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ITALO SVEVO 5

Ci troviamo alla fine della Coscienza, in un capitolo che è completamente diverso da tutti gli altri. Finora
Zeno scriveva per terapia, seguita senza condizione ma decide di smettere la cura.
“Non sono mai guarito perché non sono mai stato malato.” È una delle frasi paradossali che dice.
E c’è quest’ultimo capitolo, chiamato “Psicanalisi” che è un capitolo fondamentale nel romanzo europeo del
Novecento. Scritto in maniera completamente diversa da tutti gli altri, segue una forma diaristica del giorno
(una curiosità della Coscienza è che, in maniera sveviana, tutte le date sono sbagliate).
Ci troviamo nello stesso luogo e nello stesso tempo dell’Allegria di Ungaretti e quando faremo Ungaretti ci
troveremo davanti ad una sorta coincidenza: il fiume Isonzo che segnava la costiera tra il territorio italiano e
quello austro-ungarico, siamo nel carso della prima guerra mondiale, in agosto del 1916, trova sulla riva
delle sue acque un tenente che decide di non sparare e farsi poeta: Ungaretti lungo quella riva scriverà la
poesia “I fiumi”; e un personaggio, che è Zeno Cosini, che si trova in qualche modo tagliato fuori dalla
storia e convinto che non scoppierà mai la prima guerra mondiale va rassicurando tutti i contadini che
incontra (lui è lì in villeggiatura,in un posto che si chiamava Lucinico, dove va con la moglie e la figlia ) e
invece ad un certo punto dirà: “la guerra mi ha raggiunto”. La Prima guerra mondiale gli si chiude alle
spalle, si trova di fronte dei soldati che gli chiederanno di tornare indietro perché non può più oltrepassare
(l’ormai) fronte di guerra. E lui trova tagliato fuori dal tempo. A Trieste si troveranno la moglie e la figlia,
irraggiungibili, e lui si trova in questa specie di zona “fuori” dalla storia. E sulle rive dell’Isonzo decide di
operare il raccoglimento. (Userà questa parola fondamentale che noi troveremo in moltissima narrativa del
Novecento anche ne “L’uomo senza qualità” di Musil, ad esempio, e che è un po’ il senso della letteratura
del Novecento.) “Raccogliere”: che è anche “Cogliere”. “Recuperare” tutto ciò che rimane ai margini, che
ora ha perso peso, che fa parte di quel lato dell’essere umano considerato ormai superato dalle magnifiche
sorti progressive della nuova tecnica, opera un raccoglimento su carta.
Questo l’aveva già detto nelle pagine all’inizio della Psicanalisi, quando aveva deciso comunque di scrivere
malgrado avesse interrotto la terapia. Egli dice che vuole operare un raccoglimento per se stesso, senza più il
dottore. Zeno svuota dall’interno qualsiasi interpretazione psicoanalitica ma non smette di scrivere, anzi dice
che questa finalmente è la scrittura per lui, in cui compie un raccoglimento per lui stesso, inizia una pratica,
(che percorrerà tutto il romanzo novecentesco) un uomo curvo sulle proprie carte che raccoglie su quelle
carte un mondo lasciato ai margini e lo fa entro questo unico tempo rimasto all’uomo, quello del giorno per
giorno; quello che Montale chiamerà “lo scialo di triti parte”. Cose che si consumano e si perdono, entro la
fine della giornata. In una rivoluzione terrestre si completa tutta la possibilità che ha l’uomo di tempo.
Troverete la scrittura novecentesca scandita da diari. L’ultima raccolta poetica di Montale si chiama “Diario
del ‘71 e ‘72”. Similmente farà Vittorio Sereni.
Dobbiamo stare attenti a questo tipo di scrittura, la pagina di diario, è proprio il tono dello scrittore che
canta, e infatti l’embrione del “Vegliardo”, la prima volta che compare questa figura di Zeno invecchiato, è
proprio nell’ultimo capitolo della Coscienza, quasi alla fine della Coscienza, compare la vera essenza di
Zeno Cosini, il vecchio.
Zeno, invece di fare questo tipo di cammino fuori dal tempo, si accorge di qualcosa per lui gravissima, cioè
è da molto tempo che lui non desidera le donne. Allora si chiede se quel maledetto dottore fosse riuscito a
guarirlo, è terrorizzato da quest’ipotesi di essere guarito, perché vorrebbe dire smettere di desiderare la
guarigione e quindi smettere di vivere. Vita per Zeno Cosini è malattia, e malattia significa desiderio. Se io
desidero sono malato e quindi sono vivo. Senza malattia la vita non è; Ci troviamo di fronte a una situazione
paradossale. Zeno che si accorge che è tantissimo tempo che non è attratto da una donna, deve mettersi alla
prova, vuole controllare di essere ancora malato.
