Sei sulla pagina 1di 10

Repubblica

Platone

LIBRO VII

1. Il mito della caverna e il suo significato filosofico e morale

La condizione dei prigionieri nella caverna rappresenta la conoscenza delle realtà


sensibili

- I prigionieri «sono costretti a tenere la testa immobile per tutta la vita» (515b). Solo
vedono le ombre degli oggetti e ritengono che sono la realtà

La conversione verso la luce e la visione delle realtà intelligibili

La visione del mondo fuori dalla caverna culmina nella contemplazione

- La liberazione immediata dalla caverna è un processo doloroso. Ci vuole «farvi


abitudine, per riuscire a vedere le cose che sono al di sopra» (516a)

La difficoltà di adattamento e i rischi che corre chi rientra nella caverna

- Allora, «sarebbe felice del cambiamento» e «proverebbe compassione» per i suoi


compagni (516c)

Il significato complessivo del mito: l’Idea del Bene è principio ontologico, gnoseologico
e normativo

- Paragone: l’ascesa verso l’alto e la contemplazione delle realtà superne


all’elevazione dell’anima al mondo intelligibile
- Spiegazione di Socrate: «nel mondo delle realtà conoscibile l’Idea del Bene viene
contemplata per ultima e con grande difficoltà. Tuttavia, una volta che sia stata
conosciuta non si può fare a meno di dedurre, in primo luogo, che è la causa
universale di tutto ciò che è buono e bello – e precisamente, nel mondo sensibile,
essa genera la luce e il signore della luce, e in quello intelligibile procura, in virtù
della sua posizione dominante, verità e intelligenza – e, in secondo luogo, che a
essa deve guardare chi voglia avere una condotta ragionevole [εμφρονως πραξειν]
nella sfera pubblica e privata» (517c)

I filosofi nella vita politica alla luce del mito della caverna

- Le persone che si sono elevate


o Non vogliono impegnarsi in imprese umane. Sino attratte a tornare lassù
o Rischiano di far brutta figura e di apparire del tutto ridicolo
- Bisogna avere in conto i due tipi di disturbi agli occhi: quando si passa dalla luce al
buio, e quando si passa dal buio alla luce
L’educazione dell’intelligenza è una conversione all’Idea del Bene

- L’educazione non consiste in immettere nell’anima la conoscenza. Ciascuno di noi


possiede nell’anima questa facoltà [δυναμιν]. Occorre, però, che l’organo con cui
ognuno apprende sia girato [στρεφειν] «con tutta intera l’anima [συν ολη τη
ψυχη], fino a che non risulti capace di pervenire alla contemplazione dell’essere e
al fulgore supremo dell’essere: ossia alla contemplazione [θεωμενη] di questo che
diciamo essere Bene» (518c)
- Quindi, la conversione [περιαγωγη] consiste in girare l’anima, cioè in «procacciarle
tale vista, come se già l’avesse ma non la girasse bene e non guardasse dove
dovrebbe» (518d)
- Singolarità della virtù dell’intelligenza: le altre virtù dell’anima, non essendo prima,
vengono immesse con l’abitudine e con l’esercizio, «invece quella dell’intelligenza
più di ogni altra, come sembra, è connessa a qualcosa di più divino che non perde
mai la propria potenza, ma diventa utile o giovevole o al contrario inutile e dannosa
a causa della conversione» (518a)

Il filosofo deve tornare nella caverna per aiutare gli altri a liberarsi

- Dovere dei fondatori dello Stato:


o Costringere le natura più dotate a indirizzarsi verso la conoscenza del Bene
o Non permettere che essi se ne stiano lassù, dimenticandosi dei compagni in
catene
- Glaucone: «non rischiamo forse si trattarli ingiustamente, costringendoli a una vita
peggiore, quando avrebbero la possibilità di una migliore?» (519d)
- La risposta torna al principio di giustizia politica: la felicità dell’insieme, il
consolidamento dello Stato. Sì che i cittadini «si scambino reciprocamente quei
servizi che ognuno individualmente ha la possibilità di rendere alla collettività»
(520a)

