è possibile ‘cadere’ nel significato
icale. La caduta ‘del’ significato operata dalla metafora apre l’acces­
so alla caduta ‘nel’ significato, in quella profondità del reale in cui
abita il significato. La metafora della metafora, la comprensione della
metafora attraverso una nuova metafora che si produce dalla prima
in virtù di quel surplus di significazione che discende dall’assenza di
centro (cioè di un valore fisso e rigidamente vincolante) esprime per
Kafka un progresso ‘positivo’ nella profondità - e la profondità è la
dimensione reale del significato. La profondità corrisponde al non­
luogo del significato, alla sua a-centralità: in questo senso la metafora
si avvicina al suo rovesciamento, al punto cioè in cui il significante
c il suo stesso significato. Direi dunque che nella forma del condi­
zionale: «Würdet ihr den Gleichnissen folgen, dann wäret ihr selbst
( ileichnisse geworden und damit schon der täglichen Mühe frei» («Se
assecondaste le metafore, diventereste metafore voi stessi e sareste
così già affrancati dalla quotidiana fatica») si esprime una metafora
assoluta, tale cioè da esaurire in sé il significato. Infatti se si seguisse
questa possibilità, - che è una possibilità concreta - se si divenisse
noi stessi metafore, si realizzerebbe il regno del significato, la regio
dissimilitudinis dei mistici diventerebbe regio similitudinis, la vita si
identificherebbe col segno e l’‘essere’ eclisserebbe L’avere’.
Non molto diversa è questa prospettiva da quella dei kabbalisti per
tpianto riguarda, per esempio, l’allegorismo dello Zohar. I simboli di
dii è contessuto l’universo sono i tramiti di un riconoscimento del-
I essere reale che non è più semplicemente una segnatura, ma la «grande
cosa significata»42.

I? •<!...] l’allegorisme du Zohar est d'ordre mystique. Son principe est que les choses visibles
ont, outre leur réalité exotérique, une réalité ésotérique, destinée à enseigner à l’homme ce qui
n'est pas visible, ce qui recèle un sens profond. Aux yeux des kabbalistes, l’univers entier est
couvert de symboles qui, en dernière analyse, conduisent peu à peu à l’être réel, à l’être vérita-

159
Questa scommessa è dunque vinta nella realtà: il discorso della me­
tafora passa attraverso l’ipotesi di una possibilità concreta per divenire
un discorso trasformante. Se così non fosse, se la scommessa fosse stala
vinta solo ‘per metafora’, il piano della metafora su cui opera la distru­
zione del possesso sarebbe indebitamente trasceso da quello quotidiano
in cui il possesso è appunto misurato in termini non ipotetici, ma di cei
tezza. Il discorso della salvezza sarebbe dunque ancora una volta ripoi
tato a quello dell’ideologia del possesso*43 per il quale valgono relazioni
di possesso, cioè rapporti causali: il superamento realizzato da Kafkn
implica invece, sul terreno della produzione metaforica dei significanti,
un possibilità di essere, cioè una restituzione del quotidiano al senso, il
quell’unicità dell’indistruttibile per cui anche la singolarità da cui pro
cede T individualità del possesso è trascesa: «L’indistruttibile è unico.
Ogni singolo uomo lo è e allo stesso tempo esso è comune a tutti. Di qui
l’unione, eccezionalmente compatta, che vincola gli uomini»44.

blement en soi, qui n’est point un signe, mais qui est au fond la “Grande Chose signifiée”)', 11
Serouya, cit., pag. 202. Che il processo emanativo della luce e dell’energia debba essere inlew»
- per i kabbalisti - come il dispiegarsi del «linguaggio divino», è sottolineato con ampie//«
di riferimenti da G. Scholem: «Die geheime Welt der Gottheit ist eine Welt der Sprache, ein»
Welt göttlicher Namen, die sich nach ihrem eigenen Gesetz auseinander entfalten», Zur Kuh
baia, cit., pag. 54.
43 Per un’ampia analisi della tematica del «possesso» come chiave critico-interpretativa del
l’avanguardia ci sia consentito rimandare il lettore al secondo saggio della nostra Dialetti) »
dell’avanguardia. Ideologia e utopia nella letteratura tedesca del Novecento, Bari, 1973.
44 Betrachtungen, cit., pag. 47.

160
Franz Kafka: una distruzione che edifica45

Im Palast des Nichts wohnt das All.


Josef Taitatzak

“Alla sua argomentazione si affianca una sorta di incantesimo. A un’ar­


gomentazione ci si può sottrarre evadendo nel mondo della magia, a un
incantesimo riparando nella logica; ma l’uno e l’altro insieme ti schiac­
ciano, tanto più che, uniti, danno luogo a un quid tertiunv. un incante­
simo vivente o una distruzione del mondo che, invece di distruggere,
edifica”46 - così scrive Kafka in un luogo dei suoi Oktavhefte. Qual è il
segreto di questa potenza schiacciante derivante dalla combinazione di
incantesimo e argomentazione {Bezauberung e Beweisführung), quasi si
determinasse, per effetto della loro unione, un inaudito sinergismo? Che
cosa intende significare Kafka con queste enigmatiche parole, quando
afferma che dall’uno e dall’altra scaturisce una terza realtà, o meglio
che entrambi diventano “etwas Drittes”, “ein lebender Zauber” ovvero
una “nicht zerstörende, sondern aufbauende Zerstörung der Welt”? Per
avvicinarci alla comprensione di questo paradosso occorre entrare nel
cerchio di una dissoluzione che riguarda propriamente la soggettività, il
soggetto come potenza in grado di disporre, di organizzare e articolare
le sue argomentazioni, i suoi percorsi dimostrativi.
Il soggetto è contesto di argomentazioni: esso argomenta sempre in
nome di sé e per se stesso e argomentare è una modalità del suo autoaf-
lermarsi. Basti pensare alla tecnica narrativa con cui Kafka fa muovere
I protagonisti delle sue “storie”, da Josef K. all’agrimensore K., intri­
candoli nelle loro argomentazioni che non argomentano in realtà nulla
poiché a nulla approdano, irretendoli lentamente nelle parole: nella loro
inutile, anche se sempre rinnovata lotta, nell’inganno delle contraddi­
zioni, delle supposizioni, dei sospetti, delle attese, negli Umwege di
una logica ipertrofica (che non a caso ha fatto pensare alla cavillosità

45 In «Aut Aut», 1984, pagg. 29-37 e in F. Masini, La via eccentrica, Marietti, Casale Monfer­
rato, 1986 (N.d.C.).
Iti ‘Relazione tenuta al Convegno “La crisi del soggetto nella cultura austriaca di inizio secolo”,
Reggio Emilia, 2-13 marzo 1984.
F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, in Confessioni e immagini, trad. it. di I. A. Chiusano, A.
Rho, G. Tarizzo, Milano, 1964, pag. 142; F. Kafka, Die acht Oktavhefte, in Hochzeitsvorberei­
tungen aufdem Lande und andere Prosa aus dem Nachlass, a cura di M. Brod, Frankfurt a. M.,
1954, pag. 125 (F. K., Gesammelte Werke, a cura di M. Brod, Frankfurt a. M., 1950 segg.).

161
talmudica). L’umorismo di Kafka è, per molti riguardi, connesso a que
sto procedere minuzioso e contorto che aggancia le funzioni diegetichc
della descrizione all’intarsio dei discorsi, delle digressioni, delle ipo
tesi, al loro percorso sinuoso che interseca continuamente la strada del
racconto ostruendola.
L’ostruzione è dovuta alla esaltazione dell’insignificante, alla mimi
zia; di qui l’effetto comico. “Das eigentliche Komische - aveva scritto
Kafka nel Castello - ist das Minutiöse”47.1 testi kafkiani si presentano
così nel loro argomentare implicito o esplicito - si ricordino i tentativi
di giustificazione e di adattamento agli eventi da parte di Josef K. nel
Processo - come un labirinto, ma l’intenzionalità sottostante è quell«
della razionalizzazione, quasi si potesse alla fine dissolvere rimimi
gine del labirinto come quella di un ingannevole miraggio e riporla
re anche l’assurdo sotto il segno di una semplice, tranquilla e sensata
apparenza. Questa convinzione è indotta nello stesso lettore che vieni'
insensibilmente coinvolto nella prospettiva del protagonista e delle sue
situazioni. Il paradosso di un’argomentazione nullificante, vale a dite
di una condizione del soggetto che tanto più affonda nella impotenza
quanto più le sembra di intravedere possibili vie di uscita, è diverso
dalla sua figura classica. “I paradossi di Kafka - è stato detto - non
vivono di una torsione della normalità, essi stessi trovano la loro base
in una contraddizione. Non si dirigono verso una sintesi del contrail
dittorio, come il paradosso tradizionale, bensì sono deviazioni da ogni
attesa concordanza; ogni dissoluzione è semplicemente una riduzioni
ad un rinnovato molto più originario incomprensibile”48. In conclusione
la kafkiana Umkehrung è connessa ad una “deviazione” dalle consue
tudini categoriali, dai tragitti canonici del pensiero: siamo di fronte ad
un paradosso che scivola (“gleitendes Paradox”) in quanto si sottrae ad
ogni regola schematica senza peraltro pervenire né all’“irrigidimento"
né aH’“accomodamento”. La ragione di ciò è stata trovata da Neumann
nel fatto che questi paradossi vengono sviluppati a partire dall’Io e si
pongono al tempo stesso all’Io come compiti insolubili49.
Ma è forse vero il contrario, dal momento che proprio in quanto lìu
cessa di essere un sistema di riferimento, il cardine, cioè, della sua coni

47 F. Kafka, Das Schloss, a cura di M. Brod, Frankfurt a. M., 1960, pag. 425 (G. IV., cit.).
48 G. Neumann, Umkehrung und Ablenkung. Franz Kafka “Gleitendes Paradox”, in “DVjs" I .1
(1968) novembre, pag. 706.
49 Ivi, pag. 710.

162
prensibilità e della razionalizzazione degli eventi, si generano questi pa-
ladossi medesimi e con Tessi Tannichilimento stesso del soggetto. Non
stanno infatti a dimostrare, proprio queste ostruzioni paradossali del
I acconto nella sua presumibile processualità costruttiva, che l’Io non è
pili in grado di dominare la logica del suo procedere per paradossi, così
ila normalizzare il divagare insensato delle argomentazioni e ricondurre
il travaglio della ricerca ad un telasi Quel punto di Archimede che do­
veva sollevare il mondo dai suoi cardini è stato trovato - scriveva Kafka
nei Frammenti della serie “Egli” - solo alla condizione di essere usato
per la nostra autodistruzione. “Egli ha trovato il punto di Archimede,
ma l’ha usato contro se stesso, evidentemente gli è stato concesso di
scoprirlo solo a questa condizione”50. Le argomentazioni lavorate dal
paradosso si rivoltano contro l’Io, ne mostrano l’effimera consistenza,
la ridicola precarietà e fragilità delle sue giunture, lo sviano da se stes­
so: esso diventa così quell’impossibile punto di fuga a cui tenderebbero
I paradossi se non fossero precisamente i sintomi di una degenerazione,
ili una reductio ad absurdum della norma. E il senso dell’interrogare?
I a risposta la dà Kafka stesso. “Un tempo - scrive nelle Betrachtungen
non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non
capisco come potessi illudermi di far domande. Ma non è che m’illu­
dessi, interrogavo soltanto”51. 52
“Il mal di mare in terraferma” - di cui egli parla nel Dialogo con il
devoto51 - ha corroso la stabilità dell’argomentare: esso costituisce il ri­
flesso soggettivo di un paradosso allo stato fluido che altro non è se non
il riscontro di una patologia del significare. I nomi non significano più
nulla perché non sono più riferiti alle cose. “La vostra malattia - si legge
nel dialogo sopracitato - consiste nel fatto che avete dimenticato i nomi
delle cose e ora buttate a caso dei nomi sopra quelle. Presto, presto!
Pensate. Ma vi siete appena allontanati, che ne avete già dimenticato i
nomi. Il pioppo dei campi, che avevate chiamato la ‘Torre di Babele’,
perché non sapevate o non volevate sapere che era un semplice piop­
po, oscilla di nuovo senza nome, e ora dovreste chiamarlo ‘Noè ubria­
co’ ”53. Questo oscillare ricorda il chiasmo presente nella proposizione

50 F. Kafka, Paralipomeni, in Confessioni e immagini, cit., pag. 429.


5I F. Kafka, Considerazioni, ivi, pag. 62.
52 F. Kafka, Dialogo con il devoto, in Racconti, trad. it. di G. Zampa, Feltrinelli, Milano, 1957,
pag. 13.
53 tbid.

163
kafkiana da cui abbiamo preso le mosse: “A un’argomentazione ci m
può sottrarre evadendo nel mondo della magia, a un incantesimo ri pii
rando nella logica”. È un’oscillazione che salva dall’essere schiacci»,!
dal peso dell’argomentazione come da quello dell’incantesimo: un peso
egualmente distruttivo; è l’oscillazione dello smarrimento che costringe
il soggetto a inseguire il mondo proprio perché egli non ha in se stesso
alcuna stabilità e questa sua instabilità è esattamente “la mancanza tiri
terreno sotto i piedi, dell’aria, della legge”54. Ma inseguire o assecon
dare il mondo non è ancora trovare un punto d’appoggio, al contrario
in esso si è trasferito il nostro stesso smarrimento e per questo <|»icl
mondo è distruttivo come lo smarrimento medesimo. “Noi non possili
mo distruggere questo mondo - osserva Kafka - perché non T abbinimi
costruito come qualcosa di a sé stante, ma vi ci siamo perduti denim,
più ancora: questo mondo è il nostro stesso smarrimento, ma come tuia
è esso medesimo un’entità indistruttibile, o meglio qualcosa che puA
esser distrutto solo col portarlo sino in fondo”55.
II “mal di mare in terraferma”, la vertigine di chi butta nomi sopri k
cose, lo smarrimento come mondo sono la negazione del riposo, l'un
possibilità di quel punto d’appoggio dove sta la quiete. Chi è attravci
sato da questa vertigine, sia essa espressa dall’argomentare o dalla Ini /.a
stornante dell’incantesimo, non può aggrapparsi a nulla, né al mondii,
né a se stesso, divenuti entrambi irreali. Al soggetto tradizionalmenla
inteso come luogo della stabilità, come quel subjection invariabile nel
mutamento si riferisce com’è noto, la nozione stessa dell’universale. Mi
Kafka si domanda: “Quiete nell’universale? Equivoco nell’univei siila
L’universale inteso a volte come riposo, in genere però come l’oscilla
zione ‘universale’ tra l’individuale e l’universale”56. Solo la quiete (Kitlw}
è “das wirklich Allgemeine” (il realmente universale), ma appunto qucsia
quiete altro non è - dice ancora Kafka - che “das Endziel”, il termina
finale. Questo Endziel sta al di là del soggetto, implica la vanifica/min
di un soggetto ontologicamente inteso come inamovibile e inalterabili
fondamento (sub-stans) come pure l’irrealtà del principio normativo da
esso rappresentato: e questa trascendenza della quiete altro non è sc ihn,
la trascendenza stessa dell’esistere nella quale il riposo è all’interno dal
movimento. “Tu spieghi 1’esistenza - scrive Kafka - come un riposili!,

54 Gli otto quaderni, cit., pag. 137.


55 Ivi, pag. 126.
56 Ivi, pag. 141; Die acht Oktavhefte, cit., pag. 124.

164
un riposare nel movimento”57. E la trascendenza delle cose così come
dovrebbero apparire a chi ambisce a conoscerle in una sorta di anteriorità
antepredicativa per la quale è tolto il rapporto soggetto-oggetto. “[...] le
cose che ho intorno - si legge nel Dialogo con il devoto - mi appaiono
talmente logore, mi fanno credere che la loro vita sia ormai trascorsa e
che stiano sprofondando nel nulla. Io sono di continuo assillato dal desi­
derio, caro signore, di saper come sono le cose prima che si mostrino a
ine. Hanno una felice, tranquilla esistenza: deve essere così, spesso odo
gente che parla di esse in questo modo”58.
Ma è proprio questo essere fuori da questo mondo primordiale dove
le cose semplicemente esistono, dove il loro esistere coincide con il loro
stesso significato, è proprio questa extraterritorialità del soggetto a fare
ili esso un non-fondamento. In una lettera a Brod dei primi di maggio
1921, a proposito del suo rapporto con Milena, Kafka sottolineava questa
"extraterritorialità” in termini di coscienza esistenziale: “Se le parli di
me, parla come di un morto, sotto l’aspetto, intendo, del mio ‘di fuori’,
della mia ‘extraterritorialità’ ”59. Questo “di fuori” è ancora una retro­
cessione rispetto alla prorompente pienezza di una vita che non è dato
vivere: “Comprendi Milena - scriveva Kafka a questa donna cui sono
dedicate le lettere più intense che abbia mai concepito - la mia età, l’es­
sere consumato e soprattutto l’angoscia e, comprendi, la tua gioventù,
In tua freschezza, il tuo coraggio; e la mia angoscia diventa sempre più
glande perché significa un ritirarsi dal mondo, di qui l’aumento della sua
pressione, di qui inoltre l’aumento dell’angoscia, mentre il tuo coraggio è
un avanzare, donde la diminuzione della pressione, donde l’aumento del
coraggio [...]”. E più avanti: “E ho paura e paura, cerco un mobile sotto il
quale possa nascondermi, prego tremando e fuori di me in un angolo per­
ché tu, come sei entrata rombante in questa lettera, possa volare di nuovo
dalla finestra, non posso tenere in camera un uragano!”60. Kafka vive con
angoscia, con timore e tremore, con improvvise esaltazioni e sconfinati
inabissamenti questo suo essere “fuori”, questo suo essere negato, questo
mio negarsi alla nascita: “Non essere ancora nati e già costretti a girare

' ' Die acht Oktavhefte, cit., pag. 114.


'H Dialogo con il devoto, cit., pag. 14.
W F. Kafka, Epistolario, trad. it. di E. Pocar e A. Rho, Milano, 1964, pag. 381 (Tutte le opere di
Franz Kafka, a cura di E. Pocar, Milano, 1964 ss, v. 4,1.1).
MI F. Kafka, Lettere a Milena, trad. it. di E. Pocar, Milano, 1954, pag. 65.

165
per le strade e a parlare con gli uomini”61. Di qui la malinconia ili un
distacco che diventa sradicamento e lontananza: “Senza antenati, scimi
nozze, senza discendenti, con una voglia selvaggia di antenati, di nozze ■
di discendenti. Tutti mi porgono la mano: antenati, nozze e discende uh
ma troppo lontano per me”62.
A proposito della “voce narrativa” nei romanzi di Kafka, osserva :n u
tamente Blanchot che questa voce è “neutra” (“non è una vera ‘lei zu
persona’, ma la semplice maschera dell’impersonalità”) e che per ev.ii
“la terza presenza narrativa destituisce il soggetto ed espropria Pazimii'
transitiva o la possibilità obiettiva”63. Questa voce “è radicalmente eslei
na, viene dalla esteriorità stessa, quel fuori che è l’enigma proprio tifi
linguaggio della scrittura”64. È evidente che la cancellazione del soggcilu
si manifesta in questa acentralità della voce che “non crea centro, non
parla a partire da un centro, anzi al limite impedirebbe all’opera d’avcm»
uno”65, di guisa che “il centro di gravità della parola” è posto “altrove",
“dove parlare non sia affermare l’essere né d’altra parte aver bisogno
della negazione per sospendere l’opera, quell’opera che si compie conn
nuamente in ogni forma di espressione”66.
Da siffatto punto di vista, questa continua diversione (anche il pam
dosso è una modalità obliqua, una forma del divergere e dello sviare) eh*
riporta la scrittura di Kafka sotto la dominante di un rapporto indirvilii
attraverso il quale si afferra ciò che non è pertinente, che è insigni licmi
te e perciò stesso sviante, potrebbe essere ricompresa in quella sortii ili
chiasmo magico con cui viene stabilita la relazione tra argomentazmn»
e incantesimo per quanto riguarda la possibilità in una fuga dall’uno *
dall’altro. All’incantesimo si sfugge divergendo nell’argomentare c vi
ceversa. Questo divergere è un cancellare il soggetto che diventa in ini
modo una perenne figura obliqua, un’ipotesi insostenibile, T allusione ■
un centro inesistente, la parodia di una presenza, che si dissolve nell*
proiezioni di un fantasma ubiquitario, nell’accumulo delle minuzie in i ni
si sgretola l’argomentare e in cui si consuma l’autoironia di un soggel
to defunto. Pur tuttavia esiste il prodigio di un’argomentazione clic é «I

61 F. Kafka. Diari, 2 volt, a cura di M. Brod, trad. it. di E. Pocar, Milano, 1953, II, pag, I !'l
62 Ivi, pag. 164.
63 M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, Feltrinelli, Milano, 1983, pag. 137 segg.
64 Ivi, pag. 139.
65 Ivi, pag. 140.
66 Ivi, pag. 141.

166
icinpo stesso incantesimo, il prodigio di un “qualcosa di terzo” che non
i' soggetto e ciononostante nel vuoto del soggetto fonda il suo potere, il
potere di una distruzione che invece di distruggere edifica.
Per comprendere questo paradossale slittamento di una prospettiva,
per cui la necessità viene piegata in possibilità e viene invertita la fatalità
della distruzione, occorrerà ricordare una riflessione dello stesso Kafka
:i proposito della letteratura nella quale appunto si compie un prodigio:
Strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione dello
scrivere: uscire dalla fila degli assassini, osservare i fatti. Osservazione
dei fatti in quanto si crea una specie superiore di osservazione, superiore,
non più acuta, e quanto più è superiore, quanto più irraggiungibile par­
tendo dalla ‘fila’, tanto più la sua vita è incalcolabile, gioconda, ascen­
dente”67. C’è un modo, dunque, di distruggere il mondo e di edificarlo al
tempo stesso. In quella distruzione del mondo operata dalla scrittura si
iinnida una virtualità creativa della distruzione, una evocazione magica
olle “chiama” la “magnificenza della vita” ad esistere. “Se la si chiama
I questa magnificenza] - annotava Kafka nei Tagebücher - con la parola
paista, col giusto nome, viene. Questa è la natura della magia che non
eiea, ma chiama”68. È mai possibile che chi è più lontano dalla gioia, pos­
sa arrivare a conoscerne il senso e quasi ad articolarne il linguaggio? È
possibile, se è vero che la gioia può consistere - come avviene per Kafka -
nella punizione stessa, in quella punizione alla quale “io, libero, convinto
c felice, darò il benvenuto”69. Qui non siamo di fronte ad un raptus ma­
sochistico, ma ad una equazione metafisica. È una sorta di “commozione
divina” quella che distruggendo edifica.
L’autodistruzione a cui Kafka ha atteso sistematicamente - come egli
slesso confessa - nel corso degli anni, sgretolando pietra su pietra la di­
mora degli antenati (ebraismo), la dimora umana di chi si sottrae alla
>1 mdanna di Sisifo (nozze) e il prolungamento della propria casa nel tem­
po (discendenti), non è semplicemente il prezzo da pagare per giungere
» quella specie di osservazione superiore che ha le sue proprie leggi di
moto: l’universo della scrittura. Non è semplicemente la contropartita
•paventosa di quella trascendenza della distruzione, nella quale non v’è
■iigomentazione o incantesimo, ma solo “etwas Drittes”. Essa è qualcosa
di più: è il riconoscimento di chi sa che proprio in questo suo essere fuori

Diari, II, cit., pag. 169.


L>K Ivi, II, pag. 154.
Ivi, II, pag. 155.

167
in questo deserto, in questo esilio sta la valle di Canaan. “La migrazioni
- notava Blanchot - ha per mèta il deserto, ed è la vicinanza del desciio
che è ora la vera Terra Promessa”70.
Si tratta di un riconoscimento inesprimibile, ma l’arte è questo ricono
scimento. Comprendere il senso di una distruzione che edifica sigillili ft
intendere i termini di quella contraddizione che fa dell’arte un dono pie
zioso e al tempo stesso il salario delle potenze diaboliche che abbiamo
servito71. V’è dunque proprio al limite di quel negativo in cui è compiim
anche la letteratura, non tanto il suo rovesciamento, quanto la sua tiin.li
gurazione per cui esso appare come il grado ultimo di una conosccnzn
(ma sarebbe forse più esatto dire senz’altro gnosi) che redime il negativo
staccandolo dal punto di vista degli assassini e non lo abbandona piu ni
loro giudizio, non lo consegna più alla logica divorante di cui esso si uh
tre. Occorre che si determini una svolta radicale del punto di osservazi» >ui>
(ecco perché Kafka parla di un’“osservazione superiore, non più acuì» l
- una metónoia - perché si possa anche soltanto prospettare l’ipotesi «Il
una distruzione che produce il suo contrario, come se fosse propini il
male, la malattia, la solitudine, l’esilio, la tortura della separazione, il
“gelo del cuore”, la colpa in cui affonda ineluttabilmente chi protesili In
sua innocenza, questo male senza speranza, assoluto come “il dio del!»
soffocazione”, a generare il bene, o meglio ad aprire in se stesso la |xissi
bilità del bene e della salvezza.
In questo ordine di idee il paradosso di una distruzione che edilu »
potrebbe anche essere visto alla luce di un’interpretazione neocabbalisi»
Sappiamo che secondo la dottrina cabbalista delle dieci Sefiroth, le pi)
tenze promananti dal Dio vivente, esiste un’implicazione, una recipm« »
coappartenenza del bene al male, nel senso che mentre al primo corrisix hi
de l’amore di Dio (Chesseđ) come fonte donatrice del bene, al secondo I»
riscontro il rigore della giustizia e del giudizio divini, quella severità, qu«d
fuoco dell’ira che i cabbalisti esprimono nella parola Middath ha Dm
Il male verrebbe così ad essere una modalità dell’essere e deH’azmi»1
divina, come pensano quei cabbalisti spagnoli che si richiamano al lilno
Bahir. Quando il rigore del giudizio si presenta non mitigato daH’aiiioiv
e questo avviene allorché si ha un atto di autolimitazione (Zimzuni) ni
l’interno della stessa essenza divina (Luna), o quando dalla terza sin»,
dalla Bina, ovvero dal grembo della creazione dove tutti gli opposti si um

70 M. Blanchot, Lo spazio letterario, trad. it. di G. Zanobetti, Einaudi, Torino, 1975, pag «ZI
71 Cit. da Brod, ivi, pag. 57, n. 3.

