Sei sulla pagina 1di 19

lOMoARcPSD|21542627

Dei Delitti e Delle Pene, Beccaria, Riassunto.

Filosofia del diritto (Università di Bologna)

Studocu is not sponsored or endorsed by any college or university


Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)
lOMoARcPSD|21542627

CESARE BECCARIA – DEI DELITTI E DELLE PENE (Riassunto)


> A CHI LEGGE: le nostre leggi sono il risultato delle regole imposte dai romani,mischiate con i
riti dei Longobardi e le tradizioni che si sono accumulate in tanti secoli di storia ed i nostri
governanti le mettono in pratica come fossero leggi provenienti da Dio; ora io mi provo a fare una
critica di questo procedimento, così come ho imparato a fare sotto i miei illuminati sovrani. La
società è retta da tre tipi di principi: quelli divini, quelli naturali e quelli politici; essi sono tutti
indipendenti tra di loro e io cercherò di vedere gli errori dei principi politici, frutto degli interessi
dei vari stati. Chi vuole può obiettare apertamente alle mie critiche e cercheremo di giungere
insieme alla verità.
> INTRODUZIONE: Le leggi sono spesso nate per il bene di pochi e la sofferenza di molti e pochi
hanno avuto la fortuna di leggerle alla luce della ragione e modificarle per il bene della
maggioranza. I giudici che hanno fatto rispettare queste leggi sono caduti spesso in atrocità,
denunciate per primo dal grande Montesquieu di cui io indegnamente cerco di seguire l’esempio
nella speranza che i seguaci della ragione sappiano distinguere i miei passi dai suoi.
> ORIGINE DELLE PENE: le leggi sono nate quando gli uomini formarono le prime società e,
stanchi di vivere sempre in guerra e nell’incertezza, cercarono di garantirsi una pace duratura
rinunciando ciascuno a un po’ della propria libertà per amore della stabilità; ma poiché ci sono
sempre uomini che vogliono più di ciò che spetta loro, alcuni cominciarono ad usurpare la parte
degli altri ed allora si ebbe il bisogno di prevenire questo fatto imponendo delle punizioni ai
trasgressori delle regole allo scopo di difendere il bene universale.
>DIRITTO DI PUNIRE: ogni pena deve derivare da una assoluta necessità di difendere il bene
generale e il sovrano ha il diritto-dovere di punire chi minaccia la libertà altrui; ma agli altri sudditi
deve mantenere la libertà e ogni punizione che non derivi dalla necessità è ingiusta e presto o tardi il
popolo si ribellerà in nome della ragione che fa conoscere l’ingiustizia di leggi non destinate al bene
della moltitudine.
> CONSEGUENZE:
1. Le pene debbono essere fissate dai legislatori che rappresentano l’intera società
riunita da un contratto sociale;e nessun magistrato per eccesso di zelo più dare
punizioni che vadano oltre la misura decretata dalla legge.
2. Il sovrano che rappresenta la società non può giudicare chi ha violato le leggi ,perché la
società si dividerebbe tra chi è con il sovrano e chi nega la verità del sovrano(accusato), vi
deve perciò essere un terzo,il magistrato, che vaglia i fatti e giudica chi ha ragione
3. Le pene non debbono essere severe e crudeli perché renderebbero i sudditi una greggia di
schiavi pavidi e ciò sarebbe un venir meno alla giustizia e al contratto sociale.
> INTERPRETAZIONE DELLE LEGGI: quarta conseguenza. Al giudice non è concesso
interpretare le leggi, perché la libera interpretazione darebbe risultati diversi nei tempi e a seconda
dei giudici, invece il giudice deve solo esaminare i fatti e applicare alla lettera la legge. >
OSCURITA’ DELLE LEGGI: le leggi debbono essere scritte con chiarezza perché solo se sono
conosciute dalla moltitudine, verranno rispettate ed i crimini diminuiranno. Guardano la società
degli ultimi tre secoli in Europa si vedrà chei crimini sono diminuiti con l’aumentare della
tolleranza, del lusso e della dolcezza; la chiesa teneva nell’ignoranza e nella paura le genti del
passato e le stesse mani che toccavano Cristo si sporcavano di sangue per i loro atroci crimini fatti
in nome della giustizia e della legge. > PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE: i delitti
possono essere di diversa gravità e possono essere distinti dal più grave(quelli che offendono il bene
pubblico) al meno grave (quelli che colpiscono i privati) e dentro questi due confini debbono
rientrare tutti i crimini: il giudice non dovrà dare la pena relativa al crimine più grave a colui che ha
commesso delitti più leggero,perché l’uomo poi non eviterà di commettere i reati più gravi se il

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

prezzo da pagare è lo stesso dei meno gravi.


> ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE: La misura delle pene non deve derivare dalle
intenzioni di chi le commette, perché da buone intenzioni potrebbe nascere il maggior male per la
società come da malizia potrebbe derivare ad essa un gran bene; né si deve misurare la pena in base
all’importanza della persona offesa perché allora uno sgarbo verso dio sarebbe punibile più
dell’uccisione di un re. Si può sbagliare nel misurare le pene. > DIVISIONE DEI DELITTI: i delitti
si dividono in tre categorie: quelli che distruggono immediatamente la società o chi la rappresenta,
che sono i più dannosi e si chiamano di lesa maestà;quelli che danneggiano un solo cittadino privato
nell’onore, nei beni o nella vita che danneggiano la società ma non la distruggono;quelli che
nascono da azioni contrarie a ciò che le leggi impongono per il bene pubblico e questi sono i crimini
più diffusi e commessi anche dai giudici che in tal modo cancellano la fiducia nella giustizia del
privato cittadino. E’ questo il crimine più grave. > DELL’ONORE: il concetto dell’onore è semplice
e complesso al tempo stesso; esso è nato per sopperire alla mancanza di leggi che proteggessero
qualche particolare bene privato e si basa su un’opinione e non su una vera necessità sociale perciò
le regole di onore vengono meno nelle società libere dve le leggi rispondono a tutte le aspettative o
nelle società tiranniche dove il dispotismo annulla ogni voce privata. > DEI DUELLI: All’onore si
collega il duello che diventa il modo per farsi giustizia e non cadere nel ridicolo di fronte agli altri;
il duello perciò indica la debolezza e l’inefficacia delle leggi: Esso non era diffuso nell’antichità
perché il duello era lo sport che i gladiatori offrivano nelle arene e nessuno voleva mostrarsi al
basso livello dei gladiatori. I duelli sono più diffusi tra i nobili perché essi tengono all’opinione
altrui più di quanto faccia il popolo che non ha nulla da farsi invidiare dagli altri. > DELLA
TRANQUILLITA’ ALTRUI: tra i delitti di terzo genere ci sono quelli che turbano la pubblica
tranquillità e la quiete dei cittadini come strepiti, bagordi,pubblici mercati o arringhe che eccitano
gli animi; ora questi crimini sono controllati dal giudice ma non si corra il pericolo che il giudice
nel reprimerli tolga la libertà: per reprimerli occorrono leggi chiare; ogni cittadino deve saper ciò
che la legge gli permette di fare e ciò che gli proibisce. Leggi inefficaci aumentano l’arbitrio del
giudice e limitano la libertà del cittadino. > FINE DELLE PENE: il fine delle pene deve essere
quello di convincere il reo a non ricommettere il crimine e dissuadere gli altri da compiere le stesse
azioni illecite, perciò le pene non dovranno far soffrire il reo che tanto dalla sofferenza non potrà
azzerare il crimine, ma dovranno servire da esempio durevole ed efficace per gli altri uomini. > DEI
TESTIMONI: ogni buona legge deve avere prove e testimoni di un reato per giudicare bene. Tutti
gli uomini che abbiano capacità di giudizio possono essere testimoni, tuttavia la credibilità di un
testimonio diminuisce con la parentela o l’essere interessato al caso, perciò bisogna vedere che i
testimoni non abbiano legami con il caso e siano più di uno per smentirsi o provarsi a vicenda.
Saranno più fedeli poi le testimonianze che si basano sul racconto delle azioni, piuttosto che quelle
che riferiscono parole perché le parole sono facilmente interpretabili in modo diverso dalla verità
più del semplice svolgimento dei fatti. > INDIZI E FORME DI GIUDIZI: gli indizi per essere
fondamentali nel provare la colpevolezza di un reato debbono essere indipendenti gli uni agli altri e
non basarsi su un indizio a sua volta non certo; gli indizi possono essere di due tipi: quelli che con
certezza escludono la colpa e ne basta uno per dichiarare il reo innocente(prove perfette) quelli che
non la escludono (prove imperfette) e ce ne vogliono parecchie per fare una prova perfetta. Il
giudice deve solo accertare un fatto. Per giudicare le prove di un delitto non occorre la scienza o la
capacità di trovare rei, le prove debbono essere cercate con destrezza, presentate con chiarezza e
giudicate con semplice buon senso. Beati quei popoli che hanno leggi giuste che permettono ai rei
di essere giudicati da loro pari, perché un superiore mal giudica il reo che considera inferiore e in
caso di parità sociale la commissione giudicatrice sia a metà per il reo e metà per l’altra parte; e il
reo può far escludere dalla commissione tutti coloro che gli son sospetti così in caso di dichiarata
colpevolezza sembrerà che si sia condannato da solo. Pubblici siano i giudizi.
> ACCUSE SEGRETE: un certo costume rende gli uomini falsi e coperti,facili alla calunnia perciò
non ci si deve basare in un giudizio su accuse segrete perché chi può difendersi dalla calunnia
quando è armata dallo scudo della segretezza? Se uno stato ha bisogno di proteggersi con le accuse

