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Singole Esperienze collettive
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Introduzione
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Singole Esperienze collettive
Sono cosciente che è impossibile sanare dei pezzi rotti, come sono co-
sciente che è impossibile rendere Giustizia a chi è morto ingiustamente,
per questo non cerco colpe ma cause, per questo non cerco colpevoli ma
responsabili, per questo non cerco segreti ma verità.
Desidero comprendere collettivamente i motivi delle zone grigie del mio
Stato per colorarne i contorni e far luce al suo interno, sperando di con-
tribuire a dare nuova vita al colore bianco come quello di un foglio nel
quale ognuno può scrivere la propria storia in piena libertà, in completa
Democrazia, senza più il trauma degli omicidi, delle stragi, degli attentati
di Stato, senza timore ma con la gioia di rappresentare se stessi membri e
parte di una comunità che forma lo Stato.
Desidero essere un singolo parte di una collettività responsabile e parte-
cipativa, essere dei cittadini coscienti e non coscienziosi, compatti e non
riuniti, liberi dal segreto e non prigionieri di verità rese segrete.
Cittadini che sanno e che possono perciò comprendere le proprie scelte po-
litiche, sociali e personali all’interno di uno Stato che gli permette e gli con-
sente di scegliere tramite la conoscenza della verità. Cittadini di ogni razza,
colore e religione che fanno politica per la sola ragione di esistere e respirare,
senza dover dimostrare di esistere e di respirare soffocando il respiro altrui.
In questo la nostra storia democratica ci ha trasformato, in ladri di aria, in
rapinatori di spazio, in estorsori di verità da mantenere segrete per conti-
nuare il ricatto del segreto, dando vita a flotte di dimostranti di un qualcosa
mai chiesto per dimostrare di non chiedere per paura delle dimostrazioni
delle richieste fatte.
Siamo ormai un insieme di questuanti di favori, di deboli membri di una
collettività accattona regolata da magnaccia, da re nudi di un regno vestito
di stracci, controllati da gendarmi violenti, tali per nascondere la propria
paura di indossare gli stessi stracci dei controllati.
Siamo ormai perduti nella morte che colpisce a caso, con una bomba, con
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Introduzione
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Singole Esperienze collettive
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INIZIO
Sono nato a Livorno da genitori laziali, cresciuto sul mare, nel mare e con
il mare, che come una immensa placenta mi ha accolto nel suo ventre.
L’elemento acqua è stato alla base della mia vita, il fuoco ha invece cercato
di estinguerla durante la mia ultima esperienza con la morte, avvenuta nel
Novembre del 2007.
Ho iniziato a lavorare sin da bambino, figlio di un marittimo e di una
casalinga, figlio di una cultura nella quale imparare un mestiere significava
la prospettiva di un futuro lavorativo assicurato. Sin dalla metà degli anni
settanta ho fatto il garzone in un vetusto magazzino al servizio di un vec-
chio artigiano siciliano, un reduce della seconda guerra mondiale che si
rifugiò a Livorno dopo la fine del conflitto con un carretto a pedali, con il
quale nel corso degli anni ha fatto il venditore ambulante dei suoi prodotti,
fra cui spiccavano le statuine segnatempo che avevo imparato a costruire, a
decorare, a rifinire a mano con il trincetto e la fantasia.
Questo fino a quando nei primissimi anni ottanta il vecchio artigiano fu
arrestato per violenze sessuali contro i minori. Ancora non sapevo che
avrei rivisto il venditore fiorentino dei suoi trincetti molti anni dopo,
oggetto di attenzione da parte degli inquirenti nelle indagini per i delitti
del cosiddetto mostro di Firenze.
Non ancora diciassettenne mi sono arruolato volontario nell’Esercito Ita-
liano, presso la scuola allievi sottufficiali (SAS), con il desiderio di diventa-
re un pilota di elicotteri.
Desiderio compensato in parte, in quanto effettivamente ho volato, ma
come paracadutista e non pilotando un elicottero come avrei voluto.
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Singole Esperienze collettive
Ancora non sapevo che ciò che avrei vissuto nei tre anni in uniforme avreb-
be condizionato la mia vita da civile nel corso del successivo ventennio.
La mia storia professionale inizia nel 1985, la quale, nel corso di questi
ventitre anni, mi ha visto vivere delle esperienze tali da rappresentare un
valido confronto collettivo per comprendere alcune dinamiche adottate
all’interno di certi settori dello Stato che sviluppano quei meccanismi di
depistaggio, di collusione mafiosa, di connivenza massonica, che costitui-
scono quella zona grigia ove sbiadiscono i colori della Democrazia e della
legalità fino al punto di rendere opaca la Giustizia e daltonici i cittadini,
costretti a seguire le varie correnti cromatiche per individuare un sostegno
alle proprie speranze, per rinforzare il concetto della propria libertà.
Desidero capire la verità dei fatti affinché possa comprendere il vero, il fal-
so ed il verosimile nei fatti stessi, senza subire il condizionamento da parte
di chi la verità la occulta e la gestisce per difendere il proprio schieramento,
la propria fratellanza, il proprio ufficio, i propri interessi.
Ho cercato di capire per difendermi dagli attacchi ai quali non ho trovato
la giusta difesa, pagando la mia lotta con la sconfitta.
Proprio la sconfitta mi ha reso cosciente dell’assenza di una auspicata vit-
toria all’interno di una guerriglia di sconfitti, di affratellati soggetti dipinti
di emblemi, uniformi, medaglie e pentalfiani segreti. Tutti caratterizzati
dall’essere sconfitti dall’esistenza del segreto che come tale vince sulla ve-
rità. Un segreto che tutto tace, un silente protagonista circondato da degli
urlanti attori e da delle ambiziose comparse all’interno di un film che dura
sin dalla fine della seconda guerra mondiale, i cui registi usano nomi d’ar-
te dai quali è impossibile risalire alla loro vera identità. Come in un film
ne intravediamo le sagome, vediamo la proiezione della loro ombra senza
mai vederne il viso. Come in un film ci sono eroi e vittime, persecutori e
corrotti, moventi e manovratori, opportunità e opportunisti. Un film che
dura da troppo per il quale è giunto il momento di scrivere la parola fine.
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Inizio
Fine che giungerà quando sarà calato il sipario sui tanti segreti che na-
scondono le troppe verità, quando sarà tolto il cappuccio ed il passamon-
tagna dal viso delle ombre, quando le ombre si dissiperanno alla luce del
sole che ci consentirà di vedere, di conoscere, di riconoscere, di sapere e di
capire le verità della nostra storia di paese che ha avuto ed ha tuttora una
Democrazia a scartamento ridotto. Democrazia lenta, traumatizzata, pa-
tologica, affetta da ingerenze esterne che come nei deliri dei pazzi vede le
presenze, sente le voci, patisce una sorta di sindrome persecutoria tale da
non permetterne la crescita, la maturità, restando prigioniera dei propri
mostri, della propria sofferenza causata dall’autismo dei propri pensieri,
dal riflesso del buio che ha inghiottito i suoi cittadini, oscurati anch’essi
dalla pazzia della Democrazia stessa che ha fatto nascere milioni di insicu-
ri italiani con un trauma in prestito, le cui complicanze sono state aggra-
vate dai segreti che hanno impedito di conoscere la fonte della malattia
e di trovare così una cura, restando schiavi dei presunti guaritori i quali
hanno somministrato solo pillole di ipocrisia che hanno ucciso migliaia
di innocenti per rinforzare la paura della malattia e per continuare ad
affidarsi alle loro cure, alla loro gestione.
Ogni volta che un malato cittadino ha espresso il desiderio di capire si è
sviluppato un aggravamento, con l’improvvisa morte di altri innocenti svi-
luppando in realtà le uniche patologie di cui tutti noi siamo effettivamente
affetti, il terrore e la paura.
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L’ETà UNIFORMATA
Nel 1985 non avevo l’età per guidare una automobile ma potevo sparare
con un’arma, maneggiare esplosivi, apprendere e conoscere delle tecniche
di combattimento, partecipare ai servizi di ordine pubblico, svolgere la
sorveglianza armata in anni in cui la eco del terrorismo si stava appena
spegnendo, con gli attacchi alle caserme, il furto delle armi dei soldati da
parte dei componenti dei vari gruppi eversivi dalle tante sigle che hanno
caratterizzato la fine degli anni settanta e la prima metà di quelli ottanta.
Non avevo l’età per votare ma potevo prendere delle decisioni importanti
con il dito sul grilletto delle mie armi, che avrei potuto rivolgere contro
me stesso oppure contro gli altri; anni nei quali le munizioni erano vere, i
colpi erano in canna e la pressione psicologica che un adolescente subiva
all’interno dell’ambiente militare rappresentava la peggiore arma, l’ effetti-
va minaccia, il reale rischio di rottura, causata dallo stress, dall’ esaurimen-
to nervoso con tutte le sue potenziali conseguenze, come avvenne in alcune
caserme con dei casi di suicidio e di omicidio commessi da giovani militari,
da carabinieri, da poliziotti.
Ero un adolescente che non aveva ancora compiuto diciassette anni di età,
ero un soldato, un sottufficiale volontario dell’Esercito Italiano, prove-
niente da una vita civile fatta di sport come quello della lotta libera, fatta
di lavoro, fatta di scuola, fatta di ragazzine con cui scoprire gli umori ed
il gioco dell’amore.
