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CAPITOLO TERZO

IL PIACERE E IL DOLORE

SOMMARIO230

Art. I - NATURA DEL PIACERE E DEL DOLORE. Nozioni - Impressioni piacevoli e spiacevoli - Ordine
fisico ed ordine morale ­ Esistono stati affettivi puri? - Esistono stati affettivi neutri? - Il dolore - Re-
latività del piacere e del dolore ­ Legge di contrasto - Legge delle circostanze - Legge di saturazione
- Legge d'adattamento.

Art. II - FUNZIONI DEL PIACERE E DEL DOLORE. Cause del piacere e del dolore. Teorie intellettuali-
stiche - Discussione - Teoria dell'affettività - Discussione - Teoria dell'attività - Discussione - Com-
plementi alla teoria d'Aristotele - Finalità del piacere e del dolore - Gli stimoli del piacere e del dolo-
re ­ L'ufficio della ragione.

Art. I - Natura del piacere e del dolore


§ l - Nozioni

311 - 1. IMPRESSIONI PIACEVOLI E SPIACEVOLI - Il piacere, il dolore e la pena non sono suscettibili
di una definizione essenziale, perché non si possono ridurre a stati più generali. Una tale definizione è del re-
sto inutile, in quanto nulla ci è più familiare di queste impressioni piacevoli o spiacevoli che continuamente
si succedono nella nostra vita.
Si possono tuttavia caratterizzare questi stati attraverso le reazioni che essi provocano. Negli animali e nei
fanciulli, queste reazioni si manifestano con una spontaneità perfetta, e si constata che, in linea generale, il
piacere ed il dolore esercitano l'effetto di indurre i viventi ad allontanarsi da un oggetto o ad avvicinarsi a
questo, a cercare o ad evitare la sua azione. In altri termini, si persegue il piacere e si fugge la sofferenza.
Ciò si manifesta già, nella forma più semplice, nel comportamento dell'ameba, il cui contatto coi differenti
corpi è seguito, secondo la natura dell'uomo o dell'altro corpo, dall'estensione o dalla ritrazione degli pseu-
dopodi. Le differenti mimiche che accompagnano il piacere ed il dolore non hanno il valore espressivo fon-
damentale di questi fenomeni d'attrattiva o di ripulsa, che caratterizzano così nettamente l'attività selettiva,
positiva o negativa, costituita dal piacere e dal dolore o sofferenza.

312 - 2. ORDINE FISICO ED ORDINE MORALE

a) La distinzione. Si distinguono comunemente il piacere e la sofferenza o dolore fisici e il piacere e il do-


lore morali, e si considera generalmente come essenziale questa distinzione. Dal semplice punto di vista em-
pirico, questa distinzione appare giustificata, dal momento che il piacere, la sofferenza, il dolore che diciamo
«fisici» sono connessi a fatti organici, mentre il piacere ed il dolore morali, che chiamiamo piuttosto gioia e
tristezza, pur accompagnandosi ad organicità, non pare abbiano per causa immediata e proporzionata uno
stato organico.

b) Difficoltà. A questa distinzione si oppongono tuttavia diverse obiezioni. Si osserva anzitutto che molti
turbamenti organici, per esempio una crisi cardiaca o una crisi d'asma, producono, insieme a sensazioni loca-
li di sofferenza, impressioni d'ansietà, di oppressione, di scoraggiamento, ecc. D'altra parte, i dolori acuti o
prolungati sono deprimenti e demoralizzanti.
Queste osservazioni sono esatte, ma stabiliscono soltanto che stati depressivi d'ordine morale (sentimenti)
possono risultare da stati fisici morbosi, ma non che questi due ordini di fenomeni siano identici. La stessa
considerazione si può fare a proposito dell'osservazione secondo cui taluni eccitanti fisici (odori, sali, profu-
mi, colori: «veder tutto rosa», «veder tutto nero») hanno un valore affettivo d'ordine morale: v'è certo una re-
lazione fra sensazioni affettive e sentimenti, ma non è possibile, da questa relazione, arrivare immediatamen-
te all'identità. Si osserva ancora che vi sono impressioni di difficile classificazione: il piacere che il fanciullo
prova alle carezze è un piacere fisico o morale? Il dolore provocato da uno schiaffo è fisico o morale? La
paura di soffrire è puramente psichica o, al contrario, già fisica, come anticipazione immaginaria della soffe-
renza paventata? Ma comunque si risponda a queste domande, il principio della distinzione rimane valido: va
poi aggiunto che le impressioni possono essere complesse, ed associare un piacere fisico ad un sentimento di
gioia, un dolore fisico ad una sofferenza morale e persino, talvolta, un piacere fisico ad una sofferenza mora-
le ed una gioia morale ad un dolore fisico (si ricordi la madre che soffre per il figlio)231.

