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Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade.

Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro


(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

2. La proposta del “Chisciotte”

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Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

LA MORTE DI DON CHISCIOTTE E LE ARTES BENE MORIENDI

Il capitolo finale del Quijote (II, 74) ha sempre attirato l’attenzione dei critici. Si tratta, in effetti,
di un momento di particolare intensità, innanzi tutto per i lettori, che assistono alla fine del
personaggio con cui da tempo convivono, e le cui avventure hanno seguito passo a passo. Ora il
personaggio che hanno imparato ad amare muore: con che conseguenze per il suo patrimonio
ideale? La morte travolge anche i valori in cui don Chisciotte ha creduto?
L’importanza di queste pagine per la comprensione di tutto il romanzo emerge anche
dall’attenzione che hanno dedicato loro, nei propri percorsi cervantini, gli scrittori.
Turgenev, nel saggio del 1860 in cui confronta Amleto e don Chisciotte (Hamlet i Don-Kichot)
vedendo in loro la proiezione, rispettivamente, di chi pensa l’ideale e di chi lo vive, dell’egoista e
del generoso, contrappone la morte dello scettico principe danese, e quella del cavaliere manchego,
notando come anche nel momento supremo essi siano perfettamente simmetrici:

E Amleto e don Chisciotte muoiono in modo commovente; quanto è differente la loro morte!
Bellissime sono le ultime parole di Amleto. Egli si placa, ordina ad Orazio di vivere, la sua ultima
parola, prima della morte, è in favore del giovane Fortebraccio, il rappresentante del diritto alla
successione, non macchiato di nulla. Ma lo sguardo di Amleto non si rivolge in avanti… “Ciò che
rimane … è silenzio” dice lo scettico morente, ed effettivamente egli tace per sempre.
La morte di Don Chisciotte suscita nell’anima una dolcezza inenarrabile. In quel momento tutto il
grande significato di questo personaggio diventa accessibile a ciascuno. Quando il suo antico scudiero,
desiderando consolarlo, gli dice che essi partiranno di nuovo presto per imprese cavalleresche, il
morente risponde: “No, tutto questo è passato per sempre, e io chiedo perdono a tutti; io non sono più
don Chisciotte, sono di nuovo Alonso il Buono, come un tempo mi chiamavano: Alonso el Bueno”.
Questa parola è meravigliosa; il ricordo di questo nomignolo, per la prima e l’ultima volta, scuote il
lettore. Sì, questa sola parola è quella che ha ancora un significato davanti al volto della morte. Tutto
passerà, tutto svanirà. Il titolo più alto; il potere, il genio che tutto abbraccia e comprende, tutto si
sfascerà in polvere. […] “Tutto passerá – disse l’apostolo – rimarrà solo l’amore”1.

Nella Vida de Don Quijote y Sancho (1905), la celebre lettura esistenzialista di tutto il romanzo,
Unamuno offre un’analisi del capitolo conclusivo da cui non si può prescindere. Lo scrittore mette
in relazione la morte di don Chisciotte con il suo rinsavimento: un don Chisciotte savio, destatosi
dal sogno della vita per entrare nella realtà della morte come il Sigismondo della Vita è sogno di
Calderón de la Barca, non può sopravvivere, la sua rinuncia ai libri di cavalleria (che Unamuno
accosta opportunamente a quella di Ignazio di Loyola 2) gli impedisce l’evasione da un mondo
meschino cui egli non può adattarsi.
A Thomas Mann si deve Una traversata con don Chisciotte (Meerfahrt mit Don Quijote, 1935)3.
Sul piroscafo che lo porta in America, mentre si lascia alle spalle il nazismo, Mann completa la
lettura del romanzo cervantino, proprio quando si interroga sul nero futuro del vecchio continente.

1
Cito nella traduzione di E. Bazzarelli, in I. S. Turgenev, Teatro. Opere varie, Mursia, Milano 19662, pp. 734-35.
2
“¿Será cosa de recordar aquí, una vez más, a Íñigo de Loyola, herido en Pamplona, pidiendo le llevasen libros de
caballerías para matar con ellos el tiempo y dándole la vida de Cristo nuestro Señor y el Flos Sanctorum, los que le
empujaron a meterse a ser caballero andante a lo divino?” (cito dalle Obras completas, ed. M. García Blanco, vol. III,
Escelicer, Madrid 1968, p. 243).
3
La traduzione di L. Mazzucchetti, da cui cito, è appena stata ristampata dal Saggiatore (Milano 1995), con importante
Postfazione di S. Barbera (pp. 67-78). Sullo scritto di Mann: R. Gnutzmann, Thomas Mann y “Don Quijote”, in
“Anales Cervantinos”, 1978, XVII, pp. 75-83 (meramente espositivo); quindi E. Koppen, Thomas Mann y don Quijote,
in Ensayos de literatura comparada, Gedisa, Barcelona 1990, pp. 243-357 (importante per la dimostrazione che Mann
scrisse il testo dopo la fine del viaggio, mentre, per strategia letteraria, lo presenta come steso durante la traversata).
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Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

Sulla rappresentazione della morte di don Chisciotte esprime impressioni che inevitabilmente ogni
lettore prova di primo acchito: il capitolo è scritto in tono minore. Cervantes non accentua le tinte,
anzi le smorza, e l’insieme risulta poco commovente. Mann compiange la fine da borghese buono e
sensato dell’eroe, e rimpiange la sua epoca di follia. Gli sembra anche piuttosto meschina (“morte
letteraria per gelosia”4) la preoccupazione dello scrittore di dare per conclusa la storia, e il suo
residuo rancore per Avellaneda, l’autore della seconda parte apocrifa5.
Nelle Lezioni sul Don Chisciotte tenute a Harvard nell’anno accademico 1951-1952, Vladimir
Nabokov non mancò di soffermarsi sul capitolo finale: “Egli non è più don Chisciotte de la Mancha,
ma, come confessa ai suoi amici, ritorna ad essere Alonso Quijano, a cui i retti costumi meritarono
il soprannome di «buono». È una scena toccante, specie nel suo proseguimento”. Dulcinea, con cui
Sancho spera di ravvivare la voglia di vivere del suo padrone, non compare più, e Nabokov glossa:
“Dulcinea è disincantata. È la morte”. Infine, la gioia con cui gli eredi vivono i tre giorni che
intercorrono fra l’espressione delle ultime volontà di don Chisciotte e il suo spirare vengono
considerati “l’ultima stilettata, del tutto coerente col barbarico, irresponsabile, infantile e infelice
mondo del nostro romanzo”6.
Borges dava, negli anni Cinquanta, sul numero commemorativo della fine del peronismo della
“Revista de la Universidad de Buenos Aires”7, una lettura attenta di tutto il capitolo, il cui sviluppo
è seguito passo a passo, nella convinzione della sua importanza: “El libro entero ha sido escrito para
esta escena, para la muerte de don Quijote”8. Anche in pagine e interviste precedenti e successive
Borges si sofferma sulla conclusione del romanzo. Rifiutando la mitizzazione del personaggio,
raccomanda anzi di non lasciarsene sfuggire l’individualitá (dimostrata proprio dal fatto che è
assoggettato come ogni essere umano ad un destino di morte), e sottolinea il carattere patetico
dell’ultimo capitolo: “Descubrir que Alonso Quijano es un personaje patético es descubrir lo que no
ignoraba su autor, sobre todo cuando escribió la segunda parte; también es olvidar que el desdén es
uno de los medios de Cervantes para hacerlo patético. Abundan los ejemplos; no sé de ninguno más
exquisito que la descansada sentencia –¡tan poblada de otras personas!– que narra de manera lateral
la muerte el héroe”9. Nel saggio del 1956, Borges evidenzia la crudeltà di Cervantes nei confronti di
don Chisciotte: “Cervantes nos da con indiferencia la tremenda noticia. Es la última crueldad de las
muchas que ha cometido su héroe”, anche se “acaso esta crueldad es un pudor y Cervantes y don

