Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Platone
LIBRO IV
Lo scopo del legislatore consiste nel realizzare il bene comune e non il benessere di alcuni
- Dopo tutta quella stupenda formazione… alla fine – questiona Adimanto – i custodi sono
considerati infelici perché, «pur avendo di fatto nelle mani lo Stato, non ne traggono alcun
frutto» (419a), come invece ne traggono gli altri. Ma, sono veramente infelici?
[Risposta di Socrate]
- Dapprima, bisogna ricordare qual è il senso o proposito della Città: «…non è affatto che
una qualche classe [o persona] debba essere più felice di un’altra, bensì che tutta la Città
nel suo complesso lo sia il più possibile» (420b). Quindi, lo scopo è «una Città felice…
volendo rende felice l’intera Città» (420c)
- Se io pretendo dar a ogni cittadino una “bella vita” – nel senso di una vita piena di vantaggi
–, allora, nessuno di loro – compresso i Custodi - «manterrebbe più quel ruolo che fa sì che
la Città sopravviva» (421a). Addirittura, «per tutti gli altri operai il problema sarebbe meno
serio», ma «se fossero i Custodi delle leggi e dello Stato a fingere di essere custodi, mentre
non lo sono, sarebbe la Città intera a correre il rischio di una completa distruzione, proprio
perché la sua felicità e la sua buona amministrazione sono nelle loro mani».
- Quindi, i Custodi non saranno felici per il fatto di trarre alcun frutto dallo Stato, ma per il
fatto di compiere il loro dovere. «In tal modo, con lo sviluppo e con la buona
amministrazione della Città nel suo complesso, potremmo lasciare a ciascuna classe la sua
porzione di felicità, quella che la natura le concede» (421c)
- La felicità non ha la stessa realizzazione o concretizzazione in ogni classe. Perché la “vita
buona” dipende dal tipo di vita che per natura ciascuno svolge. Se la felicità fosse la “bella
vita”, allora certamente essa dovrebbe essere la medesima per tutti quanti.
Il criterio della massima unità possibile va applicato ai vari aspetti dello Stato e della
educazione
[Secondo compito]
- Interessante intervento sul limite di una Città. «Qual è questo limite? … Credo che sia
questo… fin dove la crescita non ne comprometta l’unità [ειναι μια]» (423b). Per tanto,
l’unità della Città è degli obbiettivi che il Custode deve perseguire: che la Città «sia grande
quanto basta e una» (423c)
[Terzo compito]
- Portare ogni cittadino – pure egli – «a realizzare ciò che per cui son nati, ovvero ciascuno a
praticare quell’opera che gli è peculiare, di modo che ogni cittadino… sia uno [εν] e non
molti [πολλοι], e conseguentemente, l’intera Città sia fatta una [μια] e non molteplice
[πολλαι]» (423d). Come segnala Reale, non è banale questa insistenza sull’unità. Sia l’unità
personale, sia l’unità politica – la comunità –. Nell’unità di tutte le dimensione o aspetti si
trova la realizzazione personale – etica – e politica. Anzi, l’unità di vita giova all’unità della
Città.
- Benché si manifesta necessario una stabilità delle leggi, ciononostante, non si possono
fissare per legge tutti i dettagli dell’educazione e della vita. Basta indirizzare i fanciulli e i
giovani.
- Ragione per cui il custode – il vero legislatore – non deve occuparsi di legiferare tutti i
dettagli della vita: perché, nei confronti di color che vivono «come un inferno», sarebbe
assolutamente inutile. Addirittura, loro «se la prendono con chi dice il vero». E poi, nei
confronti con i giusti, «norme siffatte le saprebbe scoprire chiunque»
La sapienza [σοφια] dello Stato dipende dalla scienza dei suoi Custodi
- Sapiente vuol dire attuare buone scelte. E il saper attuare buone scelte è una forma di
scienza. Ma, quale scienza? «È la scienza dei Custodi… e si trova in quei capi a cui poc’anzi
abbiamo dato il nome di guardiani. […] Di conseguenza, una Città che si fondi sui principi
della natura sarebbe nel suo complesso sapiente grazie alla sua classe e parte meno
numerosa, in virtù della scienza che questa possiede, e per medio di chi la governa e la
dirige» (428e)
1
Non ho trovato il ragionamento per arrivare a quelle quattro virtù. Come fa tal passaggio?