Il filosofo terrà il comando per senso del dovere e per riconoscenza verso lo Stato che lo
ha educato

- Affinché lo Stato sia ben governato, bisogna trovare per il governante «un modo di
vivere migliore del potere stesso» (521a). Sarà la vita dedicata all’autentica filosofia

2. L’importanza della matematica nell’educazione del filosofo

Insufficienza della ginnastica e della musica per la formazione del filosofo

- L’ascesa dell’essere: l’autentica filosofia [ην δη φιλοσοφιαν αληθη φησομεν ειναι]


- C’è una disciplina che trascina l’anima dalla sfera del divenire a quella dell’essere

La contraddittorietà del sensibile stimola la ragione a stabilire se l’oggetto percepito


sia uno o molteplice
- Sono i contrari, riferiti ad una stessa sensazione, ciò che richiede un
approfondimento. Mediante il ragionamento e l’intelligenza. Per cercare se gli
oggetti attestati dalla sensazione sia una sola realtà o due. L’intelligenza considera
il grande e il piccolo non mescolati, ma distinti – separati, come uno e due –,
esattamente l’opposto di come li coglie la vista. Allora avviene il bisogno di
interrogarsi sull’essenza del grande e del piccolo: la sfera dell’intelligibile

La matematica, evidenziando l’opposizione uno-molti, apre la mente alla


contemplazione dei Principi

- «…la vista dell’uno ha come effetto non secondario questo che tu dici – il fato di
venire unito a qualcosa di contrario –, perché uno stesso oggetto noi lo cogliamo
insieme come uno e come infinitamente molteplice» (525a)

La geometria, in quanto ha per oggetto esseri che sempre sono, è disciplina filosofica

- Anche la geometria giova, perché «è la scienza di ciò che sempre è, e non di ciò che
in un certo momento si genera e in altro momento perisce» (527b)

3. Il valore delle scienze astronomiche nell’educazione del filosofo

Utilità pratica e teorica della stereometria e astronomia

- Terza scienza: quella delle dimensioni della profondità

L’astronomia mostra il migliore esempio di armonia universale

- Quarta scienza: l’astronomia. Perché le figure del cielo sono le più regolari nel loro
genere. Portano a contemplare la sincronizzazione dei loro movimenti. Questo non
è colto con la vista, ma con l’intelletto

Anche la scienza dell’armonia è puro studio di rapporti intelligibili

- Quinta scienza: quella dei movimenti armonici. Laddove si cerca quali siano i
numeri armonici e quali no, e le rispettive ragioni

4. La dialettica come coronamento dell’educazione del filosofo

Le scienze tratte sono una preparazione alla dialettica

- Codeste scienze sono il proemio, il preludio della dialettica


- Descrizione del procedimento dialettico: «uno può giungere fino al vertice
dell’intelligibile solo quando, per mezzo del procedimento dialettico e
prescindendo totalmente dall’apporto delle sensazioni, incomincia, con la sola
forza della ragione, a tendere a ciò che è l’essere di ciascuna realtà, senza cedere
mai, almeno finché non ha colto con la pura intelligenza l’essenza stessa del Bene,
giungendo allora al termine del visibile» (532e)
- «…non esiste altro procedimento che possa pretendere di cogliere
sistematicamente e universalmente l’essenza di ciascun essere individuale» (533b)

Ricapitolazione dei tipi di conoscenza e riaffermazione della superiorità della dialettica

