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Giuseppe Barreca
La rividi quasi un’ora dopo. Ero tornato nel bar e avevo parlato un bel po’ di
minuti al telefono con la mia ragazza. Non avevo badato all’assenza così
prolungata di Francesca. Stavo bene al calduccio. Avevo anche raccolto alcune
informazioni che parlavano dell’autostrada della Cisa, anche lei bloccata dalla
neve. I treni che salivano da S. Stefano di Magra verso l’Emilia (provenienti
dalla Liguria o dalla Toscana) limitavano le loro corse a Pontremoli, dall’altra
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parte del valico. I tecnici delle ferrovie avevano, infatti, parecchie difficoltà a
raggiungere il tratto di linea danneggiato dalla neve. Oltretutto le previsioni del
tempo non erano favorevoli. Insomma, difficilmente saremmo potuti andare
avanti entro la serata. Qualcuno accennò alla possibilità di pernottare a
Fornovo, a spese delle ferrovie. L’idea mi parve bizzarra.
Quando Francesca tornò, appariva più rilassata. Si scusò per l’assenza,
assicurandomi che aveva parlato al telefono con sua zia, che l’aveva avvertita
del ritardo e così via. Le credetti, naturalmente.
Era ormai l’una e mezza passata. Dovevamo mangiare. Uscimmo dalla
stazione in mezzo ad una nevicata furiosa. Camminavamo a fatica: c’erano
almeno 30 cm di neve al suolo. Diedi il mio braccio a Francesca, per evitare
che scivolasse stante le sue scarpe basse. Mangiammo una pizza in una trattoria
nei paraggi, passando due ore liete. Durante il pranzo Francesca apparve più
sollevata, tranquilla, leggera. Discutemmo di varie cose, e la trovai sempre più
simpatica, interessante. Mi disse che si dilettava di fotografia e mi raccontò dei
suoi servizi e del blog che aveva messo rete, dove pubblicava le sue foto. Mi
feci dare l’indirizzo del blog e la sua e-mail, perché, pensai, magari avrei potuto
rivederla o comunque tenermi in contatto con lei. Avrei voluto sapere più cose
sulla sua vita, avere delle spiegazioni dopo la frase che mi aveva detto in
mattinata, capire perché stesse scappando. Non sapevo come fare, ma fu
Francesca a trarmi d’impaccio, perché dopo il caffè mi raccontò tutto.
Conviveva da tre anni con un ragazzo di Brescia (lei era originaria di
Rovato). A suo dire, le cose erano andate sempre molto bene tra loro. Lui
lavorava in banca, lei aveva un lavoro “sicuro. Poi, un anno prima, avevano
deciso di sposarsi. Francesca affermò che aveva accettato con gioia questa
cosa, perché amava quell’uomo e credeva di essere pronta a compiere un passo
tanto importante. Era stato dunque per lei un anno pienissimo di faccende, di
progetti da elaborare e da realizzare. Spesso, durante quell’anno, lei e il suo
compagno avevano anche accennato alla possibilità di avere un figlio.
Francesca mi raccontò che era stata entusiasta dell’idea; però, di comune
accordo, lei e il suo compagno avevano deciso di aspettare che quell’anno
passasse in modo da fare le cose con maggiore calma.
