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Il treno nella tormenta

Giuseppe Barreca

Solo quando il treno si fermò all’altezza di Fornovo Val di Taro, in provincia


di Parma, mi resi conto di quanto stesse nevicando. Per la verità non ricordavo
quando la nevicata fosse cominciata. Ero partito di buonora, la mattina, e già
prima di Fidenza avevo guardato distrattamente fuori dal finestrino, scorgendo
un biancore uniforme che mi aveva fatto venire sonno. Mi ero poi immerso
nella lettura del giornale per spezzare la noia di quel viaggio fino a Pisa, ma
avevo avvertito i continui rallentamenti del treno con crescente fastidio. Anzi,
due o tre volte avevo avuto l’impressione che il convoglio slittasse sui binari.
Qualche sospiro di nervosismo mi era salito persino alla bocca. D’altra parte,
sapevo che quel treno era classificato come “interregionale” e che il materiale
ferroviario non era di prima scelta. Da Fidenza in avanti il treno aveva
proseguito a singhiozzo, inerpicandosi a fatica sull’Appennino. E ora si era
fermato con un rauco rumore dei freni. Fuori la neve cadeva fitta ma calma e
placida. La stazione di Fornovo appariva bianca, immobile, silenziosa, senza
presenza umana.
Davanti a me, sulla carrozza senza scompartimenti, sedeva una ragazza
bionda, poco truccata, pallida, che leggeva Ritratto di signora di Henry James. Un
capolavoro, a mio parere. Avrei desiderato dirlo alla ragazza, magari per
cominciare una conversazione, ma non mi aveva quasi mai guardato durante il
tragitto. Aveva gli occhi chiari, verdi, i capelli lunghi fin sotto le spalle. Non
aveva detto parola da quando era salita a Brescia. Mi era apparsa subito bella e
triste, un po’ come l’eroina del romanzo di James. Avevo notato che tre o
quattro volte aveva guardato fuori del finestrino con lo sguardo assente,
perduto. Chino sul mio quotidiano, avevo fantasticato un po’ su di lei, come
faccio di solito, immaginandola triste, delusa, avvilita, magari a causa di un
fidanzato burbero e cattivo.
Dopo dieci minuti di sosta a Fornovo cominciai a preoccuparmi. Perché
sapevo che in quella stazione il treno sta fermo al massimo due minuti. Fuori la
nevicata proseguiva copiosa, ma pacata, senza vento. Il paesaggio era molto
bello, soffice: si scorgevano i piedi dell’Appennino parmense, ma non le cime,
nascoste dalla foschia. La stazione di Fornovo era sepolta nel biancore e nulla
in lei sembrava vitale. Però scorsi due o tre volte il capotreno andare avanti e
indietro, affannato, lungo il convoglio. Parlava al cellulare con una certa
concitazione. Di sicuro c’era un problema e stava chiedendo lumi a qualche
superiore.
Nell’attesa, sentii sbuffare qualche passeggero, il quale lamentava il solito
ritardo di quel treno. Beh, come dargli torto: la “Freccia della Versilia”, a
dispetto del nome, “freccia” non lo è quasi mai. Anche perché la linea che si
arrampica sull’Appennino Emiliano per sbucare al di là, alla confluenza tra
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Liguria e Toscana a Santo Stefano di Magra, non consente traversate rapide.
Però quella volta la sosta si prolungava eccessivamente, ed eravamo tutti un
po’ seccati. A un certo punto, la ragazza seduta di fronte a me chiese, a bassa
voce: «Scusa, che ore sono?».
La cosa mi stupì. Non credevo mi avrebbe mai rivolto la parola: fino a quel
momento i suoi occhi erano stati per lo più fissi sulle pagine di James, con
qualche capatina furtiva verso il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino.
Aveva una voce esile, che mi parve adatta al suo visino acqua e sapone.
Le risposi prontamente: erano le 10 e mezza. Aggiunsi, per non lasciare
cadere quell’opportunità di dialogo: «Chissà con tutta questa neve se il treno ce
la farà… ». Sorrisi dopo questa frase, ma la ragazza mi guardò come se avessi
detto una cosa grave e importante. E ribatté seria e compita: «Mah, non so,
sapevo che non dovevo prenderlo oggi, questo treno». Mi domandai se quella
risposta fosse un modo per avviare una conversazione o per troncarla sul
nascere... La ragazza riprese subito a leggere. Io non aggiunsi nella perché non
desideravo fare la parte di quello che “ci prova” sul treno. Perciò tornai a
scorrere il mio giornale.
«Arriveremo mai a Pisa?».
Quella domanda mi colse quando stavo per leggere un articolo di politica
estera. Chi aveva parlato? Ancora lei, la ragazza dal volto bianco… Pensai che,
per spezzare la noia di quella sosta forzata, volesse dialogare con me. Alcuni
passeggeri, sfidando il freddo, erano scesi sul marciapiede a fumare. La ragazza
mi guardava con un sorriso delicato, timido, come volesse scusarsi per il
disturbo. Risposi con una frase fatta:
«Con le ferrovie si sa quando si parte, non quando si arriva… ».
La ragazza mi guardò sorridendo ancora di più. Le guance avevano preso un
po’ di colore. Mi disse: «Certo… Ehm, scusa, piacere, io mi chiamo
Francesca», e allungò la sua mano verso di me… Poi aggiunse: «Quando parlo
mi piace sempre sapere il nome dell’altro».
Io, sorpreso, le diedi la mano senza dire nulla. Toccai una mano dalla pelle
morbida, asciutta. Temo che la mia fosse invece un po’ sudata, ma Francesca
non parve accorgersene. La sua stretta fu salda, franca. Alla fine io dissi:
«Piacere mio, Andrea».
Con quel colorito sulle guance e l’aria un po’ meno abbattuta, mi piaceva
ancora di più. Soprattutto, quando sorrideva lo faceva con garbo, ma
spontaneamente, non perché cercasse di controllarsi, ma perché, dedussi, la
sua indole era fatta a quel modo. Compita, timida, dolce.
Ricominciammo a parlare ma fummo interrotti quasi subito. Arrivò il
controllore. L’uomo, chiuso nel suo cappotto blu orlato di neve, era entrato
nella carrozza con una certa precipitazione, arrestandosi sul limitare della porta
di comunicazione tra le carrozze e assumendo un atteggiamento guardingo,
come se temesse la reazione dei passeggeri. Disse: «Avvertiamo i signori
viaggiatori che, a causa dell’intensa nevicata in atto, si sono spezzati alcuni cavi
dell’alimentazione sulla linea. Al momento non sappiamo quando potremo
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riprendere il viaggio. Vi consigliamo di recarvi presso il bar della stazione per
avere un po’ di caldo. Ci scusiamo per il disagio».
Se ne andò quasi subito, mentre qualche passeggero scattò verso di lui,
anelante ulteriori informazioni. A me e a Francesca quell’intervento fece solo
ridere, perché il capotreno aveva parlato come un libro stampato e ci era parso
buffo. Evidentemente le ferrovie avevano ancora molta strada da fare per
curare bene le pubbliche relazioni e l’assistenza alla clientela. Ma che importava
alle ferrovie dello stato della clientela di un misero treno interregionale,
bloccato dalla neve nella sperduta stazione di Fornovo Val di Taro?
