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O

nietzscheana
saggi
26
collana diretta da
Giuliano Campioni, Maria Cristina Fornari

fondata da
Sandro Barbera, Giuliano Campioni e Franco Volpi
Poetica in permanenza
Studi su Nietzsche

a cura di
Gabriella Pelloni, Claus Zittel

Edizioni ETS
www.edizioniets.com

Volume pubblicato con il contributo dello


Stuttgart Research Centre for Text Studies
e del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Verona

© Copyright 2017
Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com
www.edizioniets.com

Distribuzione
Messaggerie Libri SPA
Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI)

Promozione
PDE PROMOZIONE SRL
via Zago 2/2 - 40128 Bologna

ISBN 978-884674931-4
ISSN 1970-6138
Prefazione

Gli scritti di Nietzsche si situano notoriamente sull’incerto


conine tra ilosoia e letteratura, tra pensiero e poesia, e an-
che in questo senso hanno sempre rappresentato, e continuano
tutt’oggi a rappresentare una sida notevole per i loro interpreti.
Tale aspetto dell’opera nietzscheana, riconducibile al cosiddetto
duplice talento del ilosofo, è stato immediatamente rilevato dai
suoi primi lettori e commentatori. Già nelle fasi iniziali della sua
esplosiva ricezione, quando erano davvero pochi gli artisti e gli
intellettuali a sottrarsi al fascino del suo pensiero, Nietzsche era
considerato all’unanimità come un poeta-ilosofo (Dichter-Phi-
losoph), tale da riscontrare una fortuna senza uguali sulle avan-
guardie artistiche e letterarie dell’epoca. Non è un caso che, in
dall’inizio, a segnare le prime tappe della Wirkung nietzscheana
fu proprio Così parlò Zarathustra, quell’opera ibrida che con-
quistò i lettori proprio in virtù delle peculiari modalità con cui
l’enunciato ilosoico era trasferito nei sintagmi narrativi e nel
tessuto metaforico di un testo che vedeva al suo centro una i-
gura ittizia. Alla luce di ciò risulta quantomeno sorprendente
che la Nietzsche-Forschung annoveri tuttora rare analisi sistema-
tiche dedicate a tale aspetto, e se è senz’altro vero che gli scritti
di Nietzsche sono stati nel frattempo oggetto di numerosi studi
dal taglio estetico e letterario, ancora pochi sono quelli che si
accostano ad essi con l’intento di approfondire le peculiari mo-
dalità di intersezione tra contenuto ilosoico e rappresentazione
letteraria.
6 I curatori

Il presente volume raccoglie gli atti del seminario interdisci-


plinare “Nietzsche: estetica, retorica e poetica / Ästhetik, Rhe-
torik, Poetik”, nato da una collaborazione tra l’Internationale
Nietzscheforschungsgruppe (INFG) dello Stuttgart Research
Centre for Text Studies e la Scuola di Dottorato di Scienze Uma-
nistiche dell’Università di Verona, e tenutosi nel marzo del 2016
presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere della
medesima università. L’obiettivo del seminario era quello di esa-
minare alcuni aspetti del pensiero del ilosofo che illuminano
snodi situati sul conine tra ilosoia e letteratura, e di indagare
poi in quest’ottica alcuni sviluppi della poetica di Nietzsche nella
cultura del Novecento.
Di questo duplice orientamento del seminario rende conto
la composizione del volume, suddiviso in due sezioni distinte.
La prima sezione approfondisce alcuni aspetti inediti, o inora
poco considerati, dell’opera nietzscheana, come la ripresa e la
trasformazione della forma dialogica, l’idea del linguaggio come
retorica che emerge nelle lezioni di Basilea, o la concezione del
linguaggio come gesto. La seconda sezione raccoglie invece in-
terventi che si concentrano su momenti ancora poco noti, o non
particolarmente approfonditi, della ricezione, come le riscritture
di Kafka, gli esperimenti stilistici di Adorno con la forma breve,
la rilessione di Cesare Pavese sul mito o l’interrogazione del-
la storia dalla prospettiva dell’arte nell’opera di Heiner Müller.
L’elemento che accomuna i contributi della prima sezione è la
concentrazione sulla rilessione estetico-ilosoica nietzscheana
sullo stile e sul linguaggio, ma anche l’attenzione per l’aspetto
scritturale stesso, derivato dall’interesse concreto del ilosofo per
la prassi della propria scrittura. La seconda sezione mira invece
a ricostruire alcuni momenti signiicativi del confronto con un
universo testuale che ha agito da propulsore per nuove esperien-
ze artistiche, mettendo in moto un universo simbolico che ha
permeato di sé il pensiero di generazioni. Nella consapevolezza
dell’ovvia frammentarietà cui va incontro una simile prospettiva,
questa sezione ha tuttavia l’ambizione di contribuire ad illumina-
re nelle sue diverse sfaccettature, e nella singolarità delle diverse
Prefazione 7

esperienze artistiche nate dal confronto con il testo nietzscheano,


quel laboratorio di sperimentazione che è stata la risposta alla
sida radicale posta da Nietzsche all’individuo moderno.
Il rischio in cui, nel caso di Nietzsche, può facilmente in-
correre uno studio della ricezione consiste principalmente nel
fatto che la ricerca di inluenze e parallelismi spesso inisce per
mettere in luce quelle tematiche, ormai non più che generiche,
che in forme e modalità differenti hanno caratterizzato la storia
della ricezione di Nietzsche nei primi decenni del Novecento,
nel momento della sua maggiore fortuna. Che Nietzsche abbia
contribuito in modo determinante alla diffusione e allo sviluppo
di una sensibilità speciica, che abbraccia concetti diversi quali
il nichilismo, il darwinismo, la crisi del soggetto, la critica del
linguaggio e la metaisica dell’arte, è un fatto ormai noto, che ri-
schia tuttavia di mettere in ombra quella sperimentazione meno
manifesta che si scopre, oltre le dichiarate afinità di pensiero, nel
momento in cui si vanno ad analizzare nel dettaglio i richiami, le
tracce, i motivi e i riadattamenti nietzscheani nell’opera di quegli
autori che hanno sperimentato con la poliedricità delle immagi-
ni e dei linguaggi che è una delle cifre più caratteristiche della
scrittura di Nietzsche. Se si può quindi indubbiamente parlare
di un nietzscheanesimo ubiquitario nella letteratura della prima
metà del Novecento, spesso ci si dimentica che è stato un intero
arsenale di forme estetiche, metafore e igure linguistiche a esse-
re reso disponibile attraverso la lettura di Nietzsche, e a venire
quindi assimilato e riscritto nelle coordinate di singoli universi
artistici, divenendo il punto di avvio di narrazioni differenti.
Una lettura che, con precisione analitica, si concentra su que-
sto livello del testo è in grado di illuminare tutta una serie di
fenomeni estetico-letterari che caratterizzano sia gli scritti di
Nietzsche, sia l’opera di autori che a lui si richiamano, come ad
esempio la concentrazione sulla igura nel suo essere forma dina-
mica, la sperimentazione con i generi letterari, oppure la questio-
ne dell’intertestualità, che rimanda al più ampio problema del
gioco con motivi e forme offerti dalla tradizione, del sabotaggio
delle forme classiche o della loro Umwertung. Un aspetto ulterio-
8 I curatori

re di questa lettura, ma altrettanto fondante, è inine l’attenzione


per il posizionamento rilessivo dell’autore rispetto alla propria
prassi di scrittura, nella consapevolezza che il testo è una co-
struzione linguistica complessa, che contiene in sé, immanente
alle stratiicazioni del materiale che lo compongono, la propria
poetica, ovvero le condizioni e le modalità del suo costituirsi.
In questo senso, pur nella loro speciicità, i contributi raccolti
in questo volume muovono dalla comune consapevolezza della
necessità di interrogare la dimensione più propriamente poeto-
logica del testo nietzscheano, così come delle sue rimodulazioni
nella cultura e nella letteratura del Novecento.

***

I curatori di questa raccolta ringraziano tutti coloro che han-


no permesso la realizzazione del seminario e del volume: i parte-
cipanti alle discussioni, gli autori dei singoli contributi, le tradut-
trici, la casa editrice ETS nella persona di Sandra Borghini, lo
Stuttgart Research Centre for Text Studies per il inanziamento
della pubblicazione, e inine il Dipartimento di Lingue e Let-
terature Straniere e la Scuola di Dottorato in Studi Umanistici
dell’Università di Verona, che hanno sostenuto l’organizzazione
del seminario e contribuito alla pubblicazione degli atti. Un gra-
zie particolare va quindi a Maria Cristina Fornari e Annamaria
Lossi per la revisione dei saggi e la supervisione del lavoro, non-
ché a Giuliano Campioni per aver incoraggiato la pubblicazione
e averla accolta nella collana Nietzscheana da lui co-diretta.

I curatori
Avvertenza

Il riferimento principale per gli scritti di Nietzsche è l’edizione


Werke. Kritische Gesamtausgabe, hg. von G. Colli, M. Montina-
ri, de Gruyter, Berlin 1967 ss. [KGW]. Ove non diversamente
indicato, per le citazioni si è usata l’edizione dei Sämtliche Wer-
ke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, hg. von G. Colli, M.
Montinari, Deutscher Taschenbuch Verlag/de Gruyter, Mün-
chen/Berlin 1980 e 1988 [KSA]. La traduzione italiana utilizzata
è quella dell’edizione Colli/Montinari delle Opere di Friedrich
Nietzsche, Adelphi, Milano 1964 ss. [citata secondo Vol., Tomo
e p.], attualmente curata da Giuliano Campioni. Per le lettere il
riferimento principale è l’edizione Briefwechsel. Kritische Ge-
samtausgabe, hg. von G. Colli, M. Montinari, de Gruyter, Berlin
1967 ss. [KGB], mentre per le citazioni, salvo diversa indicazio-
ne, si è usata l’edizione Sämtliche Briefe. Kritische Studienausga-
be in 8 Bänden, hg von G. Colli, M. Montinari, Deutscher Ta-
schenbuch Verlag/de Gruyter, München/ Berlin 1986 [KSB].
La traduzione italiana utilizzata è quella dell’edizione Colli/
Montinari dell’Epistolario di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Mila-
no 1976 ss. [citata con E, Vol., Tomo e p.], attualmente curata
da Giuliano Campioni.
I riferimenti sono generalmente dati nel corso del testo a par-
tire dall’edizione tedesca, facendo seguire l’edizione delle Opere
nei contributi scritti in italiano. Si è indicata l’abbreviazione te-
desca delle opere con la sigla dell’edizione, seguita dal numero
del volume e della pagina. Nei contributi in lingua italiana il ri-
10 Avvertenza

ferimento è dato dal numero del volume dell’edizione italiana,


del tomo (e della parte del tomo) e inine del numero di pagina.
Le opere di Nietzsche vengono citate con l’abbreviazione te-
desca usuale, ovvero:

PZG = La ilosoia nell’epoca tragica dei Greci


SGT = Socrate e la tragedia
GMD = Il dramma musicale greco
VV = Cinque prefazioni per cinque libri mai scritti
BA = Sull’avvenire delle nostre scuole
DW = La visione dionisiaca del mondo
WL = Su verità e menzogna in senso extramorale
GT = La nascita della tragedia
DS = David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore
HL = Sull’utilità e il danno della storia per la vita
SE = Schopenhauer come educatore
WB = Richard Wagner a Bayreuth
MA = Umano, troppo umano
VM = Opinioni e sentenze diverse
WS = Il viandante e la sua ombra
M = Aurora
IM = Idilli di Messina
FW = La gaia scienza
ZA = Così parlò Zarathustra
JGB = Al di là del bene e del male
GM = Genealogia della morale
GD = Il crepuscolo degli idoli
WA = Il caso Wagner
AC = L’anticristo
NW = Nietzsche contra Wagner
DD = Ditirambi di Dioniso
EH = Ecce homo
NF = Frammenti postumi
I.
Poetiche implicite e esplicite
12 Juliane Vogel
Glänzendes Wandeln und reißende
Bewegung
Von Feuerbachs vatikanischem Apoll zu
Nietzsches Dionysos

Juliane Vogel

Die folgenden Überlegungen gehen von der These aus, dass


die Tragödie, die der Diskurs über das Tragische im 19. Jahr-
hundert entwirft, eine Tragödie des Erscheinens ist. Anders als
die Regelpoetiken des 17. und 18. Jahrhunderts, die im Gefolge
der aristotelischen Poetik die Handlung als die Seele des Dra-
mas betrachteten, wenden sie sich dem krisenhaften Vorgang
zu, der das tragische Subjekt auf der Bühne Gestalt annehmen
und in die Sichtbarkeit eintreten lässt. Ins Zentrum ihres Dis-
kurses rückt der Komplex der Figuration und die Kräfte, die
an ihm beteiligt sind. Die Begriffe des «Erscheinens», der «Be-
sonderung», der «Individuation» oder im Register des Theaters
gesprochen: des «Auftritts», die in den Schriften Hegels, Go-
ethes, Schopenhauers und Nietzsches auftauchen, umkreisen
jene Prozesse, in denen sich das tragische Subjekt ablöst, kon-
turiert und auf der Bühne vorschreiten lässt. Sie fassen jenen
Moment, in dem die Tragödie theatral wird und bezeichnen die
Bedingungen, unter denen vor den Augen eines Publikums et-
was in Erscheinung tritt1. Die Relation zwischen Erscheinungs-
bild und Bewegung spielt in diesem Prozess eine zentrale Rolle.
Denn nicht nur geht es im Auftritt darum, die Grenzen einer
Figur zu umschreiben und ihre Maße zu definieren, sondern
auch darum, sie aus einem Ganzen heraus und in den Vorder-
grund treten zu lassen. Es bedarf eines energetischen Impulses
– rhetorisch gesagt – energeia, um sie nach vorne zu tragen.

1 Vgl. J. Vogel, Aus dem Grund. Auftrittsprotokolle zwischen Racine und Nietzsche,

München 2017 (im Erscheinen).


14 Juliane Vogel

Theatrale Energie manifestiert sich in dem Schritt, der die tra-


gische Figur schreitend in Szene setzt und zugleich exponiert.
Dient diese Energie in der Regel der Evidentialisierung bzw.
der Verlebendigung eines für sich genommen statischen Perso-
nenbildes, wird sie bei Nietzsche zur zentralen tragischen He-
rausforderung. Die am Auftritt beteiligten Elemente Bild und
Bewegung erfahren in Die Geburt der Tragödie eine Steigerung,
die sie auf tragische Weise miteinander in Widerstreit treten
lässt. Nietzsches Frühschrift soll hier als ein Text gelesen wer-
den, der im krisenhaften Auftritt des tragischen Subjekts das
zentrale tragische Ereignis erkennt. Ausgehend von Überlegun-
gen des Archäologen Joseph Anselm Feuerbach, der in seiner
1827 erschienenen Schrift Der vaticanische Apollo den Boden
für Nietzsches Auftrittstheater bereitet, kann eine neue Sicht
auf Die Geburt der Tragödie geworfen werden.

1. Joseph Anselm Feuerbach: Auftritt Apoll

In seiner Schrift Der Vaticanische Apollo entwickelt Feuer-


bach, der nicht mit seinem malenden Sohn verwechselt werden
sollte, einen Begriff der Tragödie unter Hegelschen Vorzei-
chen. Im Kontext einer Bewegungsstudie zur antiken Plastik
beschreibt er das griechische Drama in Begriffen skulpturaler
Evolution. In seiner an klassizistischen Theatertopoi orientier-
ten Darstellung werden die tragischen Figuren als Statuen vor-
gestellt, die zunächst in festumschriebener Form in Erscheinung
und zueinander in Kontrast treten:

Als die Glieder eines großen Ganzen betrachtet, treten die einzel-
nen Charaktere der griechischen Tragödie in fester Umgränzung aus-
einander, ohne darum durch gesuchte Kontraste sich malerisch zu he-
ben, ohne sich zu verdecken und zu verschatten. Sie isolieren sich wie
Statuen, jede gesondert auf sich selbst beruhend, keine in dämmernder
Glänzendes Wandeln und reißende Bewegung 15

Luftperspective sich verlierend, alle, auch die Nebeniguren, in gedie-


gensten Vollständigkeit 2.

Auch wenn die Festigkeit des Statuarischen die Grundlage


der Überlegungen Feuerbachs bildet, gehen diese doch in zwei
entscheidenden Punkten über Hegel hinaus. Erstens rückt er
die skulpturale Dimension der Tragödie soweit in den Vorder-
grund, dass ihr dramatischer Charakter aus dem Blickfeld rückt.
Handlungen beachtet er nur insofern, als sie auf das Plastische
Bezug nehmen. Feuerbach geht es einzig um die «Erscheinung».
Zweitens wird die Bewegung der Statue nun in einer Weise
emphatisiert, die über die konventionelle Theatertopik Hegels
weit hinauszielt. Mit einer Unermüdlichkeit, die als obsessiv zu
bezeichnen man nur schwer vermeiden kann, verfolgt Feuerbach
in seiner Schrift das Hervortreten griechischer Statuen. In einer
scharfen Wendung gegen eine populäre Vorstellung der «stillen
Größe» forciert der Verfasser des Vaticanische[n] Apollo eine
«energische Kraft»3, die an der Statue den Schein des Vorschrei-
tens erzeugt. Dazu listet er zahllose Beispiele, in denen Statuen
ihre Beine heben und durch einen solchen energischen Reiz die
Einbildungskraft des Beschauers zu einer Bewegungsillusion an-
regen. Entgegen der verbreiteten Meinung, dass die Statue ein
in sich gekehrtes, stillstehendes Artefakt sei, betont er mit Nach-
druck deren Mobilität. Entsprechend lässt er die Geschichte der
griechischen Skulptur dort ihren Anfang nehmen, wo die stati-
schen Bilder der ägyptischen Götter zu starken Schritten anset-
zen4.
Damit verbindet sich ein folgenreicher perspektivischer
Wechsel, der die Sicht nicht nur auf die griechische Plastik, son-
dern auch auf die Figuren der Tragödie verändert, die aus die-
2 A. Feuerbach, Der Vaticanische Apollo. Eine Reihe archäologisch-ästhetischer Be-

trachtungen, Nürnberg 1833, S. 327 f.


3 Ebd., S. 11. Zur Dramaturgie der Statue vgl. J. Vogel, Die Furie und das Gesetz.

Zur Dramaturgie der „großen Szene“ in der Tragödie des 19. Jahrhunderts, Freiburg i. Br.
2002, S. 307-349. Zum Pygmalion-Komplex vgl. M. Meyer, G. Neumann (Hgg.), Pygma-
lion. Die Geschichte des Mythos in der abendländischen Kultur, Freiburg i. Br. 1997.
4 Vgl. A. Feuerbach, Der vaticanische Apollo, zit., S. 17 ff.
16 Juliane Vogel

ser abgeleitet werden. Beide – der tragische wie der plastische


Personenkreis – werden nicht in ihrem Sein, sondern in ihrem
Erscheinen wahrgenommen. Folgende Passage über den Apollo
von Barberini und eine in Dresden beindliche Minerva macht
deutlich, wie sehr Feuerbachs Theater der Skulpturen Auftritts-
theater ist:

Der linke Fuß ist aber zum Schritte gehoben, und unbeschreiblich
die Majestät, mit welcher die Statue dem Beschauer entgegenzutreten,
und dann inne zu halten scheint, um dann das Wort eines Flehen-
den zu vernehmen. – Mächtiger ausschreitend zeigt sich eine Minerva
in Dresden. Sie ist als Pomachos gedacht, rasch zum tätigen Beistand
vom Olymp herniedereilend. In beiden Statuen sind die Götter unver-
kennbar nicht bloß als seiend, sondern als erscheinend dargestellt; ihre
Stellung sagt ganz dasselbe, was jene bekannte Formel sagt, womit die
Götter die tragische Bühne zu betreten plegen5.

Unter diesen Voraussetzungen kann eine Analogie zwischen


dem Auftritt einer tragischen Person und der Erscheinung einer
griechischen Statue schnell hergestellt werden. In den Augen
Feuerbachs setzen sie sich jeweils mit derselben dynamischen
Anfangsbewegung in Szene. Ihre Vergleichbarkeit beruht nicht
nur auf der Abgeschlossenheit ihrer Kontur, sondern vor allem
auf der Kraft ihres ersten Ausschreitens. Wenn Feuerbach von
der Tragödie handelt, fällt sein Blick zuerst auf die Auftritte. Zur
Illustration für die wechselseitige Stimulation der Schwester-
künste zitiert er Beispiele aus dem Philoktet von Sophokles, aus
den Eumeniden und insbesondere den Auftrittsvers des Orest
aus den Choephoren des Aischylos: «heko et katechomei»6 / «Ins
Vaterland rückkehrend zieh’ ich heim»7. Diese Zitate verbinden

5Ebd., S. 21.
6Vgl. Aristophanes, Die Frösche, in ders., Sämtliche Komödien, übertragen von L.
Seeger, mit einer Einleitung von O. Weinreich, Zürich 1968, S. 515-580, hier S. 565 ff.,
V. 1127 ff.
7 Zur Temporalität und Bedeutung des Wortes Heko, das in vielen griechischen

Tragödien den ersten Auftritt markiert, vgl. S. Gödde, Das Drama der Hikesie. Ritual und
Rhetorik in Aischylos‘ „Hiketiden“, Münster 2000, S. 38.
Glänzendes Wandeln und reißende Bewegung 17

sich mit einer gesteigerten Bewegungsimagination, die dann von


der Statue auf den Schauspieler übertragen und idealtypisch als
«ein rhythmisch gemessenes, imposantes Einherschreiten»8 vor-
gestellt wird.
Wie bereits der Titel von Feuerbachs Schrift angibt, ist diese
Vorstellung eines majestätischen Erscheinens vom überragenden
Bild Apollons bestimmt. Was immer sie über das Verhältnis von
Form und Bewegung zu sagen weiß, bezieht sich auf ein Kunst-
werk, das im Begriff war, zu einer «Culturmacht»9 des 19. Jahr-
hunderts zu werden. Wenn Feuerbach den Vaticanischen Apoll
in den Facetten seines In-Erscheinung-Tretens vorführt, dann
in dem Wissen, dass ein «anschaulicher Begriff von der Statue
bei den meisten vorauszusetzen ist»10. Folgende Passage lässt ihn
wie eine Sonne aufgehen. Kann der Auftritt, wie es in Grimms
Wörterbuch heißt, als «ein sinnliches Aufsteigen»11 deiniert
werden, so vollzieht er sich hier in idealtypischer Ausprägung.
Form und Bewegung werden hier in ein völliges Gleichgewicht
gesetzt:

Rahmdohr vergleicht den ersten Anblick unserer Statue mit dem


Naturschauspiele, das sich ihm darbot, als er zum erstenmal bei Ge-
nua die Sonne über die Fläche des Meeres aufgehen sah. Und also ist
es. Glänzend feierlich und hochhinwandelnd, wie Homer die Sonne
nennt, tritt der vaticanische Apoll uns entgegen; nicht wie ein jählings
vorüberschiessendes Feuermeteor, womit derselbe Dichter das plötzli-
che Erscheinen der Minerva vergleicht12.

Auf der anderen Seite machen sich in Feuerbachs Beschrei-


bungen Energien bemerkbar, die das Gleichgewicht der am
Auftritt beteiligten Kräfte zu stören beginnen. Wenn er die Ver-

8 Vgl. A. Feuerbach, Der Vaticanische Apollo, zit., S. 332.


9 Zit. Theodor Birt in: Ch. Zintzen, Von Pompeji nach Troja. Archäologie, Literatur
und Öffentlichkeit im 19. Jahrhundert, Wien 1998, S. 130.
10 A. Feuerbach, Der Vaticanische Apollo, zit., S. 1.
11 Eintrag: Auftritt, in J. und W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, Bd. 1, Leipzig 1854,

S. 765 f.
12 A. Feuerbach, Der Vaticanische Apollo, zit., S. 95 f.
18 Juliane Vogel

mutung ausspricht, dass in der griechischen Plastik die «Form


nur der Bewegung wegen da sei»13, kann dieses Ungleichgewicht
auch zu Ungunsten der Form ausschlagen. Vor allem bei der Dar-
stellung von Affekten sind die Auswirkungen einer Bewegung zu
verspüren, die durch die skulpturale Form nicht mehr vollends
beherrscht wird. Feuerbachs Statuen werden zumindest poten-
tiell von Kräften bedroht, die die «feste Norm»14 der Form wie
die Integrität des Standbildes überhaupt gefährden. Die Rede
ist von «reißenden»15, «heftigen»16 oder «dämonischen»17 Mo-
tionen, die dem Schönen nicht Lebendigkeit verleihen, sondern
Form entziehen. Zumindest apotropäisch – mit abwehrender
Geste – wird die Möglichkeit einer Bewegung beschworen, die
das «rechte Maß» überschreitet. Wiederholt lässt Feuerbach die
Gefahr eines «Zu=viel an Bewegung»18 sichtbar werden: eines
«Strom[es], welcher in ein zu enges Bett eingeschlossen, nur to-
bend dahin schäumte»19. Ex negativo, aber in starken Bildern,
zeichnet sich damit im Kontext einer Apotheose der griechi-
schen Plastik eine Energie ab, die ihrer möglichen Sprengkraft
wegen als Erhabenes erkennbar wird, da sie die Fassungskraft
des Statuarischen sprengt:

Nichts wäre thörichter, als in dem bisher besprochenen Principe des


Lebens, gleichsam eine blinde stürmische Macht zu denken, eine ixe
Kunstidee, welche nur berührt zu werden brauchte, um die Bilder von
Göttern und Menschen, oder was sonst sich regen und strecken mag,
rücksichtslos in taumelnden Schwindel mit sich fortzureissen20.

13 Ebd., S. 11.
14 Ebd., S. 53.
15 Ebd.
16 Ebd., S. 37.
17 Ebd., S. 27, 36.
18 Ebd., S. 78.
19 Ebd., S. 72.
20 Ebd., S. 78 f.
Glänzendes Wandeln und reißende Bewegung 19

Wenn das plötzliche Erstrahlen einer Minerva mit einem


«jählings vorüberschiessende[n] Feuermeteor»21 verglichen
wird und von einer Neptun-Statue gesagt wird, dass ihr «Körper
zurückgeworfen [werde] wie eine Woge», während «die volle
Wildheit eines empörten Elementes […] in die Bewegung sei-
nes Beherrschers übergegangen zu sein»22 scheint, werden ande-
re, gewaltsamere Auftrittsformen denkbar, die sich ins Schema
der «lebendigen Individualität», das Feuerbach herausarbeitet,
nicht mehr einfügen. Erst in Nietzsches Geburt der Tragödie
(1872) werden Form und heftige Bewegung zu gleichberechtig-
ten und zugleich gegenläuigen, d.h. eskalierenden Kräften, die
im Auftritt entfesselt werden. Nun ist es die «blinde stürmische
Macht», die auf dem Theater in Erscheinung tritt und im Auf-
tritt begrenzt werden muss.

2. Friedrich Nietzsche: Auftritt Dionysos

Nietzsches frühe Auffassung des Tragischen wird durch


Feuerbachs Schrift über den vatikanischen Apollon vorbereitet.
Sein 1870 gehaltener Vortrag Das griechische Musikdrama zitiert
ihn ausführlich, und auch die starke ästhetische Orientierung
seines Tragödienmodells bezeugt seinen Einluss (GMD, KSA 1,
S. 518 f.). Feuerbach folgt Nietzsche auch darin, dass er dem for-
malen Repertoire der aristotelischen Tragödie so gut wie keine
Beachtung mehr schenkt. Weder Handlung noch Mythos noch
andere aristotelische Strukturelemente werden in der Geburt der
Tragödie berücksichtigt23. Diese Loslösung wird bereits in Nietz-
sches Vortrag Das griechische Musikdrama explizit: «man kann
sogar sagen, daß es auf ihren früheren Entwicklungsstufen gar

21 Ebd., S. 96.
22 Ebd., S. 80.
23 Vgl. D. E. Wellbery, Form und Funktion der Tragödie nach Nietzsche, in Tragö-

die-Trauerspiel-Spektakel, hg. von B. und Ch. Menke, Berlin 2007, S. 199-212, hier S. 203
ff.; K. H. Bohrer, Das Erscheinen des Dionysos. Antike Mythologie und moderne Meta-
pher, Frankfurt a. M. 2015, S. 170 ff.
20 Juliane Vogel

nicht auf das Handeln das δρᾶμα [dráma] abgesehn war, sondern
auf das Leiden das πάθος [páthos]» (ebd., S. 527). Nietzsches
Tragödienkonzept richtet sich in einem gegenüber Feuerbach
noch einmal gesteigerten Ausmaß auf eine Epiphanie aus. Sein
Tragödienmodell ist ganz auf das Erscheinen eines Gottes hin
angelegt, sein Theater ist nur für seinen Auftritt errichtet. Der
Auftrittsgott, um den es hier geht, ist jedoch nicht mehr Apollon,
der majestätisch, statuarisch und imposant wie die Sonne über
Genua in Erscheinung trat: Im Zentrum der Geburt der Tragödie
steht der Auftritt des Dionysos, in dem sich die Kraft inkarniert,
die Feuerbach als «stürmisch» und «reißend» bezeichnet hatte.
Das Dionysische wird zu einem, dem Apollinischen gleichbe-
rechtigt gegenübertretenden «Kunsttrieb» erhoben. «Klarheit,
Sichtbarkeit und schöne Begrenzung»24 der apollinischen For-
menwelt werden durch einen Bildersturm bedroht, den Nietz-
sche mit dem Namen Dionysos verbindet. Die Herausforderung
der Tragödie besteht darin, Apollon wie Dionysos, dem Bil-
dungstrieb wie der formsprengenden Kraft gleichermaßen Rech-
nung zu tragen und das eine im anderen in Szene zu setzen. Was
sich stürmisch und ungestaltet annähert und alles Unterschie-
dene einzuebnen droht, soll in die Grenzen einer auftrittsfähi-
gen Figur eingeschlossen werden, während sich umgekehrt die
Begrenzungen, die das Apollinische auszeichnen, für das Dio-
nysische öffnen. Unter dem Andrang des Dionysischen beleben
sich die für sich genommen unbeweglichen und von Erstarrung
bedrohten Personenbilder des apollinischen Kunstuniversums,
und empfangen die Impulse einer ihnen entgegengesetzten,
formaulösenden Kraft. In seinem Auftritt symbolisiert sich, so
heißt es bei David Wellbery, «das Asymbolische schlechthin»25.
Damit ist jedoch keineswegs ein Sublimationsvorgang um-
schrieben, sondern eine Kampfzone eröffnet. Im Auftritt eska-
liert der Agon der Kräfte, der auch in den geordneten Erschei-
nungsformen der Tragödie zuträgt. Im Moment der tragischen
24 P. Sloterdijk, Der Denker auf der Bühne. Nietzsches Materialismus, Frankfurt a. M.,

1. Aul. 1986, S. 52.


25 D. E. Wellbery, Form und Funktion der Tragödie nach Nietzsche, zit., S. 206.
Glänzendes Wandeln und reißende Bewegung 21

Individuation tragen sich die Spannungen zwischen Figuration


und Deiguration, Traum und Rausch, Form und Bewegung aus.
Karl Heinz Bohrer hat im Erscheinen des Dionysos Züge des
Erhabenen nachgezeichnet. Die Konstituierung des tragischen
Subjekts auf der Bühne ist zugleich mit der «Zerreissung des
principii individuationis […]», dem «Zerbrechen des Subjekt-
bewusstseins»26 verbunden, die durch das Dionysische bewirkt
werden.
Der tragische Schritt nach vorne und heraus ist damit doppelt
codiert. In der Geburt der Tragödie wird er sowohl als formspren-
gendes Heranwälzen und zugleich formstiftendes Vorschreiten
gefasst, das eine im anderen. An der Wahl des Auftrittsproto-
kolls, das Nietzsche Dionysos zuordnet, kann das Zugleich von
Gewalt und Splendor abgelesen werden. Die Annäherung des
Dionysos wird als Triumphzug imaginiert, der den Gott auf
einem «mit Blumen und Kränzen» «überschüttet[en]» (GT 1,
KSA 1, S. 29) Wagen herankommen lässt und zugleich die Kräf-
te «in das Joch gespannt» hat (DW 1, KSA 1, S. 558), die ihn
vorwärts treiben: «Es war das apollinische Volk, das den über-
mächtigen Instinkt in die Fesseln der Schönheit schlug: es hat
die gefährlichsten Elemente der Natur, ihre wildesten Bestien
in das Joch gespannt» (ebd.). Sein gewaltsames «Heranwälzen»
gestaltet sich als das festliche Avancement eines glänzenden Bil-
des, der ikonoklastische Sturm als jubilatorische Bildbewegung,
die zugleich die Kraft bewahrt, die sie einschränkt. In Dionysos
fallen, so Timo Günther, die Gegensätze in eins zusammen und
bewahren dabei ihre polare Spannung27. Treffend spricht Peter
Sloterdijk von einer «Doppelenergetik von Damm und Flut, von
Rückstau und Rausch»28.

26 K. H. Bohrer, Das Erscheinen des Dionysos, zit., S. 147 f.


27 Vgl. T. Günther, „Dionysos“. Zur Konjunktur einer neuplatonischen Denkigur im
Tragödiendiskurs der Moderne, in Die Tragödie der Moderne. Gattungsgeschichte – Kul-
turtheorie – Epochendiagnose, hg. von D. Fulda und Th. Valk, Berlin 2010, S. 161-176,
hier S. 165, unter Verweis auf neuplatonische Fassungen des Dionysischen. Zur Polarität
vgl. auch K. H. Bohrer, Das Erscheinen des Dionysos, zit., S. 146.
28 P. Sloterdijk, Der Denker auf der Bühne, zit., S. 64.
22 Juliane Vogel

Während damit jedoch eine Verschmelzung des Dionysischen


und des Apollinischen angenommen, oder auch eine «stillge-
stellte Polarität»29 antagonistischer Extreme festgestellt ist,
schlägt David Wellbery ein Modell der Umpolung, Umbiegung
oder Umwendung der Energien vor, das die Dynamik dieser
Doppelenergetik betont und die inneren Wechselspannungen
der dionysisch-apollinischen Duplizität hervorkehrt30. Die kul-
turelle Leistung der Tragödie bestehe darin, dass sie das «Her-
anwälzen» in ein triumphales Hervortreten, die Vernichtung in
Leben31, d.h. die mit dem Erhabenen verbundene «Lebenshem-
mung» lebenssteigernd wendet. Besonderung so verstanden ist
die Artikulation einer vitalistischen Kraft, die es drängt, Gestalt
anzunehmen und zugleich emphatisch in Bewegung zu sein. Po-
larität entfaltet sich als ein Prozess der permanenten Umpolung:
«Die Afirmation des Lebens ist nur dort zu gewinnen, wo die
äußerste Verneinung – die Verneinung nicht dieses oder jenen
Zustands, sondern des Daseins schlechthin in Bejahung umge-
bogen wird. Die tragische Form ist nichts anderes als das Um-
springen innerhalb dieser Paradoxie»32. Für Wellberys Auffas-
sung spricht an dieser Stelle vor allem, dass die tragische Form
sich unmittelbar in eine Bewegung des Wendens, Springens oder
Biegens umsetzt, d.h. den Gott eine energetisierte tropische Be-
wegung vollziehen lässt. Die Epiphanie des Dionysos und der
Moment seiner Individuation auf der Bühne realisiert sich nicht
als ein «ruhige[s] Dasitzen» (GT 1, KSA 1, S. 28), wie es noch
bei Schopenhauer heißt, den Nietzsche eingangs zitiert33, sie
29 Ebd., S. 56.
30 Vgl. D. E. Wellbery, Form und Funktion der Tragödie nach Nietzsche, zit., S. 206.
31 Ebd., S. 208: Dabei gewinnt auch das Apollinische «an Bedeutungstiefe und

Beweglichkeit». «Die Gefahr der Erstarrung und der Oberlächlichkeit auf Seiten des
Apollinischen» wird somit ebenso abgewehrt wie die «Gefahr des allzu Überwältigenden
und Mitreißenden auf Seiten des Dionysischen».
32 Ebd., S. 206.
33 Vgl. dazu A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, hg. von L. Lütke-

haus, Zürich 1988, Bd. 1, S. 457: «Denn, wie auf dem tobenden Meere, das, nach allen
Seiten unbegränzt, heulend Wasserberge erhebt und senkt, auf einem Kahn ein Schiffer
sitzt, dem schwachen Fahrzeug vertrauend; so sitzt, mitten in einer Welt voll Quaalen,
ruhig der einzelne Mensch, gestützt und vertrauend auf das principium individuationis».
Glänzendes Wandeln und reißende Bewegung 23

manifestiert sich vielmehr in einem emphatischen Schritt. Bild-


macht und Bewegungsmacht springen im Auftritt ineinander
um, Enargeia und Energeia, die beiden im Auftritt freigesetz-
ten Kräfte, verkehren ihre Polaritäten, um aus der «äußersten
Verneinung» die «Afirmation des Lebens» zu gewinnen. Auch
aus diesem Grund wählt Nietzsche an der einzigen Stelle, an der
Schopenhauer konkret von einem Auftritt in der griechischen
Tragödie spricht, ein Beispiel, das von einer Wiederkehr der To-
ten handelt. An diesem ist die gedachte lebensbejahende Um-
wendung buchstäblich eingetreten und der Gründungsmoment
der Tragödie, der darin bestand, dass ein Schauspieler aus einem
vordifferentiellen Grund – dem Chor – auf der Bühne hervor-
trat, noch einmal unter neuem Vorzeichen wiederholt. Gemeint
ist die Tragödie Alkestis des Euripides, die die Gattin des Kö-
nigs Admet an seiner statt sterben, nach einer Zeit im Totenreich
durch die Intervention des Herakles jedoch wieder ins Leben
zurückkehren lässt. Folgende Passage enthält den einzigen wirk-
lich betonten Auftritt, von dem in der Geburt der Tragödie die
Rede ist:

Denken wir uns Admet mit tiefem Sinnen seiner jüngst abgeschie-
denen Gattin Alcestis gedenkend und ganz im geistigen Anschauen
derselben sich verzehrend – wie ihm nun plötzlich ein ähnlich gestal-
tetes, ähnlich schreitendes Frauenbild in Verhüllung entgegengeführt
wird: denken wir uns seine plötzlich zitternde Unruhe, sein stürmi-
sches Vergleichen, seine instinctive Ueberzeugung – so haben wir ein
Analogon zu der Empindung, mit der der dionysisch erregte Zuschau-
er den Gott auf der Bühne heranschreiten sah, mit dessen Leiden er
bereits eins geworden ist (GT 8, KSA 1, S. 63 f.).
Il dialogo come forma filosofica in
Nietzsche1
Claus Zittel

1. Introduzione

Il dialogo è la forma artistica classica della ilosoia2. Tutta-


via, proprio la ilosoia dell’arte di Nietzsche, che si articola in
modo estremamente vario, sembra non necessitare del dialogo,
anzi, pare porsi nei suoi confronti addirittura con ostilità, o per
lo meno con difidenza. Tale impressione emerge dalla critica sul
tema: nei manuali manca la voce corrispondente e negli studi ge-
nerali sulle «forme della scrittura ilosoica» di Nietzsche – così
deinite da Werner Stegmaier – il dialogo e la conversazione non
vengono nemmeno nominati3. Solo il dialogo tra il «viandante e
la sua ombra» ha occasionalmente destato l’attenzione degli in-
terpreti. Sorprendentemente, sinora quasi nessuno si è occupato
delle tipologie di dialogo nell’opera di Nietzsche e ha indagato le

1 Si propone in traduzione italiana il contributo pubblicato con il titolo Der Dialog

als philosophische Form bei Nietzsche, in «Nietzsche-Studien», 45 (2016), pp. 81-112.


2 Anche questo contributo nasce da diversi dialoghi, e solo grazie ad essi ha rag-

giunto la sua forma attuale. Per questo ringrazio Marcus Born, Jakob Dellinger, Enrico
Müller, Axel Pichler e Werner Stegmaier.
3 W. Stegmaier, Nietzsches Befreiung der Philosophie. Kontextuelle Interpretation

des V. Buchs der Fröhlichen Wissenschaft, Berlin 2012, pp. 7 ss.: «Nessuno ha usato,
coniato o creato forme così varie per la sua scrittura ilosoica come Nietzsche». Oltre
all’aforisma, tra queste forme Stegmaier annovera anche la sentenza, il trattato, il saggio,
l’atto d’accusa, i canti ditirambici e la poesia didascalica epico-drammatico-lirica. Cfr.
anche A. Pichler, Philosophie als Text. Zur Darstellungsform der „Götzendämmerung“,
Berlin/Boston 2014, pp. 108 ss. Nessuno dei due inserisce tuttavia il dialogo tra le forme
di Nietzsche, anche se Stegmaier naturalmente sa che Nietzsche mette continuamente in
scena i suoi dialoghi. Cfr. W. Stegmaier, Nietzsches Befreiung der Philosophie, cit., pp. 13
e 16.
26 Claus Zittel

loro implicazioni gnoseologiche4. Le ragioni sono evidenti: il ilo-


sofare di Nietzsche è considerato la quintessenza di un pensiero
monologico-monomane, del soliloquio solitario5, dei monologhi
dell’eremita. Nietzsche stesso, ad esempio, deinisce Umano,
troppo umano un «libro monologico»6. In linea con questo gli si
attribuisce un riiuto della comunicazione, o una scrittura nata
dal fallimento della stessa7. Quelli di Nietzsche non sarebbero
dialoghi, bensì «soliloqui dinnanzi ad un pubblico»8, o, come
sostiene Paul von Tongeren, rimpiattini con lo scopo di celare
le intenzioni dell’autore9. Inoltre, a tutti gli studiosi del iloso-
fo tedesco è ben nota la critica mordace al dialogo platonico,
che, a causa della sua nuova forma, è per Nietzsche responsabile
del tramonto della cultura estetica dei greci. Nei cosiddetti libri
aforistici prendono la parola più voci, ad esempio quando parla
un eremita, il viandante, il pio, un cinico o quando tiene un di-
scorso un folle10. Tuttavia, queste voci non parlano tra loro. Per

4 In realtà la Bibliograia di Weimar registra 52 studi che presentano il termine «dia-


logo» nel titolo (http://ora-web.swkk.de/swk-db/niebiblio/). Tra questi vi è però solo
uno studio sul dialogo come forma ilosoica: G. Schank, Dionysos und Ariadne im Ge-
spräch. Subjektaulösung und Mehrstimmigkeit in Nietzsches Philosophie, in «Tijdschrift
voor Filosoie», 53/3 (1991), pp. 489-519.
5 Cfr. ad es. P. van Tongeren, Das Maass für Ehrlichkeit und Maskierung. Nietzsche

über Freundschaft, in G. Schank, P. van Tongeren, Freunde und Gegner. Nietzsches


Schreibmoral in seinen Briefen und seine philosophische ‚Kriegs-Praxis‘, Würzburg 1999,
pp. 75-86, qui pp. 81 s.
6 Cfr. il risguardo della prima edizione 1878 (KSA 2, p. 10).
7 D. Giuriato, S. Zanetti, Von der Löwenklaue zu den Gänsefüßchen. Zur neuen

Edition von Nietzsches handschriftlichem Nachlaß ab Frühjahr 1885, in «Text. Kritische


Beiträge», 8 (2003), pp. 89-105, qui p. 99.
8 W. Stegmaier, Nietzsches Befreiung der Philosophie, cit., p. 438.
9 Cfr. P. van Tongeren, Reinterpreting Modern Culture. An Introduction to Friedrich

Nietzsche’s Philosophy, Purdue University Press 1999, p. 75.


10 Nietzsche presenta molte di queste igure nelle sue opere: lo spirito libero, l’om-

bra, l’indovino, Zarathustra, Pirrone, Epicuro, Yorick-Columbus. Nella Gaia scienza, ad


esempio, gli aforismi vengono introdotti da espressioni come: «Parla l’uomo pio» (FW
Scherzo 38, KSA 3, p. 361; Vol. V, Tomo II, p. 27), «Parla l’eremita» (FW 364 e 365, KSA
3, pp. 612 ss.; Vol. V, Tomo II, pp. 240 s.), «Parla il cinico» (FW 368, KSA 3, pp. 616 ss.;
Vol. V, Tomo II, p. 368). Parlano inoltre «il solitario» (WS 200, KSA 2, p. 641; Vol. IV,
Tomo III, p. 216), l’uccello fenice (M 568, KSA 3, pp. 329 s.; Vol. V, Tomo I, p. 268), lo
«scettico» (FW Scherzo 61, KSA 3, p. 367; Vol. V, Tomo II, p. 32; JGB 208, KSA 5, pp.
Il dialogo come forma filosofica 27

lo più sono degli outsider, o dei solitari, a prendere la parola. La


polifonia non è quindi da equiparare alla dialogicità11. Sembra
quindi che per Nietzsche la forma dialogica sia semplicemente
irrilevante.
Il punto di vista secondo cui i dialoghi in Nietzsche siano ec-
cezioni da tralasciare è, però, falso, perché, sorprendentemente,
si riscontrano molti dialoghi nelle sue opere, dialoghi conclusi
dal punto di vista formale, che vengono ripetuti, o introdotti
brevemente, o presentati direttamente. Questi dialoghi hanno
un’estensione molto variabile, ma tendono per lo più alla brevità
e spesso si sviluppano in maniera schematica: 1. tra un A e un B
(cfr. ad esempio WS 71, oppure, soprattutto nel quarto e quinto
libro di Aurora, M 232, 234, 255, 477, 483, 485, 491, 492, 493);
2. senza un A e un B (cfr. M 490, 494; FW 93, 123, 168, 172,
181, 190, 255, 262, 320); 3. raramente tra un A, un B e un C (cfr.
WS 90). Nietzsche compone un lungo «Dialogo sulla musica»
(M 255, KSA 3, pp. 206 ss.; Vol. V, Tomo I, pp. 171 ss.), ma
anche dialoghi in rima (ad esempio in FW Scherzo 4). Vi sono
poi dialoghi personalizzati, ad esempio tra Lutero e Melantone
(WS 66), tra Pirrone e il vecchio (WS 213), Arianna e Dioniso
(DD Arianna; GD Scorribande19)12 e Teseo13, quindi i Dialoghi
con Dioniso del lascito tardo14, così come i discorsi di Zarathu-
stra. Altri dialoghi, poi, sono tipologizzati, ad esempio i dialoghi
«Ad acquietamento dello scettico» (M 120, KSA 3, p. 115; Vol.
V, Tomo I, p. 93), oppure la «conversazione tra gli spiriti liberi»
(NF 16[42], KSA 8, p. 294; Vol. IV, Tomo II, p. 315), i dialoghi
tra il viandante e la sua ombra, tra un vecchio soldato e la sua

137-140; Vol. VI, Tomo II, pp. 112 ss.), «noi ultimi Stoici» e «noi spiriti liberi» (JGB 227,
KSA 5, pp. 162 s.; Vol. VI, Tomo II, p. 135).
11 Di parere contrario è G. Schank, Dionysos und Ariadne im Gespräch, cit., pp. 492-

495.
12 Cfr. anche NF 37[4], KSA 11, pp. 578 s., corretto secondo KGW IX 1, N VII

1.51.
13 Cfr. NF 9[115], KSA 12, pp. 401 s. / KGW IX 6, W II 1.52, V. 28-30.
14 Cfr. NF 34[181], KSA 11, pp. 481 s. / KGW IX 1, N VII 1.70. Questi dialoghi con

Dioniso meriterebbero un’indagine autonoma. Cfr. G. Schank, Dionysos und Ariadne im


Gespräch, cit., pp. 499 ss.
28 Claus Zittel

sposa (WS 42), tra il iglio del guardiano e i prigionieri (WS 84),
tra un innovatore e i suoi discepoli (FW 106), tra un saggio e un
folle (FW 213), tra un attivo e un contemplativo (M 519), un dia-
logo su un malato (FW 168) o con un valoroso (M 494). Anche
nella Genealogia della morale viene sorprendentemente inserito
un dialogo piuttosto lungo, quando l’io parlante si rivolge al si-
gnor Curiosone e al signor Rompicollo (GM I 14) e poi assume
esplicitamente il ruolo di ascoltatore.
Teniamo innanzitutto presente che Nietzsche ha composto
molti dialoghi, e che essi si trovano sorprendentemente spesso
nella Gaia scienza e in Aurora. Senza dubbio il dialogo è da anno-
verare tra le forme ilosoiche di Nietzsche, pertanto è necessario
indagare le sue funzioni e caratteristiche strutturali, e rilettere
sulla sua interazione con altre forme. Si tenga inoltre presente
che, nonostante la critica al dialogo platonico, Nietzsche teneva
in grande considerazione la forma letteraria del dialogo: proprio
le Conversazioni con Goethe di Eckermann – in realtà una raccol-
ta di conversazioni piuttosto informe – vengono da lui elette al
«miglior libro tedesco che ci sia» (WS 109, KSA 2, p. 599; Vol.
IV, Tomo III, p. 183)15. Famoso è l’altrettanto informe Memoria-
le di Sant’Elena, che contiene presunti discorsi di Napoleone16.
Nietzsche loda quindi i dialoghi di Leopardi e considera Wal-
ter Savage Landor17 un maestro della prosa per le sue Imaginary
conversations. I discorsi mitologici di Luciano li ritiene briosi,
eleganti e regali18; apprezza i dialoghi dei morti di Fontanelle

15Cfr. inoltre: UB II 8; NF 29[119], KSA 7, p. 686; NF 26[304], KSA 11, p. 231,


nonché la lettera a Heinrich Köselitz del 31 maggio 1878 (Nr. 723, KSB 5, pp. 328 ss.).
16 E. de Las Cases, Denkwürdigkeiten von Sanct-Helena, oder Tagebuch, in welchem

alles, was Napoleon in einem Zeitraume von achtzehn Monaten gesprochen und gethan
hat, Tag für Tag aufgezeichnet ist, aus dem Französischen übersetzt, Stuttgart/Tübingen
1823/1826.
17 Nietzsche conosceva una scelta di Imaginary Conversations of literary Men and

Statesmen in traduzione tedesca: W. Savage Landor, Männer und Frauen des Wortes und
der That, im Gespräch zusammengeführt, Auswahl und Übersetzung durch E. Oswald,
Stuttgart 1878.
18 Cfr. Nietzsche a Wilhelm Pinder, 06.02.1859 (Nr. 54, KSB 1, pp. 46 s.). Nietzsche

possedeva varie edizioni dei discorsi di Luciano.


Il dialogo come forma filosofica 29

(cfr. VM 259; GD Antichi 2)19, i dialoghi ilosoici di Renan, il


Dialogo sugli oratori di Tacito (cfr. DS 11) e il discorso di Pascal
con Gesù (cfr. NF 7[29], KSA 9, p. 324). Inoltre, più volte si dice
impressionato e al contempo intimorito dallo «spaventoso collo-
quio degli Ateniesi coi Meli in Tucidide» (cfr. NF 6[32], KSA 8,
pp. 110 s.; Vol. IV, Tomo I, p. 170; NF 14[147], KSA 13, p. 331;
Vol. VIII, Tomo III, pp. 120 s.; MA 92, KSA 2, pp. 89 s.; Vol.
IV, Tomo II, pp. 70 s.). Proprio lo sgomento di fronte al cinismo
con cui gli ateniesi conducono il dialogo con i meli lascia inten-
dere che, idealmente, Nietzsche avesse in mente un altro tipo di
dialogo – un dialogo che non si basa sul potere e sulla violenza.
E questo perché i dialoghi di Nietzsche, se considerati nel
loro insieme, presentano alcune caratteristiche uniformi di gran-
de particolarità. È vero che ci sono varianti, ma, diversamente
da quanto ci si aspetta, non ci sono dialoghi agonali in cui un
oratore ha ragione di un altro grazie alla propria eloquenza, ai
propri argomenti o al proprio potere. In realtà, soltanto nello
Zarathustra si arriva a duelli oratori (cfr. ad esempio: «Nano!
O tu! O io!», Za III, KSA 4, p. 199; Vol. VI, Tomo I, p. 190) e
a zuffe, ad esempio quando Zarathustra picchia il mago con un
bastone, o tappa la bocca al folle schiumante di rabbia. Sorpren-
dentemente, Nietzsche crea una nuova forma di dialogo che non
conosce modelli, ma che in compenso trova imitatori signiicativi
nel modernismo.
È bene premettere una breve spiegazione: la tradizione ilo-
soica conosce molte tipologie di dialogo20, da quello maieutico
di Platone al dialogo scientiico didascalico (Fracastoro, Galilei,
Bacon, Descartes, il dialogo del Tucidide di Hobbes), in cui un

19 Nella biblioteca di Nietzsche si trova anche B. Le Bovier de Fontenelle, Gesprä-

che von Mehr als einer Welt zwischen einem Frauenzimmer und einem Gelehrten, nach
der neuesten französischen Aulage übersetzt, auch mit Figuren und Anmerckungen [sic]
erläutert von Joh. Chr. Gottscheden Prof. und Collegiat. zu Leipzig, und der Königl. Preuß.
Soc. der Wissensch. Mitgliede. Andre Aulage. Mit einer neuen Zugabe vermehret, Leipzig
1730.
20 Sul dialogo ilosoico (poco sorprende che manchino riferimenti a Nietzsche) cfr.:

R. Hirzel, Der Dialog. Ein literarhistorischer Versuch, 2 Teile, Leipzig 1895; V. Hösle, Der
philosophische Dialog. Eine Poetik und Hermeneutik, München 2006, pp. 79-124.
30 Claus Zittel

interlocutore esperto dimostra ad un Simplicio e ai suoi amici


la loro ignoranza. I dialoghi in ambito religioso possono essere
più orientati al consenso, e più aperti ad uno stato paritario dei
protagonisti, ad esempio quando inseguono obiettivi di tolleran-
za (Hume, Mendelssohn). In ilosoia, ad ogni modo, i dialoghi
sono spesso esoterici, tesi, o per lo meno orientati, al progresso
della conoscenza. Tanto più signiicative sono le eccezioni, cioè
quei dialoghi che terminano in modo aporetico come il Teeteto
di Platone.
Come si vedrà, i dialoghi di Nietzsche non seguono gli esempi
classici, ma li contrastano. Essi non vertono né sulla trasmissione
di sapere né sul potere – come il Dialogo dei Meli21 – e neanche
su dispute pubbliche che si svolgono su un palco. Essi sperimen-
tano piuttosto forme dialogiche intime e criptiche, che non ve-
dono uno scambio di posizioni, di notizie e verità, ma piuttosto
mirano, in modo piacevole dal punto di vista estetico, al confron-
to cortese, intelligente e clemente. Pertanto, nella maggior parte
dei dialoghi di Nietzsche non dominano trioni, distruzioni, con-
quiste di diritti, né «dispute […] detestabili» (NF 16[42], KSA
8, p. 294; Vol. IV, Tomo II, p. 315), ma, per lo più, vigono pru-
denza e riguardo, disinvoltura e cortesia del miglior argomento
evitato o nascosto, la rinuncia alla confutazione, il lasciar valere
posizioni altrui, la volontà di non essere compresi e di non dover
comprendere.

21Cfr. E. Müller, Alogia und die Formen des Unbewussten: Euripides – Sokrates –
Nietzsche, in J. Georg, C. Zittel (a cura di), Nietzsches Philosophie des Unbewussten,
Berlin/Boston 2012; Th. Brobjer, Nietzsche’s Relation to the greek sophists, in «Nietz-
sche-Studien», 34 (2005), pp. 256-277. Entrambi gli autori si confrontano con il rapporto
di Nietzsche con i soisti. A proposito di questo «sconvolgente dialogo tra logos e alogia»
Müller giustamente sottolinea che gli ateniesi, nel loro modo di condurre il discorso, si
orientano secondo la pratica del discorso platonico-ilosoico, e che i meli prostrati, che a
causa della loro situazione disperata non possono prendere parte al gioco, iniscono per
riiutare la realtà (p. 225). Come vedremo, i dialoghi di Nietzsche si schierano, tramite la
loro forma, dalla parte dei meli.
Il dialogo come forma filosofica 31

2. Dialoghi messi in scena

Nell’opera di Nietzsche il dialogo appare come una forma


che esprime atmosfere miti, una forma dell’understatement e
dello scetticismo amichevole, dell’enigma e del silenzio. Heinz
Schlaffer, invece, caratterizza la scrittura dialogica di Nietzsche
come un gesto linguistico «radicale, scortese, spietato»22, che
punta alla lotta. Schlaffer, però, fa anche la bella osservazione
che Nietzsche qualche volta «lascia prendere la parola ai lettori
stessi in un dialogo messo in scena, come se stessero di ianco a
lui: ‚Mi si intende? … Sono stato inteso? … Assolutamente no,
signore! – Cominciamo dunque da capo‘» (GM III 1, KSA 5, p.
339; Vol. VI, Tomo II, p. 299)23. In riferimento ad un altro passo
Schlaffer sostiene che negli scritti di Nietzsche «il monologo di
un testo si dirama in un dialogo in cui il lettore crede non solo di
sentire, ma anche di proferire ciò che legge»24. Di esempi se ne
trovano a iosa25.
Se si segue dunque Schlaffer, attraverso i dialoghi messi in sce-
na anche i libri di aforismi sarebbero rivolti al lettore in maniera
dialogica. Questa opinione, come anche quella secondo cui la
scrittura aforistica di Nietzsche sia da comprendere dialogica-
mente poiché esorta alla contraddizione26, non considerano però
22 H. Schlaffer, Das entfesselte Wort. Nietzsches Stil und die Folgen, München 2007,

p. 47. Cfr. inoltre la recensione critica di W. Stegmaier, Ideologisierung – Entideologi-


sierung. Zur Analyse von Nietzsches Stil und Schreibmoral, in «Nietzsche-Studien», 37
(2008), pp. 343-349, e di A. Urs Sommer, in «Arbitrium. Zeitschrift für Rezensionen zur
germanistischen Literaturwissenschaft» (2008), pp. 98-103.
23 H. Schlaffer, Das entfesselte Wort, cit., p. 85.
24 Ivi, p. 86.
25 Cfr. ad esempio: «Le nostre virtù? […] Ah! Se sapeste quanto presto, quanto pre-

sto ormai – le cose si trasformeranno! …» (JGB 214, KSA 5, pp. 151 s.; Vol. VI, Tomo
II, p. 125); «Insomma, studiate, o psicologi, la ilosoia della ‚regola‘ in lotta con l’‚ecce-
zione‘: oppure, per parlare più chiaramente: fate oggetto della vostra vivisezione l’‚uomo
buono‘, l’‚homo bonæ voluntatis‘… voi stessi!» (JGB 218, KSA 5, p. 153; Vol. VI, Tomo
II, p. 127); «Sorrideranno, questi spiriti severi, nel caso che qualcuno dica dinanzi a loro:
‚Quel pensiero mi innalza: come potrebbe non essere vero?‘» (JGB 210, KSA 5, p. 143;
Vol. VI, Tomo II, p. 118). Cfr. anche M 492 e 494.
26 Cfr. M. Born, Vorbemerkungen zur Lektüre von Aphorismen, in «Nietzsche-For-

schung», 19 (2012), pp. 297-306, qui p. 305; M. Endres, Eigentlich enteignet. Macht und
32 Claus Zittel

la forma speciica dei testi composti da Nietzsche come dialogo.


Due esempi non considerati da Schlaffer indicano la strada verso
una determinazione formale del dialogo negli scritti nietzscheani:

Per quale ragione mai il mondo, che in qualche maniera ci concer-


ne –, non potrebbe essere una inzione? E se a questo punto qualcuno
domandasse «ma non si richiede per ogni funzione un autore»? – non
gli si potrebbe rispondere chiaro e tondo: E perché mai? Codesto «si
richiede» non rientra forse nella inzione? (JGB 34, KSA 5, p. 54; Vol.
VI, Tomo II, p. 42).

Posto poi che anche questa fosse soltanto un’interpretazione – e voi


sareste abbastanza solleciti da obiettarmi ciò? – ebbene, tanto meglio.–
(JGB 22, KSA 5, p. 37; Vol. VI, Tomo II, p. 28).

Queste brevi messe in scena sono notevoli perché lasciano


riconoscere un principio fondamentale della tecnica dialogica
di Nietzsche. La tattica del parlante consiste nel prepararsi pre-
cisamente alle capacità individuali dell’avversario, ammettere e
accogliere l’argomento e far fallire l’interlocutore. Mettendo in
dubbio la validità delle premesse del sistema argomentativo e
portando il discorso ad un’interruzione deinitiva, dovrebbe ve-
nir minata la logica dell’argomentazione. Molti dialoghi più brevi
sono costruiti secondo questa anti-euristica:

Contro chi loda. – A.: Si è lodati solo dai nostri pari! – B: Sì! E chi
ti loda, ti dice: tu sei mio pari! (FW 190, KSA 3, p. 504; Vol. V, Tomo
II, p. 148).

Il corruttore del gusto. – A: Tu sei un corruttore del gusto! – lo si dice


ovunque. B: Certamente. In ognuno io corrompo il gusto del suo par-
tito – e questo nessun partito me lo perdona (FW 172, KSA 5, p. 500;
Vol. V, Tomo II, p. 146).

Ohnmacht in Nietzsches dialogischem Schreiben, in C. Benne, E. Müller (a cura di), Ohn-


macht des Subjekts – Macht der Persönlichkeit, Basel 2014, pp. 195-204.
Il dialogo come forma filosofica 33

Imitatori. – A: Come? Tu non vuoi imitatori? B: Io non voglio che


mi si imiti in qualche cosa, voglio che ognuno proponga a se medesimo
qualche cosa: lo stesso di quel che faccio io. A: E allora …? (FW 255,
KSA 3, p. 516; Vol. V, Tomo II, p. 156).

Sub specie æterni. – A: Ti allontani sempre più dai viventi, presto ti


depenneranno dalle loro liste. B: È l’unico mezzo per partecipare al
privilegio dei morti. A: A qual privilegio? B: Quello di non più morire
(FW 262, KSA 3, p. 518; Vol. V, Tomo II, p. 157).

Redento dallo scetticismo. – A: Altri iniscono per diventare tetri


d’umore e iacchi, rosi, tarlati, anzi semidivorati, se si muovono da un
generale scetticismo morale – io, invece, più coraggioso e più sano che
mai, con riconquistati istinti. Laddove spira più tagliente il vento, e
alto si leva il mare e non lievi sono i pericoli da superare, mi sento a
mio agio. Non sono divenuto un verme, benché spesso abbia dovuto
lavorare e scavare come un verme. – B: Tu appunto hai cessato di essere
scettico. Tu neghi, infatti! – A: E così ho imparato di nuovo a dire di sì!
(M 477, KSA 3, p. 284; Vol. V, Tomo I, p. 231).

Tali dialoghi autoreferenziali si trovano nello Zarathustra, ad


esempio quando il discepolo chiede come mai Zarathustra un
tempo abbia rimproverato ai poeti la menzogna. Questi dappri-
ma lascia cadere nel vuoto la domanda sul perché, per poi am-
mettere subito dopo in toto l’obiezione sulla base paradossale
dell’‚infondatezza‘, ed estenderla a se stesso e a tutto il discorso:
«Ma che ti disse una volta Zarathustra? Che i poeti mentono
troppo? Ma anche Zarathustra è un poeta» (Za II, KSA 4, p. 163;
Vol. VI, Tomo I, p. 154). Inoltre, sono presenti dialoghi parados-
sali sulla stesura degli stessi:

Ma perché poi scrivi? – A: Io non sono di quelli che pensano con la


penna inzuppata in mano: e ancor meno di quelli che si lasciano andare
del tutto alle loro passioni di fronte al calamaio aperto, sedendo sulla
poltrona e tenendo gli occhi issi sulla carta. Tutto ciò che è scrivere
mi mette addosso sdegno e vergogna; scrivere è per me una imperiosa
necessità – perino il parlarne per metafora è per me ripugnante. B: Ma
34 Claus Zittel

allora perché scrivi? A: Sì, mio caro, per dirtelo in conidenza, io non
ho inora trovato alcun altro mezzo per liberarmi dai miei pensieri. B:
E perché te ne vuoi liberare? A: Perché voglio? Lo voglio proprio? Io
devo … B: Basta! Basta così! (FW 93, KSA 3, p. 448; Vol. V, Tomo II,
p. 101).

I parlanti iniscono direttamente per autocontraddirsi, talvol-


ta in modo involontario, talvolta per volontà di ingannare, non,
però, con lo scopo di nuocere, bensì per rinuncia alla saccenteria:

Seguire e precedere. – A: Di quei due uno verrà sempre appresso,


l’altro andrà sempre avanti, ovunque il destino li conduca. E con tutto
ciò, il primo è superiore al secondo quanto a virtù e spirito. B: E con
tutto ciò? Con tutto ciò? Questo è detto per gli altri, non per me, non
per noi! Fit secundum regulam (FW 181, KSA 3, p. 502; Vol. V, Tomo
II, p. 147).

In questo caso, quindi, B non segue A, sebbene a livello for-


male lo faccia. L’alternativa introdotta da A come premessa vie-
ne ammessa da B solo parzialmente, smascherata come espres-
sione esoterica e così sminuita. La seconda regola di B segue la
prima, anche se dal punto di vista logico la anticipa, perché come
ulteriore condizione pone la situazione dell’atto linguistico. La
seconda regola, però, implica che non vi sono regole isse.
Alle volte scompare anche un parlante (cfr. FW 93, KSA 3, p.
448; Vol. V, Tomo II, p. 101), cosa che però non sempre riesce:

Dialogo sulla musica. – A: Che ne dice di questa musica? – B: Mi ha


soggiogato, non ho proprio nulla da dire. Ascolti! Ecco che comincia di
nuovo! – A: Tanto meglio. Guardiamo di essere questa volta noi a sog-
giogarla. […] Ma la musica ammutolisce! – B: Ed è bene che sia così!
Poiché non posso più tollerare di stare invece a sentir Lei. Preferisco
lasciarmi ingannare dieci volte, che sapere una volta la verità alla sua
maniera. – A: È questo che volevo sentire da Lei (M 255, KSA 3, p. 206;
Vol. V, Tomo I, p. 172)27.

27 Cfr. anche FW 320, KSA 3, p. 551; Vol. V, Tomo II, p. 185.


Il dialogo come forma filosofica 35

Il potenziale di questa tipologia di dialogo breve non è da ri-


condurre ad una forma elaborata dal punto di vista compositivo,
ma piuttosto alla possibilità, insita in ciascun atto linguistico, per
un parlante di autoriferirsi alla forma.

3. «Sospeso a metà tra prosa e poesia»: il dialogo platonico

Attraverso la brevità e la tendenza a minare e arrestare l’ar-


gomentazione, i dialoghi di Nietzsche si pongono in evidente
contrasto con l’arte dialogica di Platone. Sul dialogo platonico
Nietzsche si esprime per lo più scetticamente, nel Crepuscolo de-
gli idoli lo deinisce ancora una «specie di dialettica spaventosa-
mente vanitosa e puerile» (GD Antichi 2, KSA 6, p. 155; Vol. VI,
Tomo III, p. 155). Più dettagliatamente si esprime nella Nascita
della tragedia, in un passo noto e molto bello:

Se la tragedia aveva assorbito in sé tutti i genere d’arte precedenti, la


stessa cosa si può d’altro canto dire, secondo una diversa prospettiva,
del dialogo platonico, che, prodotto dalla mescolanza di tutti gli stili e
le forme esistenti, è sospeso a metà fra narrazione, lirica, dramma, fra
prosa e poesia, e ha quindi anche infranto la rigorosa legge più antica
della forma linguistica unitaria. […]. Il dialogo platonico fu per così
dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue
creature: stipate in uno stretto spazio e paurosamente sottomesse all’u-
nico timoniere Socrate, entrarono ora in un nuovo mondo, che non
poté mai saziarsi di guardare la fantastica immagine di questo corteo.
Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuo-
va forma d’arte, il modello del romanzo (GT 14, KSA 1, pp. 93 s.; Vol.
III, Tomo I, pp. 94 s.)28.

28 Cfr.: «L’essenza del dialogo platonico, peraltro, è la mancanza di forma e di stile,

prodotta dalla mescolanza di tutte le forme e di tutti gli stili esistenti. […] Egli ondeggia
così fra tutti i generi di arte, fra prosa e poesia, narrazione, lirica e dramma, e d’altronde
ha infranto l’antica legge rigorosa della forma linguistica stilisticamente unitaria. Il socra-
tismo giunge a una deformazione ancora più spinta negli scrittori cinici: costoro cercano
– con la massima screziatura dello stile e con un ondeggiamento tra forme in prosa e
forme metriche – di rispecchiare in qualche modo quell’aspetto esterno di Sileno che era
36 Claus Zittel

Dopo questa sorprendente osservazione, che sarebbe da esa-


minare a parte ai ini di una teoria del romanzo, Nietzsche spiega
perché la nuova forma di dialogo abbia avuto un effetto così fata-
le: «Qui il pensiero ilosoico cresce al di sopra dell’arte, costrin-
gendola ad abbarbicarsi strettamente al tronco della dialettica»
(GT 14, KSA 1, p. 94; Vol. III, Tomo I, p. 95)29. Il dialogo di
Platone non agirebbe dunque in maniera diretta, ma sarebbe il
«padre della poesia letteraria: epos letterario, dramma letterario,
– – –» (NF 3[75], KSA 7, p. 80; Vol. III, Tomo III, parte 1, p.
75). Nietzsche considera quindi la nuova forma disomogenea e
non evidente. Altrove si legge chiaro e tondo: «La corruzione
prende lo spunto dal dialogo» (SGT, KSA 1, p. 545; Vol. III,
Tomo II, p. 40).
Tuttavia nel lascito degli anni di Basilea si trova anche l’utopia
del «dialogo amoroso» (SGT, KSA 1, p. 545; Vol. III, Tomo II,
p. 41), in cui la musica si fonde con il dialogo e il monologo. Il
suo sviluppo avrebbe però impedito l’entrata del socratismo nel-
la tragedia, il dialogo si sarebbe trasformato in un «regno dell’a-
pollineo» (NF 7[94], KSA 7, p. 159; Vol. III, Tomo III, parte
1, p. 162). Negli scritti successivi, dietro la critica al variopinto
miscuglio degli stili in Platone, traspare sempre più una segreta
stima per la sua audacia artistica. Nietzsche deinisce ora Platone
il «più ardimentoso di tutti gli interpreti, che aveva preso dalla
strada tutto Socrate solo come il motivo in voga di una canzone
popolare, per variarlo all’ininito, ino all’impossibile; cioè in tut-
te le sue proprie maschere e multiformità» (JGB 190, KSA 5, p.
111; Vol. VI, Tomo II, p. 89). In Ecce homo Nietzsche colloca
Così parlò Zarathustra in una posizione simile, sostenendo di di-
sporre come scrittore di «molte possibilità di stile – forse la più

proprio di Socrate, i suoi occhi sporgenti, le sue labbra tumide, il suo ventre cascante»
(SGT, KSA 1, pp. 543 s.; Vol. III, Tomo II, pp. 38 s.).
29 Dialettica e dialogo non sono quindi da equiparare. Di parere diverso è A. Ne-

hamas, in Who are „The Philosophers of the Future“? A Reading of Beyond Good and Evil,
in R. C. Solomon, K. M. Higgins (a cura di), Reading Nietzsche, New York/Oxford 1988,
pp. 46-67.
Il dialogo come forma filosofica 37

molteplice arte dello stile di cui un uomo abbia mai disposto»


(EH Libri 4, KSA 6, p. 304; Vol. VI, Tomo III, p. 313).
Ma già nelle sue prime lezioni su Platone Nietzsche aveva
espresso un giudizio più differenziato, o meglio più contraddit-
torio. L’analisi attenta di questa contraddizione facilita la com-
prensione dei successivi sforzi per i suoi stessi dialoghi. Dapprima
Nietzsche insiste sulla differenza tra dialogo scritto e conversa-
zione orale, e nega che l’arte dialogica scritta di Platone consi-
sta nel riproporre un discorso vivo, che da solo possa istruire. I
dialoghi scritti sarebbero in primo luogo un aiuto mnestico per
ilosoi già formati. Nondimeno, Nietzsche loda lo «scrittore»
Platone: «lo scrittore altamente dotato, massimamente versatile,
che domina ogni tipo di tonalità, colui che nell’epoca più erudita
è il colto per eccellenza. Nel comporre, Platone mostra una gran-
de dote drammatica»30. Nietzsche apprezza la forma di singoli
dialoghi, per esempio riconosce al Simposio che «il signiicato
dei discorsi: deve essere compreso solo a partire dal Fedro»31.
Proprio nella «pluralità di forma e contenuto»32 si rivelerebbe
«la produttività del nuovo principio»33. Sarebbe quindi «falso
credere che Platone abbia voluto rappresentare diverse direzioni
sbagliate: sono tutti logoi ilosoici e tutti veri, con lati sempre
nuovi di una stessa verità»34. Pluralità e dialogo non si escludono
di principio nel primo Nietzsche. L’esoterico dialogo Gorgia, in-

30 «der reichbegabte Prosaiker, höchst versatil, alle Tonarten beherrschend, der


vollendete Gebildete der gebildetsten Zeit. In der Composition zeigt er eine grosse dra-
matische Begabung» (Einführung in das Studium der platonischen Dialoge, KGW II/4,
p. 8). La traduzione italiana delle citazioni tratte dalla Einführung in das Studium der
platonischen Dialoge (KGW II/4, pp. 5-188) è di Annamaria Lossi. La traduzione fa par-
te dell’edizione critica delle Lezioni universitarie e studi ilologici 1869-1873 nel Vol. I,
Tomo I delle Opere di Friedrich Nietzsche, diretta da Giuliano Campioni, in corso di
pubblicazione per l’editore Adelphi.
31 «Bedeutung der Reden: nur aus dem Phaedrus zu verstehen» (ivi, p. 105).
32 «Mannichfaltigkeit der Form und des Inhalts» (ibid.).
33 «die Fruchtbarkeit des neuen Prinzips» (ivi, p. 106).
34 «[…] ganz falsch zu glauben, dass Plato damit verschiedene verkehrte Richtungen

habe darstellen wollen: es sind alles philosophische logoi und alle wahr, mit immer neuen
Seiten der einen Wahrheit» (ibid.).
38 Claus Zittel

vece, «non è artistico»35, e il Protagora non avrebbe «l’asprezza e


l’acutezza»36 dei dialoghi precedenti, le questioni rimarrebbero
aperte. Nel corso delle lezioni, però, Nietzsche cambia parere.
Rispetto al Cratilo diagnostica in Platone un radicale scetticismo
conoscitivo che lo getterebbe in «una tetra disperazione»37. Dopo
la perdita di qualsiasi regola si sarebbe completamente buttato
sull’etica e allontanato dall’arte. Solo l’uso incondizionato di un
criterio morale mostrerebbe «che Platone non ha una posizione
diretta verso l’arte, almeno verso l’arte igurativa»38; una «idealità
estetica» che si manifesta in «forme e linee flessibili»39 sarebbe
quindi indifferente per la sua etica.
Alla luce di questa considerazione, Nietzsche giudica i dialo-
ghi platonici prevalentemente falliti dal punto di vista estetico:

Certo è che la sua [di Platone] forza artistica si placa nella scrittura
(che lui non ritiene così importante come noi); soltanto alcuni dialoghi
vengono davvero composti. Sempre più smorti, sempre meno struttu-
rati (Parmenide, Filebo). […] La forza drammatica di Platone è stata
sorprendentemente sopravvalutata. Se è vero che il linguaggio è inini-
tamente ricco, il giudizio degli antichi è stato piuttosto aspro (oscilla-
zione tra le modalità stilistiche, esagerato, ditirambico, ecc.). […] È un
etico ino al midollo40.

Da un lato, dunque, Nietzsche misura il dialogo platonico uni-


lateralmente in base alla fedele riproduzione di un discorso vivo,
dall’altro considera Platone l’inventore delle forme letterarie mi-
35«unkünstlerisch» (ivi, p. 118).
36«Herbe und Scharfe» (ivi, p. 122).
37 «eine trübsinnige Verzweilung» (ivi, pp. 151 s., cfr. anche p. 160).
38 «[…] dass Plato keine unmittelbare Stellung zur Kunst hat, am wenigsten zur

bildenden Kunst» (ibid.).


39 «aesthetische Idealität […] in ixierbare[n] Formen und Linien» (ivi, p. 163).
40 «Gewiss ist, dass seine [Platons] künstlerische Kraft in der Schriftstellerei (die er

nicht so wichtig nimmt wie wir) sehr nachlässt, dass nur ganz wenige Dialoge überhaupt
componirt sind. Immer grauer, immer ungefüger (Parmenides, Philebus). […] Die dra-
matische Kraft Platos ist erstaunlich überschätzt worden. Von der Sprache ist zwar wahr,
dass sie grenzenlos reich ist, aber das Urtheil der Alten war ziemlich herbe (Schwanken
zwischen den Stilarten, übertrieben, dithyrambisch u. s. w.). […] Er ist Ethiker durch
und durch» (ivi, p. 161).
Il dialogo come forma filosofica 39

ste e ibride, con cui, come artista, avrebbe alla ine fallito perché
le avrebbe sottomesse ad un metro estraneo all’arte. Il giovane
Nietzsche non riconosce ancora la varietà di possibilità formali
attraverso cui il dialogo platonico, in modo autorilessivo, può
minare certezze presunte41. Agli occhi di Nietzsche Platone ha
assoggettato il discorso alla dialettica e all’etica, causando così il
tramonto della cultura greca. Resta tuttavia da considerare che
altre forme di dialogo hanno successo, e che invece di rifugiarsi
dallo scetticismo conoscitivo nell’etica, bisognerebbe affrontare
questo scetticismo con strumenti artistici. Sembra così imporsi
la tesi secondo cui Nietzsche avrebbe impostato i suoi dialoghi
come contraltare al dialogo platonico, sperimentando forme al-
ternative. Consideriamo ora attentamente questi tentativi.

4. Il dialogo come farsa: Sull’avvenire delle nostre scuole

Le conferenze intitolate Sull’avvenire delle nostre scuole con-


tengono il dialogo più lungo mai scritto da Nietzsche. Esso
presenta alcune particolarità formali42, perché solo lì vengono
individualizzate le igure del dialogo, è abbozzato uno scenario
concreto e si sviluppa un discorso a più stadi. Nelle sei confe-
renze programmate, di cui ne tiene cinque, Nietzsche presenta
al pubblico di Basilea il possibile futuro degli istituti scolastici.
Le conferenze sono scritte per una pubblicazione monograica.
41 Cfr. E. Müller, Die Griechen im Denken Nietzsches, Berlin/New York 2005, p.
224.
42 Gli studi su Sull’avvenire delle nostre scuole rimangono orientati al contenuto, si

veda ad esempio J. Schneider, Nietzsches Basler Vorträge Ueber die Zukunft unserer Bil-
dungsanstalten im Lichte seiner Lektüre pädagogischer Schriften, in «Nietzsche-Studien»,
21 (1992), pp. 308-325, o deiniscono la loro forma «racconto». Si veda ad esempio B.
Biebuyck, K. Hemelsoet, D. Praet, Metamorphosen der Verzweilung. Philosophie des Er-
zählens in Nietzsches Ueber die Zukunft unserer Bildungsanstalten, in R. Duhamel, G.
van Gemert (a cura di), Nur Narr? Nur Dichter? Über die Beziehungen von Literatur und
Philosophie, Würzburg 2008, pp. 229-263. Fa eccezione: T. Schmidt-Millard, Nietzsches
Basler Vorträge „Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten“. Die Aporie der Bildungsthe-
orie des „Genius“ und ihre Überwindung in den „Unzeitgemäßen Betrachtungen“, Leipzig
1982.
40 Claus Zittel

In aggiunta vi è una «Prefazione da leggere prima delle confe-


renze, sebbene propriamente non vi si riferisca» (BA Prefazione,
KSA 1, pp. 648 ss.; Vol. III, Tomo II, pp. 87 ss.). Qui Nietzsche
si augura un lettore antimoderno, che legga «calmo» e «senza
fretta», che «non ha ancora disimparato a pensare quando leg-
ge», e che conosce «ancora il segreto di leggere tra le righe» (ivi,
p. 649; Vol. III, Tomo II, p. 88). Nella dettagliata esposizione
Nietzsche sostiene che quello che andrà ad eseguire non sarebbe
stato altro che la ripetizione di una conversazione che gli sembra
utile «issare una buona volta» (BA I, KSA 1, p. 652; Vol. III,
Tomo II, pp. 91 s.) in forma scritta. Più avanti, in una lettera del
1872 a Malwida von Meysenbug, deinirà, non completamente
a torto, questo modo di presentazione una «farsa scarsamente
invettiva» e «camuffat[a]» (Nr. 270, KSB 4, p. 83; E Vol. II, p.
387), e nella quarta conferenza la deinisce, ancora più benevol-
mente, un «piccolo teatro di marionette» (BA IV, KSA 1, p. 712;
Vol. III, Tomo II, p. 161), in cui «si mostreranno alcuni altri
burattini» (ibid.). Come «valenti nuotatori» (ibid.) gli ascoltato-
ri devono lasciarsi trasportare dalle «onde del racconto» (ibid.),
che inizia con la dettagliata descrizione di come lui, l’oratore, e il
suo compagno, durante gli studi, su un monte, siano presumibil-
mente diventati «testimon[i] diretti di una conversazione» (BA
I, KSA 1, p. 651; Vol. III, Tomo II, p. 91) tra il ilosofo e il suo
compagno più giovane. Lo scenario di un incontro avvenuto in
una mite giornata di tarda estate nella «quiete ristoratrice e si-
lenziosa della natura» (ivi, p. 655; Vol. III, Tomo II, p. 95) viene
descritto nel dettaglio: «era una di quelle giornate perfette che
possono presentarsi, almeno nel nostro clima, soltanto alla ine
dell’estate» (ivi, p. 654; Vol. III, Tomo II, p. 94). Dopo alcuni
piccoli fraintesi e contrarietà le prime dispute teatrali sfociano
in un discorso sul tema principale, che si sviluppa nell’arco delle
cinque conferenze. Particolare è il fatto che non nasca alcuna
controversia. Il ilosofo più vecchio, descritto secondo il modello
di Schopenhauer, domina i discorsi, ma non come un maestro di
dialoghi didascalici che dai suoi scolari raccoglie solo lemmi per
i suoi ammaestramenti. Ancor meno si presenta nel ruolo di chi
Il dialogo come forma filosofica 41

interroga e che – come Socrate – vuole tirare fuori dai dialoganti


delle verità nascoste, perché anche gli altri contribuiscono con
rilessioni proprie. Certo, è il ilosofo ad avviare lunghe argomen-
tazioni, tuttavia il discorso degli altri irrompe continuamente. Al
discorso partecipano anche il narratore e il suo amico, che prima
origliano solo; da questo momento in poi i pensieri si sviluppano
nel dialogo. Per la sesta conferenza, inine, era previsto l’incontro
con un amico «signiicativo» del ilosofo, che viene atteso notte-
tempo sul monte, ma non vi arriva mai. Invece, e con malcon-
tento del ilosofo, questi si aggrega ad una schiera di studenti
festaioli, i cui schiamazzi si odono da lontano. Non si arriva mai
ad una vera e propria disputa a pari livello tra il ilosofo e l’amico
atteso – Nietzsche ha interrotto prima le conferenze43. Tuttavia,
dall’impianto del discorso si evince che l’assenza dell’amico rap-
presenta la miglior soluzione per il inale: mentre gli altri parlano
di viva educazione, il ilosofo fraternizza con la gioventù e pre-
ferisce essere al centro del rumoroso corteo. Lui che, di solito
afidabile, ha sempre mantenuto i suoi impegni, non si presenta
al sommo discorso ilosoico che era stato concordato. Del resto
il dialogo viene al momento narrato, anche se ora riguarda l’ac-
quisizione di un senso per lo stile attraverso un lungo esercizio
sull’esempio dei classici tedeschi, il «corpo vivo della lingua»,
che non è da anatomizzare, ma da «trattare […] come qualcosa
di vivo» (BA II, KSA 1, p. 677; Vol. III, Tomo II, p. 121), e il gio-
vane uomo che «si sente reso capace – anzi invitato – a parlare, a
prendere parte a una conversazione» (BA II, KSA 1, p. 679; Vol.
43 Su questo Nietzsche scrive a Malwida von Meysenbug il 20 dicembre 1872 (Nr.
282, KSB 4, p. 104; E Vol. II, pp. 407 s.): «Adesso Lei avrà letto le conferenze, e si sarà
spaventata di come la storia si interrompa improvvisamente dopo tante considerazioni
preliminari e dopo che tra tanta negatività e parecchie lungaggini la sete delle idee e delle
proposte veramente nuove era aumentata sempre di più. Viene la gola secca leggendo,
e alla ine non c’è nulla da bere! Veramente quello che mi ero proposto per l’ultima
conferenza – una scena notturna quanto mai folle e variopinta – non si adattava al mio
pubblico basileese e certo è stato un bene che la parola mi sia rimasta in bocca. Del resto
mi si tormenta proprio perché io continui! Ma siccome ho rimandato un poco le riles-
sioni su tutto l’argomento, circa tre anni (e questo alla mia età non è dificile); certo non
rielaborerò mai l’ultima conferenza. Tutto lo scenario sul Reno, come tutto quello che
sembra biograico, è terribilmente inventato».
42 Claus Zittel

III, Tomo II, p. 123). Secondo Nietzsche, dunque, una conversa-


zione non è una forma espressiva naturale, e non può nemmeno
venire esercitata attraverso lo studio dell’antichità. Solo l’intenso
confronto con i maestri della propria lingua può produrre un
linguaggio individuale, sottile, ricco di rafinate sfumature e al-
lusioni nascoste, comprensibile solo a coloro che «indovinano
subito ciò che ha potuto essere soltanto accennato, che integrano
ciò che ha dovuto essere taciuto, che in generale hanno bisogno,
non già di essere istruiti, ma soltanto cha la loro memoria venga
risvegliata» (BA I, KSA 1, p. 652; Vol. III, Tomo II, p. 92).
In Sull’avvenire delle nostre scuole Nietzsche si sforza molto
di non legare l’andamento del discorso all’etica e alla dialettica,
bensì lo rende dipendente dal caso e da ispirazioni spontanee.
Incontri inaspettati, incidenti, la mancanza del principale oppo-
sitore conducono a salti del pensiero, a oscillazioni d’umore e a
cambiamenti tematici arbitrari, che impediscono uno sviluppo
argomentativo dialogico mirato. Questo dialogo non deve in-
segnare, e nemmeno fornire alla ine un risultato tangibile, ma
stabilire piuttosto una collaborazione indipendente per perfe-
zionare la formazione. Ad ogni modo, esso rappresenta il primo
tentativo di Nietzsche di riprodurre in forma scritta un discorso
più vivo di quanto – come sostiene – avesse potuto fare Platone.

5. Conversazione e dialogo: «Il viandante e la sua ombra»


come dialogo di cornice

I dialoghi inseriti nei drammi o nei romanzi sono subordina-


ti alle rispettive forme44. Le conversazioni all’interno di poesie
e forme epiche, come si trovano spesso in Nietzsche, si pensi
soltanto allo Zarathustra e ai Ditirambi di Dioniso, hanno chiara-
mente altre funzioni rispetto ai dialoghi indipendenti. Ma cosa
succede con i dialoghi nei libri di aforismi che lì costituiscono

44
Sulle forme dialogiche non indipendenti cfr. G. Bauer, Zur Poetik des Dialogs,
Darmstadt 1969.
Il dialogo come forma filosofica 43

una forma chiusa? Sono indipendenti tra loro, o collegati alla


costellazione di aforismi e ad essa sottoposti? E cosa succede
quando un libro di aforismi, attraverso gli interventi dei lettori,
sembra assumere nel suo complesso una forma dialogica, o con-
tiene addirittura una cornice dialogica? Tali domande sorgono
con particolare intensità per Il viandante e la sua ombra. Se gli
intermezzi di conversazioni, di cui si è già parlato, dal punto di
vista letterario erano più che altro modesti esperimenti con il dia-
logo come forma breve, i dialoghi de Il viandante e la sua ombra,
invece, risultano a tutti gli effetti dialoghi letterari45 poiché uni-
scono artisticamente tema, forma e messaggio.
Il dialogo, diviso in due parti, tra il viandante e la sua ombra,
che funge da cornice all’omonima sezione di Umano troppo uma-
no, è già stato esaminato accuratamente dagli studiosi. Sono stati
notati sia lo stretto legame con l’aforisma conclusivo del libro
precedente – Opinioni e sentenze diverse – intitolato Il viaggio
nell’Ade, in cui il proprio pensiero è presentato come un dialogo
permanente tra il ilosofo e le anime di defunti per lui importanti,
sia il fatto che il motivo dell’ombra, che torna spesso nella quar-
ta parte dello Zarathustra e nell’aforisma 380 della Gaia scienza,
rimanda al romanticismo e a Platone46. Il gioco con la metafora
della luce e dell’ombra indicherebbe tuttavia un cambiamento
nel rapporto di Nietzsche nei confronti di Platone: a livello for-
male e tematico egli ora pare porsi nella sua tradizione, sebbene
il dialogo platonico continui ad essere criticato dal viandante.
Enrico Müller ha spiegato che solo il tardo Nietzsche ha colto
«la struttura paradossale dell’opera di Platone», senza tuttavia
abbandonare il suo «rilesso antiplatonico»47. Nonostante l’e-
splicito riiuto e il rovesciamento di motivi platonici centrali, sul
piano stilistico Nietzsche si riallaccerebbe alla tecnica dialogica
di Platone. Non è Nietzsche a criticare il dialogo, ma un per-
sonaggio, che riiuta il dialogo platonico, non il dialogo in sé.
45 Cfr. B. Snell, Der Beginn des literarischen Dialogs, in «Antike und Abendland», 22
(1976), pp. 137 ss.
46 W. Stegmaier, Nietzsches Befreiung der Philosophie, cit., pp. 103 ss.
47 E. Müller, Die Griechen im Denken Nietzsches, cit., p. 232.
44 Claus Zittel

Inoltre, il viandante di Nietzsche argomenta come Socrate nel


Fedro, ossia usa metafore della luce e dell’ombra come Socrate
nel Soista e ne La Repubblica. Inoltre, fa tutto questo in una se-
quenza dialogica. Con questa triplice ripetizione di Platone (sul
piano della forma, delle metafore e del messaggio), Nietzsche
crede tuttavia – questa la tesi di Müller – di articolare un con-
cetto di forma antiplatonico, o estraneo a Platone. Stegmaier,
invece, legge il dialogo in modo più disteso, nel gioco di luci e
ombre riconosce possibilità di orientamento per i dialoganti, che
nei mutevoli rapporti di luce possono comunicare l’un con l’altro
in modo sempre diverso e diventare così percepibili agli altri e a
sé stessi solo nei loro contorni48. L’ombra, pertanto, contribui-
rebbe alla conoscenza tanto quanto la luce. Tuttavia, nel «mondo
di superfici e di segni» (FW 354, KSA 3, p. 593; Vol. V, Tomo
II, p. 222) scomparirebbero le ombreggiature, a igure esterne
la comunicazione risulterebbe opaca; piuttosto, essi dovrebbero
cercare le proprie ombre e con esse la loro lingua comune, così
come anche il lettore49.
Se si osserva il dialogo iniziale de Il viandante e la sua ombra
sullo sfondo di tali dialoghi autoreferenziali, un’interpretazione
più scettica diventa possibile. Il gioco alterno di domande e ri-
sposte del viandante e dell’ombra è caratterizzato da momenti di
frizione distribuiti nel corso del dialogo. È palese che ciò che si
sviluppa non è un discorso socratico, in cui, ad esempio, il vian-
dante che pone le domande irretisce l’ombra in contraddizioni
e la conduce così ad un livello di argomentazione più elevato.
A differenza del dialogo platonico, nessuno dei due personaggi
dirige il discorso. A venire scosse sono invece le sicurezze del
viandante, e ciò lo mette nella condizione di suscitare incertezze
molto più fondamentali, che alla ine scardinano l’intera situazio-
ne comunicativa. In primo luogo l’ombra si rivolge al viandan-
te, che si confonde e si chiede se non stia ascoltando se stesso.
Quando comprende che è l’ombra che sta ascoltando non ci cre-

48 W. Stegmaier, Nietzsches Befreiung der Philosophie, cit., p. 104.


49 Ivi, pp. 104 s.
Il dialogo come forma filosofica 45

de, pensa di avere delle allucinazioni come quando aveva visto i


cammelli a Pisa. L’ombra sfrutta subito questa insicurezza come
per uscire dalla comunicazione diretta e suggerire al viandante le
condizioni del discorso. Non bisogna sottoporsi reciprocamente
ad un esame socratico, ma piuttosto tenere tutto sospeso nell’in-
certezza:

L’ombra: È bene che entrambi siamo in ugual modo indulgenti verso


di noi, se per una volta la nostra ragione tace: così anche nel discorrere
non ci faremo dispiacere e non metteremo subito le manette all’altro,
se la sua parola ci suonerà incomprensibile. Se proprio non si saprà
rispondere, basterà già dire qualcosa: questa è l’equa condizione alla
quale io parlo con qualcuno. In un colloquio un po’ lungo anche il più
saggio diventa una volta pazzo e tre volte minchione (WS, KSA 2, p.
537; Vol. IV, Tomo III, p. 133).