Si sarebbero dovuti sposare tre giorni dopo il nostro incontro di quel
momento. Ossia a ridosso del Natale. Io rimasi stupito di questa cosa, ma lei
mi assicurò che non è rara come eventualità, anche perché sarebbero dovuti
andare alla Seychelles in viaggio di nozze. Tuttavia Francesca aggiunse che,
man mano che si avvicinava la data del matrimonio e che la frenesia dei
preparativi si acuiva, qualcosa in lei aveva cominciato a spezzarsi. Disse che
non si trattava della classica paura che coglie le persone di fronte a eventi
rilevanti per la propria vita. Perché quell’agitazione è umana, la si sopporta
bene e anzi serve a creare maggiore concentrazione per quello che dovrà
succedere. No, lei avvertiva dentro di sé un’inquietudine solida, un groppo alla
gola quasi continuo, e non si spiegava il motivo. Con il suo compagno avevano
iniziato a litigare per cose da nulla e più lui si mostrava comprensivo e
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tranquillo, più lei trovava occasioni per questionare. Insomma, confessò
Francesca, era cominciato una specie d’inferno quotidiano. Io pensai che fosse
depressa, ma ovviamente non glielo dissi. Lei mi raccontò di diverse notti
passate tra le lacrime e della decisione, presa il giorno prima del nostro
incontro, di “fuggire”. O meglio, di rifugiarsi dalla zia di Sarzana, la sorella
della madre, con la quale c’era uno speciale rapporto di confidenza fin
dall’infanzia. Quella mattina aveva fatto finta di andare al lavoro, poi era salita
sul treno e adesso si trovava lì con me… Le chiesi se non stesse in pena per
sua mamma che era all’oscuro di tutto, ma mi assicurò di averla chiamata in
precedenza, quando era stata in bagno, per spiegarle la cosa. Quella facilità nel
confessarsi mi stupì, anche se avvertivo che tra me e Francesca esisteva
un’affinità. Lei si fidava e poi, quando mai ci saremmo rivisti?
Verso le quattro tornammo in stazione, perché ci era venuta la strana idea
che il treno fosse ripartito senza di noi. Ma sapevamo che era impossibile, dato
che in pizzeria avevamo incontrato altri viaggiatori. Faceva freddo, nevicava
ancora e il giorno declinava. Fornovo rimaneva spettrale sotto quella nevicata
che non finiva più, anche se il gestore del bar della stazione e della pizzeria di
fronte si fregavano le mani per gli affari che avevano fatto.
Quando entrammo di nuovo nella stazione, dissi a Francesca di aspettarmi
nell’atrio: io sarei andato a informarmi, dato che avevo scorto un capannello
attorno ai ferrovieri. Francesca si sedette su una panchina di marmo. Stava
calando l’oscurità e l’ambiente della stazione, già di per sé cupo, assumeva, in
quel crepuscolo dai colori anestetizzati dalla neve, un’atmosfera sepolcrale.
Ricordo bene che mi colse un’angoscia improvvisa quando varcai la porta
d’entrata della stazione, appena scorsi quell’ambiente così tetro.
La situazione, secondo i funzionari delle ferrovie, non era risolvibile entro
sera. La linea sarebbe stata ripristinata non prima delle due di notte, sempre
che la nevicata si fosse calmata. I cavi dell’alta tensione erano caduti per il peso
della neve e del ghiaccio. Era inutile tenere i viaggiatori in attesa, sarebbe stato
meglio ripartire l’indomani mattina. La soluzione era una sola: le ferrovie
avevano chiesto a due alberghi che si trovava nelle vicinanze della stazione se
poteva ospitare le duecento persone presenti sul treno. Le camere erano libere
e dunque sarebbe stato opportuno farsi assegnare una camera, rifocillarsi,
mangiare un pasto caldo e andare a dormire presto. Naturalmente le ferrovie
avrebbero pagato il pernottamento, non la cena. Molti protestarono, alcuni
presero a male parole i ferrovieri, i quali non poterono far altro che allargare le
braccia sconsolati. Mi allontanai per comunicare la notizia a Francesca.
Mi fermai però quasi subito. L’atrio era sempre più buio. Francesca sedeva
lontana, con le mani nella giacca a vento e lo sguardo, mi pareva, perso nel
vuoto. Ebbi per un istante l’idea di vedere un film americano, come quelli in
cui i passeggeri di un aereo naufragano sulle Ande o non so dove e riescono a
sopravvivere dopo giorni di sofferenza, mangiando i cadaveri dei passeggeri
morti durante l’incidente. Certo, la nostra situazione era migliore, però ogni
cosa stava assumendo, quel giorno, un’aria inconsueta, singolare. Anche
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l’incontro con quella ragazza, così attraente e così strana (o dovrei dire
ambigua?), mi pareva surreale. Di nuovo ebbi un piccolo sussulto d’ansia,
senza capire il perché.