- «…solo il metodo dialettico [η διαλεκτικη μεθοδος] procede per questa, togliendo


le ipotesi fino a raggiungere il principio in quanto tale per conferire solidità» (533d)
- Le cinque scienze prima menzionate sono superiori rispetto all’opinione, ma
inferiori rispetto alla scienza; perciò sarebbe meglio denominarle «col nome di
dianoia, ossia conoscenza mediana»
- Dunque, abbiamo:
o Intellezione:
 Scienza
 Dianoia
o Opinione
 Credenza
 Congettura
- «Chi non è capace di definire l’Idea del Bene con il ragionamento astraendola da
tutte le altre», davvero «non conosce né il Bene in sé né nessun’altra cosa buona»
(534c)
- Il vero metodo scientifico – ossia dell’episteme – consiste in procedere per
domande e risposte

5. L’educazione del dialettico

LIBRO IX

1. Il carattere e il sistema di vita del tirano

- Contenuto antropologico: ci sono dei piaceri e dei desideri non necessario, contrari
alla legge, che si trovano in ciascuno di noi, e che vengono allo scoperto nello stato
di sonno. In alcuni uomini si trovano rimossi o ridotti, ma in altri, essi sono violenti
e numerosi (cfr. 571b; 572b)
- Tal cosa avviene quando la parte razionale si addormenta, e si risveglia quell’altra
animalesca e selvatica
- Un’anima «in tali condizioni osa fare di tutto come si fosse libera da ogni remora
imposta dal pudore e dalla saggezza [non si parla di leggi o costumi]. Così, ad
esempio, non ha alcuna esitazione a rappresentarsi un’unione incestuosa con la
madre, o con un altro uomo, qualsiasi sia, o con dèi o con animali, oppure a
macchiarsi del sangue di chiunque, o a cibarsi di qualunque cosa. Insomma, non
lascia indietro nulla per folle e indecente che sia» (571d)
- «In conclusione, un uomo potrà dormire solo quando due facoltà dell’anima sia
ridotte allo stato di quiete, e la terza – quella in cui risiede la ragione – sia tenuta
ben attiva. In tale caso sai bene che egli attinge in grado massimo alla verità, e
quelle visioni di sogno gli appaiono allora assai meno conturbanti» (572a)
- Caratteri dell’uomo tiranno [τυραννικος ανδρος]: «o per natura, o per abito
acquisito, o per l’una e l’altra cosa insieme, assume a un tempo il carattere di
essere facile all’ebrezza, avido di eros e depresso» (573c). Condotto ad una vita
assolutamente sregolata; ai desideri smisurati
- L’amore è detto tiranno [τυραννος ο Ερως λεγεται] (573b)
- L’amore tiranno si pone alla tesa di tutte le diverse passioni. Si insedia nell’anima e
tiene stretta in suo potere ogni facoltà dell’anima. Un vero schiavo
- Alla fine, «l’Amore [tiranno] che in lui la fa da padrone, in assenza di ogni autorità e
legge [εν παση αναρχια και ανομια ζων], da monarca assoluto [μοναρχος] guiderà
la sua vittima… con assoluta sfrontatezza, per poter sostentare se attesa e la folla
vociante dei desideri: quelli che gli sono venuti dal di fuori, dalle malvagie
compagnie, e quelli che affiorano e si liberano dentro di lui, a causa dei suoi
costumi e delle scelte di vita» (575a)

- Quando siffatti individui diventano numerosi, «giocando sull’ignoranza del popolo,


danno alla luce il tiranno, ossia quello fra loro che più di ogni altro ha nella sua
anima in maniera più netta e in misura più marcata un carattere di tiranno» (575c)
- E poi, «in tutta la loro esistenza costoro non riescono a vivere con nessuno un
rapporto di amicizia, essendo sempre o tiranni o servi, e del resto la natura del
tiranno non conosce il gusto dell’autentica libertà e amicizia» (576a)
- Il tiranno è da sveglio, quello che altri sono in sogno!

- La monarchia è il migliore, e la tirannia è il peggiore – modo di governare


- Il più considera che non esiste Stato più infelice di quello a regime tiranno. Invece,
beato quello a regime monarchico. In conseguenze, infelice sarà l’uomo di vita
tirannica, mentre sarà beato l’uomo di vita monarchica, ossia l’uomo la cui vita è
guidata da un unico principio: vale a dire, la ragione.