Il bar della stazione era il classico bar della stazione: un po’ tabaccheria, un
po’ tavola calda, un po’ circolo ricreativo. Deprimente e affumicato. Francesca
e io riuscimmo a sederci in un tavolino logoro, del genere “i favolosi anni ’60
non passano mai”. Gran parte dei passeggeri si erano riuniti nel bar per
sfuggire alla tormenta. Lì dentro era caldo, si stava bene, anche perché fuori la
nevicata era aumentata di intensità e aveva preso a spirare un vento gelido da
nord. Io avevo fame e mi mangiai un panino, mentre Francesca prese un
cappuccino con brioche.
Fino a quel momento avevamo conversato amabilmente. Devo ammettere
che quella sosta non si stava rivelando per niente seccante. Anche Francesca
non appariva contrariata. Molti viaggiatori, invece, imprecavano, sbuffavano,
parlavano in modo concitato al cellulare, chiedendo notizie a casa a chi poteva
guardare la TV o consultare internet. Io non avvertii la mia fidanzata che mi
aspettava a Pisa per le 18.20, perché ritenevo che il ritardo non fosse ancora
eccessivo. O forse perché volevo chiacchierare con Francesca e non rivelarle il
mio status di uomo “impegnato”?
Nemmeno Francesca scrisse, né telefonò a qualcuno. Discorreva con me, ma
senza guardarmi quasi mai negli occhi, e senza dirmi nulla di lei, ma solo frasi
fatue, banali. Così, approfittando di un momento di calma nel bar, le chiesi con
affettata noncuranza:
«Tu hai avvertito a casa? Io aspetto, perché non so come andrà».
Mi fissò solo un istante quasi stupita. Ebbi l’impressione che i suoi occhi si
fossero arrossati. Stava per piangere? E perché? Avevo ragione allora a vederla
triste e preoccupata… Non rispose alla domanda, ma mi fece questa proposta:
«Ti va se usciamo un attimo da qui? Fumo una sigaretta».
Uscimmo. Ci accomodammo su una banchina di cemento sul binario uno.
C’era una calma irreale là fuori. Riparati dalla tettoia, contemplavamo la neve
cadere e depositari sui binari davanti a noi e sulla tettoia che sovrastava gli altri
binari. Il nostro treno, al binario 4, appariva spettrale, perso nel biancore gelido
di quella giornata. Sentivo freddo, ma non potei pensarci troppo perché
Francesca divenne all’improvviso ciarliera.
«Sai, io non do molte confidenze agli estranei di solito. Però tu mi sai
ascoltare, e non mi accade spesso ultimamente. Intendo, non succede di
incontrare persone che mi sappiano ascoltare veramente. Forse la situazione
facilita i contatti, non so. Tu dove stai andando? A Pisa dalla tua ragazza? Ah,
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ho capito. Io invece scendo a Sarzana, c’è una mia zia che abita lì. E come mai
la tua ragazza sta a Pisa? È di lì, vive lì? Ah, ho capito, frequenta la Normale.
In cosa si laurea? Ah, capisco, sta facendo il dottorato. Bello. Io sono
un’impiegata amministrativa. Naturalmente è un mestiere che odio, però mi dà
da campare a sufficienza. Perché vado a Sarzana? Perché avevo bisogno di un
po’ di vacanza. So che manca una settimana a Natale, ma ho voluto anticipare
il tutto per starmene tranquilla».
Francesca aveva parlato velocemente, senza quasi attendere le mie risposte
alle domande che mi aveva posto. Quando tacque io non replicai nulla, perché
sentivo bisogno di silenzio. Mi piaceva molto quella ragazza dal viso limpido e
pulito, ma presentivo che nascondeva in sé un grumo di dolore, una
sofferenza. Cercavo nella mia testa la domanda giusta da porle: desideravo
sapere altre cose di lei, ma temevo di apparire indiscreto. Intanto guardai
nervosamente l’orologio: erano le dodici e mezza. Eravamo fermi da due ore in
quella stazione, ma non me ne ero quasi accorto. Non le feci nessuna
domanda, perché fu lei che riprese a parlare:
«Sai, non vorrei apparirti una sprovveduta se ti concedo tutta questa
confidenza. Non voglio annoiarti… Sì, grazie, mi ascolti volentieri, grazie che
lo dici. Voglio crederti».
Un’altra pausa. Mi parve sempre più abbattuta e triste, lì al mio fianco, sulla
panchina. Il ritratto della solitudine. Che fosse pazza? Che volesse farla finita?
Ebbi un brivido di freddo e di paura. La voce di Francesca nel frattempo era
divenuta più salda, mentre i suoi occhi rimanevano fissi a terra, come se non
stesse dialogando con me, bensì con se stessa. Aveva le mani rosse per il
freddo. Ebbi l’impulso di prenderle nelle mie. Mi trattenni. Poi lei disse,
sempre senza guardarmi:
«Io sto scappando, lo sai? Dal mio futuro, dal mio fidanzato, dalla mia vita.
Anzi, da un pezzo della ma vita».
Questa volta aveva parlato a scatti, con un tono di voce asciutto, come se
dovesse confidarmi una cosa scomoda e avesse fretta di farlo. Come per
sgravarsi da un peso. Rimasi di sasso, sconcertato. Mi aspettavo altre parole da
lei, a mo’ di spiegazione dopo quella frase così enigmatica, ma Francesca si
appoggiò allo schienale e sospirò, tacendo. Poi si strinse la sciarpa al collo e
cominciò a piangere piano. Io ero esterrefatto e imbarazzato. Non sapevo che
fare. In fondo lei per me rimaneva un’estranea. All’improvviso Francesca mi
disse: «Scusa un attimo, vado in bagno. No grazie, non accompagnarmi. Anzi,
torna al bar, vedo che hai freddo». E si alzò dirigendosi verso la toilette (1).

La rividi quasi un’ora dopo. Ero tornato nel bar e avevo parlato un bel po’ di
minuti al telefono con la mia ragazza. Non avevo badato all’assenza così
prolungata di Francesca. Stavo bene al calduccio. Avevo anche raccolto alcune
informazioni che parlavano dell’autostrada della Cisa, anche lei bloccata dalla
neve. I treni che salivano da S. Stefano di Magra verso l’Emilia (provenienti
dalla Liguria o dalla Toscana) limitavano le loro corse a Pontremoli, dall’altra
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parte del valico. I tecnici delle ferrovie avevano, infatti, parecchie difficoltà a
raggiungere il tratto di linea danneggiato dalla neve. Oltretutto le previsioni del
tempo non erano favorevoli. Insomma, difficilmente saremmo potuti andare
avanti entro la serata. Qualcuno accennò alla possibilità di pernottare a
Fornovo, a spese delle ferrovie. L’idea mi parve bizzarra.
Quando Francesca tornò, appariva più rilassata. Si scusò per l’assenza,
assicurandomi che aveva parlato al telefono con sua zia, che l’aveva avvertita
del ritardo e così via. Le credetti, naturalmente.
Era ormai l’una e mezza passata. Dovevamo mangiare. Uscimmo dalla
stazione in mezzo ad una nevicata furiosa. Camminavamo a fatica: c’erano
almeno 30 cm di neve al suolo. Diedi il mio braccio a Francesca, per evitare
che scivolasse stante le sue scarpe basse. Mangiammo una pizza in una trattoria
nei paraggi, passando due ore liete. Durante il pranzo Francesca apparve più
sollevata, tranquilla, leggera. Discutemmo di varie cose, e la trovai sempre più
simpatica, interessante. Mi disse che si dilettava di fotografia e mi raccontò dei
suoi servizi e del blog che aveva messo rete, dove pubblicava le sue foto. Mi
feci dare l’indirizzo del blog e la sua e-mail, perché, pensai, magari avrei potuto
rivederla o comunque tenermi in contatto con lei. Avrei voluto sapere più cose
sulla sua vita, avere delle spiegazioni dopo la frase che mi aveva detto in
mattinata, capire perché stesse scappando. Non sapevo come fare, ma fu
Francesca a trarmi d’impaccio, perché dopo il caffè mi raccontò tutto.