Accettare con indulgenza anche posizioni che non si capisco-


no, non tenere al guinzaglio e non inchiodare l’interlocutore sul-
le sue asserzioni e difidare dei discorsi più lunghi: tutto ciò vie-
ne dapprima presentato dall’ombra come metodo. Poco dopo vi
concorda anche il viandante. Inoltre spicca l’atteggiamento anti-
agonale e l’insistenza sul fatto che non importa tanto il contenuto
del dialogo, quanto il fatto che, nell’interazione, luce e ombra
conferiscano contorno sia al discorso che alla igura:

Il viandante: Solo ora mi accorgo di quanto io sia scortese verso di


te, mia amata ombra: non ho ancora usato neppure una parola per dire
quanto io mi rallegri di sentirti e non solo di vederti. Lo saprai, io amo
l’ombra come amo la luce. Perché ci sia bellezza sul volto, chiarezza
nel discorso, bontà e saldezza nel carattere, l’ombra è tanto necessaria
quanto la luce. Esse non sono avversarie: si tengono al contrario amo-
revolmente per mano, e se la luce sparisce, l’ombra le guizza dietro (ivi,
pp. 133 s.).

L’ombra e il viandante si rivolgono complimenti a vicenda, e


il viandante confessa:
46 Claus Zittel

Credo di capirti, benché tu ti sia espressa alquanto ombratamente.


Ma avevi ragione: i buoni amici si scambiano di quando in quando una
parola oscura come segno di intesa, che deve essere un enigma per
ogni estraneo. E noi siamo buoni amici. Perciò bando ai preamboli!
[…] Vediamo su che cosa ci incontriamo in tutta fretta e paciicamente
(ivi, p. 134).

La forma più adeguata sarebbe il dialogo, in cui si parlerebbe


in modo vago e oscuro, ma si saprebbero gestire le allusioni. Una
tale intesa sembrerebbe criptica a terzi, che vengono esclusi. Ora
spetta al viandante trarre delle conseguenze metarilessive, che
tuttavia non riguardano soltanto il dialogo attuale, ma vengono
sviluppate lungo tutto il libro. Gli sfugge un: «[B]ando ai pre-
amboli» (ibid.), con cui si rinvia alla funzione del dialogo da lui
condotto, di essere cioè pre- e postfazione di un libro. Ora viene
introdotta la classica discussione della critica platonica:

L’ombra: Ma le ombre sono più timide degli uomini: non comuni-


cherai a nessuno come abbiamo parlato insieme!
Il viandante: Come abbiamo parlato insieme? Il cielo mi guardi dai
lunghi e ruminati dialoghi scritti! Se Platone avesse preso meno gusto
a ruminare, i suoi lettori prenderebbero più gusto a Platone. Una con-
versazione, che nella realtà delizia, è, se trasformata in scritto e letta,
un quadro con prospettive tutte false: tutto è troppo lungo o troppo
corto. – Tuttavia potrò forse comunicare su che cosa abbiamo concor-
dato? (ibid.)

Stranamente il come del parlante deve essere protetto attra-


verso il silenzio, ma il che cosa potrebbe essere comunicato an-
che in un’altra forma. Forma e contenuto sarebbero così parzial-
mente separabili, e sarebbe possibile mascherare solo i contenuti
vincolati alla forma e al procedere del discorso. Gli aforismi de
Il viandante e la sua ombra apparirebbero come una forma con
cui si comunicano dei risultati, «non però il loro corso in luce e
ombra»50. Sorprende questa riduzione dell’aforisma – operata

50 Ivi, p. 104.
Il dialogo come forma filosofica 47

dal viandante – a un protocollo di discorsi non più comunicabili,


perché, come è noto, per Nietzsche un «aforisma, modellato e
fuso con vigore» non si esaurisce nella sua funzione comunicati-
va: «per il fatto che viene letto non è ancora ‚decifrato‘, deve in-
vece prendere inizio, a questo punto, la sua interpretazione, per
cui occorre un’arte dell’interpretazione» (GM Prefazione 8, KSA
5, p. 255; Vol. VI, Tomo II, p. 221). Tale interpretazione potreb-
be quindi consistere nell’intuizione del discorso precedente. Ne
Il viandante e la sua ombra, tuttavia, non ci sono solo aforismi,
ma anche altri dialoghi che evidentemente non nascondono una
conversazione, ma la rappresentano. Come si rapportano alla cri-
tica che il viandante muove contro il dialogo?
Paul Friedländer ritiene che il dialogo sarebbe «l’unica forma
del libro che sembra abolire il libro stesso»51, perché potrebbe
far dimenticare la sua letterarietà. Nella letteratura più antica su
Platone è stato soprattutto Schleiermacher a sostenere che, per
questo motivo, il dialogo platonico si sottrarrebbe alla critica di
Platone alla scrittura: solo il dialogo platonico renderebbe in
modo adeguato la vivacità di una conversazione, e la sua for-
ma scritta quasi sparirebbe52. Il viandante contraddice proprio
questa idea. Secondo lui, soprattutto il dialogo scritto si oppone
alla conversazione che necessariamente deforma e distorce, e ai
suoi occhi questo non vale solo per i dialoghi platonici, ma per
qualsiasi dialogo da leggere. Seguono interessanti conseguenze
per l’intero libro in riferimento a come vi vengono modellati i
rapporti tra conversazione e dialogo e tra dialogo e aforisma.
Riepiloghiamo: le conversazioni tra l’ombra e il viandante
stanno all’inizio e alla ine dell’opera e fungono da cornice per
essa; tutto ciò che sta in mezzo è deinito dal viandante come
il risultato di queste conversazioni. Anche gli aforismi, quindi,
sono i frutti dei dialoghi che ora vengono rappresentati in modo
diverso, poiché, se venissero resi come dialogo scritto, consegne-
rebbero un quadro con prospettive solo false, dove tutto è trop-
51 P. Friedländer, Platon, Berlin 1928, Vol. 1, p. 177.
52 Cfr. Th. A. Szlezák, Abbild der lebendigen Rede. Was ist und was will ein platoni-
scher Dialog?, in «Museum Helveticum», 66/2 (2009), pp. 65-83.
48 Claus Zittel

po lungo o breve. Però, se il dialogo altera questo quadro perché


issato nella scrittura, e se contemporaneamente viene annuncia-
to che all’interno del libro bisogna scegliere un’altra modalità
di rappresentazione, ma poi nel libro si trovano dialoghi, qual è
allora il loro stato e lo stato del dialogo per cui si ritiene neces-
saria l’alterazione attraverso la scrittura? O questi dialoghi sono
necessariamente deformati, o è stata trovata una nuova forma di
scrittura dialogica che evita o appiana le distorsioni. Proprio ne
Il viandante e la sua ombra si chiede con insistenza di impara-
re a scrivere meglio (WS 87). Ad ogni modo Nietzsche, in una
lettera a Heinrich Köselitz del 1879, parla esplicitamente di un
«dialogo all’inizio e alla ine, dove regna un umore gaio (e una
quantità di minuzie psicologiche; quell’ombra diffusa alla ine di
tutto, per es. tristezza, rimpianto, distacco, atmosfera vespertina
della natura, tutto mescolato insieme)» (Nr. 888, KSB 5, pp. 449
s.; E Vol. III, pp. 399 s.), e non di una conversazione. Inoltre, i
dialoghi ne Il viandante e la sua ombra non sono così corti come
i brevi discorsi messi in scena, ma nemmeno così lunghi come un
dialogo platonico, la loro dimensione sembra quindi tener conto
della critica del viandante.
E tuttavia, il fatto che il viandante formuli la propria critica
all’interno di un dialogo, issato dal punto di vista scritto, smi-
nuisce questa critica tramite la forma, o la dichiara falsa. Soprat-
tutto, l’insistenza del viandante sull’effetto fatale della scrittura
chiarisce in primo luogo che egli stesso è una igura costruita
nella scrittura. La critica al dialogo espressa nel dialogo è quindi
già un esempio performativo di un parlare non distorto, o la di-
storsione viene presentata in modo dialogico, relativizzando così
la critica? Non è possibile chiarirlo, il conine tra conversazione
e dialogo viene continuamente messo in discussione dalla forma.
«Sono aforismi! Sono aforismi?» (NF 7[192], KSA 9, p. 356;
Vol. V, Tomo I, p. 556) chiede notoriamente Nietzsche in una
nota del lascito53. Nel momento in cui pretende dal suo editore
53 Axel Pichler ha notato che questa affermazione molto citata, contenuta nel qua-

derno di Nietzsche (N V 6, p. 59), segue immediatamente ad un dialogo – cioè al primo


stadio di M 494 – e che pertanto è ovvio riferirla direttamente ad esso (cfr. N V 6, S. 59
Il dialogo come forma filosofica 49

che ne Il viandante e la sua ombra «il dialogo e gli aforismi siano


stampati nell’identico modo» (Nr. 897, KSB 5, pp. 458 s.; E Vol.
III, p. 407), il ilosofo presuppone la loro differenza. Se i dialo-
ghi si inseriscono esternamente nella serie di aforismi attraverso
l’aspetto tipograico, i titoli e i numeri, non diventano per questo,
però, aforismi. La denominazione «Libro di aforismi», natura-
lizzata nella letteratura critica su Nietzsche, è pertanto fuorvian-
te. Anche chi, più attentamente, intende i dialoghi di Nietzsche
come «discorsi condotti per mezzo dell’aforisma»54, tralascia di
considerare la tensione formale tra aforisma, dialogo e conver-
sazione. Proprio questa tensione è però la prerogativa per spe-
rimentare con i conini del genere – come succede nel dialogo
de Il viandante e la sua ombra. Tali esperimenti sono da consi-
derarsi non solo come un gioco artistico, ancorato all’incertezza,
ma piuttosto come tentativi di creare una forma d’espressione
adeguata allo scetticismo linguistico e conoscitivo di Nietzsche.
L’attenta analisi dei dialoghi interni del libro non potrà che av-
valorare questa lettura.

6. I dialoghi interni

La lettura dei dialoghi disseminati ne Il viandante e la sua om-


bra non viene preparata solo dal dialogo della cornice, ma anche,
nelle prime pagine, da un «aforisma», che traccia un modello al-
ternativo di dialogo antiplatonico, signiicativamente nella forma
di una resa indiretta delle conversazioni di Epicuro. La tecnica
e la tattica di conversazione di Epicuro riportano Nietzsche alla
meravigliosa intuizione secondo cui

su: http://www.nietzschesource.org/facsimiles/DFGA/N-V-6,59; si veda anche KGW


V/3, p. 272). Sul signiicato di questo passo cfr. A. Pichler, Philosophie als Text, cit., p.
122. Di conseguenza Nietzsche qui non mette in dubbio la sua aforistica nel complesso,
ma, in modo autoironico, indaga il fatto che questi dialoghi vengano denominati aforismi.
54 E. Müller, Die Griechen im Denken Nietzsches, cit., p. 228.
50 Claus Zittel

per tranquillizzare l’animo non è affatto necessario risolvere le ulti-


me ed estreme questioni teoriche. Sicché a coloro che erano tormentati
dalla «paura degli dei», gli bastava dire: «se ci sono gli dei, essi non si
preoccupano di noi», – invece di disputare sterilmente e da lontano
sulla questione suprema, se ci siano in genere dei. Questa posizione è
molto più favorevole e forte: si danno all’altro alcuni passi di vantaggio,
rendendolo così più pronto ad ascoltare e a ponderare. Ma non appena
quegli si accinge a dimostrare il contrario, - che gli dei si preoccupano
di noi, - in quali errori e intrichi spinosi non dovrà cadere il misero,
affatto da sé, senza astuzia da parte dell’interlocutore? Costui deve solo
avere abbastanza umanità e inezza da nascondere la sua compassione
per questo spettacolo. Da ultimo l’altro giunge alla nausea, l’argomento
più forte contro quella proposizione, alla nausea per la sua stessa affer-
mazione […] – In altri casi, specie quando un’ipotesi a metà isica e a
metà morale aveva offuscato l’animo, egli non confutava questa ipotesi,
bensì ammetteva che poteva essere così, ma che per spiegare lo stesso
fenomeno c’era ancora una seconda ipotesi; e che forse la cosa poteva
stare ancora diversamente. Anche nel nostro tempo la pluralità delle
ipotesi […] basta […] (WS 7, KSA 2, pp. 543 s.; Vol. IV, Tomo III, pp.
137 s.).

È evidente che qui Nietzsche raccoglie e spiega molte delle


caratteristiche che contraddistinguono anche le sue brevi messe
in scena dialogiche. Secondo Nietzsche, nella forma più semplice
le locuzioni di Epicuro potrebbero essere riassunte così: «primo:
posto che la cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo:
può essere così, ma può essere anche diversamente» (ivi, p. 138).
Due dei dialoghi interni de Il viandante e la sua ombra sem-
brano essere esempi particolarmente interessanti di dialoghi che
annullano la distorsione attraverso la scrittura, in quanto minano
la logica dialogica. Essi sono da leggersi sia all’insegna dell’espo-
sizione del problema formulato nel dialogo di cornice, sia secon-
do il modello epicureo.
Il dialogo come forma filosofica 51

6.1. Dialogica in forma di parabola

I prigionieri. Una mattina i prigionieri entrarono nel cortile di la-


voro: il guardiano non c’era. Alcuni di loro andarono subito al lavoro,
com’era loro abitudine, altri se ne stavano oziosi e guardavano capar-
biamente intorno. Allora si fece avanti uno e disse ad alta voce: «La-
vorate quanto volete o non fate niente: non importa. I vostri complotti
segreti sono venuti alla luce, il guardiano della prigione vi ha di recente
spiati e nei prossimi giorni pronuncerà su di voi un terribile giudizio.
Lo conoscete, egli è duro e di animo vendicativo. Ora però fate atten-
zione: voi mi avete inora conosciuto male: io non sono quello che sem-
bro, ma molto di più: io sono il iglio del guardiano e posso tutto presso
di lui. Io posso salvarvi, io voglio salvarvi; ma beninteso, solo quelli di
voi che credono che io sono il iglio del guardiano; che gli altri raccol-
gano il frutto della loro incredulità». «Ebbene,» disse dopo un breve
silenzio un prigioniero piuttosto anziano, «che cosa può importarti se
ti crediamo o se non ti crediamo? Se sei veramente il iglio e puoi ciò
che dici, metti una buona parola per noi tutti: sarebbe realmente assai
buono da parte tua. Ma lascia stare il discorso del credere e del non
credere!». – «E» intervenne a dire un uomo più giovane «del resto io
non gli credo: egli si è solo messo qualcosa in testa. Scommetto che fra
otto giorni ci troveremo ancora esattamente così qui come oggi, e che
il guardiano non sa nulla». – «E se ha saputo qualcosa, non lo sa più,»
disse l’ultimo dei prigionieri, che scendeva solo ora nel cortile «il guar-
diano è or ora morto improvvisamente». – «Olà!» gridarono parecchi
tutti insieme «olà! Signor iglio, signor iglio, come la mettiamo con
l’eredità? Siamo forse ora tuoi prigionieri?» – «Ve l’ho detto,» replicò
dolcemente l’interrogato «libererò tutti quelli che credono in me, così
certamente come è certo che mio padre vive ancora». – I prigionieri
non risero, ma si strinsero nelle spalle e lo lasciarono (WS 84, KSA 2,
pp. 590 s.; Vol. IV, Tomo III, pp. 176 s.).

Partendo da singoli elementi del contenuto, questa parabola è


stata interpretata come una parodia della predica neotestamen-
taria55, o in riferimento alla parabola di Pascal dei prigionieri
55 Cfr. H.-G. Hödl, Der letzte Jünger des Philosophen Dionysos. Studien zur systemati-

schen Bedeutung von Nietzsches Selbstthematisierungen im Kontext seiner Religionskritik,


Berlin 2009, pp. 394-400, in confronto con E. Biser, „Gott ist tot“. Nietzsches Destruktion
52 Claus Zittel

incatenati e condannati a morte56. Tuttavia, la parabola di Pascal


ha un’altra struttura e non è affatto enigmatica, ma rappresenta
una semplice allegoria della vita umana: noi assomigliamo a pri-
gionieri condannati a morte. Anche se volessimo leggere I pri-
gionieri di Nietzsche come una semplice parabola, si otterrebbe
un’altra spiegazione: la guardia dei prigionieri starebbe per Dio,
e il prigioniero, che pretende fede nella sua origine divina e per
questo promette redenzione, starebbe per Cristo. Il problema
slitterebbe perché non riguarderebbe tanto la morte imposta,
quanto la fede dei prigionieri. Una parabola così predisposta non
si lascerebbe interpretare nel senso che il singolo non debba sem-
plicemente più credere per essere libero, perché anche i prigio-
nieri scettici rimangono imprigionati senza che si venga a sapere
il perché della condanna. Anche la domanda se il guardiano vive
resta aperta, perché la sua morte è solo una diceria.
Sembra quindi più proicuo considerare questo dialogo se-
condo il modello di Epicuro tratto da Il viandante e la sua ombra
7. In quest’ottica emerge che i prigionieri procedono in maniera
analoga alla tattica di Epicuro: innanzitutto si mette in secondo
piano la questione ontologica se il prigioniero sia veramente il
iglio del guardiano (1) e – come consiglia l’Epicuro di Nietzsche
– si stabilisce che per il momento non è importante se lo si creda
o meno. In tal modo il iglio presunto viene spinto ad insistere
e così si mette subito in dificoltà, perché, uno dopo l’altro, i
prigionieri iniziano a formulare nuove ipotesi alternative: il guar-
diano non sa nulla (2), il guardiano è morto (3) e, se è morto, è
il iglio il suo successore (4)? È palese che qui ritorna il modello

des christlichen Bewußtseins, München 1962, p. 54, che aveva svalutato la parabola dal
punto di vista estetico.
56 Cfr. M. Brusotti, Die Leidenschaft der Erkenntnis. Philosophie und ästhetische Le-

bensgestaltung bei Nietzsche von Morgenröthe bis Also sprach Zarathustra, Berlin/New
York 1997, p. 386; V. Vivarelli, Nietzsche und die Masken des freien Geistes, Würzburg
1998, p. 116. Cfr. B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Torino 1961, n. 191: «Ci si im-
magini una quantità di uomini in catene, e tutti condannati a morte, dei quali alcuni sono
sgozzati sotto gli occhi degli altri, così che quelli che restano vedono il proprio destino
in quello dei propri simili, e guardandosi gli uni gli altri con dolore e senza speranza,
attendono il loro turno, è l’immagine della condizione degli uomini».
Il dialogo come forma filosofica 53

proposto ne Il viandante e la sua ombra 7: «primo: posto che la


cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo: può essere così,
ma può essere anche diversamente» (WS 7, KSA 2, p. 544; Vol.
IV, Tomo III, p. 138). Il dialogo sommerge se stesso, le opinio-
ni non si scambiano, ma le si mette in dubbio una dopo l’altra,
inché non resta che il gesto dell’allontanamento. Le domande
restano aperte, e la parabola non viene decifrata. Essa anticipa
procedimenti simili a quelli dei testi di Kafka57, che condividono
con Nietzsche il presupposto che la lingua non è più in grado
di fornire alcun orientamento afidabile poiché non si può più
credere a un’istanza garante di senso.
Rispetto alla tradizione platonica Nietzsche capovolge il rap-
porto tra essoterismo ed esoterismo: i dialoghi pubblicati sono
esoterici, sono dialoghi per tutti e per nessuno, per i quali, una
volta scritti, non c’è più una chiave di lettura58. La scrittura di
dialoghi è un atto di occultamento, i dialoghi e gli aforismi sono
conversazioni nascoste in forme diverse59.

57 Cfr. «‚Sono contento di non aver capito ciò che avete detto‘. Agitato, ribattei
subito: ‚Essendone contento, dimostrate di aver capito‘» (F. Kafka, Descrizione di una
battaglia, in Id., Racconti, a cura di E. Pocar, Milano 1992, p. 34) Cfr. anche la parabola
dialogica di Kafka Delle similitudini, in F. Kafka, Racconti, cit., p. 508.
58 Cfr. L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano 1980, pp. 25 s.: «[…] se un libro

è scritto per pochi soltanto, questo lo si vedrà proprio dal fatto che saranno in pochi a
capirlo. Il libro deve operare automaticamente la separazione fra coloro che lo capiscono
e coloro che non lo capiscono […]. Non ha alcun senso dire a uno cose che non capisce,
anche aggiungendo che non può capirle […]. Se non vuoi che certe persone entrino in
una stanza, applica un lucchetto di cui non abbiano la chiave. Ma non ha alcun senso
parlarne con loro, a meno che tu in fondo non voglia che esse ammirino la stanza dal di
fuori! Per correttezza, applica un lucchetto che cada sotto gli occhi soltanto di coloro che
possono aprirlo, e non degli altri». Su questo cfr. Th. A. Slezàk, Platon lesen, Stuttgart
1993, pp. 42 ss.
59 Cfr. WS 71, KSA 2, p. 584 (Vol. IV, Tomo III, p. 171): «Modo di scrivere della

prudenza. A: Ma, se tutti sapessero ciò, sarebbe dannoso ai più. Tu stesso chiami queste
opinioni pericolose per coloro che si trovano in pericolo, e poi le enunci pubblicamente?
B: Io scrivo in modo che né la plebaglia, né i populi, né i partiti di nessuna specie amino
leggermi. Per conseguenza queste opinioni non saranno mai pubblicate. A: Ma come
scrivi tu dunque? B: Né in modo utile, né in modo piacevole – per i detti tre».
54 Claus Zittel

6.2. Il dialogo dell’understatement scettico: πραΰτης

Il dialogo più notevole ne Il viandante e la sua ombra si svilup-


pa tra il fondatore della scuola di scetticismo più antica nell’anti-
chità, il ilosofo greco Pirrone dell’Elide, e un anziano. È l’unica
comparsa di Pirrone in uno scritto pubblicato da Nietzsche. In
quanto «fanatico della difidenza» (WS 213, KSA 2, p. 645; Vol.
IV, Tomo III, p. 220) Pirrone viene presentato in modo appa-
rentemente critico60. Il dialogo è stato a volte liquidato come non
interessante61, mentre i commenti si limitano prevalentemente al
contenuto e stabiliscono che questo Pirrone non abbia nulla a
che fare con il Pirrone storico che emerge nel lascito tardo e che
si ritrova mascherato nell’Anticristo e in Ecce homo62.
La critica è tuttavia posta in bocca ad un vecchio, le cui ester-
nazioni vengono sempre elegantemente parate da Pirrone, che
ogni volta sottrae loro il fondamento. Il fanatismo di Pirrone si
annulla da solo, perché si presenta come un tale fanatico della
sincerità da accusarsi continuamente di falsità, e contemporane-
amente sprona gli altri a credere che non è il caso di credergli.
Nel dialogo con l’anziano usa la tecnica di confessare tutto, per
poi togliere il fondamento comune ad entrambi, in questo caso
mettendo in dubbio il linguaggio stesso:

Il fanatico della difidenza e la sua garanzia. – Il vecchio: Tu vuoi


osare l’enorme e insegnare agli uomini la grandezza? Dov’è la tua ga-
ranzia? – Pirrone: Eccola: metterò gli uomini in guardia contro di me,
confesserò in pubblico tutti i difetti della mia natura e metterò a nudo
sotto gli occhi di tutti le mie avventatezze, contraddizioni e stupidag-

60 Cfr. M. Brusotti, Die Leidenschaft der Erkenntnis, cit., p. 631; A. Bertino, Nietzsche

und die hellenistische Philosophie. Der Übermensch und der Weise, in «Nietzsche-Studi-
en», 36 (2007), p. 128.
61 Cfr. Th. H. Brobjer, Nietzsche’s Disinterest and Ambivalence toward the Greek

Sophists, in «International Studies in Philosophie», 33/3 (2001), che deinisce WS 123


«rather uninteresting and of little relevance» (p. 22). Diversamente E. Müller, Die Grie-
chen im Denken Nietzsches, cit., p. 180.
62 A. Urs Sommer, Nihilism and Skepticism in Nietzsche, in K. Ansell Pearson (a cura

di), A Companion to Nietzsche, Oxford 2007, pp. 250-269, qui p. 261.


Il dialogo come forma filosofica 55

gini. Non mi state a sentire, dirò loro, inché non sarò diventato uguale
al più meschino di voi e non sarò ancora più meschino di lui; rizzatevi
contro la verità, inché potete, per nausea di colui che ne è il propugna-
tore. Io sarò il vostro seduttore e ingannatore, se scorgerete ancora in
me la minima luce di rispettabilità e di dignità. – Il vecchio: Tu promet-
ti troppo, non puoi portare questo peso. – Pirrone: Allora dirò anche
questo agli uomini, che sono troppo debole e non posso mantenere ciò
che prometto. Quanto più grande sarà la mia indegnità, tanto più essi
difideranno della verità, se essa passa per la mia bocca. – Il vecchio:
Vuoi dunque insegnare la difidenza verso la verità? – Pirrone: La difi-
denza, come nel mondo non c’è ancora stata, la difidenza verso tutto e
tutti. È la sola via che porta alla verità. L’occhio destro non deve idarsi
del sinistro, e la luce si dovrà chiamare per qualche tempo tenebra: è
questa la strada che dovete percorrere. Non crediate che essa vi porti
verso alberi da frutta e belle praterie. Troverete su di essa piccoli e duri
grani, – essi sono le verità: per decine d’anni dovrete inghiottire le men-
zogne a manciate per non morir di fame, nonostante sappiate che sono
menzogne. Ma quei grani verranno seminati e interrati, e forse, forse
ci sarà una volta un giorno del raccolto: a nessuno è lecito prometterlo,
a meno che non sia un fanatico. – Il vecchio: Amico! Amico! Anche
le tue parole sono quelle di un fanatico! – Pirrone: Hai ragione! Sarò
difidente verso tutte le parole. – Il vecchio: Allora dovrai tacere. – Pir-
rone: Dirò agli uomini che devo tacere e che essi devono difidare del
mio silenzio. – Il vecchio: Ti ritiri dunque dalla tua impresa? – Pirrone:
Al contrario: mi hai or ora mostrato la porta per la quale devo passare.
– Il vecchio: Io non so – : ci comprendiamo ancora appieno? – Pirrone:
Probabilmente no. – Il vecchio: Purché tu comprenda appieno te stes-
so! – Pirrone si gira e ride. – Il vecchio: Oh amico! Tacere e ridere – è
ora questa tutta la tua ilosoia? – Pirrone: Non sarebbe la più cattiva
(WS 213, KSA 2, pp. 645 s.; Vol. IV, Tomo III, pp. 220 s.).

La critica ha constatato che questo dialogo segue il modello


del discorso dei morti di Fontanelles e Luciano, ma senza descri-
verne la struttura63. Tuttavia, i discorsi dei morti di Fontanelles
hanno una forma e un impianto completamente diversi: in essi
63 Cfr. A. Urs Sommer, Nihilism and Scepticism, cit., p. 260, «In structure, Nietz-

sche’s dialog resembles Fontenelle’s Dialogues des morts, mentioned in WS 214, and that
of his model, Lukian’s Dialogues of the Dead».
56 Claus Zittel

emergono continuamente personaggi storici o ittizi, spesso sono


ironici e canzonatori, ma, in linea con un certo spirito da primo
illuminismo, mirano alla trasmissione di punti di vista. I conver-
santi comprendono ogni volta una posizione diversa, spesso un
discorso viene chiuso da un giudizio che è motivato a lungo, o
culmina in un bon mot o in un aforisma che decide il diverbio. I
dialoghi sono caratterizzati da un ragionamento chiaro e mirato,
lungo il cui corso la morte agisce come potere equilibrante, in
quanto aiuta a superare i singoli punti di vista in favore di verità
deinitive. Ne Il viandante e la sua ombra è chiaro che il dialogo
non solo manca di una tale logica comunicativa, essa viene addi-
rittura impedita dal punto di vista strutturale – a meno che non si
attribuisca al dialogo l’obiettivo di presentare l’effetto distruttivo
del Pirronismo; tuttavia, anche questo obiettivo sfocia nel nulla.
Alla ine Pirrone si allontana in silenzio e sorridendo; rimane il
gesto che impedisce qualsiasi continuazione.
I dialoghi di Platone sono «famosi perché i personaggi, le co-
stellazioni interpersonali e cronologiche tra loro, rispondono al
criterio di autenticità, tanto che, anche se non si era veriicato
tutto veramente così, se non altro avrebbe potuto essere vero»64.
Il contrasto con il dialogo di Nietzsche emerge qui con evidenza.
Non si offre un ritratto realistico di Pirrone e si evita ogni traccia
di autenticità storicamente garantita. Al posto di agone65 ed eri-
stica, in Nietzsche vige un cordiale dialegesthai. Pirrone si riiuta
di garantire per quello che segue dalle sue parole e, invece, acco-
glie le obiezioni contro le sue posizioni. In questo modo cerca di
disconoscere se stesso al punto che può dire tutto senza che gli si
creda. La difidenza di Pirrone è senza garanzia, il suo modo di
condurre un dialogo, però, è una pratica ilosoica!

64E. Müller, Die Griechen im Denken Nietzsches, cit., p. 185.


65Si veda Nietzsche su Socrate: «L’unica ragione sta nel fatto che egli aveva scoperto
una nuova specie di agon, che per i circoli aristocratici ateniesi egli fu, in questo, il primo
maestro di scherma. Affascinava rimestando l’istinto agonistico degli Elleni – portava una
variante nella lotta atletica tra i giovani e gli adolescenti» (GD Socrate 8, KSA 6, p. 71;
Vol. VI, Tomo III, p. 66). Su questo si veda sempre E. Müller, Die Griechen im Denken
Nietzsches, cit., p. 204.
Il dialogo come forma filosofica 57

Può essere pertanto vero che il Pirrone storico non abbia


avuto alcun ruolo per questo attore omonimo; è tuttavia pale-
se che il proilo del Pirrone nel lascito tardo presenta tratti che
concordano con l’auto-disconoscimento del parlante presentato
nel dialogo. Così, attraverso numerose note del periodo tardo,
Pirrone sembra un’immagine sorprendente e ideale, contrap-
posta allo spirito libero66. Particolarmente notevole è un lungo
appunto sulla «savia stanchezza di Pirrone», che difiderebbe di
«scienza e spirito» e proverebbe a «travestir[si] […] per […]
non oper[are] più di una distinzione; ammantar[si] di povertà e
di stracci; sbrigare le faccende più umili; recarsi al mercato e ven-
dere maialini da latte…» (NF 14[99], KSA 13, p. 277; Vol. VIII,
Tomo III, pp. 66 s.). Il nuovo ideale è modesto: «Semplice: in-
descrivibilmente paziente, sereno, mite. ἀπάϑεια e anzi πραΰτης.
[…] Superare la contraddizione; nessuna gara; nessuna volontà
di distinguersi: negare gli istinti greci. […] Dolcezza, chiarità;
indifferenza; nessuna virtù che abbia bisogno di gesti» (ibid.).
L’«ultimo superamento» di Pirrone va ben oltre l’autosupera-
mento dello spirito libero e gli sforzi di Zarathustra, soprattutto
perché è libero da qualsiasi traccia di vanità, non è a servizio di
nessuna missione positiva e non mira a nessuna forma di felicità
o saggezza67, piuttosto odia qualsiasi commedia ilosoica68. Con
Pirrone come contro-ideale si combina la strategia di sminuire e
umiliare intenzionalmente tutto ciò che la ilosoia ama, «[sce-
gliendo] perciò i nomi ordinari e perino disprezzati» (ivi, p. 67).
Varrebbe la pena di leggere Ecce homo in questa prospettiva,
perché anche qui Nietzsche celebra questo tipo di auto-denu-
damento teso a disconoscere, forse con lo scopo di rendersi tal-

66 Ad esempio Nietzsche esalta Pirrone in quanto «l’uomo più mite e paziente che

abbia mai vissuto in mezzo ai Greci, un buddhista sebbene greco» (NF 14[162], KSA 13,
p. 347; Vol. VIII, Tomo III, p. 136). Egli vedrebbe «nel seguito […] un’unica igura ori-
ginale: un epigono, ma necessariamente l’ultimo… il nichilista Pirrone, …» (NF 14[100],
KSA 13, p. 278; Vol. VIII, Tomo III, p. 68); «Vertice Pirrone. […] segno che tutte le
principali energie della vita sono esaurite» (NF 14[87], KSA 13, p. 265; Vol. VIII, Tomo
III, p. 55).
67 Cfr. NF 14[99], KSA 13, p. 278; NF 14[191], KSA 13, p. 378.
68 Cfr. NF 14[129], KSA 13, p. 311.
58 Claus Zittel

mente inattendibile che nessuno attribuirà più «verità» alle sue


parole69. Perlomeno gli appunti tardi, però, fanno capire che non
si deve leggere il dialogo di Pirrone quale critica al fanatismo,
ma come lode ed esempio di πραΰτης. Con il dialogo di Pirrone
trova una possibile forma letteraria, elevando a suo principio la
notoria igura argomentativa della confutazione dello scettico,
non solo lo scetticismo pirroniano, ma anche un più generale
e radicale scetticismo conoscitivo, davanti al quale – secondo il
giovane Nietzsche – Platone si era rifugiato nell’etica.
Ne Il viandante e la sua ombra Nietzsche ha portato alle estre-
me conseguenze i propri esperimenti con la forma dialogica. L’i-
deale di un discorso vivo viene sì formulato, ma non si prova più
a realizzarlo nei dialoghi stessi. Al suo posto subentra un gioco
artistico con la forma dialogica che sperimenta nuove possibili-
tà autoreferenziali, auto-parodistiche e autodistruttive, in grado
di rendere adeguatamente nella letteratura un pensiero scetti-
co dopo la morte di Dio. La scrittura di dialoghi rientra quindi
nell’insieme di altri esperimenti formali nietzscheani. Dopo Il
viandante e la sua ombra Nietzsche sembra considerare esaurito
questo procedimento per il dialogo, o vedere nell’autoriferimen-
to performativo il suo risultato principale. In Aurora, nella Gaia
scienza e nella Genealogia della morale scriverà quasi solo inter-
mezzi dialogici brevi e arguti.

7. Zarathustra διαλέγεσθαι

Anche rispetto al dialogo Così parlò Zarathustra è un caso


particolare, benché anche qui sia centrale il rapporto tra discor-
so orale e discorso scritto. Schlaffer, ad esempio, sostiene che

69
In questo senso si potrebbe proporre una nuova interpretazione, che attribuisce a
Nietzsche in Ecce homo la volontà di esprimere delle verità. Cfr. B. Leiter, Nietzsche on
Morality, London 2002, p. 11. Cfr. su questo la critica di J. Dellinger, ‚Sanitizing‘ Nietz-
sche? Bemerkungen zur Tendenz eines ‚naturalistischen‘ Nietzsche-Bildes, in R. Reschke,
M. Brusotti (a cura di), „Einige werden posthum geboren“. Friedrich Nietzsches Wirkun-
gen, Berlin/Boston 2012, pp. 159-171, qui pp. 166-169.
Il dialogo come forma filosofica 59

lo Zarathustra – come annuncia già il titolo – consista quasi in-


teramente di massime70. L’opinione diffusa, secondo cui nello
Zarathustra non ci sarebbero dialoghi, ma piuttosto monologhi
o discorsi rivolti ad altri, è però falsa, perché in questo testo si
parla molto. È vero tuttavia che i dialoghi qui sono casi speciici,
perché sono inseriti in un’azione che vi conferisce una struttura.
Inoltre, in un punto nascosto, un narratore ci comunica di aver
preso i discorsi di Zarathustra da «libri di storia» (Za IV, KSA
4, p. 355; Vol. VI, Tomo I, p. 347), e occasionalmente il lettore
viene anche interpellato direttamente. Un capitolo viene comun-
que esplicitamente deinito «Colloquio con i re» (Za IV, KSA 4,
p. 304; Vol. VI, Tomo I, p. 296) e si ripete il «colloquio di Zara-
thustra con il cane di fuoco» (Za II, KSA 4, pp. 168 ss.; Vol. VI,
Tomo I, pp. 159-162). Inoltre, vi sono intermezzi di discorsi più
brevi, come il discorso di Zarathustra con il vecchio santo, con il
funambolo o il burlone, che non hanno una dominanza struttu-
rante. Ciò vale anche per i dialoghi brevi, disseminati nel primo
libro, con l’anziana donnina e con la vipera, e per i discorsi con-
dotti nella seconda e nella terza parte con il discepolo (Dei poeti,
L’indovino), con la vita (Della vittoria su se stessi), con il cane di
fuoco (Di grandi eventi), con il gobbo (Della redenzione) e con
il nano (La visione e l’enigma). Nel terzo e quarto libro si arriva
poi ad una lunga serie di incontri tra Zarathustra e diversi inter-
locutori, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo che viene
dominato e più o meno strutturato dal dialogo: ad esempio con il
pazzo furioso (Del passare oltre), con gli animali (Il convalescen-
te), con l’indovino (Il grido d’aiuto), con i re, con il coscienzioso
dello spirito (La sanguisuga), con il mago (Il mago), con il vecchio
Papa (A riposo), con l’uomo più brutto, con il mendicante volon-
tario, con l’ombra. I dialoghi culminano nel simposio interrotto
da discorsi e canti dei capitoli inali della quarta parte, dove il
dialogo viene congedato nel coro delle voci (Il saluto, La cena,
Della scienza, Tra iglie del deserto, La festa dell’asino, Il canto del
nottambulo). Tutti questi discorsi necessiterebbero di un’attenta

70 H. Schlaffer, Das entfesselte Wort, cit., p. 87.


60 Claus Zittel

analisi comparativa. Qui accenno solo che le identità e i ruoli


mutevoli causano alcune dificoltà, perché le diverse igure as-
sumono anche posizioni di Zarathustra e ne fanno una parodia;
inoltre, si inserisce continuamente un narratore che interloquisce
con il lettore. Mentre nei primi incontri brevi dispute spingono
Zarathustra a lunghe rilessioni monologiche, nei capitoli suc-
cessivi le conversazioni sono più estese. Soltanto il primo libro
corrisponde al proilo generale secondo cui Zarathustra è per la
maggior parte privo di dialoghi. Confrontati con i dialoghi di
altre opere di Nietzsche, quelli di Zarathustra presentano però
notevoli differenze. Nella maggioranza dei casi sono infatti dialo-
ghi agonali e disposti in modo asimmetrico, hanno un vincitore e
un risultato positivo o negativo e spesso nella disputa si arriva ad
azioni violente e a umiliazioni (Zarathustra vuole avere ragione,
ad esempio di fronte al cane di fuoco: «Ti arrabbi, can di fuoco?
Allora ho detto il giusto sul tuo conto! […] Vergognoso, la coda
tra le gambe, guaiolò lebile» [Za II, KSA 4, p. 170; Vol. VI,
Tomo I, p. 161). I dialoghi di Zarathustra sono anche meno crip-
tici di quelli di altri scritti. Non vengono minati dal loro interno,
ma annullati dalla costruzione narrativa e dalle azioni del discor-
so. Il dialogo non domina la forma, ma il più delle volte è subor-
dinato all’azione. Tuttavia, attraverso la suddivisione alterna di
posizioni e atti linguistici tra diverse igure si conserva lo scetti-
cismo di principio nei confronti della funzione comunicativa dei
discorsi71. Viene messo in scena, in vario modo, anche lo scon-
volgimento performativo della credibilità dell’istanza che parla.
Alla ine, le convinzioni via via acquisite si perdono in un coro
polifonico di voci che ne fanno la parodia: nessuna posizione
perdura. Manca un ethos verso cui gli interlocutori si potrebbero
orientare. Piuttosto, la dimensione etica dei dialoghi viene con-
trastata dalle capriole dei ragionamenti e dal corso delle azioni.

71 Cfr. A. Bennholdt-Thomsen, Nietzsches ‚Also sprach Zarathustra‘ als literarisches

Phänomen, Frankfurt a. M. 1974, p. 133.


Il dialogo come forma filosofica 61

8. Una breve ilosoia del dialogo

Confronterò ora le prime rilessioni sui dialoghi di Nietzsche


con alcune delle sue considerazioni sulla conversazione, perché
sembra che spesso esse tematizzino esattamente quelle tattiche
discorsive che danno ai dialoghi di Nietzsche la loro particolare
struttura. Così, anche all’interno de Il viandante e la sua ombra, si
trovano espliciti riferimenti al modo in cui «il pensatore utilizza
una conversazione» (WS 241, KSA 2, p. 660; Vol. IV, Tomo III,
p. 232), riferimenti che si leggono come istruzioni di lettura per
i dialoghi attigui:

Ma gli uomini non sanno utilizzare una conversazione; essi rivolgo-


no di gran lunga troppa attenzione a ciò che dicono e vogliono replicare
essi stessi, mentre il vero ascoltatore si accontenta spesso di rispondere
in modo provvisorio e di dire qualcosa come acconto di cortesia in ge-
nere, portando invece via con la sua sorniona memoria tutto ciò che
l’altro ha espresso, oltre alla maniera e al tono in cui lo ha espresso.
– Nella conversazione comune ognuno crede di essere lui a dirigere,
come due navi, che navigano l’una accanto all’altra e si danno ogni tan-
to un piccolo urto, credono entrambe in buona fede che l’altra segua o
sia addirittura rimorchiata (ibid.).

Nelle «conversazioni comuni», dunque, regnano autoinganno


ed inganno, ci si orienta al gioco di domanda e risposta, a quello
di cui si parla, e si crede di indirizzare il discorso. Un «pensa-
tore» vi parteciperà solo supericialmente, e prescinderà da se
stesso per concentrarsi sull’analisi di come si parla e per studiare
i gesti.
Un caso a sé è rappresentato dal discorso didattico. Nietzsche
vede in modo ambivalente la conduzione ironica del discorso da
parte di un maestro che riveste una posizione superiore ai suoi
scolari, e che però li inganna perché il suo scopo è

di umiliare e di far provare vergogna, ma a quel modo salutare che fa


risvegliare buoni propositi […]. L’ironico si inge ignorante, e lo fa così
bene, che gli allievi che con lui conferiscono si illudono, e credendo in
62 Claus Zittel

buona fede di saperla più lunga, diventano sfacciati e si scoprono da


tutte le parti; perdono ogni cautela e si mostrano come sono: inché a
un certo momento il lume, che essi tenevano in faccia all’insegnante,
non fa ricadere i suoi raggi in modo molto umiliante su loro stessi (MA
I 372, KSA 2, p. 259; Vol. IV, Tomo II, p. 219).

Se l’ironia non viene usata come «mezzo pedagogico» (ibid.)


è invece un vizio che rovina il carattere, il sentimento meschino
di superiorità del perido. Una tale conduzione del discorso pro-
duce conseguenze negative. Gli sciocchi diventerebbero maligni
perché non sono all’altezza delle obiezioni (cfr. VM 39), invece,
per gli intelligenti – così scrive Nietzsche a Lou nella sua breve
stilistica, sintonizzata completamente sul dialogo con l’interlocu-
trice – sarebbe «non […] cortese, non […] intelligente, rubare
in anticipo al proprio lettore anche le obiezioni di minor peso.
È molto cortese, è molto intelligente, lasciare che il nostro letto-
re enunci da sé l’ultima quintessenza della nostra salvezza» (NF
1[109], KSA 10, p. 39; Vol. VII, Tomo I, parte I, p. 29). In Uma-
no troppo umano II si legge poi:

Esistono certamente parecchi buoni lettori energici e intelligenti,


che saprebbero far qui una buona obiezione. Per i rozzi e malevoli sia
detto una volta che qui, come tanto spesso in questo libro, all’autore
interessa appunto l’obiezione, e che in esso bisogna leggere varie cose
che non vi sono propriamente scritte (VM 175, KSA 2, p. 455; Vol. IV,
Tomo III, pp. 69 s.).

Le obiezioni, quindi, non sono tutte uguali: dipende da come


vengono provocate, represse o sollevate a seconda della situa-
zione comunicativa. Alcuni interlocutori diventano aggressivi
quando li si sovraccarica di obiezioni; gli intelligenti a volte si
offendono, quando gliele si sottrae. Ma può anche succedere che
qualcosa non venga detto direttamente, bensì celato dietro obie-
zioni secondarie, come scrive Nietzsche in una lettera del 1880 a
Ida Overbeck:
Il dialogo come forma filosofica 63

Quanto alle obiezioni circa il modo in cui Seneca porge consolazio-


ne – e se egli avesse voluto provocare proprio queste? Egli non amava
pronunciare apertamente la parola per lui essenziale; riteneva che un
lutto simile non si confacesse a una donna di questo rango (in ogni sen-
so) – che cosa consigliò allora? Quello su cui aveva meditato per tuta la
vita, il pensiero sempre presente nei suoi scritti, anche se mai nominato
– il suicidio. Soltanto di fronte a questa parola cadono le obiezioni; e
quell’anima nobile dovrebbe trovarla da sola! (Nr. 28, KSB 6, pp. 19 s.;
E Vol. IV, p. 19)

Ne deriva che il compito ermeneutico per il «lettore intel-


ligente» di Nietzsche è di non farsi provocare ino a sostenere
obiezioni che deviano dalla ricerca del pensiero inespresso. Non
si deve tener conto del contenuto, ma del modo in cui viene pro-
nunciato, così come della

Tattica nel conversare. Dopo una conversazione con qualcuno si par-


la dell’interlocutore nel modo migliore, quando si è avuto occasione di
mostrare davanti a lui in tutto il loro splendore il proprio spirito e la
propria amabilità. Di ciò approittano gli uomini scaltri che vogliono
disporre qualcuno in modo favorevole a loro, porgendogli nella con-
versazione le migliori occasioni per una buona battuta e simili. Sarebbe
pensabile un’allegra conversazione fra due molto scaltri, di cui ciascu-
no volesse disporre l’altro in modo favorevole a lui, e che perciò nel
discorso continuassero a porgere e a offrire gli spunti migliori, senza
che essi fossero raccolti, sicché il discorso si svolgerebbe in complesso
senza spirito e senza amabilità, dato che ciascuno rimanderebbe all’al-
tro l’occasione di fare dello spirito e di mostrarsi amabile (MA I 369,
KSA 2, p. 258; Vol. IV, Tomo II, pp. 217 s.).

Ci sono molti modi con cui in una conversazione si può lascia-


re la precedenza o il successo all’interlocutore, tuttavia molti di
questi sarebbero un segno di disprezzo:

Solitamente frainteso. Nel dialogo si osserva che l’uno si sforza di


tendere una trappola in cui l’altro cade, non già per malizia, come si po-
trebbe pensare, ma per il piacere della propria scaltrezza; per contro, si
notano altri che preparano uno scherzo perché qualcun altro lo metta
64 Claus Zittel

in opera, e che annodano il iocco perché un altro, tirandolo, faccia il


nodo: non per benevolenza, come si potrebbe pensare, ma per malizia
e perché disprezzano i rozzi intelletti (M 351, KSA 3, p. 239; Vol. V,
Tomo I, p. 197).

Contro ogni aspettativa, Nietzsche non vuole che il discorso,


e neanche il discorso dinnanzi al pubblico, sia collegato al iloso-
fare poliprospettico e polifonico che viene favorito dall’aforistica
e dalle diverse maschere del discorso. Al contrario, egli eleva a
forma suprema del discorso il dialogo intimo tra due persone:

Il dialogo. Il dialogo è la conversazione perfetta, perché tutto ciò


che l’uno dice, riceve il suo determinato colore, il suo suono, il suo
gesto accompagnatorio con stretto riguardo all’altro col quale si parla,
cioè in conformità a ciò che avviene nello scambio di lettere, dove una
stessa persona mostra dieci modi di espressione spirituale, a seconda
che scriva ora a questo, ora a quello. Nel dialogo c’è un’unica rifrazione
del pensiero: questa la produce l’interlocutore come lo specchio in cui
vogliamo veder rilessi nel modo più bello possibile i nostri pensieri.
Che accade invece con due, tre o più interlocutori? Allora la conversa-
zione perde necessariamente in inezza di individualizzante, i diversi
riguardi si incrociano, si annullano: il giro che va bene per l’uno non
è conforme al modo di sentire dell’altro. Perciò nel parlare con molti
l’uomo è costretto a riferirsi solo a se stesso, a presentare i fatti come
sono, ma a togliere alle cose quell’aura giocosa di umanità che fa di una
conversazione una delle cose più piacevoli del mondo (MA I 374, KSA
2, p. 261; Vol. IV, Tomo II, pp. 220 s.).

La lettera viene accettata come unica forma comunicativa dia-


logica; è esoterica quando è indirizzata solo ad un destinatario.
Allo stesso tempo si pretende che il mittente disponga di una
moltitudine di stili per poter rivolgersi individualmente a nature
molto diverse. Nel momento in cui il testo si rivolge contempora-
neamente a più destinatari è inita la varietà, la libertà e la bellez-
za della comunicazione. Con questa rilessione Nietzsche sembra
sottovalutare le possibilità della scrittura aforistica, perché pro-
prio i valori, le sfumature e i chiaroscuri individuali cambiano
Il dialogo come forma filosofica 65

nel dispiegare un messaggio per molte possibili interpretazioni


– come un pianista che in una grande sala da concerto deve suo-
nare in modo che lo sentano anche gli ascoltatori nelle ultime ile.
Ciò cambia l’esecuzione, soprattutto limita drammaticamente le
possibilità di sfumare i toni acuti e quelli delicati. L’«aura […]
di umanità» che siora gli oggetti del discorso (ibid.) – non è una
formulazione sorprendente? – è propria solo della conversazione
a due. Per il dialogo Nietzsche opta così per una scrittura cauta,
mite, cortese, non di forti convinzioni. Si voleva avere ragione,
«perché si credeva di dover aver ragione». Non sarebbe quindi
«la lotta delle opinioni che ha fatto la storia così violenta, bensì la
lotta della fede nelle opinioni, cioè delle convinzioni» (MA I 630,
KSA 2, p. 356; Vol. IV, Tomo II, p. 299).
Anche se il dialogo non deve essere sottomesso all’etica, il
modo in cui un dialogo viene condotto ha conseguenze etiche.
Estetica ed etica del dialogo sono intrecciate l’una all’altra. Così,
quelle forme tradizionali di dialogo, che mirano ad ottenere ra-
gione, avrebbero portato nel mondo violenze e sciagure in nome
di presunte verità. Proprio la «delicata neutralità» renderebbe
i ilosoi troppo «caparbi contro le obiezioni e i drappi rossi»:
«vi ristupidite, v’imbestialite, vi trasformate in tori», se dovete
«recitare giocoforza sulla terra anche la parte dei difensori della
verità» (JGB 25, KSA 5, p. 42; Vol. IV, Tomo II, p. 32). Pertanto
Nietzsche ricorda ai ilosoi che non dovrebbe «avere alcuna im-
portanza» che proprio loro abbiano «ragione», piuttosto conta
«quel piccolo punto interrogativo», che pongono dietro le loro
parole favorite e dottrine predilette» (ibid.). Così grida loro: «Fa-
tevi piuttosto da parte! Fuggite a nascondervi! E abbiate la vo-
stra maschera e astuzia, perchè vi si confonda con altri!» (ibid.)
«[…] non si vuole soltanto essere compresi, ma senza dub-
bio anche non essere compresi» (FW 381, KSA 3, p. 633; Vol.
V, Tomo II, p. 260), recita una nota formula di Nietzsche. An-
che i suoi dialoghi seguono questa anti-ermeneutica dell’esote-
rica umana. La più sorprendente e illuminante osservazione di
Nietzsche sulla funzione dei discorsi ilosoico-letterari si trova
66 Claus Zittel

forse in una lettera a Heinrich Köselitz del 31 maggio 1878, in


cui si ricordano le esperienze di lettura di Paul Rée. Costui

afferma che soltanto un’altra volta un libro lo ha messo in un ana-


logo stato di godimento produttivo, i Colloqui con Eckermann; ha già
riempito interi quaderni di rilessioni.
Proprio questo è il meglio che mi aspettavo – la sollecitazione della
produttività altrui e l’«aumento dell’indipendenza nel mondo» (come
ha detto J. Burckhardt) (Nr. 723, KSB 5, p. 329; E Vol. III, p. 294).

Questo passo è stato citato occasionalmente dalla critica72, ma


è stato sempre trascurato il fatto che è la forma letteraria della
conversazione a rendere possibili tali effetti liberatori.
Restano inine aperte le questioni rispetto a come si potrebbe
sviluppare una ilosoia del dialogo in Nietzsche, e come sarebbe
da deinire il rapporto tra i dialoghi espliciti e tutti quei «dialoghi
interiori» in cui il viandante solitario conversa con se stesso. Per
chiarire tali questioni sarebbe tuttavia necessario l’ampio respiro
di una monograia.

9. Conclusioni: Il dialogo nietzscheano tra monologo e


polifonia

Riguardando all’arsenale di forme dialogiche nietzscheane qui


presentato, emergono con evidenza alcune linee di sviluppo, o
meglio fasi speciiche nel suo atteggiamento verso il dialogo. La
prima e unilaterale critica al dialogo platonico sembra aver pre-
cluso al ilosofo una visione complessa delle possibilità autori-
lessive insite in generale nei dialoghi. Nel tentativo di staccarsi
da Platone e sviluppare forme proprie di dialogo, Nietzsche non
fa grandi progressi per quanto riguarda il dialogo indipendente.
Dapprima, in una conversazione riportata poi in una confe-
renza (Sull’avvenire delle nostre scuole), Nietzsche cerca di scri-
72Cfr. P. Heller, ‚Von den ersten und letzten Dingen‘. Studien und Kommentar zu
einer Aphorismenreihe von Friedrich Nietzsche, Berlin 1972, p. 50.
Il dialogo come forma filosofica 67

vere un dialogo più lungo, ma l’esperimento formale fallisce.


Pare quindi sentire di non essere in grado di riportare un discor-
so vivo in forma scritta in alternativa al dialogo platonico, e passa
piuttosto a tematizzare e a presentare precisamente il fallimen-
to di tali tentativi. È poi palese che con la rinuncia dell’ideale
di un tempo acquisisce nuove libertà artistiche: nel 1880, con Il
viandante e la sua ombra, intraprende il complicatissimo tenta-
tivo di simulare le possibilità formali del dialogo, intrecciando
dialoghi interni a dialoghi di cornice e allestendo singole scene.
In Aurora, nella Gaia scienza e nella Genealogia della morale ri-
duce il dialogo alla forma breve che non suggerisce più alcuna
mimesi della realtà. Qui depersonalizza e tipologizza ancora di
più le igure, si concentra sulle singole situazioni non concrete,
e schematizza l’autoriferimento performativo. Dialoghi elaborati
si trovano ancora soltanto come parentesi non più indipendenti
nello Zarathustra o nei Ditirambi di Dioniso. La preferenza per il
breve dialogo arguto, che si impone negli scritti tardi, si spiega
alla luce del fatto che Nietzsche tematizza sempre di più il poten-
ziale di rilessività e sovversione delle forme da lui stesso scelte.
A differenza del rapporto che coltiva con altre forme letterarie
come l’aforisma, il racconto o la poesia, di cui sa sfruttare tutto
il potenziale, anche sovvertendone i relativi modelli formali, nel
caso del dialogo Nietzsche si accontenta di compromettere, in
modo autoreferenziale, la situazione comunicativa.
Così, anche la sua breve ilosoia del dialogo non trova alla
ine alcun pendant letterario indipendente e soddisfacente, nean-
che in Zarathustra. Forse essa sarebbe piuttosto da rintracciare
nella poesia. Tuttavia, Nietzsche è in grado di strappare al dialo-
go nuove possibilità formali che anticipano pratiche di scrittura
proprie del modernismo, ad esempio quando mette in scena dia-
loghi paradossali, che, attraverso il dialogo stesso, tematizzano
l’impossibilità della comunicazione; oppure quando compone
dialoghi anti-agonali, in cui gli interlocutori non sono contraen-
ti, bensì partner premurosi; o quando fa del dialogo una nuova
forma dello scetticismo etico e gnoseologico, che contrappone
un modello alternativo di discorso estetico all’ideologia, troppo
68 Claus Zittel

spesso data come ovvia, delle odierne teorie dell’intersoggettivi-


tà, secondo cui, in linea di massima, il parlare mirerebbe alla co-
municazione e alla comprensione. In questo modello alternativo
non si parla per mostrarsi, imporsi o farsi capire, ma per accen-
nare e nascondere, lasciando molte cose non dette, aperte e in so-
speso. Se alla luce della composizione dei dialoghi di Nietzsche si
riconsiderano i suoi appelli al lettore, essi non sembrano provo-
cazioni e side – come lo sono in generale i suoi aforismi –, bensì
inviti a conversazioni intime, cui si deve aderire e che si deve
essere in grado di guidare. Stupore e distanza ironica sarebbero
le reazioni più adeguate. In una lettera a Carl Fuchs del luglio del
1888 Nietzsche spiega che «[n]on è affatto necessario, e neppure
auspicabile, che si prenda partito per me: al contrario mi sembre-
rebbe una posizione incomparabilmente più intelligente avere
nei miei confronti una certa dose di curiosità, come di fronte
ad una pianta sconosciuta, unita ad una resistenza ironica» (Nr.
1075, KSB 8, pp. 375 s.; E Vol. V, pp. 687 s.). Mentre un Socrate
conduce il suo interlocutore in vicoli ciechi, e talvolta addirittura
lo deride, nei dialoghi di Nietzsche i parlanti non mirano ad at-
tirarsi l’un altro in una trappola, bensì piuttosto in un labirinto.
Questa è una differenza decisiva, tanto più che ai confusi si tra-
smette la sensazione di essere stimati anche nell’incomprensione
e coinvolti in una partecipazione estetico-giocosa, non quella di
venire catturati. Proprio questo pare trasparire dall’affascinante
risposta di Dioniso al «Lamento di Arianna»: «Hai piccole orec-
chie, hai le mie orecchie: / metti là dentro una saggia parola! – /
Non ci si deve prima odiare, se ci si vuole amare? … / Io sono il
tuo labirinto…» (DD, KSA 6, p. 401; Vol. VI, Tomo IV, p. 53).

Traduzione di Chiara Conterno


Il «Tentativo di autocritica» di
Nietzsche
Una lettura poesiologica

Axel Pichler

Nella lettera del 14 novembre 1886 a Franz Overbeck


Nietzsche deinisce le prefazioni del 1886/87 come «forse la pro-
sa migliore che io abbia mai scritto sino ad ora» (Nr. 775, KSB 7,
p. 282; E Vol. V, p. 287). Se si considera una tale affermazione te-
nendo conto del fatto che la ricerca su Nietzsche spesso e volen-
tieri prende alla lettera queste presunte autocritiche dell’autore,
senza interrogarle in alcun modo dal punto di vista ermeneutico,
ci si potrebbe attendere che tali prefazioni siano state studiate
in modo approfondito, tanto a livello generale, quanto riguardo
alle speciicità della presunta «miglior prosa» di Nietzsche. Se
si va in cerca di letteratura critica su queste prefazioni, tuttavia,
queste aspettative sono presto deluse. Una simile ricerca mostra
che, sebbene singoli brani isolati delle prefazioni del 1886/87
vengano regolarmente citati dagli studiosi, al contrario indagini
che le prendano seriamente, nella loro speciica testualità, sono
rare. Ad esempio, la Weimarer Nietzsche Bibliographie al lemma
«prefazione/introduzione» riporta appena sette voci1. Le date
delle loro pubblicazioni dimostrano che solo negli ultimi anni
sono stati dedicati studi più ampi alle prefazioni, che, nella de-
inizione del loro signiicato e della loro funzione, seguono in
1 Si veda: http://ora-web.swkk.de/swk-db/niebiblio/ (ultima consultazione:

15.10.2016). Qui, tra le altre cose, non sono citati due contributi, anch’essi dedicati al
«Tentativo di autocritica»: D. Came, Nietzsche’s Attempt at a Self-Criticism: Art and
Morality in «The Birth of Tragedy», in «Nietzsche-Studien», 33 (2004), pp. 37-67; M.
F. Molder, Stammering in a Strange Tongue: The Limits of Language in »The Birth of
Tragedy« in the Light of Nietzsche’s »Attempt at a Self-Criticism«, in J. Constâncio, M. J.
Mayer Branco (a cura di), Nietzsche on Instinct and Language, Berlin/Boston 2011, pp.
259-279.
70 Axel Pichler

larga misura i commenti dello stesso Nietzsche contenuti nell’e-


pistolario dell’autunno 1886. Qui Nietzsche, indirizzandosi a di-
versi corrispondenti, ha sempre sottolineato tre aspetti riguardo
alle dette prefazioni: per prima cosa si augurava di promuovere
le vendite, ino ad allora esigue, dei libri che aveva pubblicato
prima del 1886. Inoltre, le prefazioni del 1886/87 avrebbero of-
ferto una «autobiograia intellettuale coerente», che interpretava
retrospettivamente gli scritti del periodo mediano come tappe
di uno «sviluppo» teleologico. Inine, questo sviluppo sarebbe
sfociato in Così parlò Zarathustra2.
Oltre ad accogliere i commenti di Nietzsche, la ricerca consta-
ta, per lo più a ulteriore integrazione, che le prefazioni sono più

2 Sulle prefazioni di Nietzsche del 1886/87 si veda anche: A. Pichler, Prosopopei-


sches Denken. Eine textgenetische Lektüre der Vorrede zur Neuaulage der »Fröhlichen
Wissenschaft«, in K. Grätz, S. Kauffmann (a cura di), Nietzsche zwischen Philosophie und
Literatur: Von der »Fröhlichen Wissenschaft« zu »Also sprach Zarathustra«, Heidelberg
2016, pp. 29-74. Di importanza paradigmatica per quelle interpretazioni che seguono i
commenti dello stesso Nietzsche riguardo alla relazione tra il «Tentativo di autocritica»,
la Nascita della tragedia e il resto dei suoi scritti, è il saggio di J. Schmidt, Kommentar zu
Nietzsches »Geburt der Tragödie«, Berlin/Boston 2012, pp. 3-13 (= Historischer und kri-
tischer Kommentar zu Friedrich Nietzsches Werken, a cura della Heidelberger Akademie
der Wissenschaften, Vol. 1/1). La lettera del 29 agosto 1886 all’editore di Lipsia, Ernst
Wilhelm Fritzsch, funge spesso da fondamento a tali interpretazioni: «Caro e stimato
signor Fritzsch, Le invio qui di seguito la Prefazione alla nuova edizione della Nascita
della tragedia; sulla base di questa densa Prefazione, molto orientativa, Lei può varare
un’altra volta il libro […]. Tutto fa pensare che nei prossimi anni ci si occuperà molto
die miei libri […]; si avrà bisogno di me, e si farà ogni genere di tentativi per accostarsi a
me, per comprendermi, per ‚spiegarmi‘, ecc. Per evitare i più grossolani fraintendimenti,
mi sembra che non vi sia niente di più utile (a parte Al di là del bene e del male, che è
appena stato pubblicato) di entrambe le prefazioni che mi sono permesso di inviarLe:
accennano al cammino che ho percorso – e, detto seriamente, se non sono io stesso a
dare un paio di avvertimenti su come mi si debba intendere, è inevitabile che accadano le
più grandi sciocchezze. – […] Afinché si creino le premesse per la comprensione dello
ZARATHUSTRA (– un evento senza precedenti nella letteratura e nella ilosoia e poesia
e morale ecc. ecc., mi deve credere, fortunato possessore di questa bestia rara! –) è di
fondamentale importanza che si giunga ad una seria e profonda comprensione di tutti i
miei scritti precedenti; così come della necessità della successione di questi scritti e dello
sviluppo che in essi si esprime» (Nr. 740, KSB 7, pp. 236 s.; E Vol. V, pp. 241 s.).
Il «Tentativo di autocritica» 71

direttamente riferite l’una all’altra che non ai testi che le seguo-


no, rispetto ai quali esse appaiono piuttosto indipendenti3.
Tuttavia, come di recente hanno mostrato alcuni close reading
delle prefazioni di Umano troppo umano I e della nuova edizione
della Gaia Scienza, il potenziale di questi testi non si esaurisce
nella loro funzione introduttiva. Proprio a causa della loro speci-
ica forma, essi vanno ben oltre il genere testuale della prefazio-
ne protrettica successiva, dal momento che realizzano in modo
paradigmatico una prassi letteraria autoreferenziale e in parte
autocritica caratteristica degli scritti tardi di Nietzsche4. Daniel
Conway e Jakob Dellinger hanno segnalato precisamente questa
dimensione autoreferenziale già nel caso del «Tentativo di auto-
critica». I due saggi, tuttavia, sono dedicati in prima istanza al si-

3 La tesi secondo cui le prefazioni rappresentano uno sviluppo continuo è sostenuta


tra l’altro da C.-A. Scheier, Einleitung, in Id. (a cura di), Ecce auctor. Die Vorreden von
1886, Hamburg 1990; P. van Tongeren, „‚Ich‘ bin darin […] ego ipssisimus […], ego ipsis-
simum“. Nietzsches philosophische Experimente mit der literarischen Form der Vorrede, in
«Nietzsche-Studien», 41 (2012), pp. 1-16, e da M.-G. Dehrmann, Sich selbst lesen. Nietz-
sches Vorreden von 1886/87 und Also sprach Zarathustra, in Ch. Benne, E. Müller (a cura
di), Ohnmacht des Subjekts – Macht der Persönlichkeit, Basel 2014, pp. 273-286. Accanto
a van Tongeren, il fatto che le prefazioni siano indipendenti dai testi, e che fungano da
loro «soglia», viene sottolineato anche da W. Groddeck, Die „Neue Ausgabe“ der „Fröhli-
chen Wissenschaft“. Überlegungen zu Paratextualität und Werkkomposition in Nietzsches
Schriften nach „Zarathustra“, in «Nietzsche-Studien», 26 (1995), pp. 184-198. Bisogna
tuttavia notare che al «Tentativo di autocritica» viene attribuito uno status particolare nel
suddetto sviluppo. Ad esempio Scheier sottolinea che il «Tentativo di autocritica» può
«essere letto sia come epilogo, sia come prologo delle prefazioni dei libri propriamente
‚ilosoici‘, Umano, troppo umano, Aurora e La gaia scienza» (C.-A. Scheier, Einleitung,
cit., p. CII) dal momento che esso «svolge il compito del pensiero nietzscheano – in tal
senso questa prefazione si distingue dalle altre» (p. CV). Inoltre, spesso le interpretazioni
generali della Nascita della tragedia si fanno guidare dal «Tentativo», come avviene nel
caso paradigmatico del commento all’edizione della Nascita della tragedia curata da M.
Landfester: cfr. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie: Schriften zu Literatur und Philoso-
phie der Griechen, a cura di M. Landfester, Frankfurt a. M. 1994.
4 Cfr. al riguardo: A. Pichler, Nietzsches Spiel mit dem Paratext. Literarische Tech-

niken der Leserlenkung und -irritation in der Vorrede zu »Menschliches, Allzumenschli-


ches I« und die Lektüremethode des autoreflexiven Lesens, in «Nietzscheforschung», 19
(2012), pp. 307-315; J. Dellinger, „Du solltest das Perspektivische in jeder Werthschätzung
begreifen lernen“. Zum Problem des Perspektivischen in der Vorrede zu »Menschliches,
Allzumenschliches I«, in «Nietzsche-Studien», 44 (2015), pp. 340-379; A. Pichler, Proso-
popeisches Denken, cit.
72 Axel Pichler

gniicato di questa dimensione per il tardo pensiero di Nietzsche,


in particolare al suo ruolo nella tarda critica della morale, ma non
al «Tentativo di autocritica» in sé5.
Se si considera che nel caso della prefazione successiva alla
Nascita della tragedia si tratta expressis verbis di un tale «Ten-
tativo di autocritica», di un’autocritica che, come gli studiosi
affermano quasi all’unisono, nasce dalla posizione ilosoica di
Nietzsche nel 1886, c’è da aspettarsi che le speciicità letterario-
ilosoiche successive della scrittura e del pensiero di Nietzsche
partecipino implicitamente anche a questa critica. A tal al riguar-
do, il «Tentativo di autocritica» non solo potrebbe rendere conto
della relazione tarda di Nietzsche con il suo «primogenito», ma
anche venire inteso come il luogo primario dell’autodetermina-
zione ilosoico-letteraria del tardo Nietzsche. Un tale posiziona-
mento autorilessivo della propria prassi di scrittura da parte di
un autore è definito dalla critica letteraria come poetologia. Nel
caso del «Tentativo di autocritica» si dovrebbe dunque parlare
di una poetologia, o in modo più pertinente – come ha dimo-
strato Wilfried Barner6 –, di una poesiologia della ilosoia. A
differenza delle deinizioni convenzionali della rilessione ilo-
soica, la «poesiologia della ilosoia» rimanda al fenomeno per
cui costruzioni linguistiche complesse, come gli scritti tardi di
Nietzsche, «quasi mai rispettano regole e principi indipendenti
da esse, ma piuttosto lasciano intendere la propria poetica, vale
a dire le condizioni e le modalità della loro produzione, del loro
signiicare o darsi-a-leggere, immanente alla stratiicazione dei

5 Cfr. D. Conway, Nietzsche’s Art of This-Worldly Comfort: Self-Reference and

Strategic Self-Parody, in «History of Philosophy Quarterly», 9(3) (1992), pp. 343-357;


J. Dellinger, Zwischen Selbstaufhebung und Gegenlehre. Nietzsche, Schopenhauer und
die ‚Perversität der Gesinnung‘, in D. Birnbacher, M. Koßler (a cura di), Moralkritik bei
Schopenhauer und Nietzsche, Würzburg 2013, pp. 61-98.
6 Cfr. W. Barner, Poetologie? Ein Zwischenruf, in «Scientia Poetica», 9 (2005), pp.

389-399, in particolare pp. 398 s.: «la teoria della poesia o la ‚teoria della letteratura‘ si
dovrà deinire, secondo lo schema ‚phráisis‘, gen. ‚phráiseös‘ (‚posesis‘, gen. ‚poieseos‘,
lat. ‚poesis‘) ‚poesiologico‘».
Il «Tentativo di autocritica» 73

propri materiali»7. Una tale poesiologia della ilosoia andrebbe


ricostruita, in questo senso, nella forma di un close reading, come
si tenterà di fare qui di seguito. Purtroppo, in questo contesto
non è possibile offrire una lettura ravvicinata del «Tentativo di
autocritica», ossia una lettura che accompagna frase per frase
il testo della redazione pubblicata, commentandolo e interpre-
tandolo. Dovrò limitarmi allo schizzo impreciso di una poesio-
logia, che potrebbe venire adeguatamente ricostruita solo nel
quadro di una tale lettura. Nondimeno, per rispondere almeno
parzialmente alle esigenze presentate dal telos di questo saggio,
mi concentrerò sulla lettura di speciici passi del «Tentativo di
autocritica», in cui si condensano l’autorilessione e l’autocritica
poesiologica delle prefazioni ulteriori. Prima di tutto seguirò la
cronologia testuale della redazione pubblicata, ma interromperò
in modo puntuale la lettura cronologica per confrontare la reda-
zione pubblicata con le «bozze» che provengono dal lascito di
Nietzsche.
Già il titolo è ricco di implicazioni per una lettura poesio-
logica della prefazione. Al contrario del resto delle prefazioni
nietzschiane del 1886/87, questo non consiste nella semplice
indicazione del genere testuale8, ma rimanda già all’oggetto po-
tenziale e al modus del testo che lo segue. E tuttavia resta innanzi-
tutto indeterminato chi debba essere sottoposto al «Tentativo di
autocritica»: La nascita della tragedia, Nietzsche, l’emittente del
paratesto? Anche il fatto che questa «autocritica», il cui oggetto
è all’inizio indeterminato, venga deinita come un «tentativo»,
invita all’interrogazione, ma dall’espressione non risulta chiaro
quale delle sue numerose sfumature di signiicato sia qui rilevan-
te. Il Deutsches Wörterbuch di Jacob e Wilhelm Grimm indica
per il lemma «Versuch» («tentativo») sei possibili signiicati, che
7 F. Christen, T. Forrer, M. Stingelin, H. Thüring, Vorwort der Herausgeber, in Id.

(a cura di), Der Witz der Philologie. Rhetorik – Poetik – Edition (Festschrift für W. Grod-
deck zum 65. Geburtstag), Basel/Frankfurt a. M. 2014, pp. 6-14, qui p. 10.
8 Tuttavia lo status paratestuale del «Tentativo» viene esplicitato nel primo paragra-

fo, dove si sottolinea che i pensieri sui greci costituiscono il «nocciolo del libro stravagan-
te, dificilmente accessibile, a cui è dedicata questa tardiva prefazione (o epilogo)» (GT
Versuch, KSA 1, p. 11; Vol. III, Tomo 1, p. 3).
74 Axel Pichler

vanno dall’uso arcaicizzante con il signiicato di «feindlicher an-


griff» («attacco ostile»), a «vorübung» («esercizio preparatorio»),
«experiment» («esperimento»), al signiicato, molto diffuso nel
nuovo alto-tedesco, di «unternehmen» («impresa»), ino alla
traduzione del «tecnicismo essay, introdotto nella letteratura da
Montaigne (1580)»9. Tenuto conto di queste molteplici opzioni,
è possibile determinare il signiicato dei sostantivi contenuti nel
titolo, così come del contesto referenziale ad essi collegato, solo a
partire da un confronto con l’effettiva struttura del testo.
Questo si apre in un modo che, secondo la classiicazione
delle funzioni delle prefazioni proposta da Gerard Genette, è
più un tratto distintivo della cosiddetta prefazione autoriale ori-
ginale che non della prefazione autoriale successiva, che è evi-
dentemente il caso dell’«autocritica» di Nietzsche, almeno per
quanto riguarda la sua storia editoriale. Mentre secondo Genette
la funzione delle prefazioni ulteriori consiste in prima istanza nel
rispondere alle prime critiche, le prefazioni originali perseguo-
no il ine di «assicurare una buona lettura del testo»10. Proprio
questo è il ine che sembra perseguire anche la prima frase del
«Tentativo»:

Qualunque cosa possa esserci stata alla base di questo problematico


libro, deve essere stata una questione di prim’ordine, piena di fascino,
e inoltre una questione profondamente personale: ne è testimonianza
il tempo in cui esso nacque, nonostante il quale esso nacque, il tem-
po emozionante della guerra franco-tedesca del 1870-71 (GT Versuch,
KSA 1, p. 11; Vol. III, Tomo 1, p. 3)11.

Il rimando al «prim’ordine» della non meglio deinita que-


stione alla base del libro rappresenta chiaramente una captatio
benevolentiae, il cui ine consiste nell’indurre il lettore, attraverso
l’allusione al signiicato della tematica trattata nel libro, a con-

9http://woerterbuchnetz.de/DWB/ (ultima consultazione: 15.10.2016).


10
G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino 1989, p. 194.
11 Tutte le citazioni che seguono, ove la fonte non sia indicata direttamente, proven-

gono da GT Versuch, KSA 1, pp. 11-22; Vol. III, Tomo 1, pp. 3-15.
Il «Tentativo di autocritica» 75

tinuare la lettura – per Genette un ine, se non proprio il ine


principale, della prefazione originale12. L’accento posto sul fatto
che si trattava, o si tratta, di «una questione profondamente per-
sonale», come anche la conferma di tale circostanza attraverso la
deinizione del contesto storico in cui è nato il testo, non solo raf-
forza il suggerito signiicato della questione, ma allo stesso tempo
offre un’indicazione su come esso vada letto: come espressione
della personalità del suo autore13. Come si dimostrerà, ciò vale
non solo per la Nascita della tragedia, ma anche per la sua prefa-
zione ulteriore: anche questa, infatti, risponde ad una tendenza,
evidenziata a livello linguistico, alla personalizzazione del ilo-
sofare, che contraddistingue in modo essenziale il contenuto di
questo ilosofare.
Il ine appena descritto caratterizza anche le successive fra-
si del primo paragrafo. Anche queste si caratterizzano in prima
istanza per un parallelismo tra gli eventi storici «della guerra
franco-tedesca del 1870-71» e la storia personale della scrittura
del libro, che culmina nella presunta coincidenza del trattato di
Versailles con la ine della stesura della Nascita della tragedia –
una ine che, nel testo, è designata attraverso il gioco di parole
con il titolo del libro stesso, che si riferisce a una nascita per
mezzo dell’autore, come un atto in massimo grado personale14.
12 G. Genette, Soglie, cit., p. 195.
13 Questa circostanza è rafforzata dal fatto che nel complesso del primo paragrafo del
«Tentativo» non è ancora chiaro come si debba deinire il narratore del testo da un punto
di vista ontologico e rappresentazionale: si tratta di un narratore eterodiegetico o omo-
diegetico? Partecipa a ciò che racconta? A prima vista sembra che si tratti di un narratore
etero-extradiegetico, tuttavia, nel secondo paragrafo del «Tentativo», si rivela piuttosto
come un narratore omo-intradiegetico. La conseguenza di questo presunto cambiamento
di voce, che non è ancora presente nelle bozze (qui si ha a che fare sin dall’inizio con un
narratore omo-intradiegetico), è il fatto che nel primo paragrafo del «Tentativo» si giun-
ge a una auto-eterocaratterizzazione. Nietzsche introduce questo mezzo stilistico anche
in altre prefazioni del 1886/87 (cfr. A. Pichler, Nietzsches Spiel mit dem Paratext, cit.).
Nel primo paragrafo del «Tentativo» il suo utilizzo sembra perseguire lo scopo di raffor-
zare e «oggettivare» le affermazioni lì effettuate.
14 Il passo che si riferisce a questo, con cui nel primo paragrafo si compie anche la

sintesi di storia universale e storia della composizione, recita: «Alcune settimane dopo,
anch’egli si trovava sotto le mura di Metz, senza essersi ancora sbarazzato dei punti in-
terrogativi che aveva apposti alla pretesa ‚serenità‘ dei Greci e dell’arte greca; inché da
76 Axel Pichler

Nel contesto di questo breve, presunto excursus autobiograi-


co, Nietzsche fornisce, riferendosi ai «Greci» e in particolare alla
loro «serenità», messa tra virgolette già dalla sua prima menzio-
ne, anche una prima indicazione sull’area tematica del libro e,
come sarà da chiarire più avanti, del suo pensiero tardo. Nel cor-
so di quel che resta del primo paragrafo quest’area tematica verrà
precisata ulteriormente: a partire dal titolo del libro, al centro del
paragrafo comincia una cascata di domande che simula il discor-
so parlato e che caratterizzerà il resto del paragrafo stesso tranne
poche ma importanti eccezioni. Il primo gruppo di interrogativi
sfocia nella domanda: «A che scopo l’arte greca?…», una que-
stione che gli scritti tardi di Nietzsche continueranno a ripren-
dere e a trattare a partire da diverse prospettive, come accade ad
esempio nei paragrai 2-5 della terza dissertazione della Genea-
logia della Morale, e nei paragrai 9-11 del capitolo «Scorribande
di un inattuale», come anche nel capitolo «Quel che devo agli
antichi» del Crepuscolo degli idoli. Con il Caso Wagner Nietzsche
dedica un libro intero alle domande «da dove venga» e «a cosa
serva» l’arte. Nel «Tentativo» il quadro di riferimento di questa
domanda si completa nella frase che la segue, che al contempo
è anche uno dei pochi enunciati constativi della seconda metà
del primo paragrafo: «Si comprende in che punto era con ciò
posto il grande interrogativo circa il valore dell’esistenza». Ne
consegue che la questione personale del narratore diventa qui la
funzione dell’arte per la vita.
Le frasi che seguono, nel distinguere un «pessimismo […] di
declino, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e indeboli-
ti» da un «pessimismo della forza», introducono quella differen-
ziazione che nell’aforisma 370 della Gaia Scienza è ricondotta alla
seguente deinizione fondamentale dell’essere, posta in modo
apodittico:

ultimo, in quel mese di massima tensione in cui a Versailles si discuteva la pace, riacquistò
anch’egli la pace con se stesso e, guarendo lentamente di una malattia postata a casa dal
campo, issò in sé deinitivamente la ‚nascita della tragedia dallo spirito della musica‘».
Il «Tentativo di autocritica» 77

Ogni arte, ogni ilosoia possono essere considerate come un mez-


zo di cura e d’aiuto al servizio della vita che cresce e che lotta: esse
presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma vi sono due specie
di sofferenti: quelli che soffrono della sovrabbondanza della vita […] e
quelli che soffrono dell’impoverimento della vita. (FW 370, KSA 3, p.
620; Vol. V, Tomo 2, p. 247).

Nella prefazione alla Nascita della tragedia, Nietzsche ha ri-


nunciato con evidente consapevolezza a una tale formulazione
apodittica, come dimostra la «bozza» dello stesso passo che si
trova nel quaderno di lavoro W I 8. Qui, alla questione di come
si relazioni il pessimismo ai greci e, in particolare, se questo sia
un «sintomo di fallimento», viene data la risposta seguente: «No,
tutto il contrario: i Greci, nel pieno delle loro forze, nella so-
vrabbondanza della loro salute, sono pessimisti: con l’aumentare
della debolezza, si fanno proprio più ottimisti, superficiali, più
smaniosi per la logica e la logicizzazione del mondo»15.
Qui non viene semplicemente constatata l’esistenza di un
«pessimismo di sovrabbondanza», tale pessimismo viene anche
confrontato con un supericiale ottimismo della debolezza, ma
non ancora con un «pessimismo […] di istinti stanchi e inde-
boliti», come è invece il caso nel testo pubblicato. Rinunciando
alla constatazione di questa differenza, e ponendo al suo posto
una sequenza di interrogativi, il testo pubblicato soddisfa una
richiesta che è articolata nella terza frase del quarto paragrafo del
«Tentativo», ossia: «Forse oggi parlerei con maggiore prudenza e
con minore eloquenza di una questione psicologica così difficile
com’è quella dell’origine della tragedia presso i Greci».
Tornerò successivamente sul fatto che questa frase sta in una
relazione immediata con la domanda posta nel primo paragrafo,
dopo le due forme del pessimismo16. Che il primo, e non solo
15 «Nein, ganz umgekehrt: die Griechen, im Reichthum ihrer Kräfte, in der Über-
fülle jugendlicher Gesundheit, sind Pessimisten: sie werden, mit dem Wachsthum von
Schwäche, gerade optimistischer, oberlächlicher, nach Logik u. Logisirung der Welt
brünstiger» (KGW IX/V, W I 8, p. 107). Non presente nell’edizione italiana.
16 Dal punto di vista della genesi del testo ciò è reso plausibile dal fatto che la riles-

sione poesiologica sul confronto adeguato con la questione del pessimismo dei greci e la
78 Axel Pichler

il primo, paragrafo del «Tentativo», metta in atto almeno una


delle direttive che vi sono articolate – la cautela nel confrontarsi
con «una questione psicologica così dificile» –, lo dimostra la
trasposizione, nella stesura inale, della distinzione tra pessimi-
smo e ottimismo constatata nella prima stesura in una serie di
domande. Nella stesura inale, infatti, la distinzione, già molto
netta nella «bozza», viene ulteriormente differenziata nelle do-
mande, che traspongono, in modo più implicito, l’opposizione
prima introdotta nel «mito tragico», nell’«enorme fenomeno del
dionisiaco» e nella tragedia, per poi sfociare – passando per la
domanda se anche «il socratismo della morale, la dialettica, la
moderazione e la serenità dell’uomo teoretico», al contempo
considerati responsabili della «morte della tragedia», siano fe-
nomeni della decadenza, nonché per la stoccata contro Epicuro,
portata avanti nell’aforisma 370 della Gaia Scienza – nei seguenti
celebri interrogativi, con cui si chiude il primo paragrafo:

E la scienza stessa, la nostra scienza – già, che cosa signiica mai,


considerata come sintomo di vita, ogni scienza? A che scopo la scienza?
Peggio ancora, da che deriva – ogni scienza? Come? Forse la scientii-
cità è solo una paura e una scappatoia di fronte al pessimismo? Una
sottile legittima difesa contro – la verità? E, per parlare in termini mo-
rali, qualcosa come viltà e falsità? O per parlare in termini immorali,
un’astuzia? O Socrate, Socrate, fu forse questo il tuo segreto? O miste-
rioso ironico, fu forse questa la tua – ironia? –

Il passo sembra trarre le conseguenze, sempre per tentativi,


dalle frasi che lo precedono17: la loro sequenza – che dalla di-
stinzione dei due modi del pessimismo, passando per la nascita
e la morte della tragedia, conduce al «socratismo della morale»

prima rappresentazione di quest’ultimo in uno dei primi abbozzi del «Tentativo» vengo-
no ancora trattati insieme (cfr. KGW IX/V, W I 8, p. 107). Nietzsche ha poi rielaborato
l’incipit di questa prima bozza per l’incipit del quarto paragrafo del «Tentativo», la cui
seconda metà è conluita invece nel primo paragrafo.
17 Ancora più sorprendente è che Jochen Schmidt, nel suo commento al «Tentativo»,

tratti esclusivamente l’ultima delle questioni qui poste, quella sull’ironia di Socrate. Cfr.
J. Schmidt, Kommentar zu Nietzsches »Geburt der Tragödie«, cit.
Il «Tentativo di autocritica» 79

e alla «serenità dell’uomo teoretico» – insinua che il processo di


decadenza da essa suggerito culmina nella scienza e, in partico-
lare, in quella contemporanea, come chiarisce il pronome «no-
stra». Il concetto di «sintomo», così centrale negli ultimi scritti di
Nietzsche, implica invece che la scienza venga presa in considera-
zione a partire dalla prospettiva del critico isiopsicologico18. In
tal modo, essa diviene oggetto di una prassi ermeneutica, deinita
nell’aforisma 370 della Gaia scienza, come la «dificilissima e cap-
ziosissima forma dell’argomento a posteriori»: «quell’argomento a
posteriori per cui si risale dall’opera all’autore, dall’azione all’a-
gente, dall’ideale a colui che lo sentì necessario, da ogni maniera
di pensare e di valutare al bisogno che dietro a essa impone il suo
comando» (FW 370, KSA 3, p. 621; Vol. V, Tomo 2, p. 271).
Proprio questa forma dell’argomento a posteriori determina
già la distinzione fondamentale tra le due forme di pessimismo.
La problematicità di tale argomento a posteriori, enunciata aper-
tamente nell’aforisma 370 della Gaia Scienza, nel «Tentativo» è
nuovamente segnalata dal fatto che tutti gli argomenti a posterio-
ri trattati ino alla ine del primo paragrafo appaiono nella forma
di una domanda. Allo stesso tempo, la loro sequenza mostra che
il modo di procedere del testo, anche al di là della forma interro-
gativa che domina il primo paragrafo, si allontana dalle correnti
pratiche deduttive delle scienze, e tuttavia cambia continuamen-
te il suo fuoco, concentrandosi su speciici fenomeni ora della
storia culturale greca, ora della rilessione ilosoica che produce
presunte affermazioni universali. Nel far ciò, non si procede in
modo né induttivo né deduttivo, piuttosto le relazioni vengono
create semplicemente attraverso la successione cronologica del
testo e l’intreccio dei motivi. Quest’ultimo, col procedere del-
la prima, diviene sempre più serrato. Ciò è esempliicato nel
passaggio dalle domande su Socrate ed Epicuro alla domanda
sulla scienza: il fatto che nel caso del socratismo si tratti di un
precursore della scienza attuale non viene mai reso esplicito, ma
18 Sul signiicato del pensiero sintomatologico nell’opera tarda di Nietzsche si veda:

A. Pichler, Philosophie als Text – Zur Darstellungsform der »Götzen-Dämmerung«, Ber-


lin/Boston 2014, in particolare pp. 171-180.
80 Axel Pichler

vi si allude solo attraverso il collegamento dei motivi – ossia at-


traverso il fatto che tanto il socratismo, quanto la scienza stessa
vengono interpretati come un potenziale sintomo «di declino, di
stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamen-
te», ovvero come «paura e scappatoia di fronte al pessimismo».
Solo chi interpreta quest’ultima caratterizzazione come sintomo
di decadenza, potrà dedurre l’analogia.
Una lettura poesiologica del paragrafo, quindi, mostra come
questo non solo porti avanti a livello tematico la critica della
scienza in esso suggerita, ma la realizzi, allo stesso tempo, nella
propria forma. Ciò vale anche per le due domande conclusive
su Socrate: identiicando dapprima la scientiicità, di cui Socrate
all’interno della Nascita della tragedia funge da archegete e rap-
presentante centrale, come «sottile legittima difesa contro – la
verità» (con cui probabilmente si allude al presunto pessimismo
che sta alla base del bisogno di scientiicità e non di una teoria
ilosoica della verità), e valutando poi la soppressione di questa
verità tanto da una prospettiva morale di tipo tradizionale, quan-
to da una cosiddetta «immorale» (un’opposizione su cui tornerò
più avanti), anche la critica inale a Socrate, ancora una volta
espressa soltanto per tentativi, e per di più in modo estremamen-
te sottile, viene preparata in un modo tutt’altro che scientiico. E
ancor meno scientiica è la critica stessa, che designa l’ironia di
Socrate proprio come una prassi di questo tipo, ossia come un
consapevole silenzio sulle cause effettive del proprio pensiero.
Il signiicato poesiologico del «Tentativo» non si limita tutta-
via ad una corrispondenza tra forma e contenuto del testo, ma si
manifesta anche attraverso varie autocitazioni, che rivelano il loro
doppio senso solo dopo che si sia presa in considerazione pro-
prio questa relazione tra forma e contenuto. Ciò vale soprattutto
per un passo che, in effetti, offre una prima forma di autocritica,
un’autocritica diretta a prima vista alla prima edizione della Na-
scita della tragedia. Questa ha inizio con il secondo paragrafo del
«Tentativo». Dopo che il «Tentativo», in apertura, ha enfatizza-
to quanto precedentemente affermato nel noto passo sul fatto
che qui, per la prima volta, alla igura dell’autore, che appare in
Il «Tentativo di autocritica» 81

prima persona singolare, si sarebbe chiarito per la prima volta il


«problema della scienza» attraverso tali interrogativi, riguardanti,
come si è visto, alcuni topoi dell’opera tarda di Nietzsche, tale
igura autoriale affronta per la prima volta in modo esplicito il
problema della critica al «libro impossibile»:

Costruito su mere esperienze interiori precoci e troppo verdi, che


giacevano tutte proprio alla soglia del comunicabile, collocato sul ter-
reno dell’arte – giacché il problema della scienza non può essere ri-
conosciuto sul terreno della scienza –, un libro forse per artisti con
un’aggiunta di capacità analitiche e retrospettive (ossia per una specie
eccezionale di artisti, che si devono cercare e che nemmeno si vorreb-
bero cercare…), pieno di innovazioni psicologiche e di segreti da arti-
sti, con sullo sfondo una metaisica da artisti, un’opera giovanile piena
di coraggio giovanile e melanconia giovanile, indipendente, caparbia
e autonoma anche là dove sembra inchinarsi a un’autorità e a una par-
ticolare venerazione, insomma un’opera giovanile anche in ogni senso
negativo del termine, gravata da ogni difetto della giovinezza, nono-
stante il suo problema da vecchi, gravata soprattutto dalla prolissità
della giovinezza, dal suo Sturm und Drang […].