Cerca un corpo femminile di una ragazza, ma oltre Lucinico, tra una guerra e i contadini chi potrebbe mai
trovare?
Egli trova praticamente quasi una bambina. Il suo colono, perché questi proprietari terrieri avevano dei
contadini che lavoravano il terreno quando non c’erano, aveva dei figli, di cui una appena nell’età della
pubertà, Teresina. (quel tanto che basta a Zeno per poterla considerare donna e mettere alla prova i propri
desideri)
Teresina è una figura importantissima nella Coscienza, non è doppia, tutti sono invece doppio. Il suo doppio
ci sarà nelle Continuazioni, nella figura di Felicita, l’ultimo amore di Zeno, ormai vecchio.
Nell’ultimo capitolo troviamo la caratteristica fondamentale del vecchio che scrive, personaggio chiave nel
Novecento, ha a che fare con il rapporto tra cecità e visione, visibile e non visibile, tra luce e ombra.
Zeno è sul bordo dell’Isonzo, nel bel mezzo del raccoglimento, si accorge di non desiderare più le donne. È
colpa della cura se egli ora si deve mettere alla prova con una bimba che sta cominciando a diventare donna.
Teresina arriva con un asinello, dunque Zeno cerca un contatto, di accarezzare la bambina passando per
l’asino, dopodiché le dà cento corone. Teresina fu stupita del ricco dono e accuratamente sollevò il
gonnellino per posare il pezzo di carta. Così Zeno vide un ulteriore pezzo di gamba.
La pelle abbronzata era un difetto a quei tempi.
Comprende di non essere guarito ancora. Aveva cessato la cura in tempo.
Teresina procede avanti lasciando Zeno solo.
Ridendo di cuore perchè io restavo lieto anche se la villanella non voleva saperne di me, le dissi: —
Hai lo sposo? Dovresti averlo. E’ peccato tu non l’abbia già!
Sempre allontanandosi da me, essa mi disse: — Se ne prendo uno, sarà certamente più giovane di lei!
La mia letizia non s’offuscò per questo. Avrei voluto dare una lezioncina a Teresina e cercai di
ricordarmi come da Boccaccio «Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna la
quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare». Ma il ragionamento di Maestro Alberto non
ebbe il suo effetto perchè Madonna Malgherida de’ Ghisolieri gli disse: «Il vostro amor m’è caro sì come di
savio e valente uomo esser dee; e per ciò, salva la mia onestà, come a cosa vostra ogni vostro piacere
imponete sicuramente».
Tentai di fare di meglio: — Quando ti dedicherai ai vecchi, Teresina? — gridai per essere inteso da lei
che m’era già lontana.
— Quando sarò vecchia anch’io, — urlò essa ridendo di gusto e senza fermarsi.
— Ma allora i vecchi non vorranno più saperne di te. Ascoltami! Io li conosco!
Urlavo, compiacendomi del mio spirito che veniva direttamente dal mio sesso.
Svevo qui ricorda una novella di Boccaccio, che narra di un vecchio legato ad una giovane.
Questa è la prima volta che Zeno si sente parte della vecchiaia. “Desideravo ed ero vivo.”
In quel momento, in qualche punto del cielo le nubi s’apersero e lasciarono passare dei raggi di sole che
andarono a raggiungere Teresina che oramai era lontana da me di una quarantina di metri e di me più in
alto di una decina o più. Era bruna, piccola, ma luminosa! Il sole non illuminò me! Quando si è vecchi si
resta all’ombra anche avendo dello spirito.
“Il vegliardo” è nato. Ce l’abbiamo sotto gli occhi. La vita che si allontana, illuminata in alto come Teresina,
ma solo lì la luce. Essere vecchi vuol dire stare nell’ombra, anche se si ha dello spirito: Inizia esattamente
così la scrittura delle “continuazioni”, Zeno ha ormai settant’anni, è fino in fondo vecchio, e si accorge che
l’unica cosa che può dire vita era quella fissata nelle pagine che aveva scritto per la terapia, per la cura di un
certo dottore (ci sta parlando della Coscienza di Zeno).
A casa dicono che borbotto, allora io borbotterò su carta e cercherò di portare avanti questa pratica della
scrittura che consente a tutta la vita di essere letteraturizzata, perché è questa la preda della strategia del
ragno.