313 - 3. ESISTONO STATI AFFETTIVI PURI? - Ci si è chiesto se possano esistere stati algedonici, tali
da non comportare altro che la manifestazione affettiva, senza alcun e1emento rappresentativo.
Questo problema si rifà a quello delle immagini affettive, che abbiamo già studiato (171-173). Per il fatto
stesso che abbiamo ammesso, con Kulpe, che non vi sono e non vi possono essere immagini affettive pro-
priamente dette, affermeremo, di conseguenza, che alla stessa maniera non possono esserci impressioni di
piacere o di dolore puri, giacché, se esistessero impressioni di tal genere, le immagini corrispondenti esiste-
rebbero a loro volta. L'errore di Ribot su questo punto è stato quello di confondere le impressioni affettive e
le sensazioni cenestesiche: queste ultime (stato di fatica, di abbattimento, d'angoscia, di disagio, ecc.) sono
accompagnate da impressioni affettive più o meno accentuate, ma comportano pure, come tali, rappresenta-
zioni confuse delle differenti parti del corpo.

3. ESISTONO STATI AFFETTIVI NEUTRI? - Si deve ammettere l'esistenza di stati indifferenti, che non
sapremmo se definire piacevoli o spiacevoli? È una questione che comprende in realtà due problemi distinti,
che si confondono alquanto spesso. Ci si può chiedere infatti se noi ci possiamo trovare, in modo più o meno
cosciente, in uno stato generale affettivamente neutro, o se tutte le nostre sensazioni comportano necessaria-
mente una risonanza affettiva positiva o negativa. Una risposta affermativa in questo secondo problema porta
come conseguenza l'impossibilità di uno stato generale d'indifferenza affettiva. Ma l'impossibilità di un tale
stato non implica affatto che tutte le nostre sensazioni siano piacevoli o spiacevoli.

Si ammette comunemente che noi continuamente proviamo almeno qualche impressione affettiva confusa,
nell'ambito della cenestesia. Quanto alle sensazioni particolari, è difficile risolvere sperimentalmente il pro-
blema del loro valore affettivo, a causa dell'inesistenza delle immagini affettive. L'argomento invocato dai
sostenitori di questi stati neutri (Sergi, Wundt, Kulpe), secondo cui tutti gli stati nei quali si passa senza solu-
zione di continuità da un'impressione gradevole ad un'impressione sgradevole, e inversamente (la mano tuf-
fata in acqua tiepida che si scalda a poco a poco), comporterebbero necessariamente un punto limite indiffe-
rente, è invero un argomento che sembra dar corpo ad un'astrazione, in quanto il limite non è né una cosa, né
uno stato positivo.

314 - 4. IL DOLORE

a) Dolore e sofferenza. Il dolore, inteso in senso stretto, è un'impressione penosa di natura speciale. Parec-
chie impressioni sgradevoli non si presentano come dolorose: gli stati di malessere diffuso, per esempio, gli
stati di debolezza, di abbattimento, o ancora sensazioni penose come quelle provocate da un grido stridente,
da un odore nauseabondo, ecc. Dal punto di vista psicologico, il dolore è dunque contrassegnato da caratteri
particolari, di difficile descrizione, ma di discernimento comune, che lo collocano in disparte rispetto alle al-
tre impressioni penose.

