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dicembre 2022

La filosofia come sapere visuale


a cura di Mauro Carbone e Raoul Kirchmayr

Premessa 3

I FILOSOFI E IL VISUALE
Mauro Carbone Kant, Merleau-Ponty e la passione
per i veli 8
Raoul Kirchmayr La camera oscura di
Schopenhauer 24
Pina De Luca Nietzsche: esercizi di ri-velazione 41
Roberto Diodato Immagini chiasmatiche 58

IMMAGINI E PENSIERO
Pietro Montani Concetti vuoti e immagini cieche.
Una dissimmetria 75
Graziano Lingua Parola, scrittura e regimi
di visibilità 95
Emmanuel Alloa La fallacia diagrammatica.
Husserl e l’immagine del tempo 113
Jacopo Bodini Il diagramma, o la catastrofe
dell’immagine del pensiero 136

IL VISUALE TRA TECNOLOGIE E TEORIE


Marie Rebecchi L’immagine-caleidoscopio.
Archeologia di una modernità allucinata 156
Annarosa Buttarelli La vista senza senso 175
Stefano Catucci Pensare con due occhi. Filosofia
e tecnologie dell’immagine 182
Andrea Pinotti Il medium di trasporto della
percezione 199
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951

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Finito di stampare nel novembre 2022


Premessa

A
lmeno fin dagli anni settanta del Nove-
cento – per esempio nel lavoro per molti
versi inaugurale di Sarah Kofman, Came-
ra obscura. De l’idéologie (1973) – e in misura crescente a partire
dalla rivoluzione digitale degli anni novanta e dal conseguente
iconic turn, la cultura occidentale si è trovata investita da un radi-
cale ridisegnarsi della questione della visibilità nella produzione
dei saperi, incluso quello filosofico.
Da un lato, ciò ha sollecitato e ancor più invita a sollecitare una
nuova attenzione per i riferimenti a strumenti tecnici legati al ve-
dere ai quali la filosofia ha fatto ricorso durante la propria storia,
che fossero apparati o media visuali (dagli specchi e dai veli ai
proiettori e agli schermi), dispositivi di visione (quali appunto la
camera oscura o il panopticon) e le relative esperienze (esemplar-
mente, quella descritta nel mito della caverna). In ogni caso, gli
apporti che il visuale ha storicamente offerto alla costruzione del
sapere filosofico si configurano da tempo come un peculiare og-
getto d’indagine.
Dall’altro lato, ciò non può rimanere senza conseguenze
sull’autorappresentazione e sull’autocomprensione della filosofia
stessa, spingendo a chiedersi quanto quei ricorsi al visuale abbia-
no effettivamente inciso sull’identità essenzialmente verbale che
essa si è storicamente attribuita, o non siano stati piuttosto inte-
grati in questa identità ma al contempo rimossi nella loro auto-
nomia da essa.

aut aut, 396, 2022, 3-6 3


A sua volta, quest’ultimo interrogativo non può che sollevare
quello relativo alla posizione e all’atteggiamento che il sapere fi-
losofico attualmente assume all’interno delle radicali mutazioni
che la nostra cultura sta vivendo sull’onda (agitata) delle novità
introdotte dalla rivoluzione digitale, specie per quanto riguarda i
rapporti tra il “visuale” e il “verbale” (includendo in quest’ultimo,
come da tradizione, anche il “concettuale”).
L’ipotesi che intendiamo mettere alla prova con questo fasci-
colo di “aut aut” è che non sia più possibile trascurare i rimandi
frequenti alle tecnologie del visuale quando ne va della caratteriz-
zazione della filosofia, in particolare per un pensiero d’ispirazione
fenomenologica in cui ci riconosciamo e con il quale ci orientiamo.
L’operazione che abbiamo tentato, e di cui il fascicolo è il reso-
conto, si inscrive, dunque, in un movimento di apertura della tra-
dizione fenomenologica all’ambito di esperienza delle tecnologie
visuali, più che a quello dei discorsi sulle tecnologie di quel tipo.
Per questo abbiamo voluto promuovere una riflessione che sa-
pesse rivolgersi verso quel “fuori” storico-empirico e materiale che
la discorsività filosofica ha spesso assimilato, ma, ci pare, senza
averne tematizzato sufficientemente le peculiarità. Perciò ci sia-
mo indirizzati sia a promuovere il confronto con tali peculiarità
sia a metterle a fuoco, anche al fine di esplorare e verificare l’ef-
fettiva capacità della filosofia – nella sua tuttora dominante auto-
comprensione quale sapere concettuale – di aprirsi all’esteriorità e
all’eterogeneità, in specie rispetto alle sfide lanciate dagli accelerati
mutamenti dovuti alla nostra entrata nell’era digitale, di cui quella
visuale sembra a taluni essere la componente trainante. In questo
senso, si è trattato di individuare e di analizzare, nel sapere filoso-
fico e in alcuni snodi della sua tradizione, quel palinsesto in cui si
condensano i rinvii alle tecnologie del visuale e che funge da sup-
plemento di argomentazione per il discorso teorico.
Se le filosofie dell’immagine, del visibile o del visuale si sono
prevalentemente distinte per aver trascurato quei riferimenti tec-
nologici che pure hanno implicitamente convocato, ora si tratta di
indagare la loro la funzione epistemologica, nonché la loro valenza
storico-critica. Riteniamo infatti che il gesto disciplinare compiuto

4
dalla storia dei media e dagli studi visuali verso il testo letterario
possa essere ripreso e rilanciato dalla filosofia in relazione al pro-
prio testo. Ciò dovrebbe essere fatto senza tuttavia tralasciare quei
momenti, anche cospicui, nei quali la filosofia rinvia alle tecno-
logie di produzione/riproduzione/distribuzione dell’immagine, e
più in generale del visibile. A tutt’oggi questa relazione richiede di
essere adeguatamente considerata.
Sotto il profilo dell’analisi e delle metodologie, il fascicolo pro-
pone di mettere in atto quattro operazioni differenti ma legate tra
loro: a) inventariare una serie di luoghi classici in cui la discorsi-
vità filosofica lascia alle tecnologie del visuale uno spazio di cui
si è cercato di esplorare e di descrivere i caratteri specifici, indi-
cando così alcuni esempi paradigmatici per un diverso approccio
al testo filosofico; b) analizzare lo statuto epistemologico di tali ca-
ratteri, in modo da evidenziarne il senso, la portata e le eventuali
conseguenze sugli sviluppi della discorsività filosofica stessa, per
esempio sulle variazioni della nozione di verità (verità/illusione,
verità/falsità, verità/rappresentazione, indebolimento della verità
ecc.) implicate dal ricorso a tali contenuti; ciò ha condotto a riarti-
colare in questa luce i rapporti tra concetto e metafora, tra concet-
to e analogia, tra concetto ed esempio ecc.; c) analizzare gli effetti
discorsivi e testuali (anche soltanto possibili ma di fatto ignorati o
rimossi) legati all’impiego di riferimenti ad apparati e media visua-
li, a dispositivi di visione ed esperienze a essi relative, per studiar-
ne le eventuali influenze sulla concettualità filosofica; d) infine, si
è tentato anche di valutare l’impatto che i riferimenti ad apparati,
media, dispositivi ed esperienze visuali comportano sul soggetto
osservatore, per descrivere e comprendere le eventuali trasforma-
zioni del suo punto di vista, esaminando così gli effetti di ritorno
sullo statuto dell’osservatore e quindi del filosofo stesso.
Il fascicolo è diviso in tre sezioni anch’esse distinte ma intercon-
nesse, che rispettivamente mettono al centro delle analisi il rap-
porto tra i filosofi e il sapere visuale, il rapporto tra le immagini e
il pensiero, e i percorsi caratterizzanti lo sviluppo delle tecnologie
del visuale, considerato anche nei suoi presupposti teorici. Nes-
suna delle tre sezioni circoscrive un campo chiuso. Piuttosto, cia-

5
scuna di esse tratteggia le linee di un terreno la cui indagine oggi
appare quanto mai indispensabile per comprendere quale com-
pito la filosofia può ancora svolgere a fronte delle trasformazioni
tecnologiche in corso nei nostri rapporti con noi stessi, gli altri, il
mondo. Pertanto, riferendosi a tali rapporti e alle loro trasforma-
zioni, ciascuna sezione si configura come un rilancio discorsivo e
come una tappa critica in un lavoro che risulta necessariamente in
progress. [M.C., R.K.]