Se la scrittura di Svevo è un ragno che tesse la tela per poter ancora afferrare questa vita, scambiare vizi e
germi con essa, la preda è una vita disposta a farsi letteraturizzare, abbassare quell’ordigno della penna e ad
essere schizzoide, ammalata.
Dopo la crisi novecentesca con i maestri del sospetto (dove non esiste più un io o una realtà), ci si trova
dinanzi a un universo ambiguo, ambivalente, dove le contraddizioni vanno bene e la verità non è più
raggiungibile. Ma gli opposti stanno l’uno accanto all’altro, come gli occhi strabici di Augusta (che sono gli
occhi strabici di Svevo), nel mondo sdoppiato si può solo stare al centro fra gli estremi tentennando e
barcollando. Non c’è la possibilità di equilibrio nel centro, la cosiddetta vita sana. E’ un universo doppio
dove la contraddizione non diventa più la sintesi hegeliana e questo ci ripete il “Vegliardo”. Tutte le
contraddizioni restano aperte.
Eduard Sajid, il critico già nominato per la pratica umanistica, essere testimoni del mondo dei margini, ha
scritto “Stile tardo”, in cui parla di questa vecchiaia che non è la saggezza olimpica in ci tutti si compone,
bensì il contrario, è un punto di vista che lascia aperte tutte le contraddizioni, è una maturità inconciliata,
disarmonica, intempestiva, come è Zeno, che borbotta, che è intempestivo, che dall’ultimo capitolo della
Coscienza è rimasto fuori dal tempo. Tutta la letteratura novecentesca del modernismo è in stile tardo.
4 aprile del 1928 è la data in cui la penna-ordigno viene ripresa fra le mani, del ricominciamento. Con
questa data comincia per la professoressa Acocella l’era moderna.

Con questa data comincia per me un'era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualche cosa
d'importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta: La descrizione da me fatta di una sua parte.
Certe descrizioni accatastate messe in disparte per un medico che le prescrisse.
So che quella parte che raccontai non era importante ma si FECE la più importante.
Ed ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! L’unica parte importante della
vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita
sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà
annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera.
Io voglio scrivere. Ancora. Voglio scrivere, perché se ancora un uomo ha ancora possibilità di humanitas è
quella penna in mano. Questo ci insegna Zeno.
In queste carte metterò tutto me stesso la mia vicenda. In casa mi danno del brontolone. Li sorprenderò.
Non aprirò più la bocca e brontolerò su questa carta.
La vita di Zeno, ora che siamo nel Vegliardo, si è semplificata (come nella coscienza il matrimonio era più
semplice del fidanzamento).
Mi mancano quegli sciocchi rimorsi, quelle spaventose paure del futuro. Come potrei spaventarmene? È
quel futuro quello ch’io vivo.
Egli annuncia che gli mancano le paure del futuro perché lui sta vivendo quel futuro una volta che si è
sposato con Augusta e che è invecchiato. È finito in quella paura della sua vita, il deperimento dell’essere
storico, l’essere caduti in un tempo che non è progresso ma consuma. Ci è cascato dentro. E’ vecchio
davvero e non ne ha più paura, si trova dinanzi ad un tempo che ha subito la mutazione del futuro, un
progresso. Il tempo va via senza prepararne un altro, lui vive fuori dal tempo, non è presente quello che vive.
e passò alla vecchiaia di cui la caratteristica principale fu di farmi entrare nell’ombra e togliermi la parte
di protagonista.
La caratteristica principale della vecchiaia è togliersi la parte da protagonista e uscire dall’ombra. Questo
rappresenta l’inizio del nuovo mondo, così come sottolinea Lavagetto.
(la scena ci conduce esattamente al rapporto luce ombra visto nell’ultimo capitolo della Coscienza)
La vecchiaia è stata nell’ombra in un tempo fuori dal tempo che ha subito la mutazione del futuro. Il suono
della voce solo un basso borbottio. Il vegliardo è restare nell’ombra pur avendo dello spirito. Il tono di voce
che cominciamo a conoscere è sorprendentemente malsano.
Leggendo le Continuazioni vediamo alcuni episodi che riprendono molto da vicino l’episodio di Teresina.
Zeno, ora, si sente vecchio, sente che tutto è molto distante da lui.
Sajid parla di uno stile tardo, di opere che lasciano alle loro spalle le macerie e comunicano attraverso i vuoti
dai quali prorompono. È il Vegliardo, ci sta parlando attraverso il vuoto lasciato dalle cose belle della vita.
