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Repubblica

Platone

LIBRO IV

1. L’educazione dei Custodi in rapporto all’interesse generale dello Stato

Lo scopo del legislatore consiste nel realizzare il bene comune e non il benessere di alcuni

- Dopo tutta quella stupenda formazione… alla fine – questiona Adimanto – i custodi sono
considerati infelici perché, «pur avendo di fatto nelle mani lo Stato, non ne traggono alcun
frutto» (419a), come invece ne traggono gli altri. Ma, sono veramente infelici?

[Risposta di Socrate]
- Dapprima, bisogna ricordare qual è il senso o proposito della Città: «…non è affatto che
una qualche classe [o persona] debba essere più felice di un’altra, bensì che tutta la Città
nel suo complesso lo sia il più possibile» (420b). Quindi, lo scopo è «una Città felice…
volendo rende felice l’intera Città» (420c)
- Se io pretendo dar a ogni cittadino una “bella vita” – nel senso di una vita piena di vantaggi
–, allora, nessuno di loro – compresso i Custodi - «manterrebbe più quel ruolo che fa sì che
la Città sopravviva» (421a). Addirittura, «per tutti gli altri operai il problema sarebbe meno
serio», ma «se fossero i Custodi delle leggi e dello Stato a fingere di essere custodi, mentre
non lo sono, sarebbe la Città intera a correre il rischio di una completa distruzione, proprio
perché la sua felicità e la sua buona amministrazione sono nelle loro mani».
- Quindi, i Custodi non saranno felici per il fatto di trarre alcun frutto dallo Stato, ma per il
fatto di compiere il loro dovere. «In tal modo, con lo sviluppo e con la buona
amministrazione della Città nel suo complesso, potremmo lasciare a ciascuna classe la sua
porzione di felicità, quella che la natura le concede» (421c)
- La felicità non ha la stessa realizzazione o concretizzazione in ogni classe. Perché la “vita
buona” dipende dal tipo di vita che per natura ciascuno svolge. Se la felicità fosse la “bella
vita”, allora certamente essa dovrebbe essere la medesima per tutti quanti.

Le differenze economiche impediscono l’armonico sviluppo dello Stato e ne allentano la difesa

[Primo compito assegnato ai Custodi]


- Due cose devono i guardiani sorvegliare con la massima attenzione: l’estrema ricchezza e
l’estrema povertà. Infatti, «in quanto produttrici l’una del lusso, dell’ozio e dell’amore di
novità e l’altra, oltre che di quest’ultimo, anche delle rozzezza d’animo e di un modo
trasandato di valore» (422a)

L’unità è il carattere della Città giusta; la disunione di quella ingiusta

Il criterio della massima unità possibile va applicato ai vari aspetti dello Stato e della
educazione

[Secondo compito]
- Interessante intervento sul limite di una Città. «Qual è questo limite? … Credo che sia
questo… fin dove la crescita non ne comprometta l’unità [ειναι μια]» (423b). Per tanto,
l’unità della Città è degli obbiettivi che il Custode deve perseguire: che la Città «sia grande
quanto basta e una» (423c)
[Terzo compito]
- Portare ogni cittadino – pure egli – «a realizzare ciò che per cui son nati, ovvero ciascuno a
praticare quell’opera che gli è peculiare, di modo che ogni cittadino… sia uno [εν] e non
molti [πολλοι], e conseguentemente, l’intera Città sia fatta una [μια] e non molteplice
[πολλαι]» (423d). Come segnala Reale, non è banale questa insistenza sull’unità. Sia l’unità
personale, sia l’unità politica – la comunità –. Nell’unità di tutte le dimensione o aspetti si
trova la realizzazione personale – etica – e politica. Anzi, l’unità di vita giova all’unità della
Città.

[La comunanza fra i tre compiti]


- Questi compiti salvaguardano – sono indirizzati verso – un unico principio: «L’educazione
[την παιδειαν] e la formazione [τροφην] dei giovani» (423e), affinché diventino «uomini
equilibrati [μετροι ανδρες]». È uno Stato [πολιτεια] dinamico che guarda verso il futuro: i
giovani ben formati daranno «alla luce altre nature ancora migliori»

Il ruolo centrale dell’educazione e la necessità di mantenerla immutata nel tempo

- Benché si manifesta necessario una stabilità delle leggi, ciononostante, non si possono
fissare per legge tutti i dettagli dell’educazione e della vita. Basta indirizzare i fanciulli e i
giovani.