Fatta di cocomeri rubati ai cocomerai ladri, fatta di fughe dalla Polizia con
i motorini truccati, fatta di mare, di scoperte che permettevano di capire,
conoscere, sapere e saper scegliere il proprio futuro, con le scelte a breve
termine come quelle compiute da un adolescente. Futuro fatto a tappe,
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Singole Esperienze collettive
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L’età uniformata
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Singole Esperienze collettive
che nelle punizioni fisiche e psicologiche inflitte per le più paradossali ra-
gioni, specialmente all’interno del gruppetto di ex parà, ragazzi che ave-
vano introdotto la stessa mentalità che questi avevano vissuto ed appreso
durante il tempo trascorso alla Folgore.
Sembrava che solo coloro capaci di resistere fossero i più forti, i più capaci
per affrontare chissà quali missioni in una ipotetica guerra, altra parola che
caratterizzava il contenuto dei nostri colloqui, mediati dai racconti dei re-
duci del Libano che in qualche modo la guerra l’avevano vista, soprattutto
coloro coinvolti negli scontri a fuoco con le varie fazioni libanesi in lotta
avvenuti nel periodo in cui il contingente italiano è stato presente a Beirut
e nelle altre località.
Fortunatamente i miei parenti presso l’ambasciata americana mi hanno
fornito il confronto necessario per non farmi lavare il cervello più di tanto,
consigliandomi sempre di pensare con la mia propria testa e soprattutto
permettendomi di conoscere i loro datori di lavoro, gli ufficiali del servizio
americano i quali avevano effettivamente conosciuto la guerra, molti di
loro provenivano dai reparti militari che avevano combattuto in VietNam,
erano persone che, diversamente dagli italiani, avevano vissuto esperienze
dirette nei vari fronti nei quali gli Stati Uniti erano stati militarmente pre-
senti a vario titolo.
Ho imparato perciò a riconoscere gli occhi di chi aveva visto una guerra
rispetto a quelli di chi raccontava di averla vista, riconoscendo perciò i
tanti italiani che millantavano storie di guerra libanese di cui esageravano
i contenuti in favore di noi allievi, felici anche di ascoltare le loro gesta
seppur poco credibili, pur di avere un riferimento con la guerra.
Le mie visite all’ambasciata americana di Roma non passarono inosserva-
te, d’altronde i miei colleghi erano interessati a conoscere qualche reduce
americano, un Rambo vero come quello del cinema, la voce si sparse e fui
contattato anche da un capitano paracadutista e da un maggiore in servizio
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L’età uniformata
presso “l’ufficio I” della SAS che vollero sapere notizie sul tipo di lavoro dei
miei parenti e sulle mie visite presso le basi militari americane alle quali
accedevo durante i periodi di licenza, in particolare quella di Camp Darby
vicino Livorno.
Dopo oltre otto mesi di corso, ormai diciassettenne, ormai esperto, con il
grado appena inferiore a quello di Sergente, cioè quello di caporale mag-
giore allievo sottufficiale, iniziai a comprendere il tipo di ambiente, il tipo
di lavoro che avevo scelto, a confrontarmi con quelli che allora erano i
miei desideri e con i risultati della scelta che avevo davanti agli occhi; con
l’esperienza acquisita in quei mesi duri e faticosi, nei quali ero cresciuto,
immerso nella mentalità militare, caratterizzata dalle parole onore e fedel-
tà, coraggio e ardimento, paura e viltà.
Ero felice di quanto avevo raggiunto, mi piaceva il lavoro, ero gratificato e
stimolato a finire il corso e raggiungere le scuole di specializzazione presso
la Folgore insieme ai miei colleghi, con i quali sapevamo di essere ad un
passo dal traguardo con risultati eccellenti. Un giorno accadde qualcosa
mentre stavo svolgendo il periodo di servizio di sorveglianza armata presso
una grande polveriera dislocata in Umbria, notai insieme ad altri due miei
colleghi la presenza di alcuni uomini in abiti civili intenti a movimentare
delle casse dentro il perimetro della zona militare; allarmammo perciò il
nostro livello superiore ma ci risposero evasivamente, dicendoci che era-
no solo dei bracconieri, perché la polveriera era ubicata all’interno di un
enorme bosco, una riserva di caccia, che questi probabilmente stavano solo
portando via dei cinghiali catturati con delle trappole.
Nelle casse? mi chiesi ricordandomi i trascorsi parentali con gli zii cac-
ciatori di cinghiali.
Tornato alla SAS segnalai il fatto ad uno degli ufficiali de “l’ufficio I” e
poco dopo iniziarono gli strani congedi di coloro che come me avevano
relazionato gli stessi episodi. Le ragioni furono le più disparate, dal ritro-
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Singole Esperienze collettive
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L’età uniformata
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Singole Esperienze collettive
Nel Novembre del 1985 un ufficiale medico della Folgore accertò la com-
pleta assenza di una patologia del mio cuore, quando sono stato invitato
a raggiungere Camp Darby perché uno dei miei parenti stava transitando
da quelle parti con qualche americano dell’ambasciata che desiderava sa-
lutarmi.
Il colloquio fu di grande rinforzo, specialmente quando mi dissero di non
preoccuparmi perché presto avrei indossato di nuovo l’uniforme, nel frat-
tempo mi invitarono a prendere contatto con un sottufficiale americano
della base con il quale iniziai un rapporto di amicizia che si protrasse per
lungo tempo, che mi insegnò molto, cose militari e non, mi offrì un con-
fronto umano fino a quando il telefono squillò con l’invito di raggiungere
di nuovo la scuola allievi sottufficiali dell’Esercito Italiano per essere final-
mente arruolato per la seconda volta.
Questo avvenne nella primavera del 1986, nel periodo in cui Reagan bom-
bardò Gheddafi come ritorsione militare per gli attentati imputati alla Li-
bia contro gli interessi americani, quando la Folgore raggiunse Lampedusa
perché furono lanciati dei missili dalla Libia; ero ormai cosciente dello
scenario internazionale, dei blocchi, dei ruoli.
Il periodo trascorso a Camp Darby mi aveva consentito di capire e di cre-
scere, di addestrarmi e di confrontarmi con chi, in prima persona, viveva le
scelte del proprio governo laddove inviava le truppe in operazioni militari,
con i ragazzi e gli uomini della 82° divisione delle forze speciali americane,
con quelli dello spionaggio elettronico della sezione di Coltano, località fra
Pisa e Livorno da dove Guglielmo Marconi stabilì le prime comunicazio-
ni in cui sorgeva un centro dell’intelligence americana della presunta rete
denominata “echelon”, le cui aliquote di operatori erano impiegate nei vari
teatri e nelle basi presenti in tutti il mondo, specialmente in Germania.
Dovetti rinunciare ai gradi ed alle qualifiche che avevo precedentemente
raggiunto, iniziando tutto di nuovo da zero, come se non fossi mai stato
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L’età uniformata
un militare prima di allora, fui così inserito con il nuovo corso allievi
sottufficiali, il 60°.
I miei colleghi del 58° corso erano ormai giunti alle scuole di specializza-
zione, una volta concluso quel corso che mi fu impedito di terminare a
causa di un certificato medico risultato immediatamente strano, errato alla
prima visita medica di riscontro che effettuai presso vari ospedali militari.
Mi informarono che anche i due miei amici e colleghi, che subirono il mio
stesso trattamento con l’espulsione dal 58° corso, erano stati entrambi di
nuovo arruolati, uno presso la scuola sottufficiali della Marina e l’altro in
quella dell’Aeronautica Militare, entrambi furono, come me successiva-
mente inseriti nelle truppe d’elite, il primo trovò la morte contro le pale di
un rotore di un elicottero, il secondo è ancora un incursore della Marina.
Questo fatto mi rese felice ma confermò la mia ipotesi che quegli eventi
non furono una serie di singolari errori ma parte di un qualcosa che avrei
tentato di comprendere e che desideravo capire per conoscere la causa del
mio proscioglimento. Questo non per ragioni particolarmente eroiche ma
ben più pratiche, avrei dovuto essere un sergente paracadutista con uno
stipendio ben più elevato ed un corretto percorso di carriera, esattamente
come lo erano i miei colleghi, mentre invece a causa di quel presunto erro-
re medico ero stato costretto ad iniziare tutto daccapo.
Infatti dedicai ogni istante a cercare di conoscere i motivi per i quali av-
vennero quei congedi, individuandone le ragioni nella presenza dei civili
all’interno del perimetro del deposito munizioni in cui facevamo sorve-
glianza, alla polveriera, quelli che cacciavano i cinghiali nelle casse du-
rante le loro presunte battute di caccia, come mi disse qualche superiore
quando relazionai l’evento.
Non avevo più quella sudditanza nei confronti dei superiori o della isti-
tuzione stessa, i mesi trascorsi a Camp Darby mi avevano consentito di
comprendere molte cose, molte ipocrisie, molte differenze fra quel che
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Singole Esperienze collettive
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L’età uniformata
gomito. Il quale mi riconobbe ma non fece domande, aveva già visto cose
simili, colleghi che scomparivano per lungo tempo per poi tornare con gra-
di diversi e con il foglio matricolare in bianco, ormai era dentro il mestiere
e pensava che anche io fossi inserito in qualcosa del genere.
Al reparto non esistevo, nel senso che c’ero ma non partecipavo alle sue
attività, dopo l’alzabandiera andavo a Camp Darby fino al pomeriggio
quando tornavo in caserma e quindi me ne andavo a casa mia, vivevo
ancora con i miei.
Fino a quando nel Gennaio del 1988 sono stato definitivamente congeda-
to dall’Esercito Italiano, dopo tre anni di una singolare carriera, dopo tre
diversi arruolamenti e tre diversi congedi.
Parlavo correttamente inglese e ancora non avevo ben compreso per chi
lavorassi o che cosa avrei dovuto fare, il congedo fu la fine di una sorta di
corso, durato ben tre anni.
