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Il brano è tratto dal quarto capitolo dell’opera La coscienza di Zeno, terzo ed ultimo
romanzo compiuto di Italo Svevo pubblicato nel 1923.
Il passo è uno dei più importanti ed emblematici di tutto il romanzo, in quanto si raggiunge
il culmine della ambiguità e soprattutto della contraddizione riguardanti Zeno Cosini e la
sua vita. In tutto il capitolo IV in realtà emerge con evidenza come tutti gli avvenimenti
siano descritti dal punto di vista del sentire di Zeno, per il quale la morte del padre
rappresenta “l’avvenimento più importante della mia vita”… “una vera, grande catastrofe”
anche più grande di quella della madre, quando Zeno aveva pensato che la sua perdita lo
avrebbe portato a iniziare una vita dura e difficile, cosa che invece accadrà soltanto dopo la
morte del padre. Di fronte al padre malato infatti Zeno si accorge dell’affetto che lo lega a
lui, in contrasto con i precedenti rapporti che, pur non essendo apertamente conflittuali,
erano caratterizzati da reciproca diffidenza, da incomprensione ed estraneità: il padre lo
considera un incapace, un inetto; Zeno risponde con l’indifferenza e con l’ironia, persino
con il disprezzo: Zeno imputa al padre una rozza assenza di apertura mentale e di
problematicità, questi invece considera Zeno “una delle persone che più l’inquietavano in
questo mondo”, soprattutto per la sua disattenzione e per la “tendenza a ridere delle cose più
serie”. Il rapporto tra Zeno e il padre è un rapporto ambivalente: desiderio edipico della sua
morte, da un lato, bisogno di protezione e di sicurezza dall’altro e quando si accorge che sta
per perderlo è in preda all’angoscia e ai sensi di colpa.
Lo schiaffo con cui il vecchio lo colpisce prima di morire, probabile gesto involontario di un
moribondo, viene vissuto da Zeno come un’estrema punizione, che alimenta ulteriormente i
suoi rimorsi. Egli si sente come un bambino punito per un gesto che non doveva compiere
ma che ha deliberatamente compiuto e ora, pentito per le sue azioni, invoca il suo perdono.
Questo sentimento è rafforzato dalle parole dell’infermiere che, raccontando l’accaduto a
Maria, la domestica, attribuisce al padre del protagonista un’estrema volontà consapevole di
punirlo. Il rimorso perdura nel tempo, nonostante l’apparente riappacificazione postuma
davanti al feretro. A Zeno resta per tutta la vita il dubbio di aver ricevuto una punizione
finale da parte del padre morente, anche se, nei ricordi seguenti, i suoi rapporti col padre gli
appaiono ormai in una luce positiva. Nonostante ciò in un primo momento egli si sente
colpito più nello spirito che nel corpo e immediatamente tenta di trovare una giustificazione
per quel gesto così improvviso e inaspettato di suo padre e tenta di convincersi che quello
era il gesto involontario di un uomo in fin di vita, come probabilmente era: “era escluso che
mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua
mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia”. A questa apparente giustificazione
seguono comunque i sensi di colpa soprattutto riguardanti la sua vita e i suoi rapporti mai
ottimali con il padre e quindi arriva anche a pensare che in realtà il gesto era stato un ultimo
atto volontario del genitore morente, ma tra queste due possibili alternative Zeno stesso non
sa quale considerare veritiera e questa perplessità lo tormenta a tal punto che egli non volle
più vedere il corpo senza vita del padre per evitare di fare i conti con questo dubbio
assillante; soltanto alla fine quindi si giunge a una pacificazione interiore tra i due con Zeno
che si riconosce come lo aveva sempre etichettato suo padre, un inetto: “io divenuto il più
debole e lui il più forte”. Anche sul piano stilistico viene resa questa contrapposizione che
porta Zeno a descrivere il corpo esanime del padre come se fosse ancora pronto in ogni
momento a punirlo e rimproverarlo per le sue azioni: “giaceva superbo e minaccioso...le sue
mani grandi, potenti parevano pronte ad afferrare e punire” ed è proprio a causa di questa
colpa interiore che il protagonista decide di non vedere più quel corpo. Soltanto alla fine
durante il funerale avviene un sorta di riappacificazione almeno superficiale tanto da
“ricordare mio padre debole e buono” ( con tutta una serie di vocaboli legati alla sfera della
“bontà”) che è il motivo per cui in fondo Zeno perdona suo padre per l’accaduto
considerandolo un gesto involontario e privo di peso, anche se il protagonista non potrà mai
pensarla così al 100% a causa dei suoi 1000 dubbi e perplessità legati alla sua inettitudine.