168
armonicamente compresi, procedono le emanazioni nella loro speculare
duplicità, anche la stessa severità del giudizio divino si rende indipenden­
te scindendosi dall’unità e dall’unione dell’albero sefirothico.
Tra le diverse ipotesi con cui nella tradizione cabbalista si cerca di dare
ima spiegazione al male metafisico, spiegazioni tutte in qualche modo
riconducibili alla rottura di un’unità armonica e quindi al particolarizzarsi
di un’“altra parte”, il tema della rappresentazione del fuoco divino che
erompe all’esterno originando la contrapposizione e insieme Timplica-
zione reciproca di bene e male trova una sua versione “eretica” nella tesi
di un cabalista del Seicento, Nathan van Gaza, non poco significative
per intendere Tenigmatica formulazione kafkiana. Secondo il Libro della
creazione (Sepher ha-Beri’a) di Nathan coesistono in Dio due modalità
i> aspetti diversi della luce: una “luce colma di pensiero”, da cui discen­
de la creazione del mondo, e un’altra “spoglia di pensiero”, tutta ritirata
nel fondo imperscrutabile e immobile dell’En-So/. Questa seconda luce
sprofondata com’è nel suo abisso resiste alla prima, nel senso che passi­
vamente contrasta alla creazione: si origina così un conflitto interno alla
divinità stessa per cui la luce priva di pensiero potrebbe essere intesa
come quel male, quella potenza distruttiva che mira a distruggere la crea­
zione stessa. Eppure proprio questa distruzione è positiva, dal momento
che non è altro dall’essere divino e appartiene alla sua stessa essenza;
infatti non si distingue dalla totalità della sua realtà vivente dove è pur
sempre Dio l’unica e insostituibile potenza.
Quid contra Deum nisi Deus ipsel Ciò è tanto vero che lo stesso Messia
è visto in questa concezione come proveniente dalla luce priva di pensiero,
da quell’abisso della “metà inferiore” dell’universo che rilutta ad assumere
torma. Nathan vuole significare con ciò che solo dafl’elemento antagoni­
sta può procedere quella liberazione del mondo, quell’equilibrio delle for­
ine che compenetra di sé anche il vuoto di forma. Insomma, la distruzione
edifica proprio quando l’amore miséricorde e il rigore del giudizio non
sono più separati e la distruzione viene invertita di segno e trasfigurata nel
suo opposto. Nel mistero insondabile del conflitto immanente alla divinità
si rispecchia quello stesso di una distruzione che pure restando tale non
costituisce più l’“altra parte” della creazione e dell’amore.
In Kafka, ovviamente, la valenza mistico-teologica di questa trasfigu­
razione si nasconde sotto la trascendenza di quel “terzo” in cui si risol­
vono argomentazione e incantesimo; essa diventa una incognita la cui
decifrazione può essere data solo in termini di scrittura, nel senso che è
nella letteratura che agisce questo “terzo”. Nella letteratura, diciamo noi,

169
ma Kafka direbbe nel “lamento”, in quel lamento che diventa “perietn»
“se non prorompe improvvisamente come un vero lamento, ma si svolge
in limpida bellezza”72. Di questo Kafka è assolutamente consapevole ni
lorché annota nei suoi Diari: “Dimenticavo di aggiungere [...] che quaiiln
di meglio ho scritto ha il suo fondamento in questa mia facoltà di moni«
contento [...] Per me [...] che credo di poter essere contento sul letto ili
morte, quei racconti sono un gioco segreto, tanto è vero che sono lieto ili
morire col morente, sfrutto quindi volutamente l’attenzione del letloir
concentrato su quella morte e mi conservo la mente molto più lucida ili
lui che, secondo me, si lamenterà sul letto di morte”73. Ma non è que
sta capacità di morire contento una distruzione che edifica? Non a ve vit
forse scritto Kafka che l’evoluzione umana sta nel crescere della nosim
“Sterbenskraft?”74. E la letteratura non sarebbe, in questo caso, come In
filosofia per il Socrate platonico una iniziazione a ben morire?

72 Diari, II. cit., pag. 78.


73 Ibidem.
74 “Die Menscheilsentwicklung-ein Wechsen der Sterbenskraft”, Die acht Oktavhefte, cil . pu j
123.

170
La cognizione del dolore75

Il dolore ha pietrificato la soglia


Georg Trakl

In un racconto scritto nel 1922, due anni prima della morte, Kafka sembra
darci il primo capitolo di una storia che è insieme la sua propria e quella
della sua opera. Se volessimo dare un nome a questa storia (ma non sono
ingannevoli tutti i nomi?), dovremmo chiamarla una storia del dolore e
al tempo stesso della sua autosignificazione: in altri termini, questa è la
storia di un dolore che si costruisce come una forma della conoscenza e le
tracce di questo ‘cammino’ sono esprimibili appunto come gradi cogniti­
vi: i momenti di questa scrittura sono le parabole di una conoscenza. Que­
sto racconto s’intitola: Primo dolore (Erstes Leid}. Anche se non ci viene
in alcun modo descritto e neppure accennato, si ha qui la rottura di un
incantesimo. Il giovane trapezista vive infatti la sua volontaria esclusione
non soltanto dal mondo del circo, ma dal mondo in generale, come uno
stato di beatitudine, quasi il tempo del suo isolamento in quell’«altezza
che quasi sfuggiva allo sguardo» («sich fast entziehende Höhe»)76, fosse
una sorta di age of innocence impenetrabile nel suo mistero.
Contrariamente a quel che potrebbe sembrare, il segreto di questa
inespressa, silenziosa beatitudine non sta nella perfezione dell’arte. Lo
dice subito lo stesso Autore: «Un acrobata da trapezio [...] inizialmente
per smania di giungere a gran perfezione, più tardi per tirannia di abi­
tudine aveva organizzato la propria vita in modo da non scendere dal
trapezio per tutto il tempo che l’impresa si fermava nello stesso luogo,
né di giorno né di notte»77. Se quella solitudine è goduta come un simu­
lacro di perfezione, quest’ultima non sta nell’arte, ma nell’assolutezza
di quell’isolamento che il trapezista è riuscito a creare intorno a sé. La
sua separazione, a cui è così gelosamente attaccato, è quella di una co­
struita trascendenza. Tuttavia proprio questa condizione non è del tut­
to preservata dalla sofferenza e a rivelarne la fondamentale precarietà
non sono soltanto gli spostamenti indispensabili all’attività del circo, ai

75 In F. Masini, La via eccentrica, Marietti, Casale Monferrato, 1986, pagg. 111-123 (N.d.C.).
76 F. Kafka, Primo dolore, in II messaggio dell'imperatore, trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino,
1952, pag. 12.
77 F. Kafka, Erstes Leid, in Sämtliche Erzählungen, a cura di P. Raabe, Frankfurt a. M., und
Hamburg, 1970, pag. 175.

171
quali, con corrucciato fastidio, l’acrobata è costretto ad adeguarsi, uhi
anche e soprattutto il presentimento che potrebbe forse non essergli loi
nito quel secondo trapezio, di cui sente di non poter fare assolutamene
a meno. Il senso di quell’isolamento sta dunque non soltanto nella siiti
inalterata permanenza, ma anche nella possibilità di dare alla costruii»
trascendenza di quella superiore quiete un suo interno movimento, qua
si essa dovesse, per sussistere, rispecchiarsi continuamente in se stessa,
sdoppiarsi e moltiplicarsi nel suo gioco, generare immagine da inumi
gine (un secondo un terzo un quarto... infiniti trapezi).
Questa trascendenza deve a ogni costo poter mantenere intatto il si
mulacro della sua autosufficienza. Il secondo trapezio non sta ad indica
re l’esigenza di una perfettibilità interminabile nell’arte dell’acrobai a,
ma soltanto l’autoinganno costituito da ciò che Kafka chiama «cercale
il massimo d’illusione»; in questo caso, infatti, - direbbe ancora Kalkn
- «s’inganna il bene, allontanandosene il più possibile: e il male, spr
rando di renderlo innocuo con l’elevarlo al massimo»78.
L’illusione di un distacco assoluto, l’ebbrezza dei propri giochi solilai i
in quel lontano cielo del circo, in quella sua ultima ‘profondità’ a cui non
giungono forse neppure le voci umane, tutto questo non può durare a Imi
go. V’è in quella illusione una sete di dismisura che non è ancora toccaln
dalla sofferenza. Ma l’ombra del dolore già fin troppo presto si stende sii
quel sognante, incomprensibile paradiso nato per l’estasi di un fanciullo
ed ecco il pianto irragionevole, infantile appunto, dell’acrobata accoc
colato sulla reticella dello scompartimento ferroviario nel corso del suo
viaggio. Dunque quella beatitudine di un assoluto esser-per-sé, propria di
un don Chisciotte - direbbe G. Anders - che «vive fuori del mondo, allo
stesso modo di un Robinson»79, 80 può essere incrinata anche soltanto da un
fuggevole pensiero, dall’oscuro presentimento che ‘qualcosa’ dall’eslei
no possa condizionarla, dal timore di un evento capace d’infrangere quel
l’oblio del mondo di cui essa vive. E così che nasce il «primo dolore».
Quella via della sofferenza che porterà Kafka ad annotare nei Diari
«Sono tutto vuoto e assurdo. Il tram che passa ha più senso di vita»1"' *|
diparte da qui. Ed egli ce lo fa comprendere con uno dei suoi caratteristi
ci procedimenti indiretti, consistenti nello spostare sulla congettura, sul

78 F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, trad. it. di I A
Chi usano, in Confessioni e immagini, Mondadori, Milano, 1964, pagg. 64-65.
79 G. Anders, Kafka pro und contra. Die Prozess-Unterlagen, München, 19724, pag. 24.
80 F. Kafka, Diari, 2 voll., trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1953, voi. 1, pag. 251

172
l’ipotesi, sul condizionamento o sull’interrogativo la funzione diegetica
della descrizione. Dopo che l’acrobata, rassicurato dall’impresario, cessa
il suo pianto e si addormenta, ecco infatti che quest’ultimo viene assa­
lito da una serie d’interrogativi inquietanti: «Ma non era più tranquillo
lui, adesso: preoccupato guardava di straforo al di sopra del libro verso
l'acrobata. Se pensieri di tal sorta cominciavano a tormentarlo, c’era da
sperare che scomparissero interamente? O non prenderebbero anzi pie­
de? Non erano essi una minaccia vitale? E realmente l’impresario cre­
dette di vedere - attraverso il sonno apparentemente tranquillo in cui era
terminato il pianto dell’equilibrista - le prime rughe che cominciavano a
disegnarsi sulla fronte liscia e puerile di lui»81.
S’intravede così il destino del l’acrobata: sarà quello degli eroi senza
mondo, degli anti-eroi, di cui è ricca la kafkiana «rappresentazione del
dolore», intesa - potremmo dire con Rosenzweig - come quell’arte «in
cui tragico e comico sono tutt’uno». La peculiarità del rappresentare ar­
tistico sta infatti in quel superamento del dolore che è dato «in termini
di plasmazione, non già di negazione di esso». «L’artista - nota ancora
Rosenzweig - non cerca né di ‘tacere’ la sofferenza, né di ‘gridar fuori di
sé’: la rappresenta. Nella rappresentazione (Darstellung) egli concilia la
contraddizione del suo esistere e del fatto che anche il dolore esiste: con­
cilia questa contraddizione senza pregiudicarla minimamente»82.
L’esperienza in cui si consuma la lotta degli anti-eroi kafkiani è quella
di una cognizione del dolore attenta alle sue cento e cento figure e al loro
leitmotiv incessante, alla nota sorda che vibra sotto tutte le variazioni e il
loro premeditato effetto umoristico. Già in questo racconto si stabilisce una
coordinata di questa cognizione: la solitudine dell’artista illusoriamente
vissuta come una perfezione senza contenuto, un puro disegno sul nulla, la
trasparenza di un’infinita assenza. Questa solitudine è l’altrove di cui parla
10 stesso Kafka in una pagina dei Diari, laddove si sforza di comprendere
11 proprio essere «abbandonato»: «[...] e precisamente abbandonato - così
ilice - non dagli uomini, che non sarebbe il peggio perché potrei rincorrerli
finché vivo, ma da me in rapporto agli uomini, dalla mia forza in relazione
agli uomini»83. E ancora: «Se tutto fosse, così come sembra, sul cammino
della neve, io sarei perduto, intendendo ciò non come minaccia, ma come

K1 Primo dolore, cit., pag. 14.


K2 F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Heidelberg, 1954’, 150; ora anche La stella della
redenzione, trad. it. di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato, 1985, ad loc.
KJ Diari, cit., Voi. 2, pag. 171.

173
immediato supplizio. Ma io sono altrove [c.n.]. Soltanto, la forza di allm
zione del mondo degli uomini è mostruosa e in un istante può far dimenìi
care tutto. Ma anche l’attrazione del mio mondo è grande [,..]»84.
altrove è dunque quel punto di una topologia assurda su cui si esci
citano attrazioni opposte, è lo spazio intermedio tra l’alto e il basso, il lmi
go problematico dove si consuma un’esistenza irreale, una vita non-vna
bruciata dalla propria apparenza. È questa la condizione del cacciatoli
Gracco, la cui barca funebre, per un «Grundfehler», per un fatale errore ili
rotta, «un giro di timone errato, una momentanea disattenzione del noi
chiero»85, è condannata a solcare le acque terrene senza mai raggiungevi-
le rive dell’aldilà. Anche l’illusione del cacciatore Gracco è stata disimi
ta. «Avevo vissuto con piacere e con piacere ero morto. Prima di salue
a bordo, felice, scagliai via il mio fagotto, fucile, carabina, carniere, che
avevo sempre portato con tanto orgoglio, e mi cacciai nella mia camii in
funebre come una vergine nella sua veste nuziale»86.
In questo altrove è confinato anche il cavaliere del secchio, cui non
è consentito, per l’inconcepibile leggerezza del secchio da lui cavalcali!
nell’inutile, implorante ricerca di un po’ di carbone, prendere terra, anco
rarsi in qualche modo all’uno o all’altro degli estremi che insieme lo ai
traggono e lo respingono: il cielo, da un lato, «uno scudo d’argento levain
contro chi gli chiede aiuto» e, dall’altro, l’orrore del gelo invernale, >■ hi
stufa che manda freddo», la bottega del carbonaio giù nella strada, Pro
prio l’assurda leggerezza del secchio «che si leva su stupendo, stupendo»
- («I cammelli accovacciati al suolo - dirà Kafka con superba similitudine
- scuotendosi sotto il bastone del cammelliere, non si alzano con map
giore maestà»87) - è la cagione di quel disperato librarsi a mezz’aria, ili
quell’oscillare nella fame e nel vuoto della gelida aria invernale. Anche
il cavaliere del secchio, che s’illude sulla forza della propria richiedili,
grazie al modo stesso del suo arrivo - («Il mio arrivo deve decidere della
cosa, perciò vi andrò cavalcando il secchio»)88 -, resterà condannato alla
desolata irrealtà del suo ‘esser fuori’, sospinto dalla sua stessa terrihi

84 Ivi.
85 F. Kafka, Il cacciatore Gracco, in II messaggio dell’imperatore, cit. 37; Der Jäger Gracchiti
in Sämtliche Erzählungen, cit., pag. 330.
86 II cacciatore Gracco, cit., pagg. 37-38.
87 F. Kafka, Il cavaliere del secchio, in II messaggio dell’imperatore, cit., pag. 30; Der Kübeltet
ter, in Sämtliche Erzählungen, cit., pag. 223.
88 II cavaliere del secchio, cit., pag. 29.

174
le inconsistenza, dalla sua incontrollabile leggerezza, «verso le regioni
delle Montagne Gelate», da cui non tornerà mai più. Non diversamente
dal cacciatore Gracco, la cui barca è «senza timone, naviga col vento che
soffia nelle infime regioni della morte»89.
Questo altrove è dunque il ‘tra’, lo zwischendurch90 in cui viene trasci­
nato il cavaliere del secchio come abbagliato da quel grande inverno, da
quella torbida chiarità del gelo che secondo un testo gnostico {Evangelium
ventatisi sta a significare l’assenza dell’infinita pienezza (nÀiipcopa) del­
l’amore91. Questo altrove è attraversato dalla domanda cui non è mai data
risposta: è lo stato del domandare, onnipresente nelle pagine di Kafka. In
particolare nel Kübelreiter, la richiesta («Carbonaio!, [...] per piacere, car­
bonaio, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio è così vuoto che ci posso
andare a cavallo»92) è un enunciato narrativo che si ripete quattro volte e
infine si trasforma in un lamentoso rimbrotto: «Strega! grido, voltandomi
indietro, mentre lei [la moglie del carbonaio] rientrando in negozio agita
una mano nell’aria fra lo sprezzante e il soddisfatto. Strega! Non t’ho chie­
sto che una palata dell’ultima qualità e tu non me l’hai voluta dare»93. La
funzione di questa ‘frequenza’ è quella di rendere ancora più spettralmente
irreale la figura del Kübelreiter, disegnata come una pallida ombra sulla ge­
lida trasparenza del cielo invernale. Queste domande restano senza rispo­
sta o meglio la mancanza di una risposta viene crudelmente ironizzata nel
dialogo tra il carbonaio e la moglie, tanto che questo stesso dialogo sembra
ribadire perentoriamente l’inesistenza di quella implorante richiesta.
«Perché domandare non ha senso? - aveva annotato Kafka -. Lamentar­
si significa: porre domande e aspettare, finché non venga una risposta. Ma
domande che non rispondono a se stesse nel loro nascere, non ricevono
mai risposta. Non esistono distanze tra chi domanda e chi risponde. Non
esistono distanze da superare. Per questo domandare e aspettare sono in­
sensati»94. Il non-senso della domanda sta nel non-senso di una ricerca

89 II cacciatore Gracco, cit., 39.


■X) «[...] hinter mir der erbarmungslose Ofen, vor mir der Himmel ebenso, infolgedessen muss ich
scharf zwischendurch reiten und in der Mitte beim Kohlenhändler Hilfe suchen», Der Kübelrei­
ter, cit., pag. 223. Sul motivo della «doppia catena» che impedisce di salire in cielo e di scendere
sulla terra si veda Considerazioni, cit., pag. 66.
91 Evangelium Veritatis, ediderunt M. Malinine, H.-Ch. Puech, G. Quispel, Zürich 1956, pagg.
34, 28-35.
92 II cavaliere del secchio, cit., pag. 30.
93 Ivi, 32.
94 F. Kafka, Tagebücher 1910-1923, a cura di M. Brod, Frankfurt a.M., 1967, pag. 343.

175
della salvezza che non passi attraverso l’esperienza della colpa o meglio
del castigo che precede la colpa, e si sforzi di ignorare quello «sviameli
to» (l’errato giro di timone del cacciatore Gracco, il porgere ascolto e il
seguire, anche una sola volta, il suono illusorio del campanello nottm
no nel Medico di campagna) in cui sta «il male»95. Valicare la distan/ii
che separa la domanda dalla risposta comporterebbe la possibilità di unii
misurazione della distanza e quindi il progresso unilineare di una evolu
zione per la quale viene razionalizzato l’ambito della colpa e giustificalo
il castigo in quanto espiazione. Domanda e risposta verrebbero così a
fronteggiarsi allo stesso modo del significante e del significato sulla basi­
di una relazione univoca, funzionale al principio di quella disposizione
schematica che è, per Kafka, «raccapricciante»96.
Ma questo procedimento razionalizzante, che corrisponderebbe alla
occidentalizzazione pragmatico-funzionalistica di un profondo ebraismo
interiore, è del tutto estraneo a chi, come Kafka, recalcitra all’ipotesi che
si possano stabilire i gradi di un’evoluzione, quasi esistesse un armoni
co incontro di domanda e risposta e fosse possibile una cognizione del
dolore in grado di giustificarlo. Il procedimento della domanda, invece,
e quindi la struttura stessa del significare, sono magici. Non si tratta di
«creare», ma di chiamare «con la parola giusta, col giusto nome», conio
se si operasse per magia. Poiché «questa è la natura della magia che non
crea, ma chiama»97. In questo senso il mero argomentare è un cavillaii-
almanaccante, un grübeln, è un chiudersi nel labirinto allucinato di unii
domanda cui è da sempre negata la risposta. In questa guisa è la domandi!
stessa a tradire l’essere colpevole, è il predisporre un sistema di domande
in vista della propria difesa - come avviene nel Processo - a rendere pani
dossalmente ‘dimostrata’ la colpevolezza. Esiste tuttavia un argomentine
cui si affianca «una sorta d’incantesimo», sicché ne nasce - dirà Kalkii
- «un quid tertiunv. un incantesimo vivente o una distruzione del monili•
che, invece di distruggere, edifica»98.
Questo «incantesimo» infrange la logica della domanda, il suo alilo
seppellirsi nella colpa, e rompe la prigione di uno statuto univoco e i a
zionale della comunicazione, l’ordine logico-discorsivo del significalo

95 F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, trad. it. di LA. Chiusane», in Confessioni e immagini, « il
pag. 102: «Male è tutto ciò che svia».
96 «Raccapricciante ciò che è meramente schematico», Diari, cit, voi. 2, pag. 22.
97 Ivi, pag. 154.
98 Gli otto quaderni in ottavo, cit., pag. 142.

176
Sotto questo aspetto la vicinanza di Kafka alla tradizione esoterica della
Cabbaia risulta illuminante. Al rapporto che l’assolutamente trascenden­
te, l’Uno, Yen Sof (lett.: senza fine), stabilisce con il mondo creaturale
inerisce una specularità magico-simbolica per la quale «ciò che è sotto è
sopra e ciò che è interno è esterno». «Infatti all’aspetto simbolico [della
Cabbaia] - osserva Scholem - deve qui subentrare quello magico, che non
soltanto fa apparire tutto in tutto, ma altresì fa agire tutto su tutto»99. Non
si tratta di un rovesciamento dialettico, ma di una reciprocità, di una im­
plicazione magica che fa della realtà esteriore una realtà interiore - come
vuole il simbolismo dello Zohar - del segno significante il significato e
viceversa. «Il mistico - notava ancora Scholem - trasmuta il testo sacro e
il momento decisivo di questa metamorfosi consiste nel fatto che la dura,
per così dire univoca, inequivocabile parola della Rivelazione viene in­
finitamente colmata di senso. La parola, che rivendica massima autorità,
viene dischiusa, si apre e va incontro all’esperienza del mistico. Si libera
la strada da un’interiorità infinita, in cui si discoprono sempre nuovi strati
di senso»100.
Non v’è dunque in questo mondo la minima cosa che non abbia il
suo corrispondente sovrasensibile: la qual cosa comporta che non esista
dualità per il simbolismo mistico dello Zohar, alla stessa guisa con cui
l’essenza divina non si depotenzia plotinianamente, bensì si manifesta
nell’albero delle sefirot, tutte egualmente immanenti all’Uno. L’Uno che
sta in alto è lo stesso di quello che sta in basso: «Come la luce dell’ar­
cobaleno non è che un’apparenza di diversi colori, così la luce dei gradi
delle sefirot - che circonda il punto supremo - è unica»101.
È evidente che in questa prospettiva la cognizione del dolore non
può mirare in alcun modo ad un’evoluzione. «Io non voglio evolvermi
in un dato modo - scrive Kafka nei Diari - non voglio passare ad un
altro posto che è, in verità, quel ‘voler andare su un’altra stella’, mi
basterebbe stare vicino a me, mi basterebbe poter considerare come
un posto diverso il posto dove sto»102. Questa cognizione, dunque, ha
un suo spettro significante, ma non un suo significato. La lotta, l’im­
pazienza, il cavillare vuotamente argomentante, la domanda, l’attesa

99 G. Scholem. Zur Kabbala und ihrer Symbolik, Frankfurt a.M. 1973,165 ; ora anche La Kabbalah
e il suo simbolismo, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino, 1980, ad loc.
100/vi, pagg. 21-22.
101 Zohar I, 18", cit. da H. Serouya, La Kabbale, Paris, 1947, pagg. 258-59.
102 Diari, cit., voi. 2, pag. 167.

177
sono le forme del suo darsi, i geroglifici della sua scrittura.
Lo spazio sconfinato dell’inverno è il topos centrale nell’universo di
una scrittura che in questo senso può essere vista come il dispositivo ese­
getico di un commento, il cui oggetto è appunto il nudo soffrire. «Unii
immagine della mia esistenza - scrive Kafka - [...] sarebbe una perticn
inutile, incrostata di brina e neve, infilata obliquamente nel terreno, in
un campo profondamente sconvolto, al margine d’una grande pianura,
in una buia notte invernale»103. È in questo eterno inverno, in questo spn
zio desolato che il medico di campagna viene trascinato con innaturali'
lentezza dai suoi cavalli non terreni: «Nudo, esposto al gelo di questo
secolo sciagurato, su una carrozza reale, con cavalli irreali, vado vagando
per il mondo, io povero vecchio»104. Questo paesaggio è la germinazioni'
spettrale della colpa e della dismisura ed è in questa ‘irrealtà’ che sono
conficcati i personaggi kafkiani col loro oscuro destino, dallo Josef K
del Processo all’agrimensore K. del Castello. È l’irrealtà di quel ‘firn
ri’ dove si è perduti, separati come siamo dal mondo in cui si hanno li­
nostre radici e a cui non è possibile fare ritorno. «Senza antenati, senza
nozze, senza discendenti con una voglia selvaggia di antenati, di nozze e
di discendenti. Tutti mi porgono la mano: antenati, nozze e discendenti,
ma troppo lontano da me»105. C altrove di Kafka è questo spazio in cui si
consuma una «migrazione infinita»106, che «non consiste nell’avvicinai si
a Canaan, ma nell’avvicinarsi al deserto, nell’andare sempre più lontano
in quella direzione»107.
La cognizione del dolore si rivela più propriamente una gnosi allorché,
allo sguardo gettato in quell’intreccio di follia e di dolore che è l’uonio,
lo spazio del deserto si manifesta come quello dell’esilio 108 nella cui ‘ve
rità’ disperazione e speranza sono misteriosamente solidali. «Il soffio ili
Dio sale nel deserto» - si legge in Osea e l’esilio - come avverte Scholem
- nasconde, nella sua mistica ambivalenza, quella stessa della Shekinali.
concepita nella teosofia cabbalistica, a partire dal libro Bahir, come un
aspetto di Dio, più precisamente come il suo aspetto femminile, quasi

103 Ivi, pag. 76.


104 F. Kafka, Un medico condotto, in // messaggio dell’imperatore, cit., pag. 10.
105 Diari, cit., voi. 2, pag. 164.
106 M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino, 1975, pag. 54.
107 Ivi, pag. 55.
108 Cfr. Diari, cit., voi. 2, pag. 170.

178
reso autonomo109. Se per un verso essa appare come la «misericordiosa
madre d’Israele», per l’altro essa manifesta, nel suo volto notturno, il ri­
gore della giustizia divina. «La rappresentazione di un esilio (galut) della
Shekinah è talmudica - avverte Scholem -». «In ogni esilio in cui migrava
Israele, era la Shekinah con loro». «Questo, tuttavia, non stava più a si­
gnificare che la presenza di Dio era ovunque, anche con Israele, nel suo
esilio. Nella Cabbaia quest’idea vuol dire invece: qualcosa di Dio stesso
è esiliato da Dio stesso. Le due serie di motivi, quello dell’esilio del­
l’ecclesia di Israel nel Midrash e quello dell’esilio dell’anima dalla sua
origine, così come si presenta in molti ambiti rappresentativi non soltanto
gnostici, si collegano nel mito cabbalistico dell’esilio della Shekinah»110. 111
È a questo punto che la scrittura kafkiana, in quanto forma di una gnosi,
s’inscrive nella mistica cabbalistica e nella profondità cosmicometafisica
dell’esilio concepito come luogo dell’anima se è vero che la stessa Sheki­
nah è il luogo dell’anima (la stessa creazione è, per la Cabbaia luriana, un
esilio). Si comprende di qui come questa cognizione non possa equivalere
in alcun modo, in Kafka, ad una trasfigurazione o a un riscatto: essa ha
dietro di sé l’immagine di quel tempestoso confronto con Dio che s’incar­
na nella figura biblica di Giobbe1", ma si tratta di un’immagine offuscata
perché il paradosso religioso del Giusto che chiede a Dio una spiegazione
della sua sofferenza è in Kafka il paradosso di chi sa di non essere giusto,
ignorando in che cosa consista la propria colpa e in che cosa debba essere
cercato il volto e il senso della Legge, e tuttavia intuisce che l’unica possi­
bile teodicea ha le sue radici nella fedeltà umana al misterioso linguaggio
della propria ingiustizia che è quello stesso del dolore.
La coscienza dell’infelicità è dunque, a ben vedere, una cognizione
dell’esilio come il luogo destinato dell’anima, non già denuncia - come si
è ripetuto anche troppe volte - della condizione esistenziale umana, della
precarietà tragica del Dasein gettato nel mondo.
In quanto cognizione dell’esilio, essa è cognizione di quel ‘di fuori’
in cui l’anima è da sempre smarrita, dove si è sradicati dall’alto e dal
basso, incapaci di prendere terra, sospesi in una regione crepuscolare,
dove non esiste certezza né di noi stessi né delle cose e dove è solo pos­
sibile un umoristico adattamento alla propria situazione senza scampo.