Quando la raggiunsi, raccontai tutto a Francesca. Non mi disse nulla, si
limitò ad abbozzare un sorriso stanco, molto tirato, diverso da quelli che aveva
fatto prima. Non so perché ebbi quest’impressione, ma mi sembrò il sorriso di
chi vede realizzarsi un’aspirazione inconfessata, desiderata e temuta al tempo
stesso. Un’altra cosa che mi sorprese fu la remissività del suo atteggiarsi:
Francesca rimaneva sulla panchina, come se non le avessero appena detto che
avrebbe dovuto passare la notte in una cittadina dell’Appennino, in mezzo a
una fitta nevicata, con gente che non conosceva. Ma io avevo fretta: la guardai
solo per un istante, perché mi premeva recarmi in biglietteria dove avevo
sentito che si stavano assegnando le camere. Non vedevo l’ora di una doccia
calda e di stendermi sul letto.
C’era una lunga fila di fronte alla biglietteria. Molta confusione, concitazione,
irritazione nei passeggeri. Le fronti dei controllori e del personale delle ferrovie
erano madide. E corrucciate. Alla fine, quando toccò a me, erano rimaste due
stanze singole e una doppia. Ebbi la tentazione di chiedere la doppia in modo
da stare con Francesca e dirle poi che, per una sfortunata serie di circostanze,
era stata l’ultima camera disponibile ed ero stato praticamente costretto a
prenderla. Ma non lo feci. Tuttavia, mi andò “bene” lo stesso: ci diedero due
singole attigue. Più tardi, tornando verso Francesca, un forte desiderio di lei, la
voglia di trasgressione e una sensazione di indifferenza verso Marta, si
impadronirono di me. La situazione mi rendeva eccitato e curioso. Comunicai
a Francesca l’esito dell’assegnazione delle camere, la vicinanza delle nostre
stanze, e lei si illuminò di un sorriso che mi fece battere il cuore. I suoi occhi,
che apparivano più larghi e dolci in quel momento di contentezza, mi parvero
bellissimi, mentre mi resi definitamene conto che avrei voluto passare con la
notte con lei.
La camera d’albergo era dignitosa: un letto matrimoniale (la famosa “doppia
uso singolo”), un tavolinetto di legno, un comodino in fòrmica, l’armadio, la
televisione in alto, di fronte al letto. Un bagno ampio e accogliente. Per
arrivare all’hotel ci volle un po’ di tempo perché, nell’oscurità illuminata da esili
lampioni gelati, la neve aveva ripreso a cadere con violenza, accompagnata da
un vento gelido che tagliava la pelle e ci faceva sussultare di freddo. Mentre
camminavamo, Francesca, per non scivolare, si appese due volte al mio
braccio. Quando lo fece per la terza volta, non glielo lasciai più e lei mi parve
contenta di quel supporto. Il contatto con il suo giaccone mi rese ancora più
desideroso di lei, mentre Marta mi appariva una presenza lontana, che mi
aspettava, ignara del mio tradimento sognato, lì nella piovosa Pisa (2).
Appena entrato nella camera, mi stesi sul letto qualche minuto, affondando
nel materasso un po’ troppo morbido. L’odore solito delle lenzuola d’albergo
mi avvolse. Avvertii subito un benefico tepore: ero stanchissimo, sul punto di
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addormentarmi. Ma erano solo le cinque e mezza e alle sette, ci avevano detto,
sarebbe stata servita la cena, non un minuto più tardi. La direzione dell’albergo,
infatti, visto l’eccezionale afflusso di ospiti, era costretta a chiedere la massima
puntualità per questioni organizzative.
