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1) TUCIDIDE

Epitaffio di Pericle per i morti della guerra del Peloponneso

Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini,
e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno. Quanto
al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di
poche persone, bensí di una cerchia piú vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle
private controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui
uno gode, poiché in qualche campo si distingue, non tanto per il suo partito, quanto per
il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se
uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura
sua posizione sociale.

Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica cosí in quel vicendevole sorvegliarsi
che si verifica nelle azioni di ogni giorno, noi non ci sentiamo urtati se uno si comporta
a suo gradimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è
un castigo vero e proprio, è pur sempre qualche cosa di poco gradito.

Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi
pubblici abbiamo un’incredibile paura di scendere nell’illegalità: siamo obbedienti a
quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi e tra esse in modo speciale a
quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi
scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta.

Inoltre, a sollievo delle fatiche, abbiamo procurato allo spirito nostro moltissimi svaghi,
celebrando secondo il patrio costume giochi e feste che si susseguono per tutto l’anno
e abitando case fornite di ogni conforto, il cui godimento quotidiano scaccia da noi la
tristezza.

Affluiscono poi nella nostra città, per la sua importanza, beni d’ogni specie da tutta la
Terra e cosí capita a noi di poter godere non solo tutti i frutti e prodotti di questo paese,
ma anche quelli degli altri, con uguale diletto e abbondanza come se fossero nostri.

Diverso è pure il sistema di educazione: mentre gli avversari, subito fin da giovani, con
faticoso esercizio vengono educati all’eroismo; noi, invece, pur vivendo con
abbandono la vita, con pari forza affrontiamo pericoli uguali. E la prova è questa: gli
Spartani fanno irruzione nel nostro paese, ma non da soli, bensí con tutti gli alleati; noi
invece, invadendo il territorio dei vicini, il piú delle volte non facciamo fatica a
superare in campo aperto e in paese altrui uomini che difendono i propri focolari.
[…]
Le medesime persone da noi si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e
delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono
perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente
non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un
inutile.

Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non
sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie
cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si
deve fare.

Abbiamo infatti anche questa nostra dote particolare, di saper, cioè, osare quant’altri
mai e nello stesso tempo fare i dovuti calcoli su ciò che intendiamo intraprendere: agli
altri, invece, l’ignoranza provoca baldanza, la riflessione apporta esitazione. Ma
fortissimi d’animo, a buon diritto, vanno considerati coloro che, conoscendo
chiaramente le difficoltà della situazione e apprezzando le delizie della vita, tuttavia,
proprio per questo, non si ritirano di fronte ai pericoli.
[…]
In una parola, io dico che non solo la città nostra, nel suo complesso, è la scuola
dell’Ellade, ma mi pare che in particolare ciascun Ateniese, cresciuto a questa scuola,
possa rendere la sua persona adatta alle piú svariate attività, con la maggior destrezza
e con decoro, a se stesso bastante.

