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2. L'ironia: una caratterizzazione per contrasto . Il primo passo per venire a capo
dell'ironia è, per Kierkegaard, di natura descrittiva: occorre infatti cercare di
caratterizzare questa forma del comportamento, indicando quali sono le differenze
strutturali che ci permettono di distinguerla da altri atteggiamenti della soggettività.
Osserveremo allora che, da un punto di vista descrittivo, l'ironia si rivela come quella
forma del discorso "la cui caratteristica è di dire l'opposto di quello che si pensa" (ivi, p.
192). Parlare significa dare al pensiero un'apparenza sensibile, e ciò è quanto dire che
"mentre parlo, il pensiero, l'opinione è l'essenza, la parola l'apparenza" (ivi).
Nell'atteggiamento ironico, tuttavia, la parola cessa di essere manifestazione del
pensiero: il fenomeno non ci conduce più alla sostanza che in esso dovrebbe farsi
visibile, ma ci vincola apparentemente ad un pensiero che è per noi del tutto privo di
verità e di sostanza. L'ironia è dunque una sorta di sovversione del rapporto tra
fenomeno ed essenza, ed appartiene proprio per questo alla famiglia dei fenomeni
"doppi": nell'ironia il fenomeno diviene infatti un'apparenza ingannevole che allude ad
una realtà che deve essere tuttavia negata. L'ironia sembra essere dunque una peculiare
forma di ipocrisia: le cose, tuttavia, non stanno affatto così, perché - come nota
Kierkegaard -
Del resto, la differenza tra ironia e ipocrisia traspare già nel fatto che l'ipocrita non
vuole che il suo pensiero sia colto e lo dissimula quindi interamente, mentre chi fa
dell'ironia lascia trapelare nel riso la sua vera opinione. L'ipocrita, dunque, non dice ciò
che pensa perché non vuole essere giudicato: l'ipocrita dunque nega se stesso perché
non intende confrontarsi con la realtà che lo circonda, perché non se la sente di
contrastare un'opinione che gode di credito nel mondo. L'ironia segue una strada
diversa: chi nel sorriso ironico riconosce la distanza che lo separa da ciò che ha detto,
non nega sé, ma la sua adesione ad una realtà che appare per qualche verso priva di
valore (ivi, p. 102). L'ironia, dunque, permette al soggetto di prendere le distanze da ciò
che ha detto, liberandosene, tagliando i ponti che lo vincolano ad una realtà che è
riconosciuta priva di valore.
Ora, proprio in questo suo far "piazza pulita" della molteplicità dei legami che stringono
l'uomo alla realtà che lo circonda, l'ironia sembra inaugurare un nuovo cominciamento per
il soggetto. La battuta ironica, che fingendo di confermarla, nega l'adesione del
soggetto ad un mondo dato, libera di fatto l'io da una realtà cui non crede, ed è proprio
questo senso di liberazione che si esprime nel riso dell'ironia:
Ma quanto in tutti questi casi ed altri simili emerge dell'ironia è - nota Kierkegaard - la
libertà soggettiva che tiene ad ogni istante in suo potere la possibilità di un
cominciamento senza l'intralcio di legami anteriori. In ogni cominciamento c'è qualcosa
di seducente, poiché il soggetto è ancora libero, e questo è il piacere desiderato
dall'ironista (ivi, p. 196).
La funzione di cominciamento dell'ironia, il suo porsi come uno strumento per mettere
tra parentesi una realtà ritenuta inessenziale, traccia una chiara linea di demarcazione
tra l'ironia e l'ipocrisia, ma sembra riconnetterla al dubbio, poiché anche nel dubbio -
come Cartesio insegna - il soggetto si libera dai vincoli di un sapere tradizionale per
inaugurare un nuovo cominciamento.
Il rapporto tra ironia e dubbio ha del resto più di una ragione per essere istituito: anche
il dubbio ci dispone in un atteggiamento di natura negativa rispetto alla realtà e ci libera
dalle convinzioni cui eravamo precedentemente legati. Anche in questo caso, tuttavia, al
momento della somiglianza si deve affiancare quello del contrasto: nel dubbio il soggetto
vuole penetrare nell'oggetto, vuole appunto conoscerlo, ma l'oggetto gli sfugge, proprio
perché il dubbio non permette mai alla soggettività di riposarsi e di stare ben salda sulle
sue acquisizioni conoscitive. Nell'ironia invece il soggetto non vuole affatto cogliere
l'oggetto, non intende penetrare nella sua intima essenza: intende piuttosto prenderne
le distanze. In altri termini: chi dubita, crede di non conoscere la realtà, ma è certo che
valga egualmente la pena di comprenderla, ed è per questo che cerca di farsi presso la
natura intima delle cose; chi fa dell'ironia, invece, crede di conoscere la realtà, ma è
certo che non valga la pena di soffermarvisi, e nel sorriso ironico prende commiato da un
mondo che gli appare privo di valore.