Per evitare di assopirmi, accesi la televisione, ma prima litigai qualche minuto
con i cuscini, perché le TV degli alberghi paiono fatte apposta per essere
guardate soltanto se si è sdraiati sul letto. Qualsiasi altra posizione rende
impossibile adocchiare il televisore. Alla fine comunque lasciai perdere. Mi
avviai verso il bagno, ma prima dovetti rispondere al telefono: era Marta che
voleva avere notizie sulla situazione, perché aveva letto su internet del treno
bloccato. Come al solito, i media avevano cominciato a sparare scempiaggini,
alimentando l’allarmismo solo per avere più audience. Io tranquillizzai Marta,
cercando di essere affettuoso e rassicurante. Mentre parlavamo, riconobbi lo
scroscio della doccia della stanza a fianco, quella di Francesca, e un brivido di
eccitazione mi attraversò il corpo. Salutai Marta, avvertendo subito dopo il
senso di colpa che mi saliva lungo la schiena, mi accarezzava le spalle, mi
solleticava il petto.
Naturalmente cenai con Francesca nella grande sala dell’albergo. Gli altri
passeggeri sembravano più quieti, o forse rassegnati, ora che si stavano
rifocillando. Anche Francesca mi apparve più distesa e calma. Ne fui felice.
Eppure io ero sempre meno tranquillo, in preda a un’agitazione che non
dominavo e che non capivo. O che fingevo di non capire. In realtà c’era un
motivo chiaro. Non sapevo che fare per “conquistare” Francesca, perché
avevo deciso che quella notte sarebbe dovuto succedere qualcosa tra di noi. Mi
sembrava un destino quella nevicata eccezionale, quella sosta forzata,
quell’intimità “obbligata”. Ho sempre avuto una predilezione particolare verso
quelle storie che narrano di incontro di una sola notte, di amori intensi e
brevissimi. Quella sera ero euforico, eccitato, ma anche incapace di elaborare
una strategia per fare mia quella ragazza così strana, in fuga da un possibile
matrimonio. Non ero ancora del tutto certo della verità di quello che mi aveva
raccontato, però non me ne importava molto. Durante la cena Francesca, più
ciarliera, mi mostrò più volte un sorriso fanciullesco, che si disegnava con
dolcezza sulla sua bocca piccola dalle labbra tanto rosse. Quel sorriso appena
accennato mi aveva ormai definitivamente conquistato.
Finimmo di mangiare e ordinammo, prima del caffè, un sorbetto al limone.
Era una vera schifezza, ma non me ne accorsi, perché in quel momento
praticamente bevevo le parole di Francesca, e non m’interessavo a nulla d’altro.
La ragazza diceva:
«Sai, posso apparire una matta, perché Alfredo, a guardarlo dall’esterno, è
proprio un tesoro, ha tante caratteristiche che adoro e che mi piacciono.
Perché l’ho scelto, mi chiedi? Bella domanda, ma non so rispondere. Io penso
che giustificare i sentimenti sia impossibile, perché non hanno quasi mai una
logica, se non quella del cuore… ».
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Sentire quelle frasi da fiction italiana moderna mi depresse un po’. Odiavo le
frasi celebri dei baci Perugina: per un attimo Francesca mi parve una ragazza
un po’ scontata. Ma continuava a muovere con delicatezza quelle sue labbra
rosee che avrei baciato all’istante. E poi quel suo viso, lievemente soffuso di un
colore roseo, mi pareva ancora più delicato. Per cui stetti ad ascoltarla senza
dire nulla, anche se tra me e me pensavo a come agire per poterla avere,
almeno per una notte.