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

segrete ha leggi che non lo difendono abbastanza! Disse Montesquieu che le repubbliche si basano
sulle pubbliche accuse perche il bene pubblico è il massimo interesse della repubblica, invece la
monarchia spesso deve nascondersi dietro le accuse segrete per la natura stessa di questo tipo di
governo. Comunque nelle repubbliche come nelle monarchie, sia data al calunniatore la pena che
toccherebbe all’accusato!. > DELLA TORTURA: La tortura è una crudeltà: essa costringe a
confessare la propria colpevolezza,a confessare il nome dei propri complici o a confessare altri
delitti,ma non sempre porta a confessare la verità o il vero colpevole; spesso un innocente
sottoposto a tortura confessa di essere colpevole per por fine alla tortura, perciò è più facile che un
reo forte e coraggioso si salvi con la tortura e che un innocente debole sia ingiustamente dichiarato
reo. Se poi uno è reo, può una pena fisica rimuovere una colpa morale? La confessione fatta sotto
tortura poi deve essere confermata, ma se non si conferma ciò che si è confessato ci saranno altre
torture e la cosa si ripeterà a discrezione dei giudici e ciò non a vantaggio della scoperta della verità.
Anche far fare il nome dei complici non è a vantaggio della giustizia perché i più forti e criminale
resisteranno, i più deboli inventeranno nomi per fuggire al dolore e d’altra parte quando si arresta
un reo i suoi complici scappano via e questo deve bastare per la tranquillità della società. I romani
usarono la tortura solo sugli schiavi che non consideravano persone e stati illuminati d’Europa
l’hanno abolita (Inghilterra,Svezia) perché in una società dove chi rispetta le leggi sono più di chi le
trasgredisce è più facile colpire ingiustamente un innocente che costituisce la maggioranza,piuttosto
che un reo. > DEL FISCO: Un tempo quasi tutte le pene erano pecuniarie e il giudice era per lo più
un avvocato del fisco, perciò mirava più a trovare il modo di arricchire il fisco che il modo di
arrivare alla verità. > DEI GIURAMENTI: Perché costringere gli uomini a venir meno con il
giuramento alla legge divina oltre che alla legge civile? Di fronte al pericolo di essere condannato
ogni uomo è pronto a giurare il falso per salvarsi. > PRONTEZZA DELLA PENA: Quanto più la
pena sarà vicina, tanto più sarà giusta ed utile. Giusta perché chi è innocente( e uno è innocente
finchè non sia dichiarato sicuramente colpevole) non deve essere privato della libertà che è la pena
maggiore; il carcere ad un semplice accusato sarà necessario solo se c’è pericolo di fuga o di
inquinamento di prove. Utile perché la pena deve essere vista come conseguenza della colpa, ma se
passa troppo tempo la pena restarà solo un mirabile spettacolo intimidatorio e perderà il vero
significato di effetto del crimine commesso. > VIOLENZE: ci sono delitti che sono attentati alla
persona e delitti che sono contro le sostanze: i primi debbono necessariamente pagare con pene
corpore,non si può pagare con multe un delitto alla persona quando è un grande che ha attentato a
un debole ed umile. > PENE DEI NOBILI: le pene dovute ai nobili saranno le stesse di quelle
stabilite per l’ultimo dei cittadini, anzi il pubblico danno è tanto maggiore quanto più è compiuto da
chi è favorito dalla sorte e dalla società. > FURTI: bisogna distinguere tra i furti uniti alla violenza e
quelli che non hanno comportato uso di violenza: quest’ultimi saranno puniti con pena pecuniaria,
togliendo a chi voleva togliere ad altri; il prezzo da pagare dovrebbe essere pagato con la privazione
della libertà e l’obbligo di lavorare e produrre gratuitamente per la società che è stata offesa.
Quando la colpa è stata mista,anche la pena sarà mista corporale e servile. > INFAMIA: le ingiurie
personale e contrarie all’onore debbono essere punite con l’infamia; non debbono essere date pene
corporali a quei delitti ai quali convengono il ridicolo e l’infamia > OZIOSI: chi turba la tranquillità
pubblica, chi non obbedisce alle leggi deve essere bandito; governi saggi non debbono tollerare
l’ozio pubblico, cioè quel comportamento che non contribuisce al bene della società né con il lavoro
né con la ricchezza.Chi vive dei beni degli antenati giustamente ottenuti non è politicamente ozioso;
la legge deve definire qual è l’ozio pubblico da punire. Deveessere posto al bando chi ha commesso
un atroce delitto con molta probabilità e comunque deve aver modo di dimostrare la propria
innocenza e tanto più se è forestiero e se non è mai stato incolpato. > BANDO E CONFISCHE: chi
è bandito per sempre deve essere privato dei propri beni, interamente o parzialmente? In relazione
alla gravità del reato e come una persona morta lascia i propri beni agli eredi, essendo il bandito
morto per la società, i suoi beni dovrebbero restare agli eredi che non hanno le sue stesse
colpe:Nessuna legge dovrebbe rendersi colpevole di punire un innocente; le confische fanno soffrire
i più debole ,portano alla miseria e conducono alla necessità di commettere delitti. > DELLO
SPIRITO DELLA FAMIGLIA: lo stato non deve essere l’insieme di famiglie,ma l’insieme di

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

cittadini,perciò lo spirito di famiglia deve guidare fin tanto che i giovani non possono
autonomamente sottomettersi al rispetto delle leggi: se un cittadino resta legato allo spirito di
famiglia più che al rispetto della legge farà il bene della famiglia più che il bene della società, sarà
sottomesso al padre oltre la giovinezza e una volta morto il padre sarà sottomesso al principe e non
alla legge. Nello stato illuminato i cittadini debbono essere obbedienti alla legge e legati alla
famiglia da affetto e gratitudine . Le leggi di famiglia e le leggi della repubblica sono in
contraddizione perché il cittadino deve esser aperto al bene di tutti, attivo e libero nelle scelte
mentre la famiglia lo rende egoista e sottomesso. > DOLCEZZA DELLE PENE: uno dei freni più
grandi dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma la certezza del castigo anche se moderato. I
supplizi più crudeli fanno incallire gli animi, mentre perché una pena sia efficace basta che il male
che viene dalla sua punizione sia appena maggiore del bene che può venire dal delitto stesso e la
certezza che la pena sia infallibile e produca sicuramente la perdita del bene prodotto dal delitto; fa
più paura la schiavitù perpetua che la ruota perché il dolore di un attimo seppure forte mette meno
paura di un supplizio prolungato nel tempo. La crudeltà delle pene,quindi, non serve a prevenire i
delitti . > DELLA PENA DI MORTE: in base a quale diritto lo Stato può uccidere un uomo? Il
diritto di uno stato nasce dal sacrificio di parte della libertà dei cittadini che per il bene comune
hanno fatto un patto con chi ha il compito di governarli; ma nessuno con tale patto ha rinunciato al
diritto di vivere e d’altra parte se nessun uomo ha diritto di porre fine alla propria vita, come può
attribuire questo stesso diritto allo stato?Non è quindi la pena di morte un diritto. Lo stato potrebbe
uccidere solo per necessità o per utilità,ma la morte non è né utile né necessaria se non per
difendere la libertà dello stato. Non vi è alcuna necessità invece di uccidere un cittadino, perché la
sua morte non distoglie gli altri dal commettere reati,perchè non è l’intensità della pena a far effetto
sull’animo del cittadino quanto piuttosto l’estensione di essa; non è il terribile spettacolo di un
uomo che viene ucciso,ma il lungo e stentato esempio di un uomo chiuso in una gabbia, privo di
libertà che ricompensa con la sua fatica la società che ha offeso a frenare più fortemente i delitti.
Perché una pena sia giusta deve avere quel grado di intensità che basta a rimuovere gli animi dai
delitti e la pena di schiavitù perpetua basta per frenare ogni animo scellerato più della pena di
morte; infatti molti vedono la morte come la fine delle miserie e invece la schiavitù è vista come
l’inizio di una miseria peggiore di quella da cui si vuol fuggire. Inoltre la schiavitù perpetua
spaventa più chi la vede che chi la soffre, perché chi la vede la giudica nella sua somma delle pene
mentre chi la vive considera momento per momento la sua sofferenza. Quando uno scellerato
considera la sua vita con quella comoda e ricca di altri, pensa che con un gesto coraggioso potrebbe
cambiare la propria vita e se va male soffrirà un attimo ma se va bene starà meglio per lungo tempo;
di fronte al timore di un carcere perpetuo fa un utile paragone di tutto ciò con l’incertezza dell’esito
dei suoi delitti con la brevità del tempo di cui ne godrebbe i frutti. Inoltre è assurdo pensare che si
possano punire omicidi con un altro omicidio. Felici quindi quei paesi che hanno leggi che si sono
sapute allontanare dalla tradizione ed hanno abolito ciò era sbagliato. > DELLA CATTURA: la
legge catturerà i sospetti,ma darà loro anche il tempo di dimostrare la loro innocenza e chi dovesse
esser giudicato innocente non sarà ricoperto di infamia perché è stato in carcere come indiziato. E il
luogo della pena deve essere quello del delitto: non si può processare un cittadino per un delitto
commesso in altro paese perché ha offeso quella società e non dovrà ripagare questa ma quella. Allo
stesso modo un reato seppur piccolo che è solito restar impunito se l’offeso perdona e non porta
avanti la denuncia, va contro il patto fatto dal cittadino e la società perche un cittadino può
rinunciare ad esser ripagato per la sua parte, ma non per quanto spetta all’intera società. >
PROCESSI E PRESCRIZIONI: conosciute le prove e accertato il delitto, è necessario concedere al
reo tempo e mezzi per giustificarsi, ma comunque nessun delitto deve restare impunito; perciò ci
sarà un tempo di prescrizione,stabilito dalla legge e non a discrezione del giudice, in relazione alla
gravità del reato. I reati più gravi non cadranno mai in prescrizione ed il tempo di prescrizione
diminuerà con la leggerezza del reato; quando si troveranno nuovi indizi e prove il processo potrà
riprendere finchè non finirà il tempo di prescrizione e ciò per garantire la sicurezza e la libertà, che
sono i fondamenti dello stato. > DELITTI DI PROVA DIFFICILE: vi sono poi alcuni delitti molto
diffusi ma difficili da provare;tra questi l’adulterio, la libidine e sono questi delitti che ammettono le

