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poi è entrato in contatto con un mondo preciso, quello ellenistico‐romano, e se n’è
impadronito ereditandone istituzioni e strutture nel momento stesso nel quale le modificava:
ma è nel rapporto dialettico tra la gestione di quell’eredità e le modifiche ch’esso vi ha
apportato che è necessario intendere la complessità del suo cammino storico. Ecco perché è
obiettivamente centrale il momento da noi rievocato: quello in cui a un impero nel quale tutti i
culti che non sono espressamente vietati sono ammessi ne succede uno che si riveste della
Verità rivelata ‐ che ha accettato come unica ‐ e la impone vietando espressamente tutte le
altre.
«Ah, se fossi stato là io, con i miei franchi!». Sia o no mai veramente stata proferita da re
Clodoveo, quest’esclamazione cosi splendidamente piena d’amore, di fede, di rabbia, di
commozione e d’incomprensione non serve solo a cogliere l’intensità dei problemi collegati
alla Christianisierung der Germanen, con la corrispettiva e inevitabile Germanisierung des Christentums.
A ben guardare, v’è molto di più. Essa suona come una puntuale ancorché teologicamente
inaccettabile risposta, fornita cinque secoli post eventum, alla domanda con la quale Gesù di
Nazareth, secondo Matteo, accompagna l’intimazione a uno dei suoi, nel giardino del
Getsemani, di rinfoderare la spada: «Credi che io non possa pregare il Padre mio che mandi
subito in mia difesa più di dodici legioni di angeli?». La cultura catecumenale di Clodoveo non
doveva poi essere granché più rozza di quella di Costantino, che pur dirigeva importanti
sessioni conciliari: e, chissà, nemmeno di quella di Teodosio o di Giustiniano, per non parlar di
Carlomagno, che pure fior di sapienti paragonavano a Salomone. Se è vero che Gesù, a
differenza di Mosè e di Muhammad, fu un “profeta disarmato”, è non meno vero che sulla base
della Sua promessa di un Regno che non è di questo mondo e del Suo legato di pace (per
quanto fosse la Sua pace: non quella che dà il mondo ... ) hanno fatto seguito, nel Suo nome e
sotto il Suo segno, regni ben radicati invece appunto in questo mondo, poteri umani troppo
umani, forme di volontà di potenza sostenute da principi ‐ e da prelati ‐ i quali non hanno in
fondo mai cessato di rimpiangere di non essere stati anch’ essi là, sul Golgota, quel giorno, con
i loro armati; e magari, nel fondo dei loro cuori, non hanno mai davvero né compreso né
perdonato il Maestro per non averle in effetti invocate, là e allora, quelle dodici legioni di
angeli, in modo che allora, là e subito, si fondasse il Regno dei Cieli.
Il cristianesimo storico, le Cristianità ispirate al Vangelo (ma anche all’Antico Testamento e
all’Apocalisse) ma sostenute dalle istituzioni e dalle armi, non hanno potuto né saputo né
voluto sottrarsi alla dinamica del potere. Il messaggio loro affidato dal Cristo, la Verità in
grado di accordare a ogni uomo la salvezza eterna, era un’eredità troppo preziosa: e il dovere
dei credenti, a essa collegato, di far si che tutto il genere umano divenisse prima della Fine dei
Tempi un solo gregge sotto un solo pastore, non ha potuto venir accettato insieme con la
rinunzia all’uso della forza. È arduo essere convinti di possedere la Verità che salva il mondo e
al tempo stesso persuasi che per affermarla, nell’interesse di tutto il genere umano, sia illecito
ricorrere alla forza, al compelle intrare: e che quella “santa violenza” non sarebbe, nella sostanza
più intima, essa stessa un atto d’amore. Nell’ebraismo e nell’Islam, religioni di Legge, quella
violenza può essersi presentata o presentarsi come coerente sviluppo delle premesse del loro
patto con Dio: nel cristianesimo invece, religione dello Spirito, essa diviene insanabile
contraddizione, insopprimibile paradosso.
Solo una perfetta metanoia, che avesse radicalmente rinunziato a qualunque forma di potere
su questa terra, avrebbe potuto sanare la contraddizione, sopprimere il paradosso. Quale tipo
di società realisticamente, concretamente e storicamente strutturata sarebbe stato in tal caso
però concepibile? Al di là di alcune esperienze mistiche, le proposte di una società cristiana
alternativa a quelle che si sono poste in dialogo con la potestas huius saeculi fino
all’appropriarsene in tutto o in parte, si sono sempre fondate sull’utopia del ritorno alla
Chiesa delle origini e sono state tutte regolarmente soffocate o hanno tragicamente fallito al
loro scopo.