4
p. 59.
5
“Inclino a trovare piuttosto piatta la fine del Don Chisciotte. La morte è sentita anzitutto come modo di mettere questa
figura al riparo da ulteriori sfruttamenti letterari illeciti e viene ad avere così un carattere appunto letterario e artificioso
che non ci commuove. […] La fine di don Chisciotte infatti è preceduta da una conversione. Il moribondo riacquista, o
gioia!, il suo intelletto libero e chiaro, fa un gran sonno di sei ore e quando si risveglia, per la misericordia di Dio, la
testa è guarita. La sua mente è liberata da quelle ombre caliginose con cui l’aveva ravvolta la continua e detestabile
lettura dei libri di cavalleria; e non vuol più essere don Chisciotte della Mancia, il Cavaliere della triste figura, il
Cavaliere dei leoni, bensì Alfonso Chisciano, un uomo ragionevole, un uomo come tutti gli altri. Dovrebbe farci
piacere. Ma non ci fa molto piacere, rimaniamo anzi disincantati, in certo modo lo deploriamo. Ce ne spiace per don
Chisciotte, come già ci spiacque quando la melanconia di vedersi vinto lo aveva gettato sul suo letto di morte” (pp. 59 e
61).
6
V. Nabokov, Lezioni sul Don Chisciotte, a cura di F. Bowers, trad. di E. Albinati, Garzanti, Milano 1989, p. 122. Si
rammentano le importanti, per quanto discutibili, osservazioni di Nabokov sulla crudeltà come fonte di comico e di
divertimento nel romanzo (Crudeltà e mistificazione, pp. 80-107). Sulle lezioni in generale vale il giudizio di J. B.
Avalle-Arce: “Muy atrabiliario, por su individualismo, pero inteligente” (in Historia y crítica de la literatura española.
Siglos de Oro: Renacimiento. Primer suplemento, a cura di F. Rico, Crítica, Barcelona 1991 p. 295).
7
1956, V época, I, pp. 28-36 (Análisis del último capitulo de “Quijote”). Su Borges lettore del Quijote si veda l’ampio
e informativo studio di J. Rodríguez-Luis, El “Quijote” según Borges, in “Nueva Revista de Filología Hispánica”,
1988, XXXVI, pp. 477-500.
8
p. 36.
9
Nota sobre el Quijote, in “Realidad. Revista de ideas”, 1947, 2, p. 234 (cit. in J. Rodríguez-Luis, El “Quijote”, cit., p.
481).
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Quijote se entienden bien y se perdonan”10. Pure in un’intervista degli anni Settanta al quotidiano
limegno “El Comercio” Borges si sofferma sulla conclusione del romanzo, di cui coglie, come
Mann, il tono basso: “Sin una gota de demagogia es absolutamente genial. Cualquier otro escritor –
inclusive el mismo Cervantes de sus otras novelas– lo hubiera terminado lanzando las campanas al
vuelo. Con un tema así”11, Infine, nelle conversazioni con Antonio Carrizo, lo scrittore argentino
evidenzia la commozione di Cervantes: “balbucea… Casi no lo quiere decir. «Dio su espíritu, …
quiero decir que se murió». Y esa torpeza, esa torpeza corresponde a la emoción de Cervantes y a
una gran destreza literaria; una gran destreza involuntaria, desde luego. Porque se renuncia a alguna
frase de efecto”12.
Jorge Guillén propose una propria interpretazione, concentrandosi non su don Chisciotte, ma su
Alonso Quijano, cioè non sul cavaliere errante che va a caccia di avventure, ma sul sobrio hidalgo
della Mancha13. Ciò per sottolineare che la morte di don Chisciotte è determinata dal fallimento del
progetto esistenziale di Alonso Quijano che non è riuscito ad essere ciò che voleva, il cavaliere
eroico appunto (è chiara, qui, e per altro esplicitata, l’eco del raziovitalismo orteghiano). Tale
fallimento, comunque, non toglie grandezza allo stesso Alonso Quijano, nel momento in cui in esso
non si può ravvedere colpa morale, e soprattutto perché “bajo la locura de don Quijote se siente un
fondo de gran estabilidad intelectual, moral, estética”14, e Alonso Quijano non rinuncia “a la
vocación del gran caballero”15.
Non meno variegate di quelle degli scrittori sono le opinioni dei critici, che hanno offerto
interpretazioni talora contrastanti tra loro. Leo Spitzer, replicando a Thomas Mann, si chiedeva se
nel capitolo non fosse da vedere una “expiación del artista de la fantasía, un adiós a toda forma de
literatura embellecedora de la vida”16: la morte di don Chisciotte esprimerebbe cioè il disincanto di
Cervantes sulla propria attività letteraria17.
Otis Green, da parte sua, vede nell’episodio l’espressione del disinganno (desengaño) da lui
considerato non un sentimento caratteristico della civiltà spagnola (come tradizionalmente è stato
fatto), ma un atteggiamento mentale di tutta la civiltá europea 18. Nella fase finale delle sue
avventure le disillusioni di don Chisciotte sono state drammatiche, e la sua morte è proprio in
relazione, più che con le sconfitte subite, con lo scemare della fede in ciò in cui credeva, il
progressivo disingannarsi circa la deformazione che della realtà dava il suo stesso pensiero.
Secondo Chambers19, la guarigione di don Chisciotte è ironica: egli, in realtà, non sarebbe
rinsavito, ma continuerebbe ad essere vittima della mania. Lo dimostra, secondo il critico, il rifiuto
categorico e maniacale di leggere i libri di cavalleria (che le persone “normali” che lo circondano,

10
p. 36.
11
Cit. in J. Rodríguez-Luis, El “Quijote”, cit., p. 493.
12
A. Carrizo, Borges el memorioso. Conversaciones de Jorge Luis Borges con Antonio Carrizo, Fondo de Cultura
Económico, México 1982, p. 15 (citato in J. Rodríguez-Luis, El “Quijote”, cit., p. 495).
13
Vida y muerte de Alonso Quijano, in “Romanische Forschungen”, 1952, LXIV, pp. 102-13 (poi in El “Quijote” de
Cervantes, a cura di G. Haley, Tauros, Madrid 1980, pp. 303-12).
14
p. 106.
15
“Renunciar a los libros de caballerías y a sus consecuencias erróneas, sí. Pero de ningún modo a la vocación de gran
caballero, consustancial al hombre, y cuyo cumplimiento ha podido deferirse, pero no abandonarse. Y si al cabo la
renuncia a esa vocación parece ineludible, traerá consigo el total derrumbamiento, Alonso Quijano tiene que morir” (p.
111).
16
Thomas Mann y la muerte de don Quijote, in “Revista de Filología Hispánica”, 1940, I, pp. 46-8 (citazione a p. 47).
17
Ipotesi naturale, che anche Borges avanzò: “Cervantes al escribir estas líneas [sul rifiuto dei libri di cavalleria], pudo
pensar que también él estaba cerca de la muerte y que más le hubiera valido escribir libros de devoción y no de
arbitraria ficción” (Análisis, cit., p. 32).
18
España y la tradición occidental, Gredos, Madrid 1969, vol. IV, pp. 75-89. Tutta questa poderosa lettura della civiltà
spagnola mira del resto, com’è noto, a sottolinearne i legami con la civiltà occidentale, di contro alle numerose
interpretazioni volte a isolarne il proprio.
19
L. H. Chambers, Irony in the Final Chapter of the Quijote, in “The Romanic Review”, 1970, LXI, pp. 14-22.
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(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