è stato in questo periodo che ho potuto apprendere ed imparare a pedi-
nare, ad attivare delle contromisure di sorveglianza, ad usare le armi, gli
apparati radio, ad apprendere le tecniche e le procedure per operare in
modo diverso dal classico militare di caserma, in modo ambiguo, strano,
marginale ed emarginato, solitario.
Alla Folgore mi sono sentito un fantasma, avevo atteso tanto per farne par-
te ed ora che c’ero ero praticamente invisibile, inserito fra gli invisibili, lon-
tano dal gruppo, dalla squadra, dal plotone, dagli altri. Parte di qualcosa
di sconosciuto ai più, di qualcosa di non facilmente interpretabile e molto
difficile da spiegare, qualcosa che era definito una sorta di dispositivo del
quale nulla sapevo.
Diciannove anni erano pochi, ma come diceva mio zio Domenico, i miei po-
chi anni contenevano già molto perché avevo vissuto in quegli ultimi tre delle
esperienze importanti che avevano consentito di concretizzare le mie qualità
interne ed esterne, maturando una consapevolezza fuori dal comune.
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Singole Esperienze collettive
Per il resto del mondo ero un giovanissimo paracadutista, uno dei tanti,
anonimo e assolutamente compatibile con quell’ambiente, per altri ero un
sicuro e fidato collaboratore, come appare da alcuni rapporti informativi
della Difesa che mi riguardano. Ero felice di aver comunque raggiunto il
traguardo che mi ero prefissato, di aver superato le difficoltà e gli ostacoli,
sapevo che la Folgore era impegnata in tante operazioni non tutte cono-
sciute ed alcune riservate, sapevo dell’operazione in corso in Perù e di altre,
ero un giovane uomo pieno di energia, concentrato in particolare verso
ciò che la mia età mi stimolava, come le donne, la scoperta dei sentimenti,
della passione, l’autonomia lavorativa, l’indipendenza economica, la moto
ed i viaggi, cose da giovani.
Mi aspettavo di essere chiamato a fare quelle missioni delle quali sentivo
parlare dai colleghi più anziani e dagli americani, quelle dove sparisci per
un pò per andare in qualche zona calda, d’altronde i miei parenti mi ave-
vano consentito di comprendere la serietà del lavoro dell’ufficio ove erano
impiegati e m’immaginavo una sorta di attività del genere nel mio prossi-
mo futuro, anche se avevo dismesso l’uniforme, ma in fondo non ero così
interessato a fare la vita di caserma. Un ufficiale mi disse sarcasticamente
che ero un ottimo soldato ma un pessimo militare.
Non mi sarei mai aspettato invece quel che è accaduto nel Marzo del 1988,
quando sette carabinieri hanno suonato alla mia porta e mi hanno arresta-
to. Diciannove anni erano pochi, anche se ne dimostravo ventisette, erano
pochi per vedermi ammanettato.
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ARIA O SALETTA?
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Singole Esperienze collettive
lunghe passeggiate nei boschi, le mie nuotate in mare aperto, le mie gite in
motocicletta, i miei voli con il paracadute, durante l’espressione dei senti-
menti e della passione dell’amore.
Non ero più libero ma un detenuto contenuto dentro un contenitore di
detenuti, oggetti e non più soggetti, cose di una casa circondariale.
Dei prigionieri.
Ero e mi consideravo un prigioniero e non un detenuto, il mio essere sol-
dato non era venuto meno solo perché poche settimane prima ero stato
posto in licenza illimitata senza assegni dall’Esercito, in attesa di congedo.
I giorni passavano nel nulla più assoluto, caratterizzato dalla mia scelta di
andare in saletta o all’aria durante l’ora consentita per uscire da quei centi-
metri della cella. Niente se non la mortificazione dei toni delle guardie, le
botte che prendevo per il mio rifiuto di chiamare “superiore” le guardie stes-
se. Infatti questo era il termine con il quale pretendevano di essere appellate
altrimenti non rispondevano a nessuna richiesta, che doveva essere obbliga-
toriamente fatta per scritto attraverso il modulo detto “la domandina”, da
richiedere alla guardia tramite la manifestazione di sudditanza chiamando-
lo appunto “superiore”. Ero stato un soldato per oltre tre anni, un paraca-
dutista, assistere a uomini in uniforme che si comportavano da persecutori
mi rendeva solo rabbioso e non vittima delle loro angherie, anche laddove
prendevo le botte o quando mi portavano alle cellette per somministrarmi
una serie di trattamenti molto violenti, soprattutto psicologicamente vio-
lenti. Fortunatamente l’addestramento ricevuto e le mortificazioni vissute
durante gli anni in uniforme mi hanno consentito di affrontare quella espe-
rienza, alla quale non era possibile reagire ma solo resistere.
La minaccia costante che mi veniva fatta era quella di una relazione negati-
va o di una denuncia da parte di una guardia, che avrebbe potuto non solo
peggiorare la situazione attuale ma anche svilupparne nuove e ben peggiori
fino ad allungare la permanenza in carcere.
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Aria o saletta?
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Singole Esperienze collettive
nome stimolato dal mio stesso cognome, con tutte le sue possibili interpre-
tazioni. Non si qualificò, non disse a quale reparto apparteneva, non disse
nemmeno di essere parte di una amministrazione dello Stato, quel giorno
si limitò a guardarmi, a chiamarmi per nome e ad osservarmi. Ascoltò il
mio silenzio per una decina di minuti poi se ne andò.
Avevo deciso di non avere alcun rapporto con gli altri detenuti, nessu-
na forma di amicizia, nessun contatto oltre quelli obbligatori o necessari,
nessuna relazione. D’altronde per loro ero una sorta di sbirro e non mi
vedevano di buon occhio, capirono solo che non ero amato dalle guardie
dalle volte in cui prendevo le botte o quando tornavo dalle cellette con il
viso gonfio di “schiaffi e solette”.
La saletta era una stanza di poco più grande della cella, ma sempre troppo
piccola per contenere tutti i detenuti di quel braccio, nella quale avevamo
la possibilità di giocare a scacchi oppure di leggere qualcosa. L’aria era
semplicemente un cortile murato ove muoversi, correre in circolo come i
topi, giocare a calcio. La saletta era anche il luogo ove assemblarci durante
le perquisizioni generali, quelle grosse, fatte in ogni cella con l’ausilio dei
cani; rinchiusi in questa saletta, nudi, mentre le guardie, che non erano
le solite della sezione ma di un altro reparto, controllavano e devastavano
quel poco che avevamo nelle celle. In cella d’altronde era possibile ave-
re ben poco oltre la chiave del piccolo armadietto situato all’esterno, per
aprire il quale occorreva chiamare un “superiore” e chiedere gli oggetti per
l’uso quotidiano che vi erano riposti, il cibo comprato a caro prezzo dallo
“spesino” ed altre cose.
Qualche giorno più tardi sono stato di nuovo portato al cospetto dello
stesso uomo, il quale questa volta mi disse quel che avrei dovuto fare, cioè
la “spugna”, semplicemente la spugna. Assorbire notizie ed informazioni
e riportarle a lui o a qualche altro suo delegato. Non si qualificò, non
disse nulla altro se non le indicazioni relative ai due detenuti dai quali
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Aria o saletta?
avrei dovuto captare notizie, senza cercarle, solo assorbirle laddove sentite;
erano due uomini coinvolti in fatti di sangue, di armi e di eversione, con
omicidi sulla coscienza e senza coscienza sugli omicidi commessi in danno
di altri detenuti.
Anni dopo riconobbi quest’uomo in un ufficiale paracadutista, transitato
dalla Folgore al Sismi, indicato da una fonte qualificata, un ambasciatore,
di essere un appartenente alla Falange Armata, un operatore dell’ufficio
“K” della settima divisione del Sismi, quella di Gladio.
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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
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Singole Esperienze collettive
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In nome del popolo italiano
L’evento che fece realmente ridere tutti fu quando il giudice chiese al tran-
sessuale di riconoscermi ed indicarmi, il quale aveva la scelta di indivi-
duarmi fra me ed una ragazza di colore che mi stava accanto, non sbagliò.
Questo fatto stimolò quella mia reazione emotiva che avevo contenuto
nei lunghi mesi di prigionia.
Sono stato condannato al massimo della pena, anni tre e mesi uno di
reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, per i
reati di rapina e di armi.
Avevo già trascorso settantasette giorni in carcere e la prospettiva di pas-
sarci degli altri anni mi gelò il sangue.
Non rimasi soltanto colpito dalla condanna, per armi in special modo,
ma dalla sua entità, il massimo della pena per un diciannovenne incensu-
rato, che fino ad allora aveva fatto il militare di carriera, che nel periodo
nel quale fu consumato il presunto reato aveva compiuto diciotto anni da
pochi mesi. Soprattutto ero deluso dal fatto che non riuscii a dimostrare
che nei giorni in cui il transessuale disse che avvenne il fatto, ero alla base
americana Ederle di Vicenza.
Durante il viaggio di rientro in carcere sviluppai con l’immaginazione un
piano di fuga, avrei potuto colpire la guardia alla mia destra, disarmarla
e minacciare l’altra per togliermi i ferri, quindi evadere e raggiungere la
Francia. Purtroppo il tragitto fu più breve della mia fantasia e arrivammo
al carcere prima della fine della mia fantasiosa fuga. Ero scioccato, condan-
nato al massimo delle pena per qualcosa che non solo non avevo mai fatto,
ma che da quanto emerse al processo era evidente che non fosse mai av-
venuto. Pensai che probabilmente quella era una sorta di missione, pensai
che da fare solo la spugna sarei stato inoltrato in qualche altro carcere per
infiltrarmi in chissà quale gruppo eversivo, che la condanna per armi era
probabilmente una sorta di biglietto da visita per accreditarmi in qualche
modo verso la criminalità che avrei dovuto infiltrare. Volli pensare questo
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Singole Esperienze collettive
per non affrontare il pensiero che ero stato condannato a tre anni ed un
mese di galera, che non ero più un incensurato, che la mia fedina penale
era stata sporcata. Avevo solo diciannove anni.
