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ANTONIO NAPOLITANO

SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA


VOLUME PRIMO

INGMAR BERGMAN
ROBERT BRESSON
ANDREJ ARSEN'EVIČ TARKOVSKIJ

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Copyright – 2015 Marina Napolitano Doriomedoff
Tutti i diritti riservati
Edizione a cura di Marina Napolitano Doriomedoff

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DELLO STESSO AUTORE

Totò, uno e centomila


Tempo Lungo, Napoli 2001

G. Leopardi. Un taccuino napoletano


Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007

Il memoriale di Seneca.
Un galateo del ben vivere e del ben morire
Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008

Shakespeare: specchio del mondo.


Lo stile come messaggio
Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010

Cinema d’autore off Hollywood,


Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012

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IN MEMORIAM
BIOGRAFIA
INTRODUZIONE AD INGMAR BERGMAN
DAL SETTIMO SIGILLO ALLE SOGLIE DELLA VITA
Esistenzialismo positivo
L’arte e la vita
Una sincera “religiosità”
INTRODUZIONE A ROBERT BRESSON
ROBERT BRESSON: UN CINEMA SENZA ORNAMENTI
ANDREJ ARSEN'EVIČ TARKOVSKIJ: TRA POESIA E RIGORE
UN’ANIMA ALLO SPECCHIO
NOTE SULLE ICONE
1.Icone
2.Le icone attraverso i secoli
3.Le icone di luce

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IN MEMORIAM
“... forte come la morte è l'Amore,
Le grandi acque non possono spegnere l'Amore
né i fiumi travolgerlo.”
Cantico dei Cantici 8, 6-7
“…- Ascolta la quiete, - diceva Margherita al Maestro, e la sabbia
frusciava sotto i suoi piedi nudi, - ascolta e godi ciò che non ti hanno mai
concesso in vita: il silenzio. Guarda, ecco là davanti la tua casa eterna,
che ti è stata data per ricompensa. Già vedo la trifora e la vite che s'attorce
e s'alza fino al tetto. Ecco la tua casa, la tua casa eterna. So che alla sera
ti verranno a trovare coloro che tu ami,che ti interessano e che non ti
inquieteranno. Suoneranno per te, canteranno per te, vedrai che luce ci
sarà nella camera quando saranno accese le candele. Ti addormenterai,
col tuo berretto consunto ed eterno,ti addormenterai col sorriso sulle
labbra. Il sonno ti rinvigorirà e saggi saranno i tuoi pensieri. E mandarmi
via ormai non potrai. Il tuo sonno lo proteggerò io.”
S.Bulgakov – “Il Maestro e Margherita”
…”Farei torto al lettore se non ricordassi che Antonio Napolitano è un
raffinato critico cinematografico: “Film significato e realtà” uscì con una
prefazione di Gillo Dorfles,nel settore ha un nome e una ricca bibliografia,
il saggio “Cinema e narrativa” è considerato un classico del genere perché
la sua analisi filmica con strumenti semiotici è contemporanea alle prime
indagini di Emilio Garroni e Umberto Eco”.
Cesare De Seta

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“Un nuovo lutto segna la nostra cultura. Ci ha lasciati infatti Antonio
Napolitano, uno degli intellettuali italiani più raffinati e poliedrici. Antonio
era un grande esperto di cinema e per anni le sue “cronache” hanno
segnato in qualche misura la storia della cinematografia, cosa che gli
valse anche in anni ormai lontani il premio Pasinetti cinema. E per lungo
tempo è stato responsabile della rubrica sulla nostra rivista. Ma
Napolitano era uno scrittore a tutto tondo i cui interessi andavano ben al
di là dello specifico filmico. Era un grande esperto di cultura inglese ed ha
tale proposito non si può non ricordare almeno il suo fondamentale lavoro
sull’opera di William Shakespeare (cit. “Lo stile come linguaggio”). Ma
conosceva anche -e bene- la letteratura italiana ed in particolare Giacomo
Leopardi a cui aveva dedicato l’originale e immaginario “Taccuino
napoletano”.
Aveva un garbo non comune sorretto sempre, oltre che da un
atteggiamento discreto, da una vena di ironia che gli proveniva dalla
consuetudine con il “wit” inglese e sono memorabili del resto i suoi
aforismi, un genere di cui si dilettava con passione e successo e per il quale
non aveva mai perso il gusto, anche negli ultimi giorni di vita. Proprio in
virtù di questa sua predisposizione gli avevamo chiesto di pubblicarli di
volta in volta su “Arte&Carte”, un invito al quale Antonio aveva aderito
generosamente. E proprio ora che non c’è più ci piace immaginarlo alle
prese con l’aforisma più impegnativo, quello dedicato appunto alla sua
esistenza. In un paese che troppo spesso ignora i suoi figli migliori e non sa
sempre valorizzare il talento, non sarebbe sbagliato riflettere ora più

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attentamente sul percorso intellettuale e l’opera di questo illustre
scrittore.”
Antonio Filippetti
“Arte & Carte” 03-31-2014

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BIOGRAFIA
Antonio Napolitano (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e
storico italiano di cinema.
Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo
Napoletano del Cinema” e di altri cineclub.
Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra
in “General linguistics”.
Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali
“L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI),
“Cinema Sud”(AV) etc.
Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti
Superiori statali.
[1]
Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo” a Venezia,
per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà
dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre
pubblicazioni specializzate.
Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre
di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha
collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il
Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e
altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo.
Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica
del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private.
Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incontri
internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di
filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e
presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero.
Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli
autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to
date” e della “novità” ad ogni costo.
E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia.
Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato
pubblicato da recente dalla rivista “Arte e carte”.