invece, apprezzano), e il considerare la propria condotta precedente come peccaminosa (ma di che
dovrebbe pentirsi un pazzo, i cui gesti non sono liberi?).
Dubbi sul rinsavimento di don Chisciotte aveva espresso anche Foucault, a partire dalle
incertezze di chi sta vicino al moribondo (“Cuando esto le oyeron decir los tres, creyeron, sin duda,
que alguna nueva locura le había tomado”). Vanno però viste le obiezioni di Roger Duvivier, che da
un lato evidenzia il riconoscimento definitivo da parte degli altri personaggi del rinsavimento; e
dall’altro, il fatto che non viene istituito un nesso fra morte e follia (il breve lasso intercorrente fra
la fine della follia e la morte toglierebbe, per Foucault, significato alla prima), ma fra morte e
ragione: “[…] il apparaît clairement que tout est disposé pour dramatiser sous une forme plausible
l’incompatibilité de la raison et de la vie dans le chef d’un patient tel que don Quichotte. […] la
raison retrouvée est précisement l’agent foudrayant de la mort”20.
William Melczer21 puntualizza che don Chisciotte muore di “malinconia”, da intendersi, secondo
le distinzioni della scienza medica del tempo, come espressione depressiva della pazzia, e in questo
senso contrapposta alla “mania”, caratterizzata dall’entusiasmo 22. Melczer vede, proprio nel
passaggio dalla mania alla malinconia, l’omologazione di don Chisciotte alla maggioranza degli
esseri umani che lo circondano: non era malinconico, e quando lo diventa muore23. In ciò Melczer,
con generalizzazione forse eccessiva, sente pure l’affermarsi dei valori della ragione sistematica
aristotelica sulla ragione creativa platonica, secondo la tendenza evolutiva che caratterizza il XVII
secolo rispetto al XVI24.
L’interpretazione che vorremmo proporre ora si scosta da quelle sinora date, anche se ne
raccoglie e mette a frutto diversi suggerimenti. Essa, inoltre, vuole per quanto possibile rimanere
ancorata al testo. Quest’ultimo comunica in effetti l’impressione di “fiacchezza” cui si riferisce
Mann. Nel protagonista mancano atteggiamenti eroici: vede l’imminenza della morte come il
momento giusto per adempiere con ordine ad una serie di doveri, ma nulla della realtà umana ormai
lo tocca. Al proprio cambiamento allude addirittura nella forma apodittica e “comica” del proverbio
(“Señores –dijo don Quijote–, vámonos poco a poco, pues ya en los nidos de antaño no hay pájaros
hogaño”25), non sfuggita a Madariaga, che la legge nella linea della sancizzazione di don Chisciotte
da lui battuta26. D’altro canto si pensi ai sentimenti degli eredi che, dopo che tutto è stato disposto e
si sta solo aspettando il trapasso, gioiscono di quanto presto riceveranno: “Andaba la casa
alborotada; pero, con todo, comía la sobrina, brindaba el ama, y se regocijaba Sancho Panza; que
esto de heredar algo borra o templa la pena que es razón que deje el muerto”. Si tratta certo di una
notazione realistica, che ci può ricordare le pagine dei moralisti classici, o, per altri aspetti, molti
interni borghesi del romanzo ottocentesco, ma che ha anche la chiara funzione di contraltare delle
lacrime che sono state versate prima. Su di un altro piano sono illuminanti la semplicità della

20
R. Duvivier, La mort de don Quichotte et l’“Histoire de la folie”, in “Marche Romane”, 1970, XX, 1, pp. 69-83
(citazione a p. 79). Sulla lettura del Quijote operata da Foucault si vedano le note di C. Samonà, Foucault e la follia di
don Chisciotte (in Identità e metamorfosi del barocco ispanico, a cura di G. Calabrò, Guida, Napoli 1987, pp. 149-57),
che ne mettono bene in luce il valore e lo schematismo, sulla linea del fronteggiarsi della parola scritta e della vita.
21
Did don Quijote Die of Melancholy?, in Folie et déraison à la Renaissance. Colloque international tenu en novembre
1973, Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1976, pp. 161-70.
22
Anche Turgenev, nel saggio citato, sottolinea il carattere entusiasta di don Chisciotte, in contrapposizione appunto al
malinconico Amleto.
23
Sulla tristezza che gradualmente si impadronisce di don Chisciotte verso la fine delle sue avventure insiste anche
Green.
24
“Don Quixote’s physical death of melancholy in the last chapter is thus merely an epitaph to his spiritual death, an
epitaph to his inability and unwillingness to substitute an aristotelian world for a platonic one” (p. 170).
25
Per tutte le citazioni del romanzo mi servo dell’edizione di M. de Riquer: Planeta, Barcelona 19834.
26
S. de Madariaga, Guía del lector del “Quijote”, Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1961, p. 180: “Y así, cuando
en su lecho de muerte recobrada la razón y perdida la razón de vivir, sus amigos intentan reanimarle recordándole sus
ilusiones pasadas, el caballero contesta con un refrán, delicado y poético como escogido por él, pero procedente del
saco de refranes de su escudero, un refrán que une y hermana a los dos hombres en un abrazo final”.
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sintassi (cui si riferisce Borges quando parla, a proposito di don Chisciotte che cerca di convincere
Sancho e il baccelliere di essere guarito, di “negligente música”27). E si consideri infine la correctio
“dio el espíritu, quiero decir murió”, che è estremamente rivelatrice di quanto sia programmatico
l’abbassamento del tono (se pure, come con acutezza sottolineava Borges, carico di un dolore
nascosto): l’espressione più neutra che lo spagnolo possiede per indicare l’azione di terminare la
vita sostituisce l’aulico e biblico dar el espíritu. Anche per questa sua modestia di tono il capitolo si
differenzia dalle altre rappresentazioni della morte: non ha il patetico delle esequie di Crisóstomo,
né il teatrale dell’episodio del cuerpo muerto (I, 19) o della veglia al fittizio cadavere di Altisidora
(II, 69), né il macabro della scoperta dei cadaveri dei banditi impiccati (II, 60)28.
Passando alla struttura, possiamo partire dall’analisi di due vuoti, di due silenzi, in cui, come
lettori, non ci è dato di penetrare. Innanzi tutto il sonno in cui don Chisciotte precipita, e che
dobbiamo immaginare ricco e animato. Don Chisciotte, infatti, al risveglio non ringrazia tanto Dio
per un rinsavimento, quanto per le rivelazioni che ha avuto, rivelazioni di cui comunque non siamo
messi al corrente: il cammino individuale dell’uomo verso la verità, cammino che è sorretto dalla
Grazia, si conclude con il segno efficace del sacramento: la confessione, resa al proprio parroco29.
Dopo averla raccolta, il curato conferma il rinsavimento di don Chisciotte e l’inesorabilità della sua
morte ormai prossima. Anche qui il silenzio, non solo per chi vive nello spazio della letteratura, ma
pure per chi lo contempla dall’esterno: il segreto confessionale copre per i lettori l’ultima stazione
del cammino terreno di don Chisciotte30.
Una questione assai delicata è quella temporale; don Chisciotte ringrazia Dio per averlo fatto
ravvedere “en este instante”, riferendosi con il termine instante31 a tutto il tempo che è durato il suo
sonno, ossia sei ore, come ci informa il narratore: “y durmiose de un tirón, como dicen, más de seis
horas; tanto, que pensaron el ama y la sobrina que se había de quedar en el sueño. Despertó al cabo
del tiempo dicho, y dando una gran voz, dijo […]”. Evidentemente il protagonista ha perso la
nozione del tempo, così come gli era successo al momento della discesa nella grotta di Montesinos
(II, 22-23). In quell’occasione si era trattenuto sotto terra un’ora, ma gli era sembrato di avervi
trascorso tre giorni:

A esta sazón dijo el primo:


– Yo no sé, señor don Quijote, cómo vuestra merced en tan poco espacio de tiempo como ha que está
allá bajo, haya visto tantas cosas y hablado y respondido tanto.
– ¿Cuánto ha que bajé? – preguntó don Quijote.
– Poco más de una hora – respondió Sancho.
– Eso no puede ser –replicó don Quijote–, porque allá anocheció y amaneció, y tornó a anochecer y a
amanecer tres veces; de modo que, a mi cuenta, tres días he estado en aquellas partes remotas y
escondidas a la vista nuestra.

