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copertina ridotta all’interno dei
margini
  titolo LA PROSPETTIVA COME <<FORMA SIMBOLICA>>    
 
editore AESTHETICA    

luogo LIPSIA-BERLINO    

anno 1927    

       

lingua TEDESCO    

       

Titolo originale: Die Perspektive als “Symbolische Form”    

     

 
Argomento e tematiche affrontate  

Nel saggio “La prospettiva come forma simbolica” 1927 (tradotta in italiano
nel 1961), Erwin Panofsky compie una accurata analisi della concezione di
spazio dall’antichità classica all’età moderna, dimostrando come gli artisti
rappresentavano la spazialità secondo la concezione che essi avevano del
mondo.
Partendo dalla definizione dureriana, “Item Perspectiva ist ein lateinisch
Wort, bedeutt ein Durchsehung” (“perspectiva è una parola latina, significa
vedere attraverso), egli fa una analisi della concezione di spazio. Per l’autore
non c’è contrapposizione tra spazialità antica e spazialità rinascimentale,
semplicemente nell’antichità si aveva un’idea di spazio finito, non omogenio,  
in rapporto alla percezione fisiologica spaziale, mentre nel mondo si
affermava l’idea che lo spazio fosse infinito, omogeneo e sistematico, e
dunque la prospettiva doveva essere costruita mediante regole geometrico –
matematiche.
La prospettiva, in tutte le sue forme progressivamente definite nei secoli, non
è determinante per stabilire il valore artistico; tuttavia costituisce un
importante elemento stilistico dell’opera stessa, è una di quelle forme
simboliche attraverso cui le singole culture, le singole epoche rendono
visibile la loro concezione spaziale.
 
    

Giudizio Complessivo: 9 (scala 1-10)  

Scheda compilata da: Laura Hölzle  

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 3 a.a.2015/2016  

   

  Autore Erwin Panofsky  


 
Erwin Panofsky (Hannover 1892- Princeteon 1968): fu uno storico dell’arte
tedesco naturilazzato statunitense, massimo teorico dell’iconologia.
Laureato a Friburgo nel 1914, divenne professore di storia dell’arte
nell’università di Amburgo, tenendo corsi nelle università americane di New  
York e Princeton. In seguito all’avvento del nazismo non rientro in Germania
e stabilitosi negli USA, insegnò dal 1935 all’Institute for advanced study di
Princeton.
Tra le sue opere ricordidamo “Durers Melencolia I” (1923), pubblicato con
Erwin Panofsky Fritz Saxl, “die deutsche Plastik des elite bis dreizehnten Jahrhunderts”, “Ein
Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren” entrambe del 1924, “am
Scheidewege und andere antike Bildstoffe in der neueren Kunst” (1930),  
“Studies in Iconology” (1939).
 

   

Contenuto  

Il libro è diviso in sette parti. I primi quattro capitoli sono l’analisi di Panofsky sulla concezione di spazio nelle varie
 
epoche. La quinta parte sono le note. La sesta parte sono le tavole prese in considerazione dall’analisi. Infine, l’ultima
parte, è una nota su “La questione della prospettiva” a cura di Marisa Dalai Emiliani.
CAPITOLI  