109 G. Scholem, Zur Kabbala, cit., pag. 141.


I IO Ivi, pag. 144.
111 Si veda M. Susman, Das Hiob-Problem bei Franz Kafka, in AA.W., Franz Kafka, a cura di
H. Politzer, Darmstadt, 1973, pag. 53 segg.

179
La scrittura kafkiana, nel suo piano di parabola non manifesto (Gleichnis).
si struttura come l’articolazione poetica di questa conoscenza. E propini
qui va colto l’elemento gnostico già presente nella tradizione cabbalistii h
Gnosi significa, nel contesto kafkiano, permeabilità dell’impenetrabile, |>ei
cui è possibile quel doppio riconoscimento che Benjamin attribuisce .ni
una «ottica dialettica», vale a dire la penetrazione del mistero, «solo nel Ih
misura in cui lo ritroviamo nella vita quotidiana»112 113
e del quotidiano, solo
in quanto avvertiamo in esso l’impenetrabilità del mistero. E il simbolismo
mistico della Cabbaia a spiegare questa modalità del porsi del quotidiano
come mistero e del mistero come quotidiano. Si rammenti l’affermazione
di Asriel da Gerona riguardante il rapporto tra Essere e Nulla: «Colui dir
genera l’essere dal nulla, non è privo di nulla, poiché l’essere è nel nulhi
nella modalità del nulla e il nulla è l’essere nella modalità dell’essere»"'
Alla stessa guisa potremmo dire che il mistero è nel quotidiano nella moda
lità del quotidiano e il quotidiano è il mistero nella modalità del mistero.
La ‘plasticità’ della cognizione del dolore è a ben vedere una piasii
cità gnostica, nel senso che se ci si pone in questa prospettiva, da cssh
sembrano guardare, come da ogni parola della Torah, seicentomila volli
tanti quanti sono i figli d’Israele che sono stati sul Sinai114, vale a dire gli
strati di significato, per cui è possibile dischiudere nella coscienza sirs-
sa dell’infelicità, che è per Kafka coscienza dell’esilio, la coscienza ili
una possibilità dell’impossibile capace di dischiudere ciò che i cabbaii'«Il
chiamano Tiqqun, restituzione.
«Solo quaggiù - scrive Kafka nelle Betrachtungen - dolore è dolore
Non nel senso che coloro che soffrono in questo mondo debbano venne
esaltati altrove in premio della loro pena, ma nel senso che ciò che in
questa vita si chiama dolore, in un’altra vita, pur restando immutato r
liberato soltanto del suo contrario, diventa beatitudine»115. Il dolore nini
viene abolito, ma semplicemente convertito nel suo opposto per effetto ili
un altro sguardo, così come «il cammino senza meta dell’esilio» divellili
«la meta senza cammino»116. Il nucleo mistico di questa gnosi avrebbe

112 W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei, in


e rivoluzione, trad. it. di A. Marietti, Einaudi, Torino, 1973, pag. 23.
113 Cfr. G. Scholem, Über einige Grundbegriffe des Judentums, Frankfurt a.M. 1970, 77-7K. nt«
in corso di stampa, Su alcuni concetti dell’ebraismo, trad, it, di M. Bertaggia, Marietti, ( a sull
Monferrato, 1986, ad loc.
114 Cfr. G. Scholem, Zur Kabbala, cit., pag. 23.
115 Considerazioni, cit., pag. 71.
116 M. Blanchot, cit., pag. 60.

180
potuto, «se non fosse intervenuto il sionismo», che ha inghiottito nella
costruzione di uno Stato una somma enorme di energie117, dare vita, se­
condo Kafka, ad una «nuova dottrina esoterica, una cabbaia». E infatti
di natura gnostica, neocabbalistica, 1’«inseguimento» di cui parla Kafka
nell’annotazione del 16 gennaio 1922: «l’assalto all’ultimo limite terreno
è precisamente assalto dal basso, dalla parte degli uomini, e poiché anche
questa è soltanto un’immagine, posso sostituire l’immagine dell’assalto
dall’alto, verso di me»"8.
Lo strumento di questa gnosi è la scrittura. In essa l’esilio non viene
dimenticato né tanto meno abolito, bensì mantenuto. Il deserto è la valle
di Canaan. Lo smarrimento nel mondo119 - di cui parla Kafka - fa fiorire
il deserto nel senso che ovunque, in esso, sono disseminate le scintille
della Shekinah che attendono di essere dissepolte: è solo in questo modo
che lo smarrimento infinito dell’errante può essere pronunciato. L’opera
kafkiana insegna che non solo questo smarrimento può essere detto, ma
che esso è, come tale, significante. A causa di questo smarrimento cui si
dà una voce, l’in-significante e le sue perversioni: lo sconfinato avvili­
mento del quotidiano, l’antica sozzura dei suoi meandri, la tortura di un
domandare infinitamente sterile, la torpida malinconia dell’attesa di un
messaggio partito da troppo lontano per poter giungere a destinazione
(Il messaggio dell’imperatore), lo sgomento senza voce di chi vive la
sua estraneità fino a renderla visibile nella forma di un insetto mostruoso
(Ixi metamorfosi), la stessa esitazione prima della nascita120, tutto questo
diventa parabola di un discorso-racconto infinitamente significante. La

117 «Toute l’énergie revendicative des survivants, toute cette plainte contre inconnu, cette con­
testation avec Dieu, cette demande d’explications au Maître suprême, cette tentative mille
fois répétée pour comprendre le mal et la raison de son existence dans la Création, tout ce qui
constitue l’essence même de la mystique juive, a été littéralement englouti dans la tâche ma­
térielle gigantesque de créer un Etat», W. Rabi, Kafka et la néo-kabbale, in «La table ronde»,
1958, pag. 126. Affrettata ci pare la conclusione che dà J. Allerhand al problema del rapporto
tra Kafka e il sionismo nel senso di un’approvazione incondizionata (J. Allerhand, Identità
ebraica in Kafka, in «Studi tedeschi», n. 24 (1981), pag. 404).
118 Diari, cit., voi. 2, pagg. 160-61.
119 «Noi non possiamo distruggere questo mondo perché non l’abbiamo costruito come qualcosa
di a sé stante, ma vi ci siamo perduti dentro, più ancora: questo mondo è il nostro stesso smar­
rimento, ma come tale è, esso medesimo, un’entità indistruttibile, o meglio: qualcosa che può
essere distrutto solo col portarla sino in fondo, non col rinunciarvi, dove occorre osservare
peraltro che anche il portarla sino in fondo non può essere altro che un seguito di distruzioni,
sempre però nell’ambito del mondo stesso», Gli otto quaderni in ottavo, cit., pag. 126.
120 «Non essere ancora nati e già costretti a girare per le strade e a parlare con gli uomini» (Diari,
cit., voi. 2, pag. 179).

181
radice del significare resta sempre la stessa: essa affonda in un dolore sen
za significato. Ma ancora una volta questa cognizione rivela il suo voi lo
gnostico: essa infatti non può dare alcun significato al dolore perché que
sto dolore come vuole la Cabbaia nella lettura moderna di Harold Bloom
«è sempre un significato errante»121. Ma non si tratta qui soltanto de Hit
dimensione ermeneutica del significato, per cui esso erra «da testo a testo
e, all’interno di un testo, da figura a figura»122. La cognizione del dolori;
in quanto gnosi configura il linguaggio di quest’ultimo come una Testiti
una tessitura nella quale si irradiano e s’intersecano i significanti di inni
segnatura fondamentale, come avviene per la Torah, sostanziata da min
tessitura di sensi derivati da un unico grande nome, quello di Dio. Gnosi r
per Kafka la rivelazione di quell’erramento del significato che è anche un
incremento del significato, per cui esso, anziché dissiparsi o dissolvei si
nel moltiplicarsi degli strati di senso, si raccoglie in quella segnatura pi i >
fonda da cui proemanano le potenze magiche dal nome impronunciabile
Per questo la cognizione del dolore può essere compresa come queliti
distruzione che non distrugge, ma edifica, poiché essa inscrive il dolore .11
quell’erramento del significato che è anche l’esilio della Shekinah.
Superare la «soglia pietrificata del dolore» per entrare nel regno tie II 11
gioia che non è mai la tua gioia, ma la gioia, è impossibile, ma è and ir
paradossalmente facile. E questo Kafka lo sa: sa che nell’esilio, come
dice un racconto dei Chassidim, «lo spirito santo scende più facilmente
che nel tempo in cui era in piedi il Santuario». Per questo egli ha creduto
che distruggere la propria opera di scrittore, lui che pure aveva avvertilo
«la strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione tiri
lo scrittore»123, potesse salvarlo: forse è stato un sogno di assoluta poveri#
a indurre in lui questo proposito, quasi ricordasse le parole del racconto
chassidico: «Un re fu scacciato dal suo regno e dovette andare ramingo
Se arrivava allora in una povera casa dove veniva cibato malamente e
malamente alloggiato, ma accolto da re, il suo cuore era lieto, e parlavii
con la gente di casa così familiarmente come una volta alla corte soltanto
coi più intimi. Così fa anche Dio da quando è in esilio»124.

121 H. Bloom, La Kabbalà e la tradizione critica, trad. it. di M. Diacono, Feltrinelli, Milnnu
1981, pag. 83.
122 Ivi.
123 Diari, cit., voi. 2, pag. 169.
124 M. Buber, / racconti dei Chassidim, trad. it. di G. Bemporad, Garzanti, Milano, 1973, pap
146.

182
Metamorfosi del significato125

Non coltivare il deserto. È lui che ti coltiva.


Edmond Jabès

Il pensiero aforistico di Kafka non è una meditazione filosofica ana­


loga a quella di un Kierkegaard o di un Nietzsche: non è neppure una
riflessione implicita in una possibile, anche se dissimulata, confessione
autobiografica. Il tentativo d’individuare uno schema formale nel quale
possano essere in qualche modo collocati questi aforismi è condannato,
in ogni caso, al fallimento. Siamo di fronte a una scrittura che lascia
talora affiorare lo strato problematico dell’opera narrativa e che si avvi­
cina molto spesso al modulo dei Diari, dove balenano frequentemente
ligure di pensiero sostenute da una logica paradossale: solo per appros­
simazione, dunque (ma si tratta, a ben vedere, di un’approssimazione
infinita), è possibile avvicinarsi a una definizione dell’asse gnostico-
neomistico sul quale gravitano questi pensieri. E se ciò è vero, se è vero
che scrivere è, per Kafka, una «forma di preghiera» {Form des Gebets),
possiamo dire che nell’interrogazione aforistica questa forma di pre­
ghiera risulta più comprensibile.
Il tema centrale, ammesso per ipotesi in questa strategia ermeneutica,
è quello della «vera via». La «vera via», lo sviamento, la via infinita, la
via senza mèta, la non-via si riconducono alle modalità della «caccia»
di cui Kafka parla nei suoi Diari. «La caccia passa attraverso di me e
mi lacera», egli scrive; ma dirà anche che si lascia «portare» {tragen)
dalla caccia: ne è attraversato, ma la segue, l’asseconda nel suo mo­
vimento furibondo. Il “cacciato” è anche cacciatore di se stesso, ed è
questa l’ambivalenza atroce che orienta originariamente il piano della
metafora in vista di quella che Kafka chiama una «nuova osservazione
di sé» {neue Selbstbeobachtung).
Ma per quella sorta di generazione interna di un’immagine dall’altra,
che costituisce una tipica procedura compositiva, frequentissima per
esempio nell’epistolario, l’immagine della caccia si converte nell’im­
magine dell’«assalto contro l’ultimo limite terreno» {Ansturm gegen
die letzte irdische Grenze), un assalto che può muovere dal basso {von

125 Apparso postumo in apertura di F. Kafka, Aforismi e frammenti, Rizzoli, Milano, 2004
(N.d.C.).

183
unten), dalla parte degli uomini, ma anche dall’alto (von oben) verni
il basso: «giù verso di me», dirà Kafka sulla linea di quello stesso io
vesciamento per cui il cacciatore diventa il cacciato. Ed ecco, a queslo
punto, la singolare affermazione: «Tutta questa letteratura è assalii» al
confine». È questa la “letteratura” di chi è incalzato da due “tempi
diversi, quello dell’orologio esterno e quello dell’orologio interiore, in
female, in ogni caso disumano, e chi vive di essa e in essa si consimili c
straziato dai due ritmi opposti e implacabili, allo stesso modo con cm li
nisce per essere braccato nella caccia l’individuo stesso che la condurr
Proprio in questa “caccia” sta l’“assalto”: la caccia in cui si è cacciali •
in cui ci teniamo ostinatamente in piedi, trascinati dalla sua corsa spin
tata, è anche un forzare «l’ultimo limite terreno».
Kafka parla esplicitamente, a questo proposito, di una nuova «dui
trina segreta», di una Geheimlehre, di una «Kabbalà» come risullniu
possibile di questa letteratura «se non fosse intervenuto il sionismo»
«Tutte le energie rivendicative dei sopravvissuti - nota Wladimir Kiihl
- tutto questo dolersi per ciò che non si conosce, questa lotta con I Ini,
questa richiesta di spiegazioni al Maestro supremo, questo tentai ivo
mille volte ripetuto di comprendere il male e la ragione del suo esistei»
nel creato, tutto ciò che costituisce l’essenza stessa della mistica ehi ni
ca, è stato letteralmente inghiottito nel gigantesco compito materiale ili
creare uno Stato.»
È nelle anticipazioni, negli spunti, nelle premesse di questa possibili'
neoKabbalà che si deve inscrivere il significato ultimo della riflessi!hip
kafkiana, così come prende corpo nelle Considerazioni sul peccato, il
dolore, la speranza e la vera via (il titolo è di Max Brod) risalenti alili
primavera 1918 e nei pensieri raccolti nel terzo e nel quarto quadenm
degli Oktavhefte, scritti tra il 18 ottobre 1917 e il maggio 1918 a Ziir.in
dove Kafka si trovava ospite della sorella Ottla. La neoKabbalà sarchi,»
dunque la «vera via». Ma esiste propriamente una via? «La vera via
afferma Kafka all’inizio delle Considerazioni - attraversa una corda clic
non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra destinata più a far inciampili»’
che a esser percorsa.» E ancora: «C’è una mèta, ma non una via: ciò clic
chiamiamo via è un indugiare».
Si direbbe che Kafka voglia dissolvere, in una sorta di ironica ambi
guità, la drammatica severità di un itinerario di salvezza che nelle paia
bole e nelle leggende chassidiche viene presentato come una fune lesti
sopra uno stagno o sopra un abisso, un arduo cammino insidiato dalle

184
angosce e dalla terribile solitudine di chi osa percorrerlo126. Ma a ben
vedere non si tratta semplicemente di una scettica diffidenza che ridu­
ce la “nobiltà” spirituale di una «vera via» a un ridicolo equilibrio su
una corda tesa rasoterra: è un modo indiretto, questo, per prospettare
la «vera via» come una non-via, una via senza fine, una via negativa.
La mèta di una via siffatta è infatti sempre e soltanto un «via da qui»
(weg-von-hier)'. non una mèta dunque, ma la negazione di ogni mèta
o, se si vuole, una mèta per assurdo; il che non impedisce di pensare
che in realtà esiste soltanto una mèta e non una via per pervenirvi. La
negazione della mèta riguarda dunque, propriamente, la strada che
dovrebbe condurre a essa.
«Ordinai di portarmi il mio cavallo dalla stalla» - si legge in un fram­
mento. -«Il servo non mi capiva. Andai allora io stesso nella stalla,
sellai il cavallo e montai in groppa. In lontananza sentii il suono di
una tromba, chiesi al servo cosa potesse significare. Lui non sapeva
nulla, e non aveva sentito nulla. Accanto al portone mi trattenne e
chiese: “Dove vai, signore?”. “Non lo so”, dissi io, “solo via di qui,
solo via di qui. Via di qui senza mai fermarmi, soltanto così potrò
raggiungere la mia mèta.” “Dunque conosci la tua mèta?”, chiese lui.
“Sì”, replicai, “l’ho pur detto: ‘via di qui’... ecco la mia mèta.” “Non
hai provviste con te”, disse. “Non servono”, risposi, “il viaggio è tal­
mente lungo che dovrò morire di fame se non troverò niente durante
il tragitto. Non mi potrà salvare nessuna provvista. Per fortuna è un
viaggio veramente immenso.”»
II «via di qui» rimanda alla necessità non tanto di fuggire o di ri­
nunciare al mondo, quanto piuttosto di riconoscere che non esiste altro
mondo se non quello spirituale: «Ciò che chiamiamo mondo dei sensi è
il male in quello spirituale, e ciò che chiamiamo cattivo è solo la neces­
sità di un attimo nel nostro sviluppo eterno».
Affinché questo “riconoscimento” sia possibile, occorre mutare il
punto di vista. Questo mutamento viene espresso da Kafka nella forma
di una conversione radicale, di un paradossale rovesciamento: «Solo
qui il dolore è dolore. Non nel senso che coloro che soffrono qui debba­
no essere innalzati altrove per questa sofferenza, il senso è invece che
ciò che in questo mondo si chiama soffrire, immutato e solo liberato del
suo contrario in un altro mondo è beatitudine».
Non bisogna dimenticare che un tratto fondamentale dell’ebraica

126 Cfr. M. Buber, Die Legende des Baal-Schem, Frankfurt 1908; ed. it. La leggenda del Baal-
Schem. Firenze, 1925.

185
adesione al mondano permane in Kafka proprio perché non si ha, in
lui, una svalutazione dell’immanenza, bensì solo una sua assunzione
nella prospettiva del “miracolo” o in quella di un «residuo di fede» nel
compimento dell’impossibile. Così può accadere che nel passaggio dn
una vita all’altra, da una cella all’altra, «il Signore si trovi per caso u
passare per il corridoio, osservi il prigioniero e dica: “Questo non In
dovete rimettere in prigione. Lui viene da me”».
Sottolineando la presenza nell’ebraismo di questa “mondanità” pei
amore del «miracolo», Brod collegava questa possibilità dell’impossi
bile all’infinita importanza del mondo visibile, alla pienezza di sensu
che questo mondo terreno ha per la spiritualità ebraica. Kafka non si
allontana da questa valutazione: solo che in lui il discorso sull’impossi
bile diventa più complesso e sottile. La profondità del visibile è appunto
costituita dalla realtà non visibile, da quella realtà da cui riceve luce In
stessa contraddizione, sicché questa non viene dialetticamente “tolta",
ma “redenta”, ricondotta, cioè, alla stessa dimensione imperscrutabile
del “profondo”.
«Vuoi tu scandagliare la profondità di Dio?» Questo versetto (Ginb
be 11,7) veniva riferito da Azrièl, un cabalista di Gerona, alla «profon
dità originaria e primordiale di Dio, che può significare tanto ciò che tì
insondabile in Lui quanto esattamente l’insondabile e il non percepibile
a ogni pensiero nella Volontà» (Scholem). Anche la teologia apofatieu
è presente in questa concezione della divinità come r0 ßböoe;. L’inlìni
tudine di Dio è ßa0q rob 0eou, profunda dei (1 Cor., 4, 1), e nella
mistica eckhartiana questa profondità viene designata come «abisso"
(Abgrunt)-. e in Mechtild von Magdeburg si legge: «Ora vi è un occultii
abisso nell’anima che con una voce selvaggia, abissale, inconcepibile
chiama incessantemente il tuo divino abisso».
In Azrièl, secondo quanto osserva Scholem, si ha una trasformazm
ne terminologica estremamente interessante della divina insondabililn
come «perfezione della profondità» (chèquer) nel «senza profondità"
(en-chèquer), così che già per la sua forma linguistica, in ebraico, l’iii
sondabile si trova in parallelo con Yen Sof. Nell’en Sof, si ha cosi In
metafìsica trasparenza di una profondità senza profondità, l’identità e In
coincidenza degli opposti.
Allo stesso modo si potrebbe dire che per Kafka è l’abissalità del In
contraddizione a far sì che questa cessi di essere tale: alla base del In
“nuova Kabbalà” sta l’enigma di una contraddizione che non è trascesa,
ma sciolta alla sua radice, quasi fosse lo stesso nulla del Superessente n

186
la stessa «profondità del nulla», per usare le parole di un protocabbali-
sta francese, David, figlio di Abraham ha-Laban, a nientificarla. Si po­
trebbe cogliere proprio in questo lavoro sulla contraddizione la genesi
segreta della scrittura kafkiana concepita come “descrizione” di ciò che
non può essere descritto: di qui la sua risoluzione in favole dialettiche o
in “parabole” e la sua traslazione negli elementi deformanti del mito.
II paradosso rivela dunque, in Kafka, una complicità con la mistica:
esso è la segnatura di quell’infinità abbondanza di senso che si nasconde
nella parola divina che, come osservava Scholem in proposito, si diffe­
renzia dalla parola umana, poiché «è onniavvolgente, onniabbracciante
e non può, al pari di quest’ultima, essere unicamente riferita a uno spe­
cifico significato». Essa è «infinitamente interpretabile», è «l’interpre­
tabile per eccellenza». Esiste, dunque, una prospettiva della rivelazione
toto coelo diversa da quella che fa di essa una «comunicazione specifica
e positiva» ed è a questo punto che la rivelazione appare come ciò che
nella parola costituisce una pienezza sconfinata di senso. Anche se pri­
va di significato, la rivelazione si manifesta come l’interpretazione in
assoluto. Questa insondabile multiformità della parola divina è espressa
dai cabbalisti con l’immagine dei «settanta volti della Toràh».
È stato notato da W. Hoffmann che in Kafka si ritrova la tensione carat­
teristica del pensiero e del sentire propri della mistica ebraica, anche sotto
il profilo dello stile: l’uso dei superlativi, così come la predilezione per gli
ossimori e l’intensificazione espressiva affidata ai tropi metaforici e alle
formulazioni paradossali, sono presenti nello Zohar e nel suo linguaggio
per figure. Ha qui conferma l’ipotesi che, al di là del riferimento alle fonti
ebraiche note a Kafka (H. Grätz, M. Friedländer, W. Köhler, nonché le
raccolte di miti e leggende curate da Alexander Eliasberg, Micha Josef
bin Gorion e così via), esiste in questo scrittore - secondo Hoffmann - una
sorta di parallelismo del «pensiero mistico-intuitivo» rispetto a quello dei
cabbalisti e quindi «una nuova creazione nello spirito dei predecessori»,
piuttosto che un mero rapporto di dipendenza.
A questo punto si può legittimamente avanzare l’ipotesi che il pa­
radosso, per Kafka, non è semplicemente la trasgressione di un ordine
logico-razionale fondato sul principio di contraddizione, bensì una for­
ma secolarizzata della rivelazione, o meglio, di quell’«infinitamente
interpretabile», di quel significare infinito che, secondo la tradizione
cabbalista, sta appunto al di là del significato e appare, quindi, come
l’assenza di significato del non-significabile. L’infinita e debordante
pienezza di senso della parola divina viene pertanto a declinarsi nella

187
strategia ermeneutica del paradosso, che è appunto una sorta di magi«
esoterica resa attiva nel linguaggio allorché esso si avvicina a quell»
«oscura chiarezza» che è propria del Aôyoç yar’ éÇo/qv, come volcvit
Hamann. Ma già Eckhart aveva detto in chiusa a una sua predica: «( 'hr
Dio ci aiuti a contraddirci nella parola eterna, amen».
Kafka trasferisce questa caratteristica modalità mistica di una mr
diazione contraddittoria, che non comunica, nell’ordine para-ioga o
del suo discorso aforistico, nella pratica di scrittura neocabbalista clic
si cela nelle formulazioni aporetiche dei suoi pensieri e nel caratine
sibillino delle sue parabole. II nodo di quella «simbolicità assoluln-
di cui parla Baioni in Kafka-. Letteratura ed ebraismo e che si espi i
me come «distanza dal simbolo» va colto dunque in questa cogniiiu
aenigmatica offerta dal paradosso, che si dirige precisamente su quel
punto di ogni conoscenza dove sembra dissolversi il suo ultimo Imi
damento.
Da questo punto di vista, il paradosso appare come la chiave di voli»
del processo di comprensione delle cose ultime: «l’assalto aH’ultiinu
limite terreno» non può essere inteso se non alla luce di questa insondn
bile chiaroveggenza, di questo stato di spissitudo spiritualis in cui sta Ir
kavvanà mistica dei cabbalisti. Non si potrebbe, del resto, cogliere si ih»
in fondo il senso dell’affermazione kafkiana: «non esiste un avere, mn
unicamente un essere», se non si traducesse in termini mistici quesln
metacritica kafkiana della conoscenza, per cui si ha l’oltrepassamento
della conoscenza stessa e quindi della distinzione di bene e male, di
tutto ciò che si riconduce alla sfera dell’“avere”. II motivo dell’autoau
nientamento è presente nella tradizione neoplatonica e nella mista n
eckhartiana (annihilation «Un agire - scrive Pasley nel suo studio sii
Kafka Ascetism and Cannibalism - resta comunque peculiare a ognuno,
un particolare agire in verità!... Addirittura ogni essenzialità in noi »I
fonda unicamente e soltanto su un farsi nulla».
L’autoconoscenza, dunque, significa autoannientamento, ed è preci
samente in questo modo che, secondo Kafka, si diventa quel che si è
«Conosci te stesso non significa: ossèrvati. Ossèrvati è la parola del
serpente. Significa: fatti padrone delle tue azioni. Ma questo lo sei
già, sei pur padrone delle tue azioni. II detto significa allora: disco
nosciti! Distruggiti! Dunque qualcosa di cattivo; solo piegandosi in
giù molto profondamente si ode anche il bene che dice: “per far di te
quello che sei”».