La mancanza di un principio ispiratore introduce precarietà nelle leggi e malcostume fra i


cittadini

- Ragione per cui il custode – il vero legislatore – non deve occuparsi di legiferare tutti i
dettagli della vita: perché, nei confronti di color che vivono «come un inferno», sarebbe
assolutamente inutile. Addirittura, loro «se la prendono con chi dice il vero». E poi, nei
confronti con i giusti, «norme siffatte le saprebbe scoprire chiunque»

2. Il progetto dello stato ideale verificato alla luce delle virtù

Le regole del culto come fondamento della legislazione

- Intento di riavviare la riflessione sulla giustizia: «…individuare dove albergano la giustizia e


l’ingiustizia, la differenza che esiste fra di esse, e quale delle due bisogna avere per essere
felici, sia che ciò appaia sia che non appaia agli dèi e agli uomini» (427d)
- La via di ritorno: «Credo che se la nostra Città ha buoni fondamenti, debba anche essere
assolutamente buona. […] E per tanto, sarà, evidentemente, sapiente [σοφη], coraggiosa
[ανδρεια], temperante [σωφρων] e giusta [δικαια]» (427e).1

La sapienza [σοφια] dello Stato dipende dalla scienza dei suoi Custodi

- Sapiente vuol dire attuare buone scelte. E il saper attuare buone scelte è una forma di
scienza. Ma, quale scienza? «È la scienza dei Custodi… e si trova in quei capi a cui poc’anzi
abbiamo dato il nome di guardiani. […] Di conseguenza, una Città che si fondi sui principi
della natura sarebbe nel suo complesso sapiente grazie alla sua classe e parte meno
numerosa, in virtù della scienza che questa possiede, e per medio di chi la governa e la
dirige» (428e)

In che senso uno Stato debba ritenersi coraggioso

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Non ho trovato il ragionamento per arrivare a quelle quattro virtù. Come fa tal passaggio?
- Siccome per il caso della sapienza, il coraggio [ανδρεια] – «la forza di serbare in ogni
condizione la giusta opinione delle cose da temere» (429b) – dipende da una parte dello
Stato
- I soldati sono educati – mediante la musica e la ginnastica – con lo scopo di saper
affrontare con coraggio il piacere [ηδονη], il dolore [λυπη], la paura [φοβος] e il desiderio
[επιθυμια].
- Cos’è il coraggio? «…tale capacità di mantenere saldo in ogni occasione un punto di vista
giusto e conforme alla legge di ciò che va temuto e di ciò che non va temuto, io la chiamo
coraggio…» (430b)
- Quindi, il coraggio non è una cosa irrazionale. Senza educazione non è possibile diventare
coraggioso, perché esso, appunto, consiste in discernere ciò che è da temere.

Perché uno Stato sia temperante deve essere «superiore a se stesso»

- «La temperanza [σωφροσυνη] è una sorta di ordine [κοσμος], un dominio [εγκρατερια]


imposto a certe passioni [ηδονων] e desideri [επιθυμιων]… stando al quale… uno potrebbe
superare se stesso» (430e)
- Ciò vuol dire che «nello stesso uomo, nella sua nima, c’è una parte superiore e una
inferiore, e che quando la superiore predomina sulla inferiore, si dice, in senso positivo,
che uno “supera se stesso”. Quando invece, a causa di una educazione inadatta o di cattive
compagnie, la parte migliore… è soggiogata da quella peggiore… si dice che uno “è
inferiore a se stesso”, e, per questa sua condizione, intemperante» (431a-431b)
- Dunque, «temperante spetta a quell’essere in cui la parte migliore domina su quella
peggiore»
- Una Città temperante è quella in cui la parte migliore – gli «stati d’animo semplici e
misurati, che si lasciano guidare dalla ragione, unita all’intelligenza e alla ponderatezza» -
domina sulla parte peggiore – la «massa di quelli che hanno un carattere debole»

La temperanza garantisce l’armonia e l’accordo fra i cittadini

- In una Città temperante, la temperanza si trova tanto nel governanti come nei sudditi.
Infatti, «qui non avviene come per il coraggio e la sapienza, che pur inerendo a una parte
sola dello Stato, lo rendevano l’uno coraggio e l’altra sapiente. La temperanza agisce in un
modo diverso, in quanti si propaga veramente in ogni luogo, in tutta la Città, mettendo in
sintonia i deboli, i forti, e quelli che stanno in mezzo…» (432a)

Uno Stato è giusto quando ciascuno vi realizza le sue naturali predisposizioni

- Si riprende il tema della giustizia mediante il seguente argomento: «…avevamo affermato e


poi più volte ribadito che ogni singolo cittadino deve assolvere a un solo compito nei
confronti della Città, quello per il quale la sua natura, all’atto della nascita, l’ha reso più
adatto» (433a)
- Altresì, «…abbiamo sostenuto, che la giustizia è fare ciò che ci tocca, e non mettere le mani
dappertutto» (433b)2 – quarta definizione della giustizia –.
- Tutte le atre virtù – temperanza, coraggio e saggezza – si sono generati e continuano ad
esistere grazie alla giustizia, cioè in merito a che ciascuno fa ciò che gli tocca a seconda
della sua natura. Viene risposta la domanda di Glaucone: cosa produce la giustizia in colui

2
Non compare più la definizione della giustizia che faceva riferimento esplicito ad un destinatario. Ora,
fare ciò che è giusto, è fare ciò che ci tocca. Viene in primo piano l’agente stesso in rapporto, piuttosto,
con sé, con la sua natura.
che l’esercita? Lo rende felice. Infatti, nella misura che un uomo fa ciò che gli tocca, allora
realizza la sua natura e realizza il fine dello Stato. Sicché la Città raggiunge la felicità nel suo
insieme, e ogni cittadino ne partecipa secondo la sua natura.
- In questo senso, chiede Socrate: «…quale condizione con la sua presenza, in modo
specifico, rende buona la nostra Città», se la temperanza, il coraggio o la saggezza. Oppure,
«quel dato elemento che è presente nel fanciullo, nella donna, nel servo, nel libero,
nell’operario, in chi comanda e in chi è comandato; e cioè il principio che ciascuno deve
fare ciò che gli tocca e rinunciare a mettere le mani in altre faccende» (433d)
- Altrimenti avverrebbe un gran danno allo Stato, un grave pregiudizio, un vero attentato.
Ecco, «proprio a questo si può ridurre l’ingiustizia». Al contrario, se ognuno compie il suo
compito, ecco ciò che «costituisce la giustizia e rende giusta la Città» (433c)