27
Análisis, cit., p. 35.
28
Sottolinea quest’aspetto l’ancora interessante testo di A. Ovejero, De la muerte de Don Quijote. Discurso
pronunciado el 3 de mayo del 1905 en el Ateneo de Madrid, Imprenta y litografía de Bernardo Rodríguez, Madrid 1905.
29
Non sarà di troppo rammentare il distinguo fra clero secolare e religiosi operato da Cervantes (A. Castro, El
pensamiento de Cervantes, Noguer, Barcelona 1972, p. 275): “ya notó Morel-Fatio que Cervantes trata con deferente
respeto al Cura, al que ejerce la cura de almas, y en cambio fustiga al eclesiástico que no vive en medio de sus ovejas.
Creo que hay que añadir que el fraile no le inspiró excesivo respeto […]”.
30
Prospettiva, questa, che non coincide con quella di Borges: “Cervantes no nos dijo lo que ocurrió durante el sueño de
don Quijote, aunque pudo haberlo inventado; ahora no nos dice cómo fue la confesión del héroe. Hay aquí otro
intervalo de oscuridad. Estas dos ignorancias o fingidos escrúpolos de autor hacen que prestemos más fe a los otros
hechos que refiere. Estos dos eclipses, estos dos intervalos de silencio, dan mayor fuerza a lo demás” (Análisis, cit., p.
33).
31
“Un momento de tiempo presente, que en tanto que lo señalamos ya ha pasado” (Covarrubias); “La más breve parte
en que se divide el tiempo: corresponde respecto dél al punto de la línea u de la cantidad. Lat. Momentum, Temporis
punctum” (Autoridades).
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– Verdad debe de decir mi señor –dijo Sancho–; que como todas las cosas que le han sucedido son por
encantamiento, quizá lo que a nosotros nos parece un hora, debe de parecer allá tres días con sus
noches.

Diverse sono state le spiegazioni avanzate per sanare la contraddizione, fra cui spiccano quelle di
Avalle-Arce (che distingue bergsonianamente tra tempo esterno e durata intima: è appunto nella
dimensione della durata che don Chisciotte può vivere in poco tempo ciò che racconta)32 e di Harry
Sieber33, che al tempo letterario (in cui anche don Chisciotte, nella sua follia di lettore maniaco di
libri, vive immerso) contrappone quello assoluto di Dio.
Sieber studia anche il rapporto fra il tempo della cueva e la morte: “The final acceptance of
himself as Alonso Quijano «el Bueno» is an admission that his will cannot change or protract the
time of death. When he is apparently irretrievably lost in the cave, Sancho begins to weep just as he
will when he discovers that don Quijote is dying at the end of the novel. Moreover, the temporal
impingement from outside the cave (Sancho and the primo pull don Quijote out with a rope) brings
don Quijote back from literary time just as the interruption of the act of reading forces the reader
out of the literary time of the novel. The meaning of this time-shift is clear: the death of don Quijote
implies the death of his readers. The only exit out of the time of our own looking-glass world is
death”34. Qui, in rapporto all’ultimo capitolo del romanzo, basterà notare che, al contrario di quanto
avviene dopo la risalita dalla grotta, don Chisciotte tace, non comunica la propria esperienza di
Grazia, che resta segreta per tutti. Ma soprattutto si osservi che don Chisciotte ha la sensazione che
il tempo trascorso sia breve, l’istante che basta a Dio per portare l’uomo a salvarsi; anzi, meglio,
l’unico infinito istante che è il tempo per Dio; ed inoltre, nella prospettiva del protagonista, non
giorni interi di avventure, ma un solo attimo, tanto intenso e vero da rendere superflua ogni
affabulazione. Infine, è significativa l’osservazione del “traductor” all’esordio del cap. II, 24,
osservazione che instaura un nesso esplicito fra i due episodi e assolutizza il tempo del capitolo
finale: “se tiene por cierto que al tiempo de su fin y muerte dicen que se retrató de la aventura de la
cueva, y dijo que él la había inventado, por parecerle que convenía y cuadraba bien con las
aventuras que había leído en sus historias”.
È poi importante esaminare il comportamento degli altri nei confronti di don Chisciotte. È chiaro
che essi non accettano il suo rinsavimento, e non solo perché appare loro inverosimile 35. Il mondo
fittizio, realizzazione in qualche modo dell’utopia cui don Chisciotte li ha costretti, ha preso anche
loro. Ecco il dramma di Sancho Panza, che subisce, nel contatto con don Chisciotte, un’evoluzione
radicale, soprattuto da quando (con la sua nomina a governatore dell’isola, spazio utopico per
eccellenza) ha visto che i sogni del padrone si realizzano, e possono addirittura beneficiarlo: “–
¿Ahora, señor don Quijote, que tenemos nueva que está desencantada la señora Dulcinea, sale
32
J. B. Avalle-Arce, Don Quijote o la vida como obra de arte, in Nuevos deslindes cervantinos, Ariel, Barcelona 1975,
pp. 336-87: “Para volver a la terminología de Bergson: Sancho está hablando de tiempo, que es una convención
arbitraria, que, en sentido radical, cae por fuera de nuestra experiencia, mientras que don Quijote está hablando de
duración, que es lo que nuestro subconsciente almacena para medir y categorizar nuestras experiencias. Y con el choque
polémico de ambos conceptos, sustentados respectivamente y con tesón por amo y escudero, Cervantes ha abierto de
par en par la puerta que conduce a la plena vida del subconsciente. La novedad de tal tipo de buceo en la literatura
occidental es absoluta” (p. 366).
33
Literary Time in the “Cueva de Montesinos”, in “Modern Language Notes”, 1971, LXXXVI, pp. 268-73.
Analogamente L. A. Murillo (The Golden Dial. Temporal Configuration in “Don Quijote”, The Dolphin Book, Oxford
1975) rimarca come tutta la trama del romanzo si svolga, secondo le convenzioni del “chivalric romance”, all’interno
del tempo letterario, anche se proprio il suo epilogo “leads to another concept of time, but one out-of-time and not
merely timeless, the eternal. This concept is beyond the bounds of this study, however, for it lies outside of Cervantes’
story. Or, rather, it comes into play only now, as the story closes” (p. 159).
34
Ivi, pp. 272-73.
35
“Questo ravvedimento, la confessione della follia patita, che sorprende e inquieta i familiari, gli amici e il buon
Sancho che l’assistono, timorosi di una svolta nuova, è ancor più funesto di quella prodotta dall’errante cavalleria” (A.
Farinelli, La morte di don Quijote, in “Quademi Iberoamericani”, 1947, 2, pp. 19-21, lettura romantica, ma molto fine).
7
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

vuestra merced con eso? Y ¿agora que estamos tan a pique de ser pastores, para pasar cantando la
vida, como unos príncipes, quiere vuesa merced hacerse ermitaño? Calle por su vida, vuelva en sí, y
déjese de cuentos”. È il dramma che Unamuno metteva perfettamente a fuoco quando scriveva
“¡Pobre Sancho, que te quedas solo con tu fe, con la fe que te dio tu amo!”36. Ma è anche il dramma
del baccelliere Sansón Carrasco che si era preparato a vivere nella realtà l’Arcadia imparata dai libri
(“diciéndole el bachiller que se animase y levantase, para comenzar su pastoral ejercicio, para el
cual tenía ya compuesta una écloga, que mal año para cuantas Sanazaro había compuesto, y que ya
tenía comprados de su propio dinero dos famosos perros para guardar el ganado, el uno llamado
Barcino, y el otro Butrón, que se los había vendido un ganadero del Quintanar”). Viene in mente la
tristezza dei servitori dell’Enríco IV pirandelliano dinanzi all’ipotesi di dismettere le vesti
medievali.
Per altro tutti i personaggi che ruotano intorno a don Chisciotte preferiscono ancora l’utopia dei
libri di cavalleria. Don Chisciotte, che pure da savio si è sempre dimostrato grande conoscitore ed
apprezzatore del genere, li ha abiurati, e ne impone l’abiura anche agli eredi37; ma chi gli sta intorno
valuta la realtà drammatica cui sta assistendo proprio sulla scorta di quei libri: “Hallose el escribano
presente, y dijo que nunca había leído en ningún libro de caballerías que algún caballero andante
hubiese muerto en su lecho tan sosegadamente y tan cristiano como don Quijote”38.
Infine, il rinsavimento è messo in relazione alla morte: solo perché muore don Chisciotte
rinsavisce. Nel nesso instaurato fra la repentinità dell’inopinata guarigione e la morte (“una de las
señales por donde conjeturaron que se moría fue el haber vuelto con tanta facilidad de loco a
cuerdo”) si potrà vedere certamente il riflesso dell’idea corrente circa il tempo di lucidità concesso a
chi è afflitto da un male incurabile come la pazzia prima della morte, aspetto che ha sottolineato
specialmente Duvivier39. La formula unamuniana (“Don Chisciotte muore perché rinsavisce”40), per
altro variamente ripetuta da molti altri41, va dunque ribaltata in “Don Chisciotte rinsavisce perché
muore”: don Chisciotte può cioè perdere la sua pazzia (nel senso di “mania” precisato da Melczer)
proprio perché essa non gli serve più. Essa è stata un valore positivo, creativo, proiettante nei mondi
dell’utopia, ma perde significato nella nuova dimensione trascendente che gli è ormai prossima.
Verso la propria pazzia don Chisciotte mantiene la posizione di chi rifiuta le proprie azioni terrene
giudicandole globalmente follia (come ogni essere umano dovrebbe per altro fare nel momento del
trapasso), ma non rinnega il suo operato da folle: ritiene Sancho meritevole non solo del governo di
un’isola, ma di quello di un regno (“y si como estando yo loco fui parte para darle el gobierno de la