6
I filosofi e il visuale
Kant, Merleau-Ponty e la passione
per i veli*
MAURO CARBONE

Presentare ciò che sfugge alla presenza


Nella Critica del Giudizio Immanuel Kant è stato un grande pen-
satore degli effetti prodotti da superfici che mostrano e nascondo-
no insieme. Di fatto, tutta l’opera è attraversata da una meditazio-
ne sui differenti rapporti tra il visibile e l’invisibile che la natura
o l’arte possono istituire, presentandoci, in forma a volte indiretta
altre negativa, ciò che sfugge alla presenza.
Per quel che riguarda il Kant pensatore di quanto può presenta-
re in forma negativa ciò che sfugge alla presenza, mi pare esempla-
re l’interpretazione della sua concezione del sublime proposta da
Jean-François Lyotard. Come gli è capitato di spiegare a più ripre-
se, egli ravvisa in quella concezione i tratti di un’estetica in grado
soltanto di “presentare […] che vi è dell’impresentabile”,1 preferen-
dola a una che punti invece a offrirne una presentazione indiretta,
quale è delineata dalla teoria kantiana delle “idee estetiche”. A in-
teressare Lyotard è infatti la condizione di un presentabile così po-
vero rispetto all’impresentabile – e dunque così prossimo al nichi-

Mauro Carbone insegna Estetica presso l’Università “Jean-Moulin” di Lione ed è co-diret-


tore di “Chiasmi International”.
* Sollecitato in vista di una pubblicazione negli Stati Uniti dalla collega Gabriela Ba-
sterra (New York University), che colgo qui l’occasione per ringraziare, il presente contri-
buto riprende alcuni aspetti del parallelo tra Kant e Merleau-Ponty da me proposto in “Il
sensibile e l’eccedente”, quarto capitolo del mio libro omonimo (Guerini, Milano 1996),
sviluppandoli ora a partire dal punto di vista che ho elaborato nel mio più recente volu-
me Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, Milano 2016.
1. J.-F. Lyotard, Intervento italiano, trad. di M. Ferraris, “Alfabeta”, 32, 1982, poi ri-
preso in La pittura del segreto nell’epoca postmoderna, Baruchello, Feltrinelli, Milano 1982,
p. 55 (trad. modificata).

8 aut aut, 396, 2022, 8-23


lismo dell’epoca “postmoderna” – che il primo potrà testimoniare
del secondo solo per la sua “sproporzione” rispetto a questo, offren-
done perciò una presentazione puramente “negativa”. Come esem-
pio per eccellenza di una tale presentazione operata dal sublime, si
sa che Kant richiamava il caso del velo della dea egizia Iside, di cui
scriveva: “Forse non è stato mai detto qualcosa di più sublime, o
espresso in modo più sublime un pensiero, come in quell’iscrizione
del tempio d’Iside (la madre natura): ‘Io sono tutto ciò che è, che fu
e che sarà, e nessun mortale ha sollevato il mio velo’”.2
Inoltre Lyotard tiene a ricordare un altro esempio particolar-
mente significativo di espressione sublime proposto nella Critica
del Giudizio, ossia il divieto fatto agli ebrei di produrre immagi-
ni (Esodo, XX, 4),3 che egli così commenta: “Non c’è bisogno di
aggiungere molto a queste osservazioni per schizzare un’estetica
della pittura sublime: come pittura, essa ‘presenterà’ ovviamente
qualcosa, ma negativamente, […] sarà ‘bianca’ come un quadrato
di Malevi , farà vedere solo vietando di vedere”.4
Alla luce di questa interpretazione di Lyotard, quindi, quello
richiamato da Kant in precedenza verrebbe a presentarsi come un
velo del tutto privo di immagini, nonché omogeneamente e irrime-
diabilmente opaco. Se esso può comunque venire considerato una
superficie di mostrazione, è perché testimonia dell’impresentabile
proprio attraverso la sua radicale impossibilità di darne una qual-
siasi presentazione: attraverso il suo divieto di vedere, insomma. In
tal modo Lyotard finisce per teorizzare esplicitamente la sua “on-
tologia negativa”.5

Le “idee sensibili” di Merleau-Ponty


Un altro filosofo francese – nell’influenza del quale Lyotard si era
formato prima di prenderne congedo – aveva abbozzato, nell’ul-

2. I. Kant, Critica del Giudizio (1790), trad. di A. Gargiulo rivista da V. Verra, Laterza,
Roma-Bari 19915, p. 140 nota 2.
3. Cfr. ivi, p. 102.
4. J.-F. Lyotard, Intervento italiano, cit., p. 55 (corsivo mio).
5. Cfr. Id., “Anima minima” (1993), in Anima minima. Sul bello e il sublime, a cura di
F. Sossi, Pratiche, Parma 1995, p. 121.

9
La camera oscura di Schopenhauer
RAOUL KIRCHMAYR

Tra visibile e invisibile


Per molti versi l’opera filosofica di Schopenhauer è stata conse-
gnata agli archivi della storia della filosofia. Eppure, se la si consi-
dera nella prospettiva della storia della scienza e dell’archeologia
dei media, essa presenta dei contenuti non così rapidamente ri-
solvibili in quella metafisica della volontà che la contraddistingue.
Quanto meno, una prospettiva orientata verso un’archeologia del
sapere1 riconosce a Schopenhauer un posto di rilievo nel dibattito
sulla visione, sulle tecniche dell’immagine e sulla funzione dell’os-
servatore nel XIX secolo.2 Così, si può ritornare su quelle pagi-
ne del Mondo come volontà e rappresentazione e dei Supplementi
in cui Schopenhauer ricorre a dispositivi ottici, per considerare
le funzioni discorsive alle quali essi adempiono e i presupposti
epistemologici che essi comportano in relazione al modo in cui
la filosofia incorpora i contenuti della scienza e della tecnologia.
Nel caso specifico, la posta in gioco è data dalla messa a tema del
rapporto tra visibile e invisibile, dello statuto epistemologico del
soggetto osservatore e dell’economia del visibile istituita da un

1. I riferimenti sono naturalmente a M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia


delle scienze umane (1966), trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1998 e Id., L’archeolo-
gia del sapere (1969), trad. di G. Bogliolo, Milano, Rizzoli 2009. Sul senso dell’archeolo-
gia come metodologia filosofica rimando almeno a G. Deleuze, Foucault (1986), trad. di
F. Domenicali, Orthotes, Salerno 2018.
2. Cfr. J. Crary, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo (1990),
a cura di L. Acquarelli, Einaudi, Torino 2013; su Schopenhauer cfr. specialmente il cap. 3,
pp. 77-90.