La soggezione della parte migliore alla peggiore caratterizza tanto l’anima che lo Stato
tirannico

- Descrizione dell’uomo e della Città tiranni: le facoltà più nobili sono ridotte a
schiave, mentre una piccola parte, la più spregevole, la fa di padrona
- Un’anima serva, povera, impaurita, sofferente: la più infelice

- L’uomo tirannico è sommamente infelice, perché non ha potere su se stesso e


pretende di averlo sugli altri. Non può avere una vita normale, si trova rinchiuso
nella sua stessa prigione. Insoddisfatto sempre per un’infinità di cose. Oppresso
dalla paura, dalla tensione e dall’angoscia. Sempre più invidioso, infido, asociale,
alimento di ogni vizio; cagione di infelicità anche per chi gli sta vicino.
- Riguardo alla virtù e alla felicità, Adimanto giudica un ordine: l’uomo regale, quello
timocratico, l’oligarchico, il democratico e il tirannico. «…ha ritenuto
maggiormente felice la persona più nobile e onesta, vale a dire quella più regale
perché regna su se stessa, e più infelice l’uomo assolutamente disonesto e
malvagio, cioè chi si trova a essere tiranno a tutti gli effetti, tiranno di sé e della
Città» (580c)
2. Il dominio della parte migliore dell’anima sulla peggiore è fonte di felicità
La ricchezza, l’onore e il sapere sono le aspirazioni proprie delle tre parti dell’anima

- La parte concupiscibile è amante della ricchezza, perché permette di soddisfare i


desideri e i piaceri. La parte irascibile è amante della vittoria e dell’onore. La parte
razionale è amante dello studio e filosofa
- Allora, a seconda della parte dominante, ci saranno tre tipi di uomo:
o Colui che ama il sapere: φιλοσοφο
o Colui che ama la vittoria: φιλονικον
o Colui che ama il guadagno: φιλοκεδρες
- Inoltre, ciascuno giudicherà i piaceri dell’altro a partire del piacere proprio.

- La domanda: come sapere giudica correttamente? «…quali devono essere gli


strumenti perché un giudizio sia ben fatto? Non sono forse l’esperienza,
l’intelligenza e il ragionamento?» (582a)
- Il filosofo, fin dalla tenere età, ha esperienza del piacere dell’onore e del guadagno.
Mentre il giusto della contemplazione dell’essere è impossibile che altri l’abbia se
non il filosofo
- Altresì, aggiungerà il ragionamento, perché il giudizio si formula sulla base di un
ragionamento. Quindi il filosofo ha tutto gli strumenti per fare un bel giudizio: sarà
«vero in sommo grado quanto il filosofo cultore della ragione approva» (382e)
- Per tanto, il migliore piacere, il più soave sarà quello che appartiene alla parte
dell’anima razionale. In secondo posto, il pial,,,,,,,,,,,,cere dell’onore. E infine, il
guadagno

Nella valutazione dei piaceri è difficile sottrarsi al relativismo

- L’idea di Socrate è: i piaceri dell’onore e del guadagno sono soltanto un abbozzo di


piacere
- Il caso di gli uomini sofferenti: esaltano «come bene più dolce, non il piacere in
quanto tale, ma l’assenza del dolore e la tregua delle pene» (583d). Ovvero, un
momento di pace.
- Invece, l’assenza di piacere risulta dolorosa. Per tanto, la condizione di pace
intermedia fra il piacere e il doloro – ossia la quiete – in un caso è dolce, e nell’altro
è penosa. Una contraddizione in termini. Quindi, non ha senso «reputare dolce il
non soffrire e penoso il non godere» (584a)
- Addirittura, ci sono dei piaceri che non appaiono per la cessazione del dolore; né
provocano doloro quando cessano
- Metafora del basso, il mezzo e l’alto: è relativo. Applicazione al ragionamento
precedente: «Quando, però, dalla condizione di doloro passano a quella
intermedia, decisamente si convincono di aver raggiunto il culmine, cioè di essere
in uno stato di piacere. Essi che non hanno mai conosciuto il piacere, mettendo a
confronto il doloro con l’assenza del dolore…» (585a)