- Siccome per il caso della sapienza, il coraggio [ανδρεια] – «la forza di serbare in ogni
condizione la giusta opinione delle cose da temere» (429b) – dipende da una parte dello
Stato
- I soldati sono educati – mediante la musica e la ginnastica – con lo scopo di saper
affrontare con coraggio il piacere [ηδονη], il dolore [λυπη], la paura [φοβος] e il desiderio
[επιθυμια].
- Cos’è il coraggio? «…tale capacità di mantenere saldo in ogni occasione un punto di vista
giusto e conforme alla legge di ciò che va temuto e di ciò che non va temuto, io la chiamo
coraggio…» (430b)
- Quindi, il coraggio non è una cosa irrazionale. Senza educazione non è possibile diventare
coraggioso, perché esso, appunto, consiste in discernere ciò che è da temere.
- In una Città temperante, la temperanza si trova tanto nel governanti come nei sudditi.
Infatti, «qui non avviene come per il coraggio e la sapienza, che pur inerendo a una parte
sola dello Stato, lo rendevano l’uno coraggio e l’altra sapiente. La temperanza agisce in un
modo diverso, in quanti si propaga veramente in ogni luogo, in tutta la Città, mettendo in
sintonia i deboli, i forti, e quelli che stanno in mezzo…» (432a)
2
Non compare più la definizione della giustizia che faceva riferimento esplicito ad un destinatario. Ora,
fare ciò che è giusto, è fare ciò che ci tocca. Viene in primo piano l’agente stesso in rapporto, piuttosto,
con sé, con la sua natura.
che l’esercita? Lo rende felice. Infatti, nella misura che un uomo fa ciò che gli tocca, allora
realizza la sua natura e realizza il fine dello Stato. Sicché la Città raggiunge la felicità nel suo
insieme, e ogni cittadino ne partecipa secondo la sua natura.
- In questo senso, chiede Socrate: «…quale condizione con la sua presenza, in modo
specifico, rende buona la nostra Città», se la temperanza, il coraggio o la saggezza. Oppure,
«quel dato elemento che è presente nel fanciullo, nella donna, nel servo, nel libero,
nell’operario, in chi comanda e in chi è comandato; e cioè il principio che ciascuno deve
fare ciò che gli tocca e rinunciare a mettere le mani in altre faccende» (433d)
- Altrimenti avverrebbe un gran danno allo Stato, un grave pregiudizio, un vero attentato.
Ecco, «proprio a questo si può ridurre l’ingiustizia». Al contrario, se ognuno compie il suo
compito, ecco ciò che «costituisce la giustizia e rende giusta la Città» (433c)
- Presupposto per riportare l’indagine sulla Città giusta al singolo individuo: «…in rapporto
all’Idea di giustizia, l’uomo giusto e la Città giusta non differiranno in nulla, ma saranno
uguali» (435b)
- Riassunto dell’indagine:
o «…la Città ci parve essere giusta quando in essa le tre funzione originarie cha la
costituiscono, assolvono ciascuna al proprio compito…»
o «…invece ci è sembrata temperante, coraggiosa e sapiente sempre per questi suoi
tipi, ma in relazione a certe altre attitudini e abitudini»
- Perché è difficile chiarire cosa siano le virtù o qualcosa del genere? Dice il proverbio:
χαλεπα τα καλα [le cose belle sono difficili]. Altresì, perché abbiamo i nostri presupposti e
le nostre premesse.
- Torna il noccio dell’argomento di Trasimaco e Glaucone: «E perché non accontentarsene?