188
Nel tema della conoscenza si nasconde il nodo di una distruzione che
è, proprio in quanto tale, compimento. Il «nichilismo mistico», di cui
parlava Scholem in La Kabbalà e il suo simbolismo a proposito del Li­
bro delle parole del Signore, non sta semplicemente nel fatto che, nella
prospettiva di questo “nichilismo”, la vita appare come un «inaudito
annientamento di ogni figura che da essa affiora», ma soprattutto nel­
l’impossibilità - secondo quanto dice Kafka - di distruggere il mondo
divenuto il nostro stesso smarrimento, se non dando a esso un compi­
mento. C’è una distruzione che non consiste nella rinuncia, ma nel suo
opposto: nel «condurre alla fine» (Zuendeführen), e questo avviene at­
traverso «una serie di distruzioni». Dunque la distruzione è vista come
la prosecuzione di un’opera fino a quel suo “perfezionamento” che è
la fine: ma se così è, la via negativa della conoscenza comporta che, in
conseguenza del peccato originale, non possa esservi altro modo di rag­
giungere la «vita eterna» se non adempiendo, nella forma stessa della
conoscenza come paradosso, la biblica sentenza di morte:
«Se..., allora morirai, significa: la conoscenza è entrambe le cose, gra­
dino per la vita eterna e ostacolo alla vita eterna. Se, dopo aver con­
quistato la conoscenza, vorrai arrivare alla vita eterna - e non potrai far
altro che volerlo, perché la conoscenza è questa volontà - allora dovrai
distruggere te stesso, l’ostacolo, per costruire il gradino, cioè la distru­
zione. La cacciata dal Paradiso non fu dunque un atto, ma un evento».
È lo stesso gradino della conoscenza che deve essere distrutto, poiché
proprio questo è l’ostacolo alla conoscenza stessa: distruggere se stessi
come gradino equivale a costruire la distruzione stessa, a fare di essa la
«vera via». II paradosso del nichilismo mistico kafkiano sta nel fatto che la
conoscenza costituisce la via gnostico-negativa che conduce al compimen­
to dell’essere. L’essere sta allo stato di quiete, al compimento, all’inattività
come l’avere (il possedere) sta all’impazienza, all’esitazione e alla lotta.
«Due possibilità - scrive Kafka nelle Considerazioni - farsi infinitamente
piccolo o esserlo. La seconda è compimento [Vollendung], quindi inattivi­
tà; la prima inizio, quindi azione.» E ancora: «La sua risposta all’afferma­
zione che forse egli possedeva, ma non era, fu solo tremito e batticuore».
II negativo è la possibilità: la distruzione, come possibilità, è inter­
rompere la deviazione, quella «continua deviazione» di cui è fatta la
«vita» stessa, «che non lascia neppure affiorare la coscienza di ciò da
cui devia». Abbandonare, dunque, la «verità di chi agisce», rappresen­
tata dall’albero della conoscenza, quella verità per cui il bene è altro

189
dal male, per la «verità» di chi se ne sta quieto, si sottrae alla seduzioni­
delia lotta, quella verità che ignora la distinzione di bene e male. I .1
deviazione o lo sviamento sono connessi alla dualità. Un passo dello
Zohar mostra chiaramente questa connessione della dualità all’albem
della conoscenza: «Così dovette [Mosè] dare a loro [gli uomini] all«
tavole che non derivavano dall’“albero della vita”, bensì dalla regione
dell’“albero della conoscenza del bene e del male” - dalla montaguu
da cui giunse quella Toràh - con la dualità di “divieto e concessione'
la vita dal lato destro, la morte da quello sinistro. E questo era il si
gnificato delle parole dette dal Rabbi Akiba ai suoi discepoli: “Se voi
venite alle pietre di puro marmo, non dovete dire: Acqua, acqua, poi
non dovete mettere queste pietre sulla stessa bilancia delle altre che viln
e morte significano, e ad esse corrisponde anche il ‘cuore saggio’ alla
sua destra, quello ‘folle’ alla sua sinistra. E così esponete voi stessi ni
pericolo, poiché quel che discende dall’albero della conoscenza poi In
in sé la dualità (e quindi voi stessi potreste incorrere nell’errore); lis
‘pietre di bianco marmo’, al contrario, sono pura unità, priva di ogni
separazione”».
La conoscenza come distruzione implica che questa dualità venga an
nientata. Secondo la Kabbalà, «l’uomo deve (...) inserire il “lato sinistro'
del male nel “lato destro” della benignità: in una parola deve congiungcu-
spiritualmente tutto ciò che è in basso con ciò che è in alto. Soltanto allo
ra egli potrà realmente - e con l’aiuto di Dio - vincere definitivamente In
pura illusione del molteplice fino all’ultima “vanità delle vanità”, fino allu
radice dell’Io che si nutre di mondo e si colloca come “secondo” accan
to all’“Uno senza secondo”: soltanto allora l’uomo raggiungerà il llitiul
ha-Jesh, lo spirituale “annullamento” dell’esistenza nel “Nulla” divino
(Ain), che in effetti è la realtà esclusiva di Dio»127.
É forse possibile comprendere ora perché Kafka parli del «desidem»
di morire» come di un «primo segno di conoscenza iniziale» e affermi
che «l’evoluzione dell’umanità» sta in una «crescita della capacita ili
morire». Affinché sia possibile questo congiungimento del “basso" e
dell’“alto”, del male e del bene, occorre appunto afferrare quella vei ito
per la quale il male non è altro dal bene, quella verità che «non sa ili
bene e di male». Ma il raggiungimento esistenziale di questa verità pn;
suppone l’azione mistica della conoscenza come distruzione di tutto ciò
che si possiede, a cominciare da noi stessi: questa distruzione coincide

127 Cfr. L. Schaya, L’Homme et l’Absolu selon la Kabbale, Paris, 1958.

190
con la certezza che esiste solo il mondo dello spirito («l’indistruttibile»,
come lo chiama Kafka). È in esso che, come nell’en-So/e nella Volon­
tà, per Azrièl, si ha l’indifferenza dei contrari. «I contrari sono uguali,
cioè inseparati in seno ai princìpi supremi, coincidono con essi.»
Nel suo saggio Concetti fondamentali dell’ebraismo, Scholem rimanda
a un passo del De Arte Cabalistica di Johannes Reuchlin, nel quale si chia­
risce il concetto cabbalista dell’ć7?-So/proprio sotto il profilo dell’oltrepas-
samento dei contrari, così come avviene in Azrièl. Di tale «infinità» che
«si ritrae e si nasconde nella remotissima retrocessione della sua divinità e
nell’inaccessibile abisso della sorgente della luce» si dice, infatti, che essa
è «indifferentemente esistente e non esistente» che essa «implica in sé, in
torma semplicissima, come unità separata e libera, tutti quegli aspetti che
alla nostra ragione appaiono reciprocamente contrari e contraddittori»128.
Il nesso tra “profondità” dell’abisso simbolico (nel cui raggiungi­
mento si dilegua l’apparenza delle antitesi) e il carattere catastrofico
della redenzione ripropone la tesi dell’apocalittica rabbinica nella quale
orrore e consolazione - come afferma ancora Scholem - sono intreccia­
ti. È proprio l’abbandono dell’idea di progresso, e quindi di un concetto
di redenzione come esito finale di un processo storico, a problematizza­
re radicalmente il senso stesso della redenzione, fino al punto da farla
coincidere con la distruzione apocalittica, vale a dire con l’irruzione
della trascendenza nella storia. Kafka sottolinea che «il momento de­
cisivo dell’evoluzione umana è sempre in atto», dando così ragione a
quei movimenti spirituali rivoluzionari che dichiarano insignificante
tutto ciò che è avvenuto prima: ma se l’evoluzione umana sta nell’au­
mento della nostra «capacità di morire», questo significa che la salvez­
za è connessa alla distruzione e non può essere concepibile in termini
storico-progressivi e storico-razionali. Del resto questa stessa salvezza
non dovrà essere neppure oggetto del desiderio: essa «verrà al momen­
to suo», come dirà Kafka parlando dell’esploratore polare «tristemente
bloccato dai ghiacci». Del resto nel terzo Quaderno in ottavo egli aveva
scritto: «Il Messia verrà solo quando non sarà più necessario, verrà solo
dopo la sua venuta, non verrà l’ultimo giorno, ma l’ultimissimo».
E a questo punto che si chiarisce il senso di quella misteriosa metamor­
fosi del significato nella quale forse si nasconde la possibilità dell’impos­
sibile: è quando il male «riserva delle sorprese», quando «si volta all’im­
provviso e dice: “Mi hai frainteso”». «Dopo il peccato originale - aveva

128 Cfr, G. Scholem, Concetti fondamentali dell'ebraismo, trad, it,, Marietti, Genova, 1986.

191
scritto Kafka - siamo sostanzialmente eguali nella capacità di riconoscere il
bene e il male; cosa che non ci impedisce di cercare proprio in ciò i nosti i
particolari meriti. Invece è solo al di là di quella conoscenza che comincia
no le vere differenze.» La conoscenza umana per la quale il male è malr
e il dolore è dolore, costituisce essa stessa quel limite oltre il quale non r
possibile andare se non attraverso una autodistruzione che è metamorfosi
Metamorfosi del significato, vale a dire, nel linguaggio di Kafka, diveniir
noi stessi «metafore», così da raggiungere quella realtà ultima che è se|x >1
ta nell’identità magica di significato e significante: sarà possibile quindi
comprendere la saggezza dei saggi solo se si è questa saggezza {Delle sinn
litudini). La salvezza consiste in un modo di essere nel quale si realizza In
conversione degli opposti: il male si riscatta perché non lo si «fraintende -
più: è così che esso si scioglie dalla sua rigida univocità, e quindi dalla su„
condanna, e diventa «il cielo stellato del bene». Secondo la Kabbalà lurin
na, il male non è che il bene in frammenti', del resto, come avverte Scholem,
non soltanto nello Zohar, ma in tutta la tarda Kabbalà e nella letteratuiii
chassidica il male è solo una scintilla della luce divina129. Questo tema n
collega all’altro della ricerca che non trova, poiché solo «chi non cerca ć
trovato», anch’esso presente nei Chassidim polacchi (ad esempio in Rabbi
Jzchak von Psysha) come in Meister Eckhart («Lo devi cercare così da non
trovarlo in nessun luogo. Se non lo cerchi, lo trovi»).
Venire a capo del «fraintendimento» e della «non ricerca» è vivere unii
trasformazione che si compie nella nostra stessa carne: «Il male si trasfoi
ma nelle tue labbra, si fa rosicchiare dai tuoi denti, e con quelle labbia
nuove - mai quelle di prima si erano adattate altrettanto docilmente alla
dentatura - con tua stessa meraviglia pronunci la buona parola».

129 Cfr. G. Scholem, Von der mystischen Gestalt der Gottheit, Frankfurt a. M., 1997.

192
IV

Le Lettere

Il vessillo di Robinson1

Noi siamo pensieri nichilistici che vengono nella mente di Dio


F. Kafka a Brod

La vita e le lettere

Questa ampia messe di lettere ha inizio nel 1902, anno in cui il giova­
ne Kafka s’iscrive ai corsi di germanistica e incontra per la prima volta
l’amico inseparabile Max Brod ad una conferenza da lui tenuta su Scho­
penhauer e Nietzsche nella «Lese- und Redehalle Deutscher Studen­
ten» in Ferdinandstrasse a Praga. Dal 1893 al 1901 aveva frequentato
l’«Altstädter Deutsches Gymnasium» a Palazzo Kinsky, dove aveva avu­
to come compagni di studio Hugo Bergmann, Paul Kisch, Oskar Pollak,
Emil Utitz e, in altra classe, Felix Weltsch, alcuni dei quali diventeranno
destinatari costanti del suo epistolario. A quel tempo Kafka era socialista
e contrariamente al suo amico Bergmann non nutriva soverchie simpatie
per il sionismo: negli anni intorno al 1899, quando si ebbe, a Praga, il
primo raduno sionista fatto fallire dai socialisti ebrei, il sionismo, a causa
della sua tendenza nazionalista, costituiva o sembrava costituire una mi­
naccia per gli ebrei assimilati.
Il primo gruppo di lettere, indirizzate prevalentemente a Brod, Pollak,
Baum, potremmo convenzionalmente delimitarlo al 1906 come termine
ad quem, quando il giovane studente di giurisprudenza conclude i suoi
studi e intraprende la pratica legale nella sezione civile e quindi in quella
penale del Tribunale di Praga. È quello il tempo in cui Kafka legge Fe-
chner e Meister Eckhart (novembre 1903), si appassiona per Flaubert,
considerato un vero e proprio «padre spirituale» (ne apprezzerà partico­
larmente le lettere), divora d’un fiato i Diari di Hebbel (gennaio 1904)
dopo essersi sprofondato nel carteggio di Goethe e di Grabbe (fine del
1903); ma anche Amiel, Byron e Grillparzer sono annoverati tra i suoi

I Introduzione a F. Kafka, Lettere, a cura di F. Masini, i Meridiani, Mondadori, Milano, 1988,


pagg. IX-XLI1 (N.d.C.).

193
autori prediletti. Nel febbraio del 1911, questo insaziabile lettore d’epi
stolari conoscerà quello giovanile di Kleist, nel luglio dell’anno seguenlc
quello di J.M.R. Lenz e infine, nel settembre del ’17, le lettere di Van
Gogh. Stando ad una testimonianza di Selma Robitscheck-Kohn, Kalla
avrebbe conosciuto, in questo periodo giovanile, anche qualcosa degli
scritti di Nietzsche, se è vero che proprio a Selma aveva letto lo Zaradm
stra a Roztok dove era andato a trascorrere le vacanze estive (1900) con
la famiglia.
Un’altra lettura, alla quale Kafka continuò a dedicarsi con particolaie
intensità e interesse, è quella delle riviste: dalla «Neue Rundschau» r
dal «Kunstwart» di Avenarius alle riviste «Die Aktion», «Der Brenner -.
«Saturn», «Pan» che poteva trovare al caffè Arco, alla rivista ebraici!
«Selbstwehr» (il primo numero è del marzo 1907), organo di una associa
zione studentesca sionista di Praga e importante strumento di diffusioni-
dei sionismo in Cecoslovacchia (M. Brod). Ma già in quel tempo, forse
a causa degli impegni di studio, la salute si era rivelata cagionevole: nel
1905 è costretto a recarsi in un sanatorio a Zuckmantel (Schlesien) dov e
s’innamora per la prima volta (ma il nome della donna, che non è unii
coetanea, resterà segreto). Alla fine di quell’anno risale la consuetudine
degli incontri con gli amici, da Ewald Felix Pribram a quella «cerchia 11
stretta», così l’aveva chiamata Brod, costituita, oltreché da quest’ultiiuo,
da Weltsch e Baum.
Il secondo gruppo di lettere, che potremmo estendere fino al 19IL
comprende gli anni dei primi scritti, anche se già nell’autunno del 19(1-1
Kafka aveva intrapreso la stesura, tra le altre cose, di Descrizione di min
battaglia. La prima redazione dei Preparativi di nozze in campagna risii
le infatti alla primavera del 1907. Ma è questo anche il tempo delle prilli*
esperienze professionali del giovane giurista. Grazie alle relazioni del In
zio Alfred Löwy, residente a Madrid, otterrà nell’ottobre del 1907 un
posto presso l’agenzia generale delle Assicurazioni Generali di Praga, imi
il carico di lavoro sarà così assillante da ridurre ogni energia per il tempi i
libero. Così, infatti, lamenta in una lettera di quel periodo a Hedwig W
«Ora la mia vita è un pieno disordine. Ho, è vero, un posto con un mimi
scolo stipendio di 80 corone e 8-9 interminabili ore di lavoro, ma le i in­
fuori dall’ufficio le divoro come una bestia feroce.
«Siccome finora non ero avvezzo a limitare la mia vita diurna a sei
ore e oltre a ciò imparo l’italiano e voglio passare all’aperto le sere ili
queste così belle giornate, esco ben poco ristorato dalla stretta delle oic
libere».

194
All’inizio di marzo (1908) risale la prima pubblicazione sulla rivista
«Hyperion» di otto racconti con il titolo Betrachtung (Meditazione).
Nel luglio del 1908, dopo aver frequentato un corso presso l’Accademia
di Commercio sulle assicurazioni per i lavoratori e aver sostenuto gli esami
(inali, viene assunto, grazie ai buoni uffici di Pribram, dall’«Arbeiter-Un­
fall-Versicherungs-Anstalt für das Königsreich Böhmen». Intanto Kafka,
che dal 1909 aveva cominciato a scrivere i suoi Diari e che a partire dal­
l’anno seguente aveva adottato la consuetudine di leggere i propri testi nei
suoi incontri con Baum, Brod e Weltsch, conosce e intrattiene rapporti con
i letterati del Prager Kreis, con scrittori come Franz Blei, presentatogli da
Brod, Robert Musil, Albert Ehrenstein, Carl Stemheim, che gli cederà nel
' 15 l’ammontare del «premio Fontane», nonché Paul Wiegler, redattore,
tra l’altro, del quotidiano «Bohemia» nel quale Kafka pubblicherà Gli ae­
roplani a Brescia (settembre 1909). Anche la partecipazione alla vita cul­
turale praghese è abbastanza intensa: ascolta conferenze di Claudel, Kraus,
Steiner, Loos, Buber, che nel 1909-1910 aveva tenuto nel Bar-Kochba-
Verein, dove veniva esponendo le sue tesi liberalsioniste, tre conferenze
sull’ebraismo (Drei Reden über das Judentum).
Dal 1909 al 1911 Kafka intraprende frequenti viaggi: con Max e Otto
Brod, nel settembre del 1009, in Tiralo e in Italia; nell’ottobre di quello
stesso anno, con Brod, a Parigi; nel dicembre del 1910 a Berlino e ancora
con Brod, nella tarda estate del 1911, in Svizzera, a Milano e a Parigi.
Nel maggio del 1910 è spettatore assiduo e affascinato alle rappresen­
tazioni della «Lemberger Gesellschaft», un gruppo di attori che sotto la
guida di Fr. Spiewakow recitavano in yiddish allo Hermanns Café-Re­
staurant Savoy. Risale a quel tempo la lettura della Storia dell’ebraismo
di Heinrich Graetz e l’amicizia con Jizchak Löwy, direttore artistico di
una troupe di attori ebrei-orientali avvicinati per la prima volta da Kafka
in occasione della rappresentazione di un testo yiddish di J. Lateiner.
Nel repertorio di Löwy cantante-attore-regista figuravano canti cassidici
e autori come Rosenfeld, Frischmann, Reisen, Druganow, Bialik, Frag,
Scholem Alejchem. Quanto a Löwy, conosciuto personalmente da Kafka
il 13 ottobre 1911 attraverso la mediazione di Brod e con il quale intrat­
terrà una lunga corrispondenza andata quasi interamente perduta (ne sono
rimaste solo due lettere), egli costituì, per lo scrittore, una preziosa fonte
di conoscenza della cultura ebraico-orientale sia passata che presente e
del suo mondo mistico-fantastico. Ma gli incontri con questa cultura sa­
ranno tutt’altro che sporadici e casuali: il 16 gennaio 1913 assiste ad una
conferenza di Buber sul mito giudaico, il 18 gennaio di quell’anno parte-

195
cipa ad una conversazione sul sionismo con Buber, Werfel, Brod, Baum
e Pick; nel settembre interviene all’XI Congresso Sionista. La frequenta
zione dell’«ambiente» ebraico costituisce una costante degli interessi di
Kafka: oltre al «sistematico apprendimento dell’ebraico e dell'yiddish" «•
alla collaborazione offerta a Brod nella scuola per i profughi ebrei orientali
(durante la guerra), quest’ultimo ricorda gli studi ebraici a cui l’amico si
dedica, a Praga, insieme a Langer e a Thieberger, proseguendoli a Berlino
presso la Scuola Superiore di Scienza del Giudaismo, per non parlare del
rapporto d’amicizia con Löwy. Brod rimanda altresì alle lettere a Min/e
che su esortazione di Kafka frequentava la Scuola Ebraica di Agronomia di
Ahlem in vista dei suoi progetti di lavoro in Palestina. Indubbiamente Brod
attribuisce a Kafka un’adesione al sionismo che era in realtà solo nei voti e
nelle speranze dell’amico. Ma va precisato che la posizione particolare ap
parentemente eccentrica di Kafka all’interno del «microcosmo ebraico te
desco» (G. Baioni) e segnatamente nel cuore di una crisi dell’«età ebraico
occidentale», che a Praga assume tratti paradigmatici, deve essere chiarita
nel senso acutamente individuato da Baioni. L’interesse profondo di Kalkn
per il problema ebraico (tutti i suoi amici erano ebrei) e il confronto con
la cultura sionista comportano, secondo Baioni, una condizione interini <•
di distacco nella quale si manifesta non solo «il ruolo di rappresentan/u
della negatività della propria epoca» assunto da Kafka stesso, ma altir.si
l’ambizione a trascendere in una «opera letteraria» di proporzioni assoli ite
«i termini storici e ideologici della west-jüdische Zeit».
L’impossibilità di abbandonarsi costruttivamente alla propria voeu
zione di scrittore a causa delle gravose ore d’ufficio costituisce, confò
noto, per Kafka, un motivo di tormentosa inquietudine: lo confessent
apertamente in un abbozzo di lettera ad un «benevolo funzionario dalle
Assicurazioni» (cfr. Diari, 19 febbraio 1911): «L’ufficio ha verso di ine
le più precise e giustificate esigenze. Salvo che per me ne deriva nini
terribile vita doppia dalla quale non c’è probabilmente altra via d’uscita
che la pazzia». E tuttavia la consapevolezza di una ispirazione «assoluti! -
nella quale trova fondamento la quasi incomprensibile - anche se soltanto
per un istante - certezza nella felicità della scrittura, è qualcosa di pili
di un’esaltazione visionaria. Nello stesso giorno in cui scrive l’abbo»
zo della lettera sovracitata, annota nei Diari'. «Il modo particolare dell»
mia ispirazione durante la quale io felicissimo e infelicissimo vado ora u
dormire alle due di notte [...] è questo: che posso fare tutto, non solo con
riferimento a un determinato lavoro. Se butto giù una frase qualunque,
per esempio “egli guarda dalla finestra”, essa è già perfetta».

196
Le lettere di questo periodo indirizzate prevalentemente, oltreché a
Brod, a Weltsch e Baum, risentono talora di questa intima indistrutti­
bile sicurezza accompagnata da una tranquilla autoironia, quasi quello
di Kafka fosse uno sguardo sovranamente distaccato, ma senza alcuna
iattanza, sopra se stesso e la necessità interna della propria opera. E il
tempo in cui scrive, in una sola notte, La condanna, quindi la prima
stesura del Disperso (America) (1912); raccoglie, nell’agosto di quello
stesso anno, le diciotto prose del libro (Meditazione) che verrà inviato
da Brod a Rowohit, e infine, nel novembre, lavora alla Metamorfosi.
Le più significative, tra le lettere di questi anni, sono quelle indirizza­
te a Brod, che presentano spesso toni scherzosi, quasi pervase, a tratti,
da un’aria euforica di scapigliatura giovanile («avremmo fortuna con le
cameriere delle fiaschetterie»), Kafka ammirava l’efficienza creativa del­
l’amico, confrontandola con le sue disperate condizioni. «Ma la differen­
za tra di noi esiste»: così dirà in una lettera del giugno 1920. «Vedi, Max,
è una cosa ben diversa, tu hai una fortezza immensa, un anello è conqui­
stato dalla sventura, ma tu sei al centro o dove hai voglia di essere, e la­
vori indisturbato senza calma, ma lavori. Io, invece, ardo, a un tratto non
ho più nulla, alcune travi, se non le sorreggessi con la testa, crollerebbero
e ora tutta questa povertà sta ardendo.» Il carteggio con gli amici è fitto
di bizzarrie e di un sottile humour e lascia intravedere il gusto scanzonato
dell’autoritratto schizzato in punta di penna. Generosa la partecipazione
umana ed insistente la nota altruistica: basti pensare all’entusiasmo con
cui Kafka segue le fortune letterarie dei suoi intimi come Brod e Baum.
In una pagina accorata e vibrante del suo II circolo di Praga Brod
racconta di aver sognato Kafka alcuni anni dopo la sua morte: da questo
sogno traluce ancora una volta quella profonda «bontà» dell’infelice
amico, nella quale va colta, secondo Brod, la caratteristica più profonda
del suo essere: «l’incomparabile» («das Unvergleichliche»), come lui la
chiama. L’apparizione di Franz commuove Brod fino alle lacrime, ma
quando sono sul punto di congedarsi, ecco che Kafka stringe le mani
all’amico dicendogli in tono vagamente interrogativo: «Così debole,
Max». Brod non comprende il significato di questa frase, ma allorché
Kafka gli sfiora il volto con l’indice ripetendola ancora una volta, si
rende conto che quelle parole «non contenevano alcun rimprovero per
la mia facilità alla commozione, ma soltanto l’amichevole preoccupa­
zione per il mio misero aspetto [...] In quel “così debole” splendeva
in realtà, come riconobbi improvvisamente, tutta la bontà dell’amico,
tante volte sperimentata». La dolcezza dell’affettuoso rimprovero si

197
confonde con quella del tacito «conforto». E Brod aggiunge: «Qucslii
mescolanza rappresentava appunto 1’“incomparabile” in lui, il conimi
segno con cui l’avrei riconosciuto in mezzo a diecimila».
La discrezione e la misura, la riservatezza, quasi la volontà di starsi-1 ir
al margine e di passare inosservato, quella Unauffälligkeit di cui piu In
Brod come di un tratto inconfondibile, la ritroviamo esemplarmente ih-Ili-
lettere. Essa costituisce una sorta di “tono fondamentale” deU’epistoln
rio, anche laddove sembra imprimersi su di esso - direbbe ancora Biml
- «il suggello del “fatalmente complicato”, di quell’elemento bizzaim.
paradossale e umoristico che ha messo tanti lettori fuori strada». Qucstu
complicazione, o meglio questa sovrapposizione di sfumature, che inni
ha nulla del mero artificio letterario, costituisce la filigrana sottile di qili­
ste lettere, conferendo al loro carattere aperto, colloquiale, affettuoso uim
straordinaria intensità di vibrazioni: si direbbe che per essa il tema di uhm
solitudine senza speranza, la durezza implacabile di una infelice conili
zione umana riescano a nascondersi dietro un velo di delicato pudore e ili
superiore compostezza come una luce preziosa e segreta.
Brod ricollega la singolarità di questo piacere del sentirsi marginili)*,
di questo volontario «mettersi da parte» e quindi del gioco umoristico
che gli è sotteso, ad una inconfessata e fondamentale «sicurezza» ini in in.
nel senso che soltanto su un atteggiamento come questo potrebbe gin
vitare quella sorta d’«ironia socratica» nella quale va vista l’unica aimu
di difesa contro la «paurosa incertezza» della propria «esistenza inlet io
re». Ma forse non si tratta di «ironia socratica» vera e propria, poiché il
distacco ironico, e molto spesso autoironico, di Kafka non è guidalo dii
una sottaciuta intenzione dialettica: questa distanza, questo uso soli ile
e delicato dell’ironia, questo lievissimo piacere umoristico stanno al ili
qua di ogni dialettica e sono una tonalità di fondo della scrittura comi­
tale, ne costituiscono la forza segreta. Non è per nulla in gioco la su
periorità (neppure in senso socratico, come superiorità di chi sa di non
sapere) di chi scrive, ma proprio la sua straordinaria «umiltà», la sum
dichiarata o implicita marginalità rispetto alla scrittura stessa. A ridurr
non dovremmo parlare, come osserva acutamente Adorno, di umilili,
bensì di astuzia (e qui si nasconde la cellula germinale dell’umorismo
kafkiano), poiché è questa ad operare una specie di rovesciamenio ili
qualsiasi presunta sicurezza nel suo contrario. «Kafka» scrive Ailm
no «non ha predicato l’umiltà, bensì ha consigliato l’atteggiamento piu
collaudato contro il mito: l’astuzia. Per lui l’unica, debolissima, miimiiu
possibilità che il mondo non abbia ragione, è quella di dargli ragione

198
Come il più piccino della favola, bisogna rendersi irrilevanti, piccoli,
vittime inermi e non insistere sui propri diritti secondo l’uso del mondo,
che è l’uso del baratto, il quale riproduce incessantemente l’ingiusti­
zia.» Queste considerazioni di Adorno, beninteso, si riferiscono ad un
piano più generale, ma penso che possano essere illuminanti proprio
per intendere a fondo questo «mettersi da parte», l’atteggiamento, cioè,
nel quale Kafka traduce, facendone una proprietà singolarissima del
suo «stile» epistolare, lo spirito di una «poetica» destinata a costituire
una costante strutturale della sua scrittura.
Indubbiamente, nelle Lettere, quello Stimmungsspektrum, quello
«spettro» dei toni intimi di cui parla Brod, svarianti «dalla luce più
chiara alla più cupa serietà», implica una estensione considerevole dei
registri smagati, umoristico-tragicomici, fino al loro dissolvimento nelle
aspre e gelide dissonanze di un’autoconfessione fondamentalmente ma­
sochistica. Tuttavia è un’identica misura a governare queste variazioni
di registri, nel senso che l’accentuazione malinconica della componen­
te umoristica finisce per essere speculare alla sfumatura oscuramente
distruttiva presente nella spietata autodescrizione del proprio stato. Di
anno in anno quell’«oscillazione melodica tra arguzia e malinconia»,
che Brod giustamente sottolinea nelle lettere della giovinezza, anteriori
alla malattia, si va modificando lasciando emergere nella sua fascia di
combinazioni verticali, per usare un linguaggio musicale, la tessitura
armonica del tema autodistruttivo celato sotto quella di una ostinata
svalutazione di sé. Questo tema, che si configura, anche se in guisa
non esplicita, come una dominante nelle lettere degli ultimi anni, viene
paradossalmente (e l’amore di Kafka per il paradosso è di natura «reli­
giosa») bilanciato dal progredire di una speranza che ha quasi il volto
sfigurato della follia: si direbbe che il crescere della disperazione abbia
alimentato una sorta di oscura fede nell’«indistruttibile». La consape­
volezza di questa tensione antinomica si lascia cogliere a tratti nelle
piccole e apparentemente irrilevanti evenienze delle lettere.
Si potrebbe addirittura trovare in questo paradosso la spia di una
concezione taoistica del nulla, secondo la quale è perseguire il nulla
che rende servibile il qualcosa. E questo nulla - osservava Benjamin
- «che Kafka perseguiva nel suo desiderio di inchiodare una tavola
con mestiere paziente e minuzioso e nello stesso tempo non fare nulla
e non già che si possa dire: “Per lui inchiodare è nulla”, ma: “Per lui
inchiodare è un vero inchiodare e nello stesso tempo un nulla”, per
cui anzi l’inchiodare sarebbe diventato ancora più audace, ancora più