Le realtà che hanno più essere e verità procurano un godimento più perfetto
- Innanzi alle falle del corpo e a quelle dell’anima, «quel è il modo più giusto di
colmarle? Ricorrere a ciò che ha meno essere o a ciò che ne ha di più? […] Quali
sono allora le specie che a tuo avviso partecipano in maggiore misura alla purezza
dell’essere? Quelle che assomigliano… agli alimenti, oppure il genere analogo… alla
virtù?» Risposta: «Ciò che si riferisce alla realtà sempre identica ha ben più motivi
per eccellere» (585c)
- «Se, dunque, il piacevole consiste nel saziar di quelli che è conforme alla natura, ciò
che veramente raggiunga la propria pienezza con cose che hanno più essere, è
logico che ci dia un godimento più perfetto e ci allieti in maggiore misura rispetto a
quanto accoglie l’essere in proporzione minore. Questa ultima realtà, in effetti,
avrebbe meno possibilità e meno certezza di raggiungere un’autentica pienezza e
comunque avrebbe parte di un piacere più insicuro e meno puro» (585e)

Solo la ragione coglie verità stabili, e solo essa procura un vero piacere

- Coloro che non hanno l’idea della saggezza e della virtù, «nutrendosi di realtà prive
di sostanza non riempiono né il proprio autentico essere [l’anima], né il suo
involucro [il corpo]» (586b)
- La parte irascibile e la concupiscibile raggiungono i godimenti se perseguono i
piaceri che la parte razionale suggerisce. «Se, dunque, l’anima nel suo complesso,
all’unisono si accorda alla parte che ama il sapere, capita che essa in ogni parte
assolva alle proprie funzioni e si comporti secondo giustizia. In tal modo, ciascuna
facoltà raccoglierà il frutto dei propri piaceri, i migliori e, per quanto è possibile, i
più autentici» (586e)

Rappresentazione metaforica dell’anima umana per confutare la tesi della felicità del
malvagio

- Un organismo composto: un parte come una corona di teste di bestie feroci; una di
una di leone; e una di uomo. Esternamente sembra un solo essere vivente,
appunto un uomo. Fare ingiustizia vuol dire ingrassare le bestie e il leone, e lasciar
morir di fame l’uomo. Fare giustizia vuol dire che l’uomo sia reso il più forte, e che,
servendosi del leone, riesca a dirigere la bestia dalle molte teste (cfr. 588c-589b)
- Per tanto, «il farsi condurre non vada a danno del sottomesso, come pensava
Trasimaco dei suoi subordinati, perché è nell’interesse di ciascuno farsi governare
da un essere razionale e divino. Certo l’ideale sarebbe che questo forse dentro di
noi e ci fosse familiare, ma andrebbe bene anche in caso diverso, quando cioè, esso
ci sorreggesse dal di fuori. L’importante è che si sia il più possibile tutti amici e
uguali, obbedienti alla stessa guida» (590d; cfr. 590e)

- Dunque, come si può dire che l’ingiustizia reca vantaggio se «uno diviene
moralmente peggiore» (591a)
- Contenuto antropologico: «l’anima supera in dignità il corpo» (591b)

- L’uomo di senno si procurerà le ricchezze e gli onori che lo rendano migliore, e non
compromettono l’equilibrio interiore
- Tale uomo «si butterà… nella vita politica, ma nella sua Città. E invece,
probabilmente, cercherà di non occuparsene in patria…» (592a)
- Quella Città ideale, il cui modello si trova forse «nel cielo a disposizione di chi
desideri contemplarlo e, contemplandolo, in esso fissare la sua dimora. Non ha
quindi importanza che una siffatta Città attualmente esista o possa esistere in
futuro, perché comunque egli potrebbe occuparsi solo di questa Città e non di
un’altra» (592b)