«Comunque so che sto facendo una grande scemenza… E che prima o poi
dovrò affrontare la realtà, tornare nel mio ambiente, rivedere Alfredo,
spiegargli tutto. So quanto possa stare male per la mia assenza e quanto dolore
gli abbia dato. Non s’aspettava questo gesto. Ma io piangevo quasi tutte le
notti, e più Alfredo era gentile, comprensivo, più mi veniva da piangere. La
decisione di sposarlo è nata in me senza pensarci, solo perché mi sembrava di
fare la cosa giusta, di sposare la persona adatta. Per mesi tutti mi hanno fatto i
complimenti per la scelta, incoraggiandomi, dicendomi che ero fortunata, che
avevo l’opportunità di vivere con una persona di valore e così via. Mia madre,
quando ha saputo delle nozze, ha pianto per dieci minuti. Si vedeva che non
aspettava altro. E io, arrivata a trent’anni, mi sono sentita, come dire, quasi
obbligata a farlo. Convivevamo da tre anni, come ti ho detto e, sai, a volte
giunge un momento in cui la convivenza, come dire, non basta più. Non è una
questione morale, perché non me ne frega niente. È una questione di direzione
della vita, di progetto da abbracciare assieme. Almeno, questi sono i pensieri
che ho fatto l’anno scorso, guardando al mio futuro. Allora abbiamo deciso il
matrimonio. Ma solo in questi ultimi tempi mi sono accorta che ho fatto tutto
con la testa, con la logica, ascoltando sempre e soltanto gli altri, mai me stessa,
né il mio cuore. Mi ero lasciata guidare, perché non avevo mai guardato
veramente dentro di me. È come quando passiamo davanti ogni giorno agli
stessi negozi e ormai non badiamo più a come sono fatti, a quale merce
vendono. Poi una mattina, senza apparente motivo, ci accorgiamo invece di
mille particolari che ci erano sfuggiti le centinaia di volte che eravamo passata
da lì. A me è successo in questo modo: mi è bastato osservare con calma il mio
animo, e scoprirmi indecisa, forse non innamorata di Alfredo».
Quell’immagine mi piacque. Avrei voluto approfondire l’argomento. Ma
erano le dieci di sera, avevo sonno, eravamo nella hall dell’albergo, c’era un bel
tepore e io mi ero alzato alle sei. La storia che Francesca mi aveva raccontato
non era poi così rara, ma lei la riferiva bene, disegnando un sorriso lieve,
appena accennato, sulle labbra, quasi un estremo atto di riservatezza. Ma
ormai, benché ci conoscessimo ufficialmente da undici ore, molte barriere
erano cadute tra di noi.
Eppure, nonostante i miei propositi di conquista e la mia brama di avventura
a sfondo sessuale, del genere “bottarella”, la combinai grossa. Da qualche
minuto, infatti, sentivo che mi stava assalendo una grande spossatezza. Cercai
di resistere, ma ogni sforzo fu vano. Alla fine, non mi trattenni più, e comincia
a sbadigliare… Francesca mi guardò indulgente, sorridendo in modo amabile.
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Ma ormai la diga era saltata: gli sbadigli mi salivano alla bocca uno dietro
l’altro, facendomi lacrimare gli occhi. Ero arrabbiato con me stesso, perché
capivo che in quel modo mandavo a Francesca segnali di un mio disinteresse.
Lei mi apparve delusa: mi domandò scusa per aver parlato troppo, e
dignitosamente volle salutarmi. Io protestai, assicurandole che non era vero,
ma gli sbadigli salivano a pioggia sulla mia bocca, non c’era nulla da fare. Anzi,
più opponevo resistenza, più essi si accanivano, come se il mio organismo non
ce la facesse più e reclamasse il riposo. In effetti, avevo tanto sonno e lei lo
aveva capito. Si alzò e mi diede la buonanotte. E io, a malincuore, salutai
Francesca, abbracciandola su una poltrona della hall. L’abbraccio mi scosse, mi
diede l’impressione di un corpo pronto a unirsi al mio. Ma non feci nulla, mi
mancò il coraggio. La vidi allontanarsi piano, con la sensazione che se l’avessi
rincorsa e le avessi toccato una spalla, molte cose sarebbero successe. Non lo
feci.