… Allora stato delle cose, questo per me sarebbe già sufficiente» (435d)
- Il passo successivo è «dimostrare che in ciascuno di noi si trovino gli stessi caratteri e le
stesse attitudini che sono presente nella Città»
Ogni atto psichico coinvolge tutta l’anima o solo una sua specifica facoltà
- Perciò occorre «scoprire, se noi con una parte della nostra anima impariamo, con un’altra
ci adiriamo, e con un’altra ancora desideriamo i piaceri…; oppure se ciascuna di tali azioni,
quando vi siamo attratti, noi la compiamo col concorso di tutta l’anima» (436b)
- Lo strumento per riconoscere questo sarà verificare la seguente condizione: «…che la
medesima parte non potrà mai subire o produrre affezioni contrarie, nel medesimo modo
e in rapporto al medesimo oggetto»
- Esempio di Leonzio: «da un lato desiderava vederli [i cadaveri], dall’altro preso da un senso
di repulsione desiderava volgere altrove lo sguardo» (439e)
- Addirittura, la parte irascibile, nei conflitti dell’anima, «prende le armi in difesa della
facoltà razionale». Inoltre, l’istinto irascibile, «senza il lume della ragione si muove all’ira».
Ciò si verifica nei bambini e nelle bestie (441-441b).
- Conclusione: quindi, «i caratteri che ci sono nello Stato si trovano tali e quali e nello stesso
numero anche nell’anima di ciascun individuo»
- Se le cose stanno così, allora «credo che si possa dire giusto un uomo allo stesso titolo con
cui si dice giusta una Città». In altre parole, «ognuno di noi, nel quale le singole facoltà
assolvono alla propria funzione, sarà giusto e anche farà quel deve» (441e)
- Così, «alla facoltà razionale [λογιστικον] spetta, dunque, il compito di comandare… a quella
irascibile [θυμοειδες] tocca il compito di obbedirle e di darle man forte. […] Ora queste
due facoltà… devono comandare sulla facoltà concupiscibile [επιθυμητικον]». (441e-442b)
Si ha giustizia quando le parti dell’anima e le classi dello Stato svolgono l’opera che è loro
propria
- Bella conclusione sulla giustizia: «…la giustizia [nell’uomo]… non riguarda l’azione esterna
delle facoltà dell’individuo, ma quelle interiore che concerne lui stesso e le cose che gli
competono. In tal modo, l’individuo non permette che ciascuna sua parte compia uffici che
sono propri di altre…, ma disponendo di buon ordine le proprie cose e prendendo il
comando di sé, dandosi un equilibrio e interiormente rappacificandosi – ovvero
raccordando le tre parti dell’anima come se fossero tre suoni di un’armonia… –, legati
insieme tutti questi elementi e diventando interamente uno di molti…, così d’ora innanzi
operi… In tutte queste cose egli giudicherà, chiamando azione giusta e bella [δικαιαν μεν
και καλην πραξιν] quella che conservi questo Stato e contribuisca al medesimo, e sapienza
[σοφιαν] la conoscenza [επιστημην] che sovrintende siffatte azioni; chiamando invece
azione ingiusta [αδικον δε πραξιν] quella che dissolve questo ordine, e così ignoranza
[αμαθιαν] la falsa opinione [δοξαν] che sovrintende a essa» (443d-444a)
- E poi sull’ingiustizia: «…a questa confusione e a questo disorientamento delle nostre
facoltà, noi, a mio giudizio, dovremmo ricondurre l’ingiustizia [αδικια], l’intemperanza
[ακολασια], la viltà [δειλια], l’ignoranza [αμαθια], insomma ogni male [πασαν κακιαν]».