3. La strutturale analogia fra anima e stato

Il confronto fra la dimensione psicologica e politica della giustizia

- Presupposto per riportare l’indagine sulla Città giusta al singolo individuo: «…in rapporto
all’Idea di giustizia, l’uomo giusto e la Città giusta non differiranno in nulla, ma saranno
uguali» (435b)
- Riassunto dell’indagine:
o «…la Città ci parve essere giusta quando in essa le tre funzione originarie cha la
costituiscono, assolvono ciascuna al proprio compito…»
o «…invece ci è sembrata temperante, coraggiosa e sapiente sempre per questi suoi
tipi, ma in relazione a certe altre attitudini e abitudini»
- Perché è difficile chiarire cosa siano le virtù o qualcosa del genere? Dice il proverbio:
χαλεπα τα καλα [le cose belle sono difficili]. Altresì, perché abbiamo i nostri presupposti e
le nostre premesse.
- Torna il noccio dell’argomento di Trasimaco e Glaucone: «E perché non accontentarsene?
… Allora stato delle cose, questo per me sarebbe già sufficiente» (435d)

- Il passo successivo è «dimostrare che in ciascuno di noi si trovino gli stessi caratteri e le
stesse attitudini che sono presente nella Città»

Ogni atto psichico coinvolge tutta l’anima o solo una sua specifica facoltà

- Perciò occorre «scoprire, se noi con una parte della nostra anima impariamo, con un’altra
ci adiriamo, e con un’altra ancora desideriamo i piaceri…; oppure se ciascuna di tali azioni,
quando vi siamo attratti, noi la compiamo col concorso di tutta l’anima» (436b)
- Lo strumento per riconoscere questo sarà verificare la seguente condizione: «…che la
medesima parte non potrà mai subire o produrre affezioni contrarie, nel medesimo modo
e in rapporto al medesimo oggetto»

L’esistenza di impulsi opposti presuppone che nell’anima ci siano facoltà diverse

- Premessa: «…ciascun desiderio in quanto tale sarebbe desiderio di quell’unico oggetto a


cui è predisposto da natura» (437e). E cioè, che «quanto è in relazione a qualcos’altro, se è
preso in senso assoluto, è in rapporto solo con realtà prese in senso assoluto…» (438d)

Le pulsioni antagoniste dell’anima provano l’esistenza della facoltà razionale, irascibile e


concupiscibile
- Esempio della sete: «se c’è qualcosa che trattiene quest’anima assetata, vuol dire che in
essa si trova una certa facoltà diversa da quella che le suscita la sete e la spine a bere come
un animale» (439b). La dimostrazione delle diverse facoltà dell’anima si fondamenta nelle
diversità dei desideri e delle operazioni.
- Perciò, «non saremmo irragionevoli, se ritenessimo che questi due principi sono diversi fra
loro: quello del ragionamento lo potremmo definire la facoltà razionale [λογιστικον]
dell’anima, l’altro… lo si chiamerà irrazionale [αλογιστον] e concupiscibile [επιθυμητικον],
avendo relazione coi piaceri e con ciò che li soddisfa»

- Esempio di Leonzio: «da un lato desiderava vederli [i cadaveri], dall’altro preso da un senso
di repulsione desiderava volgere altrove lo sguardo» (439e)

L’anima irascibile [θυμοειδες] è naturale alleata di quella razionale

- Addirittura, la parte irascibile, nei conflitti dell’anima, «prende le armi in difesa della
facoltà razionale». Inoltre, l’istinto irascibile, «senza il lume della ragione si muove all’ira».
Ciò si verifica nei bambini e nelle bestie (441-441b).

- Conclusione: quindi, «i caratteri che ci sono nello Stato si trovano tali e quali e nello stesso
numero anche nell’anima di ciascun individuo»

La strutturale analogia fra la giustizia nell’uomo e nella Città

- Se le cose stanno così, allora «credo che si possa dire giusto un uomo allo stesso titolo con
cui si dice giusta una Città». In altre parole, «ognuno di noi, nel quale le singole facoltà
assolvono alla propria funzione, sarà giusto e anche farà quel deve» (441e)
- Così, «alla facoltà razionale [λογιστικον] spetta, dunque, il compito di comandare… a quella
irascibile [θυμοειδες] tocca il compito di obbedirle e di darle man forte. […] Ora queste
due facoltà… devono comandare sulla facoltà concupiscibile [επιθυμητικον]». (441e-442b)

Si ha giustizia quando le parti dell’anima e le classi dello Stato svolgono l’opera che è loro
propria