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Ma la risposta a quella contraddizione e a quel paradosso ‐ la croce, «scandalo per i giudei,
follia per i gentili» ‐ non è mai uscita, sul piano della storia politica, sociale (e militare) delle
Cristianità, dalle due strade alternative o complementari della giustificazione teologica o della
manipolazione e dell’occultamento della verità storica. Già lo stesso simbolo della croce, segno
di vergogna e di morte, ha dovuto fin dall’età costantiniana dorarsi e ingemmarsi, ornarsi di
lauro e incoronarsi di stelle, insomma trasformarsi in simbolo vittorioso, legionario e
trionfale, per venir accettato dalle frotte dei cristiani convertiti di fresco e in fretta,
provenienti da esperienze pagane all’interno delle quali la guerra e la vittoria giocavano
sovente un ruolo primario, disposti ad accettare il Cristo come Dio ma refrattari a
comprendere davvero, e intimamente, il significato del Suo rifiuto di chiedere al Padre le
dodici legioni di angeli in Sua difesa nell’ora della prova: tanto più che Antico Testamento e
Apocalisse fornivano, al contrario, larga messe simbolica e immaginaria al tema del Signore
cinto di gloria, del Dio degli Eserciti. Come potevano mai l’Onnipotenza, la Sapienza e la
Giustizia coniugarsi con l’umiltà, piegarsi al dolore e all’abiezione? È la croce dei Vexilla regis di
Venanzio Fortunato, la croce‐elsa‐di‐spada, la croce segno di martirio ma anche di conquista,
che ha dominato per secoli (sia pure per motivi strumentali) l’immaginario cristiano e anche
postcristiano, fino a tempi recenti e recentissimi: si pensi alle guerre coloniali presentate
come nuove crociate, alle crociate religioso‐politico‐militari della Vandea del 1793, alle
insorgenze italiche del 1799, al Messico del 1917, alla Spagna del 1936, all’ispirazione tanto
profondamente costantiniana che presiedeva ai versi «O Signore! Fa’ della tua croce l’insegna
/ che precede il labaro della mia legione», i quali facevano parte della Preghiera del Legionario
ufficialmente recitata durante le cerimonie religiose della Milizia fascista.
Si sarebbe dovuto meditare su queste contraddizioni, nella misura in cui erano tali. Dal
momento che si preferiva evitarlo, altro non restava se non minimizzare, negare, occultare: o
ammettere giustificando; e difendersi in maniera più o meno imbarazzata o brillante (la
guerra “altare sacrificale” delle demaistriane Soirées de Saint‐Petersbourg) contro chi, in buona o
mala fede, rinfacciava la contraddizione e il paradosso, il tradimento della consegna affidata ai
fedeli dal Principe della Pace come prezzo da pagare per conseguire e mantenere il potere
sulla terra.
Ecco perché le persecuzioni condotte e i massacri perpetrati nel nome della croce non sono
stati né eccezioni confermanti la regola né lamentevoli errori né fatali ma casuali incidenti di
percorso. Tuttavia il loro ricordo, necessario e inevitabile sul piano storico, sarebbe inutile e
pleonastico su quello della coscienza religiosa se non servisse al “dovere della memoria” e a
quella che secondo Giovanni Paolo II avrebbe dovuto esserne la purificazione. E non del solo
cattolicesimo romano, bensì di tutto il cristianesimo. Non solo le crociate, l’inquisizione, i
conquistadores e la Notte di San Bartolomeo, ma ben altro: delitti sui quali è scesa la coltre
dell’oblio. Dal massacro dei 4500 sassoni sui campi di Werden voluto da Carlomagno e dai suoi
vescovi ai genocidi compiuti dai basileis della dinastia macedone nei Balcani e dagli czar tra
Caucaso e steppe dell’Asia centrale al destino degli eretici e delle streghe che ‐ divenuto più
drammatico a partire dal XIII secolo ‐ ha lambito lo stesso XVIII secolo, fino ai delitti commessi
in seguito alla Riforma e alla Controriforma; dalla “pulizia etno‐religiosa” della penisola
iberica quattro‐seicentesca ai “sacri macelli” non solo di Valtellina, ma anche della Ginevra
calvinista e della Münster anabattista di Giovanni da Leyda; dalla ferocia di Maria la