Conviveva da tre anni con un ragazzo di Brescia (lei era originaria di
Rovato). A suo dire, le cose erano andate sempre molto bene tra loro. Lui
lavorava in banca, lei aveva un lavoro “sicuro. Poi, un anno prima, avevano
deciso di sposarsi. Francesca affermò che aveva accettato con gioia questa
cosa, perché amava quell’uomo e credeva di essere pronta a compiere un passo
tanto importante. Era stato dunque per lei un anno pienissimo di faccende, di
progetti da elaborare e da realizzare. Spesso, durante quell’anno, lei e il suo
compagno avevano anche accennato alla possibilità di avere un figlio.
Francesca mi raccontò che era stata entusiasta dell’idea; però, di comune
accordo, lei e il suo compagno avevano deciso di aspettare che quell’anno
passasse in modo da fare le cose con maggiore calma.
Si sarebbero dovuti sposare tre giorni dopo il nostro incontro di quel
momento. Ossia a ridosso del Natale. Io rimasi stupito di questa cosa, ma lei
mi assicurò che non è rara come eventualità, anche perché sarebbero dovuti
andare alla Seychelles in viaggio di nozze. Tuttavia Francesca aggiunse che,
man mano che si avvicinava la data del matrimonio e che la frenesia dei
preparativi si acuiva, qualcosa in lei aveva cominciato a spezzarsi. Disse che
non si trattava della classica paura che coglie le persone di fronte a eventi
rilevanti per la propria vita. Perché quell’agitazione è umana, la si sopporta
bene e anzi serve a creare maggiore concentrazione per quello che dovrà
succedere. No, lei avvertiva dentro di sé un’inquietudine solida, un groppo alla
gola quasi continuo, e non si spiegava il motivo. Con il suo compagno avevano
iniziato a litigare per cose da nulla e più lui si mostrava comprensivo e
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tranquillo, più lei trovava occasioni per questionare. Insomma, confessò
Francesca, era cominciato una specie d’inferno quotidiano. Io pensai che fosse
depressa, ma ovviamente non glielo dissi. Lei mi raccontò di diverse notti
passate tra le lacrime e della decisione, presa il giorno prima del nostro
incontro, di “fuggire”. O meglio, di rifugiarsi dalla zia di Sarzana, la sorella
della madre, con la quale c’era uno speciale rapporto di confidenza fin
dall’infanzia. Quella mattina aveva fatto finta di andare al lavoro, poi era salita
sul treno e adesso si trovava lì con me… Le chiesi se non stesse in pena per
sua mamma che era all’oscuro di tutto, ma mi assicurò di averla chiamata in
precedenza, quando era stata in bagno, per spiegarle la cosa. Quella facilità nel
confessarsi mi stupì, anche se avvertivo che tra me e Francesca esisteva
un’affinità. Lei si fidava e poi, quando mai ci saremmo rivisti?
Verso le quattro tornammo in stazione, perché ci era venuta la strana idea
che il treno fosse ripartito senza di noi. Ma sapevamo che era impossibile, dato
che in pizzeria avevamo incontrato altri viaggiatori. Faceva freddo, nevicava
ancora e il giorno declinava. Fornovo rimaneva spettrale sotto quella nevicata
che non finiva più, anche se il gestore del bar della stazione e della pizzeria di
fronte si fregavano le mani per gli affari che avevano fatto.
Quando entrammo di nuovo nella stazione, dissi a Francesca di aspettarmi
nell’atrio: io sarei andato a informarmi, dato che avevo scorto un capannello
attorno ai ferrovieri. Francesca si sedette su una panchina di marmo. Stava
calando l’oscurità e l’ambiente della stazione, già di per sé cupo, assumeva, in
quel crepuscolo dai colori anestetizzati dalla neve, un’atmosfera sepolcrale.
Ricordo bene che mi colse un’angoscia improvvisa quando varcai la porta
d’entrata della stazione, appena scorsi quell’ambiente così tetro.
La situazione, secondo i funzionari delle ferrovie, non era risolvibile entro
sera. La linea sarebbe stata ripristinata non prima delle due di notte, sempre
che la nevicata si fosse calmata. I cavi dell’alta tensione erano caduti per il peso
della neve e del ghiaccio. Era inutile tenere i viaggiatori in attesa, sarebbe stato
meglio ripartire l’indomani mattina. La soluzione era una sola: le ferrovie
avevano chiesto a due alberghi che si trovava nelle vicinanze della stazione se
poteva ospitare le duecento persone presenti sul treno. Le camere erano libere
e dunque sarebbe stato opportuno farsi assegnare una camera, rifocillarsi,
mangiare un pasto caldo e andare a dormire presto. Naturalmente le ferrovie
avrebbero pagato il pernottamento, non la cena. Molti protestarono, alcuni
presero a male parole i ferrovieri, i quali non poterono far altro che allargare le
braccia sconsolati. Mi allontanai per comunicare la notizia a Francesca.
Mi fermai però quasi subito. L’atrio era sempre più buio. Francesca sedeva
lontana, con le mani nella giacca a vento e lo sguardo, mi pareva, perso nel
vuoto. Ebbi per un istante l’idea di vedere un film americano, come quelli in
cui i passeggeri di un aereo naufragano sulle Ande o non so dove e riescono a
sopravvivere dopo giorni di sofferenza, mangiando i cadaveri dei passeggeri
morti durante l’incidente. Certo, la nostra situazione era migliore, però ogni
cosa stava assumendo, quel giorno, un’aria inconsueta, singolare. Anche
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l’incontro con quella ragazza, così attraente e così strana (o dovrei dire
ambigua?), mi pareva surreale. Di nuovo ebbi un piccolo sussulto d’ansia,
senza capire il perché.
Quando la raggiunsi, raccontai tutto a Francesca. Non mi disse nulla, si
limitò ad abbozzare un sorriso stanco, molto tirato, diverso da quelli che aveva
fatto prima. Non so perché ebbi quest’impressione, ma mi sembrò il sorriso di
chi vede realizzarsi un’aspirazione inconfessata, desiderata e temuta al tempo
stesso. Un’altra cosa che mi sorprese fu la remissività del suo atteggiarsi:
Francesca rimaneva sulla panchina, come se non le avessero appena detto che
avrebbe dovuto passare la notte in una cittadina dell’Appennino, in mezzo a
una fitta nevicata, con gente che non conosceva. Ma io avevo fretta: la guardai
solo per un istante, perché mi premeva recarmi in biglietteria dove avevo
sentito che si stavano assegnando le camere. Non vedevo l’ora di una doccia
calda e di stendermi sul letto.