- Descrizione delle virtù nell’uomo:


o Coraggioso: «quando la sua facoltà irascibile riuscirà a mantenere intatto nel
doloro e nei godimenti il criterio proclamato dalla ragione di ciò che va temuto e di
ciò che non va temuto» (442c)
o Sapiente: quando la ragione impartisca «quelle disposizioni di cui si è detto, grazie
al fatto che proprio essa possiede la scienza per riconoscere l’utile di ciascuna
parte e dell’insieme costituito dalle sue tre parti»
o Temperante: «quando, da un lato la parte egemone, dall’atro, le due sottomesse
concordano nel ritenere che si debba obbedienza alla ragione e non mai ribellarsi a
essa»

La giustizia e l’ingiustizia sono forze unificanti e disgreganti la società e l’anima umana

- Bella conclusione sulla giustizia: «…la giustizia [nell’uomo]… non riguarda l’azione esterna
delle facoltà dell’individuo, ma quelle interiore che concerne lui stesso e le cose che gli
competono. In tal modo, l’individuo non permette che ciascuna sua parte compia uffici che
sono propri di altre…, ma disponendo di buon ordine le proprie cose e prendendo il
comando di sé, dandosi un equilibrio e interiormente rappacificandosi – ovvero
raccordando le tre parti dell’anima come se fossero tre suoni di un’armonia… –, legati
insieme tutti questi elementi e diventando interamente uno di molti…, così d’ora innanzi
operi… In tutte queste cose egli giudicherà, chiamando azione giusta e bella [δικαιαν μεν
και καλην πραξιν] quella che conservi questo Stato e contribuisca al medesimo, e sapienza
[σοφιαν] la conoscenza [επιστημην] che sovrintende siffatte azioni; chiamando invece
azione ingiusta [αδικον δε πραξιν] quella che dissolve questo ordine, e così ignoranza
[αμαθιαν] la falsa opinione [δοξαν] che sovrintende a essa» (443d-444a)
- E poi sull’ingiustizia: «…a questa confusione e a questo disorientamento delle nostre
facoltà, noi, a mio giudizio, dovremmo ricondurre l’ingiustizia [αδικια], l’intemperanza
[ακολασια], la viltà [δειλια], l’ignoranza [αμαθια], insomma ogni male [πασαν κακιαν]».
(444b)

La giustizia consiste anche nel dare il potere alla parte che merita, tanto nell’anima quanto
nello Stato

- Ancora sul fare giustizia o ingiustizia: «fare giustizia equivarrà a disporre le facoltà
dell’anima nei reciproci rapporti di superiorità e subordinazione secondo un ordine
naturale; creare ingiustizia, invece, significherà far sì che dominino o siano dominate in
modo contrario a natura» (444d)
- In questo senso – secondo l’analogia con salute - «la virtù [αρετη]… sarebbe una specie di
salute [υγιεια], di bellezza [καλλος], di buona forma dell’anima [ευεξια ψυχης]; il vizio
[κακια], al contrario, sarebbe la malattia [νοσος], la bruttezza [αισχος] e la fiacchezza
[ασθενεια]» (444e). Perciò, «le belle [καλα επιτηδεθματα] imprese portano a conquistare
la virtù, e le brutte [αισχρα] a contrarre il vizio»

Accenno alla tipologia dello Stato corrotto e ai vizi corrispondenti

- Solo resta una cosa: «considerare se sia conveniente compiere azione giuste, mettersi in
belle imprese ed essere noi stessi giusti, sia che quanto si è fatto venga risaputo, sia che
no; oppure se sia più conveniente compiere ingiustizia ed essere ingiusti, senza pagarne il
fio ed evitando di migliorarsi grazie alla punizione» (445a). In questo caso, non si tratta di
una convenienza esterna. Il criterio di misura non sono i vantaggi che le nostre azioni
possano produrre. Si tratta, piuttosto, di una convenienza riguardo noi stessi: e cioè
riguardo i frutti che producono nella nostra anima.
- Quali sarebbero i tipi di governo ingiusti – sia nell’anima, sia nello Stato –, cioè, i tipi di
ingiustizia? Senza risposta… ancora.

LIBRO V (da 470b)

La casa, i beni e la libertà dei Greci vanno rispettati anche in guerra

- Due tipi di conflitti:


o Sedizione: quando riguarda consanguinei e concittadini
o Guerra: quando riguarda gente forestiera

5. In che modo e in che limiti è attuabile la costituzione proposta

La costituzione finora elaborata ha un valore ideale ed esemplare


- Si riprende il dialogo precedente: «sulla attuabilità di questa costituzione e suoi modi in cui
può realizzarsi» (471c). Vale a dire: «…cerchiamo di convincerci che essa [la costituzione] è
davvero realizzabile e in che modo lo sia…» (471e)