Capitolo I  

Il Libro si apre con la definizione di intuizione prospettica dello spazio concepita nel Rinascimento, ovvero  
immaginare l’intero quadro come una finestra sul mondo attraverso la quale noi crediamo di vedere lo spazio. Nel
“piano figurativo”, cioè il quadro, si proietta uno spazio unitario visto attraverso di esso e comprendente tutte le
singole cose. Il quadro viene rappresentato come un’intersezione piana della cosiddetta “piramide visiva” che si forma
tra l’osservatore e lo spazio che lo circonda, nel quale noi poniamo i punti caratteristici dell’oggetto che intendiamo
rappresentare. Quindi se possediamo l’alzato e la pianta di un oggetto saremo in grado di rappresentarlo in prospettiva.
Nella prospettiva rinascimentale tutte le ortogonali convergono verso un punto di vista unico, le parallele invece hanno
un punto di fuga comune, se invece giacciono sul piano orizzontale, il punto di fuga coincide con l’orizzonte, cioè
sulla retta orizzontale che passa per il punto di vista. Questa “prospettiva centrale” si ottiene presumendo uno spazio
finito e omogeneo e che noi osserviamo con occhio immobile. Tuttavia il concetto di infinito non è percepibile
dall’uomo, poiché la percezione ne ignora il concetto stesso. Dobbiamo anche negare l’idea di omogeneità, essendo
data da una relazione dei punti che sono all’interno dello spazio, che sono, tuttavia, privi di contenuto, ed esistono uno
in funzione dell’altro, essendo espressioni di relazioni ideali. Tali punti cambiano a seconda dei nostri bisogni, per
questo lo spazio omogeneo non è lo spazio dato, ma lo spazio costruito. La prospettiva è un processo di astrazione
mentale nel quale noi spogliamo gli oggetti dalla loro identità per rappresentarli in uno spazio matematico rigoroso.
Tuttavia la prospettiva presenta molti limiti:
-        non considera il fatto che il nostro occhio è in continuo movimento, e che quindi cambia modo di vedere la
realtà.
-        Non considera l’interpretazione psicologica che noi diamo a ciò che vediamo, una realtà che varia da persona a
persona.
-        Non considera che la realtà sia proiettata sul bulbo oculare, quindi su una superficie concava, non piana.
Quest’ultimo punto porta a due conseguenze, la prima, puramente matematica, consiste nella creazione delle
“aberrazioni marginali”, che contraddistinguono l’immagine prospettica rispetto all’immagine retinica, da parte
dell’occhio, se prendiamo una linea e la dividiamo in tre segmenti disuguali e li guardiamo da uno stesso angolo,
ci accorgeremo che le linee sono approssimativamente uguali, poiché riflesse su una superficie concava. La
seconda conseguenza sono le linee rette, che nella prospettiva sono rappresentate in quanto rette, nella realtà, a
causa della configurazione dell’occhio, vengono percepite come leggermente incurvate. Questa curvatura
dell’immagine visiva è stata oggetto di osservazione due volte: da un lato dai grandi psicologi e dai fisici della fine
del XIX secolo, dall’altro dai grandi astronomi e dai matematici dell’inizio del XVIII. Tra gli ultimi ricordiamo
Wilhelm Schickhardt che affermò: “..dico che tutte le linee, anche quelle più rette, non si presentano come tali
directe contra pupillam, proprio davanti all’occhio.. ma che necessariamente appaiono un poco curve. Ma nessun
pittore lo crede; perciò i pittori dipingono le pareti piane di un edificio con linee rette, benché stando alla vera
arte della prospettiva non sia possibile considerarle propriamente tali.. Sciogliete questo enigma, o artisti!” (pag
17) .
Keplero, che condivideva lo stesso pensiero di Schickhardt, si accorse , infatti, di questa reazione della retina,
tuttavia ammise di essere troppo condizionato dalla prospettiva piana e dalle sue regole geometriche per poter
cambiare tutto a favore di una prospettiva sferoide.  
 
                                                 
 Costruzione di un interno rettangolare secondo la prospettiva piana                                                                     Aberrazioni marginali
Capitolo II  

L’atteggiamento della cultura antica si contrapponeva totalmente a quella rinascimentale, infatti ci si chiede se non
si fosse giunti a un sistema prospettico. Vitruvio in “Dieci libri sull’architettura” dà la definizione di “circini
centrum”, un punto verso il quale tutte le linee “rispondono”. Tuttavia siamo ancora lontani dal concetto di punto
di vista rinascimentale, il circini centrum corrispondeva all’occhio dell’osservatore, che veniva immaginato come
il centro di un cerchio nel quale si intersecavano i raggi visivi, i prolungamenti delle linee di profondità però, non
concorrevano verso un unico punto, ma si incontravano a due e due. Tale principio è il punto cardine della
prospettiva a lisca di pesce, o più precisamente prospettiva dell’asse di fuga. Questa prospettiva però presenta
 