199
deciso, ancora più reale, e, se vuoi, ancora più folle».
Un terzo gruppo di lettere potrebbe avere il suo ideale punto di pai
tenza nel 1912, quando grazie alla mediazione di Brod Kafka conosce
a Lipsia Kurt Wolff presso la cui editrice (Rowohlt, dalla metà del feb
braio 1913 Kurt Wolff Verlag) pubblicherà nel novembre la Meditavi)
ne. E sarà proprio in quel periodo che si determina in Kafka una svolta,
come nota Wagenbach, sia per quanto riguarda la consapevolezza del
la necessità di giungere a un bilancio della propria attività letteraria,
sia per l’aria nuova che sembra spirare nella tormentata esistenza de Un
scrittore in virtù della sua assidua frequentazione degli attori girovaghi
(Pipes, i coniugi Klug e i Tschissik) guidati da Jizchak Löwy. A quel
tempo risale anche la conferenza sulla «lingua yiddish» tenuta da Kafka
presso lo Jüdische Rathaus in occasione di una serata celebrativa del
l’attività di Löwy: questa conferenza rappresenta «il più importante ed
esauriente documento dell’ebraismo kafkiano» (H. Binder). Si ritiene
che dall’ottobre al gennaio 1912 Kafka dovette avere assistito ad al
meno quattordici rappresentazioni in yiddish: i testi erano quelli di A
Goldfaden, Scharkansky, Z. Faynman, M. Richter, ecc. Il mondo di un
giudaismo orientale intatto e non contaminato, qual era quello che gli si
presentava dinanzi attraverso questi spettacoli, non poteva tuttavia co
stituire un’alternativa religiosa praticabile alla sua condizione di «sraili
cato», di «Amhoretz», troppo corrotto dalla socializzazione occidentale
per essere in grado di superare la propria fondamentale estraneità tipi». u
di chi è destinato a restarsene confitto in quella marca di confine lui
solitudine e comunità dove ci si sente maggiormente insidiati che nel In
stessa solitudine. Ma è proprio a partire da quegli anni che Kafka di
lata in misura sempre più lucidamente evidente l’esperienza della sin»
esclusione dalla propria famiglia facendo di essa il paradigma di min
«comunità perduta»: è questa «l’esperienza fondamentale del lettemlo
ebraico-tedesco assimilato che aveva lasciato dietro di sé la “società
chiusa” della comunità ebraica senza poter essere integrato dal popoli»
ospite presuntamente “aperto”» (H. Milfull).
Anche Blanchot ha l’impressione che il 1912 costituisca per Kalk»
un anno decisivo: «i rapporti drammatici con la vita iniziarono verso il
trentesimo anno, nel momento in cui, da un lato, scrivere diviene pei
Kafka un’esigenza assoluta e dall’altro incontra la sua fidanzata | I
fino a quel momento, durante gli anni dominati dal padre, certo egli e
già “disperato”, ma è una disperazione rischiarata dall’umorismo, bui
lante e quasi leggero, spiata con piacere estetico». Quel distacco dalhi

200
famiglia che già era in atto intorno al 1908, si è andato approfondendo
con il netto rifiuto da parte di Kafka ad occuparsi, come avrebbe prete­
so il padre, della gestione di una fabbrica di amianto aperta dal marito
della sorella Elli. Non si dimentichi, poi, che proprio a partire dal 1910
prende inizio - come osserva Baioni - quel «sistematico processo di
autodistruzione» che trova la sua tragica testimonianza nei Diari.
Nell’agosto del ’12 Kafka aveva conosciuto Felice Bauer, impiegata
a Berlino in un’azienda di dittafoni, alla quale invierà la sua prima let­
tera il 20 settembre. L’attenderà inutilmente nella domenica di Pasqua
dell’anno seguente a Berlino: infine avrà luogo rincontro e andranno a
passeggiare insieme nel Grünewald. L’amicizia si è intanto trasformata
in legame amoroso fino al punto che in una lunga lettera, scritta presu­
mibilmente tra il 10 e il 16 giugno 1913, le chiede per la prima volta se
vuole divenire sua moglie. Nel luglio troverà un’abitazione per sé e Fe­
lice. Ma già il 13 agosto di quello stesso anno ha la precisa sensazione
che tutto volga alla fine, anche se qualche giorno più tardi si decide ad
inviare al padre di Felice una formale richiesta di matrimonio. La rela­
zione, tuttavia, è compromessa dalla consapevolezza, ormai maturata in
Kafka, dell’incompatibilità dello stato matrimoniale con la solitudine
inseparabile dal mestiere di scrivere, il solo a identificarsi totalmente
nella sua esistenza («Io non ho alcun interesse letterario, io sono fatto
di letteratura»). Le lettere rappresentano, dunque, l’unico escamotage
possibile, anche se inconsapevole, per mantenere l’ambiguità di una
situazione che se garantiva, per un verso, la prosecuzione di un rapporto
e quindi anche una vaga prospettiva di nozze, per l’altro non alterava
quell’isolamento che pur implicando, come avrebbe detto Zola, «une
manque de vie», costituiva pur sempre la sola e irrinunciabile ragion
d’essere di un’esistenza «disumana». («Non sono un essere umano»
- le aveva detto.) L’enorme quantità delle lettere a Felice può essere
spiegata forse con questa oscillazione in cui scrittura e vita sembra­
no conciliarsi senza la lacerazione di una scelta (Dietz). L’epistolario
s’interrompe dal 16 settembre al 29 ottobre del 1913, dopo che Kafka
ha confessato apertamente la necessità di troncare la relazione, ma in
seguito ad altri incontri nella Pasqua del ’14, a Berlino, verrà deciso il
matrimonio per il settembre di quello stesso anno: la cerimonia ufficiale
del fidanzamento ha luogo il 20 maggio in questa città, con l’appro­
vazione dei genitori di Kafka che sperano in una rinuncia del figlio a
quel lavoro di scrittore a cui si accompagnavano troppe stranezze e non
poche insidie, a loro giudizio, per la sua salute.

201
Di fronte ai progetti di vita coniugale vagheggiati da Felice, Kafka ai
retra ben presto sgomento, mentre si moltiplicano le incertezze e i dii blu
fino alla rottura del fidanzamento decisa, come testimonia una lettera del
6 giugno 1914, in un albergo berlinese, l’«Askanischer Hof», alla preseli
za di amici e parenti (Grete Bloch, Erna Bauer, sorella di Felice, e Enisi
Weiss). Intanto nella collana «Der jüngste Tag», tenuta a battesimo dii
Franz Werfel per l’editore Kurt Wolff vede la luce II fochista (1913).
Nelle lettere si riflette il carattere intermittente dell’ispirazione. No
nostante i frequenti spostamenti di dimora, a partire dalla fine di luglio
del ’14, Kafka attende alla stesura del Processo (che fu interrotta nel
gennaio dell’anno seguente), all’ultimo capitolo del Disperso {Amen
ca) e a Nella colonia penale. Nel ’15 appare La metamorfosi e l’anno
successivo, che vedrà Kafka trascorrere un breve periodo di vacant»
con Felice a Marienbad, esce La condanna. Nel novembre del ’ 16, gru
zie all’ospitalità offertagli da Ottla, che gli mette a disposizione il suo
piccolo appartamento nella Alchimistengasse, Kafka riprenderà a seri
vere. Qui, e in un successivo soggiorno nel Palazzo Schöborn (1917).
stenderà, tra l’altro, tutti i racconti compresi nel volume Un medico
di campagna, destinato ad apparire nella rivista di R. Schickele «Dii-
weissen Blätter». Appartiene a questo periodo gran parte delle leni­
re a K. Wolff, nelle quali trova conferma quanto osserva Wagenbach
sulla «leggenda» della riluttanza di Kafka a pubblicare i propri scrini
In realtà la volontà di farsi conoscere non era mai, in lui, dettata dall»
pura ambizione e sembrava piuttosto provenire dalla consapevolezza ili
un tributo a cui non sarebbe stato possibile né lecito sottrarsi: lo seni
polo con cui egli segue i progetti di stampa e i vari problemi a questi
connessi oscilla tra una preoccupazione di rigore formale e la superimi-
responsabilità della scrittura. Si spiega così come nella lettera a Kmi
Wolff del 4 settembre 1917 egli si mostri severamente autocritico ( a
proposito delle ultime pagine di Nella colonia penale).
Nel 1917, anno del secondo fidanzamento e della definitiva rottura con
Felice, si ha il primo insorgere della malattia: prima che questo avvenissi-
Kafka vede ancora nell’epistolario con gli amici una reale possibilità ili
comunicazione. Ma il male batte alle porte spietatamente. La prolungai»
emottisi, avvenuta nella notte tra il 9 e il 10 agosto, è raccontata con un
amaro-ironico distacco in una missiva a Ottla. A Brod Kafka toma a pai
lare del suo stato in una lettera del 5 settembre, aggiungendo: «E poi. m
stesso ho detto che lo prevedevo. Ricordi la ferita sanguinante nel Meda < ;
di campagna!». A Felice si confesserà alla fine di settembre con questi-

202
parole: «Tu sei il mio tribunale umano. I due che si combattono dentro
di me [...] sono l’uno buono, l’altro cattivo. Il sangue che il buono [...]
versa per conquistarti giova al cattivo. Dove il cattivo, probabilmente o
forse, con proprie energie non avrebbe più trovato nulla di decisamente
nuovo in sua difesa, questo nuovo gli viene offerto dal buono. Io infatti in
segreto non considero questa malattia una tubercolosi [...] vi scorgo bensì
il mio fallimento personale». Non diversamente si era espresso in una
lettera a Brod del 24 agosto dove aveva parlato della malattia come di una
«sconfitta definitiva» che psicologicamente lo avrebbe salvato dal matri­
monio. Dietro la spiegazione «fantastica» della genesi del male, quale è
quella che darà a Milena, sta il sicuro intuito di una lettura psicosomatica:
«Ecco, il cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori
che gli erano imposti. Diceva: “Non ne posso più; ma se c’è ancora qual­
cuno cui importi di conservare il totale, mi tolga un po’ del mio peso, e si
potrà campare ancora un tantino”. Allora si fecero avanti i polmoni che,
tanto, non avevano molto da perdere. Queste trattative tra il cervello e i
polmoni, che si svolgevano a mia insaputa, devono essere state spavente­
voli». E ancora a Milena, cercando di chiarirle i motivi per cui non potrà
raggiungerla a Vienna: «Sono malato di mente, la malattia polmonare è
soltanto uno straripare della malattia mentale».
Quando F. Weltsch ebbe ad affermare che ciò di cui Kafka aveva bi­
sogno era la volontà di guarire, la risposta di quest’ultimo ribadiva, con
apparente masochismo, la profondità di una diagnosi che non aveva più
nulla a che fare con quella sentenziata dalla scienza medica, ma che quasi
faceva coincidere lo stato della malattia con quello di una sinistra e pur
tuttavia occultamente liberatoria elezione spirituale. «Questa [la volontà
di guarire] ce l’ho, ma, se lo si può dire senza smanceria, ho anche la vo­
lontà contraria. Si tratta di una malattia particolare, concessa se vogliamo,
completamente diversa da quelle che ho avuto finora. Come, allo stesso
modo, un innamorato felice potrebbe dire: “Tutto il passato fu illusione,
soltanto ora ti amo”» (lettera a F. Weltsch, inizio d’ottobre del 1917).
Nel settembre del ’17, ottenuta una lunga licenza dall’Istituto d’Assicu­
razione, Kafka trascorre un periodo di benessere e di serenità a Ziirau in
Boemia, presso la sorella Ottla: da Zùrau, dove si occupa, tra le altre cose,
di giardinaggio, scriverà numerose e importanti lettere a Baum, Weltsch
e soprattutto Brod. Come nota G. Massino, «le lettere di questo periodo
sottolineano la ricerca di un chiarimento esistenziale, il tentativo “di veni­
re a capo delle cose ultime”», un tentativo che troverà il suo sbocco negli
Aforismi e nei Quaderni in ottavo dell’inverno 1917-18.

203
Le difficoltà per ottenere il pensionamento anticipato dall’Istituto
d’Assicurazione, chiesto fin dal settembre del ’17, i lunghi periodi di
congedo (quello definitivo verrà solo nel giugno del ’22), i vagabondag­
gi da un sanatorio all’altro sembrano trovare nell’epistolario solo una
debole eco. Il fidanzamento, nella primavera del ’19, con Julie Wohry-
zek, rincontro tempestoso e struggente con Milena Jesenskà, con cui
comincia il carteggio nel ’20, costituiscono gli avvenimenti più rilevan­
ti di questo periodo: in quello successivo i destinatari sono prevalente­
mente Robert Klopstock, giovane medico ebreo antisionista di Buda­
pest conosciuto da Kafka durante una sua permanenza tra il dicembre
del ’20 e i primi mesi dell’anno seguente in un sanatorio sugli Alti Tatra
(Tatranské Matliary); e ancora gli amici: Brod, con cui, nel ’18, discu­
terà di Kierkegaard, del quale aveva letto, dopo Aut-Aut, Timore e Tre­
more e La Ripresa, Weltsch, Baum, oltre a Minze Eisner, conosciuta
nel ’19. «Tutte le lettere di Kafka da Matliary» annota Baioni «sono
un continuo confronto dello scrittore con gli amici lontani che hanno
avuto la forza di guarire.» Di fronte alla loro raggiunta indipendenza e
maturità si sente smarrito e sconfitto.
Nella primavera del ’23 lo studio dell’ebraico, già intrapreso nel giu
gno del 1917 con il suo primo insegnante Jiff Mordechal Langer, un
apprendimento indubbiamente collegato all’interesse per i testi vetero
testamentari e per il Talmud, ma soprattutto al vagheggiato viaggio in
Palestina, viene ad intensificarsi sotto la guida di un’allieva di Eliezei
ben Jehuda, una giovane studentessa proveniente dalla Palestina, Puah
Bentovim. Grazie a un riaccendersi di creatività aveva intrapreso, nel
febbraio del ’22 la stesura del Castello e quella dei racconti (tra il ’21 c
il ’24) che verranno raccolti nel libro Un digiunatore.
Gli ultimi anni di vita portano i segni di una sofferenza inaudita: li-
lettere li rivelano a tratti, ma si direbbe che Kafka voglia dissimulali!
rivolgendo una maggiore attenzione al mondo esterno. Paradossatine n
te Kafka scrive lettere agli amici proprio nell’imminenza di un incontro
con loro, quasi per restituire una maggiore dinamica affettiva al rap
porto, nella convinzione che diversamente dall’espressione orale quella
scritta potesse sottrarsi a «esteriorità» e «costrizioni» (H. Binder). Il
male è «descritto» con la metafora di una «situazione bellica un po'
confusa», come dirà in una lettera a Minze Eisner dell’autunno 192 '
«Il male stesso, considerato truppa d’assalto, è la creatura più obbe
diente del mondo, i suoi occhi sono rivolti soltanto al quartier generale
e gli ordini che vengono di là sono eseguiti, ma l’alto comando è spesso

204
incerto nelle risoluzioni e, in genere, ci sono malintesi. La scissione tra
quartier generale e truppa operante dovrebbe cessare».
Soltanto l’amore di Dora Dymant (Diamant), conosciuta durante una
visita ad una colonia estiva della «Casa Popolare Ebraica» a Müritz nel­
l’estate del ’23, e quindi il trasferimento di entrambi a Berlino danno a
Kafka, ad onta delle ristrettezze finanziarie dovute all’inflazione (pagherà
nel gennaio del ’24 centosessanta corone per una sola visita medica!),
una serenità forse mai conosciuta. Nel ’23-’24 aveva scritto Una piccola
donna e, nell’arco di una sola notte, La tana; e progetterà insieme a Dora,
con cui studiava il commento in ebraico di Rashi dell’Antico Testamen­
to, di emigrare con lei in Palestina. Le ultime lettere sono ancora vive
d’interessi, di curiosità, di osservazioni e persino d’emozioni, anche se
sembra calare su di esse l’ombra di uno squallido e disperato isolamento.
Nel marzo del ’24 scrive, a Praga, Giuseppina la cantante ossia il popolo
dei topi, ma proprio in quel periodo si ha un aggravarsi della malattia. Ne
parlerà a Klopstock e pregherà Brod di visitarlo giornalmente. A Dora
invia circa trentacinque lettere che sono andate perdute. Dopo la diagnosi
di tubercolosi alla laringe (7 aprile), Kafka è consapevole di essere giunto
alla fine del suo viaggio, ma anche l’ultima battaglia contro il male non
lascerà intravedere, in quanto ci resta del carteggio, se non la compostez­
za di una antica familiarità con il dolore. Muore nel sanatorio Hoffmann
a Kierling presso Klosterneuburg (Vienna) il 3 giugno 1924. Uno degli
ultimi messaggi scritti su alcuni foglietti a causa dell’impossibilità di par­
lare è per Dora, alla quale il 19 aprile di quell’anno così scriveva: «Quanti
anni potrai sopportare tutto questo? Per quanto tempo ancora potrò sop­
portare che tu sopporti tutto questo?».

La «tana» della scrittura

In una famosa lettera a Max Brod del 5 luglio 1922 Kafka cerca di far
comprendere all’amico i motivi della sua impossibilità di accettare l’in­
vito di Oskar Baum a trascorrere un periodo di vacanza a Georgental.
In fondo alla «paura del mutamento», «paura di attirare su di me», così
scrive, «l’attenzione degli dèi con un gesto troppo grande per le mie
condizioni», sta un’inesplicabile paura di fronte alla morte che è poi la
paura stessa della vita. «Necessario per vivere è soltanto rinunciare al
godimento di sé: entrare nella casa, anziché ammirarla e incoronarla.»
Ma Kafka sa di non poter rinunciare a quel «godimento» in cui consiste
la sua stessa condanna. Il discorso sulla «paura del mutamento» diventa

205
così la confessione di una colpa che è fondamentalmente una rinuncia
alla vita. «Lo scrivere mi sostiene» dice Kafka, «ma non sarebbe più
esatto dire che sostiene questa specie di vita?»
C’è dunque una sola vita possibile, per Kafka, ed è «una specie di
vita» indissolubilmente consegnata alla scrittura, sì che lo scrivere è
una «dolce» e «meravigliosa ricompensa», ma la «ricompensa per un
servizio del diavolo». L’aspetto diabolico di questo servizio sta appunto
nel narcisismo che esso presuppone: nel fatto, cioè, che lo scrittore vive
della sua irrealtà. La sua «folle vita terrena», che scava un abisso tra lui
e i suoi simili, brucia in questa costruzione della «smania di godere».
Lo scrittore è precisamente colui che non vive, o meglio: che potrebbe
vivere, ma arretra di fronte a questa scelta, prigioniero di quell’oblio
di sé che è «il presupposto per essere scrittore», la condizione inuma­
na della scrittura. E appunto chi non vive ha paura di morire proprio
perché «non è ancora vissuto», oppresso com’è dal tormento di esse­
re morto durante tutta la sua vita e di non aver trovato nella scrittura
nessun riscatto. Kafka arriva al punto di precisare in termini di pura
quotidianità la ragione per la quale non può decidersi al viaggio a cui lo
invitava l’amico: «[...] nella mia paura del viaggio ha parte persino la
considerazione che almeno per qualche giorno dovrò star lontano dalla
scrivania», aggiungendo infine che «l’esistenza dello scrittore dipende
realmente dalla scrivania, e se vuol evitare la pazzia, non deve, a rigore,
allontanarsi mai dalla scrivania, vi si deve attaccare coi denti».
Come nel racconto Primo dolore, dove si narra di un giovane trapezista
che non può a nessun costo abbandonare il suo trapezio, neppure per brevi
momenti (e già è stata notata l’analogia fantastica tra tavolo e trapezio: «le
trapèze du trapéziste est la table de l’écrivain», R. Pierre), così, in questa
lettera, la follia è per Kafka non già quella di restarsene spietatamente soli
con la scrittura, ma di rinunciare ad essa per vivere una vita umana. I a
condanna alla scrittura che pure - come si legge nei Diari - è anche una
redenzione, l’unica possibilità di redenzione («Strana, meravigliosa forza
redentrice dello scrivere [... ]»), potrebbe costituire una prospettiva utile per
intendere la saldatura segreta che si stabilisce tra carteggio e opera lettel a
ria. Questa saldatura non va riferita alla presunzione che l’autoconfessioiie,
esplicita o meno nel carteggio, la recinzione del «privato» da cui dovrebbe
essere bandita ogni fiction, possa costituire una chiave per intendere il testo
letterario, quasi fosse possibile commentare in questo modo quel che è sta
to deliberatamente cancellato o occultato o trasceso in figure metaforiche o
immagini simboliche. La connessione esiste ad un livello più profondo, si

206
riconduce all’atto dello scrivere in quanto esso è sempre un «denudarsi di
fronte ai fantasmi», anche quando non si scrivono lettere.
Ci si accorgerà così che proprio questo «denudarsi» rimanda a quella
non-vita che è la condizione insopprimibile dello scrittore e nelle lettere,
ad onta delle apparenze, questa condizione risulta ancor più evidente per­
ché inscritta nella brutalità e nell’opacità del quotidiano, nella stessa serie
di tentativi per guadagnare una stabilità e una consistenza sostenendosi
all’effìmero equilibrio delle occupazioni e delle occorrenze giornaliere. In
realtà, tuttavia, proprio questa non-vita affiora nelle lettere tutte le volte
che si lacera, in esse, la trama della trasmissione immediata di notizie e si
attinge un piano di espressione che abbandona i livelli meramente comu­
nicativi: è qui che interviene una sovradeterminazione del significante,
in virtù della quale la distanza tra scrittura epistolare e scrittura letteraria
sembra abolita. Giustamente Deleuze-Guattari osservano, a questo pro­
posito, che «vivere e scrivere, arte e vita si oppongono solo dal punto di
vista della letteratura maggiore»: qui, nelle lettere, «l’espressione precede
il contenuto e se lo trascina dietro [...]».
Per questa ragione l’epistolario di Kafka, che pure è così estraneo a
qualsiasi premeditazione artistica, diventa lo specchio di quella non­
vita allo stesso modo dell’opera narrativa: dall’ambivalenza del rap­
porto con la malattia a quella che caratterizza l’atteggiamento di Kafka
di fronte al matrimonio, all’integrazione nella comunità e nei suoi «va­
lori» tradizionali, alla benefica solidità del lavoro professionale e così
via. Le lettere fanno intravedere dunque, in un’ottica ravvicinata, tutte
le figure dello sdoppiamento e dell’erramento, dell’impazienza e della
lotta, della crudeltà e dell’interrogare, della colpa «essenziale» e del
suo mascheramento, che si ritrovano in sapienti occultamenti e in una
dislocazione strategica adeguata alla fiction all’interno dei racconti e
degli stessi romanzi. Si rinvengono qui, insomma, le metafore, in statu
nascendi, di una irrealtà consumantesi nella cristallizzazione del quoti­
diano fino al punto da coincidere con il perfetto equilibrio e la assoluta
chiaroveggenza dell’astrazione poetica.
Indubbiamente, nelle lettere, è dato cogliere in maniera più netta quelli
che M. Blanchot chiama i «quattro volti» della lotta condotta da Kafka
per l’intera sua vita, «rappresentati dai rapporti col padre, con la lettera­
tura, con il mondo femminile e da questi tre tipi di conflitti che, tradotti
in termini più profondi, danno vita ad un conflitto spirituale». A questi
«quattro volti» aggiungerei quello della lotta con la malattia che costrinse
Kafka, com’è noto, a lunghi periodi di cura in vari sanatori: è un motivo

207
ricorrente nelle lettere, sia che il male venga considerato nelle sue fasi
acute che nelle temporanee remissioni. Alla natura «metafisica» della
malattia, alla sua enigmatica fatalità Kafka si rapporta con triste scetti­
cismo come in questo passo di una lettera dell’aprile 1921 a Brod: «Sì,
è credibile che la tubercolosi venga arginata, tutte le malattie finiscono
col venir arginate. Lo stesso avviene delle guerre, ciascuna è portata a
termine e nessuna finisce. La tubercolosi non risiede nei polmoni, come
per esempio la causa della guerra mondiale non sta nell’ultimatum. C’è
una sola malattia, non più, e a questa malattia la medicina dà la caccia
ciecamente come a un animale attraverso foreste senza fine».
Si avverte nettamente qui, come in numerosi altri luoghi, quel di­
stacco dal piano immediato del contenuto epistolare che già si dispone
come la cellula germinale (la metafora della caccia) di una finzione
narrativa, rompendo gli schemi delle coordinate psicologico-empiriche.
Questi «scarti» si presentano nel tessuto epistolare attraverso una sorta
di dilatazione congetturale ironicamente sottolineata, come in questo
luogo: «Così al dolore si aggiunge la vergogna, è press’a poco come se
Napoleone avesse detto al demone che lo chiamava in Russia: “Ora non
posso, devo prendere ancora il latte della sera” e poi, alla successiva do­
manda del demone: “Sì, devo sorbirlo secondo il metodo Fletcher”».
Anche nella rottura delle convenzioni epistolari (espressioni di cor­
tesia, clausole di saluto, ecc.) si rendono evidenti questi scarti, come
avviene frequentemente negli incipit delle lettere a Milena e a Felice,
dove è tralasciata la consueta formula d’apertura con l’apostrofe alla
destinataria risultante, in qualche caso, solo successivamente o pareil
teticamente. «Oggi una cosa che forse ne spiega molte. Milena (quale
nome ricco, pesante, difficile da sollevare per la sua pienezza [...]).» Si
direbbe che ogni lettera venga concepita da Kafka solo come l’affiorare
di un muto dialogo ininterrotto: di qui l’immediatezza del dettato che
può risolversi, senza alcun preambolo, in un resoconto descrittivo, in
una breve riflessione o persino in una semplice esclamazione («Come
sei stanca nella lettera di sabato sera!»).
Nella chiusa delle lettere agli amici, ad Ottla e alla famiglia tornano
talora anche le consuete formule di saluto, ma queste mancano inte­
ramente in quelle a Milena e a Felice (salvo le prime), quasi il saluto
volesse ingannare in qualche modo la distanza a cui è fatalmente con
nessa la comunicazione epistolare. A questo proposito H. Binder cita un
passo significativo da una lettera a Felice: «Ora davvero buona notte. Il
carteggio sarebbe una bella cosa se alla fine di una lettera, come anche