Nessun legislatore potrebbe realizzare pienamente l’idea di giustizia proposto

- Prima di tutto – dice Socrate – bisogna ricordare che «cercavamo la giustizia in quanto tale
non per sé, ma al fine di trovare un modello [παραδειγματος] esemplare […]. La nostra
intenzione, pertanto, non era quella di dimostrare che tutte queste cose sono realizzabili,
ma di considerare tali modelli sotto il profilo della felicità [ευδαιμονιας] e del suo
contrario, in modo da obbligare noi stessi a riconoscere che quanto più uno si avvicina a
quegli esemplari, tanto più ne condivide la sorte» (472c-472d)
- Discorso assolutamente diverso a quello di Trasimaco. Mentre costui parlava delle cose
“come stanno”, Socrate e Glaucone hanno parlato delle cose “come devono essere”. Cioè
hanno descritto l’ideale. Ma, la domanda è: la filosofia devi preoccuparsi anche della
“realizzabilità” dell’ideale? Se fosse così, quale parte della filosofia ha come oggetto
l’ideale? E quale la realizzabilità?
- Interessante domanda di Socrate: «…sei convinto che quanto abbiamo sostenuto perda in
valore, per il fatto che non si riesca a dimostrare che un tale Stato può effettivamente
fondarsi così come abbiamo detto?» (472e)

Il legislatore deve realizzare per quanto è possibile il modello ideale di Stato

- Si cercherà uno Stato che nella sua organizzazione in larga misura s’avvicini al modello.
Perciò, da una parte, si dimostrerà che cosa funziona male negli Stati ormai esistenti, e,
d’altra, si ricercherà quale sia il cambiamento minimo necessario a riportarli nell’alveo
della suddetta costituzione.

6. La figura del filosofo reggitore dello stato

Che cosa significa essere filosofi

- La condizione fondamentale: che i filosofi raggiungano il potere negli Stati, oppure che i
governanti si mettano a filosofare seriamente, «sì da far coincidere nella medesima
persona l’una funzione e l’altra – ossia il potere politico e la filosofia – e da mettere fuori
gioco quei molti che ora perseguono l’una cosa senza l’altra» (473d). A mio parere, in
questo punto Socrate tradisce il suo principio di giustizia: fare ciò che a ognuno tocca per
natura.
- Fin qua la questione sulla giustizia. Adesso il discorso cambia di direzione: tema centrale il
filosofo e la sua natura

Filosofo è colui che ama contemplare la verità nella sua interezza

- Prima caratteristica del filosofo: «desidera la sapienza non solo per alcuni suoi aspetti,
trascurandone altri, ma in tutta la sua interezza» [475b]. Perché un vero amante è
innamorato di tutto l’insieme.
- In questo senso chiede Socrate: «…colui che non vede l’ora di assaporare ogni disciplina,
gettandosi con gioia nello studio senza mai saziarsene, costui avremmo o no diritto di
chiamarlo filosofo?»
- Inoltre, i veri filosofi sono «quelli che ama contemplare [φιλοθεαμονας] la verità
[αληθειας]» (475e)
Filosofo è l’amante della Bellezza in sé e non delle sue apparenze

- Da una parte stanno coloro che amano le “cose belle”; «ma l’essenza [φυσιν] del bello in
sé la loro mente [διανοια] non la sa contemplare [ιδειν], né la sa amare [ασπασασθαι]»
(476b). D’altra, stanno il filosofo che «riconosce l’esistenza del Bello in sé [καλον] e sa
vederlo nella sua assolutezza [καθοραν] e nelle realtà a cui partecipa [μετεχοντα]»

Solo il filosofo ha vera conoscenza, perché solo l’oggetto a cui egli si rivolge ha vero essere

- Per questo motivo:


o Il pensiero dei filosofi, in quanto conosce veramente, faremo bene a chiamarlo
conoscenza
o L’altro tipo di pensiero, in quanto si attiene alle apparenze, lo potremo chiamare
opinione
- Argomentazione di questa tesi:
o Chi conosce, conosce qualcosa che è
o Solo quello che pienamente è, è pienamente conoscibile

La differenza fra la scienza dei filosofi e l’opinione sta nel diverso valore ontologico dei rispettivi
oggetti

- Siccome esiste qualcosa che è e non-è ad un tempo, e si trova in mezzo fra la sfera del vero
essere e quella dell’assoluto non-essere. Così, c’è un tipo di conoscenza intermedia fra
l’assoluto non-sapere [ignoranza] e la scienza [επιστημης]. Come segnala Reale, si tratta
dell’essere sensibile, “che è appunto intermedio fra l’essere puro delle realtà intelligibile e
il non-essere assoluto. Si tratta insomma dell’essere del divenire”

Scienza, opinione e ignoranza si riferiscono, rispettivamente, al vero, all’opinabile e al non-


essere

- Il principio – presupposto: differenti scopi, allora diverse facoltà. Per tanto:


o La scienza «ha come fine l’essere, per conoscere come esso è» (478a)
o L’ignoranza ha come oggetto il nulla
o «Allora l’opinione non si rivolge né a ciò che non è, né a ciò che è» (478c).
L’opinabile è l’intermedio «fra il vero essere e l’assoluto non-essere»