Poco dopo mi diressi verso la mia stanza. Passai vicino alla porta della
camera di Francesca, guardandola solo di sfuggita, quasi fosse qualcosa di
sacro e di intangibile per me. Poi, spinto da una specie di impulso
incontrollabile, sfiorai con le nocche il legno della porta. Non posso affermare
che bussai, perché il tocco fu proprio lieve, accompagnato da un batticuore
furioso e dal sudore alle mani. Infatti, Francesca non rispose. Interpretai il
tutto come un segno del destino. Deluso e amareggiato, entrai in camera mia.
Credo di essermi addormentato all’istante. Non ricordo nemmeno se mi lavai
i denti. Credo che m’infilai il pigiama come un automa, pieno di sonno e di
scoramento per aver fatto quella figura davanti a Francesca. Sapevo che il
giorno successivo saremmo ripartiti e che non l’avrei più rivista. Alla fine, mi
dissi, sarebbe tornata sui suoi passi, sposandosi, e accontentandosi di vivere
un’esistenza dignitosa ma un po’ spenta, forse. Poi caddi in un sonno pensante.
“Toc”.
Mi svegliai di soprassalto, con il cuore in gola. Sì, sembrava il rumore di
qualcuno che bussa alla porta… Mezzo addormentato, tesi l’orecchio per
sincerarmi se ci fosse effettivamente qualcuno che bussava o se fosse stata
un’allucinazione. Nel frattempo, guardai l’orologio e vidi che era mezzanotte.
“Toc, toc”.
Qualcuno bussava alla porta. Ma chi? Mi dissi che mi sarei dovuto alzare. Il
freddo della stanza mi fece rabbrividire. Una lieve angoscia mi avvolse, forse
era la paura di uno sgradevole imprevisto.
«Chi è?», domandai con il cuore che ballava nel petto (3).
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Allo scandalo. Finalmente Francesca si sedette alla mia destra e mi disse,
interrompendo quelle visioni catastrofiche:
«Non temere, non ti farò nulla di male, più di quello che t’ho fatto… Ma era
necessario. Prima vorrei puntualizzare due cose importanti, anzi tre». Aveva
una voce pacata, dolce, appena sporcata dall'accento bresciano.
Volli crederle. Cercai di non piangere per il terrore. Vedevo le sue gambe
vicine al mio viso, il suo sesso scuro e peloso a poca distanza da me. Sentii una
leggera vibrazione al mio basso ventre, come se mi stessi eccitando. Pregai
affinché ciò non accadesse. Poi Francesca parlò:
«Per prima cosa, sappi che non sono una sadomasochista, né una dedita agli
scambi di coppia o ad altre robe da pervertiti. Non amo nemmeno legare il
mio uomo al letto, dominarlo o altro. Ma è una cosa che ho sempre sognato di
fare. E stanotte la sto facendo. Ma non permetterei mai che il mio eventuale
futuro marito o qualcuno di mia conoscenza venisse a sapere di questo mio
desiderio. Punto numero due: non ho inventato nulla della mia storia, oggi.
Sono davvero in fuga e non so che farò. Comunque non avevo previsto di
arrivare a fare proprio oggi, con te, quello che sto facendo. Punto numero
tre… non me lo ricordo… Ah sì, non sono matta e presto ti libererò».
Sorrise e si alzò. Io naturalmente non potei proferire parola, per via della
benda. Mi limitati a grugnire, come si dice in questi casi. Temevo, infatti, di
compiere qualche gesto che potesse indispettire Francesca e farle cambiare
idea sulla sorte che mi avrebbe riservato. Mi sembrava fuori di sé, del tutto
diversa dalla ragazza compita e sofferente che avevo conosciuto durante il
giorno.
Francesca mi annunciò che sarei stato per un po’ (erano ormai le tre del
mattino) il suo “schiavo del sesso”. Se non mi fossi trovato in quella scomoda
posizione, piedi e mani legate, avrei riso della banalità di quella espressione,
perché non ce la vedevo proprio, Francesca, che si comportava in quel modo.