2) ERODOTO
LOGOS TRIPOLITIKOS

Dopo che il tumulto si fu quietato e furono passati cinque giorni, quelli che si erano
ribellati ai Magi tenevano un consiglio su tutto il complesso delle Faccende dello stato,
e furono pronunciati discorsi incredibili sì ad alcuni dei Greci, ma pure furono
pronunciati.
Otane invitava a porre il potere nelle mani di tutti i Persiani dicendo questo:
«A me sembra opportuno che nessuno divenga più nostro monarca, perché non è cosa
né piacevole né conveniente. Voi sapete infatti l’insolenza di Cambise a qual punto è
giunta, e avete provata anche l’arroganza del Mago. Come dunque potrebbe essere una
cosa perfetta la monarchia, cui è lecito far ciò che vuole senza doverne render conto?
Perché anche il migliore degli uomini, una volta salito a tale autorità, il potere
monarchico lo allontanerebbe dal suo solito modo di pensare. Dai beni presenti gli
viene infatti l’arroganza, mentre sin dalle origini è innata in lui l’invidia. E quando ha
questi due vizi ha ogni malvagità, perché molte scelleratezze le compie perché pieno
di arroganza, altre per invidia. Eppure un sovrano dovrebbe essere privo di invidia, dal
momento che possiede tutti i beni. Invece egli si comporta verso i cittadini in modo
ben differente, è invidioso che i migliori siano in vita, e si compiace dei cittadini
peggiori ed è prontissimo ad accogliere le calunnie. Ma la cosa più sconveniente di
tutte è questa: se qualcuno lo onora moderatamente, si sdegna di non esser onorato
abbastanza; se invece uno lo onora molto si sdegna ritenendolo un adulatore. E la cosa
più grave vengo ora a dirla: egli sovverte le patrie usanze e violenta donne e manda a
morte senza giudizio. Il governo popolare invece anzi tutto ha il nome più bello di tutti,
l’uguaglianza dinanzi alla legge, in secondo luogo niente fa di quanto fa il monarca,
perché a sorte esercita le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo e presenta
tutti i decreti dell’assemblea generale. Io dunque propongo di abbandonare la
monarchia e di elevare il popolo al potere, perché nella massa sta ogni potenza».

Questo parere esponeva Otane. Megabizo invece esortava a volgersi all’oligarchia


dicendo così:
«Quel che ha detto Otane per por fine alla tirannide si intenda detto anche da me; ma
quanto al fatto che vi invitava a conferire il potere al popolo, egli non ha colto il parere
migliore: niente infatti c’è di più privo di intelligenza, né di più insolente del volgo
buono a nulla. E certo, che per fuggire l’insolenza di un monarca gli uomini cadano
nell’insolenza di una plebaglia sfrenata, è cosa assolutamente intollerabile. Quello
infatti se fa qualcosa la fa a ragion veduta, questa invece non ha neppure capacità di
discernimento: e come potrebbe aver discernimento chi né ha imparato da altri né
conosce da sé niente di buono, e si getta alla cieca senza senno nelle cose, simile a
torrente impetuoso? Della democrazia facciano dunque uso quelli che vogliono male
ai Persiani; noi invece, scelto un gruppo degli uomini migliori, a questi affidiamo il
potere; ché fra questi ci saremo anche noi, ed è giusto che dagli uomini migliori
derivino le migliori deliberazioni».

Megabizo esponeva dunque questo parere. E per terzo Dario rivelava il suo parere
dicendo:
«A me quel che ha detto Megabizo riguardo al governo democratico mi pare l’abbia
detto giustamente; non giustamente invece quel che riguarda l’oligarchia. Ché,
offrendocisi tre forme di governo ed essendo tutte a parole ottime, ottima la democrazia
e l’oligarchia e la monarchia, io affermo che quest’ultima è di molto migliore. Di un
uomo solo che sia ottimo niente potrebbe apparire migliore, e valendosi di tale sua
saggezza egli potrebbe guidare in modo perfetto il popolo, e così soprattutto potrebbero
esser tenuti segreti i provvedimenti contro i nemici. Nell’oligarchia invece ai molti che
impiegano le loro qualità nell’amministrazione dello stato sogliono capitare gravi
inimicizie private, perché, volendo ciascuno essere il primo e prevalere con i suoi
pareri, vengono a grandi inimicizie fra loro, e da queste nascono discordie, e dalle
discordie stragi, e dalle stragi si passa alla monarchia, e con ciò si dimostra di quanto
questo regime è il migliore. D’altra parte se il popolo è al potere è impossibile che non
sopravvenga la malvagità. E sopravvenuta nello stato la malvagità sorgono fra i
malvagi non inimicizie, ma salde amicizie, poiché quelli che danneggiano gli interessi
comuni lo fanno cospirando fra loro. E questo succede fino a che uno del popolo,
postosi a capo degli altri, li fa cessare; in conseguenza di ciò costui s’impone
all’ammirazione del popolo, e così ammirato viene proclamato monarca. E così anche
questo dimostra che la monarchia è la cosa migliore. E per dir tutto in una sola parola,
donde ci è venuta la libertà e chi ce l’ha data? forse dal popolo o dall’oligarchia o non
piuttosto da un monarca? Il mio parere è dunque che noi, avendo ottenuta la libertà per
opera di un sol uomo, dobbiamo mantenere in vigore la stessa forma di governo, e
inoltre non dobbiamo abolire le istituzioni dei nostri padri, che sono buone, perché non
sarebbe certo la cosa migliore».