36
Ed. cit., p. 244.
37
“Item, es mi voluntad que si Antonia Quijana, mi sobrina, quiere casarse, se case con hombre de quien primero se
haya hecho información que no sabe qué cosas sean libros de caballerías […]”.
38
D. Eisenberg (Pero Pérez the Priest and his Comment on “Tirant lo Blanch”, in “Modern Language Notes”, 1973,
LXXVIII, pp. 321-30) non vede chiaramente “Whether this is meant as praise or ridicule of don Quijote” (p. 329). Mi
chiederei piuttosto se con la pagina non si stia mettendo in forse, di fronte alla realtà universale della morte, la tenuta di
un modello letterario (i libri di cavalleria, appunto).
39
R Duvivier, La mort de don Quichotte, cit., p. 77: “En présence d’une conjoncture morbide assez floue, les familiers
ne font apparemment rien d’autre qu’adapter à la circonstance la convinction, fondée sur l’expérience commune, qu’une
maladie incurable accorde frequemment au seuil même de la mort une rémission inopinée. La lucidité de certains
mourants, spécialement, est digne de frapper l’imagination, et justifie dans une certaine mesure la clairvoyance, sinon la
volubilité, que Cervantes et d’autres auteurs prêtent volontiers à leurs moribonds. Conformément à cette espèce de lieux
communs à demi-vérifiés, la lumière jaillie dans la cervelle de don Quichotte s’interpréterait en negatif comme un
symptôme de la ruine générale et irrévocable de sa santé”.
40
Si veda ad esempio il romanzo-saggio Cómo se hace una novela del 1927 (ed. P. R. Olson, Guadarrama, Madrid
1977, p. 74): “Aquí debo repetir algo que creo haber dicho a propósito de nuestro señor don Quijote, y es preguntar cuál
habría sido su castigo si en vez de morir recobrada la razón, la de todo el mundo, perdiendo así su verdad, la suya, si en
vez de morir como era necesario habría vivido algunos años más todavía”.
41
Ad esempio R. Menéndez Pidal: “Ha recibido la razón, pero ha perdido el ideal en el cual vive y respira, y no le
queda sino morir” (De Cervantes y Lope de Vega, Espasa Calpe, Madrid 19585, p. 51: la cit. proviene dal celebre saggio
Un aspecto en la elaboración del “Quijote”).
8
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

ínsula, pudiera agora, estando cuerdo, darle el de un reino, se le diera, porque la sencillez de su
condición y fidelidad de su trato lo merece”); e si giudica un uomo buono (la bontà gli è anche
riconosciuta dagli altri e ottiene l’avallo dell’autore)42. I peccati per cui chiede di essere perdonato
non sono quindi le sue azioni da pazzo (per cui comunque non poteva ritenersi moralmente
responsabile: l’appunto di Chandler è esatto), ma globalmente tutta la sua vita passata, per cui,
nell’imminenza del giudizio divino, non può che provare contrizione. L’utopia di un mondo felice e
giusto sulla terra è una realtà umana, suppone fiducia nella sua realizzabilità; anche se è sorretta
dalla fede in un aiuto provvidenziale, ha prevista la propria ripercussione sull’umano. In una
dimensione divina, quella che per don Chisciotte si sta aprendo, essa perde, per così dire, di
significato, mentre lo mantiene per chi alla terra resta legato. Se non si tiene presente che il
recupero della ragione è funzionale all’imminenza della morte, la fedeltà costante di don Chisciotte
al proprio ideale anche da savio non può che sorprendere, come ha sorpreso Edwin Williamson: “La
locura de don Quijote desaparece de la misma manera repentina e inexplicable que había empezado,
porque así como es imposible explicar totalmente las razones por las que Alonso Quijano llegó a
creerse que era un caballero andante, también son extrañas las razones que le llevan a curarse. Sin
embargo, sigue convencido hasta el último momento de que es posible llevar a cabo la restauración
del mundo de la caballería sin haber admitido nunca lo contrario, ni puesto en duda jamás su
adhesión al código caballeresco”43.
Tutto il capitolo, per essere correttamente inteso, va letto, io credo, sulla scorta delle artes bene
moriendi, i manualetti ascetici che circolavano in tutto il mondo cristiano e miravano a preparare a
ben morire, a trovarsi pronti per l’incontro con Dio. Diffusi dalla fine del ’400 anche grazie alla
stampa, il loro successo, pur nel rinnovarsi delle forme, continuava nel ’500, e nel ’600 sarebbe
stato rivitalizzato44. Il rapporto qui suggerito con questo che è un “quasi «genere letterario»”45 ha
bisogno di qualche chiarimento, a partire dal fatto che quella di don Chisciotte è una buona morte,
una morte esemplare, la realizzazione, senza che vi sia bisogno di alcuna pressione esterna, del
quadro ideale che le artes suggerivano.
Bisogna a questo proposito tener presente la distinzione in tre epoche dello sviluppo del genere
che la Morel fissa, nel solco della monografia classica di Alberto Tenenti46. In primo luogo, la tappa
medievale, quattrocentesca, in cui predominano il sentimento di paura di fronte alla morte e
l’allegoria (il combattimento fra demoni ed angeli, ad esempio; la lotta contro la tentazione); in
secondo luogo quella erasmista (pre-tridentina), fortemente influenzata dalla Praeparatio ad
mortem scritta da Erasmo nel 1534: qui vengono meno le superstizioni, e si nota l’affermarsi del
concetto del ben morire, del ben prepararsi ad una chiamata alla felicità eterna (si passa, anche nei
titoli, dallo schema Ars moriendi a quello Apparatus ad bene moriendum; le incisioni, che avevano
avuto nella fase precedente un ruolo importantissimo, ed erano caratterizzate da un gusto macabro