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

semi-prove. Ma talvolta questi delitti sono giustificabili, quando per esempio il matrimonio è
imposto per ereditari pregiudizi e per patria podesta,tanto da far accettare la galanteria di altri
innamorati. Altro delitto di prova difficile è l’infanticidio: spesso si uccide un bambino per non farlo
vivere nella miseria, per il di lui bene. Sono questi delitti morali che lo stato dovrebbe prevenire
piuttosto che punire. > SUICIDIO: come può una legge punire un suicidio? O punirebbe un morto e
la pena è inutile,o ounire un’intenzione perché il reo non s’è ancora suicidato; e d’altra parte un
suicida è come uno che lascia il proprio paese, anzi è meglio di lui perché non porta via con sé i
suoi beni ma li lascia godere alla società. Si può impedire che un cittadino se ne vada? Ognuno è
libero di andare a vivere dove vuole; lo stato potrà tutt’al più offrire benessere e comodità in modo
che nessuno scelga di andare altrove. Dunque anche il suicidio non può essere punito se non da Dio
che ha la possibilità di punire anche dopo la morte. > CONTRABBANDI: ilontrabbando è un vero
delitto che offende il sovrano e la nazione, ma la sua pena non deve essere infamante come chi
uccide o falsifica un documento, perché l’opinione pubblica non lo giudica infamante e non
diminuirebbe il sentimento di infamia per i reati che lo sono veramente. Perciò il contrabbando non
deve essere punito alla stessa manieri di altri reati più gravi e non dovrebbe richiedere il carcere ma
il solo sequestro della merce. Perché il popolo non lo giudica infame? Perche esso nasce dalle tasse
imposte dallo stato che sono troppo alte; perciò piuttosto che punire si potrebbe diminuire il
contrabbando diminuendo le tasse. Non si deve comunque lasciare impunito il contrabbando, ma
dara la giusta pene e distinguerlo con pene minori dai reati più gravi. > DEI DEBITORI: visono due
tipi di debitori: quelli che falliscono con dolo e cioè che hanno fatto il debito con astuzia e sapendo
già di non poterlo assolvere ed i falliti innocenti che cioè non hanno potuto pagare il debito per
vicende lontane dall’imprudenza o per altri accidenti. I due tipi di reati debbono essere puniti
diversamente e la intensità delle pene deve essere stabilita dalla legge e non lasciata alla discrezione
del giudice o del creditore. Lo stato comunque dovrebbe impedidire i fallimenti con maggiore
controlli dei contratti onde evitare il dolo e con aiuti ai debitori innocenti. > ASILI: è giusto il diritto
di asilo? No! Perché dentro il confine di uno stato nessuno dovrebbe sottrarsi alla legge o sostituirsi
ad essa; l’asilo è come l’impunibilità; proteggere un reo è come svincolarlo dalla punizione data
dalla legge e lasciare che qualcuno faccia leggi diverse perché ogni concessione di asilo è come
riconoscere la sovranità di qualcun altro. > DELLA TAGLIA: non è giusto nemmeno mettere la
taglia sulla testa di un ricercato perché lo stato ordinerebbe di uccidere chi vuol punire per aver
magari ucciso, e anzi ce lo pagherebbe pure| e inoltre dimostrerebbe la sua debolezza: è come
dichiarare che non riesce da solo a punire un colpevole e chiede l’aiuto di un altro. > ATTENTATI,
COMPLICI, IMPUNITA’: poiché le leggi non possono punire l’impunità ma hanno il compito di
impedire delitti, è giusto che l’attentato che è un omicidio mancato venga punito meno
dell’omicidio ma venga punito: l’importanza di prevenire un attentato autorizza la pena. Lo stesso
per i complici: essi non sono esecutori immediati ma debbono egualmente essere puniti. Qualche
tribunale offre l’impunità a quel complice che fa il nome dei suoi compagni e questo espediente ha i
suoi inconvenienti e i suoi vsntaggi:anche se in questo modo può assicurare alla giustizia veri rei,la
nazione autorizza il tradimento, il tribunale mostra di aver bisogno dell’aiuto di chi ha violato la
legge e dà l’impunità a chi l’aveva promessa. > INTERROGAZIONE SUGGESTIVE: nei tribunali
si è soliti condurre l’interrogatorio in modo frenetico suggestivo per non dar modo all’imputatp di
inventare risposte giustificanti e confessare la verità, ma questa procedura non porta sempre alla
verità e non punisce chi è veramente colpevole quanto chi è più debole e suggestionabile, come la
tortura. La legge non può permettere ciò che danneggia la verità. Tuttavia va punito chi si rifiuta di
parlare con una pena fissata dalla legge. > DI UN GENERE PARTICOLARE DI DELITTI: il
Beccaria dice di non voler parlare di un genere particolare di delitti, quelli commessi in nome della
fede, con la condanna al rogo; quei delitti giudicati con teorie filosofiche e non con leggi che
nascono dal contratto sociale e riguardano la reciproca convivenza dei cittadini in una società libera.
> FALSE IDEE DI UTILITA’: sorgente di ingiustizia ed errori sono le false idee di utilità. E’ falsa
idea di utilità per es. costringere a girare senza armi, perché in questo modo non diminuiscono come
si crede gli omicidi,ma anzi chi rispetta la legge e gira senz’armi sarà più vulnerabile e chi invece, è
scellerato e abituato a non rispettare la legge, sarà facilitato nel compiere crimini. Talvolta le leggi

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

spingono l’uomo a far del male senza trarne un bene, mentre lo stato di natura spinge l’uomo
selvaggio al danno altrui solo se ne trae un bene per sé.
> COME SI PREVENGANO I DELITTI: è maglio prevenire che punire i delitti ed a questo deve
mirare la legge di un buono stato. Come? Facendo leggi chiare, semplici, difese da tutta la nazione
con forza, leggi che favoriscano gli uomini e non le classi, che siano temute e che gli uomini
temano esse sole. In un paese libero gli uomini meditano sulle scienze, sugli interessi della nazione
e mirano a grandi cose; dove invece non ci sono leggi certe e libere si cade nel vizio, nella mollezza
di pochi e nella passiva obbedienza ed infelicità della moltitudine.
> DELLE SCIENZE: per prevenire i delitti occorre farsi guidare dai lumi; i mali che si conoscono
sono meno diffusi e i beni sono più frequenti.Non v’è uomo illuminato che non ami i patti utili al
bene pubblico e quest’amore nasce dal paragonare la piccola parte di libertà personale sacrificata al
rispetto delle leggi, con la grande somma delle libertà sacrificate dagli altri uomini per assicurare
sicurezza ad uno stato che protegge i giusti. Non è vero che le scienze sono dannose all’umanità,
che la luce è più pericolosa delle tenebre: dopo che la scienza ha rivelato gli errori del passato,
seppure suscitando incertezze, forma grandi società dove la libertà è per il bene di tutti e la vita è
migliore per la maggioranza; chiunque riflette sulla storia vi troverà una generazione intera
sacrificata alla felicità delle generazioni future nel passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce
della filosofia. Beati quei troni dove la verità siede sovrana ed in cui il progresso dapprima lento,
poi accelera e dimostrerà che la luce che illumina le menti della moltitudine non è dannosa quanto
le tenebre dell’ignoranza. L’uomo illuminato è il dono più grande per una nazione e rende il sovrano
depositario della verità e custode delle sante leggi, abituato a vedere la verità, a contemplare
l’umanità da più punti di vista e a vedere la nazione come una grande famiglia di fratelli. >
MAGISTRATI: per prevenire i delitti occorre una commissione giudicatrice che voglia rispettare le
leggi piuttosto che lasciarsi corrompere, per questo quanto maggiore è il numero dei componenti
tanto meno sarà pericolosa perché si osservano a vicenda. I sudditi abbiano timore delle leggi e non
dei magistrati e lo stato ne guadagnerà in sicurezza. > RICOMPENSE: per prevenire i delitti
occorre ricompensare la virtù: come nelle accademie dagli studiosi nascono nuove conoscenze così
da un gesto generoso del sovrano ad un virtuoso possono moltiplicarsi i virtuosi. > EDUCAZIONE:
per prevenire i delitti occorre perfezionare l’educazione per avere sudditi che sappiano distinguere il
bene, il vero, il buono e seguirlo non per paura o per ubbidienza ma per sicura convinzione. >
DELLE GRAZIE: se le pene diventano più dolci e giuste non occorreranno atti di clemenza e
grazie; la legge deve dare la sicurezza della pena al reo e dare la grazia potrebbe far pensare che chi
compie un reato può farla franca con atto di clemenza,mentre chi non ha la grazia subisce
un’ingiustizia e non la giusta punizione. Beato quel sovrano i cui provvedimenti sono rivolti al bene
generale e no frutto di interessi particolari e che non sarà mai costretto con leggi parziali e con
rimedi a cambiare le sue decisioni. > CONCLUSIONE: il Beccaria conclude dicendo che la
grandezza delle pene deve essere proporzionata alla natura dello stato: uno stato uscito da poco
dallo stato selvaggio dovrà avere pene che colpiscono gli animi induriti dei propri sudditi,poi man
mano che questi si addolciscono anche le pene dovranno essere più dolci e dovranno essere
pubbliche,pronte, necessarie, dettate dalle leggi e proporzionate ai delitti.

COMMENTO .
Capitoli 1,2,3,4,5.
Probabilmente, il merito più significativo di Beccaria è quello di aver distinto in modo netto e
inequivocabile fra peccato e reato, cosa che oggi sembra semplice affermare, mentre non lo era
affatto due secoli e mezzo fa.
L’ordine del mondo, per Beccaria, è retto da sistemi diversi – quello religioso e quello civile – che
non debbono assolutamente intersecarsi l’un l’altro: il potere politico deve interessarsi soltanto dei
reati, mai, per dir così, dell’anima del reo, territorio riservato alla religione.
Ne viene che, quando si commettono reati, per Beccaria occorrono quelli che egli definisce in modo