3) ESCHILO
PERSIANI
(breve estratto)

Aᴛᴏssᴀ (moglie di Dario) Con vero affetto per me e per la mia casa tu, primo interprete
di questa visione, hai pronunciato la tua valida parola. Che il bene si avveri, dunque!
Questi riti che tu mi raccomandi io li eseguirò con ogni scrupolo, per gli dèi e per i
congiunti che riposano sotterra, non appena sarò rientrata nella reggia. Prima però
vorrei sapere, o miei cari, in che parte del mondo dicono che sorga Atene?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Lontano, verso occidente, là dove tramonta il sole divino.

A. E, nonostante questo, mio figlio voleva andare in caccia di quella città?


C. Perché così l’Ellade intera sarebbe diventata suddita del Re.

A. Hanno tal copia d’uomini in armi?

C. ‹…›

A. ‹…›

C. E tale è il loro esercito, che tanti mali ha inflitto ai Medi.

A. Brilla fra le loro mani la punta che tende il nervo dell’arco?

C. No, bensì aste per il corpo a corpo e corredo di validi scudi.

A. E che altro? La ricchezza abbonda nelle loro case?

C. Hanno una fonte d’argento, un tesoro sotterraneo!

A. E qual pastore sorveglia e signoreggia l’armata?

C. Di nessun uomo si dichiarano servi, di nessun uomo sudditi.

A. E allora come fanno a sostenere l’assalto dei nemici?

C. Tanto da fare a pezzi quella grande, quella splendida armata di Dario.

A. Motivo d’ansia e di paura, non c’è dubbio, per i genitori di chi è partito.

4) TUCIDIDE
DIALOGO DEI MELI
Tucidide, Guerra del peloponneso: Il dialogo dei Meli.