Se si confronta l’oggetto di questa critica con il modo di pro-


cedere del «Tentativo di autocritica», appare chiaro che buona
parte di quest’ultimo, pur con variazioni in alcuni punti deci-
sivi, si applica tanto al «Tentativo» stesso, quanto agli scritti
di Nietzsche dei due anni precedenti. Ciò vale in primo luogo
perché il «Tentativo», ma ancora di più gli scritti del 1887/88,
sono basati su esperienze personali – per lo più quelle di una
igura autoriale intradiegetica che si presenta come tutt’altro che
«troppo verd[e]». In secondo luogo, ciò vale per le cosiddette
«innovazioni psicologiche». La più signiicativa di queste, il pro-
cedimento sintomatico, caratterizza già la seconda metà del pri-
mo paragrafo del «Tentativo» e, negli scritti del 1888, diventerà
essa stessa un vero e proprio metodo, cosa che porta al prevalere
della dimensione autoreferenziale nella prassi di pensiero e di
82 Axel Pichler

scrittura dell’opera tarda di Nietzsche19. In terzo luogo, inine,


ciò vale anche per la procedura secondo cui determinate que-
stioni e problemi vengono indagati da una prospettiva a prima
vista lontana: ad esempio, nel secondo paragrafo del «Tentativo»
la scienza viene interrogata «sul terreno dell’arte» – e ciò acca-
de spesso, tanto nel «Tentativo» quanto negli scritti successivi,
senza tenere «sullo sfondo una metaisica da artisti», bensì nella
forma dell’«arte della consolazione dell’al di qua» propaganda-
ta nel settimo paragrafo del «Tentativo», della cui problematica
autoreferenziale parlerò più avanti. In essa si realizza già quella
sintesi che viene articolata nella famosa parentesi del secondo
paragrafo: « […] vedere la scienza con l’ottica dell’artista e l’arte
invece con quella della vita».
Come provano le frasi che la precedono, questa parentesi non
solo possiede una dimensione poesiologica autoreferenziale, ma
è al contempo espressione di quella politica operativa che con-
traddistingue il «Tentativo» in generale20. Il ine di quest’ulti-
mo è evidentemente – e su questo si deve assentire con gli studi
condotti inora – quello di richiamare l’attenzione sulla conti-
nuità nello sviluppo del pensiero nietzscheano, nonostante le
differenze. Che questa continuità, tuttavia, risieda solo limitata-
mente negli interrogativi posti – nel cui caso si tratta piuttosto
di nuove questioni in vesti antiche – e molto di più invece nel-
la forma di rappresentazione del confronto con essi, dovrebbe
averlo già dimostrato la lettura del secondo paragrafo. Lo stesso
19 Sulla dimensione autoreferenziale dei testi di Nietzsche e sulle sue conseguen-

ze ilosoiche si veda in particolare: C. Zittel, Selbstaufhebungsiguren bei Nietzsche,


Würzburg 1995; A. Pichler, Philosophie als Text, cit., pp. 266-306; J. Dellinger, Situatio-
nen der Selbstbezüglichkeit. Studien zur Relexivität kritischer Denk- und Schreibformen
bei Friedrich Nietzsche, Diss. Universität Wien 2015; W. Stegmaier, Orientierung im Ni-
hilismus – Nietzsche meets Luhmann, Berlin/Boston 2016.
20 Questo accade in modo tale che nel testo del narratore il ressentiment nei confron-

ti di determinati passi del libro – soprattutto quelli stilistici – viene collegato all’enfasi
posta ancora una volta sull’interesse per le domande così articolate: « […] tuttavia non
voglio del tutto nascondere quanto esso mi appaia oggi spiacevole, quanto estraneo mi si
presenti oggi, dopo sedici anni, – ai miei occhi divenuti più vecchi, cento volte più viziati,
ma nient’affatto più freddi; i miei occhi del resto non sono divenuti più estranei a quello
stesso compito cui osò accostarsi per la prima volta quel libro temerario […]».
Il «Tentativo di autocritica» 83

vale anche per il terzo paragrafo del «Tentativo», che sviluppa


l’«autocritica».
Per inire, con la domanda «che cosa è dionisiaco?», posta al
termine del terzo paragrafo, l’attenzione si sposta di nuovo su
quell’espressione a cui, come si mostrerà in seguito, si ricollega-
no i topoi e i motivi tematici e stilistici centrali del «Tentativo».
Attraverso tali topoi e motivi, un’espressione che primariamente
connota un fenomeno culturale dell’antichità diventa la metafo-
ra poesiologica portante del testo. La loro sintesi, fondamentale
per un’interpretazione poesiologica del «Tentativo», viene pre-
parata nel quarto paragrafo, il quale procede nello stesso modo
ipotetico e a tentativi che viene sollecitato nella sua terza frase e
che ha già caratterizzato la seconda metà del primo paragrafo.
Il quarto paragrafo, tuttavia, – con l’eccezione delle già men-
zionate terza e quarta frase – consta interamente di domande21.
È pertanto ovvio, in relazione al termine «Tentativo» nel titolo
della prefazione, considerare dominante la dimensione semiotica
ipotetica dell’espressione.
Già il secondo periodo del paragrafo – che segue la domanda
introduttiva «Già, che cos’è dionisiaco?» – insinua sottilmente
che l’idea del dionisiaco presentata nel «Tentativo» si allontani
da quella della prima edizione, in quanto si afferma che nel detto
libro «parla […] uno ‚che sa‘, l’iniziato e il discepolo del suo
dio»22. A favore di una nuova interpretazione del concetto sta
qui il fatto che «uno che sa» è messo tra virgolette, un accenno
allo status potenzialmente problematico di questo sapere, che

21 Ossia la frase seguente: «forse oggi parlerei con maggiore prudenza e con minore

eloquenza di una questione psicologica così dificile com’è quella dell’origine della trage-
dia presso i Greci».
22 Al riguardo bisogna concordare con Jochen Schmidt quando deinisce la domanda

sul dionisiaco come una «domanda non solo retoricamente suggestiva, ma anche ipoteti-
ca, che procede a tastoni, sperimentale», non tuttavia quando afferma che essa è al con-
tempo aporetica (cfr. J. Schmidt, Kommentar zu Nietzsches »Geburt der Tragödie«, cit., p.
5). Non si può parlare di un’aporia nel senso della logica antica nel caso di una domanda
che rappresenta già una conseguenza immanente al ilosofare tardo di Nietzsche, e la cui
risposta non consiste, in ultima analisi, in una proposizione, ma in una determinata forma
del ilosofare.
84 Axel Pichler

per di più potrebbe anche intendere un sapere divergente dell’e-


mittente della prefazione e con esso una concezione alternativa
del dionisiaco.
Le frasi che seguono mostrano la dipendenza del dionisiaco da
processi che nella prima edizione non si davano ancora nella for-
ma in cui vengono presentati nel «Tentativo». Così, la terza frase
del quarto paragrafo, la domanda sul dionisiaco, cui nel frattem-
po si è accennato più volte, non solo si prova una «questione
psicologica […] dificile», ma si collega anche alla domanda sul-
l’«origine della tragedia presso i Greci», cosa che fa sì che un fe-
nomeno storico venga interrogato con l’aiuto dell’euristica della
sintomatologia che viene sviluppata per la prima volta in Al di là
del bene e del male e che, soprattutto, viene messa per la prima
volta in relazione con il concetto di sintomo nel «Tentativo»23.
La distinzione principale di questa euristica, quella tra un pessi-
mismo della forza e una «serenità» pessimistica della debolezza,
viene resa produttiva nelle domande che seguono:

Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il


suo grado di sensibilità, – questo rapporto rimase uguale a se stesso?
Oppure si capovolse? – la questione se in realtà il suo desiderio sempre
più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia
sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal
dolore.

Coll’evidenziare l’espressione «desiderio […] di bellezza»,


questo passo evidenzia come l’arte sia il luogo privilegiato
dell’applicazione del metodo sintomatologico, e ciò conduce alla
sintesi della domanda sulla funzione dell’arte greca con quella
sul dionisiaco.
Il quarto paragrafo, tuttavia, non si limita a questa sintesi, ma
riporta all’interno del presunto confronto con l’asserito «gran-
23 In Al di là del bene e del male Nietzsche parla ancora semplicemente di «psicolo-

gia». Sul suo ruolo nel primo capitolo si veda M. A. Born, Nietzsches rhetorische Inszenie-
rung der Psychologie. Zum ersten Hauptstück von Jenseits von Gut und Böse, in J. Georg,
C. Zittel (a cura di), Nietzsches Philosophie des Unbewussten, Berlin/Boston 2012, pp.
197-206.
Il «Tentativo di autocritica» 85

dioso problema greco» anche tutti gli altri aspetti introdotti nella
seconda metà del primo paragrafo e relativi allo sviluppo del-
la sintomatologia. Tra questi igurano la sintesi della psicologia
con la isiologia – dopo la «questione psicologica […] dificile»
dell’apertura, al centro del paragrafo si indaga espressamente
«sotto l’aspetto isiologico» –, così come la domanda sulle cause
della scienza e in particolare sulla «logica e la logicizzazione del
mondo». Alla ine del paragrafo compare poi anche quella pro-
spettiva la cui rilevanza per il «Tentativo» era stata solo accenna-
ta alla ine del primo paragrafo: «Si vede, è di tutto un fascio di
dificili problemi che questo libro si è caricato, – e aggiungiamoci
ancora il suo problema più arduo! Che cosa signiica, vista secon-
do la prospettiva della vita, la morale?» In questo passo la sintesi
dei quattro grandi temi conduttori della prefazione – scienza,
arte, morale, vita – è predisposta nella metafora conduttrice del
dionisiaco, mentre alla tecnica della messa in prospettiva espo-
sta alla ine del secondo paragrafo, «vedere la scienza con l’ottica
dell’artista e l’arte invece con quella della vita…», si aggiunge la
prospettiva della morale24. Nel quinto paragrafo del «Tentati-
vo» si giunge all’effettiva sintesi e alla successiva elaborazione di
una costellazione di problematiche, come anche all’elaborazione
delle dimensioni autoreferenziali che contraddistinguono tale
costellazione.
Nel rispetto del principio centrale di strutturazione del genere
della prefazione, ossia la igura retorica della preparatio, ciò acca-
de mettendo a fuoco il problema della morale, introdotto per la
prima volta alla ine del quarto capitolo. Già nella prima frase la
morale viene contrapposta all’arte per mezzo dell’autocitazione.
In questo caso si tratta della famosa formula che proviene dal
quinto capitolo della prima edizione della Nascita della tragedia,
che recita: «solo come fenomeni estetici l’essere e il mondo sono
eternamente giustiicati». Le frasi seguenti costituiscono, insieme
24 A tale riguardo bisogna respingere la tesi di Daniel Came, che sostiene che, tanto
nel «Tentativo di autocritica», quanto nella Nascita della Tragedia, sussiste «un’oppo-
sizione fondamentale tra valore morale e estetico» (D. Came, Nietzsche’s Attempt at a
Self-Criticism, cit., p. 38).
86 Axel Pichler

alla ine del paragrafo, il nucleo poesiologico del «Tentativo», e


per questo vale la pena riportarle insieme di seguito:

E in effetti tutto il libro dietro a ogni accadere, vede soltanto un sen-


so e un senso recondito d’artista, – un «Dio», se si vuole, ma certo solo
un Dio-artista assolutamente noncurante e immorale, che nel costruire
come nel distruggere, nel bene come nel male, vuole sperimentare un
uguale piacere e dispotismo, e che, creando mondi, si libra dall’oppres-
sione della pienezza e della sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contra-
sti in lui compressi. […]
Contro la morale si colse dunque allora, con questo libro problemati-
co, il mio istinto, come un istinto che parla in favore della vita, e inven-
tò una sistematica controdottrina e controvalutazione della vita, una
valutazione puramente artistica, una valutazione anticristiana. Come
chiamarla? Da ilologo e da uomo delle parole la battezzai, non senza
una certa libertà – giacché chi saprebbe l’esatto nome dell’Anticristo?
– con il nome di un dio greco: la chiamai la valutazione dionisiaca –.

Se si leggono questi due passi l’uno in relazione all’altro, il


«Dio» del primo paragrafo si rivela essere Dioniso. Questo, tut-
tavia, come provano le virgolette nel primo passo, non viene più
inteso come un dio in senso teologico, piuttosto fa semplicemente
da prestanome per una fondamentale «controdottrina e contro-
valutazione» artistica e anticristiana25. Questa «controdottrina e
controvalutazione»26 si differenzia dalla dottrina tradizionale in
quanto non costruisce più alcun ediicio dottrinale sistematico
basato su frasi assiomatiche, ma si caratterizza attraverso una
prassi deinita. Questa consiste innanzitutto «nel costruire come
nel distruggere» ciò che essa pone in opposizione alle statiche
costruzioni dottrinali tradizionali. Inoltre, questo costruire e di-
struggere viene descritto come un’espressione voluttuosa e tiran-
nica dell’«oppressione della pienezza e della sovrabbondanza» dei

25 Su questa interpretazione del «dio» si veda anche M. F. Molder, The Limits of

Language, cit., p. 266.


26 Le complicazioni rilessive di questa «controdottrina e controvalutazione» sono

sviluppate nel seguito del quinto paragrafo e sono state di recente ricostruite da Jakob
Dellinger.
Il «Tentativo di autocritica» 87

suoi agenti e come creatore di valori, laddove si relativizza l’inte-


ro complesso di motivi dell’euristica sintomatologica (sviluppato
nel primo paragrafo e collegato ai Greci nel terzo), inclusa la sua
distinzione principale tra un pessimismo della forza e un sereno
pessimismo/ottimismo della debolezza. Questa relativizzazione
si estende ino al punto in cui – in considerazione della frase
di apertura del secondo passo, dal quale emerge che nel caso
della detta «controdottrina e controvalutazione» si tratta di una
scoperta del narratore della prefazione e, più concretamente, di
un «istinto che parla a favore della vita» – nella caratterizzazio-
ne della nascita della controdottrina dionisiaca si fa ricorso allo
strumentario descrittivo sintomatologico. Non da ultimo, il fat-
to che si ricorra a questo strumentario dimostra che il testo del
«Tentativo» non solo sviluppa determinate posizioni ilosoiche,
e con esse le pratiche a loro associate, ma realizza anche queste
stesse pratiche, in quanto forma di rappresentazione, già nello
sviluppo di queste posizioni. Tale prassi culmina nella metafora
conduttrice del dionisiaco, che in tal modo diviene iperonimo
della poesiologia ilosoica del «Tentativo» e soprattutto – come
presumo – della tarda prassi nietzscheana di pensiero e scrittu-
ra27.
La sua dinamica e il suo status come «controdottrina»28 sono
una conseguenza di quelle dimensioni autoreferenziali alle quali
si è già fatto cenno prima, e che, adesso, in conclusione, saran-
no ricostruite. Le sue complicazioni rilessive culminano nell’a-
dattamento nietzscheano della formula schopenaueriana della
«perversità di sentimento» che caratterizza la ilosoia dionisiaca,
la quale, come viene affermato nel quinto paragrafo, «osa por-
re […] la morale stessa nel mondo dell’apparenza, […] fra gli
‚inganni‘, come parvenza, illusione, errore, interpretazione, ac-
27 Per una trattazione più approfondita si veda A. Pichler, Philosophie als Text, cit.,

pp. 306-325.
28 Sullo status e sulla funzione dell’«antidottrina» negli scritti di Nietzsche a partire

da Così parlò Zarathustra si veda W. Stegmaier, Anti-Lehren, in V. Gehrhardt (a cura


di), Friedrich Nietzsches »Also sprach Zarathustra«, Berlin 2000, pp. 191-224 e, legato a
questo, A. Pichler, Nietzsche, die Orchestikologie und das dissipative Denken, Wien 2010,
pp. 169-177.
88 Axel Pichler

comodamento e arte». Subito dopo «il cristianesimo» viene ca-


ratterizzato come manifestazione storica più signiicativa di tale
morale, e quindi descritto come segue:

In verità, rispetto all’interpretazione del mondo e alla giustiicazio-


ne del mondo puramente estetiche, quali vengono professate in que-
sto libro, non c’è contrasto più grande della dottrina cristiana, che è e
vuol essere solo morale, e con le sue misure assolute, per esempio già
con la sua veridicità di Dio, respinge l’arte, ogni arte, nel regno della
menzogna – ossia la nega, la danna, la condanna. Dietro una siffatta
maniera di pensare e di valutare, che deve essere ostile all’arte inché
è in qualche modo schietta, io sentii sempre anche l’ostilità alla vita, la
rabbiosa vendicativa avversione alla vita stessa: giacché ogni vita riposa
sull’illusione, sull’arte, sull’inganno, sulla prospettiva, sulla necessità
della prospettiva e dell’errore.

Come ha mostrato Jakob Dellinger, «il parallelismo tra stile


e contenuto dell’elencazione con cui Nietzsche dapprima de-
scrive la ‚morale stessa‘, e quindi ciò su cui ‚ogni vita riposa‘»
può essere interpretato come espressione delle «costellazioni
riflessive complesse, metastabili, in cui s’impelaga il progetto
nietzscheano della critica della morale»29: la «controdottrina e
controvalutazione» del dionisiaco è anche un «sentimento», la
cui «perversità» consiste non da ultimo nel fatto di portare avanti
la propria «maniera di pensare e di valutare», mentre tra l’altro,
proprio come nel passo citato, di prendere aggressivamente po-
sizione contro la «dottrina cristiana». In questo senso, una tale
controdottrina necessita – come giustamente sottolinea Dellin-
ger – «anche della rilessione sul proprio carattere normativo, e
inoltre non conduce a una posizione extramorale in senso ampio,
ma reitera soltanto la problematica abbozzata»30. Per tale riles-
sione si ricorrerà, secondo la regola interpretativa del «principio
di carità», a quell’euristica che lo stesso «Tentativo» sviluppa: la
sintomatologia.

29 J. Dellinger, Zwischen Selbstaufhebung und Gegenlehre, cit., p. 65.


30 Ivi, p. 71.
Il «Tentativo di autocritica» 89

Tale meta-utilizzo della sintomatologia mostra quanto sia am-


pia la portata delle dimensioni autoreferenziali nel «Tentativo di
autocritica». Ciò, infine, è dimostrabile sulla base di due passaggi
tratti dal settimo e ultimo paragrafo, che si apre con una presun-
ta critica esterna alla prima edizione della Nascita della tragedia.
Il passo è introdotto da una quadratura che, in considerazione
del contenuto, può essere interpretata come marcatura di un di-
scorso diretto igurato. Quest’ultimo suona così:

– Ma, caro signore, che cos’è mai il romanticismo, se non è romanti-


co il Suo libro? Si può spingere l’odio profondo contro l’«epoca attua-
le», la «realtà» e le «idee moderne» più in là di quanto è stato fatto nella
Sua metaisica d’artista? – che preferisce credere al nulla, credere al
diavolo che all’«oggi»? Non brontola un basso fondamentale di collera
e di voluttà distruttiva sotto tutta la Sua contrappuntistica arte delle
voci e seduzione delle orecchie, una furiosa risolutezza contro tutto
ciò che è «oggi», una volontà che non è troppo lontana dal nichilismo
pratico, e che sembra dire «meglio che nulla sia vero, piuttosto che voi
abbiate ragione, che la vostra verità abbia ragione!»?

Anche questa auto-caratterizzazione in forma di etero-carat-


terizzazione possiede quel valore poesiologico autoreferenziale
che caratterizza la prefazione nel suo complesso. Inine, essa
stessa è molto più fortemente caratterizzata dall’«odio profon-
do contro l’‚epoca attuale‘, la ‚realtà‘ e le ‚idee moderne‘» che
non il libro che introduce, con l’importante differenza, tuttavia,
che questo «odio» non è più espressione di una «metaisica da
artisti», ma della «controdottrina e controvalutazione» artistica
del dionisiaco ricostruita in precedenza31. La sua forma di rap-
31 Molder interpreta il dionisiaco come metafora della condizione di bisogno del

narratore autodiegetico della prefazione. Il fondamento di questa interpretazione è quel


passo del terzo paragrafo della Nascita della tragedia in cui l’io narrante rimanda ai propri
bisogni «ancora senza nome», che avrebbero inluenzato la prima edizione (cfr. F. A.
Molder, The Limits of Language, cit., p. 267). Contro tale conclusione parla: 1) il fatto che
nella stessa frase del terzo paragrafo del «Tentativo», in cui si parla dei bisogni, il narrato-
re stesso ricorda che per lui già allora «il nome di Dioniso [sta scritto su di essi] come un
ulteriore punto interrogativo», e dunque qui i bisogni e il dionisiaco non coincidono; 2)
il fatto che, come si è mostrato, la condizione di bisogno del narratore autodiegetico cor-
90 Axel Pichler

presentazione, caratteristica del «Tentativo» stesso, è descritta in


modo molto appropriato nella formula della «contrappuntistica
arte delle voci». Inoltre la prefazione, sulla base della suddet-
ta arte, non sembra più solo muoversi lontano «dal nichilismo
pratico», ma piuttosto, nel vero senso della parola, palesereb-
be quest’ultimo nella cosiddetta «perversità di sentimento», la
cui costellazione di base consiste nel fatto che i valori una volta
supremi sono divenuti senza valore e sono stati rimpiazzati da
temporanee «valutazioni» che corrispondono alla condizione di
bisogno del narratore. Si pone pertanto la questione se anche la
prefazione stessa non sia espressione di una determinata forma
di «romanticismo».
Una risposta affermativa a tale questione è offerta da quel pas-
so del paragrafo in cui il testo sviluppa una posizione contraria
al pessimismo romantico e alla sua «arte della consolazione me-
taisica». Alla domanda se tale romanticismo sia ancora necessa-
rio, il testo risponde come segue: «No! Dovreste prima imparare
l’arte della consolazione dell’al di qua, – dovreste imparare a ri-
dere, miei giovani amici, sempre che voi vogliate assolutamente
rimanere pessimisti; forse in seguito, come ridenti, un bel gior-
no manderete al diavolo ogni consolazione metaisica – con la
metaisica avanti!» Anche una «consolazione dell’al di qua» è
pur sempre una consolazione, e pertanto anche espressione del
romanticismo alternativo, postmetaisico del «signor pessimista
e divinizzatore dell’arte» che domina la prefazione.
Essa stessa è, come si è appena dimostrato, molto meno rife-
rita all’effettivo contenuto del libro che la segue di quanto non
lasci pensare la ricerca che si confronta con esso. Al contrario,
la tematica del «primogenito» di Nietzsche nel «Tentativo di
autocritica» serve solo come sfondo per lo sviluppo e la realiz-
zazione di quella problematica autoreferenziale che, in quanto
stratagemma fondamentale della «controdottrina e controvaluta-

risponde formalmente alla «perversità di sentimento»; 3) che il dionisiaco non descrive


una condizione di bisogno ma un processo apparentemente ininito. Sulla coincidenza di
questo processo con la descrizione del dionisiaco nel Crepuscolo degli idoli e nella prassi
letteraria qui realizzata si veda A. Pichler, Philosophie als Text, cit., pp. 306-325.
Il «Tentativo di autocritica» 91

zione» artistica e anti-morale del dionisiaco, caratterizza questo


testo e gli scritti tardi di Nietzsche nel loro complesso, cosa che
autorizza a deinire il «Tentativo di autocritica» come uno dei
luoghi centrali dell’autorilessione poesiologica di questa forma
del ilosofare.

Traduzione di Maria Elisa Dimino


«È diventato filologia quello che era
filosofia?»
Composizione e Wirkungsgeschichte delle
Lezioni di retorica

Annamaria Lossi

Il sommo poiché ineffabile si può esprimere solo allegoricamente


Friedrich Schlegel, Dialogo sulla poesia

1. Gli ‚scritti ilologici‘

Tra gli scritti cosiddetti ilologici devono essere annoverate


le lezioni che Nietzsche tenne tra il 1869 e il 1879 a Basilea in
veste di giovane professore di ilologia classica. La storia di tali
lezioni è stata caratterizzata, in generale, per un lungo periodo
da un più che scarso interesse da parte degli studiosi1. I motivi di
questo disinteresse sono molteplici, essenzialmente riconducibi-
li al fatto che, dopo la pubblicazione della prima edizione per
l’editore Kröner, avvenuta solo nel 1910-13, tali lezioni si alline-
avano con quei lavori considerati minori e senza rigore scientii-
co e che addirittura portavano l’autore Nietzsche a conclusioni
erronee2. Gli stessi curatori dell’edizione dei Philologica, Ernst
Holzer, Otto Crusius e Wilhelm Nestle, che raccolsero in tre
volumi questi scritti secondari in maniera selettiva3, ne fanno
esplicita menzione.

1 Su questo E. Schaffer, Philosophie und Philologie bei Nietzsche. Neuere Tenden-

zen der Nietzsche-Forschung, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft


und Geistesgeschichte», 71/4 (1997), pp. 635-664.
2 E. Howald, Nietzsche und die klassische Philologie, Perthes 1920.
3 Philologica, Bd. XVII, III Abteilung, Nieztsches Werke, 1894-1926, Leipzig 1910-

1913.
94 Annamaria Lossi

Tale idea andava di conserva con un’altra: la cosiddetta ‚fase


ilologica‘ di Nietzsche era ritenuta molto breve e totalmen-
te superata da quella più propriamente ilosoica. Era lo stesso
mondo della ilologia ad aver screditato fortemente la igura del
Nietzsche ilologo, a partire dal giudizio di Wilamowitz-Möllen-
dorf sulla Nascita della tragedia4. Nietzsche aveva avvertito chia-
ramente l’esigenza di un rinnovamento dell’approccio ilologico
e ne dette prova con il suo primo libro. Ma il giudizio fortemente
negativo ricevuto dai colleghi ha conseguenze anche sull’attività
didattica di Nietzsche, i cui corsi saranno disertati dagli studenti.
Dopo l’edizione dei Philologica (Bde XVII-XIX, Dritte Abtei-
lung Bde I-III dei Nietzsches Werke, a cura di E. Holzer, O. Cru-
sius, W. Nestle, Leipzig 1910-1913, detti Grossoktavausgabe), le
Lezioni vennero ripubblicate nell’edizione dei Gesammelte Wer-
ke (Bde II, IV, V, a cura di R. Oehler, M. Oehler, E. Würzbach,
München 1920-1922, nota come Musarion-Ausgabe). Inine, la
loro edizione completa ha trovato pubblicazione nella collana
curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, uscita per l’edi-
tore de Gruyter di Berlino negli anni Novanta. Essa comprende
4 degli ultimi 5 volumi della seconda parte dei Nietzsche Werke.
Kritische Gesamtausgabe (KGW)5. Le Lezioni non sono tuttavia
presenti nell’altra edizione tedesca, la Kritische Studienausgabe
(KSA), uscita sempre per de Gruyter. I materiali presenti nella
KGW appaiono come le trascrizioni dei manoscritti e sono stati

4 Per un’interpretazione del riiuto di Wilamowitz cfr. E. Schaffer, Philosophie und


Philologie bei Nietzsche, cit., pp. 640 s. La nota disputa è stata ricostruita nel 1983 da
W. M. Calder III, The Wilamowitz-Nietzsche struggle: New documents and reappraisal,
in «Nietzsche-Studien», 12 (1983), pp. 214-254. Nietzsche vive amaramente i giudizi sul
suo primo libro come comunica in varie lettere tra l’ottobre 1872 e il 1874, ad esempio
quando scrive a Malwida von Meysenbug nel novembre 1872: «Con la mia Nascita della
tragedia sono riuscito a diventare il ilologo più scandaloso del giorno, e chi si impegna
per me compie un vero e proprio miracolo di temerarietà, dato che tutti sono d’accordo
nel pronunciare la mia condanna» (Nr. 240, KSB 4, p. 81; E Vol. II, p. 385).
5 L’edizione italiana delle Lezioni è in corso di pubblicazione, per l’editore Adelphi

di Milano, nella collana delle Opere di Friedrich Nietzsche sotto il titolo Lezioni universi-
tarie e studi ilologici 1874-1878 di Friedrich Nietzsche, Vol. II, Tomo I e II. Le citazioni
saranno tratte dalla versione italiana delle Lezioni, ancora in fase di correzione, e riporte-
ranno tra parentesi solo il riferimento alla edizione tedesca dei KGW II/4.
Composizione e Wirkungsgeschichte 95

pubblicati nella loro interezza per la prima volta nel 1993-1995,


a cura di Fritz Bornmann e Mario Carpitella6. Le note ai corsi,
nei volume II-V, sebbene riportino le parti aggiuntive di lezioni
ripetute e/o poi ampliate da Nietzsche e rechino le trascrizioni
di tutte le lezioni, mancano del tutto degli apparati e delle tavole
delle fonti.
La dificoltà di un’edizione completa di questi scritti risiede
nel carattere di annotazione che presentano. Siamo di fronte ad
un corpus di appunti costituito da rilessioni, esempi e citazio-
ni spesso lasciate implicite, senza riferimenti, con abbreviazio-
ni, traduzioni in greco e latino del professore Nietzsche. Questi
scritti appaiono disomogenei, il più delle volte privi di rielabora-
zione, promemoria di citazioni ed esempliicazioni. Essi non fu-
rono pensati per alcuna pubblicazione, ma per istruire i giovani
allievi del Pädagogium e gli studenti di lettere classiche.
Tuttavia, anche ad una prima lettura, la disomogeneità può ri-
velarsi proicua, il primo tratto saliente di un insieme che assume
una sua isionomia. Non per tutte le Lezioni è possibile rintrac-
ciare una vera Wirkungsgeschichte, anche per i motivi accennati;
né avviare un percorso rilevante di interpretazione. Alcune però,
come quelle sulla retorica, si presentano più elaborate rispetto
ad altre, articolate in paragrai, con citazioni frequentissime sullo
stesso tema, come ad esempio i tropi, o derivanti da autori diver-
si, quasi un reading ante litteram, in cui una sorta di pensiero più
ampio accompagna e dà senso all’esempliicazione permettendo
una rilessione che interessa il confronto con gli scritti degli stessi
anni o anche con i pensieri di molti anni dopo.
Il primo passo per l’interpretazione delle Lezioni è il lavoro
essenziale sulla ricerca e l’utilizzo delle fonti. Impresa non sem-
plice se si pensa che Nietzsche solo sporadicamente menziona la
fonte a cui attinge, alcune volte la mette in nota, ma nella mag-

6 «Il perché questi scritti ilologici di Nietzsche siano rimasti totalmente ignorati

ino a questo momento dalla Nietzsche-Forschung e siano stati pubblicati interamente


soltanto adesso [nell’edizione Colli-Montinari, A. L.], rimanda ad un tragico capitolo
della storia della cultura tedesca, la cui vittima è stata il ilologo classico Nietzsche», E.
Schaffer, Philosophie und Philologie bei Nietzsche, cit., p. 640 (traduzione mia).
96 Annamaria Lossi

gior parte dei casi non vi accenna neppure. La comprensione


di questi scritti sulla retorica antica e l’eloquenza classica passa
quindi per un’analisi e una precisa catalogazione delle loro fonti.
Come per le opere e per il lascito, anche nel caso delle Lezioni
risulta fondamentale seguire la via indicata e percorsa da Giorgio
Colli e Mazzino Montinari, e continuata nei decenni successivi,
improntata su questa ricerca7. A partire da questo studio ilolo-
gico l’interpretazione può andare a considerare tali Lezioni come
importante tassello all’interno del corpus nietzscheano. Una volta
ricostruita l’intertestualità è possibile trovare la via della propria
creatività interpretativa.
La retorica costituisce un argomento fondamentale nello stu-
dio del linguaggio e delle sue funzioni. Saper parlare signiica
anzitutto sapere che le parole hanno un proprio potere che è
tanto grande quanto lo è la forza della loro capacità persuasiva.
Questo argomento affascina Nietzsche da ilologo e ilosofo, e fa
della retorica un oggetto non solo di lezione e di interesse teori-
co, costituendo un vero e proprio Leitmotiv della sua rilessione
estetico-ilosoica sul linguaggio e sullo stile, ma anche pratico,
nell’oficina della sua scrittura ilosoica. Sebbene le lezioni di re-
torica non costituiscano un’opera a sé, né segnino un traguardo
della ricerca, ma si inseriscano in un contesto più ampio di lavoro
teorico-ilosoico e di scrittura, è senz’altro vero che in esse è
rintracciabile l’inizio di uno sviluppo concettuale che interessa
il linguaggio e alimenta l’interesse di Nietzsche per i temi esteti-
co-stilistici8. È preparando queste Lezioni che Nietzsche scopre
7 A testimonianza di questo successo, basti ricordare che le Nietzsche-Studien con-
tengono una sezione dedicata esclusivamente ai Beiträge zur Quellenforschung.
8 Alcuni studi sulla retorica in Nietzsche negli anni passati hanno intessuto varie

interpretazioni a partire dalla teoria di tropi e dall’uso delle fonti. Alcuni dei più signiica-
tivi sono stati: „Unsere ganze Philosophie ist Berichtigung des Sprachgebrauchs“. Friedrich
Nietzsches Lichtenberg-Rezeption im Spannungsfeld zwischen Sprachkritik (Rhetorik) und
historischer Kritik (Genealogie), München 1996; E. Behler, Nietzsches Studium der Rhe-
torik nach der KGW, in «Nietzsche-Studien», 27 (1998), pp. 1-12; le monograie intera-
mente dedicate: A. Kremer-Marietti, Nietzsche et la rhétorique, Paris 2007; P. de Man,
Allegories of Reading, Yale University Press 1979. Per una disamina estetico-storica di tali
studi, cfr. L. Ellrich, Rhetorik und Metaphysik. Nietzsches „neue“ ästhetische Schreibweise,
in «Nietzsche-Studien», 33 (2004), pp. 241-276.
Composizione e Wirkungsgeschichte 97

la differenza della retorica greca e romana, è qui che individua


l’origine delle differenze culturali tra l’antichità e la modernità
basate sul passaggio dall’oralità alla scrittura, è in quegli anni che
studia la ritmica e la poesia. La ricerca linguistico-estetica che
si origina dai primi anni Settanta sfocerà nel Nietzsche maturo
in una vera e propria narratologia9, rintracciabile ino alle opere
e nei componimenti poetici degli anni Ottanta. Esse mostrano
come sia in atto un’assidua rielaborazione narrativo-ilosoica,
sottopongono il testo ilosoico, inteso come oggetto letterario
per eccellenza nelle mani di Nietzsche, a continue trasformazio-
ni e rielaborazioni. Lo stesso progetto di una trasvalutazione di
tutti i valori, come è noto, subisce – non in ultimo nella forma
testuale – delle mutazioni fondamentali portando alla creazio-
ne nel 1888 di quattro delle opere più signiicative all’interno
del complesso quadro teorico del ilosofo di Röcken. Risultato a
posteriori estremo è lo stesso Ecce homo, che scardina le regole
narrative dell’autobiograia intellettuale come genere e dà vita ad
un romanzo ilosoico di formazione dello scrittore Nietzsche10.
Con un’immagine è forse rovesciabile l’idea per cui «è diventato
ilosoia ciò che era ilologia»11? Andiamo con ordine.

2. Il contesto delle Lezioni di Basilea

Nietzsche fu chiamato nel 1869, alla giovanissima età di 24


anni, alla cattedra di Griechische Sprache und Literatur a Basi-
lea, insegnando parallelamente letteratura antica per sette anni
anche al Pädagogium di Basilea, dove preparava gli alunni del-
le classi superiori del Gymnasium all’università. Nietzsche ma-
9 Cfr. la raccolta: C. Zittel e A. Lossi (a cura di), Nietzsche scrittore. Saggi di estetica,
narratologia, etica, Nietzscheana 23, Pisa 2014.
10 Cfr. A. Lossi, Autobiograia e narrazione ilosoica del sé in Friedrich Nietzsche,

Milano 2013.
11 Si tratta della celebre conferenza di M. Riedel «Zur Philosophie geworden ist,

was Philologie gewesen ist», tenuta in occasione del congresso nietzscheano del 1994 a
Naumburg, poi pubblicata nella raccolta a cura di M. Riedel, Jedes Wort ist ein Vorurteil.
Philologie und Philosophie in Nietzsches Denken, Köln/Weimar 1999.
98 Annamaria Lossi

nifesta da subito una certa insoddisfazione a Basilea. All’inizio


del 1871 chiede infatti il trasferimento alla cattedra di ilosoia,
che però gli viene negato nonostante la disponibilità del posto.
Questi sono gli anni di una buona produttività, della nascita di
opere che Nietzsche pubblica (e ripubblica con nuove prefazioni
e modiiche) in vita12.
Nietzsche rimase professore universitario ino al semestre in-
vernale 1878/1879, con una pausa per problemi di salute tra il
febbraio 1876 e il settembre 1877. La lista completa dei corsi
nietzscheani è stata oggetto di studio, di cui ha dato conto Curt
Paul Janz in un ampio articolo apparso nelle Nietzsche-Studien
del 1974, in cui ne ricostruisce la storia a partire dai primi inter-
preti13. La rendicontazione proposta da Janz può dirsi comples-
siva perché esamina una per una le lezioni tenute – o annunciate
almeno sulla carta – sia al Pädagogium che all’università14. Nel
lungo lavoro accademico spicca sostanzialmente l’interesse di
Nietzsche per Platone e per i ilosoi preplatonici, quanto per
gli autori e gli oratori greci e romani, nonché per il linguaggio
antico e la ritmica. La retorica ha un posto rilevante: in una let-
tera all’amico Gersdorff scrive Nietzsche: «Per il momento non
12 La serie delle quattro Inattuali (1873-76), dopo il iasco della Nascita della tragedia
del 1872, testimoniano la ricerca di una nuova forma espressiva per la ilosoia critica,
la ricerca di una forma di scrittura ilosoica quanto meno nuova; le due parti di Umano
troppo umano (1878-79) sono testi ilosoici innovativi dal punto di vista della composi-
zione: il sottotitolo, Un libro per spiriti liberi, già nella prima edizione dedicata a Voltaire
e che esce proprio nel centenario dalla morte, annuncia una libertà del pensiero che
aspira ad esprimersi svincolandosi dal linguaggio del concreto e si struttura su una serie
di aforismi raggruppati per tematiche. Ma anche gli scritti, non pubblicati in vita, come
La ilosoia all’epoca tragica dei Greci e l’intenso e studiatissimo Su verità e menzogna in
senso extra-morale, mostrano l’interesse per l’aspetto estetico del linguaggio, e attraverso
gli studi sulla retorica degli stessi anni, della tradizione retorica e del rapporto tra arte e
pensiero.
13 Cfr. C. P. Janz, Friedrich Nietzsches akademische Lehrtätigkeit in Basel 1869-1879,

in «Nietzsche-Studien», 3 (1974), pp. 192-204.


14 Sulle lezioni di Nietzsche a Basilea, cfr. anche: J. Stroux, Nietzsche Professor in

Basel, Jena 1925; R. Meister, Nietzsches Lehrtätigkeit in Basel 1869-1879, in «Anzeiger


der Österreichischer Akademie der Wissenschaften», Phil.-Hist. Klasse 85, (1948), pp.
103-121; e su Nietzsche insegnante liceale: H. Gutzwiller, Friedrich Nietzsches Lehrtätig-
keit in Basler Pädagogium, in «Basler Zeitschrift für Geschichte und Altertumskunde»,
50 (1951), pp. 148-224.
Composizione e Wirkungsgeschichte 99

aspettarti da me niente di letterario. Ho molto da preparare per


il mio corso estivo e lo faccio molto volentieri (sulla retorica)»
(KGB II/3, p. 215; E Vol. II, p. 518). Dei 4 corsi di retorica pro-
posti, esistono i manoscritti e una traduzione manoscritta della
Retorica di Aristotele15.
Le edizioni delle lezioni non sono testi veri e propri, ma schiz-
zi, schemi di lezione che talvolta sono stati trascritti solo in parte
da Nietzsche. Secondo Holzer, solo per le ultime lezioni è lecito

15 Dei corsi totali, sia all’università che al Pädagogium, Janz individua il seguente

elenco ordinato:
– SS 1869 Quellenkunde der griechischen Literaturgeschichte […]
– WS 1869/70 Lateinische Grammatik. Vorplatonische Philosophen[…]
– SS 1870 Sophokels Oedipus rex, Hesiod Erga, Seminar Cicero Academica […]
– WS 1870/71 Geschichte des griechischen Epos, seminario sul I libro di Quintiliano […]
(annunciato, ma mai tenuto)
– SS 1871 Einleitung in das Studium der klass. Philologie, Quintilian I. Buch (annunciato,
non si sa se davvero tenuto)
– WS 1871/72 Einführung in das Studium der platonischen Dialoge. Dialogus de ora-
toribus [di Tacito. Si tratta del Dialogus de oratoribus (Dialogo sugli oratori o Dialogo
sull’oratoria), breve opera attribuita a Publio Cornelio Tacito, scritta in forma di dialogo,
sull’arte della retorica. Non si conosce la data della sua stesura, anche se la dedica a Fa-
bius Iustus la pone attorno al 102] (annunciato, non si sa se davvero tenuto) Seminario
su Esiodo […]
– SS 1872 Aeschylos Choephoren. Die vorplatonischen Philosophen […]
– WS 1872/73 Rhetorik der Griechen und Römer. Über Homer und die sog. homerische
Frage […]
– SS 1873 Die ältern griech. Philosophen bis Platon. Hesiod Erga […] [presumibilmente
lo stesso della Storia dell’eloquenza greca (Nachlass P II, 13c, 230-148)]
– WS 1873/74 Einführung in das Studium der klass. Philologie. Über Platons Leben und
Schriften […]
– SS 1874 Darstellung der antiken Rhetorik
– WS 1874/75 Geschichte der griech. Literatur I. Erklärung von Aristoteles’ Rhetorik […]
– SS 1875 Geschichte der griech. Literatur II. Aristoteles’ Rhetorik (continuazione) […]
– WS 1875/76 Geschichte der griech. Literatur III. (Schluss) Altertümer der religiosen Cul-
tur der Griechen […]
– SS 1876 Die vorplatonischen Philosophen. Über Platons Leben und Lehre […]
– WS 1876/77 e SS 1877 nessun corso. Nietzsche trascorre l’inverno 76/77 a Sorrento e
poi è a Bad Ragaz.
– WS 1877/78 Aeschylos Choephoren. Rhetorik des Aristoteles […]
– SS 1878 Hesiod Erga. Platon Apologie […]
– WS 1878/79 Ausgewählte Fragmente der griech. Lyriker. Thukydides […]
– SS 1879 Die griech. Philosophen vor Platon. Einleitung in die griech. Beredsamkeit […]
Per l’elenco completo cfr. C. P. Janz, cit., pp. 196-203.
100 Annamaria Lossi

parlare di «erste Niderschriften», prime trascrizioni, mentre per


le prime Nietzsche si appuntava solo delle parole chiave, che poi
ampliava oralmente per gli studenti16.
Il Volume II, Tomo 2 delle Opere di Friedrich Nietzsche ospita
le seguenti lezioni: Storia dell’eloquenza greca, Presentazione del-
la retorica antica e l’Appendice. Schizzo della storia dell’eloquen-
za, tutti corsi contenuti nel volume KGW II/4. La costituzione
dei primi due corsi, datati rispettivamente al semestre invernale
1872/73 e al semestre estivo 1874, è pressoché identica dal pun-
to di vista dell’utilizzo delle fonti manualistiche. Il corso di Sto-
ria dell’eloquenza greca attinge dai tre volumi di Friedrich Blass
Die attische Beredsamkeit [Erste Abtheilung: Von Gorgias bis zu
Lysias, Leipzig 186817]; il secondo [Zweite Abtheilung: Isokrates
und Isaios, Leipzig 187418]; e inine il terzo [Dritte Abtheilung.
Erster Abschnitt: Demosthenes, Leipzig 187719]. Così come il
manuale di Anton Westermann Geschichte der Beredsamkeit in
Griechenland und Rom (Leipzig 1833-1835). Per il corso sulla
Presentazione della retorica antica Nietzsche ha utilizzato i se-
guenti testi: Gustav Gerber, Die Sprache als Kunst (Bromberg
1871), d’ora in poi citato come: SK I) e SK II), e il manuale di
Richard Volkmann, Die Rhetorik der Griechen und Römer in sy-
stematischer Uebersicht dargestellt, (H. Ebeling & C. Plahn, Ber-
lin 1872).
L’uso dei manuali non rappresenta una novità nella composi-
zione di lezioni universitarie di questo tipo. Prima di Nietzsche
Wilhelm Wackernagel20 ne aveva tenuti, così come altri colleghi
coevi di Nietzsche. La retorica veniva solitamente trattata e in-
tegrata nei dipartimenti di ilosoia e letteratura antica afiancata

16 Cfr. E. Holzer, Nietzsches Werke, Bd. I, p. IX.


17 Acquistato da Nietzsche nel 1875, cfr. Nietzsches persönliche Bibliothek, a cura di
G. Campioni, P. D’Iorio, M. C. Fornari, F. Fronterotta, A. Orsucci, con la collaborazione
di R. Müller-Buck, Berlin/New York 2003 (d’ora in poi citata con NPB), p. 143.
18 Ibid., copia acquistata da Nietzsche nel 1875.
19 Non si trova in NPB.
20 Wilhelm Wackernagel, germanista, insegnò a Basilea dal 1837. È autore del Deut-

sches Lesebuch (1835-43), cui seguirono la Geschichte der deutschen Literatur (1848-55) e
l’Altdeutsches Wörterbuch (1861).
Composizione e Wirkungsgeschichte 101

dalla poetica e dall’estetica. Nietzsche sceglie quindi un tema non


nuovo, seguendo una consuetudine accademica diffusa all’epo-
ca. Anche la scansione dei capitoli di tali manuali veniva seguita
quasi alla lettera nelle Lezioni. I lunghi estratti, Exzerpte, le cita-
zioni in lingua greca o latina direttamente derivanti dai manuali,
le traduzioni personali di Nietzsche di passi latini o greci che
venivano riportati molto probabilmente a memoria, sono tipici
modelli di queste Lezioni. I corsi di Nietzsche avevano tuttavia
una scarsa afluenza, cosa di cui lo stesso Nietzsche si lamenta.
La lezione sulla Presentazione della retorica antica (contenuta
in KGW II/4, pp. 415-502, trascrizione del quaderno P II, 13c,
230-148) non si discosta da questi modelli didattici. La sua lettu-
ra impone un primo lavoro di decifrazione per tornare a capire
le fonti di Nietzsche, ovvero individuare i manuali storico-lin-
guistici e di storia della retorica antica massicciamente presenti
nella composizione delle Lezioni. Uno dei primi e accurati studi
delle fonti nietzscheane è opera di Mejers e Stingelin21, che in
particolare hanno indagato il rapporto con l’opera in due volumi
di Gustav Gerber Die Sprache als Kunst, che fornisce materiale
fondamentale per il corso sulla retorica del semestre estivo del
1874. Erano programmati anche altri due corsi che però non si
tennero, vista la scarsa afluenza degli studenti. Anche la Presen-
tazione pare abbia avuto solo due uditori, uno studente iscritto
a letteratura tedesca e uno alla facoltà di legge. Nessun ilologo
classico. Nietzsche comprende questa mancanza di interesse alle
sue lezioni come segno del risultato di un boicottaggio dovuto
alla cattiva ricezione del suo libro sulla nascita della tragedia.
Tale corso fornisce nondimeno le prime chiavi di lettura della
critica del linguaggio che Nietzsche sviluppa in questi anni. Per
comprendere lo sviluppo di questa lezione, è interessante ana-
lizzare l’uso delle fonti che Nietzsche di fatto impiega nelle Le-
zioni. Il corso unisce l’aspetto storico-ilologico alla tradizione
21 A. Meijers, M. Stingelin, Konkordanz zu den wörtlichen Abschriften und Übernah-
men von Beispielen und Zitaten aus Gustav Gerber Die Sprache als Kunst (Bromberg
1871) in Nietzsches Rhetorik-Vorlesungen und in Über Wahrheit und Lüge in aussermo-
ralischen Sinne, in «Nietzsche-Studien», 17 (1988), pp. 350-368.
102 Annamaria Lossi

della ilosoia del linguaggio22. In particolare, per questo corso


Nietzsche aveva consultato, oltre a Volkmann, l’articolo di Leo-
nard Spengel Die Deinition und Einleitung der Rhetorik bei den
Alten (in: «Rheinisches Museum für Philologie», 18 [1863]), lo
scritto di abilitazione di Rudolf Hirzel Über das Rhetorische und
seine Bedeutung bei Plato, (Leipzig 1871) e l’opera di Gustav
Gerber Die Sprache als Kunst (1871/1872), destinata a portare
degli sviluppi circa la concezione del linguaggio in Nietzsche.
Recentemente César Guarde-Paz ha rimandato al grande ruolo
dell’opera di Richard Volkmann per la composizione delle Lezio-
ni sulla retorica. Ma già Otto Crusius nella Grossoktavausgabe23,
Jean-Luc Nancy e Philippe Lacoue-Labarthe nella prima tra-
duzione francese dei primi sette paragrai dell’edizione di Cru-
sius24, nonché Glenn Most e Thomas Fries in Die Quellen von
Nietzsches Rhetorik-Vorlesung25, ne avevano argomentato l’indi-
scutibile rilevanza. Most e Fries non riportano tuttavia tutte le
citazioni derivanti da Volkmann, un lavoro di completamento
proposto da César Guarde-Paz26. L’uso frequente di Volkmann
differisce dall’uso, altrettanto costante, dei volumi di Gerber.
Entrambe le fonti si rivelano tanto fondamentali quanto diver-
se: nel suo articolo Nietzsche über Sprache und Sprechen, über
Wahrheit und Traum, Gerold Ungeheuer sottolinea «l’enorme
inlusso» che ha esercitato Gerber sulla concezione linguistica di

22 G. Most/ Th. Fries, Die Quellen von Nietzsches Rhetorik-Vorlesung, in T. Borsche,

F. Gerratana, A. Venturelli (a cura di), „Centauren-Geburten“. Wissenschaft, Kunst und


Philosophie beim jungen Nietzsche, Berlin/New York 1994, pp. 17-46. Ripubblicato in
inglese, in versione ridotta, con il titolo The Sources of Nietzsche’s Lectures on Rhetoric, in
Nietzsche as Scholar of Antiquity, ed. by K. Jensen and H. Heit, London et al. 2014, pp.
53-74, qui p. 56.
23 O. Crusius, GOA XVIII, p. 333.
24 J.-L. Nancy- J. Lacoue-Labarthe, Friedrich Nietzsche, Rhétorique et langage, in

«Poétique», 5 (1971), pp. 99-142.


25 Cfr. nota 22.
26 C. Guarde-Paz, Nachweise aus Richard Emil Volkmann, Die Rhetorik der Griechen

und Römer in systematischer Übersicht (1872), in «Nietzsche-Studien», 41 (2012), pp.


371-376.
Composizione e Wirkungsgeschichte 103

Nietzsche27. L’opera di Richard Volkmann ha invece il gran me-


rito di presentare in visione sistematica, come recita il sottotitolo
del suo manuale, non solo una carrellata della retorica antica nel-
la sua totalità, ma anche le prove dell’inluenza che una tale disci-
plina ha avuto sugli autori antichi. Il libro, scritto nella seconda
metà del 1861, ma poi rivisto e ampliato nel 1872, conferma la
centralità della institutio oratoriae di Quintiliano per comprende-
re il signiicato della retorica per l’antichità. Nietzsche attinge e
cita dagli esempi di Volkmann nelle Lezioni, seguendo un ordine
diverso da quello proposto da Volkmann anche nella scansione
dei capitoli: sono la terza, poi la prima e seconda parte ed inine
la quarta e quinta ad essere ampliamente citate in tutta la lezione.
Il signiicato del denso manuale è sottolineato anche da Ernst
Behler, che ha evidenziato che da Die Rhetorik der Griechen und
der Römer Nietzsche ha tratto le informazioni sugli «aspetti sto-
rici e disciplinari della retorica classica»28, mentre l’opera che
fornì materiale alla «teoria dei tropi e sul carattere metaforico del
linguaggio»29 è stata quella di Gustav Gerber.
La rilevanza di Gerber, infatti, non è solo ilologica, ma getta
le basi per la rilessione ilosoica sul linguaggio. Andare a scopri-
re la ilosoia del linguaggio di Gerber, che concepisce quest’ul-
timo come arte, signiica concepire la retorica come ambito che
eccede l’interesse storico-ilologico. Nietzsche propone quindi
un corso improntato sì sullo studio classico della retorica, ma per
il quale sarebbero bastati Volkmann e Spengel. Nietzsche attin-
ge invece dall’opera Die Sprache als Kunst contagiando per così
dire i suoi studenti con la ilosoia (post-romantica) del linguag-
gio che Gerber descriveva nei due volumi della sua opera. La

27 G. Ungeheuer, Nietzsche über Sprache und Sprechen, über Wahrheit und Traum, in

«Nietzsche-Studien», 12 (1983), pp. 134-213, qui pp. 185 s., note 76 e 78.
28 E. Behler, Nietzsches Sprachtheorie und der Aussagecharakter seiner Schriften, in

«Nietzsche-Studien», 25 (1996), pp. 64-86.


29 E. Behler, Tradizione romantica e decostruzione nella ilosoia del linguaggio del gio-

vane Nietzsche, in La biblioteca ideale di Nietzsche, a cura di G. Campioni, A. Venturelli,


Napoli 1992, qui p. 114.
104 Annamaria Lossi

seguente tabella fornisce, a titolo esempliicativo30, la frequenza


insistente delle citazioni tratte da Gerber31, spesso rimaste impli-
cite nel testo della lezione.

Numero pagina Sezione di Testo Numero pagina


KGW fonte: Gerber, SK I

p. 416 Kant ne parla nel modo più chiaro nella Critica della capacità p. 70
di giudizio, p. 203: «Le arti della parola sono l’oratoria e
l’arte della poesia. L’oratoria è l’arte di trattare un impegno
dell’intelletto come un libero gioco dell’immaginazione; l’arte
della poesia, di eseguire un libero gioco dell’immaginazione
come un impegno dell’intelletto. L’oratore dunque annuncia un
impegno e lo esegue come se fosse solo un gioco con idee, per
intrattenere gli ascoltatori. Il poeta annuncia solo un gioco con
idee come intrattenimento e ne viene però fuori così tanto per
l’intelletto come se egli non avesse avuto altro intento che di
sollecitarne l’impegno».

p. 416 Platone odia profondamente la retorica: la caratterizza come p. 75


un’abilità ejmpeiriva cavritov" tino" kai; hJdonῆ" ajpergasiva"
[una di quelle pratiche che producono solo attrattiva e piacere]
e la mette insieme all’arte della cucina ojyopoiikhv, della
cosmetica e alla soistica della kolakeiva [adulazione] (Gorgia,
463)

p. 426 non restituisce sensazioni, ma solo copie delle sensazioni p. 159

30 Una tavola di tutte le fonti utilizzate da Nietzsche in questa e nelle altre lezioni
è presente nell’edizione italiana di prossima pubblicazione: Lezioni universitarie e studi
ilologici 1874-1878 di Friedrich Nietzsche, Vol. II, Tomo II, Milano 2017.
31 La conoscenza di Gerber induce a ripensare anche la datazione della composi-

zione del corso sulla retorica. Nietzsche prende in prestito il testo Die Sprache als Kunst
(1871/1872) il 28 settembre 1872, in particolare il primo dei due volumi, dalla biblioteca
dell’università di Basilea. Cfr. L. Crescenzi, Verzeichnis der von Nietzsche aus der Uni-
versitätsbibliothek in Basel entliehenen Bücher (1869-1879), in «Nietzsche-Studien», 23
(1994), pp. 388-439. Il corso sulla Presentazione non poteva essere proposto prima del
semestre invernale 1872/73, visto lo studio che sta dietro a Gerber. Bornmann ha datato
questa lezione semestre estivo 1874. Cfr. F. Bornmann, Zur Chronologie und zum Text der
Aufzeichnungen von Nietzsches Rhetorikvorlesungen, in «Nietzsche-Studien», 26 (1997),
pp. 491-500. La lettura di Gerber, fondamentale per le lezioni di retorica, sarà anche alla
base della preparazione dello scritto del 1873 Su verità e menzogna in senso extra-morale.
Cfr. su questo S. Scheibenberger, Historischer und kritischer Kommentar zu Friedrich
Nietzsches Werke, Bd. 1/3, Berlin 2016.
Composizione e Wirkungsgeschichte 105

p. 426 la sensazione trova una rappresentazione verso l’esterno p. 157


attraverso un’immagine

p. 426 Ma ci si chiede allora come sia rappresentabile un atto p. 158


dell’anima attraverso l’immagine di un suono

p. 426 […] se ci deve essere una piena e precisa restituzione, il p. 159


materiale in cui viene restituita la sensazione non dovrebbe
essere lo stesso di quello in cui lavora l’anima? Dato che
è un materiale diverso – il suono – come fa a risultare più
appropriato di un’immagine?

p. 426 Non sono le cose ad entrare nella coscienza, ma il modo in cui p. 169
ci rapportiamo a loro, il piqanovn. L’essenza piena delle cose
non è mai colta ino in fondo. Le nostre esternazioni sonore
non attendono che noi giungiamo ad una nostra percezione ed
esperienza che ci garantiscono una conoscenza a tutto tondo
e in qualche modo dignitosa delle cose: le nostre esternazioni
avvengono nel momento in cui si percepisce lo stimolo

p. 426 Tutte le parole sono, tuttavia, in sé e dall’inizio dei tropi in p. 333


relazione al loro signiicato

p. 426 il linguaggio non esprime mai qualcosa completamente, bensì pp.


fa emergere soltanto una caratteristica che appare in esso 362 s.
saliente

p. 426 Questa è una sineddoche, si inserisce «un includere tutto pp.


insieme», e lo stesso accade quando si dice dravkwn, serpente, 365 s.
propriamente «colui/colei che coglie in modo brillante, al
volo», o serpens, che striscia; ma perché serpens non signiica
anche lumaca? Una percezione parziale si insinua al posto della
piena e totale intuizione

p. 427 I Latini deiniscono il serpente come constrictor con anguis, gli pp.
Ebrei come sibilante o colui che si contorce, che si intreccia, 367 s.
che striscia

p. 427 La seconda forma del tropo è la metafora. Non crea parole pp.
nuove, ma ne cambia il signiicato 367 s.

p. 427 Per esempio di una montagna si parla di capo, piede, ianco, p. 370
gola, venatura, vette

p. 427 provswpon volto, con newv" la parte davanti p. 371

p. 427 ceivlh, le labbra, con potamῶn le rive del iume, glῶssa la p. 372
lingua, anche l’imboccatura del lauto

p. 427 Mastov", petto, [vuol dire] anche collina p. 375


106 Annamaria Lossi

p. 427 La metafora si mostra nella designazione del genere, il genus in p. 375


senso grammaticale è un lusso del linguaggio e pura metafora

p. 427 Poi c’è la trasposizione dello spazio nel tempo nell’espressione p. 381
«a casa», «anno per anno»; dal tempo trasposto alla causalità,
qua ex re

p. 427 Hinc, [da qui], inde [quindi], oJvqen [donde], eij" tiv [in p. 382
relazione a ciò]

p. 427 Diciamo «la bevanda è amara» anziché «essa suscita in noi una p. 384
sensazione del genere»; «la pietra è dura» come se duro fosse
qualcosa di diverso dal giudizio nostro; «le foglie sono verdi»

p. 427 Rimanda alla metonimia l’afinità tra leuvssw [osservare, p. 385


tenere gli occhi su] e lux, luceo. Color (coperta) e celare. Mhvn
[misurare], mensis, mânôt è «colui che misura», deinito
secondo un effetto

p. 427 «signiicato proprio» che interverrebbe solo in casi speciali p. 386

p. 427 È altrettanto improprio parlare di una differenza tra le parole pp.


vere e proprie e i tropi, così come non ce n’è tra il discorso 391 s.
regolare e le cosiddette igure retoriche. A bene vedere tutto è
igurazione, anche ciò che chiamiamo discorso comune

p. 427 Il linguaggio viene creato dai singoli artisti del linguaggio, ma pp.
viene a stabilizzarsi con la scelta compiuta dal gusto dei molti. 412 s.
I pochi parlano schvemata, la loro virtus rispetto ai molti. Se
non riescono ad affermarsi, ecco che ognuno si rifa, nei loro
confronti, all’usus e parla di barbarismi e solecismi

p. 428 Una igura che non trova nessun divulgatore, diventa un errore. p. 413
Un errore assunto da un usus qualsiasi, diventa una igura

p. 428 La gioia dell’armonia vale anche per i rJhvtore", tav ijvsa p. 423
schvmata [le igure, le espressioni simili], si pensi ai parivswsi"

p. 428 Lutero si lamenta dei neologismi come «prendere a cuore, far p. 437
tesoro», o «giovevole»

p. 428 Sono penetrati nella lingua, come «temerario» a partire da cfr.


Simon Dach, «sensibile» a partire dalla traduzione del Viaggio p. 437
sentimentale di Yorick del 1768

p. 428 «Prudenza» come traduzione di circumspectio dal 1794; cfr.


«passione» da Christian Wolf da pathos [passione] p. 436
Composizione e Wirkungsgeschichte 107

p. 428 I barbarismi che vengono ripetuti spesso trasformano a lungo p. 413


andare la lingua: in tal modo si forma la koinhv glῶssa [il
linguaggio comune, cioè il greco], in seguito la bizantina
rJwmakh; glῶssa [la lingua dei romani, il greco al tempo dei
Romani] ed inine il greco nuovo completamente barbarizzato.
Chissà quanti barbarismi hanno contribuito a formare dal
latino le lingue romanze! E quanti barbarismi e solecismi sono
serviti per formare il tanto regolato Francese!

p. 429 1. Provsqesi" [aggiunta], per esempio Swkravthn anziché pp.


Swkravth, relliquiae come «adjectio litterae» [aggiunta 443 s.
di lettera]. 2. ajfaivresi" [sottrazione] JHermῆ anziché
JHermῆn, pretor per praetor come esempio di detractio litterae
[sottrazione di lettera]. 3. Ejnallagh;; per esempio: hjdunavmhn
per ejdunavmhn in quanto immutatio litterae: si litteram aliam
pro alia pronuntiemum ut arvenire pro advenire. 4. metavqesi"
[metatesi, inversione di una lettera]: drivfon per divfron,
trasmutatio litterae Evandre anziché Evander. 5. sunaloifh;;
oJ qavtero" anziché oJ eJvtero" in Menandro, in quanto la crasi
qavteron può darsi solo al neutro. 6. diaivresi" per esempio
Dhmosqevnea anziché Dhmosqevnh. 7. Kata; tovnon [Detrazione
d’accento], per esempio boulῶmai per bouvlomai. 8. Kata;
krovnou" [lett. Detrazione di tempo, variazione della sillaba],
per esempio stetĕruntque comae. 9. Kata; pneῦma [variazione
dell’aspirazione], per esempio auJvrion per ajvurion, omo per
homo, chorona per corona.

p. 431 la nostra «zeppa» è paraplhvrwma [aggiunta] p. 469

p. 440 I neologismi pepoihmevna ojnovmata, nova ingere [inventare p. 404


parole nuove]. Cicerone ne parla nel De orat. III, 38 inusitatum
verbum ac novatum [parola nuova e mai usata prima] e al c. 24
dice che orator nec in faciendis verbis audax et parcus in priscis
[l’oratore non sarà audace nel creare neologismi e parco con gli
arcaismi]

p. 443 «ferri di cavallo argentei» p. 333

p. 450 Il grammatico Trifone paragonò le congiunzioni esplicative dh; p. 469


rJa nu pou toi qhn ajvr dῆta per pw me;n ajvn aῦj oῦjn ken ge
con la stoppa che si usava per l’imballaggio di recipienti fragili

p. 450 Originariamente retorico è il pleonasmo del dativo etico oppure cfr. p.


quando i sostantivi vengono ripresi da un pronome che segue 474
108 Annamaria Lossi

p. 451 L’ellissi. In generale è l’omissione di parole in una frase in pp.


modo tale che ciò che manca possa essere completato a partire 489 ss.
dal contesto. L’ell.<issi> gramm.<aticale> è divenuta talmente
in usus che il discorso completo non piace più: «egli ha preso
il più corto (il bastoncino)». L’ellissi è nata per motivi fonetici,
afinché il suono apparisse più compatto. Nella Pulzella
d’Orléans II, 2 di Schiller: «amo chi (quello che) mi fa del bene
e odio chi (quello che) mi ferisce, e se questi è il iglio partorito
da me (che mi ferisce) tanto più sarà degno di odio»

p. 452 Inine, al IX, 3, 58, Quintiliano parla delle igurae quae per pp.
detractionem fuint [igure che si propongono per detrazione]: 492 s.
1) cum substratum verbum aliquod satis et ceteris intellegitur
[quando una parola omessa è compresa abbastanza a partire da
altre]; 2) in quibus verba decenter pudoris gratia subtrahuntur
[quando alcune parole sono sottratte per pudore]; 3) per
detractionem igura – cui coniunctiones eximuntur (ajsuvndeton)
[per detrazione di igura – a cui sono tolte le congiunzioni
(asindeto)]; 4) il cosiddetto ejpezeugmevnon [zeugma]: in qua
unum ad verbum plures sententiae referentur, qurum una
quaeque desideraret illud, si sola poneretur [quando più frasi si
riferiscono ad un solo verbo, una delle quali, presa da sola, lo
richiederebbe]. Per esempio in Cic<erone>, Pro Cluentio 6,
15, vicit pudorem libido, timorem audacia, rationem amentia [la
libidine vinse il pudore, l’audacia il timore, la follia la ragione].

pp. Nel linguaggio ci sono molte creazioni sinonimiche, la ragione p. 509


452 s. logica le vorrebbe eliminare. La scienza della sinonimica cerca
di stabilire l’essenza delle immagini linguistiche, che sono simili
nel senso, con una tale sottigliezza che non coglie l’essenza
della cosa. Per esprimere queste stesse relazioni dei concetti
con mezzi di vario genere, l’enallage mette a disposizione
della sinonimia delle forme relazionali – nella misura in cui le
espressioni che vengono utilizzate si allontanano dall’usus

p. 453 La lingua latina può esprimere la causalità attraverso delle p. 510


congiunzioni nam enim etenim oppure eo ideo dicrico propterea,
attraverso avverbi cur quare quamobrem, preposizioni propter,
con il caso ablativo, genitivo, con i modi, i participi e così via –
tutto conforme all’usus, quindi nessuna igura. Ma quando con
laetus si trova anziché quod o l’ablativo, il genitivo Dido laeta
laborum [Didone lieta del lavoro] (En<eide>, XI, 73), ecco che
si ha uno «scambio», un’enallage
Composizione e Wirkungsgeschichte 109

p. 453 L’aggettivo per l’avverbio: Aijdw;" oujraniva ajnevpth Or.<azio>, p. 518


Ars poet.<ica> 268: vos exemplaria Graeca nocturna versate
manu, versate diurna [sfogliate di notte e sfogliate di giorno gli
esemplari greci]

p. 453 Quando al posto della preposizione c’è solo il caso. Ovidio p. 526
Met.<amorfosi> III 462: verba refers aures non pervenientia
nostras [mi ricambi parole che non giungono alle mie orecchie]

p. 453 Poi scambio tra il duale e il plurale, in Omero si ha sia duvw p. 535
Aijvante che duv’ Aijvante".

p. 453 Nell’Il.<iade> II, 278 wJ" favsan hJ plhquv" [così diceva alla p. 536
folla]

p. 453 Scambio del comparativo con il superlativo e positivo: p. 547


Od.<issea> 11, 483: seῖo d’ jAcilleῦ oujv ti" ajnh;r propavroiqe
makavrtato" (per makavrtero") [Achille nessuno più di te fu
felice tra gli eroi]

p. 453 In rapporto alla persona: la seconda persona dell’imperativo, p. 550


nei casi in cui si incontra con pᾶ", ajvkoue pᾶ" [tutto, ascolta
tutto]. In La mia vita Seume racconta: «‚Dove abbiamo la
nostra preparazione?‘ mi chiese una volta il rettore. ‚Qui‘
risposi io e mi toccai la fronte: ‚siamo alquanto sfrontati,
vedremo‘. Una volta, ad un altro scolaro: ‚siamo asini‘»

p. 453 Forme all’aoristo sostituiscono spesso il presente in greco, p. 554


come accade nei paragoni omerici all’imperativo per
l’indicativo oῖjsq’ wJ" poivhson per poihvsei", un atticismo

p. 454 Nell’Il.<iade> 5, 382 tevtlaqi tevknon ejmovn kai; ajnavsceo p. 568


khdomevnh per [sopporta, iglia mia, e fatti coraggio anche se
soffri]. Platone, nell’Apol.<ogia> p. 29, jAqhenaῖo" wjvn, povlew"
tῆ" megivsth" kai; eujdokimwtavte" [essendo tu ateniese, della
città più grande e più gloriosa]. Due Programmi di F. Grüter, la
Synesis, Münster 1855 e 1867

p. 454 Servio per il Virgilio delle Georg.<iche> II, 192 p. 569

p. 454 Ov.<idio> Met.<amorfosi> VIII, 676 de purpureis collectae pp.


vitibus uvae [da viti purpuree grappoli raccolti] 572 s.
110 Annamaria Lossi

p. 454 Or.<azio>, Od.<i>, III, 1 41: quodsi dolentem nec Phrygius lapis p. 573
nec pupurarum sidere clarior delenit usus (anziché clariurom)
[Ora se un marmo frigio o l’uso della porpora più splendente
degli astri […] non sollevano chi è prostrato dal dolore].
Od.<i> II, 19, 27 tinget pavimentum superbis pontiicum
potiore coenis (per potiore quam esse solet in pontiicum coenis)
[con vino puro migliore (di quello) delle cene solenni dei
ponteici tingerà il pavimento]

p. 454 L’attrazione. Jacob Grimm scrive nella Abh.<andlung> p. 576


d.<er> Ak.<traktion> 1858 [Su alcuni casi di attrazione], p.
3: «L’attrazione, ruscelli, anzi simili a gocce d’acqua che si
aggregano quando si incontrano, garantisce più di tutto il
discorso senza esitazioni dei Greci, già meno di quello latino,
ma entrambi la lasciano apparire preferibilmente nella lingua
popolare, alcuni li hanno mostrati quasi solo nei comici, e di
essa non si può pretendere alcun esempio in Cicerone. La
lingua tedesca, alla quale da sempre, almeno ino a quando
i suoi monumenti scritti arrivano, è stata inlitta costrizione,
vuoi dalla rigidità delle traduzioni, vuoi dalle regole limitate
o confuse dei grammatici, può mostrare spesso soltanto delle
tracce di ciò che tuttavia non è sparito in essa»

p. R. Förster, questiones de attractione enuntiatiorum relativorum pp.


455 Berlino 1868. Or.<azio>, Od.<i> III, 27, 73 uxor invicti Jovis 576 s.
esse nescis [non sai di essere la sposa dell’invitto Giove];
Virg.<ilio>, En.<eide>, I, 573: urbem quam statuo vestra est [la
citta che istituisco è vostra]; Erod.<oto>, Storie II, 15 to; pavlai
aiJ Qῆbai AijVgupto" ejkaleveto [l’antica Tebe era chiamata
Egitto]

p. 455 Ermogene dice che il lovgo" ajlhqhv" [il discorso vero], p. 581
per rappresentare la natura di forti stimoli, non dovrebbe
aver timore nemmeno di ferire l’ajkolouqiva [correttezza
grammaticale]

p. 455 Si parla allora di parallelismo o concinnità dell’espressione. In p. 588


latino ciasmovı si dice decussatio (decussis = 10, con X romano)

3. Il signiicato di Gerber per la lezione sulla retorica

La tabella mostra che i paragrai centrali della lezione sono in-


teressati dalla teoria dei tropi e dalle relative esempliicazioni. La
Composizione e Wirkungsgeschichte 111

retorica non è una scienza, ma una tecnica che rende il linguag-


gio capace di creare signiicati. rJhtorikh; duvnami" peri; eJvkaston
toῦ qewrῆsai to; ejndecovmenon piqanovn – scriveva Aristotele in
Retorica, I, 2, ovvero «la retorica è la facoltà di scoprire il possi-
bile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto». Ma lad-
dove per i Greci era un gioco immaginativo che fa riferimento
ad una dimensione individuale, per i Romani diventa esercizio
pubblico. In entrambi i casi è in gioco il fattore persuasivo del
linguaggio nelle sue due diverse articolazioni antiche, greca e ro-
mana. Per accennare a questa differenziazione Nietzsche intro-
duce nel primo paragrafo una citazione tratta da Kant e una da
Schopenhauer. Queste due citazioni non danno soltanto un’in-
dicazione sulle conoscenze ilosoico-moderne di Nietzsche, ma
fanno comprendere il profondo signiicato che la retorica riveste
in un quadro dinamico di trasformazione e particolarizzazione
che Nietzsche sta ricostruendo storicamente nell’antico e nel suo
rapporto con il moderno.
Nietzsche conosceva il contesto storico-linguistico della sua
epoca. Nei manuali di linguistica in circolazione ino a metà Ot-
tocento l’idea principale sul linguaggio era infatti che quest’ulti-
mo fosse un prodotto dell’istinto umano32. Nel suo sistema lin-
guistico, Karl Wilhelm Ludwig Heyse parte dell’uso quotidiano
della lingua per caratterizzare i conini del linguaggio e il suo
ambito d’azione. Al § 2 del System der Sprachwissenschaft si legge
che il rapporto dell’uomo con il linguaggio è anzitutto di carat-
tere pratico e che il linguaggio è un «unmittelbares Gegebenes»,
un dato immediato, «uns von Natur angehörendes Organ», un
organo che ci appartiene naturalmente. Accanto a considerazioni
di carattere antropologico, Heyse accosta rilessioni sociologico-
storiche sulla lingua tedesca in particolare. L’attenzione al lin-
guaggio che Nietzsche offre nella sue Lezioni parte da un’angola-
zione estetica e ilosoica, oltre che storica, e si situa all’interno di
una revisione più profonda della ilologia a lui contemporanea33.
32 Cfr. ad esempio: K. W. L. Heyse, System der Sprachwissenschaft, Berlin 1856.
33 Sul rapporto di Nietzsche con la tradizione ilologica cfr. C. Benne, Nietzsche und
die historisch-kritische Philologie, Berlin 2005.
112 Annamaria Lossi

L’idea per cui l’origine del linguaggio sia poetica ha un sapore


herderiano, e viene ripresa da Nietzsche attraverso la teoria dei
tropi di Gerber. Nietzsche non si limita a riprendere la teoria dei
tropi, ma la connota ilosoicamente mettendo in rapporto l’ef-
fetto naturale e artiiciale di un’espressione linguistica, che ha la
sua origine nel metaforico. Nietzsche si pone dunque in contra-
sto con la ilosoia e la linguistica dell’epoca, soprattutto quella
di matrice aristotelica.
Gustav Gerber appartiene a quei ilosoi del linguaggio della
seconda metà dell’Ottocento che sono stati dimenticati, accanto
a G. Runze e a F. M. Müller34. Nel riprendere le loro posizioni
Nietzsche propone una rielaborazione. Non è meramente una ci-
tazione aristotelica affermare che «il linguaggio è retorica giacché
intende trasmettere soltanto una doxa, non un’episteme» (§3,
KGW II/4, p. 426). In questa affermazione nietzscheana non è
presente un mero calco della deinizione classica, ma un suo ro-
vesciamento. A ben vedere, essa si situa all’interno della polemi-
ca contro la ilologia tradizionale di stampo scientiico-positivi-
stico, che concepiva la ilologia come una scienza dell’antichità
improntata sul culto della Wahrheitsliebe35 da cui Nietzsche, con
il suo testo sulla tragedia, aveva già seriamente voluto prendere le
distanze. La polemica è però anche ilosoica: Nietzsche rovescia
la posizione classica tradizionale e afferma che non il linguaggio
è inafidabile perché non conduce al vero, ma è il vero che non è
concepibile come punto di arrivo dell’argomentazione (dialettica
o scientiica) se con ciò si intende la piena comunicazione dell’es-
senza delle cose. Il linguaggio per sua natura è una creazione ar-
tistica e, come tale, assolve al compimento magistrale dell’essere
umano che è quello di creare. L’opera di Gerber, oltre a fornire
esempi alla trattazione dell’estetica del linguaggio e alla teoria
dei tropi per un corso sulla retorica, è funzionale dal punto di
vista teorico a decostruire una posizione linguistica ben precisa.
Passando per la ilosoia del linguaggio e per l’estetica Nietzsche
34 Cfr. S. J. Schmidt, Die vergessene Sprachphilosophie des 19. Jahrhunderts, The

Hague 1968.
35 Cit. in E. Schaffer, Philosophie und Philologie bei Nietzsche, cit., p. 640.
Composizione e Wirkungsgeschichte 113

propone nelle Lezioni di retorica una prima formulazione criti-


ca, che in questi anni, con la pubblicazione della Nascita della
tragedia, aveva tentato nel mondo ilologico a lui contempora-
neo. Tenendo conto di questa costellazione teorica, Gerber non
è liquidabile come puro materiale per la compilazione di esem-
pi, come hanno scritto Mejers e Stingelin, ma è funzionale alla
comprensione di una vera e propria estetica del linguaggio che le
Lezioni di retorica già contengono.
A dimostrazione di questa elaborazione di Gerber sta anche
il fatto che Nietzsche si discosta dalla sua posizione descrittivo-
analitica, e media tra questa interpretazione e le concezioni lin-
guistico-scientiiche (sprachwissenschaftlich) della sua epoca36.
In sostanza Gerber tiene ancora distinti su due piani l’arte del
linguaggio, e quindi l’estetica, dal piano della teoria del linguag-
gio, ovvero la retorica. Nietzsche ambisce a ricongiungerli, a fon-
derli insieme. Gerber è un esempio di come questi due aspetti
avrebbero potenzialmente un piano comune, un piano da cui
Nietzsche intende ripartire per arrivare a formulazioni più osmo-
tiche. È infatti da qui che Nietzsche attinge le sue conoscenze
della tradizione della ilosoia del linguaggio, che passa per Hum-
boldt, Bopp, Hamann, Herder, Steinthal e Heyse37.
In particolare ci sono delle immagini metaforiche da cui
Nietzsche è particolarmente affascinato: il modello dello stimolo
nervoso, che spiega la metafora stessa, è una di queste. Nietzsche
affronta la questione delle igure retoriche dandone non solo un
quadro storico-sistematico all’interno della retorica antica, ma

36 Claudia Crawford ha mostrato nella sua monograia che le letture di Schopenhau-

er, Lange e Hartmann non sono meno prioritarie alla lettura di Gerber, e nel 2000 uno
studio di Christof Kalb ha messo in evidenza come la posizione di Gerber sarebbe stata
il punto di partenza di una rilessione che risulta già su un diverso livello nella compo-
sizione delle Lezioni. Cfr. Ch. Kalb, Desintegration. Studien zu Friedrich Nietzsches Leib-
und Sprachphilosophie, Frankfurt a. M. 2000, in particolare pp. 144-166. Della stessa
opinione G. Most/Th. Fries, Die Quellen von Nietzsches Rhetorik-Vorlesung, cit., pp. 57
s.
37 Su questo cfr. anche A. Meijers/M. Stingelin, Konkordanz zu den wörtlichen Ab-

schriften, cit., p. 376; Most/Fries, Die Quellen von Nietzsches Rhetorik-Vorlesung, cit., pp.
23 ss.
114 Annamaria Lossi

affrontando anche per la prima volta la questione dei tropi, deri-


vante da Gerber: «Tutte le parole sono, tuttavia, in sé e dall’ini-
zio dei tropi in relazione al loro signiicato» (KGW II/4, p. 426).
Ai §§ 3 e 7 si occupa della metonimia e della sineddoche, e in
particolare della metafora. La metafora costituisce un vero pro-
prio problema estetico in questi anni per Nietzsche38. I pensieri
sulla concezione linguistica di Gerber riecheggiano in particolare
al § 3 delle Lezioni di retorica, in cui la visione gerberiana dei tro-
pi – ovvero il fatto che essi non sono mezzi artistici consapevoli
della retorica, ma fondamentalmente delle operazioni inconsce
che stanno alla base della nascita del linguaggio – è ripresa nella
sua totalità. Gerber utilizza la formulazione convenzionale per
38 Il gruppo degli appunti postumi numerati come 19 (cfr. Vol. III, Tomo III, parte
2, pp. 3-105), contiene parecchie indicazioni sulle rilessioni di Nietzsche circa il concetto
di metafora (NF 19[174], KSA 7, p. 473; Vol. III, Tomo III, parte 2 p. 58), la descrizione
dell’attività ilosoica e artistica, il concetto più indistinto di simbolo: «Il pensiero ha a
che fare con grandezze artistiche» (cfr. NF 19[67], KSA 7, p. 441; Vol. III, Tomo III,
parte 2, p. 26). Accanto al termine «metafora» Nietzsche usa il termine «metastasi» (NF
19[175], KSA 7, p. 473 oppure 19[177], KSA 7, p. 473; Vol. III, Tomo III, parte 2 p.
58 s.), che accentua la motivazione isiologica dell’istinto umano alla trasposizione, mo-
diicazione e contaminazione. Come sinonimi di metafora, il calco tedesco è quello più
frequente: Übertragung, ovvero trasposizione. Il signiicato della metafora era stato una
volta appuntato da Nietzsche come segue: «Metafora signiica trattare uguale qualcosa
che si è riconosciuto in un punto come simile» (NF 19[249], KSA 7, p. 498; Vol. III,
Tomo III, parte 2, p. 83). Il prodotto dell’operazione linguistica è una metafora, ma le
metafore si distinguono nei loro singoli gradi in relazione al loro dinamismo. Da un lato,
la metafora dell’immagine linguistica è in nuce il concetto futuro, e quest’ultimo, a sua
volta, una vecchia metafora irrigidita. Dall’altro, la metafora rappresenta l’antipodo del
concetto morto che postula l’identità tra segno e designato sebbene solo un’analogia sia
realmente possibile. È nella misura in cui le metafore ambiscono alla verità che diventano
menzogne per Nietzsche. Già in questi anni Nietzsche suggerisce tra le righe una critica
alla concettualizzazione, alla ilosoia tradizionale, al pensare teoretico. Nella misura in
cui la metafora rimanda alla sua estraneità ad afferrare l’essenza delle cose, e mette in
luce la capacità di creare nuove connessioni semantiche, è considerata da Nietzsche nel
suo valore estetico, anzi il suo valore è il «rapporto estetico» stesso (cfr. KSA 1, p. 884;
Vol. III, Tomo II, p. 365). Nel criticato scritto del 1872, Nietzsche aveva scritto che la
metafora «per il vero poeta […] non è una igura retorica, bensì un’immagine sostitutiva
che gli si presenta concretamente, in luogo di un concetto» (GT 8, KSA 1, p. 60; Vol. III,
Tomo I, p. 59). Il carattere sostituivo della metafora intuitiva e il suo rapporto con il con-
cetto sono oggetto di rilessione assidua di questi anni, in cui la retorica del linguaggio – o
meglio «il rapporto del retorico con il linguaggio» (KGW II/4, p. 425) – è l’argomento
principale delle Lezioni.
Composizione e Wirkungsgeschichte 115

cui la metafora non crea ex novo i termini, ma ne trasforma il


signiicato39. La verità della metafora sta nel suo porsi sempre
come nuova relazione tra cose note, e realizza nietzscheanamen-
te una spinta naturale dell’istinto umano a formare metafore, a
creare signiicati. Nietzsche riiuta l’idea gerberiana per cui esiste
una differenziazione tra «discorso che segue regole e le cosiddet-
te igure retoriche». Gerber afferma infatti la separazione tra un
discorso naturale e l’uso delle igure retoriche, mentre Nietzsche
li congiunge. Riprendendo Jean Paul, in particolare il paragrafo
7 della Vorschule der Aesthetik scrive Nietzsche:

Come nello scrivere la scrittura ideogrammatica ha preceduto la


scrittura alfabetica, così nel parlare la metafora, in quanto essa caratte-
rizza relazioni e non oggetti, è la parola originaria che però nel giunge-
re all’espressione reale ha dovuto lentamente scolorirsi. Il dare un’ani-
ma e il dare un corpo continuarono ad essere una cosa sola perché io
e mondo erano ancora fusi. Così ogni linguaggio, riguardo ai rapporti
spirituali, è un vocabolario di metafore sbiadite (KGW II/4, pp. 442 s.)40.

Questa entropia insita nel linguaggio e affermata da Jean Paul


rimane impressa a Nietzsche, che utilizzerà molte volte la me-
tafora dello sbiadire per descrivere il passaggio dalla metafora
(sic!) al concetto. Con tale sbiadire Nietzsche dipinge quel pro-
cesso di usura che connota la perdita di potere semantico della
metafora. Qui interviene anche una lettura che Nietzsche fa della
conferenza di Wilhelm Wackernagel Über den Ursprung und die
Entwickelung der Sprache, che si tenne a Basilea nel 1866 e che
Nietzsche lesse solo dopo, nel 1872, in biblioteca. A pagina 36 di
tale scritto Nietzsche sottolinea la frase seguente: «ciò che lingui-
sticamente ha una forma sonante, non sarà più così caratteristico
quando sarà unito al suo contenuto: diventa ora troppo monoco-
lore e sbiadito»41. Il processo di decadimento sonoro ed estetico
39 Anche in SK I, pp. 367 s.
40 Peraltro citato in Gerber (cfr. SK p. 361).
41 «Was an der Sprache toenende Form ist, wird nie mehr so wie vordem charak-

teristisch mit dem Inhalte zusammenklingen: dafür ist dieselbe jetzt zu einfarbig und
entfärbt» (W. Wackernagel, Über den Ursprung und die Entwickelung der Sprache, p. 36).
116 Annamaria Lossi

della metafora va pensato (metaforicamente) insieme alla perdita


cromatica della semantica stessa.
Un altro aspetto rilevante che emerge dalle Lezioni sulla retori-
ca riguarda il rovesciamento del rapporto tra spontaneità lingui-
stica e comunicazione. La retorica non è un modo affettato privo
di naturalezza per comunicare, come l’accezione moderna del
termine mostra, bensì «una formazione continua dei mezzi ar-
tistici già posti nel linguaggio»: «Non esiste alcuna ‚naturalezza‘
linguistica che non abbia a che fare con la retorica». Nietzsche
rielabora dunque la tesi gerberiana della divisione tra arte del lin-
guaggio (Kunstsprache) e dottrina linguistica (Sprachlehre), supe-
randola nella concezione retorica di un linguaggio che è esso stes-
so arte. Questo assunto sembra molto audace: la battaglia contro
la retorica, identiicata con l’elocutio, contro i precetti privi di
legami con realtà, sentimento e poesia, ebbe così successo che la
parola retorica e l’aggettivo retorico si erano caricati di un valore
negativo. Nietzsche rovescia questo senso negativo ed elenca gli
errori da evitare per l’esposizione di un buon discorso, citando
anche il «kako;zelon», l’affettazione eccessiva, sbagliata, proprio
perché in tal modo anche lo stile appare «artiiciale», «(ciò che
chiamiamo prosa ‚retorica‘ o poetica)» in senso moderno (KGW
II/4, p. 431). Dalla prospettiva nietzscheana la riabilitazione del-
la retorica va di conserva con la comprensione dell’essenza arti-
stico-estetica del linguaggio. Facile è constatare allora che se il
linguaggio è per deinizione retorica, abbellimento, decorazione,
ma in modo intrinseco, per natura e non come artiicio decora-
tivo, la relazione tra linguaggio e realtà deve essere ripensata. Le
parole non dicono le cose, ma le fanno essere. La riabilitazione
della retorica, nel senso nietzscheano, implica un diverso modo
di guardare e concepire ilosoicamente la verità e la costituzione
della realtà, dando voce ad una ilosoia del linguaggio di matri-
ce estetica. L’oratore per Nietzsche è intrinsecamente artista, in
quanto il linguaggio è il materiale che l’oratore plasma ogni volta
in uno stile consono alla situazione in cui si trova. E tale stile sarà

Cfr. S. Scheibenberger, Historischer und kritischer Kommentar, cit., p. 45.


Composizione e Wirkungsgeschichte 117

tanto migliore quanto più l’oratore sarà in grado di ‚imitare‘ al


meglio «l’elemento caratteristico del discorso».
Quindi in summa: purezza [Reinheit] e chiarezza [Deutlichkeit]
soprattutto, con modiiche però secondo l’elemento caratteristico del
luogo, dell’occasione per cui si tiene il discorso, del parlante e dell’a-
scoltatore – il senso dello stile che esige ogni volta un’espressione diver-
sa. Un po’ come nella musica quando uno stesso ritmo pervade intatto
tutto il pezzo, al cui interno però si rendono necessarie delle variazioni
lievissime. Lo stile caratteristico è il vero ambito artistico dell’oratore:
qui l’oratore esercita una libera arte plastica, il linguaggio è per lui già
un materiale pronto da utilizzare. Qui l’oratore è un artista imitatore,
parla come fanno gli attori che parlano nelle vesti di una persona o di
una cosa a loro estranea (KGW II/4, p. 432).

Lo stile caratteristico sarà guidato dalla naturalezza: il discorso


più riuscito sarà quello che appare chiaro proprio perché natu-
rale, come una melodia42, ma proprio per questo massimamente
artistico, e minimante retorico in senso peggiorativo e moderno
del termine.

42 In alcuni frammenti preparatori alla Nascita della tragedia Nietzsche aveva scritto
che la musica come linguaggio è «capace di chiarire all’ininito» («einer unendlichen
Verdeutlichung fähig ist», trad. mia lievemente modiicata; NF 2[10], KSA 7, pp. 47 s.;
Vol. III, Tomo III, parte 1, p. 41), mentre il linguaggio concettuale le è contrapposto.
Picchi e lucertole
Nietzsche e la tradizione dell’epigramma in
Vocazione di poeta

Giulia Baldelli

Dichters Berufung Vocazione di poeta

1 Als ich jüngst, mich zu erquicken, Or non è molto, mentre sedevo,


2 Unter dunklen Bäumen sass, Sotto alberi cupi, a ristorarmi,
3 Hört’ ich ticken, leise ticken, Udii somesso un ticchietto, aggraziato
4 Zierlich, wie nach Takt und Maass. Come seguisse cadenza e misura.
5 Böse wurd, ich, zog Gesichter, - Mi fece rabbia, e giù coi miei versaggi
6 Endlich aber gab ich nach, Alla ine m’arresi e giunsi al punto
7 Bis ich gar, gleich einem Dichter, Di consonar con lui come un poeta,
8 Selber mit im Tiktak sprach. Facendo anch’io tic-tac.

9 Wie mir so im Verse-Machen E le sillabe, in questo verseggiare,


10 Silb’ um Silb’ ihr Hopsa sprang, Saltellavano, oplà, l’una sull’altra,
11 Musst’ ich plötzlich lachen, lachen Così che scoppiai a ridere d’un tratto
12 Eine Viertelstunde lang. E risi per un quarto d’ora.
13 Du ein Dichter? Du ein Dichter? Tu un poeta? Saresti tu un poeta?
14 Steht’s mit deinem Kopf so schlecht? Al tal punto vai via di cervello?
15 – „Ja, mein Herr, Sie sind ein Dichter“ – „Sì, signor mio, voi siete un poeta“
16 Achselzuckt der Vogel Specht. Fa spallucce l’uccello picchio.

17 Wessen harr’ ich hier im Busche? Di chi sono in attesa tra i cespugli?
18 Wem doch laur’ ich Räuber auf? A chi tendo le insidie del brigante?
19 Ist’s ein Spruch? Ein Bild? Im Husche È un detto o un’immagine? D’un balzo
20 Sitzt mein Reim ihm hintendrauf. Gli si piazza alle terga la mia rima.
21 Was nur schlüpft und hüpft, gleich sticht Sol ciò che guizza e che saltella via
er
22 Dichter sich’s zum Vers zurecht. Pronto è il poeta a incider ben nel verso.
23 – „Ja, mein Herr, Sie sind ein Dichter“ – „Sì, signor mio, voi siete un poeta“
24 Achselzuckt der Vogel Specht. Fa spallucce l’uccello picchio.

25 Reime, mein’ ich, sind wie Pfeile? Ma quali salti, quali guizzi e tremiti
26 Wie das zappelt, zittert, springt, Non son le rime, penso, come frecce?
27 Wenn der Pfeil in edle Theile Se la freccia coglie nell’eletta
28 Des Lacerten-Leibchens dringt! Parte del corpicciolo di lucertola!
120 Giulia Baldelli

29 Ach, ihr sterbt dran, arme Wichter, Ah, questo vi fa morire, poveretti,
30 Oder taumelt wie bezecht! O barcollare come avvinazzati!
31 – „Ja, mein Herr, Sie sind ein Dichter“ – „Sì, signor mio, voi siete un poeta“
32 Achselzuckt der Vogel Specht. Fa spallucce l’uccello picchio.