Qualche ora dopo, mentre ero nella mia gabbia subendo le grida degli altri
detenuti enfatizzati dalla notizia della mia condanna, mi raggiunse una
guardia dicendomi che era giunto l’ordine di scarcerazione e che sarei stato
trasferito agli arresti domiciliari, ove rimasi per altri cinque mesi.
Il carcere è stato il contenitore della mia libertà mentre gli arresti domici-
liari furono la mia libertà contenuta.
Vedevo tutto ciò che non potevo fare, dalla semplice passeggiata alla possi-
bilità di evadere. Erano una vera tortura psicologica, ove avevo tutto rispet-
to al nulla del carcere, mangiavo, avevo i miei affetti vicino, non c’erano le
guardie a prendermi a botte, ma sono stati ben peggiori del carcere perché ai
domiciliari ero la guardia di me stesso, ero il mio principale persecutore.
Ho festeggiato i miei venti anni di età da prigioniero, fu un complean-
no triste con le candele spente. Un giorno squillò il telefono e qualcuno
dall’altra parte della cornetta mi disse che ero stato rimesso in libertà.
Nonostante la mia giovane età ed il trauma che avevo vissuto, iniziato sin
dal mio primo strano congedo del 1985 fino al giorno del mio arresto,
cercai di capire in cosa ero stato coinvolto, sforzandomi di analizzare ogni
fatto al quale avevo partecipato o che avevo potuto sapere durante la mia
permanenza nelle varie caserme italiane oppure a Camp Darby.
Dal 1985 al 1988 la mia vita è stata caratterizzata dalla carriera militare,
dalle basi americane, dai paracadutisti. In qualche modo il soggetto che
mi aveva denunciato era riconducibile a questi elementi. Era un informa-
tore dei carabinieri, il suo fidanzato come egli ha ammesso e dichiarato in
atti era un carabiniere paracadutista, che avevo conosciuto dentro Camp
Darby. La sera che lo incontrai al pub ero con due incursori che lo co-
noscevano, anch’essi presenti spesso a Camp Darby i quali assistettero al
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In nome del popolo italiano
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LEGIO PATRIA NOSTRA
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Singole Esperienze collettive
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Legio Patria Nostra
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CHECK POINT CHARLIE 1989
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Singole Esperienze collettive
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Check Point Charlie 1989
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Singole Esperienze collettive
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Check Point Charlie 1989
Platz, per dei palati che poco capirono del gusto ma che apprezzarono il
coraggio della libertà trasformato in una mangiata collettiva, la quale era
vietata e che mi costrinse a restare clandestinamente all’est perché avevo
ormai superato le ventitre, l’ora del rientro dal Check Point Charlie, da
dove passai il giorno dopo con tutta la folla senza più tanti controlli, infatti
molti occidentali approfittarono di quel momento per rientrare all’ovest
dopo essere stati clandestinamente all’est, ognuno per le proprie ragioni.
Poi la vita riprese il suo corso, con altri controlli, meno marziali ma pre-
senti, fino allo smantellamento dei settori in cui era stata divisa Berlino e
la sua progressiva ricostruzione.
Berlino è stata la città più ricostruita al mondo, che nasconde un’altra città
nel suo sottosuolo, quella città che il nazismo avrebbe voluto più grande
ed imperiale di Roma per manifestare il dominio sul mondo, dopo aver
sterminato i nemici, dopo aver distrutto la vita di milioni di persone; un
sottosuolo ancora pieno di bunker, di dedali di viuzze costruite per difen-
dersi dagli incessanti bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra
mondiale, con cucine, ospedali, caserme, uffici postali, birrerie, tutte nasco-
ste sottoterra, compreso il bunker nel quale Hitler pose fine alla sua vita.
La caduta di quel muro mi ha consentito di elaborare parte del trauma
patito con la mia prigionia, ho ritrovato il senso della libertà, la gioia della
libertà e soprattutto la capacità di crescere, di riconoscere la mia età, quella
di un ragazzo di ventuno anni, felice anche di giocare all’interno di un
lavoro serio, all’interno di fatti molto più grandi di me, nei quali ero parte,
comparsa, spettatore. Man mano che i giorni passavano iniziai a capire
che la caduta di quel muro fu troppo repentina per non rappresentare un
rischio di ulteriori crolli, come la storia poco dopo confermò.
Una sera incontrai un vecchio berlinese, che aveva bevuto molto, eravamo
seduti sui gradini delle fontane dell’Europa Palace, mi piaceva ascoltarlo,
conosceva qualche parola di italiano perché aveva combattuto sul fronte di
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Singole Esperienze collettive
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IL SORRISO DI UN PADRE CHE MUORE
Nel 1991 tornai in Italia per qualche tempo, mio padre aveva scoperto di
essere il contenitore di un terribile tumore che se lo stava mangiando ed
intendevo stargli vicino, come al resto della mia famiglia nel percorso che
dovemmo affrontare fino alla sua morte, fatto di chemioterapia, di radio-
terapia, di dolore, di medicazioni, di speranze e di delusioni, di negazione
e di realtà, fino alla fine dei suoi giorni.
Ho sempre conosciuto mio padre, che si chiamava Mario, come un uomo
attivo, impegnato nel suo lavoro, faceva il capo draga, fumava tantissi-
mo, troppo, tanto che ha nutrito il suo tumore per anni, aggiunto a tutto
l’amianto che ha inalato, toccato e respirato nel corso del suo lavoro e chis-
sà cos’altro. Vederlo in quel letto d’ospedale, con il suo pigiama celeste era
una tortura, di tanto in tanto fuggiva dalla stanza per raggiungere la vicina
piazza dei miracoli ove si mischiava coi turisti, per fumarsi le sue sigarette
in pace; era ricoverato a Pisa, faceva la cavia in pratica, ma così riceveva una
migliore assistenza, ormai si era affezionato ai suoi medici ed aveva fiducia
in loro, sarebbe stato peggio convincerlo diversamente.
Era un uomo dei suoi tempi, nato e cresciuto sotto il fascismo, costretto a
crescere in fretta dalla guerra e dalla miseria, chiuso e riservato, non espri-
meva le sue emozioni ma era capace di amore, di bontà e di quell’altruismo
che lo caratterizzava, quasi come se volesse trasmettermi le sue carezze at-
traverso gli altri, che mi parlavano di lui con dolcezza.
Ricordo che da bambino mi portava a bordo delle sue draghe, delle bet-
toline, in darsena toscana ove aveva l’attracco proprio sotto la torre del
Marzocco, all’interno di una sorta di cantiere nel quale c’erano due pastori
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Singole Esperienze collettive
tedeschi bellissimi, con cui giocavo, in attesa che papà avesse controllato
gli ormeggi e le apparecchiature di bordo. Salivo spesso sulla draga, amavo
l’odore di mare, di olio bruciato, di ferro reso rovente dal calore del sole, di
ruggine, di resine marine, di pesce.
Quando lo salutavo lasciandolo solo all’ospedale sentivo lo stomaco chiu-
dersi, non tanto per la paura di non vederlo più, ma perché sapevo bene
a cosa andava incontro, la chemioterapia, la radioterapia e tutto il resto,
con il tumore che gli stava mangiando le ossa, che sparivano letteralmente
dalle lastre, sostituite da collari, da ferri, da impalcature che trasformavano
mio padre in una sorta di cantiere umano. Era andato da poco in pensione
quando scoprì la malattia, aveva un orto che coltivava con passione e con-
tinuò a farlo fino a quando non fu costretto in ospedale, era ritornato alle
sue origini di contadino, dopo tanti anni in mare.
Ogni tanto mi sdraiavo sul letto, restavo immobile guardando il soffit-
to bianco, isolandomi dal resto del mondo, rifiutavo l’ipotesi che potesse
morire, cacciandola via con la coscienza di fuggire la realtà, per la quale
non ero ancora pronto come non lo erano mia madre e mio fratello; lui,
mio padre, lo aveva capito e manifestava il suo solito spavaldo coraggio
perché non aveva mai imparato ad avere paura nella sua vita, non che non
la provasse, non la sapeva esprimere come non riusciva ad esprimere i suoi
sentimenti, le sue emozioni; era il primo ad incoraggiare tutti noi quando
doveva affrontare delle terapie dolorose che gli marchiavano il corpo, che
mia madre curava con tutta la devozione e l’amore che aveva donato a mio
padre per tutta la vita, rinunciando a se stessa, senza farsi troppe domande,
vivendo il suo destino di moglie e di madre per come la sua cultura l’aveva
cresciuta e predisposta.
Vedere papà sdraiato sul divano di casa quando non era ricoverato in ospe-
dale era un sollievo, per quanto il colore del suo viso ed i segni nel suo
corpo non lasciavano spazio a grandi fantasie di guarigione, ma ero felice
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Il sorriso di un padre che muore
di saperlo a casa, con la famiglia, con il suo cane, Bigol, che non lo abban-
donava un attimo, che lo riscaldava con il suo corpo quando papà aveva le
crisi di freddo, sdraiandosi su di lui.