(444b)
La giustizia consiste anche nel dare il potere alla parte che merita, tanto nell’anima quanto
nello Stato
- Ancora sul fare giustizia o ingiustizia: «fare giustizia equivarrà a disporre le facoltà
dell’anima nei reciproci rapporti di superiorità e subordinazione secondo un ordine
naturale; creare ingiustizia, invece, significherà far sì che dominino o siano dominate in
modo contrario a natura» (444d)
- In questo senso – secondo l’analogia con salute - «la virtù [αρετη]… sarebbe una specie di
salute [υγιεια], di bellezza [καλλος], di buona forma dell’anima [ευεξια ψυχης]; il vizio
[κακια], al contrario, sarebbe la malattia [νοσος], la bruttezza [αισχος] e la fiacchezza
[ασθενεια]» (444e). Perciò, «le belle [καλα επιτηδεθματα] imprese portano a conquistare
la virtù, e le brutte [αισχρα] a contrarre il vizio»
- Solo resta una cosa: «considerare se sia conveniente compiere azione giuste, mettersi in
belle imprese ed essere noi stessi giusti, sia che quanto si è fatto venga risaputo, sia che
no; oppure se sia più conveniente compiere ingiustizia ed essere ingiusti, senza pagarne il
fio ed evitando di migliorarsi grazie alla punizione» (445a). In questo caso, non si tratta di
una convenienza esterna. Il criterio di misura non sono i vantaggi che le nostre azioni
possano produrre. Si tratta, piuttosto, di una convenienza riguardo noi stessi: e cioè
riguardo i frutti che producono nella nostra anima.
- Quali sarebbero i tipi di governo ingiusti – sia nell’anima, sia nello Stato –, cioè, i tipi di
ingiustizia? Senza risposta… ancora.
- Prima di tutto – dice Socrate – bisogna ricordare che «cercavamo la giustizia in quanto tale
non per sé, ma al fine di trovare un modello [παραδειγματος] esemplare […]. La nostra
intenzione, pertanto, non era quella di dimostrare che tutte queste cose sono realizzabili,
ma di considerare tali modelli sotto il profilo della felicità [ευδαιμονιας] e del suo
contrario, in modo da obbligare noi stessi a riconoscere che quanto più uno si avvicina a
quegli esemplari, tanto più ne condivide la sorte» (472c-472d)
- Discorso assolutamente diverso a quello di Trasimaco. Mentre costui parlava delle cose
“come stanno”, Socrate e Glaucone hanno parlato delle cose “come devono essere”. Cioè
hanno descritto l’ideale. Ma, la domanda è: la filosofia devi preoccuparsi anche della
“realizzabilità” dell’ideale? Se fosse così, quale parte della filosofia ha come oggetto
l’ideale? E quale la realizzabilità?
- Interessante domanda di Socrate: «…sei convinto che quanto abbiamo sostenuto perda in
valore, per il fatto che non si riesca a dimostrare che un tale Stato può effettivamente
fondarsi così come abbiamo detto?» (472e)
- Si cercherà uno Stato che nella sua organizzazione in larga misura s’avvicini al modello.
Perciò, da una parte, si dimostrerà che cosa funziona male negli Stati ormai esistenti, e,
d’altra, si ricercherà quale sia il cambiamento minimo necessario a riportarli nell’alveo
della suddetta costituzione.
- La condizione fondamentale: che i filosofi raggiungano il potere negli Stati, oppure che i
governanti si mettano a filosofare seriamente, «sì da far coincidere nella medesima
persona l’una funzione e l’altra – ossia il potere politico e la filosofia – e da mettere fuori
gioco quei molti che ora perseguono l’una cosa senza l’altra» (473d). A mio parere, in
questo punto Socrate tradisce il suo principio di giustizia: fare ciò che a ognuno tocca per
natura.
- Fin qua la questione sulla giustizia. Adesso il discorso cambia di direzione: tema centrale il
filosofo e la sua natura
- Prima caratteristica del filosofo: «desidera la sapienza non solo per alcuni suoi aspetti,
trascurandone altri, ma in tutta la sua interezza» [475b]. Perché un vero amante è
innamorato di tutto l’insieme.
- In questo senso chiede Socrate: «…colui che non vede l’ora di assaporare ogni disciplina,
gettandosi con gioia nello studio senza mai saziarsene, costui avremmo o no diritto di
chiamarlo filosofo?»