33 Schiefe Sprüchlein voller Eile, Sentenziuncole oblique e frettolose,


34 Trunkne Wörtlein, wie sich’s drängt! Ed ebbre parolette, che tumulto!
35 Bis ihr Alle, Zeil’ an Zeile, Finché vuoi tutte, riga per riga,
36 An der Tiktak-Kette hängt. Alla catena del tic-tac pendete.
37 Und es giebt grausam Gelichter, E non v’è forse una genìa crudele,
38 Das dies – freut? Sind Dichter – Che ne – gioisce? Malvagità – di poeti?
schlecht?
39 – „Ja, mein Herr, Sie sind ein Dichter“ – „Sì, signor mio, voi siete un poeta“
40 Achselzuckt der Vogel Specht. Fa spallucce l’uccello picchio.

41 Höhnst du, Vogel? Willst du scherzen? Mi stai burlando, uccello? Vuoi


scherzare?
42 Steht’s mit meinem Kopf schon schlimm, Se già mi va male il cervello,
43 Schlimmer stünd’s mit meinem Herzen? Il cuor m’andrebbe forse peggio?
44 Fürchte, fürchte meinen Grimm! – Temi, temi la mia collera! –
45 Doch der Dichter – Reime licht er Ma il poeta – intreccia rime
46 Selbst im Grimm noch schlecht und Bene o male anche nella stizza.
recht.
47 – „Ja, mein Herr, Sie sind ein Dichter“ – „Sì, signor mio, voi siete un poeta“
48 Achselzuckt der Vogel Specht.1. Fa spallucce l’uccello picchio.

1. Come si diventa poeti (quando un picchio batte il tempo)

Le prime due strofe di Vocazione di poeta deiniscono e met-


tono in atto un particolare procedimento poetico, il cui risulta-
to non potrebbe essere più convenzionale: un Io lirico siede nel
bosco «sotto alberi cupi» e percepisce un «ticchettio sommesso»
(v. 3) di provenienza sconosciuta. La percezione di questo suono
conduce alla trasformazione2 dell’Io in un poeta attraverso due
1 KSA 3, pp. 639 s.; Vol. IV, Tomo II, pp. 265 s. Poiché in questo saggio si entra

esplicitamente nel merito del linguaggio poetico, di questioni di metro, rima e ritmo della
poesia di Nietzsche, si è deciso di citare l’originale tedesco nel testo con la traduzione
italiana. Per le poesie di Goethe, Herder e Klopstock si riporta invece l’originale nel testo
e la traduzione italiana in nota. Ove non altrimenti indicato, le traduzioni dal tedesco
presenti nel testo sono di Susanna Zellini (n.d.c).
2 Si fa qui allusione al circolo vizioso poetologico che si compie già nella prima

strofa e che consiste nel fatto che l’Io lirico parla già in questo modo sin dall’inizio, così
Vocazione di poeta 121

fasi o per meglio dire due trasposizioni, attraverso le quali l’Io


recepisce e si appropria dello stimolo esterno e lo traduce in im-
pulso interiore.
Questo ticchettio non ulteriormente speciicato viene percepi-
to come un ticchettio regolare («come seguisse cadenza e misura»
v. 4) e tale interpretazione porta, senza ulteriori spiegazioni, ad
un Io che si vede costretto ad esprimersi in un linguaggio vin-
colato. Senza che sia possibile rinvenire un’altra deinizione, ciò
signiica che egli «giunse al punto di consonar come un poeta»
(v. 7): una speciicazione che potrebbe indicare sia l’immagine
di poeta in senso più generale, sia alludere ad un poeta in parti-
colare.
Il carattere, o più precisamente la forma di questo poetare,
che colui che diviene poeta accoglie e sopporta solo con versacci
e con profonda rabbia, si descrive facilmente: l’Io compone stro-
fe di otto versi alternati, ovvero di quattro rime incrociate, anche
se ogni verso, ad eccezione di uno3, consiste in un trocheo di
quattro piedi alternati o, a seconda della prospettiva, in un otto-
nario accentato o non accentato alla ine. Con il proseguire della
poesia cresce anche il numero e la complessità delle rime, mentre
il ritmo si mantiene inalterato. Ciò che si compone è, in confor-
mità al ritmo, una strofa del Volkslied tedesco4.

come durante la trasformazione del poeta e parlando compone: ciò signiicherebbe che
almeno nei primi versi può essere distinto dall’autore della poesia, ovvero da Nietzsche.
L’ipotesi di un’ulteriore paternità inzionale dell’opera da parte del principe Vogelfrei,
che potrebbe rappresentare questo Io, si accompagna tuttavia a un ulteriore paradosso
in riferimento all’uccello picchio, che partecipa in modo decisivo alla genesi del poeta.
Sulla questione della paternità dell’opera cfr. H. Detering, Stagnation und Höhenlug,
«Die Lieder des Prinzen Vogelfrei», in C. Benne, J. Georg (a cura di), Friedrich Nietzsche:
Die Fröhliche Wissenschaft, Berlin/Boston 2015, pp. 152 s. L’intreccio e l’indissolubilità
dell’origine e dell’effetto in questo processo di genesi del poeta emergono dal fatto che il
poetare, da un lato, ha luogo nel tentativo di interpretare un presunto dato naturale per
mezzo del ritmo dell’Io lirico; dall’altro, l’Io contrappone a questo poetare emergente
una forte resistenza, in quanto lo percepisce come un impulso proveniente dall’esterno,
come qualcosa di inaccettabile che deve essere combattuto.
3 Si tratta qui del verso 38, dove il ritmo si interrompe: «Che ne – gioisce? Malvagi-

tà – di poeti?».
4 Luca Crescenzi deinisce gli Idilli di Messina, e dunque anche Giudizio d’uccello,

come appartenente al genere del Volkslied tedesco. Cfr. L. Crescenzi, Nietzsches Idyllen
122 Giulia Baldelli

Il paradosso della genesi di un poeta dalla rima convenzionale


– dopo che questo «verseggiare» (v. 9) nello stile descritto è stato
deinito come stato abituale – trova il suo momento culminan-
te nella seconda strofa in uno scoppio di risata, sintomo di una
situazione quasi schizofrenica. Dopo il tentativo di prendere le
distanze («tu un poeta» v. 13), colui che stabilisce il tempo, che
ora si rivela in modo esplicito nella igura del picchio parlante,
rinsavisce il poeta.
Sembra tuttavia inverosimile che il picchio, che si rivela come
colui che detta il ritmo, inizi a parlare ripetitivamente (come vie-
ne sottolineato dal discorso diretto) e assolva la funzione di ipo-
tetico interlocutore del poeta5. Infatti il verso direttamente suc-
cessivo («fa spallucce l’uccello picchio» v. 16) lo esclude. Oltre
al fatto che un vero picchio martella tutt’altro che regolarmente
nella ricerca di cibo, la igura di picchio qui introdotta sembra
eseguire, nel suo picchiettare, solo movimenti naturali di spalle e
aus Messina. Das Volkslied als Form des Philosophierens, in A. Schirmer, R. Schmidt (a
cura di), Entdecken und Verraten: zu Leben und Werk Friedrich Nietzsches, Weimar 1999,
pp. 191-201.
5 Giudizio d’uccello (IM, KSA 3, p. 342) risulta identico, ino all’ultima riga della

seconda strofa, alle prime due strofe di Vocazione di poeta. Qui tuttavia si pone in ri-
ferimento al passo di Zarathustra «così parla l’uccello picchio». La tesi che l’uccello sia
l’interlocutore del dialogo poetologico viene sostenuta ad esempio da Stephan Braun:
«il legame con l’uccello va talmente oltre, che l’Io lirico nella poesia Giudizio d’uccello
entra in relazione con un picchio nel dialogo poetologico. Il canto, a cui l’Io obbedisce,
è il ritmo dato dal picchio». Cfr. S. Braun, Nietzsche und die Tiere oder: Vom Wesen des
Animalischen, Würzburg 2009, p. 46. Questa interpretazione di Giudizio d’uccello si basa
nel caso speciico, come abbiamo già detto, sul riferimento allo Zarathustra, e tuttavia
non può essere applicato facilmente a Vocazione di poeta (a questo proposito cfr. anche
H. Detering, Stagnation und Höhenlug, cit., p. 160). Il presunto dialogo con un uccello
si trova anche in altre poesie di Nietzsche, come ad esempio in Der Wanderer, conte-
nuta nei frammenti postumi (NF 28[58], KSA 11, pp. 322 s.). Anche qui viene subito
sottolineata la capacità dell’uccello di parlare: «Il buon uccello tace e poi parla: / ‚No,
viandante, no! non te voglio adescare / con le risonanze insistenti – […]» (la traduzione
della poesia si trova nel volume Ditirambi di Dioniso e poesie postume, Vol. VI, Tomo IV,
pp. 125-127, qui p. 127. Si fa riferimento al testo dell’autunno del 1884, sebbene la prima
stesura risalga al 1876, quando Nietzsche ricevette la notizia del idanzamento di Erwin
Rohde, ed è contenuta nella lettera a Rohde del 18 luglio 1876. Cfr. KSB 5, pp. 176 s.).
Cfr. al riguardo il Canto del viandante notturno II di Goethe: «I piccoli uccelli tacciono
nel bosco, / Aspetta un poco, presto / riposerai anche tu» (J. W. von Goethe, Opere, cit.,
Vol. 5, 1961, p. 827).
Vocazione di poeta 123

testa, che poi, attraverso il mezzo stilistico della personiicazione,


equivalgono alla caratteristica umana di alzare le spalle6.
Pertanto i movimenti dell’uccello, che equivalgono casual-
mente a comportamenti umani (fare spallucce e fare cenno col
capo), non sono altro che una trasposizione metaforica (come
se il picchio dicesse «per me è lo stesso», oppure «sono d’accor-
do»), e dunque assumono una connotazione comica.

2. Come si combatte contro picchi e lucertole senza perdere


il senso dell’umorismo

Dopo aver deinito il suo essere poeta, l’Io, rafigurato ora


come un brigante, nella terza e nella quarta strofa sta in agguato,
e con mezzi lirici si impadronisce di immagini e sentenze. Qui
sembra difendersi dalle convenzioni poetiche e dalla regolarità
del ritmo con le più creative variazioni di rima e, dopo aver ac-
cettato il suo ruolo, intraprende una battaglia contro la monoto-
nia della forma che gli si offre. Nuovamente, si presenta un’im-
magine paradossale: il poeta inizia, pur restando nell’ambito
delle regole formali, a sondare i conini della forma, e metafori-
camente a combatterli. In altre parole, restando all’interno di un
poetare fedele alla forma, ne critica le convenzioni e allo stesso
tempo le amplia ino a sbarazzarsene. Ciò emerge, ad esempio,
in modo particolarmente chiaro nel rafinato enjambement del
v. 19 («d’un balzo / gli si piazza alle terga la mia rima») – che
viene rappresentato attraverso un svelto intrecciarsi della rima
– come anche nella rima incrociata «cespugli» (v. 17), e nel co-
struirsi della rima (incrociata) «auf» per mezzo dell’ampliamento
«drauf» (v. 18). Proprio queste capriole di rime, che vengono
compiute con apparente leggerezza e che raggirano la forma
poetica, determinano parte del carattere comico del testo, che

6 Sander L. Gilman fa riferimento a questo nesso con le «metaphorical shoulders».

Cfr. S. L. Gilman, Incipit Parodia: The function of parody in the lyrical poetry of Friedrich
Nietzsche, in «Nietzsche-Studien», 4 (1975), p. 71.
124 Giulia Baldelli

tuttavia si accompagna, nel bisogno ostinato di restare fedele alle


regole formali, ad una connotazione collerica.
Questo primo livello poetologico7 di sabotaggio della forma,
ma per mezzo della forma stessa, rimanda ad un secondo piano
metaforico dello scontro tra cacciatore e cacciato, bracconiere
e preda, un piano che si sovrappone, spesso in modo deciso, al
primo livello per ampliarlo attraverso tale duplicità elegantemen-
te articolata. Se dunque nello scenario inora rappresentato, le
rime, come frecce, offrono un’immagine chiara del poeta agguer-
rito, rafforzata ulteriormente dalle metafore, questo gioco diver-
tente si interrompe più tardi nella terza strofa, dove le frecce col-
piscono gli animali (selvaggi), in particolare le lucertole. Mentre
inora (ad accezione del picchio) era stato evitato, e dunque allo
stesso tempo sottointeso8, un concreto appellativo degli animali
in favore di una rafinata tecnica di intersezione dei due piani,
l’uso bizzarro in tedesco – che certo non passa inosservato – del-
la parola latina lucertola (Lacerte, invece di Eidechse) potrebbe
fornire una concreta risposta alla domanda seguente9: chi atten-
de il poeta-brigante nel v. 18, e contro chi tira «vere» frecce?
La suggestiva domanda del v. 19 («è un detto o un’immagine?»)
potrebbe far pensare, almeno in rapporto alla lucertola, che nel
passo corrispondente («se la freccia coglie nell’eletta / parte del
corpicciolo di lucertola!» vv. 27 s.) si ha piuttosto a che fare con
un detto (già esistente) o con un’immagine, cosa che nuovamente
potrebbe indicare un rimando intertestuale.
In effetti negli Epigrammi veneziani di Goethe si trova un
gruppo di epigrammi noto come il Ciclo della lucertola10, dove,

7 Dieter Breuer descrive questo aspetto nella sua interpretazione della poesia come
«rafigurazione del processo poetico» e come «autorilessione ironica e […] parodia di
metro e rima alternati», nel senso di un poeta prigioniero della forma antica, a cui non
resta altro che fare prendersi gioco di tale forma, mentre viene presentato un poeta che
combatte tale forma con i suoi propri mezzi. Cfr. D. Breuer, Deutsche Metrik- und Vers-
geschichte, München 3. Aul. 1994, pp. 237 s.
8 Ad esempio nel v. 21, «Sol ciò che guizza e che saltella via», e nel v. 26, «Ma quali

salti, quali guizzi e tremiti».


9 La domanda resta tuttavia senza disposta, perché la rima la precede.
10 Al ciclo appartengono gli epigrammi dal n. 67 al n. 72 in J. W. Goethe, Vene-
Vocazione di poeta 125

nell’epigramma 67, Goethe fa riferimento alle lucertole come


immagine: «Wollt’ ihr mir’s künftig erlauben; so nenn ich die
Tierchen Lacerten, / Denn ich brauche sie noch oft als gefälli-
ges Bild»11. «La grata immagine» viene illustrata anche all’inizio
dell’epigramma seguente, e stabilisce dunque il tema del Ciclo
della lucertola: «Wer Lacerten gesehn hat, der kann sich die zier-
lichen Mädchen / Denken, die über den Platz fahren dahin und
daher»12. Qui si fa riferimento alle donne di piacere di Venezia,
che l’Io lirico cattura con lo sguardo «con lo stile di uno studioso
della natura, che racconta le sue osservazioni zoologiche sul com-
portamento e l’habitat della specie analizzata»13. Se rileggiamo il
verso sulle lucertole in Vocazione di poeta alla luce dell’immagi-
ne goethiana, questa carica erotica diventa subito visibile, e con
altrettanta chiarezza risulta anche negli Epigrammi di Goethe14.
Mentre qui la sovrapposizione metaforica dei movimenti della

zianische Epigramme, in Id., Sämtliche Werke. Gedichte 1756-1799, a cura di K. Eibl,


Frankfurt a. M. 1987, pp. 457 s. Per la traduzione italiana cfr. J. W. von Goethe, Opere,
a cura di L. Mazzucchetti, Firenze 1963, Vol. 2.
11 Ivi, n. 67, p. 457: «Lange hätt’ ich euch gerne von jenen Tierchen gesprochen, /

Die so zierlich und schnell fahren dahin und daher. / Schlängelchen scheinen sie gleich,
doch viergefüßet, sie / laufen, / Kriechen und schleichen, und leicht schleppen das /
Schwänzchen sie nach. / Seht hier sind sie! und hier! sie sind verschwunden! wo sind /
sie? / Welche Ritze, welch Kraut nahm die Entliehenden auf? / Wollt ihr mir’s künftig
erlauben; so nenn ich die Tierchen / Lacerten, / Denn ich brauche sie noch oft als gefäl-
liges Bild» («Già da assai tempo v’avrei volentieri parlato / di quelle bestioline, che così
rapide e graziose / corrono qua e là. / Rassomigliano a serpentelli, però a quattro zampe:
esse corrono, strisciano, scivolano, ed / agili si tirano indietro le piccole code. / Guardate!
Eccole qui e colà. Ora sono sparite! Dove sono? Quale fenditura, quale erba/ ha accolto
le fuggenti? Se d’ora in poi me lo permettete, chiamerò / coteste bestioline lucertole;
poiché spesso me / ne servirò ancora come di una grata imagine», Opere, cit., p. 179).
12 Ivi, n. 68, p. 457 («Chi ha visto delle lucertole, può rappresentarsi le graziose fan-

ciulle / che passeggiano su e giù per la piazza», Opere, cit., p. 181).


13 S. Oswald, Früchte einer großen Stadt – Goethes Venezianische Epigramme, Hei-

delberg 2014, p. 318.


14 A questa interpretazione si accorda anche il riferimento di Nietzsche agli Epigram-

mi nel Caso Wagner, dove difende Goethe dalla puritana e «moralista Germania»: «è
noto il destino di Goethe […] Egli fu sempre urtante per i tedeschi, […] Che cosa rim-
proverano a Goethe? Il ‚monte di Venere‘ nonché di aver composto gli Epigrammi vene-
ziani. Già Klopstock gli tenne una predica morale; ci fu un tempo in cui Herder, quando
parlava di Goethe, usava di preferenza la parola ‚Priapo‘» (WA 3, KSA 6, p. 18; Vol. VI,
Tomo III, p. 57). Cfr. anche C. Zittel, Deutsche Klassik und Romantik. Goethe – Herder
126 Giulia Baldelli

lucertola con quelli delle fanciulle lascia emergere il carattere co-


mico della metafora, in Vocazione di poeta essa diventa una sem-
plice componente, i cui effetti inali devono ancora manifestarsi.
Il contenuto frivolo degli Epigrammi composti da Goethe nel
1790, durante il suo secondo viaggio in Italia, era il motivo prin-
cipale per il quale essi non trovarono quasi consenso, e suscitaro-
no piuttosto perplessità. Questo trattamento marginale contagiò
anche gli studi su Goethe, e a lungo si credette erroneamente che
fu Orazio ad esercitare maggiormente un’inluenza su Goethe.
La ripresa da parte di Goethe della tradizione dell’epigrammati-
ca di Marziale15, così come le numerose allusioni molto dettaglia-
te al contenuto, alla concordanza di opinioni e al topos comune
della grande città, hanno permesso invece di affermare, in modo
poi consensuale16, che i libri di epigrammi (tra l’altro più pic-
canti) di Marziale sono la fonte di ispirazione più importante di
Goethe, anche se questi «non solo [cita] ciò che ha letto, ma lo
[usa] anche come motivo, che lo spinge a imitare l’esempio»17.
Con la ripresa e l’annessione di svariati motivi della tradizio-
ne dell’epigramma di Marziale, Goethe prende parte all’acce-
so dibattito settecentesco tra Lessing e Herder18, che accanto

– Hölderlin – Kleist – Lessing – Schiller, in H. Ottmann (a cura di), Nietzsche-Handbuch.


Leben – Werk – Wirkung, Stuttgart 2011, p. 387.
15 Walter Burnikel (in Goethes «Venezianische Epigramme» und Martial, in «Goethe-

Jahrbuch», 120 (2003), pp. 242-261) raccoglie molte analoghe corrispondenze, citazioni
e acquisizioni da parte di Goethe.
16 Alle dimostrazioni di questa tesi appartengono anche la citazione di Marziale, po-

sta come motto di premessa ai suoi epigrammi, «Hominem pagina nostra sapit», o anche
il titolo Epigrammes Vénitiens, d’après le sens de Martial scritto in francese dallo stesso
Goethe nel 1823 per riassumere il suo lavoro. Cfr. S. Oswald, Früchte einer großen Stadt,
cit., pp. 115-133.
17 S. Oswald, Früchte einer großen Stadt, cit., p. 247.
18 Cfr. in particolare Zerstreute Anmerkungen über das Epigramm und einige Epi-

grammatisten (G. E. Lessing, Werke, Vol. 7, a cura di K. Bohnen, Frankfurt a. M. 2000,


pp. 179-290), in cui Lessing fa riferimento allo scritto di Herder Anmerkungen über das
griechische Epigramm. Herder approfondì ulteriormente il suo punto di vista sulla rice-
zione dell’epigramma antico nel 1786 nelle Anmerkungen über die Anthologie der Grie-
chen, besonders über das griechische Epigramm (J. G. Herder, Werke, Vol. 4, a cura di J.
Brummack und M. Bollacher, Frankfurt a. M. 1994, pp. 517-548), così come nell’intro-
duzione a Zerstreute Blätter (J. G. Herder, Werke, Vol. 3, a cura di U. Gaier, Frankfurt
Vocazione di poeta 127

a rilessioni contenutistiche discutevano in particolare su come


trasporre in tedesco i versi antichi, in particolare i distici. Les-
sing celebra Marziale come maestro e principale rappresentante
dell’epigramma comico-satirico con effetto inale (o aprosdoke-
ton), in quanto stravolge e critica con battute e satire noti oggetti
o situazioni della vita quotidiana a Roma.
Lessing descrive questa tecnica come un modo di scindere
l’epigramma in «attesa» e «risoluzione», che signiica che innan-
zitutto si genera un atteggiamento di attesa da parte del lettore
nei confronti dell’oggetto a cui si rivolge, ma tale sentimento vie-
ne poi deluso per mezzo dell’effetto a sorpresa, o rivolto verso
una risoluzione ironica o canzonatoria, che pone l’oggetto in una
nuova luce. Herder, al contrario, si serve meno dell’elemento iro-
nico o critico19, piuttosto esso dovrebbe servire al «più profondo
e nobile impulso dell’uomo, ovvero alla sua propensione a chiari-
re le proprie idee e ad ampliarle, così come a condividere con gli
altri pensieri e sensazioni»20. Herder intende dunque ricercare
una nuova deinizione del genere a partire dalla sua genesi sto-
rica, e in modo più determinato degli altri cerca di ottenere un
equivalente in tedesco. Klopstock invece riassume entrambe le
posizioni sull’epigramma, cosa che potrebbe portare ad un’inter-
pretazione inedita della metafora della freccia e della spada ado-
perata in Vocazione di poeta: «Bald ist das Epigramm ein Pfeil,
/ Trifft mit der Spitze; / Ist bald ein Schwert, / Trifft mit der
Schärfe; / Ist manchmal auch (die Griechen liebten’s so) / Ein
klein Gemäld’, ein Strahl gesandt / Zum Brennen nicht, nur zum
Erleuchten»21.

a. M. 1990, pp. 761-764). Cfr. Anche il capitolo Antike Epigrammatik in Weimar in S.


Oswald, Früchte einer großen Stadt, cit., pp. 97-105.
19 L’epigramma «divertente, satirico» è per Herder solo una delle possibili varianti

del genere dell’epigramma. Cfr. J. G. Herder, Anmerkungen über das griechische Epi-
gramm, cit., pp. 526-533.
20 Ivi, p. 526.
21 F. G. Klopstock, 31. Elfte, vergeßne Vorrede, in ders., Werke und Briefe. Epigram-

me, a cura di K. Hurlebusch, Berlin/New York 1982, p. 13: «Ora l’epigramma è una
freccia, / colpisce con la punta; / ora è una spada, / colpisce con la lama; / qualche volta è
anche (ai greci piaceva così) / un piccolo quadro, un raggio mandato / non per bruciare,
128 Giulia Baldelli

La domanda (o pretesa), come nel verso 25 di Vocazione di


poeta, di un’identiicazione tra «rime e frecce», può essere in-
terpretata da questo punto di vista come un confronto tra ge-
neri diversi, che riconosce al Lied in rima la stessa intensità e
la stessa portata dell’effetto inale, come avviene in modo simile
nell’epigramma redatto in distici e in versi sciolti. L’assonanza
tra «rima» («Reime») e «freccia» («Pfeile») sottolinea questa tesi,
in quanto la rima come «rima» compromette la «freccia», anche
se al tempo stesso ne marca la differenza (attraverso l’uso del-
la rima imperfetta, o assonanza). Se le rime sono come frecce,
anche tenendo conto in questa poesia del prevalere della rima
(in generale, e in particolare per quanto riguarda questo verso),
emerge dunque una rilessione su una caratteristica tipica dell’e-
pigramma di Marziale, nel senso già citato: Le «rime», in quan-
to rime e per mezzo della domanda ironica, posta come effetto
scherzoso, surclassano l’epigramma, lo trasformano in oggetto di
scherzo e lo stravolgono così con i suoi stessi mezzi.
Anche in Marziale si trova un epigramma interessante sulle
lucertole, che non solo presenta la strategia citata prima, ma per-
mette anche di illuminare altri aspetti della metafora nietzsche-
ana della lucertola: il breve epigramma n. 172, che consiste in
un distico ed è contenuto nel quattordicesimo libro di epigram-
mi, riporta il titolo L’uccisore di lucertole e recita quanto segue:
«Questa lucerta che ti striscia innante: / Essa morir desìa fra le
tue dita»22. Con questo epigramma Marziale fa allusione alla
statua di bronzo di Apollo di Prassitele23, cui Plinio allude nel
libro Mineralogia e storia dell’arte della Naturalis Historia e la

ma per illuminare». Secondo H. Detering Nietzsche aveva previsto originariamente di


intitolare le Canzoni come Canzoni e frecce del principe Vogelfrei (cfr. Stagnation und
Höhenlug, cit., p. 151, e anche KSA 12, pp. 83 ss.).
22 M. Valerio Marziale, Epigrammi, Roma 2006, Libro XIV, n. 172, p. 737. Il testo

originale riporta il titolo Sauroctonos Corinthius: «Ad te reptanti, puer insidiosae, lacer-
tae / parce; cupit digitis illa perire tuis».
23 La statua di bronzo Apollo Sauroctono dello scultore ateniese Prassitele (ca. 390-

320 a.C.), che risale alla metà del IV sec. a.C., appartiene, con l’Afrodite Cnidia, l’Eros di
Tespie e una serie di statue di satiri, ai suoi lavori più importanti. Copie di esso si trovano
nei Musei vaticani e al Louvre.
Vocazione di poeta 129

cui descrizione coincide in modo sorprendente con l’immagine


evocata da Nietzsche in Vocazione di poeta: «Prassitele […] fece
anche delle bellissime opere in bronzo: […] Fece anche Apollo
giovinetto che insidia da vicino con una freccia una lucertola stri-
sciante: lo chiamarono Sauroctono»24.
L’immagine di Prassitele permette di concretizzare e di uni-
re, in un’«immagine» esistente e concreta, i concetti di freccia
e di lucertola, così come l’intera scena di caccia «sotto […] gli
alberi», con la relativa metafora, contenuta nelle strofe prece-
denti, del poeta-cacciatore (che ora coincide con Apollo)25. Le
frecce e le lucertole, divenute ora immagini così concrete che
possono essere prese alla lettera, rilettono sulla base dei modelli
antichi l’ampio spettro di signiicato del cosmo goethiano nel suo
confronto con le forme antiche, con le allusioni ai generi teorici
discussi in precedenza. L’identiicazione con Apollo, come un
attore al centro dell’immagine, deinisce e rafforza la igura del
poeta come creatore di un mondo di apparenze. Nell’elabora-
zione degli epigrammi di Marziale, a partire da una fonte ora
riconoscibile, viene stravolto il topos («utilizzato nel panegirico
imperiale»26) dell’animale, che desidera la morte dalla mano
24 G. Plinio Secondo, Storia naturale, Vol. V: Mineralogia e storia dell’arte, Libri 33-
37, Torino 1988, Libro 34, pp. 191 s.
25 A questo proposito sono da sottolineare la sua origine e il suo spettro di signiicati

nei canti vedici e antichi: già nel «Rigveda il confronto con la freccia è riconoscibile. Il
canto viene messo a confronto con la freccia […]. Il cantante è un arciere […], il discor-
so è composto dalle freccie di colui che canta […]. Inoltre […] deve essere ricordato
anche il confronto con le fasi più antiche della cultura greca [l’Odissea, l’Iliade e gli Inni
di Omero e Eraclito] che si riferiscono alle somiglianze esterne della lira e dell’arco (so-
prattutto l’incordatura). […] La lira e l’arco sono entrambi di competenza di Apollo»
(R. Nünlist, Poetologische Bildersprache der frühgriechischen Dichtung, Stuttgart/Leipzig
1998, pp. 143 s.).
26 S. Kansteiner, L. Lehmann et al. (a cura di), Text und Skulptur: Berühmte Bildhauer

und Bronzegießer der Antike in Wort und Bild, Berlin 2007, pp. 92 s.: «La parola sau-
roktonos (uccisore di lucertole) usata da Plinio e Marziale non è sicuramente l’invocazio-
ne originaria (epiclesi) di questa rappresentazione di Apollo, piuttosto, nell’ignoranza del
legame culturale originale, essa viene dedotta solo attraverso gli attributi della lucertola
e della freccia. […] Nell’originale non si poteva quasi riconoscere il Dio prima dell’ucci-
sione della lucertola: poiché la lucertola non era vista come un parassita, la scena sarebbe
tutt’al più comprensibile come allusione all’uccisione del leggendario drago Pitone, tutta-
via non bisogna aspettarsi un tale aspetto quasi parodico in una scultura del IV secolo. Se
130 Giulia Baldelli

del Dio da cui è stato catturato. La sorpresa è contenuta nella


seconda parte del pentametro, come è solito fare Marziale: men-
tre nella prima parte l’«astuto giovinetto»27 Apollo deve rispar-
miare le lucertole e il lettore ne deduce che le ucciderà comun-
que, l’effetto a sorpresa consiste nel fatto che esse sono pronte a
morire di propria volontà.
Attraverso la sovrapposizione di entrambe le metafore nel
verso sulla lucertola, dalle quali, nonostante si tratti della stessa
metafora, scaturiscono battute ed effetti differenti, Nietzsche è
in grado di stabilire un legame tra le due fondamentali tradizioni
di epigrammi (già in reciproca correlazione), legame che da un
lato si giustiica per i temi trattati, e dall’altro celebra la tradizio-
ne dell’epigramma di Marziale. Con il riferimento intertestuale
agli Epigrammi veneziani Nietzsche consolida non solo la igura
di Goethe come punto di riferimento della poesia, ma anche la
città di Venezia, così importante per lui, e in particolare per le
Canzoni del principe Vogelfrei28. La duplice appropriazione da
parte di Nietzsche della tradizione dell’epigramma, così come la
ripresa di tale tradizione da parte di Goethe e Marziale, è dun-
que, da una parte, una chiara presa di posizione e, dall’altra, at-
traverso un complesso gioco di rimandi, si pone in contrasto con
la strofa in rima del Volkslied. Se Nietzsche scrive le Canzoni con
un sentimento di «malvagità»29 che rivolge ad altri poeti e ai loro
si tiene presente quanto allegramente il dio ha tenuto la freccia per il manico lungo 50 cm,
si può escludere che l’azione prenda la direzione del colpo della freccia. Si può piuttosto
dedurre che si tratta di un annuire scherzoso della lucertola».
27 L’aspetto erotico «della combinazione dell’immagine della freccia e della canzone

del fanciullo» viene nominata e sottolineata sia da Bacchilide («un altro rivolge al fanciul-
lo il suo arco variopinto»), sia da Pindaro. In Pindaro, ad esempio, si legge: «Gli uomini
del passato […] seduti sul carro delle muse accompagnato dalla celebre lira, tiravano
leggere con l’arco le canzoni smielate del fanciullo». Cit. in R. Nünlist, Poetologische
Bildersprache, cit., pp. 145 s.
28 Cfr. S. L. Gilman, «Braune Nacht». Friedrich Nietzsche’s Venetian Poems, in

«Nietzsche-Studien», 1 (1972), pp. 247-260.


29 A questo proposito si veda la prefazione di Nietzsche alla seconda edizione della

Gaia Scienza: «Quella manciata di canzoni per esempio […] – Canzoni in cui un poeta si
burla di tutti i poeti in un modo dificilmente perdonabile. Ah, non sarà soltanto contro
i poeti e i loro bei ‚sentimenti lirici‘ che questo rigenerato darà libero corso alla sua mali-
zia» (FW Vorrede 1, KSA 3, p. 346; Vol. V, Tomo II, p. 28).
Vocazione di poeta 131

«sentimenti lirici», emerge un parallelismo interessante con la ri-


elaborazione e l’esagerazione satirico-epigrammatiche delle fon-
ti, e con un effetto che non si manifesta ad una prima lettura. Nel
cosmo goethiano, anche in generale in riferimento alla Vocazione
di poeta, l’epigramma è molto appassionante proprio grazie alla
sua funzione di «poesia improvvisata», divertente e spontanea30,
che permetteva di far pratica con antiche forme poetiche e allo
stesso tempo era il genere per eccellenza di rilessioni personali
poetologiche31.

3. Come riconciliarsi con il picchio: sull’«essere picchio»


di Goethe

Dieci anni prima del dibattito sull’epigramma avvenne, a Stra-


sburgo, il primo e decisivo incontro tra Goethe e Herder. Her-
der, che a quel tempo lavorava alla sua prima raccolta di canti
popolari, aveva mandato il giovane Goethe nei dintorni di Stra-
sburgo per raccoglierne qualcuno. Questo lavoro di collabora-
zione con Goethe, tuttavia, si arenò presto, perché il rapporto di
Herder con le sue «manifestazioni lunatiche, con la sua facilità di
sarcasmi e rimproveri, in una irritabilità che oscilla tra accusa e
punzecchiatura»32, era tutt’altro che facile. L’Herder più incline
alla malinconia si sentiva rapidamente provocato dal tempera-
mento leggero e incostante di Goethe, e perciò gli assegnò dopo
poco il soprannome di picchio33. Due accenni a tale questione si
30 Qui si può vedere un legame con il preludio della Gaia Scienza, «Scherzo, Malizia
e Vendetta».
31 Peter Hess afferma addirittura che «nessun’altro genere letterario ha rilettuto così

tanto su se stesso» (Epigramm, cit., p. 1). Questo vale anche per gli Epigrammi veneziani,
di cui circa «ventiquattro pezzi, un quarto di tutto il ciclo, [si occupano] prevalentemente
o almeno in parte di aspetti poetologici e […] rappresentano da un punto di vista tema-
tico il gruppo più ampio dell’intero ciclo di epigrammi» (S. Oswald, Früchte einer großen
Stadt, cit., p. 379).
32 R. Haym, Herder. Nach seinem Leben und seinen Werken, Vol. 1, Berlin 1958, p.

421.
33 Ivi, pp. 219-224. Cfr. anche E. Richter, G. Kurscheidt (a cura di), Kommentar, in

J. W. von Goethe, Briefe, 23. Mai 1764 – 30. Dezember 1772, Berlin 2008, pp. 358 s.
132 Giulia Baldelli

trovano in una poesia di Goethe e nella nota ‚Lettera di Pindaro‘


di Goethe a Herder, dove emergono alcune caratteristiche del
picchio.
Nel 1773 Herder scrive, come allegato ad una lettera all’amata
Caroline Flachsland, la poesia Goethes Bilderfabel, i cui protago-
nisti sono un picchio variopinto (Goethe) e un povero malinco-
nico falco (lui stesso):

Hinangelogen da kam ein Specht


Von Frankfurt wol am Main;
Der klatschte mit den Flügeln recht
Und lachte froh darein.
Es war ein bunter lieber Specht;
Singt Alle, singt darein:
[Chor.]

Bunter Specht! lieber Specht!

Von Frankfurt wol am Main!


Und in Westphal‘n in wildem Wald,
Wo einst Herr Hermann schlug,
Da saß ein armer junger Falk,
Zu früh gelähmt im Flug,
Zerknickt sein Flügel nur zu bald!
Darum der wilde Wald erschallt;
[Chor.]

Armer Falk! armer Falk!


[…]

Und schnell mit Spechtstriumph und List


Trat er zum Falk hinan:
»Das ist, wenn man ein Falke ist,
Ein Raubthier, guter Mann;
Was man da speculiren thut,
Ist Alles wahr, ist Alles gut.«
[Chor.]
Vocazione di poeta 133

Dünkt Adeler sich, Jupiter,


Wenn man kaum Falke ist!

Der arme Falk, er seufzte tief;


Sein Flügel hing ihm schwer:
»Das wol kein Bruder aus Dir rief,
Du schöner, bunter Häh‘r!
Lob‘ ich nicht Deiner Farben Zier,
Nußkern und Rindlein lasse Dir?«
[Chor.]

Bunter Specht! Apollo’s Specht!


Und seiner Leyer Zier!34

Anche senza un’analisi dettagliata della poesia, si nota che


soprattutto la sua strofa leggera e canzonatoria, propria del
Volkslied tedesco, e la igura del picchio posato sulla lira di Apol-
lo, come nella caratterizzazione di Goethe, rappresentano due
elementi rilevanti per Vocazione di poeta: Goethe come picchio, e
il picchio come uccello appartenente ad Apollo35, che sottolinea
il carattere lirico della poesia.
Goethe iniziò ad occuparsi dell’epigramma antico e delle sue
forme nel 1780 con la traduzione da parte di Herder dell’An-
thologia Graeca, in seguito alla quale cominciò a scrivere alcune

34 J. G. Herder, Goethes Bilderfabel, in Werke. Erster Theil. Gedichte, Berlin 1879,

pp. 320 ss.: Volando arrivò un picchio / Da Francoforte sul Meno; / Batteva bene le ali,
/ E di questo rideva felice. / Era un caro picchio variopinto; / Cantate tutti, cantate: /
[coro] / Picchio variopinto! Picchio caro! / Da Francoforte sul Meno! / E in Vestfalia
nel bosco selvaggio, / dove un tempo si batté Arminio, / sedeva un povero giovane falco,
/ troppo presto paralizzato in volo, / troppo presto la sua ala si ruppe! / Così echeggiò
il bosco selvaggio; / [coro] / Povero falco! Povero falco! / […] / Veloce con trionfo
da picchio e astuzia / si avvicinò al falco: / «Quando si è un falco si è / un predatore,
buon’uomo; / ciò di cui si va speculando / è tutto vero, è tutto giusto» [coro] / Ci si crede
più nobile, Giove, / quando non si è un falco! / Il povero falco sospirava a fondo / La sua
ala pendeva pesante: / «Non è un fratello che in te parla, / Bella, variopinta ghiandaia!
/ Non lodo i tuoi colori ornamentali, / ti lascio una noce e un piccolo bove?» / [coro] /
Picchio variopinto! Picchio di Apollo! / Ornamento della sua lira!
35 Cfr. l’elenco delle fonti antiche citate in R. Nünlist, Poetologische Bildersprache der

frühgriechischen Dichtung, cit., pp. 39 s.


134 Giulia Baldelli

poesie in esametri. L’interesse per gli antichi greci iniziò molto


prima, ma fu sempre mediato dal lavoro di Herder. Nel 1772, in
una lettera indirizzata a Herder, Goethe approfondisce questo
interesse e rilette sull’identiicazione del suo carattere di «pic-
chio» con la poesia pindarica e con la scultura greca. Ripren-
de così l’attribuzione di Herder, che descriveva Goethe come
un «picchio» che «è tutt’occhi, ma con un occhio di uccello»36.
Questo rimanda alla teoria che Herder espone nella Plastica37,
secondo cui la vista, per comprendere il vero signiicato delle
forme degli oggetti, deve essere connessa in modo essenziale con
il tatto – tutto il resto sarebbe una mera «opinione d’uccello».
Così scrive Goethe a Herder:

Da quando non ho più avuto vostre notizie i greci sono diventati il


mio unico oggetto di studio. […] Il loro spirito buono mi ha inalmente
svelato il motivo della mia natura di picchio. Mi si è rivelato attraverso
le parole di Pindaro επικρατειν δυνασθαι. Se tu siedi coraggiosamente
in una carrozza e quattro nuovi cavalli si impennano selvaggiamente e
in modo disordinato nelle briglie, tu controlli la loro forza, […] cambi
direzione, sferzi il frustino, ti fermi, e di nuovo li sproni inché tutti e
sedici i piedi legati ad un unico tiro ti portano dritto alla meta. Questa
è abilità, […] virtuosismo. Ma quando vado in giro, io guardo ogni cosa
senza afferrare nulla. Saper afferrare, ghermire, questa è l’essenza di
ogni abilità. Voi l’avete dalla scultura, e io penso che un artista non val-
ga nulla se le sue mani non sanno lavorare in modo concreto, plastico.

36 J. W. von Goethe, Briefe 23. Mai 1764 – 30. Dezember 1772, cit. p. 413. Con ciò si

intende «la capacità di Goethe di un vedere immediato e consapevole, di un immaginare


una cosa da diverse prospettive […], che lo dispone alla conoscenza dell’essere delle cose
e delle connessioni, a ciò che è caratteristico» (J. W. von Goethe, Briefe 18. September
1786 – 10. Juni 1788, Vol. 7, a cura di V. Giel, Berlin 2012, p. 47).
37 Cfr. alcuni passaggi di Herder nella Plastica: «Fate che una creatura tutta occhi,

persino un Argo dai cento occhi, guardi per cento anni una statua, e la consideri da ogni
lato; non è una creatura fornita di mani, che una volta abbia potuto tastare, e quanto-
meno tastare se stessa; un occhio d’uccello, tutto becco, tutto sguardo, tutto ali e artigli,
non avrà mai di una tale cosa che una visione a volo d’uccello. […] L’occhio è solo un
indicatore, solo la ragione della mano; solo la mano dà le forme, i concetti di ciò che esse
signiicano, di ciò che in esse abita» (J. G. Herder, Plastica, a cura di D. Di Maio e S.
Tedesco, Palermo, 2010, pp. 35, 55).
Vocazione di poeta 135

Tutto è occhio in voi, mi dite spesso. Ora lo capisco, io chiudo gli occhi
e brancolo nel buio38.

4. Con il picchio parlare in «tic-tac»

Secondo Herder un aspetto centrale dell’interesse per gli


epigrammi greci è la loro trasposizione in tedesco. Egli è infatti
convinto che nella trasposizione dei metri antichi sia possibile
raggiungere un effetto simile in tedesco, «la lingua sorella del
greco»39, che descrive come segue:

Com’è lessibile ad ogni immagine […]! Com’è lessibile, in parti-


colare, nella bella misura che l’epigramma ha scelto per sé! Esametro
e pentametro intrecciano una ghirlanda di parole, così come offrono
all’orecchio una danza circolare di sillabe. Quale lingua potrebbe van-
tare una tale misura di sillabe40?

Da tale emergente cultura tedesca dell’epigramma, scrive


Herder, ci si aspetta che «forse un giorno un’antologia tedesca
competerà con i greci per la superiorità»41. I numerosi tentativi
di molti poeti rinomati mostrano tuttavia delle dificoltà di fon-
38 Lettera a Herder (Nr. 106), circa 10.7.1772 (Wetzlar), in J. W. von Goethe, Briefe
23. Mai 1764 – 30. Dezember 1772, cit., pp. 230 ss.: «Seit ich nichts von euch gehört
habe, sind die Griechen mein einzig Studium. […] Auch hat mir endlich der gute Geist
den Grund meines spechtischen Wesens entdeckt. Über den Worten Pindars επικρατειν
δυνασθαι ist mirs aufgegangen. Wenn du kühn im Wagen stehst, und vier neue Pfer-
de wild unordentlich sich in deinen Zügeln bäumen, du ihre Krafft lenckst, […] und
wendest, peitschest, hältst und wieder ausjagst biss alle sechzehn Füsse in einem Trackt
ans Ziel tragen. Das ist Meisterschafft, […] Virtuosität. Wenn ich nun aber überall he-
rumspaziert binn, überall nur drein geguckt habe. Nirgends zugegriffen. Dreingreiffen,
packen ist das Wesen jeder meisterschafft. Ihr habt das der Bildhauerey vindizirt, und
ich inde dass ieder Künstler so lang seine Hände nicht plastisch arbeiten nichts ist. Es ist
alles so Blick bey euch, sagtet ihr mir offt. Jetzt versteh ich’s tue die Augen zu und tappe».
39 J. G. Herder, Einleitung zu den Zerstreuten Blättern, cit., p. 763. Cfr. a proposito

della traduzione del canto popolare anche R. Singer, “Nachgesang”. Ein Konzept Herders,
entwickelt an Ossian, der Popular Ballad und der frühen Kunstballade, Würzburg 2006,
pp. 17-32.
40 J. G. Herder, Anmerkungen über die Anthologie der Griechen, cit., pp. 512 s.
41 J. G. Herder, Einleitung zu den Zerstreuten Blättern, cit., p. 764.
136 Giulia Baldelli

do, che riguardano la trasposizione della metrica quantitativa se-


condo il principio dinamico di accentazione della lingua tedesca.
Un problema di cui si è occupato, nei secoli, soprattutto il genere
dell’epigramma.
Mentre da una parte la metrica antica è rimasta a lungo l’ide-
ale di riferimento, parallelamente alla poesia in versi francese è
emersa nella metrica tedesca una tendenza non meno profonda.
Questa tendenza segue il principio di accentazione musicale, che
lascia cadere l’accento di una sequenza di sillabe sul suono più
alto, il quale solitamente si trova alla ine della stessa sequenza.
L’accento entra dunque in contatto con altre altezze di suono, il
che porta alla formazione della rima, la quale, «al seguito della
poesia provenzale trobadorica (dal 1100) […], è divenuta e in
modo naturale addirittura la caratteristica lirica di tutte le lette-
rature europee»42. Ma anche l’inluenza della tradizione francese
sulla prosodia tedesca presenta alcuni problemi:

Il risultato di questo processo di adattamento è il principio di alter-


nanza, ovvero una limitazione della libertà di dover porre tra due po-
sizioni accentate anche diverse sillabe non accentate. […] Il principio
di alternanza è tuttavia una camicia di forza, in quanto caratterizza il
verso in lingua tedesca attraverso il numero degli arsi. In tedesco ven-
gono contate non solo le sillabe, ma anche le posizioni accentate, […]
nella misura in cui [la storia della poesia tedesca] si è emancipata dalla
metrica dei romantici e degli antichi43.

La chiara posizione di Nietzsche e la scelta formale in favo-


re della poesia provenzale, perseguita nelle Canzoni del principe
Vogelfrei, richiede tuttavia sempre un confronto vivo con i ten-
tativi (intrapresi da altri) di una traduzione delle forme antiche.
Si tratta in un certo qual modo, nonostante i molti problemi di
metrica che Nietzsche aggira abilmente, di un’incorporazione
poetica di tale confronto, e allo stesso tempo di un mezzo per
mantenere le distanze e confrontarsi con la metrica quantitativa.

42 D. Breuer, Deutsche Metrik- und Versgeschichte, cit., pp. 45 s.


43 Ivi, p. 66.
Vocazione di poeta 137

Questa posizione implica alcuni problemi di metrica, tuttavia la


trasposizione della metrica francese nella lingua tedesca risulta
senza dubbio più facile. I vantaggi e gli svantaggi di entrambe le
tradizioni poetiche, e le loro dificoltà di traduzione nella pro-
sodia tedesca, vengono descritti da Nietzsche in una lettera al
teorico musicale Carl Fuchs del 1886:

Allora [1871] mi opponevo anima e corpo all’idea che ad es. un esa-


metro tedesco avesse una qualche parentela con uno greco. Quel che
io affermavo, per restare a questo esempio, era che […] lo stimolo rit-
mico risiedesse esattamente nelle quantità temporali e nei loro rappor-
ti, e non, come nell’esametro tedesco, nello hoplalà dell’ictus […] Ciò
che nel mondo antico distingueva il verso dalla lingua corrente era per
l’appunto il rigore con cui si atteneva alla durata di una sillaba […]. A
noi è a malapena possibile percepire una ritmica basata soltanto sulla
quantità, tanto siamo abituati ad una ritmica emotiva del forte e del
debole, del crescendo e del diminuendo […]. Senza dubbio i nostri po-
eti tedeschi nei loro «metri antichi» hanno introdotto nella poesia una
grande varietà di seduzioni ritmiche che prima erano assenti (il tic-tac
dei nostri poeti in rima alla lunga è insopportabile): ma un antico non
avrebbe percepito alcunché di questo genere di incantamenti, e non
tanto meno avrebbe creduto di sentire i suoi metri. – È forse più faci-
le che una metrica basata unicamente sulle quantità temporali venga
compresa dai francesi, in quanto percepiscono come tempo il numero
delle sillabe (Nr. 688, KSB 7, pp. 178 s.; E Vol. V, n. 688, p. 179).

Naturalmente anche Goethe era pienamente a conoscenza di


questa problematica44, che affronta in diversi punti negli Epi-
grammi veneziani – in particolare nel Ciclo della lucertola. Un
esempio è il secondo distico dell’epigramma 67, dove descrive le
lucertole «come serpentelli però a quattro zampe», che muovono
44 In Tag- und Jahres-Heften del 1793 Goethe scrive: «non devo dimenticarmi di

sottolineare che mi ero riproposto di considerarlo [il Reineke Fuchs] come un esercizio
in esametri, che noi allora liberamente avevamo proposto solo al nostro udito. Voß, che
aveva capito la situazione, mentre Klopstock era ancora in vita, non voleva dirgli in faccia
quanto i suoi esametri fossero terribili, per pietà del vecchio signore. Dovevamo espiarlo
noi giovani, iniziati in da giovani a questa ritmica» (J.W. von Goethe, Sämtliche Werke,
Tag- und Jahres-Hefte, Vol. 17, a cura di I. Schmid, Frankfurt a. M. 1994, p. 24).
138 Giulia Baldelli

leggermente la coda, secondo un movimento sottolineato dall’ul-


tima parte, aggiunta attraverso un elegante enjambement.
I circa 67 epigrammi postumi, che per il loro contenuto espli-
cito non sono rientrati nella rigida selezione, problematizzano
ulteriormente le dificoltà di traduzione: «Gib mir statt ‹Der Sch
. . . › ein ander Wort o Priapus / Denn ich Deutscher bin übel
als Dichter geplagt»45. Goethe si spinge talmente oltre che in un
epigramma postumo ammette addirittura di usare parole stra-
niere per motivi metrici, e prega il lettore di essere comprensivo:
«Deutscher Leser erlaube mir nun bey fremden zu [borgen] /
[…] Fremde Sprachen verstehst du, oh deutscher Leser, in ei-
nem / Kleinen Gedichte verstehst du wohl auch ein fremdes
Wort»46. Victor Hehn riconosce qui il motivo per il quale Goe-
the «negli Epigrammi veneziani [evita] la parola Eidechse (lucer-
tola) e preferisce l’equivalente latino Lacerte»47. Goethe utilizza
la parola «Lacerte», accordata al distico, per non dover accenta-
re la seconda sillaba48, e dunque per rispettare l’esametro.

45 J. W. von Goethe, Venezianische Epigramme, Nachlass (Epigramm 38), in ders.,


Sämtliche Werke. Gedichte 1756-1799, hg. v. K. Eibl, Frankfurt a. M. 1987, S. 472 (trad.
it.: Epigrammi (postumi), in Id., Tutte le poesie, 2 Voll., a cura di R. Fertonani, Milano
1994, p. 445: «Invece di ‚coda‘ dammi un altro termine Priapo / perché io tedesco sono
in dificoltà come poeta»). L’epigramma che precede (n. 37) è in ogni caso un epigramma
postumo sulla lucertola: «Seid ihr ein Fremder, mein Herr? bewohnt ihr Venedig? so
fragten / Zwei Lacerten die mich in die Spelunke gelockt. / Ratet! – Ihr seid ein Franzos!
[…]» (p. 471) («Siete forestiero signore? Abitate a Venezia? Chiesero / due lucertole
che mi avevano attirato nella bettola. / Indovinate! Siete francese, napoletano!», p. 445).
Cfr. anche l’epigramma seguente, n. 39: «Camper der jüngere trug in Rom die Lehre des
Vaters / Von den Tieren uns vor […] / Alles gebrochenes Deutsch so wie geerbter Be-
griff. / Endlich sagt’ er: Vierfüßiges Tier wir haben’s vollendet / Und es bleibet uns nur,
Freunde, das Vöglen zurück! […]» (p. 472) («A Roma Camper il giovane ci esponeva
la scienza paterna / degli animali […] / Tutto / in un tedesco approssimativo, come il
concetto era ereditato. / Alla ine disse: ‚I quadrupedi li abbiamo conclusi, / e ora, amici,
ci rimane solo l’uccellare‘», p. 445).
46 GSA 27/60, Bl. 51v. («Lettore tedesco permettimi di [prendere in prestito] solo

dagli stranieri / […] tu comprendi le lingue straniere, lettore tedesco, in una / breve
poesia comprendi bene anche una parola straniera»).
47 V. Hehn, Gedanken über Goethe, Berlin 1909, p. 387.
48 August von Platen, nella poesia Amali (1827), propone ad esempio una soluzione

diversa: «Núr Eidéchsen umklettern es jetzt, nur latternde Raben», cit. in M. Koch, E.
Vocazione di poeta 139

Se ripercorriamo alcuni passi della poesia tenendo conto di


queste informazioni più speciiche sul distico e sulle sue difi-
coltà di traduzione, e considerando le corrispondenti metafore
utilizzate per l’epigramma, si aprono nuove prospettive di inter-
pretazione: se nella terza strofa la rima cade alla ine del det-
to (un’altra parola per epigramma), allora viene qui intrapresa
formalmente, attraverso la rima, una battaglia contro il genere
non in rima, che «d’un balzo» gli tiene testa attraverso il verso
rimato. È interessante notare che in una rafinata combinazione
con la rima interviene qui un enjambement tipico del distico. An-
che il verso seguente presenta, accanto alla rima interna «guizza»
(«schlüpft») e «saltella» («hüpft»), un’altra rima composta con
un enjambement. Leggendo ad alta voce, le parole «sticht er»
(incide), attraverso l’enjambement, si fondono l’una con l’altra
in una sola parola, «stichta», che crea dunque non solo un rima
quasi identica con «Dichter» (poeta) del verso seguente (dunque
«stichta dichta»), ma anche una rima incrociata. Il gioco di pa-
role ricorda fortemente anche la radice «stichta» contenuta nel
distico, che indica una strofa quantiicata senza rima. L’avverbio
«gleich» (pronto), che precede le parole «sticht er» (incide), sa-
rebbe quindi da leggere nel senso di «regolare».
Nietzsche, al contrario di Goethe, nel verso sulla lucertola non
ha alcun problema nell’inserire attraverso la strofa in rima il com-
posto «Lacerten-Leibchen» (corpicciolo di lucertola), e con la
metafora seguente dell’ubriachezza, sottolineata da termini come
«barcollare», «avvinazzati», «oblique», «ebbre», rimanda allo
squilibrio formatosi nella sovrapposizione della lingua tedesca
con la metrica antica, che fa ricorso necessariamente ad un latino
tedeschizzato. Alle «sentenziucole oblique», dal momento in cui
esse «pendono alla catena del tic-tac» del metro antico, non sa-
ranno permesse libertà simili. La rima di Nietzsche, trasformata
in freccia (rima frecciata), prende dunque di mira la poesia sulle

Petzet (a cura di), August Graf von Platens sämtliche Werke, Vol. 4, Leipzig 1910, p. 146.
Cfr. anche V. Hehn, Gedanken über Goethe, cit., p. 388.
140 Giulia Baldelli

lucertole di Goethe, che avrebbe dovuto avere anch’essa qualche


freccia a disposizione.

5. Conclusioni

Sullo sfondo degli Epigrammi veneziani, della tradizione


dell’epigramma di Marziale e sulla base del rimando alla statua
di Prassitele degli uccisori di lucertole, è possibile identiicare
tre possibili interpretazioni del verso di Nietzsche sulla lucer-
tola, ognuna delle quali, presa per sé, ma anche come singola
parte dell’immagine complessiva, rende evidente la sua posizione
chiave nella poesia. Il denominatore comune più importante è
dunque Goethe e la sovrapposizione con la forma dell’epigram-
ma, così come la sua trasposizione in tedesco. Nel verso sulla
lucertola, «l’inganno di poeti» (A Goethe) cui allude Goethe
viene deriso alla luce del risultato della trasposizione metrica.
Tuttavia, attraverso la complessa ripresa dell’immagine can-
giante della lucertola emergono chiaramente e in senso positi-
vo componenti erotiche o satiriche della poesia in epigrammi di
Marziale. L’appropriazione di Marziale funziona, sia in Goethe
che in Nietzsche, in modo simile: mentre Goethe riprende le ca-
ratteristiche principali del contenuto dalla poesia in epigrammi
di Marziale, ma «fallisce» nella realizzazione formale, Nietzsche
sceglie dall’inizio la posizione opposta dei canti provenzali, e at-
traverso la sua limitatezza formale, misurata alla lingua tedesca,
ridicolizza i tentativi di Goethe di poetare in distici. Allo stesso
tempo gli effetti, divenuti parte dello schema rimico, per il fat-
to che si confrontano in modo poetologicamente più produttivo
con il genere dell’epigramma come tale, ed in particolare con la
tradizione di Marziale dell’epigramma satirico, acquisiscono un
signiicato più profondo.
La componente speciicamente satirica dell’epigramma diven-
ta parte, attraverso la sua ripresa, dell’effetto divertente e can-
zonatorio dei meccanismi poetici della strofa in rima. Il concet-
to di parodia, spesso e anche a ragione adottato in riferimento
Vocazione di poeta 141

a Vocazione di poeta, non può essere usato qui così facilmente


come in The Raven di Poe. Certamente il concetto di parodia di
Goethe, spiegato da Gilman e in parte adottato da Nietzsche,
sembra compatibile49 con l’acquisizione dei rispettivi esempi nel
senso già speciicato, tuttavia nel complesso gioco di riferimenti
reciproci del testo si perde l’idea di un oggetto o un soggetto
chiaramente parodiabili. Diversamente dalla poesia A Goethe,
che si cimenta direttamente con il testo originale di Goethe e lo
trasforma in versi, i riferimenti in Vocazione di poeta sono più
sottili, in quanto fanno allusione al poeta Goethe che negli Epi-
grammi veneziani si confronta con la tradizione poetica in modo
altrettanto signiicativo. Accanto alle questioni di contenuto, tali
riferimenti riguardano, anche nel confronto con Herder, soprat-
tutto la ritmica e il metro.
Nella igura del picchio si riconosce dunque il secondo poe-
ta50 personiicato nella poesia, e si legge anche diversamente il
gioco di domanda-risposta della seconda strofa, ovvero il dialogo
tra il picchio e il poeta: è il picchio-Goethe, che stabilisce il tem-
po e dunque anche la base della strofa lirica, a deridere il poeta
impazzito, oppure il contrario? Alla luce del dubbio sollevato
sull’effettivo colloquio tra il poeta e il picchio, e facendo luce sul
metodo di Goethe (ripreso nuovamente da Nietzsche) di una in-
corporazione regolare e di un uso produttivo del modello di rife-
rimento, è possibile supporre anche un scissione dell’Io-poeta in
due poeti, e dunque un’interpretazione del picchio come simbo-

49 Gilman scrive al riguardo: «Understood in Goethe’s evaluation of the parodic

mode is the intrinsic value of the parody vis-a-vis its prototype. […] The independent
existence of parody excludes its consideration as a trivial appendage to the original. Since
it functions on a level equal and parallel to the most exalted structures, it is not predispo-
sed to treat its prototype in a negative manner, that is, to transmute it into the realm of the
comic» (S. L. Gilman, Incipit parodia, cit., p. 55). E su Nietzsche: «Through his parody,
through his selection of items from the rag bag of history and his crafting them into his
own garment, the reader is given a look into Nietzsche’s perception of the prototypes and
therefore into the inner workings of his creative imagination» (ivi, p. 62).
50 Particolarmente interessante è la questione se con il verso «Tu un poeta? Saresti tu

un poeta?» (v. 13) si intende veramente una igura di poeta, o piuttosto due poeti diversi.
142 Giulia Baldelli

lo di tale scissione. Il reciproco deridere e canzonarsi potrebbe


così essere inteso come un’«auto-derisione»51.

Traduzione di Susanna Zellini

51 H. Detering, Stagnation und Höhenlug, cit., p. 53.


Zarathustras «Kunst der Gebärde»
Von Nietzsches Gebärdenbegriff zu Max
Kommerells Sprachgebärde

Gabriella Pelloni

In einer prominenten Textstelle in Ecce homo, in der sich


Nietzsche mit Bezug auf Also sprach Zarathustra programma-
tisch über den Stil äußert, kommt eine Konzeption der Spra-
che zum Vorschein, die offensichtlich in einem sprachphilo-
sophisch-anthropologischen Gegensatz zur tropischen Logik
steht, die Nietzsches radikalem sprachkritischem Vorbehalt zu-
grunde liegt. So schreibt der Philosoph:

Ich sage zugleich noch ein allgemeines Wort über meine Ku nst
des St i ls. Einen Zustand, eine innere Spannung von Pathos durch
Zeichen, eingerechnet das tempo dieser Zeichen, m it z ut hei le n – das
ist der Sinn jedes Stils; und in Anbetracht, dass die Vielheit innerer
Zustände bei mir ausserordentlich ist, giebt es bei mir viele Möglich-
keiten des Stils – die vielfachste Kunst des Stils überhaupt, über die je
ein Mensch verfügt hat. Gut ist jeder Stil, der einen inneren Zustand
wirklich mittheilt, der sich über die Zeichen, über das tempo der Zei-
chen, über die Gebä rde n – alle Gesetze der Periode sind Kunst der
Gebärde – nicht vergreift (EH Bücher 4, KSA 6, S. 304).

Diese Äußerung zum Stil als der Fähigkeit, eine innere Span-
nung von Pathos, einen inneren Zustand durch Zeichen wirklich
mitzuteilen, zeugt davon, dass Nietzsche, aller radikalen Skepsis
gegenüber der Sprache als Instrument geglückter Selbstrele-
xion und –erkenntnis zum Trotz, auch eine Idee von Sprache
anvisiert, die nicht als Schein und Verführung verstanden wird.
Neben der in Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen
Sinne formulierten Kritik der Sprache aus ihrer Begriflichkeit
144 Gabriella Pelloni

heraus, nach der das Wort unüberbrückbar von dem getrennt


ist, was es wesenslogisch zu bezeichnen vorgibt1, indet sich im
Frühwerk auch eine, wenn auch unsystematische, Erörterung ei-
ner verschiedenen Sprachkonzeption, der eine tragende Bedeu-
tung zukommt, wenn es um die Frage nach der Mitteilbarkeit
von Gefühlen und Affekten geht. Gerade im Sinne der Mitteil-
barkeit von Pathos und Leidenschaften werden in der Geburt
der Tragödie die berühmten Koordinaten festgelegt: Zentral ist
die Musik, deren Tonalität Schmerz und Lust direkt ausdrückt,
alles andere sind symbolische Gesten. Nach diesen Koordinaten
kann kein lyrischer Ausdruck die dionysische Mystik ersetzen,
da Bild und Ton keine notwendige Beziehung zueinander haben:
«Die mystische Burg der Musik – das freie Gelände der Meta-
pher», so fasst es Sarah Kofman zusammen2.
Diese frühe Sprachkonzeption wird Nietzsche, so die vorlie-
gende These, zu einer Idee von Sprache als «Kunst der Gebär-
de» (ebd.) entwickeln, die er mit dem speziischen Schreibstil
des Zarathustra identiiziert. Dabei geht es ihm, wie es zu zei-
gen gilt, um eine Revitalisierung der zur Konvention erstarrten
Sprache der begriflichen Mitteilung – ein zentrales kulturelles
Anliegen, das seine eigene artistische Praxis betrifft. Die Dy-
namik der Sprachsuche und -indung im Zarathustra stellt eine
Reaktion auf die alarmierte Diagnose des aktuellen Zustands
der Sprache dar, die Nietzsche bereits in seiner in der 4. Un-
zeitgemäßen Betrachtung durchgeführten Erörterung des Wag-
nerschen Musikdramas formuliert. Es ist unbestreitbar, dass die
Frage nach dem Verhältnis von Ton und Wort, von Musik und
Sprache bei Wagner und Nietzsche eine besondere Wichtigkeit
erhält, und nicht nur was die Radikalität anbetrifft, mit der die-
ses Verhältnis durchdacht und gestaltet wird, sondern auch mit
1 Vgl.: «Die Wahrheiten sind Illusionen, von denen man vergessen hat, dass sie wel-

che sind, Metaphern, die abgenutzt und sinnlich kraftlos geworden sind» (WL, KSA I,
880 f.). Nietzsche hält an die Prinzipien dieser Kritik bis ins Spätwerk fest, verfeinert sie
aber analytisch, wenn er sie auf die «Verführung von seiten der Grammatik her» aus-
dehnt (JGB, KSA 5, S. 11 f.).
2 S. Kofman, Nietzsche und die Metapher, übers. von F. Scherübl, Berlin 2014, S.

202.
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 145

Blick auf die überragende Bedeutung dieses Paradigmas für die


deutsche und europäische Kultur des 20. Jahrhunderts. Es gibt
keinen vergleichbar anspruchsvollen Versuch, die Dimensionen
von Musik einerseits, von Symbol und Sprache andererseits in
Kontakt miteinander zu bringen.
Es ist wenig bekannt, dass Max Kommerell, der Literatur-
kritiker, der am eindrücklichsten die Sprachgebärde als Kate-
gorie für die Literaturwissenschaft operativ machte, sich in den
dreißiger Jahren intensiv mit Nietzsche und vor allem mit dem
Zarathustra beschäftigte, und zwar in der Schaffensphase, die
unmittelbar seiner Trennung vom George-Kreis folgte. In dieser
Zeit legt Kommerell eine Zarathustra-Lektüre vor, die teilweise
noch in Form von unveröffentlichten Notizen, Aufzeichnun-
gen und Typoskripten festgehalten ist3 und sein Konzept der
Sprachgebärde, das infolge einer Anregung von Giorgio Agam-
ben4 vorzugsweise in die Nähe von Walter Benjamins Begriff
der Geste gerückt wurde5, wohl wesentlich prägt. Kommerell,

3 Kommerell hat zeitlebens nur den Aufsatz über die Dionysos-Dithyramben publi-

ziert: M. Kommerell, Nietzsches Dionysos-Dithyramben, in ders., Gedanken über Gedich-


te, Frankfurt a. M., 3. Aul. 1968, S. 481-491. Posthum erschienen sind die Notizen über
George und Nietzsche (1934/35), in M. Kommerell, Essays, Notizen, poetische Fragmente,
aus dem Nachlass hg. von I. Jens, Olten/Freiburg i. B. 1969, S. 225-250, und neulich die
Rede Zwei symbolische Bücher. Über Nietzsche und George, erstmals hg. von C. König, in
«Geschichte der Germanistik. Historische Zeitschrift für die Philologien», 47/48 (2015),
S. 109-116. In Max-Kommerell-Nachlass im Deutschen Literaturarchiv Marbach bein-
det sich noch eine Mappe mit Notizen, die wohl meist dem Zarathustra gewidmet sind
(D-Kommerell / IT 1612-1750).
4 G. Agambens, Kommerell o del gesto, in ders., La potenza del pensiero. Saggi e con-

ferenze, Vicenza 2005, S. 237-249. Das Hauptinteresse Agambens gilt einer Konzeption
der Sprache, in der das Wort als «Urgebärde» (Kommerell) verstanden wird. Er spricht
in Heideggerscher Terminologie vom «Wohnen in der Sprache», betont dabei allerdings
das «Wohnen ohne Worte in der Sprache» und deiniert die Geste in diesem Zusammen-
hang sogar als ein «Sich-nicht-zurecht-inden» in der Sprache, eine fundamentale Leere,
die von der Improvisation des Schauspielers überspielt wird. Zu Agambens Essay vgl. I.
Schiffermüller, Max Kommerell in der Philosophie von Giorgio Agamben. Zur Aufgabe der
Literaturkritik, in C. Benne, C. König, G. Pelloni, I. Schiffermüller (Hgg.), Max Komme-
rell (1902-1944). Zur Aktualität von Lektürepraxis und Traditionsbildung, Göttingen (im
Erscheinen).
5 Zur Konstellation Kommerell/Benjamin vgl. die Beiträge von M. Massalongo

(Versuch zu einem kritischen Vergleich zwischen Kommerells und Benjamins Sprachgebär-


146 Gabriella Pelloni

der sich radikal von der sogenannten «Nietzsche-Legende» des


George-Kreises distanziert, liest interessanterweise den Text im
Zeichen der Gebärde als Manifestation der Krise des traditionel-
len Subjektes und kann mithin den daraus resultierenden Reich-
tum an expressiven, imitierenden, pantomimischen und parodie-
renden Ausdrucksverfahren des Textes hervorheben.
Ich werde mich zunächst um eine textimmanente Rekonstruk-
tion der nietzscheanischen Konzeption der Sprache als Gebärde
bemühen. Erst dann werde ich auf die wesentlichen Züge der
Lektüre Kommerells eingehen, um die verschiedenen Perspek-
tiven in Hinblick auf die Gebärde zu erhellen und somit Kom-
merells Nähe und Distanz zu Nietzsche zu erläutern. In dieser
Hinsicht verstehe ich die Analyse nicht nur als Erörterung eines
bisher vernachlässigten Aspekts der Poetik Nietzsches6, sondern
auch als einen Beitrag zu einem noch unbekannten Kapitel der
Zarathustra-Rezeption7, das die philosophische Diskussion über
die Geste mit neuen Impulsen bereichern kann.

1. Nietzsches Gebärdenbegriff

Die folgende Entwicklung des Gebärdenbegriffs lässt sich bei


Nietzsche anhand einiger Textstellen begründen: Von der ge-

de) und R. Nägele (Vexierbild einer kritischen Konstellation. Walter Benjamin und Max
Kommerell), in W. Busch, G. Pickerodt (Hgg.), Max Kommerell. Leben – Werk – Aktua-
lität, Göttingen 2003, S. 118-161 und S. 349-367.
6 Überzeugend hat Lukas Labhart den Zusammenhang zwischen Nietzsches Über-

setzung von Aristoteles‘ Rhetorik, seine Überlegungen zum Stil und Also sprach Zarathus-
tra herausgearbeitet, ohne aber im Detail auf den Gebärdenbegriff einzugehen. Vgl. L.
Labhart, pro ommáton poiein. Nietzsches Teilübersetzung von Aristoteles‘ Rhetorik, Zur
Lehre vom Stil und Also sprach Zarathustra, in «Nietzscheforschung», 7 (2000), S. 141-
158.
7 Zu Kommerells Nietzsche-Rezeption vgl. neulich C. König, Zur Erkenntniskritik

in Max Kommerells Nietzsche-Lektüren, in C. Benne, C. König, G. Pelloni, I. Schiffer-


müller (Hgg.), Max Kommerell (1902-1944), zit., der aber nicht auf die Sprachgebärde
eingeht. Ansonsten vgl. dazu I. Schiffermüller, Gebärde, Gestikulation und Mimus. Kri-
sengestalten in der Poetik von Max Kommerell, in W. Busch, G. Pickerodt (Hgg.), Max
Kommerell, zit., S. 98-117.
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 147

läuigeren Bedeutung von Gebärde als körperlicher Gestik, als


einem non-verbalen Element außerhalb der Sprache, wird die
Gebärde zu einer operativen Kraft, die in der Sprache und fol-
gend vor allem in der Schrift wirksam ist.
Im vierten Abschnitt der Dionysischen Weltanschauung, in
dem es um die Ausdruckfähigkeit und Mitteilbarkeit des Ge-
fühls geht, unterscheidet Nietzsche zwischen einer bewussten
Mitteilungsart – d.h. einer Umsetzung des Gefühls in bewusste
Vorstellungen, bei denen aber immer ein «unaulösbarer Rest»
bleibt – und einer instinktiven, körperlichen Mitteilungsart, zu
der zwei verschiedene Ausdrucksweisen gehören: die «Geber-
den- und die Tonsprache» (DW 4, KSA 1, S. 572). Eine Gebärde
wird, so Nietzsche, von einem Zustand hervorgebracht, der eine
Relexbewegung erzeugt, und symbolisiert diesen selben Zu-
stand. «Symbol» bedeutet hier ein «andeutendes Zeichen», das
sichtbar ist, wahrgenommen wird und über dessen Verständnis
man übereinkommt: «nur dass in diesem Falle das allgemeine
Verständniss ein instinktives ist, also nicht durch die helle Be-
wusstheit hindurchgegangen ist» (ebd.)8. Da das «Gefühl» hier
im Sinne Schopenhauers als «ein Komplex von unbewussten
Vorstellungen und Willenszuständen» (ebd.) verstanden wird,
folgert Nietzsche, dass die Gebärde im apollinischen Medium
des Bildes die «begleitende Vorstellung» symbolisiert und über
das Epos zur bildenden Kunst führt, während der Ton die Re-
gungen des Willens vermittelt und über die Lyrik zur Musik
führt. Hieran schließt die Deinition der Sprache als die «innigste
und häuigste Verschmelzung von einer Art Geberdensymbolik
und dem Ton» (ebd., S. 575) an. Ton, Fall, Stärke und Rhythmus
des Wortes symbolisieren das sogenannte «Wesen des Dinges»,
während die Mundgebärde für die begleitende Vorstellung, das

8 Dazu vgl. auch MA I, 216: Während Gebärde und Mimus für Nietzsche der orga-
nischen Existenz und der Nachahmung der äußeren Natur verhaftet bleiben, überwindet
sich der Affektlaut in der Musik zu einem autonomen tonalen Kosmos. Zum Aphoris-
mus Gebärde und Sprache vgl. A. C. Bertino,“Vernatürlichung”. Ursprünge von Friedrich
Nietzsches Entidealisierung des Menschen, seiner Sprache und seiner Geschichte bei Johann
Gottfried Herder, Berlin/Boston 2011, S. 142 ff.
148 Gabriella Pelloni

Bild, die Erscheinung stehe. Solche Art der Symbolisierung ist


instinktiv und zwingend: Es handelt sich um ein Phänomen der
Expression, in dem der Akzent psychologisch ganz auf der affek-
tiven Seite liegt. Wenn das Symbol gemerkt wird, dient es folg-
lich zur Verständigung, zur Bezeichnung und Differenzierung
und wird zu einem Begriff. Im Begriff ist der Ton ganz verhallt,
nur die Erscheinung bleibt im Begriff zugegen.
Mit dieser Erörterung hängt die in der Geburt der Tragödie
dargelegte Grenze der dichterischen Sprache als Organ und
Symbol der Erscheinungen wesentlich zusammen:

Die Dichtung des Lyrikers kann nichts aussagen, was nicht in der
ungeheuersten Allgemeinheit und Allgültigkeit bereits in der Musik
lag, die ihn zur Bilderrede nöthigte. Der Weltsymbolik der Musik ist
eben deshalb mit der Sprache auf keine Weise erschöpfend beizukom-
men, weil sie sich auf den Urwiderspruch und Urschmerz im Herzen
des Ur-Einen symbolisch bezieht, somit eine Sphäre symbolisirt, die
über alle Erscheinung und vor aller Erscheinung ist (GT 6, KSA 1, S.
51).

Der Musik gegenüber ist demnach jede Erscheinung ein


Gleichnis: die Sprache bleibt, sobald sie sich auf die Nachah-
mung der Musik einlässt, nur in einer äußerlichen Berührung
mit ihr. Der tiefste Sinn der Musik kann aller sprachlichen Ge-
wandtheit zum Trotz kaum näher gebracht werden.
Doch indet sich in diesem Kontext ebenfalls eine Konzeption
des dichterischen Wortes als Symbols des Tones und mithin als
unmittelbarer Kraft. Unmissverständliche Hinweise darauf ge-
ben bereits einige Textstellen aus der Dionysischen Weltanschau-
ung, in der es heißt: «In der Steigerung des Gefühls offenbart
sich das Wesen des Wortes deutlicher und sinnlicher im Symbol
des Tones: darum tönt es mehr. Der Sprechgesang ist gleichsam
eine Rückkehr zur Natur: das im Gebrauche sich abstumpfende
Symbol erhält seine ursprüngliche Kraft wieder» (DW 4, KSA
1, S. 576). Der Gedanke als eine Kette von Begriffen, die als die
«höhere Einheit der begleitenden Vorstellungen» (ebd.) dei-
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 149

niert wird, und das Melos als Reihenfolge von Wortklängen wer-
den als zwei idealtypische Dimensionen der Sprache betrachtet:

Das Wesen des Dinges ist dem Gedanken unerreichbar: dass er aber
auf uns als Motiv, als Willensanregung wirkt, ist daraus erklärlich, dass
der Gedanke bereits gemerktes Symbol für eine Willenserscheinung,
für Regung und Erscheinung des Willens zugleich geworden ist. Ge-
sprochen aber, also mit der Symbolik des Tons wirkt er unvergleichlich
mächtiger und direkter. Gesungen – erreicht er den Höhepunkt seiner
Wirkung, wenn das Melos das verständliche Symbol seines Willens ist:
ist dies nicht der Fall, so wirkt die Tonfolge auf uns, und die Wortfolge,
der Gedanke bleibt uns ferne und gleichgültig (DW 4, KSA 1, S. 576 f.).

Wenn das Wort vorwiegend Symbol der Willensregung ist,


d.h. das Gefühl und nicht das Bild symbolisiert, dann vermag
es, tiefere seelische Schichten zu berühren. Wesentlich an die-
ser Darstellung ist die Folgerung, dass das Wort nur einen ganz
relativen Klang hat, weil sein Wesen je nach seiner Stellung ein
anderes ist. Das Einzelsymbol des Wortes wird demnach in der
Einheit des Satzes fortwährend neu bestimmt: Das Entscheiden-
de ist nicht so sehr das neue Wort, das der Dichter besitzt, viel-
mehr die Komposition der Worte, d.h. die Art und Weise, wie
sie der Dichter zusammenstellt.
Der dionysische Dithyrambus stellt in diesem Kontext das
bedeutendste Beispiel einer Steigerung des Gefühls dar, in der
das abgestumpfte, abgenutzte Wort seine «ursprüngliche Kraft»
zurückerhält. In der Geburt der Tragödie rekonstruiert Nietzsche
das mythologische Element des griechischen Dithyrambus phi-
lologisch und fundiert es im Ritus. Die dithyrambische Poesie
zeichne sich sowohl durch eine außerordentliche Sinnlichkeit
des Bildes, d.h. durch die «Tanzgebärde» aus, als auch durch
einen extremen «Gefühlsrausch des Tones», der in Harmonie,
Dynamik und Rhythmik seinen Ausdruck indet (GT 2, KSA 1,
S. 33 f.)9. Mit dem Dithyrambus geschieht wirkungsästhetisch

9 «Im dionysischen Dithyrambus aber wird der dionysische Schwärmer zur höchs-
ten Steigerung aller seiner symbolischen Vermögen gereizt: etwas Nie-empfundenes
150 Gabriella Pelloni

etwas, was auch einer sich im Zeichen der Einfühlung verstehen-


den Schauspielkunst eigen ist: Der Schauspieler stelle das Sym-
bol «wirklich», nicht nur zum Scheine, dar, wie es hingegen in
der Malerei und in der Plastik geschehe (DW 4, KSA 1, S. 573).
Daraus folgt, dass seine Wirkung auf den Zuschauer nicht auf
dem Verstehen beruht: Der Zuschauer «versenke» sich vielmehr
in das «symbolisirte Gefühl», so dass es dabei nicht bei der Lust
am schönen Schein bleibe (DW 3, KSA 1, 568 f.). Noch mehr ge-
schieht es in dieser Richtung bei der Wirkung des Dithyrambus,
dessen Rhythmus die ganze leibliche Symbolik – des Dichters
sowie des Zuhörers – aktiviert. Bereits in den Rhythmischen Un-
tersuchungen erörtert Nietzsche unter der Überschrift Kraft des
Rhythmus, dass der Leib eine Unzahl von Rhythmen enthält, so
dass durch jeden äußeren Rhythmus ein direkter Angriff auf den
Leib stattindet: «Alles bewegt sich plötzlich nach einem neuen
Gesetz: nicht zwar so, dass die alten nicht mehr herrschen, son-
dern dass sie bestimmt werden» (KGW II/3, S. 322).
Folgendes lässt sich bereits aus diesen Ausführungen fest-
halten: Schon im Frühwerk geht es Nietzsche um die Notwen-
digkeit einer Revitalisierung der Sprache, die der alarmierten
Diagnose ihres aktuellen Zustands auf den Fuß folgt. Solche
Diagnose wird in Richard Wagner in Bayreuth explizit gemacht:
Im Laufe der Zivilisation, so die verkürzte Abfolge der Argu-
mente, hat die Sprache ihre Kraft verloren und ist zu einer Be-
griffssprache erstarrt, die nicht mehr imstande ist, Gefühle und

drängt sich zur Äusserung, die Vernichtung der Individuatio, das Einssein im Genius der
Gattung, ja der Natur. Jetzt soll sich das Wesen der Natur ausdrücken: eine neue Welt
der Symbole ist nöthig, die begleitenden Vorstellungen kommen in Bildern eines gestei-
gerten Menschenwesens zum Symbol, sie werden mit der höchsten physischen Energie
durch die ganze leibliche Symbolik, durch die Tanzgeberde dargestellt. Aber auch die
Welt des Willens verlangt einen unerhörten symbolischen Ausdruck, die Gewalten der
Harmonie der Dynamik der Rhythmik wachsen plötzlich ungestüm. An beide Welten
vertheilt erlangt auch die Poesie eine neue Sphäre: zugleich Sinnlichkeit des Bildes, wie
im Epos, und Gefühlsrausch des Tons, wie in der Lyrik. Um diese Gesammtentfesselung
aller symbolischen Kräfte zu fassen, gehört dieselbe Steigerung des Wesens, die sie schuf:
der dithyrambische Dionysosdiener wird nur von Seinesgleichen verstanden» (DW 4,
KSA 1, S. 577). Die Stelle in der Geburt der Tragödie wird aus der Dionysischen Weltan-
schauung fast wortwörtlich übernommen.
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 151

Affekte auszudrücken. Indem sie zur Verständigung über einen


Inhalt dient, erkrankt die Sprache, was so viel heißt, dass sie sich
«von der starken Gefühlsregung, der sie ursprünglich in aller
Schlichtheit zu entsprechen vermochte», entfernt und «deutli-
chen Empindungen und Bedürfnissen» nicht mehr «bildend
entgegenkomm[en]» kann (RWB 5, KSA 1, S. 455 f.). Das geht
auf Kosten einer «wahrhaften Mitteilung», für die hingegen die
affektive, performative, musikalische Seite der Sprache steht, die
Stimmungen und Empindungen zum Ausdruck bringt.
In Richard Wagner in Bayreuth erscheint jedoch nicht nur
die Beschreibung der pathologischen Beschaffenheit einer zur
Konvention erstarrten Begriffssprache relevant. Hier indet
man nämlich auch einen umfassenden, in Anlehnung an Wag-
ner herausgearbeiteten Entwurf einer künstlerischen Sprache, in
der nicht die begrifliche, kausale Komponente sich durchsetzt,
sondern «in sichtbaren und fühlbaren Vorgängen» gedacht wird
(RWB 9, KSA 1, S. 485). An Wagners künstlerischer Praxis
hebt Nietzsche eine «Denkweise» hervor, in der die bildliche
Kraft vorherrschend und an eine Praxis des «lebendigen Wor-
tes» gebunden ist10. Solche Praxis wird mit Rekurs auf folgende
Stichwörter beschrieben: «Leiblichkeit des Ausdrucks», «verwe-
gene Gedrängtheit», «Gewalt und rhythmische Vielartigkeit»,
«Reichthum an starken und bedeutenden Wörtern», «Vereinfa-
chung der Satzgliederung», «Erindsamkeit in der Sprache des
wogenden Gefühls», «Volksthümlichkeit» und «Sprüchwört-
lichkeit» (ebd., S. 487). Offensichtlich lobt Nietzsche an Wagner
eine dichterische Sprache, die auf rhetorische Breite verzichtet,
um auf die Geschlossenheit, Klarheit und Kraft einer Gefühls-
rede zu setzen. Eine weitere, überaus wichtige Eigenschaft der
Sprache Wagners wird in einem Nachlassnotat dieser Zeit noch
erwähnt: Sie sei vom Subjektiven der Leidenschaft insofern
befreit, als sich der Autor deren bediene, um sich selbst nicht
10 So der erste Vers des Gedichts Das Wort, das im Zusammenhang späterer Notizen
zum Stil entsteht und das kreative Potential des Wortes für Nietzsche bezeugt: «Le-
bend’gem Wort bin ich gut, das springt heran so wohlgemüth […]» (NF 1[107], KSA
10, S. 36).
152 Gabriella Pelloni

direkt, sondern als «Resonanz mehrerer leidenschaftlich han-


delnder Personen» (NF 11[15], KSA 8, S. 199) darzustellen. Das
«sichtbare» Drama mit Wort und Gebärde diene der Darstel-
lung von «verflochtenen Leidenschaften» (ebd., 198), von
Menschen, die einander gegenübergestellt werden (ebd.). Als ge-
bärdenartig bezeichnet Nietzsche in diesem Zusammenhang die
körperliche Gestik der Schauspieler, zu dessen Gebärden und
Worten sich die Musik als weiteres Medium und Zeichen für
innere Vorgänge gesellt.
Alle bisher umrissenen Aspekte der Sprache stehen im Zent-
rum mancher späterer Ausführungen Nietzsches zum Schreibstil,
dessen Deutlichkeit und Lebendigkeit die stilistische Anlehnung
an die Situation der mündlichen Rede dient. In einem Notat
vom Herbst 1879 liest man beispielweise folgende Anweisung,
die dem Autor gilt: «Ein Autor hat immer seinen Worten Bewe-
gung mitzutheilen» (NF 47 [7], KSA 8, S. 618). Das soll – hält
das gleiche Notat fest – durch die Interpunktion geschehen, die
einem Satz Bewegung verleiht und somit auch auf den Körper
des Lesers wirkt: «Kommata, Frage- und Ausrufezeichen, und
der Leser sollte seinen Körper dazu geben und zeigen, daß das
Bewegende auch bewegt» (ebd., S. 619). Die Interpunktion bie-
te sich, so Nietzsche im Aphorismus 110 («Schreibstil und
Sprechstil») von Der Wanderer und sein Schatten, als eines der
dem Schreibenden zur Verfügung stehenden «Ersatzmittel für
die Ausdrucksarten», die allein der Redende besitzt, so wie Ge-
bärden, Blicke, Töne, Akzente, Modulation und Rhythmus (WS
110, KSA 2, S. 600). Deren Umsetzung in die Schrift stelle eine
besondere Herausforderung für den Autor dar, der sich wie ein
Redender verständlich machen soll.
In den berühmten Notizen zum Stil, die Nietzsche im Som-
mer 1882 unter dem Titel «Zur Lehre vom Stil» in Form
von zehn Regeln verfasste, wird auf entsprechende Weise vom
Stil Lebendigkeit verlangt: Lebendigkeit, Bewegung, Dynamik
stellen gleichsam das Zeugnis dafür dar, dass man «an seine Ge-
danken glaubt, und sie nicht nur denkt, sondern empfindet»
(NF 1[109], KSA 10, S. 39). Nietzsche arbeitet hier mit der bi-
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 153

nären Unterscheidung zwischen Rede- und Schreibweise weiter:


In Hinblick auf das an Gebärden reichere Medium des Vortrags
wird das Schreiben als eine Form der Nachahmung verstanden.
Hieran schließt ein weiterer wichtiger Aspekt an: Da dem Schrei-
benden die Mittel des Vortragenden fehlen, so muss er eine sehr
ausdrucksreiche Art des Vortrags zum Vorbild haben, da dem-
gegenüber das Geschriebene als Abbild blasser ausfällt. Was
dann folgt, macht den Zusammenhang zwischen Sprache und
Körpermotorik deutlich und markiert den Übergang von der
Gebärde als kinetischem Akt zur sogenannten Sprachgebärde,
d.h. zu einem im Inneren der Sprache wirksamen Geschehen,
einer operativen Kraft, die in der Sprache wirkt und in ihrer Be-
wegung, in ihrem Abbrechen und Schweigen Ausdruck indet:
«Der Reichthum an Leben verräth sich durch Reichthum an
Gebärden. Man muß Alles, Länge Kürze der Sätze, die Inter-
punktionen, die Wahl der Worte, die Pausen, die Reihenfolge
der Argumente – als Gebärden empinden lernen. Vorsicht ge-
gen die Periode! Zur Periode haben nur die Menschen ein Recht,
die einen langen Athem auch im Sprechen haben» (ebd., S. 38).
Auf diese Idee der Sprache als Gebärde, die hier mit Bezug
auf die Vortragskunst entwickelt wird11, knüpft Nietzsche of-
fensichtlich wieder an, wenn er in Ecce homo mit Bezug auf die
hymnenhafte Zarathustra-Partie Die sieben Siegel die Gestaltung
der Tempi, der Satzlängen, der durch die Interpunktion gewon-
nenen Pausen als «Kunst der Gebärde» deutet. Demnach be-
zeichnet ein Stil, der «einen inneren Zustand wirklich mitteilt»
(EH Bücher 4, KSA 6, S. 304), eine Schreibweise, in der die Ab-
stimmung von Wort und Gebärde gelingt. Mit Rückblick auf die
im Zarathustra entwickelte Artistik des Stils mit ihrer enormen
rhythmischen Variationsbreite subsumiert Nietzsche unter dem

11 Vgl. L. Labhart, pro ommáton poiein, zit., der auf den Einluss der Rhetorik Aris-

toteles’, von der Nietzsche einige Abschnitte übersetzte, auf seine ‚Stillehre‘ und darüber
hinaus auf die Redesituationen des Zarathustra verweist. Doch in Ecce homo werden sol-
che Ausführungen zur Vortragskunst offensichtlich auf die Idee einer gebärdenhaften
dichterischen Sprache bezogen.
154 Gabriella Pelloni

Schlüsselbegriff des «grossen Rhythmus» das ästhetische Ver-


fahren des Zarathustra:

Und bis dahin wird es Niemanden geben, der die Kunst, die hier
verschwendet worden ist, begreift: es hat nie jemand mehr von neuen,
von unerhörten, von wirklich erst dazu geschaffnen Kunstmitteln zu
verschwenden gehabt. Dass dergleichen gerade in deutscher Sprache
möglich war, blieb zu beweisen: ich selbst hätte es vorher am härtesten
abgelehnt […] Die Kunst des grossen Rhythmus, der grosse Stil der
Periodik zum Ausdruck eines ungeheuren Auf und Nieder von sub-
limer, von übermenschlicher, Leidenschaft ist erst von mir entdeckt;
mit einem Dithyrambus wie dem letzten des dritten Zarathustra, ‚die
sieben Siegel‘ überschrieben, log ich tausend Meilen über das hinaus,
was bisher Poesie hiess (ebd., S. 304 f.).

Der sogenannte «grosse Stil» will Nietzsche sowohl als eine


Reaktion auf die abgenutzte Alltagssprache, oder auf die steife
Begriffssprache der akademischen Philosophie, als auch als die
künstlerische Praxis verstanden wissen, durch die es ihm gelun-
gen war, die Décadence-Ästhetik zu überwinden. In Nietzsches
Zeitdiagnose tritt Dekadenz bekanntlich nicht nur inhaltlich,
sondern auch auf der Ebene der Form auf. Wie die Streitschrift
Der Fall Wagner eindrücklich artikuliert, liest Nietzsche Wag-
ners unendliche Melodie mit Blick auf etwaige organisierende
Kräfte oder darauf hin, ob die Musik dem Augenblick, dem De-
tail nachgebe (WA 7, KSA 6, S. 27-29). In Wagners Musik drohe
die allgemeine Desintegration: Indiz dafür sei gerade die Unfä-
higkeit, «große Verhältnisse» rhythmisch zu überspannen. Dass
heißt aber, dass sich Wagners Phrasierung durch zwei Haupt-
mängel auszeichnet: einerseits die immer größere Aufmerksam-
keit auf die einzelne Gebärde des Affekts – die Phrase – und die
immer rafiniertere Kunstfertigkeit im Aufführen des Details, in
der Wahl der rhetorischen Kunstmitteln und in der schauspie-
lerischen Kunst, den Moment so überzeugend wie möglich zu
gestalten; andererseits, und als Folge davon, den Verfall der ge-
staltenden Kraft, so dass die Phrase über die Melodie und mithin
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 155

der Augenblick über das Tempo herrscht. Zieht man an dieser


Stelle die in den Briefen an Carl Fuchs erörterte Unterscheidung
zwischen der antiken, an bloß quantitierende, zeitökonomischen
Kriterien gebundenen Rhythmik und den durch den dynami-
schen Akzent ausgedrückten rhythmischen Kadenzen der ger-
manischen Sprachen heran (Nr. 688, KSB 7, S. 176 f.), gewinnt
man den Eindruck, dass die künstlerische Praxis des «großen
Stils», der die Leidenschaft rhythmisiert und ihr eine Organisa-
tion in der Zeit verleiht, retrospektiv als der gelungene Versuch
gedeutet wird, die durch Mangel an organisierender Kraft und
Belebung des einzelnen Details symptomatisch charakterisierte
Dekadenz-Ästhetik zu überwinden.