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

alquanto sibillino “motivi sensibili”, capaci di distogliere dalla commissione di illeciti penali, e che
altro non sono se non “le pene stabilite contro gli infrattori delle leggi”.
Beccaria spiega subito che si tratta di motivi “sensibili”, in quanto “percuotono i sensi”, vale a dire
che sono percepibili in modo diretto sulla pelle di coloro che ne siano i destinatari.
Seguendo Montesquieu, la pena è legittima soltanto se assolutamente necessaria: altrimenti è
tirannica. Beccaria parla ovviamente di diritto di punire da parte del Sovrano, evitando di fare un
passo in più, come poi avrebbe fatto Kant, il quale teorizza invece un autentico “dovere di punire”
da parte dello Stato: eppure il suo discorso avrebbe condotto di filato proprio a questo esito, vale a
dire a riconoscere come il potere sovrano stesso sia al servizio delle leggi, invece che esserne
padrone: e se ne è al servizio, il Sovrano non tanto ha il diritto di punire, quanto il dovere.
Ma Beccaria non giunge a tanto, preferendo invece sottolineare come le pene siano dovute per
giustizia e come questa debba intendersi in senso formale e giuridico, quale il vincolo capace di
tenere insieme tutti gli interessi particolari e mai in senso fattuale – quale semplice forza fisica – o
in senso teologico – ove pene e ricompense sono dispensate da Dio.
Ovviamente, l’irrogazione delle pene ha delle conseguenze importanti.
La prima è quello che oggi chiamiamo il principio di legalità: le pene possono essere stabilite
soltanto dalla legge, mai da altri, neppure dalla volontà del Sovrano. E’ certo difficile comprenderlo
in pieno, ma affermare due secoli e mezzo fa che il Sovrano non gode del potere di stabilire le pene,
doveva sembrare un atto quasi rivoluzionario.
La seconda conseguenza sta nel principio di giurisdizione e di separazione dei poteri: dal momento
che il Sovrano è parte stipulante del contratto sociale, non può egli medesimo giudicare gli imputati
dei reati – essendo ogni cittadino, anche imputato, l’altra parte stipulante dello stesso contratto – ma
occorre un soggetto terzo ed imparziale: il magistrato.
La terza conseguenza è che le pene, per non tralignare in pure e semplici sopraffazioni, non
debbono mai essere atroci, termine che Beccaria usa per significare una loro speciale carica
afflittiva.
Ma il capitolo certo più interessante è quello in cui Beccaria affronta il problema della
interpretazione della legge e della sua possibile oscurità.
E qui Beccaria si mostra fino in fondo figlio dell’illuminismo giuridico che egli ha tanto contribuito
a diffondere e dei suoi ineliminabili limiti.
Infatti, egli propone, allo scopo di esorcizzare lo spettro della pluralità delle interpretazioni possibili
della legge, che apre la porta ad ogni anarchia interpretativa, il tradizionale schema sillogistico: la
premessa maggiore sta nella legge; la minore nel fatto commesso; la conclusione nella condanna o
nella assoluzione.
Beccaria riprende qui la ben nota teoria di Montesquieu del giudice che si limita ad essere “bouche
de la lois”, vale a dire semplice cinghia di trasmissione, del tutto neutra, di una volontà che è e
rimane soltanto del Sovrano. E ciò – lo si ribadisce – per esorcizzare il pericolo delle molteplici
interpretazioni a volte confliggenti.
Ma si tratta di una costruzione irreale e perniciosa, anche se ovviamente Beccaria, immerso nella
cultura giuridica del suo tempo, non poteva immaginarlo.
Irreale, in quanto ogni magistrato, interpretando le formule della legge, non può certo diventare un
meccanismo automatizzato, ma reca con se un tesoro di conoscenze, di esperienze, di premesse che
inevitabilmente influiscono sul suo operato. Perniciosa, in quanto ignorare la realtà equivale a
divenirne schiavi.
Come ha invece mostrato a sufficienza tutta la lezione ermeneutica che a partire da Gadamer – ma
anche oltre Gadamer: si pensi a Pareyson, a Betti, a Mathieu – si è occupata del tema, ogni
interprete muove da una pre- comprensione del testo da comprendere; e il bello è che non può
evitarlo, dovendo soltanto esserne consapevole.
Il problema allora non è fare del giudice ciò che egli mai potrà essere – una sorta di macchina
automatica che, sfornando sentenze, si illuda e illuda di trasmettere fedelmente la volontà del
legislatore – ma far si che la necessaria pre- comprensione da cui egli muove sia trasparente,
conoscibile e non frutto di follia argomentativa o conoscitiva.

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

Certo, non facile, ma unica strada realisticamente percorribile Quanto poi alla oscurità dei testi di
legge e alla loro scarsa comprensibilità, meno male che Beccaria non può leggere le odierne leggi
italiane, zeppe di errori di grammatica, di contorsionismi argomentativi, di litoti, di punteggiature
approssimative: ne morrebbe di nuovo.

Capitoli 6,7,8.
Naturalmente, un principio fondamentale della razionalità giuridica, non rinunciabile, risiede nella
proporzione fra la gravità del delitto commesso e la pena prevista per lo stesso.
Si badi. Compatibilmente alla impostazione utilitaristica tipica di Beccaria, tale proporzione non
risponde ad alcuna esigenza di carattere metafisico, nel senso della sostanza essenziale delle cose,
ponendosi invece nell’ottica del tutto illuministica della necessità di opporre al peso gravitazionale
del delitto, un contrappeso di segno eguale e contrario, ma in ogni caso non eccessivo rispetto al
primo.
Beccaria, non estraneo ad una cultura matematizzante tipica del settecento, ama infatti ricorrere ad
un lessico di tipo fisicogeometrico per far meglio intendere e spiegare i propri assunti teorici: ecco
dunque l’uso del paragone con la gravitazione dei corpi. Si capisce bene la prospettiva da cui
muove Beccaria, considerando la chiusa del capitoletto in questione, laddove egli nota che se la
medesima pena fosse comminata per delitti che siano di gravità diseguale, “gli uomini non
troveranno un più forte ostacolo per commetter il maggior delitto, se con esso vi troveranno unito
un maggior vantaggio”.
Insomma, la eventuale sproporzione delle pene non tanto si profila come intrinsecamente ingiusta –
cosa che a Beccaria importava poco – quanto si palesa come inutile, anzi perfino disutile, contraria
alla compagine sociale e al suo mantenimento. Come fare allora a rendere davvero le pene
proporzionate al delitto commesso? Beccaria scarta decisamente i criteri allora più diffusi fra i
criminalisti.
Non la semplice dignità della persona offesa può costituire misura della pena: se così fosse, si
giungerebbe all’assurdo di punire con più severità, per esempio, la blasfemia, in quanto offensiva
della divinità, che non l’omicidio, offensivo della vita umana.
Non la gravità del peccato commesso, che è intrinseco per molti aspetti al delitto contestato: se così
fosse, infatti, si appiattirebbe ogni delitto sul dato strettamente teologico che invece deve rimanere
completamente escluso dalla politica penale e criminale, rispondendo ad una logica au- tonoma e
indipendente. E neppure può esserlo l’intenzione del reo: se così fosse infatti, per un verso, sarebbe
necessario disporre una legge apposita per ogni uomo, vale a dire una previsione specifica per ogni
intenzione, cosa evidentemente impossibile; per altro verso, non va ignorato – si noti qui l’attento
realismo del giurista milanese – che uomini con la più
prava delle intenzioni finirono col giovare molto alla società, mentre uomini dotati della migliore
intenzione la danneggiarono moltissimo. Unico criterio di commisurazione delle pene per Beccaria
non può essere allora che il danno “fatto alla nazione”.
Per nazione Beccaria intende naturalmente la compagine sociale. Va notato come Beccaria qui sia
stato in grado di indicare – e forse questo è un altro dei suoi più significativi meriti – il criterio del
danno prodotto quale unico criterio accettabile per mantenere la proporzione fra pene e delitti,
fondando in tal modo – ed essendone l’illustre precursore – la teoria del danno e del bene giuridico
protetto dalla norma, quale premessa culturale necessaria a tutta quella ricca dottrina che – sia in
campo penalistico che civilistico – costituisce la lezione giuridica fondamentale della nostra epoca.
Ogni giurista infatti sa bene che la giurisprudenza e la dottrina negli ultimi decenni non hanno fatto
altro che affaticarsi incessantemente alla ricerca di nuove e sempre più precise configurazioni del
danno risarcibile – in sede civilistica – e punibile – in sede penalistica, per la miglior tutela della
parte lesa: ebbene, la genesi di tanta qualità giuridica va ritrovata fra queste pagine, fra queste idee.
E’ poi ovvio che la diversa commisurazione delle pene trae seco la necessità di distinguere come
logica premessa i delitti secondo la loro gravità.
I più gravi, per Beccaria, sono quelli tradizionalmente chiamati di “lesa maestà”: sono quelli che

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

attentano direttamente alla società, avendo di mira la sua totale distruzione. Pensiamo oggi alla
strage, al terrorismo, all’attentato agli organi costituzionali dello Stato… Poi ci sono i delitti che
ledono le sfere giuridiche dei privati, i loro beni, i loro interessi, le loro legittime aspettative.
Tuttavia, l’aspetto più interessante sta nel fatto che Beccaria afferma qui senza alcuna timidezza un
vero dogma del diritto penale che oggi informa di se la legislazione di ogni autentico Stato di
diritto: è permesso ad ogni cittadino fare ciò che non è espressamente vietato.
In atre parole, Beccaria apre qui – e lo tiene ben fermo – l’ombrello della libertà e lo apre proprio al
riparo di quelle leggi di cui ha precedentemente difeso l’esistenza e la indefettibile funzione.
Nulla di più esemplare come lezione di diritto: la libertà nasce e si fonda sulle leggi, non contro o
senza di esse; e le leggi devono esser tali da far nascere e sviluppare la pianta della libertà:
altrimenti sarebbero solo espressione di tirannia.