C’era una lunga fila di fronte alla biglietteria. Molta confusione, concitazione,
irritazione nei passeggeri. Le fronti dei controllori e del personale delle ferrovie
erano madide. E corrucciate. Alla fine, quando toccò a me, erano rimaste due
stanze singole e una doppia. Ebbi la tentazione di chiedere la doppia in modo
da stare con Francesca e dirle poi che, per una sfortunata serie di circostanze,
era stata l’ultima camera disponibile ed ero stato praticamente costretto a
prenderla. Ma non lo feci. Tuttavia, mi andò “bene” lo stesso: ci diedero due
singole attigue. Più tardi, tornando verso Francesca, un forte desiderio di lei, la
voglia di trasgressione e una sensazione di indifferenza verso Marta, si
impadronirono di me. La situazione mi rendeva eccitato e curioso. Comunicai
a Francesca l’esito dell’assegnazione delle camere, la vicinanza delle nostre
stanze, e lei si illuminò di un sorriso che mi fece battere il cuore. I suoi occhi,
che apparivano più larghi e dolci in quel momento di contentezza, mi parvero
bellissimi, mentre mi resi definitamene conto che avrei voluto passare con la
notte con lei.
La camera d’albergo era dignitosa: un letto matrimoniale (la famosa “doppia
uso singolo”), un tavolinetto di legno, un comodino in fòrmica, l’armadio, la
televisione in alto, di fronte al letto. Un bagno ampio e accogliente. Per
arrivare all’hotel ci volle un po’ di tempo perché, nell’oscurità illuminata da esili
lampioni gelati, la neve aveva ripreso a cadere con violenza, accompagnata da
un vento gelido che tagliava la pelle e ci faceva sussultare di freddo. Mentre
camminavamo, Francesca, per non scivolare, si appese due volte al mio
braccio. Quando lo fece per la terza volta, non glielo lasciai più e lei mi parve
contenta di quel supporto. Il contatto con il suo giaccone mi rese ancora più
desideroso di lei, mentre Marta mi appariva una presenza lontana, che mi
aspettava, ignara del mio tradimento sognato, lì nella piovosa Pisa (2).

Appena entrato nella camera, mi stesi sul letto qualche minuto, affondando
nel materasso un po’ troppo morbido. L’odore solito delle lenzuola d’albergo
mi avvolse. Avvertii subito un benefico tepore: ero stanchissimo, sul punto di
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addormentarmi. Ma erano solo le cinque e mezza e alle sette, ci avevano detto,
sarebbe stata servita la cena, non un minuto più tardi. La direzione dell’albergo,
infatti, visto l’eccezionale afflusso di ospiti, era costretta a chiedere la massima
puntualità per questioni organizzative.
Per evitare di assopirmi, accesi la televisione, ma prima litigai qualche minuto
con i cuscini, perché le TV degli alberghi paiono fatte apposta per essere
guardate soltanto se si è sdraiati sul letto. Qualsiasi altra posizione rende
impossibile adocchiare il televisore. Alla fine comunque lasciai perdere. Mi
avviai verso il bagno, ma prima dovetti rispondere al telefono: era Marta che
voleva avere notizie sulla situazione, perché aveva letto su internet del treno
bloccato. Come al solito, i media avevano cominciato a sparare scempiaggini,
alimentando l’allarmismo solo per avere più audience. Io tranquillizzai Marta,
cercando di essere affettuoso e rassicurante. Mentre parlavamo, riconobbi lo
scroscio della doccia della stanza a fianco, quella di Francesca, e un brivido di
eccitazione mi attraversò il corpo. Salutai Marta, avvertendo subito dopo il
senso di colpa che mi saliva lungo la schiena, mi accarezzava le spalle, mi
solleticava il petto.
Naturalmente cenai con Francesca nella grande sala dell’albergo. Gli altri
passeggeri sembravano più quieti, o forse rassegnati, ora che si stavano
rifocillando. Anche Francesca mi apparve più distesa e calma. Ne fui felice.
Eppure io ero sempre meno tranquillo, in preda a un’agitazione che non
dominavo e che non capivo. O che fingevo di non capire. In realtà c’era un
motivo chiaro. Non sapevo che fare per “conquistare” Francesca, perché
avevo deciso che quella notte sarebbe dovuto succedere qualcosa tra di noi. Mi
sembrava un destino quella nevicata eccezionale, quella sosta forzata,
quell’intimità “obbligata”. Ho sempre avuto una predilezione particolare verso
quelle storie che narrano di incontro di una sola notte, di amori intensi e
brevissimi. Quella sera ero euforico, eccitato, ma anche incapace di elaborare
una strategia per fare mia quella ragazza così strana, in fuga da un possibile
matrimonio. Non ero ancora del tutto certo della verità di quello che mi aveva
raccontato, però non me ne importava molto. Durante la cena Francesca, più
ciarliera, mi mostrò più volte un sorriso fanciullesco, che si disegnava con
dolcezza sulla sua bocca piccola dalle labbra tanto rosse. Quel sorriso appena
accennato mi aveva ormai definitivamente conquistato.
Finimmo di mangiare e ordinammo, prima del caffè, un sorbetto al limone.
Era una vera schifezza, ma non me ne accorsi, perché in quel momento
praticamente bevevo le parole di Francesca, e non m’interessavo a nulla d’altro.
La ragazza diceva:
«Sai, posso apparire una matta, perché Alfredo, a guardarlo dall’esterno, è
proprio un tesoro, ha tante caratteristiche che adoro e che mi piacciono.
Perché l’ho scelto, mi chiedi? Bella domanda, ma non so rispondere. Io penso
che giustificare i sentimenti sia impossibile, perché non hanno quasi mai una
logica, se non quella del cuore… ».

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Sentire quelle frasi da fiction italiana moderna mi depresse un po’. Odiavo le
frasi celebri dei baci Perugina: per un attimo Francesca mi parve una ragazza
un po’ scontata. Ma continuava a muovere con delicatezza quelle sue labbra
rosee che avrei baciato all’istante. E poi quel suo viso, lievemente soffuso di un
colore roseo, mi pareva ancora più delicato. Per cui stetti ad ascoltarla senza
dire nulla, anche se tra me e me pensavo a come agire per poterla avere,
almeno per una notte.
«Comunque so che sto facendo una grande scemenza… E che prima o poi
dovrò affrontare la realtà, tornare nel mio ambiente, rivedere Alfredo,
spiegargli tutto. So quanto possa stare male per la mia assenza e quanto dolore
gli abbia dato. Non s’aspettava questo gesto. Ma io piangevo quasi tutte le
notti, e più Alfredo era gentile, comprensivo, più mi veniva da piangere. La
decisione di sposarlo è nata in me senza pensarci, solo perché mi sembrava di
fare la cosa giusta, di sposare la persona adatta. Per mesi tutti mi hanno fatto i
complimenti per la scelta, incoraggiandomi, dicendomi che ero fortunata, che
avevo l’opportunità di vivere con una persona di valore e così via. Mia madre,
quando ha saputo delle nozze, ha pianto per dieci minuti. Si vedeva che non
aspettava altro. E io, arrivata a trent’anni, mi sono sentita, come dire, quasi
obbligata a farlo. Convivevamo da tre anni, come ti ho detto e, sai, a volte
giunge un momento in cui la convivenza, come dire, non basta più. Non è una
questione morale, perché non me ne frega niente. È una questione di direzione
della vita, di progetto da abbracciare assieme. Almeno, questi sono i pensieri
che ho fatto l’anno scorso, guardando al mio futuro. Allora abbiamo deciso il
matrimonio. Ma solo in questi ultimi tempi mi sono accorta che ho fatto tutto
con la testa, con la logica, ascoltando sempre e soltanto gli altri, mai me stessa,
né il mio cuore. Mi ero lasciata guidare, perché non avevo mai guardato
veramente dentro di me. È come quando passiamo davanti ogni giorno agli
stessi negozi e ormai non badiamo più a come sono fatti, a quale merce
vendono. Poi una mattina, senza apparente motivo, ci accorgiamo invece di
mille particolari che ci erano sfuggiti le centinaia di volte che eravamo passata
da lì. A me è successo in questo modo: mi è bastato osservare con calma il mio
animo, e scoprirmi indecisa, forse non innamorata di Alfredo».