L’opinione si rivolge a un realtà intermedia fra l’essere e il non-essere

Il filosofo è colui che ama l’essere in tutte le sue forme

- Dunque, «coloro che vedono le molte cose belle, ma non il Bello in sé e, oltre ciò, non
hanno neppure la capacità di seguire le orme di chi a esso potrebbe guidarli […], costoro
avranno bensì opinioni, ma nessuna conoscenza di queste cose» (479e). Il riferimento
all’incapacità di essere guidati si vedrà con più chiarezza nel mito della caverna
- Invece, «coloro che contemplano ciascuna di queste realtà [le Idee] che sempre rimane
identica a se stessa e nel medesimo modo […], dovremmo confessare che questi amano e
prediligono quelle cose di cui si dà conoscenza…»
- Quelli che solo amano le cose di cui si dà opinione sono «cultori dell’opinione, piuttosto
che amanti del sapere» (480a). Tal è l’amore del filosofo: ama l’essere, la verità, il
conoscibile; non si lascia attrare dalle apparenze, dalle opinioni. I filosofi sono «amici del
sapere», ma del vero sapere.
LIBRO VI

1. I caratteri peculiari del filosofo reggitore dello Stato

Il filosofo ha sempre l’essere immutabile come punto di riferimento

- Contenuto metafisico – due livelli di realtà:


o «Le realtà che sono sempre nello stesso modo e identiche a sé»
o «Le molte realtà che sono in molti modi» (484b)
- L’indagine del filosofo – come Custode della Città – trova un migliore sviluppo non tramite
la questione della giustizia, ma mediante il quesito della conoscenza. Per dir così, non
tramite l’etica, ma tramite la epistemologia. Sì che venga manifesta la natura del filosofo.

- Un’altra caratteristica dei filosofi: «essi ogni volta dovranno prediligere la scienza
[μαθηματος] rivelativa della sostanza che sempre è [της ουσιας της αει ουσης] e non muta
[μη πλανωμενης] nel senso della generazione [γενεσεως] e corruzione [φθορας]» (485b)

Il filosofo ama la verità e realizza in sé le maggiori virtù

- Un altro carattere: «sincerità: che essi siano ben consapevoli di non dover mai cedere alla
menzogna. La odino, anzi, pero amore della verità» (485c). Perché chi ama la sapienza,
ama ciò che gli è affine. E cioè la verità.
- Ancora un altro: «se ogni tensione di un uomo è rivolta alla scienza e agli studi che la
riguardano, direi che la sua aspirazione si ridurrebbe al puro piacere dell’anima in quanto
tale» Perciò, il filosofo sarà pure temperante (cfr. 485e)
- Altra caratteristica: che non sia meschino. «Perché la meschinità è quanto di più
incompatibile sia possa immaginare con un’anima che aspiri all’intero e alla totalità sia
nella sfera del divino che dell’umano» (486a)
- Inoltre, per un tal uomo che ha la possibilità di vedere tutto il tempo e tutto l’essere,
«neppure la morte sembrerà paurosa»

Al filosofo competono anche notevoli doti intellettuali

- Finora Socrate ha delineato le virtù etiche – per usare termini aristotelici – ma ora,
descrive le virtù dianoetiche del filosofo
- Prima dote: la buona memoria. La capacità di salvar le cose imparate
- Seconda: una mente ben equilibrata e fine, «di modo che la sua naturale predisposizione
spontaneamente la orienti al coglimento dell’idea dell’essere di ogni singola realtà [την του
οντος ιδεαν εκαστου]» (486e)

- Riassunto delle virtù del filosofo: «…per natura… dotato di memoria, di intelligenza, di
magnanimità, e inoltre non fosse amico e parente della verità, della giustizia, del coraggio
e della temperanza» (487a)

L’obiezione di Adimanto: i filosofi sono ritenuti inidonei al comando

- Adimanto torna ai dati di fatto: «…concordiamo sul fatto che è gente [i filosofi]
politicamente inutile»
2. Le cause della degenerazione della filosofia

Né il vero né il falso filosofo sono popolari, l’uno per il suo rigore morale e l’altro per sua
immoralità

- Con la metafora della nave, Socrate offre qualche traccia sull’allegoria della caverna. In un
vascello mal combinato, cioè in uno Stato corrotto, i filosofi – i veri nocchieri – appaiono
come «acchiappanuvole e buoni a nulla» (489c). Perciò, costoro non sono onorati
- Dall’altra parte, stanno quelli che fingono di coltivare la filosofia. Allora, la critica non viene
propriamente contro i filosofi, ma contro quei pessimi elementi

Non la filosofia è responsabile della indegnità dei politici, ma numerose cause a essa estranee

Il sofista corrompe i giovani filosofi, esponendoli ai condizionamenti della folla

- Il gran paradosso: «…anime di natura eccellente, incappando in una cattiva educazione,


diverrebbero malvagie ancor più delle altre» (491e). Sì che «le ingiustizie veramente gravi
e il male nella sua forma peggiore scaturiscono… da una natura volitiva corrotta
dall’educazione». Si veda l’importanza concessa da Socrate all’educazione: strumento per i
frutti più eccellenti, come per quelli più corrotti
- Ecco i sofisti che insegnano ai giovani a seguire la protesta o l’applauso, nel senso della
corrente dovunque essa la porti. In tal modo, «il giovane finirà col dire belle o brutte le
stese cose che quelli dicono» (492c). Sarà solo una pecorella.