2. Max Kommerell und das Primat der Gebärde im


Zarathustra

Ich versuche nun eine Art Zwischenfazit, mit dem ich gleich-
zeitig zum zweiten Teil meines Beitrags übergehe. Die Betonung
des gebärdenhaften Charakters der Sprache umfasst bei Nietz-
sche folgende Aspekte:
1. Es geht nicht einfach um eine bestimmte gute Schreibart,
sondern um eine alle Ausdruckbereiche umfassende Artikulation
innerer Dispositionen (Stichwörter dafür: «inneren Zustand»,
«Grundregung des Inneren», «Leidenschaft», «Empindung»,
«Gefühl», «Pathos», usw.)12. Die Sprache als Gebärde umfasst
alle Phänomene des Ausdrucks sowie die Zeichen oder Medien,
innere Zustände auszudrücken. Am deutlichsten fasst Nietzsche
den Gebärdencharakter der Sprache als Ausdruckbewegung in
einem 1882 verfassten Nachlassnotat:

12 Zur Frage des Pathos im Zarathustra, ausgehend von der Auslegung des griechi-
schen Dithyrambenchors in der Geburt der Tragödie, vgl. E. Müller, Das Pathos Zarathus-
tras, in G. Pelloni, I. Schiffermüller (Hgg.), Pathos, Parodie, Kryptomnesie. Gedächtnis
der Literatur in Nietzsches Also sprach Zarathustra, Heidelberg 2015. S. 11-31.
156 Gabriella Pelloni

Das Verständlichste an der Sprache ist nicht das Wort selber,


sondern Ton, Stärke, Modulation, Tempo, mit denen eine Reihe von
Worten gesprochen werden – kurz die Musik hinter den Worten, die
Leidenschaft hinter dieser Musik, die Person hinter dieser Leidenschaft:
alles das also, was nicht geschrieben werden kann (NF 3[1]296, KSA
10, S. 89).

Nur als Gebärde gelingt es demnach der Sprache, mehr als ein
rein ästhetisches Phänomen zu sein: Ihre Leistung wäre es viel-
mehr, das Vorsprachliche (als die «Musik», die «Leidenschaft»,
die «Person») mit der künstlerischen Form zusammenzufügen.
2. Die Sprache als Gebärde bleibt an den menschlichen Kör-
per gebunden. Wie im Aphorismus Gebärde und Sprache (MA I
216) erörtert wird, in dem Nietzsche in der kulturanthropologi-
schen Entwicklungstheorie der Sprache seit Vico, Hamann und
Herder fest verankert scheint, entstehen sprachliche Zeichen
evolutionsgeschichtlich aus den Gebärden der Körper, die Emp-
indungen ausdrücken:

Älter als die Sprache ist das Nachmachen von Gebärden, welches
unwillkürlich vor sich geht und jetzt noch, bei einer allgemeinen
Zurückdrängung der Gebärdensprache und gebildeten Beherrschung
der Muskeln, so stark ist, daß wir ein bewegtes Gesicht nicht ohne
Innervation unseres Gesichtes ansehen können […]. Die nachgeahmte
Gebärde leitete den, der nachahmte, zu der Empindung zurück, wel-
che sie im Gesicht oder Körper des Nachgeahmten ausdrückte. So
lernte man sich verstehn […] (MA I 216, KSA 2, S. 176).

Die Sprache als Spezialfall der psychophysischen Lebensäu-


ßerungen, die den Menschen aufgrund ihrer physiologischen
Basis in einem Kontinuum mit dem Tierreich verbindet, gehört
für Nietzsche zum System der Körpergebärden. Doch greift die
Anthropologie der Gebärde offensichtlich auf die Dreiteilung
von Körper, Geist und Seele zurück: Die Körpergebärden sind
auch Seelengebärden und haben am Geist teil. Obwohl sich die
nietzscheanische Kunst der Gebärde als Gesetz der Periode in
erster Linie als das Hörbar- und Fühlbarwerden der leiblichen
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 157

Dimension der Sprache entpuppt, ist ihr die Komplementari-


tät des körperlichen, geistigen und seelischen Moments eigen.
So verstanden wird das Ausdrucksgeschehen in einem offenen
Horizont von Steigerung und Intensivierung gedacht. Im Unter-
schied zum Begriff deutet die Sprache als Gebärde – als Wieder-
holung zurückgedrängter semiotischer Kräfte des Worts – auf
ihren Ursprung. Als berührbarer Körper und verkörperte Sinn-
lichkeit ist sie noch nicht zur Konvention des Gefühls erstarrt.
Vielmehr greift sie dem Bewusstsein vor und ist somit der Signi-
ikation voraus, denn sie ist nicht komplett einholbar durch das
Wort (als Gemeintes und nicht als Gebärde verstanden).
3. Es ist die Unzufriedenheit mit der abgenutzten Alltagsspra-
che und der Sprache des Begriffs, der die Aufforderung für den
Künstler entspringt, mit den Mitteln der Sprache gebärdenhaft
zu schreiben, somit die Sprache an die Körperkinetik zurück-
bindend. Bei dieser Sprache handelt es sich um eine Art «ers-
tes Sprechen», die aus einem Unvermögen, aus der Blockierung
des Sprechens resultiert und der Dynamik der Sprachsuche und
Sprachindung folgt. Es kann sowohl ein Initialakt, als auch ein
reaktiver, mimetischer Akt sein. Alles geschieht jedoch innerhalb
der fertigen Sprache: Der Dichter hat keine neuen Worte, son-
dern er nimmt auf, schöpft aus dem Sprachgut der Tradition,
doch macht er durch seine Zusammenstellungen, durch Tonfol-
ge und Rhythmus das alte Wort neu. In der Sprache als Gebärde
ist daher ein Moment von Prozessualität mitgedacht. Sie ist kein
Zustand, sondern der Vollzug einer Intention, und hat darum
keine statische Struktur. Zu ihren Charakteristiken gehören
vielmehr die Augenblicklichkeit, die Erst- und Einmaligkeit, zu
denen die Wiederholung, die Spiegelung und die Variation als
mimetische, ergänzende Akte dazukommen können.
Im Sinne dieser Ausführungen Nietzsches zum Stil als «Kunst
der Gebärde» lässt sich der Schreibstil des Zarathustra als eine
besondere Form von angereicherter, elaborierter Mündlichkeit
verstehen. Demnach wird der Sinn des Textes nicht allein durch
das Vokabular, sondern vor allem durch die Bewegung der Syn-
tax, den Rhythmus, die durch die Interpunktion erzeugten Pau-
158 Gabriella Pelloni

sen, die Länge und Kürze der Worte, die besonderen Wortstel-
lungen generiert. Damit verbunden ist der Grundgedanke, dass
das Entscheidende des Werks nicht so sehr in einer neuen Phi-
losophie liegt, sondern in der neuen Vortragsart der Gedanken
und auch vor allem darin, dass die Gedanken nicht im eigenen
Namen vorgetragen werden. Im Zeichen der Gebärde lässt sich
der Text vielmehr als ein speziisches Denkdrama lesen, das in
einer Galerie von Typen eine sinnliche Verkörperung indet.
So jedenfalls las der Literaturkritiker Max Kommerell das
Hauptwerk Nietzsches in den 30er Jahren. In einem 1935 da-
tierten Typoskript einer Rede mit dem Titel Zwei symbolische
Bücher. Über Nietzsche und George betrachtet Kommerell die
iktive Figur Zarathustra als das Hauptsymbol eines Dramas, das
als Parodie eines heiligen Buches «Lösegewalt» ausüben will,
während die anderen Figuren als «gespenstisch Verselbstete,
Vergangenheiten, Verwandlungen, Möglichkeiten Nietzsches»
bezeichnet werden13: Symbole eines Selbst also, das keine allge-
meingültigen, bindenden Werte mehr kennt und als Folge davon
eine neue, eigentümliche Sprache spricht. Es lohnt sich, den zen-
tralen Abschnitt dieser Rede in seiner Vollständigkeit zu zitieren,
weil der enge Zusammenhang von ‚Sein‘, Symbolisierung und
sprachlicher Form, den Kommerell in den literarischen Werken
nachspürt, hier in aller Deutlichkeit hervortritt:

Von dem Entwurf einer Zarathustra-Tragödie, in der dieser am Mit-


leid stirbt, bleibt der Grundbegriff der untergehenden Menschen, die
die hinübergehenden Menschen sind. Im Moment dieser tragisch fest-
lichen Ergriffenheit vom eigenen Dasein, in seinem ganzen Umfang
befreit sich der musikalische Unterstrom seines Wesens und vereinigt
sich mit den zerlegenden und symbolschaffenden Kräften zu einer neu-
en Form, die Nietzsche selbst in einem Brief als Symphonie bezeichnet,
und die in ihrer Lehre das Sein am Gesetze des Widerspruchs entwi-
ckelt und in ihrer Darstellung eine psychologische Geheimsprache der
seltensten geistigen Begegnungen ist.

13 M. Kommerell, Zwei symbolische Bücher, zit., S. 112.


Zarathustras «Kunst der Gebärde» 159

Aus diesem Widerspruch des Lebens mit sich selbst, der aus jeder
Art die Überart hervorreizt, geht das Postulat des Übermenschen
hervor – er verliert sein Sonderbares, wenn wir ihn so auffassen, daß
Nietzsche durch diesen Begriff auch den Menschen für das Werden
zurückgewinnt […]. So hängt der Übermensch mit dem Tod Gottes
zusammen: Nicht nur werden die steigernden Potenzen vom metaphy-
sischen Raum auf den Menschen zurückgeleitet, sondern der wandel-
lose Gott als Bürge wandelloser Werte enthielt das Bild des Menschen
dem Wandel vor. Zarathustras Gottesbegriff ist perspektivisch: Götter
sterben an Göttern, die aus der Fülle des Leibes, aus dem Übermut
der Kraft hervorgegangen, als freie Setzungen nicht weniger wirklich
sind: der Kampf des Lebens mit dem Leben gipfelt in diesem Kampf
der Bilder mit den Bildern14.

Die Rede ist von einem speziischen «geistigen Erlebnis»


Nietzsches, das Form, Sprache und Ton des Werkes bestimmt.
«Erlebnis» bedeutet jedoch keineswegs die subjektive, unmit-
telbare Erfahrung des empirischen Autors, sondern einen Akt
der Symbolisierung, der das ganze Individuum mit einbezieht.
Kunst und Leben stellen insofern keine getrennten Bereiche dar,
als sie gleichsam in eine einzige Instanz verschmelzen, die den
Sonderstatus einer Wirklichkeit hat. Kommerell verwendet da-
für den Begriff der «Person», die nicht biographisch aufgefasst
wird und folglich nicht auf den empirischen Autor zurückge-
führt werden darf. Vielmehr bezeichnet sie eine künstlerische
Kraft, die sowohl mental als auch sinnlich ist und im Anteil am
Erlebnis die Form organisiert, die Sprache prägt und sie gleich-
sam ‚körperlich‘ und ‚gedanklich‘ strukturiert. Wenn es hier die
Rede von einer Psychologie Nietzsches ist, ist daher nicht der
Mensch Nietzsche gemeint, sondern eine Instanz, die gleichsam
als künstlerische Schnittstelle zwischen Erlebnis und Text den
Formprozess organisiert und eventuell auch im Text erscheint,
um die Struktur zu relektieren.
Vor allem aus den Notizen aus Kommerells Nachlass, die
Nietzsches Zarathustra gewidmet sind, wird deutlich, inwiefern

14 Ebd., S. 112 f.
160 Gabriella Pelloni

sich die Betrachtung der Sprache des Werkes auf den Begriff der
Gebärde stützt. Beim Vergleich von Hölderlins Hyperion und
dem Zarathustra schreibt Kommerell z. B. zum Kapitel Mittags:

Bei Nietzsche: Affectus. Spannung. Atem anhalten. Anapher. Zwei-


mal träumend […] dann Rhetorik. Horch Horch! Affekt! Effekt! Per-
spektive. Angespielte Möglichkeit.
Bei Hölderlin ungemischt gleichartig. Er bleibt in einer Sphäre. Kei-
ne Worthäufung, nicht Witziges. Keine Effektvokale. Rhythmus der
Vorstellungen. Keine Stimme. Hölderlin: ohne Geberde! Zarathustra:
ganz Geberde15!

Ein kurzer Exkurs über Kommerells Konzept der Sprachge-


bärde bietet sich hier an, um zunächst auf einige Ähnlichkeiten
mit Nietzsches «Kunst der Gebärde» zu verweisen16. Im Essay
Der Vers im Drama schreibt Kommerell in klarer Anlehnung an
Nietzsche, der Vers sei «als Gebärde unmittelbar wie eine Bewe-
gung»17, während er die Prosa Jean Pauls als «Tanz der Sprache»
bezeichnet, wo «in der Seele das Leibverlangen nachzuckt»18.
Auf die leibliche Dimension der Sprache wird auch in einem
kurzen, 1940 datierten Text mit dem Titel Dichtersprache und
Sprache des Alltags hingewiesen, der die Unterscheidung zwi-
schen prosaischer Alltagssprache, die der bloßen Verständigung
und konventionellen Kommunikation dient, und gebärdenhafter
dichterischer Sprache, die mit dem Vers assoziiert wird und un-
15 DLA Marbach, D-Kommerell, Nietzsche IT 1739-1740.
16 Zur Tradition der Gebärde und ihrer Bedeutung für Kommerell seit Herder und
Humboldt vgl. das Kapitel Sprache und Gebärde in M. Weichelt, Gewaltsame Horizont-
bildungen. Max Kommerells lyriktheoretischer Ansatz und die Krisen der Moderne, Hei-
delberg 2006, S. 104-121. Zu Kommerells Gebärdenbegriff s. auch die Beiträge von I.
Schiffermüller (Gebärde, Gestikulation und Mimus, zit.) und U. Port (Die »Sprachgebär-
de« und der »Umgang mit sich selbst«. Literatur als Lebenskunst bei Max Kommerell) in
W. Busch/G. Pickerodt (Hgg.), Max Kommerell, zit., S. 98-117 und S. 74-97; ferner W.
Busch, Zum Konzept der Sprachgebärde im Werk Max Kommerells, in I. Schiffermüller
(Hg.), Geste und Gebärde. Beiträge zu Text und Kultur der klassischen Moderne, Inns-
bruck/Bozen 2001, S. 103-134.
17 M. Kommerell, Der Vers im Drama, in ders., Dichterische Welterfahrung. Essays,

Frankfurt a. M. 1952, S. 147-158, hier S. 155.


18 M. Kommerell, Jean Paul, Frankfurt a. M. 1933, S. 65.
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 161

mittelbar wie Bewegung und Ton in aller Schlichtheit der inne-


ren Gefühlsregung entspricht, besonders anschaulich vor Augen
führt: «Das ist das uns verlorene Geheimnis des Tanzes, das uns,
als vergeistigten Menschen, vergeistigt wiedergegeben wird im
rhythmischen Wort. Rhythmus ist Tanz der Sprache»19. Durch
Wortfolge und Rhythmus, d.h. durch die Zusammenstellungen
des Dichters, wird das abgenutzte Wort fortwährend neu be-
stimmt: Dadurch bedeutet es nicht nur, sondern es wird zum
Vehikel des Gefühls und mithin einer wahrhaften Kommunika-
tion.
Diese Seite der Sprache wird sowohl «mimisch» als auch
«pantomimisch» deiniert20: mimisch sind nach Kommerell
jene Ausdrucksgebärden, die unmittelbare Affekte ausdrücken,
notwendig und zwingend sind und auf nichts außer sich selbst
verweisen (dafür benutzt er auch die Bezeichnung «rein»). Pan-
tomimisch sind demgegenüber komplexere Gebärden, die man
eher in Dramen vorindet und einen Subtext zum Monolog oder
Dialog aufführen. Obwohl sie immer auch ein Ausdruck innerer
Zustände sind, treten sie eher als Verbindungen zwischen den
Elementen auf, sie weisen auf etwas hin oder stellen etwas dar,
anstatt dass sie unmittelbar ein Inneres offenbaren.
Wenden wir uns nun vor diesem Hintergrund Kommerells
Zarathustra-Lektüre wieder. Laut Kommerell führt Nietzsche
im Zarathustra einen Subtext zum Monolog oder zum Dialog
auf, dessen Komplexität von Ausdrucksarten sowohl reine Aus-
drucksgebärden umfasst, die unmittelbar Affekte ausdrücken, als
auch komplexere, abgestufte Gebärden, die eher pantomimisch
darstellen. Solche Komplexität von Sprachgebärden verkörpert
eine Pluralität von Denkhaltungen im Sinne von Möglichkei-
ten, Gefahren oder Potentialitäten eines Individuums, das das
Werden und die Gegensätzlichkeit als eigene Gesetze versteht.

19 M. Kommerell, Dichtersprache und Sprache des Alltags, in «Geschichte der Germa-

nistik», 25/26 (2004), S. 84 ff.


20 Dazu vgl. die kurze Genealogie der Gebärde in C. Benne, Tradition und Revoluti-

on. Zur Tragödientheorie Max Kommerells, in C. Benne, C. König, G. Pelloni, I. Schiffer-


müller (Hgg.), Max Kommerell (1902-1944), zit.
162 Gabriella Pelloni

Darin liegen einige Leseanweisungen für Form, Bildlichkeit und


Sprache des Zarathustra, die sowohl die Speziik der Parodie, als
auch die Frage nach dem ‚Musikalischen‘ der Schreibart betref-
fen. Abschließend seien noch diese zwei Aspekte der Lektüre
Kommerells kurz erläutert.
Der Zarathustra wird grundsätzlich als Parodie der Form der
Heiligenlegende gedeutet:

Zarathustra scheint seiner Form nach ein heiliges Buch: die Le-
gende und die Reden eines religiösen Stifters. Aber schon darin, dass
er eine literarische Nachahmung solcher Dokumente ist, die auf die
wirkliche, wenn auch verhüllte Geschichte eines solchen Stifters und
seiner Jünger zurückgehen, liegt die Andeutung, er möchte, statt eines
heiligen Buches, die Parodie eines solchen sein. Nur müssen wir dann
von diesem Begriff entfernen, was einer Verhöhnung oder einer Ver-
zerrung ähnlich sieht 21.

Kommerell bezieht sich offensichtlich auf Andrè Jolles’ Einfa-


che Formen (1930), ein Werk, das er rezensierte22 und vom dem
er aller Wahrscheinlich nach auch den Ausdruck «Sprachgebär-
de» übernahm. In seiner, von Afinitäten zu strukturalistischen
und formalistischen Ansätzen geprägten Studie beabsichtigt
Jolles, einen morphologischen Zusammenhang literarischer For-
men jenseits einer rein ästhetischen Betrachtung nachzuweisen.
Seine einfachen Formen, u.a. die der Legende, der Sage, des My-
thos, sind nicht inhaltlich, sondern formal bestimmt. In dieser
Perspektive deiniert Jolles die Sprachgebärden als morpholo-
gisch erkennbare Einheiten einer kollektiven Sinnproduktion,
die er «Geistesbeschäftigung» nennt23. Die Sprachgebärden
ereignen sich «in der Sprache selbst» und sind somit unabhän-
gig von einem psychologischen Urheber, doch transzendieren
sie den Zeichencharakter der Sprache, da sie als unbewusste,
21 M. Kommerell, Zwei symbolische Bücher, zit.
22 M. Kommerell, Einfache Formen von André Jolles, in «Anzeiger für deutsches Al-
tertum und deutsche Literatur», 50 (1931), S. 165-170.
23 A. Jolles, Einfache Formen. Legende, Sage, Mythe, Rätsel, Spruch, Kasus, Memora-

bile, Märchen, Witz, Tübingen, 8. Aul. 2006, S. 45 ff.


Zarathustras «Kunst der Gebärde» 163

wiederholte Nachahmungen von sprachlichen Handlungen be-


trachtet werden24. In dieser Hinsicht charakterisiert Jolles die
Sprache der Legende als Sammlung von Sprachgebärden, d.h.
von sprachlichen Handlungen, in denen sich das Geschehen zu
Form verdichtet.
Vor diesem Hintergrund wird Kommerells Verwendung des
Parodiebegriffs in Bezug auf den Zarathustra und mit Blick auf
die Sprachgebärde um einiges deutlicher. Im Zarathustra gibt es
nicht wenige, einfachere und komplexere sprachliche Gebilde,
die sich in diesem Sinne lesen lassen. Ein paradigmatisches Bei-
spiel wäre u.a. das Motiv des Fliegens, mit dem sich eine ganze
ikonographische Tradition des mystisch-ekstatischen Flugs ver-
binden lässt. Solche Tradition wird von Nietzsche entschieden
umgewertet: Das Fliegen wird im Sinne der Überwindung des
Geists der Schwere gedeutet, womit im Zarathustra alles gemeint
ist, was sich gegen die Unschuld des Werdens stellt. Demnach
lässt sich die Parodie nicht so sehr als eine Verzerrung, oder gar
eine Verhöhnung der nachgeahmten Form, sondern eher als eine
Umwandlung derselben verstehen25. Parodieren würde in die-
sem Fall heißen, die Sprachgebärden des heiligen Buches, die
dort bedeutsam waren, zu übernehmen, sie der nachgeahmten
Form zu entreißen und in eine andere Denkhaltung überzufüh-
ren, welche die Sprache prägt und umformt. Mithin stellt sich
die Form der Parodie quasi in den Dienst des Werdens, der Plu-
ralität und somit der Produktion neuer Gebärden, während die
Sprachgebärden des heiligen Buches dazu da waren, die Leser
bzw. Zuhörer an eine Gemeinde zu binden.
Was ferner den Durchbruch des ‚Musikalischen‘ im Zarathus-
tra anbelangt, ist es nach Kommerell im Text auf drei Ebenen
24 Von Nietzsche leitet Jolles übrigens die Auffassung der Sprachgebärde als eines
«in Begriffe gefaßte[n] Geschehen[s]» her.
25 Damit lassen sich nicht wenige narrative Kapitel und Partien des Zarathustra er-

schließen, vor allem im 4. Teil (vgl. u.a. Der Nothschrei, Gespräch mit den Königen, Der
Schatten). Ähnliches ließe sich für jene possenhaften Szenengebilde sagen, die sich an
die Form der Mysterienspiele anlehnen (vgl. z. B. die Kapitel Die Erweckung, oder Das
Eselfest). Zur Parodie im Zarathustra vgl. neulich C. Benne, Incipit Parodia – noch einmal,
in G. Pelloni, I. Schiffermüller (Hgg.), Pathos, Parodie, Kryptomnesie, zit., S. 49-66.
164 Gabriella Pelloni

nachzuweisen. Zunächst auf der Ebene des Gefühls, wo das Mu-


sikalische ein Aus-dem-Ich-Heraustreten, ein Durchströmt-Sein,
eine ‚Ent-ichung‘ bedeutet. Innig damit verbunden ist das Mu-
sikalische im Denken, das die Vielfalt, die Gegensätzlichkeit,
das Werden als das Unfeste, als Mangel an einem Bedürfnis
nach Ordnung betrifft. Das schlägt sich u.a. auch in der Anlage
der Periode, dem sogenannten «großen Stil der Periodik» nie-
der, die meist der Dynamik einer Suche entspricht: Von einem
einzelnen Bild oder Wort eingeleitet, das oft eine thematische
Wiederaufnahme darstellt, besteht die Periode aus weiterfüh-
renden Varianten, denen dann die betonte, mit Gedankenstrich
markierte Veranschlagung der Pointe folgt. Die Satzglieder fol-
gen dem Gesetz der Zusammenfassung, der Unterbrechung und
der Weiterleitung, sie ‚besitzen sich‘ in der Wiederholung und
initiieren in der Variation etwas Neues. Anschließend wird auch
auf das Musikalische der Schreibart hingewiesen: Im Zarathustra
wird die Sprache gewissermaßen instrumentiert, was so viel
heißt, dass an vielen Stellen nicht so sehr der Inhalt, der unbe-
stimmt bleibt, sondern das rhythmische, klangliche Element das
Entscheidende ist. Nietzsche bringt die Eigenschaft des Wortes,
rhythmusschaffende Formel zu sein, wieder zur Geltung: Aus
der Wahl und Zusammenstellung der Worte tritt gleichsam eine
klanglich-rhythmische Existenz heraus, die mit der Erfahrung
des Werdens, der Gegensätze, der Welt als Musik zusammen-
hängt, welche plötzlich etwas wie ein verabredetes Spiel ergibt.
Die Semantik ist dagegen unbestimmt und ahnungserweckend,
was sich gut mit gedankenmäßigen Vieldeutigkeit vereinigen
lässt. Die Sprache bleibt nicht in einer einzigen Sphäre, sondern
sie geht ständig vom Gedanken zum Affekt, von der Rhetorik
zur Musik über. Damit hängen auch das Gemischte, Ungleichar-
tige der Zarathustra-Gebärden und die Kontraste seines Tons
zusammen, der zugleich feierlich und spöttisch, trunken und
nüchtern, rhetorisch und lyrisch, hieratisch fern und zutraulich
sein kann.
Kommerell betont im Zarathustra den Reichtum an Sprach-
gebärden, der sich beinahe wie Gestikulation ausnimmt und an
Zarathustras «Kunst der Gebärde» 165

Exzess grenzt. Die Selbstgespräche des einsamen Mimen, der


gleichsam in selbsterworbenen Zeichen dichtet, zeugen nach
Kommerell von einer Dissonanz zwischen Seele und Welt, zwi-
schen Traum und Denken. Das Fehlen einer Gemeinschaft,
die Einsamkeit des denkenden und dichtenden Subjekts sowie
die Sprengung jedes Werthorizonts werden zum Anlass einer
extremen Ausdruckssuche, die das Maß der gewöhnlichen Spra-
che übersteigt und sich in der Hyperbolisierung des Ausdrucks
und in der eigenwilligen psychologischen Typenbildung wider-
spiegelt26. Das, was Kommerell als Gefahr sieht, hatte Nietzsche
jedoch bereits erwogen und retrospektiv mit dem Begriff des
«großen Stils» ein Korrektiv dazu angeboten. Der Stil der lang-
atmigen, rhythmisierten Periodik, den Nietzsche in Ecce homo
für das Kapitel Die sieben Siegel reklamiert, richtet sich interes-
santerweise nach einem Prinzip, das er bereits in Richard Wagner
in Bayreuth formuliert hatte:

Nun ist überhaupt die gesungene Leidenschaft in der Zeitdauer


um Etwas länger, als die gesprochene; die Musik streckt gleichsam die
Empindung aus: daraus folgt im Allgemeinen, dass der darstellende
Künstler, welcher zugleich Sänger ist, die allzu grosse unplastische
Aufgeregtheit der Bewegung, an welcher das aufgeführte Wortdrama
leidet, überwinden muss. Er sieht sich zu einer Veredelung der Gebär-
de hingezogen […] (RWB 9, KSA 1, S. 489 f.).

Demnach dient die Rhythmisierung der Perioden der Über-


windung der in unplastischen Sprachgebärden sich ausdrücken-
den Empindung. Dem unmittelbaren Ausleben von Affekten
26 Mit der Parodie hängt auch die Frage nach der Gebärdenhaftigkeit der Figuren
zusammen, die im Zarathustra sehr ausgebildet ist und eine Klassiikation von Rollen in
Hinblick auf die kommunikative Funktion der Sprechakte erlauben würde. Ein promi-
nentes Beispiel dafür ist das Gebärdenspiel des Zauberers, und zwar sein Gebet, das sich
in zweifacher Hinsicht als falsch erweist: im Inhalt, d.h. in seinem tragischen Kampf mit
einem Gott, den er nicht mehr hat, und in der Gebärde, da er den wirklichen Kampf
eines großen Menschen zwischen Überwältigendem und Überwältigten mimt. Zu den
Liedern des Zauberers und der Frage der Parodie im Zarathustra vgl. I. Schiffermüller,
Die Lieder des alten Zauberers. Zu Nietzsches Selbstparodie im Zarathustra, in G. Pelloni,
I. Schiffermüller (Hgg.), Pathos, Parodie, Kryptomnesie, zit., S. 67-96.
166 Gabriella Pelloni

stellt Nietzsche eine Reinigung und eine Veredelung derselben


gegenüber, die sich idealerweise durch kontrollierte Steigerung,
Ausdehnung und Konstruktion des Pathos und der Leidenschaft
im Medium der Sprache ereignen soll. Gerade in diesem Sinne
wird in Götzendämmerung der «grosse Stil» an Stelle der Lite-
ratur an der Architektur exempliiziert (GD Streifzüge 11, KSA
6, S. 118 f.).
II.
Ripercussioni nel Novecento
Nietzsche und Kafka
Über Menschen, Affen und Artisten

Isolde Schiffermüller

1. Nietzsche und Kafka?

Die Schriften Friedrich Nietzsches und die Prosa Franz Kaf-


kas haben gleichermaßen die Wahrnehmung unserer Welt ge-
prägt, und doch wird die Zusammenstellung der beiden großen
Namen der Moderne kaum ohne ein Fragezeichen auskommen.
Auch dort, wo sich Afinitäten, geistige Verwandtschaften oder
gemeinsame Themen und Motive feststellen lassen, scheinen die-
se – um Nietzsches Worte aus der Genealogie der Moral aufzu-
greifen – einem anderen «Grundwillen der Erkenntniss» zu
entstammen, sie scheinen in einem anderen «Erdreich» und ei-
ner anderen «Sonne» gereift zu sein (GM Vorrede 2, KSA 5, S.
248 f.). Im Unterschied zu Nietzsches Philosophie wirkt Kafkas
spätere literarische Prosa nicht nur wie der Kommentar zu ei-
ner abhanden gekommenen Lehre, die in der Bildwelt der Texte
aufgespürt werden muss: Nietzsche und Kafka führen den Leser
auch in je verschiedene symbolische Universen, die anderen Zei-
ten angehören. Dies zeigt sich schon auf den ersten Blick an der
stilistischen Differenz, die mehr als nur ein äußeres Merkmal ist:
auf der einen Seite die hyperbolische Rhetorik des großen Stils,
die Nietzsches Philosophie des späten 19. Jahrhunderts prägt,
auf der anderen die nüchterne Klarheit einer Prosa der klassi-
schen Moderne, die das Gedächtnis der jüdischen Tradition und
die Diktion der Prager Schriftsprache in sich aufnimmt.
Der Name Nietzsches – so kann bereits zu Beginn klar gestellt
werden – ist weder in den Briefen, noch in den Tagebüchern
Kafkas nachweisbar. Dennoch gibt es inzwischen eine ganze
170 Isolde Schiffermüller

Reihe von kritischen Arbeiten, die dem sogenannten Einluss


Nietzsches auf Kafka nachgegangen sind oder die nach Gemein-
samkeiten gesucht haben. Günther Anders etwa sah in der ge-
schichtsphilosophischen Diagnose von Nietzsches «Gott ist tot»
aus der Fröhlichen Wissenschaft den eigentlichen Ausgangspunkt
von Kafkas Schreiben1, Walter H. Sokel betonte Kafkas «nahe
Verwandtschaft mit Nietzsches Begriff der dionysischen
Tragödie, wie er ihn in der Geburt der Tragödie entwickelt hat»2
und sah in der Befragung dieser Afinität ein speziisches Desi-
derat der Forschung: «Diese Verwandtschaft verdient, voll und
eingehend gewürdigt zu werden. Eine solche Würdigung wäre ja
nur ein erster Schritt, um die ganz tiefe geistige Verwandtschaft
Kafkas und Nietzsches, dieser beiden Spitzenkünstler deutschen
Stils, einmal eingehender zu untersuchen»3. Patrick Bridgewa-
ter las Kafka im Zeichen Nietzsches, wobei er im Besonderen
auf Schopenhauer und Darwin Bezug nahm und vor allem die
Schrift Zur Genealogie der Moral als Quellenwerk betrachtete.
Er gab dabei allerdings zu, dass in diesem Fall die Erhellung der
zahlreichen Übereinstimmungen und Parallelen vor allem dazu
diente, die noch signiikanteren Differenzen zwischen den bei-
den großen Klassikern der Moderne herauszuarbeiten4. Lukas
Trabert betrachtete Kafkas Frühwerk Die Beschreibung eines
Kampfes auf der Folie von Nietzsches Schrift Über Wahrheit
und Lüge im außermoralischen Sinne, um Kafkas Zweifel an
der Sprache und an der wahren Welt mit Bezug auf Nietzsches
Sprach- und Erkenntniskritik zu erläutern5. Auch Wiebrecht
Ries befasste sich mit der «jeweiligen Stellung Nietzsches und
Kafkas zur symbolischen Funktion der Sprache und zum Pro-

1 G. Anders, Kafka pro und contra. Die Prozeß-Unterlagen, München 1984, S. 108 f.
Vgl. dazu B. Nagel, Kafka und die Weltliteratur, München 1983, S. 299.
2 W. H. Sokel, Franz Kafka. Tragik und Ironie, Frankfurt a. M. 1976, S. 75.
3 W. H. Sokel, Franz Kafka, zit., S. 75.
4 Vgl. P. Bridgewater, Kafka and Nietzsche, Bonn 1974.
5 Vgl. L. Trabert, Erkenntnis- und Sprachproblematik in Franz Kafkas «Beschreibung

eines Kampfes» vor dem Hintergrund von Friedrich Nietzsches «Über Wahrheit und Lüge
im außermoralischen Sinne», in «DVjS», 61/2 (1987), S. 298-324.
Nietzsche und Kafka 171

blem der Interpretation»6. Dirk Oschmann schließlich, der sich


am eingehendsten mit Kafkas Nietzsche-Rezeption auseinan-
dersetzte, las beide auf der Linie von Darwins Evolutionsleh-
re, in der die Leitkonzepte anthropologischer Selbstverständi-
gung als Illusionen entlarvt und der Mensch als vermeintliche
Krone der Schöpfung entthront werden: «Kafkas Rekurs auf
Nietzsche zeichnet sich in oftmals hochgradig vermittelten the-
matischen, formalen und bildlichen Konstellationen ab, mehr
aber noch in der Entfaltung einer grundsätzlichen skeptischen
Anthropologie»7.
Schon dieses kurze Referat bestehender Forschungsarbeiten
macht deutlich, dass sich die Suche nach sogenannten Einlüssen
und Parallelen meist auf heterogene und sehr allgemeine The-
men bezieht, die in unterschiedlicher Form die gesamte Nietz-
scherezeption des frühen 20. Jahrhunderts prägten und die mit
den Schlagworten Nihilismus, Sprachkritik, Darwinismus und
Artistenmetaphysik angesprochen sind. Gegen die verschiede-
nen Versuche, eine geistige Verwandtschaft zwischen Kafka und
Nietzsche nachzuweisen, oder Kafka gar als Nietzscheaner zu
proilieren, gibt es im Übrigen schon seit dem Beginn der Kaf-
ka-Forschung eine gewichtige Gegenstimme, nämlich die von
Max Brod, der sich sehr dezidiert gegen jede Annäherung des
Freundes an die Philosophie Nietzsches wendet, deren Einluss
auf seine Zeit er für «radikal verderblich»8 hält:

Denn Nietzsche ist ja in der Geschichte des letzten Jahrhunderts der


fast mathematisch genaue Gegenpol Kafkas. Es zeigt die Instinktlosig-
keit mancher Kafka-Erklärer, daß sie sich nicht scheuen, Kafka und
Nietzsche (etwa mit der Begründung, daß beide krank waren und zur
Gesundheit strebten) auf einer Ebene zusammenzubringen, – als ob es
hier irgendwelche noch so vage Bindungen, Vergleichsmöglichkeiten
6 W. Ries, Nietzsche/Kafka. Zur ästhetischen Wahrnehmung der Moderne, Freiburg/
München 2007, S. 57 f.
7 D. Oschmann, Skeptische Anthropologie: Kafka und Nietzsche, in Th. Valk (Hg.),

Friedrich Nietzsche und die Literatur der klassischen Moderne, Frankfurt a. M. 2009, S.
129-146, hier S. 133 f.
8 M. Brod, Über Franz Kafka, Frankfurt a. M. 1974, S. 258.
172 Isolde Schiffermüller

und nicht den puren Gegensatz gäbe; als ob das, was Kafka Gesund-
heit nennt, nämlich ein reines, liebevolles, niemanden schädigendes
Leben, und Nietzsches betonte Mitleidlosigkeit der «blonden Bestie»
einen gemeinsamen Nenner hätten9.

Max Brod mag insofern recht haben, als es falsch wäre, Kafka
ins Dämmerlicht des Nihilismus zu stellen oder ihn als Vitalisten
zu bezeichnen, sicher aber ist, dass seine polemische Stellung-
nahme auf einem reduktiven Verständnis von Nietzsches Phi-
losophie beruht, das für die Rezeption seiner Epoche und für
die Ideologie des beginnenden 20. Jahrhunderts charakteristisch
war.
Es gibt Zeugnisse dafür, dass Kafka seit seiner Schulzeit Nietz-
sche kannte und las10. Angeblich war es vor allem der Jugend-
freund Oskar Pollak, der den Anstoß zu Kafkas Nietzsche-Lek-
türe gab11. Auf Pollaks Anregung hin abonnierte Kafka auch die
Halbmonatsschrift Der Kunstwart, die die Nietzschebegeiste-
rung seiner Generation nährte. Als sicher gilt, dass er schon um
die Jahrhundertwende Also sprach Zarathustra und wohl auch
die Geburt der Tragödie las, wahrscheinlich später dann Zur Ge-
nealogie der Moral. In Kafkas Bibliothek ist allerdings lediglich
ein «gut erhaltener Halblederband» von Also sprach Zarathustra
in einer Ausgabe des Jahres 1904 enthalten, der «Randbemer-
kungen in deutscher Schreibschrift» aufweist, die «nicht von
Kafka»12 stammen. In einer Bücherliste, die wahrscheinlich auf
das Jahr 1923 datierbar ist, wird weiters der Nietzsche-Band von

9 Ebd., S. 259.
10 Vgl. W. H. Sokel, Franz Kafka, zit., S. 603 f. (Fußnote 2): Dass der junge Kafka
Nietzsche liebte, bezeugt etwa die Jugendfreundin Selma Robitschek (geb. Kohn), der
Kafka um 1900 aus Nietzsches Schriften vorlas. Sokel erwähnt auch eine mündliche Mit-
teilung von Gustav Janouch, der zufolge Kafka im Besonderen die Geburt der Tragödie
schätzte, von der er Janouch ein Exemplar schenkte.
11 Vgl. P. A. Alt, Kafka. Der ewige Sohn. Eine Biographie, München 2005, S. 92 f.
12 J. Born, Kafkas Bibliothek. Ein beschreibendes Verzeichnis. Mit einem Index aller in

Kafkas Schriften erwähnten Bücher, Zeitschriften und Zeitschriftenbeiträge, zusammenge-


stellt unter Mitarbeit von M. Antreter, W. John und J. Shepherd, Frankfurt a. M. 1990,
S. 119.
Nietzsche und Kafka 173

Ernst Bertram in einer Ausgabe des Jahres 1922 vermerkt13. Die


konkreten Zeugnisse von Kafkas Nietzsche-Lektüre sind also re-
lativ spärlich, die zentrale Frage aber ist, ob und wie sich in Kaf-
kas Prosa dennoch – angesichts der epochalen Bedeutung von
Nietzsches Philosophie, die damals Ideen und Bilder der Tradi-
tion in Bewegung setzte, umwertete und mit neuen Bedeutungen
aulud – die Rezeption von dessen Schriften nachweisen lässt. Es
soll hier gezeigt werden, dass Kafka in seinen Texten nicht nur
auf entscheidende Fragestellungen und Relexionen Nietzsches
antwortet, sondern dass er ein ganzes Arsenal von Bildformen
und Sprachiguren übernimmt, das durch die Nietzsche-Lektü-
re verfügbar wird. Themen und Motive, aber auch Metaphern
und idiomatische Wendungen schreibt Kafka dabei in die Ko-
ordinaten seiner eigenen artistischen Welt ein, um sie in neue
und andere Konstellationen zu stellen und einer Art von ästhe-
tisch-moralischer Umwertung zu unterziehen. Im Folgenden soll
an einigen Texten nachgewiesen werden, wie Kafka Wort- und
Bildfelder aus Nietzsches Schriften assimiliert, wie er dessen Fi-
guren perspektivisch verschiebt und pathetisch anders akzentu-
iert, um sie so zum Ausgangspunkt einer anderen Narration zu
machen. Die Themenkomplexe, die er dabei aufgreift, betreffen
beispielsweise die Genealogie der Moral, den «höheren Men-
schen» und die Scham, die ihn auszeichnet, die Gemeinschaft
von Mensch und Tier oder das komplexe Verhältnis von Leben
und Kunst.

2. Der schamhafte Lange

Kafkas Jugendwerk lässt sich als Antwort auf die Sprachkrise


der Jahrhundertwende lesen, die einen ihrer wesentlichen Im-
pulse in Nietzsches Sprach- und Erkenntniskritik hat. Kafkas
spielerische Demonstration einer epochalen Entfremdung und

13 E. Bertram, Nietzsche. Versuch einer Mythologie, Berlin, 6. Aul. 1922. Vgl. dazu J.
Born, Kafkas Bibliothek, zit., S. 183.
174 Isolde Schiffermüller

Entstellung der menschlichen Kommunikation in der Beschrei-


bung eines Kampfes betrachtet Lukas Trabert beispielsweise vor
dem Hintergrund von Nietzsches Schrift Über Wahrheit und
Lüge im außermoralischen Sinne, in der es heißt: «Jenes unge-
heure Gebälk und Bretterwerk der Begriffe, an das sich klam-
mernd der bedürftige Mensch durch das Leben rettet, ist dem
freigewordnen Intellect nur ein Gerüst und ein Spielzeug für
seine verwegensten Kunststücke» (WL 2, KSA 1, S. 888)14. Im
poetischen Laboratorium des jungen Kafka geht es allerdings
nicht nur um Kunststücke, in denen mit dem «Bretterwerk der
Begriffe» gespielt wird, zentral ist vielmehr die Demonstration
einer Sprachkrise im umfassenderen Sinn. In diesen eigenarti-
gen, szenisch angelegten Prosastücken des Frühwerks führt Kaf-
ka dem Leser wie in einem «kleinen Welttheater» die Drama-
turgie einer halt- und bodenlosen Existenz vor Augen und zeigt
die Posen, Allüren und gags von Figuren, die in ihrem Kampf
um Selbstbehauptung nur mehr eine lächerliche und peinliche
Vorstellung von sich geben. Dass die Sprachkrise bei Kafka den
ganzen körperlichen Menschen, seine Worte, Haltungen und
Gesten erfasst, macht aber schon sein ältester abgeschlossener
Erzähltext deutlich, nämlich die so genannte «Geschichte vom
schamhaften Langen», die in der frühen Korrespondenz mit Os-
kar Pollak enthalten ist und als eine Art von Urszene von Kafkas
Werk betrachtet werden kann. Diese Geschichte zeugt von der
Nietzsche-Lektüre des ganz frühen Kafka und scheint zum Teil
direkt auf Nietzsches Also sprach Zarathustra zu antworten, des-
sen Diktion sie in Tonfall und idiomatischen Wendungen stel-
lenweise auch wörtlich übernimmt.
Die «Geschichte vom schamhaften Langen», die nicht zur
Veröffentlichung bestimmt war, ist in einem Brief mit dem Post-
stempel vom 20. 12. 1902 an den Jugendfreund Oskar Pollak
enthalten, der den entscheidenden Anstoß zu Kafkas erster
Nietzsche-Lektüre gab und auf dessen Anregung hin Kafka

14 Vgl. L. Trabert, Erkenntnis- und Sprachproblematik in Franz Kafkas «Beschreibung


eines Kampfes», zit., S. 90.
Nietzsche und Kafka 175

auch die von Ferdinand Avenarius herausgegebene Halbmo-


natsschrift Der Kunstwart abonnierte, die die Nietzsche-Rezep-
tion seiner Generation prägte. In Themenstellung, Tonfall und
Vokabular von Kafkas Geschichte ist dann auch der Anklang
an die Sprach- und Gedankenwelt des Kunstwart unüberhör-
bar15, typisch etwa auf thematischer Ebene die Konfrontation
zwischen dem degeneriertem Leben der großen Stadt und dem
schlichten Landleben der kleinen Dörfer. Diese von der Ideo-
logie des Kunstwart geprägte Opposition zwischen kultureller
Degeneration und natürlichem Leben wird in Kafkas Brief auf-
genommen und problematisiert, wenn Kafka seine Geschichte
mit den bekannt gewordenen Worten einleitet: «Prag läßt nicht
los. Uns beide nicht. Dieses Mütterchen hat Krallen»16. Es folgt
die Geschichte vom «schamhaften Langen», der mit folgenden
Worten vorgestellt wird:

Der schamhafte Lange war in einem alten Dorf verkrochen zwi-


schen niedrigen Häuschen und engen Gäßchen. So schmal waren die
Gäßchen, daß, wenn zwei zusammen gingen, sie sich freundnachbar-
lich aneinander reiben mußten, und so niedrig waren die Stuben, daß,
wenn der schamhafte Lange von seinem Hockstuhl sich aufreckte,
er mit seinem großen eckigen Schädel geradewegs durch die Decke
fuhr und ohne sonderliche Absicht auf die Strohdächer niederschauen
muße17.

Charakterisiert wird der «schamhafte Lange» durch seine


übermäßige Länge, die in der kleinen Welt des alten Dorfes
wortwörtlich keinen Platz mehr indet. Peinlich unbeholfen
wirkt das verkrochen Weltfremde, Ungelenke und Eckige dieser
Gestalt. Eine krasse Disproportion zwischen Körper und Um-

15 Vgl. P. Cersowsky, Die Geschichte vom schamhaften Langen und vom Unredlichen

in seinem Herzen, in «Sprachkunst», Bd. VII (1976), S. 17-35. Cersowsky erwähnt im


Besonderen den Gebrauch der Diminuitiva und die Parallelen zum Prosatext Sommerfri-
schengedanken von Avenarius.
16 F. Kafka, An Oskar Pollak, 20. Dezember 1902, in F. Kafka, Briefe 1900-1912, hg.

von H.-G. Koch, Frankfurt a. M. 1999, S. 18.


17 Ebd.
176 Isolde Schiffermüller

gebung charakterisiert die «natürliche» Haltung der Figur, die


buchstäblich nicht mehr in die enge und niedrige Welt passt, die
in der Geschichte spielzeugartigen Charakter annimmt und in ei-
nem komisch-grotesken Missverhältnis zum Protagonisten steht.
Der schamhafte Lange stellt sich als eine wortwörtliche Ka-
rikatur von Nietzsches «höherem Menschen» dar. Kafkas Ge-
schichte bezieht sich dabei nicht nur allgemein auf Nietzsches
Also sprach Zarathustra, sie setzt sich im Besonderen mit dem
Kapitel Von den Hinterweltlern auseinander, in dem Zarathustra
gegen die Verächter des Leibes predigt, um dann seinen Glau-
ben an den Leib und «seine große Vernunft» (ZA I, KSA 4, S.
39) zu propagieren. Zarathustra setzt der sogenannten Tugend
der jenseitigen Hinterweltler die Redlichkeit des Leibes entge-
gen: «Hört mir lieber, meine Brüder, auf die Stimme des gesun-
den Leibes: eine redlichere und reinere Stimme ist diess. / Red-
licher redet und reiner der gesunde Leib, der vollkommene und
rechtwinklige: und er redet vom Sinn der Erde» (ebd., S. 38).
Zarathustras Anklage richtet sich gegen die Verächter des Irdi-
schen, die den Himmel erfanden, da ihr Leib an der Erde ver-
zweifelte. Diese hinterweltlerische Verzweilung des Leibes fasst
Nietzsche in ein charakteristisches Bild, das Kafkas Geschichte
inspiriert haben mag: «Und da wollte er mit dem Kopfe durch
die letzten Wände, und nicht nur mit dem Kopfe, – hinüber zu
‚jener Welt‘» (ebd., S. 36). Zarathustra dagegen lehrt einen neu-
en Stolz: «nicht mehr den Kopf in den Sand der himmlischen
Dinge zu stecken, sondern frei ihn zu tragen, einen Erden-Kopf,
der der Erde Sinn schafft!» (ebd., S. 37)
Kafkas Geschichte vom schamhaften Langen, der mit dem
«großen eckigen Schädel» die Decke seines Häuschens durch-
stößt und auf die Strohdächer hinunterschaut, antwortet auf
das Kapitel Von den Hinterweltlern in Also sprach Zarathustra
und nimmt dabei Motive, Vokabel und Bilder aus Nietzsches
Werk auf, um diese neu und anders zu werten. Es geht in Kaf-
kas kleiner Erzählung nicht mehr um die Opposition zwischen
Jenseitsglauben und irdischer Vernunft. Kafkas Langer ist kein
Jenseitsgläubiger, der mit seinem Kopf über die irdische Welt
Nietzsche und Kafka 177

hinaus will, er muss ganz einfach die Decke seines Hauses durch-
stoßen, wenn er sich aufrichten will, um dann «ohne sonderliche
Absicht» auf die Strohdächer des Dorfes hinunterzuschauen.
Auch die geduckte Haltung, die er in seinem Zimmer einneh-
men muss, ist anfangs kein Grund zur Scham, wie die folgende
Szene zeigt:

Vor Weihnachten einmal saß der Lange geduckt beim Fenster. In


der Stube hatten seine Beine keinen Platz; so hatte er sie bequem aus
dem Fenster gestreckt, dort baumelten sie vergnüglich. Mit seinen un-
geschickten magern Spinneningern strickte er wollene Strümpfe für
die Bauern. Die grauen Augen hatte er fast auf die Stricknadeln ge-
spießt, denn es war schon dunkel18.

In Kafkas Geschichte wird der schamhafte Lange, der mit


Kopf und Beinen die Dimensionen seiner engen Behausung
sprengt, mit der vergnüglichen weltfremden Naivität auch die
Redlichkeit des Leibes verlieren, die im Blick des Städters peinli-
che Züge annimmt. Dieser Verlust der Unschuld wird durch den
Besuch eines inneren Gegenspielers ausgelöst. Es ist der «Un-
redliche in seinem Herzen», der der «Städte Glück» kennt, der
ihn in seinem kleinen Dorf besucht:

Jemand klopfte fein an die Plankentür. Das war der Unredliche in


seinem Herzen. Der Lange riß das Maul auf. Der Gast lächelte. Und
schon begann sich der Lange zu schämen. Seiner Länge schämte er
sich und seiner wollenen Strümpfe und seiner Stube – Aber bei alle-
dem wurde er nicht rot, sondern blieb zitronengelb wie zuvor19.

Die abstrakt und expressionistisch anmutende «zitronengel-


be» Scham ist Ausdruck eines intimen Zwiespalts im Herzen
des leibhaften Selbst, die das Nietzscheanische Plädoyer für die
Redlichkeit des Leibes problematisiert und die vertrackte inne-

18 Ebd.
19 Ebd.
178 Isolde Schiffermüller

re Gespaltenheit der irdischen Vernunft in einer dramatischen


Szene aufzeigt.
Die Scham, die Kafkas komischem Langen jede Größe nimmt,
hat nichts mehr von der noblen Gebärde bei Nietzsche, die dem
Selbstschutz des edlen Lebens und der Wertsetzung des stolzen
Individuums dient. Nietzsches Zarathustra spricht sich in diesem
Sinn oft für die Maske der Scham aus und stellt die Wahrneh-
mung der menschlichen Gestalt ins Zeichen der Scham, bei-
spielsweise wenn im Kapitel Von den Mitleidigen der Mensch als
«das Thier, das rothe Backen hat» deiniert wird und es weiter
heißt: «Wie geschah ihm das? Ist es nicht, weil er sich zu oft hat
schämen müssen? / Oh meine Freunde! So spricht der Erken-
nende: Scham, Scham, Scham – das ist die Geschichte des Men-
schen!» (ZA II, KSA 4, S. 113) Zarathustra wendet sich in die-
sem Kapitel kritisch gegen die Schamlosigkeit der christlichen
Mitleidsethik, die in die schmutzigsten Winkel des Menschen
kriechen will, um die Krankheit und das Leiden der Menschen
zu betrachten. Seine «große Scham» wird dagegen zum Weg-
weiser einer edlen Gesinnung, wie etwa die Begegnung mit dem
«hässlichsten Menschen» zeigt:

Da aber sahe er, als er die Augen aufthat, Etwas, das am Wege
sass, gestaltet wie ein Mensch und kaum wie ein Mensch, etwas Un-
aussprechliches. Und mit einem Schlage überiel Zarathustra die gros-
se Scham darob, dass er so Etwas mit den Augen angesehen habe:
erröthend bis hinauf in sein weisses Haar, wandte er den Blick ab und
hob den Fuss, dass er diese schlimme Stelle verlasse (ZA IV, KSA 4, S.
327 f.).

Zarathustras Scham hebt ihn hinweg über alles Niedrige und


Ekelhafte, um so das antike eidos des Menschen hoch zu halten.
Im Unterschied zu Nietzsche nimmt Kafka hingegen der Scham
jede Größe und jede Tragik, er schreibt sie in ein niedriges Re-
gister ein, in dem sie komisch-groteske Effekte zeigt, ähnlich
wie die gags im Stummilm, wenn Charlie Chaplin etwa im Film
Lichter der Großstadt ein Pfeifchen verschluckt, dessen schriller
Nietzsche und Kafka 179

Ton den Skandal seiner unentrinnbaren physischen Anwesen-


heit signalisiert. Komisch ist in diesem Sinn auch die eckige und
unbeholfene Figur des Kafkaschen Langen, die die Niedrigkeit
und Dürftigkeit seiner Behausung exponiert, lächerlich und gro-
tesk wirkt seine Scham, die sich nicht auf einen Mangel oder
ein moralisches Vergehen, sondern auf das bloße Faktum der
Länge bezieht, auf die physische Kontingenz der Gestalt und
ihren engen Lebensraum. Kafka verkleinert jedoch nicht nur
die «große Scham» Zarathustras, schon seine erste Geschichte
weist über das komisch groteske Register hinaus und zeigt eine
vertikale Dimension auf, die in der niedrigen Welt keinen Ort
und keinen Raum mehr indet. In den Koordinaten von Kafkas
Universum verweist diese vertikale Achse auf kein «höheres»
Jenseits, sie vertieft sich vielmehr in die irdische Welt, sie wird
unterirdisch und tiefgründig im wörtlichen Sinn. Deleuze und
Guattari, die Autoren von Kafka. Pour une littérature mineure,
betonen zu Recht diese Tiefgründigkeit Kafkas und räumen dem
schamhaften Langen eine besondere Stellung ein: «Kafkas Kunst
wird die tiefgründigste Meditation über Territorium und Haus
sein, über den unterirdischen Bau, die Porträtstellungen (der ge-
senkte Kopf des Bewohners, das Kinn in die Brust gebohrt, oder
aber der ‚schamhafte Lange‘, der die Decke mit seinem kantigen
Schädel durchstößt)»20.
Kafkas Mensch – so ließe sich verallgemeinernd feststellen –
ist die geduckte Kreatur, deren höhere Gestalt entstellt ist, da ihr
die Redlichkeit der alten Dörler zu eng und zu klein wurde. In
der gebeugten Haltung des schamhaften Langen sind all die spä-
teren Figuren Kafkas vorgeprägt, die sich bücken müssen in zu
engen Räumen und die den Kopf einziehen unter zu niedrigen
Decken, wo ihnen die stickige Luft den Atem nimmt. Aus der
Haltung dieser Gestalten spricht nicht mehr die «Stimme des
gesunden Leibes» und der «irdischen Vernunft», die Nietzsche
hochpreist, ihr buckliger Rücken zeugt vielmehr vom Druck des

20 G. Deleuze, F. Guattari, Was ist Philosophie?, aus dem Französischen von B.


Schwibs und J. Vogl, Frankfurt a. M. 1996, S. 219.
180 Isolde Schiffermüller

Alltäglichen und deutet eine geradezu mythische Last an, wie sie
die Atlanten auf ihren Schultern tragen21.

3. Die Genealogie der artistischen Vernunft

Dirk Oschmann, der sich ausführlich mit der Beziehung Kaf-


kas zu Nietzsche befasst hat, unterscheidet zwei Phasen in Kaf-
kas Auseinandersetzung mit Nietzsche: eine erste Phase, die sich
noch vor 1910 im Umfeld der Beschreibung eines Kampfes ansie-
delt, in der die Relexion auf die sprachliche Kommunikation und
ihre Grenzen im Mittelpunkt steht. Also sprach Zarathustra, Die
Geburt der Tragödie sowie der Aufsatz Über Wahrheit und Lüge
im außermoralischen Sinne sind die Schriften Nietzsches, die in
diesem Kontext genannt werden und die Kafka wahrscheinlich
schon in dieser Zeit kannte. In einer zweiten Phase nach 1914
kann dann vor allem die Lektüre der Genealogie der Moral an
einzelnen Texten Kafkas nachgewiesen werden, beispielsweise
in der Erzählung In der Strafkolonie, in der Vorstellungsbilder
von Strafe und Gedächtnis aus Nietzsches Schrift entlehnt wer-
den, oder in Ein Landarzt, wo die Überlegungen zur Heilkunst
von Arzt und Priester sowie das Bild von der von Würmern
zerfressenen Wunde auf Stellen aus der Genealogie der Moral
verweisen22. Nach Oschmann zeichnet sich Kafkas Rekurs auf
Nietzsche «in oftmals hochgradig vermittelten thematischen,
formalem und bildlichen Konstellationen ab, mehr aber noch
in der Entfaltung einer grundsätzlich skeptischen Anthropolo-
gie»23, die Nietzsches Worten zufolge den Menschen als «ein
vielfaches, verlogenes, künstliches und undurchsichtiges Thier»
(JGB 291, KSA 5, S. 235), kurz «das noch nicht festgestellte
21 Nach Walter Benjamin erschließt sich in dieser Haltung bei Kafka eine ganze Rei-

he von typischen Figuren der Entstellung, die alle mit einem «Urbilde der Entstellung,
dem Buckligen» verbunden sind: W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Wiederkehr
seines Todestages, in Benjamin über Kafka. Texte, Briefzeugnisse, Aufzeichnungen, hg. von
H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M. 1981, S. 31.
22 Vgl. D. Oschmann, Skeptische Anthropologie, zit., S. 131.
23 Ebd., S. 133 f.
Nietzsche und Kafka 181

Thier» (JGB 62, KSA 5, S. 81) betrachtet. Das stärkste Echo


Nietzsches zeige sich in dieser Perspektive in Kafkas Ein Bericht
für eine Akademie, in dem die «Leitkonzepte anthropologischer
Selbstverständigung»24 wie Freiheit, Bildung und Kultur als Illu-
sionen entlarvt werden, um so dem Leser jene «Affenwahrheit»
des Menschen vor Augen zu führen, die Zarathustras Lehre vom
Übermenschen mit folgenden Worten ausspricht: «Was ist der
Affe für den Menschen? Ein Gelächter oder eine schmerzliche
Scham. Und ebendas soll der Mensch für den Übermenschen
sein: ein Gelächter oder eine schmerzliche Scham» (ZA Vorrede
3, KSA 4, S. 14). Kafkas Affe, dem seinerseits die Scham vor
den Menschen und für die Menschheit nicht fremd sein dürfte,
setzt im Zeitalter nach Darwin und Nietzsche die Ahnenreiche
der gelehrten Affen fort, die als Karikaturen des Humanen den
Identitätsschock des europäischen Menschen verkörpern. «Man
beaufsichtigt sich selbst mit der Peitsche»25, so berichtet er den
Herren der Akademie über seine gelungene Selbstdressur und
zitiert damit gleichsam seine Herkunft von Darwin und Nietz-
sche. Doch Ein Bericht an eine Akademie zeugt nicht nur vom
Einluss Nietzsches, er stellt vielmehr eine singuläre Antwort
auf den Darwinismus und auf die Genealogie der Moral dar, die
letztlich in eine andere Richtung geht. Kafka nimmt in seiner
Erzählung – wie gezeigt werden soll – zwar Bilder und Kon-
stellationen aus der Genealogie der Moral auf, um dann jedoch
Nietzsches Gedanken zur Anthropogenese umzuwerten und
nach einem neuen «Ausweg» und einer anderen «Richtlinie» der
Menschwerdung zu suchen.
Der Weg des gewesenen Affen in die Menschenwelt stellt sich
in Kafkas Erzählung als Überfahrt auf dem Zwischendeck eines
Dampfers der Firma von Carl Hagenbeck dar, die damals ein
großes Zoo- und Zirkusunternehmen repräsentierte. Die erste

24 Ebd., S. 141.
25 F. Kafka, Drucke zu Lebzeiten, hg. von W. Kittler, H.-G. Koch und G. Neumann,
Frankfurt a. M. 2002, S. 311.
182 Isolde Schiffermüller

Erinnerung des gefangenen Affen, der auf dem Schiff aus seiner
Bewusstlosigkeit erwacht, setzt im Tierkäig ein:

Es war kein vierwandiger Gitterkäig; vielmehr waren nur drei Wän-


de an einer Kiste festgemacht; die Kiste also bildete die vierte Wand.
Das Ganze war zu niedrig zum Aufrechtstehen und zu schmal zum
Niedersitzen. Ich hockte deshalb mit eingebogenen, ewig zitternden
Knien, und zwar, da ich zunächst wahrscheinlich niemanden sehen
und immer nur im Dunkel sein wollte, zur Kiste gewendet, während
sich mir hinten die Gitterstäbe ins Fleisch einschnitten26.

«Kein Ausweg», so zeichnet der Bericht das «damals affen-


mäßig Gefühlte»27 nach. Sarkastisch wird dabei auch die Ver-
geblichkeit jedes kausalen Denkens für die Ausweglosigkeit des
Tierkörpers festgehalten: «Warum das? Kratz dir das Fleisch
zwischen den Fußzehen aus, du wirst den Grund nicht inden.
Drück dich hinten gegen die Gitterstange, bis sie dich fast zwei-
teilt, du wirst den Grund nicht inden»28. Kafkas Bericht an eine
Akademie bezieht sich in der zitierten Szene direkt auf eine Stelle
aus Nietzsches Zur Genealogie der Moral, in der vom Ursprung
des «schlechten Gewissens» die Rede ist: Dessen Erinder sei der
«Mensch, der sich, aus Mangel an äusseren Feinden und Wider-
ständen, eingezwängt in eine drückende Enge und Regelmäßig-
keit der Sitte, ungeduldig selbst zerriss, verfolgte, annagte, auf-
störte, misshandelte, dies an den Gitterstäben seines Käigs sich
wund stossende Thier, das man ‚zähmen‘ will» (GM II 16, KSA
5, S. 323). Mit dem Bild vom Tier, das sich an den Gitterstäben
seines Käigs verwundet, beginnt für Nietzsche die Erindung
des schlechten Gewissens, dessen Ursprung er in der Zweiten
Abhandlung der Genealogie weiter nachgeht: «das Leiden des
Menschen am Menschen, an sich: als die Folge einer gewalt-
samen Abtrennung von der thierischen Vergangenheit, eines
Sprungs und Sturzes gleichsam in neue Lagen und Daseins-Be-

26 Ebd., S. 302.
27 Ebd., S. 303.
28 Ebd., S. 304.
Nietzsche und Kafka 183

dingungen, einer Kriegserklärung gegen die alten Instinkte»


(ebd.). Zurückgedrängt, verinnerlicht und latent gemacht wird
für Nietzsche insbesondere der «Instinkt der Freiheit» oder
– wie Nietzsche weiter präzisiert: «(in meiner Sprache geredet:
der Wille zur Macht)» (GM II 18, KSA 5, S. 326). An seine Stelle
trete nun der Wille zur «Selbstpeinigung, jene zurückgetretene
Grausamkeit des innerlich gemachten, in sich selbst zurückge-
scheuchten Thiermenschen […] der das schlechte Gewissen er-
funden hat, um sich wehe zu thun, nachdem der natürlichere
Ausweg dieses Wehe-thun-wollens verstopft war» (GM II 22,
KSA 4, S. 332).
Kafkas anthropogenetische Erzählung geht vom nietzschea-
nischen Bild des eingegitterten Tieres aus, sie kommt jedoch
erstaunlicherweise ganz ohne jene Selbstpeinigung und jenes
«schlechte Gewissen» aus, die nach Nietzsche den zivilisierten
Christenmenschen kennzeichnen. Auch der Affe Rotpeter sucht
im Sinn von Nietzsche nach einem Ausweg, doch will er das Wort
«in seinem gewöhnlichsten und vollsten Sinn»29 verstehen und
wendet sich dabei explizit gegen den Begriff der Freiheit, den
er dem «Gelächter des Affentums»30 preisgibt: «mit Freiheit be-
trügt man sich unter Menschen allzuoft»31. In Kafkas Erzählung
geht es offensichtlich um eine Umwertung von Nietzsches Ge-
nealogie der Moral, die dem Leser zunächst durch eine wortwört-
liche Umwendung des Affen demonstriert wird. Der frustrierte
Affe ändert seine Blickrichtung und wendet sich in seinem Käig
der Menschenwelt zu, um das Verhalten der Matrosen auf dem
Schiff zu beobachten. Im animalischen Bewusstseinsdämmer
mimetischen Verhaltens antizipiert Rotpeter so die so genann-
te «zweite Natur» und das Versprechen der Menschenwerdung:
«Es war so leicht, die Leute nachzuahmen. Spucken konnte ich
schon in den ersten Tagen. Wir spuckten einander dann ge-
genseitig ins Gesicht»32. In diesem pädagogischen Szenario, in
29 Ebd.
30 Ebd., S. 305.
31 Ebd., S. 304.
32 Ebd., S. 308.
184 Isolde Schiffermüller

dem der Affe Pfeife rauchen und Schnaps trinken lernt, stößt
das äfische Verlangen nach Nachahmung schließlich direkt auf
den Unterricht eines menschlichen Lehrers, der das Rätsel der
Tiernatur lösen will. Mensch und Affe kämpfen hier, wie es aus-
drücklich heißt, «auf der gleichen Seite gegen die Affennatur»33,
um das Versprechen der Nachahmung einzulösen, der Affe ganz
Ungeduld der mimischen Kräfte, der Mensch ganz demonstra-
tiver Gestus und Blickkontrolle. Der gemeinsame Kampf ist er-
folgreich. Den Höhepunkt und ersten Erfolg stellt zweifellos die
Feuerprobe mit der Schnapslasche dar, in der Rotpeter seinen
Ekel – ein distinktives Merkmal der abgewehrten Tiernatur34 –
überwindet und vor versammeltem Publikum einen erhabenen
Sieg über die animalischen Instinkte feiert:

Was für ein Sieg dann allerdings für ihn wie für mich, als ich ei-
nes Abends vor großem Zuschauerkreis […] eine vor meinem Käig
versehentlich stehen gelassene Schnapslasche ergriff, unter steigender
Aufmerksamkeit der Gesellschaft sie schulgerecht entkorkte, an den
Mund setzte und ohne Zögern, ohne Mundverziehen, als Trinker von
Fach, mit rund gewälzten Augen, schwappender Kehle, wirklich und
wahrhaftig leer trank; nicht mehr als Verzweifelter, sondern als Künst-
ler die Flasche hinwarf; zwar vergaß den Bauch zu streichen; dafür
aber, weil ich nicht anders konnte, weil es mich drängte, weil mir die
Sinne rauschten, kurz und gut «Hallo!» ausrief, in Menschenlaut aus-
brach35.

Wie die zitierte Szene vor Augen führt, kommt Kafkas Rot-
peter als mimischer Virtuose zur Welt, noch bevor er sich im
Laut der menschlichen Sprache wiedererkennen kann, er wird
als Schauspieler und Künstler gleichsam neu geboren.
Kafkas Erzählung entwirft im Unterschied zu Nietzsches
Genealogie der Moral die Genealogie einer artistischen Ver-
nunft und zeigt damit einen Ausweg aus den Aporien des an-
33 Ebd., S. 310.
34 Vgl. dazu W. Menninghaus, Ekel. Theorie und Geschichte einer starken Empin-
dung, Frankfurt a. M. 1999.
35 F. Kafka, Drucke zu Lebzeiten, zit., S. 310 f.
Nietzsche und Kafka 185

thropotechnischen Zeitalters der Moderne. Rotpeter entgeht


der Gefangenschaft im Menschenzoo, ohne sich auf die Seite
der Machthaber, die der Zooleiter und Züchter zu schlagen. Als
Virtuose der Mimesis, der die menschlichen Gesten nachahmt,
schlägt er sich vielmehr – wie es heißt – «in die Büsche». Wenn
er dann als Zirkusartist und Varietékünstler sein Geschäft auf
den großen Bühnen der Zivilisation betreibt, so geht es nicht
mehr darum, wie der Mensch im darwinistischen Kampf den
Affen überwindet, sondern wie umgekehrt der Affe «im ganzen
Menschengeschlecht»36 weiterlebt. Kafkas Erzählung zeigt da-
mit den Ausweg einer artistischen Vernunft auf, die das Überle-
ben des Tierköpers in der menschlichen Mimikry zum Ziel hat.
Sein Affe kommt ohne die Qual der Ideale und ohne die «Ge-
wissens-Vivisektion und Selbst-Thierquälerei» (GM II 24, KSA
5, S. 335) aus, die bei Nietzsche die Geschichte des Menschen
prägt und jene «Bestialität der Idee» (GM II 22, KSA 5, S.
332 f.) zur Folge hat, die in seiner Sicht die Widernatur des mo-
dernen Menschen ausmacht: «Oh über diese wahnsinnige trau-
rige Bestie Mensch!» (ebd., S. 332) Nach diesem Ausruf schließt
Nietzsches Zur Genealogie der Moral mit einer Selbstdeinition
des modernen Menschen, die diesen als «Erben der Gewis-
sens-Vivisektion und Selbst-Thierquälerei von Jahrtausenden»
bestimmt: «darin haben wir unsre längste Übung, unsre Künst-
lerschaft vielleicht […]» (GM II 24, KSA 5, S. 335). Dem so
verstandenen Menschen der Moderne bleibt nur die Hoffnung
auf einen «schöpferischen Geist» der Zukunft, «der uns ebenso
vom bisherigen Ideal erlösen wird, als von dem, was aus ihm
wachsen musste, vom grossen Ekel, vom Willen zum Nichts,
vom Nihilismus […]» (ebd., S. 336). Diese Hoffnung auf den
Übermenschen, den «Zukünftigeren», trägt bei Nietzsche den
Namen «Zarathustra» (GM II 25, KSA 5, S. 337). An ihre Stel-
le tritt bei Kafka eine andere paradoxe Erlösungshoffnung, die
sich nicht an die zukünftige Selbstüberwindung des Menschen,

36 G. Janouch, Gespräche mit Kafka, Aufzeichnungen und Erinnerungen, Frankfurt a.


M. 1951, S. 87.
186 Isolde Schiffermüller

sondern an das «heilsame Eingedenken»37 der menschlichen


Verwandtschaft mit den Tieren knüpft. Diese unvordenkliche
Gemeinschaft von Menschen und Tieren wird für Kafka zum
Gegenstand einer gleichsam a-moralischen Forschung, deren
Hoffnung und Endziel er in einigen Briefen38 und auch im Tage-
buch wie folgt benannt hat:

Wenn ich mich auf mein Endziel hin prüfe, so ergibt sich, daß ich
nicht eigentlich danach strebe ein guter Mensch zu werden und einem
höchsten Gericht zu entsprechen, sondern, sehr gegensätzlich, die gan-
ze Menschen- und Tiergemeinschaft zu überblicken, ihre grundlegen-
den Vorlieben, Wünsche, sittlichen Ideale zu erkennen, sie auf einfache
Vorschriften zurückzuführen und mich in ihrer Richtung möglichst
bald dahin zu entwickeln, daß ich durchaus allen wohlgefällig würde
und zwar (hier kommt der Sprung) so wohlgefällig, daß ich, ohne die
allgemeine Liebe zu verlieren, schließlich, als der einzige Sünder, der
nicht gebraten wird, die mir innewohnenden Gemeinheiten, offen, vor
aller Augen ausführen dürfte. Zusammengefaßt kommt es mir also nur
auf das Menschengericht an und dieses will ich überdies betrügen, al-
lerdings ohne Betrug39.

4. Kunststücke

Die Artisten aus Zirkus und Varieté sind bei Kafka die Vertre-
ter einer Kunst, in der der Künstler Körper und Leben aufs Spiel
setzt. Sie alle teilen mit den Tieren den Akt der Dressur, sie alle
experimentieren den Glanz und die Fragwürdigkeit einer Kunst-
übung, für die das ganze Leben als Einsatz dient. Exemplarisch
ist in dieser Hinsicht das Prosastück Auf der Galerie, in dem
Kafka eine Zirkusszene, genauer das Glanzstück einer Kunstrei-
37 Th. W. Adorno, Aufzeichnungen zu Kafka, in ders., Prismen. Kulturkritik und Ge-

sellschaft, Frankfurt a. M. 1955, S. 340: «das heilsame Eingedenken der Tierähnlichkeit».


38 An Felice Bauer, 30. September 1917 und an Max Brod, 7. oder 8. Oktober 1917,

in F. Kafka, Briefe 1914-1917, hg. von H.-G. Koch, Frankfurt a. M. 2005, S. 333 und 342
f.
39 F. Kafka, Tagebücher, hg. von H.-G. Koch, M. Müller und M. Pasley, Frankfurt a.

M. 2002, S. 839 f., Aufzeichnung vom 1. Oktober 1917.


Nietzsche und Kafka 187

terin, in zwei komplexen Satzgefügen entfaltet, die scheinbar


antithetisch aufeinander bezogen sind. Der Kunstritt, in Kafkas
Prosa ein wiederkehrendes Gleichnis für die Macht und Ohn-
macht der schöpferischen Kräfte, wird im ersten Teil der Parabel
als grausamer Dressurakt unter der Peitsche eines unerbittlichen
Zirkusdirektors dargestellt, im zweiten Teil erscheint dieselbe
Szene hingegen als Triumph der Kunstreiterin, die sich strah-
lend im Beifall des Publikums über den Staub der Arena erhebt.
Kafkas komplexe Parabel wurde zum Gegenstand einer umfas-
senden kritischen Diskussion40, in der es um Qual und Erlösung
des Künstlers, um Elend und Schönheit der Kunst und um die
ergreifende Wirkung des Schauspiels geht. Im gegebenen Kon-
text stellt sich vor allem die Frage, wieweit Kafkas Gleichnis die
asketischen und anthropotechnischen Kunststücke Nietzsches
beerbt und als Antwort auf die nietzscheanische Afirmation der
Kunst gelesen werden kann.
Kafkas Parabel der Kunst beginnt zunächst mit dem Negativ-
bild einer mitreißenden Inszenierung:

Wenn irgendeine hinfällige, lungensüchtige Kunstreiterin in der


Manege auf schwankendem Pferd vor einem unermüdlichen Publikum
vom peitschenschwingenden erbarmungslosen Chef monatelang ohne
Unterbrechung im Kreise rundum getrieben würde, auf dem Pferde
schwirrend, Küsse werfend, in der Taille sich wiegend, und wenn die-
ses Spiel unter dem nichtaussetzenden Brausen des Orchesters und der
Ventilatoren in die immerfort weiter sich öffnende graue Zukunft sich
fortsetzte, begleitet vom vergehenden und neu anschwellenden Bei-
fallsklatschen der Hände, die eigentlich Dampfhämmer sind – viel-
leicht eilte dann ein junger Galeriebesucher die lange Treppe durch
alle Ränge hinab, stürzte in die Manege, riefe das: Halt! durch die Fan-
faren des immer sich anpassenden Orchesters41.

40 Vgl. P.W. Beiken, Franz Kafka. Eine kritische Einführung in die Forschung, Frank-
furt a. M. 1974, S. 302-306, sowie die Bibliographie in: Franz Kafka. Romane und Erzäh-
lungen. Interpretationen, hg. von M. Müller, Stuttgart, 2. Aul. 2003, S. 232.
41 F. Kafka, Drucke zu Lebzeiten, zit., S. 262.
188 Isolde Schiffermüller

Der Wirbel des Zirkusspektakels zeigt sich in diesem ersten


Teil als Theater der Grausamkeit, das einem tödlichen Wieder-
holungszwang unterliegt, in dem sich das Leben aufzehrt und
verausgabt für die Kunst. Der Dressurakt mit der Peitsche, der
die Artistin erbarmungslos der Mechanik des grausamen Spiels
unterwirft, wird im Konditionalsatz allerdings nur als irreale
gedankliche Hypothese angesprochen, die in einer höchst un-
wahrscheinlichen Reaktion des Zuschauers endet, der dem un-
menschlichen Spektakel Einhalt gebietet, da hier das Leid über
das ästhetische Mitleid zu siegen droht. Der zweite Teil der Pa-
rabel korrigiert dieses irreale Negativbild und führt die wahre
Evidenz der glanzvollen Inszenierung vor Augen:

Da es aber nicht so ist; eine schöne Dame, weiß und rot, herein-
liegt, zwischen den Vorhängen, welche die stolzen Livrierten vor ihr
öffnen; der Direktor, hingebungsvoll ihre Augen suchend, in Tierhal-
tung ihr entgegenatmet; vorsorglich sie auf den Apfelschimmel hebt,
als wäre sie seine über alles geliebte Enkelin, die sich auf gefährli-
che Fahrt begibt; sich nicht entschließen kann, das Peitschenzeichen
zu geben; schließlich in Selbstüberwindung es knallend gibt; neben
dem Pferde mit offenem Munde einherläuft; die Sprünge der Reiterin
scharfen Blickes verfolgt; ihre Kunstfertigkeit kaum begreifen kann;
mit englischen Ausrufen zu warnen versucht; die reifenhaltenden Reit-
knechte wütend zu peinlichster Achtsamkeit ermahnt; vor dem großen
Saltomortale das Orchester mit aufgehobenen Händen beschwört, es
möge schweigen; schließlich die Kleine vom zitternden Pferde hebt,
auf beide Backen küßt und keine Huldigung des Publikums für ge-
nügend erachtet; während sie selbst, von ihm gestützt, hoch auf den
Fußspitzen, vom Staub umweht, mit ausgebreiteten Armen, zurück-
gelegtem Köpfchen ihr Glück mit dem ganzen Zirkus teilen will – 42.

Wahr und evident ist in Kafkas Parabel das Pathos der Kunst,
das sich in den Gesten der Huldigung, der Selbstüberwindung
und Erlösung mitteilt, in einem Glück, an dem die ganze Arena
partizipiert.

42 Ebd., S. 262 f.
Nietzsche und Kafka 189

Die kritische Diskussion von Kafkas Prosastück konzentrierte


sich vor allem auf das Verhältnis der beiden Hälften der Para-
bel, in denen Elend und Triumph der Kunstübung vorgeführt
werden. Der Bezug zwischen den beiden Teilen kann allerdings
kaum auf eine antithetische Struktur festgelegt werden, in der
sich Macht und Ohnmacht, Realität und Illusion als einfache
Oppositionen gegenüber stehen. Die irreale gedankliche Hypo-
these im ersten Teil dient vielmehr als Vorgabe und Folie für
die glanzvolle Evidenz der artistischen Inszenierung im zweiten
Teil. Die Scheinwelt der Kunst stellt sich in diesem Sinn als Afir-
mation, als dynamische Steigerung und Potenzierung der Wirk-
lichkeit dar. Diese potenzierte Wirklichkeit der Kunst wird in
Kafkas Prosa durch einen demonstrativen Gestus bestätigt, der
auf die Wirkung des Schauspiels zeigt: «– da dies so ist, legt der
Galeriebesucher das Gesicht auf die Brüstung und, im Schluß-
marsch wie in einem schweren Traum versinkend, weint er, ohne
es zu wissen»43. Die dionysische Musik, der sich der Zuschauer
gleichsam unbewusst hingibt, wird bei Kafka nur in einer Gebär-
de angedeutet, die auf jede Rhetorik der Affekte verzichtet. Kaf-
kas Parabel verdunkelt den Blick in den dionysischen Abgrund
der Kunst und stellt deren tragisches Wissen in den Schutz eines
schweren und bilderlosen Traums.
Auf der Galerie kann als Antwort auf Nietzsches Kunstauf-
fassung verstanden werden und liest sich im Besonderen wie
die Erwiderung auf dessen Vorrede zu einem ungeschriebenen
Buch Über das Pathos der Wahrheit, in der ein «gefühlloser Dä-
mon» eine Geschichte erzählt, die in der Schrift Über Wahrheit
und Lüge im außermoralischen Sinne wieder aufgenommen wird.
Es geht darin um die klugen Tiere, die «das Erkennen erfan-
den» (VV, KSA 1, S. 759), das sie jedoch in die Verzweilung
und Vernichtung treiben würde, gäbe es nicht den Glauben «an
die erreichbare Wahrheit, an die zutrauensvoll sich nahende Il-
lusion» (ebd.). Auch vom eigenen Leib besitze der Mensch nur
ein «gauklerisches» Bewusstsein, das dem «Erbarmunglosen,

43 Ebd., S. 263.
190 Isolde Schiffermüller

dem Mörderischen» aufruhe, «gleichsam auf dem Rücken eines


Tigers in Träumen hängend» (VV, KSA 1, S. 760). – «Die Kunst
ist mächtiger als die Erkenntnis», so lautet das Fazit in Nietz-
sches Vorrede, «denn sie will das Leben, und jene erreicht als
letztes Ziel nur – die Vernichtung» (ebd.). Ganz ähnlich zeigt
Kafkas Parabel, wie sich das Pathos der Wahrheit in der Kunst
darstellt, wie sich die Macht des Schauspiels abhebt von der ver-
nichtenden und grausamen Erkenntnis, wie sich das Leben in
der Arena der Kunst aufs Spiel setzt und potenziert. Bei Kafka
wie bei Nietzsche ist also die Kunst mächtiger als die Erkennt-
nis und bekennt sich zu ihrem Schein. Kafkas Prosa allerdings
versetzt die mimetische Gewalt des Schauspiels in eine epische
Distanz und studiert – zugleich nüchtern und leidenschaftlich,
zugleich relexiv und suggestibel – dessen Wirkung im Medium
der Gesten. Die Gebärde des Galeriebesuchers, die das Prosa-
stück Auf der Galerie ähnlich einem Fazit abschließt, zeigt diese
prosaisch gebrochene und relektierte Partizipation am Pathos
der Kunst. In Kafkas späteren Erzählungen ist es dann nicht
mehr die menschliche, nur mehr die animalische Familie, die
zum Protagonisten einer Gebärdensprache wird, die die verges-
senen vitalen Energien der dionysischen Musik wachrufen kann,
man denke an die kollektive Musik der Tiere in Joseine, die
Sängerin oder das Volk der Mäuse oder an die «Tanzgeberde»
(DW 4, KSA 1, S. 575) der musizierenden Hundegruppe in den
Forschungen eines Hundes.
Kafkas «Kodex von Gesten»44 nimmt – so sollte deutlich
werden – in mehrfacher Hinsicht die Provokation auf, die von
Nietzsches Schriften ausgeht, um deren Bilder und Figuren in
die Konstellationen der eigenen Erfahrungswelt einzuschrei-
ben. Die Karikatur des Zarathustra im «schamhaften Langen»,
der alternative Ausweg des Affen aus dem Tierkäig oder der
dionysische Kunstritt in der Zirkusarena sind Beispiele einer
artistischen Vernunft, die sich an Nietzsche inspiriert. Schon
der erste Erzähltext Kafkas, die «Geschichte vom schamhaften

44 W. Benjamin, Franz Kafka, zit., S. 18.


Nietzsche und Kafka 191

Langen», geht über das komisch groteske Register einer bloßen


Nietzsche-Karikatur hinaus und macht die Scham des «höheren
Menschen» zum Gegenstand einer tiefgründigen Betrachtung.
Im Bericht an eine Akademie werden dann Nietzsches Gedan-
ken zur Anthropogenese und zur Genealogie der Moral einer
luziden Umwertung unterzogen, die den Richtlinien eines artisti-
schen Denkens folgt, das alternative Auswege aufzeigt. Wie die
Parabel Auf der Galerie zeigt, beerbt und verinnerlicht Kafkas
Literatur Nietzsches dionysische Kunstauffassung, ohne deren
tragisches Pathos und deren große Stilgebärde zu übernehmen.
Kafkas singuläre Antwort auf Nietzsche hebt sich dabei klar von
der kollektiven Rezeption seiner Epoche ab, die im Zeichen der
Dekadenz und des Ästhetizismus oder der ideologischen Instru-
mentalisierung steht. Die Prosa Kafkas, die sich von einzelnen
Szenen und Figuren anregen lässt, um diese ganz in die eigene
Bildwelt zu assimilieren, kann kaum als philosophische Aus-
einandersetzung aufgefasst oder als theoretische Konfrontation
auf den Begriff gebracht werden, sie bietet dem Leser jedoch
Elemente und Bruchstücke eines Dialogs mit Nietzsche, den es
weiter zu entziffern gilt.
Genie und Dämon
Zu Stefan Zweigs Nietzsche-Rezeption

Herwig Gottwald

1. Friedrich Nietzsche im Fin de siècle

Stefan Zweig steht am Ende eines Zeitalters, das man mit


Rüdiger Safranski als «die wilden Jahre der Philosophie»1 be-
zeichnen könnte, die Epoche vom ausgehenden 18. bis zum
Beginn des 20. Jahrhunderts, die Zeit von Kant, Fichte, Hegel,
Schelling bis zu Marx und Nietzsche: «So erregend und erregt
war eigentlich noch nie gedacht worden»2. Safranski sieht als
Ursache dieser Entwicklung «die Entdeckung des Ichs»3 und
deren Folgen. Diese «wilden Jahre» der deutschen Philosophie
liegen in der Zeit nach Kant, in der Epoche der Romantik, als
die großen metaphysisch-spekulativen Philosophien entstanden,
in denen es zumeist ums «Ganze» ging4 – um den «Weltgeist»,
den «Weltwillen», um Sinn und Ziel der Geschichte, auch um
den «Übermenschen» und den «Willen zur Macht». In die-
sen Zusammenhang gehört auch der Verkünder dieser Lehre:
«Man könnte aber Nietzsche so wenig in einem Büro, in dessen
Vorraum die Sekretärin das Telefon betreut, bis fünf Uhr am

1 R. Safranski, Schopenhauer und die wilden Jahre der Philosophie. Eine Biographie,

Reinbek bei Hamburg 1990.


2 Ebd., S. 11.
3 Ebd.
4 «Das Ganze ist das Unwahre»: Der berühmte Aphorismus des bekennenden He-

gelianers Adorno richtet sich gegen Hegels Diktum «Das Wahre ist das Ganze», damit
gegen die großen System-Philosophien des 19. Jahrhunderts. Vgl. Th. W. Adorno, Mini-
ma moralia. Relexionen aus dem beschädigten Leben (1944), Frankfurt a. M. 1991, S. 57.
Adorno bezieht sich auf G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), Hamburg
1952, S. 21.
194 Herwig Gottwald

Schreibtisch sich vorstellen, wie nach vollbrachtem Tagewerk


Golf spielend»5. Adorno versucht hier den kultur- und sozial-
geschichtlichen Abstand zwischen jenen vergangenen «wilden
Jahren» der Philosophie und seiner eigenen Zeit, der Mitte des
20. Jahrhunderts, am Beispiel Nietzsches zu markieren: Die mo-
derne arbeitsteilige Gesellschaft, die Funktionalisierung auch
schöpferisch-geistiger Tätigkeit, der damit verbundene Verlust
von «Lust und Geist» kennzeichnen für Adorno die moderne
Kultur der «repressiven Selbstdisziplin»6, damit die sozioökono-
mische Voraussetzung des Untergangs der Genie-Kultur im 20.
Jahrhundert.
Nietzsche, das «Erdbeben der Epoche»7, war der vielleicht
letzte Vertreter des Genie-Paradigmas der europäischen Moder-
ne, mit allen dazugehörigen Attributen wie Einsamkeit, Herois-
mus, Wahnsinn, Extremismus; einerseits in seinen Werken, an-
dererseits in seinen Lebensumständen. Hochgebirge und Meer:
Nietzsche ist ein Philosoph der dramatischen Landschaften, die
stilisiert und mythisiert in den Symbolen, Metaphern, Gleichnis-
sen vieler seiner Texte erkennbar sind. Zugleich ist er ein Phi-
losoph der Inszenierung, der seine Philosophie als Theater, als
Tragödie präsentiert8, der Leben und Werk mit den Bausteinen
der überlieferten Genie-Ästhetik zu einer mythosanalogen Ein-
heit zu fügen versucht. In einer späten Aufzeichnung über das
«vollkommene Buch» heißt es dementsprechend abschließend:
«Das Werk auf eine Katastrophe hin bauen» (NF 9[115], KSA
12, S. 401)9. Die Gebärde des Katastrophischen – zumindest als

5 Th. W. Adorno, Minima moralia, zit., S. 170.


6 Ebd., S. 169.
7 G. Benn, Nietzsche nach 50 Jahren (1950), in ders., Essays und Reden. In der Fas-

sung der Erstdrucke, hg. von B. Hillebrand, Frankfurt a. M. 1989, S. 495-504, hier S. 496.
8 Auf den inszenatorischen Charakter der Schriften Nietzsches, der eine «obskure

Sonderexistenz am Rande des organisierten Kulturlebens» führte, hat Peter Sloterdijk


hingewiesen: Der Denker auf der Bühne. Nietzsches Materialismus, Frankfurt a. M. 1986,
S. 19.
9 In ähnlichem Zusammenhang notiert er um 1886: «Jedes Buch als eine Erobe-

rung, Griff – tempo l ento – bis zum Ende dramatisch geschürzt, zuletzt K at as t r o p h e
und plötzliche Erlösung» (NF 2[80], KSA 12, S. 100).
Genie und Dämon 195

Ankündigung – ist eine dem Theater entlehnte, namentlich der


Tragödie, Nietzsche bevorzugter Literaturgattung.
Die Nietzsche lange umgebende Genie-Aura ist auch durch
die speziische Rezeption seines Lebens und seiner Schriften ge-
prägt. Die Nietzsche-Legende, der dramatische geistige Zusam-
menbruch in Turin, die unmittelbar danach plötzlich einsetzen-
de Breitenwirkung: All das erfolgte in der saturiert-langweiligen
Belle Époque, der Gesellschaft der Jahrhundertwende, als der
in den gesellschaftlichen Eliten wirksame Druck des Zivilisati-
onsprozesses, das von Freud konstatierte und analysierte Un-
behagen in der Kultur (1930), so stark geworden war, dass das
Bedürfnis nach Entlastung gerade in jenen Schichten immer grö-
ßer wurde. Die Bereiche der Kunst, der Literatur und auch der
Philosophie boten prinzipiell kulturelle Nischen, in denen Über-
schreitungen kultureller Normen, Durchbrechungen kultureller
Tabus legitim erschienen, als Rückzugsgebiete, die dem Rationa-
lisierungsdruck der Moderne weniger stark ausgesetzt waren als
Basis-Institutionen des Zivilisationsprozesses wie Fabrik, Schu-
le, Universität oder Militär. Auf dem Theater, in der Oper oder
auch bei der Lektüre konnte man auf ästhetisch gebändigte und
damit gesellschaftlich entschärfte Weise kulturelle Atavismen
wie Gewalt, Menschenopfer, Blutrache, Mord, Krieg aus der Di-
stanz des Publikums heraus erleben und sogar genießen10. Die
immense Wirkung von Nietzsches Katastrophismus als Attitüde,
als dramatische Geste ist vor diesem Hintergrund auch Beleg für
die zunehmende Bereitschaft breiter Kreise von Intellektuellen,
Künstlern, auch Bildungsbürgern im wilhelminischen Kaiser-
reich, sich ästhetisch avancierten und zugleich extremistischen
Ideologien und Philosophien zu öffnen, ohne sich den dadurch
drohenden Gefahren direkt aussetzen zu müssen:

Es wird sich einmal an meinen Namen die Erinnerung an etwas


Ungeheures anknüpfen, – an eine Krisis, wie es keine auf Erden gab
10 Zur Faszination von Gewalt gerade in bürgerlichen Schichten des 19. Jahrhun-

derts vgl. P. Gay, Kult der Gewalt. Aggression im bürgerlichen Zeitalter (1993), München
1996.
196 Herwig Gottwald

[…]. Ich bin kein Mensch, ich bin Dynamit. […] Mit Alledem bin ich
nothwendig auch der Mensch des Verhängnisses. […] Der Begriff Po-
litik ist dann gänzlich in einen Geisterkrieg aufgegangen, alle Macht-
gebilde der alten Gesellschaft sind in die Luft gesprengt – sie ruhen
allesamt auf der Lüge: es wird Kriege geben, wie es noch keine auf
Erden gegeben hat. Erst von mir an giebt es auf Erden große Pol it i k.
– (EH Schicksal 1, KSA 6, S. 365 f.)