24 aut aut, 396, 2022, 24-40


paradigma metafisico vitalistico.3 In questo senso Schopenhauer
rappresenta una tappa rilevante nel pensiero moderno, benché
egli sia stato trascurato da quelle indagini che, pur dipanando il
filo conduttore della camera oscura, hanno di certo avuto il me-
rito di portare alla luce la funzione ideologica svolta dal sapere
visuale nel discorso filosofico.4
In alcuni passi rilevanti del libro III del Mondo, Schopenhauer
impiega la nozione di camera oscura, intesa come apparato che
apre un regime di visibilità capace di ridefinire il ruolo e l’ambi-
to specifici dell’estetica. La camera oscura, infatti, non è soltanto
un’immagine esemplare con cui si possa descrivere il rapporto tra
un soggetto osservatore e la realtà esterna tramite una rappresen-
tazione coerente di quest’ultima, ma è pensata da Schopenhauer
come un dispositivo di cattura dell’invisibile per mezzo del qua-
le quest’ultimo è reso visibile, leggibile e interpretabile. In effetti,
Schopenhauer si colloca in un momento della storia delle tecnolo-
gie ottiche in cui si produce una discontinuità storica che prelude
all’affermazione di un modello energetico e fisiologico foriero di
ampi sviluppi tra il XIX e l’inizio del XX secolo.5 È noto che, almeno
a partire da Cartesio, i percorsi del pensiero moderno hanno fatto
frequente ricorso alla camera oscura come modello di un sapere
epistemicamente fondato e oggettivo supposto garantire una rap-
presentazione veritiera della realtà fisica.
Il discorso di Schopenhauer, che per alcuni versi si rifà alle tesi
del Goethe naturalista e alla Naturphilosophie romantica, benché

3. In questo contributo esamineremo unicamente i presupposti e il senso della nozio-


ne di “camera oscura” in Schopenhauer, riservandoci di analizzare in un altro momento i
temi correlati.
4. S. Kofman, Camera obscura. De l’idéologie, Galilée, Paris 1973. Cfr. J. Crary, Le tec-
niche dell’osservatore, cit., p. 31: “Il dispositivo della camera oscura, decisamente proble-
matico, era quindi molto più di un semplice strumento ottico. Per oltre duecento anni esso
costituì infatti una metafora filosofica, un paradigma nella scienza dell’ottica fisica e, allo
stesso tempo, un apparato tecnico usato in un vasto campo di attività culturali”. Sulla scorta
di un approccio di archeologia dei media che parte dai lavori di Kittler e in dialogo con le
tesi di Crary, un contributo interessante su Schopenhauer è contenuto in S. Andriopoulos,
Ghostly Apparitions. German Idealism, the Gothic Novel and Optical Media, Zone Books,
New York 2013, pp. 50-60. Tuttavia, nel lavoro di Andriopoulos, che si concentra sulla no-
zione di fantasmagoria, la funzione della camera oscura in Schopenhauer è trascurata.
5. Cfr. J. Crary, Le tecniche dell’osservatore, cit., pp. 74-75 e 79-80.

25
Nietzsche: esercizi di ri-velazione
PINA DE LUCA

Un velamento necessario
Troppo deboli siamo noi umani per reggere il tremendo del dio.
Lo sapeva Hölderlin e perciò volle che il poeta, nel mostrare ai
mortali la potenza del dio, anche li proteggesse da simile visione.
E di una protezione gli umani avevano bisogno perché non si ri-
petesse ancora quanto era accaduto a Semele: “Lei il Dio / De-
siderò vedere manifesto” e “così cadde […] la folgore sulla casa
di Semele”.1 Se Platone aveva fatto del poeta un archi-schermo2
per il quale il dio si faceva presente rimanendo assente,3 per Höl-
derlin, invece, il poeta doveva delegare questa funzione a qualcosa
– un dispositivo – attraverso cui il dio potesse manifestarsi senza
che la sua manifestatività fosse distruttiva. Ed è così che il poeta,
rimanendo lui solo “sotto le folgori del Dio […] a capo scoper-
to”, afferra “il fulmine del padre” e porge “al popolo, avvolto /
Nel canto, […] il dono celeste”.4 In tal modo il popolo potrà sì
esperire il terribile del dio, ma lo farà attraverso la protezione del
canto ed è soltanto per l’azione di velamento/protezione svolta da
questo che sarà possibile al popolo fare esperienza di ciò che ec-
cede l’umana misura.

Pina De Luca insegna Estetica all’Università di Salerno.


1. F. Hölderlin, “Come nel giorno di festa”, in Tutte le liriche, a cura di L. Reitani,
Mondadori, Milano 2001, p. 753.
2. Cfr. M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello
Cortina, Milano 2016.
3. Cfr. Platone, Ione, in Opere, vol. I, a cura di G. Cambiano, UTET, Torino 1995.
4. F. Hölderlin, “Come nel giorno di festa”, cit., p. 753.

aut aut, 396, 2022, 41-57 41


Nella lirica Natura e arte ovvero Saturno e Giove la sequen-
za velamento, protezione, esperibilità si complica di elementi che,
mentre rendono più complessa la funzione di velamento svolta dal
canto, mostrano pure come velare sia una sequenza di gesti che fra
loro si saldano e compattano fino a essere un unico gesto.
“Dicono i cantori” che Giove, il “figlio di Saturno”, “un tempo”
abbia “confinato” “il padre santo” “laggiù, dove sono a ragione /
I barbari da prima del tuo regno”.5 Giove ha, dunque, occultato
con la sua luminosità la terribile oscurità di Saturno, ma non solo:
ha fatto di quella che era oscura potenza l’alimento della propria
luminosa potenza. E, infatti, “come dalla nuvola il tuo fulmine, così
giunge / Da lui ciò che è tuo”, quindi, la luminosa potenza di Giove
si nutre della stessa oscurità che ha sconfitto ed è per tale motivo
che “ciò che è tuo […] di lui testimonia”. La perfetta armonia del
mondo, se pur si è affermata scacciando “il più vecchio”, del “più
vecchio”, comunque, testimonia ed è perciò che il far vedere del
canto deve anche far vedere la presenza del “più vecchio” proprio
lì dove ne è stata decretata la sconfitta. È questo l’obbligo del fi-
glio e questo sarà anche il modo di ringraziare il “padre santo” per
il nutrimento di potenza che ne riceve e il figlio a ciò ottempererà
concedendo che “il cantore” nomini il “padre santo”. In tal caso,
però, il nominare del cantore non potrà consistere solo nel mostra-
re, avvolto nel canto, il terribile del dio, ma nominare dev’essere
anche mostrare come il “più vecchio” agisca nella stessa armonia
alla quale è stato sacrificato. Ciò il canto lo farà testimoniando –
testimoniare è ancora modo del velare/ri-velare – come non sia re-
cidibile il loro legame, come, di conseguenza, non lo sia quello fra
luminosità e oscurità e come, per questo inscindibile legame, l’uno
sia per e attraverso l’altro. Il che vuol dire che il canto deve lasciare
vedere che, se mai vinta né sopita è la potenza di Saturno, questa
può scatenarsi all’improvviso e sconvolgere la luminosità di Giove.
Esso deve, quindi, far proprio il movimento inconcluso del ri-ve-
lare e svolgerlo in un velare che si sospende e rivela per poi ancora

5. Id., “Natura e arte ovvero Saturno e Giove” (prima stesura), in Tutte le liriche, cit.,
p. 799.

42
Immagini chiasmatiche
ROBERTO DIODATO

1.
Ikonische Wende e Pictorial Turn sono
espressioni che appartengono al dibattito
dell’estetica degli ultimi decenni e dise-
gnano in modi differenti la rilevanza dell’immagine a diversi li-
velli, teorico, artistico, sociale, politico, tecnico, comunicativo ecc.;
qui interessano per un punto concettuale: l’autonomia o irriduci-
bilità del visuale, quasi che il termine visuale prendesse distanza
in ragione di tale irriducibilità dal visivo simpliciter. Scontata l’ov-
vietà dell’eccedenza, per cui il visuale integra nel visivo altre espe-
rienze sensibili, si tratterà di mettere in questione proprio l’ovvietà
e di mostrare la logica chiasmatica che si esemplifica in alcuni
esempi di ciò che chiamiamo immagine. Preliminarmente il pro-
blema riguarda il rapporto tra logos e immagine, non tanto nel sen-
so della possibile traducibilità storica o di fatto nelle due direzioni
e dei suoi limiti necessari, o delle differenti forme dell’ekphrasis,
ma delle condizioni di possibilità di un logos proprio dell’immagi-
ne e della sua dicibilità nella lingua della filosofia. Già il fatto che
io, o chiunque altro, ne scriva in un contesto “filosofico”, cioè oc-
cidentale, costituisce un pregiudizio; potrebbe forse essere evitato
dall’uso di una scrittura ideografica o geroglifica? Implicherebbe
questo il collocarsi in un ordine non umano del logos? Si ricordi
al proposito quanto scriveva in greco Plotino.