- Inoltre, i veri filosofi sono «quelli che ama contemplare [φιλοθεαμονας] la verità
[αληθειας]» (475e)
Filosofo è l’amante della Bellezza in sé e non delle sue apparenze
- Da una parte stanno coloro che amano le “cose belle”; «ma l’essenza [φυσιν] del bello in
sé la loro mente [διανοια] non la sa contemplare [ιδειν], né la sa amare [ασπασασθαι]»
(476b). D’altra, stanno il filosofo che «riconosce l’esistenza del Bello in sé [καλον] e sa
vederlo nella sua assolutezza [καθοραν] e nelle realtà a cui partecipa [μετεχοντα]»
Solo il filosofo ha vera conoscenza, perché solo l’oggetto a cui egli si rivolge ha vero essere
La differenza fra la scienza dei filosofi e l’opinione sta nel diverso valore ontologico dei rispettivi
oggetti
- Siccome esiste qualcosa che è e non-è ad un tempo, e si trova in mezzo fra la sfera del vero
essere e quella dell’assoluto non-essere. Così, c’è un tipo di conoscenza intermedia fra
l’assoluto non-sapere [ignoranza] e la scienza [επιστημης]. Come segnala Reale, si tratta
dell’essere sensibile, “che è appunto intermedio fra l’essere puro delle realtà intelligibile e
il non-essere assoluto. Si tratta insomma dell’essere del divenire”
- Dunque, «coloro che vedono le molte cose belle, ma non il Bello in sé e, oltre ciò, non
hanno neppure la capacità di seguire le orme di chi a esso potrebbe guidarli […], costoro
avranno bensì opinioni, ma nessuna conoscenza di queste cose» (479e). Il riferimento
all’incapacità di essere guidati si vedrà con più chiarezza nel mito della caverna
- Invece, «coloro che contemplano ciascuna di queste realtà [le Idee] che sempre rimane
identica a se stessa e nel medesimo modo […], dovremmo confessare che questi amano e
prediligono quelle cose di cui si dà conoscenza…»
- Quelli che solo amano le cose di cui si dà opinione sono «cultori dell’opinione, piuttosto
che amanti del sapere» (480a). Tal è l’amore del filosofo: ama l’essere, la verità, il
conoscibile; non si lascia attrare dalle apparenze, dalle opinioni. I filosofi sono «amici del
sapere», ma del vero sapere.
LIBRO VI
- Un’altra caratteristica dei filosofi: «essi ogni volta dovranno prediligere la scienza
[μαθηματος] rivelativa della sostanza che sempre è [της ουσιας της αει ουσης] e non muta
[μη πλανωμενης] nel senso della generazione [γενεσεως] e corruzione [φθορας]» (485b)
- Un altro carattere: «sincerità: che essi siano ben consapevoli di non dover mai cedere alla
menzogna. La odino, anzi, pero amore della verità» (485c). Perché chi ama la sapienza,
ama ciò che gli è affine. E cioè la verità.