Endlich gab es einen Hauch von Grandiosität, Dramatik, Un-


geheuerlichkeit in der «zeitunglesenden Halbwelt des Geistes»
(JGB 263, KSA 5, S. 218), endlich konnte man – philosophisch
«legitimiert» – einen Einbruch in die sich immer stärker ausbil-
dende Reglementierung und Disziplinierung durch Institutionen
wie Schulen, Militär, Gefängnisse, Bürokratien im modernen
Staat erhoffen.

2. Stefan Zweigs Essay Der Kampf mit dem Dämon

Stefan Zweigs zwar lebenslange, aber unterschiedlich intensi-


ve Auseinandersetzung mit Nietzsche kulminiert in seinem Es-
say von 1925, verändert sich allerdings nachhaltig in den Jahren
nach 1933, als er sich zunehmend zu distanzieren beginnt, kriti-
sche Perspektiven entwickelt (u.a. im Roman Ungeduld des Her-
zens, 1937)11, sich schließlich im Exil von ihm abwendet, dessen
Philosophie von Faschisten und Nationalsozialisten vereinnahmt
wurde12. Nietzsches Name wird in Zweigs Autobiographie, Die
Welt von Gestern (1941 im brasilianischen Exil entstanden),
zwar als einer von vielen mehrmals erwähnt13, er besitzt in dieser

11 M. H. Gelber, Stefan Zweigs Nietzsche-Rezeption im Rahmen des Dämonischen,

in M. Birk und T. Eicher (Hgg.), Stefan Zweig und das Dämonische, Würzburg 2008, S.
45-54, hier S. 51.
12 Vgl. B. Taureck, Nietzsche und der Faschismus. Ein Politikum, Leipzig, 2. Aul.

2000.
13 S. Zweig, Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäers (1941), Frankfurt

a. M. 1970, S. 55, 57.


Genie und Dämon 197

Lebensphase aber keine besondere Bedeutung mehr14. Im Zen-


trum von Zweigs Interesse an Nietzsche stehen von Anfang an
weniger philosophische Konzepte oder Theorien, sondern vor
allem biographische Elemente und Aspekte des Künstlerischen,
des Schöpferischen. Mark H. Gelber kann sogar belegen, «dass
einige viel diskutierte Elemente von Nietzsches Denken kein
Echo bei Zweig gefunden haben»15, ein für sein grundsätzliches
Verhältnis zur Philosophie und deren Geschichte wesentlicher
Gesichtspunkt.
Stefan Zweigs Essay Der Kampf mit dem Dämon16, sein wich-
tigster Text über Nietzsche, steht beispielhaft für seine Auffas-
sung von Philosophie überhaupt, die er vor allem unter literari-
schen Perspektiven sieht und dementsprechend bewertet. Zweig
vergleicht daher nicht drei Philosophen miteinander, sondern
stellt Nietzsche in eine Reihe mit Hölderlin und Kleist, unter der
für sein Gesamtwerk wichtigen Kategorie des «Dämonischen»17,
die in den zeitgenössischen Diskursen über den modernen poeta
vates, das gefährdete Genie, die Verbindung zwischen Genie und
Wahnsinn, Schöpfertum und Krankheit zu verankern sind18.
Zweigs Essay ist ein Versuch, mit Hilfe vergleichender, vor-
nehmlich biographischer Methoden, «Formen des Geistes», die
«Analogie des Typus», anhand von «drei heroischen Gestalten»
herauszuarbeiten, wie er einleitend feststellt19. Diese drei «no-
madischen Naturen» seien «Besessene einer höheren Macht»,
der dämonischen, einer «gewissermaßen überweltlichen» Ins-
tanz, die sie «in einen vernichtenden Zyklon der Leidenschaft ge-
jagt» habe, daher verkörperten sie den «Typus des vom Dämon

14 M. H. Gelber, Stefan Zweigs Nietzsche-Rezeption, zit., S. 52.


15 Ebd., S. 46.
16 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon. Hölderlin, Kleist, Nietzsche (1925), in ders.,

Gesammelte Werke in Einzelbänden, Frankfurt a. M. 2004.


17 Vgl. den Überblick bei K. Müller, Das Dämonische «innen im Kreise der Natur»:

Stefan Zweigs Relexionen über das Künstlertum, in M. Birk und T. Eicher (Hgg.), Stefan
Zweig und das Dämonische, zit., S. 12-35.
18 Ebd., S. 15.
19 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 11 f.
198 Herwig Gottwald

hinabgerissenen Dichters»20. Ihre Kunst sei vor allem «Rausch-


kunst» am Rande «heiliger Raserei»21. Hinter vielen Menschen
lauern nach Zweig dämonische Kräfte, in den meisten aber seien
diese verdrängt und neutralisiert worden – sie seien «mittlere
Menschen» geworden22. Andere hingegen hätten ihre Dämonen
besiegt, so etwa Goethe, der «Erzfeind alles Dämonischen»23.
Zweig baut Goethe und dessen bürgerliche, in Familie, Amt und
Würden eingewurzelte Existenz als Gegenmodell zur «dämo-
nischen» Existenz seiner drei Antipoden auf: Goethe erscheint
dabei als «Herr des Dämons», Hölderlin, Kleist und Nietzsche
hingegen als dessen «Diener»24. Zweig beschreibt seine mit Ele-
menten des Mythos und der religiösen Tradition operierende
Methode wie folgt: Er wolle Nietzsches Leben «nicht als eine
Historie, sondern als Schauspiel, durchaus als Kunstwerk und
Tragödie des Geistes zu bilden» versuchen25 – ein im Zeitalter
der beginnenden Kunstsoziologie26, der Mentalitäts- und Sozial-
geschichtsschreibung von Marc Boch oder Lucien Febvre anach-
ronistisches Unternehmen. Man beginnt gerade in den zwanziger
Jahren (nach ersten Ansätzen schon im 19. Jahrhundert), sich von
der Geschichte der «großen Männer», der Ereignisgeschichte im
Kontext des Historismus, abzuwenden und sich den vergesse-
nen Bereichen, den unter der Oberläche der «Weltgeschichte»
wirksamen langfristigen Strukturen zuzuwenden27. Zweig hinge-

20 Ebd., S. 12 f., 15.


21 Ebd., S. 15.
22 Ebd., S. 13. Gleichzeitig stellt James Joyce, von Zweig hochgeschätzt, in seinem

Jahrhundertroman Ulysses (1922) einen explizit «mittleren Helden», den irisch-jüdi-


schen Annoncenakquisiteur Leopold Bloom, ins Zentrum seines Werks – ein wichtiger
Indikator für den Niedergang der heroisierenden Literatur, der Genie-Ästhetik in der
Moderne.
23 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 16.
24 Ebd., S. 17 f.
25 Ebd., S. 292.
26 R. Görner, Dialog mit den Nerven. Stefan Zweig und die Kunst des Dämonischen,

in M. Birk und T. Eicher (Hgg.), Stefan Zweig und das Dämonische, zit., S. 36-44, hier S.
36.
27 Vgl. P. Burke, Offene Geschichte. Die Schule der Annales (1990), Frankfurt a. M.

1998.
Genie und Dämon 199

gen huldigt zur gleichen Zeit in den Sternstunden der Menschheit


(1927) dem traditionellen Modell der Ereignisgeschichte und
ihrer großen Akteure – wie auch in diesem Essay28. Im Zeitalter
der Erosion ereignis- oder personenzentrierter Historiographie
geht es ihm also um den Versuch einer Erneuerung des in der
Moderne gefährdeten «Bedeutsamkeitsproils der Geschichte»29
und dessen Ausschärfung am Beispiel herausragender Einzelper-
sönlichkeiten oder großer Ereignisse. Zweig will allerdings nicht
einfach «Historie» erzählen, sondern das Leben großer Einzel-
ner, Genies, als Tragödie gestalten: «Wer das Leben als Tragö-
die lebt, hat das Sterben eines Helden»30. Daher interessieren
ihn vor allem scheiternde große Künstler, neben den genannten
auch van Gogh oder Dostojewski, die als weitere Paralleligu-
ren genannt werden. Vor dem Hintergrund der nach 1918 längst
anachronistischen Genie-Ästhetik stellt Stefan Zweig markante
bedeutsame Momente im Leben und Werk des vielleicht letzten
großen Metaphysikers der europäischen Philosophie dar. Eine
der letzten Variationen des Genie-Paradigmas ist die auch für
Zweigs Essay wenigstens zum Teil konstitutive Verbindung zwi-
schen Genie und Krankheit, Genie und Wahnsinn vor dem Hin-
tergrund von Cesare Lombrosos Genie und Irrsinn (1887 und
1910) und verwandter Theorien (u.a. Max Nordaus Entartung,
1892), obwohl er sich in der Einleitung seines Essays gegen die
Analogisierung von Genie und Krankheit wendet31. Gottfried
Benn versucht kurze Zeit nach Zweigs Essay, das Pathologische
28 Brechts Gedicht Fragen eines lesenden Arbeiters (1937) dagegen stellt diese Form

traditioneller Geschichtsbetrachtung prinzipiell in Frage.


29 H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Frankfurt a. M. 1979, S. 123 ff. Blumenberg

bezieht sich auf die langsame Etablierung eines mechanistischen Weltbildes durch die
Aufklärung, auf die damit verbundene Nivellierung kultureller Erlebnispotentiale in
Bezug auf Raum-, Zeit- und Kausalitätsempindungen sowie die Aulösung traditiona-
ler gesellschaftlicher Differenzierungsmechanismen, die in symbolischen Ordnungen
ausgedrückt sind: von den Kleider- über die Raumordnungen bis zu den Geschlechter-
ordnungen und Rollenixierungen, die allesamt in der Moderne ihres konventionellen
Bedeutsamkeitsproils verlustig gehen.
30 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 24.
31 Ebd., S. 24 f. Vgl. dazu K. Müller, Das Dämonische «innen im Kreise der Natur»,

zit., S. 20 f.
200 Herwig Gottwald

in zahlreichen Lebensläufen genialer Persönlichkeiten empirisch


zu belegen («Genie ist eine bestimmte Form reiner Entartung
unter Auslösung von Produktivität»32) und zugleich die ent-
scheidende Rolle der Mit- und Nachwelt zu bestimmen, deren
Hang «nach Entartung und Verfall» bei der Konstituierung von
Genies er nachzuweisen versucht, auch in Bezug auf Nietzsche:
«Ohne Wahnsinn wäre er vielleicht unbekannt geblieben, längst
vergessen»33. Die vielschichtigen Genie-Diskurse der Jahrzehnte
vor und nach der Jahrhundertwende prägen auch Stefan Zweigs
Konzeption des dämonischen Künstlers als Typus. Diese steht
– bei allen Unterschieden34 – in manchem näher bei Benns Deu-
tung des Genie-Problems als bei der ungefähr gleichzeitigen Iro-
nisierung des Genie-Konzepts in Musils Der Mann ohne Eigen-
schaften:

Es hatte damals schon die Zeit begonnen, wo man von Genies des
Fußballrasens oder des Boxrings zu sprechen anhub, aber auf mindes-
tens zehn geniale Entdecker, Tenöre oder Schriftsteller entiel in den
Zeitungsberichten noch nicht mehr als höchstens ein genialer Centre-
half oder großer Taktiker des Tennissports35.

Stefan Zweig versucht also am Beispiel der drei in Wahnsinn


verfallenen Künstler den letzten Rest des sich aulösenden Ge-
nie-Paradigmas zu erfassen, in einer Zeit, als die Genie-Ästhetik
historisch längst überholt war36, und zwar unter Anleihen an his-
torisch gewordenen und auch aktuellen Diskurs-Elementen wie
der Erneuerung des poeta-vates-Typus in der literarischen Mo-

32 G. Benn, Das Genieproblem (1930), in ders., Essays und Reden, zit., S. 131-143,
hier S. 135.
33 Ebd., S. 143.
34 Karl Müller sieht zu Recht, dass Benns medizinisch-biologistischer Zugang zur

Frage des Genies Zweigs Deutung grundsätzlich fremd sei. Vgl. K. Müller, Das Dämoni-
sche «innen im Kreise der Natur», zit., S. 29 f.
35 R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften. Erstes Buch (1930), Salzburg/Wien 2016,

S. 66.
36 Vgl. K. Müller, Das Dämonische «innen im Kreise der Natur», zit., S. 24; R. Gör-

ner, Dialog mit den Nerven, zit., S. 39.


Genie und Dämon 201

derne37, der «sakrale[n] Dimension von Zweigs Schöpfungsäs-


thetik»38, die dieser im Essay über Das Geheimnis künstlerischen
Schaffens (1938 bzw. 1943) ausformuliert hat.

3. Nietzsches Biographie und Werk aus Zweigs Perspektive

Aus Nietzsches Leben greift Zweig diejenigen Momen-


te heraus, die sich für eine dramatische Inszenierung vor dem
Hintergrund der bis in die Zwischenkriegszeit nachhallenden
Genie-Ästhetik besonders eignen: Nietzsches Isolierung vom
Kultur- und Wissenschaftsbetrieb, von den Freunden, der Fa-
milie, seine persönlich dürftige bis ärmliche Lebensweise, die er
dem großen Anspruch seiner Philosophie entgegenstellt: «Hier
wie dort verbirgt das Werk des Titanen die hagere Gestalt des
armen Lazarus»39. Der Kontrast zwischen dem pathetischen
Heroenbild der Nachwelt und seinem asketisch-einsamen All-
tagsleben bietet Zweig viele Anknüpfungspunkte für seine Insze-
nierung des Philosophen als tragischen Helden.
Zu den originellsten Stellen gehören dabei Zweigs Vergleiche
mit Goethe, etwa in Bezug auf die Gefahren der Künstlerexistenz,
deren Bedrohungen durch das Dämonische: «Aber Nietzsche ist
ein Genie der gewaltsamen Umwendungen; im Gegensatz zu
Goethe, der Gefahren genial auszuweichen verstand, hat er eine
ungeheuer verwegene Art, ihnen geradewegs auf den Leib zu
gehen und den Stier bei den Hörnern zu fassen»40. Von Nietz-
sches Philosophie interessieren Zweig weniger deren zum Teil
hochproblematische bis politisch gefährliche Inhalte, sondern
vor allem Nietzsches sprachliche Gesten41, seine poetische Aus-
37 Vgl. dazu H. Gottwald, Spuren des Mythos in moderner deutschsprachiger Litera-
tur. Theoretische Modelle und Fallstudien, Würzburg 2007, S. 24 f.
38 R. Görner, Dialog mit den Nerven, zit., S. 39.
39 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 246.
40 Ebd., S. 253.
41 Vgl. P. Sloterdijk, Der Denker auf der Bühne, zit., S. 19. Sloterdijk schwärmt in die-

sem Zusammenhang von Nietzsches «postmetaphysischer Gebärdenmusik», von seinem


«großen Spiel jenseits der Semantik».
202 Herwig Gottwald

drucksweise und der scheinbar enge Bezug seiner Philosophie


zu seinem heroisch-tragischen Leben. So deutet Zweig Nietz-
sche als «Don Juan der Erkenntnis»42, der vor allem aus Lust am
Abenteuer, am «gefährlichen Leben»43 philosophiert:

Mit Nietzsche erscheint die schwarze Freibeuterlagge des Piraten


zum erstenmal auf den Meeren der deutschen Erkenntnis: ein Mensch
anderer Art, anderen Stammes, Philosophie nicht mehr im wissen-
schaftlichen Kathedertalar, sondern kriegerisch gepanzert und be-
wehrt. […] Keinem Glauben gehörig, keinem Lande verschworen, die
schwarze Flagge des Immoralisten auf dem umgestürzten Mast, vor
sich das heilige Unbekannte, ewig Ungewisse, dem er sich dämonisch
verschwistert fühlt, rüstet er unablässig zu neuen gefährlichen Fahr-
ten44.

In seiner Untersuchung zur Schifffahrts-Metaphorik in der


abendländischen Philosophie weist Hans Blumenberg – ohne
Bezug zu Stefan Zweig – Nietzsche einen besonderen Platz
zu: Dessen Denken sei ab einer bestimmten Phase durch «die
Imagination von Seefahrt und Schiffbruch» gekennzeichnet,
als er «auf große Renaissancegesten [sic!], Weltabenteuer,
Koloniegründungen» aus gewesen sei – eine mit Zweigs These
vergleichbare Beobachtung45.
Das Gegenbild zu dieser Art heroischer Philosophie ist für
Zweig Immanuel Kant, «ein Nur-Gehirn, ein Nur-Geist, ein
[…] gigantischer Eisblock», der «steife, lebensloseste Mensch,
der sich zum Automaten des Denkens entpersönlicht hatte»46.
Kant habe «die reine Produktivität der klassischen Epoche […]
unendlich gehemmt»47. Zweig spricht vom «unendlichsten Blut-

42 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 260.


43 Ebd., S. 266.
44 Ebd., S. 266 f.
45 H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher

(1979), Frankfurt a. M. 1988, S. 24.


46 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 78.
47 Ebd.
Genie und Dämon 203

verlust für die deutsche Dichtung»48 durch den Einluss Kants,


von Schiller und Goethe bis Kleist und Hölderlin:

Immanuel Kant lebt mit der Erkenntnis wie mit einem ehelich an-
getrauten Weibe, beschläft sie vierzig Jahre lang im gleichen geistigen
Bette und zeugt mit ihr ein ganzes deutsches Geschlecht philosophi-
scher Systeme, von denen Nachkommen noch heute in unserer bür-
gerlichen Welt wohnen. […] Was sie zur Philosophie treibt, ist ein
durchaus undämonischer höherer Ordnungswille, ein guter deutscher,
fachlicher und sachlicher Wille zur Disziplinierung des Geistes […]49.

Nietzsche dagegen sei der Gegen-Typus zu Kant, ihm sei es


daher auch nicht um eine «Lehre» gegangen: «N. wollte nichts:
in ihm genießt eine übermächtige Leidenschaft zur Wahrheit
sich selbst»50. Bekanntlich allerdings wollte Nietzsche seine Phi-
losophie «herrschen» sehen; der zunehmend aktivistische Cha-
rakter seiner Schriften ist vor allem im Spätwerk unübersehbar.
Obwohl er selbst Nietzsches berühmten Satz zitiert: «Die Wahr-
heit ist häßlich: wir haben die Kunst, damit wir nicht an der
Wahrheit zu Grunde gehen» (NF 16[40], KSA 13, S. 500)51, ver-
sucht Zweig dennoch, ihn als Wahrheitssucher, als «Philaleth»
(«ein leidenschaftlicher Passionierter der Aletheia, der Wahr-
heit»52) zu stilisieren. Er begründet dies damit, dass Nietzsches
«Wahrheit» «keine kristallene Form der Wahrheit» sei, sondern
«der feurig glühende Wille zum Wahrsein und Wahrbleiben, […]
eine unablässige dämonische Steigerung des eigenen Lebensge-
fühls»53. Nietzsches widersprüchliche Wahrheits-Konzepte und
Thesen, seit langem erkannt54, bleiben schon aufgrund der bio-

48 Ebd., S. 79.
49 Ebd., S. 260.
50 Ebd., S. 275.
51 Ebd., S. 307. Zweig zitiert unvollständig und leicht verändert, möglicherweise aus

dem Gedächtnis oder aus fehlerhaften Exzerpten.


52 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 276.
53 Ebd.
54 Vgl. H. Ottmann (Hg.), Nietzsche-Handbuch: Leben - Werk - Wirkung, Stuttgart

2011, S. 350 f.; C. Niemeyer (Hg.), Nietzsche-Lexikon, Darmstadt 2009, S. 382 f.


204 Herwig Gottwald

graphisch und eklektisch orientierten Vorgehensweise außer-


halb von Zweigs Horizont.
Seine Deutung orientiert sich vor allem am späten Nietzsche,
und hier wiederum primär an Ecce homo, also an einem seiner
radikalsten Texte. Weiteres bedient Zweig sich vor allem biogra-
phischer Zeugnisse, zitiert aus Briefen (etwa an Overbeck) und
zeitgenössischen Berichten55. Die zahlreichen Widersprüche
in Nietzsches Werk deutet er positiv als «Verwandlungen», als
«Kriege, Exekutionen und Züchtigungen»56, die er gegen sich
selbst gerichtet habe. Gefährliches und Extremistisches gerade
dieser Phase Nietzsches ab dem Zarathustra werden von Zweig
weitgehend ausgeblendet, obwohl er das Exzesshafte der Spät-
phase durchaus hervorhebt. Von Nietzsches Misogynie, seinen
zahlreichen antimodernen Tiraden und Vernichtungsphantasien,
den berüchtigten Thesen zu Herrenrassen oder zur «blonden
Bestie» ist bei Zweig nicht die Rede. Stattdessen stilisiert er den
kranken Nietzsche zum Märtyrer der Philosophie: «Nietzsches
Zusammenbruch ist eine Art Lichttod, ein Verkohltwerden des
Geistes von der eigenen Stichlamme»57. Nietzsche erscheint
dann als «ein neuer Märtyrer der Menschheit»58: «Nie hat apo-
kalyptischere Wut wilder ins Leere gewütet, nie so herrliche Hy-
bris einen Geist über alles Irdische hinausgetrieben»59. Zuletzt
deutet Zweig unter dem Titel «Erzieher zur Freiheit» Nietzsche
sogar als hellsichtigen Propheten und «Mahner» vor dem kom-
menden Krieg, eine tragische Fehleinschätzung60.
Stefan Zweig scheint den kritischen, gemäßigten Nietzsche
der mittleren Phase kaum zur Kenntnis zu nehmen. Dass er dabei
gerade einen seiner schärfsten zeitgenössischen Kritiker, dessen

55 Weitere Quellen Zweigs sind der Briefwechsel mit Wagner (in der Auswahl von

Elisabeth Förster-Nietzsche) sowie die Studien von Heinrich Römer (1921), Ernst Ber-
tram (1918) und Charles Andler (ab 1920, sechs Bände bis 1931). Vgl. dazu K. Müller,
Das Dämonische «innen im Kreise der Natur», zit., S. 23.
56 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 282, 284.
57 Ebd., S. 318 f.
58 Ebd., S. 319.
59 Ebd., S. 320.
60 Ebd., S. 323.
Genie und Dämon 205

eigenen Lehrer Jakob Burckhardt61, als Zeugen anführt (dieser


sei Nietzsches «bester Leser»62), gehört in diesen Zusammen-
hang einer grundlegenden Fehleinschätzung gerade der bedenk-
lichen und gefährlichen Seiten des Spätwerks. Thomas Mann,
ebenfalls ein früher Nietzsche-Leser und -Verehrer, äußert sich
1947 nach zwei Weltkriegen kritisch über den ehemals bewun-
derten Meister, den er noch immer als «eine Gestalt von zarter
und ehrwürdiger Tragik, umloht vom Wetterleuchten dieser Zei-
tenwende»63, sieht: «Wer Nietzsche ‹eigentlich› nimmt, wörtlich
nimmt, wer ihm glaubt, ist verloren. […] Hat je ein Autor auf
seltsamere Art vor sich gewarnt?»64 Diese Warnung spricht der
späte Nietzsche in einem 1888 verfassten Brief an Carl Fuchs
selbst aus, in dem er übrigens als Einstiegswerk für Anfänger die
Fröhliche Wissenschaft empiehlt (ein didaktisch auch aus heuti-
ger Sicht überaus sinnvoller Vorschlag), sein «mittelstes Buch»:
«Es ist durchaus nicht nöthig, nicht einmal erwünscht, Partei
dabei für mich zu nehmen: im Gegenteil, eine Dosis Neugier-
de, wie vor einem fremden Gewächs, mit einem ironischen Wi-
derstande, schiene mir eine unvergleichlich intelligentere Stel-
lung zu mir» (Nr. 1075, KSB 8, S. 375 f.). Thomas Manns späte
Abrechnung mit Nietzsche, dem Philosophen seines Lebens, in
vielen Aspekten das Gegenstück zu Zweigs Essay, allerdings aus
einer ex-post-Perspektive, die Zweig verwehrt blieb, hat dennoch
einen wichtigen Aspekt mit diesem gemeinsam: die Durchdrin-
gung von Lebens- und Werkdeutung, die biographische Orien-
tierung unter dem Leitprinzip des heroischen Leidens am Werk,
des Tragischen seines Schicksals65, damit aber die Interpretation

61 Vgl. H. Ottmann (Hg.), Nietzsche-Handbuch, zit., S. 44, 93, 111, 174.


62 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 325.
63 Th. Mann, Nietzsches Philosophie im Lichte unserer Erfahrung (1947), in ders., Es-

says. Meine Zeit 1945-1955, hg. von H. Kurzke und S. Stachorski, Frankfurt a. M. 1997,
S. 56-92, hier S. 92.
64 Ebd., S. 88 f.
65 Ebd., S. 73, 81.
206 Herwig Gottwald

von Leben und Werk Nietzsches mit Hilfe der verbliebenen Res-
te des zerfallenen Genie-Paradigmas66.
Originell und von der späteren biographischen Forschung
durchaus bestätigt sind etwa Zweigs Beobachtungen zu Nietz-
sches Befreiung aus den Zwängen seiner Gelehrtenexistenz als
Professor in Basel, ein als «Verjugendlichung»67 beschriebener
Prozess: «Nietzsche beginnt damit, alt zu sein»68. Während die
früheren Freunde «alle festgenagelt sitzen in ihrer Wissenschaft,
ihrer Meinung, ihrem System», hätten Sprache, Gedanken und
Wesen des 40-jährigen Nietzsche «mehr rote Blutkörperchen,
mehr frische Farbe, Verwegenheit, Leidenschaft und Musik als
mit siebzehn»69. Zutreffend sind auch Zweigs Beschreibungen
der grundlegenden Musikalität der Sprache eines Philosophen,
der vor allem als Dichter gewirkt hat:

Alle kleinen Rafinements eines Virtuosen funkeln darin auf, die


kleinen spitzen Staccati der Aphorismen, das lyrische Sordino in den
Gesängen, die Pizzicati des Spottes, die kühnen Verschleifungen und
Harmonisationen von Prosa, Spruch und Gedicht. […] nie hat man
so sehr in der deutschen Sprache das Gefühl einer instrumentierten
Prosa gehabt70.

Von großem psychologischen Einfühlungsvermögen, das sei-


ne biographischen Essays prinzipiell auszeichnet, zeugt auch
Zweigs Charakterisierung der Beziehung Nietzsches zu Wagner,
die er «ein leidenschaftliches Liebeserlebnis» nennt, deren von
ihm selbst herbeigeführtes Ende für Nietzsche einen «fast tödli-
chen» Effekt gehabt habe71.
Zweigs Nietzsche-Essay, seine Gesamtdeutung der Biogra-
phie und des Werks, ist einerseits längst historisch geworden

66 Vgl. dazu J. Schmidt, Die Geschichte des Genie-Gedankens in der deutschen Litera-

tur, Philosophie und Politik, 2 Bde, Darmstadt 1988.


67 S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, zit., S. 250.
68 Ebd., S. 248.
69 Ebd., S. 250.
70 Ebd., S. 304.
71 Ebd., S. 283 und 289.
Genie und Dämon 207

und kann im Kontext ihrer Zeit verortet werden. Zugleich weisen


aber einige seiner Einschätzungen voraus in unsere Gegenwart:
die Kant-Kritik etwa auf die Postmoderne72, die Darstellung von
Nietzsches Philosophie als Drama auf Sloterdijk. Karl Popper,
wie Zweig ein Wiener jüdischer Abstammung und wie dieser
später im Exil, formuliert im Vorwort zur dritten deutschen
Aulage seines Hauptwerks Logik der Forschung (1934): «Was
die Philosophie seit dem Tode Kants auf dem Gewissen hat, in
intellektueller sowie auch in moralischer Hinsicht, das stellt eine
schwere Anklage dar»73. Popper beindet sich damit in klarer
(wenn auch nicht expliziter) Gegnerschaft zu Stefan Zweig und
seiner Polemik gegen den großen Aufklärer. Zweig (und eine
nicht unerhebliche Zahl anderer Schriftsteller und Künstler
seiner Generation) erwartete von Philosophie offenbar grund-
sätzlich etwas, das Rudolf Carnap, sein Zeitgenosse und wie er
Emigrant, «Ausdruck des Lebensgefühls» nannte74. Diese Form
metaphysischer Philosophie (Heideggers Werk als Beispiel) wird
von ihren Anhängern Carnap zufolge als Möglichkeit gesehen,
dieses «Lebensgefühl» zum Ausdruck zu bringen, allerdings auf
inadäquate Weise, da «die Kunst das adäquate, die Metaphy-
sik aber ein inadäquates Ausdrucksmittel für das Lebensgefühl
ist»75. Nietzsche, als «Lebensphilosoph» eingestuft, schien in
der Zwischenkriegszeit vor allem dafür zu stehen; seine Werke
erschienen vielen Zeitgenossen Zweigs als Ausdruck des «Le-

72 Ute Daniel übt in ihrem Kompendium Kulturgeschichte auf vergleichbar unsachli-

che, polemische und unhaltbare Weise Kritik an Kant wie 1925 Stefan Zweig, unter afir-
mativer Berufung auf Nietzsche: U. Daniel, Kompendium Kulturwissenschaft. Theorien,
Praxis, Schlüsselwörter, Frankfurt a. M. 2002, S. 39 ff.
73 K. Popper, Logik der Forschung (1934), Vorwort zur 3. deutschen Aulage 1968,

Tübingen 1982, S. XXV. Popper bezieht sich auf den deutschen Idealismus, besonders
auf «Hegel und die Folgen» (Titel des 2. Bandes seiner Offenen Gesellschaft), also auf
Marx und dessen Fortsetzer, sowie auf Husserl und den Existentialismus.
74 R. Carnap, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache (1932),

in ders., Scheinprobleme in der Philosophie und andere metaphysikkritische Schriften, hg.


von T. Mormann, Hamburg 2004, S. 81-109, hier S. 104. Vgl. dazu Zweigs eigenen Ge-
brauch dieses Begriffs (Kampf mit dem Dämon, zit., S. 276).
75 R. Carnap, Überwindung der Metaphysik, zit., S. 106.
208 Herwig Gottwald

bensgefühls» einer Generation76. Zweigs Nietzsche-Verständnis


muss daher im Zusammenhang mit dieser grundlegenden und
bis heute einlussreichen Erwartungshaltung an Philosophie ge-
sehen werden, die bis zur Postmoderne reicht, in der Nietzsche
eine bezeichnende Renaissance erlebt: nämlich Orientierungshil-
fe in einer Welt zu sein, in der traditionelle kulturelle Formatio-
nen und Institutionen wie etwa die Religionen zunehmend an den
Rand gedrängt werden und die Wissenschaft deren Funktionen
nicht vollständig zu ersetzen vermag, wie Ludwig Wittgenstein
nach dem Ende des Ersten Weltkriegs im Tractatus konstatiert:
«Wir fühlen, daß, selbst wenn alle möglichen wissenschaftlichen
Fragen beantwortet sind, unsere Lebensprobleme noch gar nicht
berührt sind. Freilich bleibt dann eben keine Frage mehr; und
eben dies ist die Antwort»77. In dieser pessimistischen Haltung
eines der weltweit einlussreichsten Philosophen der klassischen
Moderne spiegelt sich die große Krise von Wissenschaft und tra-
ditioneller Philosophie nach 1918 wider, die die tiefere Ursache
für das Wiederauleben metaphysischer Systeme, den Aufstieg
irrationaler Philosophien wie der des Existentialismus78, die
Renaissance des Mythos79 und der Genie-Ästhetik in der Litera-
tur und Kultur der Zwischenkriegszeit gewesen sein dürfte und
die auch Zweigs Nietzsche-Essay prägt. Max Weber hat in seiner
berühmten Rede Vom inneren Beruf zur Wissenschaft etwa zur
gleichen Zeit wie Wittgenstein diese Krisenerfahrung themati-
siert und die Frage nach «dem Sinnproblem der Wissenschaft»
gestellt, vor dem geistes- und kulturgeschichtlichen Hintergrund

76 Vgl. G. Benn, Nietzsche nach 50 Jahren, zit., S. 495: «Eigentlich hat alles, was mei-
ne Generation diskutierte, innerlich sich auseinanderdachte, man kann sagen: erlitt, man
kann auch sagen: breittrat – alles das hatte sich bereits bei Nietzsche ausgesprochen und
erschöpft, deinitive Formulierung gefunden, alles weitere war Exegese».
77 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1919), Frankfurt a. M. 1989, S. 85.
78 W. Stegmüller, Hauptströmungen der Gegenwartsphilosophie, Bd. I, Stuttgart, 6.

Aul. 1978, S. XXXVII-XXXIX.


79 Vgl. dazu H. Gottwald, Der Mythosbegriff bei Broch und Canetti, in P. M. Lützeler

und P. Angelova (Hgg.), Hermann Broch und Elias Canetti. Beziehungen und Vergleiche,
St. Ingbert 2009, S. 141-163.
Genie und Dämon 209

der «Entzauberung der Welt»80. Dieser Vortrag ist auch als War-
nung vor dem zunehmenden Irrationalismus zu verstehen, der
sich angesichts der offenkundigen Grenzen von Wissenschaft,
Rationalität und Aufklärung gerade nach dem Krieg auszubrei-
ten und Gesellschaft und Politik allmählich zu erfassen begann.
Stefan Zweig – wie auch Thomas Mann vor 1933 – sucht auf
in vielem vergleichbare Weise vor diesem Hintergrund Zulucht
bei Nietzsche. Zweig strebt dabei weniger eine philosophische
Auseinandersetzung an als eine Auswertung des außergewöhn-
lichen Lebenslaufes eines Philosophen außerhalb der akade-
mischen Welt, der organisierten Wissenschaft, für seine eigene
Konzeption bedeutsamer Momente der Geschichte und der
Kunst. Die politischen und geistesgeschichtlichen Grenzen die-
ses Vorhabens scheinen ihm im Laufe der folgenden Jahre aller-
dings zunehmend deutlicher geworden zu sein.

80 M. Weber, Vom inneren Beruf zur Wissenschaft (1919), in ders., Soziologie. Uni-
versalgeschichtliche Analysen. Politik, Stuttgart 1973, S. 311-339, hier S. 316 ff.
Leopold Zieglers Zarathustra-
Glossen: Robert Walsers
Mikrogramme und Friedrich
Nietzsche
Überlegungen zu einer philosophisch-
ästhetisch fundierten Poetologie

Bastian Strinz

1. Walser und Nietzsche

Es ist ein Gemeinplatz der Forschung, dass sich die Prosa


Robert Walsers insbesondere durch Selbstreferentialität, welche
u.a. «die Entstehung des Textes, den man gerade liest» thema-
tisiert1, sowie durch ihre sich im Spätwerk verdichtende Inter-
textualität auszeichnet. Eine diesbezüglich naheliegende, jedoch
bis dato stark vernachlässigte Referenz für Walsers Schreiben,
speziell der Mikrogramme, stellt das Werk Friedrich Nietzsches
dar. Nicht nur dessen Subjektkritik, sondern auch die ästheti-
sche Verfahrensweise seiner späten philosophischen Schriften
scheint mit der Poetologie Walsers zu interferieren, wie bereits
Walsers Zeitgenosse Hans Trog über den 1909 bei Bruno Cas-
sirer erschienenen Roman Jakob von Gunten spekuliert und die-
sen in Bezug auf seine «aphoristisch fein und klug formulierten
Aussprüche» als «Fast Nietzschisch» [sic!]2 bezeichnet3.
1 Vgl.: W. Groddeck, „Ich schreibe hier …“ Textgenese im Text. Zu Robert Walsers
Prosastück Die leichte Hochachtung, in H. Thüring, C. Jäger-Trees, M. Schläli (Hgg.),
Anfangen zu schreiben. Ein kardinales Moment von Textgenese und Schreibprozeß im
literarischen Archiv des 20. Jahrhunderts, München 2009, S. 97-108, hier S. 97.
2 H. Trog, Die Brüder Walser, in «Schweizerland I», 11/12 (1915), S. 649.
3 Die Poetologie Walsers – «nietzschisch» gelesen – ist jedoch ausdrücklich nicht
als Parodie auf Nietzsche zu verstehen, wie sie Christian Benne anhand ausgewählter Pa-
rodien vorgeführt hat: C. Benne, Der Nietzschekult im Spiegel ausgewählter Parodien, in
212 Bastian Strinz

Spürt man der Genealogie der Spuren Nietzsches im Werk


Walsers nach, so fällt zunächst auf, dass die Forschung zumeist
darin stehen bleibt, motivische Übernahmen oder Nietzsche-Zi-
tate systematisch zu erfassen4, dabei jedoch in aller Regel zur
Erklärung ihrer Funde sehr allgemein von einem ubiquitären
«Nietzscheanismus»5 zu Beginn des 20. Jahrhunderts ausgeht.
Diese Annahme ist dem Grunde nach richtig, übersieht jedoch
das Potenzial, das sich aus einer genauen Lektüre von Texten
von oder über Nietzsche, die als Paralleldrucke neben Texten
Walsers in Zeitschriften der Zeit erscheinen, für eine mit Nietz-
sche interferierende Poetologie Walsers ergibt6. Diese Texte
werden in der Forschung zwar zumeist erwähnt – im besten Fall
paraphrasierend7 – aber nicht ausreichend einer systematischen
Lektüre zur genealogischen Erklärung der Spuren Nietzsches in
den Texten Walsers oder gar für eine mit Nietzsche interferie-
renden Poetologie unterzogen.

2. Leopold Ziegler: Zarathustra-Glossen

Diese Lektüre wird in vorliegendem Aufsatz an den Zarathus-


tra-Glossen II des Privatgelehrten, Schriftstellers und Nietzsche-

S. Barbera, P. D’Iorio, J. H. Ulbricht (Hgg.), Friedrich Nietzsche. Rezeption und Kultus,


Pisa 2004, S. 105-134.
4 Vgl. P. Utz, Tanz auf den Rändern. Robert Walsers „Jetztzeitstil“, Frankfurt a. M.
1998; P. Utz, Robert Walsers Spiel mit Nietzsches Schatten, in D. M. Hoffmann (Hg.),
Nietzsche und die Schweiz, Zürich 1994, S. 149-156.
5 C. Benne, Autoiktion und Maskerade: Robert Walsers Ästhetik des Biographie-
Verzichts, in C. Benne und Th. Gürber (Hgg.), „…andersteils sich in fremden Gegenden
umschauend“ – Schweizerische und dänische Annäherungen an Robert Walser, Kopen-
hagen/München 2007, S. 32-53, hier S. 44. Vgl. auch: P. Utz, Robert Walsers Spiel mit
Nietzsches Schatten, zit., S. 149.
6 Bereits sehr früh gibt es Paralleldrucke von Robert Walser und Friedrich Nietz-
sche, so z.B. in der Zeitschrift Die Insel im Jahr 1901: R. Walser, Sechs kleine Geschichten
werden hier zusammen gedruckt mit F. Nietzsche, Umwertung aller Werte («Die Insel»,
10, 1901), oder F. Nietzsche, Genueser Gedankengaenge Buch-Plaene und Aphorismen
(Ende Winter 1881) («Die Insel», 7, 1901).
7 Vgl. P. Utz, Robert Walsers Spiel mit Nietzsches Schatten, zit.
Leopold Zieglers Zarathustra-Glossen 213

preisträgers von 19208, Leopold Ziegler, vorgenommen, die 1916


in der Neuen Rundschau, einem Forum für zeitgenössische Lite-
ratur und Essayistik des Berliner Fischer Verlags, zusammen mit
Robert Walsers Novelle Leben eines Malers abgedruckt wurde9.
In der Regel hat Walser die Druckbelege der meisten seiner Ver-
öffentlichungen von seinen Verlegern zugeschickt bekommen
und so ist anzunehmen, dass er den Text Zieglers zur Kenntnis
genommen hat, und dessen Inhalt wie die meisten seiner Lek-
türen produktiv intertextuell in seiner Prosa verarbeitet hat10.
Die Zarathustra-Glossen Zieglers sind somit ein vermitteltes, in-
direktes Indiz, über die Walser zur Kenntnis von Nietzsches Phi-
losophie gelangt sein könnte11 und diese für seine zahlreichen
metapoetischen Texte12 fruchtbar gemacht hat.
Die Zarathustra-Glossen II sind mit ihren 15 Seiten für eine
Glosse recht lang, besitzen aber einen Duktus, der die unter
diesem Titel pointierten, vielleicht sogar ein wenig polemischen
Aussagen Zieglers erwarten und dessen langjährige Beschäfti-
gung mit Nietzsche in dieser gelehrten Auseinandersetzung er-
kennen lassen13.
8 A. Cser, Leopold Ziegler, in B. Ottmad (Hg.), Badische Biographien, Bd. 2,
Stuttgart 1987, S. 319-322.
9 Die Zarathustra-Glossen I/II wurden 1915 und 1916 in der Neuen Rundschau
veröffentlicht und sind in der Forschung in Bezug auf Walser noch unkommentiert. Za-
rathustra-Glossen I, Zarathustra-Glossen II, in «Die Neue Rundschau», 26 (1915), und 27
(1916), S. 1644-1665 und S. 774-788.
10 Beispielhaft belegt z.B. durch A. Fuchs, “…eine kleine Phantasieentgleisung” oder

die Seligkeit des Kitsches. Zu Robert Walsers trivialliterarischen Parodien, in «Runa », 21


(1994), S. 61-80.
11 In der Neuen Rundschau wurden z.B. auch Friedrich Nietzsches Briefe aus dem

Jahre 1888 neben Prosastücken Walsers abgedruckt. Vgl. «Neue Rundschau», 24 (1913),
S. 1367-1390, zusammen mit Robert Walsers Fabelhaft (S. 1405 f.) und Aschinger (S.
1535 f.).
12 Vgl. C. Benne, „Schrieb je ein Schriftsteller so aufs Geratewohl?“: der surrealistische

Robert Walser, in F. Reents (Hg.), Surrealismus in der deutschsprachigen Literatur, hg.


von A. Corbineau-Hoffman und W. Frick, Berlin 2009, S. 49-70, hier S. 53.
13 Zum Verhältnis Zieglers und Nietzsches vgl. auch: T. Kölling, Nomos und Lo-

gos, Souveränität und Gewissen. Grundwörter Politischer Theologie in den Werken


Carl Schmitts und Leopold Zieglers, in P. Wall (Hg.), Leopold Ziegler. Mythos – Logos –
Integrale Tradition. Leopold Ziegler. Beiträge zum Werk, Bd. 2, Würzburg 2009, S. 57-84.
Auf die Nachahmung des Stils des Zarathustra in der Vorrede zu dem 1920 erschienenen
214 Bastian Strinz

In seiner ethisch-philosophischen Annäherung an Also sprach


Zarathustra attestiert Ziegler Nietzsche ausgehend von der Fi-
gur des Zarathustra, im Vergleich zu den Ethiken Platons oder
Kants, eine agonistische Ethik14 zu vertreten, die über «Abhär-
tung, ja Verhärtung bis zur Grausamkeit, bis zur Selbstquäle-
rei»15 gehe. Da Ziegler mit dieser Aussage einen biographisti-
schen Zugriff für die Interpretation des Zarathustra wählt, und
in Bezug auf Nietzsche annimmt, dass dieser «umnächtigt […]
[in] nicht mehr erträgliche[r] Vereinsamung»16 schreibe, kann
Ziegler über das Eselsfest im vierten Teil des Zarathustra kon-
statieren, dass Nietzsche sich «unanständig grobe Lästerungen
ab[trozte]»17. Durch seinen biographistischen Ansatz übersieht
Ziegler jedoch, dass diese Passage als eine parodistische Schlüs-
selstelle für den selbstaufhebenden Charakter des Zarathustra
gelesen und für ein ästhetisches Verfahren fruchtbar gemacht
werden kann18. Allerdings bleibt Ziegler in seiner Charakteri-
sierung, Nacherzählung und Paraphrasierung von Also sprach
Zarathustra nahe am Gegenstand Nietzsche; lediglich seine In-
terpretation ist eine individuelle, das ästhetische Potenzial von
Also sprach Zarathustra außer Acht lassend.
Bei seinen Ausführungen konzentriert Ziegler sich im Wesent-
lichen auf die Analyse der durch Nietzsche vertretenen Ich-Posi-
tion, die für die Herangehensweise an die Mikrogramme Walsers
einlussreichsten Werk Gestaltwandel der Götter weist Rudolf Pannwitz hin: R. Pann-
witz, Leopold Zieglers „Gestaltwandel der Götter“, in Dienst an der Welt. Zur Einführung
in die Philosophie Leopold Zieglers, Darmstadt 1925, S. 55-59, hier S. 57. Ziegler selbst
gibt in Bezug auf die Florentinische Introduktion, seine 1912 erschienene architekturphi-
losophischen Abhandlung, den Einluss Nietzsches an: L. Ziegler, Mein Leben, in Dienst
an der Welt. Zur Einführung in die Philosophie Leopold Zieglers, zit., S. 144-224; L. Zieg-
ler, Florentinische Introduktion. Zu einer Philosophie der Architektur und der bildenden
Künste, Leipzig 1912.
14 L. Ziegler, Zarathustra-Glossen II, zit., S. 777.
15 Ebd.
16 Ebd., S. 788.
17 Ebd., S. 777.
18 Vgl. C. Zittel, Das ästhetische Kalkül von Friedrich Nietzsches „Also sprach Zara-

thustra“, Würzburg, 2. Aul. 2011, S. 196: «Der betrunkene Esel parodiert jedoch außer
der Verkündigung des Übermenschen und der Ewigen Wiederkunft auch noch die Vor-
stellung eines dionysischen Schaffens und eines Glücks in der Ekstase».
Leopold Zieglers Zarathustra-Glossen 215

zentral sein wird: Das «Ich» bei Nietzsche, so Ziegler wörtlich,


bestehe in Abgrenzung zu historischen Vorbildern nicht mehr in
jener «harmonische[n] Totalität, die es in der antiken Psycholo-
gie gewesen ist»19, vielmehr «hat [es] sich aufgelöst in ein Bün-
del von höchst ungleichen Tätigkeiten, Strebungen, Organen, in
eine Mannigfaltigkeit der Zustände»20. Ziegler belegt seine Ar-
gumentation nicht direkt mit Zitaten aus dem Nietzsche-Text,
doch lässt sich diese seine Feststellung z.B. aus dem ersten Teil
des Zarathustra, Von den Verächtern des Leibes nachvollziehen,
wo «Selbst» und «Bewusstsein» getrennt voneinander betrachtet
werden und in der Konsequenz auch «Selbst» und «Handlung»
auseinander fallen (ZA I, KSA 4, S. 39 f.)21. In Jenseits von Gut
und Böse argumentiert Nietzsche mit einer «Subjekts-Vielheit»
(JGB 12, KSA 5, S. 27), die aus einem dezentral organisierten
Subjekt entsteht. Im Nachlass greift er diesen Gedanken wieder
auf und schlüsselt den Menschen als «eine Vielheit von Kräften»
(NF 34[123], KSA 11, S. 461) auf. Nietzsche verwendet dabei
die Metapher des Tisches, auf dem dem menschlichen Bewusst-
sein «ein Hintereinander von Gedanken [erscheint], wie als ob
ein Gedanke die Ursache des Folgenden sei. Thatsächlich sehen
wir den Kampf nicht, der sich unter dem Tische abspielt – » (NF
2[103], KSA 12, S. 112). Die Folge ist, dass die Konstitution des
Individuums, abhängig von den äußeren Einlüssen changiert
und eine jeweils neue Facette nach außen hin präsentiert.
Für Ziegler kulminiert die Feststellung der Vielheit der mitei-
nander kämpfenden Kräfte in einem «furchtbare[n] Dilemma»
für Nietzsche, das Ziegler anhand der beiden Worte aus dem
Dionysos-Dithyramben festmacht: «Selbstkenner, Selbsthenker»,
da sie Indiz für Nietzsches Ahnung der «tiefe[n] Fruchtlosig-
keit seiner Anstrengungen»22 seien. Ziegler löst dieses von ihm
konstatierte lebensphilosophische Dilemma Nietzsches in den

19 L. Ziegler, Zarathustra-Glossen II, zit., S. 778.


20 Ebd.
21 Vgl. C. Zittel, Ästhetisch fundierte Ethiken und Nietzsches Philosophie, in

«Nietzsche-Studien», 32 (2003), S. 103-123, hier S. 110.


22 L. Ziegler, Zarathustra-Glossen II, zit., S. 779.
216 Bastian Strinz

Zarathustra-Glossen nicht wirklich auf; erweitert man jedoch aus-


gehend von diesem unaufgelösten Dilemma die ethisch-philoso-
phische Perspektive Zieglers um eine ästhetische und überträgt
diese auf die Poetologie der Texte Walsers, so öffnet sich aus der
gegebenen «Mannigfaltigkeit der Zustände» ein Ansatz für das
Organisationsprinzip der Texte Walsers, und deren (intertextu-
ellen) Materials in Analogie zu dem von Ziegler beschriebenen
«bündelgleichen Ich»23, bzw. für die Organisation der Texte
durch ein «Ich».

3. Robert Walsers Mikrogramme

In dem zu Lebzeiten unveröffentlichten Manuskript Eine Art


Erzählung von 1928 bezeichnet Walser seine Art zu schreiben als
ein «mannigfaltig zerschnittenes oder zertrenntes Ich-Buch»24,
was der Formulierung Zieglers über die Mannigfaltigkeit der Zu-
stände und damit den Überlegungen Nietzsches doch recht nahe
kommt. Die Formulierung «Ich-Buch» Walsers meint allerdings
mitnichten eine biographistisch oder pathologisch hergeleitete
Ästhetisierung eines alter egos Walsers, sondern ist vielmehr
der Ausdruck einer experimentellen Poetik mit den Mitteln der
Kurzprosa. So spielt Walser mit der Konstitution des Ichs, in-
dem er z.B. in einem Mikrogramm-Text diese Zustände als Ma-
nipulation in der Ich-Figur verortet: «In mir machen sich die an-
genehmsten Manifestationen fühlbar. Ich bin eine aus Heiterkeit
bestehende Manipulation»25. Dass durch die mitunter mehreren

23 Vgl. dazu C. Zittel, Ästhetisch fundierte Ethiken und Nietzsches Philosophie, zit.,
S. 111: «Die lexible Einheit der Kunstwerke kann als Erkenntnismodell für die Lebens-
vollzüge fungieren, nicht aber als ethisches Modell. Der chaotische Untergrund wird qua
Kunst erkannt, akzeptiert und dargestellt, nicht aber beherrscht».
24 R. Walser, Eine Art Erzählung (Unveröffentlichtes Manuskript 1928), in J. Gre-

ven (Hg.), Robert Walser: Sämtliche Werke in Einzelausgaben, Frankfurt a. M. 1986, SW


20, S. 322.
25 R. Walser, Den Boden meines Zimmerchens, das etwas Jean Jacques Rousseauhaftes

hat und in einem Inselhaus sein könnte, bedeckt Licht (Textanfang), in ders., Aus dem
Bleistiftgebiet. Mikrogramme aus den Jahren 1924-1933, 6 Bde, neu entziffert und hg. von
Leopold Zieglers Zarathustra-Glossen 217

Anteile des Ichs und die wie eine polyphone Orchestrierung in


den Texten auftauchenden Stimmen der Eindruck entstehen
kann, dass es sich bei dem Ich-Erzähler in Walsers Texten nicht
um ein einzelnes Ich, sondern um mehrere Ichs handelt, ist ein
ästhetisches Kalkül seiner Poetologie. Die Vielheit der Stimmen
wirft beim Leser oftmals die Frage auf – wer spricht hier eigent-
lich? Dabei ist es von Walser durchaus darauf angelegt, «miß-
verstanden zu werden»26, wie der Ich-Erzähler in einem späten
Mikrogrammtext mit Freude an dem von ihm hervorgerufenen
kommunikativen Missverständnis berichtet. In der Konsequenz
bedeutet dies für Walser ebenso, dass der Ich-Erzähler selbst
korrigierend in den Text eingreifen kann, wenn zwei auftretende
Stimmen über die Wahrhaftigkeit der Aussagen streiten: «Wie
Sie da aber auch lügen, Sie Dichter, sagen Sie mal! Lassen Sie
mich nur machen»27, oder an anderer Stelle die Erzählung durch
die erzählerische Polyperspektivik zu entgleiten droht: «,Ich
danke dir‘, riefen zehn Vagabunden zusammen aus. Zehn Vaga-
bunden? Um Gotteswillen, wo kommen denn die plötzlich alle
ungeniert her? Zehn Vagabunden, das wäre entsetzlich. Zum
Glück ist’s bloß ein Fehler im Vortrag, gleichsam eine kleine
Phantasieentgleisung»28.
Geht man in diesem Kontext der polyphonen Orchestrierung
und polyperspektivischen Erzählung in den Mikrogrammen zu-
rück zu Zieglers Zarathustra-Glosse, so attestiert dieser Nietz-
sche abgeleitet von dessen agonistischer Ethik eine hedonistische
Lust29, die durch eine «unausgesetzt wechselnde Spannung und
Lösung, die ungeheure Bewegung, in welcher jeder Schaffende
sich beindet»30 charakterisiert ist. Dies hat für Ziegler zur Fol-

B. Echte und W. Morlang, Frankfurt a. M. 2003, Bd. 4, S. 24 (im Folgenden mit AdB
abgekürzt).
26 R. Walser, Den Boden meines Zimmerchens… (Textanfang), in AdB IV, S. 25.
27 R. Walser, Prosper Mérimée, der Verfasser der „Carmen“, und dieser schlichte, ehr-

liche deutsche Rechtsanwalt Rodmann, was für Kontraste! (Textanfang), in AdB I, S. 111-
115, hier S. 112.
28 Ebd., S. 113.
29 L. Ziegler, Zarathustra-Glossen II, zit., S. 779.
30 Ebd.
218 Bastian Strinz

ge, dass «Jedes erkannte, mit den Formen des Erkennens ver-
schmolzene Ich […] dann ein anderes, noch unerkanntes Ich
voraus[setzt], da das erkannte Ich nie mit dem wirkenden, im
Akte des Erkennens tätigen Ich zusammenfallen kann»31. Ver-
folgt man diese Ausführung Zieglers zurück in die Schriften
Nietzsches, so stößt man neben der oben genannten Zarathustra-
Stelle auf den von diesem sogenannten «Regenten» (NF 40[21],
KSA 11, S. 638) des menschlichen Erkenntnis-Apparates, der
aber nur glaubt zu wissen und glaubt kontrollieren zu können,
was in seinem Reich vor sich geht. In dieser Lesart fungiert das
«Ich» Walsers nach Christian Walt «als [ein] perzeptives Pris-
ma oder Vermittler der mannigfaltigen Materialien, die im Text
,verarbeitet‘ werden. Die funktionale Verwendung des ,Ich‘
vermittelt im Modus der ,Kombination‘ das Unvermittelte des
eingesetzten Materials»32. Denn erst durch die Tatsache, dass
der Regent im Sinne Nietzsches zu wissen und kontrollieren zu
glauben scheint, wird er für die Poetologie Walsers, der um die
Nicht-Kontrolle des Regenten weiß, produktiv.

4. Der Räuber

Kulminierend ist dieses Verfahren in den zu Lebzeiten Wal-


sers unveröffentlichten Räuber-Mikrogrammen aus dem Jahr
192533: Denn obwohl der Ich-Erzähler sich gegen Ende des
31 Ebd., S. 778.
32 C. Walt, Improvisation und Interpretation. Robert Walsers Mikrogramme lesen,
Frankfurt a. M./Basel 2015, S. 227 f. Vgl. dazu auch: P. Utz, Zu kurz gekommene Klei-
nigkeiten. Robert Walser und der Beitrag des Feuilletons zur literarischen Moderne, in E.
Locher (Hg.), Die kleinen Formen in der Moderne, Innsbruck 2001, S. 133-166, hier S.
158.
33 Walser hat sie seiner Brieffreundin Frieda Mermet zusammen mit anderen Mikro-

grammblättern zur Aufbewahrung übergeben. Sie wurden erst Mitte der sechziger Jahre
von «Jochen Greven entdeckt, in der Folge unter Mitarbeit von Martin Jürgens transkri-
biert und 1972 im Rahmen der ersten Walser-Gesamtausgabe veröffentlicht». Dabei hat
Walser die 35 Abschnitte, die der Erzähler des Räuber-Texts an einer Stelle «Kapitel» (R.
Walser, Räuber-Roman, in AdB III, S. 50) an anderer «Abschnitt» (R. Walser, Räuber-Ro-
man, in AdB III, S. 67) nennt, auf 25 einzelnen Mikrogrammblättern niedergeschrieben,
Leopold Zieglers Zarathustra-Glossen 219

Räubers resolut gegen die Räuber-Figur abzugrenzen versucht


– «Ich bin ich, und er ist er»34 –, so scheinen Ich-Erzähler und
Räuber-Figur im Text meist ähnlich oder identisch35. Insofern
ist es legitim, die folgende Aussage über die Räuber-Figur auch
auf den Ich-Erzähler zu übertragen:

Und nun verfolgte man ihn. Verfolgte man ihn wegen der Flüchtig-
keit seiner Heiratsanträge? […] Verdiente er, daß man ihn verfolgte?
Wußte er das überhaupt? Ja er wußte, ahnte, spürte es. Dieses Wissen
verlor sich und kehrte wieder zu ihm zurück, es zerbrach, um sich wie-
der hübsch zusammenzufügen36.

Wieder scheinen hier «Selbst» und «Bewusstsein», bzw.


«Selbst» und «Handlung» auseinander zu fallen und das einheit-
liche Wissen ein illusorisches «Blitzbild aus dem ewigen Flusse»
(NF 11[156], KSA 9, S. 502) des Hintereinander von Gedanken.
Entsprechend ist es für Walser dann auch möglich, seine assozi-
ativen Gedankenketten und polysyndetischen Reihen zu starten,
die zumeist unkontrolliert ins Leere laufen und seine narrativen
und kommunikativen Fehlleistungen zu inszenieren. Im Räu-
ber-Text von 1925 entwickelt Walser von ihm in früheren Tex-
ten verwendete stilbildende Erzähltechniken weiter und radika-
lisiert damit das ästhetische Verfahren: Mehrere Male reißt der
Ich-Erzähler verschiedene Gegebenheiten, Personen, Gescheh-
nisse an, um jedoch darauf zu verweisen, den Bericht über die
angefangenen Ereignisse später an anderer Stelle fortzusetzen:
So heißt es z.B. «Auch hierüber wird zu reden sein»37, «Davon

auf denen in manchen Fällen auch Teile der ebenfalls im Jahr 1925 verfassten Felix-Sze-
nen notiert waren. Aufgrund der kurzen Entstehungszeit von etwa 6 Wochen plädiert
Greven für die Annahme, dass jeder der 35 Abschnitte je als einzelnes Tagwerk entstan-
den sein könnte (vgl. Editorische Vorbemerkung, in AdB III). Zusammengesetzt ergeben
sie dann einen Text, der aus mehr oder weniger stark korrespondierenden Abschnitten
und Inhalten besteht, ohne jedoch eine Chronologie der Erzählung zu gewährleisten.
34 R. Walser, Räuber-Roman, in AdB III, S. 149.
35 P. Villwock, Räuber Walser. Beschreibung eines Grundmodells, Würzburg 1993,

S. 117.
36 R. Walser, Räuber-Roman, in AdB III, S. 44.
37 Ebd., S. 12.
220 Bastian Strinz

zuversichtlich später»38, «Es wird hievon noch die Rede sein»39


oder «Hievon im nächsten Kapitel mehr»40. Tatsächlich macht
der Ich-Erzähler nur in den seltensten Fällen seine Ankündigung
wahr und greift den meist durch Assoziationen unterbrochenen
Plot später wieder auf. Um mit Ziegler zu sprechen: das erkannte
Ich fällt nie mit dem wirkenden und tätigen Ich zusammen. In
die Poetologie des Räubers übertragen heißt dies, dass kaum ei-
ner der angekündigten Motive oder Handlungsstränge von dem
Ich-Erzähler wieder aufgegriffen oder in einen sinnstiftenden
chronologischen Erzählablauf überführt wird.
Noch 1917, in der Erzählung Der Spaziergang41 bilden die
Prolepsen und Ankündigungen ein verlässliches, stilbildendes
Element, durch das die Handlung der Erzählung chronologisch
und sinnstiftend organisiert wird: Kündigt der Ich-Erzähler in
einer Prolepse an, eine Bank aufsuchen, einen Bahnübergang
überqueren oder bei einer Bekannten Mittagessen um zu wol-
len, so trifft dies im überwiegend zeitdeckendem Erzählen des
Spaziergangs zuverlässig ein. Das Erzählen in Der Spaziergang
ist mit den Erfahrungen eines Spaziergangs gleichzusetzen, d.h.
das Denken des Erzählers und das Fortschreiten der Erzählung
sind wie bei einem Spaziergang an bestimmte chronologisch
und sinnstiftend wirkende «Wegmarken» geknüpft, an denen
sich Denken wie Handlung orientieren. Nicht so im Räuber von
1925: Zusammen mit der Kürze der 35 Abschnitte, die der Er-
zähler des Räuber-Texts an einer Stelle «Kapitel»42 an anderer
«Abschnitt»43 nennt, und deren Unterepisoden, übernehmen
die Ankündigungen und Prolepsen die Funktion eines zur Illu-
sionsbrechung eingesetzten erzähltechnischen Verfahrens44, wie

38 Ebd., S. 21.
39 Ebd., S. 30.
40 Ebd., S. 50.
41 R. Walser, Der Spaziergang, Frauenfeld/Leipzig 1917.
42 R. Walser, Räuber-Roman, in AdB III, S. 50.
43 Ebd., S. 67.
44 Vgl. C. Zittel, „Dem unheimlichen Bilde des Mährchens gleich“. Überlegungen zu

einer poetologischen Schlüsselstelle in Nietzsches Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste
der Musik, in «Orbis Litterarum», 69/1 (2014), S. 57-78, S. 69: «Auch wendet der in
Leopold Zieglers Zarathustra-Glossen 221

es beispielsweise auch in der Vorrede in Also sprach Zarathus-


tra vorkommt. Dort heißt es: «Und hier endet die erste Rede
Zarathustra’s, welche man auch ‚die Vorrede‘ heisst» (ZA Vor-
rede 5, KSA 4. S. 20). Wie Zittel richtigerweise betont, ist die
Vorrede zu diesem Zeitpunkt jedoch noch nicht zu Ende, das
Zitat steht genau in ihrer Mitte. Glaubte man dem Erzählerkom-
mentar, so müsste die Vorrede an dieser Stelle zu Ende sein und
nicht noch fünf weitere Teile enthalten, in denen der Erzähler
ein «Verwirrspiel» mit dem Leser beginnt.
Walser entwickelt dabei ein poetologisches Verfahren, das
als ein Bewußtseins- und Handlungsmodell bei Nietzsche als
Illusion von Ursache und Wirkung angelegt ist – es heißt bei
Nietzsche dazu wie folgt im Nachlass aus dem Herbst 1880:

Nur durch Association, durch eine logisch unzugängliche und ab-


surde Beziehung zwischen einem Gedanken und dem Mechanism ei-
nes Triebes (sie begegnen sich vielleicht in einem Bilde z. B. dem eines
streng Befehlenden) kann ein Gedanke (z.B. beim Commandowort)
eine Handlung ,hervorbringen‘. Eigentlich ist es ein Nebeneinander.
Es ist n ic hts von Ur sac he u nd Wi rku ng zwischen Zweckbegriff
und Handlung, sondern dies ist die große Täuschung, als ob es so
wäre! (NF 6[361], KSA 9, S. 289)

Die Frage nach Wahrheit und Lüge, nämlich, ob die Aussage,


dass der Ich-Erzähler irre sei, wahr ist, oder ob der Ich-Erzäh-
ler lügt, ist in dieser Logik Nietzsches denn auch nebensächlich,
denn durch das Wegfallen von «Ursache und Wirkung zwischen
Zweckbegriff und Handlung» wirft sich vielmehr die Frage nach

Nietzsches Also sprach Zarathustra Erzähler Kunstgriffe an, die den Techniken Ander-
sens frappierend ähneln, etwa wenn (wie dort) Erzählerkommentare die Handlung un-
terbrechen, um die eigene Darbietungsweise zu thematisieren, die Gattung hinterfragen,
die Geschichte als wahre Historie ausgeben und mittendrin als beendet erklären. So wird
in Also sprach Zarathustra der Leser bereits am Ende des fünften Abschnittes der Vorre-
de von einem Erzählerkommentar irritiert: ,Und hier endet die erste Rede Zarathustra’s,
welche man auch die Vorrede heisst.‘ (N., 1980, 4: 20). Die Vorrede ist jedoch nicht zu
Ende, wir beinden uns genau in ihrer Mitte, und es beginnt ein Verwirrspiel, in dem die
Reden des Protagonisten und die Kapitelüberschrift von Nietzsches Buch ineinander
verschwimmen».
222 Bastian Strinz

dem Wollen, das für Nietzsche ein «irregeleitetes Phantasma


unsers Kopfes» (NF 6[254], KSA 9, S. 264) ist – Walser spricht in
dem zitierten Mikrogramm von einer «Phantasieentgleisung»45
–, und einem agierenden, kontrollierenden Ich auf. Die Antwort
auf die Frage nach dem von Ziegler sogenannten «tätigen Ich»
formuliert Nietzsche im Nachlass wie folgt:

Unser Bewußtsein hinkt nach und beobachtet wenig auf einmal


und während dem pausirt es für Anderes. Diese Unvollkommenheit
ist wohl die Quelle, daß wir Dinge glauben und im Werden etwas
Bleibendes annehmen: ebenso daß wir an ein Ich glauben. Liefe das
Wissen so schnell wie die Entwicklung und so stätig, so würde an kein
«Ich» gedacht (NF 6[340], KSA 9, S. 283).

Dementsprechend schließt sich Ziegler mit seiner Formulie-


rung, dass das erkennende und tätige Ich nicht zusammenfal-
len könne, dieser Analyse Nietzsches an und ist überzeugt, «daß
Nietzsche niemals von einem Ganzen aus zum Einzelnen denkt:
vielmehr fehlt das Ganze, in welchem sich die vielen Einzelhei-
ten organisch zusammenschließen könnten»46.
Diese Art, über ein fehlendes Ganzes zu denken, lässt sich für
Walser nicht nur für dessen «Ich» anwenden, sondern auch für
den Räuber als aggregierte Form von Walsers Kleine[r] Prosa47
fruchtbar machen. Dieser setzt sich montageartig – wie Ziegler
es in seiner Analyse des Verhältnisses zwischen dem Einzelnen
und dem Ganzen bei Nietzsche sagt – aus «vielen Einzelheiten»
zusammen: Sei es, dass der Ich-Erzähler in den einzelnen Ab-
schnitten metapoetisch auf einen intertextuellen Kontext der
Zeit referiert («Und der Räuber beraubte dann Geschichten,
in dem er immer solche kleinen Volksbüchlein las und sich aus
den gelesenen Erzählungen ureigene zurechtmachte, wobei er
lachte»48), dass die Abschnitte auf Motive andere Texte Wal-
45 R. Walser, Prosper Mérimée, der Verfasser der „Carmen“, und dieser schlichte, ehr-

liche deutsche Rechtsanwalt Rodmann, was für Kontraste! (Textanfang), in AdB I, S. 113.
46 L. Ziegler, Zarathustra-Glossen II, zit., S. 784.
47 M. Brod, Kleine Prosa, in «Neue Rundschau», 24 (1913), S. 1043-1046.
48 R. Walser, Räuber-Roman, in AdB III, S. 37.
Leopold Zieglers Zarathustra-Glossen 223

sers rekurrieren49, oder dass der Ich-Erzähler zitathaft die Seil-


tänzermetapher aus Also sprach Zarathustra mit einließen lässt:
«Eines Nachts hatte er sich als Tänzer versucht, der über das
Geländer einer von unseren Brücken tänzelte. Die Tänzelei ge-
lang spielend, und die Zuschauer wurden ob der Gewagtheit
ganz böse»50. Illusionsbrechend relektiert der Ich-Erzähler
über die Gattung des Geschriebenen: Mal bezeichnet der Er-
zähler den Räuber-Text als «Blätter»51, als «eine große, große
Glosse, lächerlich und abgründig»52 oder «buchhändlerische[s]
und literarische[s] Unternehmen»53. Die Form des Textes – sei-
ne «Kapitel» oder «Abschnitte» – trägt das seinige dazu bei, zu
zweifeln, ob es sich bei dem Räuber-Text tatsächlich um einen
Roman handelt, wie er in den Druckausgaben und der For-
schung bezeichnet wird. Die Abschnitte erinnern in ihrer Kür-
ze an einzelne Prosastücke Walsers, die jedoch, da es keine sich
durch den gesamten Text ziehende chronologische Handlungs-
entwicklung gibt, austauschbar scheinen und in ihrer Binnens-
truktur z.T. Ansätze von Erzählungen in größeren romanhaften
Handlungen aufweisen, größtenteils jedoch in mehrere autonom
für sich stehende Episoden aufgegliedert sind.

5. Desiderat

Diese Intertextualität aus eigenen und fremden Intertexten,


Prätexten oder Quellen ist als Ausführung eines ästhetischen
Kalküls in Also sprach Zarathustra par excellence vorgeführt, aber

49 So indet man im Räuber-Text Motive wie den «Peruaner» oder den


«Automoblist», die im Spaziergang vorkommen, oder das Motiv des «Commiss», das
Walser bereits in frühen Jahren leitmotivisch einsetzt. Vgl. R. Walser, Räuber-Roman,
in AdB III, S. 11 f. Auch verwendet Walser das Motiv des Spaziergangs als Sinnbild für
geordnetes Erzählen: «Nötig ist, daß es eine Richtung, eine Straße für uns bedeutete» (R.
Walser, Räuber-Roman, in AdB III, S. 27).
50 Ebd., S. 69.
51 Ebd., S. 144.
52 Ebd., S. 148.
53 Ebd.
224 Bastian Strinz

auch bereits in den nachgelassenen Fragmenten als ästhetische


Programmatik angelegt. Durch die genaue Lektüre in Bezug auf
die Referenztexte Nietzsches können die Zarathustra-Glosssen
Zieglers – obwohl als ethisch-philosophischer Ansatz konzipiert
– als Folie für ein ästhetisches Verfahren fruchtbar gemacht wer-
den, das die Lesart der Mikrogramme Walsers um eine philo-
sophisch-ästhetisch fundierte Poetologie erweitert. Eine unter
diesem Aspekt geführte Lektüre der Nietzsche-Texte in der
Zeitschrift Die Insel aus dem Jahr 1901 oder in der Neuen Rund-
schau von 1916 ist noch ausstehend und eröffnet möglicherwei-
se ähnliche Perspektiven auf die Poetologie von Walsers frühen
Werken.
Max Kommerell
Nietzsche e la tradizione dell’inno

Chiara Conterno

Nel saggio Die Dichtung in freien Rhythmen und der Gott der
Dichter (La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti), uscito nel
1943 in Gedanken über Gedichte («Pensieri su poesie»), Max
Kommerell si concentra sulla poesia in ritmi liberi della tradi-
zione tedesca e traccia una sorta di storia del genere «inno».
Differendo dalle lingue antiche per la gradazione nelle intensità
del suono e l’accento sulla sillaba radicale, la lingua tedesca, se-
condo Kommerell, «poteva ottenere un analogo effetto dei me-
tri antichi solo attraverso il ritmo, cioè una disposizione degli
accenti naturali»1. Nelle opere con i ritmi liberi, che avrebbero
una grande forza attrattiva, accresciuta dalle tematiche, nonché
dall’ampiezza degli spiriti che vi ricorsero, il poeta rivelerebbe il
proprio rapporto con il divino2, determinato «per proprio conto
dalle fondamenta»3. Kommerell ritiene che non si possa preten-
dere che il «dio dei poeti» si mostri solo in questo tipo di poesia,
sin dall’inizio percepita come sciolta, ditirambica, come la forza
dell’entusiasmo, e neanche che questa non abbia mai avuto un
altro tema, ma pone la questione che sussista un’inclinazione di
tale forma per tale tema4. Il primo a introdurla, anche se non in
forma perfetta, sarebbe stato Klopstock; il secondo a praticare
1 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, in M. Kommerell, Il

poeta e l’indicibile. Saggi di letteratura tedesca, a cura di G. Agamben, trad. it. di Gino
Giometti, Genova 1991, p. 71. Edizione originale: M. Kommerell, Die Dichtung in freien
Rhythmen und der Gott der Dichter, in M. Kommerell, Gedanken über Gedichte, Mün-
chen 1943, pp. 430-503.
2 Ibid.
3 Ivi, p. 72.
4 Ibid.
226 Chiara Conterno

l’ideale dell’autentica poesia ditirambica sarebbe stato Herder.


Concludendo la parte introduttiva del saggio Kommerell consta-
ta quanto segue:

Da sempre questa forma col pretesto dell’invasamento divino e


dell’entusiasmo per le cose divine, autorizza a una lingua sfrenata e ha
il gesto della rivelazione misteriosa. Nel contempo [tale forma] innalza
la vocazione del poeta a quella del sacerdote, del profeta, del nunzio di-
vino, e seduce a quel trascendimento della poesia e a quell’ampliamen-
to del mandato poetico che, nel venir meno del potere vincolante degli
ordinamenti tramandati, ha assegnato in crescente misura al poeta la
composizione dell’intricato enigma umano5.

Seguono paragrai dedicati ai singoli poeti che, dopo Herder,


sono ricorsi ai ritmi liberi: il giovane Goethe, Novalis, Hölderlin,
Nietzsche e Rilke.
La novità sostanziale introdotta dal saggio di Kommerell
è l’attenzione per l’aspetto gestuale6. Come sostiene Gerhart
Pickerodt, anche il verso con i suoi ritmi liberi è, nell’ottica di
Kommerell, una forma di gesto linguistico7. All’interno di questo
contesto, la mia tesi è che il modo in cui Kommerell legge e rece-
pisce i Ditirambi di Dioniso renda questi una forma estremamen-
te moderna all’interno della tradizione dell’inno da lui tracciata.
L’elemento gestuale e performativo che riavvicina i Ditirambi
alla forma originaria di questa espressione lirica, è manifestazio-
ne della crisi del soggetto e del suo linguaggio, nonché dell’arte
e della forma estetica nel modernismo8. Contemporaneamente,

5 Ivi, p. 73.
6 Nel linguaggio gestuale e nelle sue potenzialità Giorgio Agamben vede un perno
del pensiero di Max Kommerell. Cfr. G. Agamben, Kommerell, o del gesto, in M. Kom-
merell, Il poeta e l’indicibile, cit., pp. VII-XV.
7 G. Pickerodt, Kommerells Philosophie des Verses, in W. Busch, G. Pickerodt (a

cura di), Max Kommerell. Leben – Werk –Aktualität, Göttingen 2003, pp. 194-206, qui
p. 205.
8 Per un quadro generale delle igure simbolo di crisi nell’opera di Max Komme-

rell si veda I. Schiffermüller, Gebärde, Gestikulation und Mimus. Krisengestalten in der


Poetik von Max Kommerell, in W. Busch, G. Pickerodt (a cura di), Max Kommerell, cit.,
pp. 98-117. Per deinire la crisi del soggetto e il tentativo di superamento della stessa
Nietzsche e la tradizione dell’inno 227

però, Nietzsche trova gli strumenti adatti per esprimere tale crisi
e, con il loro ausilio, l’affronta e la supera. In questo senso, con i
Ditirambi di Dioniso la tradizione dell’inno raggiunge l’apice del
suo percorso.

1. I Ditirambi di Dioniso

La versione inale dei Ditirambi di Dioniso risale al gennaio del


1889, poco prima del collasso di Nietzsche, e comprende testi
provenienti da altre opere, tra cui lo Zarathustra, e testi nuovi9.
I motivi centrali sono rilessioni su verità, solitudine, morte, sui
conlitti dell’io, sulla tensione tra essere e divenire, in cui essere
e apparire talvolta si equivalgono10. Dal punto di vista formale,
balza agli occhi l’irregolarità e la difformità, la mescolanza di stili,
l’autoreferenzialità linguistica dell’espressione elevata ad inno e
soprattutto l’accentuazione di movimenti nudi, come se la lingua
venisse denudata e si presentasse priva di qualsiasi mediazione e
rilessione. Alla base di questi testi vi è un pathos travolgente: le
passioni non vengono più controllate tramite il discorso, ma lo
contaminano e producono luttuazioni, oscillazioni, movimenti
di forze. Un impulso quasi eccessivo supera la misura abituale
della lingua che viene scardinata da dentro. Si tratta di pathos

Schiffermüller parla di «esistenza mimico-gestuale del pensatore solitario» (p. 112), di


«mistero muto dell’io sofferente che prende la parola solo come oggetto e rimane per se
stesso un enigma» (p. 113), di «martirio del pensatore», «autodistruzione dell’esistenza
filosofica», di «mimo del pensatore» che scaturisce dalla «crisi della rilessione» (p. 114),
quindi di «smisurata gesticolazione e mistero dell’io» (p. 115).
9 Un quadro succinto della composizione del ciclo è fornito da M. Brusotti, Dio-

nysos-Dithyramben (1888/9), in H. Ottmann (a cura di), Nietzsche-Handbuch. Leben –


Werk – Wirkung, Stuttgart/Weimar 2000, pp. 136-137. Si veda poi W. Groddeck, Fried-
rich Nietzsche. »Dionysos-Dithyramben«, 2 Voll., Berlin/New York 1991. Tra gli altri
studi si ricordano G. Kaiser, Wortwelten-Weltworte. Die ersten beiden „Dionysos-Dithy-
ramben“ Nietzsches, in G. Kaiser (a cura di), Augenblicke deutscher Lyrik. Gedichte von
Martin Luther bis Paul Celan, Frankfurt a. M. 1987, pp. 300-352; H. Detering, Der Anti-
christ und der Gekreuzigte. Friedrich Nietzsches letzte Texte, Stuttgart 2012, pp. 110-116.
10 Cfr. A. U. Sommer, Kommentar zu Nietzsches Der Antichrist, Ecce Homo, Dio-

nysos-Dithyramben, Nietzsche contra Wagner, Vol. 5/1, Berlin 2013, pp. 648-653.
228 Chiara Conterno

nel senso greco del termine, è un pathos che subisce, che soffre
e che, pertanto, necessita di un linguaggio in grado di rendere
tale sofferto sentire. Dall’altro lato, è un pathos che si impone e
si afferma, il «pathos dell’affermazione par excellence» (EH Zara-
thustra 1, KSA 6, p. 336; Vol. VI, Tomo III, p. 345)11. Da tale
apparente contraddizione deriva l’estenuante ricerca che porta
Nietzsche all’uso di questi versi, caratterizzati da intensiicazioni
formali ed espressioni iperboliche, che testimoniano lo «stato di
emergenza della nominazione»12 e vengono anticipati dall’auto-
interpretazione nietzscheana di Ecce homo: «Io sono l’inventore
del ditirambo» (EH Zarathustra 7, KSA 6, p. 345; Vol. VI, Tomo
III, p. 355)13.
Ricorrendo a questa forma Nietzsche si inserisce consape-
volmente nella tradizione dell’inno, che solitamente esprime
l’entusiasmo per l’apparizione del divino nel mondo e la capa-
cità geniale del singolo di percepirla14. Ma mentre vi si riferisce,

11 W. Busch, I linguaggi dell’inconscio collettivo. Richard Wagner e l’arte ditirambica


di Nietzsche nello Zarathustra, in M. Gay, I. Schiffermüller (a cura di), Lo Zarathustra di
Nietzsche. C.G. Jung e lo scandalo dell’inconscio, Bergamo 2013, pp. 181-221, qui p. 194.
12 W. Busch, Aby Warburg und Friedrich Nietzsche: Pathosformel und Sprachgebärde

in den »Dionysos-Dithyramben«, in P. Koler (a cura di), Ekstatische Kunst – Besonnenes


Wort. Aby Warburg und die Denkräume der Ekphrasis, Bozen 2009, pp. 203-216, qui p.
206.
13 In origine il ditirambo era un canto cultuale in onore di Dioniso, senza rima e dal

ritmo libero, capace di destare tutte le capacità espressive umane. Walter Busch, appog-
giandosi a S. Kofman, lo deinisce la metafora apollinea per la musica dionisiaca. Cfr. W.
Busch, I linguaggi dell’inconscio collettivo, cit., pp. 193 s.
14 Sulla tradizione canonica dell’inno si veda N. Gabriel, Studien zur Geschichte der

deutschen Hymne, München 1992; D. Burdorf, An die Sonne. Hymnische Dichtungen


von der Zeit Hölderlins bis zur Gegenwart, in «Hölderlin-Jahrbuch», 32 (2002), pp. 238-
245; D. Burdorf, Gibt es eine Geschichte der deutschen Hymne?, in «Zeitschrift für Ger-
manistik», XIV, 2 (2004), pp. 298-310; U. Gaier, Vom Sinn des Hymnischen um 1800,
in «Hölderlin-Jahrbuch», cit., pp. 7-49; T. Althaus, Poetischer Konzeptualismus. Ode
von Klopstock bis Hölderlin, in «Hölderlin-Jahrbuch», cit., pp. 246-280; W. Braungart,
Hymne, Ode, Elegie. Oder: Von den Schwierigkeiten mit antiken Formen der Lyrik (Mö-
rike, George, George-Kreis), in A. Aurnhammer, T. Pittof (a cura di), „Mehr Dionysos als
Apoll“. Antiklassizistische Antike-Rezeption um 1900, Frankfurt a. M. 2002, pp. 245-271;
R. Simon, Hymne und Erhabenheit im 19. Jahrhundert, ausgehend von Stefan Georges
‚Hymnen‘, in S. Martus, S. Scherer, C. Stockinger (a cura di), Lyrik im 19. Jahrhundert.
Gattungspoetik als Relexionsmedium der Kultur, Bern 2005, pp. 357-385.
Nietzsche e la tradizione dell’inno 229

Nietzsche rovescia tale tradizione, pur mantenendo integra la


tensione da cui si sviluppa il testo poetico. I Ditirambi di Dioni-
so rappresentano, quindi, un punto di svolta, il commiato dalla
tradizione, messo in scena in maniera grandiosa15. Nell’inno tra-
dizionale il soggetto poetico era saldamente ancorato, offriva la
possibilità di identiicazione e contribuiva a creare una comuni-
tà, perché era portavoce di un motivo uniicante e il suo sguardo
era rivolto a Dio. In Nietzsche, invece, laddove viene cercato un
dio, costui non viene posto come assoluto, come valore fondante
in una prospettiva teleologica e storico-ilosoica. Parallelamente,
il soggetto viene estrapolato dalla consueta stabilità, non è più
inserito in un contesto di storia sacra, ma rivolto solo su se stesso.
Di conseguenza, il discorso innico non è più limitato alla sfera
del divino, ma, come nota Norbert Gabriel, tutto è potenziale
oggetto dell’inno nella misura in cui il centro di questo discorso
è il soggetto poetico che si può riconoscere anche come dio e
quindi auto-celebrare16. Da questa posizione estrema dell’io ri-
sulta, però, una forte ambivalenza di auto-divinazione euforica e
dubbi autodistruttivi. Ecco che nei ditirambi si compie una sorta
di dissociazione17 e l’ininito – inteso come espressione della tra-
scendenza – viene rovesciato nel suo contrario. Così, ad esempio,
in Tra iglie del deserto il deserto diventa immagine dell’umano18.
La meta non è più Dio, verso cui si tende e in cui si cerca di tra-
scendere, ma il soggetto stesso e la sua dissoluzione:

15 Secondo Erich Meuthen il linguaggio dei Ditirambi di Dioniso segna il momento di


rottura e distacco delle possibilità espressive del modernismo rispetto al modello dell’in-
no tradizionale. Cfr. E. Meuthen, Vom Zerreißen der Larve und des Herzens. Nietzsches
Lieder der „Höheren Menschen“ und die „Dionysos-Dithyramben“, in «Nietzsche-Studi-
en», 20 (1991), pp. 152-185, qui p. 157.
16 N. Gabriel, Studien zur Geschichte der deutschen Hymne, cit., p. 208.
17 Sulla «Dissoziation», motivo centrale nei Ditirambi, Gabriel torna spesso. Cfr. N.

Gabriel, Studien zur Geschichte der deutschen Hymne, cit., pp. 200-211. In riferimento a
questo processo di dissoluzione nel ditirambo Soltanto giullare! Soltanto poeta! Meuthen
usa il termine «Zerleischung», «sbranamento» dell’io (espresso nella poesia). Cfr. E.
Meuthen, Vom Zerreißen der Larve und des Herzens, cit., p. 167.
18 N. Gabriel, Studien zur Geschichte der deutschen Hymne, cit., p. 209.
230 Chiara Conterno

Il deserto cresce: guai a chi alberga deserti!


Pietra stride su pietra, il deserto inghiotte e strozza.
La morte atroce issa rovente il suo sguardo bruno
e mastica – la sua vita è il suo masticare …

Non dimenticare, o uomo che la voluttà ha macerato:


tu – sei la pietra, il deserto, tu sei la morte …
(DD, KSA 6, p. 387; Vol. VI, Tomo IV, pp. 26 s.)

In Gloria ed eternità non è più il soggetto che va verso il divi-


no, ma viceversa:

Io guardo in alto –
là risuonano mari di luce:
– o notte, o silenzio, o strepito muto come la morte! …

Io vedo un segno –,
dalle lontananze più lontane
sfavillante cala lenta verso di me una costellazione …

4.
Astri supremi dell’essere!
Tavola di eterne igure,
tu vieni a me? –
(DD, KSA 6, p. 404; Vol. VI, Tomo IV, p. 59)

In tal modo il trascendente viene doppiamente soggettivato:


esso si rivolge al soggetto e appare solo al soggetto. Se da un lato
questo potenziamento del soggetto signiica un depotenziamen-
to del divino, dall’altro il soggetto e il divino sembrano talvolta
convergere:

Stemma della necessità!


Dell’essere costellazione suprema
– che nessun desiderio raggiunge,
che nessun no contamina,
eterno sì dell’essere,
eternamente io sono il tuo sì:
Nietzsche e la tradizione dell’inno 231

poiché io ti amo, o eternità! –


(DD, KSA 6, p. 405; Vol. VI, Tomo IV, p. 61)

Il soggetto diventa un presupposto, una condizione dell’eter-


nità, del suo «sì»19. Il soggetto è il divino e il divino il soggetto.
Un analogo rovesciamento si constata in Il sole declina, dove il
sole non è più stabile punto di riferimento e l’io è rappresentato
come illusione e apparenza. Quello che nella tradizione clas-
sica dell’inno sorgeva dal tentativo di trascendere, di tendere
verso Dio con un pathos che andava via via intensiicandosi, in
Nietzsche appare piuttosto come una strategia di preservazione
che, paradossalmente, avviene attraverso la continua trasforma-
zione dell’io e il suo calarsi in nuove manifestazioni, movimenti
che si realizzano anche nell’estrema tensione tra autoconoscenza
e autodistruzione.
I ditirambi sono liriche in cui tutto ruota attorno al sé, e tut-
to si rivela per restare, alla ine, «uno stanco enigma»20. Non
si riscontrano più identità isse e igure a tutto tondo, bensì la
rappresentazione di un’esistenza pluriforme, multipla, il cui
presupposto è la crisi del soggetto pensante e del suo linguag-
gio. Centrale è il momento teatrale della messa in scena, che si
manifesta nella continua trasformazione, nello scambio dei ruoli
attuato dal soggetto poetico che è il poeta, Dioniso, Arianna e
anche Nietzsche21. Nei Ditirambi, difatti, Nietzsche introduce
quelle che Andreas Urs Sommer ha deinito proiezioni igurative
che fungono allo stesso tempo da modelli di identiicazione e da
mezzi di estraniamento. Una di queste è Dioniso, un’altra è Za-

19 Ibid.
20 «ein müdes Räthsel» (DD, KSA 6, p. 392; Vol. VI, Tomo IV, p. 37). Sulla presenza
di interrogativi ed enigmi in questa poesia si veda R. Schottky, Nietzsches Dithyrambus
„Zwischen Raubvögeln“, in «Nietzsche-Studien», 22 (1993), pp. 1-27, qui p. 10. Schottky
sottolinea come l’incombente distruzione sia in realtà un processo autodistruttivo, e
come il processo del conoscere sia in realtà un’attività distruttiva, perché conoscere si-
gniica disilludere. In riferimento allo stile Schottky parla di «volontà di stile» che mira
ad una estrema forza espressiva, ad una sopraffazione del lettore e dell’ascoltatore, per
trascinarlo con tutti i mezzi possibili nell’interiorità e nel dolore.
21 Cfr. Lamento di Arianna e Soltanto giullare! Soltanto poeta!
232 Chiara Conterno

rathustra, che, in linea con Dioniso, dio della danza per i Greci,
viene rappresentato come danzante. Nei Ditirambi di Dioniso,
quindi, il soggetto poetico, presentato in divenire e sciolto dai
contesti abituali, si nomina a centro del discorso innico che egli
stesso pone e in cui poi, però, si dissolve22.
Questa rivoluzione interessa anche le forme espressive dell’in-
no. Come accennato sopra, lo stile dei Ditirambi porta alla luce
la preferenza di Nietzsche per un linguaggio in rilievo, talvolta
estremamente elevato, aspetto reso dalle igure retoriche: ripeti-
zioni, ampliicazioni, climax, variazioni, allitterazioni, anacoluti,
ellissi, effetti eco, pause piene di pathos, ampliicazioni, anadi-
plosi, igure etimologiche, catacresi, assonanze, associazioni, pa-
radossi e ossimori. Si può parlare di una «iper-retoricità»23 che,
però, non è ine a se stessa, ma mira a rappresentare e parodiare,
mascherare e smascherare. L’effetto è, di nuovo, quello di un
gioco di ruoli teatrali. Si pensi all’impostazione dialogica di Sol-
tanto giullare! Soltanto poeta!, o all’autocommento in Gloria ed
eternità, che comporta il ricorso agli elementi dell’inno, e la presa
di distanza da essi:

Silenzio! –
Di grandi cose – grande è ciò che io vedo! –
tacere bisogna
o parlar con grandezza!
parla con grandezza, mia estatica sapienza!
(DD, KSA 6, p. 404; Vol. VI, Tomo IV, p. 59)

Come il soggetto poetico continua a trasformarsi e si cala in


altri ruoli, così anche il discorso innico è una messa in scena che,
tuttavia, non si irrigidisce in vuota retorica e vuoto pathos. La
forma rispecchia il contenuto, anzi ne viene determinata, perché
il centro che potrebbe dare unità al testo è instabile o forse è
addirittura andato perduto. Le possibilità del verso sono stret-
tamente collegate alla capacità e alla disposizione espressiva del
22 N. Gabriel, Studien zur Geschichte der deutschen Hymne, cit., p. 211.
23 A. U. Sommer, Kommentar, cit., p. 656.
Nietzsche e la tradizione dell’inno 233

soggetto. Parallelamente alla dissoluzione di quest’ultimo, nel


linguaggio estatico del ditirambo si constata la dissoluzione di
categorie formali convenzionali. Quello che resta e si impone è il
linguaggio ritmico, un «suono dionisiaco vitale e profondo», che
Nietzsche riscopre nei primordi della cultura greca e mette in
campo contro la seduzione decadente della sua epoca24.
Attraverso le continue dissoluzioni, trasformazioni e messe in
scena rese in questo linguaggio patetico e ritmico, i Ditirambi di
Dioniso acquisiscono un carattere gestuale e performativo. Nel
suo commento, Kommerell porta alla luce le innovazioni appor-
tate da Nietzsche alla tradizione dell’inno proprio in riferimento
al sistema dei gesti.