42
“ya yo no soy don Quijote de la Mancha, sino Alonso Quijano, a quien mis costumbres me dieron renombre de
Bueno”; “porque verdaderamente, como alguna vez se ha dicho, en tanto que don Quijote fue Alonso Quijano el Bueno,
a secas, y en tanto que fue don Quijote de la Mancha, fue siempre de apacible condición y de agradable trato, y por esto
no sólo era bien querido de los de su casa, sino de todos cuantos le conocían”. Bontà liricamente rilevata anche da
Unamuno: “Fue siempre bueno, bueno sobre todo y ante todo, bueno con bondad nativa, y esta bondad que sirvió de
cimiento a la cordura de Alonso Quijano y a su muerte ejemplar, esta misma bondad sirvió de cimiento a la locura de
don Quijote y a su ejemplarísima vida” (ed. cit., p. 245).
43
El Quijote y los libros de caballerías, Taurus, Madrid 1991, p. 171.
44
Non hanno perso utilità le voci Ars moriendi dell’Enciclopedia cattolica (vol. II, Istituto per l’Enciclopedia Cattolica
e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1949, coll. 28-30, a cura di A. Romeo) e del Dictionnaire de spiritualité (vol.
I, Beauchesne, Paris 1937, coll. 897-99, a cura di F. Vernet). Per quanto riguarda specifícamente la Spagna getta le
fondamenta di uno studio più ampio che tutti attendono da lei A. Morel d’Arleux, Los tratados de preparación a la
muerte: aproximación metodológica, in Estado actual de los estudios sobre el Siglo de Oro. Actas del II Congreso
Internacional de Hispanistas del Siglo de Oro, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca 1993, pp. 719-34.
45
Secondo 1'espressione di Romeo (nella cit. voce dell’Enciclopedia cattolica).
46
Il senso della morte e l’amore della vita nel rinascimento (Francia e Italia), Einaudi, Torino 19892.
9
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

vistoso, quasi spariscono); abbiamo infine una terza fase post-tridentina, in cui riemerge la “pastoral
del miedo y de la culpabilidad”47, e si moltiplicano i gesti da compiere accanto all’agonizzante.
La morte di don Chisciotte (può sorprenderci?) rispecchia indiscutibilmente il secondo modello,
non solo perché gli atti religiosi compiuti dal protagonista sono essenziali, e di fatto limitati alla
pratica sacramentale, senza che neppure si accenni ad orazioni pronunciate dall’agonizzante o dai
suoi congiunti per lui; non solo perché non si parla dell’acquisto di indulgenze o di lasciti in
beneficenza ad enti religiosi, ma anche perché questa morte è ritenuta coerente con la vita che l’ha
preceduta: “para el humanista [Erasmo] y para sus discípulos, el arte de bien morir no se reducía a
los últimos instantes, sino que suponía todo un arte de vivir cristianamente. Una buena muerte no
era suficiente para borrar los desperfectos causados por una vida escandalosa e impía”48. Don
Chisciotte muore in coerenza con ciò che ha vissuto, anche in coerenza con quanto ha vissuto da
pazzo; ed è questa coerenza, naturalmente, a permettergli di affrontare il trapasso senza paura. Don
Chisciotte, al contrario di quanti lo circondano, accetta la morte, e non è neppure assalito dalle
tentazioni del demonio da cui tutte le artes moriendi, anche quelle rinascimentali, raccomandano di
stare in guardia. La lettura della Praeparatio ad mortem49 erasmiana può, da questo punto di vista,
portarci utili conferme, anche in considerazione della grandissima diffusione di cui godette in
Spagna, dove fu immediatamente tradotta ed ispirò vari autori50. Non si tratta beninteso di provare
un contatto intertestuale51, ma di rilevare quanto la rappresentazione della morte di don Chisciotte
debba alla spiritualità del trattatello erasmiano, pur considerata la concretezza dei suoi adattamenti
spagnoli, in particolare la Agonía del tránsito de la muerte di Alejo de Venegas52, che mi pare
comunque molto lontano dalle pagine finali del capolavoro cervantino, e in generale dal mondo
spirituale del nostro scrittore.
L’ossatura ideologica dell’operetta erasmiana, incentrata sull’assenza della paura della morte,
l’inutilità della “buona morte” se non è stata preceduta da una buona vita, la vacuità di ogni
ritualismo in mancanza di una profonda contrizione, abbiamo già indicato essere riflessa in positivo
nel capitolo del romanzo. Ma si vedano anche coincidenze più minute. Erasmo mette in guardia dal
ritenere che il ricevere i sacramenti sia condizione necessaria e sufficiente per guadagnare il cielo.
Non deve temere chi si trovasse nell’impossibilità materiale che gli siano impartiti, né la pratica
sacramentale prima della morte costituisce in sé una garanzia di salvezza:

Quin huiusmodi voces audimur e compluribus: ille christiane mortuus est, ter confessus est ante
mortem et omnia sacramenta percepit. Illud certe Christiani hominis est, optare ne quid desit
sacramentorum. Sunt enim magna solatia mentium nostraeque fiduciae adiumenta et Christiane

47
A. Morel d’Arleux, Los tratados de preparación a la muerte, cit., p. 728. Aspetto su cui l’autrice insiste forse troppo
(si vedano, per contrasto, le equilibratissime note di A. Tenenti, Il senso della morte, cit., pp. 330-35, su L’Arte di ben
morire del Bellarmino).
48
Ivi, p. 725.
49
Utilizzo il testo del vol. V delle Opera, ex Officina Frobeniana, Basilea 1590, pp. 1082-103, intervenendo solo
moderatamente sulla punteggiatura e sulla grafía.
50
Si veda specialmente M. Bataillon, Erasmo y España, Fondo de Cultura Económica, México - Buenos Aires 19662,
soprattutto le pp. 448-71 (senza aggiunte che ci possano interessare nell’edizione definitiva di D. Devoto, Droz, Genève
1991).
51
Anche se la Praeparatio è fra le più plausibili letture erasmiane di Cervantes (M. Bataillon, Erasmo y España, cit., p.
800).
52
Bataillon vi percepisce, in effetti “un sentido más vivo de los sacramentos” (p. 69) e una concretezza che emerge, ad
esempio, laddove parla del testamento (ivi, p. 569). Noterei anche il fatto che si raccomandano al moribondo opere pie e
capellanías (II, 14-15), o le orazioni quando si riceve il viatico (II, 18), mentre si sottolinea l’importanza delle
indulgenze e i suffragi (cui è dedicata tutta la parte – Punto – V). Su tutti questi aspetti Cervantes, molto più prossimo,
almeno in spirito se non in lettera, alla fonte viva del pensiero erasmiano, glissa, e neppure fa cenno alle tentazioni cui il
demonio sottopone l’agonizzante, né glielo fa apparire, evento frequente in tali frangenti secondo Venegas (III, 4). I.
Adeva Marín (El maestro Alejo Venegas de Busto. Su vida y sus obras, Diputación Provincial, Toledo 1987) va oltre,
fino a negare il carattere erasmiano dell’opera di Venegas.
10
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

sinceritatis est omnem cum licet implere iustitiam. Sed magis Christianum est optare fidem et
charitatem, sine quibus illa nihil conducunt 53.

Può non far riflettere questo passo dinanzi alla sinteticità formulaica con cui Cervantes
rammenta i sacramenti impartiti a don Chisciotte: “en fin, llegó el último de don Quijote, después
de recebidos todos los sacramentos y después de haber abominado con muchas y eficaces razones
de los libros de caballerías”? Estrema Unzione ed Eucarestia passano infatti in secondo piano
rispetto al pentimento del moribondo e alla sua confessione; una confessione, non si dimentichi,
sollecitata dall’interessato, senza che nessuno gliela proponga, e che si colloca alla conclusione del
processo di riappropriazione di sé, lontani il rumore e la follia del mondo, che don Chisciotte vive.
L’atteggiamento di determinata serenità con cui il cavaliere si prepara al prossimo transito non
ricorda forse quello che Erasmo raccomandava? Ci sovviene anche il “dio el espíritu, quiero decir
murió”:

Atque ita, sibi diffisus, fretus immensa dei misericordia, Christi meritis, ac sanctorum omnium
suffragiis, contrito corde, cum religiosa fiducia dicat: “In manus tuas. Domine, commendo spiritum
meum”. Nulla invidia est si peccator et infirmus usurpet verba domini sui, nam ideo caput nostrum
haec expressit in sese, ut nos imitaremur qui sumus illius membra54.