La notte che morì non feci in tempo a chiamare la mamma e mio fratello,
papà alternava momenti di coscienza con momenti nei quali dondolava la
testa da un lato all’altro dal dolore, il suo corpo era distrutto dal tumore,
non riuscivo nemmeno a potergli accarezzare la testa perché sentivo le ossa
muoversi, era tenuto insieme da una sorta di busto metallico che gli sorreg-
geva il mento per evitare che morisse soffocato, non aveva più le vertebre
cervicali, si era fatto così piccolo, così magro, così vecchio. Riprese co-
scienza e mi sorrise, gli detti da bere, togliendogli quell’orribile macchina
succhia bava, gli feci la barba e lo pulii ovunque, donandogli quella dignità
alla quale teneva tanto.
Morì poco dopo, in silenzio, sereno, forte, tanto forte da sconfiggere il do-
lore rinunciando fino all’ultimo alle smorfie della sofferenza e regalandomi
quello che nella sua vita rare volte era riuscito a fare, un sorriso, il sorriso
di un uomo che muore di fronte a suo figlio.
Questa immagine di mio padre ha cancellato in un attimo il nostro con-
flitto, la nostra difficoltà di relazionarci, le nostre difese, la nostra stupidità
per non esserci mai lasciati abbracciare, la nostra reciproca coscienza di
amarci, di essere vicini quando eravamo lontani, preoccupati uno dell’altro
in un tacito mutuale abbraccio; con quel sorriso mi ha donato la gioia del
suo ricordo che porto con me ormai da tanti anni, pronto a raccontare la
sua storia ai miei figli per tramandarne il coraggio di fronte al dolore, di
fronte alla morte che l’ha trovato vivo, anche nella coscienza che la sua vita
era giunta al termine.
Restai per alcune ore di quella notte a vegliare il corpo di mio padre, gli
legai il mento e le gambe con un drappo bianco, gli smontai quell’orribile
busto con tutti i suoi accessori, quindi chiamai mia madre e mio fratello
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Singole Esperienze collettive
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GLI ORCHI A BANGKOK
Bangkok era una caotica città fatta di caotici silenzi alternati a rumori in-
fernali dei clacson, dei motori, dei cantieri. Mi rifugiavo spesso lungo il
fiume prendendo una barca per trovare quella quiete di cui avevo bisogno.
In quella città ho imparato a riconoscere i predatori di bambini, nei suoi
quartieri ove il sesso ed il turismo si confondevano in una unica offerta. Visi
occidentali, tedeschi, danesi, italiani, australiani, americani, francesi, quin-
di espressioni orientali dei giapponesi e dei coreani, tutti intenti alla scelta
della bambina o del bambino di turno con cui fare sesso, nel modo più gra-
dito, senza regole, senza umanità, solo oggetti di piacere fatti d’infanzia.
Tutti anonimi cittadini, gente comune che avrei potuto incontrare in qual-
siasi altro luogo, nessuna espressione a tradimento della loro pulsione, del-
la loro cultura pedofilica, nulla che potesse anche marginalmente renderli
diversi da me o dagli altri.
Raggiunsi il confine con la Cambogia per incontrare i miei committenti,
per i quali condussi un lavoro, quindi mi presi qualche giorno di relax a
Pukhet, mangiando frutta fresca in compagnia di una amica americana
che avevo conosciuto da poco e che mi raggiunse, Allison, impegnata in
una nascente associazione che anni dopo divenne il punto di riferimento
della lotta allo sfruttamento dei minori nel turismo sessuale, la quale
conduceva una ricerca proprio sulla prostituzione minorile e sulla richie-
sta da parte degli occidentali di bambini molto piccoli, prepuberi, anche
sotto i sei anni di età.
Aiutarla nel suo lavoro mi ha consentito di confrontarmi con una realtà che
conoscevo ma che non riconoscevo nella sua crudeltà, ove lo sfruttamento
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Singole Esperienze collettive
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Gli orchi a Bangkok
quel mondo senza regole ove potevi acquistare una bambina di sei anni
per meno di mille dollari americani.
Mi raccontò, vantandosene, delle sue esperienze con numerose minori tai-
landesi, delle fotografie che aveva scattato e che collezionava, degli incontri
con gli altri pedofili all’interno di una sorta di club nato spontaneamente nei
bar gestiti dai tedeschi che circondavano il quartiere del sesso di Bangkok.
Diffidava dei giapponesi che egli considerava dei sadici perché era risaputo
che i gestori dei bordelli preferivano vendergli direttamente le bambine ed i
bambini ad un prezzo elevato, coscienti che erano dei “vuoti a perdere”, che
li avrebbero maltrattati a tal punto da non essere più commercialmente uti-
li. Quando l’uomo ci lasciò lo osservammo andar via con le sue prede, tre
bambine molto piccole e molto basse, tutte capelli e profumo, ancheggianti
e paradossalmente felici di essere schiave di un solo uomo.
Allison mi raccontò che ben conosceva quel mondo, che la miseria, il de-
grado e soprattutto la richiesta avevano fatto crescere l’offerta in modo
esponenziale in tutto il paese, concentrando sulle maggiori località turisti-
che numerose bambine e adolescenti provenienti sia dalla Thailandia che
dalla Cambogia, dal Laos, dal VietNam. Mi disse che una grande responsa-
bilità in quel commercio l’avevano gli americani, i quali durante la guerra
con il VietNam trovavano in Bangkok l’isola felice ove sfogare i desideri
più perversi, aggravati dalla brutalità di quella guerra, città in cui trovava-
no l’offerta di quelle piccole donne.
Il giorno dopo mi portò in un villaggio nel nord del paese, molto picco-
lo, nel quale aveva iniziato un’opera di alfabetizzazione contro le malattie
veneree, una vera piaga per moltissime ragazzine, spesso ripudiate dalla fa-
miglia e costrette a tornare alla vendita del proprio corpo per sopravvivere,
oppure al procacciamento di altre bambine per soddisfare le richieste del
proprio padrone.
Incontrai una bambina con un sorriso smagliante, un viso molto bello,
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Singole Esperienze collettive
gli occhi profondi e le labbra che sembravano disegnate, con dei modi
gentili che le donavano una energia meravigliosa, aveva tredici anni, non
ricordo più il suo nome ma ricordo bene la sua storia, venduta a soli sei
anni dalla famiglia di origine ad un uomo che disse che l’avrebbe tenuta
come tuttofare a casa propria, invece la rivendette ad un primo bordello e
da lì ad altri fino a quando Allison la incontrò in un ospedale della carità
dopo che aveva partorito il suo bambino, che morì poco dopo, almeno
così le fu detto.
Allison mi spiegò che, quel che io stesso avevo notato e di cui ero rimasto
colpito nella bambina, era esattamente quello che gli occidentali cerca-
vano, la purezza della bellezza e la gentilezza in queste bambine e più in
generale nelle ragazze tailandesi, che facevano di loro delle amanti gradite,
delle schiave rassegnate, delle puttane ricercate. Mi spiegò quanto era faci-
le camuffarne l’età trasformando in bambine quelle ragazzine più grandi,
oppure in donne quelle bambine più piccole, in base ai gusti del cliente.
Chiesi se c’erano dei controlli di Polizia ma si mise a ridere dandomi con
il suo splendido sorriso la risposta più esauriente, continuammo il giro
delle visite sia in quel villaggio che in altri per tutto il resto della giornata,
successivamente tornammo a Bangkok ove avevamo appuntamento con
Fabrizio in un bar gestito da un tedesco.
Karl era un cinquantenne proveniente da Flensburg, nel nord della Ger-
mania, viveva in Thailandia da oltre venti anni, prima era stato in Bir-
mania e prima ancora in Malesia, ove aveva lavorato per una azienda
tedesca per poi mollare tutto e raggiungere Bangkok, il paradiso, diceva
lui. Guardava Allison con sospetto, aveva capito che non era una turista
e nemmeno una donna interessata ai massaggi tailandesi, lo rassicurai di-
cendo che era la mia ragazza e che le piacevano le donne, molto giovani;
Karl rise di gusto e mi strizzò l’occhio esclamando una frase in tedesco
alla quale risposi nella stessa lingua, iniziando così una conversazione più
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Gli orchi a Bangkok
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Singole Esperienze collettive
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EX JUGOSLAVIA
Non ho mai amato molto il freddo, Zagabria in quella prima metà degli
anni novanta mi presentò una giornata di vento teso e gelido, contro il
quale la mia sciarpa si arrese subito paralizzando la mia schiena ormai resa
marmo dalla rigidità fisica; fortunatamente arrivò la donna che mi accom-
pagnò all’International Hotel Zagreb. Era l’assistente di un ex colonnello
delle forze armate britanniche che si era riciclato in un dirigente di una so-
cietà privata che offriva consulenze per la sicurezza alle varie organizzazioni
presenti su tutto il territorio della ex Jugoslavia, martoriato dal conflitto
che era iniziato tre anni prima, poco dopo la caduta del muro di Berlino.
Non sapevo bene che tipo di servizio stava prestando per l’ UNPROFOR,
la forza delle Nazioni Unite, ma sapevo che avrei dovuto incontrarlo per
programmare la mia attività da condurre all’interno dei territori fra Mo-
star e Sarajevo, nei quali le feroci battaglie fra le parti in lotta avevano già
contribuito a smaltire la generazione dei giovani croati, serbi e bosniaci, fra
cristiani, ortodossi e musulmani.