svariati errori, mentre quella rinascimentale rielaborava la realtà cambiando misure e collegando il tutto a un unico
punto di vista e a un rapporto costante, quella antica rappresentava la realtà in gruppi, essendo i punti di vista
svariati. La prospettiva antica, ad esempio, non riuscirà mai a rappresentare correttamente una pavimentazione a
scacchiera, poiché le piastrelle centrali, essendo in prossimità dell’asse di fuga, risulteranno più piccole di quelle ai
lati, errori che di solito venivano coperti con altri oggetti (scudi, pezzi di stoffa). Alla domanda sul perché nel
mondo antico non si è giunti alla scoperta della piramide visiva, la risposta è che le opere di quel tempo non
esigevano uno spazio sistematico, nonostante le varie teorie in merito, nessuna è giunta alla conclusione della
definizione dello spazio inteso come sistema di relazioni tra altezza, larghezza e profondità.
Costruzione di un interno rettangolare secondo la prospettiva angolare
  
Capitolo III  

     La totalità del mondo resta qualcosa di frammentario e di non percepibile nonostante le varie teorie antiche,
come quelle di Democrito e di Platone, lo spazio era costruito “da corpi e non corpi non correlati tra loro”.
Quindi nel momento in cui durante lo studio di un problema si capisce che la strada che si sta percorrendo è
sbagliata, di solito avvengono dei ritorni al passato o dei veri e propri cambiamenti di rotta, nei quali si
considerano le varie ipotesi scartate in precedenza. Il Medioevo, in particolare, risulta uno dei grandi ritorni al
passato, il suo scopo era di “unire” ciò che in passato era percepito come “molteplicità”, ma per raggiungere tale
unità era necessario distruggere l’unità esistente, un distruggere per ricostruire, l’eliminazione vera e propria dei
vincoli spaziali antichi. Una volta rimossi questi vincoli spaziali, le figure risaltano, posseggono un’unità nuova,
un’unità coloristica e luministica, che rappresentava il primo passo per giungere a uno spazio sistematico.
Già nell’arte Bizantina si rivelò la volontà di promuovere la riduzione dello spazio alla superficie, e di accentuare
la linea, quell’elemento che era l’unico mezzo di consolidamento e sistemazione. Ma tale arte, non seppe
discostarsi dal mondo classico,mentre, nell’arte romanica si ebbe una frattura radicale con esso. La linea diventa
solo un mezzo grafico “sui generis” per raffigurare delimitazioni e ornamentazioni delle superfici, non allude in
alcun modo ad un senso di spazialità, che è una premessa indispensabile per lo sviluppo di una concezione
spaziale moderna. Corpi e spazio ora sono uniti per la vita, e se nel futuro il corpo andrà sviluppandosi, ciò dovrà
avvenire anche per lo spazio. Questa evoluzione si attua soprattutto nella scultura dell’Alto Medioevo che
trasforma la superficie pittoricamente mossa in una superficie stereometricamente unita. Ora la figura in rilievo
non è più un corpo che sta davanti ad una parete o in una nicchia: la figura e lo sfondo del rilievo sono le forme in
cui si esprime un’unica e medesima sostanza; per la prima volta in Europa si delinea una plastica architettonica
che costituisce una parte diretta della costruzione: La statua romanica ora è una colonna plasticamente sagomata,
la figura romanica in rilievo rappresenta la parete stessa.
Nell’Antico Gotico c’è , nuovamente, un distacco tra spazio e corpi. Esso rappresenta una sorta di apertura, poiché lo
spazio, sebbene staccato dai corpi, continua ad essere parte di quel “tutto” omogeneo.
La dottrina dello spazio di Aristotele, ripresa dalla filosofia scolastica, subì una notevole reinterpretazione, perché
permetteva di ipotizzare l’infinità dell’esistenza e dell’azione divine.
Il momento in cui si costituisce la cosiddetta “prospettiva moderna” avviene quando i concetti cardine di bizantino e
gotico vengono sintetizzati in una nuova idea spaziale. I fondatori di tale sintesi sono Giotto e Duccio, mediante i