Roberto Diodato insegna Estetica all’Università Cattolica di Milano.

58 aut aut, 396, 2022, 58-73


Non bisogna credere che lassù gli dei e i veri beati vedano delle
proposizioni, ma tutte le cose di cui abbiamo parlato in quel
mondo equivalgono alle belle figure (agalmata) – come qualcu-
no si immaginò che fossero così come si trovano nell’anima del
sapiente –, e non a figure disegnate, ma veramente esistenti. E
con questo si spiega come mai, per gli antichi, anche le idee
sono esseri e sostanze. A mio giudizio, anche i saggi d’Egitto
giunsero a queste conclusioni, o per via di scienza precisa o per
via intuitiva. Infatti, quando volevano dare dimostrazioni sulla
base della sapienza, non si servivano dell’incisione di lettere
che tengono dietro alle parole e alle proposizioni e che imita-
no certe voci e la pronuncia di frasi, ma disegnavano figure e
scolpivano nei templi una singola figura per ciascun oggetto,
per dimostrare che lassù il pensiero non ha bisogno di procedi-
menti, dato che ogni singola figura (agalma) è scienza e sapien-
za, e anche il contenuto che sottende; in tal senso è qualcosa di
unitario, e non una conoscenza discorsiva e un atto di volontà.1

Plotino usa qui una parola difficile per indicare “immagine”:


agalma, che ha certamente molti significati, ma che in questo con-
testo rinvia al rito e alla raffigurazione propria del sacro, ogget-
to di culto, rilevando forse un aspetto mimetico originario che
intercetta il desiderio di essere-uno con l’immagine, quel “fare
come” il dio proprio dei misteri che giunge all’assimilazione con
il divino, un’atmosfera cultuale che noi rapidamente avviciniamo
alla dimensione auratica, peculiare respiro della vita. Cogliamo
subito nell’immagine una potenza di oltrepassamento del visivo,
un coinvolgimento del corpo nel farsi immagine espressiva, della
danza, della musica e del canto, come il prender forma del lin-
guaggio dal movimento, un disegno del gesto nell’aria che diventa
vibrazione sonora e diverrà disegno del suono in scrittura.
Certo il logos umano non è il logos degli dei e di coloro che
lassù sono beati; sembrano restare tuttavia nelle nostre possibili-

1. Plotino, Enneadi, V 8, 5.20-25, 6.1-10, trad. di R. Radice, Mondadori, Milano 2002,


pp. 1357-1359.

59
Immagini e pensiero
Concetti vuoti e immagini cieche.
Una dissimmetria
PIETRO MONTANI

1.
La relazione tra cultura visuale e discorso
filosofico è una modalità, senz’altro signi-
ficativa, del rapporto che l’immaginazio-
ne stabilisce, in generale, con il pensiero linguistico. La cosa più
ovvia da registrare a questo proposito è che, a meno di un pensiero
linguistico adeguatamente sviluppato, non si potrebbe fare alcu-
na filosofia. Resta aperta, per contro, la questione se si potrebbe
filosofare – o addirittura pensare – se non ricorrendo a qualcosa
come una cultura visuale (nel senso più ampio). Per cominciare a
chiarire questo punto mi farò aiutare da un riferimento paleoan-
tropologico e osserverò che se i progenitori di Homo sapiens (alla
cui evoluzione specifica va ascritta la comparsa di un linguaggio
articolato capace di concettualità)1 di certo non filosofarono, sa-
rebbe incongruo sostenere che non pensassero.

Pietro Montani insegna Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma.


1. Su questo punto cfr. T. Cox, Now You’re Talking. The Story of Human Conversa-
tion from the Neanderthals to Artificial Intelligence, The Bodley Head, London 2018;
T.W. Deacon, The Symbolic Species. The Co-evolution of Language and the Brain, Norton
& Company, New York 1997; T. Fitch, The Evolution of Language, Cambridge Univer-
sity Press, Cambridge 2020; P. Lieberman, Toward an Evolutionary Biology of Language,
Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2006; S. Mithen, The Singing Neanderthals.
The Origins of Music, Language, Mind and Body, Harvard University Press, Cambridge
(Mass.) 2006; I. Tattersall, Language Origins: An Evolutionary Framework, “Topoi”, 37,
2018, pp. 289-296; M. Tomasello, Altruisti nati (2009), trad. di D. Restani, Bollati Borin-
ghieri, Torino 2010. A questo proposito sembra ragionevole sostenere che, a meno delle
trasformazioni intervenute nell’anatomia di Homo sapiens (in particolare l’abbassamento
della laringe e lo sviluppo di un apparato acustico sensibile alla ricezione di una fonazione
raffinata), alcune emergenze specificamente genetiche, come la comparsa del gene FOX P2,

aut aut, 396, 2022, 75-94 75


Dovremmo piuttosto chiederci in che modo avrebbero “pen-
sato” questi nostri progenitori, di cui la paleoantropologia e l’ar-
cheologia cognitiva ci hanno fatto conoscere l’ingegnosa mani-
fattura e le complesse strategie di cooperazione nonché i sistemi
di trasmissione (insegnamento, apprendimento, conservazione)
delle rispettive culture materiali. Siamo disposti a convenire sul
fatto che avrebbero pensato con le sole risorse dell’immagina-
zione? La mia idea è che la risposta debba essere positiva se con
immaginazione intendiamo – come farò qui – una certa capacità,
incarnata e multimodale, di raccogliere dati, comporli, trarne
inferenze e generalizzazioni, condividerli con gli altri, elevarne
e potenziarne la concatenabilità tramite l’introduzione di proce-
dure ricorsive e così via. Ma ora chiediamoci: questa complessa
attività prelinguistica, pratica e cognitiva, si potrebbe esercita-
re senza immagini? E anche in questo caso, evidentemente, la
risposta dipende dal significato che stiamo dando alla parola
“immagini”.
Escluso che si tratti di figure esternalizzate (mimetiche o meno),
poiché qualcosa del genere non si registra nell’evoluzione di Homo
sapiens prima di 45-40.000 anni fa, si dirà piuttosto che con “im-
magini” stiamo intendendo i prodotti di un’immaginazione (in-
carnata e multimodale) capace di procurarsi i necessari correlati
cognitivi delle sue diverse performance adattative identificandoli
in referenti non solo oggettuali (come gli artefatti), ma anche pro-
cedurali (come le strategie cooperative) e comportamentali (come
gli habitus caratteristici di singoli gruppi).2 Correlati eterogenei e
in via di principio riorganizzabili (nel senso, per esempio, della

non avrebbero prodotto gli stessi effetti sull’invenzione del discorso articolato. Ho discus-
so in modo più dettagliato questo punto in P. Montani, Destini tecnologici dell’immagina-
zione, Mimesis, Milano-Udine 2022.
2. Sull’opportunità di assicurare alla parola “immagine” un’estensione semantica mol-
to ampia, in conformità con il carattere multimodale dell’immaginazione, si veda, per
esempio, l’uso intenzionalmente indeterminato che ne fa A. Damasio, Sentire e conoscere
(2021), trad. di I.C. Blum, Adelphi, Milano 2022, per fornire una rappresentazione teori-
ca adeguata di che cosa sia una “mente cosciente”. Un’utile ricognizione sulla questione
degli habits (o habitus) si può leggere in M. Portera, La bellezza è un’abitudine, Carocci,
Milano 2021.