2. «Geste» e «Gebärde»

In Vom Wesen des lyrischen Gedichts25 («Sull’essenza della po-


esia lirica») Kommerell parla delle due forze insite nel linguaggio
lirico: l’una, «das begrifliche Bezeichnen», il designare concet-
tuale, è inalizzata alla comunicazione, mentre l’altra forza agente
nelle parole è connaturata all’espressione e alla gestualità e ne
incrementa il potenziale semantico26. La componente gestuale,
centrale per il linguaggio lirico, è, secondo Kommerell, inestri-
cabilmente legata alla «Betroffenheit», il coinvolgimento dell’a-
nimo, sensazione che precede qualsiasi comunicazione27. Nelle
parole è presente un quid con cui l’uomo risponde a qualcosa
che lo riguarda, una disposizione dell’anima interessata. Tale
determinazione, spesso repressa, del linguaggio di essere gesto

24 W. Busch, La ‘musica ditirambica’ e le trasformazioni dell’ecfrasi musicale nello

Zarathustra di Friedrich Nietzsche, in R. Calzoni, M. Sirtori (a cura di), Ecfrasi musicali:


parola e suono nel Romanticismo europeo, Bergamo 2013, pp. 79-98, qui p. 80.
25 Su questo saggio si veda M. Weichelt, Gedicht, Symbol und Augenblick. Zu Max

Kommerells lyriktheoretischen Überlegungen, in W. Busch, G. Pickerodt (a cura di), Max


Kommerell, cit., pp. 162-193.
26 M. Kommerell, Vom Wesen des lyrischen Gedichts, in M. Kommerell, Gedanken

über Gedichte, cit., pp. 34 ss.


27 Ivi, p. 38.
234 Chiara Conterno

e di esprimere il coinvolgimento dell’animo, rimanda all’origine


del linguaggio stesso28. È la memoria mimica dell’atto creativo
che ha strappato le parole all’indicibile29. Nell’ottica di Kom-
merell, quindi, la lingua è originariamente un gesto e la lingua
della poesia è un parlare originario, primo30, un atto e non uno
stato. I mezzi che cooperano a rendere visibile tale fenomeno
sono vari, in particolare il tono e il movimento ritmico. È soprat-
tutto quest’ultimo a ridonare vitalità e movimento alla lingua. Vi
si aggiungono poi la costruzione delle frasi, che non rappresen-
ta tanto i riferimenti concettuali, ma è piuttosto determinata da
partecipazione e tensione emotiva, e le scelte lessicali. Insieme,
frase, parola e suono, ridonano alla lingua il potere espressivo dei
gesti, la rendono una risposta ad un coinvolgimento. Pertanto i
gesti linguistici caratterizzano un parlare che supera i conini di
corpo e linguaggio e coinvolge la persona intera, gestualità che si
esplica in movimenti linguistici carichi di pathos, il cui contenuto
espressivo supera quello semantico31.
Deve essere chiaro che Kommerell nella Gebärde non vede un
mezzo d’espressione spontaneo, bensì un concetto «operativo»
e problematico, che diventa «un momento produttivo nel pro-
cesso di trasformazione e dissoluzione della forma»32. Centrale
è la questione dei gesti espressivi creatori della poesia, che nel
parlare mimico si possono liberare dalla referenza a forme di vita
garantite simbolicamente e collettivamente per generare manife-

28 Ivi, p. 37.
29 I. Schiffermüller, Gebärde, Gestikulation und Mimus, cit., p. 102.
30 «ein erstes Sprächen», cfr. M. Kommerell, Vom Wesen des lyrischen Gedichts, cit.,
p. 38.
31 Cfr. G. Pickerodt, „Gebärdensprache, Sprachgebärde, musikalische Gebärde in der
Oper Elektra (Strauss-Hofmannsthal)“, in I. Schiffermüller (a cura di), Geste und Gebär-
de. Beiträge zu Text und Kultur der Klassischen Moderne, Bozen 2001, pp. 135-157, qui
p. 137. Sul signiicato del gesto per Kommerell si veda inoltre W. Busch, Zum Konzept
der Sprachgebärde im Werk Max Kommerells, in I. Schiffermüller (a cura di), Geste und
Gebärde, cit., pp. 103-134. Sul concetto di «Sprachgebärde», soprattutto in relazione
al sé, rilette anche U. Port in Die »Sprachgebärde« und der »Umgang mit sich selbst«.
Literatur als Lebenskunst bei Max Kommerell, in W. Busch, G. Pickerodt (a cura di), Max
Kommerell, cit., pp. 74-97.
32 I. Schiffermüller, Gebärde, Gestikulation und Mimus, cit., p. 102.
Nietzsche e la tradizione dell’inno 235

stazioni gestuali proprie33. In particolare, la perdita di forme di


vita simboliche e condivise veicola possibilità e pericoli connessi
ad un abbozzo gestuale del sé.
Le rilessioni sul gesto, esposte in Vom Wesen des lyrischen
Gedichts, forniscono le premesse per cogliere il signiicato pro-
fondo della lettura che Kommerell offre dei Ditirambi di Dioniso.
Da questa prospettiva, difatti, si evince la consapevolezza della
duplicità del gesto nei ditirambi di Nietzsche, gesto che è con-
temporaneamente volontà di espressione e mistero insondabile.
Nella tensione polare tra dissoluzione e creazione gestuale del
sé, che con Nietzsche assume un signiicato centrale, si dipanano
crisi e problematicità del gesto nel modernismo.

3. Kommerell sui Ditirambi di Dioniso

Kommerell apre il commento ai Ditirambi di Dioniso ponen-


do alcune questioni. Innanzitutto chiede in che senso Nietzsche
componga i suoi versi e cosa rapporti la sua poesia al dio di cui si
era occupato così intensamente dal punto di vista ilosoico ino a
ergersi a interprete del suo ruolo. Si sente qui forse un Nietzsche
«dalla volontà sospesa che, nella parola o nel canto, dà espressio-
ne al suo stato e si lascia andare poeticamente?»34 A Kommerell
interessa poi la questione del rapporto tra concezione poetica e
consapevolezza ilosoica, e chiede: «c’è per le nuove altitudini
della coscienza […] ancora un’espressione del sentimento, per
così dire la tonalità emotiva adeguata per un pensiero ilosoico
fondamentale?»35 Agli interrogativi sulla qualità poetica dei Diti-
rambi, Kommerell risponde con un deciso «sì», in quanto ritiene
che Nietzsche fosse «sincero abbastanza per non limitarsi a co-
mandare se stesso, ma, sciolto dalla volontà, anche ascoltare nella
profondità di se stesso». A lui, «che vedeva ogni ilosoia come
conseguenza del grado di crescita dell’anima, non poteva essere
33 Ivi, pp. 102 s.
34 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 100.
35 Ibid.
236 Chiara Conterno

indifferente la condizione dell’anima della propria ilosoia»36.


Kommerell ritiene che con i mezzi espressivi adottati nei ditiram-
bi Nietzsche rasenti la parodia37 e che essi presuppongano uno
spettatore, il quale tuttavia vivrebbe in unione personale con il
ruolo.
Nei Ditirambi si riconoscerebbe Nietzsche stesso, in quan-
to essi «sono caricatura, non sono ormai che caricatura del suo
stato»38. Ecco farsi strada la lettura «teatrale», «performativa»
dei testi, lettura che viene avvalorata anche sul piano lessicale
dall’insistenza di lemmi riconducibili al medesimo ambito (re-
cita, dramma, ruolo, mimo etc.). Ne risulta una nuova forma
di inno che si avvicina alla rappresentazione scenica, un inno
estremamente performativo, in cui la voce è strettamente corre-
lata al corpo di chi la emette, anzi, talvolta i movimenti e i gesti
sono in grado di trasmettere più messaggi di quanti ne veico-
li il linguaggio. In questo senso Kommerell parla dell’esistenza
mimico-gestuale del pensatore solitario e rimanda alla doppiezza
del processo – o tentativo? – di conoscenza del sé che Nietzsche
mette in scena nei ditirambi. Da un lato il desiderio di abbozzo,
creazione, osservazione, smascheramento del soggetto, dall’al-
tro il «mistero muto dell’io sofferente che prende la parola solo
come oggetto e rimane per se stesso un enigma»39. Questo dop-
pio aspetto del pensiero crea, secondo Kommerell, la singolare
atmosfera del «soliloquio» di Nietzsche40, che, in realtà, non è un
vero soliloquio, in quanto il soggetto si scompone in una plurali-
tà di voci che interagiscono tra loro e presuppongono un ascolta-
tore/spettatore a cui inequivocabilmente si rivolgono41.

36 Ibid.
37 Sulla parodia cfr. I. Schiffermüller, Die Lieder des alten Zauberers. Zu Nietzsches
Selbstparodie im Zarathustra, in G. Pelloni, I. Schiffermüller (a cura di), Pathos, Parodie,
Kryptomnesie. Gedächtnis der Literatur in Nietzsches Also sprach Zarathustra, Heidelberg
2015, pp. 67-96, qui p. 69.
38 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 101.
39 Cfr. I. Schiffermüller, Gebärde, Gestikulation und Mimus, cit., p. 113.
40 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 101.
41 Su questo aspetto si veda anche E. Schilling, Literatur und Philosophie in Nietzsches

Dionysos-Dithyramben, in S. Hüsch, S. Singh (a cura di), Literatur als philosophisches


Nietzsche e la tradizione dell’inno 237

Il concetto di mimo a cui Kommerell ricorre per deini-


re i gesti di corpo e linguaggio viene poi declinato in «mimo
trascendentale»42, di cui Nietzsche sarebbe l’inventore, e usato
in riferimento ad un nuovo genere di espressione – acquisito già
nello Zarathustra – che deriva dalla disposizione interna della i-
losoia di Nietzsche e che nei Ditirambi viene portato alle estre-
me conseguenze. Nei ritmi liberi nietzscheani, difatti, avviene
una tale dispersione dell’io ilosoico che il concetto di sogget-
to pensante si mostra quasi del tutto insuficiente. Con «mimo
trascendentale» si intende la rappresentazione di una situazione
ilosoica in un gioco «mimico-declamatorio», in cui l’io si scinde
nell’esistenza plurale di diversi ruoli che si manifestano in «gesti-
colazione violenta e deformante»43. È una storia mimico-teatrale
dell’animo umano che non può più essere espressa con concetti
tradizionali. Il segreto di tale trasformazione in puro gesto e puro
segno è stato deinito da Walter Busch con l’espressione di «de-
sustanziazione dell’io»44. Il mimo del pensatore deriva dalla crisi
della rilessione; nella performance gestuale non si afferma più
la libertà della consapevolezza, ma vengono messi in scena in-
coscienza e sofferenza, voluttà e tormento del pensiero, nonché
l’autodistruzione dell’esistenza ilosoica.
Alla luce di queste considerazioni che ne è allora della tradi-
zione dell’inno che Kommerell cerca di tracciare? Che ne è dei
due principali attori della lirica innica tradizionale, ossia Dio e
l’uomo che lo invoca? Il primo era già stato sostituito dal «dio
dei poeti», il dio evocato nei momenti di massimo entusiasmo
e consapevolezza poetica. Il secondo, protagonista della desu-
stanziazione, non appare più come uno stabile punto di riferi-
mento, bensì si dissolve nel suo camaleontico e incessante dive-
nire. Restano gesti e voci; voci accompagnate dai gesti; voci che
esprimono e descrivono gesti. Il gesto, quindi, è un momento

Erkenntnismodell. Literarisch-philosophische Diskurse in Deutschland und Frankreich,


Tübingen 2016, pp. 194-205, qui p. 202.
42 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 101.
43 Ivi, p. 100.
44 W. Busch, Zum Konzept der Sprachgebärde im Werk Max Kommerells, cit., p. 125.
238 Chiara Conterno

produttivo sia nei processi di trasformazione e dissoluzione della


forma, sia in quelli che coinvolgono l’io. La novità sostanziale
dell’approccio di Kommerell sta nel fatto che nei ritmi liberi non
si scorge più una chiara distinzione tra polo umano e polo divino,
perché entrambi vengono tramutati in gesti nudi che appianano
le differenze originarie. A centro sacro del discorso, grazie – que-
sta volta – a una transustanziazione sui generis, si eleva la poesia
stessa, unico nucleo capace di racchiudere in sé metamorfosi e
contraddizioni divine e umane. Nel lusso costante e travolgente
quello che si impone è la somma di immagini gestuali e sonore,
raccolte nel testo poetico. Dall’unione sinestetica di questi cam-
pi di forze sensoriali instabili e inafferrabili si costituisce l’inno
performativo di Nietzsche che testimonia la crisi del linguaggio
tradizionale. Tuttavia, tale crisi viene superata dalla poesia diti-
rambica stessa, che non è solo «una forma di espressione», ma
anche un «organo» di creazione e «costruzione»45: gli elementi
gestuali – su cui Kommerell pone l’accento – completano la co-
municazione linguistica dei Ditirambi di Dioniso, comunicando
ciò che verbalmente resterebbe inesprimibile. Anche in questo
senso, il gesto si rivela uno strumento operativo: proprio men-
tre denuncia la precarietà del linguaggio moderno, la supera in
quanto offre una soluzione alternativa e percorribile.
A questo processo contribuisce la tipologia di verso a cui ri-
corre Nietzsche: i ritmi liberi diventano, a loro volta, una for-
ma di espressione linguistico-gestuale. Dal sistema proposto da
Kommerell si deduce – in linea con quanto afferma Pickerodt –
che le possibilità del verso sono strettamente legate all’esistenza
di una soggettività in grado di esprimersi gestualmente. Anzi, vi
è un chiaro parallelismo tra la scomparsa del verso tradizionale,
regolato da norme isse, e la dissoluzione del soggetto nell’estasi
45 W. Busch, I linguaggi dell’inconscio collettivo, cit., p. 207. Walter Busch scrive

inoltre: «I ditirambi sono percorsi verso l’anima, ma non sono, come è stato osservato,
vie tracciate con violenza. In questi giochi linguistici pressoché alchemici, la parodia, la
maschera, il riso e la serenità alcionica giocano un ruolo essenziale. Alla negatività non si
nega l’accesso nella struttura formale, tuttavia il gesto complessivo è quello dell’afferma-
zione integrale. I canti e i ditirambi non rappresentano l’autore, non sono manifestazione
del suo essere, bensì tracce di una ricerca del sé» (p. 209).
Nietzsche e la tradizione dell’inno 239

del ditirambo. Il soggetto non solo si esprime nei gesti linguistici


della poesia, ma diventa linguaggio gestuale che luisce nel ritmo
dei versi46.
Il commento di Kommerell ai singoli Ditirambi, che, in realtà,
si sofferma soprattutto sul Lamento di Arianna e accenna breve-
mente agli altri testi, parte dai diversi «autoannientamenti»47 del
pensatore che mette in opera la tragedia della conoscenza48. Essi
non riguardano solo la decostruzione della differenza tra verità
e menzogna, e con questo la consapevolezza che il pensatore è
«Soltanto giullare! Soltanto poeta!», o l’insolubile coinvolgimen-
to di conosciuto e conoscente che rende il conoscitore carneice
di se stesso (DD, KSA 6, p. 392; Vol. VI, Tomo IV, p. 36).
Nel secondo ditirambo il pensatore che si nasconde nel de-
serto si accomoda su una nuova costa africana che emerge dalla
«mimica parodia del pathos della vecchia Europa»49. Le iglie del
deserto si conigurano nell’interazione di canti, gesti e allusioni.
Non hanno voce propria, non sono che superici, miraggi nel de-
serto che assurgono a luoghi d’immaginazione igurale. Il mimo
qui presentato serve per divertire e distrarre il pensatore. Alla
base di questo piacere del pensatore – una forma complessa di
autoannientamento – Kommerell vede uno sforzo conoscitivo,
da cui deriva l’effetto del pezzo: «Quando l’indovino universale
inine ha inghiottito il mondo e se stesso, non può lamentarsi che
intorno a lui sia deserto; giacché egli stesso è il deserto che lo
mastica»50.
Nel Lamento di Arianna, che è lamento e inno al contempo,
«la tragedia ilosoica si fa totale»51, in quanto l’esistenza ilo-

46 G. Pickerodt, Kommerells Philosophie des Verses, cit., p. 205.


47 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 102.
48 Ivi, p. 101.
49 Ivi, p. 102.
50 Ibid. Su questo ditirambo si veda E. Meuthen, Vom Zerreißen der Larve und des

Herzens, cit., pp. 180-185. Scopo di questo testo è, secondo Meuthen, provocare nel
lettore uno «strappo», una «lacerazione». Soggetto e oggetto sono interscambiabili. La
morte strappa la vita e viceversa. Per questi motivi non sono più possibili canti melodici,
bensì fragore e urla.
51 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 104.
240 Chiara Conterno

soica viene commiserata come fato autodistruttivo. Questo te-


sto presenta pena e piacere del conoscere come dramma tra un
dio spettatore, che gode nel vedere tormentata la sua vittima, e
questa vittima, che soffre serena e «muore costantemente senza
che mai le sia concesso morire». La relazione amorosa posta tra
lo spettatore e la vittima è nel senso di Nietzsche una «guerra
implacabile e tuttavia assentita». Da un lato Arianna chiede la
morte, dall’altro il dio vuole sempre «da capo» ucciderla52. La
tragedia della conoscenza si ripete nella violazione del segreto
– completando la parabola erotica – e nello stare a guardare se
stessi, andando contro ogni forma di pudore. Tra i due viene
eretta la legge dell’uguaglianza: il dio non vuole nulla dalla vit-
tima, se non Arianna stessa; ella non si arrende e pretende che
sia il dio a cedere. Se così fosse, il dio uscirebbe dalla sua in-
spiegabilità e l’uno dovrebbe svelare all’altra – e viceversa – il
mistero della propria esistenza53. Questo comporterebbe la ine
della dialettica che regge i processi del ilosofare, cosa impensa-
bile e impossibile. In questo ditirambo, difatti, si coglie appieno
il superamento produttivo del conine tra letteratura e ilosoia.
In questo senso, proprio perché la ine della lotta non è con-
templata né contemplabile, Arianna «rimpiange il dio che non
sopporta»54.
L’interpretazione di questo ditirambo completa quanto detto
per il ciclo nel suo complesso55. Dioniso e Arianna, il divino e

52 Ibid. Secondo Bianca Theisen, il lamento diventa ditirambo proprio quando


Arianna invita il Dio a tornare con tutti i suoi tormenti. Cfr. B. Theisen, Die Gewalt des
Notwendigen. Überlegungen zu Nietzsches Dionysos-Dithyrambus „Klage der Ariadne“, in
«Nietzsche-Studien», 20 (1991), pp. 186-209, qui p. 196.
53 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 104.
54 Ivi, p. 105.
55 Sul Lamento di Arianna vi è una ricca letteratura. Si veda W. Groddeck, Friedrich

Nietzsche – ‚Dionysos-Dithyramben‘, cit., Vol. 2, pp. 176-213. Cfr. inoltre: J. Salaquarda,


Noch einmal Ariadne. Die Rolle Cosima Wagners in Nietzsches literarischem Rollenspiel,
in «Nietzsche-Studien», 25 (1996), pp. 99-125; E. Meuthen, Vom Zerreißen der Larve und
des Herzens, cit., pp. 173-180; A. U. Sommer, Kommentar zu Nietzsches Der Antichrist,
cit., pp. 684-689. Nel suo studio I. Schiffermüller sottolinea la polivalenza di questo di-
tirambo, da autoparodia e tremendo travestimento, passando per l’isteria, ino alla lotta
sadomasochistica per il riconoscimento che si svolge nella sfera del dolore e della pas-
Nietzsche e la tradizione dell’inno 241

l’umano, rappresentano i due poli opposti dell’inno che attraver-


so le continue trasformazioni si avvicinano ino a fondersi – sim-
bolicamente nell’atto erotico – per poi allontanarsi nuovamente
e seguire percorsi autonomi. In questo processo convergente e
divergente, distruttivo e affermativo al tempo stesso, vige la leg-
ge della contraddizione, elemento necessario per conservare la
tensione insita nel genere dell’inno. Non si arriverà mai ad una
sintesi degli opposti; tuttavia, questo processo incessante si lascia
cogliere in tutta la sua intrinseca e polivalente completezza nelle
epifanie poetiche suggerite dai versi.
All’adempimento del fato, in Il sole declina, segue il «poter-es-
sere-stanco»56, un sentimento dolce e liberatorio. Se da un lato,
solo ora è possibile la felicità, dall’altro subentra una nuova soli-
tudine: il godimento della morte da parte di colui che progettò la
propria esistenza oltre la propria natura57.
Nel pensiero di Nietzsche, quindi, Kommerell vede la mime-
tizzazione sconinata dello spirito sciolto, un momento di tra-
sformazione, affermazione e appropriamento che non è limitato
da autodeterminazioni e credenze, ma che è mediato da rappre-
sentazioni (acustiche e visive) messe in scena58. In quest’ottica il
linguaggio poetico può crescere solo attraverso il diretto agire
sul potenziale gestuale, per mezzo del quale il gesto diventa ge-
sticolazione. Alla gesticolazione si unisce la maschera, come se il
gesto, senza smettere di essere gesto, diventasse maschera dello
strumento di forze ctonie e anonime. Ancora una volta non si

sione. Cfr. I. Schiffermüller, Die Lieder des alten Zauberers, cit., p. 79. W. Busch parla di
«impulsi distruttivi e autodistruttivi, un’orgia del dire-io» e della rappresentazione ovve-
ro messa in scena di «una disperazione divina». Cfr. W. Busch, I linguaggi dell’inconscio
collettivo, cit., p. 209. Michael Skowron, invece, si concentra sulla struttura compositiva e
narrativa dei ditirambi e sostiene che non possano essere intrepretati indipendentemente
dal ciclo di cui fanno parte. M. Skowron, Dionysische Perspektiven. Eine philosophische
Interpretation der Dionysos-Dithyramben, in «Nietzsche-Studien», 36 (2007), pp. 296-
315. Skowron critica l’approccio di Philip Grundlehner che interpreta i singoli ditirambi
indipendentemente dal contesto ciclico complessivo. Cfr. P. Grundlehner, The Poetry of
Friedrich Nietzsche, New York 1986, pp. 184-299.
56 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 105.
57 Ibid.
58 I. Schiffermuller, Gebärde, Gestikulation und Mimus, cit., p. 115.
242 Chiara Conterno

tratta di manifestazioni casuali e spontanee, bensì di fenomeni


riconducibili al concetto operativo e problematico di cui sopra.
Gesticolazione sconinata e mistero dell’io: entrambi sono messi
in scena dal mimo trascendentale di Nietzsche, abbozzo teatrale
di un soggetto ilosoico solitario che gesticola sé e il mondo in
una pluralità di maschere e ruoli. È il gesto ad acquisire così lo
stato assoluto di destino:

In luogo dei destini che capitano, ormai solo pensieri che si fanno
destini e suscitano come correlato un’esistenza multipla; e inine una
volontà che, mascherata da autointerpretazione, impone un esser-così
e produce per via di ciò un’autodifferenziazione come sentimento della
vita, il cui dolore è la profonda contraddizione fra natura e autointer-
pretazione59.

Se da un lato la ricchezza delle forme espressive gestuali della


modernità sono segno della crisi della forma estetica, dall’altro
rappresentano un nuovo potenziale, che deriva dalla messa in
scena dell’indicibile tramite la pantomima e il mistero. Nell’at-
lante dei gesti della modernità Nietzsche segna l’apice, il pun-
to inale. Alla desustanziazione del soggetto pensante Nietzsche
contrappone la transustanziazione sui generis dell’inno che da
questo momento in poi si emancipa dalla tradizione60. Scardi-
nati i riferimenti consolidati, ma costringenti, il nuovo inno è in
grado di ospitare l’umano e il divino nella loro insita e produttiva
contraddittorietà. Se da un lato gli strumenti innovativi con cui
è resa tale contraddittorietà trasmettono la crisi del linguaggio,
dall’altro la superano imponendosi sul caos del divenire.

59 M. Kommerell, La poesia in ritmi liberi e il dio dei poeti, cit., p. 101.


60 Ricorro all’espressione «transustanziazione sui generis» perché da un lato nei Di-
tirambi di Dioniso l’inno diventa centro sacro del discorso poetico – nel senso di uni-
co nucleo capace di racchiudere in sé metamorfosi e contraddizioni divine e umane –,
dall’altro lato, invece, i Ditirambi contribuiscono in maniera decisiva alla secolarizzazione
delle forme e del linguaggio religiosi. Per un’idea del processo di secolarizzazione di testi
di origine religiosa (in particolare dei salmi) si veda C. Conterno, Die andere Tradition.
Psalm-Gedichte im 20. Jahrhundert, Göttingen 2014.
Mythos und Poetik bei Nietzsche
und Pavese
Isabella Ferron

1. Einleitung

Die zahlreichen wissenschaftlichen Studien, die bislang die


Beziehung zwischen Nietzsche und Pavese untersucht haben,
konzentrierten sich zumeist auf die Parallelen im Charakter und
im Leben der beiden Denker1. In diesem Beitrag wird dagegen
der Versuch unternommen, zu verstehen, wie Nietzsches Den-
ken auf Paveses Poetik gewirkt hat, insbesondere in Bezug auf
die Idee des Mythos, die sein ganzes Werk durchdringt. 1998
behauptete der Italianist Giuseppe Bomprezzi, dass Pavese im
Universum der italienischen Literatur eine Aufgabe übernom-
men habe, die Nietzsche in seiner Kulturtheorie formuliert hatte:
es gelte den dionysischen Mythos der Existenz zu verkünden2.
Cesare Pavese (1908-1950) ist eine besondere, singuläre Fi-
gur im literarischen Panorama Italiens der Zwischen- und Nach-
kriegszeit, da er einen eigenen Schreibstil entwickelte, der oft
verkürzt als realistisch bezeichnet wurde, da er zeitgenössische
kulturelle Strömungen, wie den Hermetismus, stark kritisierte.
Pavese steht jedoch seinen italienischen Zeitgenossen gleicher-
maßen in Hinblick auf Inhalt, Sprache und dichterische Mittel
1 Vgl. F. Pajak, L’immense solitude avec Friedrich Nietzsche et Cesare Pavese, orphe-

lins sous le ciel de Turin, Paris 1999; L. Mondo, Pavese lettore di Nietzsche, in M. Cam-
panello (Hg.), Cesare Pavese, Atti del convegno internazionale di studi (Santo Stefano
Belbo, 24-27 ottobre 2001), Firenze 2005, S. 13-18; F. Belviso, “Amor Fati”. Pavese
all’ombra di Nietzsche. La volontà di potenza nella traduzione di Cesare Pavese, Torino
2015.
2 G. Bomprezzi, Pavese lettore di Nietzsche, in «Thot. Quaderni della Biblioteca

“Massimo Ferretti”», I (1998), S. 33-41, hier S. 34 f.


244 Isabella Ferron

fern. Seine Gedichte sind frei von traditionellen lyrischen Struk-


turen – regelmäßigem Metrum, Reim, Assonanz und Strophen-
bau −, streben aber ebenso wenig die extreme Form des freien
Verses an. Selbst die Metapher im engeren Sinne gebraucht Pa-
vese kaum, nur der Rhythmus regelt die Verse seiner von ihm
so genannten «Bild-» oder «Gedicht-Erzählungen»3. Im Essay Il
mestiere di poeta («Das Handwerk des Dichters», Nachwort zu
Lavorare stanca / «Arbeiten macht müde», 1936) betont Pavese
den narrativen Charakter dieser Verse und hebt hervor, dass er
eine objektive, antirhetorische, stilistisch nüchterne Dichtung
im Sinn habe4. Er entwickelt einen eigentümlichen Schreibstil,
der an der Schnittstelle zwischen erlebter Rede und innerem
Monolog zu changieren scheint. Von der erlebten Rede über-
nimmt Pavese den Perspektivismus, aber nicht das Tempus Im-
perfekt; vom inneren Monolog das Tempus Präsens, aber nicht
die erste Person. Paveses Dichten ist also zunächst ein Versuch,
die traditionellen Formprinzipien der italienischen Lyrik durch
Formen zu ersetzen, die dem neuen Ideal eines realistischen
Erzählgedichts verplichtet sind: Durch eine innere, gedanklich
aus einem bestimmten Muster von bedeutungstragenden Wör-
tern oder Satzgliedern erzeugte Denkstruktur sowie durch eine
äußere sinnliche Komposition vermochte es Pavese, eine völlig
neuartige Dichtung zu entwerfen5. Auf der Suche nach einer ei-
genen Poetik stößt er auf das Denken Nietzsches, das ihn stark
fasziniert. Während seiner Jugend nähert sich Pavese dem Den-
ken Nietzsches durch Gabriele D’Annunzio, dessen Kritik an
der geistigen Schwäche seines Jahrhunderts ihn begeistert. Pa-
3 E. Martínez Garrido, La forza visiva nell’opera di Cesare Pavese: fra scrittura e

immagine, in «Cuadernos de Filologia Italiana», n° extraordinario, Madrid 2011, S. 233-


253.
4 C. Pavese, Il mestiere di vivere (Das Handwerk des Lebens. Tagebuch 1935-50,

Düsseldorf 1988), Einleitung von C. Cases, Torino (1. Aul. 1952) 2000, S. XXIII. Die
Verfasserin hat sowohl den Originaltext als auch die deutsche Übersetzung verwendet,
wenn sie vorhanden ist. Im Fall der Werke Il mestiere di vivere (Das Handwerk des Le-
bens) und Dialoghi con Leucò (Gespräche mit Leuko) hat sich die Verfasserin jedoch
entschieden, die Stellen selbst zu übertragen, um den Sinn des italienischen Textes am
nächsten zu bleiben.
5 C. Pavese, Le poesie, Torino 1998, S. 99, 108 ff.
Mythos und Poetik 245

vese fühlt, eine besondere Mission im Gebiet der Literatur zu


haben, wie er in einem Tagebucheintrag vom 22. Oktober 1940
behauptet:

Un signiicato della mia presenza in questo secolo potrebbe esse-


re la missione di sfatare il leopardiano-nietzscheano mito che la vita
attiva sia superiore a quella contemplativa. Dimostrare che la dignità
del grand’uomo consiste nel non consentire al lavoro, alla socialità, al
bourrage. […] non dimenticare che si conta per ciò che si è e non per
ciò che si fa6.

In den letzten Zeilen dieses Zitats kann man einen Verweis


auf Ecce Homo erkennen. Dabei ist zu sehen, dass es bei Pavese
nicht um eine bloße Reproduktion von Nietzsches Gedanken
geht, sondern um eine tiefverwurzelte, grundsätzliche Auseinan-
dersetzung mit ihnen.

2. Nietzsches Spuren in Paveses Werk

Der Name Nietzsches taucht bei Pavese nicht so häuig auf,


als man denken könnte: In seinem Tagebuch Das Handwerk des
Lebens (1952) wird er nur dreimal erwähnt und in seinem Tac-
cuino Segreto («Geheimes Notizbuch»), dem Tagebuch, das erst
40 Jahre nach seinem Tod publiziert wurde, nur zweimal7. Auch
wenn der Name Nietzsche bei Pavese so selten genannt wird,
gibt es Gründe, davon auszugehen, dass Pavese schon in seiner
6 C. Pavese, Il mestiere di vivere, zit., S. 207 («Eine Bedeutung meiner Anwesenheit in

diesem Jahrhundert könnte die Mission sein, mit dem leopardianisch-nietzscheanischen


Mythos aufzuräumen, dass das tätige Leben dem kontemplativen gegenüber höher ge-
stellt sei. Darzulegen, dass die Würde des großen Menschen darin besteht, der Arbeit,
der Geselligkeit, der bourrage nicht zuzustimmen. […] nicht zu vergessen, dass man für
das zählt, was man ist und nicht für das, was man macht». [Deutsche Übersetzung von
der Verfasserin]).
7 Vgl. F. Curi, Il mito prima del mito. Sulla poesia di Cesare Pavese, in «Cuadernos

de Filologia Italiana», n° extraordinario, Madrid 2011, S. 131-144, hier S. 137; G. Barberi


Squarotti, L’Eroe della tragedia e il “Diario”, in «Cuadernos de Filologia Italiana», n°
extraordinario, Madrid 2011, S. 33-48.
246 Isabella Ferron

Jugend das ganze Werk Nietzsches gelesen hat. Zudem befasste


er sich als Lektor beim Verlag Einaudi eingehend mit Nietzsches
Schriften und er übersetzte sie zum Teil auch. Paveses Nietz-
sche-Rezeption kann – so die vorliegende These – in drei Phasen
aufgegliedert werden:
1. Die erste Phase fällt in die Jahre 1935/36: In dieser Zeit,
in der Pavese wegen seiner vermutlichen Stellungnahme gegen
des Faschismus nach Brancaleone Calabro verbannt wurde, liest
er das Gesamtwerk Nietzsches. Ein Zeugnis dafür ist der Brief
an seine Schwester Maria vom 12. November 1935, in dem er
sie darum bittet, ihm alle Schriften Nietzsches außer dem Zara-
thustra zu senden (und das vermutlich, weil er Zarathustra schon
gelesen hatte)8. In dieser Phase umreißt Pavese erstmals seinen
poetischen Kosmos, man denke nur die Gedichtsammlung La-
vorare stanca («Arbeiten macht müde»): Wie das erste Gedicht
der Sammlung, I mari del Sud («Die südlichen Meere»), zeigt,
sind seine Hauptthemen die Spannung zwischen Nähe und Fer-
ne, der Drang hinaus in die Welt, das Verlangen nach Weite und
Freiheit, das aber zugleich Einsamkeit bringt, sowie die Suche
nach dem eigenen Ursprung, nach den prägenden Kindheitser-
lebnissen. In dieser Sammlung spricht kaum ein lyrisches Ich,
sondern die Gedichte oder die Prosawerke werden jeweils in der
dritten Person artikuliert. Die erzählenden Gedichte von Lavora-
re stanca («Arbeiten macht müde») enthalten schon den größten
Teil aller in den späteren Erzählungen und Romanen ausgearbei-
teten Motive. In dieser Phase fühlt sich der junge Pavese von der
Last der faschistischen Kulturpolitik erdrückt und sieht nur in
einer «barbarischen» wilden Umgebung einen Ausweg aus dem
Konformismus nationaler Begrenzung und Beschränktheit9.
8 C. Pavese, Lettere 1924-1944, hg. von L. Mondo, Torino 1966, S. 489. Vgl. dazu A.
M. Mutterle, L’immagine arguta: lingua, stile, retorica di Pavese, Torino 1977, S. 37 ff.; N.
Tranfaglia, Pavese e l’Italia degli Anni Quaranta, in M. Campanello (Hg.), Cesare Pavese,
zit., S. 137-143.
9 Vgl. M. Masoero (Hg.), Il quaderno del conino, Alessandria 2010; F. Lanza, Espe-

rienza letteraria e umana di Cesare Pavese, Modena 1990; G. Carteri, Al conino del mito
(Cesare Pavese e la Calabria), Soveria Mannelli 1991; E. Catalano, Cesare Pavese tra poli-
tica e ideologia, Bari 1976.
Mythos und Poetik 247

2. Die zweite Phase liegt in den Jahren 1942/43, als sich Pa-
vese, der gerade Lektor und Übersetzer bei Einaudi geworden
ist, der Übersetzung von Nietzsches Der Wille zur Macht und
Burckhardts Weltgeschichtlichen Betrachtungen widmet und sein
Konzept von Mythos entfaltet. Pavese übersetzt 1944/45 Teile
von Nietzsches Der Wille zur Macht (187 Seiten) und die Welt-
geschichtlichen Betrachtungen Burckhardts (97 Seiten). In die-
ser Phase spielt auch die zweite Unzeitgemäße Betrachtung für
ihn eine wichtige Rolle, da Pavese in ihr die Einsicht formuliert
indet, dass es notwendig sei, zwischen den Trümmern der Ge-
schichte und des Historismus den mythischen Wert des mensch-
lichen Lebens und der geschichtlichen Ereignisse hervorzuhe-
ben, deren Protagonist der Mensch sei. Durch die Arbeit am
Mythos bleibt Pavese als Künstler dem Aktuellsten gegenüber
objektiv: Sein Interesse am Mythologischen erlaubt ihm, die Er-
eignisse von allem Zufälligen zu befreien, sie in einen mythischen
Raum und in eine mythische Zeit zu entrücken10. Der Mythos ist
bei Pavese als ein thematisches Reservoir und als eine expressi-
ve Sprache begriffen: Seine Einschätzung antiker Mythologeme
zeigt sich zum Beispiel in den Gespräche[n] mit Leuko durch
den kritischen Dialog mit den Prätexten antiker Mythologie. Die
mythologischen Figuren kommentieren und interpretieren das
eigene Schicksal, vergleichen es mit anderen Situationen, schla-
gen mögliche Lösungen vor, oder setzen eine dem Leser schon
bekannte Zukunft voraus.
3. Die dritte Phase erstreckt sich über die Jahre vor seinem
Selbstmord, d.h. zwischen 1947 und 1950, als Pavese seiner The-
orie von Mythos und Poesie in den Gespräche[n] mit Leuko eine
feste Form gibt. Hier werden vor allem die Spuren des Zarathus-
tra und der Geburt der Tragödie sichtbar.
Es ist nicht zu leugnen, dass Paveses Konzeption von Mythos
und Dichtung auch durch seine Rezeption Augusto Montis, Leo-
pardis und Manzonis und von der deutschsprachigen Romantik
geprägt wird. Auch die Lektüre Vicos, Frazers, Sam Harrisons,

10 F. Belviso, “Amor Fati”. Pavese all’ombra di Nietzsche, zit., S. 1-33.


248 Isabella Ferron

Lévy-Bruhls, Kerényis, Freuds und Jungs beeinlussen seine


Idee von Mythos, sowie seinen Versuch, Stilfragen und Form-
probleme durch den Mythos zu lösen11. Jedoch weisen einige sei-
ner Hauptthemen, wie das Beschreiben des täglichen Chaos und
die Bestimmung des Symbols als geheimer Wirklichkeit, eine
Korrespondenz mit Hauptgedanken Nietzsches auf. Nietzsches
Werk beantwortet Paveses Frage nach der Dringlichkeit einer
moralischen Erneuerung der Literatur.
Um dies zu belegen, wird das Augenmerk auf drei Werke Pa-
veses gerichtet: Dialoghi con Leucò (Gespräche mit Leuko, 1947),
das Tagebuch Il mestiere di vivere (Handwerk des Lebens, 1935-
1950, 1952) und Feria d’agosto («Schauspiel im August», 1945),
insbesondere die Aufsätze Stato di grazia e adolescenza («Anmut-
zustand und Jugend»), und Del mito, del simbolo e d’altro («Vom
Mythos, vom Symbol und vom Anderen»). Während es in Hand-
werk des Lebens und in Del mito («Vom Mythos») um eine anth-
ropologische Ästhetik geht, entwirft Stato di grazia («Anmutzu-
stand und Jugend») eine Theorie des Mythos und der Poesie, die
dann in den Gespräche[n] mit Leuko ihre Konkretisierung in-
det. Die 27 Gespräche besitzen einen besonderen Stellenwert im
Gesamtwerk, da sie durch die literarische Gattung des Dialogs
der Menschheit eine Art Botschaft mitteilen sollen. Paveses Be-
11 Dazu vgl. D. Schulbohm, Die Welt als Konstruktion. Untersuchungen zu Prosa-

werk Cesare Paveses, München 1978, S. 126 ff.; A. Pellegrini, “Mythos und Dichtung” im
Werk von Cesare Pavese, in «Castrum Peregrini», 18 (1954), S. 7-24; G. Bernabò, Dietro
il velo di «Leucò»: Pavese, Untersteiner e il mito, in «Atti Acc. Rov. Agiati», 259 (2009),
ser. VIII, Vol. IX, fasc. I, S. 269-296. Vgl. auch: «Rileggendo Frazer – nel 1933 che cosa
trovai in questo libro? Che l’uva, il grano, la mietitura, il covone erano stati drammi
e parlarne in parole era siorare sensi profondi, in cui il sangue, gli animali, il passato
eterno, l’inconscio si agitavano. La bestiola che fuggiva nel grano era lo spirito – fondevi
l’ancestrale e l’infantile, i tuoi ricordi di misteri e tremori campagnoli prendevano un sen-
so unico e senza fondo». C. Pavese, Il mestiere di vivere, zit., S. 319 («Als ich 1933 Frazer
wieder las, was fand ich in diesem Buch? Dass die Trauben, das Getreide, die Erntezeit,
die Gabe Dramen gewesen waren. Durch Worte von ihnen zu reden war es, tiefe Sinne
zu streifen, in denen sich das Blut, die Tiere, die ewige Vergangenheit, das Unbewusste
unruhig bewegten. Das Tierchen, das in den Korn loh, war der Geist – du verschmolzst
das Vererbte und das Kindliche, deine Erinnerungen an Mysterien und die ländlichen
Erregungen bekamen einen einzigen, unergründlichen Sinn». [Deutsche Übersetzung
der Verfasserin]).
Mythos und Poetik 249

mühen als Dichter in diesem Werk ist es, hinter dem Zufälligen
die bleibende Struktur des Daseins zu erkennen. Damit drückt
er auch seine persönlichste Qual durch den Mund der Titanen,
der Heroen und Nymphen aus. Sein dichterisches Streben kreist
darum, dem Irrationalen einen Wert zu geben, ohne ihm seinen
Mythos zu nehmen12.
Nietzsches Präsenz bei Pavese ist schon vor diesen drei Pha-
sen festzustellen: Bereits 1927 schreibt Pavese ein Gedicht mit
dem Titel Il Crepuscolo di Dio («Götterdämmerung»)13, des-
sen Protagonisten die guten Seelen sind, die sich im Paradies
bei Gott über die Bösen in der Hölle beschweren, die so viel
Lärm machen, dass sie den ewigen Frieden und die dauernde
Seligkeit stören. Als Reaktion auf diese Klage nimmt Gott den
Guten den Sinn für die Gerechtigkeit weg: Im gleichen Moment
taucht ein deutscher Dichter auf, der sich im Himmel wegen «la
gran copia di grazia» («wegen der großen Fülle an Anmut») be-
indet. Er behauptet, mit dem Leben im Paradies unzufrieden
zu sein, da er in dauernder Betrachtung Gottes beschäftigt sei
und kritisiert den Schöpfer als erste Ursache des Bösen. Denn
es nehme Gott dem Menschen die Willensfreiheit und versetze
ihn so in den Zustand einer Marionette. Der deutsche Dichter
widerspricht Gott auf einer moralischen Ebene, welche die Basis
der christlichen Religion untergräbt – hier besteht eine deutliche
Parallele zu Nietzsches Zur Genealogie der Moral und seiner Kri-
tik am Moralsystem. Dem Versuch Nietzsches, die Entstehung
der Moral, ihrer Werte, ihrer Bedeutung und Legitimierung zu
entlarven, verdankt Pavese auch grundlegende anthropologische
Beobachtungen über den Mensch und die Natur. Bei Nietzsche
indet Pavese die Idee, dass Moral und menschliche Natur sich
in einem synergetischen Verhältnis entwickeln und fortbestehen.

12 F. Curi, Il mito prima del mito, zit., S. 137.


13 C. Pavese, Il crepuscolo di Dio (1927), zitiert nach R. Gigliucci, Cesare Pavese,
Milano 2001, S. 7.
250 Isabella Ferron

3. Pavese und der Mythos

Wie schon angedeutet, beindet sich der erste explizite Be-


zug Paveses auf Nietzsche in einer Notiz vom 23.10.1940, in der
Nietzsche zusammen mit Giacomo Leopardi als Vertreter des
tätigen Lebens gegenüber dem kontemplativen erwähnt wird.
Wenn er im Taccuino segreto («Geheimes Notizbuch»), Nietz-
sche zitiert, bezieht sich Pavese auf Jenseits von Gut und Böse
und auf das dritte Kapitel vom Willen zur Macht14. In Das Hand-
werk des Lebens wird Nietzsche mit dem Wilden und dem Tita-
nischen assoziiert, da er, so Pavese, es geschafft habe, die Ord-
nung durch die Beschreibung des Chaos und der Unordnung
lobzupreisen und somit die wahre Natur des Mythos hervorzu-
heben: «Tu vagheggi la campagna, il titanismo – il selvaggio –,
ma apprezzi il buon senso, la misura […] Il selvaggio, il Titanico
[…] sono superati dal cittadino, dall’olimpico, dal progressivo
[…] tu esalti l’ordine descrivendo il disordine»15.
Pavese begrüßt den Mythos als «midollo della realtà»16, als
das Innerste der Wirklichkeit. Demzufolge ist der Mythos auch
Sprache. Im Mythos sieht Pavese den Zusammenhang zwischen
einer Poetik des Objektes und einer Poetik des Bildes realisiert:
In der Aufhebung des Hermetismus sucht er die Rettung einzig
und allein «nell’aderenza serrata, gelosa appassionata all’ogget-
to» («[im] engen, eifersüchtigen, leidenschaftlichen Haften am
Objekt»)17. Bei ihm hat das Bild keine illustrierende Funktion,
sondern es verkörpert «concretezza», Gegenständlichkeit, «to-
talitaria realtà fantastica», totalitäre, fantastische Realität18, d.h.

14 C. Pavese, Il mestiere di vivere, zit., S. 64, 213, 334, 356.


15 Ebd., S. 334 («Du liebäugelst mit dem Land, dem Titanismus – dem Wilden, aber
du würdigst den gesunden Menschenverstand, das Maß […] Das Wilde interessiert dich
als Geheimnis […] Das Wilde, das Titanische […] werden überschritten vom Städti-
schen, vom Olpympischen und vom Fortschreitenden […] du ehrst die Ordnung, wäh-
rend du die Unordnung schilderst» [Deutsche Übersetzung von der Verfasserin]).
16 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino 1972, S. 33; vgl. auch ders., Il mestiere di

vivere, zit., S. 127 und 308.


17 C. Pavese, Le poesie, zit., S. 108 (Deutsche Übersetzung von der Verfasserin).
18 Ebd., S. 111.
Mythos und Poetik 251

die symbolische Wirklichkeit. Hauptcharakter des Mythos ist


seine Einzigartigkeit, «l’unicità», wie Pavese in Del mito («Vom
Mythos») schreibt. Der Mythos sei zudem «lo schema di un fatto
avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità
assoluta che lo solleva fuori dal tempo e lo consacra rivelazione.
Per questo avviene sempre alle origini, come nell’infanzia»19.
Die Dichtung ist nicht mit dem Mythos zu identiizieren, da
letzterer natürlich und spontan ist. Dagegen erkennt die Dich-
tung an, dass sie ausdenkt, erindet. Sie ernährt sich vom My-
thos, im Gegensatz zu ihm hat sie aber ein Bewusstsein von sich
selbst, das der Mythos nicht besitzt. Das mythische Bewusstsein
wird durch die Erinnerung ermöglicht, deswegen ist die wahre
mythische Epoche diejenige der menschlichen Reife. Die Er-
fahrungen, die Pavese als «Reife» und «Mannesalter» begreift,
wird er in seiner Dichtung immer wieder der Erinnerung an die
Kindheit entgegenstellen – das Gefühl für den eigenen, nack-
ten Körper, die Sinnlichkeit im Einklang mit der Natur. Sein
poetisches Weltbild baut der Dichter Pavese wesentlich auf der
Polarität dieser beiden, grundverschiedenen Daseinsweisen auf:
hier Kindheit, Natürlichkeit, «Wildheit»20 des Menschen, da
Einsamkeit, Eingeschlossensein in einen zivilisierten Umkreis,
in dem Entfremdung dominiert, Sinnlichkeit und körperlicher
Genuss zum Problem werden und zum «Laster» degradiert wer-
den. In seinem Werk fügt Pavese die Dinge in einen alltäglichen
Horizont ein, dem er manchmal die Form und die Farben einer
phantastischen Welt verleiht. In seiner Bearbeitung des Mythos
geht man von einem sublime d’en haut (Homer) zu einem sublime
d’en bas21. Besser ausgedrückt: In seiner Bestrebung, den Epos
durch seine Eigenschaften in Frage zu stellen, schafft Pavese ei-
nen bürgerlichen, bäuerlichen Epos. In diesem Zusammenhang
19 C. Pavese, Tutti i racconti, Torino 2002, S. 127 («[…] das Schema einer ein für

allemal geschehenen Tatsache, und er bekommt seinen Wert aus dieser absoluten Ein-
zigartigkeit, die ihn aus der Zeit hebt und als Offenbarung würdigt. Deswegen geschieht
er immer am Ursprung, wie in der Kindheit». [Deutsche Übersetzung von der Verfasse-
rin]).
20 C. Pavese, Il mestiere di vivere, zit., S. 340.
21 F. Curi, Il mito prima del mito, zit., S. 143.
252 Isabella Ferron

spielt Nietzsches Die Geburt der Tragödie eine bedeutende Rol-


le: In der Dialektik apollinisch-dionysisch versteht Pavese das
Dionysische nicht nur als Kraft und Lebendigkeit, sondern auch
als Gräuel und Zerstörung, die aus dem ursprünglichen Chaos
entstehen. Die Figuren Ödipus22 und Orpheus seien Beispiele
dafür: Orpheus geht bei Pavese in die Unterwelt auf der Suche
nach sich selbst und nicht, um Eurydike zurückzubringen, da er
ihr die Schmerzen des menschlichen Lebens ersparen will23. Sein
Abstieg in die Unterwelt ist ein Erkenntnisgewinn. Er berichtet
in einem Dialog, er habe sich vorsätzlich nach Eurydike umge-
dreht, kurz bevor er mit ihr zusammen das Reich der Toten hätte
verlassen können. Er habe sich für ein Leben ohne sie entschie-

22 «Die leidvollste Gestalt der griechischen Bühne, der unglückselige Oedipus, ist

von Sophokles als der edle Mensch verstanden worden, der zum Irrthum und zum Elend
trotz seiner Weisheit bestimmt ist, der aber am Ende durch sein ungeheures Leiden eine
magische segensreiche Kraft um sich ausübt, die noch über sein Verscheiden hinaus
wirksam ist. Der edle Mensch sündigt nicht, will uns der tiefsinnige Dichter sagen: durch
sein Handeln mag jedes Gesetz, jede natürliche Ordnung, ja die sittliche Welt zu Grunde
gehen, eben durch dieses Handeln wird ein höherer magischer Kreis von Wirkungen
gezogen, die eine neue Welt auf den Ruinen der umgestürzten alten gründen. […] Es
giebt einen uralten, besonders persischen Volksglauben, dass ein weiser Magier nur aus
Incest geboren werden könne: was wir uns, im Hinblick auf den räthsellösenden und
seine Mutter freienden Oedipus, sofort so zu interpretiren haben, dass dort, wo durch
weissagende und magische Kräfte der Bann von Gegenwart und Zukunft, das starre Ge-
setz der Individuation, und überhaupt der eigentliche Zauber der Natur gebrochen ist,
eine ungeheure Naturwidrigkeit – wie dort der Incest – als Ursache vorausgegangen sein
muss; denn wie könnte man die Natur zum Preisgeben ihrer Geheimnisse zwingen, wenn
nicht dadurch, dass man ihr siegreich widerstrebt, d. h. durch das Unnatürliche? Diese
Erkenntniss sehe ich in jener entsetzlichen Dreiheit der Oedipusschicksale ausgeprägt:
derselbe, der das Räthsel der Natur – jener doppeltgearteten Sphinx – löst, muss auch
als Mörder des Vaters und Gatte der Mutter die heiligsten Naturordnungen zerbrechen.
Ja, der Mythus scheint uns zuraunen zu wollen, dass die Weisheit und gerade die dio-
nysische Weisheit ein naturwidriger Greuel sei, dass der, welcher durch sein Wissen die
Natur in den Abgrund der Vernichtung stürzt, auch an sich selbst die Aulösung der
Natur zu erfahren habe. »Die Spitze der Weisheit kehrt sich gegen den Weisen: Weisheit
ist ein Verbrechen an der Natur«: solche schreckliche Sätze ruft uns der Mythus zu:
der hellenische Dichter aber berührt wie ein Sonnenstrahl die erhabene und furchtbare
Memnonssäule des Mythus, so dass er plötzlich zu tönen beginnt – in sophokleischen
Melodieen!» (GT 9, KSA I, S. 65 ff.).
23 Vgl. dazu C. di Biase, “L’inconsolabile Orfeo” in Cesare Pavese, in «Esperienze

letterarie», XXV (Pisa/Roma 2000) 3-4, S. 23-37.


Mythos und Poetik 253

den, weil er begriffen habe, dass seine Klage um ihren Verlust


nicht sie gemeint habe:

L’Euridice, che ho pianto, era una stagione della vita. Io cercavo ben
altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa.
L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. […] Ho capito che
i morti non sono più nulla. […] Io cercavo, piangendo, non più lei ma
me stesso. Un destino, se vuoi, mi ascoltavo24.

Mit dem Überschreiten der «Schwellen des Nichts» und dem


«Anblick des Nichts»25 erwirbt er ein Wissen – nicht zuletzt über
sich selbst –, das ihn untröstlich macht. Bei Nietzsche indet er
dann die Figur Ödipus (GT 9, KSA 1, S. 65 ff.), dem er zwei
Dialoge widmet: I ciechi (Die Blinden) und La strada (die Straße).
Nietzsches Ödipus kann das Rätsel erst dann lösen, wenn er die
Abscheulichkeit des menschlichen Abgrunds kennengelernt hat
und somit zur Erkenntnis gelangt ist. Diese Erkenntnis kann er
besitzen, nachdem er die natürlichen Grenzen gebrochen hat. Es
geht sozusagen um eine Art Vergeltung: Seine Verurteilung ist
der Preis, den er zu bezahlen hat, um die dionysische Erkenntnis
gewonnen zu haben. Der griechische Held ist bei Nietzsche das
Individuum, dessen Existenz überhaupt nicht rational, sondern
leidenschaftlich, unüberlegt und in der Lage ist, zugunsten einer
Rückkehr zur Natur die menschliche Grenze umzustürzen. Bei
Nietzsche indet Pavese keine philologisch-literarische Perspek-
tive in der Analyse von Ödipus, sondern hinsichtlich des Mythos
selbst. Diesbezüglich bildet er seine Poetik der Essenz, in der das
Land als der Ort angesehen wird, wo das Primitive und das Wil-
de als universelle Symbole und Archetypen wohnen. Das mythi-
sierte Land wird dann zur Projektion des Unbewussten und der
24 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino 1972, S. 77. («Euridike, die ich beweint

habe, war nur eine Zeit des Lebens. Dort unten suchte ich viel mehr als ihre Liebe. Ich
wünschte eine Vergangenheit, die Eurydike nicht kennt. Das verstand ich unter den To-
ten, als ich meinen Gesang sang […] Ich habe verstanden, dass die Toten nichts mehr
sind […] Weinend suchte ich nicht mehr sie, sondern mich selbst. Ein Schicksal, wenn
du willst, ich hörte mir zu». [Deutsche Übersetzung von der Verfasserin]).
25 Ebd., S. 77 f.
254 Isabella Ferron

Identität: Die ländliche Landschaft in ihren Einzelheiten stellt


die menschliche Entwicklung von der Kindheit, die für die Erin-
nerungsarbeit sehr wichtig ist, durch die Jugend bis zum Reifalter
dar, somit auch die menschliche Suche nach der eigenen Identi-
tät in der Welt. Der Mythos wird zum Mittel, wodurch sich die
Vollständigkeit des Ursprungs vom Universum, des Raums zwi-
schen Bewusstem und Unbewusstem, zwischen Chaos und Ord-
nung äußert. Pavese übernimmt Nietzsches Ideen vom Primiti-
ven und Wilden: Das dionysische Konzept versteht er als eine
Verbindung mit der Natur, als Ekstase. Der Kampf der Titanen
mit ungeheuerlichen Wesen in den Gesprächen ist eine Allegorie
der menschlichen Niederlage und des Schmerzens, die aus der
Betrachtung von der Größe der Welt stammt.
Eine Stelle in der Geburt der Tragödie ist in diesem Zusam-
menhang grundlegend:

Im dionysischen Dithyrambos wird der Mensch zur höchsten Stei-


gerung aller seiner symbolischen Fähigkeiten gesetzt […]. Jetzt soll
sich das Wesen der Natur symbolisch ausdrücken: eine neue Welt der
Symbole ist nöthig, einmal die ganze leibliche Symbolik, nicht nur die
Symbolik des Mundes, des Gesichts, des Wertes […]. Sodann wachsen
die anderen symbolischen Kräften […] plötzlich ungestüm. Um die
Gesamtentfesselung, aller symbolischen Kräfte zu fassen, muß der
Mensch bereits auf jener Höhe der Selbstäußerung angelangt sein, die
in jenen Kräften sich symbolisch aussprechen wird (GT 2, KSA 1, S.
33 f.).

Bei Pavese hat der Mythos diese Funktion. Ihn begreift er


sowohl individuell als auch kollektiv. Es handelt sich darum,
das Leben in der kristallisierten Form, d.h. das Dionysische im
Apollinischen (Apollinisch und Dionysisch werden bei Pavese
zu Olympischem und Titanischem) zu erblicken. Dazu braucht
man die Erinnerung, die Flucht, den Tod, die Natur, die my-
thischen Symbole, die als Fluchtpunkte aus den kristallisierten
Formen der apollinischen Realität anzusehen sind. Pavese ver-
knüpft mythische Ereignisse mit existentiellen Fragen, welche
Mythos und Poetik 255

in den Dialogen durch die Stille, die Fragen ohne Antwort am


Ende jedes Gesprächs und die rätselhaften Antworten darge-
stellt werden. Die Erinnerung ist das Symbol Paveses par excel-
lence: In ihr ist die Korrelation zwischen Bedeutendem und Be-
deutung nicht fest, sondern vom dem subjektiven Erleben des
jeweiligen Individuums bestimmt, das die Objekte seiner per-
sönlichen Existenz zu Bedeutungen des Absoluten werden lässt
(das Absolute als Magma des Ursprungs, als Mythos). In Del
Mito, del simbolo, d’altro («Vom Mythos, vom Symbol und vom
Anderen») hat der Mythos einen religiösen Grund nicht in dem
Sinne, eine Verbindung mit Gott zu haben, sondern im Sinne ei-
ner neuen Aufmerksamkeit auf das Ich, das individuelle Denken,
die Natur und den universellen Geist. Das Verhältnis Mensch-
Welt wird durch das Symbol vermittelt, das den romantischen
Charakter von Universalität nicht mehr verloren hat und indivi-
duell geworden ist: Jedes Individuum bildet es im Laufe seiner
Existenz, insbesondere in seiner Kindheit. Der Mythos indet
seinen Grund in der individuellen Existenz. Bei Nietzsche in-
det sich das psychologische Ich nicht mehr, da das harmonische
Verhältnis zwischen dem menschlichen Mikrokosmos und dem
universellen Makrokosmos in der Überwindung des principium
individuationis gebrochen worden ist. Pavese sieht dagegen in
der gegenwärtigen Realität und in der persönlichen Dimension
jedes menschlichen Wesens die reelle Möglichkeit einer Wieder-
geburt des Mythos. Nietzsches Mythos des Dionysischen wird
bei Pavese auf die Kategorien der menschlichen Existenz herab-
gesetzt und somit psychologisiert. Diesbezüglich behauptet die
Nymphe Britomarti im Dialog Schiuma d’onda (Wellenschaum):

La nostra vita è foglia e tronco, polla d’acqua, schiuma d’onda. Noi


giochiamo a siorare le cose, non sfuggiamo, mutiamo. Questo è il no-
stro desiderio e il nostro destino. Nostro solo terrore è che un uomo ci
possegga, ci fermi – allora sì che sarebbe la ine […] sorridere è vivere
256 Isabella Ferron

come un’onda o una foglia, accettando la sorte. […] E morire una forma
e rinascere un’altra 26.

In den Gespräche[n] sehnt man sich nach dem Wilden


(«vagheggiamento del selvaggio»), das im Grunde keine Realität
als solches hat («come tale non ha in fondo realtà»). Es ist das,
was die Dinge waren, als sie noch unmenschlich waren. Wild be-
deutet Geheimnis, offene Möglichkeit («È ciò che le cose erano
in quanto inumane […]. Selvaggio vuol dire mistero, possibilità
aperta»27). Pavese betrachtet den Mythos aus einer anthropozen-
trischen Perspektive, in der der Mensch durch den Filter des
eigenen Ich zur Essenz der Welt gelangt. Das Symbol ist in der
Lage, ein Sinnbild zu schaffen, das der Realität entspricht. In
einem Tagebucheintrag behauptet Pavese:

Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti che è il mondo
del tempo. Il nostro sforzo incessante e consapevole è un tendere fuori
dal tempo, all’attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade che
le cose, i fatti, i gesti – il passare del tempo – ci promettono di questi
attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra
libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose, fatti e gesti che sono
simboli della sua felicità – essi non valgono per sé, per la loro natura-
lità, ma ci invitano, ci chiamano, sono simboli. Il tempo arricchisce
meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di
prospettive che moltiplica il signiicato temporale di questi simboli 28.

26 Ebd., S. 47 f. («Unser Leben ist Blatt und Stamm, Wasserader, Wellenschaum.


Wir spielen, die Dinge zu streifen, wir liehen nicht, wir verwandeln uns. Das ist unser
Wunsch und unser Schicksal: Unsere einzige Furcht ist es, dass ein Mann uns besitzt,
dass er uns festhält. Dann wäre das unser Ende […]. Das Lächeln ist, wie eine Welle
oder ein Blatt – das Loos akzeptierend – zu leben. […] Das Sterben ist eine Form, in eine
andere wieder geboren zu sein». [Deutsche Übersetzung von der Verfasserin]).
27 C. Pavese, Il mestiere di vivere, zit., S. 334.
28 Ebd., S. 244. («Wir leben in der Welt der Dinge, der Tatsachen, der Gesten,

die die Welt der Zeit ist. Unsere stetige und bewusste Bemühung ist ein Streben außer
der Zeit nach dem ekstatischen Moment, in dem sich unsere Freiheit verwirklicht. Es
geschieht, dass die Dinge, die Tatsachen, die Gesten – das Zeitverbringen – uns diese
Augenblicke versprechen, sie verkleiden und verkörpern. Sie werden zu Symbolen, Tat-
sachen und Gesten. Jeder von uns hat eine Fülle von Dingen, Tatsachen und Gesten, die
Symbole seiner Glückseligkeit sind – sie sind nicht in sich und für sich für ihre Natürlich-
Mythos und Poetik 257

Im Essay Del Mito («Vom Mythos») verteidigt Pavese die


Idee, der Mythos solle nicht mit den poetischen Fassungen ver-
wechselt werden, die man von ihm gemacht hat oder macht. Er
besteht im Voraus, er ist nicht der Ausdruck, den man ihm gibt.
Das mythische Ereignis, das ekstatisch ist, bezieht die Überwin-
dung von sich selbst mit ein, um das principium individuationis
auszulassen und sich wieder mit dem Ganzen zu vereinigen. Im
Stato di grazia («Anmutzustand») beteuert Pavese weiter, dass es
in der Sphäre des Seins und der Ekstase kein Zuvor und kein Da-
nach gibt, weil die Zeit nicht existiert. Das, was in ihr ist, ist der
Augenblick, das ewig Absolute. Ein symbolisches Sinnbild ist
demnach notwendig, da sich eine verdünnte Identität in ihm ver-
dichtet und in einem natürlichen Objekt verkörpert. Der Mythos
korrespondiert also mit dem inneren, ekstatischen, embryonalen
Bild, das voll von möglichen Entwicklungen und am Ursprung
jedes poetischen Schaffens ist. Auch im ideellen ewigen Prozess
des Dichtens ergibt sich ein implizit mythischer Moment, in dem
der Mythos das ist, was man Erleuchtung, Kernintuition nennt.
Dichten heißt, einen mythischen Kern hervorzuheben und zu
vervollständigen. In dieser Perspektive ist Pavese auch von Jas-
pers’ Nietzsche-Lektüre beeinlusst29. Jaspers sieht bei Nietzsche
die Erhabenheit der Philosophie in ihrer Verbindung mit dem
Leben, sowie den Impuls, sich geistig zu retten. Bei Nietzsche ist
die Existenz kein spekulatives Objekt, sondern Ausgangs- und
Zielpunkt, Objekt der Forschung und ihr Ergebnis30. In Bezug
darauf denkt Pavese, dass das Leben sich vom Mythos her ent-
wickle: Der Mythos wird zum einzigen Grund des menschlichen
Lebens, der Geschichte und der Kunst, woraus das Individuelle,
das Kollektive und das Poetische schöpfen.
keit gültig, sondern sie laden uns ein, sie rufen uns, sie sind Symbole. Die Zeit bereichert
wunderbar diese Zwischenwelt, da sie ein Perspektivspiel bildet, das die zeitliche Bedeu-
tung dieser Symbole vermehrt». [Deutsche Übersetzung von der Verfasserin]).
29 K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Berlin/

New York 1981.


30 A. Venturelli, Kunst, Wissenschaft und Geschichte bei Nietzsche. Quellenkritische

Untersuchungen, Berlin/New York 2003, S. 195.


258 Isabella Ferron

Der Mythos ist also der schwebende Mittelzustand zwischen


Sinnlichem und Übersinnlichem, in dem die Einbildungskraft
handelt, d.h. die Fähigkeit entfaltet, zwischen Bestimmtheit und
Unbestimmtheit, Endlichem und Unendlichem zu unterschei-
den. Bei Nietzsche ist die Form zu überwinden, um zum Inhalt
zu gelangen, dessen Kern der reine Mythos ist. Er analysiert ei-
nen Zustand, eine geistige Lage der Menschheit, aus der eine
besondere Weltanschauung entsteht, die vor jeder vernünftigen
Bearbeitung existiert. Die Innerlichkeit ist der Treffpunkt zwi-
schen Vergangenheit und Gegenwart. Dieser Zusammenhang
von Vergangenheit und Gegenwart drückt eine Art von Leben
bzw. Fühlen aus, die nicht unbedingt an die Realität gebunden
sein muss, sondern sie kann auch ferne, vergangene Welten hin-
weisen.
Mythen, so verrät es uns Pavese in seinen Gespräche[n] mit
Leuko einleitenden Sätzen, sind Sammelstätte von Sinnbildern,
die das menschliche Sein in seinem Ganzen schildern. Das wird
in den Dialogen deutlich, die zwischen den großen Olympiern
stattinden. Meist geht es um Gespräche zwischen Titanen,
Nymphen und Kentauren: Jedem Dialog steht eine erläuternde
Einleitung voran, die den Leser kurz über die mythologischen
Zusammenhänge informiert, denn Gespräche mit Leuko erfor-
dert ein profundes Wissen der griechischen Götterwelt. Aber
auch wenn man über ein solches nicht verfügt, bleiben die Dia-
loge keinesfalls ohne Aussage. Diese Phantasiewelt ist ein Kon-
strukt, das die Wesen in Sterbliche und Unsterbliche unterteilt
– und da der Dichter die letztgenannten die ersteren betrachten
lässt, hat er sich einen künstlichen Standpunkt geschaffen, von
dem aus er das Leben objektiver erklären kann. In den Dialogen
formen auch die Naturerscheinungen höhere Sinnbilder: Blu-
men sind nicht nur Blumen, Steine sind nicht nur Steine, Feuer
ist nicht nur Feuer – alles ist mit tieferer Bedeutung angefüllt31.
In solcherlei Transformationen hat die literarische Form des Ge-
dichts ihren Ursprung. In Analogie zu Nietzsches Tragische Phi-

31 C. Pavese, Il mestiere di vivere, zit., S. 244.


Mythos und Poetik 259

losophie der Griechen behauptet Pavese in Del mito («Vom My-


thos»), der Mythos sei ein einzigartiges, absolutes Ereignis, eine
Sammlung von lebendiger Kraft aus anderen Sphären außerhalb
unserer alltäglichen, und dergestalt schenke allem eine Aura
des Wunderbaren, was ihm vorausgeht und ihn ähnelt. Er kann
nicht durch die Begriflichkeit des Wortes verstanden werden,
sondern allein durch Bilder. Das Bild ist die erste Quelle dich-
terischer Tätigkeit, die die Anstrengung verkörpert, alles zu ei-
nem Zusammenhang von phantastischen Beziehungen werden
zu lassen, aus denen die eigene Wahrnehmung der Wirklichkeit
besteht. Es stellt somit den Übergang von der Subjektivität zur
Objektivität und ein Eindringen des Menschlichen in den mythi-
schen Charakter dar.
Der letzte Dialog, Gli Dei (Die Götter), bestätigt einen Verlust,
und zwar das Bewusstsein des Unterschieds zwischen gegenwär-
tigem und vergangenem Menschen. Deutlich ist die Analogie
zu Nietzsches Über Wahrheit und Lüge, d. h. zu einer Idee vom
Mythos als zusammenfassendem Bild der Welt, das sich nicht
durch die Sprache der Begriffe mitteilt. Wie in Nietzsches Philo-
sophie im tragischen Zeitalter der Griechen sind die Worte auch
für Pavese schöpfende Symbole32. Der Bruch zwischen Mythos
und Logos wird in den Dialogen aufgehoben, somit wird eine
artikulierte, vielstimmige Botschaft mitgeteilt, in der die Figu-
ren selbst eine Mitteilung sind, da sie die konliktgeladene Lage
der Existenz verkörpern. Wie in Zarathustra muss der Mensch,
um das eigene Schicksal anzunehmen, es in all seinen Formen
akzeptieren. Im Dialog Wellenschaum sagt die Nymphe Brito-
manti zu Sappho: «Sorridere è vivere come un’onda o una foglia,
accettando la sorte […] è accettare se stesse e il destino»33. Im
Dialog L’isola (Die Insel) sagt Kalypso zu Odysseus, dass man
unsterblich ist, wenn man den Augenblick annimmt34.

32 Ebd., S. 165.
33 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, zit., S. 24. («Das Lächeln ist, wie eine Welle oder
ein Blatt – das Loos akzeptierend – zu leben […] Es bedeutet, sich selbst und seine Be-
stimmung anzunehmen». [Deutsche Übersetzung von der Verfasserin]).
34 Ebd., S. 101 ff.
260 Isabella Ferron

Daraus ergibt sich ein besonderes Bild der Götter bei Pavese:
Sie besitzen die Lebensfülle, die ihnen der Mensch überlassen
hat; in ihnen vereinigen sich Freiheit und Notwendigkeit wie-
der. Das Verhältnis Mensch-Götter kann bei Pavese zweifach
interpretiert werden: 1. die Götter können als verhärtete, un-
empindliche und autonome Menschen angesehen werden, die
das Schicksal kennen und somit dem Chaos der Gefühle nicht
untergeordnet sind. In einem der Gespräche stellen Herakles
und Prometheus eine Welt ohne Götter vor, die aus der mensch-
lichen Angst geboren worden sind, von denen sich die Men-
schen aber befreit haben. 2. Die Götter haben menschliche Ei-
genschaften, während die Menschen göttliche Attribute zeigen.
Das ist aber kein oppositionelles Verhältnis, sondern sowohl
ein nachzuahmendes Modell sowie auch eine zu überwindende
Grenze. Der Mensch steht zwischen dem titanischen Chaos und
dem Göttlichen.
Elio Gioanola hat mit Recht behauptet, dass Paveses Götter
keine Götter im absoluten Sinn seien, sondern Sublimierungen
einer autonomen und sich ihres Schicksals bewussten Mensch-
heit35. Bei Pavese ist der Mensch ohne Gott und Gott ist der
Mensch ohne die Last des Schicksals, er ist weder einem Gesetz
noch dem Chaos ausgeliefert. Gott ist Mensch in höchster Po-
tenz, er hat keine Angst, er schert sich nicht um das Schicksal.
Einerseits ist Gott eine Grenze, die man zu brechen hat, ande-
rerseits ist er auch ein Vorbild. Wenn sich der Mensch von Gott
befreit hat, wird er selbst zu einem unempindlichen Gott. Wie
Theseus Lelego sagt, «quel che si uccide si diventa»36: das, was
man tötet, wird man. Nur so kann der Mensch seinen Willen zur
Macht ausüben.
Um die Kontrolle über sich selbst zu erhalten, muss der
Mensch zuerst Nietzsches Geist der Schwere besiegen. In die-
sem Zusammenhang hat das Lachen bei Pavese dieselbe Bedeu-
tung wie bei Nietzsche. Pavese geht aber ein Stück weiter und

35 E. Gioanola, Pavese e la poetica dell’essere, Milano 1977, S. 272.


36 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, zit., S. 123.
Mythos und Poetik 261

unterscheidet zwischen Lachen und Lächeln. Da der Mensch


unbewusst handelt, kann er nur lachen, da das Lächeln ruhig
und ewig ist. Nur in der Erinnerung des vergangenen Lebens
kann der Mensch lächeln. In den letzten Dialogen, Mistero (Ge-
heimnis), wo sich Dionysos und Demeter unterhalten, Il Dilu-
vio (Die Sintlut) und Le Muse (Die Musen), wo das Gespräch
zwischen Mnemosyne und Esyodos stattindet, konkretisiert sich
eine Hymne an die conditio humana: Demeter behauptet, dass all
das, was die Menschen berühren, zur Zeit und Handlung wird.
Auch das menschliche Sterben symbolisiert etwas. Dionysos as-
seriert, dass der Tod der menschliche Reichtum ist, da er den
Menschen zum Handeln zwingt37. In Nietzsches dionysischer
Weltanschauung ist die Kunst die Fähigkeit, Bilder zu schöpfen.
In Einklang dazu sieht Pavese das Bild als die poetische Tätig-
keit, als «lo sforzo di rendere come un tutto suficiente un com-
plesso di valori fantastici nei quali consista la propria percezione
di una realtà»38. Paveses Gespräche haben eine dialogische Dy-
namik im Prozess des Diskurses, der sich analysiert und erklärt.
Sie teilen menschliche Wahrheiten in der universellen Sprache
des Mythos mit, sie stellen «mythische Situationen»39 dar, die
man als psychologische Konlikte interpretieren kann. Demnach
drücken die Mythen die konliktträchtige Lage der menschlichen
Existenz aus. Die Gespräche haben also als Objekt den Mythos,
aber sie sind auch etwas Neues, da sie die emblematische Kon-
dition des Menschengeschlechtes zeigen. Im ersten Dialog Nube
(Wolke) wird klar, dass den Menschen eine Grenze gesetzt ist:
Nepheles Worte kündigen die Veränderungen des menschlichen
Schicksals in der modernen Zeit an, in der er mit der Erde nicht
mehr einig ist.
Es gibt sowohl bei Pavese als auch bei Nietzsche kein höheres
Schicksal, es ist nicht Gott, der die Ereignisse bestimmt. Das,

37 Ebd., S. 151 f.
38 C. Pavese, Le poesie, zit., S. 111 («das Streben danach, einen Komplex von phan-
tastischen Werten als ein autonomes Ganzes wiederzugeben, in denen eine Wahrneh-
mung der Wirklichkeit besteht». [Deutsche Übersetzung von der Verfasserin]).
39 R. Caillois, Nel cuore del fantastico, Milano 1984, S. 28, 31.
262 Isabella Ferron

was dem Menschen geschieht, ist untrennbar von seinem We-


sen, von seinen Taten und Wählen abhängig. Wie man wird, was
man ist, symbolisiert das Schicksal als Ausdruck des eigenen Ich.
Das principium individuationis und der Nominationsakt sind
zwei bestimmte Momente des Ausgangs aus dem Ursprung, um
Form und Ordnung zu schaffen. Die Nominatio ist der erste Akt
der bewussten Vernunft, der aber nichts über die Dinge sagt,
ihnen nur einen Namen gibt. Dadurch kann sich aber eine Lite-
rarisierung des Lebens vollziehen, die die Last des Alltags weg-
räumen kann. Die Literatur ist zwar der Ort der menschlichen
Erfahrungen, da sie uns ins Erstaunen versetzt: Im letzten Dialog
empiehlt Mnemosyne Esyodus, den Sterbenden die Dinge zu
sagen, die er weiß («prova a dire ai mortali queste cose che sai»).
Esyodus ist auf den Berg gestiegen, um Mnemosyne zu treffen; er
symbolisiert somit den Dichter, der aus der Höhe der Literatur
sein erlebtes Leben anschaut. Bei Pavese wird das Leben in der
antiken Tragödie zur Literatur, in der der Mythos frei von jedem
Relativismus und außerhalb der Zeit ist: «Mi domando se è vero
che li hanno veduti. Chi può dirlo? Ma sì, li han veduti. Hanno
raccontato i loro nomi e niente di più – è tutta qui la differenza
tra le favole e il vero»40. Die Dinge, heißt es in Das Handwerk des
Lebens, entdeckt man durch die Erinnerungen, die man von ih-
nen hat. Sich an etwas erinnern, heißt, es zum ersten Male – erst
jetzt – zu sehen. In einer anderen Eintragung fragt er sich, wann
er die Dinge zum ersten Mal gesehen habe. Er hat sie in einer
Zeit gesehen, die unwiderrulich vergangen ist. Damals genügte
ihm dieses Sehen, jetzt fragt er sich aber nach der Bedeutung die-
ser Dinge. Gibt es eine überhaupt? Aber welche? Die Antwort
auf diese Frage kann nur im Mythos gefunden werden41.

40 C. Pavese, Il mestiere di vivere, zit., S. 169. («Ich frage mich, ob es wahr ist, dass
man sie gesehen hat. Wer kann das sagen? Tja, man hat sie gesehen. Man hat von ihren
Namen erzählt und nichts mehr – hier liegt der Unterschied zwischen dem Märchen und
dem Wahren». [Deutsche Übersetzung von der Verfasserin]).
41 Ebd.; vgl. auch ders., Lettere 1924-1944, zit., Brief an Fernanda Pivano, 1942, S.

425 f.
Lo stile come forma del pensiero
Esperimenti della forma breve in Nietzsche e
Adorno

Susanna Zellini

Ad essere sincero tra tutti i cosiddetti grandi ilosoi


sono debitore soprattutto a lui [Nietzsche]
– in verità forse più che a Hegel1.

C’è una questione spesso trascurata nel dibattito ilosoico


contemporaneo: è il problema dello stile, inteso come modo del
pensiero di tradursi in linguaggio, di esprimersi attraverso una
forma. Tale questione è considerata spesso come oggetto di in-
teresse quasi esclusivamente letterario e dunque come questione
marginale, se non irrilevante, per l’interpretazione ilosoica.
Al contrario, in particolare nel pensiero contemporaneo,
emerge costantemente l’esigenza ilosoica di uno stile di scrit-
tura, e la necessità di comprendere le forme estetiche, attraver-
so cui si esprime il pensiero ilosoico, come costitutive di tale
pensiero. Questo nesso essenziale tra pensiero e scrittura, tra la
ilosoia e le sue forme di rappresentazione, si distingue in modo
particolare nel pensiero di Nietzsche. Se il percorso ilosoico
nietzscheano nasce da un dialogo costante tra pensare e poetare
(Denken und Dichten), è necessario considerare il poetare non
come un aspetto marginale della ilosoia nietzscheana, bensì
come l’espressione essenziale e costitutiva del suo pensiero.
Questo interesse ilosoico per lo stile, come rilessione sul
nesso tra forma e contenuto, emerge in modo simile anche in un
1 «Dem (Nietzsche) ich, wenn ich aufrichtig sein soll, am meisten von allen soge-

nannten großen Philosophen verdanke – in Wahrheit vielleicht mehr noch als Hegel»,
T. W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie, Frankfurt a. M. 1996, p. 255. Ove non
altrimenti indicato, le traduzioni sono dell’autrice del saggio.
264 Susanna Zellini

altro autore del Novecento, Theodor W. Adorno, tanto da sug-


gerire una particolare vicinanza, se non esplicita ma profonda,
con il pensiero di Nietzsche. Sia in Nietzsche che in Adorno il
cammino della conoscenza non avviene infatti solo attraverso il
linguaggio, ma anche e soprattutto nel linguaggio. Il linguaggio è
dunque non tanto il mezzo per produrre conoscenza, ma piutto-
sto il luogo in cui la conoscenza si produce, si costruisce, si speri-
menta. In questi termini deve essere intesa la ricerca e l’esercizio
costante di nuove forme espressive che accomuna entrambi gli
autori. La ricerca di un nuovo linguaggio, la sperimentazione di
stili di scrittura diversi, non è dunque la conseguenza di un espe-
rimento ilosoico, ma piuttosto coincide con tale esperimento, è
tentativo teoretico, produzione di nuove forme conoscitive.
La possibilità di un confronto tra il pensiero di Nietzsche e
quello di Adorno è tuttavia problematica, in quanto essi riman-
dano a tradizioni ilosoiche differenti. In particolare la nozione
di stile in Adorno viene solitamente compresa in riferimento al
pensiero di altri autori, come György Lukács o Walter Benja-
min2. In realtà, Adorno sembra spesso allontanarsi da tale tradi-
zione per introdurre rilessioni inedite, attraverso cui emerge, in
modo più discreto, il pensiero di Nietzsche. Questa afinità con
Nietzsche è riconoscibile soprattutto negli scritti di Adorno degli
anni Cinquanta, dove la rilessione ilosoica si accompagna ad
un lavoro costante sullo stile, che si riproduce nell’esercizio di
forme diverse: dai saggi-aforismi di Minima Moralia (1951), alle
brevi rilessioni di Prismen (1955, Prismi), alla nozione di saggio
e di saggismo in Der Essay als Form (1958, Il saggio come forma)
ino ai «paragrai brevi» della prima versione di Ästhetische The-

2 Ad esempio la rilessione di Adorno sul concetto di saggio e di saggismo viene


approfondita solitamente attraverso un confronto con la tradizione di Benjamin, Simmel,
Kassner e Lukács (cfr. ad es. A. Lehr, Kleine Formen, Norderstedt 2003; P. V. Zima,
Essay und Essayismus, Würzburg 2012). Sebbene Nietzsche sia riconosciuto come uno
dei riferimenti principali per comprendere ed analizzare lo stile di Adorno (cfr. ad es. G.
Rose, The Melancholy Science, New York 1978; K. Bauer, Nietzschean Narratives, Albany
1999), i tentativi di ricostruire l’inluenza di Nietzsche nel pensiero di Adorno sono estre-
mamente rari nella letteratura secondaria.
Lo stile come forma del pensiero 265

orie (1961, Teoria estetica)3. In questi anni Adorno sembra dun-


que intraprendere un esperimento della forma breve che ricorda
molto da vicino lo stile di Nietzsche, ed in particolare l’aforisma,
tanto che l’esperimento stilistico di Adorno appare quasi come
un tentativo di proseguire quello nietzscheano.
Questa vicinanza con Nietzsche e l’interesse per la forma afo-
ristica trova conferma anche nell’opera di un altro autore, Heinz
Krüger, che, proprio negli anni Cinquanta, con la supervisione di
Adorno, intraprese un lavoro di ricerca dedicato alla questione
dello stile e della forma del pensiero ilosoico4. Questa ricerca si
concluse poi con la pubblicazione nel 1957 di un saggio intitola-
to Studien über den Aphorismus als philosophische Form5 (Studi
sull’aforisma come forma filosofica), in gran parte dedicato all’a-
3 La prima versione della Teoria estetica, che Adorno comincia a scrivere il 4 maggio

del 1961, era composta non da capitoli, come appare oggi, ma da «paragrai relativamen-
te brevi». Cfr. T. W. Adorno (1970), Teoria estetica, Torino 2009, postilla editoriale p.
495: «Il 4 maggio 1961 Adorno cominciò a dettare una prima versione di Teoria estetica
che era articolata in paragrai relativamente brevi. Il lavoro venne ben presto interrotto
[…] Adorno pose mano il 25 ottobre 1966 ad una nuova versione dell’estetica. La suddi-
visione in paragrai cedette il posto ad una suddivisione in capitoli».
4 Heinz Krüger fu uno dei primi allievi di Adorno, dopo il suo ritorno a Francoforte

nel 1949. All’epoca Krüger era un giovane poco più che trentenne, e come racconta Rolf
Tiedemann, che ha curato l’edizione critica dello studio di Krüger del 1988, era direttore
dell’uficio del personale della «Frankfurter Rundschau». Krüger non era dunque un i-
losofo di professione, tuttavia Adorno, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, lo seguì
in un lungo lavoro di ricerca sullo stile e sulla forma del pensiero ilosoico, che doveva
articolarsi in un’opera composta da diversi volumi, ma che si concluse prematuramente
con la morte di Krüger e con la pubblicazione (postuma) della tesi intitolata Studien über
den Aphorismus als philosophische Form (Studi sull’aforisma come forma ilosoica).
5 Il volume costituisce la tesi di dottorato di Heinz Krüger, e doveva essere il mo-

mento preliminare di un’opera più ampia. Krüger morì tuttavia poche settimane dopo
il conseguimento del dottorato, nel gennaio 1956, all’età di 39 anni, «vinto da un male
che doveva roderlo ormai da tempo e che egli volle eroicamente ignorare per portare a
termine il lavoro iniziato». Così scrive Adorno nell’introduzione alla prima edizione dello
studio di Krüger, mosso dalla «gioia del maestro nel poter presentare l’opera prima del
proprio allievo» a cui si accompagna «la tristezza di sapere che è anche l’ultima». Alla
prima edizione del 1957, pubblicata postuma con il titolo Studien über den Aphorismus
als philosophische Form dalla casa editrice Nest Verlag di Francoforte, segue nel 1988
l’edizione critica su cui si basa il presente saggio: H. Krüger, Über den Aphorismus als
philosophische Form, München 1988. L’introduzione di Adorno, che accompagnava l’e-
dizione del 1957, è stata tradotta in italiano e pubblicata in M. A. Rigoni, (a cura di), La
brevità felice, Venezia 2006, pp. 15-17, con il titolo L’aforisma come forma ilosoica.
266 Susanna Zellini

forisma di Nietzsche come esempio di una «forma integrale di


pensiero»6 attraverso cui si produce, si costruisce e si sperimenta
un nuovo percorso ilosoico. Non è un caso che negli stessi anni
in cui Krüger scrisse Der Aphorismus als philosophische Form
(1957), Adorno compose il suo noto saggio intitolato Il saggio
come forma. L’afinità tra i due scritti sembra indicare una pro-
fonda inluenza da parte di Nietzsche nella rilessione estetica di
Adorno, ed in particolare nella nozione di saggio (Essay) e di sag-
gismo (Essayismus). Nello studio di Adorno emergono rilessio-
ni talmente vicine al pensiero di Nietzsche e all’interpretazione
di Krüger da poter ipotizzare una riformulazione della nozione
adorniana di saggio alla luce del pensiero di Nietzsche. Il saggio
sembra quasi un ampliamento dell’aforisma, o meglio l’orizzonte
in cui i singoli aforismi, come complessi parziali, trovano una
loro collocazione.
Questa stretta «parentela»7 tra il saggio e l’aforisma caratteriz-
za anche lo stile di Minima Moralia, che fu deinito da Thomas
Mann come una «forma felice» («glückliche Form») che oscilla
tra il saggio e l’aforisma e può essere inteso «come lungo aforisma
o breve saggio»8. Questa costruzione duplice ricorda profonda-
mente l’esperimento stilistico di Nietzsche nel terzo libro della
Genealogia della morale, dove un aforisma introduce un saggio
«che ne è il commento»9 (GM Vorrede 8, KSA 5, p. 256; Vol.
6 «[…] per lo meno a partire da Nietzsche l’aforisma avanza la seria pretesa di essere
una forma integrale di pensiero». H. Krüger, Über den Aphorismus als philosophische
Form, cit., p. 13: «[…] erhebt der Aphorismus zumindest seit Nietzsche den sehr ernsten
Anspruch, eine integrale Denkform zu sein».
7 Cfr. A. Montadon (Le forme brevi, Roma 2001), che colloca il saggio tra le «forme

ibride» dell’aforisma: «[…] quindi esiste una parentela stretta tra saggio e aforisma, spes-
so nel contenuto delle idee e nella soggettività della rappresentazione» (p. 88).
8 Th. Mann an T. W. Adorno, Brief 09.01.1952, in Briefwechsel 1943-1955, a cura

di Ch. Gödde und Th. Sprecher, Frankfurt a. M. 2002, p. 97: «Was für eine glückliche
Form, der long aphorism oder short essay Ihrer Minima Moralia!»
9 Cfr. anche: «nel terzo saggio di questo libro ho presentato un modello di quel che

in un caso del genere intendo per ‚interpretazione‘ – a questo saggio è fatto precedere un
aforisma ed esso stesso ne rappresenta un commento» (GM Vorrede 8, KSA 5, pp. 255 s.;
Vol. VI, Tomo II, p. 221). Sulla particolare struttura di Minima Moralia cfr. E. Mengaldo,
Zitate und Bilder, zum Verhältnis von Titel und Text in Th. W. Adornos Minima Moralia,
in «Jahrbuch der deutschen Schiller-Gesellschaft», 54 (2010), pp. 458-473.
Lo stile come forma del pensiero 267

VI, Tomo II, p. 221). Analogamente, Minima Moralia si articola


non tanto in aforismi, ma piuttosto in saggi brevi introdotti da
aforismi: gli uni rimandano agli altri in un rapporto circolare che
il lettore deve ricomporre, secondo un’arte dell’interpretazione
che ricorda quella di Nietzsche.
L’attenzione di Adorno per l’aforisma emerge inoltre nell’in-
troduzione al saggio di Krüger, che Adorno scrisse nel febbraio
1956. L’aforisma viene qui descritto non come fenomeno lingui-
stico o come genere letterario, ma piuttosto come una forma di
pensiero («Denkform»), come «un modo di ilosofare che afian-
ca la ilosoia in senso stretto»10. Questo ilosofare aforistico si
traduce nell’esperienza di un pensiero aperto, critico, che sfugge
a forme chiuse e deinitive, e si esprime in un linguaggio in fran-
tumi, in una scrittura che si spezza.
Questa scrittura spezzata e frammentaria non deve tutta-
via essere confusa con il frammento inteso in senso romantico
quale atto simbolico della tensione del particolare verso l’uni-
versale. La distinzione tra scrittura frammentaria e frammento,
sottolineata da Adorno, è uno dei motivi centrali dello studio di
Krüger. Krüger sottolinea la continuità tra la scelta di Nietzsche
dell’aforisma e i frammenti di Schlegel e di Novalis, perché en-
trambi rappresentano un «pensiero in frantumi» («Denken in
Brüchen»)11. Tuttavia l’intenzione è differente: se il frammento
si trova in armonia e in accordo con il linguaggio, l’aforisma gli fa
da contrappunto. Secondo Krüger, il frammento rimanda infatti
alla concezione romantica secondo cui ogni lingua è il rilesso
sbiadito di un linguaggio originario, miticamente donato, ma
poi andato perduto: «I romantici restano nel linguaggio», scri-
ve Kruger, «attraverso la dissoluzione e la dissimulazione della
forma aspirano al di là del carattere frammentario del linguaggio

10 «Ein Philosophieren neben der Philosophie im engeren Sinne». T. W. Adorno,


Einführung, in H. Kruger, Der Aphorismus als philosophische Form, cit., p. 7, tr. it. in M.
A. Rigoni, (a cura di), La brevità felice, cit., p. 16. Cfr. anche H. Krüger, Der Aphorismus
als philosophische Form, cit., p. 33: «Immer erscheint er [der Aphorismus] als Typus
eines Philosophieren».
11 H. Krüger, Der Aphorismus als philosophische Form, cit., p. 61.
268 Susanna Zellini

empirico, per riavvicinarsi ad un linguaggio originario rivelato


[…]»12. In questa prospettiva, la scelta del frammento corrispon-
de ad una precisa dichiarazione d’intenti: esso diventa il «germe
di tale sistema» («Keim»)13, e pertanto vive sospeso nella ten-
sione («Schwebezustand»)14 verso quell’archetipo perduto, a cui
sempre nostalgicamente aspira («streben»)15.
Al contrario l’aforisma non nasce dalla nostalgia, ma piuttosto
dal disincanto: esso è il «tutto» dopo il sistema, è la forma che
emerge dalla consapevolezza dell’impossibilità del sistema stesso.
Se tale consapevolezza provoca anche in Nietzsche un pensiero
e una scrittura in frantumi, questa écriture fragmentaire non deve
essere tuttavia confusa con l’uso letterario del frammento, piut-
tosto essa rappresenta, più modernamente, una frammentazione
di tematiche e contenuti, e in senso più ampio una frammenta-
zione teoretica ed esistenziale, intesa come condizione di déca-
dence che deve essere sempre ricomposta, superata, guarita: per
questo se il frammento è «il medio» per un ideale perduto, l’afo-
risma è allora «il rimedio» alla malattia idealistica16. Qui emerge

12 Ivi, p. 71: «Die Romantiker bleiben in der Sprache. Durch Formentgrenzung und

Formverschleierung streben sie nur über den fragmentarischen Charakter der empiri-
schen Sprache hinaus, um einer geoffenbarten Ursprache sich zu nähren[…].»
13 Ivi, p. 66.
14 Ibid.
15 Ivi, p. 62: «Beide zielen mit ihren ‚Fragmenten‘ in Wahrheit auf das ‚Ganze‘, denn

in der Vorstellung eines Bruchstücks ist der Gedanke an Totalität schon mitgesetzt».
(«Entrambi in verità rimandano attraverso i loro frammenti ad un ,tutto‘, poiché nella
rappresentazione di un frammento il pensiero della totalità è già implicito»).
16 Ivi, pp. 67 s.: «Im Medium des Fragments beschädigen die Romantiker gewisser-

maßen erst etwas, um es heilen zu können, während der Aphorismus […] immer als Re-
medium erscheint, zuerst gegen Krankes, Defektes, aber auch als Protest gegen obskure
Heilversuche, dann bei Nietzsche gegen die ‚Erkrankung an der gefährlichsten Form der
Romantik‘» («Nel medio del frammento i romantici danneggiano per così dire qualcosa,
per poterlo poi guarire, mentre l’aforisma […] appare sempre come rimedio, innanzi-
tutto contro il malato, il difettoso, ma anche come protesta contro gli oscuri tentativi di
guarigione, e in Nietzsche contro ‚un temporaneo ammalarsi della forma più pericolosa
di romanticismo‘»). Il riferimento è a MA II, KSA II, p. 371; Vol. IV, Tomo III, p. 5. Sul-
la confusione tra frammento e aforisma cfr. anche Nietzsche: «Contro i miopi. Credete
dunque che sia opera frammentaria, perché ve la si dà (e si deve dare) a pezzi?» (VM 128,
KSA 2, p. 432; Vol. IV, Tomo III, p. 52). Sulla differenza tra aforisma e frammento cfr.
Lo stile come forma del pensiero 269

in particolare il valore terapeutico dell’aforisma di Nietzsche17,


che al contrario del frammento romantico reagisce alla pretesa
ilosoica di totalità. La forma breve è «l’eccezione che funge da
correttivo»18 alle grandi dimensioni del sistema: contro la pretesa
di grandezza del sistema lo stile riduce le sue forme, retrocede
nella forma breve.
La riduzione del linguaggio ad una dimensione micrologica, il
ritorno ad una poetica della brevità è centrale anche nel pensiero
di Adorno, dove la forma breve è la conseguenza immediata di
un pensiero che si emancipa da ogni universalismo, «è il luogo di
rifugio» («der Ort des Zuluchts») del pensiero che sfugge al to-
tale19. Il destino della scrittura somiglia da questo punto di vista
al destino di Melusine, una igura che Adorno riprende da Goe-
the e che cita nella Dialettica Negativa20. Nel racconto di Goethe
Melusine appartiene all’antica stirpe dei nani costretti da Dio,
per peccato di tracotanza, a diventare sempre più piccoli, ino a
scomparire: «così tutto ciò che una volta è stato grande – afferma

A. Montadon, Le forme brevi, cit., p. 93. Cfr. anche D. Morea, Il respiro più lungo, Pisa
2011, pp. 40 ss.
17 Sul ruolo terapeutico dell’aforisma cfr. anche H. Krüger, Der Aphorismus als phi-

losophische Form, cit. p. 25: «Seit seinem hippokratischen Ursprung ist er [der Aphori-
smus] vielmehr darauf bedacht, das ‚Leben‘ vor Schaden zu bewahren, ‚beschädigtem
Leben‘ Remedium zu sein […]». («Dalla sua origine ippocratica esso [l’aforisma] è atto a
proteggere la ‚vita‘ dai danni, a essere rimedio alla ‚vita offesa‘»). Qui emerge in partico-
lare la vicinanza con i Minima Moralia di Adorno, il cui sottotitolo è Relexionen aus der
beschädigtem Leben (Meditazioni della vita offesa).
18 T. W. Adorno, Einführung, cit., p. 8: «Dabei nimmt er regelhaft die Form der

Ausnahme an, an der Regel und begrifliche Systematik scheitern. Die Ausnahme fun-
giert als Korrektiv». (Tr. it. in M. A. Rigoni (a cura di), La brevità felice, cit., p. 15: «Sic-
ché esso assume regolarmente la forma dell’eccezione, di fronte alla quale la regola e la
sistematica concettuale falliscono. L’eccezione funge da correttivo […]»). Cfr. anche H.
Krüger, Der Aphorismus als philosophische Form, cit., p. 13 e p. 79.
19 T. W. Adorno, Dialettica negativa, Torino 2004, p. 365.
20 Ibid.: «Ciò che retrocede diventa sempre più piccolo, come l’ha esposto Goethe

con la parabola della cassetta ne La nuova Melusina che nomina un estremo; e diviene
sempre più inappariscente; questo è il motivo critico-conoscitivo e di ilosoia della storia
del perché la metaisica si trasferisca nella micrologia. Questa è il luogo della metaisica
come rifugio da quella totale».
270 Susanna Zellini

Melusine nella parabola di Goethe – deve ora diventare piccolo,


ritirarsi»21.
L’idea di una brevità critica contro la tentazione sistematica
ritorna anche nella nozione adorniana di saggio, che riprende
la nozione di «brevità correttiva» rispetto al sistema. Il saggio
esprime la capacità di rilettere attraverso le singole parti, le
componenti brevi del discorso, e di «penetrare nel dettaglio e
di sciogliere nel dettaglio le questioni ilosoiche»22. Se il siste-
ma sempliica le sue componenti, ino ad annullare il particolare
nell’universalità delle sue forme, al contrario il saggio valoriz-
za ciò che è breve, lo custodisce al suo interno. Il «saggismo» è
dunque riflessione attraverso il particolare.
Questo ritorno al particolare, il restringersi della forma verso
una poetica della brevità, nasconde tuttavia un rischio: quello
di una sopravvalutazione e dunque di una prevaricazione del
dettaglio sull’insieme. Il riiuto del modello sistematico non con-
duce al suo opposto: ad una molteplicità caotica, ad una plura-
lità amorfa, che per Adorno è espressione di una «condizione
demoniaca»23 e per Nietzsche è sempre sintomo di decadenza:
«Da che cosa è caratterizzata ogni décadence letteraria? Dal fatto
che la vita non risiede più nel tutto. La parola diventa sovrana e
spicca un salto fuori dalla frase, la frase usurpa e offusca il senso
della pagina, la pagina prende vita a spese del tutto, – il tutto
non è più tutto» (WA 7, KSA 6, p. 27; Vol. VI, Tomo III, p.
22). Al contrario la critica al sistema, il ritorno ad una scrittu-
ra frammentaria, nasconde un potenziale costruttivo, una forza
compositiva, che mette in relazione gli elementi singoli in nuove
conigurazioni possibili. La critica al modello sistematico non si-
gniica pertanto un riiuto della forma a favore del particolare,
ma piuttosto la valorizzazione del particolare come momento co-

21 J. W. von Goethe, Die neue Melusine, in Id., Goethes Werke, Hamburger Ausgabe,
14 Voll., a cura di E. Trunz, München 1978, Vol. 8, p. 41.
22 T. W. Adorno, L’attualità della ilosoia, Milano 2009, p. 58.
23 Ivi, p. 48: «Il testo che la ilosoia deve leggere è un testo incompleto, colmo di

contraddizioni e fragile: molto di tutto ciò può essere attribuito all’irrazionalità cieca del
reale».
Lo stile come forma del pensiero 271

struttivo di nuove forme. «La conoscenza veramente allargante»


scrive Adorno in Minima Moralia «è quella che indugia presso il
singolo fenomeno finché, sotto l’insistenza, il suo isolamento si
spezza»24.
La possibilità di sospendere l’isolamento della forma e aprire
i suoi conini verso nuovi riferimenti e combinazioni possibili è
un aspetto essenziale della scrittura aforistica di Nietzsche25. L’a-
forisma infatti si colloca sempre all’interno di un orizzonte più
ampio di signiicato, che concilia il carattere autonomo ed indi-
pendente della forma con una particolare capacità di interazione,
con l’esigenza di un nesso. Aphorizo (ἀϕορίζω) in greco signii-
ca infatti «de-limitare», stabilire un conine. Ma ciò che viene
deinito si pone sempre in rapporto con ciò che resta fuori dal
conine, con un contesto più ampio. Il signiicato di un aforisma
non è mai pienamente compreso nella forma scritta, ma implica
sempre il rimando ad un orizzonte non detto, che il lettore deve
interpretare. Un aforisma «non è ancora ‚decifrato‘ per il fatto
stesso di venire letto» scrive Nietzsche: «è piuttosto vero che da
questo momento deve avere inizio la sua interpretazione, cosa per
la quale occorre un’arte dell’interpretare» (GM Vorrede 8, KSA
5, p. 255; Vol. VI, Tomo II, p. 221):

[…] così l’esposizione incompleta – modo del rilievo – di un pensiero,


di un’intera ilosoia, è talora più eficace dell’espressione esauriente: si
lascia più al lavoro di chi guarda, questi viene spinto a continuare e a
compiere con il pensiero ciò che gli si staglia davanti in così forte chia-
roscuro, e a superare egli stesso l’ostacolo che le aveva issato ed allora
impedito di balzar fuori compiutamente (MA I 178, KSA 2, pp. 161 s.;
Vol. IV, Tomo II, pp. 137 s.)26.