Ateniesi: "Da parte nostra, non faremo ricorso a frasi sonanti; non diremo fino alla noia
che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo debellato i Persiani e
che ora marciamo contro di voi per rintuzzare offese ricevute: discorsi lunghi e che non
fanno che suscitare diffidenze. Però riteniamo che nemmeno voi vi dobbiate illudere
di convincerci coi dire che non vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni
di Sparta e che, infine, non ci avete fatto torto alcuno. Bisogna che da una parte e
dall'altra si faccia risolutamente ciò che è nella possibilità di ciascuno e che risulta da
un'esatta valutazione della realtà. Poiché voi sapete tanto bene quanto noi che, nei
ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe con pari
forze su ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i piú deboli
vi si adattano". 90.
Meli: "Orbene, a nostro giudizio almeno, l'utilità stessa (poiché di utilità si deve
parlare, secondo il vostro invito, rinunciando in tal modo alla giustizia) richiede che
non distruggiate quello che è un bene di cui tutti possono godere; ma quando qualcuno
si trova nel pericolo, non gli sia negato ciò che gli spetta ed è giusto; e anche, per quanto
deboli siano le sue ragioni, possa egli trarne qualche vantaggio, convincendone gli
avversari. Questa politica sarà soprattutto utile per voi, poiché, in caso di insuccesso,
servirete agli altri d'esempio per l'atroce castigo".
Ateniesi: se è per questo, ci si lasci pure al nostro rischio. Siamo ora qui, e ve lo
dimostreremo, per consolidare il nostro impero e avanzeremo proposte atte a salvare la
vostra città, poiché noi vogliamo estendere il nostro dominio su di voi senza correre
rischi e nello stesso tempo salvarvi dalla rovina, per l'interesse di entrambe le parti".
92. Meli: "E come potremmo avere lo stesso interesse noi a divenire schiavi e voi ad
essere padroni?".
93. Ateniesi: "Poiché voi avrete interesse a fare atto di sottomissione prima di subire i
più gravi malanni e noi avremo il nostro guadagno a non distruggervi completamente".
94. Meli: "Sicché non accettereste che noi fossimo, in buona pace, amici anziché
nemici, conservando intatta la nostra neutralità?".
95. Ateniesi: "No, perché ci danneggia di più la vostra amicizia, che non l'ostilità
aperta: quella, infatti, agli occhi dei nostri sudditi, sarebbe prova manifesta di
debolezza, mentre il vostro odio sarebbe testimonianza della nostra potenza".
96. Meli: "E i vostri sudditi sono così ciechi nel valutare ciò che è giusto, da porre sullo
stesso piano le città che non hanno con voi alcun legame e quelle che, per lo più vostre
colonie, e alcune addirittura ribelli, sono state ridotte al dovere?".
97. Ateniesi: "Essi pensano che, tanto agli uni che agli altri, non mancano motivi
plausibili per difendere la loro causa; ma ritengono che alcuni siano liberi perché sono
forti e noi non li attacchiamo perché abbiamo paura. Sicché, senza contare che il nostro
dominio ne risulterà più vasto, la vostra sottomissione ci procurerà maggior sicurezza;
tanto più se non si potrà dire che voi, isolani e meno potenti di altri, avete resistito
vittoriosamente ai padroni del mare".
[…]
112. Gli Ateniesi si ritirarono dalla sala del convegno; e i Meli, restati soli, constatato
che il loro punto di vista rimaneva presso a poco quale l'avevano esposto, formularono
questa risposta: "Noi, o Ateniesi, non la pensiamo diversamente da prima; né mai ci
indurremo a privare della sua libertà, in pochi momenti, una città che ha già 700 anni
di vita, ma, fidando nella buona sorte che fino ad oggi, con l'aiuto degli dei, l' ha salvata
e nell'appoggio degli uomini, specie di Sparta, faremo di tutto per conservarla. Vi
proponiamo la nostra amicizia e neutralità, a patto che vi ritiriate dal nostro paese, dopo
aver concluso degli accordi che diano garanzia di tutelare gli interessi di entrambe le
parti". 1
13. Tale fu la risposta dei Meli; e gli Ateniesi, mettendo fine ormai al colloquio,
dissero: "A quanto pare, dunque, da queste decisioni, voi siete i soli a considerare i
beni futuri come più evidenti di quelli che avete davanti agli occhi; mentre con il
desiderio voi vedete già tradotto in realtà ciò che ancora è incerto e oscuro. Orbene,
poiché vi siete affidati agli Spartani, alla fortuna e alla speranza, e in essi avete riposto
la fiducia più completa, altrettanto completa sarà pure la vostra rovina". […[]
Nell'inverno seguente gli Spartani fecero i preparativi per una irruzione nell'Argolide;
ma, siccome i sacrifici fatti sui confini per il successo della spedizione non erano
risultati favorevoli, si ritirarono. […]. Nella stessa epoca, i Meli con un nuovo assalto
espugnarono un'altra parte del muro ateniese, approfittando che le guardie non erano
numerose. Ma più tardi, sic-come questi tentativi si ripetevano, venne da Atene una
seconda spedizione, al comando di Filocrate, figlio di Demeo; sicché, stretti ormai da
un assedio molto rigoroso, i Meli si arresero senza condizioni agli Ateniesi. Questi
passarono per le armi tutti gli adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i fanciulli e
le donne: quindi occuparono essi stessi l'isola e più tardi vi mandarono 500 coloni.

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