Le cose vanno via senza che niente le sostituisca.
La cosa avvenne quest'anno, nell'aprile che ci apportava uno dopo l'altro dei giorni foschi, piovosi, con
brevi interruzioni sorprendenti di sprazzi di luce e anche di calore. (..)
In piazza Goldoni, lui sta assonnato, hanno fatto un viaggio e lui è stanco, c’è l’eterna Augusta.
In piazza Goldoni fummo fermati dal vigile e mi destai. Vidi allora avanzarsi verso di noi e, per evitare altri
veicoli, accostarsi al nostro fino a rasentarlo, una fanciulla giovanissima vestita di bianco con nastrini
verdi al collo e strisce verdi anche sulla leggera mantellina aperta, che in parte copriva il suo vestito pur
esso di un bianco candido interrotto come sulla mantellina da lievi tratti di quel verde luminoso. Tutta la
figurina era una vigorosa affermazione della stagione. La bella fanciulla! L'evidente pericolo in cui si
trovava la faceva sorridere mentre i suoi grandi occhi neri spalancati guardavano e misuravano. Il sorriso
faceva trapelare il biancore dei denti in quella faccia tutta rosea. Alte teneva le mani, al petto, nello sforzo
di farsi più piccola, e in una di esse c'erano i guanti morbidi. Io vidi esattamente quelle mani, la loro
bianchezza e la loro forma, le lunghe dita e la piccola palma che si risolveva nella rotondità del polso. E
allora, io non so perché sentii che sarebbe stato crudele che l'attimo fosse fuggito senza creare alcuna
relazione fra me e quella giovinetta. Troppo crudele. Ma bisognava far presto e la fretta creò la confusione.
Ricordai! C'era già tale relazione fra me e lei. Io la conoscevo. La salutai piegandomi verso la lastra per
essere visto, e accompagnai il mio saluto con un sorriso che doveva significare la mia ammirazione per il
suo coraggio e la sua giovinezza.
Ai vecchi resta fare meravigliosi sorrisi, l’ultimo esercizio selvaggio.
Subito poi cessai il sorriso ricordando che scoprivo il tanto oro che c'era nella mia bocca e restai a
guardarla serio e intento. La giovinetta ebbe il tempo di guardarmi con curiosità, e rispose al saluto con un
cenno esitante che rese molto compunta la sua faccina da cui era sparito il sorriso e che così cambiò di luce
come se fra lei e i miei occhi si fosse frapposto un prisma. Augusta aveva portato l'occhialino agli occhi
subito quando aveva temuto di veder finire la giovinetta sotto ad un'automobile. Salutò anche lei per
associarsi a me, e domandò: – Chi è quella giovinetta? Io proprio non ne ricordavo il nome. Ficcai gli
occhi nel passato col vivo desiderio di ritrovarcelo e passai presto di anno in anno, lontano, lontano. La
scoprii accanto ad un amico di mio padre. – La figlia del vecchio Dondi – mormorai malsicuro. (..) Augusta
fece cessare tale sogno sconvolto con uno scoppio di risa: – La figlia del vecchio Dondi a quest'ora ha la
tua età. Chi dunque salutasti tu? La Dondi era di sei anni più vecchia di me. Ah! Ah! Ah! Se fosse capitata
qui, invece di sorridere del pericolo, come faceva quella giovinetta, traballando e zoppicando sarebbe finita
sotto le nostre ruote. Anche ora la luce di questo mondo si alterava come se mi fosse improvvisamente
pervenuta attraverso ad un prisma.
E’ l’effetto “Teresina” questo prisma. Luce e io nell’ombra.
Non subito m'associai al riso di Augusta. Ma bisognava! Altrimenti avrei rivelato l'importanza della mia
avventura e sarebbe stata la prima volta ch'io ad Augusta mi sarei confessato. – Già, già, non ci pensavo.
È la prima volta che noi ascoltiamo davvero la voce di Zeno, egli ha sempre dissimulato, ora in questo
spazio che si è creato, al di qua del prisma, trova il modo di non dissimilare più.
Tutto si sposta ogni giorno un pochino, ciò che in un anno fa molto e in settanta moltissimo. – Poi ebbi una
parola sincera. Fregandomi gli occhi come chi ha dormito aggiunsi: – Dimenticavo di essere vecchio io
stesso e che perciò tutti i miei contemporanei son vecchi. Anche quelli ch'io non vidi invecchiare e anche
quelli che restarono celati e non fecero mai parlare di sé, non sorvegliati da alcuno, ogni giorno pur
invecchiarono. –
Dentro la macchina narrativa di Zeno Cosini tutto finisce deformato dal prisma della vecchiaia, così dice
Lavagetto. Tutto il tempo consuma ma c’è un punto di appoggio che consente un paradossale equilibrio a
Zeno vecchio, la penna, l’ha ripresa in mano, egli si sente già meglio.