Era in corso una delle tante tregue, fragile come le altre, condizionata ora
da un colpo di mortaio contro dei civili in fila per il pane o per l’acqua, ora
da un massacro di civili compiuto dalle varie bande paramilitari formate
da mercenari, da delinquenti, da presunti leader provenienti da mere espe-
rienze di ultras da stadio, ottimi catalizzatori di criminali e di avventurieri,
capaci di uccidere ma non di combattere in quella guerra civile, nella quale
le vittime maggiori sono state appunto i civili, mietuti dall’inciviltà colpe-
vole della civile Europa, resa cieca dalla propria ignavia e sorda alle grida di
chi aveva visto quell’orrore proprio al centro di una comunità, cui la storia
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Singole Esperienze collettive
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Ex Jugoslavia
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Singole Esperienze collettive
quel poco di serbo-croato che nei mesi precedenti avevo imparato a parla-
re; una delle prime frasi che sono riuscito a dire durante il corso è stata non
mi sparate, mentre ho imparato a leggere in fretta la scritta campo minato in
caratteri cirillici. Ogni tanto vedevo l’espressione preoccupata dell’autista
quando in lontananza si affacciava un posto di blocco improvvisato, fino
a rilassarsi quando riconosceva i componenti di qualche milizia, alcuni dei
quali salivano a bordo per controllare gli occupanti, con lo sguardo truce,
da finto duro, armati fino ai denti, mi chiedevano chi fossi ed io mostravo
le tre o quattro macchine fotografiche che mi ero portato dietro, parlan-
do in francese e dicendo che desideravo incontrare quelli della Legione
Straniera che erano stati inviati come truppe dell’ONU a difesa dei civili,
quando ci riuscivano e quando qualche cecchino non ammazzava anche
loro. Sapevo che l’ONU non era molto amato, specialmente gli olandesi,
ma ero certo che proprio per la tregua in corso nessuno avrebbe rischiato
di colpire un giornalista francese, poco dopo che era stato ucciso l’ultimo
legionario. Mostravo anche una sorta di lasciapassare che nessuno avrebbe
mai letto. Solo in un caso ho temuto di fronte ad uno di questi miliziani il
quale era completamente ubriaco o drogato, giocherellava con una pistola
mentre mi chiedeva alcune cose in serbo-croato, non rispondevo e tenevo
la testa bassa in segno di sottomissione, al fine di gratificarlo sperando che
si allontanasse al più presto, così fece. Una delle procedure per evitare di
finire ammazzati da un miliziano ubriaco o arrogante è proprio quella di
dissimulare ogni capacità di reazione o di osservazione, evitando di guar-
dare il soggetto o ciò che lo circonda, immagine da scattare prima mental-
mente al momento della percezione del pericolo; evitando di rispondergli
per non dargli l’opportunità di interpretare male il contenuto della risposta
e di porre altre domande, mettendo in conto qualche spintone, qualche
cazzotto oppure un calcio; se fossi stato costretto a rispondere avrei do-
vuto farlo in modo secco e diretto con un si o con un no, senza stimolare
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Singole Esperienze collettive
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Ex Jugoslavia
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Singole Esperienze collettive
tivamente giovani, tutti e tre erano già stati nella Legione Straniera in pas-
sato, l’uomo d’interesse era di Mostar e ricopriva qualche carica all’interno
di ciò che restava della municipalità, il quale mi sorrise per non parlare mai
più fino alla destinazione finale, che fu proprio il municipio di Mostar.
Gli occhi erano attenti ma non ciechi di fronte alla bellezza di quei luoghi,
contornati dal suono del fiume, che aveva trasportato anche molti cadaveri,
la velocità delle auto non era sostenuta e potevo godere di quello spettacolo
naturale che mi appariva ad ogni curva, ad ogni tornante, ad ogni sosta.
Con gli occupanti delle altre auto ci parlavamo con i segni che avevamo
prestabilito nel breve briefing prima della partenza, fatti con le mani, con
i fazzoletti, con le frecce e con i fari, non usavamo ne radio ne radiotele-
foni, nulla di elettronico; lo sventolio di un fazzoletto fuori dal finestrino
dell’autista della prima auto significava di invertire la marcia il più velo-
cemente possibile e sganciarci dal convoglio, mentre quattro colpi di stop
consecutivi significava che era tempo di sosta, per fare il punto della situa-
zione e per verificare il riscontro di alcuni segnali lungo il percorso, in base
ai quali potevamo sapere l’indice di rischio dei prossimi chilometri.
In quella operazione si sono mosse una serie di cellule formate da uno a tre
operatori, i quali non sapevano nulla altro che il proprio perimetro d’azio-
ne, la propria missione coscienti che il rigoroso rispetto delle indicazioni
ricevute e soprattutto degli orari stabiliti significava la vita o la morte di
altri operatori. L’ex colonnello inglese che l’aveva organizzata era un esper-
to di questo tipo di esfiltrazioni, aveva scelto dei soggetti che difficilmente
si sarebbero rivisti ancora, cellule formate da team rodati, come i tre ex
legionari, oppure da singoli operatori provenienti da varie nazioni, ognuna
assolutamente indipendente ed autonoma che riferiva ad un proprio con-
tatto, diverso dal contatto di un’altra cellula.
Sentivo il vento freddo come la tramontana che mi soffiava sul collo, mi
sedetti lungo un’ansa del fiume, su una roccia per mangiare un boccone,
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Ex Jugoslavia
fra i miei compiti non c’era quello di fare sicurezza attiva, ci pensavano gli
autisti, dovevo solo raccogliere i segnali e valutarli per scegliere le opzioni
sul programma in base alla valutazione del rischio effettuata nel frattempo
da altri operatori. Provai una profonda sensazione di benessere quando
un raggio di sole raggiunse la mia faccia, chiusi gli occhi e mi lasciai
andare, il respiro del fiume scandiva il tempo mentre gli alberi filtravano
i rumori e gli odori trasportati dal vento, stavo bene ed ero sereno, ogni
tanto potevo sentire qualche colpo di artiglieria pesante in lontananza,
non avevo paura se non di qualche gruppo di sbandati che infestavano la
zona, pericolosi per quanto impauriti loro stessi d’incontrare delle truppe
regolari o peggio ancora i paramilitari.
Pensavo a come mi sarei comportato in caso di scontro a fuoco, se sarei
stato capace di sparare, di uccidere; avere un’arma rende forti, sicuri, ma
decisamente timorosi di doverla usare, in quel caso la pistola che tenevo
nella piccola borsa a tracolla avrebbe potuto far poco in caso di attacco
militare, sapevo che in tal caso avrei dovuto sganciarmi con l’uomo d’in-
teresse appena avvertiti i primi colpi, certo che gli autisti avrebbero tenuto
impegnati gli assaltatori con le loro armi e la loro capacità di tiro, questo
era una delle ipotesi per le quali avevo disseminato le razioni di emergenza
lungo il tragitto, che rappresentavano anche il segnale per la cellula di va-
lutazione del rischio del mio avvenuto passaggio.
Tutto era parte di uno studiato disegno, di cui solo coloro delegati dall’ex
colonnello inglese sapevano legare un punto ad un altro, come i giochi dei
cruciverba; disegno del quale noi eravamo solo i puntini neri. Giunsi a
Mostar relativamente tranquillo, consegnai l’uomo d’interesse ad un fran-
cese e mi sganciai, fine dell’operazione; ricevetti il mio compenso, quaran-
tamila dollari americani, contenuti in un pacchetto di banconote da venti,
cinquanta e cento dollari fasciato con la carta stagnola, tipo quella che si
usa per gli alimenti. Da quel momento avrei dovuto trovare il modo di ri-
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Singole Esperienze collettive
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Ex Jugoslavia
Hellen, si fece la pipì addosso, avrà avuto sette anni, magro come un chio-
do, era terrorizzato dalla mia presenza, mi abbassai, piegando le gambe e
raggiungendo la sua altezza, gli chiesi come si chiamasse ma non rispose,
non mi disse una parola, mi fissava con i suoi occhi grandi, blu di un ta-
glio particolare, lungo come quello dei gatti. Cercai invano di rassicurarlo,
continuava a tremare come una foglia mentre gli altri bambini lo osser-
vavano come se stessero guardano un teatrino delle marionette, scambiai
uno sguardo d’intesa con Hellen la quale nel frattempo le aveva preso in
braccio e gli cantava lentamente una sorta di ninna nanna in francese-
canadese, questo era il suo rodato metodo per calmare quel bambino, reso
muto dalla vista di qualcosa di terribile a cui aveva assistito. Hellen mi
raccontò che non hanno mai saputo chi fosse, quando fu consegnato da
qualcuno dalle parti di Pale che lo lasciò nelle mani dell’UNPROFOR
era ferito alle braccia, bruciate dal fuoco ed aveva una vistosa lacerazione
alla testa da cui gettava sangue, dopo qualche mese lo hanno inserito in
quel gruppetto gestito da Hellen, quello dei fortunati che sarebbero stati
inviati in Canada, in Germania, in Svezia ed in Italia entro breve tempo,
tutti apparentemente orfani, o meglio, non reclamati da nessuno; alcuni
dei quali avevano vissuto momenti d’orrore che gli causavano una infinita
serie di problemi fisici e psicologici, molti di loro avevano visto morire i
propri familiari, uccisi barbaramente da presunti combattenti nascosti dai
passamontagna e caratterizzati dal simbolo della tigre.
Trascorsi un paio di ore giocando con loro, sentendomi un bambino e
coinvolgendo gli altri in un gioco fatto di corse, di otto giri a testa bassa
intorno alla borsetta che avevo poggiato a terra e dei tentativi di mante-
nere l’equilibrio nel tornare velocemente al punto di partenza; mi sentivo
piccolo, mentre loro avevano perso la propria infanzia in quella guerra a
due passi dall’Europa nella quale altri bambini erano pronti ad accogliere
questi nuovi compagni nella propria classe.