208
alla fine di una conversazione, non si avesse il bisogno naturale di guar­
dare l’interlocutore in fondo agli occhi».
Ma è fondamentalmente il tracciato metaforico-associativo a rinviare
al segreto centro di gravità dove è sempre una catena di possibilità o di
ipotesi disgiuntive a stabilire una sorta di strategia labirintica. Dispo­
nendosi per linee trasversali, per intersezioni o sovrapposizioni, o meglio
ancora per «velature», per brusche ellissi, per accumulo «distruttivo» di
argomenti, essa mira a suscitare una evidenza definitiva al servizio della
quale, e non in funzione esornativa o illustrativa, stanno le immagini. In
questo senso risulta riconoscibile la qualità di uno stile che si modella con
un suo preciso spessore poetico, facendo sua la tecnica della deviazione,
nel senso che si allontana dal linguaggio di una trasmissione epistolare
fortemente presidiata dal suo statuto comunicativo, attraverso una pro­
gressiva e talora quasi inavvertibile dislocazione di accenti, per un infol­
tirsi o rarefarsi delle sue pieghe, per un moltiplicarsi delle sue nuances,
delle sue torsioni, delle sue sospensioni allusive e delle sue enigmatiche
reticenze. Ed ecco le ripetizioni, le abbreviazioni, le isocolie, i chiasmi, le
parentesi sintatticamente a sé stanti, le anafore, cui talora corrispondono
simmetricamente le epifore nelle quali si addensano ora ombre crepu­
scolari ora improvvise luminescenze. «[...] Chi non può far procedere
continuativamente un pensiero da un altro» osserva H. Binder in Kafka
in neuer Sicht, «ricorre agli strumenti dell’addizione e della ripetizione
(nella misura in cui non associa per immagini), a modelli di frase facili a
prodursi che non falsificano le complicate relazioni tra i pensieri poiché
non le rappresentano affatto, e non intralciano il corso del pensiero proce­
dente per sequenze intuitive, bensì al contrario conferiscono un ordine ai
disparati momenti singoli di esso, specialmente se il carattere differenzia­
to e la dialettica dell’oggetto da raffigurare costringe al dispiegarsi della
connessione rappresentativa sotto molteplici aspetti.»
Un procedimento consueto in questo lavoro di disarticolazione pa­
ratattica del continuum è costituito dall’uso delle disgiunzioni o delle
avversative, come in questa lettera a Milena: «Forse non è neanche il
vuoto dell’appartamento la causa del mio benessere, o non è la causa
principale, bensì il possedere due abitazioni una per il giorno e un’al­
tra, lontana, per la sera e la notte» (lettera del 27.VII. 1920). Ma più
frequente è l’uso della autocorrezione a cui consegue l’effetto di uno
straordinario potenziamento del ductus espressivo, tanto che talora è, la
stessa autocorrezione, una variatio (realizzata in qualche caso mediante
le figure retoriche della gradatio o della anadiplosis) a «generare» la

209
metafora: «È vero che là era facile strappare perché era un albero che,
come si sapeva, avrebbe continuato a crescere bene anche in terreno
diverso e oltre a ciò non era ancora un albero, ma un bambino».
Il risultato di questi procedimenti, che si costruiscono talvolta per
parallelismi antitetici (H. Binder parla di «isocolie antitetiche»), non è
tanto quello di una cancellazione del senso, quanto di un moltiplicarsi
di alternative che sembrano restare sospese ad un irrisolvibile dilemma:
non si tratta soltanto di una catena di asserzioni paradossali che tendo­
no ad eliminarsi reciprocamente o di affermazioni disposte in ordine
inverso (come nel secondo esempio qui sotto riportato), ma di una sorta
di devastazione centrifuga di una linearità interiore di cui la fluidità del
ductus epistolare rappresenta solo un gioco mimetico. Il rapporto dello
stato intimo con la scrittura è caratterizzato dal pudore di fronte alla
comunicazione o più precisamente dall’ambivalenza del comunicante
che oscilla tra la ricerca di una vicinanza e di una complicità e l’ansia
della fuga: di qui il prospettarsi di questa scrittura nei suoi «slittamenti»
asseverativi, nei suoi «fuochi» ambigui, nei suoi segnali contraddittori,
nelle sue linee di fuga, quasi si trattasse di sempre nuovi passaggi sca
vati all’interno di una «tana», la tana della scrittura, appunto.
Eccone alcuni esempi: «Ciò che accade è per me qualcosa di mo­
struoso, il mio mondo crolla, il mio mondo risorge, vedi come tu (que­
sto tu sono io) ne possa dare buona prova. Non mi lagno del mondo,
il mondo stava crollando, mi lagno del suo ricostruirsi, mi lagno delle
mie deboli forze, mi lagno del venire al mondo, mi lagno della luce
del sole» (lettera a Milena del 12. VI. 1920). «Ma questo non è il colmo
della meraviglia. Esso consiste in ciò, che se tu volessi venire da me,
se dunque [...] volessi abbandonare tutto il mondo per scendere da me,
così in basso che dalla tua posizione non solo si veda poco, ma non si
veda nient’affatto, tu a tal fine - stranamente, stranamente! - non dovre
sti scendere, bensì sorpassare in modo sovrumano te stessa, in alto, oltl i­
te stessa, talmente che dovresti forse dilaniarti, precipitare, scomparire
[...]. E tutto ciò per arrivare in un punto che non ha niente di allettanti
dove me ne sto senza felicità e infelicità, senza merito e colpa, soltanto
perché mi hanno messo là» (lettera a Milena del 18.VII. 1920).

L’avidità dei fantasmi

Il pericolo di una lettura delle Lettere concentrata sulla falsariga de Un


biografia e della confessione autobiografica, sta nel ritenere che attravci

210
so di esse sia possibile trovare un accesso privilegiato alla comprensione
dell’opera kafkiana, quasi queste ultime dovessero realizzare quella tra­
sparenza che negli altri scritti è assolutamente negata e potessero quindi
consentire una decifrazione della loro segnatura psicologica sottostante.
Nella lettera a Max Brod, in cui Kafka afferma di ritenere priva di
significato una critica che «cerchi nell’opera volontà e sentimento del­
l’autore non esistente», la questione presa in esame riguardava appunto
l’applicabilità di una distinzione tra «volontà» e «sentimenti» riguardo
all’opera che, per Kafka, costituisce il solo «banco di prova dello scrit­
tore [...]; se quadra vuol dire che è buona; se sta in un bello e melodico
disaccordo, è ancora buona; ma se è in disaccordo stridente, è cattiva».
L’opera è, come tale, al di là di siffatte distinzioni proprio perché essa
rappresenta il luogo in cui il suo autore si è «perduto», dove ha perduto la
sua «patria consapevole»; «[...] noi restiamo sempre interi [...] noi, quan­
do scriviamo qualcosa, non abbiamo lanciato per esempio la luna sulla
quale si dovrebbero fare indagini intorno alla sua origine, ma sulla luna ci
siamo trasferiti con tutto ciò che possediamo [...] ci siamo perduti a causa
di una dimora lunare, non definitivamente, qui non c’è nulla di definitivo,
ma ci siamo perduti» (lettera a Max Brod, primi di aprile 1918).
Essere perduti nell’opera rende impossibile stabilire una scala di
valori e di distinzioni, quei valori e quelle distinzioni che verrebbero
esaltati da chi ritenesse di mettere a confronto la scrittura epistolare e
quella dell’opera narrativa per trovare nell’una alcune delle possibili
chiavi per intendere l’altra ovvero per semplificare, attraverso le distin­
zioni del «genuino» e del «falso», della «volontà» e dei «sentimenti»,
l’approccio all’opera in se stessa.
Ma essa è appunto qualcosa di indivisibile al suo interno: poco importa
che si tratti di una lettera o di un racconto; e lo è proprio perché costituisce
- come scrive Kafka - una «dimora lunare» dove l’autore si è trasferito
con tutto ciò che possiede. Se scrivere è per Kafka una «vocazione proibi­
ta» (Deleuze-Guattari), questa non cessa di esistere quando il mezzo della
comunicazione è rappresentato da un messaggio epistolare invece che da
una novella o da un romanzo: la terra è stata comunque abbandonata ed
altro è il luogo da cui si parla, da cui si mandano messaggi. Allo stesso
modo si potrebbe dire quanto sia erroneo - e già Adorno lo aveva osser­
vato proprio riguardo a Kafka - ritenere che «il contenuto metafisico di
un’opera sia costituito dalla filosofia che l’autore vi immette». Da questo
«micidiale errore» Kafka si è tenuto ben lontano: e questo avviene anche
nelle lettere dove non è in alcun modo neppure abbozzata una filosofia

211
che possa guidare l’interpretazione dei restanti scritti.
Indubbiamente le Lettere costituiscono il documento di una condi­
zione umana che si scruta e si riflette in se stessa, percorrendo e smar­
rendosi nei suoi labirinti, ma appunto per questo esse conservano, di
fronte all’opera narrativa ed extranarrativa, una loro precisa autonomia,
anche laddove si dispongono, com’è il caso delle lettere a Milena, sul­
l’arco di una trasfigurazione poetica, anche laddove i dati diventano
impalpabili, le coordinate incerte e sfuggenti le ipotesi di spiegazione, e
par quasi d’intravedere quella declinazione dell’assurdo che costituisce
il filtro essenziale della kafkiana realtà dell’immaginario.
Proprio a causa della profonda implicanza di realtà esistenziale e
scrittura, queste Lettere restano paradossalmente «altro» dall’opera, e
ci lasciano sbarrati i significati di questa: servirebbe infatti a ben poco e
sarebbe in definitiva perfino fuorviante risalire dagli elementi carattero­
logici e nevrotici, dai temi ossessivi dell’automortificazione e dell’auto­
punizione, ecc., ai nuclei significanti del dettato narrativo. Si potrebbe,
invece, dire il contrario: nelle Lettere vengono messi in evidenza quegli
elementi autoironici sottesi alle figure kafkiane che si scompongono in
guise e in valenze diverse nel contesto della fiction. Nella prosa episto­
lare la piega tragico-ironica, che mai incrina la lucidità di una spietata
autoosservazione, costituisce, per l’appunto, la dominante di una scrit­
tura che si nega come scrittura letteraria e che pur tuttavia dispone l’or­
dine della quotidianità in una luce vagamente ambigua, indecidibile,
in uno «spettro» di possibili significati. In questo senso l’epistolario si
avvicina agli altri scritti: nei limiti in cui esso li rispecchia in sé, senza
esserne in alcun modo un virtuale commento e tantomeno una sorta ili
appendice chiarificatrice dove sia rinvenibile il dispositivo semantico
di una incubazione psicologica. L’autonomia dell’epistolario è quella
di una flessione della scrittura aderente ai tragitti della quotidianità e
dell’esperienza immediata, ma anche al potenziale espressivo che senza
trasfigurare tutto questo lo espone in una luce singolarmente suggest i
va, i cui margini sono magneticamente predisposti ad attrarre il mate
riale «simbolico», quel materiale su cui farà leva l’arte dello scrittore
nel costruire i suoi mondi narrativi.
La cifra poetica dell’epistolario - R. Kayer parlava di una «singolare
musica» attraverso la quale pure in ogni descrizione oggettiva trova
espressione una interiorità del tutto personale - sta precisamente qui, in
questo oltrepassamento decisivo sia del solipsismo, e quindi dell’autoi
doleggiamento letterario, sia del taccuino di cronaca. Anche in queste

212
pagine così «private» Kafka si mette sempre dalla parte del suo inter­
locutore, arrivando a testimoniare se stesso sempre nella figura di una
doppia relazione: diretta con quest’ultimo e indiretta-negativa con se
stesso o meglio con quell’avversario che porta immutabilmente dentro
di sé. La confessione, se di confessione si può parlare, acquista qui
spesso la forma di un’autodenuncia, quasi fosse dato trovare nel dialo­
go epistolare quel punto archimedico necessario per costruire quella ne­
gatività in cui paradossalmente, per Kafka, è possibile consistere, tanto
che questo consistere è in realtà un porsi contro di sé. Si potrebbe ad­
dirittura affermare che Kafka attui nelle sue lettere una sorta di preme­
ditato autosabotaggio, un procedimento che Adorno aveva osservato a
proposito del «realismo empirico» presente negli scritti narrativi, «che
viene continuamente danneggiato con piccoli atti di sabotaggio, come
la prospettiva nella pittura contemporanea: ciò avviene, per esempio,
quando l’agrimensore errabondo viene sorpreso dalla notte che cala
troppo presto».
E a questo punto che il limite di sincerità dell’autoconfessione non è
deducibile in alcun modo dal gioco letterario, dal piacere di una sottaciu­
ta autocontemplazione estetica, bensì dalla scissione dell’autore, quella
stessa che ne attraversa l’opera. È la scissione di chi si porta appresso un
invisibile persecutore, di chi è al tempo stesso inseguitore e inseguito,
cacciatore e cacciato, come appare evidente da una drammatica lettera
a Milena: «Non pretenda da me che sia sincero, Milena. Nessuno lo può
pretendere più di me stesso, eppure molte cose mi sfuggono. Sì, forse
tutto mi sfugge. Ma l’incoraggiamento in questa caccia non mi incorag­
gia, anzi, al contrario, non sono più in grado di fare un passo, ad un tratto
ogni cosa diventa menzogna e gli inseguiti strozzano il cacciatore. Sono
incamminato per una via molto pericolosa [...] Non posso udire le terribili
voci dell’interno e contemporaneamente Lei [...]».
È da questa scissione, propria di chi è insieme cacciatore e cacciato,
che discende il rapporto di Kafka con la scrittura epistolare concepito
come un «contatto coi fantasmi». «Tutta l’infelicità della mia vita» così
scrive a Milena «[...] proviene, se vogliamo, dalla lettera e dalla pos­
sibilità di scrivere lettere. Nel caso mio si tratta di una disgrazia parti­
colare, della quale non voglio dire altro, ma nello stesso tempo anche
di una disgrazia generale. La facilità di scrivere lettere - considerate
puramente in teoria - deve aver portato nel mondo uno spaventevole
scompiglio delle anime. È infatti un contatto con i fantasmi, e non solo
col fantasma del destinatario, ma anche col proprio che si sviluppa tra

213
le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione
di lettere, dove l’una conferma l’altra e ad essa può appellarsi per testi­
monianza. Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possono mettersi
in contatto tra loro mediante lettere? A una creatura umana distante si
può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto
sorpassa le forze umane.»
Commerciare con fantasmi, evocarli senz’avvedersene, intrattenersi
con loro e infine restare coinvolti nella ridda cieca e ossessiva, nella
commedia degli equivoci cui essi sembrano dare vita con i loro infiniti
giochi di specchi, con i loro muti ed inesplicabili rimandi. Quale rap­
porto esiste tra la lettera e il fantasma? In che senso la lettera appartiene
al fantasmai
Nelle lettere che è andato elaborando a partire dal 1902, Kafka descri­
ve, per così dire, intorno alla propria esistenza una serie di cerchi con­
centrici che sembrano progressivamente rarefarsi in oscure profondità:
sono irradiazioni silenziose che attraversano piega per piega, fibra per
fibra, il mondo quotidiano, i suoi tormenti, le ansie, i dubbi, i progetti di
lavoro, i dialoghi con gli amici, gli incontri e le esperienze nuove. Sta
nel quotidiano il cerchio prossimo e più chiaramente leggibile: da que­
sto cerchio se ne svolgono altri, altre onde di risonanza in cui affiorano
i temi di un’esistenza infelice ed ironica, appassionata e contraddittoria.
L’ultimo cerchio è quello che entra in contatto col fondo misterioso di
ogni lettera, con la sua intraducibilità, col suo non-detto e non-dicibile:
il fantasma, appunto. II margine del quotidiano coincide col margine
dell’umano e qui, «ai confini dell’umano» - direbbe Kafka -, nasce il
commercio coi fantasmi. Solo a questo punto le lettere diventano «un
ingranaggio indispensabile, un pezzo principale della macchina lettera­
ria» (Deleuze-Guattari), ma lo sono proprio perché si stabilisce questo
«commercio» orrido e involontario. Si direbbe che dalla scrittura epi­
stolare, dalla «possibilità di scrivere lettere» si sprigioni il reagente di
una nuova consapevolezza di sé, o meglio di quello che Kafka chiama
il suo «di fuori», la sua «extraterritorialità». «Se le parli di me» scriveva
a Brod, riferendosi a Milena, «parla come di un morto, sotto l’aspetto,
intendo, del mio “di fuori”, della mia “extraterritorialità”.» È in que­
sta regione che vivono i fantasmi: è nel loro dominio che «respira»
I’«esitazione» di Kafka, il suo «risolvere le questioni» lasciandosi «di­
vorare» da esse, la sua volontà di tortura e di essere torturato: è in que­
sto deserto sconfinato che si compie il suo lungo interminabile viaggio
di ebreo assillato da una inquietudine a cui nulla è «donato»; «io sono»

214
scrive ancora a Milena in una lettera del novembre 1920 «per quanto io
sappia, il più ebreo e il più occidentale tra loro [gli ebrei occidentali],
la qual cosa, espressa per esagerazione, significa che non ho mai un
momento di calma, che nulla mi è donato e tutto deve essere acquistato,
non solo il presente e l’avvenire, ma anche il passato [...]».
Questa impossibilità di «tregua», questo smisurato travaglio, finiscono
per tradursi nell’alone enigmatico di certe lettere o meglio in quell’estre­
ma indecifrabile risonanza dove appunto germinano i fantasmi. La consa­
pevolezza del proprio essere «di fuori» matura nel momento in cui questa
«extraterritorialità» si carica di una sua seduzione demoniaca.
La scrittura dei fantasmi cancella insensibilmente quella del quotidiano
o quanto meno ne corrode i margini: ciò significa che il fantasma illude
sulle possibilità di una comunicazione che ecceda in qualche modo se stes­
sa, nel senso che conduca davvero alla eliminazione di qualsiasi distanza e
quindi di qualsiasi fraintendimento o inganno connesso alla distanza tra chi
scrive un messaggio e il suo destinatario. «Denudarsi davanti ai fantasmi» è
stabilire il rapporto epistolare nei termini di una vicinanza reale. Per questa
ragione essi - i fantasmi - «attendono avidamente». «Ma proprio questo de­
nudarsi» aggiunge Kafka «non può che accrescere la fame. Gli spiriti non
moriranno di fame, ma noi periremo.» Paradossalmente, dunque, la lettera
ratifica l’impossibilità della comunicazione, la esclude pur simulandola: in
ciò sta l’inganno in cui i fantasmi irretiscono colui che si denuda. L’atteg­
giamento di costui è infatti quello di chi, in definitiva, non intrattiene altro
commercio se non con i fantasmi: il destinatario della sua lettera è «evoca­
to», è reso immediatamente presente e si direbbe quasi che questa presenza
sia afferrata con un atto di violenza che dissolve l’estraneità ineliminabi­
le dal progetto stesso del «comunicare». L’illusione di chi sostituisce una
presenza ad una assenza, una irrealtà ad una realtà (perché solo l’assenza
è reale), un non-essere ad un essere, è quella di chi considera il fantasma
come un vivente. Ma quel fantasma nasce precisamente dall’interiorità di
chi scrive, è una proiezione del suo desiderio o del suo ricordo: e tutto
ciò chi scrive, in fondo, lo sa, conosce da sempre la sua prevaricazione e
misura a tratti l’impossibilità di quella presenza, tanto da non credere nem­
meno più al senso di un messaggio che dovrebbe raggiungere un «altro»,
ammesso che questo «altro» esista e che il messaggio sia davvero rivolto
a lui. In questo senso le lettere - dirà Kafka - non possono arrivare mai a
destinazione: i loro veri destinatari, i fantasmi, vanificano ogni distanza,
come pure ogni tentativo di superarla.
«Se dunque non ci sono anzitutto ragioni “strategiche”» osserva Kafka

215
in una lettera a Brod del ’23, «come è ormai legge per me in questi ultimi
anni, non ho fiducia nelle parole e nelle lettere, nelle mie lettere e parole,
voglio condividere il mio cuore con uomini, ma non con fantasmi i quali
giocano con le parole, con la lingua fuori, leggono le lettere. Specialmen­
te nelle lettere non ho fiducia ed è una curiosa credenza che basti incollare
la busta perché la lettera arrivi sicura al destinatario. In questo campo è
stata istruttiva la censura del tempo di guerra, tempo di particolare auda­
cia e di ironica freddezza dei fantasmi.»
Questa ossessione del fantasma che si sovrappone sulla lettera e ne
cancella avidamente lo scritto sconvolgendolo come in un lugubre gio­
co, richiama il tema del messaggio dell’imperatore. «L’imperatore» si
legge nel racconto La costruzione della muraglia cinese, «così dice la
leggenda, ha inviato a te, singolo, miserabile suddito, ombra minuscola
fuggita nelle più remote lontananze via dall’ammaliante sole imperiale,
a te, proprio a te ha inviato un messaggio dal suo letto di morte.» Quel
messaggio è tradito dall’impossibilità di un cammino, dall’impossibili­
tà, per l’assenza, di trasmutarsi in presenza: l’assurdità è del messaggio
come tale, poiché non v’è messaggio che possa giungere a destinazione.
«[...] ancora [il messaggero! cerca di aprirsi un varco nelle sale del pa­
lazzo interno; mai ne potrà uscire; e se questo gli riuscisse, a che giove­
rebbe? dovrebbe lottare per discendere le scale; e se questo gli riuscisse,
non avrebbe guadagnato nulla: dovrebbe ancora attraversare i cortili; e
dopo i cortili il secondo palazzo esterno che cinge il primo; e ancora
scaloni e cortili, e di nuovo un palazzo; e così ancora per millenni; e se
riuscisse finalmente a precipitarsi fuori dell’ultima porta - ma mai, mai
questo potrà accadere - ci sarebbe ancora tutta la città imperiale dinanzi
a lui, il centro del mondo, in cui si addensa tutta la sua feccia.»
La distanza tra l’imperatore morente e il destinatario del suo messag­
gio, questo «singolo, miserabile suddito», è sempre una distanza incol­
mabile perché è la nozione stessa di messaggio ad evocarla immedia­
tamente. In quella distanza, in quella divaricazione assoluta aperta tra
domanda e risposta, tra presenza e assenza, germinano i fantasmi, si ad­
densano, come la feccia del mondo, tutti gli sviamenti, le vie oblique,
le congetture insensate, i ritardi ineliminabili, gli inganni. Il nulla della
comunicazione non è il prodotto di un annullamento, quasi l’autore della
comunicazione introducesse in essa il nulla, è invece il nulla - potremmo
dire con Heidegger - a precedere ogni possibilità e a porre come nulla la
possibilità della comunicazione. Quando chi scrive dimentica che l’altro
è già occultamente così «presso di lui» da non essere più l’altro o che gli

216
è infinitamente lontano, tanto da neppure più esistere, cade vittima della
«avidità» dei fantasmi che non lasciano giungere a destinazione neppure
i baci affidati alle lettere, ma «se li bevono durante il viaggio».
L’assurdità del tentativo di valicare la distanza che ci divide dal reale
diventa l’assurdità stessa del messaggio, e Kafka trasferisce l’illusione
di quest’ultimo nella favola dei corrieri di re. «Furono invitati a sce­
gliere tra l’essere re o corrieri di re. Da veri bambini tutti vollero essere
corrieri. Perciò esistono soltanto corrieri, i quali galoppano traverso il
mondo e non essendoci re di sorta, si gridano l’un l’altro i loro messag­
gi, divenuti privi di senso.»
Il fatto che nessuno voglia essere re, ma preferisca essere corriere di
re, esclude la possibilità di un destinatario allo stesso modo con cui la
volontà di chi manda un messaggio, che è prevaricazione di una distan­
za, determina l’insensatezza del messaggio stesso, lo consegna, cioè,
ai fantasmi, l’abbandona ad un viaggio senza termine. Il potere nullifi­
cante della lettera è quello stesso di una domanda che porta già in sé il
nulla di ogni possibile risposta. L’infinito inganno della lettera evoca
l’erramento nel deserto, la condizione dell’esilio.
«Gli uomini non mi hanno forse mai ingannato» aveva detto Kafka
in uno dei suoi ultimi messaggi a Milena, «le lettere, invece, sempre, e
precisamente non quelle altrui, ma le mie.»
Ma perché le lettere costituiscono un inganno? Proprio perché illudo­
no sulla distanza, sul nulla da cui sono contaminate, sul compimento di
una attesa. Esse implicano la presunzione diabolica di una realizzabilità
del desiderio: presentano l’apparenza di una comunicazione tra lontani
come evento reale. Per questo chi scrive lettere, intraprende un solitario
e indeclinabile «commercio» con i fantasmi: il senso stesso della lettera
riposa sulla sua «irrealtà», o meglio su quella realtà fantasmatica per
cui non solo il destinatario, ma lo stesso scrivente vengono espropriati
dal fantasma. Il fantasma indica al tempo stesso lo smaterializzarsi di
una situazione oggettiva coinvolgente scrivente e destinatario e il ma­
terializzarsi fantastico dell’impossibile, vale a dire il suo effetto nulli­
ficante. La cifra della lettera è semplicemente questa impossibilità che
diventa parola o forse solo il sogno della parola, un sogno che valica le
distanze e crea la vicinanza del più lontano solo perché ci si smarrisce
in un deserto. E questo l’inganno. «A una creatura umana distante si può
pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpas­
sa le forze umane.» L’impotenza infinita di chi scrive, cerca di riscattarsi
nelle lettere, dove la lontananza, appunto, viene «tradotta» in vicinanza,

217
ma è proprio questo «tradune» a sorpassare le forze umane. A questo
punto, nella lettera, non parla più il linguaggio di chi scrive, ma quello
del fantasma che si sostituisce a quest’ultimo. L’impazienza di Kafka nel
suo ossessivo rapporto epistolare con Milena si spiega a partire da tutto
ciò. La potenza magnetica della lettera col suo impalpabile alone d’attesa,
con la tensione micidiale o l’ansia quasi insostenibile che l’accompagna,
si manifesta come il folle tentativo di costruire una sorta di continuum as­
soluto, così da sopprimere ogni soluzione di continuità tra una lettera e la
risposta. In questo modo le lettere dovrebbero essere sottratte all’avidità
dei fantasmi, alla furia devastatrice del nulla. Ma i fantasmi continuano
ad affondare la bocca in questo fiume vertiginoso dove una lettera vorreb­
be seguire l’altra, «bruciando» subito la risposta.
Per questo le lettere a Milena - che sono le più «rivelatrici» dell’inte­
ro epistolario - costituiscono una macchina da tortura, dove si esercita
la crudeltà di chi pretende di vincere la separazione, lo scarto spazio­
temporale, il «nulla», colmando di segni il vuoto, affollando di vane
parole l’abisso che divide per sempre la domanda dalla risposta. Ed
ecco l’enorme ed inutile fatica di chi manda messaggi e li attende, di
chi continuamente si autocorregge nel suo stesso «scriversi» per uscire
dall’equivoco, dall’inganno di una parola mai perfettamente comuni-
cabile, sempre troppo sfuggente o diabolicamente ambigua per esse­
re afferrata. L’odio di Kafka per le lettere deriva dal loro precipitare
inarrestabile in quel regno dell’extraterritorialità che come «il cielo»
degli Otto quaderni in ottavo «è muto, e fa da eco a chi è muto». In
realtà le parole non servono alla comunicazione: sono contro di essa:
sono la concrezione di un paradosso. Lettere che non arrivano, che ri­
tardano inspiegabilmente, che si sovrappongono, che si contraddicono,
che acquistano un volto enigmatico e restano inchiodate alle loro in­
terrogazioni insensate: lettere che diventano un disperato geroglifico:
si direbbe che quando scrive a Milena, Kafka intercetti impenetrabili
messaggi strappandoli ai loro oscuri viaggi nell’ignoto, li sottragga ai
fantasmi solo per riconsegnarli nuovamente ai fantasmi. Eppure sono
queste lettere a scandire l’effimero sollievo dall’angoscia, a risarcire i
tormenti dell’insonnia, ad attenuare, per quanto è possibile, il clangore
delle sferzanti «trombe del nulla». Si direbbe che Kafka scriva ancora e
sempre lettere sulle lettere in un incessante autocommento, analizzando
la parola detta fino a troncarne le giunture e costringere la frase a tor­
cersi su se stessa in un labirinto di possibilità che dovrebbe saturarla di
senso fino ad annullarla. Il tragico gioco della scrittura diventa, a questo