Per capirlo dobbiamo recuperare un alcolizzato che adorava il melodramma e che la notte passa sotto la
finestra di Zeno a cantare. E Zeno dice che si è distaccato dalla vita molto prima di me, e lo descrive eletto
nella notte, ha trovato il suo punto di equilibrio, perché paradossalmente si capisce che cade all’ indietro, e
se tutto il mondo sta precipitando in avanti, se è un continuo precipizio, noi siamo gli unici che restano in
equilibrio cadendo all’indietro, recuperando la penna, l’ordigno attraverso il quale passa la vita disposta a
diventare letteraturizzata.
E come quell’ubriaco, anche il vegliardo resta eretto in un mondo che precipita. Non ha più il suo violino.
Augusta, mettendo a posto, ha deciso di portarlo in cantina, e al suo posto c’è un grammofono, con cui egli
sente la nona di Bethooven, una sinfonia dove tutto sembra in disordine, e ci son dei vuoti, e in cui compare
la voce umana, è lo stile tardo.
(una pagina importantissima Pagina 1213 edizione meridiani.)
Attenzione ai vuoti; le cose vanno via senza essere sostituite, restano i vuoti. La nona di Beethoven conta
per Sajid per i silenzi, non per le note. Questa pagina nasce dalla definizione del vecchio che dà un dottore a
Zeno. Lui parla della bella figura retorica del dottore Raulli che dice che il corpo del vecchio resta in piedi
perché non sa da che parte cadere. Nel vecchio ogni tanto muoiono nei pezzi, ci sono degli organi decaduti
(che non funzionano più), come nella nona di Beethoven, e la parte viva si porta dietro la parte morta. Il
Raulli per spiegare a Zeno come certe parti del suo corpo non funziona più, prima di tutto l’apparato
sessuale, conia questa figura del vecchio tentennante, questa è la definizione della vecchiaia, sta in piedi
perché non sa da che parte cadere. È un’immagine straordinaria che ha proprio a che fare con lo stile tardo e
con quel paradossale modo di stare eretto mentre tutto cade. Il vecchio tentennante inventato da Italo Svevo,
così si sta in piedi. Una parte viva che si fa carico della parte morta, o una parte morta che riequilibra quella
che ancora si vede piena; è un borbottare, il vecchio fa uno sforzo di luce che illumina un paesaggio in
sfacelo, è uno sforzo di luce che nasce dall’ombra del vegliardo e dal suo equilibrio. E allora c’è l’ultima
pagina che il vegliardo scrive (pagina non numerata, perché Lavagetto l’ha girata dall’altro lato). Ci
troviamo di fronte alla notte in cui Zeno va ad addormentarsi e Augusta ha i capelli nella retina, e russa,
dettaglio che gli fa ricordare che orribile macchina è il corpo umano. Zeno si infila nel letto con questa
Augusta addormentata e dice che protesta (perché è la via più rapida alla rassegnazione) ma qui è rimasto il
vertice della letteratura di Svevo. (Qui il vegliardo, il Faust rovesciato, di Goethe, non sarà raggiunto da
Mefistofele.)

È l’ora in cui Mefistofele potrebbe apparirmi e propormi di ridiventare giovine. Rifiuterei sdegnosamente.
Lo giuro. Ma che cosa gli domanderei allora io, che non vorrei neppure essere vecchio e che non desidero
morire? Dio mio! Com’è difficile di domandare qualche cosa quando non si è più un bimbo. È una fortuna
che Mefistofele per me non si scomoderà. Ma se pur avvenisse ora che debbo attraversare il corridoio buio
per recarmi a letto gli direi: Dimmi tu che sai tutto quello che debbo domandare. E gli abbandonerei
l’anima solo se m’offrisse una cosa molto nuova, una cosa che mai conobbi, perché non vi sono giorni della
mia vita che vorrei rifare ora che so dove mi condussero. Non verrà. Io lo vedo seduto nel suo inferno che si
gratta la barba imbarazzato. Ecco che debbo a queste annotazioni il conforto di ridere al momento di
recarmi a letto. E Augusta borbotterà destata solo a mezzo: Ridi sempre tu, anche a quest’ora. Beato te.

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