b) Caratteri fisiologici del dolore. Fisiologicamente, c'è un comportamento specifico del dolore, che com-
prende fenomeni riflessi, reazioni vaso-motrici, viscerali, muscolari, gridi, lacrime, movimenti di ritrazione,
contrazioni facciali, polso e respirazione irregolari, rallentamento delle secrezioni, dilatazione dell'iride, ecc.
Tuttavia, queste manifestazioni né sono date necessariamente tutte insieme, né sono assolutamente automa-
tiche, almeno nella specie umana. Parecchie di esse possono essere inibite con uno sforzo volontario. E ciò
spiega appunto, in una con il grado di sensibilità, come esse varino tanto da un individuo all'altro, giacché v'è
chi forza, per così dire, l'espressione del dolore e chi, invece, la contiene frenandola. La padronanza di sé può
giungere talvolta ad ottenere come risultato una certa quale apparenza d'insensibilità.

c) La questione del senso del dolore. Gli antichi facevano del tatto, esterno ed interno, cioè, in altri termini,
della cenestesia, l'organo del dolore, considerato come risultante d'una alterazione anatomica o funzionale
dell'organismo. Oggi, come s'è visto (117), si ammette comunemente che il dolore può essere il risultato
dell'eccitazione di un qualsiasi nervo sensitivo, quando questa eccitazione oltrepassi il limite normale, ovve-
ro quando il soggetto si trovi in uno stato d'iperestesia nervosa. Quanto alle ipotesi relative all'esistenza di un
senso e di organi speciali per il dolore, esse non hanno potuto fin qui apportare alcun argomento decisivo in
loro favore. La questione rimane dunque incerta. Quel che è certo è che il dolore è una reazione affettiva par-
ticolare agli stimoli nocivi e risultante da alcune modificazioni organiche prodotte da questi stimoli. Come il
piacere, esso è un fatto affettivo di natura organica.

Praticamente, si definiscono le sensazioni dolorose sia in relazione agli organi in cui esse sono localizzate
(dolori di stomaco, mal di testa), - sia in relazione alle loro cause (scottatura, puntura, frattura, contusione,
oppressione, ecc,). - Per far conoscere le qualità di questi diversi dolori, si ricorre al procedimento dell'ana-
logia: dolori sordi, lancinanti, acuti, folgoranti, ecc.

§ 2 - Relatività del piacere e del dolore

315 - I piaceri, le sofferenze, i dolori hanno una relatività, che si manifesta in differenti modi. Le seguenti
leggi esprimono i vari aspetti di questa relatività.

1. LEGGE DI CONTRASTO - Il piacere e la sofferenza si valorizzano reciprocamente. Dopo un piacere


intenso, un dolore leggero sarà sentito duramente, e viceversa. Vi sono piaceri e dolori che sembrano avere
addirittura soltanto un contenuto negativo, costituito dall'assenza della sofferenza o del piacere a cui suben-
trano.
D'altra parte, l'intensità dei piaceri e delle sofferenze è inversamente proporzionale al loro numero. Gli
uomini al colmo del piacere o della gioia godono sempre meno. In uno stato continuo di dolore fisico, poco
sentito è un dolore nuovo che sopravvenga.

2. LEGGE DELLE CIROOSTANZE – L’intensità di un piacere o di un dolore dipende dalle circostanze


fisiche e mentali nelle quali essi si producono. Una ferita nel momento della lotta si avverte appena (per e-
sempio sul campo di battaglia o in una gara sportiva); ma non appena finito il combattimento, essa s'impone
alla coscienza. Un dolore assai paventato assume, quando sopraggiunge, una intensità speciale. Un piacere
che corrisponde ad una tendenza in attività, una sofferenza che contrasta tale tendenza, si risentono con una
vivacità particolare. I piaceri e le sofferenze variano in quantità ed intensità secondo l'età, il temperamento, le
abitudini acquisite. Il piacere è più vivo dopo una privazione penosa. La privazione è tanto più penosa quanto
più frequentemente e più intensamente è stato assaporato il piacere, ecc.

3. LEGGE DI SATURAZIONE - Né i piaceri né i dolori si sommano indefinitamente. La capacità di gode-


re, come quella di soffrire, è limitata. Questo limite è variabile secondo la sensibilità individuale e secondo
l'adattamento che ne è venuto.