76
Parola, scrittura e regimi di visibilità
GRAZIANO LINGUA

Introduzione
A forza di parlare della nostra come di una “civiltà delle immagi-
ni” si finisce per credere che i sistemi simbolici legati alla parola,
in particolare nella loro forma scritta, siano perdenti e votati a un
ruolo sempre più marginale. Già nel 1987 Vilém Flusser lanciava
il grido di allarme con questa frase inequivocabile: “La scrittura,
nel senso di porre lettere e altri segni uno dopo l’altro, sembra
avere poco o nessun futuro”.1
In un ambiente sempre più dominato da schermi digitali che
saturano di stimoli visivi lo spazio in cui viviamo, i rapporti di
forza tra parole e immagini parrebbero infatti capovolgersi. Le
immagini sono dappertutto e come non mai appaiono capaci di
unire il mondo.2 La loro forza emozionale sembra contrastare la
logica lineare e astratta della scrittura, finendo per marginalizzare
la razionalità discorsiva che su quest’ultima si era basata.
Ma davvero il “popolo dello schermo” sta soppiantando il “po-
polo del libro”? O, come ritiene Kevin Kelly, a cui si deve questa
distinzione,3 l’ubiquità degli schermi non ha per nulla eliminato
la scrittura, ma l’ha “rinvigorita”, alimentando nuove articolazioni
tra iconico e logico?

Graziano Lingua insegna Antropologia filosofica all’Università di Torino.


1. V. Flusser, Does Writing Have a Future? (1987), trad. di N.A. Roth, University of
Minnesota Press, Minneapolis-London 1987, p. 3.
2. F.A. Kittler, Perspective and the Book, trad. di S. Ogger, “Grey Room”, 5, 2001,
p. 39.
3. K. Kelly, L’inevitabile. Le tendenze tecnologiche che rivoluzioneranno il nostro futuro
(2016), trad. di A. Locca, il Saggiatore, Milano 2017, p. 92.

aut aut, 396, 2022, 95-112 95


In questo saggio intendo affrontare queste domande abbozzan-
do una tesi apparentemente controfattuale: proprio il proliferare
di immagini digitali mette in crisi il modello meramente contrap-
positivo tra verbale e visuale che alimenta le retoriche sulla “civiltà
dell’immagine” e sulla “rivincita delle immagini” e fa riaffiorare
un modello più unitario che ha una delle proprie figure più signi-
ficative nella riflessione cristiana tardo-antica e medioevale.
Per argomentare questa tesi farò un passo indietro e uno avanti.
Un passo indietro perché anche uno sguardo per sommi capi sulla
storia del rapporto tra immagine e parola permette di individuare
figure molteplici di correlazione tra i diversi sistemi espressivi. È
certamente possibile sostenere che a prevalere nella cultura occi-
dentale sia stato un modello asimmetrico, in cui il primato della
parola ha avuto la meglio sulle forme di organizzazione dei signifi-
cati che hanno fatto uso del visuale, ma ciò non ha comportato per
forza una separazione radicale o una contrapposizione tra queste
due dimensioni. Nello specifico, ritengo che proprio l’intreccio in-
disgiungibile di verbale e visuale costituisca una delle più significa-
tive eredità che il cristianesimo ha lasciato alla cultura occidentale.
Mi limiterò a mostrare ciò concentrando la mia attenzione sul
ruolo giocato dalla dottrina cristiana del Logos incarnato, della Pa-
rola che diviene immagine, che ha spinto questa religione a misu-
rarsi in modo nuovo con i regimi di visibilità, rispetto a tradizioni
che invece avevano coltivato il sospetto nei loro confronti. Tra le
molte fonti possibili, analizzerò la lettera scritta nel 600 da Grego-
rio Magno al vescovo Sereno di Marsiglia, uno dei testi seminali
della teologia delle immagini della chiesa latina, che evidenzia la
compenetrazione tra verbale e visuale in una dinamica in cui la pa-
rola ha bisogno delle immagini per la loro capacità pedagogica di
comunicare con tutti, e le immagini hanno bisogno delle parole e
della scrittura perché lo sguardo abbia nei loro confronti un cor-
retto atteggiamento e non cada nell’idolatria.
A questo passo indietro accosterò, nella conclusione, un breve
passo avanti. Quanto ci sta di fronte e già si intravede nelle attuali
pratiche del “popolo dello schermo”, infatti, fa riemergere questa
compenetrazione, mostrando a diversi livelli che immagine e pa-

96
La fallacia diagrammatica.
Husserl e l’immagine del tempo*
EMMANUEL ALLOA

Per una lettura “diagrammatologica” di Husserl


Tra le varie correnti filosofiche del Novecento, quella che maggior-
mente ha concepito la pratica del pensiero come un sapere visuale
è senza dubbio la fenomenologia. La sua arte, spiega Husserl, sta
“puramente in questo: lasciare la parola all’occhio che guarda”.1
La priorità conferita alla visione è da intendere non tanto come
un privilegio ottico rispetto agli altri sensi (benché ci sarebbe da
chiedersi se la fenomenologia non pecchi anch’essa per il suo vi-
siocentrismo, ereditato da due millenni di metafisica) ma come un
privilegio riconosciuto all’esperienza delle cose nel loro appari-
re, a scapito dei saperi prettamente logico-discorsivi. Nelle lezio-
ni introduttive di L’idea della fenomenologia, Husserl radicalizza
questa opposizione, affermando che meno intelletto e più visione
ci sono, meglio è.2 O, come dice Adorno, la fenomenologia hus-
serliana agogna a essere una “teoria libera da teoria”.3 Occorre
pertanto pensare la visione come ciò che permette alla coscienza
di essere a contatto con l’“evidenza” delle cose, spostando così il
tradizionale senso del “vedere”. D’ora in poi quest’ultimo dovrà

Emmanuel Alloa insegna Estetica e Filosofia all’Università di Friburgo.


* Ringrazio l’Archivio Husserl di Lovanio e il prezioso aiuto di Thomas Vongehr nel
reperimento delle varie versioni dei diagrammi dei manoscritti. Ringrazio inoltre il profes-
sor Ulrich Melle per la cortese autorizzazione a riprodurre i diagrammi husserliani.
1. E. Husserl, L’idea della fenomenologia: cinque lezioni (1907), a cura di E. Franzini,
Mondadori, Milano 1995, p. 120.
2. Ibidem.
3. T.W. Adorno, Metacritica della teoria della conoscenza (1956), a cura di R. Riccio,
Mimesis, Milano 2004, p. 148.