218
punto, quello di un percorso immaginario: tra le lettere che non possono
raggiungere la loro destinazione e che attendono una impossibile risposta
quest’uomo incapace di offrire una qualsiasi resistenza che non sia quella
spietatamente opposta a se stesso, si aggira con sgomento, moltiplican­
do calcoli complicati, previsioni e obiezioni, congetture nevrotiche, ag­
giungendo alle deviazioni altre deviazioni nella corsa senza respiro di un
freddo vaneggiamento. La casistica forsennata con cui progetta i tempi e
i modi di possibili incontri con Milena apre, tra Praga e Vienna, un mare
«con le sue onde immense a perdita d’occhio». In questo senso l’ipotesi
che Kafka costruisca con le sue lettere la trappola destinata a scongiurare
il pericolo della «coniugalità» (Deleuze-Guattari) è priva di fondamento.
«Fare una carta di Tebe invece di recitare Sofocle, fare una topografìa
degli ostacoli invece di battersi contro un destino» (Deleuze-Guattari).
Ma non si tratta tanto di una sostituzione delle lettere d’amore all’amore,
è un gioco, ancora una volta, uno statuto fantasmatico che presiede ai
messaggi: quella non-vita che contamina ogni gesto, ogni parola, ogni
timida speranza, ogni attesa e s’incarna nell’avidità dei fantasmi. Come
rispondere a questi se non con le terribili parole rivolte a Milena: «[...] tu
non sei per me una signora, sei una fanciulla, non ho mai visto nessuna
che fosse tanto fanciulla, non oserò porgerti la mano, fanciulla, la mano
sudicia, convulsa, unghiuta, incerta e tremante, cocente e fredda».
Kafka sa fin da principio che è impossibile sottrarsi ai fantasmi. Per
questo scrivere lettere è un «denudarsi», vale a dire un consegnarsi, un
arrendersi alla loro spaventosa attesa, senza più alcuna difesa o prote­
zione o pudore. I fantasmi si nutrono infatti delle parole già da sempre
tradite da quel nulla che si portano dentro. Essi sono precisamente la
forma in cui l’inganno diventa visibile così da acquistare una sua vi­
vente autonomia, una sua micidiale e compatta presenza: la forma in
cui scrivente e destinatario continueranno ad inseguirsi eternamente nei
loro messaggi, ad ingannarsi senza volerlo attraverso equivoci minu­
scoli e parole non dette, mentre si sforzano di chiarire il vero senso di
quei loro messaggi quasi fosse possibile arrivare a tradurlo in un con­
tatto reale. È questa la «cattiva infinità» di un inseguimento in cui chi
insegue l’altro nel tentativo di raggiungerlo, insegue, in verità, se stesso
o meglio è inseguito da se stesso. La lettera è dunque, per Kafka, il sur­
rogato di una vita che manca', e questa «vita senza vita» - come la chia­
merebbe Michelstaedter - è appunto una vita estranea e orrendamente
familiare, ovvero - se si vogliono usare le parole di Kafka - la vita di
chi è «lontano da casa e deve continuamente scrivere a casa, anche se

219
ogni mia casa fosse spazzata via da un pezzo nell’eternità» (lettera a M.
Brod del 12.11.1922). Chi scrive - e a questo punto poco importa che si
tratti di una lettera o di un racconto - innalza la sua scrittura come «il
vessillo di Robinson sul punto più alto dell’isola», nel senso che fa di
essa un inutile e disperato richiamo, rivolto a tutti e a nessuno. Tuttavia,
e gioverà insistere su questa contraddizione, la potenza dello scrivere -
e quindi, paradossalmente, di quel richiamo - è strettamente intrecciata
alla solitudine, «la mia unica mèta, la mia più grande attrattiva, la mia
possibilità» (lettera a M. Brod dell’ 11.IX. 1922).
Preservare questa solitudine fa tutt’uno con la difesa della scrittura
«[...] e questo scrivere è per me in un modo crudelissimo per tutte le
persone intorno a me [...] la cosa più importante su questa terra [...]
Perciò preservo lo scrivere, con tremenda angoscia, da qualsiasi distur­
bo, e non solo lo scrivere, ma anche la solitudine che ne fa parte» (let­
tera a R. Klopstock, ultimi di marzo 1923). Ma tutto questo - si badi
bene - non ha nulla a che fare con l’isolamento orgoglioso dell’esteta o
dello scrittore decadente: non comporta nessun aristocratico distacco,
nessuna rivendicazione di un’eccezionaiità, sia pure sofferta come con­
danna. Questo strano, inverosimile «escluso», autore di una «robinso-
nada totale, quella di una fase in cui ogni uomo è diventato il Robinson
di se stesso e vaga qua e là, su una zattera carica di roba raccogliticcia
e senza timone» (Adorno), è stretto tra due paure: «la paura di ciò che
amo tanto», la solitudine, da un lato, e «la paura della conservazione
della solitudine», dall’altro, come «tra due macine», e questa condizio­
ne spiega come la scrittura stessa sia bilanciata tra le contraddizioni. Di
queste contraddizioni essa è al tempo stesso il superamento e la testi­
monianza, quasi il mezzo di liberazione dovesse essere altresì la riprova
della sua impossibilità e la via trovasse il suo senso solo nel porsi come
la negazione di se stessa, come una non-via, uno sviamento. Sul «ves­
sillo di Robinson» Kafka non ha scritto né la volontà di distruggersi,
né quella di conoscersi, ma quella volontà di un conoscersi che è un di­
struggersi perché solo in questo modo è possibile «diventare quel che si
è»: «Conosci te stesso non significa: Ossèrvati! Ossèrvati è la parola del
serpente. Significa: Fatti padrone delle tue azioni. Ma tu lo sei già, sei
padrone delle tue azioni. Questa frase pertanto significa: Ignorati! Di­
struggiti ! Dunque una cosa cattiva. E solo chi si china profondamente
ne ode anche il messaggio buono, che dice: “Per fare di te stesso quello
che sei”» (Otto quaderni in ottavo).

220
Introduzione a Lettere a Milena1

Milena Jesenska (1896-1944) aveva ventiquattr’anni quando ha ini­


zio il carteggio con Kafka. Appartenente ad un’antica famiglia cri­
stiana del patriziato ceco rimane orfana di madre e vive col padre,
Jan Jesenskÿ, stimato docente universitario di ortopedia mascellare.
Spregiudicata, generosa, intelligente, dotata di temperamento artisti­
co, «promettente giornalista e scrittrice di valore», a giudizio di Max
Brod, aveva studiato medicina a Praga ed era entrata in contatto con
un circolo letterario, quello del Café Arco, dominato dalla persona­
lità di un ebreo tedesco, Ernst Pollak, che sposerà nel ‘ 18 contro il
divieto paterno. Trasferitasi, dopo il matrimonio, a Vienna, frequenta
la boheme letteraria del Café Herrenhof nel quale s’incontrano anche
amici e conoscenti di Kafka, tra cui Blei, Ehrenstein, Haas, Fuchs e
Werfel. Nel suo libro di memorie, Prigioniera di Stalin e di Hitler,
Margarethe Buber-Neumann, compagna di prigionia di Milena nel
Lager di Ravensbrück, ci dà una preziosa testimonianza del coraggio
e della dignità con cui questa sventurata reagiva alle atroci umilia­
zioni e sofferenze: la sua morte sopravvenne il 17 maggio 1944 in
seguito ad un intervento chirurgico. A Milena Kafka affiderà, agli ini­
zi di ottobre del 1921, i propri Diari, circa quindici grandi quaderni,
in aggiunta ai manoscritti della Lettera al padre e del Disperso. Nel
’22 Milena riceverà dalle mani dell’amico anche il manoscritto del
Castello, prima del loro ultimo incontro avvenuto presumibilmente
nel giugno del ’23.
L’amore per Milena nasce in Kafka quando già era entrata in crisi la
relazione con Julie Wohryzek conosciuta nel gennaio-febbraio 1919
nella pensione «Studi» a Schelesen: nell’estate di quello stesso anno
era avvenuto il fidanzamento nonostante l’opposizione paterna. Julie
era figlia di un calzolaio appartenente alla sinagoga di Prag-Weinber­
ge: «[...] appartiene» scriveva Kafka a Brod «alla razza delle commes­
se. Ma è coraggiosa, onesta, non ha una chiara visione di sé: qualità
grandi in una creatura che fisicamente non è certo priva di bellezza,
ma insignificante come, poniamo, il moscerino che vola contro la mia
lampada». I progetti matrimoniali di Julie, ai quali Kafka così «pro­
fondamente perduto in tutti i pericoli della letteratura» - come ebbe a

2 Introduzione a F. Kafka, Lettere a Milena, Mondadori, Milano, 1980; anche in F. Kafka,


Lettere, cit. (N.d.C.).

221
scrivere in una lettera ad una sorella di lei - si sentiva del tutto estra­
neo, andarono ben presto in fumo, ma la definitiva rottura del fidan­
zamento avvenne qualche tempo più tardi, il 4 luglio 1920, dopo che
Kafka le ebbe confessato la sua relazione con Milena. Quest’ultima,
conosciuta fuggevolmente a Praga, si era interessata ai primi racconti
di Kafka e alla fine del ’ 19 gli aveva espresso il desiderio di tradurre II
fochista che apparirà, nella sua versione in ceco, nella rivista «Kmen»
(«Der Stamm») il 22 aprile 1920. Kafka ammirava i feuilletons che
Milena andava pubblicando sulla «Tribuna» e sulla «Narodni listy» e
le aveva offerto il proprio aiuto finanziario per sollevarla dalle penose
condizioni in cui era venuta a trovarsi. Le prime lettere risalgono al
10 aprile del 1920 quando lo scrittore aveva preso alloggio a Mera­
no nella pensione «Ottoburg», ma già fin dall’inizio di quell’anno si
erano andati aggravando i sintomi del male. In una lettera da Merano
dell’aprile 1920, dove Kafka descrive la sua emottisi del 17 agosto
1917, è formulata una spiegazione del male che sotto l’apparenza iro­
nico-fantastica nasconde una profonda verità psicosomatica: «Ecco,
11 cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori
che gli erano imposti. Diceva: “Non ne posso più; ma se c’è ancora
qualcuno cui importi di conservare il totale, mi tolga un po’ del mio
peso, e si potrà campare ancora un tantino”. Allora si fecero avanti i
polmoni che, tanto, non avevano molto da perdere. Queste trattative
tra il cervello e i polmoni, che si svolgevano a mia insaputa, devono
essere state spaventevoli». Indubbiamente la malattia costituisce lo
sfondo immediato del carteggio: più che comunicazioni su possibili
progetti di lavoro si ha qui uno scambio di notizie sulle rispettive con­
dizioni di salute. Kafka è torturato dall’insonnia e dall’angoscia, ma
considera le sue sofferenze con distacco e talora persino con malinco­
nica indulgenza, con una singolare e inquietante familiarità, quasi la
malattia potesse offrire una sorta di protezione di fronte ad un orrore
assoluto. Ma su questo sfondo s’intrecciano altri motivi: il fallimento
matrimoniale di Milena, che pure ama il marito e non riesce a staccar­
si da lui, trova il suo corrispettivo nel difficile rapporto di Kafka con
la fidanzata Julie. Il personaggio di Milena emerge con prepotenza
dalle lettere che progressivamente si fanno più appassionate. All’im­
provviso Kafka passa a darle del tu, poi ritorna al lei, quindi usa nuo­
vamente il tu in uno splendido post-scriptum'. «Riapro la lettera. Qui
c’è posto: per favore dammi ancora una volta del tu - non sempre, non
lo vorrei nemmeno - ma ancora una volta» (lettera dell’ 1 l.VI. 1920).

222
La corrispondenza raggiunge la sua massima tensione all’indomani
dei quattro giorni (dal 30 giugno al 3 luglio 1920) trascorsi dai due
innamorati a Vienna e nei sobborghi del Wiener Wald. La breve sta­
gione meridiana di quest’amore durerà fino all’incontro di Gmünd al
quale seguiranno solo alcune visite di Milena a Praga; «visite a un
malato» - come ebbe a chiamarle Brod. Milena è agli occhi di Kafka
un’apparizione di «gioia», di «sicurezza», e di «pienezza» di fronte
alla quale sta «l’enorme stanchezza» di chi, come lui, evita addirittura
d’incontrarla, quasi atterrito da quella sovrabbondanza incontenibile e
vertiginosa di vitalità: «e ho paura e paura, cerco un mobile sotto il qua­
le posso nascondermi, prego tremando e fuori di me in un angolo perché
tu, come sei entrata rombante in questa lettera, possa volare di nuovo
dalla finestra, non posso tenere in camera un uragano».
Alla radice di questo rattrappirsi di fronte alle insistenze di Milena
che vorrebbe incontrare l’amato a Vienna, sta la tormentosa esitazione
di un uomo sopraffatto e lacerato (poco importerebbe, in fondo, che sia
più vecchio di dodici anni) che paventa «di fare un solo passo su questa
terra irta di tagliole» e mette spietatamente a confronto la propria «età»,
il proprio «essere consumato», la propria «angoscia» con la «gioventù»,
la «freschezza», il «coraggio» di lei.
A tutto questo si aggiunge la terribile eredità ebraica, il peso di una
condanna che si proietta sulla catena delle generazioni. Kafka ne è fin
troppo consapevole: «[...] io sono, per quanto io sappia, il più ebreo e
il più occidentale tra loro [gli ebrei occidentali], la qual cosa, espressa
con esagerazione, significa che non ho mai un momento di calma, che
nulla mi è donato e tutto deve essere acquistato, non solo il presente e
l’avvenire, ma anche il passato [...]» e ancora: «[...] non per nulla sei
ebreo e sai cosa sia l’angoscia».
Nel suo eccellente libro Kafka: Letteratura ed ebraismo, Giuliano
Baioni cita questa lettera per sottolineare l’importanza che la dichiarata
appartenenza di Kafka agli ebrei occidentali («il più occidentale di tutti
loro») assume sia nella definizione dei «termini etici ed esistenziali del­
la westjüdische Zeit secondo le categorie del cultursionismo europeo»,
sia per quanto riguarda il nesso identificabile in Kafka tra la letteratura
«o la condizione della letteratura» e l’ebraismo o più precisamente quel
compito di «portare il mondo sulle spalle caratterizzante il luogo e la
prospettiva dell’ebreo occidentale». Quel «punto d’Archimede» in cui
- come nota ancora Baioni - si precisa per Kafka la coincidenza della
condizione di scrittore con la sua «situazione di ebreo occidentale» fa sì

223
che egli viva «il problema dell’ebraismo quale si poneva nella cultura
mitteleuropea nei primi decenni del Novecento come una parabola della
condizione dell’uomo moderno». Proprio da qui si comprende la rilut­
tanza e la profonda estraneità di Kafka aH’«ottimismo militante dei suoi
amici sionisti». Egli infatti si sente «condannato a vivere la crisi storica
della westjüdische Zeit nei modi dissonanti dell’assurdo. La storia che
appare ai sionisti come un luogo messianico in cui il popolo ebraico può
finalmente redimersi dalla millenaria alienazione della vita diasporica
diventa ai suoi occhi un caos indecifrabile in cui i meccanismi burocra­
tici del mondo moderno si mescolano, in una contaminazione scanda­
losa per la ragione, con i frammenti insignificanti e insignificabili di un
passato irrecuperabile».
E evidente, quindi, che nel suo rapporto con Milena, diversamente
da quanto era accaduto nella relazione con Felice e Julie, di senti­
menti sionisti, o vicini al sionismo, Kafka cessa di «fare la parte del­
l’ebreo occidentale che vuole guarire» e si manifesta «senza ritegni e
senza pudori» per quell’ebreo occidentale che è, «si esalta nell’odio
per l’ebreo della crisi che ha in se medesimo». «Se così con Felice»
conclude Baioni che riconduce questo atteggiamento all’antisemiti­
smo tedesco «ha parlato sempre di letteratura, con Milena parla quasi
sempre di ebraismo.»
Si direbbe che poco alla volta, nel procedere del carteggio, Kafka
vada maturando uno stato d’animo diverso, quasi l’angoscia fosse sul
punto di allentare la sua presa feroce: si tratta forse solo di qualche
istante: ora è Kafka che ad onta delle riluttanze di Milena vorrebbe in­
contrarla a Vienna (lettere del 9 e del 30 luglio 1920). Si sente immerso
nel suo amore come in un flusso incontenibile e straripante che trascina
con sé l’amata («come il mare ama un sassolino sul fondo, proprio così
il mio amore ti inonda»): si sente miracolosamente conciliato col mondo
intero e vive nella certezza continua della presenza di lei, «abbagliato»
com’è dalle sue lettere. Ma ecco che ben presto ripiomba nell’angoscia
e nella disperata febbrile attesa delle risposte di Milena. Soltanto il 14
agosto 1920 i due riuscirono ad incontrarsi a Gmünd, piccola cittadina
austriaca di frontiera, ma già il 4 agosto, agli scrupoli di Milena che esi­
tava a raggiungerlo, Kafka aveva espresso la sua delusione con queste
parole: «Se ci fossimo incontrati, l’avrei dovuto esclusivamente a te,
tu dunque [...] hai anche per ciò il diritto di annullare questa possibilità
creata da te, non ne dovrei neanche scrivere, è soltanto che ho scavato
con tanta gioia questo stretto passaggio dalla buia abitazione fino a te

224
e che a poco a poco ho buttato tutto ciò che sono in questo passaggio
che forse [...] porta fino a te» [...], concludendo: «Alla fine scavo nuovi
passaggi, io, vecchia talpa».
Kafka è ormai certo che Milena non abbandonerà il marito e non si
trasferirà mai a Praga per vivere con lui. Comincia la parabola discen­
dente. Alcuni equivoci non sono privi di conseguenze ed hanno l’ef­
fetto di minare la già precaria stabilità del legame amoroso. Kafka si
lascia in qualche modo indurre dall’apparente analogia della posizio­
ne di Milena divisa tra lui e Pollak, a confrontarne la situazione con
quella di una sua compagna di scuola, Jarmila, nella cui vicenda ex­
traconiugale il marito di questa rimase coinvolto fino a morirne. Inol­
tre Milena rimprovererà all’amico di essersi lasciato andare, in alcune
conversazioni con l’assistente del padre di lei, ad indiscrezioni sulle
sue difficoltà economiche. Ma il motivo decisivo della separazione
forse è un altro: va cercato nel fatto che, come nota Brod, Milena non
era disposta a lasciare il marito e a vivere con Kafka, mentre questi,
dal canto suo, «non poteva accontentarsi di un surrogato di matrimo­
nio, dato che per lui il matrimonio quale comunione del destino con
moglie e figli significava il più santo coronamento della vita».
Questa è tuttavia soltanto una spiegazione ancora puramente psico­
logica che non può bastare. La fatalità del distacco si connette, in real­
tà, al modo di essere di Kafka che non riesce a uscire dalle contraddi­
zioni e dalle ambivalenze di un legame fondamentalmente dominato
dall’alone fantasmatico che si irradia da ogni lettera, tanto che le pa­
role di rottura, con cui invita Milena a non scrivergli più, riportate da
quest’ultima in una lettera a Brod, sembrano essere quelle definitive.
Del resto lo confesserà apertamente la stessa Milena ancora in una
lettera a Brod, come ella sia ben consapevole della propria impos­
sibilità di unirsi a Kafka: «[...] non ero in grado di abbandonare mio
marito e forse ero troppo donna per trovare la forza di assoggettarmi
ad una vita che sarebbe stata, sapevo bene, la più rigorosa ascesi fino
alla morte». Qualcosa aveva vinto sull’amore: il desiderio, in Milena,
di «una vita con un figlio, di una vita che sia molto vicina alla terra»
contraddiceva in guisa insanabile la «rigorosa ascesi» del suo compa­
gno, o, in altre parole, la sua complicità orrenda con i fantasmi. Una
complicità che lo porta all’amara conclusione: «E forse non è vero
amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei
per me il coltello con il quale frugo dentro me stesso».
Per comprendere fino in fondo questo atteggiamento gioverà forse

225
ricordare le parole rivolte da Kafka a Brod nell’aprile del ’21: «A
causa della mia dignità, a causa del mio orgoglio [...] posso eviden­
temente amare soltanto ciò che posso porre così in alto sopra di me
da essere inattingibile». Penetrare nei meandri di queste lettere che
«vengono dal tormento, inguaribile, procurano soltanto tormento, in­
guaribile» implica una serie di approssimazioni a cui non può essere
dato un esito definitivo. Si può prendere in considerazione, infatti, il
Leitmotiv di quella stanchezza che è inquietudine di una natura tutta
particolare («Del resto, in contrasto col medico, so che per guarire
alla meglio ho soltanto bisogno di riposo, di una specie particola­
re di riposo, o se vogliamo guardarla da un altro lato, di una specie
particolare d’inquietudine»), oppure il motivo della «paura», che si
rivela infine come «nostalgia di qualche cosa»: «[...] quest’angoscia»
scriverà Kafka «non è la mia angoscia privata - lo è anche, e pauro­
samente - ma è pure l’angoscia di ogni fede, da sempre». II problema
è sempre quello dell’uomo e dello scrittore che sono stretti l’uno al­
l’altro come in un nodo perverso. Come nelle parole dei suoi racconti,
così in quelle che Kafka rivolge, nelle sue lettere, alla donna amata,
c’è il tentativo di «comunicare qualcosa di non comunicabile, di spie­
gare qualcosa d’inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che
soltanto in queste ossa può essere vissuto». Questo tentativo implica
il superamento di una scissione, la realizzazione di un’integrazione
impossibile, ma Kafka, nella sua intierezza di uomo e scrittore, è pre­
cisamente questa impossibilità. Allorché scrive che la sua «natura»
è «angoscia», allude a questa inconcepibile stortura, a questo vuoto
incolmabile, a questo male allignante alle radici e l’angoscia non può
essere vinta perché ciò che dovrebbe o potrebbe vincerla trascende
la comprensione stessa. E Kafka è per l’appunto non solo ciò che
comprende di questa angoscia, ma anche e soprattutto ciò che non
comprende. Ecco la ragione per la quale il rovescio dell’angoscia è
una nostalgia di qualcosa alla quale non è possibile dare un nome. Lo
stesso amore, la stessa possibilità dell’amore diventa, a questo punto,
indicibile: forse è per questo che l’errore sta già nell’arretramento di
cui le lettere sono una involontaria testimonianza, in quell’esitazione
da cui nascono disperati richiami a cui non può essere data alcuna
risposta e che forse non vogliono una risposta, in quegli intermina­
bili inseguimenti al termine dei quali - come scrive lo stesso Kafka
- l’inseguitore diventa l’inseguito e viene dilaniato da se stesso («e gli
inseguiti strozzano il cacciatore», lettera a Milena del 3.VI. 1920).

226
L’estensore di queste lettere ci appare così come il personaggio
di un racconto, il protagonista di una storia la quale all’improvviso
si spalanca sotto i nostri piedi e diventa una infinita distanza tra due
rive. In quella distanza tra parola e parola, tra gesto e gesto, tra se­
gno e segno s’insinua la precarietà e la fragilità di ogni significato,
lo sgretolarsi del senso della stessa domanda e della stessa attesa, la
insensibile, ma inarrestabile trasformazione del sorriso in una smorfia
e del grido in un soffio appena percettibile. Milena aveva forse com­
preso qualcosa di tutto ciò, se scriveva a Brod ai primi di agosto 1920
parole di questo tenore: «Certo è che tutti noi siamo apparentemente
capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna,
nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel
pessimismo o in qualcos’altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asi­
lo che potesse proteggerlo. E assolutamente incapace di mentire come
è incapace di ubriacarsi. È senza il minimo rifugio, senza un ricovero.
Perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. E come
un individuo nudo tra individui vestiti».

227
APPENDICE

Una discussione aperta nella critica marxista


L’«umanesimo» di Kafka1
Pubblicati in Italia gli atti del convegno svoltosi a Liblice tre anni fa -
Contro l’«imbalsamazione» occidentale, il recupero dell’Autore da parte
della cultura marxista - Il realismo non integrato - La rivolta

A qualche interessato critico borghese, ghiotto di casi politico-letterari, il re­


cupero dell’opera di Franz Kafka da parte della cultura marxista dei Paesi so­
cialisti, dopo gli anni di «ghetto» nell’area degli scrittori «decadenti», potrà
sembrare un implicito riconoscimento dei limiti o addirittura, forse, dell’in­
sufficienza di una determinata metodologia critica. Ma se questo troppo sbri­
gativo denigratore si prendesse cura di leggere le varie relazioni e interventi
al convegno tenutosi nel maggio del ’63 a Liblice, presso Praga - questi atti,
già apparsi in edizione cèca nel 1963 e in edizione tedesca, Franz Kafka aus
Prager Sicht, nel 1965, ad opera della Accademia cecoslovacca delle Scienze,
sono oggi accessibili al lettore italiano nella traduzione quasi integrale che
Saverio Vertone ha curato per i tipi dell’editore De Donato, Franz Kafka da
Praga 1963 - si accorgerebbe che proprio dalla correzione di una prospettiva
storicamente connessa alla fase più acuta della guerra fredda e allo zdanovi-
smo dell’età staliniana, si è venuto determinando un fatto ben diverso. E cioè
che ancora una volta, attraverso le linee di una onesta autocritica, invero poco
familiare alla «spregiudicata» intellighenzia occidentale, si è andata «liberan­
do» quella caratteristica forza di presa sul terreno delle cose che è propria
dell’interpretazione marxista dei fenomeni culturali.
Si direbbe che l’aperta dinamica delle varie posizioni critiche emerse, anche
con vivaci contrasti e nette differenziazioni individuali, nel convegno di Libli­
ce sia riuscita a restituirci un’immagine di Kafka che, pur non potendo essere
ancora, ovviamente, conclusiva («la discussione continua ancora», osserva il
noto germanista cecoslovacco Eduard Goldstücker nella sua recente raccolta di
scritti kafkiani, Sul tema F. Kafka), fa giustizia degli intorbidamenti esoterico-
misticheggianti, delle sovracostruzioni aprioristiche, delle teorizzazioni misti­

1 Pubblicato su l'Unità, alla pagina 8 della Cultura, nel 1966 (N.d.C.).

229
co-cifrate con cui gran parte della critica occidentale ce l’aveva presentata da
trent’anni a questa parte (per una abbastanza recente e accurata rassegna della
sterminata bibliografia kafkiana cfr. Harry Järv, Die Kafka-Literatur, Malmö­
Lund, Cavebors, 1961).
Una conseguenza dell’avere «noi marxisti» - come denuncia Ernst Fischer
- per troppo tempo «abbandonato» Kafka al mondo borghese è stata appunto
quella della riduzione, spesso falsificante, della sua opera a fumoso ghirigoro
vuoto di significati umani, a una specie di metafisica rovesciata o inconsapevo­
le, trascrivibile in termini teologico-esistenziali (Kierkegaard, Barth) o, peggio,
in crittogrammi ontologici (Heidegger). Faticosamente, la critica occidentale
è riuscita ad abbandonare la via dell’interpretazione di derivazione brodiana o
per lo meno ad integrarla con l’altra di un’interpretazione «naturale», diretta
a verificare Kafka con Kafka stesso (una prova di quanto possa ricavarsi da
una chiara lettura dei testi kafkiani, collocati in una armonica polivalenza di
prospettive, la troviamo nel notevole contributo di Giuliano Baioni, pubblicato
dall’editore Feltrinelli).