Capitoli 9,10,11,12,13,14,15.
È giunto il momento ormai per Beccaria di scendere più nel particolare, cercando di esaminare
alcune figure particolari di comportamenti illeciti. Il primo è il caso dell’offesa recata all’onore, che
oggi diremmo piuttosto reputazione, occasionando insomma quelli che potremmo chiamare, con
terminologia moderna, i reati di opinione. Da tempo è noto che esiste una forte tendenza a
depenalizzare i reati d’opinione in Italia, che tuttavia si è scontrata – ed è risultata fino ad oggi
perdente – con l’opposta teoria che invece vuole a tutti i costi mantenerne la rilevanza penale: e da
molti forse a ragione si pensa che dietro quest’ultima opinione si possa celare un qualche interesse
personale sensibile ai risarcimenti a volte cospicui che ne possano derivare.
Beccaria non lascia di far trapelare in modo chiaro il suo fastidio per questo genere di illecito penale
ed in ciò si può forse scorgere una netta influenza della lezione di Rousseau, il cui problema
capitale filosoficamente sintetizzato, come è noto, era “far riapparire l’essere al di là dell’apparire”.
Beccaria denuncia ironicamente come purtroppo molti mettano questo onore – inteso come “i
suffragi degli uomini” quale condizione stessa della propria esistenza.
Le violazioni dell’onore danno origine ai duelli, reato fra i più odiosi, in quanto originati dalla
“anarchia delle leggi” e abituali fra gli aristocratici – e non fra la plebe – in quanto son proprio
costoro a guardarsi con “sospetto e gelosia”, i quali appunto esigono che l’offesa all’onore sia lavata
col sangue del duello. E’ appena il caso di rilevare la per nulla scontata franchezza del giurista
milanese nel denunciare i vizi della classe alla quale egli medesimo apparteneva, oltre che la
fermezza nel vedere come reato un comportamento che a metà del settecento era giudicato lecito e
perfino doveroso, quale il duello. Beccaria precorreva i tempi: e di molto.
Dal punto di vista della filosofia della pena, Beccaria si colloca nella prospettiva che oggi
chiameremmo della prevenzione speciale o anche generale, in quanto ritiene che lo scopo della
stessa sia duplice: da un lato, scoraggiare il colpevole dalla commissione di altri reati; dall’altro,
scoraggiare in genere la collettività dal commetterne.
Da ciò discende che la pena deve essere “durevole” negli animi degli uomini e la meno
“tormentosa” per il corpo. Kant avrebbe tuonato contro questa impostazione filosofica, perché
contraria all’imperativo etico categorico, sfociando nel rischio che il fine preventivo possa fare del
singolo colpevole un mezzo per impressionare gli altri soggetti della collettività, e non già – come
invece predicava il filosofo di Konigsberg – un fine in se. Ma per Beccaria – e per noi – va bene
così.
Passando poi all’esame della testimonianza, transitando cioè dal codice penale a quello di procedura
penale, Beccaria afferma un principio giuridico basilare, ma spesso dimenticato anche oggi, con
enormi danni alla amministrazione della giustizia e a coloro che ne ricevono effetti negativi spesso
irreparabili.
Egli afferma infatti che se un testimone afferma e uno nega l’accusa, questa deve ritenersi non
provata perché le testimonianze opposte si elidono reciprocamente e perché comunque deve
prevalere la presunzione di innocenza. Molti sedicenti giuristi di oggi dovrebbero leggere e
meditare queste pagine. Ancora.

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

Esaminando le prove e la logica relativa alla loro valutazione, Beccaria dovrebbe vedere fra i propri
attenti lettori anche molti giuristi della nostra epoca. Citiamo solo un esempio. Sostiene Beccaria
che se le prove di un certo fatto si sostengono fra di loro, allora quanto più numerose sono codeste
prove, tanto minore è la probabilità del fatto, perché le censure che si posson muovere alle
precedenti colpiscono anche le seguenti; e ancora che se le prove di un certo fatto dipendono da una
sola, il numero delle prove non aumenta la probabilità del fatto, perché il loro valore si risolve in
quello della sola prova da cui dipendono.
Insomma, un esempio perfetto di logica giudiziaria che sarebbe bene far studiare agli studenti di
Giurisprudenza, troppo presi purtroppo dall’informatica – vale a dire dal mezzo di comunicazione –
per preoccuparsi del diritto e della giustizia – vale a dire dei contenuti di quel mezzo, che poi son la
sola cosa che davvero conti. Terribili poi le critiche da Beccaria riservate alla delazione, vale a dire
alle accuse segrete e immuni da responsabilità. Esse infatti aprono la strada alla calunnia dalla quale
è molto difficile difendersi proprio in quanto segreta. Ne viene che nessuna accusa – neppure la più
grave – giustifica la delazione e che perciò l’accusa dovrà sempre essere pubblica, mai segreta,
indipendentemente dalla forma dello Stato e della Costituzione.
Infine al calunniatore dovrà irrogarsi la medesima pena che toccherebbe a colui che fu
ingiustamente accusato. Come si vede, una bella e concreta lezione di civiltà giuridica, che oggi
purtroppo per molti aspetti pare dimenticata.

Capitoli 16,17,18.
Siamo così giunti finalmente al tema più scottante e che più di ogni altro ha fatto discutere in
passato i criminalisti, fino a diventare un paradigma di riferimento obbligato per saggiare il tasso di
giuridicità di un ordinamento: la tortura. Beccaria si preoccupa di chiarire immediatamente con
logica inoppugnabile i termini reali del problema: o il delitto è certo oppure è incerto; se è certo, la
tortura è del tutto inutile in quanto la confessione del reo è superflua; se invece è incerto, la tortura è
indebita, in quanto sarebbe applicata ad un innocente, quale deve essere considerato l’accusato fino
alla prova definitiva e inoppugnabile della sua colpevolezza.
Non so fino a che punto ci si renda conto della preziosa posizione di Beccaria in ordine alla
presunzione di innocenza, difesa e razionalmente affermata oltre due secoli e mezzo or sono,
quando nessuno neppure ne parlava o la ipotizzava, presunzione che oggi purtroppo a volte viene
dimenticata o messa fra parentesi. Per questo, Beccaria insiste che nessuno può chiamarsi reo fino a
quando la sua colpevolezza sia accertata attraverso la sentenza del giudice. Per il giurista milanese,
nessuno dei motivi che vengono tradizionalmente offerti per giustificare la tortura – atterrire gli
uomini, purgare l’infamia ecc. – regge ad una seria critica.
A ben vedere, secondo Beccaria la tortura è equiparabile alle celebri prove legali in uso nel
medioevo, quali la prova del fuoco, quella dell’acqua bollente, insomma ai cosiddetti giudizi di Dio
e di questi soffre tutta la irrazionalità giuridica e la casualità.. . Secondo la retta ragione, la sola
differenza fra le prove barbaricamente legali e la tortura risiede nel fatto che mentre nelle prime
l’esito dipende da fattori estrinseci e del tutto eventuali, in questa l’esito dipende in buona parte
dalla volontà dell’accusato.
E’ pur vero – nota ancora il giurista – che la confessione fatta durante la tortura necessita, per essere
valida, della conferma sotto giuramento fatta in un momento successivo, ma è anche vero che,
assurdamente, in molti Stati se l’accusato non conferma quanto in precedenza dichiarato sotto
tortura, verrà di nuovo sottoposto ai tormenti ( in certi Stati solo per tre volte, in altri a discrezione
del giudice): insomma, un cane che si morde la coda, non se ne esce più.
Ma la vera argomentazione che rivela la assurdità della tortura sta nel fatto che l’innocente si trova
in una posizione di svantaggio rispetto al colpevole. Se infatti, viene torturato l’innocente, questi o
confessa – per far cessare il tormento – ciò che non ha fatto e allora sarà condannato; oppure, non
confessando, viene assolto e allora avrà patito ingiustamente una enorme sofferenza. Se invece
viene torturato il colpevole, se questi stoicamente sa resistere al dolore, verrà assolto.
Ne viene che mentre l’innocente avrà sempre perso qualcosa, il colpevole è messo in grado di
guadagnare la propria impunità. Nell’ambito di questa cornice giudiziaria, il giudice non è più un

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

terzo imparziale, ma diviene “nemico del reo”, afferma in modo preciso Beccaria, non cerca la
verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto attraverso la tortura. E qui, Beccaria alza il tono
del discorso attingendo compiutamente luoghi che oggi potremmo definire propri di una teoria
generale del processo penale.
Infatti, egli distingue fra un processo penale offensivo, dove per essere dichiarati innocenti, bisogna
prima esser detti rei, e perciò anche essere sottoposti alla tortura; e un processo penale informativo,
dove invece prevale la ricerca imparziale del fatto da chiunque commesso. In Europa, a metà del
settecento, il secondo era sconosciuto, mentre il primo era l’unico concretamente sperimentato:
oggi, usando il linguaggio dei giuristi contemporanei, diremmo che il processo inquisitorio deve
lasciar spazio a quello accusatorio.
Oggi. Ma a metà del settecento era pericoloso affermare quelle che sembrano ovvie verità.
Beccaria conclude questa sezione della sua opera, criticando l’uso di far giurare gli accusati – come
oggi avviene ancora purtroppo in America. E ciò sia per motivi pratici, perchè mai il giuramento
potrà spingere l’accusato a dichiararsi colpevole, sia che questi lo sia davvero, o anche se non lo sia;
inoltre, l’uso del giuramento mescola quei due piani che per Beccaria devono restare sempre
distinti, quello divino e quello umano.

Capitoli 19,20,21,22,23,24.
A questo punto Beccaria non evita di toccare un tasto dolente oggi più di ieri: la durata dei processi.
Egli tiene a chiarire subito che se fra il delitto commesso e la pena irrogata attraverso la sentenza
trascorre troppo tempo, allora tale pena sarà avvertita come ingiusta e il reo vi si opporrà con ogni
moto dell’anima.
Inoltre, la carcerazione preventiva va applicata in modo che essa duri il minor tempo possibile e che
sia la meno dura possibile, proprio in quanto l’accusato va ritenuto innocente fino a sentenza
definitiva.
Non si può fare a meno di rilevare come tali preziosi avvertimenti siano ancor oggi assolutamente
da ribadire e da tener presenti, per il semplice motivo che sembra che Beccaria non abbia mai scritto
queste cose.
Chiunque sa infatti che oggi la durata media di un processo penale è abnorme e che la custodia
cautelare in carcere viene adoperata con eccessiva spregiudicatezza, nonostante nei convegni e nelle
tavole rotonde si predichi il contrario. In certi casi sembra che senza il ricorso alla custodia
cautelare non si possano fare i processi: peccato poi se, come accade in questi giorni in alcuni casi
agli onori delle cronache, intervenga la Cassazione ad annullare un ordine di custodia emesso sei
mesi prima. In buona sostanza, un essere umano viene arrestato preventivamente, rimane in carcere
per sei mesi o più e poi la Cassazione gli dice che non potevano arrestarlo per mancanza dei
presupposti di legge: e Beccaria? Un illustre sconosciuto!
Questo illustre sconosciuto – che sarebbe bene oggi fosse studiato nei corsi universitari invece di
perdere tempo con emerite sciocchezze – afferma ancora che i delitti commessi con violenza contro
le persone vanno puniti con pene corporali, mentre quelli contro il patrimonio con sanzioni
pecuniarie: evidenti ed insormontabili ragioni di simmetria formale impediscono a Beccaria di
eliminare del tutto le pene corporali dal proprio orizzonte concettuale, pur limitandole a casi
estremi.
Molto interessante e testimone della libertà di pensiero di Beccaria è invece il fatto che egli critichi
aspramente la possibilità, allora vigente, secondo cui le pene inflitte ai nobili fossero diverse – e
assai meno aspre – di quelle inflitte invece al volgo. E’ noto infatti come la pena capitale inflitta ad
un plebeo fosse accompagnata sempre da atroci supplizi sia precedenti, sia contestuali: la ruota, il
taglio delle mani, il fuoco, ecc.; e basti in proposito por mente a quali atrocità furono sottoposti
Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, condannati a morte in quanto untori, e di cui narra
Manzoni nella sua celebre Storia della colonna infame.
Invece l’esecuzione dei nobili era quanto mai rapida e indolore: una semplice decapitazione che
nell’attimo in cui staccava la testa dal collo donava una morte celere e quasi inavvertita.