Il sapere del sofista si riduce alla capacità di sfruttare a proprio vantaggio gli uomini della folla

- La natura del sofista: «…non insegna principi diversi da quelli che i più condividono e
professano nelle loro affollare riunioni; solo che essi li spacciano per sapienza». Sono furbi.
- Perfetta descrizione di un relativista: «…senza in verità avere la minima cognizione di che
cosa ci sia di bello o di brutto, di buono o di cattivo, oppure di onesto o di disonesto in
quella morale che professa e nei suoi desideri, e invece definendo l’una cosa e l’altra sulla
base delle opinioni di quel bestione. Così, senza tener conto di nient’altro, a quello che
piace all’animale dà il nome di buono, a quello che gli dispiace di cattivo; le cose che gli
sono necessarie le chiamerà giuste e belle. E fa tutto ciò pur non avendo mai compresso
fra il necessario e il Bene» (493c). Tutto dipende dall’arbitrio della folla. Solo resta fare
tutto quanto alla massa aggrada
- Perciò «è ineluttabile che chi pratica la filosofia sia ripudiato dalla folla» (494a)

La corruzione del filosofo deriva anche dalle sue stesse doti, quando queste sono occasione di
superbia

- Questo è un pericolo esterno, ma c’è anche un pericolo interno al filosofo medesimo: la


superba. Giacché possiede doti eccellenti, naturalmente primeggerà fra tutti compagni.
Può darsi che si gonfie. In questo modo, «gli stessi elementi costitutivi di una natura
filosofica, quando non siano alimentati adeguatamente, sarebbero in gradi di distrarre
dalla filosofia» (495a). Quindi, ancora una volta, l’importanza dell’educazione, e non
soltanto della predisposizione naturale.

Il discredito della filosofia dipende da coloro che la praticano senza esserne degni
- E perché, nonostante le critiche alla filosofia, essa mantiene una dignitosa nobiltà, ci sono
tanti di natura imperfetta che hanno mire su di essa. Quegli uomini non possono che
partorire sofismi, e poi nulla di nobile.

3. Il rapporto ideale tra filosofia e potere

Tanto lo Stato ha bisogno di buoni filosofi, quanto i filosofi hanno bisogno di un buono Stato
Nessuna delle costituzioni vigenti traduce l’ideale politico del filosofo

L’educazione alla filosofia deve essere graduale e proporzionata alla maturità del discente

- Iniziare con una educazione e una filosofia da ragazzi, e la cura dei corpi

Bisogna che i filosofi prendano il potere, o che gli uomini di potere divengano filosofi

Il filosofo comunica allo Stato l’ordine ideale che contempla

- Insomma, l’idea esposto da Socrate – circa la Città e il filosofo – non è impossibile, ma


neanche è facile da realizzare
- Il filosofo deve avere «il suo pensiero veramente rivolto alle cose che sono […]. Perciò il
filosofo, avendo dimestichezza [ομιλων] con ciò che è divino [θειω] e ordinato [κοσμιω],
diviene [γιγνεται] egli pure ordinato [κοσμιος] e divino [θειος], per quanto è possibile a un
uomo [εις το δυνατον ανθρωπω]» (500d). Imitazione di dio o assimilazione di Dio.

Il vero filosofo si pone come esempio per gli altri cittadini

4. L’Idea del Bene è il fondamento dello Stato ideale

Le doti intellettuali che il filosofo deve possedere

- Si presente un nuovo obbiettivo: «precisare i modi in cui i salvatori dei pubblici


ordinamenti troveranno il loro posto, e grazie a quale tipo di educazione e di istituzioni lo
troveranno» (502c)
- Essendo i filosofi «i Custodi migliori da porre al vertice dello Stato», costoro devono
partecipare di due tipi di natura. Ma essi spesso si presentano in contrapposizione:
o «Gli uomini dotati di intelligenza, memoria, perspicacia, acutezza… non sono
predisposti a unire a queste doti anche una spontaneità di natura e una apertura
mentale tali da permettere loro uno stile di vita tranquillo e riflessivo… cosicché
perdono ogni sicurezza interiore» (503c)
o «Invece i caratteri stabili e non volubili, quelli su cui si può fare particolare
affidamento, e che pure in battaglia restano impassibili davanti al pericolo… sono
impacciati e tardi, come insonnoliti, tanto è che quando si tratta di sobbarcarsi la
fatica dello studio, risultano completamente addormentati e intorpiditi» (503d)

La conoscenza massima su cui devono cimentarsi i filosofi è l’Idea del Bene

- Per tal motivo, occorre che i canditati filosofi siano saggiati a due tipi di prove:
o «Quella della fatica, della paura e del piacere» (503e)
o Quella dell’esercizio «nelle molteplici discipline di studio, controllando se la loro
natura sarà all’altezza delle conoscenza massime [τα μεγιστα μαθηματα]» (503a)
- Della prima prova, ormai si ha parlato abbastanza. La domanda di Glaucone riguardo la
seconda prova: «cosa intendi per conoscenza massima?»
- L’apprendimento della conoscenza massima richiede un altro giro più lungo. Perché è
qualcosa superiore ed esige la massima precisione
- La conoscenza massima è «l’Idea del Bene [του αγαθου ιδεα] … servendosi della quale le
cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli» (505a)

Il nocciolo del problema consiste nel fornire una adeguata definizione del Bene

- La domanda è: cos’è il Bene?