Quell’immagine mi piacque. Avrei voluto approfondire l’argomento. Ma
erano le dieci di sera, avevo sonno, eravamo nella hall dell’albergo, c’era un bel
tepore e io mi ero alzato alle sei. La storia che Francesca mi aveva raccontato
non era poi così rara, ma lei la riferiva bene, disegnando un sorriso lieve,
appena accennato, sulle labbra, quasi un estremo atto di riservatezza. Ma
ormai, benché ci conoscessimo ufficialmente da undici ore, molte barriere
erano cadute tra di noi.
Eppure, nonostante i miei propositi di conquista e la mia brama di avventura
a sfondo sessuale, del genere “bottarella”, la combinai grossa. Da qualche
minuto, infatti, sentivo che mi stava assalendo una grande spossatezza. Cercai
di resistere, ma ogni sforzo fu vano. Alla fine, non mi trattenni più, e comincia
a sbadigliare… Francesca mi guardò indulgente, sorridendo in modo amabile.
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Ma ormai la diga era saltata: gli sbadigli mi salivano alla bocca uno dietro
l’altro, facendomi lacrimare gli occhi. Ero arrabbiato con me stesso, perché
capivo che in quel modo mandavo a Francesca segnali di un mio disinteresse.
Lei mi apparve delusa: mi domandò scusa per aver parlato troppo, e
dignitosamente volle salutarmi. Io protestai, assicurandole che non era vero,
ma gli sbadigli salivano a pioggia sulla mia bocca, non c’era nulla da fare. Anzi,
più opponevo resistenza, più essi si accanivano, come se il mio organismo non
ce la facesse più e reclamasse il riposo. In effetti, avevo tanto sonno e lei lo
aveva capito. Si alzò e mi diede la buonanotte. E io, a malincuore, salutai
Francesca, abbracciandola su una poltrona della hall. L’abbraccio mi scosse, mi
diede l’impressione di un corpo pronto a unirsi al mio. Ma non feci nulla, mi
mancò il coraggio. La vidi allontanarsi piano, con la sensazione che se l’avessi
rincorsa e le avessi toccato una spalla, molte cose sarebbero successe. Non lo
feci.
Poco dopo mi diressi verso la mia stanza. Passai vicino alla porta della
camera di Francesca, guardandola solo di sfuggita, quasi fosse qualcosa di
sacro e di intangibile per me. Poi, spinto da una specie di impulso
incontrollabile, sfiorai con le nocche il legno della porta. Non posso affermare
che bussai, perché il tocco fu proprio lieve, accompagnato da un batticuore
furioso e dal sudore alle mani. Infatti, Francesca non rispose. Interpretai il
tutto come un segno del destino. Deluso e amareggiato, entrai in camera mia.
Credo di essermi addormentato all’istante. Non ricordo nemmeno se mi lavai
i denti. Credo che m’infilai il pigiama come un automa, pieno di sonno e di
scoramento per aver fatto quella figura davanti a Francesca. Sapevo che il
giorno successivo saremmo ripartiti e che non l’avrei più rivista. Alla fine, mi
dissi, sarebbe tornata sui suoi passi, sposandosi, e accontentandosi di vivere
un’esistenza dignitosa ma un po’ spenta, forse. Poi caddi in un sonno pensante.
“Toc”.
Mi svegliai di soprassalto, con il cuore in gola. Sì, sembrava il rumore di
qualcuno che bussa alla porta… Mezzo addormentato, tesi l’orecchio per
sincerarmi se ci fosse effettivamente qualcuno che bussava o se fosse stata
un’allucinazione. Nel frattempo, guardai l’orologio e vidi che era mezzanotte.
“Toc, toc”.
Qualcuno bussava alla porta. Ma chi? Mi dissi che mi sarei dovuto alzare. Il
freddo della stanza mi fece rabbrividire. Una lieve angoscia mi avvolse, forse
era la paura di uno sgradevole imprevisto.
«Chi è?», domandai con il cuore che ballava nel petto (3).

Era Francesca. Da dietro la porta mi chiese scusa per il disturbo e mi


domandò se poteva entrare. Aveva una voce flebile; pensai, non so perché, che
fosse la voce di chi ha appena pianto ma cerca di non farlo capire.
Attonito, presi tempo, cercando di capire cosa fare. Sapevo però che avrei
aperto. Solo che per qualche attimo due pensieri mi attraversarono la mente. Il
primo, conturbante, fu questo: se una ragazza vuole entrare in camera tua a
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quell’ora, non lo fa certo per parlare dell’ultimo film che ha visto. Ebbi un
sussulto d’eccitazione, unito alla vaga reminiscenza di scene di film
pornografici visti e rivisti qualche anno prima. Poi, pensai, che avrei tradito
Marta, ma mi assolsi all’istante, perché avrei classificato quella cosa con
Francesca come un’avventura vissuta per cause di forza maggiore. Infine,
girando la chiave nella toppa, sentii una specie di ritrosia, un’improvvisa
resistenza. Fu un presentimento? Non so, ma quando aprii e vidi Francesca in
pigiama rosa che mi sorrideva come volesse scusarsi e non trovasse le parole
per farlo, pensai che fosse ancora più attraente.
Appena entrò in camera, Francesca chiuse la porta alle sue spalle e mi baciò
sulla bocca con foga: un odore di dentifricio alla menta m’invase la bocca. Il
mio sangue prese a ribollire e mi dissi: “Ci siamo”. Un regista esperto di film
erotici non avrebbe potuto scegliere una sceneggiatura migliore di quella.
Furono due ore trascorse divinamente. Francesca sembrava la donna con cui
stavo da anni: ci fu un’intesa erotica immediata e inebriante; tra le cose che
rammento con particolare forza, fu la fame di lei che esplose in me al primo
tocco delle sue labbra sulle mie. Non ci staccammo per due ore buone e fu
tutto fantastico, una cosa che raramente capita nella vita e che va raccontata
solo a pochi amici fidati, facendoli impallidire di invidia e gelosia per la propria
fortuna.
Dopo quelle due ore di sesso intenso e inebriante, mi addormentai di colpo,
come un sasso, abbracciato a Francesca, che mi ringraziò per quello che era
successo. Nel dormiveglia, balbettai un “grazie” che dovette suonare un po’
inusuale, ma anche i ringraziamenti di Francesca mi erano parsi fuori luogo.
Come se le avessi fatto un favore, come se io le fossi servito per un’ultima
follia prima del matrimonio! Una specie di addio al nubilato sui generis, senza
cene con le amiche, né spogliarellista fico, macho e vagamente pompato che si
esibisce dopo cena, ma un addio passato in una stanza d’albergo di un paese
dell’Appennino a fare sesso con un uomo praticamente sconosciuto. Certo che
aveva scelto un bel modo per dire addio al nubilato! Che avesse preordinato
ogni cosa? È vero che per una donna che vuole avere un’avventura la cosa è
molto più semplice, però immaginare che Francesca avesse architettato tutto
non era possibile…
Erano questi i pensieri che venivo facendo, immerso nel sonno. Fu però un
sonno agitato: continuai a chiedermi il perché di quella nottata, pensavo al
momento in cui avrei parlato agli amici del fatto, poi m’immaginavo che
Francesca si fosse alzata dal letto, camminasse nella stanza, andasse in bagno.