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

Da qui evidentemente, la grande importanza attribuita alla capacità del boia che, se adeguatamente
esercitato e competente, non doveva in alcun modo fallire il primo colpo di scure, perché, in caso
contrario, avrebbe causato al condannato intollerabili sofferenze che invece dovevano ad ogni costo
essergli evitate.
Beccaria denuncia questa disparità come una inaccettabile diseguaglianza, mentre tutti, nobili e
plebei, vanno considerati eguali davanti alla legge. E piace pensare – cosa del tutto probabile – che
quando i giacobini ghigliottinavano i nemici della rivoluzione – venticinque anni dopo la
pubblicazione dell’opera di Beccaria – indistintamente se fossero nobili o plebei, non esitando a
farlo anche per il re e la regina, avessero proprio in mente la lezione di Beccaria.
Del resto, è stato Hegel a notare – nelle Lezioni di Filosofia della storia – come il senso
fenomenologico della ghigliottina sia proprio questo: parificare davanti alla morte tutti gli uomini,
senza distinzioni di classi o di condizioni economiche. La ghigliottina insomma è la vera
espressione della raggiunta democrazia giacobina.
Sotto la lama affilatissima e cieca della ghigliottina non ci son più re o poveri diavoli, perchè essa
non distingue nessuno e tutti tratta allo stesso modo, destinandoli ad una morte rapida e pressochè
indolore. Strano che se Beccaria influenzò a tal punto i giacobini rivoluzionari, non altrettanto sia
riuscito a fare con tanti sedicenti giuristi ed esperti del nostro tempo. Ma certo non è colpa sua.

Capitoli 25,26,27.
Una delle pene abituali dell’epoca di Beccaria era il bando, che veniva irrogato a coloro che
venivano riconosciuti colpevoli di delitti dotati di particolare disvalore sociale, e che producevano
un turbamento della pubblica tranquillità.
Si trattava ad una pena simile a quella dell’esilio, tradizionale negli ordinamenti europei del diritto
comune e che, a sua volta, traeva ispirazione dall’antichissimo istituto dell’ostracismo, vale a dire
da quel referendum al quale erano chiamati i cittadini ateniesi allo scopo, appunto, di bandire dalla
città un soggetto considerato indesiderabile. Beccaria non crede alla utilità sociale del bando e,
ancor meno, a ciò che inevitabilmente ne era la conseguenza giuridica forse più penalizzante: la
confisca dei beni del soggetto bandito.
Infatti, tale confisca gli appare inaccettabile per almeno due motivazioni.
Innanzitutto, perché finisce col colpire anche soggetti diversi da quello colpito dal bando, vale a
dire il coniuge, i figli e in genere i parenti o coloro che avrebbero potuto godere di diritti sui beni
confiscati.
In secondo luogo, perché, privando costoro dei diritti ereditari sui beni confiscati, ne causa la
completa rovina, collocandoli in una situazione di tale disperazione da indurli a commettere
eventuali delitti allo scopo di sopravvivere o di vendicarsi del male ricevuto, senza che loro ne
avessero commesso alcuno.
Insomma, il bando e ancor più la conseguente confisca appaiono a Beccaria del tutto irrazionali e
perciò inutili e dannosi alla compagine sociale.
Nel tentativo poi di spiegare la cornice concettuale all’interno della quale nasce la propria
avversione alle due pene sopra menzionate, Beccaria opera una lunga digressione di carattere non
giuridico, ma sociologico o, forse, di filosofia sociale, dagli esiti tutt’altro che disprezzabili, e che
testimoniano la versatilità del suo ingegno.
In sintesi, Beccaria oppone una concezione angusta e asfittica di società – quella che la vede come
la somma di più famiglie – ad una invece ampia e liberante – quella che la vede come l’insieme di
molti esseri umani.
La differenza non è di poco conto, in quanto se si considerano quali componenti sociali in prima
istanza le famiglie, ne verrà che gli individui, prima ancora di essere parte della società, saranno
parte della famiglia e perciò saranno sottoposti prima al capo della famiglia e soltanto dopo al
potere dello Stato: una concezione familistica della società che Beccaria condanna duramente e
senza mezzi termini, quale corrosiva del legame sociale autentico e universale.
Per quanto certamente Beccaria nulla potesse sapere di mafia e di simili fenomeni sociali, la sua
analisi rimane valida ancor oggi soprattutto in relazione ai legami familistici che, nell’ottica della

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

cultura mafiosa, sono destinati sempre e in ogni caso a prevalere su quelli sociali e perfino a negarli
o a combatterli.
Beccaria insiste poi molto su una circostanza dettata dallo spirito utilitaristico a cui è improntata
tutta la sua opera: la pena produce efficacia intimidatrice maggiore non in ragione della sua
crudeltà, ma della sua certezza.
Si tratta di una considerazione che il legislatore del nostro tempo dimentica in modo che direi
perfino studiato e sistematico.
Si pensi alle numerose occasioni in cui, dopo il ripetersi di un certo delitto, il parlamento si affretta
ad aumentare la pena per esso prevista dal codice penale: Beccaria ne riderebbe sconsolato.
E avrebbe perfettamente ragione. Infatti, mai si è visto che un soggetto si astenga dal delinquere –
se ne abbia sufficiente spinta psicologica – per il timore della gravità della pena, se ragionevolmente
possa ritenere che di fatto non la sconterà mai.
Al contrario, anche una pena relativamente mite è in grado di scoraggiare il futuro delinquente, se
questi sia ragionevolmente certo che ne sarà effettivo destinatario.
Dal punto di vista della sua gravità, la pena otterrà il suo effetto – conclude il giurista milanese – sol
che “il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”; e, fedele al suo spirito matematizzante,
aggiunge che in questo eccesso di male “dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita
del bene che il delitto produrrebbe”. Il legislatore del nostro tempo ignora completamente queste
osservazioni assai calzanti e dotate di buon senso. E, forse, per indurlo a prestarvi attenzione,
bisognerebbe fermasse il suo sguardo sulla conclusione finale di Beccaria il quale sagacemente
annota: “Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico”.
Il nostro parlamento lo ignora.

Capitolo 28.
Siamo così giunti al cuore dei temi affrontati da Beccaria, al punto che potrebbe affermarsi, senza
tema di esagerare, che ogni altro argomento da lui espresso tendeva verso questo come scopo ultimo
da trattare: la pena di morte.
Gli interrogativi sulla pena di morte attraversano tutta la storia del pensiero occidentale, il quale da
sempre si è preoccupato di reperire un fondamento teorico ad una pratica che per molti secoli aveva
soddisfatto la gestione del potere politico.
Non è certo questa la sede per censire le innumerevoli posizioni che sono state al riguardo
elaborate, ma un punto fermo va comunque messo: Beccaria non propone alcun argomento teorico
o filosofico contro la pena di morte, limitandosi a respingerla per motivazioni di carattere pratico e
utilitaristico. Ciò non è senza rilievo per diverse ragioni.
Infatti, per un verso, si tratta di argomentazioni che possono essere ritenute valide da chiunque e
dovunque, fatto questo particolarmente importante se si pensa che in quel tempo non vi era Stato
ove la pena di morte fosse sconosciuta: il primo ad abolirla, come è noto, fu il Granducato di
Toscana, per mano di Leopoldo, molto influenzato proprio dalle idee di Beccaria, il 30 novembre
1786.
Per altro verso, proporre motivi legati alla non utilità della pena di morte, espelleva in modo
determinante dal dibattito ogni argomento di carattere teorico che potesse essere escogitato a favore,
restringendo in modo sensibile il territorio del confronto tra i favorevoli e i contrari. Ebbene,
Beccaria rigetta la pena di morte essenzialmente con due motivazioni, entrambe molto pratiche.
Innanzitutto, perché l’effetto deterrente che molti sostengono essa abbia, inducendo la collettività ad
astenersi dal commettere gravi delitti, si fa cogliere come inesistente.
Con fine occhio di osservatore delle dinamiche sociali e psicologiche, Beccaria infatti rileva che la
pena di morte “con la sua forza, non supplisce alla pronta dimenticanza”, e che essa “non ha mai
distolti gli uomini determinati dall’offendere la società”.
Il giurista milanese sa bene che ciò che viene più difficilmente dimenticato dagli uomini non è un
male grave e puntualmente individuato nel tempo – quale una esecuzione capitale, che appunto egli
definisce uno “spettacolo”- ma la visione di un male, pur meno lacerante, ma duraturo nel tempo,
tale da generare uno sgomento non transeunte – quale appunto una “perpetua schiavitù”, che oggi

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

diremmo ergastolo ( il quale, non a caso, va abolito oggi proprio in quanto rappresenta una sorta di
pena di morte diluita nel tempo).
La pena di morte non gode allora in punto di fatto di una reale forza deterrente verso la collettività,
non mostra alcuna utilità. Da un secondo punto di vista, Beccaria ritiene assurdo in chiave
psicologica e sociale che le stesse leggi dello Strato che puniscono l’omicidio, ne possano poi
ordinare un altro allo scopo di sanzionare il primo.
Anche da questa prospettiva, la pena di morte mostra tutta la sua inconcludenza e la sua inutilità.
Infatti, si palesa del tutto inutile tentare di scoraggiare i sudditi dal commettere gravi reati,
utilizzando leggi che, per punirli, legalizzassero proprio il comportamento punito.
Si tratta di una insanabile contraddizione che Beccaria non manca di denunciare non tanto in sede
teorica, ma di pratica utilità, allo scopo di far intendere ai governanti come sia impossibile proporre
un simile schema di pseudo- ragionamento, destinato a fallire in partenza appunto perché
autocontraddittorio.
Come si è detto, queste idee dilagarono in Europa e, poco alla volta, tutti gli Stati, anche se a volte
con grande lentezza, si risolsero ad abolire la pena di morte. Beccaria, da uomo esperto del mondo,
sapeva bene quanta fatica ci sarebbe voluta per giungere a tale esito e, ricorrendo ad una immagine
perfino poetica, scrive che “la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i
quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano”.
Egli non si faceva illusioni e sapeva quante resistenze si sarebbero incontrate lungo la via
dell’abolizione delle esecuzioni capitali. Oggi, se essere europei espone a tante critiche e
stigmatizza tante incapacità politiche, tuttavia giustifica un orgoglio: l’Europa è l’unico continente
in cui tutti gli Stati – nessuno escluso – hanno abolito la pena di morte.
Questa si chiama civiltà: e la dobbiamo a Beccaria.