La necessità di andare a fondo nella conoscenza del Bene

- È molto significativo che in relazioni al beni, nessuno si accontenta con le apparenze e le


opinione. Infatti, «nessuno si accontenterebbe di possedere beni apparenti, e anzi ognuno
ne cercherebbe di autentici» (505d)
- Perciò, il bene è «l’ideale che ciascuna anima persegue e al quale finalizza ogni azione» -
sia o no consapevole di ciò –.
- Afferma Socrate: «il bello e il giusto, se resta oscuro il senso in sui essi siano beni…» (506a).
Tale affermazione adopera una distinzione. La prima domanda era “cos’è il bene?”, cioè,
“qual è l’essenza del bene?”. Ma ora si parla di “essere un bene”. Il bello e il giusto
vengono custodi in quanto sono dei beni. Quindi la domanda sarebbe: “cos’è un bene?”

Socrate non dice che cosa sia il Bene, ma illustra a che cosa assomiglia

- Socrate lasciate da parte la questione su cosa sia il Bene in sé e preferisce parlare di quello
che «pare figlio del Bene e somigliantissimo a lui» (506e)

[Inizia il discorso metafisico di Socrate (507b-509c)]


- Primo: riconosciamo l’esistenza di molti oggetti belle e buoni… Poi, tutte queste singole
realtà le riferiamo a un’Idea: il Bello stesso e il Bene stesso. Così facendo le definiamo
razionalmente: diciamo “ciò che è” ciascuna
- Secondo: le singole realtà diciamo che vengono vedute, ma non pensare. Mentre, le Idee
vengono pensate, ma non vedute

Il Bene è simile al sole che rende visibili le cose e veggenti gli uomini

- Terzo: si dimostra che la facoltà del vedere e dell’essere veduto, in ragione del terzo
elemento – che rende possibile la percezione delle cose sensibili –, è più preziosa delle
altre facoltà sensitive. Infatti, «pur essendo presente negli occhi la vista… d’altra parte, i
colori negli oggetti, se non si aggiunga un terzo genere di realtà… sai bene che la vista non
vedrà nulla e i colori saranno invisibili»
- Quarto: il terzo elemento è la luce [φως]. Inoltre, il “dio” che offre questa luce è il sole
[ηλιος]. Quindi il sole non è la vista, né l’organo di siffatta facoltà.
- Quinto, si conferma l’analogia: «ciò che è il Bene nel mondo intelligibile [τω νοητω τοπω]
rispetto all’intelletto [προς τε νουν] e agli intelligibili [τα νοουμενα], così è il sole nel
visibile [τω ορατοω] rispetto alla vista [προς τε οψιν] e ai visibili [τα ορωμενα]»

Il Bene è superiore alla Verità, alla scienza e allo stesso Essere

- Sesto: si esplicita l’analogia. L’anima possiede intelligenza quando «si rivolge a ciò che la
verità [αληθεια] e l’essere [το ον] illuminano». Invece, essa può solo opinare quando «si
rivolge a ciò che è mescolato con tenebra [τω σκοτω κεκραμενον], a ciò che nasce e
perisce», cioè al divenire – ciò che si genera e ciò che si corrompe –. In questo senso,
possiamo dire che l’Idea di Bene ci permette di conoscere la forma sostanziale – ciò che
non muta –, oltre alla materia.
- Settimo: per tanto, ciò che «fornisce la verità alle cose conosciute e al conoscente la
facoltà di conoscere… è l’Idea del Bene. […] E mentre la scienza e la verità… considerarle
simili al Bene ambedue è giusto, ma pensare che o l’una o l’altra siano il Bene non è giusto,
perché la condizione del Bene va giudicata ancora maggiore». Quindi, non si afferma che
l’Idea di Bene sia conoscibile, ma che essa è condizione di possibilità per la conoscenza –
sia da parte della facoltà del soggetto, come da parte dell’oggetto –.
- Ottavo: il sole non solo «fornisce ai visibili la capacità di essere veduti». Dal sole proviene
«anche l’essere [το ειναι] e l’essenza [την ουσιαν] … pur non essendo il Bene essere, ma
ancora al di sopra dell’essere [επεκεινα της ουσιας], superiore a esso in dignità e potere»

5. I vari tipi di conoscenza espressi nella metafora della retta

I gradi della conoscenza

- Due realtà [ειναι], mondi [τοπος] o generi [γενος]: «hai ben colto queste due forme [ειδη],
il visibile [ορατον] e l’intelligibile [νοητον]»
- Metafora della linea divisa (509d-511e):
o Visibile:
 Immagini: ombre e riflessi – falso – opinione – congettura [εικασιαν]
 Modelli delle immagini – vero – conoscenza – credenza [πιστιν]
o Intelligibile:
 L’anima indaga servendosi delle cose di prima come delle immagini,
procedendo per via di postulato non verso il principio, ma verso le
conclusioni – gli enti matematici – la dianoia [διανοια]: pensiero a partire
di postulati o ipotesi; deduttivo
 L’anima indaga procedendo da postulati e senza immagini che si
riferiscono all’altra sezione, seguendo un procedimento con le Idee e per
mezzo delle Idee – intellezione della scienza dialettica [διαλεγεσθαι
επιστημης]: dialogo per argomentazione sulle Idee; risolutivo

La differenza fra conoscenza matematica e dialettica e la superiorità di quest’ultima

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