Sognai Marta, la vidi pura e senza colpa, ignara della mia avventura, in attesa
del mio arrivo a Pisa. Francesca nel sonno (e nei sogni) mi sembrava essere
sempre in movimento per la stanza quella notte, ma non avevo la forza per
alzarmi e chiederle cose stesse facendo. Due o tre volte ebbi la sensazione che
lei mi urtasse: ma non mi svegliai appieno per chiederle se stesse bene, se il
letto fosse troppo piccolo, perché alzare le palpebre e muovere la bocca mi
apparivano gesti troppo faticosi. Una specie di benefica paralisi mi teneva
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inchiodato al letto, steso sul materasso e sulle lenzuola come un macigno. Non
volli verificare se Francesca camminasse davvero o io stessi sognando, anche
perché nel sonno le immagini di Francesca e Marta si confondevano. E la cosa
non mi fece bene. Infatti, dopo l’amore, mi accorsi che avrei preferito che
Francesca fosse tornata nella sua camera, perché cominciavo ad avvertire, nel
profondo del mio animo, un tenace senso di colpa.
A un certo punto pensai però ebbi l'impressione che Francesca mi avesse
dato uno strattone e che stesse facendo un po’ troppo rumore. E poi da un po'
sentivo sempre più freddo. Insomma, compresi che non stavo sognando
affatto e finalmente mi scossi, cercando di alzare la testa dal cuscino. Sollevai il
capo e sentii qualcosa davanti alla bocca, una specie di fazzoletto bagnato…
guardai davanti a me e rimasi attonito. Ero steso supino, nudo, avevo freddo;
la stanza era illuminata dall’abat-jour della piccola scrivania alla destra del letto.
Sentivo la mia testa pesante. Cercai di muovermi, sempre credendo di sognare
e affogato nello stupore più nero, ma non potei farlo. Voltai la testa a destra e
a sinistra e, sconvolto, mi accorsi che avevo i polsi legati alle due estremità
della testata del letto. Sempre più terrorizzato, con il cuore che ballava nel
petto e la paura che mi pietrificava l’anima, mi accorsi che anche le caviglie
erano legate con delle corde alle due estremità inferiori del letto. Avvertivo un
fastidioso bruciore ai polsi: più cercavo di muovermi, più il dolore si faceva
acuto.
Era davvero difficile pensare che quel che vedevo fosse reale. Eppure la
sorpresa non era finita. Guardai diritto davanti a me e rimasi, se era possibile,
ancor più senza fiato: sulla seggiola sedeva Francesca, nuda, con le gambe
accavallate. La luce debole della lampada la illuminava fiocamente, dal suo lato
sinistro, donandole un aspetto spettrale. Francesca mi guardava fisso, anche se
non potevo scorgere i suoi occhi. Aveva le mani unite su una coscia, mentre i
seni nudi un po’ a punta e “a uscire” , nella fioca penombra della stanza, mi
apparvero come due uncini appuntiti, pronti a ferirmi.
Poi Francesca parlò. La sua voce mi apparve suadente, sottile, suadente,
forse sensuale. Alzandosi, e venendo verso di me, mi disse:
«Che dormiglione che sei… ».
Non potei rispondere nulla per via della benda che mi chiudeva la bocca.
Tremavo per il freddo e per la paura. Nell’aria della stanza aleggiava ancora
l’odore dei nostri corpi che si erano uniti fino a poco prima. La mia serata
trasgressiva si stava trasformando in tragedia? Mi vennero in mente una serie
di film che mi avevano sempre fatto paura e m’immaginai quanto avrei potuto
soffrire e quanto sarebbe stato triste morire in quel modo. Magari dissanguato,
con le vene dei polsi tagliati.
Pensai pure che Francesca, disperata com’era, avesse progettato un omicidio-
suicidio, con me come co-protagonista. Forse mi aveva raccontato solo bugie.
Forse era una psicopatica, sadica e perversa. Ma perché aveva scelto proprio
me? Pensai poi a Marta, alla mia famiglia, alla vergogna che avrebbero provato.

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Allo scandalo. Finalmente Francesca si sedette alla mia destra e mi disse,
interrompendo quelle visioni catastrofiche:
«Non temere, non ti farò nulla di male, più di quello che t’ho fatto… Ma era
necessario. Prima vorrei puntualizzare due cose importanti, anzi tre». Aveva
una voce pacata, dolce, appena sporcata dall'accento bresciano.
Volli crederle. Cercai di non piangere per il terrore. Vedevo le sue gambe
vicine al mio viso, il suo sesso scuro e peloso a poca distanza da me. Sentii una
leggera vibrazione al mio basso ventre, come se mi stessi eccitando. Pregai
affinché ciò non accadesse. Poi Francesca parlò:
«Per prima cosa, sappi che non sono una sadomasochista, né una dedita agli
scambi di coppia o ad altre robe da pervertiti. Non amo nemmeno legare il
mio uomo al letto, dominarlo o altro. Ma è una cosa che ho sempre sognato di
fare. E stanotte la sto facendo. Ma non permetterei mai che il mio eventuale
futuro marito o qualcuno di mia conoscenza venisse a sapere di questo mio
desiderio. Punto numero due: non ho inventato nulla della mia storia, oggi.
Sono davvero in fuga e non so che farò. Comunque non avevo previsto di
arrivare a fare proprio oggi, con te, quello che sto facendo. Punto numero
tre… non me lo ricordo… Ah sì, non sono matta e presto ti libererò».
Sorrise e si alzò. Io naturalmente non potei proferire parola, per via della
benda. Mi limitati a grugnire, come si dice in questi casi. Temevo, infatti, di
compiere qualche gesto che potesse indispettire Francesca e farle cambiare
idea sulla sorte che mi avrebbe riservato. Mi sembrava fuori di sé, del tutto
diversa dalla ragazza compita e sofferente che avevo conosciuto durante il
giorno.
Francesca mi annunciò che sarei stato per un po’ (erano ormai le tre del
mattino) il suo “schiavo del sesso”. Se non mi fossi trovato in quella scomoda
posizione, piedi e mani legate, avrei riso della banalità di quella espressione,
perché non ce la vedevo proprio, Francesca, che si comportava in quel modo.
Ma la realtà stava vincendo e cancellando il mio stupore. Cioè, intendo dire che
avevo ancora paura, naturalmente, però capivo che mi sarei dovuto adattare
per quanto fosse possibile e affrontare la situazione. Era come se la mia testa e
il mio corpo avessero capito che resistere e mantenere un minimo di calma
potesse essere il solo modo per sopravvivere. Infatti, ero un po’ meno agitato
e, soprattutto, non pensavo più ai miei genitori, a Marta, allo scandalo, alla
morte e a tante cose tetre (4).