L'ironia, infine, deve essere colta anche sullo sfondo della relazione che la lega al
raccoglimento religioso. Come l'ironia, anche l'atteggiamento religioso del raccoglimento
mette tra parentesi il mondo circostante, riconoscendone la vanità. Tale riconoscimento,
tuttavia, si affianca alla negazione del sé: il gesto del religioso che allontana da sé il
mondo colpisce in eguale misura la persona del fedele che riconosce se stesso come
"cosa miserrima fra tutte" (ivi, p. 200).
Dal naufragio del mondo che essa stessa provoca, l'ironia salva lo spettatore - l'io che si
fa ironista.
3. L'ironia: una personcina invisibile. Sin qui ci siamo mossi all'interno di un'analisi
prevalentemente descrittiva, volta a chiarire quali fossero i tratti distintivi che
caratterizzano l'ironia come comportamento soggettivo. Il compito che dobbiamo ora
svolgere è diverso: si tratta infatti di comprendere quale sia la funzione generale
dell'ironia, quale sia - in altri termini - la funzione metafisica che all'ironia è affidata.
Questa funzione può essere colta se dall'ironia come gesto occasionale passiamo
all'ironia come atteggiamento generale verso il mondo. Proprio come il dubbio da
empirico si fa filosofico quando Cartesio lo estende al di là dei limiti cui la quotidianità
lo vincola, così anche l'ironia guadagna una sua dimensione metafisica non appena si
solleva al di sopra dei singoli casi empirici per diventare un atteggiamento generale della
soggettività:
L'ironia sensu eminentiori non si rivolge contro questo o quel singolo esistente, bensì
contro tutta la realtà data in un determinato tempo e sotto determinati rapporti (ivi, p.
197).
Ora, ciò è quanto dire che "a essere considerato sub specie ironiae non è questo o quel
fenomeno, ma la totalità dell'esistenza" (ivi): l'ironia si pone così come lo stile di vita
che colora emotivamente la forma dialettica hegeliana della negatività infinita e
assoluta. Scrive Kierkegaard:
Per il soggetto ironico la realtà data ha perso completamente il suo valore, gli è
diventata una forma imperfetta e intralciante ovunque. Per l'altro verso, però, possiede
il nuovo. Sa una sola cosa, che il presente non corrisponde all'idea (ivi, p. 202).
Di fronte ad una realtà nella quale non si riconosce, il soggetto ironico non contrappone
una protesta determinata, non contrappone al dato un dover essere che in qualche modo
vincoli la sua volontà ad un progetto e la sua condotta futura ad un insieme di norme e di
convinzioni; tutt'altro: l'atteggiamento ironico non si impegna nel mondo per un mondo
nuovo ma - additandone la possibilità - libera il soggetto nel presente, permettendogli di
negare in interiore homine quell'adesione al mondo che pure a parole tributa.
Il sorriso ironico ci permette così di estraniarci dal mondo, di non riconoscergli alcun
valore. Da questa negazione tuttavia non derivano alla soggettività impegni di nessun
genere: la negazione ironica del mondo scompare nell'atto stesso del negare e non si
solidifica in un che di positivo. E ciò è quanto dire che nell'ironia il soggetto guadagna
una libertà soltanto negativa:
La libertà dell'ironia è dunque sempre soltanto libertà da qualcosa, mai libertà di agire
per qualcosa - è appunto una libertà vuota e soltanto negativa.
A partire di qui si può davvero comprendere non soltanto perché Socrate, il filosofo con
cui si chiude la stagione della "felice immediatezza" del mondo greco, debba essere per
Kierkegaard il vero campione dell'ironia, ma anche la ragione per la quale in un passo del
suo libro si parla dell'ironia come di una personcina invisibile: nel sorriso ironico, l'io
ritrova e guadagna se stesso proprio nel momento in cui si sottrae ad ogni sguardo che
lo cerchi nel mondo. La soggettività che l'ironia ci consegna paga così il gesto di diniego
che sancisce la sua superiorità sul mondo e sul reale con il suo divenire invisibile, con il
suo perdersi in una vuota possibilità: il luogo da cui la soggettività ironizzante guarda il
mondo è così lo spazio vuoto della pura possibilità.