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Singole Esperienze collettive
Pensai che avrei potuto riconoscere ovunque quegli occhi, quegli sguar-
di, anche quando quei bambini sarebbero diventati adulti, più di quanto
quella guerra li aveva costretti a crescere, assumendo delle espressioni da
grandi, con gli occhi attenti e furbi, oppure pieni di terrore e persi in un
progressivo autismo dal quale non tornare mai più.
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MOBY PRINCE
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ABILMENTE DIVERSI
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Singole Esperienze collettive
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Abilmente diversi
cercando di sillabare dei nomi che allora mi erano sconosciuti ma che poi
compresi essere stati quelli dei giocatori che sentiva quando lui era ancora
un bambino, una ventina di anni prima, negli anni cinquanta, prima del
manicomio.
Non mi riconobbe quando lo accolsi in piscina, era cresciuto anche lui,
aveva ancora quella espressione dolce, ebete, felice e inconsapevole che lo
rendeva un gigante buono, escluso per quelle due o tre anziane alle quali
mostrò tutta la sua fallica virilità colto evidentemente da un momento
di passione inconscia. Un mattino lo vidi arrivare con un pallone sotto il
braccio, mi guardò e disse “Fabioo....si gioaaa?”
Non mi aveva riconosciuto ma aveva solo imparato il mio nome, ho voluto
però per un attimo credere al miracolo, lo ringrazio ancora per quel mo-
mento d’infanzia che mi ha regalato.
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AL G.I.D.E.S.
Il mostro di Firenze era diventato per noi toscani un’abituale presenza, tan-
to da renderla oggetto di scherzi, cambiandone il nome, da Cicci il mostro
di Scadicci, a Nello il mostro di Orbetello e così via per quasi tutte le provin-
cie toscane, esclusa Pisa, non contemplata dai livornesi per antiche rivalità.
Pacciani ed i suoi compagni di merende rappresentano il meglio del peggio
della campagna toscana, per niente romantica e storicamente assassina,
con i loro soprannomi caratterizzanti il modo in cui erano interpretati
e vissuti dalla loro comunità, il “Torsolo”, il “Katanga”, il “Vampa” tutte
definizioni per descrivere la loro scarsa intelligenza e l’elevata tendenza alla
frequentazione di circoli, osterie varie ove incontrare altri avventori con i
quali raccontarsi storie ed avventure, il più delle volte nate dall’abbondante
uso ed abuso del buon vino toscano.
Da bambino ho avuto l’opportunità di conoscere il “Vampa”, cioè il Pac-
ciani, perché l’artigiano presso il quale lavoravo come garzone durante la
mia infanzia usava recarsi a Firenze per comprare i trincetti con i quali
intagliare le statuine segnatempo oppure l’alabastro utilizzato per costruire
dei portagioie che rivendevamo da quel carretto a pedali durante i mercati
oppure all’entrata dell’acquario di Livorno. L’ho visto solo due volte presso
il venditore di trincetti che, destino burlone, era a sua volta un parente di
un altro personaggio successivamente coinvolto nell’inchiesta infinita del
caso del cosiddetto mostro di Firenze.
Pacciani Sembrava uno come tanti altri, anonimo e caratteristico allo
stesso tempo, tozzo, basso, icona del suo vivere di campagna e di lavori
manuali.
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Singole Esperienze collettive
Molti anni più tardi raggiunsi Firenze dopo che al telefono un collega mi
chiamò per andarlo a prendere alla uscita dell’autostrada, per raggiungere
il “magnifico”, un palazzo che ospitava la Polizia di Stato. Da qualche tem-
po collaboravo con la sua struttura privata specializzata nei servizi ausiliari
di Polizia Giudiziaria, intercettazioni telefoniche ed ambientali, penetra-
zione di obiettivi, società coordinata da un ex alto ufficiale del Sismi,
il servizio segreto militare. Quando giungemmo all’ingresso c’era già un
agente che ci aspettava, il quale ci fece accedere e salimmo fino all’ufficio
del Gides, il gruppo investigativo delitti seriali, quello che indagava sui
casi del mostro di Firenze.
Avremmo dovuto controllare il fonico di una intercettazione ambientale
ed il tracciato di una localizzazione satellitare che, una volta che fummo
delegati dal giudice per le indagini preliminari, fu posta in essere nei con-
fronti di un indagato dalla Procura della Repubblica di Perugia, coadiu-
vando la polizia giudiziaria la quale stava svolgendo delle indagini relative
la morte di un medico perugino, Francesco Narducci, morto nel 1985; da
informazioni acquisite il procuratore titolare dell’inchiesta ipotizzava che
questi fosse in realtà un esponente di quel livello occulto che commissiona-
va i delitti del mostro di Firenze, ucciso per evitare che egli potesse rivelare
qualcosa. Tutta l’indagine, lunga più di trenta anni, aveva visto più volte
la presenza di qualche manina occulta riferibile alla forte ingerenza masso-
nica, a qualche servizio segreto deviato, a qualche setta satanica o esoterica
che ospitava fra i propri adepti alcuni personaggi legati a quegli ambienti
o che ricoprivano delle importanti cariche in seno alle istituzioni, la cui
identità doveva essere mantenuta segreta, anche uccidendo ogni potenziale
testimone per tutelarne la riservatezza.
Erano ormai trascorsi molti anni da quando mi ero affacciato per la prima
volta in quel mondo di consulenti privati, provenienti nella maggior parte
dei casi da esperienze specifiche in seno alle forze armate, di polizia o dei
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servizi segreti, avevo ormai una valida esperienza per riconoscere i casi e
soprattutto la correttezza delle attività rispetto alla delega ricevuta dalla
autorità giudiziaria che richiedeva la nostra consulenza per piazzare delle
microspie ambientali, per intercettare delle comunicazioni telefoniche, ra-
dio, oppure via internet, per copiare fax, posta elettronica, videochiamate
ed ogni altra forma di comunicazione tradizionale ed elettronica.
Avevo già condotto numerose operazioni, penetrando gli obiettivi d’in-
teresse della polizia giudiziaria delegata dalla Procura procedente in tutta
Italia, piazzando i sistemi captativi nelle auto, nei furgoni, nelle barche,
nelle abitazioni, ovunque fosse necessario per riuscire ad ascoltare e vedere
i soggetti sui quali erano condotte delle indagini giudiziarie a loro carico;
coadiuvando il lavoro della polizia o dei carabinieri.
Il mio collega stava operando sul software del computer utilizzato per il
localizzatore satellitare piazzato nella macchina dell’indagato, un personag-
gio pubblico, famoso per il proprio lavoro, il quale dopo poche settimane
sarà arrestato proprio dagli uomini del Gides, unità speciale che una volta
di chiamava Sam, squadra anti mostro, uno di quegli strumenti tipici del
nostro paese che risponde alle emergenze il più delle volte attivando dei
dispositivi in modo approssimativo e certamente mai rodati prima, come
nel caso dei numerosi omicidi compiuti dal mostro di Firenze, considerati
appunto una emergenza.
Uno degli agenti si avvicinò chiedendoci di aggiustare il contenuto ori-
ginale di una delle intercettazioni, guardai il mio collega e lui guardò
me, entrambi imbarazzati da quella richiesta, apparentemente illegale,
fatta da un agente di una sezione speciale di polizia, da un ufficiale di
polizia giudiziaria che conduceva una indagine delicatissima e di grande
impatto sociale. Ci furono uno scambio di commenti fra il mio collega e
l’agente, nel frattempo mi ero preoccupato di attivare il registratore che
ho sempre portato con me, proprio per documentare casi del genere e
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ca della verità fino a ridursi, nel corso dei tanti anni di indagini, in miseria
e vivere di un sussidio raccolto da alcuni poliziotti di Firenze, i quali con
spirito di solidarietà gli fornivano quel poco necessario per vivere una vita
ancora dignitosa; quest’uomo morì con il cuore rotto a pochi passi dalla
Questura di Firenze, per strada, inseguito solo dall’erario dello Stato che
pretendeva dei soldi, lo stesso Stato che non gli aveva mai reso Giustizia
per la morte della figlia. Si chiamava Renzo Rontini.
Inoltre non sopportavo l’idea che qualcuno finisse in galera sulla base di
una intercettazione manomessa o aggiustata, solo per rinforzare il castello
accusatorio; paradossalmente ero convinto che proprio una stupida azione
del genere avesse potuto inquinare una ottima indagine fino ad allora con-
dotta, basata su elementi concreti che proprio quella manomissione poteva
rendere nulli; questo è l’inquinamento delle prove in un senso o nell’altro,
ove non sai se è compiuto per avvalorare una testi investigativa o per depi-
stare e distruggere le prove acquisite fino ad allora, era questo il dubbio che
mi aveva spinto a prendere appunti.
Provavo una strana sensazione, cosciente di essere una parte marginale di
qualcosa di importante, quella più debole, la più vulnerabile; erano tra-
scorsi degli anni da quando scelsi di non aderire al carrozzone dei venduti,
di tutti quelli che sembrano forti ma che sono solo schiavi della propria
debolezza, compensata da un ruolo di potere, di cui abusano.
Ero cosciente che avrei avuto qualche rogna, in un modo o nell’altro, per
questo feci una serie di copie di quanto trafugato in quell’ufficio e di tutte
le intercettazioni condotte. Ascoltandone alcune capii lo spessore di certi
personaggi, pubblici, famosi, potenti, al contrario della leggerezza con cui
commentavano la morte di tante giovani vite, con un linguaggio ed un
gergo da caserma, capii quanta bassezza c’era in certi piani alti.