- Ancora un altro: «se ogni tensione di un uomo è rivolta alla scienza e agli studi che la
riguardano, direi che la sua aspirazione si ridurrebbe al puro piacere dell’anima in quanto
tale» Perciò, il filosofo sarà pure temperante (cfr. 485e)
- Altra caratteristica: che non sia meschino. «Perché la meschinità è quanto di più
incompatibile sia possa immaginare con un’anima che aspiri all’intero e alla totalità sia
nella sfera del divino che dell’umano» (486a)
- Inoltre, per un tal uomo che ha la possibilità di vedere tutto il tempo e tutto l’essere,
«neppure la morte sembrerà paurosa»
- Finora Socrate ha delineato le virtù etiche – per usare termini aristotelici – ma ora,
descrive le virtù dianoetiche del filosofo
- Prima dote: la buona memoria. La capacità di salvar le cose imparate
- Seconda: una mente ben equilibrata e fine, «di modo che la sua naturale predisposizione
spontaneamente la orienti al coglimento dell’idea dell’essere di ogni singola realtà [την του
οντος ιδεαν εκαστου]» (486e)
- Riassunto delle virtù del filosofo: «…per natura… dotato di memoria, di intelligenza, di
magnanimità, e inoltre non fosse amico e parente della verità, della giustizia, del coraggio
e della temperanza» (487a)
- Adimanto torna ai dati di fatto: «…concordiamo sul fatto che è gente [i filosofi]
politicamente inutile»
2. Le cause della degenerazione della filosofia
Né il vero né il falso filosofo sono popolari, l’uno per il suo rigore morale e l’altro per sua
immoralità
- Con la metafora della nave, Socrate offre qualche traccia sull’allegoria della caverna. In un
vascello mal combinato, cioè in uno Stato corrotto, i filosofi – i veri nocchieri – appaiono
come «acchiappanuvole e buoni a nulla» (489c). Perciò, costoro non sono onorati
- Dall’altra parte, stanno quelli che fingono di coltivare la filosofia. Allora, la critica non viene
propriamente contro i filosofi, ma contro quei pessimi elementi
Non la filosofia è responsabile della indegnità dei politici, ma numerose cause a essa estranee
Il sapere del sofista si riduce alla capacità di sfruttare a proprio vantaggio gli uomini della folla
- La natura del sofista: «…non insegna principi diversi da quelli che i più condividono e
professano nelle loro affollare riunioni; solo che essi li spacciano per sapienza». Sono furbi.
- Perfetta descrizione di un relativista: «…senza in verità avere la minima cognizione di che
cosa ci sia di bello o di brutto, di buono o di cattivo, oppure di onesto o di disonesto in
quella morale che professa e nei suoi desideri, e invece definendo l’una cosa e l’altra sulla
base delle opinioni di quel bestione. Così, senza tener conto di nient’altro, a quello che
piace all’animale dà il nome di buono, a quello che gli dispiace di cattivo; le cose che gli
sono necessarie le chiamerà giuste e belle. E fa tutto ciò pur non avendo mai compresso
fra il necessario e il Bene» (493c). Tutto dipende dall’arbitrio della folla. Solo resta fare
tutto quanto alla massa aggrada
- Perciò «è ineluttabile che chi pratica la filosofia sia ripudiato dalla folla» (494a)
La corruzione del filosofo deriva anche dalle sue stesse doti, quando queste sono occasione di
superbia
Il discredito della filosofia dipende da coloro che la praticano senza esserne degni
- E perché, nonostante le critiche alla filosofia, essa mantiene una dignitosa nobiltà, ci sono
tanti di natura imperfetta che hanno mire su di essa. Quegli uomini non possono che
partorire sofismi, e poi nulla di nobile.
Tanto lo Stato ha bisogno di buoni filosofi, quanto i filosofi hanno bisogno di un buono Stato
Nessuna delle costituzioni vigenti traduce l’ideale politico del filosofo
L’educazione alla filosofia deve essere graduale e proporzionata alla maturità del discente
- Iniziare con una educazione e una filosofia da ragazzi, e la cura dei corpi
Bisogna che i filosofi prendano il potere, o che gli uomini di potere divengano filosofi
- Per tal motivo, occorre che i canditati filosofi siano saggiati a due tipi di prove:
o «Quella della fatica, della paura e del piacere» (503e)
o Quella dell’esercizio «nelle molteplici discipline di studio, controllando se la loro
natura sarà all’altezza delle conoscenza massime [τα μεγιστα μαθηματα]» (503a)
- Della prima prova, ormai si ha parlato abbastanza. La domanda di Glaucone riguardo la
seconda prova: «cosa intendi per conoscenza massima?»