Tutto ciò che è mondano, incluse le proprie letture, viene guardato come “follia” da don
Chisciotte, che non lo rinnega in toto, ma ne coglie i limiti. L’ascetismo cristiano fa qui sentire,
certamente, la sua lezione più generale, non senza che si colga, però, anche l’individualità della
voce erasmiana, più pronta a sottolineare il ruolo della fede che la tristezza del contemptus mundi:
“Ex fidei imbecillitate nascitur amor commodorum temporalium. Nam, si toto pectore crederemus
quae Deus promisit nobis per filium suum Iesum, facile vilescerent omnia huius vitae oblectamenta,
ac mors quae ad illa molesto quidem illo ac brevi traiectu transmittit, minus esset formidabilis”55.
L’agio con cui don Chisciotte può provvedere a lasciare ben assestate le sue pendenze terrene
dopo aver comunque regolato i conti con l’anima (la subordinazione gerarchica è chiara: “quiero
confesarme y hacer mi testamento”) discende dal modo in cui ha vissuto. Al suo capezzale non si
coglie il disordine che Erasmo indica per chi ha rimandato fino all’ultimo la considerazione della
propria mortalità:

At qui per omnem vitam, quasi sint immortales, indulgent affectibus suis, ad voces Dei toties tam
amanter provocantis ad poenitentiam Toroneo littore, ut aiunt, surdiores, quod mirum si perturbantur
cum urget extrema necessitas? Tunc res est cum morbo qui non sinit quicquam aliud agi, cum medicis,
cum haeredibus, cum legatoriis et captatoribus, cum creditoribus ac debitoribus, cum uxore ac liberis,
cum oeconomis ac famulis, cum amicis et inimicis, cum exequiis ac sepultura, cum confessionibus,
dispensationibus ac censuris, cum restitutionibus ac placationibus, cum variis conscientiae scrupulis,
postremo et cum fidei dogmatibus56.

Il ringraziamento che don Chisciotte si sente di elevare a Dio per averlo fatto morire savio
mostra la consapevolezza di cosa significhi morire non liberi, non padroni della propria volontà, che
anche nei savi è soggiogata ai compromessi con il mondo. Infatti:

Sunt innumeres mortis formae, et in his quaedam horribiles sive quod subito necent, quod nonnullis in
ipso accidit convivio: sive quod acerbos ac diutinos habeant cruciatus, ut paralysis et ischiace: sive

53
p. 1096.
54
p. 1102.
55
p. 1082.
56
p. 1089.
11
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

quod abominandam habeant speciem, velut qui tenaci pituita prefocati nigrescunt; sive cum usum
linguae mentisque sanitatem adimant, ut apoplexis, phrenesis ac nonnullae febres 57.

Si osservi infine che don Chisciotte si rende conto del valore esemplare della propria morte (“Yo
me siento, sobrina, a punto de muerte; querría hacerla de tal modo, que diese a entender que no
había sido mi vida tan mala, que dejase renombre de loco; que puesto que lo he sido, no querría
confirmar esta verdad en mi muerte”); e soprattutto del fatto che essa non può scostarsi da una
norma prefissata di comportamento (“que en tales trances como éste no se ha de burlar el hombre
con el alma”). Sancho, del resto, capisce perfettamente quanto di volontario ci sia nella morte del
suo padrone: “No se muera vuestra merced, señor mío, sino tome mi consejo, y viva muchos años;
porque la mayor locura que puede hacer un hombre en esta vida es dejarse morir, sin más ni más,
sin que nadie le mate, ni otras manos le acaben que las de la melancolía”.
Bisogna sottolineare, in questa direzione, che l’abbandono della pazzia è una scelta. Alonso
Quijano decide di non essere più pazzo, come ha visto con esattezza Maria Teresa Cattaneo:

Nel labirinto di identificazioni e di distanziamenti dell’io, lungo il quale don Chisciotte è avanzato
saggio e stralunato, rispecchiando la propria solitudine nell’amorosa fascinazione di assenza di
Dulcinea […] l’ultima tappa, dolente e serena, è la riconquista della propria identità. Non però così
piattamente assennata da non produrre un estremo scatto epico e fantastico, generatore dell’ultimo
personaggio: “Alonso Quijano, a quien mis costumbres me dieron renombre de Bueno”. Il commiato:
“Yo fui loco y ya soy cuerdo: fui don Quijote de la Mancha, y soy agora, como he dicho, Alonso
Quijano el Bueno” (II, 74) nella paradossale secchezza del meccanismo di opposizione/sostituzione,
che pare avvicendare una maschera ad un’altra più che giungere a un disvelamento, stende ancora
l’irrisolto e inquietante rapporto e conflitto di realtà e illusione58.

Se don Chisciotte ha inteso tutta la propria esistenza come opera d’arte59, nel senso che si sforza
di adeguarla ad un modello dato, quello cavalleresco, non deve sorprendere che anche la sua morte
sia atteggiata ad un modello. Non credo quindi che la morte, preceduta dalla deposizione del nome
di cavaliere (“Ya yo no soy don Quijote de la Mancha, sino Alonso Quijano”) sia rinuncia alla
propria volontà, come vuole Avalle-Arce60.
Piuttosto, è eloquente il confronto con la morte di Tirant lo Blanch, evidentemente ricordata da
Cervantes quando rappresenta quella di don Chisciotte, come diversi commentatori hanno avuto
occasione di osservare. Colpisce già che, nel controverso passo (I, 6) in cui il prete fa lo scrutinio

57
pp. 1091-92.
58
M. T. Cattaneo, Don Chisciotte: le maschere della finzione, in Rileggere Cervantes. Antologia della critica recente, a
cura di M. Scaramuzza Vidoni, LED, Milano 1994, pp. 183-92 (a p. 191; già in Letteratura e filologia. Studi in
memoria di G. Dolfini, Cisalpino - La Goliardica, Milano 1987).
59
J. B. Avalle-Arce, Don Quijote, cit., in particolare a p. 387: “Don Quijote ha descubierto que intentar vivir la vida
como una obra de arte es todo vanidad, porque la vida es una sombra y un sueño. Sin embargo, él no abandonará el
ideal a pesar de estar corroído hasta las entrañas por la duda. Una autodecepción consciente y más que heroica le lleva a
decirse que la vida es algo más que sueños y sombras. Y así se prepara para una muerte ejemplar y cristiana”.
60
“Los resortes de la voluntad ya no aciertan a integrar la evidencia visual con la representación ideal. Este sentimiento
de impotencia llevará, indefectiblemente, a esa trágica desilusión que matará al caballero, pero sólo después de haber
hecho renuncia formal a su voluntad […]. Al deponer su nombre, don Quijote ha renunciado a su voluntad” (ivi, p.
375). In questo, come molti altri lettori, Avalle-Arce dimostra di non accettare la morte di don Chisciotte, e soprattutto
di vedere con sospetto il suo ritorno al nome non cavalleresco come segno di sconfitta dell’ideale rispetto al quotidiano
reale. Suggestivo, nella stessa linea, il testo di D. Formaggio, L’ultima lancia. Un ininterrotto dialogo con l’amico Don
Chisciotte, presentato alla V Giornata Cervantina [Atti della V Giornata cervantina. Venezia, 24-25 novembre 1995, a
cura di C. Romero Muñoz, D. Pini e A. Cancellier, Unipress, Padova 1998, pp. 3-8]; e il saggio di Blas de Otero, La
muerte de Don Quijote, in “Champa” (Bilbao), novembre 1954, pp. 6-7 (intenso per il momento politico in cui fu
pubblicato).
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Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