Ma la realtà stava vincendo e cancellando il mio stupore. Cioè, intendo dire che
avevo ancora paura, naturalmente, però capivo che mi sarei dovuto adattare
per quanto fosse possibile e affrontare la situazione. Era come se la mia testa e
il mio corpo avessero capito che resistere e mantenere un minimo di calma
potesse essere il solo modo per sopravvivere. Infatti, ero un po’ meno agitato
e, soprattutto, non pensavo più ai miei genitori, a Marta, allo scandalo, alla
morte e a tante cose tetre (4).
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La mattina, verso le 8.30, il telefono della camera squillò. Saltai sul letto,
spaventato. Presi la cornetta. Dall’altro capo del filo la direzione dell’hotel mi
avvertiva, cortesemente, che la colazione sarebbe stata servita alle ore 9.00 e
che, dovendo il treno ripartire alle 10.30, le ferrovie consigliavano ai passeggeri
di affrettarsi, anche perché non avrebbero più coperto le spese di “soggiorno”
a Fornovo, né avrebbero rimborsato il biglietto in caso di rinuncia al viaggio.
Con una voce da oltretomba, ringraziai e riagganciai. Sì, non desideravo
rimanere in quel posto, dovevo andare da Marta. Le scrissi un sms
avvertendola della partenza imminente e lei mi rispose scrivendomi che era
felice. Povera Marta, se avesse saputo… Mi lavai di fretta e mi accorsi, con
stupore, che le caviglie e i polsi non presentavano particolari arrossamenti.
Non me ne curai, però, perché pensai che la notte non avevo avuto la
possibilità di guardare il mio corpo: avevo avvertito del bruciore, ma non
avevo visto i segni rossi a causa del buio. Si vede che Francesca era stata molto
delicata nel legarmi.
Guardando fuori della finestra, mi accorsi che non nevicava più. Il cielo era
bianco lattiginoso, ma, come dire, di un biancore piuttosto chiaro, non grigio
come il giorno prima. Era come se il cielo fosse ormai meno carico di
precipitazioni, quasi stanco dei 40 cm di neve che aveva scaricato sulla
cittadina.
Scesi nella hall e mi guardai attorno con il cuore che batteva. Nessuna traccia
di Francesca, benché il ricordo di lei, del suo corpo e del suo odore fosse
pungente nelle mie narici e nella mia memoria. Passando davanti alla sua porta,
non avevo avuto il coraggio di bussare, anche perché sarei stato molto
imbarazzato a parlare con lei. Mi aspettavo però di vederla nella hall e mi
domandavo come ci saremmo comportati. Ma Francesca non c’era: che fosse
partita per conto suo? Che avesse deciso di rimanere lì, continuando la sua
fuga? Che si fosse fatta venire a prendere dalla zia oppure dal suo fidanzato
con il quale magari aveva fatto pace? Scartai quest’ultima ipotesi, vista la
distanza da Sarzana e da Brescia; e poi, sapevo che nevicava su tutta la pianura
Padana e che la circolazione stradale era difficoltosa. Così almeno diceva la
radio accesa lì, nel bar dell’albergo.
Terminai di mangiare e salii in camera per preparare la borsa e andarmene.
La porta della stanza di Francesca era ancora chiusa; mi fermai un istante
appoggiando l’orecchio per provare a captare qualche rumore, ma non udii
nulla. Poco prima delle 10 uscii dalla mia camera, infagottato e con la borsa a
tracolla, per dirigermi verso la stazione. Nella hall riconobbi buona parte dei
passeggeri del treno del giorno precedente. Nessuna traccia, però, di Francesca.