- L’apprendimento della conoscenza massima richiede un altro giro più lungo. Perché è
qualcosa superiore ed esige la massima precisione
- La conoscenza massima è «l’Idea del Bene [του αγαθου ιδεα] … servendosi della quale le
cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli» (505a)
Il nocciolo del problema consiste nel fornire una adeguata definizione del Bene
Socrate non dice che cosa sia il Bene, ma illustra a che cosa assomiglia
- Socrate lasciate da parte la questione su cosa sia il Bene in sé e preferisce parlare di quello
che «pare figlio del Bene e somigliantissimo a lui» (506e)
Il Bene è simile al sole che rende visibili le cose e veggenti gli uomini
- Terzo: si dimostra che la facoltà del vedere e dell’essere veduto, in ragione del terzo
elemento – che rende possibile la percezione delle cose sensibili –, è più preziosa delle
altre facoltà sensitive. Infatti, «pur essendo presente negli occhi la vista… d’altra parte, i
colori negli oggetti, se non si aggiunga un terzo genere di realtà… sai bene che la vista non
vedrà nulla e i colori saranno invisibili»
- Quarto: il terzo elemento è la luce [φως]. Inoltre, il “dio” che offre questa luce è il sole
[ηλιος]. Quindi il sole non è la vista, né l’organo di siffatta facoltà.
- Quinto, si conferma l’analogia: «ciò che è il Bene nel mondo intelligibile [τω νοητω τοπω]
rispetto all’intelletto [προς τε νουν] e agli intelligibili [τα νοουμενα], così è il sole nel
visibile [τω ορατοω] rispetto alla vista [προς τε οψιν] e ai visibili [τα ορωμενα]»
- Sesto: si esplicita l’analogia. L’anima possiede intelligenza quando «si rivolge a ciò che la
verità [αληθεια] e l’essere [το ον] illuminano». Invece, essa può solo opinare quando «si
rivolge a ciò che è mescolato con tenebra [τω σκοτω κεκραμενον], a ciò che nasce e
perisce», cioè al divenire – ciò che si genera e ciò che si corrompe –. In questo senso,
possiamo dire che l’Idea di Bene ci permette di conoscere la forma sostanziale – ciò che
non muta –, oltre alla materia.
- Settimo: per tanto, ciò che «fornisce la verità alle cose conosciute e al conoscente la
facoltà di conoscere… è l’Idea del Bene. […] E mentre la scienza e la verità… considerarle
simili al Bene ambedue è giusto, ma pensare che o l’una o l’altra siano il Bene non è giusto,
perché la condizione del Bene va giudicata ancora maggiore». Quindi, non si afferma che
l’Idea di Bene sia conoscibile, ma che essa è condizione di possibilità per la conoscenza –
sia da parte della facoltà del soggetto, come da parte dell’oggetto –.
- Ottavo: il sole non solo «fornisce ai visibili la capacità di essere veduti». Dal sole proviene
«anche l’essere [το ειναι] e l’essenza [την ουσιαν] … pur non essendo il Bene essere, ma
ancora al di sopra dell’essere [επεκεινα της ουσιας], superiore a esso in dignità e potere»
- Due realtà [ειναι], mondi [τοπος] o generi [γενος]: «hai ben colto queste due forme [ειδη],
il visibile [ορατον] e l’intelligibile [νοητον]»
- Metafora della linea divisa (509d-511e):
o Visibile:
Immagini: ombre e riflessi – falso – opinione – congettura [εικασιαν]
Modelli delle immagini – vero – conoscenza – credenza [πιστιν]
o Intelligibile:
L’anima indaga servendosi delle cose di prima come delle immagini,
procedendo per via di postulato non verso il principio, ma verso le
conclusioni – gli enti matematici – la dianoia [διανοια]: pensiero a partire
di postulati o ipotesi; deduttivo
L’anima indaga procedendo da postulati e senza immagini che si
riferiscono all’altra sezione, seguendo un procedimento con le Idee e per
mezzo delle Idee – intellezione della scienza dialettica [διαλεγεσθαι
επιστημης]: dialogo per argomentazione sulle Idee; risolutivo