della biblioteca di don Chisciotte61, il libro di Martorell sia lodato per il suo realismo, e in
particolare per il fatto, com’è noto rarissimo nel genere, che il protagonista muoia: “aquí comen los
caballeros, y duermen y mueren en sus camas, y hacen testamento antes de su muerte, con estas
cosas de que todos los demás libros deste género carecen”. Sacramenti e testamento sono infatti
centrali nella morte di Tirant, come in quella di don Chisciotte; e non è difficile neppure trovare
contatti precisi. La già citata considerazione del notaio, ad esempio, sull’eccezionalità per un
cavaliere della morte di don Chisciotte, ricalca quella che fanno i presenti alla morte di Tirant: “E
dites aquestes paraules, rebé ab moltes llàgremes lo cos preciós de Jesucrist, que tot los qui en la
cambra eren deien que aquest no demostrava esser cavaller, mas un sant home religiós, per les
moltes oracions que dix devant le Corpus”62. Il paragrafo iniziale, in cui Cervantes enuncia la legge
universale della mortalità dell’essere umano, pare riecheggiare l’esordio del testamento di Tirant
(dove per altro si avvertono formule cancelleresche molto comuni): “Com sia certa cosa lo morir, e
a la creatura racional incerta l’hora de la mort, e com dels savis s’espera proveir a l’esdevenidor per
ço que, acabat lo peregrinar d’aquest miserable món, tomant al nostre creador, davant la sua
sacratissima Majestat, pugam donar compte i raó dels béns que ens són acomanats”63.
Neppure contatti così precisi possono pero occultare le profonde differenze di spiritualità delle
due scene. All’essenzialità erasmiana della morte di don Chisciotte, si contrappone infatti la
teatralità da autunno del Medioevo della morte di Tirant, e la pesantezza delle sue pratiche
devozionali, in particolare la lunga preghiera al Corpus Domini del cap. 468, che suscita
l’ammirazione dei presenti; mentre anche lo scabro “in manibus tuis commendo spiritum meum” si
colloca alla fine di un’orazione di tipo litanico: “¡Jesús, fill de David, hages mercé de mi! Credo,
proteste, confesse, penit-me, confie, misericòrdia reclame. ¡Verge Maria, Àngel custodi, àngel
Miquel, emparau-me, defeneu-me! Jesús, en les tues mans, Senyor, coman lo meu esperit”64. Ma
tutta l’atmosfera è completamente diversa, e cambiano radicalmente anche le reazioni dei congiunti,
verbose e teatrali, mentre un pesante ornato tardo-gotico appesantisce la scena nei capitoli
successivi dedicati alla morte della Principessa, che duplica i gesti e le parole di Tirant. Si noti che
Cervantes mantiene il segreto assoluto intorno alla confessione di don Chisciotte, mentre Martorell
ne delinea, se non il contenuto, almeno l’atmosfera: “Com lo confessor fon vengut, Tirant confessà
bé e deligentment tots sos pecats ab molta contrició car l’extrema dolor que passava era en tanta
quantitat que ell se ternia per mort, veent que, per molt que les metges li fessen, la dolor
continuament aumentava”65. Mentre la Principessa, addirittura, si confessa pubblicamente66.
Cervantes non avrebbe meglio potuto esprimere la propria spiritualità attraverso il contrasto con
un testo che certo conosceva.
Ma perché don Chisciotte muore? La domanda può sembrare brutale, ma non la si può eludere:
quanti eroi di romanzo (non solo dei libros de caballerías) non devono affrontare questa
esperienza! Don Chisciotte, Cervantes si preoccupa di spiegarcelo già in apertura di capitolo, muore
perché non è immortale, perché è umano, perché non gode di esenzione alcuna dalla più universale
delle leggi di natura. In questo modo il cerchio si chiude: Cervantes non lascia aperta la possibilit à

61
Per una bibliografia aggiornata sull’interpretazione del passo (che, comunque, non tocca la sostanza del nostro
pensiero) si veda J. Martorell, Tirant lo Blanch i altres escrits, ed. M. de Riquer, Ariel, Barcelona 1990, pp. 106-7 (da
quest’edizione tutte le citazioni dell’opera).
62
p. 1148, cap. 468.
63
p. 1148, cap. 469.
64
p. 1151, cap. 471. La formula è anche nella preghiera della Principessa (p. 1169, cap. 478): “E coman, Senyor, en les
tues sagrades mans los meu esperit, per ço que lo príncep de tenebres no em puixa moure”.
65
p. 1146, cap. 467.
66
Osservazioni non molto diverse da quelle fatte per Tirant esprimerei per la morte di Amadís nel Libro octavo de
Amadís (Lisuarte de Grecia, Cromberger, Sevilla 1526, cap. 164). Qui si nota anche una certa tendenza al
sermocinatorio. Sicuramente suggestivo il confronto che Joaquín Casalduero istituisce fra il gotico della
rappresentazione della morte nelle Coplas di Manrique e appunto il capitolo finale del Quijote (Sentido y forma del
Quijote 1605-1615, Ínsula, Madrid 1949, pp. 385-92).
13
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 85-107.

delle continuazioni, la storia di don Chisciotte non potrà aprire un ciclo come quelli dei Palmerini e
degli Amadigi, e non solo per la “gelosia letteraria” di cui parla Mann. In realtà, dalla morte del
protagonista, anche allo scrittore viene una lezione di umiltà: la sua penna cessa di scrivere, la
letteratura viene relativizzata come l’utopia di don Chisciotte. Un addio alla letteratura,
un’espiazione, come suggeriva Spitzer, certo, che non toglie però intrinseco valore al fatto
letterario, solo lo rapporta ad una realtà immanente, per quanto campo di intervento del divino: lo
dimostra, nel momento dell’umiltà, il residuo orgoglio del creatore di fronte all’apocrifo di
Avellaneda. Nessun rinnegamento, nessun disprezzo per la propria opera, che ora si conclude, e a
cui si augura immortalità; solo, di fronte al vuoto della pagina bianca 67, l’indicazione di altri valori
più stabili, custoditi in un mondo lontano. “Para Cervantes la verdad absoluta es Dios”68, verità che
solo nella beatitudine eterna ci si apre in tutta la sua luce, e che un povero pazzo ci indica per
insegnarci a essere umili: “Dize el Eclesiastés que el número de los locos no tiene cuento porque de
una o de otra manera no hay quien se escape de su locura, si no fuere preservado o confirmado por
especial previlegio de Dios. Mas de los otros no hay ninguno tan sancto que no pueda caer en
pecado que es la mayor locura que puede hazer”69. Dalla sua pazzia don Chisciotte non si è
probabilmente riscattato; dal peccato del mondo sì.

67
“Antes que cerremos el volumen y despertemos de ese sueño del arte, don Quijote se nos adelanta, despertando él
también y volviendo como nosotros a la mera y prosaica realidad” (J. L. Borges, Análisis, cit., p. 31).
68
C. Morón Arroyo, Nuevas meditaciones del “Quijote”, Gredos, Madrid 1976, p. 215: “Ahora, si ha vivido loco,
quiere morir cuerdo y sabio, que es morir en la gracia de Dios. En la teología se dice que el loco se salvará o condenará,
según el estado de gracia o pecado en que se encontrara cuando perdió el juicio. Como don Quijote era proverbialmente
el Bueno, Dios le dio la gracia de recibir los últimos sacramentos. La escena de la muerte no rompe en ningún sentido el
esquema de la gran obra, sino que la completa. Don Quijote no vuelve a ser el hidalgo amigo de la caza, ni el pastor de
la canción enervada. Don Quijote ha luchado por implantar la justicia y la armonía, y su ideal se encuentra en la tierra.
Toda búsqueda del sentido último de la vida termina o en el puro escepticismo de la diferencia, cuyas líneas son cada
vez más invisibles hasta perderse en el sinsentido total, o termina en Dios, como fuente de todo sentido. Para Cervantes
la verdad absoluta es Dios”. Si osservi quanto Morón, pur non mettendo in discussione il rinsavimento di don Chisciotte
(così come non lo mettono in dubbio le pagine per molti versi stimolanti di C. Bo, L’ombra di Cervantes, in La
religione di Serra, Vallecchi, Firenze 1967, pp. 225-43), si avvicini alla nostra interpretazione. È un’impostazione del
problema, come emerge anche dalle pagine precedenti quella citata, ben diversa dagli schematismi della terminologia
“agostiniana e scolastica” (sic, vol. I, p. XLIX) di M. Casella, Cervantes. Il Chisciotte, Le Monnier, Firenze 1938, vol.
II, pp. 384-89. Qui il concetto fondamentale è quello del dono della verità assoluta, in luogo della propria verità
soggettiva, fatto da Dio a don Chisciotte, ma non a Sancho, che “continuerà a vivere oscuramente sulla terra, passando
ancora d’una in altra illusione”. Ciò è in linea con la contrapposizione fra i due personaggi su cui Casella insiste, ma
assolutamente lontano dalla sensibilità di Cervantes, e, si può aggiungere, dal credo cristiano in generale.
69
[A. Venegas, Agonía del tránsito de la muerte, Punto segundo, cap. VIII (“De la locura que impide la preparación de
la muerte”).]
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