Francesca cominciò ad accarezzarmi il pene, con delicatezza. Sentii all’istante


un piacere forte. Ero del tutto inerme, non potevo né muovermi, né parlare,
ero in balia di lei, delle sue voglie. Lei faceva ogni cosa in modo dolce, e io
sapevo che non avrei resistito a lungo. Quando venni mi uscirono dei gemiti
soffocati e vidi il mio corpi sussultare, come fosse sul punto di spezzare le
corde che mi legavano. Francesca continuava ad accarezzarmi lì, con tenerezza
e io caddi in una specie di deliquio beato, nel quale ebbi la impressione di
addormentarmi di nuovo…
13
Però non mi assopii perché Francesca aveva ripreso ad armeggiare con il mio
pene. Lo stava baciando, producendosi in una fellatio appassionata e intensa.
La vedevo muoversi su di me come una donna esperta. Ero di nuovo
eccitatissimo e desideravo toccarla, ma non potevo muovermi.
Un attimo più tardi, Francesca salì sopra di me: sentii che muoveva il mio
pene per farlo entrare in lei. Mi dava la schiena: la vedevo muoversi in modo
ritmico quasi, direi armonico, assieme a me, ascoltavo il suo piacere che
arrivava inarrestabile. Nella penombra la sua schiena mi appariva come
l’oggetto più attraente del mondo. Cercavo di partecipare anch’io, muovendo il
bacino per quel che potevo e, più mi muovevo, più la vedevo sussultare.
Quando venni ebbi l’impressione di strappare le corde che mi tenevano legato,
da quanto mi mossi in modo scomposto; il mio bacino sussultò in modo
inarrestabile e mi sembrò di aver scaraventato a terra Francesca, che, sempre
sopra di me, appariva del tutto inebriata dal piacere provato. Era tutto frutto di
lei, del suo movimento, della sua iniziativa, della follia che l’aveva portata a
conquistarmi, a fare prima del sesso “normale” con me, poi a drogarmi (come
spiegare altrimenti quel sonno di piombo?), a legarmi e a sfruttarmi per le sue
voglie di dominio per tutta la notte. Un’esperienza da raccontare, questa è la
cosa che, ricordo bene, mi venne in mente dopo che fu tutto finito.
Francesca si alzò da me lentamente. Mi pulì con un fazzoletto di carta, mi
baciò di nuovo il pene più volte: credevo che la mia eccitazione non sarebbe
mai terminata. Poi pulì se stessa e se ne andò in bagno. Mentre scorreva
l’acqua del bidet, percepivo nella stanza il profumo del nostro piacere, del
nostro sudore, della nostra “perversione”. Avvertivo di nuovo il dolore alle
giunture, da quasi un’ora tese a causa delle corde. Ma stavo benissimo, come
un pascià. Non avevo mai provato una cosa del genere e mi sembrava la
situazione più erotica che mai avrei potuto sperimentare. Francesca mi aveva
fatto del male, legandomi in quel modo. Ma, dopo quello che era successo, mi
sentivo ancora più attratto da lei. Mi chiedevo cosa avrebbe pensato il suo
ragazzo se avesse saputo una cosa del genere; chissà se mai aveva sospettato di
quella voglia di Francesca. E poi, mi dissi, sarà vero che sono la prima persona
con cui l’ha fatto? Ormai desideravo stare con lei molto più del giorno prima,
quando avevo di mira sono una semplice avventura. E Marta, cosa avrebbe
detto di me? Avrebbe creduto al mio essere stato vittima delle circostanze?
Francesca uscì dal bagno. Si vestì e venne verso di me. Mi baciò sulla fronte.
Poi disse:
«Grazie tesoro, è stato l’addio al nubilato che desideravo. Non lo avevo
progettato, ti assicuro, anche se mi ero portata dietro quel sonnifero e queste
cordicelle. Ma il sonnifero era per me, le cordicelle… per l’eventualità che
qualcuno avesse l’idea di venire a letto con me. Sai, mi rendo conto che piaccio
e, quando vado in giro, mi accorgo quando qualcuno mi guarda con desiderio.
Per cui, avendo questa idea fissa di legare un uomo e possederlo, violentarlo,
disponendo di lui a mio piacimento, cercavo solo il coraggio per farlo. Ma
pensavo che non l’avrei trovato mai. Invece ho incontrato te, che mi volevi ma
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non avevi il coraggio di dirmelo. Sono contento che sia successo con una
persona come te. Certo, se non ti baciavo io, tu non facevi nulla. E, ti dico, mi
piaci molto come tipo, e se fossi libera… Mah, chissà, magari libera tornerò.
Ho la tua mail, ti scriverò forse. Per questo con te ho prima voluto fare
l’amore, come una coppia, come due persone che si piacciono. Poi ho voluto
averti tutto per me e, ti assicuro, mi è piaciuto tanto. Se non fossimo stati in un
albergo con le pareti di carta avrei urlato come una matta, ma ho dovuto
contenermi… Certo, scusa per la benda sulla bocca e per averti legato mani e
piedi, ma vedrai che il dolore passa subito. Ora ti slego, ma sappi che non devi
urlare, né fare cazzate di altro genere, capito? E non cercare di raccontare alla
polizia queste cose, perché non penso che ti crederanno. Sarebbe facile
inventarmi che mi hai violentata, e sai che in questi casi si crede alla donna,
non all’uomo. Per favore, dunque, non raccontare nulla, fallo per me, credimi,
ho cercato di farti solo del bene».
Non avevo certo intenzione di mettermi a urlare, né di prenderla a pugni e a
calci. Ma Francesca stava tornando in se stessa e ora era lei ad avere paura,
come donna, della mia reazione. Per cui il mio cuore tornò ad accelerare
perché la ragazza, per essere ancor più persuasiva, mi puntò un coltello sul
collo. Sentivo la lama fredda accarezzare la barba vecchia di due giorni e la mia
pelle, la mia preziosa pelle, così messa alla prova quella notte… Cominciai a
sudare e a tremare: una strana sensazione di freddo (avevo la pelle d’oca) e di
calore mi avvolse. Cercai, con dei versi e dei gesti, di comunicarle che non
avrei fatto nulla.
Francesca mi slacciò le mani: feci fatica a muovere le braccia per qualche
attimo; mi bruciavano i polsi e avvertivo dolore alle spalle, come se fossero
state lussate. In realtà mi accorsi che non era così. Poi Francesca mi tolse la
benda e mi parve di rinascere: emisi un sospiro di sollievo lunghissimo, ma
non potei dire nulla perché Francesca mi baciò con trasporto. Era stupendo
sentire la sua lingua nella mia bocca e avvertire il desiderio che cresceva
nuovamente in me. Dopo quel bacio dissi:
«Non preoccuparti, non dirò niente e non ti farò niente. Sei una donna
stupenda».
Lei mi fissò sorridente come le avevo visto fare altre volte quel giorno, cioè
dischudendo appena le labbra. Sembrava tornata la ragazza fragile e senza
malizia del giorno prima. Una metamorfosi che non riuscivo a spiegarmi. Ma
non m’interessava per nulla.
Francesca mi diede un ultimo bacio leggero sulle labbra e fece per andarsene.
Una grande malinconia mi invase. Le dissi: «Non ci rivedremo mai più?». Lei,
ormai sulla porta, rispose: «Non lo so, credimi. Ti contatterò io. Grazie ancora
di tutto, ci sai fare davvero con le ragazze».
E se ne andò. Erano le cinque e mezza del mattino. Poco dopo, stanchissimo
e inebriato da quel ricordo tremendo e bellissimo, mi addormentai di colpo (4).