Capitoli 29,30,31.
Come era naturale, Beccaria non manca poi di occuparsi di aspetti rilevanti della politica criminale
non solo del suoi tempo, ma di ogni tempo, compreso il nostro. Così, il primo problema che il
giurista milanese si pone è quello della cattura degli accusati dei delitti. E di una cosa egli è
assolutamente certo. Il magistrato non può mai e in nessun caso esser designato arbitro dei casi e
delle modalità della carcerazione preventiva di un accusato, dovendo invece essere le leggi a
determinare come e quando questo possa legittimamente avvenire.
In altre parole, Beccaria ritiene che la discrezionalità dei giudici nell’ambito della cattura preventiva
dell’accusato debba esser ridotta a zero, dovendosi invece rimettere alle leggi ogni indicazione al
riguardo. Ora, abbiamo già visto prima che l’idea che il giudice possa farsi semplice cinghia di
trasmissione fra la legge e il fatto da giudicare sia improponibile, anche se Beccaria la ripropone
ogni volta con forza, fedele all’insegnamento illuminista del suo tempo: ciò non potrà mai accadere
per il semplice motivo che il giudice è un essere umano e, come tale, portatore di una visione del
mondo specifica che mai potrà essere messa nel nulla.
Tuttavia, l’insistenza di Beccaria in tal senso può rivestire comunque il carattere di una preziosa
indicazione utilissima per il nostro tempo, il tempo che vede purtroppo il protagonismo di diversi
magistrati far aggio sulle legittime pretese della legge.
Anche oggi i giudici – se leggessero le pagine di Beccaria – dovrebbero cercare di limitare al
massimo la propria libertà interpretativa, che a volte sfocia nella incomprensibilità dell’arbitrio, per
prestare maggiore ascolto alle indicazioni della legge, come risultano dai testi scritti in lingua
italiana: insomma, anche alle interpretazioni c’è un limite e questo non va impunemente valicato.
A margine – per modo di dire – Beccaria lamenta poi che nel suo tempo nonostante l’accusato
possa essere stato assolto da ogni addebito, ciononostante, porti seco una nota “d’infamia”. Lezione
molto utile per il nostro tempo, un tempo in cui non basta essere assolti con formula piena per
vedersi restituita quella credibilità sociale di cui si era stati ingiustamente spogliati.
Ne sanno qualcosa coloro – e non son pochi – che dopo anni di calvario, sono stati riconosciuti del
tutto estranei ai fatti contestati, ma che non hanno potuto pubblicizzare l’esito positivo con la stessa
forza e capillare diffusione con cui invece fu pubblicizzato il loro arresto o la loro messa in stato

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

d’accusa. Altro tema oggi scottante è quello della prescrizione dei delitti, ma Beccaria lo affronta
con la serenità intellettuale che ne dimostra la libertà da ogni asservimento ideologico.
Egli suddividendo i delitti in due grandi categorie – quelli più gravi che attaccano la vita e la
incolumità e quelli meno gravi che attaccano i beni – difende una prescrizione più lunga per i primi
e una più breve per i secondi. Non gli passa neppure per la testa di eliminarla del tutto o di ridurla
drasticamente, come invece oggi alcuni Soloni del diritto italiano vorrebbero. Infine, in relazione a
particolari delitti considerati di difficile dimostrabilità – quali l’adulterio o l’infanticidio – Beccaria
sostiene giustamente che primo onere delle leggi non è punire chi commetta reati, ma cercare di
prevenirne la commissione, attraverso un’opera attenta di politica sociale.
Quale politica sociale abbiamo oggi in Italia, ammesso ce ne sia una, lasciamo ai commentatori
odierni delle vicende politiche individuare. Insomma, da molti versanti, Beccaria parla non soltanto
ai suoi contemporanei, ma anche a noi, lanciandoci come un guanto di sfida che sta a noi
raccogliere. Il fatto è che in Italia nessuno lo raccoglie, probabilmente perché chi di ragione sa che
con Beccaria sarebbe una sfida perduta in partenza. E perciò finge di non sentire e di non sapere.

Capitoli 32,33.
Non sembri strano che Beccaria si soffermi anche sul tema del suicidio. Infatti, esso ha sempre
interrogato in modo sottile e inquietante la coscienza del giurista, fino a propiziare una vera
congerie di opinioni spesso in contrasto fra di loro.
E ciò anche dal punto di vista sanzionatorio, cosa che può appunto apparire strana ai nostri occhi, se
si pensa che Platone già proponeva che al cadavere di suicida fosse tagliata la mano e che questa
fosse seppellita lontano dal corpo ( tipo di sanzione simbolica). Invece, per San Tommaso, chi si
toglie la vita uccide pur sempre un uomo e perciò merita una sanzione di un qualche tipo.
Ovviamente, si pone un problema ulteriore per il tentato suicidio: qui, in astratto, si potrebbe
sottoporre a pena il soggetto che abbia tentato di suicidarsi – senza riuscirvi – ma rimane il fatto che
l’astratta comminatoria di una sanzione avrebbe l’esito di indurre il soggetto a meglio predisporre i
comportamenti autolesionisti, per timore di incorrere nella sanzione in caso di insuccesso.
Nessuno in realtà ha mai dubitato – nella storia dell’Occidente – che il suicidio sia un atto illecito,
tranne qualche corrente della filosofia stoica o del libertarismo anglosassone; si tratta di capire se e
come possa essere sanzionato. In certi casi la sanzione cadeva sui familiari sopravvissuti, attraverso
sanzioni civili che incidevano sulla capacità di accedere all’eredità del suicida.
Ebbene, Beccaria rigetta questa possibilità, in quanto la sanzione cadrebbe su persone diverse dal
suicida e soprattutto – e qui rifulge la sua mentalità tipicamente utilitaristica perché una tale
prospettiva sanzionatoria non sarebbe assolutamente in grado di fermare in tempo la mano di chi
voglia usare violenza su se stesso.
Da notare come anche in questo caso Beccaria metta in campo considerazioni di taglio strettamente
utilitaristico, rifuggendo da ogni osservazione di tipo sostanziale, che afferisca cioè all’essenza del
fenomeno.
Non a caso, egli evita argomentazioni di quest’ultimo genere, dal momento che sa bene come esse
in passato abbiano condotto a contrapposizioni sterili e infruttuose, tali da non condurre ad alcun
esito condiviso o condivisibile.
Una particolare clemenza Beccaria mostra poi per il reato di contrabbando il quale, se pur dannoso
per le patrie finanze, non viene quasi mai percepito dai suoi autori nella sua reale consistenza:
perciò, per il giurista milanese, le pene per costoro debbono essere diverse da quelle previste per i
ladri o addirittura per i sicari.
Qui Beccaria ripropone la sua netta avversione per i delitti che attentano direttamente alla
incolumità personale o a quella dei beni privati, rispetto a quelli che attentano alle casse dello Stato,
ma non si tratta di insensibilità per i beni pubblici: si tratta di effettiva ed immediata lesività dei
comportamenti.

Capitoli 34,35,36,37.
Dove Beccaria si mostra davvero innovatore è nel campo dei reati che oggi chiameremmo di tipo

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

fallimentare, derivanti cioè dall’attività commerciale di un certo soggetto. Beccaria infatti distingue
fra il fallito colpevole e quello innocente, vale a dire fra quello che dolosamente abbia frodato i
creditori nell’ambito della propria attività e quello che invece sia stato vittima incolpevole di
circostanze avverse che ne hanno cagionato l’insolvenza.
Il primo va punito in modo proporzionato alla gravità dei fatti commessi, mentre il secondo va
invece perfino aiutato dallo Stato, proprio in quanto del tutto incolpevole. Oggi ci sembra la
scoperta dell’acqua calda, ma se si pensa che Beccaria scriveva queste cose e diffondeva queste idee
oltre due secoli e mezzo fa – quando ancora il debitore veniva incarcerato – allora non sarà difficile
comprendere la portata davvero rivoluzionaria delle sue pagine.
Del tutto contrario è poi Beccaria alla imposizione di taglie, che oggi stranamente tornano a far
capolino di tanto in tanto per iniziativa di qualche associazione privata, allo scopo di scoprire i
colpevoli di reati commessi contro un qualche socio. Il giurista milanese osserva che tale tipo di
iniziativa è sommamente inutile, in quanto “in vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento”,
poiché induce al tradimento, armando la mano dei cittadini contro altri cittadini e mentre punisce un
reato, un altro ne propizia.
Insomma, una prassi nefasta che produce più danni di quanti vorrebbe evitarne. E finalmente
Beccaria tocca il tema della impunità che alcuni Tribunali offrono al complice di un grave delitto
che farà il nome dei suoi sodali: oggi diremmo il tema del pentitismo. Ora, pur in presenza di
indubitabili vantaggi ( scoprire gli autori di gravi reati e prevenirne altri), Beccaria sostiene che gli
svantaggi siano di gran lunga più significativi: infatti, sollecitare la delazione, pur fra scellerati,
significa da un lato autorizzare il tradimento e, dall’altro, manifestare la debolezza della legge, “che
implora l’aiuto di chi l’offende”.
Questa posizione dovrebbe essere meditata da quanti – ed oggi non sono pochi – con eccessiva
superficialità e spregiudicatezza intendono sempre e comunque far ricorso allo strumento della
delazione legalizzata, come si trattasse di una innocente strategia di politica criminale. Beccaria non
riesce proprio a tollerare questa impostazione, nonostante sembri quasi che faccia di tutto per
autoconvincersi in senso contrario.
Ecco perchè così egli conclude sul punto: “Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso
che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della
morale umana, al tradimento e alla dissimulazione”. Beccaria si pone qui degli interrogativi che non
sono esclusivamente di carattere etico, ma anche di carattere giuridico, interrogativi che invece i
giuristi di oggi in Italia fingono di non conoscere neppure e per i quali non mostrano comunque
alcuna sensibilità.
Di fatto oggi in Italia nessuno si pone queste domande. Eppure, qualcuno dovrebbe porsele, se non
altro perché esse hanno un senso compiuto. Il pentitismo viene di solito difeso con il tipico
ragionamento del fine che giustifica i mezzi, di sapore machiavellico. Ora, a parte che un tale
concetto non fu mai espresso dal segretario fiorentino, rimane che si tratta di un ragionamento
assurdo: si sa quanto lo criticasse Hegel, il quale chiariva che il fine non giustifica mai i mezzi, ma
li specifica soltanto. Si prega perciò i Soloni di casa nostra di non usare più questo argomento che è
semplicemente inesistente.