quali riaffiora il concetto di superficie pittorica come porzione della realtà percettiva. Rispetto all’antichità questo
spazio era più saldo e organizzato unitariamente, la prospettiva di Duccio è, tuttavia, ancora limitata dalla “superficie
pittorica”, in quanto lo spazio si limita ad essere un corpo cavo, costituito dai lati con le pareti ortogonali e dalla parete
posteriore della stanza. Con la scoperta di tale prospettiva “parziale”, Duccio segna un’importante traguardo nella
ricerca di un senso spaziale, affidandone il miglioramento alle generazione future di artisti. Dinanzi a questa scoperta
possiamo riscontrare due tipi di reazioni: alcuni pittori, che possiamo definire conservatori, schematizzarono lo
schema dell’asse di fuga, superato da Duccio, e lo ripresero basandosi solo sull’utilizzo di linee parallele. Altri,
perfezionarono la prospettiva, e possiamo vedere in quest’ultimi gli innovatori del rinascimento, tra cui spicca
Ambrogio Lorenzetti, che nella sua opera “Annunciazione” mostra chiaramente un piano orizzontale orientato verso
un unico punto e non chiuso ai lati del quadro, il pavimento corre sotto le figure ed è indice dei valori spaziali, non si
esagera nel dire che tale pavimento è il primo utilizzo di uno “spazio sistematico”. Tuttavia anche quest’opera non
permette di rilevare se effettivamente tutto il pavimento sia orientato verso un punto di fuga; perché in essa entrambe
le figure raggiungono i margini del dipinto e nascondono le zone laterali dello spazio. Nonostante ciò la prospettiva di
Lorenzetti ci mostra come la concezione di infinito sia ancore in fase di creazione.
La conquista della prospettiva avviene in modo differente tra Nord e Sud Europa, i Francesi furono i primi ad
applicare sia l’asse di fuga che il punto di fuga, Jack van Eyck introdusse il concetto di quadro come frammento della
realtà, anche se la sua prospettiva, pur convergendo verso un unico punto, risultava matematicamente scorretta.
Mentre nel Nord Europa si rifaceva all’arte fiamminga cercando la spazialità verso la luce. In Italia venne in aiuto la
matematica, che teorizzò il metodo prospettico, Ad Alberti dobbiamo la definizione del “quadro come intersezione
della piramide visiva”.
Così il Rinascimento era giunto a razionalizzare anche sul piano matematico quella immagine dello spazio che era già
stata unificata esteticamente mediante un processo di astrazione del Medioevo. Con la prospettiva quindi si
razionalizzava la realtà percettiva, creando un mondo empirico matematicamente corretto e infinito. Ora possiamo
capire l’entusiasmo di Leonardo da Vinci che considerava la prospettiva “briglia e timone della pittura”, oppure che
un pittore ricco di fantasia come Paolo Uccello, chiamato dalla moglie a dormire, rispondesse “Oh, che dolce cosa
questa prospettiva”.
Con questa scoperta fu realizzato il passaggio dalla spazio psicofisiologico allo spazio matematico: “un’obiettivazione
della soggettività”.

Ambrogio Lorenzetti “Annunciazione”

Capitolo IV  

La prospettiva è un’arma a doppio taglio, sebbene cessò di rappresentare un problema tecnico-matematico, iniziò a
crearne uno, in misura tanto maggiore, quello artistico. Essa crea una distanza tra l’uomo e l’oggetto, ma annulla
tale distanza attraverso il modo in cui l’occhio dell’uomo appare di fronte a esso. Riduce i fenomeni a regole
matematiche, ma, d’altro canto, le fa dipendere dalle condizioni psicofisiche e dell’impressione visiva, in quanto
viene percepita attraverso il “punto” di vista soggettivo.  
La storia della prospettiva può essere concepita sia come un “trionfo della realtà distanziante e obiettivante, ovvero
un trionfo della volontà di potenza dell’uomo che tende ad annullare ogni distanza; sia come un consolidamento e
una sistemazione del mondo esterno, sia un ampliamento della sfera dell’io”.
La prospettiva, perciò, doveva riproporre di continuo alla riflessione artistica il problema del senso in cui impiegare
questo metodo ambivalente.  
 
 

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