Stavo valutando come far giungere quelle notizie ed i contenuti di quanto
avevo acquisito ad una autorità giudiziaria non inquinata, come lasciare un
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MASSIMO
Avevo poco più di dodici anni quando squillò il telefono di casa, risposi
e sentii la voce di uno zio di Tarquinia, un fratello di mio padre, il quale
rimase sorpreso sentendo la mia voce, esclamando “ma allora chi è morto?”
rivolgendosi alla moglie che gli stava accanto. Passai la cornetta grigia a
mio padre, sempre restio dal rispondere al telefono, certo che fossero solo
problemi di lavoro, ormeggi rotti o draga affondata. Scoppiò a piangere,
non avevo mai visto prima di allora mio padre piangere, rimasi interdetto,
stavo quasi mettendomi a ridere quando papà si girò e disse a mia madre
“è morto Fabio”.
Fabio era il figlio della sorella gemella di mio padre, che viveva a Roma,
città natale di entrambi, era il minore di due fratelli, che qualche anno
dopo fu seguito in quello sperato aldilà anche da suo fratello maggiore,
mio cugino Massimo, morto annegato.
Fabio lo avevo visto poche volte ma ne ero affascinato, era un bellissimo
ragazzo con un fisico muscoloso, praticava anche lui lo sport della lotta
libera, amava viaggiare in giro per il mondo durante l’estate, si lanciava con
il paracadute, adorava il mare. Il padre, lo zio Domenico, era impiegato
presso l’ambasciata americana di Roma, all’interno della Defense Intelli-
gence Agency, il controspionaggio militare americano, non era un agente
segreto ma un autista degli attachè militari delle forze armate statunitensi.
Agenzia nella quale fu assunto anche Massimo dopo aver svolto il servizio
militare nei paracadutisti della Folgore, nella quale anche Fabio avrebbe
trovato spazio se la sua vita non fosse stata interrotta da una caduta dal-
la motocicletta che lo uccise, spezzandogli il collo. Era completamente
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Massimo
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Massimo
che la sua morte era stata causata da una serie di coincidenze singolari, dal
modo in cui era caduto dalla barca alla sua impossibilità di recuperare un
salvagente, fino alla velocità con cui è affogato.
Massimo era cosciente di svolgere un lavoro delicato, nel quale avrebbe po-
tuto conoscere notizie d’interesse per molti servizi d’intelligence, si lamen-
tava spesso che i suoi amici del Sismi ogni tanto gli chiedevano qualche fa-
vore, che lui negava sempre; era molto legato agli americani, era cosciente
che il benessere della sua famiglia ed il suo era dovuto proprio al lavoro che
prima il padre poi lui si erano guadagnati con la propria affidabilità, rico-
nosciuta dai più alti vertici della Difesa americana, che vollero omaggiarlo
con il picchetto d’onore durante il suo funerale, come quel soldato senza
uniforme che era, un uomo che non amava gli eserciti ma che lavorava per
l’esercito più forte del mondo.
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SPOSO
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Singole Esperienze collettive
In realtà l’unico che era un po’ teso ero io, troppo rigido, anche per colpa
di quella dannata cravatta che mi stava strozzando e per i calzini troppo
stretti che mi fermavano la circolazione delle gambe, tanto che dovetti
inventarmi un balletto per riuscire a calarli fino alle caviglie, suscitando lo
sguardo di rimprovero di mia madre, uguale alla sua mamma, meraviglio-
so esempio di purezza, di semplicità, di spontaneità tarquiniese, che tale
è rimasta nonostante i quaranta anni trascorsi da quando è emigrata con
papà a Livorno.
L’amore è una emozione strana, che nasce spontaneamente ma che neces-
sita di essere coltivata, curata. Ho sempre creduto che l’unione fra due per-
sone fosse il risultato di un incontro a metà strada di due vite autonome,
le quali ne iniziano una comune pur mantenendo la propria indipendenza
una dall’altro. L’amore è perciò libertà, completa ed incondizionata libertà,
amore per la libertà del proprio marito e della propria moglie. Una coppia
è l’essenza della libera scelta di esserlo, formata da due singoli autonomi
ed indipendenti che rendono forte l’unione della propria libertà, non resa
debole dalla incapacità di agire, delegando passivamente la propria vita
nelle mani dell’altro.
L’amore è l’energia che stimola l’azione e mai una reazione, è quella spinta
capace di saldarti alla realtà pur mantenendo la tua voglia di sognare, è un
sentimento che ti accompagna ogni istante della giornata che dedichi alla
tua vita dedicata alla famiglia, la quale si dedica al rispetto della tua libera
scelta di dedicarti a loro, mantenendo la tua serenità di farlo con gioia e
non con rassegnazione, trasferendo amore e non rancore.
L’amore è la rappresentazione della propria esistenza individuale, come
persona, come essere umano parte di un mondo immenso e disperso in
quello stesso mondo, nel quale restare uno fra i miliardi, libero di amare
per come desiderato, indipendentemente dal sesso, dalla cultura, dal pre-
giudizio, l’amore non ha una etichetta ma è un dono che si fa e si riceve,
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Sposo
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PREDATORI E PREDE
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Predatori e prede
ad esserlo, perché non sapevo, non ero preparato, non avevo strumenti se
non le mie risorse interne per interagire con quella undicenne che aveva vis-
suto quattro anni da donna, costretta ad assumere un ruolo incompatibile
con la sua età cronologica, forzata a bruciare le tappe evolutive, non solo
fisicamente ma soprattutto psicologicamente, adeguata alla gestione delle
proprie emozioni, adattata alle emozioni del suo persecutore, vinta, preda.
Periodicamente l’accompagnavo dalla neuropsichiatra infantile che la se-
guiva, anch’essa disarmata di fronte a tanta violenza emotiva, la peggiore,
perché quella fisica si supera, quella psicologica si elabora, ma quella emo-
tiva rimane distrutta come un bombardamento di guerra, completamente
da ricostruire, senza più alcun riferimento evolutivo, rimbalzante fra l’im-
magine esterna di quella bambina ed il negativo interno che sviluppava
altre immagini, di terrore, di dolore, di paura, di completo abbandono
di una bambina mai cresciuta come tale, impedita nel farlo da un adulto
armato d’infanzia, il quale non ha solo deflorato la purezza di una minore,
ma ha minorato la sua possibilità di continuare ad essere una bambina
pura, nella sua semplicità, nella sua sorpresa della scoperta della vita; che
da quel momento le sarebbe apparsa come una grande finestra, dalla quale
vedere scorrere la vita altrui nell’attesa di riconoscere la propria, isolata da
una trasparenza nella quale osservare il buio dei suoi pensieri, resi piccoli,
minorati nella loro corretta struttura e viziati dai ricordi intrusivi, dalla
memoria degli abusi, dal dolore che fino a quel momento aveva cacciato
via e che ora presentava il suo conto a quel cervello troppo piccolo per con-
tenerlo, già scisso dalla realtà e preda di quei meccanismi difensivi attivati
inconsciamente proprio per non soffrire.
Ogni sua azione, ogni movimento era sessualizzato, ogni espressione ver-
bale nascondeva l’ammiccare sessualizzante che aveva imparato ad espri-
mere per soddisfare il suo aguzzino, con il quale era cresciuta. Mi trovavo
di fronte ad una bambina di soli undici anni capace di offrire una tale
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IL CAPORALATO DELL’AMICIZIA
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interesse che si può avere durante una cena o una birra dentro un pub.
Ho catalizzato molti adepti, ex militari, ex carabinieri, ex qualcosa colmi
della propria frustrazione per essere appunto degli ex. Pieni della speranza
che allacciando l’amicizia con me avrebbero potuto trovare il mezzo per
rientrare in quel circuito professionale dal quale erano ormai degli ex, in
un reciproco utilizzo strumentale della parola amicizia. Io usavo loro come
manovalanza, loro usavano me come caporalato, in un ambiente fatto di
padroni e schiavi, raramente di persone autonome e libere di vivere una
amicizia disinteressata.
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In Libano
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FINE
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mi stava soffocando e dal calore delle fiamme che sentivo crescere alle mie
spalle. Ogni giorno temo di poter essere arrestato per aver violato qualche
segreto o per aver condotto qualche intercettazione abusiva.
Ogni giorno temo che la vita che sono riuscito a ricostruirmi possa essere
interrotta, ma sono felice di temere, perché finalmente vivo una vita nella
quale posso riconoscere di nuovo il terrore ed esprimere la mia paura senza
più il bisogno dell’adrenalina per sconfiggerla.
Posso tornare a nuotare in quel mare aperto che rappresenta la mia liber-
tà, nel quale vorrei essere sepolto, abbandonato alle onde, in cui ritrovare
il sapore di mio padre, di mio cugino, di mio suocero, delle mie lacrime;
il sapore della vita che merita di essere vissuta appieno per tutta la sua
durata fisica.
La morte è un evento inevitabile, è parte della vita, che tutti noi cerchiamo
di esorcizzare nei più svariati modi. Ho imparato ad accettarla non perché
l’ho vista in molte occasioni, ma perché non la conosco e non la voglio
conoscere fino a quando non verrà a prendermi per portarmi via con lei.
Sono sicuro però che la morte mi troverà vivo, non passivo, non rasse-
gnato, non deluso, non frustrato, semplicemente vivo e sereno con la mia
storia, nella quale ho elaborato i motivi per cui l’ho vissuta, augurandomi
di riuscire a scrivere un giorno anche la storia del mio futuro...
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Indice
Introduzione pag. 5
Inizio pag. 11
Ex Jugoslavia pag. 59
Al G.i.d.e.s. pag. 77
Massimo pag. 85
Sposo pag. 91