Sanguinaria a quella di Elisabetta I che “Sanguinaria” non fu mai definita ma che avrebbe pur
ben meritato di esserlo, fino alle guerre civili e “religioso‐nazionali” in Scozia e in Irlanda, i
postumi della seconda delle quali durano ancora; dalle infamie commesse da entrambe le
parti durante le “guerre di religione” nella Francia tardocinquecentesca con le sue molte
“Notti di San Bartolomeo” e quindi nell’Europa sconvolta dalla guerra dei Trent’anni che
condussero a quella stanchezza del sangue nel nome della quale si siglarono (che si arrivasse,
una buona volta, alla mutua inter christianos tolerantia, la quale peraltro ‐ beninteso ‐ non
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riguardava né i giudei deicidi né i musulmani infedeli ... ) le paci di Westfalia e dei Pirenei, fino
alle stragi dei native Americans nel Centro e nel Sud, ma anche nel Nord del continente
americano e alla “tratta degli schiavi” stivati in catene dall’ Africa al nuovo mondo a bordo di
vascelli i capitani dei quali conoscevano a memoria interi libri della Bibbia, agli etnocidi‐
genocidi commessi tra Sette e Ottocento in Oceania.
Tutti questi orrori, la maggior parte dei quali non figura o viene presentata in modo
ovattato e distratto nei nostri libri di scuola, hanno riguardato la Cristianità medievale o
l’Europa ch’era ancora cristiana e i re della quale erano ancora “unti del Signore”: ma,
laicizzata e metabolizzata, l’ombra lunga di quest’abitudine al massacro si è proiettata anche
nella Modernità, nella plurisecolare storia della colonizzazione europea del resto del mondo,
un’impresa per la gran parte dovuta a un Occidente nel quale il “processo di secolarizzazione”
era già largamente avviato ma alla quale tuttavia le Chiese cristiane hanno troppo spesso
fornito o dato l’impressione di fornire un alibi: certo, nonostante la loro presenza missionaria
umanitaria nelle colonie, ad attutirne la brutalità; ma, al tempo stesso, proprio attraverso
quella presenza che sembrava in qualche modo legittimare conquista e sfruttamento. Il che
nulla toglie né ai molti e sublimi esempi di pura “evangelizzazione con la parola”, né
all’eroismo di tanti buoni e generosi missionari cristiani di ogni confessione martirizzati
insieme con gli oppressi oppure uccisi da quegli stessi per i quali avevano donato le loro
esistenze, ma agli occhi dei quali apparivano complici degli invasori: dai gesuiti delle
reducciones del Guarani alle schiere di uomini e di donne che hanno seguito l’esempio e hanno
affrontato un destino simile a quello di Charles de Foucauld. Come poi una stessa fede
religiosa possa produrre Francesco d’Assisi e Francisco Pizarro, Thomas More e Oliver
Cromwell, Teresa di Calcutta e Cotton Mather, Albert Schweitzer e il reverendo Paisley, è cosa
appartenente appunto alla contraddizione e al paradosso di cui sopra dicevamo, al mysterium
iniquitatis, alla croce‐scandalo‐e‐follia.
Appena una piccolissima parte di tutto ciò entra nel bagaglio delle conoscenze diffuse, in
quest’epoca di sovrabbondanti informazioni che producono disinformazione generalizzata.
Solo forse quel che riguarda indirettamente la Shoah, in quanto in qualche modo considerato a
torto o a ragione un suo precedente se non addirittura una sua prossima o remota concausa, è
emerso allivello di riappropriazione storica, sia pur con le polemiche, i malintesi e le
menzogne in questi casi inevitabili.
È necessario ricostruire questo quadro storico a tutt’oggi troppo lacunoso e sovente negato.
Ed è importante persuadersi ch’esso ha costituito la conseguenza logica ancorché
naturalmente non necessaria ‐ nulla nella storia è “necessario” ‐ del sogno di Costantino e
dell’editto di Teodosio, del linciaggio di Ipazia e delle leggi di Giustiniano. Non al fine di
giudicare e tanto meno di condannare: ma, semplicemente, per comprendere. Una
comprensione divenuta necessaria proprio oggi, all’alba del XXI secolo, mentre da troppe parti
tornano a risonare nell’Occidente pretestuosi appelli a nuove crociate.
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