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La Consolazione della filosofia, Libro III

Gustavo Zamudio

Anicio Manlio Torquato Severino Boezio scrive dalla prigione. Questa opera è per tanto
un altro esempio di filosofia esistenziale. Una filosofia che parte dall'esistenza e si
rivolge alla medesima esistenza. In questo terzo libro Boezio svolge il tema della
felicità. Lo scopo di queste riflessione è lasciare via i simulacri della felicità per giungere
alla visione della vera felicità. Sarà la Filosofia, personificata da una donna, chi
condurrà Boezio per codesta via della consolazione. Non so esattamente perché
Boezio, pur essendo cristiano, è consolato per la Filosofia invece di Dio stesso, o
almeno per la Teologia. Ma mi pare che ci semplicemente se esprime l'atteggiamento
de un cristiano di fronte alla filosofia: cioè, la filosofia come un'amica che possa
accompagnarci nell'esistenza personale, che ci illumina davanti ciò che ci impedisce
vedere con chiarezza la realtà, comunque, come la fanciulla figlia del sole - di cui
parlava Parmenide - che ci guida fino alla divinità.
 
Allora, Boezio svolge i suoi pensieri alternando la prosa e la poesia. Talvolta, mi sembra
che basta ciò che esprime la prosa, talvolta ciò che canta la poesia, ed altre volte, ciò
che ambedue spiegano. Il punto di partenza sono le varie opinioni degli uomini sulla
beatitudine. Prima dice che la beatitudine è quel bene che no si può desiderare nulla di
più perfetto ed in cui tutti i beni si raccolgono. Poi raggruppa le opinioni in cinque: la
ricchezza, l'onore, il potere, la gloria e il piacere; affermando che tutti questi sono
immagini della beatitudine. Però almeno in esso si mostra la forza della natura, del
desiderio di felicità, in quanto le opinioni sebbene sono diverse, tutti sono d'accordo
nell'amare il loro fonte che è il bene. Perciò si può affermare che tutti gli uomini
vogliono essere beati. Dopo ne fa un analisi in cui dimostra che non conducano alla
vera felicità. Una cosa che mi sembra abbastanza forte quando parla dei piaceri è come
un cristiano può pensare tal cosa dei figli? E vero che molte volte i figli diventano una
grande preoccupazioni ai genitori, addirittura alcuni figli ne rendono triste la vita; ma
giungere a dire, con parole di Euripide: felice colui che per sfortuna è privo di figli, mi
pare assai pessimista. Tuttavia, mi è piaciuto quel parte del poema VIII: Ma, ciechi, non
si curano di sapere / dove si celi quel ben che bramano; / sotterra immersi, quivi
ricercano / quel che è al di là dello stellato cielo. / A menti così stolide cosa potrò
augurare? / Ricchezze e onori pur sempre ambiscano, / e quando con gran stento si
siano procacciati / dei falsi beni, i veri allor conoscano.
 
Alla fine, si fa una specie di riassunto in cui Boezio spiega perché non c'è la felicità in
queste cose: la felicità è una, semplice, indivisa, ma l'errore umano, la perversione
umana lo scinde, e così lo muta in falso e imperfetto. La sufficienza, la potenza, la
fama, la venerazione, la felicità sono diverse nel nome senza differire in alcun modo
nella sostanza: la felicità. Inoltre, l'uomo cerca di afferrarsi a una parte di quella realtà
che è priva di parti, quindi non giunge a possedere né la parte, né il tutto, poiché
abbandonando le altre parti, perde il tutto, e quindi anche la parte che cercava.
Dunque, chiunque desidera la felicità piena, vuol dire che desidera tutte le parti
insieme. E la felicità non si trova in alcun modo in quelle cose particolari. A questo
punto, una volta conosciuta le fattezze della falsa felicità, Boezio è pronto per dirigere
lo sguardo della menta nella direzione opposta, verso la vera felicità. Dapprima,
presenta un argomento che sembra il predecessore della quarta via di Tommaso: tutto
ciò che è imperfetto, è diminuzione del perfetto. Infatti, tolta la perfezione no può
neanche immaginarsi da dove sia venuto l'imperfetto. Dunque se c'è una qualche
imperfetta felicità, c'è anche senza dubbio una perfetta. Poi l'argomento che, secondo
me, dimostra con più chiarezza che Dio è il Bene sommo è che non possono esistere
due sommi beni tra di sé: se sono due beni diversi, l'uno non è quel che è l'altro, perciò
a ciascuno manca l'altro, quindi ambedue sono imperfetto. Ma quel che non è perfetto
non è sommo. Dunque solo c'è un sommo bene, che è la vera felicità, che è Dio. E
allora, appaiono due idee che mi sembrano buonissime: si come il giusto diventa tale
acquisendo la giustizia, così l'uomo diventa dio acquisendo la felicità che è la Divinità
stessa. Sebbene per natura Dio è uno, nulla impedisce che l'uomo possa diventare per
partecipazione. E secondo: il bene è la sintesi e la causa di tutte le cose desiderabili:
per questo ciò che non ha in sé alcun bene, sia reale o sia fittizio, non può in alcun
modo essere desiderato. Anche le cose che per natura non sono beni, se tuttavia
sembrano tali, vengono ricercate come se fossero veri e proprio beni.
 
Così dimostra che la bontà è la causa di tutte le cose desiderabili e che Dio e la vera
felicità sono identificati. E suonano come un sollievo quelle parole del poema X: O voi
tutti, cui libidine fallace / avvince le menti in lacci disonesti, / venite vostre fatiche
troverete; / questo è il porto della placida quiete, / questo il solo rifugio agli infelici.
Infine, è molto interessante il fatto che Boezio identifica bene e unità. In certo modo è
una forma diversa di dimostrare che l'esistere è ormai un bene. Infatti, dice che la
finalità naturale ti tute le cose è il desiderio naturale di conservar se stessi finché
possono. E questo principio di conservazione è realizzabile perché la natura stessa ha
dato a ogni cosa quello che le conviene a tale finalità. Quindi, tutto ciò che desidera di
esistere e di durare, desidera anche di essere uno, poiché nulla conserverà infatti
l'essere, se gli sia tolta l'unità. Dunque possiamo affermare che tutte le cose
desiderano e si rivolgono ad un fine: l'unità, il bene in cui ci sono tutti i beni, Dio stesso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 

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