4. LEGGE D'ADATTAMENTO - Ripetuto, il piacere affievolisce e per così dire, si logora, tende alla sa-
zietà. Ne consegue che per continuare a godere bisogna costantemente aumentare le sensazioni affettive, a
rischio che esse finiscano col diventare dolorose per eccesso. Nell'altro senso, si viene ad avere un certo a-
dattamento al dolore ed alla sofferenza. Capita facilmente che si finisca col non avvertire più l'elemento
spiacevole di certe situazioni (consuetudine affettiva).

L'adattamento è normale. I casi in cui questo non ha luogo, e che pare riguardino soltanto le sensazioni pe-
nose e dolorose, sono di natura patologica: si ha diminuzione progressiva ed anormale della resistenza in casi
in cui essa dovrebbe invece aumentare.

Art. II - Funzione del piacere e del dolore


316 - Ci si può porre il duplice quesito, inteso a conoscere quali siano le cause del piacere e del dolore: so-
no forse, rispettivamente, il bene e il male del soggetto che li prova? - quale sia la finalità degli stati affettivi:
sono essi effettivamente utili al soggetto? - In realtà si tratta piuttosto di considerare il medesimo problema
sotto due aspetti differenti, in quanto la ricerca delle cause del piacere e del dolore qui non riguarda più le
cause immediate, delle quali già sappiamo che sono organiche, ma le cause più generali: e ciò torna ad essere
una forma o almeno un elemento del problema della finalità degli stati affettivi.
§ l - Cause del piacere e del dolore

Le teorie in cui ci imbattiamo a questo proposito sono molto più metafisiche e morali che psicologiche.
Dobbiamo comunque rapidamente esporle, insistendo particolarmente sulla teoria aristotelica.

A. TEORIE INTELLETTUALISTICHE

1. GLI STATI AFFETTIVI FATTI RISALIRE A GIUDIZI - Il punto di vista intellettualistico è stato pre-
sentato sotto forme alquanto diverse. Gli Stoici vedono nel piacere e nel dolore semplici opinioni, che dipen-
dono da noi, come tutte le opinioni. L'uomo saggio, sol che lo voglia, può essere felice persino nel toro di Fa-
laride. Per Cartesio, il piacere e il dolore vanno riportati a giudizi mediante i quali l'anima valuta il suo punto
di perfezione e d'imperfezione. B. Spinoza e G. W. Leibniz, a loro volta, considerano gli stati affettivi come
forme di traduzione nella nostra coscienza dell'accrescimento o della diminuzione del nostro essere. F. Her-
bart infine, partendo dalla relatività dei piaceri e delle sofferenze, e particolarmente dalla legge delle circo-
stanze, ritiene che il piacere e il dolore siano prodotti da ciò che si accorda o ciò che entra in conflitto con il
complesso delle nostre rappresentazioni.

2. DISCUSSIONE - Queste teorie sono insufficienti. Il piacere e il dolore non dipendono assolutamente
dalle nostre opinioni. Se il saggio è felice nel toro di Falaride, ciò non vuol dire che egli, là dentro, non soffra
crudelmente. Felicità (ipotetica) e dolore possono coesistere, perché non sono del medesimo ordine. Quanto
ai cartesiani, essi confondono gli stati affettivi con i giudizi che li accompagnano. Il mio dolore e il mio pia-
cere non si identificano con la coscienza che io ne ho, quantunque tali essi siano per me proprio in virtù di
questa coscienza. In altre parole, la coscienza è condizione e non causa adeguata e totale del piacere e del do-
lore, che sono a loro volta delle realtà organiche. Laddove F. Herbart parla di rappresentazioni, bisognerebbe
parlare di tendenze sensibili. Un fatto che turbi il sistema delle nostre rappresentazioni può bensì procurarci
una viva contrarietà, ma non un dolore propriamente detto. Piacere e dolore appaiono del resto come relati-
vamente indipendenti dalle rappresentazioni. Un piacere rimane un piacere per chi se lo rimprovera.