aut aut, 396, 2022, 113-135 113


essere considerato in quanto intuitus (Anschauung), unica fonte
legittima di conoscenza: “L’immediato ‘vedere’, non soltanto il ve-
dere sensibile, empirico, ma il vedere in generale, come coscienza
originalmente offerente di qualunque specie, è la sorgente ultima
di legittimità di tutte le affermazioni razionali”.4
Un concetto di visione così definito subisce un allargamento
straordinario, poiché va a includere nella cosiddetta “evidenza in-
tuitiva” non solo la percezione, ma anche l’immaginazione, il ri-
cordo e la coscienza di immagine, inaugurando così una lunga
e feconda tradizione di “fenomenologia immaginale” che va da
Eugen Fink a Merleau-Ponty, Dufrenne, Maldiney e tanti altri.5
In effetti, il criterio non è più tanto la presenza sensoriale che ave-
va – per così dire “kantianamente” – definito l’evidenza intuitiva,
quanto la condizione che alla coscienza appaia “la cosa stessa” e
non un suo rappresentante segnico o simbolico. Quando si per-
cepisce, si ricorda o si immagina l’amico, è proprio l’amico me-
desimo che appare alla coscienza, non un suo sostituto o una sua
riduzione a simbolo. Al contrario, dal lato degli atti intellettivi,
Husserl rileva che essi, pur permettendo la comprensione, restano
privi di qualsiasi intuizione, proprio perché operano con sostituti:
simboli matematici come la radice ( ) o l’infinito ( ) permettono
di svolgere dei calcoli anche con parametri incommensurabili per
l’intuito umano. Spostando il “vedere” dal dato percettivo verso
una concezione più ampia di evidenza intuitiva, Husserl opera tale
ampliamento, rifiutando tuttavia l’intero ambito di quelle visua-
lizzazioni mentali che per secoli hanno accompagnato i saperi fi-
losofici e scientifici, cioè gli schemi e i diagrammi. Proprio perché
lega il destino del vedere al “darsi in carne-e-ossa” del referente
(alla sua auto-presentazione, per così dire), Husserl non può che
escludere il tipo di visualizzazione più astratta, quella che si pre-

4. E. Husserl, Ideen I, § 19; trad. a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e
per una filosofia fenomenologica. I (1913), Einaudi, Torino 2002, pp. 43-44.
5. Mauro Carbone ha sintetizzato gli esiti di questa tradizione, attualizzandone la per-
tinenza per le forme contemporanee: M. Carbone, The Flesh of Images: Merleau-Ponty
between Painting and Cinema, SUNY Press, Albany (N.Y.) 2015. Rimando inoltre al bel sag-
gio di P. Rodrigo, L’intentionnalité créatrice: problèmes de phénoménologie et d’esthétique,
Vrin, Paris 2009.

114
Il diagramma, o la catastrofe
dell’immagine del pensiero
JACOPO BODINI

Come uscirne?
L’individuazione di una via d’uscita è una questione fondamen-
tale per la filosofia di Gilles Deleuze. Nelle Conversazioni con
Claire Parnet, Deleuze sembra farla coincidere proprio con l’es-
senza della filosofia stessa: se l’esercizio della filosofia è quello
di costruire un problema, la sua finalità non è tanto rispondere
al problema – e, più in generale, a un interrogativo filosofico –
quanto piuttosto trovare una via di fuga, “uscirne”.1 Tale gesto,
in realtà, non implica davvero l’andare da qualche parte, quanto
piuttosto una fuga sul posto, in intensità. E quindi la possibilità
della fuga, il suo tracciato virtuale. Se la costruzione del problema
comporta la costituzione di un piano, di una carta, l’individuazio-
ne di una via d’uscita si registra virtualmente in un diagramma,
linea di una cartografia intensiva.
L’interrogarsi esplicitamente su che cosa sia la filosofia è un’esi-
genza che ritroviamo spesso nelle opere dell’ultimo Deleuze, al
doppio fine di interrogare i limiti epistemologici della filosofia e
di ritornare in maniera indiretta sul proprio pensiero, e quindi sul
proprio contributo alla filosofia. In Che cos’è la filosofia?, allora,
alla domanda in copertina, Deleuze e Guattari rispondono: “La
filosofia è l’arte di formare, di inventare, di creare dei concetti”.2

Jacopo Bodini è ricercatore post-dottorato all’Università “Jean Moulin” di Lione.


1. G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni (1977), trad. di G. Comolli e R. Kirchmayr,
ombre corte, Verona 2006.
2. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), a cura di C. Arcuri, trad. di
A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. IX.

136 aut aut, 396, 2022, 136-154


Si tratta però di una risposta in parte deludente, o quantomeno
limitante, rispetto alla portata rivoluzionaria dei loro scritti. Per
cercare di ovviare parzialmente a questa delusione, è quindi op-
portuno ricondurre la “creazione di concetti” all’interno di quel
pensiero del milieu che è la geofilosofia: il concetto non è infatti
separabile dal piano di immanenza di cui fa parte; tale piano è un
taglio applicato al caos, che fa emergere, fabbricandolo, un pro-
blema. Il problema, che è manifestazione del caos e ne è un limite
interno, non può essere a sua volta separato dalla sua espressione,
ovvero il concetto. Se la filosofia è creazione di concetti, essa è al-
trettanto individuazione di un “piano di immanenza”. Per parte
sua, quest’ultimo “non è un concetto, né pensato né pensabile”,
ma piuttosto “l’immagine del pensiero, l’immagine che esso si dà
di cosa significhi pensare, usare il pensiero, orientarsi nel pensie-
ro […]. Non è un metodo, poiché ogni metodo riguarda eventual-
mente i concetti e suppone una tale immagine”.3
Le nozioni di problema, concetto e piano di immanenza, che
troviamo in Che cos’è la filosofia?, evocano quindi una problema-
tica fondamentale che attraversa tutto il pensiero del primo Deleu-
ze, quella dell’“immagine del pensiero”.4 Irriducibile al concetto e
a ciò che è pensato, l’immagine del pensiero è piuttosto ciò che de-
finisce l’orientamento stesso del pensiero, delle linee che compon-
gono il piano di immanenza. Per questo, osserva Deleuze, riuscire
a individuare l’immagine del pensiero, ancora più della creazione
di concetto, è “forse […] il gesto supremo della filosofia: non tan-
to pensare IL piano di immanenza, quanto mostrare che esso è là,
non pensato in ogni piano”.5
Se coniughiamo questa frase di Che cos’è la filosofia? con l’in-
cipit delle Conversazioni, siamo in grado di ottenere una risposta
più complessa alla domanda che cos’è la filosofia per Deleuze: in-
sieme alla creazione di concetti, filosofia è far sentire il piano di
immanenza e, allo stesso tempo, individuare una via d’uscita. La

3. Ivi, p. 27.
4. Cfr. F. Treppiedi, Il problema dell’immagine del pensiero in Deleuze, reperibile pres-
so il sito www.filosofia.it, Essais.
5. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 48-49.

137
Il visuale tra tecnologie e teorie
L’immagine-caleidoscopio.
Archeologia di una modernità
allucinata
MARIE REBECCHI

Concentrazione o allucinazione: due visioni


della modernità
Nel suo libro A Treatise on the Kaleidoscope, del 1819,1 sir David
Brewster, fisico scozzese inventore del caleidoscopio, descri-
ve questo giocattolo scientifico come un nuovo strumento ot-
tico pensato per “creare e mostrare delle belle forme” e capa-
ce di frammentare e moltiplicare la nostra percezione visiva del
mondo. Un nuovo modo di vedere, fondato sulla decostruzio-
ne, sull’inversione e sull’impermanenza delle forme, si presentava
come un’alternativa possibile a uno sguardo orientato, concentra-
to e disciplinato.
Nella maggior parte degli studi sul nesso tra dispositivi ottici
e modernità, uno degli aspetti su cui la critica si è maggiormen-
te concentrata è il potere disciplinare e unificante dei dispositi-
vi. Dalla prospettiva lineare rinascimentale, letta da Jean-François
Lyotard come presupposto di un soggetto disincarnato e unidi-
mensionale,2 alla camera oscura interpretata da Sarah Kofman
come metafora della struttura speculare della coscienza moderna;3
da un’analisi di dispositivi ottici quali il panorama e il diorama, in-
terpretati come modello spaziale della percezione dello spettatore

Marie Rebecchi insegna Estetica e Storia del cinema all’Università di Aix-Marsiglia.


1. D. Brewster, A Treatise on the Kaleidoscope, J. Ruthwen & Sons for Archibald
Constable & Co-Longman, Hurst, Rees, Orme & Brown-Hurst, Robinson & Co., Edin-
burgh-London 1819.
2. J.-F. Lyotard, Discorso, figura (1970), trad. di F. Mazzini, Mimesis, Milano-Udine
2008.
3. S. Kofman, Camera obscura. De l’idéologie, Galilée, Paris 1973.