Cominciai a essere preoccupato per lei: lo stato in cui si trovava, il
disorientamento che stava vivendo, quello che era successo tra di noi, mi
indusse a temere che avesse potuto compiere un gesto terribile. E in parte me
ne sarei sentito responsabile, perché l’avevo conosciuta, anche troppo bene,
quella notte. E sarebbe venuto fuori tutto, avrei dovuto raccontare ogni
particolare alla polizia, perché un suicidio avvenuto in un albergo di una
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cittadina dell’Appennino avrebbe fatto scalpore. Anche perché io dormivo
nella stanza a fianco. Avrei potuto mentire sui rapporti tra me e Francesca? No
di certo, perché se le avessero fatto l’autopsia avrebbero facilmente scoperto
che avevamo avuto diversi rapporti sessuali. E magari avrebbero sospettato di
me e, nel frattempo, la mia vita sarebbe andata a rotoli: immaginavo il dolore e
lo sdegno di Marta, la sofferenza dei miei familiari, la vergogna che mi avrebbe
avvinto. Tremavo al pensiero della solitudine, dello sprezzo degli altri, che il
semplice sospetto, e non una condanna, mi avrebbe “donato”.
Completamente immerso in quelle immagini di tragedia, in quelle paranoie
vive e pungenti, ormai convinto, nevroticamente, del suicidio di Francesca,
tornai verso la sua camera, quasi di corsa. La porta era ancora chiusa. Avevo il
fiatone, più per l’emozione che per gli scalini fatti a due a due. Esitati almeno
un minuto prima di bussare. Avevo le nocche già appoggiate alla porta,
allorché vidi spuntare un inserviente dell’albergo che stava pulendo le camere
all’inizio del corridoio. Mi guardò con aria interrogativa, come se non
s’aspettasse di trovare ormai più nessuno in quella zona dell’hotel. Mi chiese
con voce chioccia:
«Cerca qualcuno?».
Io lo guardai con altrettanta sorpresa, come se fosse lui l’intruso in quel
posto. Aveva una mascella terribilmente quadrata, da pugile in pensione. Notai
una cicatrice sull’occipite destro. Decisi di darmi un contegno serio e gli
risposi:
«Mi chiedevo come mai la signorina che ha dormito in questa camera non sia
ancora scesa. Sa, il treno sta ripartendo e lei deve andare a Sarzana… ».
La mascella quadrata si mosse, mentre gli occhi rotearono in modo rapido e
interrogativo, come se io avessi parlato in una lingua incomprensibile.
L’inserviente mi venne vicino come se volesse sincerarsi della mia sanità
mentale. Sentii un alito davvero sgradevole e mi allontanai impercettibilmente.
«Sta scherzando, vero?», mi disse, squadrandomi.
«Perché?», ribattei a mia volta, quasi offeso dal quel tono e dall’espressione
che poteva nascondere la volontà di prendermi in giro o di darmi una sberla
sul muso.
La mascella quadrata si mosse verso di me, ma solo per parlare. Osservato da
quella distanza, l’inserviente mi parve gigantesco, un armadio. Le mani erano
proprio quelle da pugile.
«Guardi che questa camera non la diamo mai a nessuno perché si è rotto il
tubo del riscaldamento tre giorni fa e proprio oggi aspettiamo l’idraulico per la
riparazione. Dunque, credo che lei si sia sbagliato di camera… non le conviene
affrettarsi? Potrebbe perdere il treno… ».
Rimasi senza parole, senza fiato, senza pensieri. Ero sicurissimo che fosse
quella la camera di Francesca, come ero certo della nottata passata, delle
sensazioni provate, del suo corpo unito al mio. Ovviamente non dissi nulla di
tutto ciò. Non ebbi il coraggio di chiedere all’inserviente se stesse scherzando
lui, perché avevo come l’impressione che la sua mascella mi avrebbe
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inghiottito. Mi sentii molto stupido e fatuo. Balbettai confuse parole di scuse e
cominciai ad allontanarmi. L’inserviente, però, aprì la porta della camera e mi
disse: «Prego», facendomi cenno di entrare.
La camera era buia e fredda, ma in ordine. Odorava di chiuso e di solitudine.
Entrai con circospezione, come se mi trovassi sulla scena di un delitto. Ma non
c’era nulla di strano. Il letto era a posto, il bagno anche. Una chiazza d’acqua si
allargava sotto il calorifero. Aveva proprio la parvenza di una stanza in cui non
nessuno dormiva da giorni (5).
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