LIBRO X

1. La condanna dell’arte e le sue motivazioni filosofiche

- «…non è lecito aver più rispetto per l’uomo che per la verità…» (595c). Espressione
che poi riprenderà Aristotele nell’Etica Nicomachea.
- Quello che è – l’Idea –, è sempre uno (cfr. 597c)
- Dio è il produttore della natura delle cose [φυτουργος] (cfr. 597d). Poi ci sono gli
artefici delle cose [δημιουργον]. Infine, l’imitatore [μιμητης] della cosa prodotta
dagli artefici. Quindi, l’imitatore riproduce il fenomeno – apparenze –, non le realtà
che sono in natura. Così, sembra che gli imitatori passano per onnisciente, in
quanto imitano i prodotti di ogni arte. Perciò, «a partire da Omero ogni artista è
imitatore di immagini della virtù e di tutti gli altri oggetti su cui opera non attinge
alla verità…» (600c)
- Per ogni oggetto ci sono tre arti: quella che lo usa, quello che lo produce e quella
che lo imita. Pero ciascun oggetto deve la sua virtù e legittimità proprio all’uso per
il quale è stata da natura generata o fatta (cfr. 601d). Per tanto, chi ne usa avrà
scienza [επιστημην] di quel oggetto; chi lo produce, ne avrà retta opinione [πιστιν
ορθην], in quanto ha frequentato a chi ne usa. L’imitatore imiterà l’oggetto come
sembri ai più che non sanno nulla.
- Inoltre, l’arte imitativa si rivolge a ciò che c’è in noi di più lontano dall’intelligenza.
L’arte mimetica, invece di aiutare alla parte migliori dell’anima ad attenersi ad una
condotta ragionevole, offre modelli e imitazioni che spingono la parte irrazionale,
proclive alla viltà, ai lamenti, alla disperazione (cfr. 604).
- Infatti, la parte intemperante e volubile è più facile da imitare (cfr. 605a). Si dica lo
stesso per il riso e la commedia. Pure la lirica e l’epica alimentano il piacere e il
dolore, contro la legge e la ragione (cfr. 607a)
- C’è un vecchio antagonismo fra poesia e filosofia [ότι παλαια μεν τις διαφορα
φιλοσοφια τε και ποιητικη] (cfr. 607c). Il contrario sarebbe che la poesia non solo
sia dolce, ma anche vantaggiosa alla società e alla vita dell’uomo

2. La felicità del virtuoso si colloca nella dimensione dell’eterno

Dimostrazione dell’immortalità dell’anima a partire dal concetto di male specifico

- Argomento delle più grande ricompense della virtù e dei premi che l’attendono.
- Premessa: «…l’anima nostra [ημων η ψυχη] è immorale [αθανατος] e non conosce
corruzione [ουδεποτε απολλυται]» (608d)
- Specie di fondamento del primo principio della ragione pratica: «il male è tutto ciò
che distrugge e corrompe, e il bene tutto ciò che conserva e giova» (608e)
- Condizione: se ci fosse qualcosa il cui male lo rende cattivo, ma non riesce ad
annientarlo, allora sapremmo che esso, per sua connaturata struttura è
indistruttibile.
- I vizi dell’anima – il suo male specifico –, benché l’assediano, non la consumano al
punto di portarla alla morte. Neppure i mali del corpo. Infatti, queste cose non
fanno diventare l’anima più cattiva. Poiché nessuna realtà perisce per effetto di un
male sviluppatosi in altre realtà che non la riguarda. Conclusione: «quando una
cosa non muore per effetto di alcun male, né del suo specifico né di quello di altri,
evidentemente, è necessario che sempre sia: e se è sempre, è immortale» (611a)

Per conoscere l’anima bisogna esaminarla quando è libera dal corpo, nella sua
tangenza col divino