156 aut aut, 396, 2022, 156-174


fin de siècle,4 al paradigma del Panopticon di Jeremy Bentham rilet-
to da Michel Foucault come architettura di un potere invisibile e
struttura di una politica della sorveglianza;5 dall’obiettivo fotogra-
fico come emblema di un’oggettività scientifica6 all’idea marxia-
na di Jean-Louis Baudry degli effetti ideologici di assoggettamen-
to provocati dal dispositivo cinematografico,7 si profila un’idea di
modernità osservata dal punto di vista del controllo. In molte di
queste analisi si ritrova l’idea che gli strumenti ottici siano il fulcro
di una visione disciplinante, unificante, obiettiva.
Questi studi sono oggi considerati a giusto titolo dei classici dei
visual studies,8 avendo contribuito ad afferrare con maggiore acu-
me quella che potremmo denominare una modernità della con-
centrazione. Non va però dimenticato che i dispositivi ottici posso-
no inaugurare prospettive alternative a questa idea di modernità,
come le prime avanguardie avevano esemplarmente intuito. Perciò
qui tenteremo di indicare alcune linee di ricerca per un’archeologia
di una modernità allucinata, meno incline alla focalizzazione, al ri-
conoscimento o alla concentrazione e più favorevole al gioco delle
forme, alle metamorfosi e alle visioni fosfeniche. Questa esperienza
distorta del moderno è intimamente legata a un dispositivo ottico
del caleidoscopio che dai primi decenni dell’Ottocento fino a oggi
ha ispirato un’immagine della modernità espansa e frammentata.
Decostruendo un modo di vedere orientato verso la ricomposizione
ordinata del mondo, l’invenzione di Brewster ha impresso in que-
sto senso una svolta decisiva nella cultura visuale del XIX secolo.9

4. J. Crary, Suspensions of Perception. Attention, Spectacle, and Modern Culture, MIT


Press, Cambridge (Mass.)-London 1999.
5. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), trad. di A. Tarchetti,
Einaudi, Torino 1993.
6. L. Daston, P. Galison, Objectivity, Zone Books, New York 2010.
7. J.-L. Baudry, Cinéma: effets idéologiques produits par l’appareil de base, “Ciné-
thique”, 7-8, 1970, pp. 1-8; cfr. Id., Il dispositivo. Cinema, media, soggettività (1970), a cura
di R. Eugeni, La Scuola, Brescia 2017.
8. Per un’analisi puntuale delle diverse tendenze e proposte teoriche in seno agli stu-
di sulla “cultura visuale”, rimandiamo a A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini,
sguardi, media, dispositivi, Einaudi, Torino 2016.
9. Cfr. G. Didi-Huberman, Connaissance par le kaléidoscope. Morale du joujou et dialec-
tique de l’image selon Walter Benjamin, “Études photographiques”, 7, 2000, https://jour-
nals.openedition.org/etudesphotographiques/204?lang=en.

157
La vista senza senso
ANNAROSA BUTTARELLI

Lo strumento fa perdere una forma della sensibilità e la sostituisce con


un’altra. Non si avverte la propria mano, e questo malgrado sia ferita.
Simone Weil, Quaderno IV

H
o tenuto davanti alla mia comprensione
il senso della proposta filosofica di Mau-
ro Carbone per questo numero di “aut
aut”, una proposta come sempre vivamente acuta e appassionata.
E già questa mia frase si autodenuncia in tema: “tenere davanti” è
come dire “tenere davanti agli occhi della mia mente”, il che con-
fermerebbe ancora una volta la priorità del visuale, nella nostra
agonizzante civiltà, anche per il poter pensare. Certamente, il po-
ter e il saper pensare si fondano sulle immagini, ma non attraverso
la priorità della vista; così ho appreso dagli insegnamenti radicali
di una delle mie maestre più sovversive, María Zambrano, a sua
volta istruita dalla filosofia mediorientale.
Tuttavia, ora non vorrei approfondire questa pista, che tengo
però sottotraccia; torno piuttosto alle riflessioni di Mauro Carbo-
ne. La presenza dell’ennesima guerra nelle nostre vite, così fragili
in proprio e ulteriormente esposte se lasciate in mano a chi ha il
potere delle armi, mi ha imposto di riscrivere il mio contributo,
che si era allineato alla necessaria valutazione delle conseguenze
dell’era digitale nel campo del filosofare. Per esempio: l’assurda
guerra tra Russia e Ucraina – già diventata mondiale – ci si è pre-
sentata con l’aspetto delle guerre predigitali. È combattuta a ter-
ra, con i vecchi mezzi militari pesanti, con i soldati appiedati. Non

Annarosa Buttarelli, filosofa e saggista, ha insegnato Ermeneutica filosofica e Filosofia del-


la storia all’Università di Verona.

aut aut, 396, 2022, 175-181 175


possiede l’ombra di fierezza del digitale, la cui “era” è sfruttata
solamente dalla CIA, che da parte occidentale sorveglia e guida
l’attuale conflitto bellico con droni, satelliti, PC ecc. Se la svolta
digitale rimane controversa per il pensiero, è anche perché ha il
potere di dissolvere l’importanza materiale dei corpi e della vita
che vi scorre dentro e fuori. Ha il potere di dissolvere il pensiero
critico, come si può constatare già nei licei di tutto il mondo, in
cui gli occhi di studenti e studentesse sono fissi sugli schermi che
rispondono a ogni loro curiosità intellettuale, tradendola con un
eccesso di errori e di approssimazioni.
La guerra che si sta combattendo tradisce a sua volta la voglia
di antico, anzi di vecchio: rimette in primo piano i corpi dei civili
assassinati, dei crani fasciati, delle gambe amputate, delle donne
stuprate, dei bambini e delle bambine uccisi, delle torture, dei col-
pi di pistola alla nuca, delle madri in lacrime, delle giovani donne
che urlano la perdita dei figli e delle figlie; poi ci sono altri corpi:
quelli delle città bombardate a tappeto, delle case bruciate, degli
animali in fuga o catatonici per il terrore, delle piante inutilmente
coltivate. Tutte immagini. Tutte immagini vere?
Quale rivoluzione ha portato l’era digitale nel percorso antro-
pologico dell’umanità maschile? Quale rivoluzione nella filoso-
fia dicotomica occidentale ha portato il sapere visuale-digitale?
Probabilmente Nicole Loraux, Jacques Rancière, Georges Didi-
Huberman (pensatrice e pensatori anacronistici) direbbero “nes-
suna”, dato che siamo obbligati a constatare il granitico spessore
di rimossi storici e di mancata autocoscienza del contenuto “invi-
sibile” dei vissuti e della psiche.
Se abbiamo accertato finalmente, come hanno profetizzato le
pensatrici del Novecento, che la storia non insegna nulla,1 tanto-
meno se “vediamo” gli orrori che ho elencato qualche riga fa, allo-

1. Su “Domani” del 29 aprile 2022, Manlio Graziano scrive: “La storia non insegna
nulla. Quando scoppia una guerra, non solo riscopriamo che, come esseri umani, ‘proce-
diamo a quattro zampe e che non siamo ancora usciti dall’era barbarica della nostra storia’
(come scrisse Trockij allo scoppio delle guerre balcaniche centodieci anni fa); ma ricadia-
mo anche, pavlovianamente, nell’atavico bisogno di cieco intruppamento sviluppato al-
l’era delle caverne”.