B. TEORIA DELL'AFFETTIVITÀ

317 – I. IL PESSIMISMO - Vari filosofi hanno voluto collegare il dolore con l'attività come tale. Agire sa-
rebbe soffrire e di conseguenza la sofferenza diverrebbe la forma essenziale della vita. Il piacere, quindi, non
avrebbe che una realtà negativa, consistente nell'assenza del dolore. Tale è, sia pure con differenze abbastan-
za notevoli, la tesi d'Epicuro e di Lucrezio, di Kant, e soprattutto di Schopenhauer e di Leopardi, i quali insi-
stono soprattutto sul fatto che la coscienza implica un voler-vivere indefinito e mai soddisfatto, donde in-
quietudine e sofferenza: giacché, afferma Schopenhauer, «la vita è una lotta per l'esistenza, con la certezza
d'essere vinti».

2. DISCUSSIONE - Ben si vede che tocca alla Metafisica ed alla Morale una valutazione di queste tesi.
Tuttavia, dal semplice punto di vista psicologico, esse non possono non essere assai discutibili. Da un lato,
infatti, né il desiderio, né lo sforzo sono sempre dolorosi. Vi sono attività felici, benefiche, salutari, produt-
trici di sani piaceri e di gioie serene. D'altro canto, sembra impossibile ridurre il piacere ad una mera assen-
za di dolore, in quanto l'assenza di dolore si presenta come, uno stato vuoto, per se stesso, di ogni positività,
mentre il piacere implica aspirazione verso un oggetto e soddisfazione positiva nel godimento di questo og-
getto. Insomma, piacere e dolore sono ugualmente positivi e reali. Essi accompagnano l'esercizio naturale
delle nostre attività. Si tratta di sapere in quale esatto rapporto l'uno e l'altro siano con queste attività. A que-
sto quesito, appunto, intende rispondere la teoria aristotelica.

C. TEORIA DELL'ATTIVITÀ

318 - 1. IL PRINCIPIO DELL'ATTIVITÀ NORMALE - Il piacere, per Aristotele, pare risulti sia da uno
stato d'equilibrio nel quale i bisogni sono normalmente soddisfatti, sia dall'azione degli stimoli normali delle
differenti funzioni232. Sotto quest'ultimo aspetto, l'atto di mangiare, per chi ha fame, comporta piacere; sotto il
primo aspetto, lo stato del medesimo soggetto, che abbia mangiato secondo il suo appetito, è uno stato d'e-
quilibrio organico o di benessere, che costituisce un piacere positivo. Quanto poi agli stati dolorosi, essi ri-
sultano da condizioni inverse, cioè sia da stimoli anormali o inadeguati ai bisogni (un rumore stridente, una
bevanda che scotti, una temperatura glaciale, un alimento o troppo abbondante o non sano, ecc.), sia da uno
stato generale di squilibrio, provocato da insoddisfazione di bisogni o da eccesso di attività.

2. DISCUSSIONE - Queste considerazioni d'Aristotele sono giuste, a patto che siano intese in vista di de-
finire delle medie. Infatti, da una parte, il piacere e la sofferenza possono essere collegati a semplici fenome-
ni locali o accidentali, oppure essere prodotti da attività rispettivamente dannose (alcool) o utili (la dieta in
certe malattie; il parto, la dentizione, ecc.). In questi ultimi casi, c'è una lesione dei tessuti, che spiega il dolo-
re; ma non è men vero che quest'ultimo, può talvolta essere collegato accidentalmente ad attività biologica-
mente benefiche o nocive.

D'altra parte, il dolore è spesso sproporzionato alla causa. Il mal di denti ha qualcosa di atroce; al contra-
rio, vi sono gravi malattie cardiache o polmonari, che sono appena avvertite. Il dolore e il piacere sembrano
dipendere non tanto dal genere di attività esercitata, quanto dalla più o meno grande ricchezza di nervi sensi-
tivi della regione interessata. Inoltre, piacere e dolore sono relativi non tanto al genere di attività prodotta,
quanto al grado di abitudine raggiunto nell'esercizio di questa attività. Attività anormali possono, per effetto
della abitudine, comportare un certo piacere. Al contrario, attività perfettamente normali sono talvolta perfet-
tamente penose: così l'atto di mangiare, per chi soffre di stomaco.
Infine, nell'ordine morale, non importa tanto il genere d'attività, quanto il suo accordo con l'insieme delle
attività. In altri termini, non sono il piacere e la sofferenza che possono servire come criterio del bene e del
male del soggetto. Ciò che è buono per una tendenza (la violenza per chi è in collera, l'alcool per chi ha l'abi-
tudine di bere), non è necessariamente buono per il soggetto. Ciò che è buono per un soggetto, può essere
cattivo per un altro. L'inibizione di certe tendenze può costituire una sofferenza necessaria e benefica.

319 - 3. COMPLEMENTI ALLA TEORIA D'ARISTOTELE ­ Parecchi filosofi hanno tentato di comple-
tare la teoria dell'attività, così da renderla più rigorosa.

a) La quantità d'energia spesa. W. Hamilton propone di tener conto, per spiegare il rapporto del piacere e
dell'attività, dell'energia spesa nell'azione. «La più perfetta energia è nello stesso tempo la più piacevole».
Ma qual è questa energia «più perfetta»? Grote risponde: «Perché ci sia piacere, bisogna che ci sia equazione
tra l'attività disponibile e l'attività spesa», cioè che la perfezione dell'attività si definisce in termini quantitati-
vi, e che il piacere corrisponde ad una attività media, esattamente situata tra l'eccesso e il difetto, che com-
portano entrambi dolore. Spencer fa sue queste osservazioni233.

Contro queste teorie spesso si obietta che esse non si applicano alle attività superiori, intellettuali e morali:
non v'è possibile eccesso di scienza. di saggezza, di virtù. Ma questa obiezione non si regge, perché si tratta
qui solo delle attività sensibili, le sole che siano suscettibili, per le loro condizioni organiche, di piacere e di
dolore. Da questo punto di vista, le osservazioni di Grote e di Spencer sono fondate. Ma esse non completa-
no, a dire il vero, la teoria aristotelica, che collega così nettamente la perfezione dell'attività sensibile alla no-
zione del giusto mezzo.

b) La qualità dell'energia. Rimane tuttavia questa difficoltà: se è vero che il piacere è collegato ad un'atti-
vità media (e la media è stabilita secondo l'energia disponibile), esso dipende pure da altre condizioni: in par-
ticolare dalla qualità dell'attività, cioè dalla qualità dell'eccitante. Vi sono, infatti, degli eccitanti che sono
sempre sgradevoli, ed altri che restano sempre gradevoli, qualunque sia la loro intensità. A questa osserva-
zione di Stuart, Ribot aggiunge che, perché una eccitazione sia gradevole, bisogna che sia accordata ai biso-
gni ed alle tendenze dell'essere vivente.
Anche queste osservazioni sembrano fondate. Ma esse non aggiungono niente alla teoria d'Aristotele quale
aveva già notato (Eth. ad Nicom., X, c. XII) che «quel che è proprio di ciascun essere in virtù della sua natu-
ra, è precisamente quello che per lui v'è di meglio e di più piacevole».

c) L'evoluzione delle specie. Spencer obietta al punto di vista finalistico che esso sembra costituire un cir-
colo vizioso: si definiscono il piacere e il dolore in rapporto alle tendenze, quando queste sono conosciute
soltanto attraverso il piacere ed il dolore che risultano dalle modalità del loro esercizio. Per risolvere questa
difficoltà, Spencer propone la sua teoria evoluzionistica: ricorrendo alla storia naturale di una specie, si saprà
perché essa ha tali bisogni e tali tendenze, e di conseguenza perché queste o quelle attività le sono utili o
dannose o spiacevoli (Principles of Psychology, 2 voll., 2a ed., Londra, 1870, tr. fr. I, p. 286).
Questa teoria, in realtà, non spiega nulla. Anzitutto, gli istinti non possono ridursi ad abitudini acquisite
(II, 149-150). D'altra parte, l'abitudine stessa non si spiega se non attraverso una tendenza anteriore, sulla
quale si innesta. L'adattamento, lungi dal derivare dall'ambiente e dalle abitudini, è anteriore allo stabilirsi
del vivente in un nuovo ambiente. Questi vi si adatta soltanto in quanto preadattato.

Quanto al rimprovero di circolo vizioso, questo si fonda su di un controsenso, poiché, per Aristotele, non
sono il piacere e il dolore che rivelano o manifestano la tendenza: essi vi si aggiungono soltanto. La tendenza
è manifestata dalla spinta verso un fine, dall'orientamento finalistico. Questo appunto è stato ben messo in
luce dalla psicologia contemporanea: «Le nostre tendenze, scrive Mc Dougall (Outline of abnormal Psycho-
logy, Nuova York, 1929, pp. 224), non dipendono, quanto alla loro determinazione, dal piacere e dal dolore,
ma sono semplicemente modificate dal piacere e dal dolore che esse incontrano nel loro realizzarsi». Si può
dunque, senza alcun circolo vizioso, riferire il piacere e il dolore al modo d'esercizio delle nostre tendenze.

4. CONCLUSIONI - In sostanza, i complementi coi quali s'è voluta arricchire la teoria d'Aristotele nulla in
realtà aggiungono, che essa non avesse già previsto. È però altrettanto certo che essa si trascina seco parec-
chie difficoltà inerenti al carattere molto generale di un punto di vista che abbraccia tutti gli stati affettivi e
tende soltanto a definire una media, nel cui ambito numerose rimangono le eccezioni.
Si può sperare di togliere di mezzo queste difficoltà? Si è notato recentemente (cfr. Pradines, Psychologie
générale, I, pp. 301-396) che le ambiguità della teoria aristotelica sono inerenti alla sua stessa nozione del
piacere e del dolore sensibili che, facendo considerare questi stati come contrari di medesima natura, portano
a cercar loro delle cause ugualmente di medesima natura, vale a dire il modo d'esercizio delle tendenze. Or-
bene, si dice, se è certo che ogni piacere è collegato alla soddisfazione dei bisogni e, quindi, all'attività, è
dubbio però che il dolore sia regolarmente il risultato di un'attività anormale o contrariata. La causa del dolo-
re sembra piuttosto da ricercarsi in disfunzioni o lesioni organiche, che possono talora accompagnare il biso-
gno non soddisfatto (dolori della fame e della sete), ma che non possono in alcun modo passare per fenomeni
connessi all'attività del vivente.

Sembrerebbe pertanto, sotto questo aspetto, doversi assegnare per causa, al piacere, la soddisfazione di un
bisogno sensibile mediante l'appropriazione dell’oggetto capace di soddisfare questo bisogno, ed al dolore,
le turbe cui è soggetto l'organismo e che determinano l'esercizio di uno sforzo repulsivo (riflesso o delibera-
to) tendente ad allontanare l'oggetto dannoso. Questi fenomeni sono irriducibili fra loro esattamente come lo
sono l'appetito concupiscibile e l'appetito irascibile d'Aristotele e degli Scolastici. Piacere e dolore hanno
dunque per causa gli oggetti che li provocano e che sono altrettanto eterogenei che il sì e il no, che il dentro e
il fuori, poiché, per il piacere, generato dal di dentro in relazione al bisogno, si tratta di una cosa da possede-
re, e per il dolore, provocato dal di fuori, di una cosa da allontanare.
Queste osservazioni, per quanto riguarda il piacere ed il dolore sensibili, appaiono fondate e possono ag-
giungere alla teoria di Aristotele una precisione formale di sicuro interesse. Senza obbligare ad abbandonare
una tesi che considera l'insieme degli stati affettivi e che deve il suo valore al criterio molto generale che a-
dotta, giustamente sottolineano l'eterogeneità funzionale del piacere e del dolore ed inducono ad affermare
che il contrario del piacere non è il dolore, ma la privazione, e che il contrario del dolore non è già il piace-
re, ma l'assenza del dolore. Piacere e dolore non sono dunque contrari congeneri. Qualitativamente diversi, il
loro metro comune va cercato nella loro comune relazione col valore vitale, in cui il piacere ha un indice po-
sitivo ed il dolore un indice negativo234. E così, alla fine, queste considerazioni ci riportano al senso generale
della teoria d'Aristotele.

§ 2. Finalità del piacere e del dolore

320 - 1 GLI STIMOLI DEL PIACERE E DEL DOLORE - Il problema della finalità del piacere e del do-
lore dipende evidentemente dalla soluzione data alla questione precedente. Se si ammette che piacere e dolo-
re sono eterogenei ed esprimono funzioni differenti, la loro rispettiva finalità immediata sarà definita da que-
ste stesse funzioni, che consistono, per il piacere, nel favorire la soddisfazione dei bisogni organici, e, per il
dolore, nel fare allontanare gli oggetti dannosi. Ma questa finalità è a sua volta al servizio di una finalità più
generale, e tale da valere per il complesso delle impressioni affettive, che consiste, come osserva Aristotele,
nel determinare o nel rafforzare l'attività utile, oppure, al contrario, nel frenare o inibire l'attività pregiudizie-
vole al vivente.
In entrambi i casi, o, se si preferisce, ad entrambi i livelli, non si tratterà che di una media. Spesso, infatti,
le reazioni affettive si prestano tardivamente o difficilmente all'interpretazione; e talvolta sono assenti o
sproporzionate. Ne consegue che, anche in questo campo, trova gran posto l'adattamento mediante «prove ed
errori».
Si obietta, ma a torto, contro il punto di vista finalistico, che ci sono dolori perfettamente inutili, tanto sot-
to l'aspetto fisico che sotto quello morale: quelli, cioè, che si provano quando la situazione non può più esse-
re modificata, ovvero esclude ogni forma di adattamento. Si porta come esempio, nell'ordine fisico, il dolore
che succede ad una bruciatura e che si rivela perciò inutile (il dolore concomitante avrebbe avuto l'utilità di
provocare la ritrazione della mano), e, nell'ordine morale, il rammarico o il rimorso. Ma si nota subito quanto
d'inesatto comportino queste osservazioni. Il rammarico ed il rimorso hanno per evidente finalità quella di
provocare un ritorno all'ordine, mediante restituzione, riparazione, correzione, ecc. Parimenti, il dolore pro-
lungato pare abbia, se non questo fine, per lo meno la funzione di attirare l'attenzione sulle cure richieste dal
caso. Sta comunque il fatto che tale dolore cessa quando i tessuti lesi abbiano assicurato da sé la loro prote-
zione. Si può infine aggiungere che certe reazioni al dolore, che sembrano costituire un inutile dispendio d'e-
nergia (gridi, lacrime, agitazione, ecc.), arrecano in realtà una certa quale attenuazione al dolore.

2. LA FUNZIONE DELLA RAGIONE - La finalità delle impressioni affettive è dunque incompleta ed


imperfetta. Esse non ci fanno conoscere se non ciò che è immediatamente buono o cattivo per tale funzione o
tale organo, senza darci ulteriori moniti. Gli effetti lontani delle nostre attività non sono generalmente profe-
tizzati dagli stati affettivi. Ecco perché la finalità di questi stati è completata, nelle specie animali, dalle indi-
cazioni dell'istinto, in cui si hanno, ad un tempo, una tendenza ed una sorta di giudizio pratico sulle circo-
stanze dell'attività istintiva, - e nella specie umana dai lumi della ragione. A questa tocca infatti costantemen-
te il compito d'interpretare o di supplire le informazioni insufficienti o assenti della sensibilità affettiva.
Per giustificare il fatto paradossale di una finalità naturale così imperfetta, bisognerebbe, pare, come ab-
biamo già notato in Cosmologia (II, 109), collegare la sensibilità affettiva con le reazioni più elementari del-
l'irritabilità. Non v'è dubbio che la sensibilità affettiva non può ridursi all'irritabilità. Ma aggiungendo a que-
sta un elemento specifico ed irriducibile, essa pare non abbia altro fine, negli esseri la cui complessità rende
insufficienti le reazioni dell' irritabilità, se non quello di provocare il vivente ad aggiungere agli stimoli ri-
flessi le risorse apportate dalla memoria istintiva e dalla ragione. Sotto questo aspetto, si comprende come
la finalità del piacere e del dolore, ridotti a semplici reazioni riflesse, non basti a se stessa, e come essa non
possa essere correttamente interpretata, se non in riferimento all'attività conoscitiva del vivente.

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