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La mattina, verso le 8.30, il telefono della camera squillò. Saltai sul letto,
spaventato. Presi la cornetta. Dall’altro capo del filo la direzione dell’hotel mi
avvertiva, cortesemente, che la colazione sarebbe stata servita alle ore 9.00 e
che, dovendo il treno ripartire alle 10.30, le ferrovie consigliavano ai passeggeri
di affrettarsi, anche perché non avrebbero più coperto le spese di “soggiorno”
a Fornovo, né avrebbero rimborsato il biglietto in caso di rinuncia al viaggio.
Con una voce da oltretomba, ringraziai e riagganciai. Sì, non desideravo
rimanere in quel posto, dovevo andare da Marta. Le scrissi un sms
avvertendola della partenza imminente e lei mi rispose scrivendomi che era
felice. Povera Marta, se avesse saputo… Mi lavai di fretta e mi accorsi, con
stupore, che le caviglie e i polsi non presentavano particolari arrossamenti.
Non me ne curai, però, perché pensai che la notte non avevo avuto la
possibilità di guardare il mio corpo: avevo avvertito del bruciore, ma non
avevo visto i segni rossi a causa del buio. Si vede che Francesca era stata molto
delicata nel legarmi.
Guardando fuori della finestra, mi accorsi che non nevicava più. Il cielo era
bianco lattiginoso, ma, come dire, di un biancore piuttosto chiaro, non grigio
come il giorno prima. Era come se il cielo fosse ormai meno carico di
precipitazioni, quasi stanco dei 40 cm di neve che aveva scaricato sulla
cittadina.
Scesi nella hall e mi guardai attorno con il cuore che batteva. Nessuna traccia
di Francesca, benché il ricordo di lei, del suo corpo e del suo odore fosse
pungente nelle mie narici e nella mia memoria. Passando davanti alla sua porta,
non avevo avuto il coraggio di bussare, anche perché sarei stato molto
imbarazzato a parlare con lei. Mi aspettavo però di vederla nella hall e mi
domandavo come ci saremmo comportati. Ma Francesca non c’era: che fosse
partita per conto suo? Che avesse deciso di rimanere lì, continuando la sua
fuga? Che si fosse fatta venire a prendere dalla zia oppure dal suo fidanzato
con il quale magari aveva fatto pace? Scartai quest’ultima ipotesi, vista la
distanza da Sarzana e da Brescia; e poi, sapevo che nevicava su tutta la pianura
Padana e che la circolazione stradale era difficoltosa. Così almeno diceva la
radio accesa lì, nel bar dell’albergo.
Terminai di mangiare e salii in camera per preparare la borsa e andarmene.
La porta della stanza di Francesca era ancora chiusa; mi fermai un istante
appoggiando l’orecchio per provare a captare qualche rumore, ma non udii
nulla. Poco prima delle 10 uscii dalla mia camera, infagottato e con la borsa a
tracolla, per dirigermi verso la stazione. Nella hall riconobbi buona parte dei
passeggeri del treno del giorno precedente. Nessuna traccia, però, di Francesca.
Cominciai a essere preoccupato per lei: lo stato in cui si trovava, il
disorientamento che stava vivendo, quello che era successo tra di noi, mi
indusse a temere che avesse potuto compiere un gesto terribile. E in parte me
ne sarei sentito responsabile, perché l’avevo conosciuta, anche troppo bene,
quella notte. E sarebbe venuto fuori tutto, avrei dovuto raccontare ogni
particolare alla polizia, perché un suicidio avvenuto in un albergo di una
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cittadina dell’Appennino avrebbe fatto scalpore. Anche perché io dormivo
nella stanza a fianco. Avrei potuto mentire sui rapporti tra me e Francesca? No
di certo, perché se le avessero fatto l’autopsia avrebbero facilmente scoperto
che avevamo avuto diversi rapporti sessuali. E magari avrebbero sospettato di
me e, nel frattempo, la mia vita sarebbe andata a rotoli: immaginavo il dolore e
lo sdegno di Marta, la sofferenza dei miei familiari, la vergogna che mi avrebbe
avvinto. Tremavo al pensiero della solitudine, dello sprezzo degli altri, che il
semplice sospetto, e non una condanna, mi avrebbe “donato”.
Completamente immerso in quelle immagini di tragedia, in quelle paranoie
vive e pungenti, ormai convinto, nevroticamente, del suicidio di Francesca,
tornai verso la sua camera, quasi di corsa. La porta era ancora chiusa. Avevo il
fiatone, più per l’emozione che per gli scalini fatti a due a due. Esitati almeno
un minuto prima di bussare. Avevo le nocche già appoggiate alla porta,
allorché vidi spuntare un inserviente dell’albergo che stava pulendo le camere
all’inizio del corridoio. Mi guardò con aria interrogativa, come se non
s’aspettasse di trovare ormai più nessuno in quella zona dell’hotel. Mi chiese
con voce chioccia:
«Cerca qualcuno?».
Io lo guardai con altrettanta sorpresa, come se fosse lui l’intruso in quel
posto. Aveva una mascella terribilmente quadrata, da pugile in pensione. Notai
una cicatrice sull’occipite destro. Decisi di darmi un contegno serio e gli
risposi:
«Mi chiedevo come mai la signorina che ha dormito in questa camera non sia
ancora scesa. Sa, il treno sta ripartendo e lei deve andare a Sarzana… ».
La mascella quadrata si mosse, mentre gli occhi rotearono in modo rapido e
interrogativo, come se io avessi parlato in una lingua incomprensibile.
L’inserviente mi venne vicino come se volesse sincerarsi della mia sanità
mentale. Sentii un alito davvero sgradevole e mi allontanai impercettibilmente.
«Sta scherzando, vero?», mi disse, squadrandomi.
«Perché?», ribattei a mia volta, quasi offeso dal quel tono e dall’espressione
che poteva nascondere la volontà di prendermi in giro o di darmi una sberla
sul muso.
La mascella quadrata si mosse verso di me, ma solo per parlare. Osservato da
quella distanza, l’inserviente mi parve gigantesco, un armadio. Le mani erano
proprio quelle da pugile.
«Guardi che questa camera non la diamo mai a nessuno perché si è rotto il
tubo del riscaldamento tre giorni fa e proprio oggi aspettiamo l’idraulico per la
riparazione. Dunque, credo che lei si sia sbagliato di camera… non le conviene
affrettarsi? Potrebbe perdere il treno… ».
Rimasi senza parole, senza fiato, senza pensieri. Ero sicurissimo che fosse
quella la camera di Francesca, come ero certo della nottata passata, delle
sensazioni provate, del suo corpo unito al mio. Ovviamente non dissi nulla di
tutto ciò. Non ebbi il coraggio di chiedere all’inserviente se stesse scherzando
lui, perché avevo come l’impressione che la sua mascella mi avrebbe
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inghiottito. Mi sentii molto stupido e fatuo. Balbettai confuse parole di scuse e
cominciai ad allontanarmi. L’inserviente, però, aprì la porta della camera e mi
disse: «Prego», facendomi cenno di entrare.
La camera era buia e fredda, ma in ordine. Odorava di chiuso e di solitudine.
Entrai con circospezione, come se mi trovassi sulla scena di un delitto. Ma non
c’era nulla di strano. Il letto era a posto, il bagno anche. Una chiazza d’acqua si
allargava sotto il calorifero. Aveva proprio la parvenza di una stanza in cui non
nessuno dormiva da giorni (5).

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22/4/'41 n°633)

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