24 T. W. Adorno, Minima Moralia, cit., §46.


25 Cfr. H. Krüger, Über den Aphorismus als philosophische Form, cit., pp. 85 ss.
26 Lo stesso pensiero ritorna, con un’immagine diversa, anche in un frammento del

1876/77: «Una sentenza è l’anello di una catena di pensieri: essa richiede che il lettore
ristabilisca questa catena con mezzi propri: ciò vuol dire pretendere moltissimo» (NF
20[3], KSA 8, p. 361; Vol. IV, Tomo II, p. 370). Cfr. H. Krüger, Über den Aphorismus als
philosophische Form, cit., p. 98.
272 Susanna Zellini

L’aforisma ha dunque l’antica capacità di svelare («entlar-


ven») e allo stesso tempo di nascondere («verschweigen») il pro-
prio signiicato. Questa poetica di omissione e smascheramento,
che rimanda alla natura retorica del linguaggio, ha una doppia
funzione: da una parte invita il lettore a proseguire il signiicato
scritto, dall’altra tira indietro, costringe il lettore a ritornare e
a rimuginare su ciò che ha appena letto: tutti i «problemi pro-
fondi» richiedono infatti un doppio movimento: «come con un
bagno freddo, presto dentro, presto fuori» (FW 381, KSA 3, p.
634; Vol. V, Tomo II, p. 260)27. Per questo motivo la brevità
dell’aforisma ha sempre una natura bifronte: da una parte trat-
tiene il lettore all’interno dei suoi conini saldi e deiniti, dall’altra
lo provoca e lo seduce, lo invita a continuare il pensiero, a rin-
tracciare il signiicato non detto ma solo accennato. L’aforisma è
dunque una scrittura sempre in tensione verso i suoi conini, tut-
ta la forza e il signiicato tende verso il punto inale («Pointe»),
che non è la conclusione ma piuttosto un’attesa, un’apertura, la
promessa mancata di una piena comprensione:

Pensieri non giunti a compimento. […] hanno un valore in sé. Bisogna


[…] compiacersi dell’incertezza del suo orizzonte, come se fosse ancora
aperta la via ad altri pensieri. Si sta sulla soglia; si attende come per il
dissotterramento di un tesoro: è come se stesse per operarsi il fortunato
ritrovamento di un profondo pensiero. Il poeta anticipa qualcosa del
piacere del pensatore nel ritrovare un grande pensiero e ce ne rende in
tal modo desiderosi, […] ma quello passa svolazzando sulle nostre teste
mostrandoci bellissime ali di farfalla – e tuttavia ci sfugge (MA I 207,
KSA 2, p. 170 s.; Vol. IV, Tomo II, p. 144)28.

Tuttavia nel saggio il rimando della scrittura all’interpretazio-


ne non è esterno, al conine della forma, ma piuttosto interno alla
forma stessa. Se l’aforisma tende oltre i propri conini, là dove è
27 Cfr. inoltre: «Un libro come questo non è da leggersi tutto di seguito e ad alta voce,

ma da sfogliare, particolarmente passeggiando e viaggiando; occorre poterci mettere la


testa dentro e sempre di nuovo fuori, senza trovare intorno a sé nulla di consueto» (M
454, KSA 3, p. 274; Vol. V, Tomo I, p. 223).
28 Corsivo mio.
Lo stile come forma del pensiero 273

possibile proseguire il signiicato scritto, il saggio tende piuttosto


all’interno della forma, ad un’assenza di signiicato intrinseca alla
scrittura. L’Essay infatti è una costellazione di complessi parzia-
li, che tendono ad un centro («Mittelpunkt»). Questo centro è
tuttavia assente: «è un punto di vista sottratto»29. Il saggio tende
dunque non al conine della scrittura, ma piuttosto al centro del-
la forma scritta, là dove la sintesi rivela una scissione, una revoca
interna.
Questo rimando – non più esterno («nach außen») ma interno
(«nach innen») – modiica anche il ruolo del lettore. L’attenzione
del lettore non è più posta al conine della forma, là dove è pos-
sibile proseguire la scrittura nel pensiero: essa si orienta piutto-
sto all’interno, indaga le parti costitutive del saggio30. Al lettore
non viene più richiesto di proseguire e ampliare il signiicato, ma
piuttosto di scomporre tale signiicato nelle sue parti costitutive,
di indugiare sulle singole prospettive che lo compongono, per
poi combinarle in una nuova conigurazione, che ne illumina il
signiicato. Quest’arte dell’interpretazione («Deutung»)31 non
rimanda dunque ad una pluralità di interpretazioni possibili, al
di là della forma scritta, ma considera tale pluralità come interna
e costitutiva della forma, e la forma come l’esercizio costante e
mai inito di un’attività interpretativa: «Scrive con lo stile tipico
del saggio colui che compone sperimentalmente, volta e rivolta il
suo oggetto, lo interroga, lo palpa, lo esamina, lo penetra con la
rilessione, colui che lo affronta da angolature diverse»32.
Da questo punto di vista il saggio non indica tanto una for-
ma, quanto piuttosto un’attitudine saggistica del pensiero («eine
essayistische Haltung des Denkens»), intesa come capacità di ri-

29 T. W. Adorno, Minima Moralia, cit., §153.


30 Cfr. T. W. Adorno, Il saggio come forma, in Id., Note per la letteratura, Vol. I,
trad. it. di E. de Angelis et al., 2 Voll., Torino 2012, p. 16: «Il saggio invece stringe tanto
dappresso l’hic et nunc dell’oggetto, sino a che questo si scompone nei vari momenti di
cui vive, invece di essere niente più che un oggetto».
31 Sulla nozione di interpretazione in Adorno cfr. P. von Wussow, Logik der Deu-

tung, Würzburg 2007, p. 24.


32 Ivi, p. 18. Si tratta di una citazione di M. Bense, Über den Essay und seine Prosa, in

«Merkur», I/3 (1947), p. 418.


274 Susanna Zellini

lettere attraverso differenti prospettive e punti di vista. L’Essay


è pertanto un esercizio del pensiero, è scrittura che coincide con
la rilessione, è l’essere della forma inteso come divenire del pen-
siero.
Questa considerazione emerge anche nella rilessione di
Krüger, che nel suo studio su Nietzsche descrive l’aforisma come
combinazione di essere e divenire: l’aforisma non è il luogo né
del divenire né dell’essere, ma piuttosto il luogo in cui il dive-
nire si combina con l’essere, in un processo dialettico. L’entità
visibile della forma scritta rimanda infatti ad un orizzonte aperto
di prospettive in divenire, come una «lunga catena di pensieri
nascosti»33, e instaura con essa un processo dialettico in cui «si
confrontano costantemente entrambi i mondi, ovvero essere e
divenire, o conoscenza e verità»34. Adorno non solo riprende, ma
amplia e radicalizza tale considerazione: l’Essay non solo combi-
na l’essere e il divenire, ma trasforma tale combinazione in coin-
cidenza. Il saggio, come «saggismo», è rilessione, pensiero, eser-
cizio di conoscenza. Pertanto l’essere della forma non rimanda
al divenire del pensiero, ma coincide con esso, è la momentanea
attestazione di ciò che diviene35.
Questa coincidenza di essere e divenire viene espressa da
Adorno con il verbo «austragen», che indica la capacità della
forma di dar corso ai conlitti, agli urti, ai dissidi36. È dunque la
forma stessa che dà luogo al divenire: essa si rivela infatti come
rapporto tra i suoi elementi, che si dispongono come centri di
tensione in reciproco conlitto. Il saggio dunque non rimanda a

33 Cfr. H. Krüger, Über den Aphorismus als philosophische Form, cit., p. 98: «Indem

der Aphorismus aus dem allgemeinen perspektivischen Horizont beständig sich heraus-
setzt, kann er nicht selber ein fügsames Glied oder ‚Fragment‘ sein. Als ‚Endglied einer
langen Kette verbotener Gedanken‘, wie Nietzsche einmal sagt, nimmt er in seiner Spra-
chform den gleichen autonomen Charakter an […], dem er als Denkform widerspricht».
34 Ivi, p. 97: «Im dialektischen Prozeß des Aphorismus setzen sich beide Welten,

nämlich Sein und Werden oder Erkenntnis und Wahrheit ständig auseinander […]».
35 T. W. Adorno, Il saggio come forma, cit., pp. 20 s.
36 Come sottolineano F. Desideri e G. Matteucci, nell’introduzione alla Teoria esteti-

ca di Adorno il verbo «austragen» è uno dei lemmi più frequenti e richiede pertanto una
particolare attenzione. Cfr. T. W. Adorno, Teoria estetica, cit., Introduzione p. XXXIII.
Lo stile come forma del pensiero 275

tale conlitto, ma coincide con esso: le singole prospettive che lo


compongono esistono e si formano solo in quanto si deiniscono
le une rispetto alle altre, in quanto ognuna è richiesta dalle altre,
in un rapporto di reciproca tensione. Il saggio, scrive Adorno,
prende pertanto la forma di «un magnete», che istituisce «un
campo di forze»37 («Kraftfeld»), inteso come tensione reciproca,
interazione tra prospettive diverse.
Questa nozione di Essay come relazione e «rapporto tra for-
ze», sembra portare l’esperimento di Nietzsche alle estreme
conseguenze: se l’aforisma è la forma che scopre la possibilità di
un’interazione, di un nesso, il saggio si appropria di tale scoperta
e trasferisce l’idea di interazione al suo interno, come relazione
tra prospettive differenti. L’Essay non è dunque forma, ma rap-
porto tra prospettive, saggismo inteso come capacità di relazione:

[…] il saggio sollecita l’interazione dei suoi concetti nel processo


dell’esperienza spirituale. In essa i concetti non costituiscono il conti-
nuum delle operazioni, il pensiero non procede tutto chiuso in se stes-
so, ma i vari aspetti si intrecciano l’uno con l’altro come in un tappeto.
Dalla ittezza di questo intreccio dipende la fecondità dei pensieri38.

Questa deinizione di saggio individua uno degli aspetti più


originali della riflessione di Adorno, in quanto conduce ad una
totale abolizione della «forma», intesa come entità circoscritta,
dai chiari conini, come è ancora l’aforisma di Nietzsche39. Esso
somiglia piuttosto ad un intreccio di pensieri, che non si arresta
entro una cornice, ma procede all’ininito. Da questo punto di
vista il saggio ricorda molto da vicino l’immagine aperta della co-

37 T. W. Adorno, Il saggio come forma, cit., p. 15.


38 Ivi, p. 14.
39 L’aforisma si presenta sempre come forma autonoma, dai conini ben deiniti,

circoscritta, incorniciata da «spazi bianchi» (Cfr. A. Montadon, Gli spazi bianchi dell’a-
forisma, in G. Cantarutti, La scrittura aforistica, Bologna 2001, p. 47), tanto da apparire
come una «piccola totalità», o come «totalità in miniatura». Cfr. C. Gentili, Aforisma,
in P. d’Angelo (a cura di), Forme letterarie della ilosoia, Roma 2012, p. 33, e anche A.
Montadon, Le forme brevi, cit., p. 105.
276 Susanna Zellini

stellazione di Benjamin, a cui spesso viene accostato40: «Proprio


del pensiero non è solo il movimento delle idee, ma anche il loro
arresto. Quando il pensiero si arresta d’improvviso in una costel-
lazione satura di tensioni, le provoca un urto in forza del quale
essa si cristallizza come monade»41. La costellazione descritta
da Benjamin provoca uno «shock» improvviso, un’immagine in
cui i pensieri si arrestano («stillstehen») e si cristallizzano: tale
immagine, scrive Benjamin, è «dialettica nell’immobilità»42. Se
la costellazione determina un’immagine immobile, uno stato di
arresto («ein Stillstand»), il saggio al contrario si conigura come
«campo di forze», che non arresta ma alimenta il movimento dia-
lettico: esso vive di tale movimento, perché lo mette in atto43.
Per questo motivo il saggio, come relazione tra pensieri, non si
traduce in immagine44, ma si conigura piuttosto come momento
di tensione, che trattiene e non arresta, sospende e dunque con-
serva il movimento del pensiero:

Il saggio è più dinamico del pensiero tradizionale per la tensione


tra rappresentazione e rappresentato, ma del pensiero tradizionale è
al tempo stesso più statico in quanto coesistenza costruita. Questo è
l’unico motivo che lo rende afine all’immagine, solo che quella staticità

40 Cfr. P. Zima, Essay und Essayismus, cit., pp. 152 ss. Zima descrive il concetto di

saggio come nozione «complementare» a quella di costellazione e di conigurazione di


Benjamin, pertanto il saggio e il saggismo di Adorno devono essere interpretati «come
uno scrivere e un ilosofare per costellazioni e conigurazioni» (p. 154).
41 W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino 1997, p. 52.
42 W. Benjamin, I passages di Parigi, in Opere complete di Walter Benjamin, ed. italia-

na a cura di E. Ganni, Vol. IX, Torino 2014, p. 516: «[…] immagine è ciò in cui quel che
è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è
la dialettica nell’immobilità».
43 Non è un caso che al concetto benjaminiano di «arresto» e «immobilità» («Still-

stand») Adorno preferisca piuttosto quello di interruzione («innehalten»), come pausa


che non arresta ma implica un proseguimento del pensiero. Cfr. T. W. Adorno, Kierke-
gaard. Konstruktion des Ästhetischen, Frankfurt a. M. 2003, p. 80: «Dialektik hält im Bild
inne» («la dialettica si interrompe nell’immagine»).
44 Per questo motivo nell’immagine si nasconde sempre, secondo Adorno, un «resto

di positività non-dialettica» («einem Rest undialektischer Positivität»), cfr. T. W. Ador-


no, Dialettica negativa, cit., p. 19.
Lo stile come forma del pensiero 277

scaturisce da una situazione di tensione sospesa in un certo qual modo


da una tregua45.

Per questo motivo, in particolare dagli anni Cinquanta,


Adorno sembra allontanarsi dalla nozione di «costellazione» e
di «immagine» per inseguire piuttosto l’idea di una conigura-
zione completamente dialettica. Il saggio è «più dialettico della
dialettica»46, è un esercizio del pensiero, e come tale è certamente
più vicino a Nietzsche e all’interpretazione krügeriana di afori-
sma come attitudine del pensiero, che non all’immagine di co-
stellazione di Benjamin. Non è un caso che Benjamin non com-
paia affatto nello scritto di Adorno, piuttosto è Nietzsche che
ritorna nelle ultime pagine del saggio, quasi come ultima eco
della rilessione di Adorno. Non si tratta di un’aggiunta casua-
le, di un’ultima precisazione, ma della possibile chiave di lettura
dell’intera rilessione adorniana sul saggio. Adorno indica infatti
un frammento di Nietzsche come «criterio» dell’Essay:

Posto che diciamo di sì a un unico istante, con ciò abbiamo detto di


sì non solo a noi stessi ma a tutta l’esistenza. Perché nulla sussiste iso-
latamente, né in noi stessi né nelle cose; e se la nostra anima ha, come
una corda, vibrato e risuonato di felicità anche una sola volta, tutte
le eternità furono necessarie per determinare quest’unico accadimento e
tutta l’eternità è stata, in quest’unico istante della nostra affermazione,
approvata, redenta, giustiicata e affermata47.

Questo frammento, che risale al 1886/87, si inserisce all’in-


terno della rilessione nietzscheana sull’eterno ritorno e fa rife-
rimento alla misteriosa nozione dell’«attimo immenso» («un-
geheurer Augenblick») (FW 341, KSA 3, p. 570; Vol. V, Tomo

45 T. W. Adorno, Il saggio come forma, cit., p. 24. Corsivo mio.


46 Ivi, p. 20. Non è un caso che anche nelle opere successive, ad es. in Dialettica ne-
gativa, Adorno faccia riferimento alla costellazione come «rapporto» (cfr. T. W. Adorno,
Dialettica negativa, cit., p. 146).
47 T. W. Adorno, Il saggio come forma, cit., p. 25. Il riferimento è a NF 7[38], KSA

12, pp. 307 s.; Vol. VIII, Tomo I, pp. 292 s. Corsivo mio.
278 Susanna Zellini

II, pp. 201 s.)48 . L’attimo immenso è l’esperienza che scardina


la concezione temporale tradizionale49, basata sulla successione
lineare, per aprirsi invece ad una compresenza di ininite possibi-
lità di connessione tra momenti diversi, dove i modi di connes-
sione non sono più issi, rigidamente stabiliti, piuttosto variabili e
molteplici, come le ininite interpretazioni che si possono dare di
un oggetto. Nella rilessione di Adorno il riferimento all’«attimo
immenso» signiica la ricerca di un’esperienza più complessa
di signiicato, e se tale riferimento è indicato addirittura come
«criterio» del saggio, signiica che il saggio è l’esperimento più
estremo di tale esperienza. Come l’attimo di Nietzsche, il saggio
è infatti il tentativo di rimettere in discussione i modelli tradizio-
nali di stile, di forma, di immagine, per sperimentare qualcosa di
nuovo. Per questo motivo l’Essay di Adorno non è più la costru-
zione di una forma o di un’immagine, ma è il tentativo di deinire
una conigurazione inedita, intesa come rapporto o relazione tra
elementi diversi, verso un’esperienza più complessa di pensiero
e scrittura:

48 Cfr. anche: «l’attimo ininitamente piccolo è la realtà e verità superiore, un’im-


magine subitanea dal lusso eterno» (NF 11[156], KSA 9, p. 500; Vol. V, Tomo II, p.
363); «In ogni attimo, nella condizione di un essere, sono aperte strade innumerevoli del
suo sviluppo» (NF 11[98], KSA 9, p. 476; Vol. V, Tomo II, p. 327). Per una descrizione
dell’esperienza dell’attimo immenso cfr. FW 337, KSA 3, pp. 564 s.; Vol. V, Tomo II,
pp. 196 s. Per una trattazione più approfondita del tema dell’attimo in Nietzsche cfr.
G. Franck, Nietzsche: Tempo sacro, tempo del gioco nel pensiero dell’eterno ritorno, in
Crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzscheana del tempo, a cura di M. Cacciari,
Napoli 1980, pp. 93-129; R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli
1979, pp. 106 ss.; e soprattutto G. Pasqualotto, Nietzsche: attimo immenso e con-sentire,
in Id., Saggi su Nietzsche, Milano 1988, pp. 53-86.
49 Si allude qui sia alla concezione del tempo lineare, sia alla concezione del tempo

ciclica, che come sottolinea giustamente G. Pasqualotto (in Saggi su Nietzsche, cit., pp. 54
ss.), non corrispondono affatto alla visione dell’eterno ritorno di Nietzsche. Entrambe,
se pur antitetiche, si basano sulla medesima caratteristica della successione lineare, sulla
successione di punti. Entrambe prevedono dunque un inizio e una ine (nel caso del
segmento circolare l’estremo iniziale è contiguo al suo estremo inale), ed una linea di
punti in successione. Pertanto esse appartengono, dal punto di vista di Nietzsche, alla
medesima «tradizione metaisica» che implica un principio, un ine e un centro come
criterio di misura (oltre che un soggetto che stabilisce tale criterio).
Lo stile come forma del pensiero 279

I suoi concetti vanno esposti in maniera che si sorreggano a vicen-


da, e che ciascuno riceva la propria precisa articolazione soltanto dalle
igurazioni che forma nel rapporto con altri. […] Il saggio non crea co-
struzioni né strutture. Tuttavia attraverso il loro movimento gli elementi
si cristallizzano in conigurazione. Questa è un campo di forze […]50.

L’Essay non delinea più una struttura esterna alle sue com-
ponenti, una costruzione che trascende i suoi elementi, ma è
piuttosto la relazione immanente a tali elementi, è l’idea di una
interazione («die Idee jener Wechselwirkung»51). Della forma
tradizionale resta solo un’istanza unitaria, che viene intesa non
più come conine che racchiude una pluralità, ma come legame
intrinseco a tale pluralità, ovvero come principio di concordanza
(«Stimmigkeit»)52 tra le varie forze, come rapporto di equilibrio
tra centri di tensione.
Questa nozione di Essay risolve pertanto in maniera deini-
tiva l’eterno dualismo tra l’unità della forma e la pluralità del
pensiero: unità e pluralità coincidono ora nell’esperimento del
saggio: «È in egual misura sbagliato ipotizzare come realtà pri-
ma sia il tutto sia gli elementi […] di fronte all’uno e agli altri il
saggio si lascia piuttosto guidare dall’idea di una interazione, la
quale è tanto drasticamente intollerante al problema dei singoli
elementi quanto lo è al problema del tutto»53. Nell’esperimento
del saggismo non vi è dunque più né un tutto, né una pluralità
di elementi singoli, ma l’uno e l’altra si combinano come aspetti
del medesimo atto estetico, del medesimo percorso conoscitivo.
La possibilità di tale combinazione era già stata intuita da
Nietzsche. L’aforisma ha infatti insegnato la possibilità di una
scrittura che da un lato si emancipa dalla «‚tetragona stupidità‘
del sistema»54, senza dall’altro rinunciare ad «un ordine chia-
50 T. W. Adorno, Il saggio come forma, cit., p. 15. Corsivo mio.
51 Ibid.
52 T. W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 182.
53 T. W. Adorno, Il saggio come forma, cit., p. 15. Corsivo mio.
54 H. Krüger, Der Aphorismus als philosophische Form, cit., p. 88: «Vergleich man die

Zusammenhänge, dann stellt sich heraus, daß Nietzsche ‚Aphorismus‘ und ‚Aphoristisch‘
vorwiegend dort verwendet, wo er sich mit der ihn immer stärker bedrängenden Frage
280 Susanna Zellini

ro e comprensibile» del discorso. Con l’esperimento dell’Essay


Adorno riprende e rielabora tale insegnamento, e prosegue nella
stessa direzione: «come dovrebbe presentarsi una ilosoia che da
un lato si liberasse dell’idea di sistema senza dall’altro lato rinun-
ciare a quella della stringenza del pensiero. Posso dire che tutto
quello che faccio e cerco di fare mira a realizzare questa forma di
pensiero e nient’altro»55.

befaßt, wie seine Gedanken in eine übersichtliche Ordnung gebracht werden könnten,
ohne daß sie in eine ‚viereckigen Dummheit‘ eines Systems ihre Wahrheit und Wirkung
verlören». («Dal confronto risulta che Nietzsche usa ‚aforisma‘ e ‚aforistico‘proprio dove
egli si occupa della questione che più lo tormenta: come poter riportare i suoi pensieri
all’interno di un ordine perspicuo senza perderne la verità e l’effetto nella ‚tetragona
stupidità‘ del sistema»).
55 T. W. Adorno, Terminologia ilosoica, Torino 1975, p. 461.
Ästhetik der Historie
Die Nietzsche-Rezeption bei Heiner Müller am
Beispiel von Mommsens Block

Lianhua He

In Nietzsches Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das


Leben geht es um die Historie als Disziplin: Sie wird geprüft und
gewogen. Diese «Zweite unzeitgemäße Betrachtung» attestiert
dem 19. Jahrhundert, an einem «historische[n] Fieber» (HL
Vorwort, KSA 1, S. 246) zu leiden. Nietzsches Zeitgenosse, der
Historiker Theodor Mommsen, wurde 1902 für seine Römische
Geschichte mit dem Nobelpreis für Literatur ausgezeichnet. Er
galt als «the greatest living master of the art of historical writ-
ing»1 – so jedenfalls lobte ihn das damalige Nobelpreiskomitee.
Wie ich im Folgenden zeigen möchte, schlug Heiner Müller mit
Mommsens Block einen geschickten Bogen zwischen den beiden
Zeitgenossen, indem er Nietzsches philosophischen Kommen-
tar zur Geschichte im Modus der Kunst relektiert. Die Historie
wird nun nicht mehr unter der Optik des Lebens, sondern unter
der Optik der Kunst nach ihrem Nutzen befragt.
Friedrich Nietzsche ist für die literarische Welt der ersten
Hälfe des 20. Jahrhunderts von unübersehbarer Bedeutung. Je-
doch ist die Rezeption seines Werks nach 1945 in West- und
Ostdeutschland sehr unterschiedlich und teils auch im Verbor-
genen verlaufen. In der DDR wurde Nietzsche sogar lange tabui-
siert. Gerade bei Heiner Müller scheint die Nietzsche-Rezeption
noch weniger evident zu sein, sie wird deswegen auch selten
untersucht. Ein realer politischer Grund dafür ist, dass in der
DDR kaum öffentliche Diskussion über den als vermeintlichen

1 The Nobel Prize in Literature 1902: http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/lit-

erature/laureates/1902/. Abgerufen am 18.11.2016.


282 Lianhua He

Vordenker der NS-Ideologie verfemten Philosophen stattinden


konnte2. Daher gerieten mögliche positive Einlussnahmen auf
Müller nicht in den Blick. Überdies sind die Nietzsche-Anspie-
lungen in den Müller-Texten häuig nur verdeckt vorhanden, im
deutlichen Unterschied beispielsweise zu den offensichtlichen
Bezugnahmen auf Bertolt Brecht. Müllers Texte sind hochgra-
dig intertextuell und stellen sich als Dickicht von vielen Einzel-
zitaten, Bild-Montagen und trügerischen Selbst-Inszenierungen
dar. So werden die Stellen, die Bezüge auf Nietzsche nehmen,
auch sofort wieder von anderen Intertexten verdeckt. Daher
ist die Diagnose Theo Mayers in Bezug auf Müllers Nietzsche-
Rezeption teilweise nachvollziehbar:

Die Gegenwartsschriftsteller beschäftigen sich kaum mit Nietzsche.


Sie nehmen allenfalls am Rande von ihm Notiz […] Die Gegenwarts-
schriftsteller haben in der Regel kein Verhältnis mehr zu Nietzsche. Ir-
gendwann, zumeist in früheren Jahren, haben sie sich zwar alle einmal
mit Nietzsche beschäftigt, zumindest Nietzsche-Lektüre betrieben,
aber dann haben sie ihn verdrängt, oder er war für sie einfach nicht
mehr relevant3.

2 Bereits in den 50er Jahren hat Georg Lukács Nietzsche schon als «Vorläufer des
Faschismus und Imperialismus» genannt. Vgl. G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft,
Berlin 1954. Seine These wurde zugunsten der marxistischen Ideologie ausgespielt und
Nietzsches Schriften galten ofiziell als antisozialistische Materialien. Vgl. E. Matkowska,
Es ging nicht um Nietzsche. Hintergründe der großen Nietzsche-Debatte in der DDR der
80er Jahre, in M. Kopij, W. Kuncki (Hgg.), Nietzsche und Schopenhauer. Rezeptionsphä-
nomene der Wendezeit, Leipzig 2006, S. 169-186. Eine Ausnahme war die «Sinn und
Form»-Debatte um Nietzsche im Jahr 1987. 1986 versuchte der Philosoph Heinz Pep-
perle in seinem Text Revision des marxistischen Nietzsche-Bildes? Vom inneren Zusam-
menhang einer fragmentarischen Philosophie im 5. Heft von «Sinn und Form» das neue
Nietzsche-Bild im Westen zu diskutieren. Darauf reagierte 1987 Wolfgang Harich sehr
aggressiv mit seinem Text Revision des marxistischen Nietzsche-Bildes? und warf Pep-
perle vor, Nietzsche aufzuwerten. Er ruft gegen Nietzsche aus: «Ins Nichts mit ihm».
Seine Polemik wurde aber anschließend im 1. Heft von «Sinn und Form» 1988 von
Stephan Hermlin, Rudolf Schottlaender und Manfred Buhr kritisiert. Vgl. N. Kapfe-
rer, Das Feindbild der Marxistischen-Leninistischen Philosophie in der DDR 1945-1988,
Darmstadt 1990, S. 257-276.
3 T. Meyer, Nietzsche und die Kunst, Basel 1993, S. 375.
Ästhetik der Historie 283

Als Theo Girshausen zum ersten Mal den Nietzschebezug in


Müllers Hamletmaschine benannt hatte, musste er konzedieren,
dass er womöglich eine «Überinterpretation»4 vornehme: Er
wies auf die Gemeinsamkeit zwischen Nietzsches Hamlet-In-
terpretation und Müllers Hamlet-Figur in Hamletmaschine hin.
Das verbindende Motiv sei das Gefühl Ekel gegen die Realität.
Im vierten Bild der Hamletmaschine reagiere die Hamletigur auf
die «bedrängende Alltagssituation»5 mit der Emotion Ekel, ge-
rade so wie Nietzsche in der Geburt der Tragödie Hamlets Ver-
halten interpretiert. Girshausen sieht Müllers Hamlet-Figur in
der Hamletmaschine in einer umgekehrten Form von Nietzsches
Hamlet-Interpretation: Der Hamlet der Hamletmaschine ist ein
«sich erinnerndes Subjekt»6 – das war im Jahr 1977 nach der Köl-
ner Uraufführung von Hamletmaschine, ein Stück, welches in der
DDR weder veröffentlicht noch aufgeführt werden konnte. 1988
hat der Müller-Kritiker Horst Domdey die These wiederaufge-
nommen: Er geht wie Girshausen von der Nietzsches wie Mül-
lers Hamlet gemeinsamen Emotion Ekel aus und bemerkt dazu,
«daß Nietzsche Müllers Dramen prägt» und «Strukturähnlich-
keiten» zu konstatieren seien. Dies führt ihn zum Schluß, dass
(wie vermeintlich Nietzsche) auch «Müller aufklärungsfeindlich
sei»7. Gleichzeitig betonen die beiden Forscher jedoch, dass der
Autor Müller keine «volle Verfügungsgewalt über Zitate und
Fremdtexte»8 habe.
Aber Müllers Nietzsche-Rezeption ist viel deutlicher und ab-
sichtlicher als vonseiten der Forschung bislang bemerkt wurde.

4 B. Demandt, A. Demandt (Hgg.), Römische Kaisergeschichte. Nach Den Vorle-

sungs-Mitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, München 1992, S. 40.
5 T. Girshausen, Über den Umgang mit Nietzsche in der »Hamletmaschine«. Anmer-

kungen zur Technik des literarischen Zitats bei Heiner Müller, in T. Girshausen (Hg.), Die
Hamletmaschine. Heiner Müllers Endspiel, Köln 1978, S. 98-103, hier S. 98.
6 T. Girshausen, Über den Umgang mit Nietzsche in der »Hamletmaschine«, zit., S.

101.
7 H. Domdey, Produktivkraft Tod. Das Drama Heiner Müllers, Köln/Weimar/Wien

1998, S. 216.
8 T. Körber, Nietzsche nach 1945. Zu Werk und Biographie Friedrich Nietzsches in

der deutschsprachigen Nachkriegsliteratur, Würzburg 2006, S. 112.


284 Lianhua He

Müller hat in seinen Interviews sogar versucht, die Aufmerksam-


keit auf seine Nietzsche-Bezüge zu lenken. Eine häuig zitierte
Müller-Äußerung über Nietzsche ist folgende:

Nietzsche war für mich ungeheuer wichtig. Unmittelbar nach dem


Krieg habe ich Nietzsche gelesen. Vorher eigentlich kaum. Damals war
das für mich ein bißchen ein Gegengewicht gegen Entwicklungen in
der damals noch sowjetischen Besatzungszone, dann in der DDR, die
auf eine Egalisierung hinausgingen, also auf eine Nivellierung […]9.

Diese Stellungnahme gegenüber Nietzsche gab Müller 1985,


zwei Jahre vor der Sinn und Form-Debatte um Nietzsche. Sie gilt
als Beweis für Müllers starkes literarisches Interesse an Nietz-
sche, da er noch während des Bestehens der DDR gewagt hatte,
in der Öffentlichkeit positiv über Nietzsche zu sprechen. Zwar
dienen die direkten und provokativen Äußerungen in seinen In-
terviews meist eher der Selbstinszenierung10, aber gerade deswe-
gen ist es umso wichtiger, Müllers Nietzsche-Rezeption anhand
seiner Texte zu rekonstruieren und sie auf ihren Sachgehalt zu
überprüfen.
Dies möchte ich exemplarisch anhand vom Mommsens Block
tun, einem Text aus Müllers letzter Zeit, der das nietzscheani-
sche Thema der Geschichtsschreibung aufnimmt. Ich gehe von
folgender Fragestellung aus: Wie hat Müller in Mommsens Block
das Schreiben über Geschichte thematisiert? Was zählt zu den
Materialien für Geschichte? Und wie hat er dabei Nietzsche
rezipiert? Ausgehend vom Titel Mommsens Block, werde ich
den Text anhand seines Inhalts und seiner Form untersuchen,
um parallel zu Nietzsches Schrift Vom Nutzen und Nachteil der
Historie für das Leben das Nachdenken Müllers über die Mög-
lichkeiten des Schreibens und Erforschens von Geschichte zu
rekonstruieren. Die deutlichen Spuren, die auf Nietzsches Text

9 H. Müller, G. Edelmann, R. Ziemer, Gesammelte Irrtümer. Interviews und Gesprä-

che, Frankfurt a. M. 1986, S. 168.


10 Vgl. T. Körber, Nietzsche nach 1945, zit., S. 116.
Ästhetik der Historie 285

Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben weisen, wer-
de ich im Folgenden aufzeigen und interpretieren.
1993 veröffentlichte Heiner Müller Mommsens Block in Druck-
sache 1, dem ersten Heft einer Schriftreihe aus seiner Zeit als In-
tendant beim Berliner Ensemble. Dieser Text erschien auf Seite
1 bis Seite 9 und diente als Eröffnungstext für die Schriftreihe11.
Mommsens Block verfasste er im Dezember 1992, kurz nach dem
Tod von Félix Guattari, welchem dieser Text gewidmet ist12. Das
Gedicht ist schon seit seiner Veröffentlichung eines der Lieb-
lingsgegenstände von Müller-Interpretern, die es aus verschiede-
nen Perspektiven beleuchteten: Wie auch bei den Forschungen
über andere Werke von Müller sind die Analysen und Interpre-
tationen dieses Textes von den Erscheinungszeiten der Studien,
politischen Lagen sowie individuellen Ideologien der jeweiligen
Forscher abhängig. Da dieser Text in der Nach-Wende-Zeit ent-
stand, spielt die veränderte politische Lage für die Interpretation
des Textes bei den zeitgenössischen Müller-Interpretern sowie
in den Medien eine wichtige Rolle. Mommsens Block wurde so-
fort als Müllers erste literarische Reaktion auf den Untergang
der DDR und als seine Enttäuschung und Abneigung gegenüber
dem Kapitalismus der anderen Weltseite gelesen. Zehn Jahre da-
nach, als die Aktualität der Wende nicht mehr da war, begann
die Forschungswelt diesen Text als Müllers Erklärung für sein li-
terarisches Schweigen nach 1988 zu betrachten. Der Text galt als
eine «bittere, verzweifelte» Klage «über die kreative Lähmung in
der wiederhergestellten (fast) monolithischen Dominierung der
Welt durch den Kapitalismus» 13, in dessen Restauration Müller

11 Als Mitglied des Direktoriums und später als künstlerischer Leiter des Berliner
Ensembles hat Müller die Reihe Drucksache begründet und redigiert.
12 Félix Guattari (1930-1992) wurde von Heiner Müller hoch geschätzt und in sei-

nen Werken rezipiert. Nach Müllers Tod hat Alexander Kluge in seiner Trauerrede auf
Müller auf dieses Gedicht hingewiesen und vermutet, dass die chaotische Beerdigung
von Félix Guattari auf dem Père-Lachaise-Friedhof in Paris Müller sehr gut gefallen
habe. Danach hat er dieses Gedicht geschrieben, in dem eine chaotische Situation 100
Jahre nach dem Tod von Mommsen dargestellt wird.
13 J. Fiebach, Nach 1989, in H. T. Lehmann, P. Primavesi (Hgg.), Heiner Müller

Handbuch, Stuttgart 2003, S. 19.


286 Lianhua He

jetzt leben und arbeiten musste. So meinte zum Beispiel Bern-


hard Greiner, «Müller parallelisiert sein eigenes Nicht-Schreiben
mit dem Fehlen des vierten Bandes von Mommsen und lässt sich
zu einem steinernen Schreiben umwandeln»14. Greiner kommt
dadurch zu folgender Schlussfolgerung: Müllers Gedicht sei eine
Art Schreiben des Nicht-Schreibens, «ein monumentalisierendes
Schreiben ohne Handschrift und damit ohne Bedeutung verbür-
gendes Subjekt»15. Währenddessen versuchten die linksorien-
tierten Germanisten in den USA, denen Müller seinen Weltruhm
verdankt, Mommsens Block weiter marxistisch zu lesen und als
einen «Ausnahmezustand» zu betrachten16. Nach dem Tod Hei-
ner Müllers wurden die Motive des Todes und des Schweigens
nachträglich auch noch als Vorzeichen seines körperlichen Ver-
falls und seine späten Texte insgesamt als Zeugnisse des fortwäh-
renden Kampfs Müllers gegen den Tod gedeutet17.
Die oben genannten Interpretationen beschränken sich
meist auf eine mögliche Lesart des Titels Mommsens Block: die
Schreibhemmung von Mommsen. Sie schließen dabei viele wei-
tere Interpretationsmöglichkeiten aus, die auch von signiikanter
Bedeutung für Müllers geschichtsphilosophische Überlegungen
sind. Mommsens Block kann verschiedene Konnotationen haben,
alleine innerhalb des Textes gibt Müller schon mehrere Hinwei-
se: Erstens meint Müller mit dem Block das Mommsen-Denk-
mal vor der Humboldt Universität; zweitens ist der Block der
Schreibblock des Geschichtsschreibers Mommsen; drittens be-
zeichnet er die Schreibblockade Mommsens.
Im Folgenden werde ich den Text anhand dieser drei As-
pekte untersuchen. Dafür werde ich Nietzsches Ansichten zur
Geschichtsschreibung aus Vom Nutzen und Nachteil der His-
torie für das Leben als eine theoretische Folie nehmen, um zu
14 B. Greiner, Müllers ,Block‘. Steinernes Schreiben, in I. Wallace u.a. (Hgg.), Heiner

Müller. Probleme und Perspektiven, Bath-Symposion 1998, Amsterdam 2000, S. 416.


15 Ebd., S. 418.
16 T. Freeland, Writing into the Void. Heiner Müller’s »Mommsen’s Block« as a State

of Exception, in «New German Critique», 119 (2013), S. 176.


17 H. Varopoulou, Der Tod des Autors. Heiner Müller, in «VIA REGIA – Blätter für

internationale kulturelle Kommunikation», 42/43 (1997). Abgerufen am 18.11.2016.


Ästhetik der Historie 287

zeigen, wie Müller Nietzsches Überlegungen nun in den Modus


der Kunst überführt, nun ästhetisch Kritik an den Methoden
der Geschichtsschreibung übt und seine Relexionen über die
Geschichtsschreibung mit dichterischen Mitteln zum Ausdruck
bringt.

Die Frage warum der große Geschichtsschreiber


Den vierten Band seiner RÖMISCHEN GESCHICHTE
Den lang erwarteten über die Kaiserzeit
Nicht geschrieben hat beschäftigt
Die Geschichtsschreiber nach ihm18

Die Frage am Anfang des Textes stellt das Fehlen des vierten
Bandes der Römischen Geschichte von Mommsen als ein histo-
risches Problem dar, das die späteren Geschichtsschreiber nach
wie vor beschäftigt. Mommsen und seine Römische Geschichte
werden von den späteren Geschichtsschreibern monumentali-
siert, auf den Sockel gestellt und verehrt. Müller verweist mit
dieser Rede vom Stein-Block Mommsens auf das 1909 von Adolf
Brütt geschaffene Marmordenkmal19, welches Mommsen sit-
zend zeigt, wie er in den Händen ein großes geöffnetes Buch
hält und liest. Bis 1935 befand sich das Denkmal im Ehrenhof
der Humboldt Universität, bis es einer Umgestaltung desselben
weichen musste. An seine Stelle rückte während der DDR-Zeit
eine Marx-Büste. Nach der Wiedervereinigung wurde diese
Marx-Büste vom Foyer der Humboldt Universität entfernt und
das Mommsen-Denkmal wieder an seinen alten Standort gestellt.
Dieser Tausch der beiden Denkmäler gilt für viele Menschen

18 H. Müller, Mommsens Block, in F. Hörnigk (Hg.), Die Gedichte, Frankfurt a. M.

1998, S. 257.
19 Mommsen Denkmalskulptur aus Marmor wurde 1909 von dem deutschen Bild-

hauern Adolf Brütt entworfen und stand im Ehrenhof vor dem Hauptgebäude der Hum-
boldt Universität. Die Skulptur zeigt ein Sitzbild von Mommsen, der in den Händen ein
großes geöffnetes Buch hält und liest. Laut dem Forscher Stefan Rebenich musste es im
Jahr 1935 wegen Umgestaltung des Ehrenhofes weichen. Nach der Wiedervereinigung
wurde erst wieder ausgesucht und zu seinem alten Standort gestellt. Es wurde zum Sym-
bol der Wende.
288 Lianhua He

dieser Zeit als Symbol der Wende. Auch Müller thematisiert im


Text diesen Tausch:

Sozialismus nach dem großen Historiker


Des Kapitals […]
Bevor sein Denkmal auf Ihrem Sockel stand
Einen Staat lang Der Sockel ist wieder Ihr Standort 20

Müller deutet die Entfernung der Marx-Büste aus dem Foyer


und die abermalige Aufstellung von Mommsens Denkmal nicht
als einen Wechsel der Methoden der Geschichtsschreibung.
Stattdessen lässt er mit den oben zitierten Sätzen den dahinter
verborgenen Wechsel der Ideologien aufscheinen. Mit dem Satz
«Wer mit Meißel schreibt / Hat keine Handschrift»21 bezieht
sich Müller auf die monumentalische Methode der Geschichts-
schreibung. Denn der Meißel ist ein Werkzeug, dessen Schrift
ixierend ist und nicht mehr zu ändern ist. Die in monumen-
talischem Geist geschriebene Geschichte ist wie das Denk-
mal Mommsens Block in Stein gemeißelt. In Vom Nutzen und
Nachteil der Historie für das Leben unterscheidet Nietzsche drei
Weisen von Geschichtsschreibung, die für das Leben nützlich
sind: Die Erste sei die «monumentalische Historie» – das Glau-
ben und Erinnern an große Menschen und Ereignisse, die «den
Spätkommenden Lehrer, Tröster und Warner sein» (HL 2, KSA
1, S. 259) können. Diese Methode nützt vor allem denjenigen,
die für die Menschheit oder für ein Volk etwas Großes schaffen
möchten und sich durch das großartige Vorbild ermutigen las-
sen: «Wenn der Mensch, der Grosses schaffen will, überhaupt
die Vergangenheit braucht, so bemächtigt er sich ihrer vermit-
telst der monumentalischen Historie» (ebd., S. 264).
Jedoch warnt Nietzsche vor der Gefahr, die eine monumen-
talische Geschichtsschreibung in sich birgt: Die Vergangenheit
selbst kann dabei Schäden erleiden, denn nur «einzelne ge-
schmückte Facta» (ebd., S. 262) heben sich heraus und beste-
20 H. Müller, Mommsens Block, zit., S. 261.
21 Ebd., S. 257.
Ästhetik der Historie 289

hen durch die Zeit hinaus, der Rest – die großen Teile – werden
dahingegen ignoriert und vergessen. So lassen sich die Fakten
(das Monumentale) leicht umdeuten, verschönern und «damit
der freien Erdichtung» annähern (ebd.). Es wird keinen Unter-
schied mehr zwischen «einer monumentalischen Vergangenheit
und einer mythischen Fiction» (ebd.) geben, da diese monumen-
talische Methode der Geschichteschreibung jetzt rein im Dienste
der Mächtigen steht. Die Geschichtsschreibung kann dadurch
nie vollkommen neutral sein, da das Monumentale nach letztlich
subjektiven oder ideologischen Zwecken ausgewählt und gezeigt
wird.
Müller hat den Mommsens Block als Denkmal in enger Ver-
bindung mit genau dieser Gefahr betrachtet: Seine Entfernung
und Neustellung hängt letztlich von den Zwecken der Macht-
haber ab, während das historische Problem, nach dem am An-
fang dieses Textes gefragt wird, nie richtig geklärt wird: «Gute
Gründe sind im Angebot / Überliefert in Briefen Gerüchten
Vermutungen»22. Der monumentalisierte Mommsen konnte
aber nur schweigen, denn das Denkmal (Mommsens Block) ist
zugleich auch seine «Marmorgruft»23. Auch den Standort von
Mommsens Denkmal nimmt Müller als ein anderes Beispiel für
die Instrumentalisierung der monumentalischen Geschichts-
schreibung zur Erfüllung politischer Zwecke: «vor der Univer-
sität benannt nach Humboldt / Von den Machthabern einer
Illusion»24. Dieser Satz bezieht sich auf die Umbenennung der
ehemaligen Universität Berlin, die 1949 als eine Art Reaktion
auf die Gründung der Freien Universität in Humboldt Univer-
sität umbenannt wird25. In Verbindung mit dem Schicksal von
Mommsens Denkmal betrachtet, lässt sich darin noch deutlicher

22 Ebd.
23 Ebd., S. 261.
24 Ebd.
25 K. Jarausch, M. Middell, A. Vogt, Geschichte der Universität Unter den Linden

1810-2010. Sozialistisches Experiment und Erneuerung in der Demokratie - die Hum-


boldt-Universität zu Berlin 1945-2010, Berlin 2012, S. 115.
290 Lianhua He

sehen, dass die monumentalische Geschichtsschreibung ihre


Nachteile hat.
Der direkteste und offensichtlichste Bezug auf Nietzsche in
Mommsens Block ist ohne Zweifel der Briefauszug von Nietz-
sche, den Müller Wort für Wort darin zitiert:

Der Zeitungsleser Nietzsche schreibt an Peter Gast: Haben Sie von


dem Brande in Mommsens Hause gelesen? Und daß seine Excerpten
vernichtet sind, die mächtigsten Vorarbeiten, die vielleicht ein jetzt le-
bender Gelehrter gemacht hat? Er soll immer wieder in die Flammen
hineingestürzt sein, und man mußte endlich gegen ihn, den mit Brand-
wunden bedeckten, Gewalt anwenden. Solche Unternehmungen wie
die Mommsens müssen sehr selten sein, weil ein ungeheures Gedächt-
nis und ein entsprechender Scharfsinn in der Kritik und Ordnung ei-
nes solchen Materials selten zusammen kommen, vielmehr gegen ein-
ander zu arbeiten plegen. – Als ich die Geschichte hörte, drehte sich
mir das Herz im Leibe um, und noch jetzt leide ich physisch, wenn ich
dran denke. Ist das Mitleid? Aber was geht mich Mommsen an? Ich
bin ihm gar nicht gewogen26.

Der Hausbrand, worüber Nietzsche in seinem Brief mit so


starken Emotionen und Aufregungen erzählt, ereignete sich als
Folge einer Gasexplosion in Mommsens Hause im Juli 1880. Der
Presse nach verbrannten dadurch 40.000 Bücher, darunter zahl-
reiche Handschriften der Berliner Bibliothek und auch Manu-
skripte Mommsens. Mommsen sollte dabei versucht haben, die
Bücher und Handschriften zu retten, und hat am Ende mehrere
Brandwunden erlitten27.
Dieses Nietzsche-Zitat fällt gleich durch seine speziische
Form auf: Es ist die einzige mit Interpunktionen markierte Stelle
im Text. Auch inhaltlich ist dieses Zitat bewegend – zum einen
durch die erschütternde Schilderung des unwiederbringlichen
Verlustes einer erstaunlichen Zahl von Büchern, Handschriften
26 H. Müller, Mommsens Block, zit., S. 260.
27 Vgl. die Einleitung von A. Demandt in B. Demandt, A. Demandt (Hgg.), Römi-
sche Kaisergeschichte. Nach Den Vorlesungs-Mitschriften von Sebastian und Paul Hensel
1882/86, München 1992, S. 27.
Ästhetik der Historie 291

und Manuskripten, zum andern durch den verzweifelten Wage-


mut Mommsens, der sein Leben riskierte, um seine Bücher und
Handschriften zu retten. Müller liest aus den Fragen Nietzsches
Mitleid für den zeitgenössischen Geschichtsschreiber. Er kom-
mentiert in seinem Text dazu: «Die Furcht vor der Einsamkeit
versteckt im Fragezeichen»28.
Dieses so offensichtliche Zitat ist zwar natürlich vielen Mül-
ler-Interpreten aufgefallen, gilt aber für die meisten nur als eine
sprachliche Montage-Technik, die Müller oft in seinem Werk
benutzt. Jedoch verrät dieses Zitat viel mehr als es auf den ersten
Blick erscheint. Gerade an dieser Stelle, um das Zitat zu inter-
pretieren, kann Mommsens Block auch als Mommsens Schreib-
block gelesen werden: Er repräsentiert sowohl die 40.000 Bü-
cher, die Mommsen für die Geschichtsschreibung gesammelt
hat, die Handschriften und die von ihm niedergeschriebenen
Manuskripte, als auch die Arbeitsmethode Mommsens – die an-
tiquarische Geschichtsschreibung, die sich durch das Bewahren
und Verehren der Vergangenheit vollzieht.
In Vom Nutzen und Nachteil der Historie beschreibt Nietzsche
den Menschen, der im antiquarischen Sinne die Vergangenheit
konserviert und daraus Geschichte schreibt, wie folgt: «Indem
er das von Alters her Bestehende mit behutsamer Hand plegt,
will er die Bedingungen, unter denen er entstanden ist, für sol-
che bewahren, welche nach ihm entstehen sollen» (HL 3, KSA
1, S. 265). Nietzsche sieht bei der antiquarischen Geschichts-
schreibung die Gefahr, dass diese übertriebene Leidenschaft für
das Bewahren und Verehren der Vergangenheit einerseits zu ei-
ner schwärmerischen und unachtsamen Sammlung von Stoffen
führt:

Er kann es nicht messen und nimmt deshalb alles als gleich wichtig
und deshalb jedes Einzelne als zu wichtig. Dann giebt es für die Dinge
der Vergangenheit keine Werthverschiedenheiten und Proportionen,
die den Dingen unter einander wahrhaft gerecht würden; sondern

28 H. Müller, Mommsens Block, zit., S. 260.


292 Lianhua He

immer nur Maasse und Proportionen der Dinge zu dem antiquarisch


rückwärts blickenden Einzelnen oder Volke (ebd., S. 267).

Andererseits können dadurch das Leben und das Weiterleben


in der Gegenwart geschädigt werden. Indem er Nietzsche zitiert,
verbindet Müller Nietzsche und Mommsen auf diese Weise und
schreibt: «Ein Dokument aus dem Jahrhundert der Briefschrei-
ber»29. Müller sieht dabei noch weitere Gefahren, die in der Na-
tur des Gesammelten liegen. Denn die gut geschützten Bücher,
Handschriften und Manuskripte können jederzeit durch Unfall,
durch Katastrophe, durch den Krieg vernichtet werden. Ganz
im Gegenteil zu dem anderen Mommsens Block – der Marmor-
gruft – ist das Haus Mommsens verletzlich. Müller erwähnt dazu
die Situation während des zweiten Weltkriegs: «die Bomben des
zweiten Weltkriegs Sie wissen es / Haben die Machstraße nicht
verschont»30. Der Mommsensche Schreibblock, der Belege für
die Geschichtsschreibung sammeln sollte, verhindert die Ge-
schichtsschreibung durch die Natur der Materialien:

Gerettet wurde das AKADEMIEFRAGMENT


Sieben Seiten Entwurf gerahmt von Feuer
IN SPITZEN KLAMMERN DIE VERBRANNTEN WÖRTER
MOMMSENS wie die Herausgeber schreiben
Einhundertzwölf Jahre nach dem Brand31

In Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben sieht
Nietzsche die kritische Historie als Ergänzung zu den beiden
erwähnten Weisen der Geschichtsschreibung. Er indet die kri-
tische Historie notwendig für diejenigen, die von der eigenen
Gegenwart und den eigenen Zeitgenossen loskommen möchten:
«Und nur der, dem eine gegenwärtige Noth die Brust beklemmt
und der um jeden Preis die Last von sich abwerfen will, hat ein
Bedürfniss zur kritischen, das heisst richtenden und verurthei-

29 Ebd., S. 261.
30 Ebd.
31 Ebd., S. 260.
Ästhetik der Historie 293

lenden Historie» (HL 2, KSA 1, S. 264). Gerade die kritische


Geschichtsschreibung wird in einen umstrittenen Mittelpunkt
seiner ganzen Schrift gestellt: Der monumentalischen und der
antiquarischen Historie gegenüber soll die kritische Historie
weniger die Vergangenheit betonen und eher «das Werdende»
(HL 3, KSA 1, S. 268) fördern. Sie steht auch ganz im Gegen-
teil zu dem Überhistorischen und dem Unhistorischen, welche
Nietzsche als Rettungsmittel für das Leben gegen die historische
Krankheit empiehlt. Denn das Unhistorische fordert das Ver-
gessen, während das Überhistorische den Blick weg von dem
Werdenden auf «d[as] Ewige[] und Gleichbedeutende[]» – d.
h. die «Kunst und Religion» (HL 10, KSA 1, S. 330) – umlenkt.
Bei der kritischen Historie muss man aber aus der Vergessenheit
die Erinnerung wieder herausholen – «die zeitweilige Vernich-
tung dieser Vergessenheit» (HL 3, KSA 1, S. 269) – und die Ver-
gangenheit verurteilen. Die Gefahr dieser Weise von Geschichts-
schreibung besteht in seiner Selbstrechtfertigung: «Denn da wir
nun einmal die Resultate früherer Geschlechter sind, sind wir
auch die Resultate ihrer Verirrungen, Leidenschaften und Irr-
tümer, ja Verbrechen; es ist nicht möglich sich ganz von dieser
Kette zu lösen» (ebd., S. 270). Die eigene Vergangenheit kritisch
zu betrachten, ist aber wie «mit dem Messer an seine Wurzeln»
zu greifen, und zwar mit dem Risiko, dass man die «erste Na-
tur» vernichtet und eine «zweite Natur» (ebd.) anbaut, die zu
schwach zum Überleben sein könnte32.
Der Ich-Sprecher in Mommsens Block sieht am eigenen Kör-
per die Kette zur Vergangenheit: «Mit dem göttlichen Hochmut

32 Mit der Aktualität der Schrift Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben
und der Geschichtsphilosophie in der Schrift beschäftigt sich der Sammelband »Vom
Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben«, hg. von D. Borchmeyer, Frankfurt a. M.
1996. Zum Beispiel argumentierte H.-D. Kittsteiner, dass «diese doppelte Negation» von
der «Vernichtung der Vergessenheit» sich gerade auf «das kritische Erinnern» beziehe,
dessen Prinzip Nietzsche später zur «genealogischen Methode» weiterentwickelt habe.
Mit deren Hilfe könne man den historischen Prozess aufbrechen und die Vergangenheit
beiseiteschaffen. Vgl. H.-D. Kittsteiner, Erinnern-Vergessen-Orientieren. Nietzsches Be-
griff des «umhüllenden Wahns» als geschichtsphilosophische Kategorie, in D. Borchmeyer
(Hg.), Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, zit., S. 48-75.
294 Lianhua He

MEINER JUNGEN JAHRE / DER JÜNGEREN ZUMINDEST


JUNG WAR ICH NIE»33. Weil er der Träger von Erinnerung
ist, d.h. die «Resultate früherer Geschlechter» (ebd.), fühlt sich
der Ich-Sprecher nie jung. In der Not und durch die Ekel der
Gegenwart versucht der Ich-Sprecher sich aus der Vergessen-
heit wieder in die Erinnerung zu bringen und erzählt Momm-
sen über sich selber, schreibt «zwei drei Seiten lang»34 über die
Geschichte, die erst nach Mommsen entstanden ist. Sein Grund
dafür: «Für wen sonst schreiben wir / Als für die Toten allwis-
send im Staub»35. Auf diese Weise hält sich der Ich-Sprecher
kurz von der Realität der Gegenwart fern. Als er aber wieder
das Gespräch am anderen Tisch hört, versteht der Ich-Sprecher
in diesem Moment auch endlich, warum Mommsen den letzten
Band seiner Römischen Geschichte nicht geschrieben hat: «Tier-
laute Wer wollte das aufschreiben / Mit Leidenschaft Haß lohnt
nicht Verachtung läuft leer / Verstand ich zum erstenmal Ihre
Schreibhemmung»36. Der Ich-Sprecher merkt plötzlich, dass die
Erinnerung nur seine Zulucht aus der Gegenwart ist. Auch die
vernichtete Vergessenheit ist nur dasselbe, was in der Gegenwart
passiert. Daher lässt man lieber eine Lücke da, die einen aber
trotzdem ständig an das Nichtgeschriebene erinnert: «Und die
klaffende Lücke in Ihrem Geschichtswerk / War ein Schmerz in
meinem wie lange noch atmenden Körper»37. Nachdem Müller
sich mit den drei Arten von Geschichtsschreibung auseinander-
gesetzt hat, thematisiert er schließlich Mommsens Block als die
Blockade Mommsens beim Schreiben. Dabei betont er nicht die
Schreibhemmung Mommsens an sich, sondern eher den unge-
schriebenen vierten Band und die dadurch entstandene frag-
mentarische Form der Römischen Geschichte.
1992 publizierte der Berliner Historiker Alexander Demandt
zusammen mit seiner Ehefrau Barbara Demandt die Mitschriften

33 H. Müller, Mommsens Block, zit., S. 259.


34 Ebd., S. 260.
35 Ebd.
36 Ebd., S. 263.
37 Ebd.
Ästhetik der Historie 295

von Sebastian und Paul Hensel aus Vorlesungen von Mommsen,


die er in einem Nürnberger Antiquariat gefunden hatte38. In der
Einleitung Demandts indet man die meisten Zitate und Informa-
tionen, die Müller für seinen Text Mommsens Block verwendet
hat. Aber Müller zitiert nicht nur aus der Einleitung, er thema-
tisiert auch diese Publikation in Mommsens Block. Er betrachtet
diese Mitschriften nicht als das Geschriebene von Mommsen,
sondern als das Gegenteil:

Immerhin haben Sie selbst die Publikation


Ihrer Kollegs per Testament verboten
Weil der Leichtsinn auf dem Katheder Verrat übt
An den Mühen des Schreibtischs39

Hier spricht der Ich-Sprecher im Text Mommsen an und


meint, dass die Mitschriften nur Kopien von Gesprochenem
sind. «Der Leichtsinn auf dem Katheder»40 – die Leichtsinnig-
keit des Gesprochenen in der Vorlesung verrät «den Mühen des
Schreibtischs»41 – nämlich dem Geschriebenen. Das hat er wohl
in Demandts Einleitung gelesen, denn Demandt schreibt in der
Einleitung über die Sprache, die Mommsen in den Mitschriften
benutzt:

Es scheint, wie wenn Mommsen die heilige Hallucination der Ju-


gend, den coraggio dell’errare wiedererlangte, sobald er vor Studenten
sprach. Sein Wort, es gäbe nichts Leichtsinnigeres auf der Welt als das
Kolleglesen, bezeugt, daß der alte Mommsen auf dem Katheder weni-
ger Skrupel hatte als am Schreibtisch42.

38 Für Müller ist neben dem Tod von Félix Guattari die Veröffentlichung der Hen-

sel-Nachschriften von Mommsens Vorlesung über die römische Kaiserzeit ein anderer
und vielleicht noch direkter Anlass für Mommsens Block.
39 H. Müller, Mommsens Block, zit., S. 263.
40 Ebd., S. 261.
41 Ebd.
42 A. Demandt, Einleitung, zit., S. 40.
296 Lianhua He

Damit betont Müller die Tatsache, dass trotz der Publikation


der Mitschriften der vierte Band von Mommsens Römischer Ge-
schichte immer noch ungeschrieben geblieben ist. Dieser unge-
schriebene Band kommt aber gerade durch die Publikation der
niedergeschriebenen Mitschriften wieder in den Fokus. Dadurch
und natürlich auch durch die Schreib-Blockade von Mommsen
– Mommsens Block – hebt sich der vierte Band von den ande-
ren Büchern hervor, die Mommsen inzwischen geschrieben hat.
Das Ungeschriebene existiert nur, weil es das Geschriebene gibt.
Ohne den Erfolg der geschriebenen drei Bände davor wäre der
nicht geschriebene vierte Band von Mommsens Römischer Ge-
schichte vergessen.
Um das Verhältnis zwischen der geschriebenen Geschichte
und der nicht geschriebenen Geschichte zu zeigen, lässt Mül-
ler den Ich-Sprecher im Text von sich sprechen: «Gestatten Sie
daß ich von mir rede Mommsen Professor»43. Er versucht, die
Schreibblockade aus eigener Sicht zu erklären. Er möchte nichts
aufschreiben, nur «weil die Menge es lesen will»44, und redet
über das Ungeschriebene dieses Textes: «Wer ins Leere schreibt
braucht keine Interpunktion»45. Das Ungeschriebene in diesem
Text ist tatsächlich die Interpunktion. Erst durch die Interpunk-
tion wird ein Satz vollständig und bekommt damit seinen Sinn,
indem die Interpunktion dem Satz die Betonung sowie die Emo-
tion verleiht. Wie das Fehlen der Interpunktion den Text zu ei-
nem unvollständigen Text macht, macht das Fehlen des vierten
Bandes die Römische Geschichte Mommsens zu einem Fragment.
Das Fragmentarische, als eine der Lieblingsformen Müllers, ver-
weigert sich somit dem Wunsch, dem Geschichtsverlauf einen
Sinn zu geben. Geschichtsschreibung liegt erst vor, wenn histo-
rische Ereignisse schriftlich festgehalten werden: Wiederum fügt
die Geschichtsschreibung die Ereignisse der Vergangenheit zu
einem scheinbar geschlossenen Ablauf zusammen.

43 H. Müller, Mommsens Block, zit., S. 260.


44 Ebd., S. 261.
45 Ebd.
Ästhetik der Historie 297

In Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben stellt
Nietzsche auch die Geschichtsschreibung als Wissenschaft in
Frage. Er weist auf die Gefahr hin, die die historische Bildung
für das Leben bringt: «Aber selbst jedes Volk, ja jeder Mensch,
der reif werden will, braucht einen solchen umhüllenden Wahn,
eine solche schützende und umschleiernde Wolke; jetzt aber
hasst man das Reifwerden überhaupt, weil man die Historie
mehr als das Leben ehrt» (HL 7, KSA 1, S. 298). Seine Gegen-
mittel gegen diese «historische Krankheit» sind das «Unhistori-
sche» und das «Überhistorische»:

Mit dem Worte «das Unhistorische» bezeichne ich die Kunst und
Kraft vergesse n zu können und sich in einen begrenzten Hor i-
zont einzuschliessen; «überhistorisch» nenne ich die Mächte, die den
Blick von dem Werden ablenken, hin zu dem, was dem Dasein den
Charakter des Ewigen und Gleichbedeutenden giebt, zu Ku nst und
Re l i g ion (HL 10, KSA 1, S. 330).

Müller lässt den Ich-Sprecher in Mommsens Block ebenfalls


an dem «historischen Reifwerden» leiden:

In der wieder bereinigten Hauptstadt Berlin


Blätterte ich in den Mitschriften Ihres Kollegs
Über die Römische Kaiserzeit frisch vom Buchmarkt
Zwei Helden der Neuzeit speisten am Nebentisch
Lemuren des Kapitals Wechsler und Händler
Und als ich ihrem Dialog zuhörte gierig
Nach Futter für meinen Ekel am Heute und hier46

Während der Ich-Sprecher die von Demandt veröffentlichte


Geschichte liest («Mitschriften Ihres Kollegs»), die Mommsen
eigentlich gar nicht publizieren wollte, empindet er gegen-
über der Gegenwart («am Heute und hier») nur Ekel. Müller
schließt aber in Mommsens Block das Unhistorische aus, indem

46 Ebd., S. 262.
298 Lianhua He

er schreibt: «Das Vergessen ist ein Privileg der Toten»47. Der


Ich-Sprecher nimmt nun die Position des «Überhistorischen»
ein, der bei Nietzsche auch Ekel empindet: «Doch lassen wir den
überhistorischen Menschen ihren Ekel und ihre Weisheit: heute
wollen wir vielmehr einmal unserer Unweisheit von Herzen froh
werden und uns als den Thätigen und Fortschreitenden, als den
Verehrern des Prozesses, einen guten Tag machen» (HL 1, KSA
1, S. 256 f.). Während Nietzsche den «Ekel der überhistorischen
Menschen» in seiner Schrift erstmal beiseite lässt und überwie-
gend die «historischen Menschen» und ihr Leben berücksich-
tigt, beschäftigt sich Müller mit der Hamlet(schen)-Frage der
Intellektuellen – der «Überhistorischen» – schon seit den 70er
Jahren: Schreiben oder nicht Schreiben? Bernhard Greiner ver-
tritt in seiner Interpretation von Mommsens Block die Ansicht,
dass Müller ein «steinernes Schreiben»48 sowohl von Mommsen
als auch von sich selbst thematisiert. Greiner sieht dabei ein Mo-
numentalisieren des Schreibens, das den Rückzug Müllers zum
Nicht-Schreiben zeigt. Anhand der oben vollzogenen Analyse,
die Mommsens Block im Lichte von Nietzsches Vom Nutzen
und Nachteil der Historie für das Leben betrachtet, wird jedoch
klar, dass Müller weder für die monumentalische Geschichts-
schreibung noch für die antiquarische Geschichtsschreibung ist.
Dass Müller die Geschichtsschreibung in Frage stellt und das
Nicht-Schreiben betont, heißt nicht, dass er das Schreiben voll-
kommen verweigert und sich deswegen ins Schweigen zurück-
zieht. Als Gegenmittel zur Krankheit der Geschichtsschreibung
bietet er gerade sein eigenes Schreiben an.
Bei Nietzsche liegt der Unterschied zwischen den «histori-
schen Menschen» und den «überhistorischen Menschen» dar-
in, ob man an den Fortschritt des Geschichtsprozesses glaubt.
Während sich die «historischen Menschen» auf eine bessere Zu-
kunft verlassen, sehen die «überhistorischen Menschen» keine
Veränderung durch die Zeit und erhoffen sich deswegen auch

47 Ebd., S. 260.
48 B. Greiner, Müllers ,Block‘. Steinernes Schreiben, zit., S.406.
Ästhetik der Historie 299

keinerlei eine andere Zukunft. Nietzsche zitiert den pessimisti-


schen Dichter Giacomo Leopardi als Beispiel für die Lebens-
und Geschichtsphilosophie der «Überhistorischen»:

«Nichts lebt, das würdig


Wär deiner Regungen, und keinen Seufzer verdient die Erde.
Schmerz und Langeweile ist unser Sein und Koth die Welt
– nichts Andres.
Beruhige dich.»
(ebd., S. 256)

Die dadurch übermittelte pessimistische Geschichtsphiloso-


phie ist deutlich: Man versagt sich die Deutung der Geschichte
und erkennt die Historie nicht an. Aber die Dichotomie zwi-
schen den Historischen und den Überhistorischen scheint durch
Mommsens Römische Geschichte aufgelöst zu sein. In der Prä-
sentationsrede der Nobelpreisverleihung für Mommsen wurde
seine Kunst der Geschichtsschreibung so gewürdigt: «His intu-
ition and his creative power bridge the gap between the histo-
rian and the poet»49 . Das Urteil des Komitees revidiert Müller
nun durch seinen Mommsens Block, indem er Mommsens Ge-
schichtsschreibung aus der überhistorischen Sicht betrachtet
und dichterisch erfasst. Das «Überhistorische» stellt sich nicht
mehr jenseits vom «Historischen», sondern bietet sich als sein
Medium an – die Historie zieht nun ihren Nutzen aus der Kunst.
Nicht die Geschichtsschreibung soll ästhetisch werden, sondern
die Kunst schreibt Geschichte. Somit vereint Müller die Ge-
schichtsschreibung und die Geschichtsphilosophie, Mommsen
und Nietzsche.

49 H. Frenz (Hg.), Nobel Lectures. Literature 1901-1967, Amsterdam 1969. Zit. nach

http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1902/press.html. Abgeru-
fen am 16.11.2016.
Gli autori e le autrici

Giulia Baldelli ha studiato Germanistica e Filosoia presso l’Uni-


versità di Basilea e la Freie Universität di Berlino. Attualmente
è dottoranda presso l’Università di Stoccarda con un progetto
su Jakob Böhme.

Chiara Conterno è ricercatrice di Letteratura tedesca presso


l’Università di Bologna. Si occupa di autori ebreo-tedeschi,
di lirica del Novecento, di letteratura epistolare, di fenome-
ni di ricezione e scrittori transculturali. Tra le pubblicazioni
si ricordano le monograie Metamorfosi della fuga. La ricer-
ca dell’Assoluto nella lirica di Nelly Sachs (2010) e Die andere
Tradition. Psalm-Gedichte im 20. Jahrhundert (2014).

Isabella Ferron ha studiato Germanistica, Anglistica e Filoso-


ia presso le Università di Venezia e Tubinga e ha ottenuto il
dottorato di ricerca alla Ludwig-Maximillians-Universität di
Monaco di Baviera. Attualmente è docente di Lingua e Lette-
ratura tedesca presso l’Università degli Studi di Padova. Tra le
sue pubblicazioni si ricorda la monograia: ‘Sprache ist Rede’:
Ein Beitrag zur dynamischen Sprachauffassung Wilhelm von
Humboldts (2009).

Herwig Gottwald ha studiato Germanistica e Storia presso l’U-


niversità di Salisburgo, dove dal 2003 è professore di Lettera-
tura tedesca. È autore di numerose pubblicazioni di letteratu-
ra austriaca, in particolare sugli autori Adalbert Stifter, Franz
Kafka, Peter Handke, Christoph Ramsmayr. Si ricordano in
302 Gli autori e le autrici

particolari i volumi: Mythos und Mythisches in der Gegen-


wartsliteratur. Studien zu Christoph Ransmayr, Peter Handke,
Botho Strauß, George Steiner, Patrick Roth und Robert Schnei-
der (1996); (con A. Freinschlag), Spuren des Mythos in mo-
derner deutschsprachiger Literatur. Theoretische Modelle und
Fallstudien (2007); Peter Handke (2009); recentemente: (con
S. Bengesser), Adalbert Stifter, „Die Mappe meines Urgroßva-
ters“ (Vol. 6,4 della HKG, 2016).

Lianhua He ha studiato Germanistica e Anglistica a Wuhan e a


Pechino. Come membro del ZDS (Zentrum für Deutschland-
studien dell’Università di Pechino) e borsista del DAAD ha
svolto, dal 2012 al 2013, un periodo di studi presso la Freie
Universität e la Humboldt Universität di Berlino. Dal 2014
sta svolgendo un dottorato di ricerca come borsista del CSC
(China Scholarship Council) presso l’Università di Stoccarda
sul tema della ilosoia della storia in Heiner Müller.

Annamaria Lossi dottore di ricerca in Scienze ilosoiche e in


Letteratura tedesca, ha studiato presso le Università di Pisa,
Tubinga e Friburgo. Attualmente è borsista presso il Rese-
arch Centre for Text Studies dell’Università di Stoccarda. Per
Adelphi è traduttrice e curatrice (con G. Campioni, M. Posani
e C. Santini) di: Lezioni universitarie e studi ilologici 1874-
1878, in: Opere di Friedrich Nietzsche, Vol. II, Tomo II (2017)
e (con P. D’Iorio e F. Fronterotta) di: Lezioni universitarie e
scritti ilologici 1869-1873, Vol. II, Tomo I (2018).

Gabriella Pelloni è ricercatrice di Letteratura tedesca presso


l’Università di Verona. Si occupa di cultura e letteratura te-
desca e austriaca del Novecento, alla cui analisi e divulgazio-
ne ha contribuito con saggi, edizioni critiche e monograie.
Su Nietzsche, oltre a diversi articoli, ha pubblicato i seguenti
volumi: Genealogia della cultura. Costruzione poetica del sé
nello Zarathustra di Nietzsche (2013); (con I. Schiffermüller),
Gli autori e le autrici 303

Pathos, Parodie, Kryptomnesie. Gedächtnis der Literatur in


Nietzsches Also sprach Zarathustra (2015).

Axel Pichler svolge attività di ricerca presso lo Research Centre


for Text Studies dell’Università di Stoccarda, dove collabora
nell’ambito del progetto CRETA all’edizione critica della Teo-
ria estetica di Theodor Adorno. Tra le numerose pubblicazio-
ni su Nietzsche si ricordano le monograie: Nietzsche, die Or-
chestikologie und das dissipative Denken (2010) e Philosophie
als Text. Zur Darstellungsform der Götzendämmerung” (2014).

Isolde Schiffermüller ha studiato Germanistica e Filosoia pres-


so l’Università di Innsbruck ed è Ordinaria di Letteratura
tedesca presso l’Università di Verona. È autrice di numerose
pubblicazioni sulla letteratura austriaca, sulla letteratura del
Novecento e sulla teoria letteraria. Tra i numerosi volumi si ri-
cordano in particolare le monograie: Adalbert Stifter. Dekon-
struktive Lektüren (1996); Saggi sul volto. Rilke, Musil, Kaf-
ka (2005); Franz Kafkas Gesten. Studien zur Entstellung der
menschlichen Sprache (2011); recentemente: (con G. Pelloni),
Ingeborg Bachmann: Male oscuro. Aufzeichnungen aus der Zeit
der Krankheit (2017).

Bastian Strinz ha studiato Germanistica e Storia presso l’U-


niversità di Stoccarda, presso cui sta svolgendo un dottora-
to di ricerca sul tema „Poetologische Inferenzen: Friedrich
Nietzsche und Robert Walser“, con il professor Claus Zittel.
È attualmente docente a contratto di Letteratura tedesca pres-
so l’Università di Stoccarda.

Juliane Vogel è professoressa di Letteratura tedesca e Compa-


ratistica presso l’Università di Costanza. Ha insegnato pres-
so la Ludwig Maximilian Universität München, la Princeton
University e la University of Chicago. È autrice di numerose
pubblicazioni sulla letteratura della in de siècle, sulla lette-
ratura austriaca, sulle poetiche sperimentali moderne e sulla
304 Gli autori e le autrici

drammaturgia europea. Tra le numerose pubblicazioni si ri-


cordano le monograie: Die Furie und das Gesetz. Zur Drama-
turgie der „großen Szene“ in der Tragödie des 19. Jahrhunderts
(2002); Elisabeth von Österreich. Momente aus dem Leben ei-
ner Kunstigur (1992/1998); (con Ch. Wild), Auftreten. Wege
auf die Bühne (2014); Aus dem Grund. Auftrittsprotokolle
zwischen Racine und Nietzsche (2017).

Susanna Zellini è dottoranda in Germanistica presso l’Università


di Padova, in co-tutela con l’Università di Stoccarda, con un
progetto su Nietzsche e Adorno. Ha studiato filosofia presso
l’Università di Pisa, la Rheinische F.W. Universität di Bonn, la
Bergische Universität di Wuppertal e l’Università Carlo IV di
Praga, dove si è laureata con una tesi sulle forme brevi nel pen-
siero Nietzsche, in pubblicazione presso Nordhausen (2017).

Claus Zittel è vicedirettore del Research Centre for Text Studies


dell’Università di Stoccarda, e insegna Letteratura tedesca e
Filosoia presso le Università di Stoccarda, Olsztyn e Franco-
forte sul Meno. È autore di numerose pubblicazioni di iloso-
ia moderna e contemporanea e di letteratura. Su Nietzsche,
oltre a numerosi saggi, si ricordano le monograie: Das ästheti-
sche Kalkül von Friederich Nietzsches Also sprach Zarathustra
(2000, 2012) e Selbstaufhebungsiguren bei Nietzsche (1995).
Su Descartes: Theatrum philosophicum. Descartes und die
Rolle ästhetischer Formen in der Wissenschaft (2009), René
Descartes: Les Météores/Die Meteore (2006). Tra le numerose
curatele: (con A. Lossi), Nietzsche scrittore (2014); (con W.
Neuber e T. Rahn), The Making of Copernicus. Early Modern
Transformations of the Scientist and his Science (2014).
Indice

Gabriella Pelloni, Claus Zittel


Prefazione 5

Avvertenza 9

I. Poetiche implicite e esplicite

Juliane Vogel
Glänzendes Wandeln und reißende Bewegung.
Von Feuerbachs vatikanischem Apoll zu Nietzsches
Dionysos 13

Claus Zittel
Il dialogo come forma ilosoica in Nietzsche 25

Axel Pichler
Il «Tentativo di autocritica» di Nietzsche.
Una lettura poesiologica 69

Annamaria Lossi
«È diventato ilologia quello che era ilosoia?»
Composizione e Wirkungsgeschichte delle
Lezioni di retorica 93

Giulia Baldelli
Picchi e lucertole.
Nietzsche e la tradizione dell’epigramma in
Vocazione di poeta 119
306 Indice

Gabriella Pelloni
Zarathustras «Kunst der Gebärde».
Von Nietzsches Gebärdenbegriff zu Max Kommerells
Sprachgebärde 143

II. Ripercussioni nel Novecento

Isolde Schiffermüller
Nietzsche und Kafka.
Über Menschen, Affen und Artisten 169

Herwig Gottwald
Genie und Dämon.
Zu Stefan Zweigs Nietzsche-Rezeption 193

Bastian Strinz
Leopold Zieglers Zarathustra-Glossen: Robert Walsers
Mikrogramme und Friedrich Nietzsche.
Überlegungen zu einer philosophisch-ästhetisch
fundierten Poetologie 211

Chiara Conterno
Max Kommerell. Nietzsche e la tradizione dell’inno 225

Isabella Ferron
Mythos und Poetik bei Nietzsche und Pavese 243

Susanna Zellini
Lo stile come forma del pensiero.
Esperimenti della forma breve in Nietzsche
e Adorno 263

Lianhua He
Ästhetik der Historie.
Die Nietzsche-Rezeption bei Heiner Müller
am Beispiel von Mommsens Block 281

Gli autori e le autrici 301


Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di aprile 2017
nietzscheana
26
collana diretta da
Giuliano Campioni, Maria Cristina Fornari

fondata da
Sandro Barbera, Giuliano Campioni e Franco Volpi

saggi, quaderni, testi

0. Giorgio Colli, Ellenismo e oltre. Einleitung, a cura di Stefano Busel-


lato, con una introduzione di Sandro Barbera [edizione fuori com-
mercio], 2005, pp. 108. [sezione quaderni]
1. Sandro Barbera, Paolo D’Iorio, Justus H. Ulbricht, [a cura di], Friedrich
Nietzsche. Rezeption und Kultus, 2004, pp. 362. [sezione saggi]
2. Sergio Franzese, [a cura di], Nietzsche e l’America, 2005, pp. 292. [se-
zione saggi]
3. Claudia Rosciglione, Homo Natura, 2005, pp. 220. [sezione saggi]
4. Richard Wagner, Sulla vivisezione. Lettera aperta al signor Ernst von
Weber, autore dello scritto «Le camere di tortura della scienza», Tra-
duzione, introduzione e note di Sandro Barbera e Giuliano Campioni,
2006, pp. 48. [sezione quaderni]
5. Maria Cristina Fornari, La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge
Spencer e Mill, 2006, pp. 362. [sezione saggi]
6. Luca Lupo, Le colombe dello scettico. Riflessioni di Nietzsche sulla
coscienza negli anni 1880-1888, 2006, pp. 264. [sezione saggi]
7. Patrick Wotling, Il pensiero del sottosuolo, traduzione di Chiara Piaz-
zesi, 2006, pp. 76. [sezione quaderni]
8. Maria Cristina Fornari [a cura di], Nietzsche. Edizioni e interpretazioni,
2006, pp. 552. [sezione saggi]
9. Friedrich Nietzsche im 20. Jahrhundert. Aspekte seiner Rezeption, a
cura di Sandro Barbera, Renate Müller-Buck, 2006. [sezione saggi]
10. Giuliano Campioni, Nietzsche. La morale dell’eroe, 2008, pp. 156.
[sezione saggi]
11. Chiara Colli Staude, Nietzsche filologo tra inattualità e vita. Il con-
fronto con i Greci, 2009, pp. 166. [sezione quaderni]
12. Friedrich Nietzsche, Gli Academica di Cicerone. Appunti preparatori
alle lezioni universitarie 1870-71. A cura e con un saggio introduttivo
di Stefano Busellato, 2009, pp. 170. [sezione testi]
13. Sandro Barbera, Giuliano Campioni, Il genio tiranno. Ragione e do-
minio nell’ideologia dell’Ottocento: Wagner, Nietzsche, Renan, prefa-
zione di Mazzino Montinari, 2009, pp. 218. [sezione saggi]
14. Chiara Piazzesi, Giuliano Campioni, Patrick Wotling [a cura di],
Letture della Gaia scienza - Lectures du Gai savoir, 2010, pp. 384.
[sezione saggi]
15. Giuliano Campioni, Leonardo Pica Ciamarra, Marco Segala [a cura
di], Goethe, Schopenhauer, Nietzsche. Saggi in memoria di Sandro
Barbera, 2012, pp. 708. [sezione saggi]
16. Pietro Gori, Paolo Stellino [a cura di], Teorie e pratiche della verità in
Nietzsche, 2012, pp. 212. [sezione saggi]
17. Donatella Morea, Il respiro più lungo. L’aforisma nelle opere di Friedrich
Nietzsche, 2012, pp. 282. [sezione saggi]
18. Céline Denat, Chiara Piazzesi [a cura di], Nietzsche, pensatore della
politica? Nietzsche, pensatore del sociale?, 2017, pp. 206. [sezione
saggi]
19. Elena Laurenzi, Sotto il segno dell’aurora. Studi su María Zambrano
e Friedrich Nietzsche, 2012, pp. 182. [sezione saggi]
20. Annamaria Lossi, La ragione estetica. Saggio su Nietzsche, 2012,
pp. 172. [sezione saggi]
21. Francesca Manno, Attore e mimo dionisiaco. Nietzsche, Wagner e il
teatro d’avanguardia francese, 2012, pp. 348. [sezione saggi]
22. Stefano Busellato [a cura di], Nietzsche dal Brasile. Contributi dalla
ricerca contemporanea, 2014, pp. 204. [sezione saggi]
23. Annamaria Lossi, Claus Zittel [a cura di], Nietzsche scrittore. Saggi di
estetica, narratologia, etica, 2014, pp. 216. [sezione saggi]
24. Bruna Giacomini, Pietro Gori, Fabio Grigenti [a cura di], La Genealogia
della morale. Letture e interpretazioni, 2015, pp. 320. [sezione saggi]
25. Simone Zacchini, Una instabile armonia. Gli anni della giovinezza di
Friedrich Nietzsche, 2016, pp. 196. [sezione saggi]
26. Gabriella Pelloni, Claus Zittel [a cura di], Poetica in permanenza. Studi
su Nietzsche, 2017, pp. 308. [sezione saggi]

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