Contrasto netto

Ma non v’è dubbio che la approvazione «occidentale» dell’opera di Kafka,


tendenzialmente diretta a stabilire una equazione nullificante tra il mondo
alienato dello scrittore praghese e la tematica centrale delle neoavanguardie
o della letteratura dell’assurdo (basterebbe pensare a Beckett), risulta essere
ancora una volta un’operazione ideologica mistificatrice, volta a congelare la
dinamica della lotta culturale in una paralizzante feticizzazione del kafkismo o
dei suoi «migliori» epigoni.
Bisogna guardarsi dall’equivoco di una contrapposizione troppo schematica
e quindi tendenziosa tra tesi illuminate ed aperte e tesi ottusamente conserva­
trici nel giudicare i risultati del convegno di Liblice, anche se, indubbiamente,
tra le tesi dei germanisti tedesco-orientali (Ernst Schuhmacher, Klaus Herms­
dorf, Helmut Richter e, in misura più conciliante, Werner Mittenzwei) e quelle
dei vecchi e giovani germanisti cecoslovacchi, polacchi, francesi, austriaci (da
Eduard Goldstücker e Ernst Fischer a Roger Garaudy, a Alexej Kusàk, Roman
Kars, Irina Popelova, ecc.) un contrasto abbastanza netto c’è, attestato altresì
dallo strascico polemico dovuto agli articoli di Alfred Kurella sul Sonntag e al la
risposta di Goldstücker e Garaudy (vedi II Contemporaneo, VI, 66, 1963).
Troppo semplicistico ci sembra però ridurre i termini critici del confronto tra
la tesi, poniamo, di uno Schuhmacher - in cui si distingue tra l’innegabile
validità artistico-formale della narrativa kafkiana e la problematicità del suo
inserimento nell’attuale stadio di costruzione della società socialista - e la
tesi, abbracciata dalla maggior parte dei convenuti di Liblice, secondo la
quale 1’«umanesimo» sostanziale di Kafka può e deve essere accolto come

230
elemento di stimolo e di contestazione dialettica anche nel quadro dei fe­
nomeni degenerativi dello stalinismo (burocratismo, culto della personalità,
conformismo settario).
Insistere su una contrapposizione rigida e alternativa tra queste due tesi po­
trà certo portare acqua al mulino dei malinconici apologeti pseudointellettuali
di un anticomunismo da sagrestia, ma non aiuterà in alcun modo a distinguere
tra lo spirito di un dibattito, quale quello di Liblice, carico di fermenti e di idee
dettate da esigenze diverse, ma concorrenti, di società in sviluppo, e la raffinata
anarchia di un mondo - quello occidentale - intellettualmente e moralmente
in disgregazione con la quale si nasconde, sotto 1’«apparenza» del movimento
(mode e «ismi»), un sostanziale immobilismo di pensieri e di cose. È certo
invece che proprio dall’incontro cecoslovacco è emersa un’indicazione quanto
mai importante sulla capacità della critica marxista di articolare i problemi
di metodo e di lettura interpretativa di un’opera così difficile come quella di
Kafka sulla base di un contesto reale che nella sua dinamica più profonda ec­
cede sia le analisi riduttive del sociologismo volgare, sia un incapsulamento
valutativo legato ad un’angusta definizione «classica» di «realismo».

Un discorso nuovo

Attraverso le stesse mediazioni stilistiche di una descrizione metaforica della


realtà è stato giustamente messo in luce quell’ostinato messaggio di lotta, quel­
la rivolta contro gli orrori di un mondo «contaminato» dal nulla che costitui­
scono la indistruttibile vocazione dell’«umanesimo» kafkiano. E a quel «nulla»
i critici marxisti hanno cominciato a dare un volto che non è solo quello della
putrescente agonia dell’impero asburgico o della nazista «macchina della mor­
te», ma anche quello della solitudine e del vanificarsi di ogni possesso interiore
nella disumana razionalizzazione tecnologica dello sfruttamento capitalista.
Un volto che poteva anche essere quello del burocratismo e del dogmatismo
negli anni del culto della personalità. Attraverso la coscienza di una crisi che
ha frenato la costruzione della società socialista, la critica marxista è anda­
ta aprendo un discorso nuovo in cui Kafka assume un rilievo determinante
non tanto per il suo contributo scientifico all’obbiettivazione critico-rivolu­
zionaria delle cause reali dell’alienazione, quanto per la fenomenologia dei
modi nei quali si presenta il mistero di un mondo alienato. Un mistero che
è anche, al limite, il mistero dell’uomo e del suo farsi e contraddirsi, del
suo «divenire», cioè, nel vasto e imprevedibile teatro della realtà non mai
positivisticamente o idealisticamente risolvibile in una formula conoscitiva
assoluta. E il marxismo, a Praga, ha dato prova, nella misura critica con cui
ha affrontato il tema Kafka, di saper «sopportare» anche il mistero, senza
sentirsi autorizzato ad esorcizzarlo come una volta si faceva con il diavolo
di medievale memoria.

231
In questo senso - è stato detto - l’opera di Kafka può essere istruttiva, giac­
ché essa involge una rivendicazione dell’uomo totale e una irriducibilità netta
ad ogni sua «integrazione». Se questo margine non colmabile - in cui la ne­
gazione espressa da un grande scrittore come Kafka diventa «negazione delle
negazioni» - è parte di una compiuta dimensione umana (e lo è), è chiaro che
la edificazione di una società autenticamente umana, nella quale è impegnato
il socialismo, non può considerare del tutto estranea a se stessa la faticosa
marcia d’avvicinamento compiuta da chi ha dato un senso creativo alla propria
sconfinata rivolta.

***

Il ‘recupero’ di Kafka2
Il nostro collaboratore Ferruccio Masini risponde oggi alla lettera di Save­
rio Vertone, curatore dell’edizione italiana del libro Kafka da Praga 1963
{editore De Donato), pubblicata martedì scorso su queste colonne (La criti­
ca marxista di fronte a Kafka).

Sono lieto che le mie osservazioni in margine alla recente pubblicazione, Kafka
da Praga 1963, curata da Saverio Vertone, abbiano dato a quest’ultimo lo
spunto per intervenire su una questione indubbiamente importante non soltan­
to per la cultura marxista. Vertone mi rimprovera d’aver tentato di giustificare
i limiti e gli schematismi della metodologia critica marxista contestando ai
«ghiotti» critici borghesi (e dicevo «ghiotti» per sottolineare la natura viscerale
della loro polemica) il diritto di considerare il recupero di Kafka da parte del­
la critica marxista, dopo il disgelo, come una implicita (o esplicita) denuncia
di un’insufficienza metodologica che ipnotizzata dalle parole d’ordine della
politica culturale si lascia sfuggire gli elementi originari ed autonomi di un
giudizio estetico.
Per la verità, questa mia diffidenza per la strumentalizzazione propagandi­
stica con cui la cultura borghese rivendica ad ogni momento contro le angustie
della letteratura e della critica di «tendenza» e contro gli errori e le discrimi­
nazioni di determinati orientamenti ufficiali dei Paesi socialisti la illuminata c
spregiudicata disponibilità delle libere istituzioni occidentali ha i suoi fondati
motivi. Non a caso (e vi faceva cenno lo stesso Goldstiicker nella sua recen
tissima conferenza alla Deutsche Bibliothek di Roma) il sospetto degli organi
responsabili nei confronti di Kafka prima del XX Congresso era in parte dovi!
to anche alla precisa collocazione ideologica assegnata dai critici borghesi alla
narrativa kafkiana intesa come estrema affermazione anarchico-individualista

2 Pubblicato su l’Unità, alla pagina 8 della Cultura, nel 1966 (N.d.C.).

232
e quindi come potenziale rifiuto di qualsiasi realizzazione del “singolo” nel­
l’ambito di una società “collettivista”.
Bisogna dunque intendersi sulle ragioni storiche che, se non possono certo
giustificare la preclusione burocratica nei riguardi di Kafka e il conseguente
ritardo nella conoscenza dell’opera (ma quando è stato veramente scoperto
Kafka dalla cultura occidentale?), sono comunque necessarie perché il proble­
ma della autocritica è parte integrante, a mio avviso, di una metodologia non
astratta e non feticizzata delle questioni letterarie, tanto che mi sembra una
caratteristica di questa metodologia come tale il suo progressivo arricchimento
nel senso di una comprensione dialettica, sempre più articolata e pregnante,
della realtà presente nelle grandi opere d’arte.
Quanto al problema sollevato da Vertone, se «il recupero estetico di uno
scrittore» debba o no avvenire «solo sulla base di un suo recupero politico»,
mi sembra che questa sia una questione superata , almeno al convegno di Li-
blice, perché in quella sede i germanisti marxisti non hanno condizionato il
recupero estetico di Kafka ad un recupero politico ma hanno mirato, sia pure
in tanta diversità di opinioni e di giudizi, ad una riappropriazione storica della
problematica kafkiana e ad una verifica della sua validità al di fuori di qualsiasi
paradigma politico pragmatico.
È evidente che una riappropriazione del genere non può mettere in luce, in
Kafka, determinati aspetti, ideologicamente rilevanti, del suo mondo creativo
o della sua tematica, ignorati e trascurati nelle loro ultime radici dalla critica
borghese. Che il convegno di Liblice abbia dato risultati solo parziali e abbia
offerto soltanto indicazioni può essere vero, ma è un fatto che la questione del
recupero di Kafka si è posta in termini globali, e non già come una ipocritica
assoluzione per insufficienza di prove del Kafka «decadente», bensì come una
linea di ricerca volta a determinare gli elementi autentici, anche per una società
socialista, della «decadenza» in Kafka. E chiaro che per un critico borghese
“disinteressato”, per il quale la storia della letteratura è una metafisica museale
soggetta ad operazioni puramente formali, non esistono e non sono mai esistiti
dubbi di pedagogia rivoluzionaria o più semplicemente di politica culturale su
Franz Kafka; in compenso egli è perfettamente aggiornato, sempre che l’indu­
stria culturale glielo consenta.
Che nei Paesi socialisti sia mancato un pronto aggiornamento sul grande
scrittore ceco e siano invece esistiti molti dubbi non esclude che oggi - e questo
mi sembra importante - critici «interessati» possano aggiornarsi discutendo
ancora una volta i loro dubbi e magari eliminandoli. Non credo che questo
significhi un volersi mantener digiuni ad ogni costo, perché - e Vertone deve
convenire - esistono molti modi diversi per sfamarsi.

***

233
Cinquant’anni fa moriva il grande scrittore
La verità di Kafka3
Un’opera che è tutta una grandiosa metafora e riesce a far emergere la
disumanità su cui sono costruiti i rapporti sociali nel mondo borghese

11 3 giugno 1924 si spegneva nel sanatorio di Kierling, presso Vienna, Franz


Kafka, uno dei più significativi scrittori in lingua tedesca di questo secolo.
Come è noto, la maggior parte delle sue opere narrative - tra cui campeggiano,
insieme a straordinari racconti, Il processo e II Castello - è stata pubblicata po­
stuma da Max Brod, l’amico cui Kafka aveva assegnato il compito di distrug­
gerla. La fama dello scrittore boemo (Kafka era nato a Praga il 3 luglio 1883 e
la sua era una famiglia ebrea benestante appartenente alla minoranza tedesca)
doveva diffondersi in Germania dopo il 1945, ma già l’eccezionaiità di questo
prodigioso, inquietante e disarmante stile narrativo aveva richiamato su di sé
l’attenzione della cultura occidentale. André Breton, nel ’39, aveva inserito La
metamorfosi nella sua Anthologie de l’humour noir.
Che significato può avere oggi, per noi, riproporre una lettura di Kafka sot­
tratta alle ipoteche delle mode o delle riduzioni ottusamente semplificatone
condizionate dall’industria culturale? Non senza motivo un insigne germani­
sta, Ladislao Mittner, aveva in un suo saggio di dieci anni or sono invitato a
leggere Kafka «senza kafkismi». Ma una nuova lettura di Kafka non implica
soltanto il necessario richiamo alla correttezza filologica di un procedimento
che preservi dalle mistificazioni o dalle sovrapposizioni la verità à la lettre
di un testo: d’altro canto neppure si esaurisce nella collocazione storiografica
dell’opera kafkiana all’interno di quella cultura mitteleuropea che aveva i suoi
centri vitali nella Vienna di Schnitzler e di Kraus, di Broch e di Musil come
pure nella Praga di Meyrink e di Kubin.
Una lettura di Kafka, ieri come oggi, resta comunque annodata, se non ad­
dirittura impigliata, al «problema Kafka». Si è fatta giustizia da tempo, proprio
nella contestazione delle interpretazioni univoche e sistematico-definitorie,
delle varie letture esistenzialiste o teologizzanti, per le quali Kafka rappre­
senta l’uomo della crisi, con tutto l’armamentario concettuale che ad essa si
riconnette (dal tema dell’angoscia e dello «spaesamento» esistenziale a quello
della colpa, ecc.). In questa prospettiva si è visto in Kafka non solo l’eterno
escluso dalla comunità dei padri (l’antica tradizione mistica della cabbaia), ma
anche lo sradicato ebreo-tedesco che ha a tal punto interiorizzato la diaspora
da radicalizzarla in una scissione tragica che non gli consente di trovare il suo
posto nel modello borghese di un’esistenza spregiudicatamente attiva, scettica
e calcolatrice (adombrata nella figura paterna), gli impedisce altresì di afferrare

3 Pubblicato su l’Unità - martedì 4 giugno 1974 (N.d.C.).

234
quell’«ultimo lembo del mantello della preghiera ebraica» che comporterebbe
una giustificazione religiosa della esistenza.
Il tentativo di recupero operato da alcuni studiosi marxisti nel convegno di
Liblice del maggio 1963 si è mosso in direzione opposta a questa linea inter­
pretativa e ha al tempo stesso fornito una serie di indicazioni utili in ordine al
riesame di un Kafka sottratto all’«appropriazione occidentale». Tra queste vale
la pena ricordare il richiamo alla necessità di articolare i problemi di metodo
e di lettura sulla base del contesto reale interno ed esterno all’opera kafkiana,
tale da eccedere nella sua dinamica più profonda sia le analisi riduttive del so­
ciologismo volgare, sia un incapsulamento valutativo legato ad un’angusta de­
finizione «classica» di realismo. In questa prospettiva d’indagine, che ha ormai
alle sue spalle la perentoria, anche se non priva di sottili sfumature, condanna
lukacsiana del «decadente Kafka», si colloca, per esempio, un recente studio di
Gerhard Bauer (nella rivista Alternative, 15, [1972], 84/85) che sottolinea l’in­
cidenza, sia pure sul piano astrattamente moralistico, nel quadro della lotta di
classe della irriducibile posizione dell’uomo kafkiano. La spirituale vicinanza
di Kafka al teatro jiddish negli anni 1911 -’ 12 è la spia - secondo Bauer - di una
solidarietà con quegli strati piccolo-borghesi i quali opponevano alla tendenza
propria del capitalismo monopolistico a declassare o a burocratizzare i ceti
emarginati, un’ostinata resistenza passiva, «topica», che aveva le sue radici
nelle memorie e nelle leggende dell’antica comunità ebraico orientale.
Giustamente Bauer vede a questo proposito utilizzato da Kafka un «modello
di comunicazione» astratto dalla concreta comunità ebraica e portato, per così
dire, «sotto il livello della sfera pubblica»: in questo modello si rende percepibile
la realtà di uno spietato «conflitto totale» (che è poi conflitto di classe) e del suo
inevitabile scacco. Ma è per questa strada che si può far pervenire a formulare
il problema di una lettura di Kafka in termini più avanzati. L’opera di Kafka
rappresenta, nel quadro dell’avanguardia concepita come crisi, sia pure ambigua
e contraddittoria, dell’ideologia borghese, una delle lacerazioni più profonde ri­
spetto all’assetto istituzionale della letteratura classico-umanistica: con la rottura
dell’armonia di «significanti» e «significati» viene messa in gioco la nozione
stessa di letteratura come depositaria di un mondo di valori («significati») attra­
verso i quali si mistificano - cioè si ideologizzano - le contraddizioni reali inse­
parabili dal modo di produzione capitalista. Lo stesso Kafka dichiarerà di aver
consapevolmente assunto il «negativo» del proprio tempo, di averlo affrontato
cioè attraverso la rappresentazione artistica ed è proprio sul piano di questa o, più
precisamente, del suo linguaggio allusivo, che deve disporsi una lettura di Kafka
diretta non tanto ad esplicitarne le cifre o le metafore, quanto piuttosto, a studiar­
ne la funzione. Una funzione straniarne, nel senso che costringe a obietti vare il
disumano su cui sono costruiti i rapporti sociali nel mondo borghese.
Scriveva giustamente Adorno: «L’inumanità dell’arte deve sopravanzare quel­
la del mondo per amore dell’umano [...] Essa ha preso su di sé tutte le tenebre

235
e la colpa del mondo; tutta la sua felicità sta nel riconoscere l’infelicità, tutta
la sua bellezza nel sottrarsi all’apparenza del bello [...] essa è veramente il
manoscritto nella bottiglia». Sotto questo aspetto l’opera di Kafka ci appare
come un’unica grandiosa metafora. Come tale essa non esorcizza il caratte­
re paradossale del disumano (che può essere subumano come anti-umano),
non lo distrugge, ma semplicemente lo trasforma, cioè lo dialettizza, così da
consentirgli di divenire lo schema, l’asse del racconto, il perno della sua mec­
canica, la cellula germinale del suo sinistro magnetismo. Il «manoscritto» di
cui parla Adorno non contiene il messaggio di un nichilista compiaciuto di se
stesso, ma solo la verità più torva e nascosta del «quotidiano» trasferita nel
linguaggio delle parabole, delle antiche cronache, delle enigmatiche leggende:
non già la consolazione di una divinità vissuta come mistico nulla, ma la lotta
infaticabile, contraddittoria e lacerante per «fecondare la malattia», per dare
alla terribile verità del quotidiano un senso diverso, vale a dire la premessa di
una liberazione reale.

Il «luogo» europeo di Franz Kafka4


Uno scritto postumo del valente germanista recentemente scomparso.
La grandezza dell’artista praghese consiste nella sconfìtta di ogni inter­
pretazione che ambisca a porsi come risolutiva e definitiva

Stiamo attraversando un pieno revival di Kafka non soltanto sul terreno della
letteratura critica e specialistica, ma anche su quello, non privo di approcci
significativi, delle «letture» in chiave personale, di un incontro che tende a
ricreare attraverso il medium dell’identificazione empatica o del racconto bio­
grafico l’esperienza viva di questo straordinario scrittore la cui grandezza va
colta proprio nell’inevitabile sconfitta di ogni interpretazione che ambisca a
porsi come risolutiva e definitiva. Insieme al bel libro di Citati {Kafka, Rizzoli,
1988), vorrei ricordare un’altra opera che s’inscrive nel cerchio di un’espe­
rienza volta a rivivere in qualche modo, con trepidante coraggio, il mondo di
Kafka nei suoi termini più sfuggenti e assolutamente problematici, che sono
anche all’origine di una fascinazione ininterrotta: mi riferisco al libro di Na­
dia Fusini, Due. La passione del legame in Kafka (Milano Feltrinelli 1988).
L’autrice è una anglista di primo piano sia per la solidità dei suoi contributi e
l’intelligenza spregiudicata e vivacissima che li sostiene, sia per la penetrante
acutezza di certe sue intuizioni che travalicano il gusto formale per la «lettera­
tura» (in ciò la sua vicinanza a Massimo Cacciali, l’unico studioso italiano di

4 Pubblicato in Europa 984, ottobre 1988, anno 5, numero 10 (N.d.C.).

236
Kafka a cui Fusini rimanda frequentemente in questo libro, è evidente). Indub­
biamente non può essere trascurato il fatto che questa vasta ripresa d’interesse
e di studi per Kafka (e oltre ai Neumann, Nutting, Binder, Canetti, Blanchot
e M. Robert ricordiamo anche quello di Giuliano Baioni, autore di un’opera
fondamentale, Kafka: Letteratura ed ebraismo, apparsa nel 1984) conferma
ancora una volta la decisiva preminenza di questo scrittore nel paesaggio della
letteratura europea del Novecento.
Il «luogo» europeo di Kafka è senz’altro Praga, la sua città natale. Come
la Vienna di Schnitzler e di Kraus, di Broch e di Musil, la Praga di Kafka
rappresenta il polo di una cultura mitteleuropea le cui estreme propaggini rag­
giungono l’intermezzo tra i due conflitti mondiali e, in certi casi, addirittura
l’esistenzialismo filosofico-letterario del secondo dopoguerra. Ma più che per
Rilke e Werfel, e indubbiamente in maniera diversa che per un Meyrink o un
Kubin, Praga rappresenta per Kafka un paradossale crogiolo di tradizione e
avanguardia, d’immaginazione demoniaca e di rigorosa amministrazione in­
teriore dell’incubo e dei suoi paesaggi reali: proprio questa «capitale del mi­
stero» - mai direttamente menzionata nei romanzi o nei racconti kafkiani - è
in essi presente come una oscura chiave problematica ed emblematica, con
le suggestioni della sua «aura stregata» e le bizzarrie un po’ spettrali dei suoi
eterni viandanti, questi funamboli dell’irreale che sembrano scivolare nei vico­
li del ghetto o arrampicarsi nella rarefatta solitudine delle torri. Ma il «prodi­
gio» dell’arte di Kafka sta appunto nell’aver assorbito tutta questa «preistoria»
fantastica e realistica e nell’averla trascesa con un eccezionale colpo d’ala che
lo distanzia infinitamente dalla Dekadenzliteratur della sua città natale, come
pure dai magismi orrifico-esoterici di un Meyrink o dall’estro malinconico e
spiritato dei pellegrini di Capek.
Kafka proveniva da una famiglia appartenente a quell’c/ùe benestante di
lingua tedesca la cui fisionomia era quella di una precaria isola etnica inca­
strata nella Altstadt ai limiti del ghetto. L’ebraismo - come già aveva opportu­
namente sottolineato Walter Jens e come risulta ampiamente dalla lettura del
libro di Baioni - costituisce un fondamentale termine di riferimento per inten­
dere Kafka: a questo humus, infatti, egli attinge la segreta forza attrattiva delle
sue «rotte» inconsuete su sconosciuti mari verso porti lontani e irraggiungibili.
Nel raccontare «per frammenti» la «storia universale» della propria «anima»,
Kafka fonde acribia talmudica e parabola chassidica, misticismo rabbinico e
rituale definitivamente secolarizzato: ma accanto al «numinoso» della leggen­
da va ricompresa in quest’orizzonte una straordinaria «veggenza» radioattiva
capace di scandagliare nelle pieghe più riposte dell’anima moderna, nel fondo
labirintico delle sue contraddizioni.
Se l’agonia dell’impero austro-ungarico può costituire l’orizzonte storico­
sociale più immediato dell’opera kafkiana, altre e ben più profonde sono le
stratificazioni di quel mondo borghese in cui quest’anima sembra smarrirsi

237
fuggendo le proprie allucinazioni attraverso nuove allucinazioni, sul filo di
prodigiose o orrende metamorfosi. Su questa soglia crepuscolare dove il fa­
scino simbolico del vecchio «mantello della preghiera ebraica» si è convertito
nella suggestione arcana della gnosi nichilista celata sotto il velo dell’ironia
o il compiaciuto inganno della parabola, le rovine di un mondo di significati
divenuti indecifrabili e assurdi mandano i loro stanchi bagliori a chi, come
Kafka, sta calato già nel «pozzo di Babele» e porta su di sé le ulcere di un
escluso, il marchio dello sbandito dal mondo dei padri. A costui non resta,
infine, che fecondare la propria malattia con i segni enigmatici di una scrittura
(«la capacità di descrivere la mia sognante vita interiore») divenuta pericolo­
samente estranea alle forme tangibili della salvezza e della prosecuzione di sé
attraverso una discendenza. Tuttavia è questo, più di qualsiasi altro, il «mes­
saggio nella bottiglia» portato fino a noi dalle onde tempestose e dalle mortali
bonacce di un tempo in cui scrivere può essere un’arma di lotta, ma anche
l’ultima «forma di preghiera» di chi non ha più alcuna fede.
«Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta - scrive Kafka -
portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. Con
questa - che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa - ho affrontato gagliar­
damente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino,
e che non ho il diritto di combattere, ma, in un certo senso, di rappresentare».
Da queste parole è possibile comprendere l’intreccio di «debolezza» e «for­
za» che sta alla base di una personalità di scrittore la cui latitudine soverchia
quella stessa estraneazione estetica dalla vita di cui un Homannsthal proiettava
il mistero stesso della décadence come un «sognare da desti». Gran parte del-
rintellighenzia europea poteva riconoscersi nella problematica saldatura tra
tradizione e moderno realizzata da Hofmannsthal, ma con Kafka l’esperienza
del «negativo» sembra trascendere la stessa prospettiva estetica e proiettarsi
nel dramma dell’uomo contemporaneo. Si direbbe che Kafka voglia dissolvere
in una sorta di ironica ambiguità la drammatica severità di un itinerario di sal­
vezza che nelle parabole e nelle leggende chassidiche viene presentato come
una fune tesa sovra uno stagno o sovra un abisso, un arduo cammino insidiato
dalle angosce e dalla terribile solitudine di chi osa percorrerlo. Ma a ben vedere
non si tratta semplicemente di una scettica diffidenza che riduce la «nobiltà»
spirituale di una «vera via» a un ridicolo equilibrio su una corda tesa rasoterra
- come scrive Kafka nelle Betrachtungen -: è un modo indiretto, questo, per
prospettare la «vera via» come una non-via, una via senza fine, una via nega­
tiva. La mèta di una via siffatta sempre e soltanto un «via-da-qui» (Weg-von-
hier): non una mèta dunque, ma la negazione di ogni mèta o, se si vuole, una
mèta per assurdo: il che non impedisce di pensare che in realtà esiste soltanto
una mèta e non una via per pervenirvi. La negazione della mèta riguarda così,
propriamente, la strada che dovrebbe condurre ad essa. Il via-da-qui rimanda
alla necessità non tanto di fuggire o di rinunciare al mondo, quanto di ricono­

238
scere che non esiste altro mondo se non quello spirituale: «ciò che chiamiamo
mondo dei sensi - dice Kafka - è il male di quello spirituale, e ciò che chia­
miamo cattivo è solo la necessità di un attimo nel nostro sviluppo, eterno».
Non bisogna dimenticare che un tratto fondamentale dell’ebraica adesione al
mondano permane in Kafka proprio perché non si ha, in lui, una svalutazione
dell’immanenza, bensì solo una sua assunzione nella prospettiva del «miraco­
lo» o in quella di un «residuo di fede» nel compimento dell’impossibile. Così
può accadere che nel passaggio da una vita all’altra, da una cella all’altra, «il
Signore si trovi per caso a passare per il corridoio, osservi il prigioniero e dica:
«Questo non lo dovete ricondurre in prigione. Lui viene da me».
Sottolineando la presenza nell’ebraismo di questa «mondanità per amore
del miracolo», Max Brod collegava questa possibilità dell’impossibile all’in­
finita importanza del mondo visibile, alla pienezza di senso che questo mondo
terreno ha per la spiritualità ebraica. Kafka non si allontana da questa valuta­
zione: solo che in lui il discorso sull’impossibile diventa più complesso e sot­
tile. La profondità del visibile è appunto costituita dalla realtà non-visibile, da
quella realtà da cui riceve luce la stessa contraddizione, sì che questa non viene
dialetticamente «tolta», ma «redenta», ricondotta, ciò, alla stessa dimensione
imperscrutabile del «profondo».
Potremmo dire, in conclusione, e questo ci sembra un punto d’avanzamento
ai confini dello stesso uomo contemporaneo che per Kafka è l’abissalità stessa
della contraddizione a far sì che essa cessi di essere tale: alla base della «nuova
kabbalà» sta l’enigma di una contraddizione che non è trascesa, ma sciolta
alla radice, quasi fosse lo stesso nulla del Sovraessente o la stessa «profondità
del nulla», per usare le parole di un ignoto cabbalista francese, David, figlio
di Abraham ha-Laban, a nientificarla. Si potrebbe cogliere proprio in questo
lavoro sulla contraddizione la genesi segreta della scrittura kafkiana concepita
come «descrizione» di ciò che non può essere descritto: di qui la sua risoluzio­
ne in «favole per dialettici» (W. Benjamin) o in parabole e la sua traslazione
negli elementi deformanti del mito.

Ferruccio Masini

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