176
Pensare con due occhi. Filosofia
e tecnologie dell’immagine
STEFANO CATUCCI

“Un’arte di pensare che non ha niente in comune


col pensiero”
All’alba del Novecento, una singolare coincidenza storica ha vi-
sto procedere in parallelo lo sviluppo delle tecnologie dell’imma-
gine e quello delle tecnologie della distruzione, quasi che fra di
esse si fosse instaurata una segreta complicità nel confronto tra i
limiti di ciò che si può fare e di ciò che si può credere. La guerra
russo-giapponese del 1904-1905 è stata, da questo punto di vista,
una tragica prova generale. Di fronte alla novità della guerra indu-
strializzata e alla comparsa dell’artiglieria moderna, i racconti dei
testimoni, dei medici, degli psichiatri, le cronache dei giornalisti,
le narrazioni degli scrittori non tenevano il passo di quanto acca-
deva se non ricorrendo a espressioni iperboliche che introduceva-
no nel linguaggio un repertorio di analogie e metafore segnato dal
bisogno di far “vedere” immagini attraverso le parole per raccon-
tare l’irraccontabile. L’alienista russo Paul Jacoby paragonò gli ef-
fetti delle nuove armi a “catastrofi cosmiche”, “terremoti”, “eru-
zioni di vulcani”; Luigi Barzini descrisse la battaglia di Tsushima
osservando che la potenza del “rombo dell’artiglieria” sovrastava
quello del mare in tempesta; lo scrittore Leonid Andreev, che non
ebbe esperienze dirette sul fronte, condensò le ripercussioni psi-
chiche della nuova guerra nella metafora del “riso rosso”.1

Stefano Catucci insegna Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma.


1. Fonti citate in A. Gibelli, L’officina della guerra, Bollati Boringhieri, Torino 20072,
pp. 19-26.

182 aut aut, 396, 2022, 182-198


Più che i testi, però, furono proprio le immagini a testimoniare
la novità di quella guerra, insinuando fra molte riprese convenzio-
nali poche ma terribili aperture sul mai visto e sull’orrore. Le mac-
chine fotografiche portatili, con la pellicola a rullo in celluloide
brevettata da George Eastman solo quindici anni prima, diventa-
vano un supporto indispensabile per la percezione di chi parteci-
pava alla guerra e mostravano a chi non c’era stato qualcosa di im-
paragonabile a qualsiasi esperienza conosciuta. Dieci anni dopo,
la Grande guerra avrebbe esteso la potenza delle immagini non
meno di quanto si era accresciuta quella delle armi. Le fotocame-
re erano diventate una dotazione relativamente comune, soldati di
estrazione borghese portavano con sé le proprie e a soldati spesso
analfabeti venivano fornite dall’esercito. La censura si impegnava
a governare la circolazione delle istantanee, ma non poteva con-
trollarne la produzione. Il bisogno di fotografare esprimeva l’im-
pellenza di fissare in immagini esterne, condivisibili e apparente-
mente neutrali, l’estrema tensione fra l’abituale e l’incredibile che
sembrava essere l’essenza stessa della vita in prima linea: giornate
che scorrevano inerti, nella più quieta normalità, altre traumatiche
oltre ogni sopportazione.
Oltre alla fotografia, la Grande guerra vide intervenire un’altra
tecnologia dell’immagine, il cinema, ma in una diversità di acce-
zioni che avrebbero presto eroso la linea di confine tra la finzione
e la realtà. Il cinema fece la sua comparsa in guerra come servi-
zio di documentazione e di propaganda direttamente gestito da-
gli eserciti, ma divenne anche un sistema cognitivo con il quale si
cercava di portare al livello della percezione ciò che la sovrastava,
creando un nodo inestricabile fra la rappresentazione e l’esperien-
za vissuta. Le riprese effettuate per realizzare cinegiornali erano
improntate a una forma di narrazione della guerra ancora arcaica,
quella per cui la battaglia si svolge apertamente su un campo do-
minabile dallo sguardo e in cui è possibile distinguere vincitori e
vinti, raccontare di avanzate e di ritirate, di conquiste e di perdite.
Per anni, invece, la guerra di posizione e di logoramento aveva of-
ferto uno spettacolo impossibile da ricondurre a quei canoni nar-
rativi: paesaggi spettrali nei quali nulla si vedeva se non deserti di

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Il medium di trasporto
della percezione
ANDREA PINOTTI

La formazione dei sensi nel medium di trasporto


Il celeberrimo passaggio dell’Ideologia tedesca, in cui Marx ed
Engels ricorrono all’immagine della camera oscura per caratteriz-
zare quel peculiare ribaltamento dei rapporti fra gli esseri umani
operanti nella loro vita concreta e la loro dimensione spirituale,
segna il momento fatale in cui, nella modernità, il funzionamento
di un dispositivo ottico viene impiegato per illustrare una costru-
zione ideologica: “Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rap-
porti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fe-
nomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come
il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro imme-
diato processo fisico”. I costrutti morali, religiosi, metafisici, la
dimensione immaginativa e rappresentazionale, in una parola la
coscienza, non sono che processi di sublimazione, echi e riflessi
di processi reali e materiali di vita:

Qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli
uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che
si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arri-
vare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente

Andrea Pinotti insegna Estetica all’Università “Statale” di Milano.


Questo articolo è stato realizzato nel quadro del programma di ricerca e innovazione del-
l’Unione Europea Horizon 2020 (Grant Agreement n. 834033 AN-ICON), finanziato dallo
European Research Council (ERC) e ospitato dal Dipartimento di filosofia “Piero Martinet-
ti” dell’Università degli studi di Milano nell’ambito del progetto “Dipartimenti di Eccellen-
za 2018-2022”, attribuito dal Ministero dell’istruzione, università e ricerca (MIUR).

aut aut, 396, 2022, 199-211 199


operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega
anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo
processo di vita.1

Un processo di vita che è organizzato secondo determinati rap-


porti sociali e politici, i quali a loro volta mutano storicamente.
Scritte fra la fine del 1845 e l’autunno del 1846, ma pubblicate
integralmente solo nel 1932 nel volume I.5 della MEGA, queste pa-
gine – proprio per la loro insistenza sulla dimensione costitutiva-
mente storica dei reali processi vitali – non trascurano di concepi-
re lo stesso sensorio umano come strutturalmente storicizzato: se
Feuerbach intravede la centralità della sfera sensibile, la inquadra
tuttavia nella costituzione del Mensch, dell’essere umano in ge-
nerale. Ma questo Mensch è storicamente condizionato e situato,
come lo è l’ambiente sensibile nel quale vive e dal quale trae le ri-
sorse per soddisfare i propri bisogni: “È noto che il ciliegio, come
quasi tutti gli alberi da frutta, è stato trapiantato nella nostra zona
pochi secoli or sono grazie al commercio, e perciò soltanto grazie a
questa azione di una determinata società in un determinato tempo
esso fu offerto alla ‘certezza sensibile’ di Feuerbach”.2
In questo senso, si tratta di riflessioni che vanno lette tenendo
in filigrana quel passo dei Manoscritti economico-filosofici, stesi
poco tempo prima, in cui Marx esprime l’esigenza di intendere
i cinque sensi non come “organi immediati [unmittelbare Orga-
ne], bensì come “organi sociali [gesellschaftliche Organe]”, orga-
ni, quindi, le cui operatività percettiva e correlazione ambientale
sono profondamente vincolate alle, e mediate dalle, condizioni
storico-sociali ed economiche nelle quali il Mensch si trova di vol-
ta in volta a esistere: “La formazione dei cinque sensi è un’opera
di tutta la storia del mondo sino ad oggi [Die Bildung der 5 Sinne
ist eine Arbeit der ganzen bisherigen Weltgeschichte]”.3 “Formazio-

1. K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca (1846), trad. di F. Codino, a cura di C. Lupo-


rini, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 13.
2. Ivi, p. 16.
3. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi,
Torino 1978, p. 116.

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