Capitoli 38,39,40,41.
L’etimo di “suggestivo” ci dice che tale aggettivo proviene dal verbo “suggerire”: ecco perché i
nostri codici di procedura proibiscono di porre al testimone delle domande suggestive, vale a dire
tali da indicare implicitamente, cioè da suggerire, la risposta che si attende di ricevere.
Al tempo di Beccaria valeva la medesima regola, perfino ovvia allo scopo di non influenzare le
deposizioni dei testimoni in un senso o nell’altro.
Sia detto fra parentesi, tale divieto non vale solo per le parti – cioè il pubblico ministero e il
difensore – ma vale anche per il giudice, il quale, nel porre una domanda al teste, non può certo
suggerire implicitamente la risposta che da lui si attende: la nostra giurisprudenza sul punto arranca,
stentando ad ammettere questa lampante verità, quasi che il giudice, per sue misteriose virtù, possa
sottrarsi alle normali leggi della razionalità giuridica, e spingersi lecitamente a suggerire al teste la

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

risposta alla propria domanda.


Ma la cosa davvero interessante è che Beccaria trae spunto da questa regola procedurale, per tornare
a scagliarsi contro la tortura con un argomento ineccepibile.
Infatti, egli stigmatizza un ordinamento giuridico che da un lato proibisce le domande suggestive,
mentre dall’altro autorizza la tortura: cosa più “suggestivo” del dolore fisico insopportabile?
Ecco la stridente contraddizione degli ordinamenti del suo tempo, che egli non manca di rilevare e
di censurare.
Beccaria non giunge però ad ammettere che l’accusato possa rifiutarsi di rispondere, come invece
garantito nei codici di procedura penale dei moderni Stati di diritto, con l’istituzione del “diritto al
silenzio” dell’imputato, limitandosi egli a rilevare che nessuna pena ulteriore va all’accusato
irrogata nel caso in cui le domande postegli siano inutili, in quanto certa la sua colpevolezza.
Anche qui dunque, dominante, la prospettiva utilitaristica.
Tace invece, e a ragione, Beccaria su delitti che davano luogo alla pena del rogo; e ne tace perché
non di delitti si trattava, ma di peccati e, come è noto, egli distingue nettamente e separa i primi dai
secondi, questi ultimi dovendosi lasciare alla competenza di altra autorità.
Ma siccome abbiamo visto più volte che Beccaria non tradisce la propria ispirazione utilitarista, non
poteva mancare un accenno a quelle che chiama “false idee di utilità”.
Tali sono le leggi che sacrificano vantaggi reali a favore di inconvenienti puramente immaginari,
quelle che toglierebbero agli uomini “il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega”.
Con un pizzico di umorismo che non guasta, Beccaria rende benissimo la sua idea, che forse oggi
potremmo definire, forzando un po’, antiproibizionista.
Così, Beccaria si dichiara contrario alle leggi che proibiscono di portare armi, in quanto esse
disarmeranno soltanto coloro che non sono “inclinati” a portarle, mentre i veri delinquenti che si
avvalgono delle armi come normale strumento delle loro malefatte non si lasceranno certamente
scoraggiare da una legge che punisce il porto dell’arma, se questa serve per commettere i ben più
gravi delitti ai quali si son già preparati.
Massima e certa utilità sta dunque, per Beccaria, più che nel punire i delitti, nel prevenirli.
Il modo più sicuro per il giurista milanese sta nel fare leggi “chiare e semplici”, tali da poter essere
da tutti intese e seguite.
Ora, a parte il limite del razionalismo illuminista, di cui anche Beccaria partecipava, in forza del
quale basterebbe conoscere la verità delle cose, per seguirla ( cosa che non è, perché non sempre la
volontà segue la ragione: e basti citare in proposito un celebre distico di Terenzio: “video bona
proboque, deteriora sequor”), rimane il fatto incontestabile che in un sistema di leggi scritte, quale il
nostro, o esse sono chiare e comprensibili oppure sono inutili.
Basti por mente alla situazione italiana di oggi, dove un esasperante ed intricatissimo groviglio di
norme e precetti che si rincorrono, si sovrappongono, si escludono vicendevolmente, si presenta
come un vero rompicapo per il giurista.
E da qui naturalmente una pluralità di interpretazioni, di rimandi, di conflitti: insomma, la
incertezza del diritto elevata a fisiologico canone interpretativo.
Beccaria ne sarebbe inorridito, bollando buona parte delle nostre leggi vigenti con l’infamante
marchio della inutilità.

Capitoli, 42,43,44,45,46,47.
Siamo così giunti, dopo questa veloce cavalcata, alla conclusione della fatica di Beccaria e questi ne
approfitta per ribadire alcuni concetti già espressi, ma che egli ritiene particolarmente rilevanti e
significativi del suo pensiero. Insiste così sulla necessità della diffusione del sapere e, sulle tracce
di Rousseau, della educazione dei cittadini, certo che quando entrambi saranno consolidati, i delitti
saranno quasi depennati dai comportamenti sociali. Ora, che il sapere e la educazione civica
debbano essere diffusi e a tutti garantiti è cosa di cui nessuno dubita, ma, come già in precedenza
accennato, possiamo esser certi che ciò non basterà affatto a debellare la commissione di delitti.
Ribadisco qui che dunque Beccaria, oltre i suoi enormi meriti, incappa nel limite proprio della
formazione illuministica del suo tempo, consistente in una sorta di endemico socratismo

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)


lOMoARcPSD|21542627

giuridicosociale, tanto più fragile quanto più autentico. Come è noto, per Socrate, la conoscenza
della virtù è la strada maestra per seguirla, tutto risolvendosi appunto nella necessità di vincere
l’ignoranza che affligge l’animo umano. Non è così, come l’esperienza insegna. In moltissimi casi,
non basta conoscere la virtù – morale o sociale – per seguirne le tracce senza esitazioni.
Occorre invece, dopo averla conosciuta, volerla seguire in modo deliberato e consapevole. Il
razionalismo socratico – che poi è quello medesimo di Beccaria – incorre infatti proprio in questo
limite insuperabile: mettere in primo piano la ragione, ma senza far i conti, come invece sembra
necessario, con la volontà degli uomini.
Se fosse come sostiene Beccaria, basterebbe un’opera massiccia di scolarizzazione sociale per
debellare i delitti. Ebbene, in Italia, nel dopoguerra, la percentuale di analfabeti, si è pressochè
azzerata, ma non sembra che i delitti siano diminuiti in modo considerevole; anzi, negli ultimi
decenni, essi sono lievitati di numero e di gravità in modo esponenziale. In altri termini, non basta
conoscere la virtù per fare il bene ed evitare il male: bisogna esercitarsi con la volontà, usando
rettamente di questa nei casi specifici e concreti.
Va da se che in un modello sociale come quello auspicato da Beccaria – dove al massimo sapere
corrisponde la quasi scomparsa dei delitti – il potere che normalmente viene riconosciuto quale
prerogativa della sovranità, quello di concedere la grazia, va debitamente escluso. Infatti, egli
definisce “felice” la nazione ove la clemenza e il perdono del sovrano divenissero non solo meno
necessari, ma addirittura funesti. Ora, in un modello ideale ciò può anche essere, a patto però che si
abbia consapevolezza che appunto si tratti di un modello ideale e non reale. Molto meno
convincente è tale conclusione, se ci si pone davanti alla cruda realtà dei rapporti sociali e dei
comportamenti umani.
Allora, si vedrà che del potere di concedere la grazia da parte del sovrano nessun ordinamento reale
potrà mai fare a meno, per il semplice motivo che mai è possibile rinunciare alla correzione del
diritto e della sentenza, mai alla possibilità di rovesciare un verdetto, mai a quella di rimediare ad
un errore, mai insomma a quello che Radbruch definiva come “un raggio di luce che penetra nel
freddo ed oscuro mondo del diritto”.
Preziosa è infine la sintesi finale con cui, prendendo congedo dai lettori, Beccaria ripropone le
caratteristiche che la pena deve possedere per non essere tirannica. La pena deve dunque essere
pubblica, perché tutti le possano conoscere e valutare; pronta, perchè l’eccessivo trascorrere del
tempo dopo la commissione del delitto non ne vanifichi il significato e la portata; necessaria, perché
essa non sembri frutto di arbitrio e di dispotismo; minima, perché tutti vedano che di essa non si
abusa, ma si usa con la necessaria moderazione; proporzionata, perché, se non lo fosse, la pena
medesima commetterebbe grave ingiustizia; dettata dalle leggi, perché non sembri stabilita dai
singoli magistrati o dal potere sovrano, ma prevista per tutti in modo imparziale e indifferente.
Tutte dimensioni della pena che per noi oggi suonano come normali ed ovvie, al punto che se ne
mancasse soltanto una, grideremmo al misfatto e alla tirannia del potere. Non così, al tempo di
Beccaria; e di questo, nell’accostarsi a queste pagine, dobbiamo sempre mantenere adeguata
consapevolezza.
Per questa ragione, tutti i popoli europei conserviamo verso queste pagine un enorme debito di
riconoscenza, nel duplice senso del ringraziamento e della continua meditazione. Se Beccaria non
avesse illuminato la storia con queste sue coraggiose riflessioni, probabilmente oggi non potremmo
esercitare la nostra libertà di cittadini come siamo soliti fare. Tuttavia, molto del suo insegnamento
va sempre riproposto, in quanto ancora non sufficientemente assimilato dal nostro sistema giuridico,
come abbiamo cercato di mostrare nel corso di questo commento. Molto, ancora e nonostante tutto,
va ancora imparato e messo in pratica. Dopo quasi tre secoli, non credo che Beccaria ne sarebbe
contento.

Downloaded by Emanuela Casa (emanuelacasa02@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche