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Fantaromanzo giovane e sinergico di Filippo

Scòzzari + Nipote

PARTE PRIMA

Chi, e come, e quando. Il perché non c’è.

Diciamo che Barozzi Vanes nasce a Sassuolo (MO) trentacinque anni


fa da Barozzi Widmer, capo operaio in una fabbrica di sigarette.
Ha contribuito Minguzzi Mirca, cartolaia.
Evidentemente.

PARTE SECONDA

Dove

Sassuolo è una ridente cittadina della provincia modenese,


caratterizzata da un’economia molto florida (ecco perché cittad. ridente.
Anzi, bisognerebbe proprio dirla gongolante). Lì, e nei dintorni, e anche
tutt’intorno, per non parlare dei paraggi, prosperano ceramiche e
mortadelle, e mortadelle e ceramiche; la disoccupazione è pressoché
sconosciuta e ne consegue che il tenore di vita è piuttosto alto. Pochi
hanno una laurea, chiunque una Ferrari Rossa, due cellulari, braccialetti
e catene d’oro, una o più fidanzate bionde con pelliccia, minigonna,
cellulare, cellulite, tacchi a spillo, passato con calli.
Avendo il tenore alto, con bella logica i vecchi stravedono per tenori
rasoterra obesi antipatici con sciarpetta bianca; i giovani invece, che la
logica l’hanno orrenda, accendono gli accendini ad artisti rock afoni,
birraioli e zuccherosi. Vanno matti pure per le fotine degli dei degli stadi
con la colla dietro, e le appiccicano dappertutto, anche sui panini
americani, behavior tribalsociologico studiatissimo ma scarsamente
compreso.
In effetti, qui non esiste il perché preciso di nulla. Si dica Sassuolo, si
dica Modena, si dica Bassa, si dica come si vuole, basti accettare che in
queste plaghe la logica risiede tutta nelle piastrelle e nelle cosce dei
maiali morti. Da lì si parte e lì si arriva, e le cosce delle maiale vive,
endemiche, sono solo un burroso fringe benefit della suesposta filosofia.
Per comunicare tra loro gli indigeni sono prodighi di un emiliano
strascicatissimo, spalmabile, di cui i forestieri capiscono una parola su
tre: i vocaboli, intercalati dalla locuzione chiave tìo bò (dio buono),
vengono troncati nella parte finale. Chi è straniero deve farsi ripetere le
frasi sei volte prima di capire qualcosa, e non è sempre detta. L’uso
indiscriminato dell’esshe shchifosa, poi, fa sì che per i visitatori sia un
vero pain in the ass transitare da queste parti ed ottenere informazioni
intelligibili. Quasi peggio che a Bergamo, altra cittadina ridente con
segnaletica semantica problematica.
Uno shasshuoleshe che si rispetti - il quale racchiude in sé il più ampio
e generoso sentire modenese, come si evince dalle targhe e dal prefisso
teleselettivo - ha il vizio di sostituire proverbi sbagliati e monchi a
concetti altrimenti chiari e cristallini. Se, ad esempio, un bulagnese della
vicina e rivale Bulagna (i rancori del catino rapito non sono ancora
sopiti) chiede «In dove rimane 'sta Modna?», stia bel tranquillo che gli
risponderanno «Chivà caval donatim para shoppicare», o «Rossho di
shera dei paesi tuoi», o «Megliun uovoggi can bulagneshalla porta, tìo
bò. Va' vi', veh».
Al pari di qualsiasi fortunello baciato nel SuperAnalotto, chi
semplicemente, fin troppo semplicemente, è nato in zona, non può fare a
meno di sognare o comprarsi La Rossa. Il Paradiso è a due passi, la
terzana ferrarica endemica, le strade sassuolesi dritte e lisce che è un
piacere darci dentro d'acceleratore. Importa relativamente se ad eccitarsi
è poi una Festa o una Clito, tanto lo scudetto giallo col cavallo nero,
rampante e senza uccello, da qualche parte è sicuramente esposto al
pubblico, spesso con più azioni esecutive del medesimo disegno
speranzoso. L'essenziale è dichiararsi. Fare vruum.
Come nella vita, nel lavoro, nella guida e nelle indicazioni ai viandanti,
anche a tavola i modensassuolesi stanno ben attenti a distinguersi dal
resto dei mangianti terrestri. Qui nessuno è vegetariano, nemmeno le
mucche, e i pochi che osano saltare il fosso - perché hanno raggiunto
l’Illuminazione dopo un viaggio in India, o perché hanno conosciuto una
stragnocca che becchetta esclusivamente insalatine e tofu, o perché
hanno un cancro allo stomaco - sono emarginati dalla società, e trattati,
in un crescendo di ribrezzo, da quei viadosh, meridionali, tifosi della
McLaren e bulagnesi che certamente shono, garantito al tio bo'.
Il SuperAceto Dodicenne, spacciato in bottigliette strombonate firmate
da un carrossaio burino internèscional, è talmente costoso che viene
crociato sulla fronte dei bimbi solo quando stanno per morire; nei
ristoranti è asperso a rade, esitanti goccine sui polli morti di psittacosi,
per ingannare l’Ufficio d’Igiene. É nero, non mette conto parlarne
ulteriorm.
Per evidenziare la splendida superiorità della civiltà modenese, e in
odio a Bulagna, i tortellini, qui molto più superpessimi che nella capitale,
ove si ostinano a farli ancora a mano e in casa, poveri provinciali che
non shono altro, vengono confezionati a macchina e microscopici, sotto
enormi capannoni. In alcuni asili pilota, e nelle scuole di meccanica,
s’insegna: «Shotto le torri, che shono busoni, shi fanno i tortelloni. Noi,
che shiamo sassuolini un poco ghirlandini, i tortellini shono fini, tio bo'».
La sintassi, appena meno sbilenca della logica, è un portato del degrado
della scuola, ma è un dato negativo comune a tutto lo stivale, non si
creda. Mal comune mezzo guano. Onnì suà chi mal di panz. Anzi, come
l'America l'ha saputo, s'è detta: «Vuoi vedere che quelli sanno qualcosa
più di noi, Go' Got (Tio bo')?» e per ingraziarsele hanno eletto le scuole
di 'sta zona come le migliori del mondo. Poi uno dice.
Lievemente più a nord, in una fetta tranquillissima di cui non importa
mai niente a nessuno, quindi figurarsi a Sassuolo, ad ogni modo per farli
contenti li si citi, i comunisti di Reggio Emilia, contenti? sono montati su
tutte le furie: «Ma come, l'anno scorso avevate sostenuto che eravamo
noi i campioni del mondo. Già cambiato idea, fascisti di merda?». I f. di
m. allora gli hanno spedito in loco quella loro orribile vecchia tappa con
la faccia storta, pagata per tenere calmini tutti, che ha minacciato:
«Abbiamo cambiato idea. Voi badate a fare il grana, noi la grana, e
buoni così. Good axè». Pure in questo editto la logica e il senso sono
scarsini, ma chi s'azzarda a protestare contro un paese che guida così
tanti bassi aerei cattivi e così tante basse vecchie cattive? Chiuso l'inciso.
In politica ci si è voluti diversificare, è stato posto un distinguo, come
dicono gli intellettuali a pranzo. Per contraddire il concetto che là ove
allignino ignoranza e miseria e disperazione e sfruttamento dell’uomo
sull’uomo là prospera il salvifico comunismo, qui, che tutti sono in pace
con l’Universo e nulla si sognano di chiederGli, qui tutti sono comunisti
marxisti capitalisti maturi, anche i metalmeccani di Maranello,
orgogliosi fino alla spocchia della loro bravura nell’assemblare maserati
ai padroni, anche i cessaioli di Sassuolo, fieri sino al tremolìo del mento
della loro professionalità nel cuocere china clay per i bagni dei padroni.
Anche i mortadellari, che la realtà la concepiscono come il Pastone da
cui tutti proveniamo, che tutti mangiamo e cui tutti ritorneremo,
frequentano la stessa trincea: il Pasticcio lo confezionano e lo vendono,
figurarsi se non sono ben felici di crederci, e viverci. Mortadella è
Conseguenza.
Questo generale modo di rapportarsi alla realtà si riflette, fra l’altro,
nella Problematica di Accoglimento del Diverso. Per esempio i negri,
frotte, sono identici agli altri stranieri qui convenuti, lavorano, lavorano,
lavorano e ovviamente non capiscono nulla di com’é messa la terra
Promessa, non avendo, in questo senso, il Lavoro liberato mai l’intelletto
di nessuno. Sono rispettati, qualcuno riesce a chiavare, e se sono schedati
ai Sindacati, alla Camera del Lavoro, alla Camera di Commercio,
all’Ispettorato del Lavoro ed in Questura sono pagati esattamente come i
bianchi, e la sera, stracchi e basiti, possono benissimo andare a dormire
sotto un ponte, liberamente scelto.
I primi ad arrivare i preti li accolsero con amore, santa pazienza e con
un occhio attento a non infangarsi il ruolino agli occhi del Signore. Li
fecero dormire in chiesa dietro l’altare, in sagrestia, nei campanili, nei
seminari deserti, negli asili ragnatelosi, uomini di qua, donne di là, che
ne so io se siete sposati, non vi ho mica sposato io, li sfamarono nei
refettori, li rivestirono, li disinfettarono prima col Lysolo perché chi non
conosce dio è assediato da nequizie con zampine, poi con le buone
parole: un anima è un’anima, e non puoi mai escludere che ne siano in
possesso anche gli animisti, che stupido errore sarebbe. Di tanta solerzia
i Comunisti Capitalisti Comandanti vollero capire solo che se fate tutto
voi a noi non rimane spazio d’intervento, sottraete Iniziativa, cos’avete
in mente, cosa sperate di ottenere, sappiamo chi vi paga, e se la legarono
al dito.
Esaurite stipate congestionate tutte le aree di parcheggio a disposizione,
esaurite stipate congestionate le fabbriche dismesse, i maialifici bocciati
dalla LIPU o incendiati per l’assicurazione, le cantine, i sottoscala e i
solai delle affittacamere, a volte le stesse affittacamere, quelli che sono
venuti dopo hanno dovuto rivolgersi alle ariose arcate sul Panaro e sul
Samoggia, in questo senso rivelatisi fiumi ben più larghi
dell’impiccatore Mississippi. Alcuni preti, cristianamente e cretinamente,
si rivolsero alle Istituzioni Civili di Cesare, per spronarle e vedere se
potevano concedere la carità di qualche Casa del Popolo eventualm. in
esubero, ma erano aspettati al varco, e fu una gioia obiettar loro che col
murodiberlinepocale le abbiamo dovute demolire quasi tutte, padre, e le
ultime Ci servono per il Tressette Della Domenica e La Goriziana
Quotidiana e il Ping Pong del Lavoratore, lo sport fa troppo bene alle
giovani generazioni, padre, lo sa anche lei, vediamo di capirci. Ci pensi,
una soluzione la trova, è così bravo lei. Padre.
Quaggiù pure lo sport, neanche a dirlo, è differente dal resto dello
stivale. Negati coi piedi, squadre pietose, in genere blu e gialle, figurarsi,
stufi di farsi prendere a sberle dallo squadrone della capitale hanno
deciso con facile transfert di darsi anima e insaccati alla palla presa a
sberle. E ci riescono benino. A Modna, però, stare attenti. Qui niente.
Gioco fermo. Qui si fa vruum.
La mortadella, santa patrona ed argomento di conversazione
inesauribile, che va perciò ripreso, è - ben prima della Ghirlandina,
torretta cretina tirata su ad imitazione di quelle di Bulagna, che
nemmeno la vedono - il mistico simbolo fallico di queste terre (oltre che
caricatura e programma segreto di noti asini politici). Un proverbio
locale non a caso ammonisce: «Gallina vecchia ci lassia il zampetto, tio
bo'». Nelle Ferrari Rosse al posto degli Arbres Magiques vengono
appese mortadelline in miniatura, vere ma in scala 1:48, con lo stesso
identico odore di pepino e schifo maciullato, e valga questo semplice
dato a definire compiutamente l'anima del comprensorio.

Chi

Quinto e ultimo figlio della famiglia Barozzi, Vanes ha due fratelli


grandi (Vùppel e Nerio) e due grandi sorelle (Luana e Katia).
Il pool vive in un condominio a schiera di eternit, adesso, circondato da
una fabbrica di piastrelle e da una porcilaia, ma allora, allora facevano i
fenomeni in una grande casa colonica alle porte del villaggio. L’odore
salubre della campagna, ormai cancellato da ciminiere e deiezioni suine,
ha smesso da tempo di infastidire i Barozzi, precisamente da quando il
boom economico degli anni Sessanta scoreggiò nell’aia un giacimento di
metano di primario interesse nazionale. Il vecchio Widmer, con cinque
bocche fameliche a pigolargli sulle balle, non ebbe certo scrupoli ed
alienò il suo gas in pro d'una nota multinazionale, avvelenatora ed
assassina come le altre, ma con pedegree a sei gambe italiane, ancorché
nere e zigzaganti. Ancor oggi, quando nei moscosi pomeriggi d'estate
risogna quegli anni tumultuosi di progresso, l'Antico urla nel sonno
«DOVE DEVO FIRMARE?», e traccia ghirigori e X sul plaid. La saliva
che ruscella dalle mascelle divorziate è ad un tempo acquolina, anzianità
e vecchiaia, ma anche ricordo del furbesco inchiostro con cui s'affrancò
dalla gleba e s'affidò alla multinaz.
Che poi però impugnò il contratto, in lunghi mesi di lotta e avvocati
bravissimi gli fottette tutto, tutto, casona compresa, lo deportò dov'è
assopito ora e lo costrinse ad impiegarsi nel tabacchificio dei Monopoli
di Stato, che si presero quel po' d’operosa maturità che ancora gli restava
in corpo. Più un polmone.
Privo di ambizioni, Vanes non ha sofferto - come invece i suoi fratelli e
sorelle - di particolari angosce produttive.
Non ha aperto un’officina meccanica come Vùppel, divenuto
richiestissimo chirurgo di blocchi motore, dalle unghie nere e sante. Lui
non sa nulla di bulloni ("Non sono dei grossi rompicaz con delle grandi
arie?”), brugole ("Un po' amare, ma ottime nell’insalè"), o mandrini
("Da grande chiaverò come un mandrino"), perciò le sue unghie sono
rosee e santissime, e al completo.
Non ha manifestato ansie imprenditoriali come Nerio che, cercando di
imitare la carriera del babbo, s'è messo di giorno a vendere stecche di
sigarette allungate coi sassi alla stazione di Modena, e di notte stecchette
di fumo allungato con l'henné dietro la stazione di Modena. Vanes non
fuma, perciò non sa nulla di monopoli di stato, contrabbandi, finanzieri
allertati, pacchi notturni, viaggiatori imbestialiti e scaracchi mattutini.
Mica problema shuo, mica.
Le sorelle, donne in carriera, lo hanno surclassato.
La maggiore, Luana, ha aperto un salone di parrucchiera ed eshtetishta,
e nessuno al mondo ne sa più di lei sui peli umani delle donne e sulla
follia dell'uomo. In banca ha tirato su “i miei bei accantonamenti”, e
anche piuttosto in fretta: ogni due mesi passa da lei un emissario di
Dubai, sottile moro e distinto, che consegna un pacco inverosimile di
dollari in cambio dei pacchetti di riccioli biondi e pubici che Luana s'è
ben guardata dal buttar via. "Shì, tappeti da preghiera. Perché, credavate
che usavano ancora la lana? Nel 2000?”. E se non sono gli sceicchi del
2000, allora sono i re delle armi, su a Brescia, che danno in smanie e
perdono le ciocche ogni volta che il governo minaccia di statalizzargli le
triangolazioni. Alle prime sfoltite vogliono subito il tupè, o l'impianto
all'uncinetto. "Maschi. In un modo o in un altro, sempre la figa in testa"
dice Luana, come se questo potesse spiegare qualcosa, e intanto mette da
parte croccanti mélange di peli rossi, peli castani e peli ascellari, che
sull'Espresso hanno scoperto che quest’estate sarà il must, su a Cortina.
Katia invece, animella inquieta, la ribellina del babbo le sussurrava
Senior in anni non sospetti, ha smesso di studiare presto, ma nessuno l'ha
sgridata tanto sei una donna. Fa un lavoro dal nome estero: quando torna
a casa in tailleur rosso fasciatissimo e tacchi dorati sostiene di essere
un’hòstesh, e giù grandi giurin giuretta ad indici incrociati e baciati. Le
hanno creduto subito all'inizio, senza difficoltà, e si chiedono incuriositi,
vabbè, vagamente incuriositi, perché insista tanto coi giuringiuretta ogni
volta, dai, che bisogno c'è, ribellina. I suoi, in famiglia, gente terra terra,
alla mano, senza grilli, pensano che lavori sugli aerei, in cielo. Gli
steward degli aerei in cielo pensano sovente ai suoi lavorini di mano,
familiarissimi, e non vedono l'ora di tornare a terra, a sgrillettarla.
Anche Katia guadagna molto bene, ma in casa non scuce un soldo.
Come potrebbe? Cuore generoso, i nove decimi dei suoi introiti li cede al
fidanzato calabrese, ogni mattina pomeriggio e sera. "Maschi calabresi",
dice Katia, azzittendosi subito, ma questo già spiega moltissimo, specie i
lividi sotto il fard.
«Beata te che vedil mondo, ribellina!», le dice sempre babbo Widmer,
all'uscita dai sogni.
Vanes, invece, sembra ed è uno zero rotondo. Sin dalle elementari,
quando i compagni adoravano storpiargli il nome (Vesnel, Venus,
Vroccmèll, Vupps, Vasum, Zerospacché), ha sempre dimostrato apatia
nel reagire e nel prendere posizione. Nel pensare, insomma.
Questa piattezza interiore oltre che nei rapporti sociali si è riflessa
vigorosamente anche sulle performàns scolastiche. Alla terza bocciatura
consecutiva Barozzi Senior ha sentito che era meglio imbucarlo nella
piastrelleria sotto casa, dove peraltro lo hanno accolto a braccia aperte:
quattordici anni è l'età più adatta per domare arti scollegati dalla
centralina e al contempo incamerare le mille agevolazioni fiscali
collegate alla qualifica d’Apprendista. Muscoli in crescita, cervello in
cantina e tasse minime. E' questo il vero «Triangolo d’Oro», questo qui
in Padania, già allora. Altro che trafficanti birmani con le loro strane
polveri. Puttanate. Americanate. Cinema. Chiuso l'inciso.
In fabbrica Vanes ha presto intrecciato rapporti di solidarietà con
Ambiente Di Lavoro Giovane e Stimolante: si è fatto benvolere dai
macchinari, che non gli hanno richiesto la solita Offa del Novizio
(due/tre falangi arto sup. dx), si è iscritto al Sindaché, che gli ha chiesto
l'Opa Rossa (quinto dello stipendio al netto delle ritenute di legge, e se
non ti sta bene scrivici), ha assunto una CdC [Coscienza di Classe], ed è
arrivato persino a credere che, se continuerà a lavorare come un mulo,
prima o poi qualcuno lo fornirà di titolo nobiliare. Chi l'ha convinto
dicendosene convintissimo è stato Finzi Venerio, che si sta procurando la
necessaria asbestosi giù alle marcite di porcellana. Vanes vorrebbe
essere Conte, ma anche Marchese non gli suonerebbe male. Mercedes
sarebbe poi il massimo dei sette massimi, e Ferrarista Ufficiale, Con
Mortadellino E Insalata Impellicciata e Nuda Sotto, il Max dei diecimila
Max, però capta oscuramente d’essere ancora troppo giovane per un tal
livello d’ambizione, meglio volare bassi, almeno nei primi tempi. Il che
sa un po' di sbruffonaggine: non ha mai volato ad altre quote.
Le mansioni di Vanes all’interno dell’Unità Produttiva sono le segg.:
con un tenaglione intercettare sul nastro trasportatore la masserella di
gres grezzo e rovente che in un rullante baccano d'inferno arriva a 45 km
l’ora; infilarla al volo sotto la sbozzatrice; girarsi al volo verso la
successiva senza ferire il collega di fianco, che non prova pari scrupolo
nei confronti di ‘sto bimbo scemo; cercare di non farsi sbozzare le mani;
cercare di non farsi sbozzare dal capo mentre a 450 l’ora si fa sei pippe
al volo nella tualè delle operaie; cercare a tutti i costi di farsi beccare
dalle operaie; infine, con un pennarello rosso, circondare di frecce,
circoli, punti esclamativi e sottolineature triple i sospironi con cui glassa
sul retro le porte della tualè. A seguire la firma VANES, ed il telefono di
casa, e l’indirizzo, con allegata una piantina della città graffita a biro, in
cui non si capisce niente perché un’enorme X (IO, VANES !)
sormonta e cancella tutte le strade d’accesso.
Sul finire del primo anno s’insinua in lui il sospetto che le operaie non
sappiano leggere, e quadruplica la lena, ma al termine del biennio
raggiunge l'amara certezza.
Vanes impiega una notevole percentuale della busta paga in
attrezzature assortite da bicicletta, per lo sfoggio nelle intruppate della
domenica sportiva (maglia rosa a piselli bianchi Bellei Mortadelle,
occhiali versicolori parabolici con stanghette a zigzag; casco viola a
mandorla; scarpette gialle fosforescenti con talloni catarrofrangenti per
pavoneggiarsi con chi vien da dietro; borraccia verde smeraldo da due
litri, sempre piena d’acquoso Gatorade ai sali rimpiazzanti, che non beve
perché costa l' ira del tio bo'; bici californiana gialla ai supertubi
cadmiotungstenici, cambio sciamano, o un nome così. In quanto
campagnolo, va pazzo per le cose esotiche).
Quel che non gli succhiano il Sindaché e la bici glielo succhiano le
balere, in un forsennato alternarsi tra il Kiwi di Piumazzo, il Shavuarfèr
di Carpi e La Cavalla Rossa di Pavullo. Vanes è, infatti, un campioncino
circondariale di polke, mazurche e ciaciacià, ma irrefrenabile sta
prendendo anche lezioni di scialscia e meringhe, la modernità ce l'ha nel
sangue e nessuna sbozzatrice gliela mozzerà mai.
Il poco che gli resta lo investe oculatamente nel nido di provenienza,
dal quale, se fosse per lui, mai spiccherebbe il volo, passerotto implume
che è: mobiletti e soprammobiletti in plastica ultimo '900, sottobicchieri
in truciolato laccato, colombe segnatempo di San Marino, rosa o azzurre
a seconda di come tiri il culo al suddetto tempo; quadri raffiguranti scene
di caccia - il setter col fagiano in bocca. Un colpo gobbo di cui va
fierissimo è un autentico "Setter con Fagiano in Bocca", tormentato
acrilico su masonite firmato Zanni Ottavino 89, fece, acquisito nel
corso d’una primaria asta per crucchi, a Milano Marittima un'estate. Vi
era entrato a curiosare con Finzi Venerio e sig.raaaatciùm, che
starnutendo cretina proprio quando il banditore stava per battere
"...eeeeeeeeTTR-", s'era stretta al marito e aveva indicato Vanes.
Seicentoquindicimila, più commissioni d’asta.
Siccome poi il suo spirito è vasto, ecco collezioni di bottigline di
liquore; libri con le sovrimpressioni in oro pressoché zecchino, mai
aperti; un’autentica gondola veneziana con le lucette dentro - da
accendere a Natale; un carrettino siciliano carico di Fruttini di Sicilia che
proibisce a tutti di mangiare, meno che alle tarme; un mobiletto
pavimento-soffitto in truciolato che lui lo chiama “la mia armeria”,
contenente l’attrezzatura da caccia ma anche la sua cerbottana preferita
di quando bambino sparava frecce rinforzate col vinavil in faccia alle
beghine all’entrata e all’uscita da messa, una scacciacani da sempre usata
col medesimo scopo, una fionda coi quadriletti corrosi, una volta terrore
delle, appunto, beghine, e una mini balestra di Gubbio che non ha mai
prestato servizio in funzione anti-vecchia perché bloccata e finta, ma
quanto ci pianse il bimbo Vanes quando se ne accorse dopo la compera;
occhiali a raggi X per spiare attraverso i vestiti delle compagne operaie,
però poi le rivelazioni l'hanno spaventato e li ha lasciati a casa; un
bandierone rosso con la faccia di Villeneuve Padre, buona per Imola e
per gli scioperi; vasta distesa di sorpresine Kinder (quindici volte lo
stesso nanetto del bosco che mangia l'uva); l’attrezzatura bresciana da
caccia di cui si diceva, per sfracellare qualche passero le domeniche che
non va in bicicletta; camicie multicolori a fiori e cravatte con Topolini,
per sfracellare le passere dietro il dancing dopo i dancing; un
lampioncino ottagonale a pagoda + frappine rosse + nappine parimenti
rosse tipo Taiwan, appeso in posizione prioritaria nel salotto da ricevere,
per impressionare gli amici con l'eclettica sicurezza delle scelte mentre
sorbettano il suo estatè da squisitissime tazzinine dotate di fischio,
vendutegli in abbinamento col lampioncino. Quando il liquido è esaurito,
a farne le veci sono vermuttini di tutte le più premiate ditte, e vodchine al
limone (ma non quelle della collezioncina, guai ve’). L'importante è che
le tazzinine shiano shempre piene e che fischino bene, con quello che ha
dovuto sbòrr – shàre, ah ah ah ah.
Ah, e poi c'è la gruccia elettrica stirapantaloni, che mantiene
arRowentata tutto il giorno anche quando è vuota. E un portascarpe in
plastica a fiori con avvolgibile, che ha ridato tono al lùk del bagno. La
mamma gli piaceva nella reclame su una rivista, lui contento glielo ha
regalè.
Vanes, dunque, oltre che un lavoratore e uno sportivo, è un bravo
ragazzo e una personcina di gusto, che incrementa e integra il pane
quotidiano, contribuisce non senza stile all’arredo-casa e innalza di
qualche tot le aspettative di vita del proprio nucleo abitativo, qualsiasi
cosa ciò significhi.
Un figlio che ogni mamma sassuolese vorrebbe avere, meno la sua, che
lo vorrebbe un po' più scattante, meno attento ai portascarpe a fiori,
meno - meno gnocco.
E qui s'arriva al punto.
Ad onta della sua assidua frequentazione di balere, il giovane operaio
non riesce ad avere un rapporto approfondito con lo sdraiabil sesso. La
mamma lo vuole meno gnocco, lui per se' reclama molta gnocca. Lo
specchio del bagno lo sa bene, se lo sarà sentito ordinare un miliardo di
volte, uffi, ma più che appannarsi quando Vanes ansima forte non può
fare.
Non che il ragazzo sia particolarmente brutto: a prescindere dalla scarsa
igiene timpanica e unghiale, dalla facciazza larga e dall’alito al salame,
si può affermare che raggiunge una bruttezza media. Il problema è che
non potrà mai, mai andare oltre l’inchino e il «Mi chiamo Barozzi
Vanes. Balla, sgnuréina?». Non arriverà al folto, non riuscirà ad
impastare naticone nel cockpit della berlinetta padronale: non ha né l’età
né i soldi per La Rossa, unica chiave per aprire rosse, brune, bionde o
viventi.
Lo sa?
Non lo sa?
Non si sa.
Di fatto, e allo stato, l’accento, il lavoro, i brufoli, le camicie e i fiori
troppo proletari lo tagliano razzialmente fuori dall’élite locale, quella dei
padroncini, dotati dello stesso suo accento, dello stesso stile e delle
stesse manocce grosse, con le quali però artigliano la cloche dell'F 50,
stritolano le cosce di mortadelle bionde che cambiano ogni trimestre,
s’abbottonano camicie di un solo colore e s’annodano cravatte come dio
(Vandelli Punto Moda) comanda. Sono particolari minuscoli ma decisivi,
che sanciscono l’invalicabilità delle frontiere di casta, e chi ha da
obiettare, o addirittura proporre soluzioni, non ha capito nulla della
realtà.
Pur circondato da una vita intensa e ricca di stimoli culturali, dunque,
Vanes ha un’adolescenza irrisolta.
A volte accade, nella terra dei cavalli neri in campo giallo.

Come e perché

La Fabbrica non è solo il sito in cui l’Uomo in Blu si realizza, dà da


mangiare al sindacato e becca lo stipendio, quando lo becca.
È anche un ricettacolo di caratteri diversi, di etnie multicolori e
multiodori, portatrici di vizi, cassa di risonanza di troppe influenze, non
sempre produttive e utili per il progresso della società e per la Pace
Sociale tra i Popoli.
La Fabbrica, e sarebbe bene che uno di 'sti giorni qualcuno lo scrivesse,
forte e chiaro, è un merdaio.
È nel piastrellificio che verso i diciott’anni Vanes conosce Luppi
Mirko, ufficialmente addetto alla lucidatura. E' a tutti gli effetti la pecora
nera dell’Azienda, del Mondo del Lavoro, dell’Unità Sindacale e
dell’Antidroga: ha l’orribile, irriguardosa abitudine di incrementarsi il
salario con traffici sotterranei di pani di fumo, buste d’eroina e, nei
uichénd, scatoloni di hècstasi, voce primaria del suo PIL. (La busta paga
è per le sigarette). Il vespasiano della fabbrica è ufficio relazioni col
pubblico, reparto vendite, amministrazione, sala degustazione e
magazzino. L'ufficio reclami è sotto forma di manganello, trentun
centimetri di pompa da giardino imbottita con sfere di flipper. Là nei
cessi, soprattutto il venerdì sera, si fatturano cifre da debito estero di
paese messicano.
Una vera mela marcia. Un melone. Marcione.
Presentatogli per errore incoscienza e idiozia dal collega Venerio,
Mirko, più che il pusher di fiducia di Vanes, diventa in pochissime
compresse l'orsetto del cuore, quello sulla cui spalla poggiare la fronte
nei momenti di sconforto e piangere le proprie frustrazioni (sempre a
sfondo sessual-porno).
L’esoticità del manganello “fatto col flipper” ha bruciato ogni dubbio
iniziale di Vanes, soprattutto quando ha scoperto ammirato che in alcuni
frangenti pieni di contenzioso il suo nuovo amico se lo sfilava dalla
patta.
«Tìo bò, Venerio, al Shavuarfèr ieri c’era una bionda da sbattere la testa
shotto la verniciatrice, presente? Gliò chiesto she poteva prestarmi un po'
la lingua, ha detto vediamo, ma dopun paio ed polche è shalita shun
Ferrari e shé n’andata. Cam pozz’al fiè?», e giù una fiatata in faccia
all’amico, per vedere se è quello il problema.
Mirko, appannato, smette un secondo di dividere in covoni il raccolto
di biglietti da cento, buoni pasto e assegni falciati in giornata, e lo
conforta con dolci pacchette sulla schiena: «Maddai, cheddici, sai di
bimbo. Cosa fai, dai retta alle stronze? Vaanes. Vaaaanes...».
E Vanes gli crede con tutta l’anima, ma rimane ugualm. ripieno di
insicurezze e digiuno. Più tortello che torello. Insoddisfatto il
manganello.
Nel corso di sei mesi, auspice e patrocinatore Mirko, passa dalla prima
canna, fumata tra rantoli vomiti e tossi nel parcheggio di un cinema in
compagnia di amici dubbi, a sinfonie di pere nei cessi dei cinema, dei bar
e di casa sua, non negandosi però ginnici sballi a base di polveri strane
nei dancing.
Vanes, in effetti, è il primo, l’unico che riesca a coniugare chimica e
polche, in un originale mix personal-regionale: solitamente le pasticche
nel Mondo Ragazzo si accompagnano alla techno e alla trance, ma lui
riesce a lanciare una nuova moda, come dire, un nuovo ritmo. Ritmo di
vita, tio bo'.
Si può dire dunque, senza tema di cadere in cliché giornalistici tipici di
chi non sa scrivere, che il giovane entra nel turbine della droga.
Però c'è un però.
In vetta ai cubi dei baladùr, la migliore follia e l’aggiornata varietà
nelle movenze consentitegli dai nuovi additivi non consentono ancora al
drughè di farsi notare dal pool delle sgnurèine. Anche perché sui cubi i
maestri di sala non ce lo vogliono, e spediscono dei tizi grossissimi a
tirarlo giù al volo.
Agli inizi delle sue fresche golosità sperava un casino di acquisire
visibilità e carisma, specie quando irrompeva nei locali con steringhe già
pronte che, ad ago in su e con la goccia, facevano audace capolino dal
tascone del camicino a fioroni: " Se mi faccio vedere che mi faccio poi
me le faccio". Questo l'assioma vanesio di Vanes, ma delle sue steringhe
le stupide non sapevano che farsene, o non volevano avere a che farci.
Voltavano sussiegose la faccia, e il radar dei loro musi scandagliava con
alterigia la sala, in cerca di ferraristi affidabili, che non si gonfiassero il
pacco con tubi da giardino.
Sgnurèine. Contadine. Troie.
Questo agli inizi.
Poi è andata sempre peggio.
Verticalissimo peggio.
Non è sfrittato ancora col classico SPLAT! perché in genere questi
pozzi sono lunghi da percorrere (see, seee, ok, non lunghissimi,
sappiamo), e perché nella cattiva sorte droghereccia è riuscito a
mantenere un certo stile: tanto per cominciare ogni pera la sua aspirina,
poi in famiglia giustifica le valvole viola dei gomiti, dei polsi e delle
caviglie come un fungo della pelle tipico dei piastrellai, e anzi chiede se
qualcuno ha visto per caso la sua pomata o conosce qualche avvocato del
sindacato per denunciare la ditta. Alla catena e nei bagni produce col
solito vigore (lo sballo lo attende dopo la sirena, per cui la notte di sonno
lo aiuta a recuperare), e non rivela il proprio pesante segreto se non ai
compagni di fattanza, che non gliene frega niente, hanno i loro,
pesantissimi.
Vanes, quindi, segue l'iter classico della sua epoca e della sua regione.
Fabbrica, droga & ciaciacià.
A differenza di tanti coattanei però un bel giorno ha un’esperienza del
tio bo', che gli cambia irreversibilmente la vita. Forse in meglio.
Nel corso di un rave in un piastrellificio abbandonato, dopo un paio di
eshtasi e un paio di mila birre, Vanes incontra, anzi, ri-incontra
Giovannino, suo indimenticabile e dimenticato compagno d’infanzia.
Decine di partite a Subbuteo e Risiko, scambi combattutissimi di
calciatori Panini, gnocco fritto con mortadella a ungere sussidiari mai
aperti, giochi della bottiglia con Maria la Matta, la scompensata di
quartiere, pippe in cantina leggendo Zora, Maghella e le mutande
scippate alla Matta, furti dalla cassetta delle offerte in parrocchia.
Un’intera rigogliosa giovinezza passata insieme, un'amicizia cementata
dalla gozzoviglia e dalla deboscia pugnettara.
I rispettivi genitori li sconsigliavano di perdere tempo con le cose
invisibili, ma la parrocchia era l’unico posto, oltre la scuola, in cui
vedersi, divertirsi, progettare con audacia e lungimiranza il comune
futuro di astronauti alla Ferrari. Allo scoccare di una leggendaria
primavera, garrula di mandorli, rondini e scoccianti campane, i piccoli
Vanes e Giovannino ebbero la ventura di sostituire i due chierichetti
ufficiali, a letto perché non si sa come erano rovinosamente caduti tutti e
due dalla bici lo stesso giorno, lo stesso quarto d’ora e nello stesso punto
dello stesso marciapiede, ed entrarono nel giro delle benedizioni
pasquali. È noto come questa sia una missione molto ambita dai
ragazzini. Li attendono, in teoria, laute mance: biscotti, chiccamelle a
chili, baci dalle mamme degli altri, mai da scartare a priori. E soldini,
quelli soprattutto da non scartare a priori.
Si misero quindi addosso la tovaglia bucherellata d’ordinanza e presero
ad accompagnare don Gino Ghirlanda nel giro dei quartieri, sforzandosi
di non ridacchiare troppo e di non far spegnere l'incenso. Riuscivano a
mantenerlo sempre divotamente incandescente: sei o sette passi dietro il
vecchio pinguino, erano divenuti provetti nel roteare velocissimi il
turibolo finché accelerando accelerando accelerando le catenelle non
emettevano un lugubre zuuuuuuu. "Gezùùùùùùùùùù", sibilava
Giovannino, e a Vanes venivano stranguglioni e lacrimoni. Don Gino
taceva, e leggeva le sue scemenze nere coi dorsi rossi.
Molte signore, dopo l'aspersione docciativo-liberatoria e l’amen, sulla
soglia di casa erano solite consegnare al prete le offerte per la chiesa e, a
parte, quelle per i chierichetti: una mancetta in soldini, qualche
dolciume. Scarse a bacini, in genere, specie le più mammellute, le
migliori.
Non appena fuori dell’appartamento esorcizzato, però, don Gino
s’intascava tutte le offerte in denaro, lasciando ai ragazzi solo caramelle
e cioccolatini, esclusi i Gianduiotti, che s’infilava direttamente in gola.
Va detto, ad onore dello schifoso, che a qualcuno la stagnola la cavava, e
ancora scivolosa di saliva marrone la regalava ai due bimbi: "Per la
vostra collezione. O per proteggervi le dita dalle catenelle. Dite Ave
Maria". Poi, compiaciuto e frastornato dalla propria generosità, «Questi
soldini sono invece per la Chiesa, per il giro dei buoni, per l'africano che
soffre...», si sforzava di illustrare con alito cioccolatoso, battendosi la
tascona nera e sferragliante di bottino.
Vanes e Giovannino erano troppo ben educati, timidi e timorosi di Dio
(e delle nocche del vecchiaccio) per pensare anche solo «?», ma quelli,
per loro, erano soldoni, non soldini.
E si svegliarono. Da quel giorno nessuno dei due andò più in chiesa. Da
Grandi sarebbero diventati Grandi Bestemmiatori, si giurarono con
solenni giurin giuretta. E mantennero.
Tiiiiiiio bò, se mantennero.
Chiuso l'inciso.
Giovannino è appena tornato dal Mexxico, dove ha vissuto d’espedienti
per sei mesi, ed ha assunto il nuovo nome di Juan, integrato dal
soprannome El Duende. Se lo chiami Zvanén s’incazza.
Oltre ad una fidanzata chicana super unta con comedoni, senza collo e
con sterno carenato, ai comedoni, Juan ha portato a casa
un'aggiornatissima aria desperada internacionàl (sandali Bata, pantaloni
e camicia guatemaltechi, spietata spettinatura rastafari, marasma facciale
di tatuaggi, chiodi, aghi), EEEED anche uno zainetto di hongos: funghi
magici, direttamente da San José del Pacifico, Oaxaca, ancora caldi del
sol di laggiù.
«Li ho fregati ad una curandera cieca di centonove anni, Vanes, e ti
sballano alla supergranda, Vanes”.
«Come shiniettano», shibila Vanes, operativo.
«Non s’iniettano, sfighè, li devi mangiare così come sono. Gli togli le
croste di terra e te li fai con qualcosa di muy dulce perché hanno un
sapore amaro schifo, pero occhio alla quantità, sfighè. Soprattutto con
quelli grandi, che sono i mas potenti: prendine un pezzetto per volta, con
juicio, altrimenti ti scoppia il cervello e diventi cieco tu tambien. Forza,
tieni, eso es por ti, amigo, sfighè», e gliene smolla uno bello enorme. Il
colore e le dimensioni ricordano a Vanes gli stronzi dei dobermann del
piastrellificio, e spera subito di diventare cattivo altrettanto. Odora il
regalo, a cercar conferma.
Sono molte le cose che Vanes non sa di questo universo, moltissime.
La serata prosegue, e ritornano al galoppo i tempi dei cento Bettega per
un Causio, dei sibili del gezùùùù, dell’odio per i preti, del senso di potere
per il possesso della Jacuzia o del salvaslip sottratto alla Matta, che li
rincorreva ululando per ore e smetteva solo quando s'accorgeva che in
fuga se l'erano spartito e divorato. Rimpinzato da quest'ultimo ricordo,
Juan ancora sghignazzante se ne va con la fidanzata senza collo, si
suppone a rifarlo con lei, ma tutto da solo, senza correre e senza dover
dividere alcunché.
Vanes è ipersudigiri. Invidia ad arterie ingorgate il sudamericano,
impossibile non desiderare di sprangarlo e occuparne il posto, ma in
realtà non vede l’ora di provare il fungone.
Anzi sai checcè, me lo faccio adessho. Kazzaspetto?
Gli sporchi drogati hanno di queste priorità.
Corre nei bagni dismessissimi del piastrellificio dismesso.
Essendo guerrigliero che non s'arresta di fronte ai rigidi, stupidi limiti
imposti dalla società, dalla convenienza e dalla logica, e ragazzino
orgogliosissimo della propria impermeabilità a qualsiasi forma di
prudenza, e del fatto che non si è mai incollassato, ingurgita il regalo
tutto d’un botto (è sabato sera, e domani non deve lavorare), sfanculando
i consigli dell’amico. Non gli sono mai piaciuti i consigli. Non gli sono
mai piaciuti gli amici. Quelli poi che gli invadevano regolarmente la
Jacuzia e si pappavano ridendo i suoi carrarmatini gialli li ha sempre
odiati. Quelli che gli dicono sfighè ogni tre secondi li odia ancora
adesso. Non ha mai smesso. Perché smettere.
S'infila in gola la fatta canina come un mangiatore di spade, intero,
senza star lì a separare la cappella dal gambo, o spazzolare terra e
formichine secche. Saranno magiche pure loro, argomenta, tio bo'.
Un’Heineken doverosamente verde, birra designed apposta per i
giovani, accompagna e mollifica la funzione. Scioglie terra, formiche,
dubbi. Fortifica la voglia di revanche, anche se lui non la chiama così.
Riesce solo a pensare: "Ti spacco il culo, infame. Me li ridai, i miei
carrarmatini, vaccadio".
Gli effetti arrivano al galoppo.
L’ossidoriduzione n birre + (n acidi non smaltiti + 1 hg hongo) + 1000
antipatie infantili ancora in circolo innesca un melt down lisergico, ed il
cervellino gli schizza secco in Cina, dove rimane a friggere sobbalzare e
fumare per diecimila anni. Cervello laccato arancione, con poveri coolies
che lo sfidano terrorizzati a forconate, squittendo da quelle scimmie che
sono "Vatti via vatti via, diavolo bianco".
Dopo altri diecimila anni arrivano diecimila milioni di studenti in
camicia bianca, che prima educano i contadini a non fare le solite cazzate
che fanno i contadini in tempi di crisi, poi lo ficcano in una cassetta da
frutta, e lo portano in corteo in una piazza smisurata, dov’è spalmato per
terra nel giovanilistico e ribellistico tentativo di far slittare i cingoli dei
carri armati gialli delle guardie gialle che stanno arrivando ridendo e
cantando sceemi, sceemi. La manovra studentesca ovviamente fallisce, i
carri armati gialli si scatenano, diecimila miliardi di guardie escono e
portano via tutto, scemi, speranze, cadaveri spalmati, cervello laccato
arrotolato in una stuoia che sa un po' di merda. Repulisti a Pechino,
Pechino, Pechi
Con un palanchino molti infermieri del 118 strappano Vanes
avvinghiato ad una tazza di cesso dismessa ma usatissima, mentre raglia
caga sbava, minaccia il cielo e i suoi dei senza senso, fischia il valzer
Geppino Primo e vomita boli nerastri in cui galleggiano formiche
giganti. Appena gli infermieri zampettano inorriditi tra gli schizzi e
arretrano, lui si riavvinghia.
E torna nella piazza cinese e vasta, ma non c'è più nessuno. Lontana,
lontanissima, una studentessa, minuta, solitaria, leva i pugni al cielo e
squittisce a ripetizione "Riprovaci un po' budda del cazzo, riprovaci un po' budda del
cazzo".
Piove una pioggia beffarda.
Dopo aver gentilmente rifiutato l'aiuto di un giovane esorcista travestito
da studentessa, intrufolatosi nel rave per debellare definitivam. il
demonio modernista, ed acquisire utili punticini agli occhi del proprio
Vescovo, gli infermieri riescono a staccare il paziente a suon di secchiate
d’acqua gelata, come si fa dopo qualche mezz’ora coi dobermann dei
piastrellifici, se hanno finito di sfogarsi sugli albanesi col vizio di
scavalcare i muri di cinta.
Segue svenimento conclusivo.
Con flatulenza schioppettante.
Ricoverato d’urgenza, gli praticano una Lavanda Gastrica Numero
Sette, nota nel giro come la Seven Uuorp. L’esofago restituisce liquami
cangianti e minacciosi, pezzi neri di fungo che hanno già sviluppato
braccine e gambine, due cartoncini fustellati, uno con la sagoma di Clark
Kent che si sta spogliando per aiutare Lois, l’altro con Lois che si riveste
un po’ sbilenca dopo che Clark ha finito di aiutarla, (“Bootleg!”, sostiene
un giovane brillante diagnosta), linguette di lattina, un bignè mai
digerito, alcuni decagrammi di carpenteria fine assortita, formiche
centroamericane rare e persino un coleottero verde smeraldo incistatosi
nel fungo e che fino all’ultimo aveva sperato di cavarsela, lo si evince da
come si sta proteggendo ancora il culo morto con le elitre morte. Suscita
interesse il reperto calcificato d’una ½ porzione di salvaslip di prima
generazione, senza ali e con tracce conclamate di morsicature infantili.
Il ricovero, oltre ad offrire spunto e materiali per un articolo di Cucina
Italiana sulle insospettate possibilità dell’apparato digerente umano
giovanile moderno, suscita enorme scandalo nell’ambiente sociale
dell’hinterland lavorativo shassuolese.
Sul ragazzo shabbatte l'uraghéno.
Finito in prima pagina sul Resto del Calzino, autorevole bollettino di
necrologi regionale, Vanes perde all'istante il posto di rilievo nel miliè
piastrellaro conquistato con tanti sacrifici. In fabbrica i compagni di
lavoro, cioè poi i Compagni, non gli rivolgono la parola, in mensa gli
portano via il purè di cui va pazzo, e a gara timbrano sempre prima di
lui, per farlo figurare abitualmente in ritardo. Fannullone e drogato. E'
così che i comunisti eliminano la concorrenza, quando sono a corto di
pubblici ministeri.
Persino Mirko, l’affezionato conditore/ascoltatore, gli sottrae credito e
spalla, anzi è il primo in assoluto: la pessima luce che quel cretino ha
buttato sull’ambiente può influire negativamente sugli affari. Non è da
escludere che alla fine si facciano vive pattuglie di Carabinieri, Polizia,
Fiamme Gialle, o ronde interne dei Sindacati. Questi ultimi soprattutto
sarebbero i più testardi nell’indagare su come sia stato possibile che in
fabbrica venissero tollerate iniziative personali e non concertate al tavolo
della concertazione o, peggio, non concordate al tavolo del concordato.
Cerca un po’ tu di discutere coi loro corti argomenti ed i loro corti tubi di
piombo, se sei capace. Riderebbero troppo, se tirassi fuori il mio tubo
alle biglie.
Brrrrr. Alla larga.
Alla prima occasione, il management del piastrellificio lo licenzia per
giusta causa. Dalla filiera l’hanno cautelativamente spostato al
Magazzeno Spedizioni ove, ancora imbananato duro, e scosso per le
conseguenze della propria condotta, Vanes con una retromarcia pietosa
ha fatto ribaltare un muletto forcuto ("Caaaaazzo, contadini cinesi anche
qui") sbriciolando sette pallet di piastrelle, e ciò non può, non deve
essere tollerato in un’Azienda tanto ben inserita e proiettata verso il
Mercato Globale. E se poi gli Emiri vengono a saperlo?
Brrrr. Alla larga.
Ovviamente Le Parti Sociali, di cui era uno dei principali foraggiatori,
lo crocifiggono: Vanes è diventato la vergogna dei Lavoratori, il cattivo
esempio, il momento fuorviante, l'avventurista che rifiuta l'ostia salvifica
che la coop sei tu, chi può darti di più, e che anzi tende ad avvelenarla,
cane ingrato che non è altro, con tutto quello che abbiamo fatto per lui.
Re-revansista. Bordighista. Bulagnese. Drughè. E presto produrremo i
riscontri ché shul libro paga dla McLaren e dla Merdeces, è già tutto in
Procura. Drughè. Per settimane il suo faccione vizioso, con sotto scritto
«DRUGHÈ !!! SPORC!!!», campeggia sugli organi ufficiali e nei
volantini ufficiali, distribuiti durante tempestosi attivi di fabbrica in cui è
tutto un urlare al linciaggio, stacchiamogli la testa, bolliamola, ci ha
scavalcati a sinistra.
A casa la situazione è anche peggio. Vero che suo padre gli ha tolto il
saluto già da mesi, al primo tatuaggio, e che alla notizia del ricovero l'ha
depennato dallo stato di famiglia ma ora, saputo del licenziamento, a
tavola gli notifica l'ultimatus:
«Non sei più figlio mio. Non sei più degno del nome che porti. Hai tre
giorni per sgomberare», e si fa vedere mentre cerca aria in giro a gran
sorsate, menomato dallo sdegno, dal deficitario apporto polmonare e
dalla stupefacente scoperta che suo fi- quel Vanes è cento volte più
pazzo di quel caveva sempre creduto.
La madre trattiene le lacrime: ne avrebbe voglina, ma non può lasciarsi
andare a piangere adesso, deve rimanere sulla Linea di Comportamento
Dettata Dal Marito. Le pigola solo il mento. Un primo momento solo il
primo mento, poi in un secondo momento anche il secondo mento. Ma
regge. La durezza delle cartolaie di Sassuolo. Leggendaria. I tedeschi in
paranoia cercarono scampo verso Marzabotto.
Fratelli e sorelle si vergognano. Vanes li fa sfigurare davanti a clienti e
amici, e anche loro gli cantano il motivetto imbestialito se ci arriva la
Finanza se ci arriva la Finanza.
La decisione imposta dal Quadro Dirigente è approvata all’unanimità,
vidimata, controfirmata dalla maggioranza (la minoranza era in bagno a
forellarsi un richiamino di due linee), protocollata, passata in giudicato
ed in archivio, trascritta in terza di copertina sulla Bibbia di Famiglia con
penna d’oca e inchiostro di seppia asciugato con la cenere del loro
dolore. Non contano i gustosi apporti stilistici che Vanes ha regalato alla
famiglia, al salotto e al bagno. L’onore è l'onore, un Barozzi è un
Barozzi, una testa di cazzo è una testa di cazzo. E le tazze dal fischio le
rimani qui, non ci pensare nemmeno.
Drughè.

Con una liquidazione in tasca e un passato da cancellare, Vanes si


chiede morbidamente se sia il caso di risorgere. Come quel tizio di
Maranello, Buganelli Lazzaro, entrato negli annali dopo essere entrato ai
duecentoventi all’ora con La Rossa in un baracchino di gelati, ed essere
sopravvissuto grazie ai globi di stracciatella che gli avevano mantenuti
freddi i lobi del cervello stracciato fino all’arrivo dei soccorsi.
Ma che fare?
La Ferrari non ce l'ha, la stracciatella non gli piace, Buganelli è rimasto
paralizzato e cretino per sempre, il mondo della piastrella gli ha chiuso le
serrande - una volta che sei licenziato da un’Unità Produttiva lo sei da
tutte, cip cip cip tra padroncini. Di maestrini di polke e mazurche ce ne
sono a pacchi e tutti a spasso, il comparto sta attraversando una delle sue
crisi ricorrenti, e la carriera ciclistica, in teoria, dovrebbe essere preclusa
a chi ha fatto uso di sostanze antifatica, antisportive e antidemocratiche.
Tra l’altro la bici glie l’ha sequestrata Nerio, gli serve la notte per andare
in stazione che ha delle situazioni e deve fare delle operazioni e necessita
velocità.
Ancora una volta è Juan El Duende ad iniettare idee fresche, linfa vitale
e iniziativa in un essere abbandonato a se stesso, ai perigliosi cavalloni
dell’ignoto futuro, ormai senza tetto né legge. Sarebbe anche senza figa,
ma non l'ha mai avuta e non è questo il punto.
O lo è?
«Vanes, ti avevo detto non tutto in una volta, ricordi? Te lo ricordi,
Vanes, quanto ero stato preciso? Que cognio tienes en la cabeza, sfighè?
Sabes, lo che pasa é che qui tu hai chiuso, non hai ninguna esperanza.
Dammi retta, stavolta. Taglia la corda. Hai i soldi per farlo, sei
maggiorenne, el echercito de mierda ti hanno scartato, cosa ci stai a fare
achì. Adesso puoi allargare le tue porte della percezione. Migliorarsi,
esta es la consignia. Cioè, no?, gente nuova, vedere paesi esotici, parlare
lingue diverse dal sassuolese, cioè ripulire el tuo italiano da inflessioni
dialettali, studiare, avere esperienze, cioè toccare finalmente un po’ di
XXXX. Presente la XXXX, sfighè? Esa».
XXXX! La parola chiave. La fuga, genti e paesi, conoscere, sapere,
capire, la cultura, le lingue: gàgges irrinunciabili e costruttivi, chi dice di
no, ma assolutamente secondari a fronte del Valore Supremo, quelle
quattro X pelose tanto agognate e mai odorate, se non sul tubo catodico e
sulla letteratura di settore.
S'è fatto di tuuutto, ma non di crespe, scopre di botto.
Se!
Le!
Era!
Scordate!
Gran brutto flàs.
Pazzo. Stupido. Pazzo. Stupido. Stupido, stupido, stupido.
Non sono così.
Non sono così, non sono così, e in lacrime inizia a tirar testate nel muro
del salotto di Juan. Che dopo un po' lo prende per la collottola e lo
chiude a chiave in bagno. Ha appena fatto rimbiancare, cristo.
"Ridammi la Jacuzia pezzo di merda" piange Vanes, e ricomincia a tirar
testate contro la porta a vetri.
"Si dice Jacuzzi, sfighè, e non ti ridò un bel cazzo. L'ho vinta a poker, è
mia. Puoi solo dormirci dentro finché ti passa, perciò vedi di fare in
fretta. A differenza di te, io qualche volta mi lavo".
La rota di una settimana che si fa nella vasca è resa ancora più maligna
e dolorosa dai bernoccoli, che non può appoggiare da nessuna parte e
non lo fanno dormire, quasi più cattivi del fantasma di sua mamma
giovane con un vestitino leggero leggero mille fiori che nell’aia tiene in
braccio lui, studia lui piccolissimo per lunghi minuti, lo studia, lo fissa
negli occhi, poi si divincola dalle sue braccine, lo appoggia giù nella
polvere, si gira, s’allontana, sparisce nel sole, lo guarda, lo appoggia, si
gira, sparisce, centocinquantamila volte lo guarda si gira sparisce sotto
un sole tremendo che cuoce cuoce e cuoce, e lui ha sete, mamma bumba,
mamma bumba bumba bumba bum bum bum bum bambum bumbum. E
quindi, visto che non si riesce a dormire, va bene, ragioniamo un attimo
su questa cosa qui, su come sono riuscito a ridurmi in ‘sta maniera, si
sforza il contuso tra le lacrime, mentre tenta di bendarsi con la carta
igienica e tener zitti i tamburi cardiaci.
E' vero. Tio bo' shè vero. Segarsi alla tv fino alle tre di notte ha perso di
fascino, finalm. se ne accorge, facilitato in questa scoperta dal fatto che
non ha più né televisore né divano, e che al momento abita in una vasca
non sua. Firmare autografi e disegnare mappe del tesoro nella tualè delle
operaie non gli pare producente, adesso. Prima di tutto sono comuniste
solo nel modo che gli conviene a loro, brutte deficienti, poi mi hanno
sequestrato il pennarello, poi là dentro non mi ci fanno entrare nemmeno
in fotocopia, e poi, e poi e poi sono io che là da loro non ci metto più
piede, va mò là, neanche se mi telefonano di notte e mi chiedono per
favore, senta Vanes, ci mette piede?
La fabbrica gli era venuta stretta ben prima del maremoto, in effetti, ma
ora ne comprende il motivo. Solo ora, solo lì nella vasca indormibile,
solo, incoronato di crespatina fine ai quattro veli, annodato nella carta
vetrata del nienteroina, spillato da spilli e morsicato da rimorsi, visitato e
abbandonato da giovani fantasmi, assetato di riscatto ma senza tazzine,
assordato da acufeni ad un milione di hertz, Vanes può intravedere i
limiti rappresentati non tanto dalla sopraggiunta scarsità di purè quanto
dall’assoluta mancanza, durante le otto ore + straordinario, + resto della
giornata, + resto della sua vita iniziale notti comprese, delle 4 X.
Erano loro la mia missione, non i buchi nei gomiti, che cosa mè
sucesso.
Detta tirando via, s’è fatto distrarre.
Per un po’ piange, circa un giorno. Poi smette.
«Sé, lè axè. Juan ha ragione. Quanto lo odio. Ha i miei carrarmatini
gialli, ma ha ragione. Domani in banca ritiro tutto, vadin stazione e
monto shul primo treno diretto oltre le Alpi el Manzanarre».
E così, tìo bò, fa.

QUA E LÀ
Parhì

Alpi? Manzanarre? Forte degli antichi consigli di nonna Venusta («Il


francese somiglia al nostro dialetto. Per parlarlo basta calcare un po’
sulle erre e muoversi da busoni, e tutti ti capiranno»), e ignaro di
qualsiasi lingua diversa dal shasshuolese (i disastri della riforma
scolastica, su questo non ci sono dubbi), Vanes non può che scegliere
una destinazione: Parigi, città d’ostriche, vino, quadri italiani rubati,
bombe idrogene che ballano il tamurè e - ciò che più importa - jeunes
filles. Juan è stato meticoloso nelle descrizioni di quel pianeta lontano, e
l'ha messo sull'avviso che le poverette si radono le ascelle, ma Vanes gli
ha riso in faccia e non gli ha creduto. Poi però ha visto una foto su Cento
Cosine, e allora gli ha creduto. Si propone di ribaltare quest’insipida
moda, e sa che ci riuscirà, deve riuscirci, non può vivere senza l'odore di
operaia a fine turno, ma agli inizi converrà volare bassi. Sa d’esser
giovane e di non poter colonizzare da subito quel grande paese. Non vuol
farsi dare dello sbruffone già al primo minuto.
Scampato ai deragliamenti, ai calzini degli altri, ad un finanziere che
prima l'obbliga a farsi sniffare i maròni da un cane lupo immenso poi gli
chiede se abbia nulla da dichiarare, valuta? assegni? assegni familiari?
Vanes passa la frontiera per la prima volta.
E' appena sceso alla Gara dei Leoni che già comincia a sentirsi diverso:
nuove facce, nuovi suoni, nuovi aromi, nuovi tagli di cielo. Ve’, ve’ le
nuvole che bianche che sono, e il blè, che blè. E le auto, che brutte. Una
vita francese al massimo lo attende. Mi ci voleva, me la sono meritata,
sto facendo la cosa giusta, mi amo, sono caldo.
E' estasiato, e ciò gli impedisce di uscire dalla stazione: per farlo
avrebbe bisogno di spicciolame da dare in pasto ai cancelletti automatici,
ma lo stupore pel nuovo mondo lo acceca, e passa e ripassa trenta volte
davanti alla macchinetta cambia soldi, finché un avvocato senegalese
dalla voce meravigliosa e con la camicia incomprensibilmente bianca
non gli insegna a gesdi la brogedura. Il sollievo per la riuscita evasione
gli fa dimenticare presto lo spavento causatogli dagli occhi arancioni del
primo negro nella sua vita.
Arrivato in taxi a Pigalle - facendosi fregare un bel po’ di banconote dal
marocchino con un garofanino sull’orecchio che nemmeno ha azionato il
tassametro - segue i consigli di una guida «a luci rosse» divelta da In
Giro Con Noi Ricchi, settimanale di Turismo Intelligente sottratto al
bagno di Juan, e scende all’albergo La Negresse Blanche.
Occupata una stanzetta col soffitto in onduline, tappezzeria a fiori +
ditate, una mortadella non modenese al posto del cuscino, nascosto il
grosso dei soldi dove solo lui sa, e salutate con un espansivo bonzuar le
due eteree ragazze mongoloidi della reception, esce immediatamente alla
scoperta del mondo cugino.
Vagando per il Quartiere Latino si abbuffa di panini al kebab, dolcetti
tunisini e lunghe sbarre di pane al patè di topo. Ma Vanes non è qui solo
per riempirsi lo stomaco di montoni e ratti: è alla ricerca di un futuro, di
una crescita interiore, di una rottura col passato, di Nuovi Valori. Va
bene il cibo alieno ma, perfettamente conscio che le raccomandazioni di
Juan sono oro colato, la lingua va imparata, altrimenti - - altrimenti
rimarrà tagliato fuori da questa società così colta e viva, così scintillante
e così variegata, così ricca di storia, fontane blu, centrali lucifere, fig
fransé.
La prima giornata nella città più sic del mondo, dunque, la passa nelle
bancarelle lungo la Senna, a comprare libri usati come al momento dei
saluti gli ha ordinato di fare El Duende. Tutti i titoli e gli autori vanno
bene, purché evochino sonorità raffinate e pregne di cultura e non
superino i dieci franchi: Zola, Platini, Maupassant, Voltaren, La Fontana,
Flòbert, Camuso, d'Imbalzac, Pompa Dur, Segàn, Celine, Aznavour,
Valerie Vartan, Colette, Gabriel Pontellò, Ifix TcenTcen.
Carico come una carriola, non sazio si ferma di fronte ad un negozio di
gadgets che vomita merci tra un cafè, una boulangerie e orde di turisti in
braghini corti e sandali da trappista.
Lo ipnotizzano le cartoline, bellissime ed enormi. Non ne ha mai viste
di simili. Non comprende perché dietro siano prive di colla, abbiano
numeri assurdi e perché non ne vendano anche l’album raccoglitore, ma
non può fare a meno di sceglierne una centocinquantasettina, una per
ogni parente, compagno, lavoratore, padrone di fabbrica, operaia di tualè
e amico-di-bicicletta, dimentico che l’intera lista gli ha tolto saluto,
salario, sorrisi, carrarmati, bici e tazzine.
Le bancarelle di libri usati, i panini turchi e i tassametri difettosi gli
hanno pressoché prosciugato il budget quotidiano, e dal momento che
nessuno sembra guardarlo - dopo mezz’ora di tentennamenti, mani
sudate, sbirciatine nervose con la coda dell’occhio - nasconde il paccone
di cartoline tra i libri.
«C’est belle Paris, n’est pas?», gli sussurra un vietnamita, che lo prende
per una manica e lo trascina verso il retrobottega.
«Eh? Xa dìt? An capèssun càz...», risponde Vanes, surprì e paonàz.
In realtà, all’interno del negozio, capisce alla granda ciò che gli dice il
limone: è arrivato momento di fare conti, o pagare mie cartoline 1000
franchi o chiamare polizia. Quella vera. Quella che sbattere te in sciambr
d'accusation, ti dare te un franco di botte e arruolare te a marciare sabbia
nella Legione Strana a cantare tutti nudi UIIIII, JE REGREEEETTE
TUS. Riempire queste mie mani di tuo mio denaro, diavolo bianco, ladro
italiano, e andartene vattene di mia ditta premiata, o io chiamare polizia.
Quella vera. Quella che sbattere te in sciambr d’accu
Vanes paga.
Rossissimo, convinto che i quattrini da queste parti passino di mano un
po’ troppo velocemente, rossissimissimo, vuole sgattaiolare in albergo a
ripensare le sue politiche agli acquisti, ma sette metri dopo un algerino
gli aggancia il gomito e a gesti lo convince ad entrare in una stanza buia
e perfumè. All’entrata fa in tempo a scorgere la foto d'una bionda e
un’orientale avvinghiate ad un boa, e la scritta fosforescente
Femmes, femmes, femmes et Ginò, le boa fripon.
Très Grand. Très Long. Très Gros. Très Lourd.
Dal rosso vergogna trascolora nel bianco pugnetta.
Tre serpenti lunghi, grossi e lordi? E un Gino boia, fr - fripone?
Bianco pugnettissima.
Il ruffiano lo incastra nel divanetto odoroso di un séparé piuttosto
strettino, e silenziose si materializzano dalle ombre malandrine due
malandrine, molto scosciate, per niente strettine. Lo abbracciano
contemporaneamente. Che mi abbiano scambiato per il boia fripone?
Soprattutto, ho le mutande pulite?
«Bonzùr, Sgnurèines». Vanes è una persona ben educata, anche fuori
dal suo habitat, che qui la nonna gli ha imparato si dice bidèt.
Riesce a scorgere i volti delle sue nuove amiche. Una è molto bionda
con un rossetto molto nero, un mascara molto pesante e molte serie di
rughe molto profonde. Sembra gli Incroci Obbligati, ma lui non si sente
affatto obbligato a tirar fuori la matita. La matitina.
L’altra è una vietnamita, cent’anni per capello. Fiato pesante, probabile
focolaio d’itterizia da carie, sguardo liquido e sorriso proibito, ai due
metalli per lato.
Il desiderio di figa femminile non è illustrabile se non col doppio
decimetro ma, capito dove si trova, una mungitoia per fessi, il panico lo
assale: il portafogli è vuoto, i travellers’ e la carta di credito nascosti in
albergo, la matitina rintanata nel piloro. Che fare?
«Vulevù un drink?», chiede sollecita la vecchia pagoda, e con la mano
mima o lo svuotamento di bicchiere appannato, con le cose buone
dentro, o una pompa, che Vanes ha letto che ti svuota e t'appanna ma ti
fa sentire bene dentro. Quasi certamente le due cose insieme.
Il povero bambino ha i sudori freddi, non sa che cosa rispondere,
s’aggrappa all’infinita classe che sempre l’ha sorretto nei momenti più
bui:
«N-no, mershì, niet drink, voglio solo bere, zenkiù tiobò».
Le ragazze si guardano e ordinano champagne. Risposta Hé! Satta!
Un cameriere poggia sul tavolo un secchio con una bottiglia difficile da
identificare, che all’assaggio rivelarsi essere l’identico cocktail poco
riuscito di idrolitèn svané corretta alla cedrè che già alla Cavalla Rossa
Vanes aveva imparato ad odiare. Gli altri marciavano a iperalcolici tripli,
ma lui quello poteva permettersi, una e una sola volta.
«Allora, quando inizia lo spettacolo? Abbiamo pagato!».
Italiani dal tavolo accanto.
«Scusate, mi chiamo Barozzi Vanes, e shono italiano anca me, ciao.
Che spettacolo state aspettando?».
«C’erano le foto all’entrata, non le ha viste? Giselle, Josephine e leur
bête. Duo lesbo con serpe vivo. Spettacoli non-stop e non lubrificati, ci
ha assicurato il negro fuori. Siamo qui da un’ora e né successun cazzo.
Era meglio se rimanevamo a Macerata».
Vanes capisce che è giunta l’ora di andare.
Si alza, e il cameriere gli si para davanti.
«L’addition, Monsieur», e gli allunga un fogliettino rosa fustellato a
cuore, arricchito in fondo da una bella fila di zeri, che in Francia si
scrivono come in Italia mapperò valgono il triplo × cento.
«Non ho soldi. Pardon, pardon...», e sguscia tra le gambe del cameriere
e le unghie viola delle compagne di cedrata. Pardon pardon, continua a
gridare diretto all'uscita.
Uuuoosshhhh, grida un manganello diretto alla sua nuca, che, essendo
piatta, ne risulta solo sfiorata.
«Italiens, toujours la même merde!», sente urlare.

Vanes passa nella capitale francese tre mesi intensissimi,


trasformandosi camaleonticamàn in un vero boemiòn.
Non volendo discutere più con alcun manganello, compra solo vino
caro e pasteggia esclusivamente a base di ostriche, aragoste del Mar del
Nord al burro bretone, escargò ò veritabl deghelass, filè ò puàvr, tenuto
per ultimo perché della mensa dei poveri ne ha avuto più che a basta.
Ogni tanto però, in down da ragù, consuma brevi, selvagge orge a base
di maccheroni, lasagne e tortellini in un ristorante italiano di fiducia, La
Bellà Riminì, scovato per puro caso mentre usciva dal ristorantino a lato,
La Bellà Romanà.
Affitta un appartamentino, così decadente, così squisito, nei pressi di
Les Halles: ancora più fiori sulla carta da parati, ancora più ditate, e più
oscure. Due mortadelle come cuscini. Questo particolare, soprattutto, lo
aiuta nei momenti di solitudine a lenire la nostalgia e l'odore dell'Arabo
Pisciante che di notte vien su a visitarlo dalle tubature del lavandino
accanto al letto.
Abusa volentieri di passeggiatrici, andandoci a conversare a Pigalle. Il
dossiè del suo sverginamento, buffonata a base lenzuola fraintese e
puttanina strangolata da risate, Vanes si é fatto giurin giuretta con gli
indici incrociati di non aprirlo mai con nessuno, campasse cent'anni.
Soprattutto gli bruciano i tremila franchi buttati per far ridere una scema.
Ad onta di questa fallimentare ouverture del prepuce, rottosi come
succede tipicamente al ghiaccio dei timidi, in breve riesce ad
organizzarsi con un paio di ragazze «fisse»: una negroia della Martinica,
con labbroni violaciocca sopra e sotto e occhi neri in campo giallo,
Vanes vi si specchia e gli risale la febbre imolese, e un bergamotto della
Cocincina, con labbroni violaciocca sopra e sotto e occhi gialli in campo
giallo, sequele di un’antica febbre gialla superata con difficoltà. Santo
cielo quanto piace a Vanes l’esotico. Cioccolata e riso. "Mon Ciocorì",
chioccia nei numeri a truà, anche se le piccole non capiscono. Però sono
brave, produttive: ridono quando lui ride, ansimano quando lui ansima,
lo frugano quando lui le fruga, gli frugano la stanza, ma solo quando lui
è dan le cessén del pianerottolo. E non trovano nulla, mai, perché la
salvezza Vanes se la porta dietro, cucita nel perizoma Ferrari. Essere
novizi non comporta l’obbligo di diventare l’aneddoto preferito del
primo Ciocorì che passa. Nessuna sporca truà mi può fregare.
Frequenta naturalmàn le sfilate di moda, quelle aperte ai contadini, per
vedere au vif le donne di carta che sin dall’infanzia gli tappezzano il
cervello. E, già che c'è, per controllare se anche queste sono tanto
igienicamente cretine quanto le cretine delle foto in Italia. Lo sono,
sempre. Vanes capisce che avrà un lavoro enorme da compiere, un
compito immane, ma per ora vuol continuare a volare basso. E' giovane,
non vuole apparire brufolone. Intanto è arrivato al pelo inguinale, pur
sempre un bell'arrivare, e per salire ha tempo.
Tutti quei busonazzi italiani trapiantati del parterre, che si guardano
attorno, sbattono le mani pieni di cipria ed entusiasmo e cinguettano
sonori AUÌ, AUÈ, ZÈNIAL, ZÈNIAL però lo infastidiscono, e l’ambiòn
rafiné non lo coinvolge più di tanto: il vecchio orgoglio operaio ha
bisogno di tempo per svaporare. Che cosa ci sia poi da applaudire in uno
stecchino con tre veli e zero peli bisognerà che qualcuno glielo spieghi, e
in fretta.
Gli secca non capire.
Non è strutturato per capire, ma gli secca lo stesso.
La missione ufficiale che si è imposto con feroce determinazione già
alla Gare de Lyon, quando tentava di convincere i cancelletti automatici
ad aprirsi a parole, parole sassuolesi, è quella di CRESCERE
CULTURALMENTE. E di sperperare la liquidazione, ma questa
seconda parte della missione consegue in automatico dalla prima, savà
san dir.
Si iscrive, dunque, ad un corso di filologia romanza alla Sorbonne, più
che altro per vedere le famose sorconne e le romantiche manze
magnificategli da Juan. Frequenta le lezioni con pile di libri usati sotto le
braccia, per far vedere che è equipaggiato commil fò, ma non ascolta e
non comprende una sola parola dei professori: si limita ad osservare
estasiato le studentesse, la tecnica non scialante con cui accavallano le
jambòn, la tecnica non scialantissima con cui ignorano i suoi schiocchi e
sibili di richiamo, e come le aluette, aluette, giontili aluette diventano
molto più scialanti quando fa zip zip zip ziiip con la lampo e quelle si
alzano al volo fru fru fru, fru fru fru, e si cercano un altro posto, trenta
banchi più in là. Non capisce: con le beccacce e le quaglie a casa la
pispola funzionava, s’avvicinavano, mica s’allontanavano, cosa c’é che
non va.
Ad ogni modo. Si sforza volenteroso di respirè la Cultura. Per ora gli
basta. Vuole volare basso, è giovane, c'è tempo ecc. ecc.
E in effetti, ecc. ecc., impara discretamente la lingua e riesce persino ad
ordinare ostriche al ristorante. Dall’accento ora lo scambiano per un
belga. Non che questo lo salvi da addition maligne, tumide di zeri. Anzi.
Ecc. ecc.

Come a suo tempo sulla via di Damasco toccò ad un certo Pèvel, Vanes
è bastonato dalla scoperta che a Parì ilià un centro, ma il manifestino è
modesto modesto, il metrò è un po' scuro, questi odiosi lampi buio luce
buio luce buio che sembra di essere tornati giù alla Cavalla Rossa nei
giovedì delle serve, legge male, si sente male, non è possibile, é un
errore, si deve rimettere a sedere, ha il culo gelato, ma molto meno del
cuore: non può credere che al mondo possa esistere un Centre Pompinù,
senza che lui non ne abbia mai saputo nulla, senza che in tutti questi anni
nessuno gliene parlasse, si consultasse, gli richiedesse pareri. É umiliato,
e defraudato, e gli manca un po’ il fiato. Provincia maledetta, quanti
delitti in tuo nome. Quante cose dovranno cambiare al mio ritorno, tio
bo'.
E a scheggia cambia metrò, rotta e destinazione.
Capire.
Vedere. Sognare.
Forse consumare.
Farsi consumare.
DDài metrò del cazzo, incita Vanes.

La piazzola di fronte al parallelepipedo del piastrellificio bombardato,


tiranti, tubi, tubazzi, scalette, scalinatelle, tutto rigorosamente ribaltè, che
Vanes giudica non privo di un suo dissennato shavuàrfer carpigiano, è
affollata da giocolieri truccati da busoni che roteano palle, e ingoiatori di
fuoco, di spade, di fisarmoniche, di spiedi, rigorosamente pitturè coi
colori dei busoni di strada. Peccato che ogni tanto girino tra la gente e
bussino a quattrini con cappelli giganteschi e profondissimi. Vanes più
che contribuire preferisce stupirsi. Lo stupore ha da esser gratis, si
autoprescrive, sennò cos'è, STUPORE?
Le portentose fontane animate, all'intorno, sono l'antologia preparatoria
e illustrativa di ciò che si può fare con la bocca e l'Universo: rosponi che
leccan gentil farfallette, robot che ingoiano molle, balene che sugan
pinocchi, draghi che ci escon le fiamme di latta colorè, grandi,
servizievoli O rosa ad orologeria che ciclicamente si chinano su spavalde
I violacee spruzzanti ad orologeria, fatine che sputano acqua in bocca a
nanetti riconoscenti, e quasi certamente anche il contrario.
Mai riconoscenti quanto Vanes, che perde saliva e tra le bolle gorgoglia
Tiiio, Parì, Ttiiiiio Parì.
Tiiiiiiio, che cosa non mandano giù 'da 'ste parti, trasecola in un breve
attimo di lucidità, più Centro Pompinù d'axè non potevo sognare.
Sembra Bulagna.
Non s’interroga sul perché ad ingozzarsi di tanti aggeggi terribili nello
slargo non si trovi mezza ragazza: sa già la risposta. Nonna Venusta
l'aveva avvisato, e questa piazzetta suffraga quella nonnesca sapienza:
"Francesi, finocchi. Basta shentirli parlè. Shta' tenti, ve'.”... Sta' ben
certa, nonina, che tutti quei lupi colorati 'sto cappuccetto a me non me lo
mangeranno.
E a passo di carica punta sulla biglietteria.
All'interno trascorre spossanti giornate a bere birra sotto smisurati
mobiles di Calder, a sbadigliare alla mostra di Picasso, a grattarsi al
Festival di Musica Andina, a cercar di grattare un po' degli Ori degli
Sciti, a non dar di stomaco con le tecniche di mummificazione del
Mesoamerica, a prendere per il culo a voce alta e sassuolese le puttanate
di Magrétt, le sculture in avorio del Regno Perduto di Timbuctù, le
Locomotive di Marte, le Tavole Divinatorie dei Caldei, la collezione
Scippeur-Tofreghè di dipinti Veneti, Lombardi, Emiliani, Umbri,
Toscani, Romani, Napoletani e Siciliani, secoli X - XX.
L’Errore ha i suoi Meriti, e dai e dai e dai Vanes comprende finalmàn
una cosa, digerisce finalmàn un concetto, insinuatosi pianpianén in lui
dopo che il foglietto rosso ottenuto all'ingresso in cambio di 500 franchi,
stretto con dita convulse, l'aveva informato d'aver ottenuto non già un
abbonamento annuale per formative sessioni laringouretrali, bensì
l'Entrèe Au Centre Georges Pompidou, valide pour 1 (une) semaine: per
quanto luccicante, per quanto incomprensibile, per quanto lontana da
ogni cosa che in vita sua abbia visto sognato o capito, tutta questa
produzione vuole semplicemente significargli che la Cultura è una cosa,
la Bocca è un'altra.
Di. Ver. Sis. Si. Me.
Peccato, però.

Passa il tempo. Passa, accidenti: Vanes non è così decerebrato da non


accorgersi che, per quanto scintillante, la vita parigina non lo sta
soddisfacendo appieno. Non è affatto contento. Al di là delle batoste in
serie al suo io e alla sua personalità, al di là di una serie ignobile di
Figuracce Seppellenti, in tre mesi non s’è fatto un amico, se si esclude il
venditore di crêpes à la Nutellà che staziona sotto casa e che lo saluta
sempre molto gentilmente. Shee, uno sconticino per l’affezionata
clientela, qualche sorriso non obbligato, un di più di Nutellà se nei
paraggi non guarda nessuno, shee, sheee, però il piadinaro non riesce a
dargli nient'altro. Oltretutto è lituano, che gl'importa dei lituani?
Cos'hanno fatto per lui?
Non può vantarsi, in quell’asilo, d’aver incontrato la felicità perfetta.
C'è qualcosa nella Villa Lumiera che mi sfugge, un’atmosfera,
un’attitudine, lo sento, lo capto, ma sguilla via. Dove sarà? Che cosa
sarà? Sono qui da un pezzo, e anche se mi hanno promosso a belga ho
idea che mi sfuggirà sempre, ragiona Vanes. E più ci pensa meno riesce
a darsi torto. La cité é muette, e la interroga invano. Dur, dur, etre
immatur. Fra l’altro non gli va tanto giù la faccenda del belga: lui ha
voluto arrivar qui per essere promosso Uomo del 2000, no belga degli
zeri. Mi sa che da ‘ste parti ho chiuso. Quà fèr?
Il se suvièn che il Cosopolitan del suo barbiere, giù a Sassuolo, aveva
spesso favoleggiato di un’altra grossa capitale europea giganteggiante al
di là di una certa Manica: Lòndron, la città delle principesse sepolte in
un'isoletta, delle Spàis Girls, degli holi cans, delle torte di cavallo
quando passa la carrozza della regina, della torta di pòrrigg, delle tartine
col té al pòmerigg e della lingua più tosta e utile che esista. Non ha la più
pallida idea di che cosa siano tutte quelle stranezze, che cosa possano
significare per lui o per chiunque altro sulla terra, ma ha sempre
apprezzato Cosopolitan, perché negarlo? Grossa classe, grossa cultura,
grossi suggerimenti (figa così così). Vuoi vedere che mi sta indicando la
strada?
Deve obbedirgli.
Lasciato con malinconia l’appartamento parigino, congedatosi da
Ciocorì con sinceri schiocchi di tristezza palatale, Vanes, adiè e mersì,
prende il traghetto, e sorpreso che la Manica si riveli un fiume con la
stessa tinta del Samoggia, appena più largo ma mica poi tanto,
odorandosi le dita invade il Regno Unito.

Lòndron

L’impatto con la lingua è traumatico: aveva appena iniziato a capire


qualcosa del francese, e ora si ritrova davanti ad un altro muro di suoni,
inintelligibile e barbaro. Ma l’esperienza serve pur a qualcosa. Si tratta
solo di non perdersi d'animo, e ricominciare. Per l’intanto vediamo di
ripararci da qualche parte, sta piovendo che il tio bo’ la manda.
Trovata subito una stanza con nasturzi, convolvoli e ditate a Camden,
Vanes passa il resto della sua prima giornata a Portobello, ove raccatta
qualsiasi testo purché economico, usato, in inglese. Riassunti di
Shakespeare per bambini, istruzioni per il montaggio di aereoplanini
Airfix, canzoni di David Bowie, breviari su paradisi perduti, manuali di
coltivazione delle rose, dispense per la coltivazione di cavalli per le rose,
come si monta una biglietteria sulla tomba di tua sorella, come si smonta
un cannone anticarro all'ora del tè, come ci si fa un cannone ai concerti
di Peter Tosh, chi è Peter Tosh, come fare concerti sui tetti con quattro
amici, quali greci leggere mentre ci s’inchiappa a Cambridge, quale
Vivax Regimental indossare mentre ci s’inchiappa ad Oxford, come si
ammaestra la servitù traditora, come si mangiano i bimbi poveri a tavola,
come si tosano i barboncini, come si infilano le mutande ai tavoli, come i
guardiacaccia devono posizionare le ciàtterlei davanti al camino, come si
tira su una casettina di cinquecento stanze chippendale per la tua
bambolina, libri senza virgole di Joyce, trattati di fisica newtoniana alle
mele, concentrati per deficienti di Robinson Crusoe, Peter Pan e
Gulliver, antiche lezioni magistrali sul come stangare i Mau Mau, i
Messerschmitt, gli Irlandesi, i Boeri, la Folgore, i Thugs, Napoleone,
Goldfinger, Pinochet, gli Argentini, gli Scozzesi, i papisti, gli yuventini e
chi va a vederli, le stupidine che s'innamorano di figli di muslim ricchi,
quelli che non amano i grandi fratelli, i libri che non reggono nemmeno i
450 farenàit, quelli che hanno il cuore di tenebra. Va bene qualunque
lettura, purché sotto i cinquanta penni.
Le prime fatiche, gomiti volitivi sul tavolo e pugni sulle tempie sudate,
le compie su Pippa Passes, e ci mette un fracchissimo a capire che s’è
fatto un quadro errato. Mai dar retta ai titoli, tio bo' d'un tio bo'. In un
qualche modo sente di aver commesso lo stesso errore di quel bestiale
museo parigino. Si gratta il naso, diventa rosso. E si rimette a studiare,
come lui chiama sfogliare le pagine.
I primi tempi, ma lo sapeva già, è inutile starselo a ripetere ogni
mezz'ora, sono assai duri. Mangia solo nei fast foods, indicando col
mento sul tabellone luminoso al cameriere pakistano quali patatine
vuole. Il cameriere gli risponde scuotendo la testa da sinistra a destra,
volendogli spiegare brutto italiano cretino, da sinistra a destra son
sempre le stesse, non lo vedi? Vanes pensa che i costumi inglesi siano
strani forte, a Sassuolo si fa così per dire «no» o «non c’è». Nel Regno
Unito, Cosopolitan glielo aveva pur detto, si fa tutto al contrario. "Che
pretendi da dei caballos", aveva precisato Juan. Be', speravo che non ci
fosse conferma, ecco, così è più difficile.
Ogni tanto, per risparmiare, s'azzarda a comperare qualcosa nei
supermercati - spaghetti australiani in barattolo già cotti solo da scaldare
sul termosifone, lasagne in bottiglia della New Zealand, gelatine di
stinco indù di Benares, marmellata di ortiche e rognone, tremolanti,
pallidi pudding di zoccolini di agnello, creme di nasi di montone, frullati
di Mad Cow®, che non sa cos'è ma il prezzo (mezza sterlina a lui ogni
dieci libbre che porta via) glielo rende interessante.
Nel complesso la qualità del cibo è talmente orripilante che a volte
preferisce spendere qualche sovrana in più nei ristoranti italiani. È in uno
di questi locali, The Beautiful Rimini, che gli capita di fare amicizia, per
la prima volta da quando è partito, con un conterraneo. Patierno Angelo,
in Italia accreditatissimo pentito poi qualcosa è andato storto con la
moglie del pubblico ministero, ed ora qui pizzaiolo, gli dà una mano a
capire più in fretta a succità ‘nglesa:
«Accà puortane 'o carro a sinist, ammmisurane evvri ccose in lippr e
piet e pint e yarte, venerano mummie ca corona 'ngoppa, e ssi nun tien'
n'accento propetamento cocni a puchiacc' de femmene eccà ta può
shcurdà. Per noi Azzurri nun restano ch 'e cess 'e Leicesterre, e pizzarie,
'e feste ca' tarantell 'e mmurolo, ‘e zuòccol a Soho. Si vulisse, truovt 'na
grec, 'na peruvian. Shcuordate chiunquo supera 'a latitutin 'e Vippiten».
Vanes studia tre mesi a Londra, tra alti e bassi. La lingua è tozza,
decisamente, ma riesce ad intrufolarsi a qualche festa, soprattutto di
indiani, neri e arabetti, che usano un inglese sbilenco quanto il suo e che
per questo l’hanno preso subito in simpatia. Gente carina, anche se ha
colori assurdi e crede in cose assurde e fuma cose assurdissime e in testa
si mette di tutto, ma almeno mangiano cose decenti e fanno una musica
che qualche volta buca Vanes, e lo tocca chissà dove dentro. Dolcetti di
miele e cumino, rimmici girotondi, cimbali, tabla e altre percussioncine
ignote gli fanno sospettare che la Cavalla Rossa forse non era la risposta
per proprio tutto. Al ritorno si ripromette comunque di verificare i
riscontri probatori, be’ certo, vediamo di emettere giudizi solo dopo che
abbiamo il quadro completo, eh? Lo fa impazzire la parola quadro, la
metterebbe pure nel caffè, se a Lòndron esistesse il caffè, teste di cazzo.
Sulle scale mobili della Tiuub, che lo divertono perché non è mai salito
su qualcosa che puntasse in alto a quel rimmo, becca a lot of multe very
salé: per guardarsi in giro, e ammirare laggiù le formichine umane
indaffarate, e sfidarle coi gestacci dell’imprendibile, si piazza
regolarmente dalla parte sbagliata e blocca i flussi di tutta la citi che vive
sottoterra e che ha la mania di correr anche sulle scale. Un gruppo di
calvi l’ha puntato da un po’ e vuole impiccarlo sotto un ponte per questo,
ma uno di loro, con una maglietta McLaren, primo errore, commette il
secondo errore di strappargli dalla testa il cappellino Ferrari, sputarci e
pisciarci dentro, terzo errore decisivo, e la cosa immediatamente
successiva che Vanes ricorda è un addetto dell’ambasciata italiana che
accanto al suo letto d’ospedale gli traduce le scuse di un tizio
elegantissimo e lugubre, incuriosito dalla tecnica inusitata degli italians
di squartare gli importuni a morsi. Traduce anche la blanda richiesta se
per caso non gli interessi un incarico da istruttore nei Malacca Llagalang
Royal Queen’s Pink Fusiliers. O nel Prince of Wales’s Own Heavy
Dragoons, magary? Allo spaccio servono una birra passabile, la paga é
discreta, le puttane affabili e il signor Banastre Tarleton tratta bene i suoi
ragazzi, non chiede loro niente di più di quel che chiede a sua moglie la
domenica mattina. Vanes risponde laconico che sorri ma non se ne fa
nulla, signore, non vorrebbe un giorno dover scoprire che sta lavorando
contro La Rossa. Zenkiù per l’invito, eniuei, signore, apprezzo veri mòcc
lo spirito della cosa. E complimenti per la sua cravats, righe notevoli. Poi
sviene.
Quando rinviene e fotogramma dopo fotogramma si riproietta
all’indietro l’accaduto, scopre che coi chiari di luna che ci sono in giro si
é appena permesso di rifiutare un posto di lavoro sicuro, e risviene.
S’imbatte anche in una gonfia submerda umana, Johnny Rocks, in
realtà tal Gianni Sassi, squatter italiano che, professionistico al massimo,
occupa case una dietro l’altra, le affitta a prezzi incredibili ai negri delle
Barbados e ciuccia il sussidio di disoccupazione a Sua Maestà, distratta
dai pasticci in family.
È nella confusione alla ganja di un suo party, organizzato per
festeggiare l’occupazione del Sottotetto Number 100, che Vanes conosce
a salty brunette, Sonia, brasiliana di São Paulo, a sua volta occupante
abusiva di una topaia number 00 nei pressi di Gloucester.
L’incontro è fondamentale, in quanto Sonia è la prima donna, per di più
non prezzolata, a far assaporare al ragazzo le delizie delle scaloppe
femminili umane.
Dopo essersi illanguidita con mezza dozzina di caipirinhe, ed aver
deciso che vabbè, si può dar seguito alle pressanti richieste del
sassuolino irrigidito da 14 lattine grandi di Bombardier 4,3°, hèllp mì,
gherl, bi mai realiti, gherl, don bring mì dàun, don lemmi bì
misanderstùd, its mài làif, its oll tèt ai uòn, bum bum bom buum, sheik it
beibi, ai miin rait nau, la paulista ringrazia a linguate in trachea,
succhiate alle coane e tastate al cavallo le tre pazze teste pelate
energumene lievemente interdette che se l’erano portata lì per rifarla
nuova, lo trascina in solaio e dietro una pila di bauli impolverati gli
toglie l’innocenza e il filetto, impolveratissimo.
Ciocorì aveva operato molto più alla carlona, questo bisogna
ammetterlo. Se la spalancava, lui gua- guardava, luiveniva, tutto qui. Ed
invece eccomi here che sto knock knock knockando alla granda at ze
heavens door, o lord, ormai disperavo di farcela nella presente vita e
successive. Vanes ha diciannove anni suonati, o lord, ma fino a Sonia
uèn ai uàs iongh ero portato a pensare che certe cose si potessero fare
solo coi soldi, o lord, nei film, nei matrimoni, nel retro delle F 50 e dai
giornalai notturni, o lord. Il meglio, the Meglius, solo agli altri? Jah ha
detto no perdio, l’ho sentito benissimo, eqquindi ghetàp, stendàp,
stendàp foiù raits. La vita a Babylòndon inizia ad avere un sapore
diverso, più gustoso, o lord. Più - più salatino, ecco, ed a te dico: grazie
Bombardier. Oh yeah. Buurp. Scusami, lord.
Sonia, col suo fare moderno (se l'è tosata a I), oltre ad un po’ di piattole
e afte sublinguali di grado medio-severo, e 5/6 cm di condilomi sui
cotiledoni che per fortuna in una settimana si seccano e cadono per terra
(i condilomi), attacca a Vanes una malattia tremenda, da cui non si
guarisce: FIGA! d’ora in poi e per sempre, dovunqua e comunqua e
chiunqua. Il Brasile gli fa molto male. Si monta italianamente la testa e
pensa convintamente a se stesso come al prototipo di The Stallion, per di
più colto e cosopolita, viste la quantità di libri che ha tentato di leggere
distruggendosi i gomiti. Ze italian elbos.
Il mondo è suo, non esistono più confini e barriere linguistiche che lo
possano fermare. Cioè, Sonia non mi ha opposto barriere, non m'ha mai
fermato, non ci pensa proprio, nemmeno in quei giorni, e non vedo in
cosa le altre siano diverse. Ragiona esattamente come i tigri che hanno
assaggiato la carne umana e non sono più capaci di smettere.
Calcolando e tirando le somme (draiving aut ze sums):
Intossicazione mostruosa da hongos
+
Mezza liquidazione ancora in tasca
+
Freni inibitori completamente a pallino
+
Assaporamento di bruna buceta brasiliana, cento volte più uncinante del
brown sugar +
Offuscamento progressivo dei ricordi di casa (che iniziano lentamente a
mutarsi in odio) +
London è full di fùls, matts e pazzs, cosa ci faccio qui, uì hev gattaget
aut ov tìs plèis =
_________________________________________________________
_____________________________
Un bel tichett tu ràid della British per Rio de Janeiro, departure
dopodomani, peccato speravo subito, al max. fra un’ora.

È esattamente su questo che contava Sonia, furba e callosa negra bianca


stufa della sadness e dello spleen inglesi: convincere con il samba del
grilletto e dei buchi un italiano estupido e babaca e culhão ad adoperarsi
per la sua rimpatriata. Ma si fa sorprendere da Vanes mentre con un
coltellaccio gurka gli sta affettando la valigia in cerca del biglietto
(nascosto dietro lo specchio del cessino del pianerottolo). Fim de uma
historia, fim de um amor, calcio di punta nel pantanal della bunda, e
chiamami un taxi in fretta o ti garroto, tesora.

Troppo tropico

Sarà il fuso orario, la stanchezza del viaggio, la rabbia e il dispiacere


che sia finita a quel modo, o più verosimilmente il tasso dell’alcol da
trazione nell’aria, fermentato da un sole che a Londra se lo scordano
proprio, povere larve imbecilli, ma appena esce dall’aeroporto del
Galeão, investito travolto mazzolato dalle prime frasi in tropicalese,
Vanes ha un giramento di testa, accompagnato da un fantastico
giramento di cappella. Volti e labbroni lo guardano e gli sconvolgono il
cervelluccello, la nuova lingua lo rintrona col suo gemito orgasmico, una
sorta di basso continuo mutandico, e l’aria profuma di sporcizia
interiore. Un vero paradiso, dispostissimo a farsi profanare.
Aaaaaammmm. Brrrrrr. Am.
Il sole.
Stringe forte a sé il perizoma anti Sonie in cui ha cucito con punti da
materassaio a filo refe la piccola cassa, la grande cassa, la cassa di
risparmio, la cassa delle disperazioni, il biglietto di ritorno ed un
carbonioso bioccolo vulvesco come ricordo portafortuna, brutta traditora
ladra barbona, ma che odore avevi.
Il sole.
Preciso identico ai gonzi che per la prima volta sbarcano nella Cidade
Maravilhosa, Vanes si spara a Copacabana, l’unico luogo della città che
conosca per sentito dire, soprattutto dai compagni lavoratori. D’altronde
vi si parla un itaglião passabile, perciò lo sbattimento comunicativo è
minimo, e non è un male, con ‘sto sole.
Presa una camera d’albergo lungo l’Atlântica (senza i fiori dei francesi
e degli inglesi, ma con le stesse ditate, e con burdigoni dalle antenne più
velenose), si butta in spiaggia a studiare il campo operatorio, tra
giocatori di peteca, lanciatori di arachidi, zoccole per italiani,
insabbiatori di portafogli italiani. Mmm.
Scruta il mare. Benché puntinate da incoscienti, le onde spumanti sono
macellare per gli italiani, tirati su a ostie viareggi e viserbelle, quindi
nemmeno pensarci. Mmmm.
Ad ogni buon conto, onde e mica onde, le pupille sono spalancate come
le ragazze che spia, e i concetti di bunda, fio dental e piranha impiegano
mezzo secondo a imbozzolarglisi nel cervello. Mmmmmmmmm.
Ma prima il dovere. Vanes è un duro, anche sotto il sole.
Come fece a Parigi e a Londra, anche qui cerca qualcosa da studiare,
facile, usato e a buon mercato, la scorciatoia più corta ed intelligente per
entrare in sintonia con nuove lingue e nuovi mondi, ormai ‘sta solfa la
sa. Capisce subito che la roba usata che gli piace di più non arriva a
sedici anni e s'addobba il buco del culo enormissimo con un filo rosso di
cotone e perline, ma ignora a quale bancarella rivolgersi: orientarsi qui è
un pasticcio, casa loro i meridionali la tengono molto meno in riga. Non
si trova d’accordo con la morbosa simpatia con cui guardano al casino e
alla merda, ma é capibile: io qui sono nuovo, appena avranno imparato
ad apprezzarmi cominceranno a tenere più in ordine il cortile. Certo che
a perline son messi bene.
La prima giornata carioca si consuma languorosa tra i tavoli dei
ristorantini di fronte ai grandi alberghi, l’Othon Palace, il Meridien,
bordelli a cielo aperto. Vanes nasa a pelle come si sentisse ben più
straniero nel Vecchio Continente: qui non deve impazzire con pronunce
corrette e accenti precisi al nono decimale. Sulla sabbia e sotto le palme
e nelle hall il massimo sforzo è quello di distinguere l’accento
bergamasco da quello bresciano. Ma solo se ne ha voglia, e non l’ha.
Cos'hanno fatto per lui, berg. e bresc.?
Scacciato dalla prima stamberga dopo un battibecco a pernacchie e
gestacci con la dirigenza, ostinata a volergli cambiare le lenzuola solo
ogni sette giorni, Vanes affitta un appartamento in una zona appartata di
Copacabana e, previa spesa da primo mondo al supermercato, vi si
barrica per tre settimane di fila a cavar la prima pelle alle ballerine di fila
dell’Help!, troieto amatissimo dagli italiani, che vi fanno la fila per
beccarsi l'Aids, tornare in Italia e regalarlo alla moglie, alla fidanzata o
alla dipendente preferita. I più vitaminici lo elargiscono a tutte e tre,
perché democrazia è simpatico.
Le lenzuola non le cambia mai, troppi ricordi.
In quella palestra Vanes seppellisce per sempre l’antico bimbo linfatico
e pugnettico, Maria la Matta, la bici, le operaie e le loro tualè di operaie,
stupide cretine ormai è tardi, io ve l’avevo detto, ma avete voluto fare
come vé parso, ora piangete. Non immaginava di campar tanto da
riuscire a vedere biancheria da letto rigida e con fuochi fatui la notte, ma
anche questo record cognitivo, peraltro continuamente aggiornato, vien
posto in carniere.
Ha messo un annuncio sul Globo spacciandosi per produttore italiano
alla ricerca di, ehm, fantasiste da inserire in uno spettacolo di Oba Oba,
che andrà in giro in molte provincie del Mato. Forse anche in Europa,
sostiene durante le interviste alle aspiranti, ma prima bisogna vedere
come andrà qui sul posto, poi mettere a punto i particolari, non
accontentarsi, spremersi, pompar classe: non bastano un po’ di piume di
struzzo infilate nel culo per portare a casa quattrini, ragazze, il Vecchio
Continente non è un vecchio incontinente, diciamo le cose come stanno.
Ehi tu, girati e chinati di più, sì, dico a te.
I provini si girano a casa sua e di conseguenza fuori della porta
staziona un esercito di fanciulle, ventiquattr’ore il giorno, in disciplinata
fila brasiliana. Ogni tanto scoppiano risse, ma arriva la Policia Civìl che
spegne tutto molto civilmente, coi lanciafiamme, e allora Vanes è
costretto ad uscire dalla stanza e urlare a tutte di piantarla di far casino,
non sopporta l'odor di vacca cotta. A lui piace solo quello di vacca viva.
Richiude la porta, torna al lavoro, silenzio per lunghi minuti, poi
riscoppia qualche rissa, e stavolta arriva la Policia Militar, che calma
tutto a bazukate. Giornate lunghe e spossanti.
Ad ogni ragazza provinata per il lungo e per il traverso Vanes promette
una risposta per il giorno x, ma vedrai, non ci sono problemi, ce l'hai nel
sangue piccola, dove cavolo sei stata finora?
Il giorno x meno un secondo è su un autobus diretto verso la Bahia.
Durante il viaggio si dice e si ripete che così non va, le stronzate non
promuovono alcunché, così non va proprio, non ci siamo, che senso ha
ingannare la gente, e si giuringiuretta che d’ora in poi eviterà italiani,
zoccole, ambienti teatrali, e che concentrerà la propria attenzione
esclusivamente sullo studio serio del portoghese, e delle bunde baiane.
Comunque è contentissimo per l’ammontare di pelli che s’è fatto,
quando tornerà non gli crederà nessuno, ma chisse ne frega. Non vede
l’ora di ricominciare.
Appena scende a Salvador acquista la sua solita carriolata di Amadi,
Coelhi, Guimarães Rose, Lispectori, Antunes da Coimbra e Arantes do
Nascimienti usati. O porrhtugheish è uma lingua marziana, Vainesigno
non si fa ingannare dall'apparente somiglianza col genovese (che ignora),
ed ha quindi cura di scegliere solo i libri con le figure.
Tutto il resto è bricolage, e sole che ruota lento nel cielo,
abbrustolendo, abbrustolendo.
E costellazioni ignote di notte, che non fanno sorgere alcuna domanda
in Vanes, impegnato a ricostruirsi la muscolatura nerchiale. Non le
guarda mai, perché dovrebbe guardarle, che cos’hanno fatto per lui le
stelle? Hanno forse inventato la figa? Fanno piovere soldi? Riscaldano i
cuori e rinsaldano gli animi? No, e allora?
Poi ancora il sole, le palme, le onde di piastrelle sui marciapiedi, il
mare di Volkswagen ad alcol, l'oceano di chiappissime tremule e lucide
di dendê.
Promossosi Cittadino del mondo, ormai é a proprio agio anche nella
favela più stracciolata: ha sviluppato una protezione fortunella antitifo,
antiepatite e anti ogni altra schifezza dei poveri, solo così, perché i Santi
del Cordonblè hanno preso a volergli bene, impresa assolutamente mica
facile, con gli italiani.
Tanto bene gli vogliono i Santi, che fanno germogliare in lui un'altra
bella capacità: quella di fare amicizia con chiunque, superando ostacoli
linguistici, comportamentali e caratteriali. Il portoghese, peraltro, lo
impara piuttosto in fretta: i fili di cotone rossi con perline fanno miracoli
in questi casi, specie quando li sposti di lato un attimo e scambi occhiate
con quell'occhione così pieno di ciglia, quando le ha.
Con gli uomini le cose marciano altrettanto lisce, anche di più, visto
che il brasiliano medio quando non è stronzissimo é simpaticissimo, e
così, con l’ineluttabilità del destino, in appena tre giorni di vita di strada
Vanes diventa baiano: gira in cinesine infradito, pantaloncini e maglietta,
alza il pollice alla Fonzie con tutti, si nutre di vatapà e fischia porcherie
alle natiche delle negre sulla soglia dei negozietti di souvenir, che ridono
e spesso rispondono fischiando porcherie con le natiche. É inviso solo ai
poliziotti militari e a quelli civili, che dandosi il turno lo fermano due
volte al giorno, gli chiedono il passaporto, dove abita, che cosa fa in
Brazil, quanto ha in tasca e perché non si chiama Paolorossi. Hanno
tatuata in faccia la voglia di bastonarlo a morte, fottergli soldi e
passaporto, nascosti a gonfiarsi di umidità dietro lo specchietto del cesso
della pensioncina La Floresta, cancellargli quella estupida felicità
italiana dalla faccia e poi tirargli un colpo alla tempia, ma sono le uniche
amarezze in giornate di meringa: si sa che un poliziotto, sotto qualsiasi
cielo, di default è una merda. Todos os Santos sono vigili, ad ogni modo,
e finisce regolarmente che le scimmie si confondono, si scordano perché
l’hanno fermato e vanno a spezzare la nuca al primo meninho sotto i sei
anni che incontrano nella rua seguente. Vanes, fiuuu, ricomincia a
sorridere e a far la lingua alle commesse e a strizzar l’occhio ai loro culi
capricornici. Fiuuu.
Tutta la materialità brasileira però non basta a farlo sentire Uomo
Completato, come vorrebbe essere alla fine del corso di perfezionamento
e crescita interiore iniziatosi alla stazione di Shasshuolo.
Gli manca, a dispetto di palme, fagioli e boquetes, il lato spirituale. Il
candomblè sicuramente non si basa su cose materiali, zeppo com'è di
demoni africani, feticci, girotondi dei matti, schiume in bocca, candele
accese, polli decapitati, sottanoni candidi, crisi oculogire e americani che
filmano terrorizzati, ma per quanto ci provi Vanes non lo sente come una
religione da far sua: le suore officianti gli fanno un po’ paura, sono
troppo grasse, troppo sudate e troppo fuori di cocomero. In più hanno
mutande troppo lunghe e pulite.
Un’incursione piuttosto casuale, giusto per non dover poi dire agli
amici caazzo, me la sono persa, alla comunità freak-chic di Arembepe,
dove i neo figli dei fiori figli dei ricchi vivono in bungalows quasi più
zotici delle capanne del Club Mediterraneé, e il tabaccaio somministra
maconha ed altre magagne, gli fa balenare il sospetto di un ulteriore
piano della realtà.
Decide di rimanere, e vedere un po’. Vedere un po’ è una gran regola,
non costa niente e fiuuu, quanti guai evita.
La vita è un coacervo birichino di casi, vedi un po’, ed in questa
caricatura di comune Vanes conosce Lùcia, una brunetta appassionata
arrivata da Cabo Frio, tranquilla cittadina balneare da cui si può solo
scappare. La dolce piccola (h 1,55) in dotazione ha: labbra marroni,
gengive viola, denti di neve, accento carioca che colora il mondo con la
tavolozza del sesso, lei parla a lui, lui cerca subito una sedia su cui
sedersi per pensare a che diav. gli sta capitando alle mutande; occhi che
Vanes abbassa sempre i suoi e arretra; abbronzatura permanente guarnita
da sfumature ramate; aria tardo-freak, probabilmente studiata a tavolino
tanto è giudiziosa e in sintonia col luogo; cultura al di sopra della media
delle brasiliane povere, che non disturba le prime spadate; tette a banana
con nero capezzolame fuori scala, che favoriscono le spadate successive,
incrociate in preda alla maravilha più totale, e spesso in difesa, con un
clito grosso quanto un alluce. La sua vitalità, facciamo questo, facciamo
quello, parlami, che cosa ne pensi, domani andiamo in un posto, svegliati
bicho, dimmi, senti che idea m’è venuta, raccontami, tu lo sapevi che,
dai italiano muovi il culone, mi stai ascoltando? ieri m’é successo, ehi
che ne diresti di? qual’é la tua opinione? avvolge Vanes in un turbine di
eccitazione costante. Intrappolato dalle scintille di quella problematica
dinamo, passa il tempo a domandarsi: “Perché proprio a me? Cos’ho di
speciale?”.
Il filo di rafia con cui quand’é solo cerca di misurarsi la circonferenza
del gambo non fornisce spiegazioni. Allora passa ad un metro da sarti,
più scrupoloso nel registrare misure lineari ma altrettanto impossibilitato
a fornire spiegazioni d’ordine superiore.
Lùcia, amicastri avvertono Vanes, da troppo tempo non ha un
compagno, anzi, guarda, è probabile che le piaccia la parte sbagliata del
letto. Ma con Vaneeesss (la tripla e apertissima equatoriale elargita da
Lùcia nel corso degli amori accelera invariabilm. l’eiaculaz., mentre la
tripla s soffiata da Lù. nel crs. degli am. accel. invarblm. leiaclz.), con
Vaneeesss la nanetta si dimostra donna, femmina e persino donna
femminile. Se fosse in Italia arriverebbe in televisione, farebbe i soldi,
probabilmente aprirebbe un bar, ma ad Arembepe si limita a liquefare
Vanes ogni volta che apre bocca, per dire o per fare.
Ciò che più lo attrae di lei, oltre i suoi diciannove anni imperiali e la
glottide prensile, sono l’intelligenza, la conoscenza delle cose del
mondo, la varietà e la vastità delle letture e il colto spessore culturale che
si porta dentro, dietro, davanti e addosso, attributi introvabili in tutte
quelle passategli sotto i ferri sino a quel momento, soprattutto se oriunde
del Nordeste. Non è una zotica figlia di pescatori che dopo aver urlato
per ore, di colpo s’asciuga con le mutande, s’accende la sigaretta, e si
mette a parlare dell’ultimo cantante di forrò, di quanto costa il pesce al
chilo, della cugina che s’è beccata di nuovo le croste di gallo da un
marinaio coreano. Lùcia, dopo aver urlato e chiavato per ore, si pulisce
con la faccia del suo italiano ed esprime pareri, elabora opinioni
interessanti, ogni giorno un’angolazione (o angolatura?) differente, ed è
in grado di commentare senza frasi fatte la filmografia dei Coen, la
nouvelle cuisine, la cafoneria inguaribile delle Ferrari, non dev’essere un
caso che le facciate a Modena, eh, Vaaanesss? E Vanes diventa rosso.
Ma presto si consola: Lùcia sulla quantità di pomodoro nel ragù ha le
idee giuste. Già è straordinario che sai cos’è il ragù, amore patatino, le
mormora Vanes qualche volta, nei pomeriggi che riesce a trascinarla
sotto il tavolo di cucina.
“Che tu sappia che cos’è il ragù”, dice lei.
“Eh?”., dice lui.
“CHE-cos’è-il-ragù, non cos’è-il-ragù. E il “che” regge il congiuntivo,
dalle tue parti. Non farti insegnare l’italiano da me”, lo sgrida lei.
Vanes, ragazzo non citrullo, solo semplice, preferisce scartare pensieri
tipo: “M- ma quanti fidanzati italiani avrà avuto mai?”, ed opta per un
moderno, accomodante “Cavoli, donna colta. Finalmente ho trovato la
mia Principessa”. Si vede bene nei panni del Cavaliere, che nelle sue
classifiche ormai apparigliano quelli del Cavalcatore.
I due esseri trascorrono una splendida luna di miele in lunghe,
debilitanti settimane sempre sotto la luna piena di miele (ad Arembepe,
posto abbastanza particolare, accadono strani fenomeni, spesso a base
miele), tra pesce fritto in spiaggia, bagni nelle onde spumeggianti, forrò
nudo, amici splendidi (nessuno freak), canzoni di Caetano Veloso,
capoeira nuda e cocchi enormi, piovuti tra molti spaventi e risate dalle
alte palme. “Ci cadono le palle alle palme, a vederci sì felici, amici!”
grida Vanes, e le risa si spengono subito. Mai una volta che se ne
accorga, perché è talmente felice che lo sta già rigridando.
I numeri migliori, quelli preferiti dall’italiano, che non capisce nulla ed
accetta ogni cosa, succedono quando sotto una luna ubriaca e davanti a
tutti Lùcia nuda declama col suo italiano alieno poesie di Guido
Cavalcanti, alternandole a passi scelti delle sceneggiature di film prodotti
coi soldi di Alberto Cavalcanti, esigendo poi un giudizio dal suo
ignorantissimo innamorato. Lei sa come pungolare gli asini, spronarli a
maturare almeno in lipizzani.
“Quale preferisci, e perché? Meglio scriverla la poesia, o comprarla?
Attento a quel che dici”. La posta è una succhiata alle ninfe, esistono
altri modi di chiamare la figa, che è suddivisa in parti, o porzioni,
amorino ignorantone, ognuna con la sua ragion d’essere, non lo sapevi,
eh?, ma anche se dalla cerchia degli amici provengono suggerimenti,
indirizzi, consigli, bigliettini Vanes non vince MAI: la cosa è al di sopra
di lui in maniera inimmaginabile, gli è consentito solo scoppiare in pianti
e latrati di rabbia e frustrazione per la propria pochezza, e si dà pugni
sulle ginocchia, e picchia la sabbia e mostra il medio alla Croce del Sud,
colpevole, come gli indicano le birre e la cachaça, d’avergli impedito di
frequentare la scuola con profitto. Allora lei lo consola, gli rasciuga a
bacini i moccioli, spegne la radiolina che Vanes s’è portata dietro
gettandola nel falò, afferra la chitarra di qualcuno, fanno tutti silenzio e
canta il cuore, i casi strani, i nodi dell’esistenza, i dispetti degli dei,
composizioni lievi e senza pretese ma ideate sul momento per calmare
quel matto, e poi si fa leccare il culo. N-o-n la buceta, oggi n-o-n hai
studiato. Per quella devi studiare, asino italiano, ciuco, in italiano nel
testo. Sei così schifosamente ciuco che dovrei chiamarti ciucazzo, sai?
Bisticcio, bronci, risate, e 69 incantatore, benché sabbioso. Applausi
dalla cerchia, e spesso suggerimenti, consigli ed indirizzi.
Accecato dalle luci del firmamento pulsante, ogni tanto Vanes, per
sottolineare che pure lui è conscio dei molteplici livelli della vita, e nel
tentativo d’instillare un po’ di timor di Dio in quei pagani, bastonandoli
con quel che possiede dell’Occidente, imposta un dibattito sul tema
Ferrari/Porsh, su qual’é più conveniente farsi vedere in giro, quale va
meglio, qual’é più bella, certo noi italià- ma lei gli afferra la faccia
idiota, se la ficca tra le cosce, ci siano o non ci siano brasilià- a guardare,
e propone prima deciditi a dirmi se è meglio il dio nero o il diavolo
biondo. Quandanche Vanes fosse in grado di rispondere a quiz del
genere, e non lo è, per definizione, presto cominciano le colle e le bolle,
ed una cosa che adesso sa, l’ha imparata finalmente, è che non si parla a
bocca piena. Le brasiliane si trasformano in brasil-iene se si transige su
ciò: cucinano, apparecchiano, portano a tavola e tu, tu cosa fai, PARLI?

I costumi locali, specie quelli non scritti, impongono scelte consone,


esigono un pedaggio che è da stolti non considerare. Lei sarà anche una
brasiliana del Sud, colta e desenvolvida. Lui sarà anche un Europeo del
Primo Mondo. Ma qua, se la donna si assenta da casa per più di un
giorno, vuol solo dire che è una gran vacca, con la smània di caracollare
in giro a mungere sperma. Nessuno sopporta, nessuno perdona una cosa
del genere. Atterrata da mestruazioni feroci, Lùcia si deve far ricoverare
all’ospedale di Salvador, ma due giorni dopo, appena scesa dalla corriera
Vanes deve accoglierla a ceffoni, davanti a tutti. Con urla molto sonore.
La recita è ad uso di quegli stronzi lì intorno, ma Vanes un sotterraneo
fastidio lo prova, in effetti. Che bisogno c’era d’andare in città? I bacini
sulla bua potevo darglieli io, no? Bastava chiedere, no? Perché non me
l’ha chiesto? Da chi s’è fatta baciare? Per 48 ore?
“Dove sei stata, lercia busona”. Il pugno è un pochino più veloce del
voluto.
Vanes trascorre la notte a piangere rannicchiato sul letto e a chiedere
perdono, perdonami amore, l’ho fatto per te, non sopporto che ti
giudicano una troia: anche se m’hai insegnato come ragionano da ‘ste
parti, devono sapere lo stesso che non sei una troia. Tu qui ci vivi. A
proposito, dove sei stata?
“Che ti giudi-CHI-no. Congiuntivo. Roba italiana. Usala” fa lei, gelida
come il ghiaccio con cui tampona le labbra3.
“Eh?” fa lui con gli occhi rossi, ma la ragazza non risponde. Ha bell’e
capito. Le giustificazioni scappate a Vanes sono magnificamente servite
a sottolineare che in Europa Lùcia non ci arriverà mai. Questo contadino
non ha alcuna intenzione di collaborare, per lui sono una vacanza, io
sono le ferie, con lui non andrò da nessuna parte. Ed inoltre, a colmar la
misura, risulta palese come “gli altri” siano un puro pretesto, é lui che mi
giudica veramente una troia. Quanto sono stupida.
Troncare. Stupida.
L’Amore. Cos’è.
“Se vuoi che la nostra novela prosegua devi tirar fuori la grana, Vanes.
Non te lo volevo dire, ma la Poesia è costosissima, cerca di svegliarti”.
Vediamo quest’italiano da due lire come reagisce sul tema Sussidi alle
Giovani Coppie.
All’ex operaio i conti, di colpo, non tornano. Le radici gli rammentano
che i baiocchi bisogna sudarseli, ammazzarsi di lavoro, persino
all’ombra delle palme. Possibile che quella fidanza sia in realtà una
piranha abitudinaria, che si ciba di portafogli maschili umani? É così?
Ah, é così? E tutta quella cultura cos - che cos’era, aria da sventolare in
faccia ai gringhi pirli? In faccia a me?
Non gli viene in mente che sopportare uno con le sue pecche,
emendarlo e mondarlo, è un lavoro, dei più tozzi. Lavoro nero.
Vanes, non più tanto innamorato, si sente profondamente deluso,
avvilito, derubato delle speranze. Soprattutto quando becca la patatina
che con una forcina cerca di scucirgli i punti in kevlar del sospensorio
Ferrari firmato Pipinfarina in cui nasconde i dollari.
«Brutta puta rottincula, tutti quei discorsi sul ragù, eh? Sei solo una
zoccoleira a caccia di coglioni, ecco cosa. In senso fisico e in senso
semaforico. Vergonha!», ed il quarto d’ora seguente è ritmato dalle
sberle che Vanes tira alla cagna rognosa e dalle calcagnate in pura
capoeira che la ragazza in lacrime spara allo scroto di quell’imbecille
moscio e fasullo, che voleva solo consumarla a sveltine senza curarsi di
un comune futuro almeno europeo, se non proprio italiano. Il
sommommolo con cui lo becca al fegato è un omaggio della ditta, la
sottolineatura di disprezzo per chi tortura i congiuntivi e non sa che cosa
siano il rispetto e l’amicizia e le istanze del sud del mondo. Prendi
questo. E questo. E questo. E questo. In italiano nei testicoli.

Il fegato gonfio, la borsa marronale gonfissima, l’anima in cantina, le


cose che gli sono state rivelate su di lui a didascalia d’ogni calcio, le
risate che escono dalle persiane le centoquattro volte che casualmente
passa sotto le finestre di Lùcia, lo inchiodano alla certezza che o paìs do
carnaval gli ha voltato le spalle, per sempre. Amarezza. Amarezza
infinita. E, a parte questo, adesso cosa fa- che cosa faccio? Dove riparo?
Dove mi formo? So bene che la mia persona non è completa.
Un inattendibile guru freak carioca di diciassette anni dalla parlantina
pompata a coca, uno dei pochissimi amici di Lùcia che ancora gli
parlano, alle nove di una mattina in una spiaggia spazzata dal vento e
senza tanti falò o forrò gli suggerisce che lì non è aria, e che forse,
chissà, vedi tu, le tue risposte secondo me si trovano in India, la sola,
vera, prima Madre dello Spirito, secondo me. É quello che cerchi, no? Il
Brasile semplicemente non ha il pallino per queste cose, è troppo
odoroso di cocco e di gnocca, troppo distratto dalla gnocca al cocco,
troppo generoso di gnocca che ti coccola o traveller shèk. Lo dico per te,
a me chemmi frega, io ho risolto.
Vanes prende atto, dà ragione, conviene, ah sissì, te ne sei accorto
anche tu, eh? e con una rapidità di decisione che ormai non lo stupisce
più decide di smammare e volare a Bombay, alla ricerca di se stesso e
delle Radici dell’Uomo Maschile.
In fondo alla corriera che lo porta via da Arembepe fa finta di contare i
soldi che gli restano. É un duro, non vuole contare quelli venuti a
salutarlo (nessuno). Chiede ad una vecchia davanti se per favore alza il
vetro del finestrino, ha gli occhi delicati e il polverone li fa lacrimare.

Indians!

Ancora una volta l’impatto è bastonatore. All’uscita dell’aeroporto la


città sembra abitata solo da mendicanti, e l’albergo di Colaba in cui si
rifugia è, in realtà, circondato solo da mendicanti. Vanes dopo tre minuti
capisce che chiunque lì è un mendicante. Aveva visto anche troppo bene,
dall'aereo, cazzo, ma l’obesissimo attore indiano che volava in incognito
nella poltroncina di fianco alla sua domanda aveva roteato gli occhioni
spiritati ed aveva risposto: "Au, nau, nau sahib, sono solo le comparse
del film che sto girandou, una love story tra diseredati, ma poi arrivo io,
le uccido il fidanzato innamorato, denuncio suo padre agli inglesi che
così hanno la scusa per dar fuoco alla reggia, strappo un orecchiou al
fratellino, lei non ne vuol sapere ancora, si vuole solo buttare nel fuoco
della reggia, ma poi le faccio vedere anche l'altro orecchiou, si convince,
mi sposa, viene ottimamente accolta dalle altre mie sedici mogli che con
pochissime frustate le insegnano dove amo essere baciato, gli inglesi
scuciono il mio percento e tutto finisce bene. Tramontou, titoli di coda.
La gente mi adora, sahib, lo faccia anche lei", e l'aveva zittito con una
foto firmata, in cui conciato da elefante celestino brancicava a sei mani
una balena tre volte più voluminosa, con occhi forsennati e una voglia di
vino tra gli occhi forsennati. Per terra un tappetino di orecchie umane
infantili, smaccatamente finte. Una piccola produzione.
Di fronte al Gateway of India inciampa in storpi smezzati, con
l’elefantiasi in quello che resta e ricoperti la faccia di mosche con
l'elefantiasi, che si trascinano su un carrettino e gli chiedono una rupia,
Sir, cazzo ti costa, Sir. Devono aver incocciato in molti italiani,
nell’attuale e nelle precedenti vite, ed è evidente che qualcuno lassù la
sta considerando una colpa piuttosto grave.
«Forse», pensa già al primo minuto di gioco, «era meglio se rimanevo
in Brasile e mi facevo le màzzoni della Mazzonia». E il secondo minuto
lo passa a piangere sulla propria stupida stronzeria. Lacrime vere,
goccioloni che si fa uscire volentieri dal canale lacrimale perché, gli
hanno rivelato dei cremaschi sull’aereo, è da lì che entra il germe
dell’elefantiasi, e solo così si può ucciderlo. Affogarlo di dolore.
La prima cena e tutte le seguenti le celebra da Leopold, un locale
semplice ma molto in voga tra i turisti. A quei tavolacci per evitare il mal
di testa impara a togliere la glicerina dalla birra, mettendo la bottiglia a
testa in giù in un bicchiere d’acqua. Al primo piano, su per una scala, si
fanno servizietti digestivi, sempre a testa in giù, e la scala è un continuo
viavai di pazienti con surpus di glicerina.
Quando lo guardano mentre divora i gradini a tre a tre, i camerieri
scuotono la testa come usava a Londra, e come a Londra vogliono dire:
"Di destra o di sinistra, italiano essere malato". La colonizzazione ha
lasciato il suo marchio, pensa amaro Vanes. E scuotendo la testa sale
scale.
Nei giorni seguenti, negli intervalli tra gli inghiotti, al bancone del
Leopold allaccia rapporti con un paio di turisti. Robetta, ma in Oriente il
trucco è accontentarsi. In realtà funzionerebbe molto bene anche in
Occidente, solo che nessuno ci pensa, o ci crede, o ci prova mai e sta
venendo su una generazione che é un gran brutto guaio, teste di cazzo
capaci di ascoltare solo Baglioni.
Il primo allaccio sarebbe Alì, rara coproduzione iraniano-modenese. La
madre è stata svezzata a borlenghi, il padre a versetti del Corano.
Somaticamente ha preso dal padre, e infatti passa più tempo a cavarsi i
baffi dalla bocca che a conversare, ma a parole shi capise chiaramente
che è cresiuto all’ombra dla seccia rapita: l’accento e i concetti sono da
brividi. Vanes dà retta al proprio stomaco intorcinatosi all’istante, e
scarta di pacca ulteriori ipotesi di fraternizzazione con questo nemico.
Poi ci ripensa e si dice, vabbè, magari mi porta in dei bei posti, m’impara
qualcosa. Cos'è 'sta puzza al naso, finiamola, cresciamo una buona volta.
E poi siamo in Oriente, il trucco è l’eccetera, e in Occecetera
nessuneccetera mai. Lo stomaco smette di brontolare, sa che il suo
padrone è ancora cretino, e che non c'è verso.
Il secondo è un francese genere bancariò-intellettualò, occhialini piccoli
e rotondi, Lacoste bianca stirata, parlare forbito. Sembra un bancario
intellettuale. Si chiama Vincent, e come impara che sono entrambi ospiti
dello stesso albergo gli propone di dividere la stanza, per risparmiare.
Già la sera del loro primo incontro i due modenesi si ubriacano (il
francese sé astemiò etil se cush avec le galèn), e unanimi decidono di
scendere a caccia di topi. Tirano pietrate per ore tra le facce dei vinti che
dormono per terra, beccando parecchie facce vinte e senza beccare mai
un solo ratto: gli animali saltano impuniti a velocità impressionante, a
quattro zampe, come fanno gli aerei americani quando balzano
impunibili sulle funivie dei vinti.
La giornata finisce in un bordello a piano terra di Fuckland Road. Alì
ha il coraggio modenese di farsi praticare un lavoretto di soffio da una
nepalese che sa bene da che parte soffia il vento, ma Vanes rimane
impietrito, nella stanza delle bambine in sari e in lebbra, per le due dita
di cricca che appaiono tra le tre dita dei loro piedi. Chissà che cosa si
trova là sotto, si domanda senza osare risposta, fissando ipnotizzato le
pieghe semitrasparenti delle gonne d’organzino. O che cosa non si trova
più.
Le ragazze lo illuminano di immensi sorrisi, smorfiose avances,
traslazioni slogate del collo, roteanti occhioni al kajal spalazzati al cielo
e al piano superiore e dita atteggiate tipo figa di Visnù, cui reagisce con
un silenzio silenziosissimo, e uno studio attento delle mosse della
tenutaria grassa che fa da cane lupo all’entrata. Kalì lo guarda in armi,
mentre tutti aspettano che dietro la tendina Alì e la nepalese digeriscano
quello di cui si stanno cibando.
In base ai rumori Vanes fa diagnosi di importante cena di lavoro. Chi
avrà messo l'arrosto? Chi le posate? E il dolce, i liquori? Spero per Alì
che il formaggio e il caffè non siano quel che dico io. Ridacchietta
ridacchietta, guardandosi i piedi.
Oh, a proposito. Passa a quelli delle bambine.
Quanti fori avrà una lebbrosa? Magari se sai dove mettere le dita e le
soffi forte nel naso possono accadere cose notevoli. Con i diti nella rogna
te la fai come zampogna. Ma da dove uscirebbero i suoni? E che suoni
sarebbero? Sibili? Fischi? Scoreggine? Lamenti di fantasmi? Monsoni
buddistici? Certo soffiare Amazing Grace o Scotland the Brave dentro
una porzione di indiana in una piazza di Balmoral, davanti alla Regina,
non sarebbe male. Non sarebbe male affatto.
Comincia a ridere ridere ridere, e a marciare in tondo lungo le pareti di
fango e sterco di bufalo incannicciato, alzando bene le ginocchia, e
gridando fiiii-gniiiiii gnaaaaaaa, gniiiiii gnagnaaaaaa, gnaaaaaaaa
gniiiiiiiiiii-fiiiiii, con un pollice in bocca e l’altra mano impegnata a farsi
scoreggiare ritmicamente un’ascella. Poi interrompe l'assolo: le
ragazzine si sono allontanate in un angolo spaventate e Kalì allarmata sta
convergendo su di lui con un kriss estratto dalle tette. Perché i maledetti
ricchi si streppano di datura e poi vengono qui a stracciare il lingam?
Glielo infilo in un occhio, ‘st’attrezzo, e vediamo che cosa mi risponde.
Dalla faccia direi che é un italiano.
Vanes smette subito di ridere e marciare, e torna a mettersi seduto al
suo posto. Non sono stati pensieri granché spiritosi, che abbiano
proiettato attorno luce di comunione o liberazione. E' spaventato quasi
quanto le ragazze, e arrabbiato con se stesso quasi quanto Kalì: si sapeva
morboso e stronzoide, è partito proprio per emendarsi da questo genere
di cose, ma adesso ha le prove di essere ancora, ANCORA un merdoso,
un - un occidentale schifido. Gniiiiiii gnaaaaa gnaa. Porca vacca porca,
Lui non è così, cioè, non vuole più essere così, deve guarire, senò cosà
speso tutti quei soldi in biglietti a fare. Cava il pollice dalla bocca,
asciuga e mette via.
Per la prima volta nella sua esistenza ridicola Vanes decide per un
saltino quantico, di volare un po' più alto, che sarebbe anche ora. Non ha
più quindici anni. E diventa rosso. E chiede scusa a tutte, e lancia rupie
di risarcimento morale sul pavimento in terra battuta. Segue polverone
pazzesco, con strida.
Il giorno dopo, come s’era convenuto, gli arriva in stanza il francese, ed
il capitolato d’intesa è svelto ed informale: bene, ciao, ‘scolta, tu ti metti
lì, io sto qui, piazza la tua roba là, leggi con la luce accesa? russi? parli
nel sonno? cammini? spetazzi? dici le preghiere? sei innamorato di me?
Al momento di farsi la doccia, il bel ami precede Vanes di un soffio ed
entra in bagno con lo zaino in spalla. Vanes, che di solito ci va con una
bandiera di spugna rossa scudettata e il beauty case col cavallino della
Ferrari (Porsche Design), era convinto che i francesi usassero i beauty
con la lasagna della Renòl. Non si impara mai abbastanza.
«Che cosa ci fai con tutta quella roba?» domanda, curiosissimo.
«Mi lavo, no?», risponde Vincent, e gli chiude la porta in faccia.
Vanes non è fesso, è solo di Sassuolo, e arriva a capire che il compagno
di stanza, semplicemente, non si fida degli italiani, ladri, e che sotto la
doccia si sta portando saponcino ghèrlén, guantino di crine e sciampino e
pettinino, ma anche soldi, documenti, vaucher, macchina fotografica e
pregiudizi.
Sicuramente il suo zaino deve avere una combinazione e un’apertura a
timer.

Accidenti, ecco, lo sapeva: Bombay non è l’India che va cercando,


Vanes se ne accorge quasi subito. Sarà per l’odor di merda di vacche e di
fuochi di merda di vacca. Sarà per i ricchi babbi sauditi che vengono a
scegliere sederini per il loro primogenito che ha già stratutto e gli manca
solo un ano in cuoio umano tenero, saranno i torinesi che vengono a
scegliersi il fegato, il cuore, i reni e le cornee per se stessi, in Italia le
inchieste hanno chiuso il mercato, saranno i troppi topi intelligenti, o i
troppi francesi cretini. Saranno gli smisurati cartelloni di Bruce Lee con
le mani ad artiglio. Saranno le mucche, che vorrebbe trattare a rasoiate
nelle mammelle ogni volta che lo guardano. Saranno le assordanti nuvole
di nafta dei milioni di autobus, sgangheri ma acchittati a nappe e
specchietti come la Madonna di San Luca. Saranno le antiche 1100 Fiat.
Saranno le antiche lambrette a sedici posti, col tassametro a discussione.
Saranno quei matti nudi infarinati lerci orgogliosissimi che mi fissano
con quegli occhi rossi, roba da non credere come son messi, se uno fa
tanto di chiedermi qualcosa gli mollo una carcagnata in pancia, va’ mò
là, andate a lavorare, santoni, levatevi dalle palle e lavatevi le palle.
Saranno le navate ombrose di alberi scimmiosi e indicibili, che lo
spaventano anche un po’. Sarà che le donne gli paiono identiche alle
sarde che ha visto una volta in un documentario, con gli stessi baffetti
bellissimi mapperò più eleganti, senza la fissa del lutto ad ogni costo ed
ugualmente infrequentabili. Saranno le cornacchie nere giù, ed il cielo
grigio su. Sarà che zerca un po' di blè ma il blè non zè. Saranno i milioni
di rupees, magliette, quaderni, biro e rupees che chiunque al di sotto e al
di sopra dei dieci anni si sente in dovere di chiedergli. Sarà che qui
l’obbi nazionale sembra quello di trasportarsi i bimbi morti sulla testa,
che non fai nemmeno in tempo a chiederti ei checcazzo è quella roba,
cristo santo, che il cadaverino freschissimo ingioiellato di fiori a uno
scossone gira la testa e ti guarda. Saranno tutti questi tempietti, che coi
colori riminesi e i pinnacoli e le statuine a mille braccia gli paiono
carrettini di Sicilia ancor più ridicoli di quello che ha lasciato dai suoi.
Sarà quest'ultimo lancinante ricordo, ma comprende che l'India
metropolitana non è una risposta, è solo un inconcludente mal di testa.
Che cosa sarà l’India al mare? Avrà la stessa puzza, ci sarà lo stesso
caldo, la stessa miseria? Ma certo che no, che domande, a Rimini in
estate ci si diverte un tot, fa fresco, si sta bene, bella gente, quattrini,
lusso, mica la confusione che cè qui, e quindi.
Sissì, Goa è sicuramente la salvezza, decide a freddo, più per la voglia
di riparlare portoghese, sfanculare cornacchie, ed elemosine, e puzzolenti
lambrette, e una stanza calda come l’inferno sopra la stazione delle
corriere e con le pareti di plastica blù miniate da un’esaustiva collezione
di escrementi spalmati a mano, più per quello, lo giuro, che per
conoscerne gli alternative freaks con carta di credito in tasca descritti
millenni prima da El Duende, che il diavolo se lo porti.
Presto, il biglietto.
Vanes però non riesce a scrollarsi di dosso Vincent. Dopo essersi
riempito lo zaino con quindici guide (dell’India vuol sapere tuttissimo),
ed aver deciso dopo mille docce che l'amico è un italiano
sufficientemente affidabile, le fransé gli si è incollè agli stinchi («Vengo
avec yù»).
Il viaggio in autobus è osceno, le strade scassadenti, l’autista pazzo, i
chilometri infiniti, e la nafta azzurra che entra dalle portiere aperte fa
lacrimare e tossire. Poi c’è un ubriaco violento a bordo, un caldo
violentissimo a bordo, e dalle radioline di bordo un monomaniaco
compulsivo a nome Ravanj Shankè tormenta una corda sola, perché non
ha rupie per comprarsene altre. Nemmeno i tappi di cera ce la fanno, e
Vanes si tormenta in un loop infinito ma l’india, chi è? L’india cos’è?
L’india, perché? Io in india, com’è? Ma l'india, chi è?
Sono tremende le lunghe ore di scossoni e latrati di claxon e noia di
questa road to nothing. Il sonno non arriva, bisogna inventarsi qualcosa.
Un filo di cotone millecolori che pende dallo zaino del francese, di
fronte a lui in coma sudato, stimola progetti intensi. Intensi e precisi.
Bisognerà pur punire chi si fa i centrini coi cotoncini colorati come i
militari checche. Chi si fa la doccia prima di me con la mia acqua calda.
Chi non si fida degli italiani. Chi dorme beato e io no. Vanes inizia a
tirare lentissimo, guardingo, millimetro dopo millimetro. Ha a
disposizione migliaia di ore e di chilometri, ma si fa aiutare volentieri
dalle buche, che birbe capiscono tutto ed accelerano la pratica. Se non ci
si diverte un po' tra noi...
Verso le quattro del mattino lo zaino di Vincent, le quindici
pesantissime guide e il telaio chiodato per centrini crollano di schianto
sulla faccia del loro padrone. Svegliato, sfragnato e dolorante, ulula cose
francesi che Vanes, nonostante l’esperienza parigina, non coglie. Il
sangue dal naso maciullo lo ripaga di tutto. Ladro no, sfragnanasi di
magnarane SÍ. Bel scioglilingua, me lo devo segnare. Yuk yuk.
Giunti a Panjim, con una scusa Vanes scarica il compagno di viaggio,
una maschera senza volto ma con molte mosche verdi: «No, onnò! Devo
tornare a Calcutta, ho scordato la fidanzata. Che peccato, un così bel
viaggio, ma quella mi rompe la faccia. So che mi capisci, ciao».
Le spiagge di Goa si dimostrano un pacco. Ladri, tossici calabresi con
accento di Cinisello che dibattono sulle quotazioni dell’afgano, poliziotti
corrotti (qualcuno calabrese) a caccia di drughè cui spillare rupie,
busonazzi giapponesi, centinaia di Superga colorate e colpevolmente
italiane, maiali che mangiano al volo i panettoni di Vanes non appena si
siede nel cacatuàr sospeso tra i bambù. E poi ancora comunità di
recupero per tossici, assorti nella terapia di contare chicchi di riso;
minorenni tedesche fuggite da casa che parlano solo quella loro lingua
schifosa e mangiano polli schifosi, vivi più di loro; insabbiati aussie col
cervello fuso da troppi acidi; moon parties in spiaggia, regolarmente
interrotti dai manganelli di bambù della polizia, con tutti che scappano a
cilum e tette e coglioni dondolanti; élite tardo-freak che snobba anche
l'aria; romani in borsalino Indiana Jones che consumano
avventurosissimi cheese macaroni ai tavoli dei ristorantini; indiani che
scivolano dietro i tanga firmati delle sporcaccione occidentali e li
fotografano al volo; indiani in febbre che si uccidono di seghe dietro gli
scogli, studiando le stesse occidentali di prima mentre nauseate dai
maschi se la slinguano al sole, che tutto ama, tutto perdona e tutto
disinfetta con la sua faccia a svastica.
Tanga e macaroni, manganelli e romani, superghe e superseghe, qui
manca la spiritualità che Vanes brahma, oh ragazzi, questo è il punto.
Intravede alcune molecole di santità nelle scimmie divine a ventisette
braccia o negli elefanti turchini disegnati sulle cartoline, see, come no,
ma è uno spento surrogato, che cosa me ne faccio, che cos’hanno fatto
per me gli elefanti, oltretutto con fuori registri terribili. Stampa pietosa.
Si era fatto illusioni, ecco, cancellate senza nemmeno bisogno di un
lentino da tipografi, che tra l’altro non saprebbe dove trovarlo qui e da
chi farselo spiegare.
L’unica aura di misticismo che riesca ad annusare circonda flebile certi
sannyasis, i discepoli di Osho, appartenenti alla comunità di meditazione
di Puna: la città non è lontana, e ogni tanto scendono a Goa per bagnarsi
il corpo umano tra le onde.
Oòòh, cazzica, lo sapevo, eccoci. Eccoci, lo sapevo, visto? Vanes
percepisce subito lo spessore culturale di quei signori, e francamente
colpito dalle loro strane ieratiche pratiche meditativo-ginnico-pettinative,
acceleranti asciugatura, abbronzatura e transustanziazione e
trasferelleresi, oltre che eccitato da alcune segretarie e ministre della
setta, tronchi pà zeschi americani e australiani con rotondi cà pezzoli a
tappo, decide che Puna può essere, deve essere il capolinea della sua
Ascesi. Anche perché, ma non lo confesserebbe mai, è trascorso un anno
e s’è vagamente rotto i maròni del suo giringiro senza sugo. Bisognerà
che quando torno a quello scocomerato del Duende gliene dico quattro,
guarda dove mà spedito e con che risultati. Mi sento più scemo di prima.
Ah, ma me la paga, me li ridà i miei carr
Autobus, forza.
Nella città universitaria affitta una stanza con scimmie sull’armadio,
cornacchie sul davanzale e ditate dappertutto, ma almeno la plastica che
riveste il cartone delle pareti non é blù, si compra una tunica amaranto e
prende divotamente a frequentare ogni giorno l’ashram. Scopre così un
mondo nuovo, assolutamente positivo, buono, volto all’interiorità
gioiosa e, al tempo stesso, alla gioia delle interiora.
La location non è solo zeppa di agenti dell’ FBI e della DEA, qui a
controllare se, ad onta di tutti i loro sali di litio, Osho il Mascalzone non
abbia per caso deciso di risorgere e farsi quattro risate, ma anche di
incensi, gesti svelenenti, zefiri che smuovono campanellini, ribaltamenti
delle priorità, fronti luminose, silenzi e quintalate internazionali di sorca,
spesso con campanellini. Moderna reincarnazione dei cani di Pavlov,
Vanes prende presto il vizio di perdere bave appena ode uno scampanìo,
fosse pure quello dei cimbali che annunciano la preghiera o la cena.
Gli ultimi soldi e gli ultimi mesi li scioglie nella comunità, tra vibre
kundalini e feste sui tetti dei grandi alberghi, bagni in piscina con
giapponesi dalle gambe pietose ma dalla figa penzolona e scalopputa,
che mastica e da cui beve sitibondo e pensoso. Cloro, e vabbè, ma
l'importante è lo spirito con cui affronti le cose, non le cose. Inoltre ha il
bilancio idrico da riequilibrare, per la faccenda delle bave campanelliche,
e non importa proprio con che tazza bevi: fra l’altro non sono tazzine
taiwane di ultima, sono giappe senza nappe, yuk yuk, e poi non
fischiano: ragliano o urlano, yuk yuk.
Inoltre l’agopuntura, lo studio dei cristalli e delle mappe astrali, la
pranoterapia, i cibi vegetariani, i corsi di sitar e di tabla, un’infarinatura
su ogni tipo di pietra dura esistente nell’universo, su come tagliarle e
come falsificarle, un corso sull’argenteria Vedda, una fidanzata indiana
che lo apre ai misteri dell'Ayurveda, dei punti chakra e dei punti G, e
qualche amante brasiliana, che si apre e basta. Le ore della giornata per
star dietro a tutto con profitto sono sì e no sufficienti, e tempo per
guardarsi dentro, interrogarsi, valutare se tutto ciò serva a mutar pelle sul
serio, commisurarsi con le stelle e la sabbia e i fili d’erba e i petali dello
stramonio e le preghiere a occhi chiusi che mi piacerebbe sapere a che
cosa pensano tutti quando si atteggiano, non ce n’è: sono troppe le
tecniche promozionanti e maturative, le cose da imparare, e le puttanate
sulla sabbia e l’erba e il cosmo hanno da passare in seconda fila.
Le tazze italiane, numerosissime, le guarda e le odia. Da lui non si
fanno mai bere, non è di Milano. Gli battono le tempie tutte le volte che
ci pensa.
Nell’ashram, durante il corso del giovedì pomeriggio su come
posizionare lingua e denti per ottenere il suono THK TOMÒH quando il
tuo corpo astrale è in comunicazione via cavo col corpo astrale di
qualcun altro che ha assunto la posizione della Cerbiatta Spalancata In
Cerca di Guai, Vanes incontra una ragazza gialla che gli farà cambiare
coordinate, valori e connotati, prega, scongiura ed auspica. Magari
speriamo sia la volta buona, e che non mi venga a rovistare nel
portafoglio. Dio, quanto l’amo. Più di Lùcia. Tomòh.
Ella si chiama Yumiko, è indubbiamente giapponese ed ha il corpo
terreno di pelle color latte parzialmente scremato (UHT). Il loro è un
rapporto puramente platonico. Intanto perché i giapponesi non chiavano
mai, se non nei manga, e poi perché le giapponesi chiavano ancora
meno. Puppoprive, sono però in possesso di una figa carnuta e sporgente
ai limiti dello scandalo, con rosbìf da mezz’etto a sx e mezz’etto a dx, e
sconci clitoridi grissineschi con cui potrebbero fare a pezzi qualunque
tonno, tomòh, apparati fornicanti sulla carta più adatti a ospitare equini
quadrupedanti che non modenesi in ansia migliorativa, ma in realtà non
reggono il colpo, e già sfiorarle con un crisantemo le fa raggrinzire di
venustà e raccapriccio: opima la cornice, stenotico il quadro, thk. Vanes
non si fa ingannare dal sapore di cloro, e teme, già ai primi bocconi, che
se la astringano pure con l’allume di rocca, pratica gialla e misteriosa
come tutte le cose che sanno di oriente, ma alquanto imbecille a ben
vedere. E poi hanno pochi peli, ancor meno delle francesi, cosa
imbecillissima.
D’altronde ha già svaccato con le fidanzate equatoriali, e stufo dalla
loro peculiare propensione a tagliuzzar valige, illusioni ed ogni altro
effetto personale, ha un gran desiderio di situazioni più elevate, più -
mmm, “altre”. Decide che con questa, con questa, la lingua servirà solo
per parlare, al più qualche thk tomòh da compagni che ripassano la
lezione, ecco, e già si fa tutto un viaggio sui libri che gli toccherà
guardare per imparare l’hippòn-do o l’aringa-to’ o il pijiamà o come
cavolo si chiama. Lo rende nervoso il fatto che con ogni probabilità i
testi a quanto pare dovrà addirittura sfogliarli al contrario, ma bisogna
che si informi meglio, lui a questa puttanata non crede più di tanto, gli sa
troppo di fasullo. Si sta facendo furbo, ha smesso di berle tutte.
Yumiko, peraltro, è in grado d’appagarlo anche tramite zero virgola
zero zero frazioni di sguardo, somministrate da sotto quelle fessette così
sottili dette: gli occhi a mandorla, e con lei si può evitare benissimo di
far rumori superflui con la bocca, almeno al primo appuntamento.
Amanti-amici, partecipano alle meditazioni di base, passeggiano
tenendosi per mano, mangiano stupidaggini vicini vicini, e tutte le sere
mimano la copula d’amore tenendosi abbracciati, al buio. Ascoltano il
chioccolìo della rugiada notturna che scivola nelle grondaie di bambù, e
coi loro thk thk a gara tentano di colloquiare coi trilli dei gechi e i rutti
delle raganelle, scandalizzandosi un mucchio a quest’incomprensione tra
razze. Vanes ogni tanto (due volte a seduta) sente il richiamo della
foresta, vorrebbe suppostarglielo dentro con tutti i suoi coglioni più
volgari, tomòh, tomòh, non è che abbia ripudiato al 100% il suo intimo
uomo, tra l’altro l’odore organolettico di tonna che sale su dalle lenzuola
è orgiasticamente superiore all’odor di ciliegio in fiore che le promana
dai capelli, ma quella comunità e le sue pratiche, briciolina dopo
briciolina, stanno fornendogli la capacità di comprendere che i ciliegi
hanno uno specifico che alle bestie e ai cazzi manca del tutto. Prendendo
mentalmente a ceffoni un glande che afferra assai poco la situaz.,
padrone perché non le saltiamo addosso e non la facciamo finita?, il
sassuolese è estasiato dal sentirsi sottosopra per una pelle così agruma e
per occhini tanto esotici ed inquietanti. Inquietanti e mandorli.
Ma anche il Paradiso Terrestre ronzava di mosche verdi: ad onta
dell’estasi, siano stramaledetti dio divino e budda budino, permane la
fastidiosa barriera linguistica, questa volta invincibile per il Vanes Dono.
Vanes si è evoluto a tappe forzate, ha perso i peli della scimmia
shasshuolese, ha studiato carriolate di inglese, lo sparlicchia, lo
capicchia, ma un conto è ordinare orrende patatine nei fast-food, un
conto è evitare gli orrori del fast-fuck e sforzarsi di imbastire una vera,
profonda relazione con ‘sto bocciolo di riso, che sorride, sorride, sta
sempre in ginocchio ad annodare aria e fiori, a volte cinguetta ma non si
capisce mai nulla di quel che dice, vuole o pensa. Desidera dividere con
lei la propria infanzia desolata, descriverle i carrarmatini gialli, i
portascarpe a fiori, la bici, narrarle la terra di bianchi bidè e rosse cavalle
e amarissimi funghi da cui partì e a cui tornerà, ma quando Yumico leva
la testa e lo contempla, Vanes indovina che nessuno dei suoi monogatari
ha varcato quella fronte porcellana.
A volte ho persino difficoltà a capire se ci sente. Me lo succhiasse,
almeno...
Sotto un’immane luna d’agosto viene svegliato da Yumiko. Cioè, viene
svegliato dallo snip snip snip delle forbicine con cui Yumico si sta
cimando i solitari peletti delle lasagne. Ella è sapientemente nuda. Ella
ha accanto a se’ un vasetto di giada viola ricolmo di colla di riso, Vanes
ne capta l’odore. L’ha captato anche la minchia, in agguato da giorni,
sapientemente.
Ella, con antichissime movenze elastico-ritual-geometrico-snervanti, si
cosparge di colla le ascelle impuberi, prima una ascella impubera, poi
l’altra ascella impubera, glielo fissa mandorla, reprime un conato,
aggraziata raccoglie la spigolatura delle forbicine e meticolosa la depone
sulla colla. Ella alza le braccia al cielo, a testa china, senza guardare il
bianco signore-san, e si offre in prima visione ai suoi occhi strabuzzi.
È un regalo, ma anche rappresentazione di donna occidentale filtrata
dalla millenaria cultura limona; Vanes comprende che quel tentativo di
trasformazione, quel sacrificio, capirai che sacrificio, è la caricatura dei
suoi fantasmi, che in qualche modo la ragazza ha captato e tradotto nel
messaggio non desiderarmi come non sono. Per antiche scale, pertugi
muffosi, ridotti angusti, canalette incrostate, dai piani alti la missiva
scende giù giù nelle segrete, e la ceppa si sgonfia a zero. É di fantasmi
che si nutrono le ceppe, tenetele a stecchetto su ciò e si ridurranno
fettucce. Tra un agguato e un’altro, un’incursione e un’altra, una guerra e
un’altra, una caccia e un’altra, lo sfinito Neanderthal sognava boiate a
base scimmiette, e se arrivava un mostro a grugnire ci sono i ragazzi da
portare a scuola, forza alzati, metti via quella roba, fai qualcosa anche tu,
l’allucinazione che stava accarezzando tornava carne molla e lui dava
fuori di matto, accorrevano i vicini e col cavolo che quel giorno i
bambini sopravvivevano.
La porzione rettiliana del Vanes-cervello non fa in tempo ad
incendiarsi: Yumico l’ha afferrato per l’uccello e tira, tira, vuole che si
alzi e la segua. Notte complicata.
Tenendolo per il timone gli fa fare tre volte il giro del tatami su cui
sospiran tanto e guzzan poco, non desiderarmi come non sono, poi lo
trascina in un’altra stanza, molto, molto più grande. Nel centro, al buio
della luna, intravede un tavolinetto basso che sorregge un piattino in
legno di sandalo, ospitante un meloncino spaccato-trafitto da una
gigantesca melanzana bianca, di fronte alla cui silenziosità i due
finalmente sostano. Uf, dice il timone.
Yumiko con un lamento esistenziale scivola a terra di fianco al
meloncino, ed assume la posizione detta: la pecorina a mandorla.
Ansima, e con le dieci dita si spalanca la valle degli orti. I due ikebana
sono vicini, allo stesso livello, e nel pallore del firmamento Vanes può
operare paragoni. La bistecca a pieghe è elefantiaca ma, pur se
booleanamente l’italiano vi aggiunge lo squarcio culare, risulta che la
composizione che la ragazza offre alla sua anima fradicia non riuscirà
mai a superare le dimensioni del rebus sul piattino. Se ne deve evincere
che la natura non facit saltus, o che devo saltarle sulla natura? Fa un
passo avanti, ma quella melanza è quadrupla rispetto al punisher di
Vanes, perplesso per la sorte che talora s’accanisce sui meloncini. Sorge
la pietà, booleanamente e umananamente. Il socio di Vanes fa un passo
indietro, e dopo un po’ anche Vanes.
Sotto il cipiglio del Mare Serenitatis azzarda una leccatina al
meloncino, ed una linguata all’albicocchissima rapata: dal confronto
risulta in breve che il melone è più saporito e aromatico, che nervi,
perché se la lava venti volte al giorno, non ci sono qua io? Va bene, ha
capito, non desiderarmi come non sono, non farmi quel che non
desidero. Certo che ‘ste orientali di obliquo non hanno solo gli occhi.
Un’occidentala urlerebbe come un’ossessa senti, piantala coi tuoi giri, il
culo non te lo do e basta, ok? vedi di rassegnarti, ma dopo mezz’ora il
fidanzato se lo scorderebbe, o penserebbe non fa sul serio, questa vuole
giocare alla santa, fare il teatrino, e tornerebbe alla carica. Così invece,
testimone la luna, Yumiko si è assicurata che il messaggio sia arrivato
molto in fondo, per sempre, e se lo capisce Vanes figurarsi quelli
normali. Il NÔ giallo è un filino teatrale, ma molto più efficace e
formativo del no! bianco.
Il povero racazzo è sopraffatto dalla lezione, ma odierà i meloni tutta la
vita.
I cocomeri, quelli sì roba seria. Non si contrae alcun debito formativo,
con quelli. Li sformi ma non si contraggono, quelli.

Dopo settimane di Assoluto verdure tenerezze allume e castità devono


lasciarsi. Lui ha sfinito i soldi. Lei tutto il suo inglese. Si dicono addio,
ciao amore, ciao amore, ciao amore ciao all’impiedi, con un pianto
silente, a testa china, senza guardarsi, molto meditativo, vicinivicini.
Lontano, da qualche parte, qualcuno s’accanisce su un gong di legno,
insiste, insiste, insiste. Vanes è straziato. Si giura con gli indici, e per la
prima volta anche coi medi, che se mai gli capiterà di diventare
Imperatore del Giappone obbligherà ciliegi e mandorle a studiare
l’italiano, lingua di macellai e porci, ma almeno con gli occhi aperti.
Abbasso gli ortolani, e già che ci siamo abbasso anche i gong quando sto
piangendo.

Le pile, ora, alla fine di un viaggio interiore (ma anche parecchio


esteriore, dai, Vanes) durato un anno, sono carichissime. Si sente - è
ricco, non di soldi, svaporati per sempre, ma di Cultura, di Lingue, di
Cose Viste Con Questi Miei Occhi (Navi in Fiamme al Largo dei
Bastioni di Orione almeno una al mese, se la canna era BUONA) di
Sicurezza, Produttività Personale e Palle Korazzate. Roba che resta.
Adesso, finalmente, può tornare a casa e addentare il formaggio del Bel
Paese.
La Ferrari. Cos’è.

PARTE SECONDA

Ri qui

Vanes torna in Italia rinnovato, sia da cima a fondo che dentro e fuori.
Naturalmente anche da così a così. Rifondazione umanista. Il Mondo gli
ha fatto un gran bene. Ha uno spirito più tranquillo, consapevole, sa
distinguere con maggiore lucidità ciò che vuole e ciò che detesta.
Azione, Forza, Eleganza, Criterio. Un uomo di polso e di polsini.
Già alla Malpensa, oltre che dal fetore giallo nebbioso è colpito dagli
accenti e dai dialetti indigeni. Tra le voci che si spingono e si
maledicono nella navetta riconosce con un soprassalto i tìo bò natii, e lo
coglie uno sbocco irrefrenabile di disprezzo. Soprattutto verso se stesso,
le proprie radici, la propria storia. Lo stomaco intorcinato strilla ed
emette fuochi. L'uomo di polso va capito: aveva dimenticato da quale
fango proviene. Provenisse. Proveniva. Ricordarglielo tanto brutalmente
è - è stato scorretto, ecco.

Dopo un fallimentare tentativo di ritornare nella «sua» Sassuolo, aprire


la valigia, divorare un po’ di tagliatelle, dirsi ma che cosa sto facendo,
rimpacchettare a razzo armi bagagli e tagliatelle, Vanes capisce che cosa
deve fare: cambiato con tanti sacrifici il Vanes quadro, adesso bisogna
cambiare la Vanes cornice. E solo da come gli suona ‘sto slogan capisce
che il primissimo passo da compiere è cancellare il proprio orrido nome.
E subito dopo trasmigrare, se no di che cosa stiamo a parlare.
L’anagrafe del comune di Sassuolo è nelle mani di un impiegatino di
Catanzaro, con occhiali molto spessi, dita molto marròn, sigarette molto
maleducate.
«Buonhciornho, thesithera?»
«Vorrei cambiare nome». Vanes allunga la carta d’identità al
meridionale.
«Vediamo... Si. Barozzi Vhanes, perché cahmbiarlo? Barozzi mi
sembra un n cognome moltho nhtipico di questhe terre. Non si chiama
così hanche una torta? E ancheh Vhanes è una bellissima generalità, dia
retta. Domanda rigettata. Faccia entrare il prossimo».
«Mi scusi. IO Sono Vanes Barozzi, non Barozzi Vanes. Cerchi con
tutte le sue forze, a qualsiasi costo, in ogni modo, in tutte le maniere di
tenerlo presente per i prossimi centomila anni. Si faccia aiutare da
qualcuno, se pensa di non farcela. Poi, pare a me, questi non sono affari
suoi; ne sono, come dire, praticamente certo».
«Veda - risponde l’ingranaggio, già irritato dall’acidità dell’Utente, ed
è mattina presto, si annuncia una di quelle giornatine - innhanzitutto per
cahmbiare nome necessitano nvalide motivazioni. E poi sono affari miei
».
Vanes lo fissa, nauseato da tutte quelle nasali e palatali sfessate:
« Sì. Va bene, senta, é semplice: come targa non mi piace più, mi ha
stancato, voglio cambiare. Non sono valide motivazioni? Veda».
«Lei è un pehntito di maffhia che ha chiesto il ciasferimento? Ha scritto
romanzi scottanti ispirati alla nrealtà, senza cambiar hnome ai
persohnaggi, ed è ricercato da protagohnisti vehndicativi? Ha litigato per
un sorpasso con un questhurino della Questhura di Bulagna? Ha
corhnificato mariti coi peli sul petto? Ha subitho ingiusthamente
ncarceraziohni, processi, sputtahnamenti sui giorhnali, e alla fine è stato
dichiarato innocente? È omonimo di qualche npedofilo leggendario?
Negli aereoporti è bloccato dalla polizia perché ha il cohgnome di
qualche tagliagola ricercatoh? Ad un magistratoh cotonato piace la sua
ragazza? O magari ha - ».
« Nessuno dei casi succitati. Possibile che non ci sia nulla da fare?
Voglio dire, anche se non rientro nei casi succitati...». Vanes sta
iniziando a percepire una curiosa attività motorio-congestizio-vibrativo-
fermentativa alla base del cranio. Gli ozoni bucati delle grandi città, di
cui si parla tanto e cui a stento si sta riabituando?
«In realtà, a mente della deroga dell’Art. 69, comma 69, della legge
regiohnale del 06/09/69, e successive modifiche e integraziohni, lei può
sempre fare richiesta sul modulo A515/ter. Le consiglio di reperire una
valida mothivazione, e l’avvertoh che anche in caso positivo, più uhnico
che raro, la sua domahnda non sarà accettata prima di mesi dodici», e gli
allunga il modulo A515/ter, sedici pagine, da compilare con penna biro
blè o nera, evitare abrasioni o cancellature.
«Me lo riporti domani. Ora sohno leh 12,01, sto già facendo un minuto
di straortinarioh, e nella Struhttura Pubblica ciòh non è cohnsentito.
Harrivederla, cuhntrastoh».
Per il cervello di Vanes passano tutte le bunde brasiliane e le zanne
della Trimurti. Perché è tornato, quale istanza superiore doveva mai
soddisfare, con quale demone si doveva sdebitare?
Era convinto di sbrigarsela in dieci minuti, e ripartire subito per nuova
destinazione. Invece deve tornare alla pensione, riaprire la valigia,
mangiarsi altre tagliatelle, compilare ‘sto schifo di A515/ter.
Per le valide motivazioni si scervella ore ed ore, provando ad
immaginarle tutte. Cerca di ricordarsi ogni evenienza elencata
dall'impiegato. Per i casi d’omonimia con pezzi di merda di varie speci,
gli ricorda una nota a piè pagina del Quadro 12/c, andrebbero allegati
ritagli di giornale che comprovino la sua omonimia con sterchi pericolosi
per l’Ordine Pubblico. Ogni ritaglio dovrebbe essere accompagnato da
una marca da bollo da lire 20.000, spillata, non incollata.
In qualità d’autore di scritti perseguitati e/o perseguitabili e/o
perseguibili dovrebbe allegare una fotocopia del contratto d’edizione,
non importa se con pseudonimo (purché sia indicato il vero nome),
autenticata con una marca da bollo da lire 20.000 per ogni cadauna
pagina.
Per eventuali pentimenti di mafia, o condanne ingiuste subite, dovrebbe
produrre certificati del casellario giudiziario, dichiarazioni giurate e
autenticate di quelli che lo stanno cercando e ritagli di quotidiani, quanti
più può. In via subordinata fotocopie degli articoli diffamatori che fanno
più ridere. Tutti vidimati con una marca da bollo da lire 20.000 a
facciata. Più liberatoria con formula piena nei confronti del mentecatto
che l’ha rovinato. Se il mentecatto è un magistrato, aggiungere in calce
la formula «Ti perdono, mio Signore. Ti perdono, mio Signore. Ti
perdono mio Signore». E marca da bollo da lire 200.000, più mazzo di
rose per la signora del Signore.
Non resta che l’opzione corna a «mariti coi peli sul petto».
In questo caso è sufficiente la deposizione di moglie umana vivente,
adulta, caucasica e consenziente, che dichiari di sua propria mano i
perché motivazionali e i percome operativi del tradimento. Gradite foto
degli intercorsi coitali con terzi. E marca da lire 20.000 per ogni colpo
cœundi ricevuto. Abbonasi forfettariamente colpi dati.
Vanes scova un paio di amici di vecchia data, tali Kenya e Medardo,
sposati da sette mesi e già in via di separazione. Spiega il proprio
gravissimo caso, facendo notare che la dichiarazione di Kenya potrebbe
in un secondo momento essere utile anche per la loro separazione. Keny
dice pensateci voi stronzi e si chiude in camera da letto, Meda dice ok,
no problem, faccio io, quanto per me?
Il giorno seguente alle ore 08,00 Vanes è in Municipio. Alle 7,59 è
passato in tabaccheria, dove ha investito gli ultimissimi soldi in un
sostanzioso giardinetto di marche da bollo.
Sul modulo ha indicato come nuovo nome prescelto Leonardo de’
Carolis. Gli ronza nobile, italiano, esente da sfumature regionali e al
tempo stesso passabilmente artistico-estetico. Competitivo pure, il che
non guasta: con un nome così troverà donne cosà.
Per una studiatissima scelta cultural-politico-etico-paranoico-
rompicoglionativa, però, Vanes ha capovolto il Quadro 2/a col Quadro 2/
b, che indicano rispettivamente il cognome e il nome che si vogliono
adottare. Per invertire i suddetti riquadri, Vanes ha tracciato grandi
frecce a penna biro rossa, che hanno spostato il 2/a al posto del 2/b, e
viceversa “!. È stato meticolosissimo, a prova d idiota.
Il funzionarietto non ci crede. Tutto quel rosso, tutte quelle frecce,
quelle cancellature quelle abrasioni quella disubbidienza.
Attende lunghi secondi, prima di rispondere a Vanes. Vuole godersi
un’ultima volta l’amaro della bile in bocca, perché poi, in un secondo
studiatissimo momento, dovrà riversarla in faccia al tizio. Già l’aveva
fotografata il giorno prima, quest’Utenza stravagante e irrispettosa che
ha avuto il coraggio civico di riprovarci.
«de’ Carolis Leonardo. Egregio Signore, non ci siamo, non posso
accettare questo modulo. I moduli vannoh compilati esclusivamentoh
con penna biro blè o hnera. Lei con tutta evidenza non ha letto il
dispositivo 24/bis a piè di pagina 5 che recita qualora il presente modulo
sia costellatoh da frecce, abrasioni, cancellature, ehspettorati o caffè non
è da ritenersi valido. Allo stato, con tutta evidenza lei stamattina questo
modulo lo deve aver scambiato per il suo asciugamano rettale. E con pari
evidenza non ha letto la nota 56/ter, pagina 12 e collegati, dov’è
chiaramente disposto come hnomi storici quali Vitthoriomanueloh,
Napoleone, Ferrari, Robespierro, Benitoh, Craxi, GesùGiuseppee Maria,
Pietàh, Anima Mia, Asinello, Bue, Mangiathoia, Pool, Pooh, Pol Pot,
LEONARDO, Robertobaggio, Muzzio Scevolo, Nerone, Gandhi, Il
Tizioh che Accoppò a Gandhi, Topo Gigio, Mago Zurlì, Magistrato
Cazzelli, Cento Cittàh, hnon possano essere utilizzati dai Richiedenti, al
fine di evitare stupore e confusione hnella Popolazione desiderosa
partecipaz. quiz televisivi. Come le ho già dethto ieri, ma desidero
assicurarla che mi ripeto cohn gioia, qhuesta domanda gliela rigettoh», e
con l’unghia lunga del mignolo la risospinge sotto il vetro, verso il
facente richiesta. Katanza é grato ai suoi Morti: ogni tanto gli regalano
momenti così. Vorrebbe solo che fossero meno rari.
E' la goccia che fa traboccare il Vanes. Non è bastato un risveglio
all’alba per investire tutti i propri averi in marche da bollo costosissime.
Non sono state sufficienti le acca leporine al caffelatte meridionale
dell’impiegato. Non le sue questioni da cartolaia sui colori delle biro, né
i mille cavilli scritti in lillipuziano che possono trarre in inganno le menti
più fulgide e accorte, le menti più viaggiate.
La urmerda lo ha chiamato de’ Carolis Leonardo.
Dopo tutto l'affannarsi generoso di frecce rosse va e vieni e su e giù,
volto esattamente a non ingenerare quella cacofonia da caserma.
È qui, è adesso, che per la primissima volta Vanes assiste al pieno
dispiegarsi della geometrica potenza dei propri P- Poteri, insediatisi in un
Neanderthal bambino dimenticato sull’aia sotto l’ira del sole di luglio,
rimasto con nient’altro da fare se non guardare quel che combinano i
cani alle cagne, farsela addosso a chili, respirare tutto il metano che gli
riesce, chiamare mamma mamma doveciei mamma. La prossima volta
che col vostro vestitino leggero millefiori avrete fretta di correre dal
montone che vi aspetta in auto, mettetegli almeno un cappellino e
lasciatelo con un’aranciata, un soldatino, una macchinina, anche se non
gli volete bene: da grande avrà il cervello meno grippato ed un libro nero
più sottile, e assai facilmente i nodi nel suo fazzoletto non riguarderanno
voi. Almeno, non troppi.
La rabbia gli fa chiudere i pugni, sente che le vene si tendono, i capelli
della testa e dello scroto si elettrizzano. Sotto il cofano un potentissimo
formicolio gli sfrigola assassino e manchù.
Come in un mantra, la sua mente, una lente ustoria da due megatoni,
convoglia e concentra l’urlo di rabbia interiore in una silenziosa
telepatica formula, presumibilmente magico-bio-metanica, che libera
fulminea la tensione accumulata. Scocca la scintillona.
Zip, zap, stracciaboom
Vanes non capisce come la sua corteccia abbia potuto formulare una
tale combinazione. Avverte solo che dopo averla pensata (dalla bocca
non è uscita una sillaba) s’è liberato improvvisamente dall’odio, dalla
frustrazione e dalla pesantezza accumulate nei giorni precedenti. Una
specie di enorme peto della mente e dell’anima. La vomitata di una vita.
Il rutto di un’esistenza, il grisou compresso di una miniera che sentitasi
riempire da italiani merid- be’, vabbè.
L’impiegato cambia espressione, si irrigidisce cinereo sull’attenti, si
inchina, sull'attenti, si inchina, sull'attenti, per le dieci volte previste dal
Rituale di Corte:
«Il Vostro modulo è compiutamente esatto, Padrone. Anni che non ne
ammiravo di questa eleganza. Mi si conceda l'onore di timbrarlo e
riporlo nel cassetto dei procedimenti d’urgenza. Anzi Signore, guardi
cosa facciamo: la ripongo sul mio altare. Pur non avendone i titoli,
confido umilissimamente che nella Vostra infinita benevolenza vorrete
perdonare questo Vostro povero, stanco servo: non avevo compreso
quanto Vi stesse a cuore la questione. Ma poi ho compreso, ed ora
Maestro consideratela pure cosa fatta».
«Bene, merda. E capo ha?» sorride Leonardo, per il puro gusto di
infierire.
La cosa meridionala non risponde, si tira giù braghe e slippino color
Juve, corre verso il distributore automatico di aranciate. In preda ad
un’erezione immodesta, sudicia e francamente impiegatizia, con accenni
di fimosi, infila la propria urlante isterìa nella bocca cromata da cui di
solito escono le lattine. L’ordigno, non si appurerà mai in conformità a
quale fisica, anziché emettere liquami cancerosi inizia a succhiare cose
cancerosissime.
Nell’ufficio, popolato da impiegate abituate esclusivam. a commentare
messinpieghe, autodeimariti e ferieaHurgada, si scatena un casino.
Alcune urlano, una impallidisce, arrossisce, impallidisce, arrossisce
come un semaforo a luci rosse, la visione della gioia taura le ha ridestato
ardori hardcore. Le massaie, riunitesi in sabba per rinnovare la carta
d’identità con foto di vent’anni prima, nella fuga fanno volare i sedani e
cipolle della spesa sul pavimento del Municipio Municipale, rotolandoci
sopra. Un unico, grande tìo bò di panico penieno scuote etere e
bacheche.
L’ora e per sempre Leonardo il Vidimato torna a casa con un
inconsapevole rictus di vittoria sul volto, e un forte cerchio alla testa.
S’interroga per giorni sull’accaduto, ma alla fine archivia il caso come
crisi acuta da tabagismo. La nicotina, suppone, dalla punta delle dita sarà
rimontata ed avrà fatto andare in pappa il cervello di quell’arrogante.
Che verrà licenziato in tronco, giusta la scrittina sui fianchi dei pacchetti
di MS: “Chi Fuma sul Lavoro se ne cerchi un altro. La Pazienza è
Finita”.
Leonardo può tirare un respiro di sollievo: la sua richiesta di cambio
nome, già finita nel cassetto 1/f, di competenza di un altro Ingranaggio
(l’addetto ai timbri), per decreto n°14/ter del 12/12/12 non può essere
respinta, in quanto già inoltrata dal funzionario impazzito.
Dopo qualche giorno Leonardo può rifare la carta d’identità, col nuovo
nome.
Sotto la voce «Professione» ha fatto mettere Art Director. Gli piaceva
molto anche stilista, ma art director gli pare più a livello.

A new life

Ribattezzato Ufficialmente e con Tutti I Benefici di Legge, Leonardo


può ora dare il via alla seconda parte del Piano Regolatore per una Vita
Migliore. Parecchio più Migliore.
Ripulito nel linguaggio e nella cultura dagli studi e dalle esperienze
estere, evaporati sh sassuolese e tìo bò, opera il salto verso la Grande
Mela della Padania Sud: Bulagna. Città di cultura, fervida di studi, di
politici solidali con le problematiche sociali. La Città delle 3T (Tunisini
Troie Tossici), dei cantanti, della gnocca acconciata a V e dell’inghiotto.
Le attrattive e le potenzialità non mancano. Sennò, che capitale sarebbe?
Leonardo, rinnegate le proprie origini contadinissime, ammaestrato dal
Mondo, per dodici mesi suo complice e guida nell'indicargli Il Meglio,
nell'indirizzarlo sulla Scelta Vincente, qualsiasi fosse il tipo di deviazioni
con cui gli scarafaggi tentavano di distrarlo, ora odia la fabbrica, le teste
a piastrella degli operai, Modena e i modenesi: che cosa c’è dunque di
più giusto che andare a vivere nell’Acerrima Rivale, quella che alle
cugine sceme, giustamente e sempre, rapisce le secchie?
Sarà per il nuovo alone di raffinatezza che lo circonda - porta maglioni
col collo alto come i pappa della questura e occhialini con la montatura
rettangolare uso Al Bano - sarà il coacervo di nozioni piluccate nell'anno
di recherche vanesiana, sarà chissaché, ma Leonardo ha una di quelle
botte di c.lo che capitano solo nei romanzi flippati. Prima di partire
aveva letto un annuncio sul Calzino, ed aveva preso contatto con
un’agenzia di comunicazione bulagnese, la G. O. A (Giovani Occidentali
Arraffanti), in busca di Forze Nuove e Fresche da Inserire in Ns. Nuova
Prestigiosa Sede. Al telefono si era spacciato per ardairector con lunga
esperienza formativa nei migliori studi di São Paulo. Poi aveva alzato i
tacchi, e se n'era scordato.
La buca della posta in un anno s'era riempita solo di mosche morte, e di
un loro avviso-appuntamento per intervista.
La bott. di c. consiste nel fatto che, presentatosi a colloquio con dodici
mesi di ritardo e sprovvisto di book, referenze, curriculum, pedegree e
timori, senza alcun biglietto da visita, è riuscito ugualmente a far colpo
su un paio d’arruolatrici coscia, incaricate di esaminare i candidati.
L’agenzia peraltro, giovane e motivata, esige circondarsi gente giovane
e motivata e la tecnica giovane di Leonardo ha fatto impressione. Hanno
apprezzato al giusto grado il suo modo performante d’approcciarli.
Sbarcato in città senza una conchiglia in tasca Leonardo, cinico
cavalcatore della propria inspiegabile fortuna, riesce persino a strappare
un performante anticipo, col quale pagarsi l’affitto giapponese di un
monolocale giapponese in Via Clavature, con water chimico su rotelle,
da nascondere dietro il punto-cottura casomai arrivasse qualcuno. E' al
terzo piano, sotto il piano stradale. Nella pulsantiera dell'ascensore il suo
3° è preceduto da un meno, ma Leo non la giudica una cosa negativa.
Solo schifosa. Vuole volare alto, si rammenta, e questo è un inizio
pietoso. Ma ho tempo. Datemi tempo, vedrete che roba.
L’agenzia, a due passi dalle Due Torri, è molto fashion, up e cool, ed è
versatissima in slogan trendy e stronzy.
L’Ambiente Lavoro è un rospeto di fanciulle in minigonna e tacchi da
polio, bulagnesi da 777 generazioni, e con queste premesse Leonardo
fatica a costruirsi conoscenze intime; fatica così tanto che rinuncia
subito. L’overdose di cultura aliena, fermentatagli nei sottosquadri del
cervello durante il sabba sabbatico del pianeta, sta avendo effetti
controproducenti sulla sua vita di relazione: Leo («Lenny», come lo
hanno battezzato subito le cosce) è iper esigente, analizza i perché e i
percome di tutto, critica ogni piccolo aspetto della vita d’ufficio, non è
mai d'accordo su polpacci, depilazioni, rossetti e gnagnere, finché con
suo sollievo non s’accorge che alla macchinetta del caffè è sempre da
solo, a pisciare ci va sempre solo, nello stanzino delle fotocopie è sempre
solo, nell’archivio è sempre solo, nel suo studiolo lo vengono a cercare
solo se hanno bisogno, la bustapaga non gliela porta nessuna squinzia
sgallettata e se la deve andare a prendere personalm. in amministraz.
La Grande Realtà Universale, che ha appena finito di visitare e di
studiare, senza star troppo lì a capirla, a petto delle micragnose realtà che
ora lo attorniano l'ha reso parecchio insopportabile. Ciò è molto utile e
producente secondo l’ottica comunicativa sposata dalla ditta ("Smembra
il mondo, e arriveranno le dritte", "Odia il mondo, non accontentarti,
scoprine le falle, sifonalo"), ma ostacola il resto.
Leonardo non riesce a capire che gusto ci sia nell’andare ogni giorno
dopo il lavoro a prendere un aperitivo nei cafè più imbecilli, perché il
sabato pomeriggio interi villaggi di bifolchi scendano in città ad intasare
portici e leccare vetrine, che cosa siano tutti quei Mercedes targati
Modena che girano impunemente, perché le adolescenti abbiano le facce,
i capelli, il linguaggio, i chili di chiodi in faccia e le zeppe ai piedi che
hanno.
Lui ha viaggiato col Fisico e con la Testa, non sopporta i Viaggiatori
per Caso. Lui ha letto Vidal, Swift, Twain, Vonnegut, Scòzzari, non può
trovare spiritoso Bergonzoni. Ha chiavato nelle favelas di Rio, e giù
musica, ha ballato a merlo sbrindolone sui tetti di Puna, e giù musica, ha
scoreggiato con le negre di Bahia, e giù musica: come può divertirsi nei
ghetti estivi dalla titolazione furbetta, il Made in Bo, il Frigò? S'è
divertito a tirar sassi ai ratti di Bombay, perché non può divertirsi a
rifarlo qui, sui tunisini furbetti e gli albanesi a grappolo che li infestano?
Eh? Eh?
Grande Mondo Lasciato contro piccolo mondo ritrovato, piccolo
mondo tritato.
Odia zingari, meridionali, parlatori di calcio, calciatori, pubblicisti e
pubblicitari, modenesi, ciclisti, ciclisti modenesi, ferraresi, giornali,
giornali sportivi, travesti, cinesi, nordafricani, negri, romani, sindaco,
veneti, slavi, le Langhe, il Partigiano Gionni e il Camerata Gianni, le
vecchie bulagnesi con la spàisa, le auto di San Marino, il management
col PC portatile, il telefono portatile, l'idiozia portatile. In pratica non
sopporta nulla. Sono infinite le cose che odia, pochissime quelle che
ama: il ragù, le donne se stanno zitte, i film belli se stanno zitti tutti, le
zoccole se ridono e stanno calme, le mamme ai Giardini Margherita se il
cinno non strilla, il basket giocato, il viaggio viaggiato e le brasiliane
brasilianate. Non che quest’ultima sia una specialità praticabile a
Bulagna, però i bei ricordi sono difficili da dimenticare, soprattutto se
giri sotto il Pavaglione all'ora delle serve (h 7,30 - 7,29).
Il Giro del Mondo gli ha mangiato l'Amore, se mai l'ha avuto. Era
partito bambino cretino ma assetato e disponibilissimo, ed ora che ha
bevuto, che s'è sborniato, il confronto tra il Moltissimo del Pianeta e il
sottozero bulagnese gli ha agghiacciato cuore ed anima, l'ha trasformato
in Mostro Indisponibile. L'Isterico Terminale a Metano è tra voi,
tremate, merde.
Non è detto che se ne sia accorto, non è detto che possa guarirne.
Grossissima fregatura, soprattutto se si pensa che ad un isterico le
ragioni dell’altro non interessano nemmeno quando ci sono.
La Grande Febbre ha un’impennata quando al terzo stipendio riesce a
comprarsi un computer. Tentando una sorta di bis, un piccolo Giro del
Mondo sciocco, illusorio e velenoso di nostalgie, si chiude a riccio su
Internet, che trova subito identico al gabinetto delle piastrellaie e alla
messaggistica che vi deponeva.
Scopre che la gente lì dentro è com'era lui là dentro, e cerca di dirglielo
sparando raffiche di "Io mi sono migliorato ma voi no, merde((. Che
cosa ve lo impedisce, merde(((", flames che spedisce via e-mail in piena
notte a tutti, specialmente e senza alcun motivo a Shiva e Cariddi, un
sito-fanzine a bassissimo tasso di consultazione, visitato da quindici
persone a trimestre. Peraltro la frustrazione per un provider che non
provvede, che gli chiede solo soldi e che gli chiude il collegamento a
metà delle sue flippate, che lo fa aspettare ore prima di ridargli l’ok,
quando non lo fa andare in crash, non migliora le sue sindromi. Le
peggiora.
Lascia scadere l'abbonamento tin (Dove stiamo fermi oggi?), versa una
tazza di te nel computer acceso. Poi un'altra, per spegnere le fiamme.
Sdegnoso, cestina i solleciti e le raccomandate dell’amministratore del
condominio, che vuol sapere da lui per iscritto i motivi che l’hanno
spinto a fulminare il palazzo, non sapeva che al quinto piano c’era uno
nel polmone d’acciaio?
Frequenta pochissime persone, scelte dopo vagli maniacali: come
pronunciano la S, dite ceci, che film guardano, che musica ascoltano, che
cosa indossano quando vanno in bicicletta, perché ci vanno, se mangiano
o non mangiano i pop-corn al cinema, che tipo di coltello userebbero
sulla Pausini, e da quale meato inizierebbero. E lo fareste in pubblico o
in cantina? In cantina? Interessante. Ed esattamente, perché in cantina?
Ditelo pure con parole vostre. Sentite, state fermi coi piedi. Spegnete
quelle sigarette, dove credete di essere. Chi vi ha detto di alzarvi.
La sua cerchia di amici (conoscenti) è limitata ad una miniserie di
pensatori da salotto sterili e giallastri, con annosi deficit d'alcova. É
affezionato, forse qualcosina in più, solo ai grumi di yoghurt bulgaricus
dal dolce sapore di rigurgito infantile che ha imparato a comprarsi in
farmacia: ci parla, dice cocchini, gli dà fastidio buttarli e ormai nella
vasca accudisce sedici chili di neonati che nessuno nei palazzi attorno ha
voluto adottare e che reclamano latte intero ogni minuto e che
gorgogliano e bollono come l’acido del suo stomaco.
Eppure Bulagna è una città giovane, piena di giovani, di voglia di
vivere, di etnie, di culture.
Troppe, per Leonardo.
Le nevrosi, col passare del tempo, aumentano.
Passa le giornate a odiare: i polacchi ai semafori, che ormai cercano di
lavare i vetri anche agli autobus, gli adolescenti che negli autobus si
piazzano davanti all'uscita, le spade sparse dappertutto, specie in fondo
agli autobus, il traffico strangolato dagli autobus, gli assessori al traffico
che versano i soldi dei parchimetri alla Bosnia, i tossici, i pusher, i
motorini parcheggiati sotto i portici, e i cani che cagano sotto i portici, e
i barboni che dormono sotto i portici, e i ladri di biciclette, e quelli che
gliele comprano, soprattutto se sotto i portici dell’Università.
L’unica cosa positiva che si poteva sostenere di Sassuolo, oltre alla
Torta Barozzi alla cioccolata e al Palazzo Ducale, era che i portici non
c’erano.
I portici, bisogna sottolinearlo, così come vengono usati non gli
piacciono granché.

Dopo l’happening all’anagrafe di Sassuolo Leonardo non ha avuto altre


dimostrazioni del proprio Potere, perché non è più arrivato ad arrabbiarsi
tanto.
Conoscendosi però, e per tenere a bada l’odio che lo tormenta sottile e
pungente ogni minuto del giorno, ed impedirgli di conflagrare come uno
zeppelin e rovinargli l'à plomb, ha adottato quasi subito una serie di
accorte tecniche di breakdown survival: per esempio è un po' che si porta
dietro un astuccino, simile a quelli per i sigari o per le capsule di cianuro,
contenente tre fialette di polvere pruriginosa (il tre è stato deciso in
quanto rituale e cabalistico). Lo tiene pronto in un taschino per caricatore
di Uzi sulla manica sx del giubbotto di surplus israeliano, sua mise
d'elezione quando va a spasso.
Di polvere ne ha comperata un’intera damigiana durante l’ultimo
carnevale, e ricarica le fialette con un imbuto subito dopo che ha avuto
occasione di svuotarle sul collo di qualcuno.
Esasperato per essere stato disturbato in troppe occasioni da troppi
commenti o troppi scuotimenti di ginocchia troppo grosse e troppo
irrequiete tra file troppo fitte di poltroncine, ha inaugurato il suo 3PVP
(Triplo Piccolo Vendicatore di Papà) al Cinema Rialto, durante la
proiezione di Clerks, film che aveva letto esser stato costruito attorno a
dialoghi folgoranti, intelligenti e rapidi, che ha approvato appena entrato
e sedutosi, e per sezionare i quali ha prescritto silenzio assoluto e
concentrazione massima di chiunque nel raggio di 150 metri da lui. Anzi,
per favore, alzatevi e uscite tutti. Quando ho finito vi chiamo.
Nella fila davanti a lui gli si sono piazzate due adolescenti marcianti a
risolini striduli, finite lì chissà perché. Perché, perché, perché? Eh?
PERCHÉ? Chissà.
Ogni episodietto della pellicola è introdotto da un breve titolo. A
«Catarsi» le idiotine emettono una risata scrosciante. Hanno trovato
un’analogia tra "Catarsi", "catarri" e «calarsi».
«Ma cosa vuol dire?» fa una.
L'altra afferma, con assoluta padronanza di se':
«Significa essere arrivati in fondo, al punto di rottura. Non lo sssai?».
Luci viola e comete dorate e diagonali rosse si esibiscono elettriche per
Leonardo, nonostante il bel bianco e nero sullo schermo. La mano gli
parte in automatico, non ci pensa due volte. In una frazione di secondo
vuota l'intero 3PVP sul collo della saputella: è buio e nessuno vede.
S'accende la grattarola. La vittima, tarantolata, s'agita convulsamente
sulla sedia, si graffia a sangue, riccioli di pelle sgorgano di sotto le
unghie, coi vicini che s’incazzano per i guaiti e il terremoto delle
poltroncine.
La ragazzina corre disperata nei bagni a ficcare sotto i rubinetti la nuca,
prugna come i tendaggi della sala. L'amica rimane di marmo al proprio
posto, cosa le sarà venuto a Lorena di lavarsi il collo, non lo fa mai,
proprio adesso? Non pensa che usciranno ancora insieme.
Lennie, sarebbe ingiusto nasconderlo, ha una specie di orgasmo. Il
ballo di San Vito al pepe verde gli avrà fatto perdere un 6% di battute,
ma vuoi mettere? Il godimento interiore è all’apice, la vendetta
soddisfatta, la dignità del regista salva, i soldi del biglietto spesi bene.
Tra l'altro il sacrificio di doversi rivedere un'altra volta il film dall'inizio
non gli pesa. I film lui li vede sempre due volte. Come dire, un abituè
della doppia.

Cerchinlega

Le performanti campagne parolaie di Leo, sostanziate da un odio


sotterraneo che i suoi datori di lavoro probabilmente giudicherebbero
"sovradimensionato rispetto alle finalità assegnate, e da ricondurre in un
alveo più consono", se solo ne sospettassero la pericolosità, procura
all'agenzia fior di contratti, e tra brindisi e cosce occhiolineggianti Lenny
viene promosso al piano -1° di uno stabile di Via Belle Arti.
Potrebbe essere l'inizio di una più pacata felicità esistenziale, ma Leo è
Leo.
Che cosa voglia dal mondo comincia a non essergli più tanto chiaro; gli
è chiaro solo che non tollera niente, a cominciare dal vocabolo “pacato”.
I barbùn e i loro cani che tutti assieme appassionatamente si pisciano e
cagano addosso sotto i portici del teatro Comunale; le pellicce che vanno
alle prime del Comunale; le zingare che leggono la mano e i tuoi dati
della patente, dopo che ti hanno letto tutto il portafogli; i giovani paglia e
fieno carichi la faccia di ferramenta assortite; i pusher di tutto il
Maghreb; i tossici che si riforniscono dai suddetti; i pusher tossici che
rivendono bici rubate agli ex proprietari sotto gli occhi vigili dei
poliziotti; i venditori d’incensi e di artigianato etnico; le affittacamere
ingorde che al cm X minuto affittano le loro cantine a strati su strati su
strati di pericolosi boscimani; i motorini, chi li guida, chi li ruba, chi li
parcheggia sotto i portici; le matricole imbecilli; i banchetti dei Cattolici
Popolari per riorientare le matricole imbecilli; i ritentativi autonomi di
ridare vita a occupazioni e vetrine ridisintegrate; la Pantera; le pantere
degli sbirri cannibali; i goliardi che fanno i goliardi; i professori che
danno trenta solo alle minigonne che riescono a guzzarsi; i leccesi col
Kolf bianco al decimo anno fuori corso; i leccesi col Kolf bianco
regolarmente iscritti; i quintali d’immondizie sparsi in ogni dove; i
tentativi della Vitale Amministrazione Comunale (VAC) di rivitalizzare
la zona universitaria; i tentativi della VAC di estendere a macchia d'olio
la Zona Universitaria, acquisendo, deportando, sventrando; i tentativi
della VAC di aprire Una, Cento, Mille Stazioni Centrali, per sommergere
Bulagna sotto altri centomilamiliardi di tonnellate di feccia aliena.
Affamata. Discutitrice. Sovvertitora. Vitale. VAC! PORC!
Leonardo ha preso una piega francamente nazistoide, ed il brutto è che
ride a gola spiegata quando ci pensa.
È un avido lettore delle colonne del Resto del Calzino dedicate alle
lotte dei cittadini contro il degrado urbano. Titoli come “Mamme
linciano spacciatore all'interno del Liceo Fermi Enrico”, o “Serve più
polizia”, o “Più pulizia per le serve” gli piacciono molto. Ogni tanto
scrive lettere piene di Indignazione Civica, firmandole Esercente Al
Limite, e qualcuna tra le meno velenose gliel’hanno pure pubblicata,
tagliata nei passaggi problematici.
Ma il suo astio prima che politico è frutto di una frana psichica
progressiva, molto personale.
Giorno dopo giorno Leonardo focalizza sempre meglio il proprio odio
su target precisi, ricorrenti cliché di una realtà che lo fa svenire di rabbia.
Contro i nemici della Cultura, in una città così colta, Lenny consegna
all’aere enormi quantità di polverina. Ma è una fatica improba: in certe
occasioni la sua volontà è soverchiata, i colli bisognerebbe segarli; in
altre lo spargimento sui target meritevoli è tecnicamente irrealizzabile; il
più delle volte il nemico lo stanga talmente alla sprovvista che cincischia
con le mani, comincia a tremare di rabbia per la propria inadeguatezza e
finisce col versarsi addosso l'intero 3PVP. Sotto la camicia di popeline è
un'arlecchinata di croste e bolle, ognuna in grado di ricordargli alla
perfezione per quali motivi s’imbestialì tanto.
Brucia per le auto parcheggiate a cazzo - specie le Kolf bianche targate
Modena, Macerata o Foggia, o se sono Kolf bianche di Brescia, San
Marino, Perugia. Se le Kolf poi sono nere preferisce tornare a casa
subito, qualcuno potrebbe farsi male. Solo i tedeschi possono concepire
una cosa così t- triviale, incapaci di ogni concetto di grandezza, mormora
Leo prima di guardarsi attorno e scaracchiare un lumino giallo sul
parabrezza, lato conducente, par excellence l’antidoto contro tutti i
tedeschi. Solo gli italiani possono comprarne tante e incollare su tutte lo
scudetto della Ferrari, si dice mentre s'asciuga con la manica; non esiste
per lui differenza tra lacrime e sputi, quando pensa in italiano. Se cerca
un’immagine per il Ribrezzum trova solo Lorna Pausini che gli sorride
mentre parcheggia sulle strisce una Kolf nera scudettata.
Un’escalation è ormai imprescindibile. Non trova armi consone, non
saprebbe come procurarsi uno Stealth B-2 caricato a grattarola, il suo
3PVP lo fa sentire, mmm, sottodimensionato e ciò lo fa soffrire. Soffrire
e soffriggere.
Al pari di ogni minidotato della terra, arde confrontarsi con culi da
spaccare.
Una mattina, uscendo dal portone, oltre a scavalcare un tossico che s’è
vomitato addosso gesù, un piccione spelacchio che gozzoviglia su quella
generosità ai pezzetti gialli, un materasso con due persone luminose di
muffa putrefica, quattro biciclette lucchettate, e due altri piccioni zoppi
che scopano contenti, si trova a dover scalare una Kolf bianca
parcheggiata praticamente in verticale sotto il portico. Targata Brescia.
Bava, bestemmie talmente proterve e antiche che Giove si sveglia, e
chiede chi ha suonato. Sul sensorio leonardico cala un'abat jour, che
l'ottunde di luce blu.
Raspìo, formicolìo, tremolìo, vammazzoìo. Leo l'eroe mastica e
rimastica il bolo amaro rifiottatogli dall'abomaso, seguendo una terapia
zen per il controllo dell'ira e per l’armonia con Yahvè, Manitù,
Tiramolla, Gambadilegno, la natura e il prossimo, se non è di Lombardia
o calabria.
Tuttavia, dopo un'aspra giornata di lavoro sacrificata a dirimere se una
campagna pubblicitaria di Comunicazione Socialissima andasse
impostata sullo slogan Per essere giovani servono sinergie o su Per
essere sinergici bisogna essere servi giovani (il primo l'ha spuntata alla
monetina), Leonardo non resiste al secondo attacco personale.
Mentre è lì che spara gesti da facchino contro chi gli impedisce da un
quarto d’ora buono di attraversare via dei Mille sulle strisce, arriva
sgommando una Mercedes arancione. Sicura di se’ compie una stridula
inversione a Z sulle zebre e vi si parcheggia a cavallo, praticamente
schiacciandogli i piedi.
La targa è MO, al volante c’è un orango con boccoli neri, catene e
anelli e bracciali d’oro alla schiava, Rayban anni Settanta fumè califani,
cellulare tra spalla e orecchio, camicia a righe con boccoli di pelo
toracico, denti fumè, tanto enormi da essere pressoché toracici pure essi.
Mentre scende dall’auto, preceduto da stivali di pitone plasticato e
calzini bianchi, Leonardo fa in tempo ad annotarsi l'arredamento,
altrimenti invisibile a causa dei vetri fumè.
Sul cruscotto e sul pianale posteriore giace priva di vita ma sorridente
un’intera cartoleria di pupazzi di pelùs. Poi centinaia di arbrerelli
magìques. Poi decine di Papi non Correre e Gino non Chiavare Fuori
Casa e Gino non chiavare. Sul sedile un salva emorroidi in palline di
legno made in Senegal. A santificare l'ambiente una nevicata di santini di
Padre Pio con le mani bucate, che però con la sua ridicola storia di
violette è chiaramente in difficoltà con l’eucalipto di sintesi degli
arbrerelli.
Esternamente l'auto è abbellita da costosissimi copricerchi in lega di
vinilbachelite, status symbol che Leonardo conosce molto bene. Nella
sua terra d’origine tutti ambiscono ad averli, soprattutto gli Ape Car.
Un nemico noto.
«Nnon mi ha visto?», chiede all’orco.
«Mo cosha vuole? Non vede che shto parlando, tìo bò?» risponde Cro-
Magnon, che non ha mai smesso di telefonare.
Vvvene tese, a-arterie tese, muscoli tesissimi. Amaro in bocca e occhi
iniettati da marmellate acide. Scocca l’arco voltaico.
Zip, zap, stracciaboom
Le gomme esplodono, inclusa quella di scorta. I cerchi in italplastic
trasmutano in ghisa da caldaie, audacemente verdulei, mentre la tinta
dell'auto rimane arancione. Tanto, peggio di così, si può solo essere
questurini con lo scolo.
Sulle portiere appare la scritta DARIX TOGNI STUNT KAZ , in un
sobrio giallo day glow. Sul vetro posteriore fumé una scritta, spruzzata
con una bomboletta di crema da barba alla menta: SGUAZZA L’OCA.
La gente si ferma.
«Tognini, eh? Dopo i modelli che ammazzano le alci non sanno più
cosa inventare», commenta uno.
Darix, alzatisi sulla fronte i califani per meglio credere ai propri occhi,
sbrocca in una serie ripetitiva di Tìobòtìobòtìobò. Paralizzato dall'orrore,
coi suoi ociazzi a uova fritte impiega parecchio a percepire che il
cellulare gli è finito in un tombino. Come se ne rende conto parte una
seconda salve di bestemmie. E una terza. E una quarta. Uguali alla
prima. E, numero finale repellente, inizia a strapparsi i riccioni del petto,
che vengono via con strooosh e ssciuoookk e frrrrrrrììp, portandosi dietro
larghe pezze stracciate di derma e grasso. Poi crolla a terra, forma un
arco isterico parossistico, percuote l'asfalto coi talloni e la nuca. Uno
schifo tremendo, e infatti una signorina obbediente gli vomita in faccia,
poi scoppia in pianto e dice scusate ma io, scusate ma lui, io, lui, noi, bll
blluuoòrk.
A Leonardo la testa girerà e pulserà per tutto il resto della giornata. Un
piacevole pulsare, che nemmeno trentasei gocce di Novalgina varranno
ad amareggiare. Nei brevi intervalli in cui il dolore pare affievolirsi, Leo
ridacchia.
Darix.
Chettesta di cazzox.

Standing on a beach
Al termine di due settimane di lavoro (gli slogan giovani gli hanno
dissanguato le sinergie), Leonardo decide di fare un saltino a Rimini, per
prendere un po’ di sole, rilassarsi, darsi una frenata. Frenare o franare.
Ehi, forte, questa me la devo se - aaah, basta. Al mare, al mare.
Ricorda con gioia e tenerezza le rare occasioni in cui piccolino arrivava
in spiaggia con la famiglia, coi nonni secchi pallidi e i secchielli e le
palette viola, le pesche gialle alla sabbia, le palline di plastica coi ciclisti
e le sogliole di plastica impanata della pensione. Era tutto molto bello.
Sono queste le rimembranze che l’hanno convinto alla rentrè, oltre alla
vaga speranza di ritrovare quel bambino che gli rubava sempre la
raccolta di noccioli di pesca dal secchiello.
Aborrisce il concetto di spiaggia «privata». La sabbia deve potersi
posare sulla frutta di chiunque voglia pasteggiare sotto le tende, negli
occhietti di tutti i bimbi, e i lettini privè sono un lucroso business sul
quale bisognerebbe veramente aprire un'inchiesta parlamentare. Al
riguardo anzi ha già pronta la bozza da sottoporre al Calzino, deve solo
rifinire alcuni punti.
A Leonardo, che da sempre stima San Francesco, lo considera un
eccellente santo, piace molto il contatto con la Madre Terra, perciò ama,
vuole, deve stendersi su un asciugamano, senza per questo dover
sponsorizzare ai vari Floris e Villiam e Primo, perennemente abbronzati,
gli occhiali neri e le piadine firmate e la palestra e le bandane bagnine.
Ormai è diventato un fighetto - la Cultura di cui è Portatore Sanissimo
gli ha fatto snobisticamente prendere le distanze dal popolame - ma al
tempo stesso ha la certezza di essere favolosamente libero di decidere il
come, il dove e il perché di ogni cosa. Con l’intera costa pronta a
servirlo, dunque, non può che scegliersi la porziuncola d’arenile
prospiciente il Grandessum Hotel. Fellini, lusso, privacy, pochi felloni,
personale di spiaggia laureato ad Harvard. Cose così.
Il problema è che ha deciso di farsi percuotere da Nostalgie e
Riminiscenze in piena stagione turistica, e la spiaggia è zuppa di celluliti,
topless vergognosi, pakistani con tappeti di Prato, depilazioni suppuranti,
facce italiane.
Armato di telo da spiaggia Leonardo arriva al bagno Grandessum Hotel
dopo aver parcheggiato a quindici chilometri dalla spiaggia. Già è bel
nervosetto - la camminata gli ha fatto diventare violaceo l’interno coscia
- e trasecola quando vede ciò che vede.
I bagnini ogni anno il governo ci aumenta i balzelli, vigliaca madona,
perciò si sono visti costretti a rinegoziare col Demanio la maggiorazione
dell’estensione di territorio di loro spettanza usufruibile, e ad innalzare
una nuova palizzata di rete arancione da cantiere sul bagnasciuga,
separando i Bagni a Pagamento (lettini Giugiaro, poca gente ma assai
giugiara, ambiente privé) dal brodo gratis (trippa ammassata, fese
lardose, strani odori, brutti colori). Tra le due zone una stretta lingua di
sabbia pesta e strapesta, la cui larghezza media - un metro scarso -
stagione dopo stagione si restringe a sfavore del popolo manmano
avanza la marea degli obblighi di legge, dei permessi e delle concessioni
e delle tasse.
Complicato descrivere, insopportabile visitare; cani e porci e mamme
obese. Poi nonni che giocano a bocce, venditori senegalesi d’accendini e
avori plasticati, venditori salernitani di Coccobello, magre vulve con
capezzoli disomogenei, montoni romagnoli a caccia di russe, russe a
caccia di montoni, guanti dell’amore ancora bagnati di performàns,
siringhe ancora bagnate, porci, cani, obesi con mammelle. Scontri,
scavalchi, stratifiche, annodamenti, chiassi, marmellate, rimescoli in un
vorticoso koyaanisqatsi da suburra, sudato e molliccio.
La Capitaneria di Porto in questa terra di nessuno ha trovato opportuno
rizzare ogni 15 metri cartelli irti di editti, ripetuti nelle lingue della
Romagna: crucco, russo, pesarese, e quest’anno, tra i soliti divieti,
giocare a palla, dormire in spiaggia, defecare in spiaggia, atti contrari
alla decenza in spiaggia, morire di pera in spiaggia prima delle 22,
vendere tappeti, accendini e cocchibelli, arruolare/linciare
extracomunitari, spicca una nuova proibizione, preceduta dal simbolo del
divieto di sosta:
“A Chi di Interesse: è espressamente fatto divieto tassativo ai Sigg.
Bagnanti di sostare a qls. titolo nella fascia demaniale delimitata adibita
esclusivamente al transito dei suesposti Sigg. Bagnanti. Coloro i quali
dalle: alle: verranno ivi sorpresi a distendersi con mezzi suoi propri
sull’arenile incorrerà nelle sanzioni previste a sensi dell’Art. 16/b
comma 5 e successivi del vigente C.P. in vigore qui da noi”. Di traverso
uno spiritoso ha ritenuto opportuno aggiungere a pennarello ACTUNG
MINE!, ma il sole ha quasi cancellato quel pessimo tedesco.
Divieto di sosta? Transito? Comma Penale Successivo?
Ivi?
«Senta, scusi, se voglio semplicemente stendere il telo dove posso
andare?», strilla ad un bagnino in posa plastica, al di là della striscia
rossa. Molto, molto distante da lui.
«Ciò, burdèl. La spiaggia libera è più in là ». Tarzan è seccato di dover
aprire la bocca senza L’Adeguato Compenso. Indica vagamente col
mento una linea all’orizzonte, situata più o meno tra il porto canale e la
Yugoslavia.
Cavolo. Allora era quella la spiaggia libera.
Leonardo, tuttora tenero di ricordi infantili, quando tutti andavano
dappertutto e dapperdove, e il lettino lo noleggiavano solo i padroncini
ricchi con la Rossa, ha i masseteri cianotici. Nella sua quindici
chilometri dal parcheggio al mare aveva in effetti intravisto un tratto di
sabbia attiguo al canale, ma gli era sembrato tutto fuorché una spiaggia:
acqua schiumosa e algosa, una lardosa che faceva il bucato sotto la
doccia, una gara di volley con dj urlanti idiozie al megafono, pubblicità
delle discoteche più, annunci di Luigini persi con pantaloncini azzurri e
lauta ricompensa solo se pantaloncini intonsi all’atto della restituzione,
coatti con lo stereo a manetta, una toilette apparentemente pubblica ma
chiusa sprangata, tutte le immondizie provenienti a cluster dai Balcani
noiosamente in fiamme.
Leonardo è un lavoratore integrato nella società, porta a casa uno
stipendio, è un costruttore di Culture e Tendenze. Quindi questa volta
può permettersi di noleggiare il maledetto lettino. Mai come adesso è
stato tanto contento d’aver saltato il fosso: si scopre d’accordo coi
cartelli vietativi, e comunica ai masseteri, ora masseteri di Ricco, che
possono rilassarsi, è finito il Tempo dell’Abominio, si gioca nell’altra
squadra, vedete di ricordarvelo e di contrarvi cianoticamente solo su mia
indicazione scritta. Cretini.
Il bagno del Grandessum Hotel è deserto, ma in maniera exclusive. Non
c’è posto migliore.
«Quant’è un lettino, Sig. Bagnino?»
«Zinquantamile prima ora, idem successive, più il mio disturbo»,
riemerge Delmo da sotto le lenti nere, schifato. La faccenda del
«bagnino» al bagnino non va mai giù, mai. Si sente, è un «Operatore
Estivo», un «Esercente Balneare». Gli è costata fatica strappare al
comune un Diploma con in cima quelle Parole, e così gli si dovrebbero
rivolgere tutti, ma la clientela è ignorante, cazzo vuoi farci. Delmo è un
filosofo.
Leonardo sceglie il posticino più lontano da bagnanti, camerieri, cani
lupo anti vù cumprà, e vuole che la linea rossa di plastica che verso Est
lo separa dall’inelegante e chiassoso mondo prolet sparisca nel tremolìo
della calura.
Stende il telo, orienta lo sdraio verso la padella del sole, e nel giro di un
secondo e mezzo si addormenta, felice della vita e dello scrigno di gioie
che, ogni tanto, la cinquantamila può schiudere.
Delmo, sedizenne palestré che stagionalmente fa vedere l’interno delle
cabine e dei propri bermudi alle Sigg. Clienti e mette da parte un po’ di
baiocchi per mantenere l’abbronzatura, non è però una cima, sennò
sarebbe art director. Dopo qualche minuto, infatti, quando ormai
Leonardo è in catalessi fritta, gli piazza di fianco una bella signorina di
Ferrara, pensando addirittura di fargli un favore.
«È tutto solo, la gradirà senz’altro», si dice. Lui ormai di carne di
Ferrara ne ha tritata un bel po’, e oggi si sente magnanimo. Vuole
lasciare anche al prossimo un po’ di briciole, potrebbero giovarsene le
mance.
La ferrarese non è per nulla da buttare. Corpo scultoreo, abbronzatura
da melanoma, labbri a taglio di coltello ma dipinti di rosa sciòkking,
microtanga leopardato, possenti mammelle forate da crocefissi
capezzolari in iridio, lunghi capelli verde inglese annodati alla
boscimana, occhiali da ciclista a specchio ma con montatura d’oro,
poche smagliature attorno all’ombelico abitato da un teschietto in
argento, il Giglio delle puttane francesi alla corte di Gigi XV tatuato
sulla scapola destra, espressione severa nei confronti di tutto ciò che la
circonda. Per far risaltare il tatuaggio di una rosa senza spine che le
striscia fuori dal tanghino provenendo chissà da dove, l’inguine è stato
rasato di fresco, ed é identico alla pelle di un pollo, probabilmente con lo
stesso sapore. Per essere unto é unto, sa lei di cosa. All’interno della
caviglia sinistra il tatuaggio clù: un numero di serie, e la scritta SI APRE
A COMANDO, E CHI COMANDA É NAZZA. FIRMATO: NAZZA
Non appena la carne stende il telo (anche questo leopardato), le trilla il
telefonino. Sembra un carillon natalizio e Leonardo si sveglia di
soprassalto, convinto di aver acceso Windows ( e di dover produrre un
nuovo slogan giovane.
«Ziao, Katiuscina, come stai, sei tu? Na, sano pena rivatadesso. Na,
sano sola. Nazzareno è rimasta nalbergo, dopo la festa di stanotte.
Poverazzio, è a pezzi, dopo tutta quella fecola, eppoi odial sole.
Seeeeffigurati, vampiro, magara, il mio sapore non gli piacce, a quel
semone. Seee, zzerano tutti: Ellio, la Murena, la Debbbora, Macs, la
Zamanta, Shoraia, Gyanny, e poi quel cubano chinsegna la zalza... Come
zi chiama. Sé, Paco. Discreto pacco anche, ah ah aha aha ah ah. Aaah Ah
Ah Ah. Nooo che non glielo ripeti a Nazza, brutta sema, sei matta. Ieri?
Zono stata dalla Zenny per lo siampo. Massì, sì, tuttol zorno, madonnina,
té lo sai quanté lenta».
La carne non parla. Urla.
Sarà la prima e ultima importantissima telefonata di questo genere
disposta a ricevere, Leonardo si mente spudoratamente, seguace di una
terapia zen autoimposta e autoinventata proprio adesso.
Purtroppo però Sciàron (il nome della carne; ne è messo al corrente alla
quinta comunicazione via cellulare: «Si stazira nin mitto quello
spizzitino liopardato cò nculato nviale Ziccarini nin mi chiamo piò
Sciàron, tlò zuro sulla panza del canguro») ha una vita di relazione
parossistica, e per ore, ore, ore riceve chiamate d’emergenza ed invia
appelli d’importanza vitale per la Nazione alla Monia, alla Vania, alla
Lorena, alla Beba, alla Biba e alla Bimba. Un utentico frizzanti Ministiro
delle Scorezze.
Leo è alle schiume. Gli sguardi da squartatore pazzo che ad ogni squillo
saetta al tanga, implorando pietà per i giusti della terra, pietà per me,
amorino, vuoi? le rimbalzano sul pube muscolato e cadono,
insabbiandosi. Perché non spegne quel cellulare sguaiato?
Regolarmente, ogni volta che riesce a riaddormentarsi, il telefonino gli
uncina timpani e fegato. Capire Sisifo.
Driiin, Plimplon, Dindan, Tuiiiith, Blimblam.
«Seee... Eeei, ziiaaao Monia dovi zei. Be, chi fai ozzi Ciccia?».
Leonardo s’alza di scatto a novanta gradi, come se un commissario gli
avesse sparato un sacco di sabbia nello stomaco. Si deve sorbire
quest’altro monologo imbecille, da cui però ricava un particolare
importante: Ziiaaao Monia è la miglior amica della carne.
L’odio innesta il processo chimico che porta all’ebollizione del Corno
d’Ammone.
Al quarto Allora Ciccia Te Chiffai Ozzi, Leonardo, un bolo
fosforescente a strisce rosse di acidi gastrici, molla l’ancora. La
Tolleranza è a Zero. Il mantra saetta da solo, sa la strada.
Zip, zap, stracciaboom
Il volume del telefonino di colpo si alza mostruosamente, e tutti
possono sentire. Una ribalda conversazione è filodiffusa vivavoce via
altoparlanti lungo tutto il litorale, dal Po di Gnocca fin giù a Marotta.
«Ahrf, Aaahrf. Eeeefforza Nazza, spakkami tuttil giiiiesùkkristoh,
strànz, cosaspetti, ddai col ppùgno».
«Anf, anf, gorgle Monia, stupida troia, murfe, sputaci in vetta se vuoi
che te lo sgnacchi nel tondo».
I vicini, i bagnini fellini e il popolo di là dalla cortina di ferro
improvvisamente si fermano. Osservano in silenzio la telefonista.
La spiaggia non è mai stata così silenziosa, é il sei gennaio.
Lo scaraccio lubrificatore rimbomba, una cannonata che nemmeno nel
Kossovo. Qualcuno lontanissimo ride, la storia del tondo gli mancava.
Carne è bianca, la faccia seghettata da rughe da stupore, gli occhiali le
smontano dal naso, passavano da lì, non sono con lei, chi cazzo la
conosce a questa. Le gambe non la tengono, e crolla sul lettino abbattuta
dalla vergogna. Ogni tanto un sussulto, brevi contrazioni corticali,
ininfluenti, tipo manzo giustiziato dal chiodo.
Il marito era così stanco, ma così stanco, che sta ricalibrando a braccio
il sifone della sua migliore amica. Nella sua camera d’hotel. Sul suo
letto. Coi suoi attrezzi amorini. La sua ciccia.
Per filodiffusione. In tutta la Romagna. E anche più giù.

Un gabbiano stride alto nel blu.

Il vento scrive sulla sabbia.

La risacca è coperta dagli immondi sciaguattii di Nazza che in coca


incanna e impazza. Dopunpò, dopunpò, ma dopun gran belpò, Monia
rompe in guaiti disperati, è in secca fumigante, seccati i sughi, finiti i
muchi, spurgati i mocci della muciacia, strinate le mucose della mucca.
Raschi accaponanti, pane secco strisciato sul muro di un carcere, vecchio
duetempi kavasachi grippato sul rettifilo della Piratella, aggricciano i
denti degli ascoltatori. Nazza sghignazza, vuol vedere se la paglia secca
prende fuoco tipo gli indiani con le praterie, o se sono solo storie.
Passano lentissime le mezze ore.
Nazza raschia, guzza, sguazza, sgnacca e sciaguatta, con ritmo
coglionare conigliesco, ingordo e violento, una chiavata non è un pranzo
di gala, se poi abbiamo invitato pure la coca stiamo freschi. Che gli frega
a lui delle mezze ore, l’ì - l’importante è ridere e sborrarle nel culo, come
fanno gli indiani con le praterie e come fa lui quando riesce a condirsi la
canappia con roba di primissima. Non bisogna avere fretta però.
Carne si riscuote, infine, e guardandosi intorno per vedere se qualcuno
la osserva (be’, tutti), disperata insabbia il telefonino.
Cretinata, ovviamente. Le spanciate dei due sciacqueranno gli
altoparlanti per l'intera giornata, assieme a maschi arrì! arrì! di presa
possesso vittima e femminei uggiolii di terrore\sottomissione, nonostante
i tentativi dei bagnini più Moralmente Allineati di spegnere quelle
macchine sataniche con tutti quei versi satanici e preservare la purezza
uditiva dei Luigini, ora sì Perduti. Prima solo persi.
Sciàron si rifugia nella prima gabina aperta, e i pompieri la tireranno
fuori in seconda serata, un atto dovuto perché a quell’ora è vietato
tagliarsi i polsi in spiaggia. Molti le chiedono se ami ancora Nazza. Un
ufficiale la invita a tornare a casa, suo marito s'è sfogato signora, non
sarà pericoloso per un po', anzi guardi, qui c’é del linimento. Magari vi
divertite.
Leonardo è in fattanza d’Oro per un’overdose di Gioia.
La cinquantamila e successive sono state spese benissimo, e chi se ne
frega se bisogna investirne altrettante in optalidon.

ATC

Leonardo ha avuto rapporti conflittuali con gli autobus fin da bambino,


quando coi suoi veniva a trovare gli zii che abitavano nella capitale,
Bulagna.
Dalla stazione il clan dei sassuolesi doveva arrivare su in Via
Warthema, perciò ricorda bene quei mastodonti rumorosi. Erano verdi, e
per cinquanta lire il bigliettaio sul trespolino, impressionante per quel
ditalone di gomma rossa che gli raddoppiava il pollice, si esibiva
nell'Urlata: «SERRARE AVANTI MANMANO SENDONO!». Ogni
tanto il Re trillava un campanellino all'Autista Laggiù, per segnalargli di
aspettare un attimo a partire, bisognava liberare un vecchio incastrato
nelle portiere. Che risate, allora, di Vanes! Che bestemmie, allora,
dell'Autista al vecchio. Era in quelle occasioni che il piccolo rinnovava e
arricchiva il proprio vocabolario, e per settimane gli amici notavano
ammirati: «Shei stà a Bulagna!».
La fronte degli autobus di tutte le linee si riempiva di bandierine
cornute ad ogni Commemorazione dei Partigiani, in pratica ad ogni
partigiano, in pratica tutti i giorni. Al loro interno verdino gli odori di
gasolio americano, Segafredo e ascelle si amalgamavano in una vertigine
piuttosto hard ma non da rigettare in toto. Ricorda quanto i controllori
fossero carogne e gli autisti zoccoli, ma duri e comunisti. Ricorda che si
chiedeva perché non avessero anch'essi le loro brave bandierine sulla
fronte. Che divertimento, raccogliere sotto i sedili i mazzettini esauriti
dei biglietti e poi consegnarli a Vuppel, il fratello dalle mani fatate, per
farsi disegnare i "cartòn animè"! Erano sempre macchinine sbilenche che
si scontravano con tanti !!! sghimbesci e tante (( (( (, poi saltava fuori un
ragazzo, Vuppel, che con le sue( aggiustava subito ogni cosa, con enormi
$ $ $ che gli sprizzavano dalla testa.
Già durante quelle visite non sopportava le vecchie con la messa in
piega blè che vedeva sull’autobus, reduci vittoriose dalla spesa in centro.
Le loro reticelle ricolme, le tirate sul tempo, sugli acciacchi, sulla
velocità spericolata dell’autista, sulla maleducazione dei bambini che le
fissavano in testa mentre parlavano, la Marèsa a là dètt a la Lilièna, lo
facevano andare in bestia. Bamboccina, sassuolese, eppur sempre bestia.
Le infernali tacchine catarrose cigolavano ad un volume che infastidiva
molto i non interessati (lui, teso a captare scintille nere da sotto le
maniche delle bulagnesi giovani e che non si doveva distrarre).
Quando chiedevano cattive: «Sende?» a chi sulle porte manifestava
l'evidente intenzione di sendere, Leonardo smadonnava sequele di tìo bò
contro le veciazze. E si beccava del bròtt cuntadèn, cinazzo maleduché,
stè ban a ca' to', mudnàis.
A quell’età, in quella condizione di minuscola anima della piccola
provincia, inconsapevole dei Grandissimi Valori, nelle sue rabbioline era
frenato da una nebbia bimba che gli impediva di lasciarsi andare ad
escandescenze più adulte. Poi i peli neri odorosi attorcigliati della prima
manica corta, appesasi davanti al suo naso e ai suoi occhi strabuzzati per
non perdere l'equilibrio nella ripartenza, lo riconciliavano con l'Universo
Benedetto, e tutto era dimenticato, sino alla fermata e alla vecchia
successive.
Leonardo, da quando è diventato cittadino di Bulagna, viste le
condizioni del trafficurbano, i costi di un’auto e la reclamizzata
efficienza dei bus, ha ricominciato ad utilizzarli, soprattutto per lavoro.
Certo, non gli va giù che gli Assessori al Traffico, oltre a riempire i
polmoni dei votanti col cancro automobilistico, li riempiano anche con
quello autobussistico; che gli Assessori al Traffico, per giocare con bus
sempre più grandi, tecnologici e costosi, cambino Piano Della
Circolazione sensi e controsensi ogni due mesi, e che tolgano e rimettano
in continuazione il porfido e le telecamere spia e i salvagente e i binari
dei tram. Lo urta che gli Assessori al Traffico non ne abbiano la Minima
Idea. Ma ci si può fare pochino, tocca adattarsi, altrimenti sarebbero
Risolutori del Traffico no?, non Asse Ssori. Quel nome e quella
mansione hanno, giustamente ne vanno fieri, giustamente ci si assiedono
sopra, cazzo volete e si chiuda l'inciso.
Da bravo Democratico Felsineo si rende perfettamente conto di quanto
un Menarini a due piani con rimorchio, 18 posti sedere + 500 in piedi,
sia assai più democratico e politicamente in linea di una Mercedes con
egoista pazzesco a bordo, asservito e organico al capitale del complesso
politico militare multinazionale coi giorni contati ed esempio maturo di
pezzodimerdaggine conclamata.
Dopo il primo mese d’esperienze a bordo dei leviatani bulagnesi, le sue
reazioni sono:
rabbia per il costo del biglietto, ritoccato ogni primo lunedì della
settimana;
sorpresa per la silenziosa modernità e la sfavillante tecnologia posta in
essere;
sorpresa per il piercing sopracciliare del Compagno Manovratore;
sorpresa per la quantità di gente che sale senza pagare;
gioia immensa per la carogneria dei controllori, identica a come la
ricordava;
sorpresa per i borselli dei controllori, che ancheggiano al di là e oltre le
consegne ricevute;
sconforto per l'apparente invincibilità di piorrea e gengiviti;
sorpresa per l’imperturbabilità degli autisti di fronte al traffico.
Se guidassi io schianterei i furbi che circolano in corsia preferenziale,
assicura telepaticamente i passeggeri, e nel suo filmino interiore conta i
nanosecondi - uno - che separerebbero lo scroscio maciullatore dalla sua
Risata di Vendetta.
Quando un controllore blocca un albanese, un nordafricano, un
meridionale o un’indigena con pelliccia ma senza biglietto, Leonardo
sprofonda in estasi e non perde un solo istante del battibecco rituale: la
manfrina, le scuse, le rabbiette che inverdiscono le solite facce da culo.
Il più delle volte l'abito di Civis Integratus gli fa prendere le parti del
controllore («Io pagare, gli altri pagare»); a volte un sentimento coatto
che affonda nelle sue sepoltissime e occultate scaturigini, un senso di
solidarietà pietosa verso l’altrui sfiga, lo fa spencolare verso i portoghesi.
Ma non accade spesso.
Due altre novità lo turbano.
La prima è la musica diffusa da impianti hi-fi russi. Non è tanto la pace
astiosa dei suoi pensieri, che viene stuprata. Il problema è con che cosa
viene stuprata.
I Comandanti dell’Azienda, una trimurti in città, suggeriscono oculate
scelte nazionalpopolari, a sostegno della Nobile Industria Discografica
Italiana, zeppa di capiscuola colossali e musica sublime. E giù, allora,
Erpes, Zuccheri, Boccelli, Vaschi, Nerk, Pausini, Masini. Zeri. Eee
Mmorandi. Ah, bbe', Morandi.
Un’Azienda. I Suoi Gusti.
Leonardo regolarmente si pente di aver lasciato a casa i tappi di cera.
Poi, e peggio, tremola e squittisce nelle ore di punta in cui gli
studentolescenti vanno/vengono a/dalla scuola.
In particolare Leonardo detesta:
A) gli zaini colorati dei ragazzi, pesanti, giovani, scarabocchiati con
lettering da discinesìa acuta, tutti uguali e tutti molto dolorosi se sbattuti
in faccia;
B) ciò che esce da quelle bocche: amori scolastici, folbalistici,
motoristici (le aspirazioni sono solo quelle del carburatore) o mitologici
(Marylin Manson, Korn, Skunk Anansi, Skoccho Merè). Mai un
congiuntivo.
C) il look, originale e aggiornato, identico a quello dei bassifondi
newyorkesi di dieci generazioni prima;
D) la sh degli studenti, nonostante gli studi, la globalizzazione e il
punto C.
E) le loro facce.
Una cosa che non è assolutamente cambiata dalla sua fanciullezza, a
dispetto degli apporti etnici, dei cambi epocali, del muro di berlino e dell
¬ uro umanitario, sono le vecchie con la messa in piega blè, che vanno in
centro per un ritocchino di blè alla messa in piega, e poi passano da
Segafredo, in via Orefici, a comprarsi due etti e mezzo di Felicori fine da
autobus. Quelle che più volentieri soffocherebbe, tra mille martìri
pinzeschi tenaglieschi e strappeschi, appartengono alla classe Sono
attempata e di ritorno dalla spesa, devo sedere, alzatevi tutti. Leonardo fa
sempre molta attenzione a non occupare posti riservati a sindacalisti,
sindacalisti anziani e sindacalisti handicappati dalle cariche della polizia
punica. Se sono liberi solo quei posti rimane in piedi, anche se stanco e
carico di slogan. Tuttavia, nonostante il pieno dispiegarsi del suo
civicissimo comportamento, viene regolarmente preso di mira da qualche
stregonza gonfia di sacchetti, che in un autobus strapieno fra tutti becca
proprio lui.
La tattica per la conquista del Posto a Sedere è sempre la stessa.
La fattucchiera fresca di parrucchiera lo punta. Gli si avvicina
lentamente, guadagna mezzi metri ad ogni fermata. E alla fine, alla fine
gli butta la spesa sui piedi e la borsa in faccia, sbuffando per la fatica e il
peso del segafredo e dei troppi anni prosiutti.
Entrambi gli attori della tragedia continuano a far finta di niente.
Di fronte alla reazione zero del nemico (Lennie guarda fuori del
finestrino, l’orologio, la pubblicità che penzola dal soffitto, le cosce di
una), la vecchia rompe gli indugi e arrogante ordina:
«Lei è giovane, mi fa sedere. Ho l'artrite lombarda, mio marito è morto,
mia figlia non telefona mai».
Leonardo gocciola, ma in quanto osservato dall’intero carico pagante
non può mai esimersi dal farla accomodare.
Negli ultimi periodi sugli autobus ha consumato quantità industriali di
polverina pruriginosa, sparsa su colli colpevoli tutte le volte che la ressa,
le spinte, i ladri di portafogli e le frenate improvvise glielo hanno
permesso. Il Calzino ha titolato una furibonda edizione con “Grattarola
assale l’utenza ATC. Perché l’africano non si lava?”.
Ma la polvere non è mai abbastanza, e non può durare a lungo.
Un giorno in cui è particolarmente alterato (l'head line che l'ha
assorbito per una settimana è saltata a causa di un collega geloso),
Leonardo prende un autobus per ritornare in centro, dopo essere stato dal
Cliente, ben oltre le Roveri, a spiegargli perché è saltata l'head line, tutta
colpa mia mi scusi colpa mi scusi mia tutta.
Piove parecchio, il traffico è un inferno, e l’umidità odorosa dei
passeggeri insopportabile - grazie ad alitosi, sigarette appena spente,
cappotti umidi e molte paia di peti mascalzoni. L’autobus si riempie
mammano si avvicina al centro.
Leo si sta facendo la traversata in piedi, per colpa di un tunisino ubriaco
marcio e del suo alito brutto brutto, che hanno seminato scandalo in
fondo al bus, dove s’è comodamente allocato scacciando gli infedeli.
Incastrato tra un vecchio che si rimescola la dentiera, una segretaria che
si rimescola la minigonna e una Monika che scossa rimmica la testolina
col walkman al massimo, Leonardo fa molta fatica a controllare la
cartella, la maniglia dell’autobus e i conati. Dagli altoparlanti la Pausini
lo sta prendendo in giro.
Decide che non ce la fa. A -aria, cazzo. Raggiunge la porta annaspando
tra zaini e ombrelli, bomber e segafredi e felicori. Preme il pulsante per
prenotare la fermata. Bzzzt.
«Giovane, sende?», fa un fiato acido alle sue spalle, mezzo protesi
mezzo rossetto UPIM.
Isteria primordiale. Vene che s'incordano. Qualcosa ce - de.
Qualcosascatta. Bzt.
Lampi sul Golgota.
Zip, zap, stracciaboom
Alla vecchia catarra, in virtù d’una frenata del Compagno Autista,
sacchi e sacchetti volano per aria e carota, sedano, cipolla e macinato
magro di vitellone rotolano tra le gambe dei passeggeri. Il ragù è andato
a farsi benedire.
La signora, tuffatasi per salvare l’essenza della sua giornata e della sua
esistenza, autoimprigionatasi tra sbarre gambesche che se ne infischiano
e anzi ci godono, non riesce a districarsi. La manica della plèzza di
astrakan le sé impigliè nelle fibbie del carrarmato di un postneopunk
dark trash grunge con importanti sfumature Down.
La donna rimane così, in posizione cosiddetta "del Cermis". Alla
pecora.
Il maghrebino là in fondo s'alza di scatto. Ha sentito odore di kebab.
Arabissimo.
Sarà - è certamente l’alcol, ma poi anche l’astinenza atavica, tutte
quelle minigonne lascive per lui sempre solo proibite. Oppure il richiamo
di Satana. Comunque sia, in un battibaleno si fa largo a suon d’alitate tra
la calca, e raggiunge l’ovina. Si ferma un attimo, valuta, considera,
soppesa, misura.
Ok, la posizione è giusta.
I più attenti hanno già notato che all’altezza inguinale dell’uomo
bramisce un cammello da concorso, che vergognosamente pieno di sé ha
rotto gli ormeggi, e si dilettano in paragoni. Il collo sarà più lungo degli
ombrelli che sgocciolano?, sgocciolerà molta più saliva?, sarà più
ciclamino dei maglioncini amaranto dei Compagni Manovratori, e più
metallico del martelletto per rompere i vetri in caso d’incidente? L'odore,
i viaggiatori sono unanimi su ciò, è quello tipico dei cammelli morti
rigidi.
Traemenda ceppa arabensis. Questo in erpetologia il nome scientifico
della faccenda. Temutissima in giro, soprattutto dal collettivo Donne per
le Donne, Sez. Battindarno. Il suo padrone, e quelli come lui, sono
invece targati nei manuali della questura come Torchiabilissimus
Arabazzus Cazzi (TAC), e quando un funzionario e un assassino in
borghese si incontrano nei bui corridoi della Bastiglia e sventolano e
confrontano scalpi, si dicono che quel giorno si sono fatti una (tre, sette)
TAC. E giù gutturali risate meridionali.
In una frazione di secondo Aladino Insano, inturbantato cane
circonciso, con la scimitarra affilatissima e mannaraba taglia in due
l'astrakan, lacera i pannoloni della signora, e muggendo Allah Akbar se
la impala vivo live, tra i cric e i croc dei depositi di calcio in frantumi.
Bragadin alla caduta di Famagosta oppose più resistenza al transito e
fece molti più rumorini solo perché più stretto, ma lo show dovette
essere identico. Grida di orrore, rumore di carni flaccide sferzate, effluvi
d’alcol mal digerito e di brodo di gallina vecchia, risatine isteriche,
sòccmèll, applausi bestemmie fischi si mescolano in una babele umida e
pazza, in questa menarina Arena degli Spettacoli.
Il Compagno Manovratore del Volante scrive qualcosa su una cartella,
guarda l'orologio, scrive, confronta con un altri tabulati e modelli
prestampati, scrive un altro po’, deposita i documenti nella tascona della
portiera, poi si dà al minuto sindacale di Stupore Consentito, poi a
capelli ritti prova invano ad aprire le porte. Riprende la cartella perché
s’é dimenticato di scrivere una cosa, scrive, menomale che me ne sono
ricordato, scuote la testa, rimette la cartella dov’era e svelle a pugni i
comandi e le levette sul cruscotto; suda, impreca, spara calci, s’agita per
far vedere che è agitato, ma non c’è nulla da fare. Quando Carrozzerie
Menarini non vuole, non vuole. Be’, cristo felicori, faccio rapporto, e
ripiglia la cartella tutto stizzito.
Dopo venti minuti d’Orrore Moka, solo i CC con un piede di porco (un
tunisino di prima generazione, che però adesso non fa più tanto lo
spiritoso) riusciranno a scardinare le portiere, a far uscire i passeggeri
attoniti dall’autobus e il camelide di Muhammad el Fatih Humcar dalla
vecchia stalla, che sempre presente a se stessa non ha mai urlato né mai
chiesto aiuto. Verso la fine, ancora senza ragù ma ripiena di cuscus, ha
chiesto al suo torturatore: "Sende?”.. Con estrema dignità.
Leonardo va a letto rimpinzato di aspirina, satollo di Vittoria. La gente
son cattivi, la prossima volta imparano.

Topi sulla testa

Il tempo, sua odiosa abitudine, passa, ma Leo è ancora tocco per i


baccani e le confusioni in cui ha respirato e sospirato durante il suo
viaggio iniziatico. I Paesi squattrinati e chiassosi, che l’hanno rimesso in
pista, gli hanno però anche inoculato un’ipersensibilità omicida nei
confronti del casino ingiustificabile, dalla quale non è mai guarito.
L’aver alloggiato troppe volte in stamberghe in cui il rumore era parte
integrante dell’arredamento - camion slabbrati, motociclette anche
peggio, galli, cani, maiali, vicini maiali, materasse ululanti, telenovele a
todo volùm, fantesche con la mania di trascinar bidoni e con la voluttà di
litigare davanti alla sua porta di cartone, music & lights di zerultima
classe - ecco, alla lunga Lenny ne è uscito maciné.
Ormai ex Grande Viaggiatore, non ha però dimenticato le vecchie
precauzioni: i tappi di cera, prodigio dell’Uomo per l’Uomo, formidabili
in un autobus indiano o brasiliano, quando l’autista obbliga i passeggeri
all’ascolto di miagolate ferali. Non sono miracolosi, sia chiaro:
attutiscono soprattutto i rumori di fondo, il controcanto della ghiaia sotto
le ruote, il tump di ammortizzatori a fine corsa e a fine carriera, il duo
mugolante in heavy petting accanto a te, ma con gli schianti veramente
forti, i cambi e le gomme che esplodono, ti lasciano a metà tra il nulla e
il doveporc?, ti grattugiano in maniera irrimediabile il circuito orecchio-
cervello-palle, con quelli fanno quel che possono. Meglio di niente, in
casi d’emergenza, rendiamo grazie a Kalì, ma si tenga ben presente che
nessuna cera ha mai insonorizzato nessuna galassia, o bimbi diarroici
terzomondistici, o galli da sacrificio che si tengono su cantando a gara, o
due contadine che si litigano l’uomo, o il poliziotto che decide di far
piazza pulita.
E poi le controindicazioni. Dopo alcuni giorni d’utilizzo usufruente, la
polvere del mondo e la nulla igiene personale, caratteristica
precipuissima degli italiani evasi, conferiscono alle palline rosa una facie
nerastra ributtante, e in queste condizioni l’uso prolungato può causare
otiti purulente molto dolorose, difficili da trattare.
Inoltre danno assuefazione. In loro assenza non si riesce più a dormire,
si diventa sensibili alle foglie, ai sospiri delle mosche, ci si infila nelle
orecchie qualsiasi silenziatore, carta igienica masticata, conchigliette
imbottite di terriccio, assorbenti, monetine. Si è letto di disperati che
hanno coltivato il tappo di cerume come una benedizione.
La città bulagnese in cui Leo si è volonterosamente inserito non è
rumorosa quanto una megalopoli asiatica o latinoamericana, ma non è
neppure un maso d’alpeggio. Se si vive in centro, nel cuore della zona
universitaria, coi suoi duecentomila studenti fuori sede a far baldoria con
le Kolf bianche, si impara presto ad invocare idrogeno su
Lecce/Catanzaro/Avellino, e uranio isotopiale arricchito su
Brescia/Macerata/Foggia.
Chiudi la porta e il casino resta fuori? Balle, urla Leo. Soprattutto in un
condominio. Soprattutto nelle fondamenta di un condominio. Balle
schifose, urla nella notte ai soffitti, mi sentite?, lo so che mi sentite.
Che cosa lo rode, con chi ce l’ha adesso, benedetto ragazzo?
Leonardo ha dichiarato guerra a chi gli cammina sulla testa, una coppia
di anziani.
Lui passa le giornate a innaffiare i gerani e a fumare pacchetti di Alfa, e
va bene, non produce granché di schianti e scoppi, se non bronchiali, ma
lei, LEI è una befana pazza che nella stagione buona vive fuori, nei bar, a
leggere a scrocco il Calzino. Se provano a sottrarle una pagina diventa
verde e in bulagnese urla cose da malattia. Ai primi freddi invece la
strega torna in tana e comincia ad andare su e giù, su e giù per le scale
cento volte, dalla cantina all’appartamento, dall’appartamento alla
cantina, giorno, pomeriggio, notte, con secchi di metallo in cui trasporta
ceppi trafugati. In casa i termosifoni servono solo ai gatti per grattarsi il
collo e la schiena, e a ludibrio del riscaldam. centralizz. ogni camera è
dotata di stufa a legna, misteri dell’arteriosclerosi. Il clippete-cloppete
delle galosce echeggianti nella tromba, lo schiavardamento per chiudere
e aprire portali, i secchi di metallo che clang!ano su ringhiere e scalini e
sulla MiaPorta quando la vecchia imposta in controsterzo la Curva del
Giovane Sempre Incazé, i ceppi che si pentono quando arrivano in cima
e rotolano e rimbalzano a ritroso fino al punto di partenza, sono la
colonna sonora quotidiana che mantiene tonico, reattivo ed isterico il
palazzo.
Ma non è questa la fonte principale del malessere di Leonardo.
L’autentico, sincero diavolerio la vecchia lo arma all’alba, attorno alle
cinque e mezza, con replica in prima serata. É maniaca delle pulizie.
Saranno la segatura, i peli di gatto, la cenere e gli espettorati del marito,
la puzza di morte che si sente addosso ma, puntuale come il pianto di
Leo, la grassa befi al canto del gallo che ospita in bagno inizia a spostare
tavoli, sedie, divani, frigo, televisore. Ci spazza sotto. Frega, liscivia,
gratta, scrosta. In dodici ore si sono accumulate tante di quelle montagne
di lerciume, da dove viene, chi me lo manda, sei tu Signore? Mi metti Tu
alla prova? Mi fai Tu i dispetti? Devo darmi da fare e alla svelta, o
domani sarà ancora peggio, benedetto il Signore, Signore aiutami, con
Te al mio fianco scaccerò la Porcheria.
Alle prime rumbe Leonardo, persona civile in una civiltà civilizzata, ha
provato a risolvere la questione per via diplomatica. I primissimi giorni
ha pensato che fosse in corso un trasloco; i secondi che fossero le pulizie
di Pasqua; i terzi che i vecchi fossero ostaggi di un pool di napoletani,
intenti a batter moneta.
Dopo una settimana di titubanze, le parlo o la uccido? s’è preso la briga
di esperire le vie della politica, conscio del danno che possono arrecare i
missili, oggi come oggi. Prendi la mira, azioni il trigger, hai tutte le
buone intenzioni, ma quelli sono giovani e moderni, appena escono di
casa vanno dove vogliono, non rispondono ai richiami di chi ne sa più di
loro. Perciò ha voluto salire, suonare al campanello, protestare educato, e
farsi rispondere dalla matta, che gli ha aperto con un secchio in mano e
lo spazzolone nell’altra: “Qui nessuno fa rumori ingiustificati, tranne te
adesso”.
Una dichiarazione di guerra.
Leonardo ha iniziato il contrattacco in maniera soft. Dapprima le ha
intasato la buca delle lettere coi volantini pubblicitari sottratti alle altre.
Poi è passato alla loctite, prima la serratura della buchetta, poi quella
della cantina e infine quella dell’appartamento. Il risultato è stato
controproducente: martellate, scalpellii, bestemmie del fabbro. Che una
volta fa cadere il martello, un’altra le tenaglie, un’altra ribalta l’intera
dotazione di piedi di porco e punte di trapano.
BRABHAM! LUANG! PRABANG! KARTHUM!
Questi sono i piedi e le punte.
UUUUUUUUUUUUUUUUUUUU!
Questo è Leo, che anche se non si vede ha gli indici immersi nel dotto
cocleare sino alle nocche.
Una domenica, sanguinosa domenica, Leonardo viene svegliato dalla
solita baraonda. Piedini di sofà Aiazzone stridono sulle piastrelle e
agghiacciano il sangue. Sono le 5,45, i tappi di cera sono stati ficcati giù,
giù, sino alla rocca petrosa, ma i rumori della pazza sono invincibili: è
già lì che usa i prodotti per una casa bella & splendente, perché la vuole
bella, perché la vuole splendente, il Signore lo vuole, vero Signore che lo
vuoi? Proteggimi da quell’energumeno che mi minaccia sempre,
quell’adoratore della merda.
A Leonardo scende la catena. Si precipita a riversarle sullo zerbino
l’intero carico settimanale delle proprie immondizie, visto che ho fatto
bene a tenerle? in cui preponderano pesche putrefatte, adeguatamente
spalmate sulla porta. Qualcuna piomba anche sugli stitici gerani del
marito posti a sentinella dell’ingresso, che pagano salata un’incursione
non ben pianificata e peggio condotta (sono le quattro di notte, e Leo è
accecato da un rush di Idrofobìa Nictalopica Del Cecchino Che Dorme
Poco E Male, corredo clinico colpevolmente incompreso per il quale
esistono solo cure palliative, tipo mazza lavecchia - bum bum). L’effetto
perverso è che la nonnaccia, oltre a spazzare l’appartamento, ora passa e
ripassa di fino anche il pianerottolo. Rumore di secchi e sciaff sciaff di
straccio a mollo e spazzolone industrioso.
Leonardo non punta nemmeno più la sveglia per andare a lavorare, ogni
mattina di sopra c’è il putiferio a orologeria, il gallo, il cazzo.
Alla terza otite decide che non vuole trasformarsi in un pudding
tremolante dentro una camicia di forza. Bisogna risolvere la questione,
portare sollievo ai nervi. Pone un ultimatum, a se stesso e alla megera:
ancora tre giorni, poi VIOLENZA.
Ma non ce la fa, s’era illuso: resiste solo otto ore.
Spazzolone, spazzolone, sapone, sapone, straccio, straccio, straccio,
secchio secchio secchio. Brim, brum, gniick, frazz, ihohihoh.
KLÀÅÂNG! KLAATU! KLÁGHENFURTH! STURMUNDRANG!
PERDASDEFOGU! STOCKHOUSE! STOCKAUSEN! THUNDER
TEN TRONCKH! SPAL!: la befi sa benissimo chi le ha fatto lo scherzo
delle pesche, a questo punto è chiaro.
ULÀÀN!
BATÓÓR!
BATÀÀN!
SUPERCOPENAGHEN!
Assì?
Assì? A me? Bene.
Zip, zap, stracciaboom
Lassù ogni cosa inanimata, il sofà, il cucù, il marito, il gallo, s’incolla
al pavimento. La spazzatora tenta invano di spostare, trascinare,
smuovere, svellere, sbuffa, latra spinge e piange, ma Aiazz. niente. Prova
con le sedie. Macché, niente. Col mobiletto della tv, col secchio delle
immondizie, con la lavatrice. Niente. Con la cassettina del gatto. Niente.
Coi ciocchi di riserva per gli inverni di guerra. Niente. Con l’asse del
cesso, la sua passione. Niente.
Due lunghi minuti di silenzio interdetto.
Riiiiiiing ring ring riiiiiing e ririiing ringhia forsennato il telefono. Leo
va a rispondere.
“Non si muove niente, è tutto incollè, sei stato te. Adesso cosa faccio”.
“Niente”.
La vecchia implode.

Prima fame poi sete

Dopo aver corroborato l’infanzia con lo studio di Bud Spencer e


Terence Hill in sale parrocchiali antoniane, masticando rumorosi pop-
corn e spirali di liquirizie cancerose, allontanando a calci strani vecchi,
Leo oggi ha un atteggiamento completamente rinnovato nei confronti
dell’industria cinematografica.
Innanzi tutto ha chiuso netto coi Budhill, ed ora si premia esclusivam.
con film che a naso suppone siano minimo dei capolavori. Altrimenti,
dice, non ha senso spendere tutti quei soldi e sorbirsi due ore di
sgranocchiamenti, succhìi di denti, commenti e martellamenti di
ginocchia nello schienale.
Vedere un brutto film lo fa piangere.
Vedere un brutto film con fattori di disturbo lo fa piangere e incazzare.
Vedere un bel film con fattori di disturbo gli fa spruzzare veleno viola.
Come i cobra, però più mortale.
Leonardo ha una teoria. Un film come si deve, oltre ad essere una
sequenza tipo titoli di testa - primo tempo - intervallo - secondo tempo -
titoli di coda, è anche e meglio un sistema di sfumature, suoni, battute tra
le righe, frasi dette-e-non-dette, sguardi, cenni, atmosfere, fruscii
dell'anima, indovinelli del cuore, sussulti del - ok.
A volte, se il film è fatto bene, ti vuole bene come un'amante
intelligente e ti regala i suoi odori.
Non si possono apprezzare queste nuances se uno dietro di fianco e
davanti confeziona cazzate, sgranocchia pop-corn, ti frusta col cappotto e
ti prende a ginocchiate ogni due minuti. Se ti si sono incollate le dita
nella aaargghh cicles di un estraneo con l'aids. Dove vanno a finire gli
intendimenti artisticoculturalcomunicativi del regista, dello
sceneggiatore, del montatore, degli attori, dello spettatore finissimo?
Leonardo oltre alla lisciviazione etnica auspica un futuro fatto di sale
cinematografiche dotate di cuffie, come in aereo, per captare in tutta la
loro icastica significanza cifrativa i rumorini in secondo piano i sussurri
in terzo piano e gli scrosci quantici del quarto piano, ed evitarsi i
commenti degli ebefrenici; all’entrata vorrebbe un filtraggio selettivo
degli spettatori in base alla faccia, al censo, agli studi e al giro
prefrontale; auspica che la gente, sperabilmente prima del Quattromila,
se vorrà cenare fuori andrà nei ristoranti, non al cinema.
Ne consegue che brustulli verboten.
Cicles verboten.
Caramelle da scartocciare verboten.
Caramelle verboten 2.
Chiacchiere verboten.
Distanza minima di due metri tra una fila e l’altra.
Anzi, una fila sola, la sua.
Anzi, una poltrona sola, la sua.
Poltrona riscaldata ventilata in cuoio grasso anticato. Martellato, se
anticato non si può. Senza bottoni. Con poggiapiedi. Con uso di
succhiante accucciata su sgabellino a parte, che entri in azione solo nelle
scene d’amore o nei momenti di fiacca, caso mai ce ne fossero, e su suo
ordine preciso. Succhiante a fischio.
Ampio anfiteatro in discesa, no rettangolo cretino in salita, il collo non
vuol crampi, e comuuunque Lui sempre al centro, nel fuoco ottico e
sonoro filmico attenzionativo.
Manifesti in corpo 120 esposti alla biglietteria in posizione di rispetto
sotto adeguati occhi di bue, e proiezione di diapo ogni trenta secondi
sullo schermo subito prima dello spettacolo, che annuncino che Lui Leo
è in sala ed esige rispetto, umiltà e compostezza massime. Massime. Vi è
chiaro il concetto, porci della mala ora?
Paga, è un suo diritto.
È con questo spirito che una sera si reca a vedere Dead man. Il primo
western vero della storia del cinema, gli par di capire leggendo le
recensioni fighette che lo denigrano e sfanculettano. Leonardo, il
Contrario Bastiano, il West Far lo vuole così, ossessionanti locomotive,
cauboie sbocchinanti con Colt puntata tempie, bianchi sbranagenitori,
indiani sognatori. Umani marci. Eroi pochi. Uno, ma che verso la fine
muoia.
Seduto sotto, in prima fila - vuole partecipare al film, ed evitare i
rumori del loggione - Leo si gode la prima mezz'ora in estatica
ammirazione. Più che estat. ammiraz., in realtà, è L'Erezione
dell'Intelletto: armonia delle sfere, bianco e nero ai quattro formaggi,
Johnny Depp uno sconquasso, Robert Mitchum Re Imperatore degli
Inculatopi.
Dio.
Coi.
Capelli.
Lunghi.
Il.
Suo.
Ultimo.
Film.
Ragaaazzi. Che roba.
Tredicimila lire sono poche. Be’, vabbe’, giuste.
Si comprerà la cassetta appena uscirà. Non credeva. Domani tornerà a
vederlo.
Al trentunesimo entrano in campo due idiote maleducate. C’è sempre
chi entra a proiezione iniziata. Leonardo prende nota: deve ricordarsi di
auspicare anche ingressi contingentati e regolati, come a teatro. O in
orario spaccato, o a casa con l’Arraffa Carrà, detta la Cartapecora. O
breve colloquio col pugnodiferro della maschera. Quartum non datur.
Le due commessucchiere si siedono, a volte dio è davvero cattivo,
esattamente dietro di lui. Una alla destra, l'altra alla sinistra della sua
nuca. Stereofonia della maledizione d'essere STUPIDE.
Scuotimenti di sedie, rumori di borse, giacche, giubboni con alamari in
latta che gli schiaffeggiano la nuca, chiavi, lattine, sacchetti. Friisshh di
gazzose scoperchiate che gli rinfrescano il collo. Stanno apparecchiando.
Con vocine stridule coprono Neil Young: Mazzzai che Mognia spetta
un cinooo?
Fosfemi attinici, spuma di sperma di puma ai lati delle fauci, perossido
in caldaia.
Leonardo non può estrarre il fido 3PVP, alzarsi, girarsi, mirare e sparar
loro negli occhi. Troppo complicato, facili gli errori, lo beccherebbero. Il
Calzino ha già titolato “Attacchi di grattarola anche nei cinema. Il Negro
s’è fermato a Ebola e adesso é qui. Chi paga?”.. Lo stanno cercando,
meglio lasciar perdere.
Prova a viversi cittadino esemplare. Sa che, dopo un primo momento di
assestamento, staranno zitte. Staranno buone. Staranno ferme. Lo sa, essì
che lo sa, gli hanno detto che è capitato moltissime volte.
Moltissime.
Macché.
Stràzzz, sciùffsciàff, shhhh, gnignignigniiiik
skhroshi skhroshi skhrashi skhroshi
skhrashi skhrashi skhroshi skhrashi
skhroshi skhroshi skhrashi skhroshi
Il sale viene agitato e rimescolato per graffianti minuti nei sacchetti del
pop-corn. Segue masticazione a bocca aperta. Sciuok. Sciuok. Sciuok.
Sciuok. Un pop-corn per volta, assaporato, assaporato, assaporato,
assaporato.
munch munch munch munch munch munch munch munch
Dopo quindici minuti abbondanti di merenda americana, per puro caso
si ricordano perché sono lì, e focalizzano lo sguardo sullo schermo.
«Dioboni, Dany, vè, l’hanno fatto in bianche nero! Noddài, cheppalle
guarda».
«Zòccia, hai razone Patty, hhevvero! Naaaa, che coma... Enor e le sue
magnìe tellettuali. Un grosso film, capito? Non lo zto più a zentire
neanche, guarda. Makke stronzo, guarda".
Enor, a dispetto del nome e dell'aggettivo grosso, diventa un idolo, per
Leonardo, che non comprende però come si possano coltivare amicizie
così... così... - che sia la gnocca? Ehi, forse è la gnocca. Prova a girarsi
per controllarne le qualità organo-lettiche, per vedere che co
Strappp, fizzfazzz, ptschhh
In faccia e nel naso gli arriva la stangatina amara di due camparini. Si
rigira. Gli girano.
«Sshhh! Sh!» prova a zittirle, con un rimprovero dall’aldilà, fissando
ostentatamente lo schermo, rigido a schiena offesa, senza voltarsi.
«Nervosetti, eh?», fa la serva sul canale dx. E ripete SSSSHHHHHHH
anche lei, fortissimo.
La Bava Negra, uno slaim bilioso con pezzetti e lampetti, invischia i
braccioli della poltrona di Leo.
«Dove l’hai prezo il mazcara? Dalla Miiirna di Piselli?»
«Naaa, la Gessica di Limoni. Hanno già niziato la liquidazione,
saaaaai?»
Molti, molti macheti, bimbo mio Gesù. Napalm, orangutani crostolosi
di gomme sifilitiche affamati di carne imbecille, ti prego, amore mio
Gesù, impetra Lenny a occhi chiusi. Vi frusto con la frusta dei
condilomi, vacche merdose, v’uccido con la sclerosi dei papuasi
skrapici. Vi sdirupo con la froccha magnazza. Vacchicco la broda feroza.
Vabbruzzo di prepo tronchesa. Non sta seguendo il film, non cerca più di
controllarsi, sa che lui e loro hanno i secondi contati. Ripete tronchesa,
perché gli suona adeguatamente ridicolo e terribile.
Ma va là. I rumori dietro di lui surclassano la sua follia: cicche ciacche,
gnicchi gniacchi, frikki frokki, shukki shukki munch munch munch mun-
Brrrrriiiiiiip briiipp briiip briiiiiiiiiiiip briiip briiiip
Il telefonino della pescivendola di sx. le trilla nella borsetta. L’aveva
lasciato acceso.
«See, pronti. Sissonìo te chissei. Verardo? Che Verar- Veraaardo,
zaaaaaao, cazzo. Eh? Macché disturbi sonal zinema. Naaa, nti
prioccupare, non zè problema, il film è un zchifo. Dove? All’Euforia?
Ochei, le tre, me mi va bene. Scolta. Magara anche prima o dopo. Ochei.
Non zè problema. Ochei. Ochei. Ochei, sissì. Sissì. Sissì. Sissì. M. M.
M. Sssé, adesso ce lo chiedo». Si rivolge all’amica: «Vienanche te?
Ochei. Scolta, vienanche lei, ochei, nopproblem zao». Briip.
Rantoli. Sistole & Sismografi. Diastole e Dinamite. Pearl Harbour
epilettica, Chernobyl nervosa.
Zip, zap, stracciaboom
La conversazione s’interrompe di botto. Si tronchesa.
Deflagrano colpi di tosse disperati.
Il sale dei pop-corn ha provocato l’Effetto Speciale Massacratore
Numero Uno Dei Casi Super Disperati Maneggiare Con Cura Leggere
Attentamente Le Istruzioni Da Evitare In Giornate Ventose: un’overdose
mortalissima da cloruro di sodio e salgemma di miniera. Genghiz Khan
ne aveva orrore, sui prigionieri non la usava, preferiva mangiarli crudi.
Le merlettaie rantolano e rotolano tra le poltrone. Non riescono
nemmeno a procurarsi il sorso che forse le salverebbe: convulsi
movimenti spastici involontari tetanici pre-agonici hanno proiettato
lontano le lattine. Provano a gridare hhhiiutohh ma emettono solo sibili e
soffochi, con molte consonanti e zero vocali. Irosi SSSHHHHHH e
SILENZIOTROIE e IBOCCHINIFATELIALCESSO esplodono qua e
là, in loggione e galleria. Proteste colpevolmente tardive.
Sul pavimento di spade e scaracchi come vipere s'attorcon le due. Come
vipere s'attorcono, tra scaracchi e spade e macchie di lue. Dal viola
strafogato veloci virano al nero nullificante. Yuk yuk, dice Leo: nel buio
non vede niente ma sa tutto. E' lui il regista stasera. Continua a guardare
Johnny Depp. Sa che le sclere delle vittime sono già più grosse e bianche
di uova sode. Bianco e nero, bel contrasto, mi piace. E' a livello.
Non vuole uccidere nessuno, odia calpestare le merde, tra l'altro poi
bisogna pulirsi le suole mentre tutti ti guardano e gli fai ribrezzo e
schifo, ma il male va estirpato alla radice, ed una lezione ha da essere
una lezione.
Hhhiutoh, non vocho mochicheh, hhhhhcchhhhcch
Hhh nanchìohhhh hhprcahritàhhhh
Sì, facciamola finita, decide dopo qualche po', soccorrevole e
annoiatino. Forse può bastare. Apriamo i cassoni d’affioramento rapido.
Aria alle sentine, chiudere le prese a mare, timoni a salire.
Con una conclusiva scarica del corno d’Ammone esacerbato, Leo
obbliga i presenti a urinare in gola alle condannate, «Svelti tutti, perdio,
volete che muoiano?» Il primo a svegliarsi è un senegalese, che snello ed
efficace in un battibaleno unzippa e srotola la manichetta. Gli altri e le
altre seguono, a gara. Molti, interdetti, si chiedono che razza di storia sia
'sta forza che li sta obbligando a fare una cosa così incredibile, ma poi
lasciano perdere chiacchiere e congetture e si slanciano nel soccorso
pisciatore multiplayer. É bello verificare che il cuore aiutativo non ha
limiti, specie nelle catastrofi umanitarie.
Gli scrosci spengono ad un tempo l’ira di Leo e i terrori oltretombali
delle soffocande. Una delle due poi, quella più in down d'ossigeno, la più
hhhhoshhstruita, s’attacca a chhhhhaannha con tutte e due le mani. Il
quadretto della vittima che s’appende al pompiere che intanto le regge la
testa e dà colpetti col pube è icastico al massimo. Leo dentro di sé plaude
a questa inusitata Paternità, Maestro dell'Odeon, circa XXI sec., coll.
privata.
Le schitarrate di Neil Young s’arrampicano su per lo schermo in un
crescendo fatto di vendetta, senso epico, clearance renale giustizialista,
urea e sale, epico pure lui. Soprattutto lui. Leonardo ha un’erezione
inconsueta, quasi senegalese, facilitata dall’odor di stazione che adesso
aleggia in platea, galleria e ridotti laterali.
Luci in sala.
La maschera deve chiamare il 118, gli spettatori accorsi in aiuto alle
assetate non riescono a calmarle o ad asciugarle. Esse urlano. Esse
urlano e s'attorcigliano e scalciano e urlano con un casino di fastidiose
hh hh residue. Un topo di cinema nella ressa si frega borsette, giacche,
chiavi dell’auto e telefonini. E termina Fante e camparini, già che c’è:
prima aveva dato, adesso si riprende, abbasso la disidratazione.
La serata culturale delle due latrine si conclude al pronto soccorso sotto
una tenda a ossigeno, quella di Leonardo a letto con uno spacchevole
mal di testa.
L’erezione dura gli dura un paio d’ore. Più di quanto sarebbe durato il
film.
Tredicimila spese benissimo. Bè, più o meno.

Banesto

Leo alla fine ha ceduto, minato da un odio irrisarcibile nei confronti di


tutto ciò che succede all'interno degli autobus, ed ha comprato un’auto. I
brevi mesi di guida hanno però già contribuito a fargli aprire la
sottocartella Ciclisti nell’affollato file dedicato ai Trasporti, uno dei più
gonfi.
Nella sua opera programmatica di self-repulisti s'è sforzato di annullare
i legami con le proprie origini, e ogni volta che vede un ciclista vestito di
tutto punto sente puzza di casa. Puzza di sé, di com'era.
Non che sia un antisportivo. Solo che per lui la bicicletta -
rigorosamente col cestino, il campanello e i freni a bacchetta - oggi deve
essere esclusivamente un mezzo di trasporto ecologico, piacevole a
sufficienza ed economico.
Chi, privo di vergogna, desideri assolutamente pedalare senza uno
scopo né una meta, ingobbito a spaccarsi la schiena e impalato da un
sellino che affondi nel tenue, dovrebbe farlo in un cinodromo, girando in
tondo fino a schiattare, consumando tubolari, pinocchietti, tendini,
linimenti al geranio e sudore, ma senza intralciare il traffico. Si depili
pure i polpacci, ma lontano dai suoi occhi e dal suo acceleratore
indaffarato.
Da bravo comunicatore moderno Leonardo capisce perfettamente
l’enorme business dietro le maglie Banesto, i caschetti a goccia, le
scarpette, le borracce fosforescenti, i rasoi Bic e gli occhiali viola a
specchio. Ma non comprende perché un muratore o un operaio, che non
sono ciclisti professionisti, debbano vestirsi come arlecchini finocchi ed
esibirsi in truppa. Come corredino da fatica non basterebbero dei
pantaloni corti, scarpe da ginnastica, la canottiera del cantiere, al limite
una maglietta? A quale Istanza Superiore si vuole obbedire con tanto
solerte Cattivo Gusto? Eh? A quale? Mimesi col Campione? E che me ne
fotte a me della mimesi, dei campioni? Che cos’hanno fatto per me?
Altro leit motif del suo odio è l’usanza di pedalare in tripla fila. Lui
l’auto la usa per Missioni Importantissime, e suda omicidio ogni volta
che è bloccato da greggi di ciclisti che pedalano e sparano cazzate
stentoree.
Sogna il giorno in cui sarà obbligatorio arrotarli per legge, e non
appena li scorge all’orizzonte inizia a pestare come un dannato sul
clacson, bestemmiando le cose cattive.
Una mietitrebbia John Deere, Vi scongiuro, ascoltate questo Vostro
Figlio Adorato, chiede sempre ai suoi dei. La FiatAgri non è mai
presente nelle sue pressanti richieste, peraltro: Lui esige per sé e le
proprie stragi etniche solo Roba Buona.
Su questo background filosofico nella mente di Leonardo razzolano poi
alcune sottocategorie, in cerca di vermi.
I ciclisti con la maglia azzurra e la scritta Esercito, in quanto difensori
della Patria si sentono autorizzati a pedalare in quinta fila, contromano e
senza rispettare i semafori. Ve lo darei io il semaforo, nero ve lo darei.
«Ohhh, sono su due ruote, io!» uno gli strillò un giorno, tremando di
rabbia/spavento e tendendo il medio, dopo che Leo gli aveva
premeditatamente cannonato una strombazzata da dietro. Stava
sorpassando un autobus a passo d’uomo, e Lenny proditorio e predatorio
gli era piombato addosso a calandra spalancata e sitibonda di sangre
pedalatore.
Altri piccoli capitoli che gli fermentano la tranquillità sono i ciclisti
obesi che insistono nel fare i ragazzini; i nonni che ridono forte e urlano
in dialetto; gli adesivi Trattate bene i ciclisti appiccicati sui furgoni; le
interviste ai ciclisti; il doping dei ciclisti; le auto decorate come
arcobaleni che allenano i «pulcini» a passo di carriola; le strade chiuse
alla circolazione durante le gare.
Ma Leonardo si sa anche divertire. Ogni tanto ha i suoi momenti lieti.
Quando durante un Giro, o un Tùr, o una Vuelta del Cacios, la tv
trasmette per quindici volte l’Incidente Tragico e i brocchi sono
impiastrati in un polpettone di lamiere, ginocchia scoppiate, classifica a
culo, sangue e borracce volanti, Lenny ejacula compiacimento. Emette
singulti d’estasi. S’arrampica sui muri belando e ridendo. Dice alle
mosche quanto è felice.
Non ride se un ciclista muore: Leo è buono, e non approva che la
punizione si spinga a tanto. Trentasei ore di sofferenza, e tutte in una
volta, ecco, questo sì. Però poi basta, lo si condanni a vita comune,
ritorni al cantiere o alle presse, VI SI STANZI TRANQUILLO IN
SÆCULA, SENNÓ L’INCULORUM.
Oggi, mattina a ore nove, Leonardo è costretto ad imboccare la
Bazzanese, l’imbuto che porta verso Modna. Deve vedere un cliente
molto importante e non può evitarsi quest’odioso appuntamento con la
Pagnotta.
Nei pressi di Vignola incappa di colpo, dietro una curva, in un nugolo
sterminato di ciclisti. Non crede che sia possibile, non può succedere a
lui, anche se il subitaneo gelo ai maròni denuncia quanto sia perfida e
incontrovertibile la realtà.
Una qualche gara, a metà settimana lavorativa. Braccia strappate alle
zolfatare sventolano bandierine rosse prepotenti e stoppanti chiunque
s’azzardi a circolare nei pressi. Un paio di auto della polizia,
sponsorizzate dalle sue tasse, vigilano sull’integrità degli atleti.
Lo Sport ha la precedenza. La Sfiga Marcia ha la precedenza.
L’Obbrobrio ha la precedenza. La Merda dell’Esistenza ha la
precedenza. Il TioBo degli stra TioBo ha la precedenza.
Bile schiumosa montante e muggente, un maelstrom da thug cornuti e
tubercolotici gli sale le scale interne, dal piloro alla glottide, anfanando e
ululando.
Leonardo si concede sempre un’ultima generosa possibilità, prima di
applicare i poteri dei quali ormai è perfettamente consapevole, ma
stavolta il tamtam che gli rimbomba nelle recchie fa persino voltare un
poliziotto della scorta, che lo guarda marsicano e slaccia la fondina.
Per un po’ si sforza di rimanere dietro al gruppo, che ha invaso l'intera
corsia di sua spettanza e metà di quella opposta. Nel gregge si scorgono
molte maglie Banesto e molte Esercito. Il Pedale Preddappiese ed il
Pedale Morcianese sono robustamente rappresentati. Sono TUTTI calvi
come il povero Pantani, e pantani come il povero Calvi. Mimesi.
Le venuzze iniziano a ticchettare. Non può passare la mattina ai trenta
l’ora, ha la rogna clientelar-pagnottesca da sbrigare e poi schizzare in
agenzia appena possibile, mi sa che ne ho un’altra che m’aspetta,
cristodài, fatevi da parte.
Un primo, discreto, colpino di clacson.
Nessuno si sposta.
Le trombe esplodono in tutto il loro livore di fagotti, oboi, pifferi,
sassofoni e sirene di piastrellificio.
Nessuno si smuove di 1 cm.
Al primo slargo, subito dopo una curva, Leonardo innesta la seconda e
col motore ad un milione di revs sorpassa le duecentosessantasette glabre
teste di cazzo, sputazzando atrocità e fondendo il clacson. Sguardo kurdo
e sclere al fosforo sui pinocchietti sudati e stracciati.
Fa ben attenzione a sbucciare quante più ginocchia gli riesce con gli
specchietti falcati.
«VVvaffanculo, tìo bò».
«Ohhh, ma noi siamo I Sportivi, faccia da culo!»
«Fermati disgraziato, ti faccio il culo!»
«Ti rompiamo il culo, porco!»
Scarsa fantasia. Temperamenti anali. Branco maledetto, non pensa ad
altro. Molti medi indicano le nuvole. Forse misurano l’attrito del vento,
ma Leo non crede. Schifosi. Schifosi e violenti. Anali. Pantani.
Tra tante facce congestionate, proletarie, baffute, Leonardo scorge un
militaretto dell’Esercito, paonazzo, molto giovane, orecchinato. Sta
inveendogli contro qualcosa d’incomprensibile, con una cadenza alla
Castelfranco Veneto. Ha la bandana da froci, i polpacci depilati. Sì,
dev’essere di Castelfranco. Solo a Castelfranco si depilano così.
Colombine. Bandane.
Pantegane.
Pantane.
Arlecchini.
Ucciderli.
Ucciderli tut-
Zip, zap, stracciaboom
Il cielo si apre, la Bibbia si fa realtà, Mosé dev’essere in visita da
queste parti. Forse sta camminando appena più in là, sulle acque del
Samoggia. Manda anzi a chiedere mediante saette nere se può essere
utile. Lascia qui le tue saette e togliti dal cazzo, gli viene risposto.
Improvvisamente, non appena concluso il sorpasso, nell’asfalto dietro
Leo si apre un’immensa voragine, un orrendo sbadiglio slabbrato genere
Tunguska. Ai suoi nipoti anni dopo racconterà che le emorroidi della
Terra non sono poi così brutte a vedersi, specialmente quando sai che
non ce l’hanno con te.
L’ANAS ha mangiato sulle spese? Un imprevisto cedimento della
crosta terrestre? La succursale provinciale di un buco nero? In attesa di
risposte chiarificanti, i 267 ciclisti volano dal primo all’ultimo nella
sindrome cinese, Castelfranco è il primo del mazzo. Ogni soldatino
dell’Esercito lo segue, urlante ma disciplinato.
Secondo per un’incollatura il team Banesto. Terzo a pari merito il resto.
Ma Atlantide non si è compiuta in un’ora. Yuk yuk, nooo.
Il gruppo è seguito a ruota da un’enorme betoniera John Deere guidata
da uno di Macerata, ubriaco. La Soluzione di Continuità si è verificata
troppo, troppo improvvisamente, e l’autotrasportatore calcia sì i freni
come un dannato, ma non ce la fa a fermare il mastodonte. A dispetto di
tutta la ricerca che s'è fatta, ancora oggi i punti deboli dei camion sono i
freni e la birra, ma ci sarà mai qualcuno a Macerata che voglia prenderne
atto, una buona volta?
La betoniera vola con un triplo carpiato e mezzo avvitamento nel
bucone infinito, ridicola goccia di sperma sputata nel fornice spaventoso
di Lilith. Il suo contenuto si riversa sui ciclisti stritolati, e il cemento a
presa rapidissima, una nuvola di loctite grigia, forma un sudario che tutto
ingloba e tutto intrappola: colombine, biciclette, borracce, camionista,
betoniera, speranze di essere notati e di entrare nella pattuglia che ci
difenderà ai mondiali. E magliette Banesto, certo. Be’, ci mancherebbe.
Il cemento monta, gorgoglia, spumeggia, sobbolle e si solidifica infine
esattamente a livello del manto stradale, e chi sopraggiunge non si
accorge minimamente del Kasino Livellatore: mai Provinciale fu più
liscia e a regola.
Il Calzino titola “267 ciclisti scomparsi durante la Bulagna-Modena.
Rapiti dal racket albanese. Guerra, presto”.
Leonardo durante il briefing col cliente micragnoso lagnoso mungevole
è martoriato da un’impossibile emicrania attanagliante frantumesca.
Questa volta i morti ci sono stati, pensa tra le lacrime. Ma nessuno ha
mai pensato che le convenzioni di Ginevra dovessero applicarsi ai
portatori di Banesto, o agli Esercito, o ai veneti, precisa in una nota della
farnesina, stilata in combutta con se stesso. Tra l’altro si sa che in guerra
gli incidenti non programmati sono obbligatori. Primo principio del suo
amore per gli uomini: i malriusciti devono soccombere. E bisogna anche
dar loro una mano in tal senso.
E così smette di piangere; si sente, sempre di più, il Braccio Destro di
Dio.
Anzi, il Braccio Destro. Che non è male.

L’uomo è cacciatore

Leonardo non ha mai condiviso, se non per un breve periodo della


giovinezza sassuolese e piastrellara, la teoria che l’Uomo sia cacciatore e
la caccia uno sport.
Per lui cacciatore è il leone, l’Uomo con l’Uccello, e sport è il salto con
l’asta, il salto in lungo, il salto del fosso o dei pasti. La caccia no.
Maturato, ora prova disgusto ogni volta che passando davanti alle
macellerie del centro scorge fagiani e conigli impiccati a testa in giù, a
sgocciolare sangue per i Sigg. Clienti. Odia i Piazzali Loreto dei Pennuti.
Non che potrà mai essere vegetariano: un imprinting a suon di ragù,
mortadella e cotechini gli ha piagato il DNA, e vigliacchi indelebili
cromosomi di colesterolo alle 12,29 d’ogni giorno bussano al palato, allo
stomaco e nel cervello sotto forma di compulsione al vitellone magro +
sedano e carote, con contorno di tagliatelle a mano.
Crescendo però ha sviluppato una coscienza ecologista. Già da
adolescente si era impressionato parecchio a Le facce della morte, in cui
una simpatica famiglia scandinava al ristorante si faceva servire una
scimmietta viva, le spaccava il cranio (scimmietta à la coque), le
succhiava con mugolii d’apprezzamento il cervello caldo e primate.
Per Leonardo i cani lupo sono i migliori amici dell’uomo e dei
commissari crucchi, e i gatti li vive come raffinati oggetti da salotto che
passano la vita a lavarsi il culo educati. Ha definitivamente stabilito i
crismi del suo odio per i cristiani e l’amore per gli animali in virtù dei
report di Vandalo, un amico tornato da un viaggio in Cina.
A Canton i figli di Chen mangiano i piacevoli prodotti di Sora Natura
in ristoranti speciali: arrivi, denuncia Vandalo, scegli l’animale più
antipatico da una gabbia in vetrina, il cuoco te lo scanna in diretta, se
magari gli allunghi un dollaro lo fa fare a te, e poi te lo infila in pentola.
O dove vuoi tu. Cincin.
Impressionato a sangue da questi racconti, Leonardo cerca di limitarsi
ai bovini maggiorenni, ai suini e alle galline, scartando anatre, fagiani,
piccioni, conigli, quaglie e vitelli. Le pecore invece non gli sono mai
piaciute. Non hanno dignità. Del castrato e dell’agnello poi non se ne
parla proprio. A pezzi, forza, che cos’hanno fatto per lui agn. e castr.?
Anche se questa scelta è discutibile, perché salvare una parte della fauna
e condannarne un’altra, è pur sempre meglio del contorto integralismo
vegetariano di un’amica, Ilaria, che non si fa né di latte o carne o uova,
ma spara pompe con ringoio proteinico carboidratico iperlipidico
glucidico. La Canna ammazza la Logica.
Il fastidio per macelli, sangue e violenza contro gli animali Leonardo lo
estende a Pellicciai e Cacciatori.
Ogni autunno che si rispetti presume, oltre la caduta delle foglie degli
alberi, anche l’apertura delle galere e dei manicomi, con conseguente
uscita in massa di teste di cazzo armate di doppiette e setter rabidi.
S’inaugura la mala stagione. Chi non tromba la moglie da mesi può
finalmente ricominciare a sentirsi un montone. Concetto privo di
significato, similitudine debolissima, ma su questi temi a Leo l’ira lima i
sensori.
Non è uno sportivone, non capisce il fascino recondito di tutto ciò, né,
soprattutto, come l’Arcicaccia possa essere il fiore all’occhiello di un
partito progressista. Dove sta il progresso nello sfracellare la testa ad una
lepre? Ad un comunista sì, lo capiscono tutti, ma ad una lepre?
Anche in questo caso, come nel ciclismo, Leonardo ha rari ma intensi
momenti di gioia. Ogni volta che viene a sapere di un qualche Diana che
si è automitragliato in gola, o ha aperto il ventre ad un complice, non può
fare a meno di emettere gridolini commossi. E rimonta sulle pareti ad
informarne le mosche.
Purtroppo alla fine della saison il risultato della partita Fagiani vs
Orrende Tst. di Czz. è sempre in favore delle seconde.
Tra tutti i numi dell’Olimpo - si chiede ogni tanto Leonardo, che
conserva molte importanti lacune negli studi classici - non ce n’è uno, ad
esempio il dio Pan, che s’inquieti, chessoio, che s’adombri? Perché non
si dimostra, con la sua ira, ai mortali?
Quando era buono - quando i suoi poteri non si erano ancora
manifestati - Leo pedinava i subumani della doppietta e, non appena
abbandonavano la gìp e sparivano dietro la prima siepe, svelto svelto
consumava le proprie vendettine. Gli forava le gomme, o con vecchie
chiavi scolpiva profondi sette sulla carrozzeria, o irrorava parabrezza e
tettucci con corrosive lattine di liquido per freni. Macchine da buttare.
Con un punzone tatuava scritte del tipo Il dio degli storni vi punirà o Chi
di piombo ferisce di piombo perisce, o Mentre ammazzi uccelli e gomme
aggiusti, tua moglie di bocca li resuscita a noi fusti. Stronzo. Ora,
maturato e incattivito, arriva a tanto il suo odio che si firma pure, e col
nome che più lo fa vomitare: VANES. Non riesce ad inventarsi punizioni
più efferate.
Un bella mattina di sciopero generale bulagnese, indetto dalle Parti
Sociali contro la Gilda Autonoma degli Autonomi Autoconvocati
SFIGAOO-ONANLOUSA-ANANAAS, brigatistirossi che ben
conosciamo, deliranti attrezzi della Confindustria che puntano
esclusivamente a minare il paese ed abbassare il monte ore ma hanno le
ore le parole e le pallottole contate, é già tutto giù in procura e appena il
magistrato di turno avrà finito di bere il caffé, leggere il giornale e
chiedere all’usciera più carina perché non gli telefona più vi darà la
mazzata, Leo, dal momento che ne ha voglia e ci pensava da un pezzo,
va in visita ad un caro zio insabbiato nel cuore della Romagna. In sei
enormi capannoni, hangar residuati della NASA che circondano e
sentinellano la capanna in cui mangia e dorme, lo zio stiva da anni sacchi
di piume e fusti di catrame, ognuno targato col nome del romagnolo
destinatario: «Pece e piume, diocane, pece e piume per tutti. Non crepo
finché non finirò, ma sono troppi, troppi. A volte penso di non farcela.
Perché non pianti quel tuo lavoro da checche e non vieni qui a darmi una
mano. Si sta bene sai».
Non si sono ancora spenti i convenevoli che Leonardo sente un gran
rumore, urla, esplosioni, uggiolii provenire dall'orto sul retro: lungo il
declivio che in basso delimita il regno di Zio scorge un branco di
disperati in galosce e cappellini mimetici che spara all’impazzata. I cani
inseguono qualcosa di rossiccio che se la sta dando a gambe.
La bellissima volpe vuole disperatamente vivere, ha tante cose da
realizzare, così poco tempo per farlo, e molto più rapida dei setter
cittadini s’imbosca in un folto scannante di rovi.
«Là, là, corre, corre!»
Pum, pum, pum, pum. Ppam!
Scroscio pioggerello di pallini che cadono sui tetti zincati dei
capannoni, bestemmie a pioggia dello zio Filiberto.
«’Sti lobotomizzati possono spararti liberamente addosso, Zio?»
«Sai, vista l’intelligenza media di ‘sto paese, il referendum sui terreni
privati da chiudere ai cacciatori non è passato. In pratica, o dissanguo il
conto in banca e recingo col filo spinato tutto il terreno (ma bisogna
lasciare ugualmente un passaggio per le merde), o per legge li devo
lasciar passare e sparare sulla mia proprietà. Cioè, o passano, o passano.
Fucili e cani e tutto. Non male, eh? Allungami quell’esca alla stricnina,
ma stai attento, mettiti i guanti».
A Leonardo frigge il friggibile. Lungo la strada gli era sembrato di
vedere i cartelli gialli del divieto di caccia, e poi è marzo. La caccia non
si apre in autunno?
«Giusto, non ci avevo pensato. Andiamo dai carabinieri, sapranno dirci
se la caccia è aperta e se qui è permesso ammazzare le creature di dio. Se
ci va grassa gli faranno il culo».
Partono, e in ciabatte raggiungono la stazioncina dell’Arma. All’entrata
spicca un cartello con gli orari d’apertura al pubblico. Durante le Ore
Pasti e dopo le 19,30 si può rapinare, stuprare e sparare alle finestre degli
altri, fino alle 7,30 del giorno dopo. Ci vogliono cinque scampanellate
per vedere apparire un Alberto Tomba con giacca slacciata, patta
spalancata e briciole sul pizzo alla Italo Balbo. Ha l’aria seccata (sono
passati due minuti dall’ora di chiusura).
«Tesiterano».
«Ci scusi, ma a casa nostra sembra che sia iniziata la terza guerra
mondiale, ecc. ecc.».
«Nè di mia compedenze, e ast’ora la stazione sta ghiuse, non leccete
mai l'orario? Terpellate le guartie forestale di Rimino. Ponciorno».
Leonardo, dopo sei attacchi di Gastrite di Stato, dalla prima cabina
funzionante prova sul serio a telefonare alla Forestale di Rimini. Ma
dall’altra parte della cornetta è un continuo ping-pong di segreterie
telefoniche, portieri che lo rimandano ad altri numeri, tut-tuut-tuut che
esprimono il vuoto di volontà, l’assenza di volontà e la totale mancanza
di volontà. Un tu tuut un po' diverso lo illude per un attimo, ma è solo il
segnale della latitanza della volontà. Ed un teeeeeeeee finale gli dice che
la scheda si è esaurita.
La volontà. Chissà cos'è.
Scoraggiati ritornano a casa, sperando che le merde abbiano smesso di
sfracellare volpi e che la grandine di piombo abbia cessato di frantumare
tegole. Nulla da fare. La rumba è proseguita in loro assenza, ed ora è uno
show down snervante di schioppettate, latrati, ciò burdèl e piombo a
sfare. Servisse almeno a fertilizzare i campi.
La legge se ne infischia ma non è colpa mia, né della volpe, si
giustifica Leo, giuro che non volevo, questa doveva essere una
scampagnata, desideravo solo stare un po’ con lo zio. E innesta lo
sciacquone del suo giro prefrontale. Senza tante pippe ulteriori.
Zip, zap, stracciaboom
Nella minuscola radura in cui trovano rifugio gli ultimi gatti vivi della
zona si materializza un branco fumigante di cinghiali, ruttati dall’inferno.
Devono essere almeno un circa venticinque, con lunghe zanne ritorte
acuminate, spaventose. Baluginanti e parecchissimo incazzate.
Il capo branco ha in testa un chepì stazzonato dell’Afrika Korps e gli
occhialini da saldatore di Rommel, al collo un fazzolettone giallo.
Impartisce ordini a gesti secchi, in silenzio. Sembra un mafioso a
colloquio con la moglie, si capisce che è avvezzo al comando. La coda a
ricciolo, che sovrasta un ano eiettante lava, è grossa quanto un polso e a
strisce gialle e nere. Sulle natiche crudeli una cicatrice bianca a forma di
palma. Afrika Korps.
Leo piange di gratitudine.
I cani abbaiano impazziti, e sono i primi a cadere tra le biolche,
ritagliati in coriandoli.
«Ciò burdèl!»
Le doppiette impazzano, ma i cacciatori, uno ogni cinque cinghiali
(finalmente uno scontro alla pari), si trovano prestissimo configurati in
versione Stelle Filanti. D’altronde il periodo di carnevale è quello, e i
conti tornano. Zio e Nipote rimangono illesi, benché i cinghiali gli siano
passati a razzo tra le gambe per andare a compiere la missione
massacratora.
I partigiani, così come sono apparsi, a festa finita tipicamente
scompaiono tra le frasche, e sul terreno rimane un’accozzaglia di
cartucce, collari, berette, franchi, bernardelli, galosce, materiale
cerebrale. Tutto molto rosso, tutto molto giusto.
«Domani ci passo sopra la motozappa, e pianto i fagiolini», dice lo zio.
«Andiamo, facciamoci un tè di collina, me n’è arrivato di ottimo dal
Kenya».
Il nipotone, con la testa che gli sdindona e sburlona come un diapason,
accetta con piacere. Ma prima si vomita sulle pantofole.

Peli di Natale

Il cuore ecologista di Leonardo si angoscia e accascia per un altro


abominio medievale che sopravvive nell’era dei modem, dei cellulari e
degli X-Files: l’abitudine preistorica di scuoiare animaletti in funzione
anti gelo.
Le montedison del mondo, di schifezze sintetiche con cui sostituire
pelli e peli animali ne hanno inventate a pacchi: l’Uoma però non riesce
a fare a meno degli input della Moda, delle aste televisive e della vicina
di casco.
Non appena la temperatura inizia a scendere, e la compagnia del gas
inizia a stangare con le nuove tariffe, la Cretina dissangua le risorse
economiche dei partners, arricchisce assassini e spacciatori di ermellini,
e cagnola di peluche sfila per le vie del Paese a culo ritto.
Le pellicce succedanee stentano a decollare: il pelo finto si vede che è
finto, e poi fa plebe. Le Amiche potrebbero pensare che Marito non
possa omaggiare Moglie al Meglio. Si tagli dunque la testa al toro e a
qualche centimigliaio di cincillà. Pelo vero, solo in te io credo.
Per le fighesse del Duemila, sorde e cieche alle fochine sfracellate a
legnate, la pelliccia è un must come gli altri: marito, BMW\Mercedes,
vacanze a Cortina e a Porto Rotondo, messin piega tre volte la settimana,
adozioni a distanza -cinquanta dollari ogni sei mesi per un impiastro del
sud del Sudan con le mosche affogate nel moccio. E basta, finiti gli
appetiti e gli obblighi. Non siamo cattive.
Leonardo è morso da una struggente nostalgia di vetriolo, ogni volta
che passeggia sotto i portici del Pavaglione in prossimità del Natale.
Nostalgina Gocce, usare senza cautela. Lo sturbano gli ettari di mamme
lontre, zibelline, ocelotte, linci, foche e astrakane private del cuore, delle
viscere e delle aspettative di vita, a ricoprire i cuori, le viscere e le
animacce nere schife della Donna Moderna Bulagnese. (La D.M.
Sassuolese è solo un’impressionante associazione a delinquere di
smorfie, depilazioni sbagliate, palestra e ingoi, che non mette conto di
essere considerata. Ha chiuso, con quella roba. E' dal piastrellificio delle
analfabete, che ha chiuso. Chiuso l’inciso).
Ogni volta che vede sfilare una DMB, giovane, bionda, in borsetta
coccodrilla e zeppe tetraplegiche, dopo un primo inevitabile momento di
arrazzamento sente forte il desiderio di una trappola da orsi al tungsteno
canadese rugginoso.
Ma, accidenti, Leo non può fare a pezzi la gente, soprattutto verso
Natale e sotto il Pavaglione. Deve averlo letto da qualche parte. E' quindi
obbligato a far voti che prima o poi da una viuzza salti fuori qualche
manesca scheggia impazzita della CAMST (Club Animalisti
Massimalisti Sfiguratori Troie), che dipinga a strisce viola e verdi la
buccia ignominiosa di quelle scrofe senza onore, o versi loro addosso
una tanica d’acido muriatico.
Non accade mai.
E siccome non c'è limite al peggio, il massimo dell’orrore lo prova
quando incappa in un uomo con pelliccia. Sono così kitsch, retró e
obsoleti, nel loro stile pappa anni Settanta, o commissario busone stile
Uno Bianca, che gli si accende un sorriso di pietà.
Inizialmente ha provato il vecchio metodo: fialette punitive. Ne ha
usate, osse n’ha usate, ma e però sono adatte soprattutto in ambienti
piccoli, oscuri, in cui la manomorta della Giustizia possa infierire
inosservata, ad esempio sugli autobus, nei cinema, nelle cabine del
telefono, negli androni. Non sono adatte a spazi aperti, ad es. il
Pavaglione alle quattro del pomeriggio. Qualche volta, soprattutto nella
ressa del sabato, quando contadini, borsaioli e commesse scendono in
città per il rito dello spingispendi, il contenuto di una fialetta è sì stato
sparso qua e là, e ha dato i suoi bravi frutti: “Improvvisi attacchi di
grattarola anche sotto il Pavaglione. Una micosi portata dal Senegalese.
Se abbiamo finito di pagare i Tornados, usiamoli”. Ma a Leonardo non
basta. Non può bastare. Non è mai bastata. Leonardo non è uno che alzi
bandiera bianca.
La vigilia di Natale, questo Natale, s'è ricordato che deve fare il
regaluccio obbligatorio ai suoi colleghi della G.O.A.; l’opulenta Bulagna
é diventata Dallas, ed è costretto ad affrontarne le torme in fattanza da
shopping, mandrie braccate e saccheggiate da branchi di professionisti
dello scipping.
Dopo aver sbattuto centomila volte contro centomila banchetti di
torrone, orride palle di cartapesta, statuine presepiali di plastica,
zampognari di Sulmona, confettieri di Sulmona, quindicenni scappate da
Sulmona, finti babbi natale, vere mani zingare, mani tunisine, mani
tossiche, mani scabbiose, raccoglitori di firme per l’Iran, venditori di
biglietti della lotteria, lettori di tarocchi e famiglie in ansia da compere,
deve, deve per forza, DEVE soddisfare i propri Bisogni Urgenti: un
Nemico, o morirà.
Uno. Uuno, cheppàghi per tutti, cazzica. Qualche minorato in pelliccia,
magari.
O UNA.
Una.
Sarebbe.
Magnifico.
Ei. Eccola là. Ei, è perfetta. Che città. Esprimi un desiderio e paf, eccoti
esaudito. Che città.
U- una scrofa platinata, polpetta da casinò e da casino, la dotazione
standard dei Grandi Calciatori. O forse il sorello di uno stilista calabreso
dal culo spampanato a pistolettate? Comunque anelli e collane d’oro e
diamanti sparsi in ordine sparso; borsetta di coccodrillo in una mano; di
vuittone nell'altra mano; scarpacce nere a spatola di coccodrillo; calze
grigie fumè; caviglie sottilissime e tatuate; naso appuntito rifatto tre
volte, labbra streppate di silicone della Monsanto, Divisione Puttane;
pelliccia di candida tigre siberiana, spettacolare e autenticata. Sta
strillando nullità nel cellulare, mentre osserva senza vederla una vetrina
di gioielliere. Ha già tutto, in triplice copia, come le malattie che cerca di
tamponare con fatui antibiotici.
Pan si fa sentire, con la vocina di uno che muore. Voce stanca, voce
smarrita, col tremito del batticuore:
«È il Bianco Natale. Come i nostri peli, ieri candidi, oggi rossi di
sangue. Eravamo una felice famiglia che sbranava pecore e dersi uzali
nei boschi attorno ad Irkutsk, ed ora guarda come ci hanno chiavati a
shmièrt. Ti prego. Vendicaci. Spasiba. Dasvidania. Casvidagna.
Spaccagli le noci ».
È la prima volta che Leonardo ode le vocine. Si sente come Gianna
d’Arco alla battaglia di Patay: sarà cosa santa e giusta sterminare le
porche che hanno vinto la battaglia del patè? Soccia sì, risponde Gianna,
ti vuoi muovere?
Zip, zap, stracciaboom
I peli che avvolgono Sorkella Kalabra prendono vita. Si rizzano come
aculei e, per qualche inspiegabile motivo rizzico-aculeico, la pelliccia si
trasforma in una famiglia molto furibonda di enormi felini siberiani che
cominciano con bella foga a succhiare il silicone della piccionazza.
Nessuno fa in tempo a reagire o a prendere una posizione corretta
sull’argomento: meglio aspettare cosa dicono gli americani.
Le tigri scompaiono presto, assieme alle labbra finte di cui si sono
cibate. La merda platinata, ora merda nuda, colando lenta ai piedi di una
colonna esibisce un sorriso osceno da merda lebbrosa, vasto di gengive
schiavardate. Tenta di toccarsi la faccia ma muore stupefatta, sulla stessa
tavella in pietra serena da cui per trent’anni Padre Barella ha sollecitato
invano spiccioli per i suoi piccoli.
Leonardo con un fatuo gesto di vanagloria fa incorniciare la prima
pagina del Resto e se la piazza in salotto. “Stilista calabresa travestito,
moglie di noti giocatori della nazionale, morto/a per prolasso labiale.
Trovata la ricetta per chiudere con il calabrese?”.
Il lobo frontale gli si sta colliquando, ma Leo è indubitabilmente al
settimo cielo. Forse magari l’ottavo.

Tivvù

Leonardo detesta la fogna TV. Ogni volta che l’accende nel giro di
dieci secondi trova motivo e ragioni per tirare calci.
I suoi nemici catodici sono così numerosi che solo a metterli in ordine
alfabetico farebbe Pasqua e Pasquetta. I quiz, innanzitutto, li proibirebbe
per legge perché sviluppano nell’unterproletariat una sottocultura
enigmistica. E poi le tangenti che si beccano i giornalisti nel lodare i
pregi di un tappeto rubato o di una pentola attaccatutto. Non sono già
strapagati? Non basta, per la tv di Stato, il canone? Non sono già
abbastanza alti i prezzi dei tappeti dubbi e delle pentole senza coperchio?
Leo non ha tappeti, solo uno di legno antiscivolo nella vasca, e i suoi
tegami sono stati sformati a martellate durante accessi d'ira in prima
serata.
Il vero Belzebù si transustanzia e appalesa nelle trasmissioni il cui filo
conduttore sono il Cuore Innamorato ed i Casini che è capace di
scatenare. Quando Leonardo è assaltato da coppie che fingono di litigare,
che si amano si lasciano si ritrovano si piangono addosso, che si sposano
in abito bianco, che provocano dibattiti tra i giovani e la ggente, e che,
soprattutto, beccano gettoni di presenza per esibire le loro sconfittine
condominiali, va in down da napalm, ma anche dell’azzurro kerosene da
stufetta sarebbe apposito. Sogna ad occhi aperti di entrare nello studio di
registrazione e in diretta rifare il Soldato Ryan, con se stesso nella parte
di un lanciafiamme che non salva nessuno.
Nel corso di trasmissioni giovani, genere conduttrice che corre per
strada intervistando i nulli sul loro nulla, Lenny perde catrame.
«Vada in miniera, Signorina Pompina», aveva intimato una mattina alla
scema zampettante che aveva beccato proprio lui mentre camminava e
odiava in Via Indipendenza. Signorina aveva spento il microfono e
intirizzito il sorriso, ma era subito tornata a saltellare come una pallina di
gomma acefala, come ogni pallina del mondo, rimbalzando giuliva tra
piumini neri, denti verdi, etti di brufols e chili di gel. Chisse ne frega, un
vecchio matto cè sempre, trallalà trallalà.
Lo inquietano moltissimo anche le cosce e le chiappe catodiche. Sa che
quelle groppe e quelle lombate e quei girelli, e lonze, e marghette, e
selle, e polmoni e lombi, così elastici e irraggiungibili, sono violenza,
fanno male: nella vita quotidiana, per strada, al lavoro, nessuna
segretaria o profumaia offre al tuo morso anche solo un centesimo di
quei tagli polposi. L’offerta televisiva di vacche non corrisponde ad una
reale disponibilità di vacche. Peccato. Stizza. Dispetto. Turlupinatura. Tu
- turbativa di mercato.
Leonardo praticamente tratta solo con maschi sposati, e tra questi ben
pochi sbananano fuori dal Sacro Recinto della Famiglia; i più solitari
fanno come si faceva prima dell’arrivo della tecnologia. S’amano a
mano. Assoli da soli.
La bistecca in tv, dunque, è pura provocazione. Sarebbe meglio un po’
di oscurantismo, nel senso preciso di schermi neri, all’araba. Occhio non
vede cappella non fischia.
In un altro file della cartella TV ha raggruppato le trasmissioni
scientifiche condotte da riciclati che, non avendo trovato posto come
ballerini, si sono dati all’informazione settoriale: rubriche mediche,
ecologiche, letterarie. Diiiiiiiiio, i reginetti dell'inchiestistica dotati di
cultura medio-bassa e saccenza manicomiale. Dolore.
I salotti condotti da vecchi politicamente corretti, ma circondati di
gnocca, da vecchi piduisti politicamente scorretti, ma circondati di
gnocca, da giornalisti democristiani moralmente corrotti pieni la faccia
di nei, ma circondati di gnocca, fanno sragionare Lenny. P-per tutte q-
quelle mutande, caviglie, tacchi a spillo, minigonne ascellari e rossetti,
non p- per altro. Dolore.
Lo sport chiacchierato costituirebbe una ragione a sé per sfoltire
l’universo. A lui non frega mezzo atomo di come la pensi l’allenatore
dell’Empoli. Pensa solo a come sarebbe bello vederne gli atomi
esplodere su Empoli. Scampoli di Empoli. E giù ‘na risata. Poi piange
lunghi minuti, a singulti parossistici e latrati da Salpetrière. Dolore.
Gli scemeggiati con le gesta delle commesse che vanno avanti eroiche
nel quotidiano, e i muretti irti di Ragazzi e Ragazze che s’affacciano
proprio adesso alla Vita e guarda caso un regista era lì ed ha filmato
tutto, e le saghe dei marescialli commissari ispettori appuntati preti
single o a coppie, gli si rivelano per regola come posti di lavoro
socialmente inutili concessi a pentiti e partiti. E ai figli di Tognazzo, che
chiavava come un matto ma non si preoccupava dei danni all'ozono.
Come Gasmen. Come Dario Argenta. Come la Sandrella. Come Dapporc
- sbblluuòkk.
Stipendi spacciati per arte. La mistica, e la truffa, della ficsion vincente.
La bella creatività italiana contro le povere maggiors ollivudiàne, via
Teulada contro la Paramàun. Dolore.
A Leonardo rimane ben poca tv. Qualche film (ama quelli digestivi di
Schwarzy, che dopo cena ripuliscono il mondo dalla feccia, e quelli di
guerra, che lo allenano a ripulire il mondo), i telegiornali senza mollica,
qualche documentario davvero scientifico (apprezza al giusto grado lo
sbattimento del ricercatore che si è fatto cinque mesi in trincea per
beccare il secondo in cui la scorpiona siringa duemila uovi nel lucertolo),
molti cartoni animati (per fortuna quelli ungheresi sono stati travolti
della cadutaepocaledelmurodiberlino e stritolati dall’Avvento di
Bartholomew “Jo Jo” Simpson), gli spogliarelli notturni coi numeri
sotto. Quando arriva Blob scatta a cercarsi qualche canale turco o arabo,
trova patetica la TV che critica la TV e Giorgio Chezzi che si specchia
coi suoi sproloqui sull’occhio e sullo specchio come doppio dell’occhio.
Tutto il resto, sostiene in serrati soliloqui, è un’offesa ad Adamo, ad Eva
e al Serpente di Adamo quando s'ingolfava nelle mele di Eva per fare
mezzanotte.
La pubblicità, infine, che pur gli dà da vivere, gli fa crepare il soffitto
dalle bestemmie. Appena riesce ad immedesimarsi in un azione o in un
personaggio, arrivano le merendine, i gel per i peli di sopra e di sotto, le
auto che non riuscirà a desiderare mai, gli attaccatutto da dentiera, le
sedicenni mestruate che gli gridano chiocce «EVVAI», l’olio senza pari
tra colline e casolari, Ogni Cosa Noi Facciamo, oooh la bell vì, sansusì,
sansamùr, sanproblèm sanproblèm saan problèèmo. Il giorno che
diventerà Regista Famoso consentirà la proiezione delle proprie opere
solo a quelle emittenti che dopo aver immolato agnelli e primizie e
vergini gli giureranno per iscritto dieci volte di seguito: “Con la presente
siamo a confermarVi a indici crociati e baciati che trasmetteremo le sue
Quadrilogie da Camera senza intervalli per i brustulli, Meister. Firmato
Il Funzionario In Sevizio Mengoli Gino”.
È sulla scorta di tutto questo enfisema adrenalin-cerebello-coglionare
che Leonardo coltiva come imminente il giorno dell’Apocalisse, quando
i panni sporchi verranno al pettine, i conti torneranno, duchi e marchesi
pure e l’Arno, l’Aniene, il Reno, il Lambro, il Tevere e il Parma e il
Setta e il Busento e il Flumendosa e la Nera e il Topino e l’Ausa il
Marecchia il Conca il Pescara tracimeranno vogliosi di ben fare. Il
Lavacro. Il giorno della Vendetta senza Ammollo.
The Giornus.
È pienamente consapevole dei propri poteri fantalisergici, e sta solo
affilando la baionetta. Che cosa é la felicità - la sensazione del fatto che
la potenza cresce, che una resistenza viene vinta.

Al termine di una giornata lorda di slogan, Leonardo torna a casa,


stanco e alle corde. La lampada dell'ingresso si fulmina appena sfiora il
pulsante. La giacca dalla sedia gli scivola per terra. Monetine rotolano
sotto il divano. Riscalda le tagliatelle di mezzogiorno. Si scotta le labbra.
Commette l'errore di accendere la tv.
Un’adolescente dalla voce isterica afferma con partigiana convinzione
che «quella sensazione di asciutto tra le gambe mi dà un’enorme
sicurezza». Segue risolino, asciutto.
All’ora di massimo share, quella delle tagliatelle asciutte.
Leonardo SA che la sicurezza la forniscono i carabinieri nelle Ore
d’Ufficio, e i soldi in banca. Non gli assorbenti, semplice fluff di cotone
che non può tamponare alcun ragù dell’anima, abbia o non abbia le ali. Il
bon ton, inoltre, assimilato da disciplinate letture francesi, gli insegna
che bisognerebbe evitare certi argomenti a tavola, un po’ come le posate
incrociate e i biorumori.
Cambia canale. Telegiornale. Finalmente un po’ d’informazione.
Chissà chi ha vinto le elezioni brasiliane e il golpe birmano, si chiede.
Silenzio, adesso mi dicono come la pensano gli argentini sul buco
nell'ozono e perché i musulmani decurtano la figa delle donne e perché
se il papa lo sa non li fa gasare da Dio. Ssst.

«I principini di Windsor oggi sono stati dal barbiere. Il loro nuovo


taglio, ritenuto taglius orribilis dalla nonna, ha suscitato scandalo a corte,
e il Sun gli ha dedicato la copertina:
Yul Brinner ha cavalcato qui ?
Pure lui? »

«Monica ha deciso di tirare fuori dal frigo il tovagliolino da fellatio.


L’Autunno 1999 si avvicina, e i salotti della Washington bene prevedono
il nero maculato glacé. Nuove scuole di arte oratoria vengono aperte
nella capitale. “Bof, so già tutto”, ha commentato ore rotundo la
stagista».

«La signorina Natalina Estradata, in vista della gravidanza, ha deciso


che d’ora in poi passerà alla sesta. Fino ad oggi portava la nona. “È un
passo importante per me, e per mio figlio. Non voglio che venga su
viziato. Avrei anche bisogno di un marito, e in fretta, ma una cosa alla
volta”, ha affermato la stagista».
«Il professor fisico Zazzìchi dal suo rifugio sotto il Gran Sasso in una
nota manda a dire che gli servono altri trentamila miliardi per le ricerche
sul neutrino e sulla sincroluce di crotone dei busoni vettori W+ W-.
“Sono qui da qualche parte, li sento, credono di essere furbi poveretti,
ma ormai li ho in pugno. Poche spazzolate ancora, e vedrete che
raccolto. Non chiedetemi a cosa servono perché eravamo d’accordo che
non me l’avreste chiesto. Massimo venti/trent’anni, e la ricerca italiana
finirà sui giornali. Oggi sappiamo che la luna è di formaggio, ma per
domani, facciamo lunedì, serve altro foraggio. A me, beninteso, gli altri
crepino. Lo dico sempre ai giovani: prima io, poi voi, forse”».

«I tre nuovi album di Lorna Pausini, Behind the Green Lorna, Deep
Inside Lorna e Pausini goes Dallas, sono piaciuti moltissimo a Lorna
Pausini. Il nostro Ciccy Mòllica ha voluto chiederle come mai. "Come
mai, Laura, voglio chiederti?”. "Be’, diciamo che è soprattutto il grosso
coraggio insito dentro in queste tre grosse proposte che me le fa
apprezzare ambedue come grosse donne oltre che come artiste aperte
profonde e sincere, evidentemente, diciamo", ha rivelato un'emozionata e
riconoscente Lorna Pausini al nostro coraggioso Ciccy Mòllica. Ed ora la
Rubrica Economia, conduce Milton Fessman».

Sudori freddi. Gocce sul parmigiano. Una mano, forse la sua, proietta il
piatto contro il muro. La Rohrshachmell al ragù che ne deriva riproduce
Baal mentre strappa le budella ad un gatto rosso.
Monica viziata? Windsor economica? Neutrini al formaggio? I
reggiseni di Mòllica? Coraggioso?
La stessa mano impazza sul telecomando per trovare qualcosa di
decente. Leo, nauseato, lascia fare.

«”Signora, il prezzo del dentifricio è di 1900 lire, non 2700. Ha vinto


un milione, ma prima deve far girare la ruota. Ha girato la ruota? Ha
girato la ruota, aaamiciii. Su, tutti quanti un bell'applauso dalla regia,
EEVVAI”».

Le venuzze della fronte scodano elettriche. Dagli occhi colano sughi.


Archi voltaici di un bel violetto attinico ustionante gli sprizzano dalle
orecchie.
Zip, zap, stracciaboom
«Zan zan zan zan. Zan zan zan zandegù, gù gù gù de zan».
Dallo sfondo della trasmissione Momento Donna s’avanza in primo
piano il sonoro di un film porno ai supermocci. La conduttrice diventa
paonazza, e il mento tremulo denuncia il bisogno di singhiozzi e fuga.
Ma non si è professioniste a caso.
«Scusate amici che ci guardate da casa, abbiamo un problema. Il bello
della diretta, ah, ah, ah. Sentiamo dalla regia». Impugna un telefono ma
si vede bene che il filo è staccato. Penzola. Ci sono scintilline. Si gratta
una mammella e guarda nervosamente fuori campo in attesa di un
segnale, di un suggerimento, di qualcuno. Della giovinezza, magari.
Leonardo sa che di tantintanto i suoi poteri trascendono i limiti: il
mantra fatato si mette a fare lo spiritoso ed innesca situazioni
incresciose. La coscienza, se non la curiosità, gli impone di guardare che
cosa stia succedendo sugli altri canali.
«Hiii. Hii- hiiiiiiii. Hiiiii. Ai Ai Ai».
Eilà. Marella e la sua bestia, il giornalista con l’allegra faccia equina.
La dicitrice del TG2 in faccia è viola a losanghe gialle. Diobonino s'è
spinto piuttosto in là, ed ha voluto emanare a reti unificate una specie di
messaggio di fine anno, una serie inconsueta ma assai argomentata e
precisa di sessantanove zoologici tra Marella Francjese e tutti gli animali
da presepio, da cortile e da compagnia. Eccentrica la presenza di una
vischiosa medusa.
Dalla finestra aperta giungono risate, grida, mugolii, rumori di piatti
rotti, e qualche divertito gooool!
Babbi e mamme cercano invano di spegnere, sditalando come dannati
sui telecomandi, prendendoli a pugni o gettandoli contro gli schermi per
preservare l’integrità dei figli, che incollati al loro posto uso loctite non
vogliono perdersi il primo, vero Carosello scientifico della loro vita.
Alcuni genitori estremisti li mettono a nanna assieme alla sedia.
«Cosa sta facendo quella cignora col pony? Perché ha la faccia
bagnata? Come fa a crecere un fungo su un pony? I funghi non ciono
velenosi? Perché non muore?».
Impegnativi quesiti e difficili risposte, che presupporrebbero una
creatività maieutica fuori dalla portata di chiunque.
I televisori non si spengono in alcun modo, neppure strappando le spine
dalle prese. I babbi s’asciugano la fronte, Marella s’asciuga il sottogola
con una coda.
«Babbo, è una coda?»
Il giorno seguente metà della popolazione italiana assalta la RAI,
incendia edicole e lupanari, va in chiesa, scende nelle catacombe, inventa
nuovi dei, si dà nuovi riti, cioè poi sempre le vecchie cazzate.
L’altra metà si abbona ad Anal e all’Espresso, vecchia cazzata, e
compra pony. Le massaie fanno incetta di funghi nei banchetti dei
mercati. Disgustose scene nelle rivendite di creme
rinvigorenti\rassodanti, turpi episodi di accaparramento di pompe
sviluppanti il pene e/o di tiralatte. Il ministero della sanità è costretto ad
intervenire, a buttare acqua sul fuoco. La bella Rosy sostiene in
parlamento che è tutta una truffa, la sperimentazione non ha dato esiti, e
che al suo pony personale non ha procurato allungamenti apprezzabili.
S'affanna a spiegare che la casistica non può essere mai Statistica, ma
sono parole al vento. Parole di Rosy. Si sa chi la paga. Non è vero, alla
ChiccoRiccoMiCiFicco sono solo azionista di minoranza, proprio non
mi conoscete, ribatte con la tumida bocca generosa. Risatine generali.
Molte teste di pony della lottizzazione cadono, chiedendosi
chissàpperché e perchéggiammai.
“Scene disgustose alla tv. Riti totemici africani via etere. Diventeremo
tutti francjesi? Sul serio?”.
Leonardo, recuperato il cranio da sotto il divano, o almeno i pezzi
principali, guarda e riguarda la cassetta che ha registrato.
Erpes

Lenny apprezza l’uno per mille della musica italiana - qualche brano di
Endrigo, De Andrè, Battisti, Battiato, Dalla, Alma Megretta, e detesta
tutto il resto. Per lui non è musica, ma scoreggianza troppo pagata,
troppo riverita, troppo intervistata, troppo troppata. Aria di fogna sul mio
bel viso. Centro d’idiozia permanente. Mare nero, mare nero, mare né.
Il boss della G.O.A. gli assegna un lavoro gravoso ma remunerativo:
curare l’immagine del nuovo disco di Erpes Ragazzotti, idolo delle
giovani. I suoi fatturati, con vendite da capogiro in America Latina,
potrebbero sanare il deficit dei partiti. L’agenzia è molto interessata a
questo cliente facoltosissimo, e per curarlo ammodino ha spedito il
migliore in batteria: Lenny dovrà inventare un titolo vincente per la
nuova presa in giro di Erpes, il suo nuovo cd, cosiddetto disco.
Per fare ciò dovrà annusare, assorbire, fagocitare l’anima vera
dell’Artista durante le sue esibizioni e, infine, produrre uno slogan
sgangheraculi che caghi moneta. Sai la moneta? Be’, quella. Cagarla. A
pacchi. Siamo sotto. Va e uccidi.
Lavoro facile solo in apparenza.
Leonardo rigetta pinnacoli arancioni ogni volta che sente quel falsetto
nasale menarsela sull'amore. Prova orrore per il suo passato e presente e
futuro di coatto romano, le sue dichiarazioni alla stampa, le tube ai suoi
matrimoni e, soprattutto, la sua “musica”. L’unica cosa che ammiri di
Erpes - oltre i soldi - è il popò della moglie, una giovenca da stiancare i
sassi.
Condimento a parte, un incarico così è duro da digerire, ma va accettato
a fronte alta e cantinpetto, mordi la pallottola, getta i cuorglioni al di là
dell’ostacolo e insomma l’impossible mission ha da esser portata a felice
compimento: i veri uomini son usi tarare la propria tigna sulla grandezza
dei nemici, e del fuori busta a fine missione.
Il primo incontro Leo lo trova molto faticoso. Per il romanesco parlato
dall’Anatra avrebbe bisogno di sottotitoli e traduttori dell’ONU, per il
sorriso della moglie bisognerebbe essere gay spanati.
«Ahò, felice de cogniòscete. Sò Ragagnotti Erpes. Ragagnotti, presente.
Erpes, pe’ l’agnìci...»
«Piacere, Leonardo de’ Carolis, della G.O.A.».
Segue una forte stretta di mano. Leonardo le stringe sempre così, odia
quelli che concedono la mano lessa perché gliela si baci. Erpes, invece,
stringe forte secondo una vecchia usanza: in gioventù era portastendardo
e coppiere della Sez. Colle Oppio della Fronte Bassa della Gioventù
Laziale Giallorossa “É bella l’Alba dopo una Notte di Burrasca”. Tra
camerati non erano ammesse manine sinistre, e il vizio gli è rimasto.
Per venti giorni Leonardo dovrà seguire, a bordo del tourpedone della
troup, il tourpe di Erpes sulle principali piazze italiane della musica
leggera di successo e cassetta, Lucca, Ladispoli, Morciano di Romagna,
San Giovanni Rotondo, San Giovanni in Lupatoto, Carcilupo, Masseria
Lupotto, Macerata, Carate Brianza, Pachino, Morano dei Tedeschi In
Ritirata Massacrati a Zappate Per Usufruire Le Loro Belle Scarpe,
Casalecchio di Reno, Bastardo, Nola, Mola, Pola, Ruvo di Puglia, Isola
Dino, Scurcula Marsicana, Sesso, i Sassi Di Matera, Masseria Ravanusa,
Sala Paruta, Sala Consilina, Sala Manzù in Vaticano. Spera di resistere
sino al termine senza andare in escandescenze: estrarre la spada dalla
guaina significherebbe venire estratti a calci dall'agenzia. Non gli
servirebbe.
Leo vive per qualche istante la felicità degli Artisti. Alloggia in un
grande albergo di Lucca, prima tappa della via trucidis. Beve bira, sona
‘na chitara, e rilascia autografi pure lui. Sniffa coca e cameriere nel
Grand Hotel Torre Guinigi. Una vita spericolata senza tetto né legge. E
per sua fortuna smaccata, senza herpes; probabilmente os Santos di
Bahia gli tengono ancora una mano sul capo.
Arriva la sera della prima, e Leonardo è stupito dal fatto che le giovani
arrivate in massa non vestano altissima couture e siano prive di mazzi di
rose rosse da proiettare all’Artista.
«Maleducate», pensa. A Milano, che è una città davvero chic, alle
prime fanno così. Qua invece qualche cassintegrato al cromo arrivato da
Santa Croce esige visibilità con uova dispettose e diverse monete da
cinquanta lire, però è un rituale ormai consolidato, ci si potrebbe regolare
l’orologio. Siamo o non siamo nel profondo Sud?
Le fan sono sui quindici anni e in calore. Le tonnellate di piercing,
sballonzolando all’unisono nello stadio, provocano già di loro un ritmo
niente male. Cing ka-cing, cing ka-cing, ding kalind, potrebbero essere
ruote della preghiera o una batucada brasiliana. Sonagli a parte,
Leonardo è allucinato dal prezzo del biglietto: cinquantamila per sorbirsi
un’ora e mezza di orrore? E chi paga? I babbi? Una figlia così
cinquantamila cinghiate a sangue, e fila in camera tua o arriva il resto.
Attenta a come mi guardi.
Il costo del biglietto per Lenny non è un problema. Il suo incarico lo ha
fornito di privilegi preclusi ai mortali: può rubare i cioccolatini
bianchisecchi dal frigobar della sua stanza d’albergo, può fare shopping
in centro e bere tutta la birra che vuole, e alla sera può vedersi tutto
gratis. «Solo gnion guarda' pe' ppiù de du' secondi filati er bucio de mi’
moje, gniamo 'ntesi? Tò sgamato, fregnò», ha intimato Erpes al
primissimo tavolo di contrattazione, quando le clausole sono state messe
ben in chiaro e le occhiate di Leo, cappellarmente esplicite, messe al
bando.
Ma i bonus non sono finiti. Può perfino stare dietro le quinte, per
meglio osservare/studiare il Soggetto Committente mentre siringa la sua
Arte d’Anatra nelle adolescenti su di giri e giù di cervello. Leonardo li
ama, i palchi: lui può stare sopra, il popolo ha da star sotto, in nulla
migliore di Lui, Lui Migliore di tutti. La Geografia della Giustizia. La
Giustizia della Geografia. Lo fa impazzire giocherellare con la Vittoria e
intanto pensare puttanate.
Plim, plom, plaaaaaaaaaamm.
«Uaaaaahhhh!!! Erpeeeeeessss!!! Erpe Erpe Erpe Eeerpesss».
La folla è in follia, e in prima linea cadono subito le prime dieci
volontarie dello Svenimento Rituale. Estratte dai body builders del
servizio d’ordine, sono buttate in una pattumiera semicingolata. Le note
di un pezzo famoso, Più Bella Gnosa - segue boato - inaugurano la
serata, e l’art director Lenny tara le frequenze del proprio cervello
sull’Arduo Compito. Mette a punto e a fuoco. Mo’ se lavora.
Note Giovani? Note Giovani e ribelli? Giovani e Ribelli? Belli noti e
rinoti? Belli e giovanoti? Gniovani, con lammusica gner core, ebbelli?
Mmmm. Il penultimo farebbe imbestialire la concorrenza. L’ultimo
magara risulta un filo dialettale, in Padania potrebbero calare le vendite.
Aumenterebbero però a Torrinpietra, Tor Marrangio, Hostaria, Tivoli e
La Tina.
Mmmm, non so, mah, chissà, vedremo. Devo controllare all’anagrafe
se ci sono più sciroccati al nord o al centro, quale tribù conviene
scaricare, o se è meglio mungerle tutte a sangue. Bof. Mmoh. Decisioni,
decisioni, checca sino.
Con l'avanzare serale della prestazione professionale dell'Artista,
Leonardo, benché professionalmente applicantesi pure lui, capta che
qualcosa non va, c'è un quid sotterraneo che lo fastidia, registra un
gironzolìo di pressione non programmato. Sulle prime si sente agitato,
non capisce che cosa sia, cavoli se sto male, cosò, guarda come tremo.
Epperché sudo così.
Ah, ma poi capisce, ecco cos’era, eeeecco cos'era.
La vocina d'anatrina dell’Agnatra!
Qualcosa sotto lo sterno si libera e rulla. E non sono i rullanti della
batteria. Sono quelli delle coronarie. E poi, bum bum ratabum, bum bum
ratabum, nella borsa pallica si inizia un cake walk uànstep, genere
cinquecento caubois corolle innamorate che in quadriglia pestano con gli
stivali ricamati sul piancito in bois de rose della loro sala da ballo da
corolle innamorate. Sì, ma adesso c’è da lavorare, Leo, piantala con le
similitudini arzigogolate. Stai bum bum buono.
Dopo il terzo pezzo Moje passa tra le quinte per qualche secondo,
ondeggiando. A Leonardo vengono in mente molte cose. Gli si avvicina
sorridendo, chiede «Come te va? Ce sò probblemi?» Con un mignolo
unghiuto disincastra dal diastema inf. una cosetta verdina, che poi con
arco elegante proietta verso la folla: fate magnà me e l’omo mio, me pare
ggiusto che ve ridò almeno i resti.
Lenny freddamente, con educazione da bancario, comunica il proprio
stato: «Me sto a rompe li cojoni, bbella». Vorrebbe dire e fare di più, ma
il contratto e la stretta d’Erpes non consentono quella familiarità
amichevole che in altre occasioni l’hanno ricolmato di soddisfazioni e
creste di gallo.
«Ahahah ahah. ’Mazza, so’ fforti, ’sti torinesi», e se ne va. Il passaggio
del feticcio sorcale, ma soprattut. la sua battuta gli fanno lievitare
ulteriormente la pressione, ma un nanetto rannicchiato dentro la buca del
suggeritore, dritto davanti ad Erpes, attira improvviso la sua attenzione e
lo distrae un attimo dal bumbum rottobum in accelerazione. Chi è? Lo
vede armeggiare sudato con foglietti e microfonone. Che cavolo sta
facendo? Non è un tennico del suono o delle luci, né un turnista della
band. Non l’ha mai visto prima. Che sia un attentatore? Un fanatico della
Buona Musica? Un pasdaran di Pava Rotto?
Leonardo non è uso discutere più di tanto con curiosità esistenziali, e
strappa il binocolino al portinaio del teatro, anche lui lì dietro ad
ascoltare e spiar gratis, col suo grembiule nero. Piattola. Lottando aspro
con lenti in plastichina da uovo pasquale riesce a mettere discretamente a
fuoco.
È il nanetto, che canta! Bestiale, Erpes sta solo facendo finta.
Eccolo, il Playback. Il bestiale Playback!
Eccola, la fragranza del Reato! Bestiale.
Ecco spiegata la vocina da rospo. Ecco il segreto del successo, degli
Award dei tedeschi, poveretti.
Brividi caldi e freddi si alternano lungo i meridiani di Leonardo. Cielo
ciellino, che sensazione di potere! Può sputtanare il Re delle Agnatre
quando vuole! Far crollare l’intera caccosa industria discografica!
Milioni di disoccupati a incendiare le camere di Commercio! Deludere
miliardi di fans! Suicidi rituali per le strade! Forse anche saziar d'oca la
moje divorziata dell’Agnatra!
Che cosa è la felicità - la sensazione che un idolo sta per crollare con un
gran Paf Bum!
Questa agnizione naturalmente non migliora la qualità musicale della
serata, non si deve mai chieder troppo alle agnizioni, perciò al quarto
pezzo doppiato improvvisa escalation della temperatura e del tamburellìo
Leonici. E poi dell’attività biliare sua, e peptica, timica, surrenalica,
cerebrale e per la prima volta su questi schermi, nello splendore della
Vengeange 45 mm dum dum, anche cerebellare. Riconosce
immediatamente una cover per la quale troppe volte in autobus aveva
silenziosamente dato del KORNUTO a Creato e Creatore. Note volgari,
frasi da merceria, litanie zingare, concetti da pisciatoio. Amori
contrastati, tremende cinghiale contente di esserlo, amici che ne approfitt
Zip, zap, stracciaboom
Il nanetto viene eiettato dalla botola e, cantando a squarciagola, si
piazza di fianco all’Idolo ammutolito. Gli arriva alle ginocchia, ma la sua
voce la riconoscono tutti, tutti capiscono il maccherone posto in essere e
mandato a effetto per tanto tempo. Ad ogni modo lo sgorbio, per non
ingenerare troppi conflitti d’attribuzione, senza smettere di cantare spara
una testata da cobra allo scroto di Erpes, che smette di respirare,
sorpresissimo e celestino. Più dolorosa gniosa non c’è.

Silenzio in platea.

Silenzio.

Un colpo di tosse lontano. Un tubercolotico che straccia il cazzo c'è


sempre.

Silenzio.

Gli occhi del cielo e della terra sono ipnotifatti e fissano la faccia del
nano. Gli accendini però rimangono accesi, e non sono i funerali di
Scalfaro: tutti vogliono vedere. Ve-de-re, no omaggiare. Gli omaggi
dopo. Li stiamo preparando, solo un attimo di pazienza.
Un sorriso insultante deturpa la faccia di Erpes, mentre la sua vera
vocina, insulsa, fessa, stonata, così - così insufficiente a petto di quella
già stomacante del nano, come d’incanto viene centuplicata dai
microfoni dell’intera regione Toscana: «Pacco! Pacco! Pacco! Pacco,
pacco, pacco!» sgranaglia e rivela rospesca.
Dalle ultime file sorge e sobbolle un sordo, incredulo interrogarsi. E’
un muggito ancora timido, incerto, insicuro di sé, dell’abominio
perpetrato, delle contromisure che bisognerà pur porre in atto: non si
citrulla una generazione, così, tanto per citrullare.
«Pacco? Paacco? Paaaaacco?».
«Ma gnìì. Gnììììììììììììì. Pacco pacco pacco, piuggniànde paacco
gniògnièèèèè», conferma volentieri Erpes; lo sgorbietto conferma anche
lui con cento sissì, sissì, sissì di testa, e riprende a cantare ma è interrotto
dal lancio di tutti gli ortaggi falloidi lunghi e duri che madre natura è
riuscita ad inventarsi. Pare di essere alle Termopili, il cielo e i riflettori
sono oscurati da pacchi di zucchine, carote, enormi roteanti melanzane,
asparagi, rudi cetrioli, cardi dei campi. Anche sedani. Certamente frivoli,
col loro tutù verdino, ma se ti entrano di traverso dove devono entrarti,
poi me lo sai dire il dolore.
E di dolore Erpes ne prova tanto, scipita statua di sale, condita nelle
parti più intonate dalla violenza vegetariana del popolo, che quando ha
mira, volontà politica, certezza del diritto e proiettili a sufficienza, come
dire, ce coje.
Il surrogato rospoide non gracida più, crocefisso ad un amplificatore
Farfinta®"! da due carote che in entrata gli hanno sfondato le orbite e in
uscita la nuca piatta.
Leonardo ci pensa e ci ripensa, e decide che stavolta probabilmente ha
esagerato. L Artista non meritava una fine così, non più di quelli che
comprano i suoi dischi, ecco. L’Agenzia fra l’altro l’ha spedito in
missione per fatturare, creare reddito, incrementare sopravvenienze,
falciare accantonamenti altrui, mantenere vitaminico il surplus di cassa,
tonica la fitness bancaria e NON, ripetesi NON, per armare casini e
distruggere il Cliente, che modo è? Sì va bene, ho capito, ma un Uomo è
un Uomo, ugniagniatra ugniagniatra, e fra l’altro sfido chiunque a
risalire fino a me. Chi mai potrebbe? Io sono fantascienza, io sono
iperboreo, io sono il posdomani, ma già da stasera infrango culi. Formula
della mia felicità: io ti do una bastonata, tu la prendi. Obiezioni? Eccoti
un’altra bastonata. Obiezioni?
Il mal di testa che l’insegue fino a Bulagna lo fa sentire un po’ in- in
traveggole. Be’, per un paio di giorni. Poi tutto passa, e i radicali libberi
se ne vanno, leniti da significativi minestroni alle gracidanti raganelle.
Non gli interessa la prima pagina del Calzino. Ci ha avvoltolato cardi, un
po’ di carote, asparagi, raccolti al concerto. Con quel che costa la
verdura antiossidante oggi...

Problematiche fòlbalistiche

Leonardo tiene nella giusta consideraz. il calcio giocato, non quello


chiacchierato. Da piccolo apprezzava prendere a calci la palla: oltre a
sfogare i nervi, trovava quest’attività fantasiosa e formativa, ed era tutta
una rizerca personale sul come ravvivare gli stinchi degli amichetti con
nuovi e più dolorosi lividoni. Poi gli anni passano, gli amici
INGROSSANO, tu rimani come sei, la musica finisce e ti ritrovi
ardairector. Checci vuoi fare?
Gli stadi, tuttavia, non gli sono mai piaciuti. L’unica volta che ci si è
avvicinato è stato per una campagna pubblicitaria. La G.O.A. gli aveva
affidato la creazione di uno slogan per una Pubblicità Sociale, che
contrastasse la scarsa propensione degli italiani a voltare le pagine dei
libri, e in questo senso quale luogo migliore di uno stadio? Leo però si
era limitato a rimanere all’entrata, ad osservare i celerini mentre
regolavano gli ultras coi manganelli animati, e nel frattempo studiarsi i
versi e i grugniti che uscivano dalle bocche degli uni e degli altri. C’era
molto materiale cui attingere.
Lenny era tornato in agenzia con un bel menù di slogan, ma gli erano
rimaste impresse le facce vacue, tifose e feroci dei manganellati, e la
cocainica ferocia e vacuità celerina negli occhi dei manganellanti.
La sua repulsa per il calcio-chiacchiera la mattina trova concretezza
simbolica nel giornale rosa sotto l’ascella dei lavoratori e dei pappa.
Lenny non è mai riuscito ad andare oltre la testata di quell’organo. Ogni
tanto, per fare il normale, per capire che cosa si provi a respirare l’aria
degli altri, ha tentato di partecipare a discussioni già iniziate sul perché e
il percome il mister A sia più brocco del mister B, ma con scarsissimo
successo.
Non appena si va sul tecnico, e si affrontano le tattiche di gioco da un
punto di vista filosofico, Leonardo entra in apnea. Per lui l’unica tecnica
plausibile consiste nel fare un gol più del nemico e beccare
un’espulsione in meno, il resto sono sfumature che non riesce ad
approfondire. Le sue partecipazioni alle discussioni, perciò, durano pochi
secondi: anche in questo ramo della vita nulla si può mandare a buon
fine, se manca la volontà politica.
Le partite importanti, quelle della Santa Nazionale, le segue nei luoghi
pubblici dotati di maxischermo, sempre per sentirsi un po’ meno alieno e
più vicino al prossimo. Quando tutti esultano lui esulta, freddo. Quando
tutti bestemmiano lui bestemmia, freddo. Di come vada a finire la partita
non gliene frega nulla, freddo. Una spiaggia tropicale, una bella mulatta,
suggerle le cose tropicali, aprirle le cose mulatte: è questo il suo unico,
cogente concetto di performance sportiva. Meglio turista sessuale
accaldato che esperto di football freddo. Fott mej che foot, anche se non
lo penserà mai in dialetto, santo cielo.
Leonardo solitamente boicotta i bar. Non sopporta gli sportivi da
bancone, impastati di frizzantini, campionato e sigarette. Entra solo in
casi di estremo bisogno, biglietti d’autobus, una telefonata, una toilette, e
mai nei Bar dello Sport o dei Cacciatori. Lo vieta la raggiunta maturità.
Quando qualche cliente gli offre un caffè al bar sotto l’agenzia,
solitamente popolato da pensionati alla nicotina e cappotti da PCUS, è
professionalmente costretto ad accettare, ma vuota la tazzina in un
baleno e trova una scusa per rifilarsela a razzo su in ufficio.
Questa mattina però, svegliatosi di traverso al letto e a se stesso, che è
già un orrendo svegliarsi, Leonardo decide per una volta tanto di fare
colazione fuori casa. È stanco del solito pane e marmellata, e come fanno
i cappuccini nei bar, con tutta quella schiumetta, lui non ci riuscirà mai.
Esce fuori, fa una camminata a piedi, entra dentro il bar.
Praticatasi un’iniezione di fiducia con un ampio respiro, e poi con un
lungo sospiro, osserva gli specchi del Bar Ragazzi Rossoblù. Perché, si
chiede, perché i bar devono avere nomi imbecilli? Chi ha dato l'ordine,
quale medico pazzo?
Sono solo le otto e un quarto, lui è già rosso di stizza e l’aria già blu di
sigarette. Forse quelle del giorno prima. O dell’anno prima. La nicotina è
un soppalco di calcestruzzo che gravita a mezz’aria, sulle teste dei
cancerandi.
«Un cappuccino e una brioche, per favore».
«Ha visto ieri il Bulagna? Roba da non credere...», gli domanda un
montoncino anni Settanta, voce catarrosa e alito in bilico fra la Moretti,
le MS e la morgue. Sotto il braccio ha la gazzetta rosa, autodenuncia di
sfiga nera .
Somministra una gomitatina cameratesca a Leonardo. Lenny odia quelli
che parlano e toccano, ed è pertanto facilitato nel rispondere:
«Sono andato a teatro, ieri, dolente. Adesso che sa tutto della mia vita
segreta, si piazzi a non meno di 99 metri da me».
«Era un pezzo che non vedevo giocare così male. E poi, quel cazzone
del mister, bastardo ignùresen, bròtt imbezèl, non poteva mettere su
Dioguardi invece di Condanniddio? È dalla partita con l’Atalenta che
non va. E se non se ne accorge lui, chi se ne deve accorgere, Dio? Io? La
palla è rotonda».
Leonardo non prova nemmeno ad abbozzare una risposta. Non sa i
nomi. Non sa la classifica, non sa in quale serie si trovi ‘sto Bulagna, che
cos’é un mister. E a quest’ora è rimbecillito dalla levata.
«Vede, se facevano come dico io sicuramente fermavamo Dioliberi, e
non si portavano a ca’ quel paio di sleppe».
Leonardo inizia a cigolare. Non sopporta il noi quand’è usato così. Non
sopporta il dialetto. Non riesce più a godersi la schiuma del cappuccino.
Quella che ha cominciato da un po’a colargli dal naso, amara e turchina,
ha già ricoperto tutto.
«Se Diotallevi metteva su Sperindio al posto di quel cornuto di
Casadio, allora sì sarebbe stato un bell’andare, Sperindio canta e porta la
croce sulla fascia, sa? È un giocatorino di quantità e qualità, a tal dég mè.
Gli avremmo fatto un gran mazzo, se quel cornuto di Dioscampi che
hanno comprato in liquidazione da quei marocchini del Lecce non si
faceva forare come un gran cornuto. Non è un portiere, è un gran
Cornuto, va mò là. É dai tempi di Santarelli che non vedevo un ignùrent
del genere. Bròt maruchéin. E così il fieno in cascina se lo portan a casa i
viola. La palla è rotonda. La sconfitta non fa morale, e non fa
spogliatoio, a tal dég mèmme».
La brioche è a metà gola, non sale, non scende.
Lo scollegato ha una mano sulla spalla di Lenny, e gli parla a una
distanza di venti centimetri. Gli sputacchi si tuffano nel cappuccino, che
piange di orrore, diventa aceto. Leonardo si è svegliato del tutto, il
sangue inizia a sfrigolargli lugubre nella cuccuma, e anche le sue
venuzze, serpiginose e scagliose. Non vuole iniziare la giornata col mal
di testa, molti slogan lo attendono. Ma il logorroico terminale non
sembra cogliere le fermentazioni di Leo, nè quelle del proprio alito, e gli
si mette a braccetto.
“Senti, scolti, gridi con me, dài: LA PALLA É ROTONDA, IL
BULAGNA É UNA FE
Zip, zap, stracciaboom
Puf.
Il coso col montone è quarkizzato e warpizzato dritto nella sedicesima
dimensione, dove sul campetto del prete bilioni di Arturiani giocano
tutto il giorno a porta singola con palloni al plutonio di mezzo metro,
non tanto rotondi, più sul dodecagonale. E, ah sì, la porta è il culo di chi
scoccia Leo la mattina.
Il barista grida. Il montone se n’è andato senza pagare, e accusa Leo di
complicità, tifo fiorentino e altre cose.
Sì? Alè, fuori anche tu, a giocare. Con una mattina così, cazzo fate tutti
quanti in casa?
“Sportivo e barista scompaiono da un bar del centrocittà. Sempre il
racket degli albanesi. A che ora la dichiarazione di belligeranza? I
comunisti del governo lo spediamo o no ‘sto casus belli?”.
Leonardo ha una giornata di lavoro molto dura, un’orrenda
ciribiricoccolite gli impedisce di concentrarsi.

Pi-erre

L’era antidiluviana in cui Leonardo si chiamava Vanes ed era un


campioncino di polche e mazurche è lontana. Da quando è maturato, il
suo rapporto col ballo ha subito un’inversione di tendenza.
Ora considera la filuzzi come un’espressione del bifolclore provinciale,
e non mette piede in balera nemmeno dipinto. Lo stesso sentimento lo
prova nei confronti dei ritmi latinoamericani che cercava di imparare da
giovane, la salsa, il merengue, ora importati e rivenduti da istruttori
cubani o dominicani col disperato bisogno delle chiavi di casa di qualche
cinquantenne ricca, chiave per il Primo Mondo. Nonnò, niente piedi in
balera.
Non é che non gli piaccia più ballare. Solo che in quelle scatole
sbatterebbe contro scimmie che non gliela darebbero mai, arrapati che
non tromberanno mai, lobotomizzati, fantocci perati, arredamento per
mentecatti disturbati, aria da respirare col narghilè. E poi la musica,
mioddio, la musica. Pausinica. Mollìchica. Oorff.
Sicuramente sbaglio, si dice quando gli calano i fumi, nelle discoteche
s’incontra tanta bella gente, sana, disponibile agli scambi culturali,
sbocciano durature amicizie, facilitate e rinsaldate dall’ambient music
che tanto aiuta la conversazione e l’interscambio tra generazioni.
Leonardo è uno che vede il mondo da una prospettiva tutta sua.
Acetica.
La musica non è mai quella che vorrebbe, la vive come roba da
bergamaschi in ferie, e i prezzi per entrare a vomitare gli sembrano da
emiri in ferie.
I suoi balli più recenti risalgono ad esperienze brasiliane e indiane,
ricorda alla perfez. quando sambava con mulette mulatte sozze
nell’anima, o mulatte che glielo mulinavano animate da sozzerie animali.
Nel cervelluccello gli risuona ancora l'acid-music goduta sui tetti di
Puna, alle feste organizzate dai sannyasis israeliani, che se non hai il
cazzo fatto su alla Bruce Willis per loro non sei nessuno. Ed è ben
pazzesco, se ci pensi. Appena fai amicizia è la prima cosa che ti
chiedono. Fammi vedere se hai il cazzo fatto su alla Bruce. Israeliani. Lo
stesso smodato interesse al cazzo che hanno gli arabi, questo sì. Una
razza, una faccia. Almeno però gli arabi non hanno le basette schife
lunghe sino alle ginocchia, e ogni tanto si vestono di bianco. Vabbè,
spacciano, ma checcentra. Meglio loro dei calabresi, no? O dei siciliani,
no? Lo sai che i siciliani hanno il pallino per ammazzare, no? E conosci
qualcuno tu, ammazzato da un arabo? No, tu dimmi, ne conosci
qualcuno? E allora.
Insomma non é più entrato in nessun locale, e anche se è Andato
Avanti, su 'ste cose è rimasto indrè, se le è perse tutte. Non sa cosa sia la
miusic al massimo, le sfere brilluccichine al laser, i lampi da epilessia e
le cubiste da peep-show.
Le gambe oggi però gli formicolano e non gli dispiacerebbe, dopo tanto
tempo, andarle a sgranchire. Ma sarà il caso? Non mi scapperà da
rigettare mentre ballo sul cubo? Non sono p- più- . F - forse non è il
caso di -
«Lenny, stasera siamo al Macis per festeggiare l’addio al celibato di
Ennio. Vieni», gli ordina Marika, una collega ricciuta e brunona che da
un po’ di tempo sembra tampinarlo. Ha deciso per lui. È incuriosita dal
mistero che Leonardo emana. Poveraccia. Donna.
«Mmmmhhh. Non so. Devo mettermi qualcosa di particolare? Chi é
Ennio?».
«Noprobblem, per entrare basta essere eccentrici, almeno in faccia. A te
ti fanno entrare sicuramente, guarda. E se non vieni da Ennio, allora vuol
dire che hai il cuore di lennio, ih ih ih ih ih».
Leonardo non capisce se questo sia un complimento o no. Ha però
capito che se la serata andrà avanti a noprobblemm, e a te ti, e a
puttanate e risolini nervosi, ci scapperà il morto. La morta. La mora
morta.
Prima di uscire si fa il segno della croce baciata. Mai, per nessun
motivo, stasera applicherà i Poteri. Giurin giuretta.
Si è vestito da giovane, jeans, camicia a fiori, giubbotto di pelle, gel e
scarpe da ginnastica giovanilissime, alla vanilla.

«Iu hev probblem, amico. No scarpe da ginnastica, il venerdì. No


ginnics shùùz in te venerdiks».
Leo riceve forte l’impressione che lo si stia prendendo pesantemente
per il culo, ma il buttafuori ha lo sguardo bovino e l’accento del Pilastro,
come anche il contrario, perciò non in grado per forza sfigale di
concedersi finezze scherzose. È sul serio convinto del proprio slang
niuiorchìsh, e in ogni modo da trenta secondi sta sventagliando munifico
i pettorali per farsi capire meglio, e non lasciare questioni aperte. E
adesso ha cominciato a colpirsi il palmo col pugno. E adesso fa un passo
avanti.
Che cos’hanno di speciale i venerdì, per costui? L’unico obbligo non
sarebbe quello di mangiare il pesce? Caduto in prescrizione, tra l’altro? I
dubbi tormentano Leonardo, rimasto fuori a guardare quelli che entrano.
La mora Marika é sp- sparika.
Umiliato.
Lui, art director.
A Bulagna.
Da un mongoloide.
Del Pilastro.
«Ragazzi, torno a casa a cambiarmi le scarpe e vi raggiungo» strilla
affabile al portoncino chiuso. Tum Tum Tum Tum Nau Nau Nau Nau
Nau Iea Iea Iea Iea, gli risponde il portoncino a forma di imene cribrato.
Torna a casa a cambiarsi le scarpe. La vanilla non ha incontrato, meglio
optare per mocassini con monetina. Ci torno? Massì, valà, ci torno, e
raggiunge i colleghi. Il proprio autocontrollo, a volte, lo sorprende.
Non appena entra nella discoteca, Lenny è mazzolato dalle mutande
anali delle cubiste. A stento riesce a dire qualcosa di sensato agli amici.
Lo sguardo rimane imprigionato in quei framezzi per un’ora almeno. Ha
i lucciconi, è entrato in giubileo. I viaggi che non si fa. Tutti a base
sperma. La sua fase culista. Gli occhi laserano il buio a captare l’amato
viola rosbif grinzolino, le narici gli si sono spalancate il triplo, alla cerca
di colazioni aliene sull’orlo del p- parto. Uno dice: “Sederino!”. e Leo
via che retrocede a quando eravamo cani in cerchio sotto felci e licopodi,
a latrare alle scimmie che terrorizzate dai rami ci cagavano sul muso.
Marika, che per la serata aveva puntato invece tutto sul proprio davanti,
da lei ribattezzato Mariga, é offesissima, e tronca la storia.
Fortunatam. un paio di mojitos ben secchi gli sblocca il crash di
sistema, scaccia le anelle delle monelle, lo sprona ad esibirsi in pista
come non gli accadeva dai tempi del Kiwi di Piumazzo. Balla niente
male, con uno stile che denota una forte influenza Kundalini residua:
scosse, movimenti da cobra, occhi chiusi, slogamenti lombari, frustate a
cavalli virtuali, molta fattanza e testa nei pressi delle anelle di Saturna.
Pura scuola di Puna, altro che Piumazzo. I faretti l’hanno subito
individuato, sono tutti per lui, e ai margini della scena, nel buio, Marika
e Mariga sono pazze da more.
Tutti gli altri, sebbene giovani, alternativi e dotati di look a metà strada
fra Ibiza e Mykonos (in effetti Bulagna è proprio in mezzo), ballano
come robot, non vanno oltre il passettino dell’umpzppumpz da trance,
così classico, banale, non, non - mm, a livello.
Nessuno esce dal suo metro quadrato, nessuna si strappa le mutande,
mentre Leonardo, artista senza limiti o imposizioni, pesta un bel po’ di
piedi all’intorno.
Che colpa ha se proprietari e pompieri hanno lesinato sulla metratura?
Se in pista ci va anche chi dovrebbe stare a casa, seduto sul divano, a
guardare la tv?
Se la gente continua a fare figli?

«Cavoli. Balli bbbene, giovane, trendy. Di dove sei? Formentera? Bali?


Bari?»
Leonardo stasera sperava d’incontrare una principessa Già Pronta, la
donna della sua vita. O una zoccola, che va bene uguale, tanto le camicie
le sanno stirare tutte. Invece, eccolo abbordato da uno con l’accento di
Caserta, un giubbotto di lurex bianco, le stesse zeppe delle Spice Girls,
lo stesso rossetto Standa, pantaloni tigrati aderenti tipo uno di Caserta in
una disco del Nord. Fieno tuttifrutti in testa. Sorriso bruttissimo, marcio,
circondato da biglie d’acciaio incapsulate nelle labbra. Una cornice
piuttosto rococò.
«No, sono di qua. Solo che mi piace ballare». Diplomazia, Padrone, gli
mandano a dire col fax le surrenali. Leo sente odor di busonaggine
pericolosa. Non ha mai avuto nulla contro i gay, per il primo quarto
d’ora sono molto divertenti. Basta che non glielo appoggino o che non
glielo diano da baciare in punta, o che non gli vogliano baciare la punta,
e che abbiano una conversazione decente, e lo spruzzino 3PVP rimane
nell’astuccio.
«Ma daaiii, davvero? E’ difficile incontrare qualcuno capace di lasciarsi
andare sul serio. Qui tutti ballano come zombie, cavoli». Anche Leo la
pensa così. Solo che non gli verrebbe mai in mente di andarlo a
raccontare ad uno che non conosce.
«Come ti chiami? Io sono Doriano, Dorian, per gli amici. Sarei di
Caserta, ma il mio cuore batte tra Goa e Berlino. Anche Bulagna va
bene. Sono un Pi-erre».
Gli allunga la mano. Non è chiaro se per stringerla (ha la consistenza di
una carpa fuor d’acqua da tre settimane) o perché venga baciata.
«Piacere, Leonardo. Leonardo, per gli amici. Il mio cuore batte sotto il
collo, tra i polmoni. Sono un copy».
«Ma sssai che sei simpatico? Mi piacerebbe conoscerti meglio... Di che
segno sei? Scorpione scommetto. Scorpione, vero? Visto? Bel lavoro il
tuo, creativo».
La serata va avanti col PR che in fattanza australe, sei exstasy e sedici
superalcolici di vaglia, passa tutto il tempo a manovrare e tampinarlo per
un torneo a cappella di ferro nei cessi. Marika, che ha visto il suo uomo
sfiorare un finocchio scoppiato, scoppia in pianto e lo pianta.
Al tredicesimo offertorio busonico, visto che Caserta non la vuol
capire, Leonardo imposta una contromossa. Però desidera essere
scientifico e non violento nell’applicazione delle contromosse. Lui i Pi-
erre li ha sempre detestati, non ne sopporta la falsità, il sorriso, il look
giovane, l’inesauribile riserva di bigliettini d’ingresso ai luoghi fashion,
il linguaggio imbecille. E poi, perché sempre tanta sorca attorno, eh?
Perché? Perché si lavano molto o perché si lavano poco? Che cos’é, i
soldi? L’anima frocia? Me lo volete dire? Qualcuno me lo fa, ‘sto
favore?
Leonardo vuole mantenere la promessa di non infierire, stasera. S'è
fatto giurin giuretta a indici incrociati e baciati tre volte, diventando
anche un po’ rosso per ‘sta stronzata che ricordava dalla sorella hostesh.
Furbettino, si cela il fatto che dopo mezzanotte non è più stasera, e in un
a parte teatrale si rivolge alla platea e sussurra stentoreo: “Non ditelo a
Lenny”.
Ritorna in se’.
«Sssenti, Dorian. Devo andare, mi spiace. Visto che t’interessa il mio
vorticoso e colorato mondo, perché domani non vieni in agenzia? Ti
faccio conoscere un po’ di ggente», e gli allunga un biglietto da visita.
Pensa che gli presenterà Monika.
«Non mancherò, cavoli, ci puoi contare».
Dorian va a letto eccitato. Un po’ perché non è riuscito a distribuire la
propria energia nerchiale, un po’ perché la fattanza non è ancora scesa, e
soprattutto perché il giorno seguente lo attende un incontro speciale. Da
cosa potrà nascere cosa. Soldi o crespe, magari maschili. Dorian è un
saggio. Si cala sedici eczxstazynes, col suo corpo astrale vuole divertirsi
ancora un po’ prima che sorga il sole, il gallo canti, la padrona picchi
alla porta per l’affitto. La notte è zovanotta. E via che parte.
Lenny, una volta tornato a casa, si stende comodamente a letto.
È verde di cattiveria per la serata rovinata prima da quella Monika poi
dalla piattola, ma è anche contento per essere riuscito a mantenere i tori
nel corral, una prova notevolissima, veramente. L’eleganza della
soluzione che ha escogitato per vendicarsi di entrambi lo lascia senza
fiato, e sulle gote gli torna a fiorir la rosa che pur dianzi inverdìa. Si
rende conto d’essere un genio. Sul comodino ha preparato una bella
camomilla bollente col miele premiale, una scatola di aspirina + Vit C e
una boccetta di Novalgina, ma non ce ne sarà bisogno, è ricolmo di se’,
della propria Gloria: stanotte si dorme. Con una volizione proiettiva
elementale scaraventa la cattiveria residuale fuori dalla finestra, e la
becchi chi se la becca.
Sistemato acconciamente tra i cuscini di raso color vulva ventiseienne,
guarda il soffitto. Attende il sonno. E’ stanco. Diiiiio, se è stanco. Gli é
scappato l’aggettivo premiale e poi gli è scappato residuale, e questo è
stato il colpo di grazia, il segno che è proprio ora di chiudere gli
occhietti. Speriamo che domani vada me-
Gli appare la faccia del PR. Coi labbroni e i dentoni gli sta mimando un
rigatone, con un fracco di zeta e di esse. Le sente, nelle orecchie e sulla
cappella.
ZZZZZSSSSSSZZZZSSSZZZZZSSSZZZZZZZSSSSZZZZZZZ.
E poi, protundendo le labbra ridicole e tumide e ricostruite e salivose, la
Presenza gli saetta un lunghissimo bacione culico, con leccatina di
simpatia finale. Lo sente. Sente tutto.
MMMMMMMMccccccccciiiiiiiiiiiiiiuuuuuuuuòkk. Lap.
Lenny s’afferra le orecchie, tira. Tira. Tira. La paura gli fa tirare
fortissimo.
Zip, zap, stracciaboom
Quartierino di Dorian. Interno giorno. Molto inoltrato, praticamente
pomeriggio. Lo si capisce dalla luce smortina.
Alzatosi verso le quattro, Dorian sta pisciando nel lavandino, gli occhi
impiastrati dall’alcol e dal fondo tinta e dalla deboscia. Si sente le ossa
rotte, molto rotte, cavoli. Non ricorda che cos’ha fatto e a chi
nell’universo è andato a rompere le balle, ma dev’essere stata forte:
l’uccello è marrone scurissimo. Sospira. Cavoli, chissà in cosa l’ho
infilato. Comunque sono forte. Si guarda allo specchio per controllare se
i segni dei bagordi che da un po’ lo preoccupano rimangono stazionari, e
caccia un urlo.
È negro. Ha ottant’anni.
Sente di chiamarsi Kunta.
Artigliandosi il petto muore aggrunchiato a riccio e in lacrime, sotto il
lavandino, mormorando «Hai addaccado la mula, ragazzo? Hai garigado
i gavoli?».

Orticaria
Leonardo si sveglia con un prurito orrendo alla schiena. Contorcendosi
allo specchio, scopre una serie inquietante di bolle, dalle scapole alle
natiche. Bianche e rosse, i bubboni hanno dimensioni diverse, e ronzano.
Aids! Tutte quelle zoccole che ha frequentato? O effetti indesiderati dei
Poteri? Sta degenerando? Funghi? Vaiolo? Incubi? Le fialette si sono
aperte nel letto? Una punizione divina? Leo ipotizza, ma non riesce a
capire. Ospedale, presto. O- oggi niente slogan.
Arrivato al pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore, viavai di lettighe,
ambulanze, poliziotti, sigarette di poliziotti, si rivolge ad un’infermiera:
«Seeee, tica».
«Mi sono svegliato con la schiena ricoperta di bol
«Ortigaria. Saccomotasse, la ghiamo io».
La meritionala scrive fulminea la diagnosi su un foglio, e aggiunge il
nome di Leonardo sul fondo di una lista infinita. Come quella di
Schindler, però meno premiata.
Leo emette un gridolino interno in cui confluiscono riso - la diagnosi
gli sembra una cretinata - odio per le strutture pubbliche, odio per le
infermiere delle strutture pubbliche che si credono brillanti diagnoste
della Scuola Salernitana.
Siede pazientemente, da bravo paziente, su una panca in attesa del
proprio turno.
«Orticaria. Ma se non bazzico fragole dall’anno scorso. D’altronde, se
avesse avuto testa, sarebbe stata medico, no portinaia».
Il tempo passa, nessuno lo chiama. In compenso passa di tutto. Gente
sfracellata in auto, medici impegnatissimi a confabulare su Bulagna-
Lazio, uno con la faccia da cretino e i polpastrelli da stupido e uno che è
il contrario. Zingari a caccia di portafogli. Suore a caccia d’anime.
Texxani a caccia di fegati. Belgi a caccia di bambine, prima da far
sbocciare e poi da rivendere ai texxani (ma senza i pezzi migliori).
Imprese di pompe funebri a caccia di clienti. Vecchi a caccia di schede
telefoniche nei bidoni di materiale biologico ospedaliero.
Un’infermiera arriva spingendo su una lettiga un ragazzo che sta
morendo, avvinghiato ad una piovra di tubi da trasfusione infusione e
perfusione e macchinari che Leonardo non conosce, fischianti, battenti e
lampeggianti. Lo parcheggia lungo il muro della sala, e se ne va. Dopo
un minuto arriva un’operatrice sanitaria (la donna delle pulizie) con un
coso rombante, un lucida pavimenti della Nasa. Emette un rumore da
shuttle, infatti, e l’accorta puliziotta lo va a passare sotto le orecchie del
moribondo che sta per conoscere Dio, Gesù, lo Spirito Santo e tutto il
loro tipico, patetico astio chiesastico da vendicatori dei cieli nei confronti
di chi sulla terra pensava male di Loro mentre soffriva. Conosciamo
bene.
Leonardo s’è letto tutto ciò che la sala d'aspetto ha da offrire. Una
Settimana Enigmistica usata, un vecchio numero di Oggi con Diana
ancora viva e cavalcante, un Calzino dell’altro ieri, un poster sui
melanomi dei tifosi della Fiorentina. Colorato ed inquietante, ma
veritiero ed esaustivo. Leo ignorava quanto fossero marci a Firenze, e
non sapeva che il viola è solo lo stadio iniziale. Poi, mentre sei lì che ti
preoccupi e non sai che cosa fare, TRAP!, t'arriva il giglio su una tetta.
Poi l’olivera nera, l’edmundo biliare, i cernecchi e infine i gori, a chiuder
la partita. Brutto modo d’andarsene.
Maammamia, distoglie lo sguardo soprattutto perché non gli interessa
proprio, ognuno ha le sue. Lui ha le bolle. Be', in effetti adesso che ci
pensa cominciavano ad essere viola, già a casa. Continua a pensare. A
quest’ora saranno edmunde ormai. Arrivato ai gori decide che
abbandonarsi alla paranoia non è produttivo, non è performante. Nonnò.
«Signorina, mi scusi, qui che cosa intendete, esattamente, per pronto
soccorso? Sono seduto ormai da due ore e tre quarti».
«Sera sabato sera saresti statin pieti, vecchie. Ci sonurcenze più urcenti
dla toie, i metici sonimpegnate e gli ampulatoroccupate. Sietite, 'spett, e
tàttuna calmate. La prossima volt macari prov'o sappone. Kille caffà
schium, presént?».
L’infermiera è seccata. Cabbuogliono sti scassacazze, le cliniche privat
coma Lusann? Scarraffune. Affrikane.
Allo scoccare della terza ora - a Leonardo l’orticaria è virata in orchite -
la kapò lo chiama e lo indirizza.
«De’ Carolis, sala C».
Nella sala C un infermierino con gli occhiali lo scruta velocemente e
con aria strettina strettina:
«Devi andare in dermatologia, schifoso! Hai bisogno di una visita
specialistica! Chi t’ha mandato qui! Perché!».
Leonardo anche lui è un pezzo che se lo sta chiedendo. Le tempie
cominciano a stillargli resina d’aspide.
Finisce al terzo piano a fare la coda allo sportello bancario. Deve
pagare le cinquantamila di ticket per la maledetta visita specialistica.
Sale, sale. Ora sì che sa come san di sale le altrui sale. Altro reparto,
altra panca. Un vecchio Panorama, un Venerdì di Repubblica e una
Settimana Enigmistica con gli Incroci Obbligati ancora intonsi. Certo. I
piani alti. Roba fina. Giusto.
L’attesa per essere ricevuto da tal Dottor Antani non è lunga.
«Acari, signore, l’ho capito appena ho visto la sua faccia. Vive in un
fienile, vero? La lava spesso la paglia? Sarebbe meglio che la cambiasse,
non crede?»
Leonardo è umiliato dalla diagnosi.
«Come sarebbe, se mi lavo? Certo che mi lavo. E vivo in pieno centro.
Vabbè, le lenzuola le cambio solo per le Grandi Occasioni, ma non
dormo con cimici e scorpioni...»
Leonardo lascia l'importante Nosocomio Mandamentale Regionale con
cinquantamila lire in meno e cinquantamila dubbi in più.
«Macché acari. Chissà cosa s’è bevuto a colazione ».
Un forte interrogativo però lo turba.
«Non sarà che mi porto dietro ancora la puzza della campagna? Forse
mi sono beccato ‘ste piattole provinciali quando vivevo davvero in un
fienile, e oggi, dopo anni, mi sono tornate fuori. Oppure sono le pulci dei
barboni in Piazza Verdi. Ma come hanno fatto a finirmi nel letto? Ehi,
aspetta, ci sono, forse è un riacutizzo di pummarola brasiliensis, di
quando stavo con Edinalva. Non s'è mai voluta curare seriamente. La più
lercia di Bahia, però simpatica. Mah, bih, boh».
Leonardo non è per nulla convinto della diagnosi. Le bolle sono sempre
lì, agitate e cinguettanti. La sua schiena è un misto di acciottolato di
Pompei e soffioni di Pozzuoli. Dio, come non sopporto il sudicio sud.
Si aspettava una visita accurata, magari accompagnata da esami del
sangue e molti tipi di prove allergologiche. Ma il tizietto s’è limitato ad
uno sguardo sbadiglioso alle pustole e ad un
«Le lavi, le lenzuola, faccia questo sforzo. Ad alta temperatura. Si
cambi la maglietta spesso ed usi un sapone più incisivo. E si cosparga di
Mytigal, nel caso fosse scabbia. Mi telefoni, se è scabbia. Buongiorno. E
chiami l'Ufficio d'Igiene. Hanno delle macchinette a vapori di mercurio
che fanno miracoli, su quelli come lei. Ripassi tra due settimane per il
controllo, se non si è liquefatto. Faccia entrare il prossimo, non tocchi la
maniglia».
Non gli resta che andare a farsi spennare dall’arcinoto Dott. Marcolini,
un dermatologo a tassametro che si mette in moto solo con valute forti,
ma che non sbaglia mai una diagnosi. La visita costa 650.000 lire in
nero, e serve ad arricchirgli la collezione di soldatini di piombo, uno più
raro e bello dell’altro, ma puoi andare sul sicuro. La visita è come si
deve, non si fanno file, e se ti sei beccato l’aids il dottore te lo dice
subito, senza tanti giri. Inoltre, su un calendarietto con la Sua Foto, e la
didascalìa Un'Altra Volta Impari, ti segna con un cerchio rosso anche il
giorno che muori, preciso. E poi i soldatini in una teca in radica dello
studio, tutti a guerreggiare e crepare proprio come te tra poco, sono un
grandioso spettacolo, compreso nel prezzo. Bel tocco.
«Ha assunto per os crostacei surgelati?»
Leonardo è colpito. Veramente. Il dottore, dopo avergli attentamente
osservato la schiena maraglia per non più di un secondo e mezzo, ed aver
ascoltato la descrizione dei sintomi, ha già emesso una diagnosi
plausibile.
Silvan, sul serio. Meno vecchio finocchio, e più vecchio Murri.
«Non ho assunto nessuno, le tasse e i sindacati mi ucciderebbero. Però
ieri sera ho cenato con alcuni gamberetti in frezeer da un paio di mesi.
La conversazione è stata strana, e anche il sapore, adesso che ci penso.
Mi sono intossicato?».
«No, non si preoccupi. Vede, questa è un’orticaria classica da crostacei
e/o molluschi surgelati. Caso contemplato. Nel giro di ventiquattr’ore le
sarà passato tutto. Passi in cassa e arrivederci».
Il dottore si frega le mani e osserva affettuoso il Battaglione Ussaro Il
Giorno Prima Di Jena. Medico e paziente immaginano, sentono che
presto arriveranno robusti rinforzi, e forse nuove più fresche lavanderine.
Leo ne scorge una finita sotto un carro ippotrainato, e persino lui capisce
che non se la caverà, con la spina dorsale spezzata. Una lavanderina più
giovane, quella che l'ha fatta scivolare, ride allegra e nasconde dietro
l'ampia gonna una buccia di banana mentre s'accompagna ad un certo
Ulrik, posta di quella scaramuccia. Un vecchio Unteroffizier con pipa di
gesso scruta pensoso tra le sottane scomposte della moribonda. Bel
tocco. Diorama fantastico.
Sentimenti attraversanti Leonardo all’uscita dall’ambulatorio:
- gioia per sentirsi sollevato dall’incubo: non deve fare né l’esame HIV
né testamento;
- dolore urente per le 50.000 + 650.000, oltre ad una mattina di lavoro
persa;
- sorpresa per la competenza dell’infermiera del pronto soccorso
(l’orticaria era davvero un’orticaria, ma ci ha preso per puro caso);
- odio e bava vindice per i medici dell’ospedale pubblico;
- odio, democraticamente scorretto ma vivissimo, per tutto ciò che è
Pubblico;
- simpatia per le lavanderine, respirino o rantolino;
- dispetto per il comportamento di certi vecchi Unteroffizier, che stanno
lì a sognare e fumare quando ci sarebbe tanto da fare; forse per loro è
giunto sul serio il momento di andare in pensione e cedere il passo ai
giovani Ulriki.
- odio per i carri a cavalli parcheggiati di traverso;
- e per Ulrik.
É talmente inferocito che davanti a lui Bulagna si trasforma in una
Petra scolpita in carbone sardo, il cielo diviene una lavagna, le nuvole
escrementi di negro linciato. La giornata é andata a metà, tanto vale
sprecarla del tutto, farsi venire un bel mal di testa, chiudere i conti come
si deve. Questa volta, per meglio concentrarsi sul bersaglio e non
consentirgli di farla franca, Leonardo configura il proprio personalissimo
mirino, una croce rossa virtuale tra i lombi del cervello, mentre emette il
ronzio di dolore cui si sta assuefacendo.
Zip, zap, stracciaboom
Il Dott. Antani, dermatologo specializzato in vespe, acari e diagnosi
veloci, si ritrova trasformato nel personaggio principale di un romanzo
entomologico di Kafka, concupito dalla sorella matta che stravede per i
burdigoni su per la figa però lui non ci sta e fugge ad elitre levate per le
buie vie di Zlåta Bulagna, dove incontra una dittera bionda che produce
un miele sapidino delicatissimo che Antani si diverte un fracco a suggere
con la sua proboscide a tromba ma poi arriva il marito, un calabrone
calabrese nero con un pungiglione come Antani ha sempre desiderato e
invece si deve accontentare del suo tranquillo millimetro, che per la
copula e le uova andrà anche bene, ma per far festa è pietoso, anche se le
dittere non è a queste cose che badano, piuttosto ai tuoi colori, alle
cellette dei tuoi sei ocelli, a come danzi in tondo e in su ein giù ein
diagonale per convincerle alle nozze e sciamare al tuo nido di proprietà,
e a quanti petali e rugiada porti a casa alla fine del mese e insomma dai e
dai poi Kafka si scoccia e nell'ultima pagina, scritta peraltro con bel
mestiere, durante la disperata fuga Antani la cimice finirà sfrittellata con
una gran puzza sotto un’enorme lucida-pavimenti dell’ospedale Murri
Sei Grande, Che Ti Frega del Mazzacurati? Quello Pensa Solo Ai Soldi.
Nella più grande Realtà, a fine mese tutti gli insetti meritionali del
pronto soccorso in busta paga riscontrano dei pagherò a cadenza
settimanale e scadenza quinquennale, intestati ad un certo Leonardo
de’Carolis, che nessuno conosce ma che tutti dicono dotato di uno stuolo
di avvocati turpi e carogne, amici di tal Di Pietro o Del Piero, non si sa
bene. E per non essere sbancati, sbiancati, sbacchettati, sbranati pagano e
pagano.
Osse pagano. Leo rinnova il parco cravatte.

Sinergie

Da quando è stato all’estero e ha letto carriolate di autori d’oltralpe,


Leonardo ha intrapreso una profonda opera di repulisti intellettuale.
Durante questa specie di pulizia di Pasqua ha passato il piumino su tutti
gli aspetti della propria cultura: scelte musicali e cinematografiche,
lavoro, abbigliamento, cucina, letture, modi di parlare ed ora a
operazione conclusa dice a tutti che ama il Bembo e odia i bamba.
Questi ultimi, in particolare. Alla stregua di chi abbia sciacquato i panni
sporchi nell’Arno o nelle morte gore dell'Olona, Leonardo ingaggia una
battaglia senza speranze in difesa del purismo linguistico.
Sebbene immerso in un mondo fagocitato da un inglese globalizzante,
per quanto riguarda il linguaggio di tutti i giorni Leonardo rivendica il
primato - entro i confini nazionali - della lingua italiana. Parla come
mangi, ma il menù, attenzione, dev’essere ricercato, e affondare il
rizoma nelle tradizioni più raffinate.
Appena gli è possibile, per esprimere anche i concetti + semplici ricerca
e s’avvale di parole forbite, inconsuete, ad esempio rizoma. Detesta
l’ovvietà, scova sinonimi dimenticati, anzi, desueti, è innamorato sino
alla pippa del vocabolo più riposto, e in society fa il suo bel figurone. È
in, soccya se lo é.
Come suo nonno, usa l’egli, l’essi. La particella appare obsoleta, poco
giovane, nessuno dice mai essi andarono a zoccole, esse li sfancularono,
ma è senz’altro squisita ed elegante.
Per questioni di lavoro è obbligato ad usare termini anglofoni (non si
può sostituire indipendente a free-lance, e sostituire bersaglio a target
farebbe troppo pub, anzi, bar. Se un ritrovo è up to date allora è un pub,
se da’ il voltastomaco al pene è un bar. Chiuso l’inciso), ma ciò non gli
vieta di detestare in maniera ideologicamente feroce gli imbastardimenti.
Lo fanno incanire i termini italianizzati, di provenienza estera o
dialettale, odorosi di popolo, e ancor più urla per la facilità e la velocità e
la gratuità con cui esso popolo concede a terze parti il deretano
posteriore.
Il top del top, in questa hit parade, per Leonardo è costituito dalle frasi
autistiche ripetute senza scopo e senza sosta. I termini abusati, ad es.
abusato, che odorano di muffa (the muff) e uccidono chi è dotato di
orecchie tirate a cotton fioc e di narici sensibili (sensible nose).
Sinergie lo uccide. Allo stato lo riuccide. Senza meno lo seppellisce.
Gli untori che diffondono questa peste orrenda sono i media. La carta
stampata (il Calzino è riuscito ad elevare rusco - immondizie - a voce
dello Zingarelli) e la porca tv. La lettura delle pagine locali lo fa correre
in bagno, sulla cui porta ha inchiodato il cartello BAGNO, NON
TOILET, TOLETTA O TUALÈ, DEFICIENTI. Ai telegiornali,
Leonardo emette grida strazianti.
Mammàno che si scende dal girone nazionale a quello regionale, la
lingua subisce ulteriori stritolamenti. Alla fine, nelle cronache del
condominio, il pensiero fattosi parola è un polpettone di frasi ritrite,
dialetto, fumo da bar e nessun pizzico di noce moscata, comprensibile al
max in un raggio di 1 km. Oltre è estero, Marte, feudo nemico. Invadere,
uccidere. Olio bollente e coccodrilli. (Bullient oil and croccodills).
Leonardo ha avuto una giornatina pesante (heavy little she-day), e non
riesce a riprendersi dal mal di testa, sempre più incalzante dopo ogni
lezione. Durante le sue ultime performances, poi, all’emicrania si sono
aggiunti formicolii sub frontali sempre più inquietanti (more and more
under-front furmiculs. Very sturbing).
Con questo background medico e psichico che l'arrovella e gl'intorcina
la faglia degli zebedei, un meriggio Leo torna a casa prima del solito
(before the solitaire). Ha bisogno di riposare, soprattutto la mente (the
cap).
Spera di rilassarsi leggendo il giornale. Cioè, spera... Vabbè, sì, spera.
San Petronio profanata da extracomunitari, strascomunicati,
superzingari e barboni
__________________________________________________L’Abomi
nio è sceso tra noi!
Hanno mangiato le candele, si sono spazzati coi santini, si sono fatti
barba, pediluvio e gargarismi
nelle acquasantiere, hanno pornofornicato sull’altare,
hanno pregato i loro idoli e ballato le loro preghiere.
Sorgi, Bulagna! Sii Diga! Sii Rossoblù come un tempo lo fosti,
sacrifica agnelli e la Bestia bianchenera non prevarrà.
Perché dovrebbe? Eh?

La S. Sede Apostolica Laziale, di Rito Muratorino Approvato Sedente


In Sonno nel Supremo Consiglio dei Trentatré Scozzesi Antichi e
Accettati anche dai Polacchi, in una nota urgente su pietra greggia
comunica che invaliderà affiliazioni, solstizi, aperture dei lavori, aumenti
dei salari, testamenti e battesimi somministrati con liquami di risulta
contenenti più dello 0,005% di deiezioni maomettiche. A buon intenditor
•••

Richiude il giornale. Vuole rilassarsi, non incazzarsi a comando.


Passa alla tv. Magari c’è un bel documentario sugli orsetti di peluche,
od uno sugli effetti medicinali delle bombe francesi per l’ecosistema di
Mururoa.
No, invece. Rai 3. Il TG regionale.
Vabbè, sentiamoci un po’ di news dal cortile.
«Metti una sera in discoteca. Metti una sera il popolo della notte in
discoteca. Metti una sera le sinergie del popolo della notte in discoteca
netuòrk». Un servizio sulle discoteche romagnole più trendy.
Un termitaio impazzito sotto la fronte gli combatte a sassate la terza
guerra mondiale, ma presto finisce a fumi ed esplosioncine, perché anche
se non sono affari loro ad un certo punto intervengono i bombi con la
loro alta tecnologia intelligente.
Zip, zap, stracciaboom
Schermo bianco, da cui provengono stridule voci bhutanesi.
Dopo un paio di minuti la diretta è ripristinata, ma la lettrice che ha
sostituito il collega infartuato riesce a parlare solo in lingua xingù. Un
ricercatore dell’Università, esperto di dialetti amazzonici, è l’unico che
riesca a seguirla, e a confutare immediatamente con un’affannosa
telefonata a carico del chiamante le solite stupidaggini Rai che si
vogliono far passare per verità: un babirussa non è un piccolo con
problemi ai turbinati, il fazendeiro non è una sporca figura del
sottobosco politico di Belém e il caucciù non è uno starnuto,
specialmente perché se starnuti na selva vuol dire che o sei un primate
con una freccia al curaro nei polmoni, o hai la TBC. Oh, a proposito: il
curaro non è il prete del villaggio. Quello è il curandero, e i suoi miracoli
sono molto più forti dei curati d'importazione. Be', certo, ai loro poveri
livelli di selvaggi del cazzo è esclusa la possibilità di esorcizzare lo
zucchero avvelenato o le copertine al vaiolo che piovono dal cielo. Con
quelli non c'è gara proprio, ma non è questo il pun- dalla regia sbattono
giù, questione di satellite.
Leonardo, incuriosito dallo sconfinato potere dei suoi sconfinati poteri,
zappetta tutti i centonovantanove canali.
Ogni notiziario, rubrica, TG rosa, canale musicale, dibattito e porta
aperta per fare mezzanotte emette vaneggiamenti in tagalog, malgascio,
birmano, quechua, aramaico, ugro-finnico, nahuatl, papiamento,
fumanciù, manciukuò, irochese, pidgin, (@##@/\/çù£0, anconetano,
malayalam, cebuano, galla, hopi e yuppi.
Babele (Babels).
Un mal di testa genere Berlusca al settecentesimo avviso di garanzia
non impedisce a Leonardo di recarsi in stazione a comperare le prime
edizioni di diversi quotidiani: vuole capire cos’ha combinato stavolta
(this vault), e magari arricchire le pareti del salotto con nuovi trofei.
La Repubblica è in swahili, il Corriere in lappone, il Giornale in un
afrikaans scolastico ma efficace, il Calzino in comunista, la lingua degli
odiati russi, la Stampa in simpatico foggiano, la lingua di Rivalta. Per
ridere compra mezz’etto di Cuore e Polmone, e scoppia in un pianto
amaro: è in sassuolese, e il "Tiobo' !”. che titola l'elzeviro è in corpo 180
(l'articolo, con la classica logica degli spiritosi, è invece in corpo 290
bold very slunghè).
Porta tutto a casa svelto svelto, e incolla roba al muro per ore. Alla fine
è esausto, ma ripieno d'orgoglio. Si è piaciuto. Indietreggia di un passo
(solo uno, per la faccenda dell'orgoglio), e rimira la parete sopra il
camino: sembra Guernica di Picasso (The Guernics ov Paicass).

Mal di testa

I poteri e gli effetti speciali di Leonardo sono aumentati. Ogni volta che
si sente attaccato inventa punizioni sempre più efferate, tipo quando è
sceso in cantina, ha tolto dallo scatolone gli scarponi chiodati regalatigli
dallo Zio, se li è infilati e ruggendo è risalito e ha sfondato ha sfondato
ha sfondato a calci il televisore che trasmetteva la gente che applaudiva i
funerali di qualche deficiente morto nell’espletamento del dovere dello
stato. Loro e le loro mani idiote facevano clap clap, e lui gli ha fatto
CRAASH, CRACK TINGLE!, e com’è contento adesso. Principalm.
perché ha risparmiato un zip zap stracciaboom, e secondariam. perché è
sempre un piacere imparare che c’é un cretino in meno.
I zip zap stracciaboom aizzano nell'angelo sterminatore emicranie
vieppiù ingravescenti, e in particolare sono terribili i parossismi
scatenantisi in lui ogni volta che s'imbatte nella parola vieppiù,
immediatamente dietro a vivaddio nella sua lista di proscrizione. (Allo-
stato è hors concours, morirebbe alla prima sillaba, meglio non pensarci).
Certe sere il dolore è talmente lancinante che progetta di prendersi a
martellate. Si è assuefatto a qualsiasi tipo di antidolorifico. Non riesce
più a dormire, e non è in grado di presentarsi al lavoro.
La Vendetta quindi inizia a pesare, oltre che sull’integrità fisica, anche
sulla Produttività.
Conscio delle conseguenze, cerca di limitarsi, infierendo solo quando è
indispensabile. Le fonti di sturbo però sono infinite, e sembrano
addirittura aumentare. Leonardo si sensibilizza verso forme d’odio
vieppiù sottili. OOOOORGHHHHH.
Qualsiasi attentato al Buon Gusto e alla Cultura è oramai un attacco
personale, diretto alla sua stessa e medesima persona. Contro di lui, cioè,
non ha dubbi veruni.
In ogni modo, in questo modo, Leonardo benché attaccato su più
fianchi arriva a trentacinque anni. Certo a fatica, ma si è tolto
soddisfazioni, ha pareggiato conti, ha passato il punto di non ritorno, è in
vantaggio, yuk! Dalle rive orrende del suo fiume ha visto transitare a
faccia sotto migliaia di nemici, gonfi. Particolare importantissimo: tutti
eran con le mosche verdi, nessuno rideva, nessuno profumava e faceva
finta d’esser vivo. Il nutriente tempo della Realtà.
La cadenza delle sue vendette però è costretta a subire un
rallentamento. I postumi stanno diventando insopportabili, le multe
ormai bisogna comminarle con oculata parsimonia. E' preoccupato, ne va
sul serio della salute, tirerebbe ad arrivare minimo ai trentasei, ma i
bozzi gialloviolacei della fronte iniziano a suscitare nei colleghi divertiti
sospetti, glielo legge in faccia ogni mattina, glielo. Tutti fautori della
prova del nove, scienza esatta.
S-schifosi, p-porci tutti.
Non è più facile come agli inizi, ronde di Volunteers in caccia del VPV
(Vendicatore al Pepe Verde) stanno frugando ansiose i portoni e i
tombini dell’intera città, perciò si vede costretto al ribasso, a stabilire una
quota fissa: 1 (Una) atomica al mese. Giurin giuretta. Indici incrociati,
tre volte baciati.
See, figurarsi.
Isteresi é la fatica del metallo, Isterìa la fatica del Giusto. Non di
metallo.
Né di granito, né di carborundum, se è per questo, ma di ossa, carne e
incazzature, trastullo preferito di quel grandissimo rompicoglioni del
Lassù, che tanto per non smentirsi il giorno stesso del giurin giuretta
spedisce a Leo una raffica di molteplici attacchi a mitraglia.
Alla televisione del mattino sbatte in un agghiacciante "...Diciamo che
vi è un vieppiù di qualità e di quantità a go go. Diciamo che allo stato la
vera problematica è che i centrocampisti che cantano e portano la croce e
quant’altro appartengono un attimino, oggi come oggi, alla Milano da
bere, vivaddio. Evidentemente". Poi nel pomeriggio rimane coinvolto in
una rissa tra Pi Erre e buttafuori modenesi di una discoteca, il Tio?Boh!,
e sotto le Due Torri viene implicato in uno scontro tra caldarrostai
modenesi per il controllo dal teritôri.
Le conseguenze sono deleterie per il paladino, che nei giorni successivi,
dimentico di se stesso e dei suoi giurin giuretta, ha applicato con
munifica liberalità fulmini a tonnellate su ani reprobi e infedeli. Tante
tons. Ma tante tante tons.
E siccome dalli e dalli vien la bua ai non-metalli, Leonardo è ghermito
da inedito malore.
È raccolto dal 118 mentre sguilla e risguilla sul marciapiedi, tra sibili,
schianti, loffe, schiume, orine, ectoplasmi, cacche addosso e reiterati
tentativi orali, andati a vuoto, di strappare lo scroto a Baal.
Morsicare le balle a Baal. Gran numero, se riuscisse mai.
I silenziosi innocenti della Coop di Volontariato CDSM "Ci Dispiace
Se Morite" nei referti annoteranno che il paziente si artigliava tempie
rosse fuoco infernalissimo, e nel suo gonfiore testicolo-laringeo
assomigliava al mortadello Brodi quando gli viene in mente l'Orchessa
Dalema.
«Tossico in simmia», diagnostica una vecchia in blè. Dal pronto
soccorso Leonardo viene efficacemente instradato al reparto picchiatelli.
Privo di traumi fisici di rilievo - un singolo ematoma da craniata su
marciapiedi, vistoso e cìp, ridicolo dal punto di vista clinico - appena
torna in se’ rilascia un’intervista piuttosto interessante allo psicologo di
guardia.
«Senti qualcosa se ti faccio così, De’ Carolis?».
Il medico avvicina la testa a dieci cm, e lo guarda.
Leo apre gli occhi, e fissa il dondolìo dei suoi anelli da narice:
«Formiche. Voglia di napalm. Un M-16».
«In che senso formiche? E perché il napalm? Cos’è un M-16?».
«Formiche ha presente quegli esserini fascisti che raccolgono le
briciole e le portano sotto terra ne sento un mezzo miliardo belle grosse
qui sotto la fronte dottore e mi stanno rodendo il cervello mentril napalm
come la varechina è insostituibile nell'obliterare le macchie di merda
Apocalypse Now presente no se invece non hai abbastanza soldi puoi
fare benino anche con l'M-16 una specie di cerbottana. Uufff. Ha finito
con le sue curiosità da ignorante? Casa, idrogeno casa».
«Prima di lasciarti andare devo accertarmi delle tue condizioni
sicofisiche. Cos’è 'st'apocalissi nau? Perché ti esprimi in lingue estere?
Perché salti la punteggiatura?».
È in fissa col TU, stosterco, geme Lenny. È sfinito, non vuol parlare
più. Non serve mai. Suoni. Aria.
"Tu. Sterco. Fisso".
"Non fare lo stizzito con me, amico: sono il solo che si sta interessando
a te, qui dentro. Forza, sta su, mettiti dritto. Sei pronto per il test
Khaccyo-Vhuoy? Sì? Ipotizziamo che ti trovi chiuso in un autobus
affollatissimo, di quelli che strisciano sull'asfalto con la coda e le
portiere sono gonfie ma bloccate. Dove metti la crocetta:
A) Ti alzi e fai accomodare una vecchia in cinta in attesa dei soccorsi.
B) Col martelletto d’ordinanza prima spacchi il vetro d’emergenza, poi
spacchi la faccia a chiunque cerchi di saltar fuori prima di te.
C) Spacchi la faccia alla vecchia gravida, così, tanto in 'sto casino chi lo
viene a sapere.
D) Mordi a sangue una guancia alla stronzetta che tu le hai sorriso ma
lei è impallidita ed ha girato la testa».
Leo a medio alzato fa capire che crocerebbe B C D. Col secondo medio
alzato e vibrante comunica che alla personaggina smorfiosa di D
praticherebbe anche altre cose, tanto in 'sto casino chi distinguerebbe le
urla?
Si odora il secondo medio. Subito glielo odora anche il medico, che
balza indietro di scatto.
«Perché tanto odio? Cosa t'infastidisce?»
«Che cosa t’infastidisce, testa di cazzo, parla in italiano. Tutto. A
cominciare da te. La tua faccia. Come ti conci il naso. Il tuo stipendio.
Le tue domande imbecilli. Il tuo far parte della mia realtà. Quella vacca
di tua madre. Se mai l'hai avuta».
Un sichiatra pubblico non è meschino, è e vuole essere un
professionista, educato a non leggere come personali gli attacchi di un
ebefrenico franato. Sospira soltanto, e stila il referto. Il seicentesimo
della mattinata. Di fronte alle brutture posteti davanti (posteti?) dal
misericordioso mestiere ci si difende con la prassi, con gli atti dovuti.
Il paz. Barozzi Vanes, aka De’ Carolis Leonardo Lennileo, da Noi
approcciato il 23 ultimo scorso, all'esame obbiettivo denuncia
significativi elementi di marasma del sensorio superiore, connotati da
impulsi coattivi a morsicare tessuti umani, e associati a schizofrenia
paranoide galoppante. Allo stato risulta destrutturato in toto, intrattabile
e refrattario a qualsiasi presidio terapeutico, ivi inclusi elettrosciòcc, socc
del mel alla punta, scissura dei temporali e deafferentazione corticale.
Rinchiudere. Dimenticare. Evidentemente.
Si rilascia a chi di dovere per gli Usi di Legge.
In fede, Bulagnesi Pier Maria, diciamo.
Ha una coiffure arancione ed un tatuaggio GNOCCA RULES! sulla
guancia sx, anellini e crocifissi infissi nei posti più atroci, ma il mestiere
lo conosce, perdio se lo conosce, e va quindi a cantare il referto al
paziente laggiù nella stanzina imbottita, imitando la voce maschia di
Ron, suo artista di riferimento.
Grida cilene. Grida argentine. Grida tuzi. Grida kurde. Grida tibetane.
Grida slave. Grida terrestri.

Ravvolto in una camicia di forza che nessuno gli leva e nessuno gli
lava, Leo per un paio di anni vegeta in una stanza con materassi e ditate
nelle cantine di un manicomio convenzionato di Imola. L'unico che lo
accudisca e che gli voglia un po' di bene è Mengoli Gino, un infermiere
di Sassuolo, spinto in quelle tristi plaghe da indicibili intorcinamenti
della beffarda vita. Nasando odor di Premio Bancarella, Campiello,
Strega, Bagutta, Viareggio, Forte dei Marmi, David di Donatello,
Telegatto, Terrazza Martini e Chinzén de Realizér, Gino ha sub/odorato
la potenzialità delle memories del povero bavoso. Di giorno intervista e
registra, di pomeriggio si disinfetta, e di notte sbobina i deliri del
conterraneo. Un lavoro attento e minuzioso: molti pugni e cinghiate
partono quando Lenny si slancia nei suoi galoppi anti sassuolesi, ma il
resto, signori, è amore. Vero amore.
Allo stato trattasi di materiale ancora un po' crudo ma, cantando e
portando la croce, Gino sogna un'auto nuova e una moglie nuova.
E siccome c'è bisogno di gioia nel mondo, facciamo voti che tutto vada
come vuole lui.
Alè Gino.

PARTE TERZA

Dal Particolare all’Universale

Cotto e tostato da psicofarmaci non di ultimissima generazione


(molecole tremende, messe al bando dalla Food And Drug
Administration, ma solo negli Stati Uniti), Leonardo lascia l’ospedale.
Si sente rinvigorito. I camicioni di canapone, i canapè imbottiti e le
confessioni al registratore di un povero illuso l'hanno riempito di
sinergie, ma è ancora traballante. Non sa come reagirà al primo attacco
dell'attuale problematica odierna del giorno d’oggi, allo stato piuttosto
performante, oggi come oggi, vivvaddio.
Il ritorno a casa è una vera prova finestra.
Tutto ciò che disprezzava (ciclisti, vecchie in blè, tossici, Ferrari Rosse
con ruote a stella, ignoranti bocchinaie in pelizza di volpedo, autisti
d'autobus, tunisini d'autobus, anconetani, bresciani, bulagnesi, calabresi,
commissari calabresi, commesse, impiegate, il verbo approcciare, il
sostantivo règimi, il mondo intero col suo fiato al caffelatte e infine
PARAMETRARE, il Boss di Fine Livello) s'è messo in fila tra il portone
blindato del manicomio convenzionato ASL e la porta della sua camera
da letto convenzionale. L'Odiabile Tutto applaude i funerali del vecchio
Leo Che Non C’é Più, clap clap clap clap, applaude la prova superata,
attentissimo a stangare eventuali nuovi passi falsi.
«Signurì, ti leggere mano, bona fortuna, bono amore, bona vita, boni
soldi si tu da me soldi».
Zingara. Di Boemia? I suoi bambini roteano attorno a Leonardo, che
cerca ad occhi chiusi d’infilare le chiavi nel portone. E non stanno
esercitandosi in garruli girotondi. Sono dieci piccoli indiani che in
carosello puntano al conestoga del suo portafogli. In quale tasca sarà mai
nascosto? Se si distrarre gli slammettaremo tutte, giacca, pantalone e
anca palle se urlare all'aiuto all'aiuto. I colori di guerra sono sostituiti da
moccio verde e cispe albicocca e cerumi neri, le penne d'aquila da
inquietanti cernecchi animati e forforescenti e le frecce, nella filmina
interiore di Leo, da neri pistolini grinzosi all'affaccio, meno lunghi e
puntuti ma di sicuro più affaturati.
«Si legga la Costituzione, per favore» suggerisce, poi il portone si apre,
lo accoglie, lo protegge, si richiude, TONF.
In casa si butta sul divano.
Ma non gli sta girando pari. Ha bisogno d’aria vera, dopo anni di
materassi con ditate.
«Farsi due passi», si prescrive, ed esce. La zingara è sparita, queste
sono fortune. Imbananato duro dal mix di Roipnol Depositum e Tavor
1000 Koncentrè, gli ultimi sparatigli gratis prima della dimissione, dirige
in zona Varsity e si siede su una panchina di Via del Guasto. Tra le
enormi mele marce di Pomodoro, cagate e inverdite dai piccioni, il
selciato è luccicante di siringhelle. Moderne sculturine moderne,
fermamente volute da tredici generazioni di assessori all'arredo urbano.
«Fratello, dieci sacchi, mi parte il treno tra un minuto, dai».
U- un terminale risorto da un cespuglio, spade concimate e stillanti che
penzolano da cinque valvole del gomito. Ragazzo di strada, artista di
strada, scultura di strada, creperà per strada.
«Lavorare. Fonderia. Cantieri navali. Miniera di sale. Miniera di zolfo.
Pulicessi a San Patrignano. Assassino a San Patrignano. Ampia varietà di
scelte, se si è giovani e motivati».
«Eh? Cazzodici. Sto deca lo smolli o no».
Leo si alza e s’incammina verso il mercato della Piazzola. Vuole
rilassarsi. Shopping. Non male come idea, e taglia da Piazza Verdi,
malissimo come idea.
«Fumo? Bici? Roba? Biglitti tiatro? Strumenti di orchestra di tiatro?»,
gli bisbiglia un rappresentante. Dal tasso alcolico del fiato Leo desume
trattarsi di musulmano rompicazzo, nella trista variante di rompicazzo
musulmano, cru Sfax.
Ha barbetta e sguardo poco rassicuranti. Pericolo. Maghreb. Allah.
Culo frantumato. Inoltre coltello, a ravanare nei frantumi. E poi, chissà
se la garanzia sugli acquisti è valida.
«Telare».
«Nienti tilare, io stari. Orilogi? Bambini? Hai sigaritta? Dici sacchi?
Portafogli? Casa? Mogli casa?»
«Chiamo la polizia?»
«Tu vuoi puliziotti. Ecco lì - indica un cellulare chiuso, di fronte al
teatro. -Vuoi io ti li chiamare? Mii boni amici. Io detto lori fracco cose di
mii nimici».
Leonardo stringe i pugni e rievoca le parole dei dottori: «Come regola
generale se ne stia sempre bel calmino, Sig. De’ Carolis. Quando si sente
disturbato, chiuda gli occhi, vada oltre. Conti, conti. Antichissima pratica
tibetana. Nessuno, come i tibetani. Passi alla cassa. Cominci a contare».
Leonardo allunga di lena, semina Yussuf ben Hallouf che non se ne
accorge proprio, ha già altro da fare ad altri.
Una studentessa di Legge in bicicletta, stizzita dal traffico, scarta e
s’immette sparata sotto il portico. Il Roipnol non consente riflessi felini,
costerebbe molto di più no? e la ruota anteriore lancinante gli si incastra
nel cavallo. Raggi. Galassie. Supernove. Stelle. Tutti i milioni di milioni
della canzone.
«Non guardi dove madonna vai, testa di minchia?». La principessina ha
piena contezza dei propri privilegi, ha rinunciato magnanima a quello di
azionare i freni ma il resto li vuol far valere TUTTI. De facto. Hic et
nunc. Ope legis. More uxorio.
Leo fissa i murales. Belli. E conta. Tanto. A lungo. Intensamente. Le
bananapalle gli si sgonfiano un po' prima del trecentomila, e zoppetto
riesce a raggiungere la Piazzola. È sabato, e c’è un bel movimento.
Signore a caccia di mutande da mille lire. Tossici a caccia di mille lire.
Mille tunisini algerini marocchini a caccia di tossici e di mutande con
signore dentro. I senegalesi se ne stanno al largo, per i loro bastoni in
mutenye e antilopi d’iroko ed elefantini in bubinga e sgabelli in dussié
non c’é richiesta.
«Amico, roba, amico» lo strattona un mezzaluna baffettino cru Tindouf,
con piccolo cellulare uptodatissimo per le ordinazioni on the fly.
No, mogio, di testa. Niente parole.
Non sa come, dipenderà dall’essere stato fuori circolazione troppo
tempo, chissà, ma oggi i cavalli nordafricani gli paiono tutti uguali:
stesso giubbotto di pelle, stesse scarpe da basket, stessa sciarpa d'arafat,
stesse cicatrici in faccia, stesso sorriso sfrappachiappe. I boss del racket
li mettono in uniforme, quando li assumono. Tutti uguali, con identica
carta d'identità al ciclostile, e tenersi bassi a guardaroba, ragazzi, così gli
sbirri si confondono e vi prendono per uno dei loro. Una razza, una
faccia, un’attività.
Leonardo respira a fondo, auspica che lo smog degli autobus abbia
effetti calmieranti sulle bozze frontali. S’incammina lungo la salitina
della Montagnola. Gli piace spulciare tra le bancarelle dei vestiti usati,
cercare di sfogliare vecchie riviste porno incollate, magari esaminare da
vicino queste famose card telefoniche di cui si dice tanto, notevoli
finestrine sulla capacità dei terrestri di inventarsi una boiata al secondo.
«Quant è questa?», chiede il prezzo di una scheda ad una bancarella,
indicando la meno rovinata.
«Sessantantamila mila ¬ uri», risponde l ambulante. Ha la faccia del
Gatto e della Volpe messi assieme. Serbia + Calabria.
«Mila mila cosa? Per una scheda usata?»
«'Scolti. È una Felicori Màvuro Rosso del '99, a tiratura bassissima,
solo due milioni di pezzi. C'è scritto, guardi, vede, visto? Sul catalogo la
mettono a dieci, ma ci marciano. E questa è stampata a rovescio, per cui
varrebbe anche di più, sa. Perché mi fai perdere tempo, se non te ne
intendi, passante?».
Leonardo cerca ossigeno a grandi sorsate. E' buono l'ossigeno, fa bene.
Camomilla milla, si prescrive.
Scavalcata una trentina di fuoristrada coreani scintillanti, entra in un
bar di Via Dipendenza, il Bandi Killer. Dentro, sotto due gigantografie di
Beppe Savoldi e Beppe Signori, una macedonia di papponi meridionali,
busoni meridionali, commesse meridionali in minigonna ed
estetisucchiere bulagnesi, professioniste del boccolo ai meridionali. Ha
già voglia di uscire: meglio viver tra i ghiacci che consumar refezioni tra
venti meridionali. Ai tavolini vigilano albanesi, con la loro pettinatura a
coda d'anatra. Una poliziotta, brutta come una Uno bianca e con
steatopigìa alla cavallerizza, che l’uniforme esalta, sta facendo
occhiolino e linguette a due di loro, fingenti smodato interesse al suo
seno corto ma intanto studianti modo privarla Beretta 9 mm lungo.
É uno spettacolo doloroso, orribile, quello che gli sta di fronte: i bar
tirano via il velame dalla degenerazione dell’uomo, un degenerato che ha
perso l’istinto e sceglie, preferisce ciò che lo danneggia.
«Cinquecento camomille, per favore».
«Be’, no, Signore, per chi ci ha preso. Qui solo Bianco Sarti, siamo un
bar moderno. Comunque paga prima alla cassa». E col fazzolettone rosso
e blè Forza Bulagna! sfrega disinfetta e lucida il marmo in metacrilato
davanti a Leo.
Il felicori per cui non ha optato, che gli piazzano sotto lo stesso, è
annacquato, senza nerbo, chicchi non vitali allevati in batteria, ma in
compenso sa di ammoniaca. Il Bandi sarà anche moderno, però la
macchina del caffè bisognerà bene un giorno che qualcuno gli dica di
pulirla.
Di fianco al bar c’è un’immensa sala giochi, la Stelle e Strippi. Millenni
che non mette piede in uno di questi nulla. Da ragazzino ci bruciava i
mesi, i trimestri, le pagelle.
Andiamo e uccidiamo qualche astronave, chissà se ho ancora la mano.
Come li odiavo, gli invaders.
«Brown? Bianca? Libano? Windopen? Anfe? Ecstasi? Harissa?
Yoimbina? Nepente? Colla da scarpe? Mio fratellino? Il fratellino di
qualcun altro, magara?». Non ha ancora infilato le millecinquecento lire
nella fessurina della macchina che un mullah gli sciorina meccanico ed
annoiato il campionario, senza guardarlo, supremo, attento solo al
circostante e a come vanno gli affari dei complici. Scambia un cenno di
saluto col poliziotto di guardia alla cassa, che lo ricambia con un
sorrisino e una scuotitina di testa ammonitrice.
Lenny svicola fuori in fretta, e sotto le nuvole di bambagia metanica
scopre di non avere più mete; la passeggiata gliel’hanno accoppata, e ora
può solo decidere di tornarsene a casa. Ci ho provato, è andata male, ma
la buona volontà ce l’ho messa, accidenti: quella l’ho ancora, segno certo
che sono un vincente. Fa due V con le dita rivolte al cielo, ma è anche
vero che vorrebbe infilarsele in gola, o negli occhi. Una vetrina di scarpe
per matte gli rivela la presenza sopra la testa di una nuvola fucsia, a
forma di teschio, che lo incorona Re dei Morti In Piedi. Pur sapendo di
essere l’unico a vederla, approva questa decorazione Pùr Le Merìt, dice
sì con la testa due volte, ma non è che la cosa lo emozioni o lo
sorprenda, sapeva che ci sarebbe arrivato. Il teschio prende simpatico a
mordicchiargli la punta delle V ancora scioccamente innastate.
Ha voglia di buio, vuole buio. No tv, no giornale, no telefono, no
umani, no mondo, no realtà. Sì dormire. Sì sprofondare. Sì niente.
Imboccata frettolosamente una scorciatoia, è investito ancora una volta.
Un travesto biondo in motorino, vacca contromano, pelliccia da
mantenuta contromano, telefonino da cavalla delle polveri contromano.
Occhiali a specchio, rossetto da ingoio. E' imbestialita, ha dovuto
interrompere la telefonata, gli affari, fermarsi.
«Kkaazzofai, cieco del cazzo. Sei ubriaco, albanese del cazzo?», e gli
sputa in faccia. Teatrala, scaraventa a terra il motorino per ammazzarlo
di botte.
Leonardo paralizzt, ma kon sorriso su lbbr. Saperessere ormai caplinea.
Quandaldunque, nuomo è nuomo.
Explod cnsapevlezz, arriva gotterdamerung ora X show down catarsi.
Gatt lard rimett zampn. Scherzt trpp con fuoc. Il tròp lè tròp, interrompil
tuo galòp. Hiroshigasachi.
Zip, zap, stracciaboom
Il Teschio Fucsia in cima a Leo é visibile anche a terzi, ora, apparizione
portentosa e raccapricciante, ma la sorcia non fa in tempo ad assaporare
il Terrore; le si lessano subito i globi oculari, bianchi, bianchi, dolore
chiodato, e le narici si spampanano in nere coane piene di larve dei
morti, gli cascano i denti con tintinnii sul motorino, tin tin e rin tin tin,
poi vapore, fssssssss, scompare.
Prima c'era, adesso non c'è più. Che liberazione. Capire i partigiani.
Poi riappare facendo POF, sbaglio nudo meravigliata con kazzinfronte
formaggioso e agitato, vivo di suo. Pelosa vagina colante al posto di ex
bocca pittata, più sequela di pianti e lamenti ed echi ed aliti di sepoltura.
Coglioni di cane penzolano da mento. Corpo groviglio di nasoni negri e
canappie ebree, corde saponate, camini, croci in fiamme, trattori
albanesi.
Poi vapore. Cancellata. Fsss.
Poi c'è.
Poi vapr. Fss.
Poi c'è, povapr, pocè pvpr. Settanta volte sette, questo spettacolino. Fs.
Fs. Fs. Fs. Fs. Fs. Fs.
La testa di Leonardo è un frappè di ossa pelle scintille circonvoluzioni
ricordi rimpianti strilli dolore.
L'eroe è scivolato in ginocchio, tamburi lontani nelle orecchie,
contrazioni tetaniche cloniche anguillose. Passanti osservare, sentimenti
assortiti albergando. Sul finale schifo prevalere.
Vecchia coraggiosa in blè fermarsi, mano salsicciosa appoggiargli su
spalla e con carità e accento sassuolesi chiedere:
«Si shente male, sgnùreino? Vuole cento lire? Una brioss? Del
metadone? Il 118?».
Leonardo alza il mento e coi pozzi secchi delle orbite la fissa. Così
inginocchiato, con una corona di sangue che dai capelli gli riga la faccia,
è Gesù. La signora ha un sussulto. Il Creatore? Lo faceva più biondo e
checcoide, tio bò. Che fine hanno fatto gli occhi alla polniùman?
“Chiamo un muezzin? Un prete? Il zentro zòvani?”.
"No. Sendo".
La fronte del gesù entra in risonanza. Gezzzzzùùùùùùùùùùùùùù. Ùùùù.
La shamaritana comincia a vibrare.
La sua pappagorgia.
Il suo astrakan.
Il pacchettino di caffè.
I capelli blè.
I presenti.
Bulagna.
Comune, Provincia, Regione. Lo stivale, la palla, la galassia, l'universo,
il concetto di universo.
SSSSSSSSSSfrapppzz, straaaaazzz
stracciabum
Buum
BUUUUUM

MENGOLI GINO, il Mister di Quantità & Qualità, l’Alto di Gamma,


Grandeclasse Grandecultura, Demiurgo di Vaglia, Il Migliore, lecca via
dal cabarè le molecole della caccola schioppatagli senza apparenti motivi
tra i palpi, e suspiria con ali di cristallo.
Ecco, l’Inevitabile Incidente è risuccesso, mi tocca rifare nuove tutte le
Cose.
Diciamo che allostato non risulta esserci probblema, ma non é questil
punto il punté n’altro: realizza che si é rotto ‘na cifra de paura di cantare
e portare la croce, la fase impone di andare a una grossa verifica, ma
senza per questo entrare in fibrillazione. Sìpperché, per quanto lo
concerne, Lui - Non - Ci - Sta a questo trend del comparto, detto con
tutta la piena, pacata serenità del caso, anche se non potrebbe
fregargliene di meno. Vero è che se la sconfitta della politica fa
tendenza, e non fa morale, non fa spogliatoio, non fa classifica, non porta
fieno in cascina, be’ allora sarà giocoforza testare altri ambiti innovativi,
e aprire ulteriori linee di ricerca e sviluppo e vagliare altre tematiche, e
be’ allora sarà giuoco porre sotto screening indagini conoscitive più
performanti, allo stato su questo non ci piove, evidentemente, diciamo.
Non è chi non veda che é un atto dovuto, allo stato non ci sono i numeri
per proporre alternative che abbiano un senso, e chi pretende di avere
pronta la ricetta valida, la panacea di tutti i mali, l’uomo di tutte le
stagioni, bé allora si faccia avanti si assuma le sue responsabilità per
intiero e la proponga al Paese, ai giovani che ci guardano coesi e che
sono la nostra ricchezza. Sipperchè nonè questil probblema, il probblema
è politico, e concerne una visione di più larghe intese organiche. Vero
animale di palcoscenico, non é nelle sue corde la sistematica disattesa
dei suoi grossi input, talché la volta prossima ventura, se la ristretta
tempistica a Ns. disposiz. lo consentirà, converrà valutare un attimino
meglio i riscontri probatori sul territorio epocale dismesso in oggetto di
cui sopra pocanzi, e se del caso riaprocciare la fitness del ribaltone con
un più grosso règime di giri di valzer. Diciamo che, ponendosi
superpartes, con occhio equidistante e coeso, riparametrerà management
satellitare, tattica di gioco, centrocampisti di fascia e di cerniera, di
bosco e di riviera, chi di dovere, il bonus, il malus, classe di provenienza,
modalità arcade multiplayer e quant’altro la problematica impone. La
palla è rotonda, ma ben lo si sa. Diciamo che pacatamente si assumerà in
pieno le proprie responsabilità umanitarie, con una visione qualificante
di più largo respiro e più grosso spettro, afferente al terzo millennio
ormai alle porte, diciamo. Sipperché è dato comune che Tutto si può
fare, quando c’è una grossa Volontà Politica in atto, vivaddio coeso: non
s’ha da temere alcun Confronto con la Controparte, se Essa farà la sua
parte con spirito costruttivo, non miope diciamo, e se scenderà in campo
senza remare contro per conquistare visibilità a discapito delle
aspettative della società reale del sistema-paese di provenienza. Realizza
che è sufficiente aprire un grosso tavolo di concertazione ed andare alla
verifica in maniera pacata, consapevoli del fatto che l’Azienda Universo,
che allo stato siamo a gestire col più ampio e fattivo concorso di tutte le
forze sane, é un grosso inciucio molto performante cui tutte le parti
sociali usufruenti debbono continuare a guardare con larga convergente
ammirazione e grosso rispetto istituzionale, ma ambedue pacati, diciamo,
coesi, per tirare avanti unitariamente e serenamente, consapevoli fino in
fondo del gravoso compito che ci siamo assunti, grati e orgogliosi per il
lavoro fin qui svolto nell’ambito del Gì Otto, ma lucidamente e
pacatamente, democraticamente consci che, lo si voglia o no, stiamo per
andare coesi tuttiinconcerto incontro ad
uneurepocancellieratallatedescadoppioturnofederalismonazionalazzurrifo
rmematocritoriminizemanzaccheronibatigolalkaciofalkaseltzerozerozero
zerurgenzacoesa.
I terrestri questo vogliono. Assolutamente sì.
Gli italiani poi non ne parliamo.
Evidentemente.

AP.
PLAUSI.

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