- «…per sapere quale sia in verità [l’anima] non si deve esaminarla, come ora
facciamo, quando è contaminata dalla sua comunione col corpo e da tanti altri vizi,
ma quando sia completamente purificata… in tali condizioni la si troverà molto più
bella e si avrà la facoltà di discernere con assai maggiore precisione i caratteri
dell’ingiustizia e della giustizia e tutto ciò di cui ora abbiamo discusso» (611d)
- Platone non parla di una vita eterna, bensì semplicemente dell’immortalità
dell’anima. Ora cerca di parlare dell’anima in quanto congenere col divino. Perché
finora si ha limitato a parlare delle condizioni e delle forme che l’anima assume
nella vita umana

La prima ricompensa della giustizia è l’amore degli dèi e la possibilità di farsi simili a
loro

- Prima ricompensa: agli dèi non è ignoto l’uomo giusto, anzi egli è amato dagli dèi,
mentre l’ingiusto è odiato. Quindi se ora un uomo giusto appare in condizioni di
infelicità, bisogna pensare che «questa situazione alla fine si rovescerà in un bene o
quando ancora è vivo, o da morto. Non accadrà mai, infatti, che gli dèi non si curino
di chi vuole sinceramente essere giusto e mette in pratica la virtù per farsi simile a
dio, al meno per quanto è possibile a un essere umano» (613a)

Al giusto non mancheranno ricompense umane

- Giunti alla vecchia, i giusti conquistano ottima fama e premi, mentre gli ingiusti
saranno dei poveruomini

3. Il mito di Er: il potere della filosofia va oltre la morte

Il mito de Er come rappresentazione dei destini escatologici del buono e del malvagio

- «Ma tutto ciò – replicai – non è ancora nulla né per quantità né per rilevanza
rispetto a quello che aspetta il giusto e l’ingiusto dopo la morte»
- «La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora tanto più ne avrà;
quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi
sceglie. Il dio non ne ha colpa» (617e)
- E poi, ogni anima presse un paradigma di vita. A questo punto, è importante quelle
conoscenze che conferiscono «la capacità, pratica e teorica, di scegliere sempre e
in ogni caso la miglior vita possibile, dopo un attento discernimento di ciò che è
utile e dannoso» (618c). «In tal modo, un uomo, traendo le debite conclusioni da
tutto ciò e non perdendo di vista la natura dell’anima, sarà in grado di fare una
scelta fra la vita migliore e peggiore, intendo come peggiore quella che lo
porterebbe al risultato di essere più ingiusto, e, viceversa, come migliore quella che
lo porterebbe verso comportamenti più giusti»
- «…è necessario scendersene all’Ade avendo ben saldo un tale convincimento, al
fine di riuscire a resistere anche laggiù alla tentazione delle ricchezza e alle altre
tentazioni del genere, e allo scopo di non cadere nella scelta di tirannidi o di modi
di vita analoghi per non compiere molti mali irreparabili, esponendosi al rischio di
subirne di altrettanto gravi. […] In tale modo, infatti, l’uomo sarà in sommo grado
felice»
- Frequentemente gli uomini tendono ad incolpare il destino e gli dèi; tutto,
insomma, tranne che se stesso
- Se uno si dedica alla filosofia in questo mondo, «egli rischia non solo di essere
felice qua da noi, ma anche di fare il viaggio da questo mondo all’altro, e dall’altro
a questo non per la via difficile che passa sotto terra, ma per quella piana che
attraversa il cielo»
- «Se dunque daremo retta a quanto ho detto, convincendoci che l’anima è
immorale ed è potenzialmente capace di assumere su di sé ogni genere di bene e di
male, terremo sempre la via che sale verso l’alto, comportandosi in ogni
circostanza secondo giustizia unita a saggezza. […] Ci toccherà, insomma, felicità
quaggiù sulla terra e nel viaggio millenario che abbiamo illustrato»

Potrebbero piacerti anche