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INTRODUZIONE AD INGMAR BERGMAN

“Da Bergman ho tratto la lezione della purezza, della costante tensione alla
miracolosa autenticità dell'infanzia, l'età della vera innocenza e del contatto
misterioso con ciò che ci sovrasta e ci rende davvero vivi [...] La più profonda
dimensione del suo cinema è aver intessuto costantemente un intenso rapporto con
Dio. Ha rappresentato a pieno la vera ricerca di Dio.”
Ermanno Olmi

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Come è per molte delle espressioni dell’arte a noi contemporanea, anche le


opere del regista svedese Ingmar Bergman riescono a sottrarsi ad una di
quelle ampie e comode definizioni capaci di esaurirne i significati.
Varie sono, infatti, le “figure”che si intrecciano nel suo “tappeto”, per la
tessitura insieme complessa e ambigua di temi e problemi. Siamo forse, a
parte l’entità del paragone, alla stregua dell’opera di un Eliot o di un Picasso:
a quella restituzione, cioè, in forme esasperate (e perciò talvolta al limite
dell’equivoco) di una buona parte del nostro confuso panorama spirituale,
restituzione operata attraverso un acuto esperimento dell’intelligenza non
disgiunto però dalla sensibile consapevolezza della dispersione dei valori
umani.
A questo fine, può forse risultare utile, come criterio di sicurezza, tener
presente la distinzione fra Bergman autore e Bergman regista: solo nel primo
caso, infatti, egli è responsabile integralmente della ideologia che sottosta
all’opera ed è allora che si hanno “Il Settimo Sigillo”, “Il posto delle fragole” e
“Alle soglie della vita” che portano in sé, senza miscelazioni o compromessi di
sorta, la matrice piena della sua personalità culturale. Né possono venir
dimenticati il clima, la storia, il rapporto umano in cui nasce il fenomeno
Bergman: la Svezia, paese in cui ricorre da secoli quella strana bipolarità
nella visione del mondo e che è ancora oggi diviso fra uno slancio pagano
verso il culto della vita e della natura e un rigido puritanesimo luterano ed è,
in più, come nazione afflitta da una eccessiva risoluzione dei problemi
sociali per cui il cittadino è così protetto, così sicuro del necessario da poter
aver paura del superfluo; paese dove il troppo tempo libero può risolversi
dividuali o in abusi della libertà morale.

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Tra naturismo e misticismo, tra l’affermazione gioiosa e la negazione
spesso in disordinate escatologie invita e la morte (o il pensiero della morte)
Bergman tenta una sua sottile dolorosa del mondo terreno, tra la legatura
dialettica, tramite il controllo di una cultura che va da Swedenborg,
attraverso Kierkegaard, a Proust, a James, a Lawrence. E la sua mediazione
personale risulta suggestiva: il pensiero della morte diventa “una opzione
per la vita”.
In tal maniera egli sembra attenersi più che alla solitudine ontologica, a ciò
che è stato definito il “realismo dell’autenticità”e che si risolve, in ultima
analisi, in un confluire dell’esistenzialismo positivo nello storicismo
(Jeanson).

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Bergman fa sue, infatti, e intensifica, certe soluzioni positive: la morte ha
un fascino proprio in quanto può divenire un essere per la vita. Il flusso di
coscienza del professor Borg rassomiglia a quello di Ivan Ilic e come esso
diventa un vero e proprio processo di coscienza. Non annega così nel gran
mare della “tranquilla indifferenza” heidegerriana.
La morte, strumentata eticamente, assume, anzi, il posto di banco di prova
sul quale possono venir misurati e trattenuti i valori dell’uomo. In questo
senso il sogno è una sopradeterminazione, un impulso che deriva da una
immagine e suggerisce atti autentici. E per ciò i simboli non si orientano
verso la stasi, verso la passività ma piuttosto verso la fattiva comprensio di
sé e degli altri.

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Per questo l’erotismo, pur dissimulando, in Bergman, la sua vera natura in
giuoco, in vaudeville, presta il grande avversario di Thanatos, l’istinto
verificatore della sopravvivenza.

E paradigmatico può considerarsi “Alle soglie della vita”: le due prime


frustrazioni della maternità servono a dar rilievo all’unica nascita cui si
assiste nel film, il quale si rivela quasi la chiave perfetta alla comprensione di
quella simpatia che, per questa profonda, viva ragione il regista nutre per il
sesso femminile.

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DAL SETTIMO SIGILLO ALLE SOGLIE DELLA VITA
In Bergman il coraggio dell’angoscia di fronte alla morte diventa una ricerca di
significati e di possibilità reali di vita. Più che essere morbosamente affascinato dalla
morte, egli la sceglie, almeno nelle sue opere migliori, quale termine di un’operante
dialettica ideologica.

Napoli, maggio-giugno 1960

Come è per molte delle espressioni dell’arte a noi contemporanea, anche le


opere del regista svedese Ingmar Bergman riescono a sottrarsi a una di
quelle ampie e comode definizioni capaci di esaurirne i significati. Non
riesce facile, infatti, a chi si trovi in mala fede, reperire nel loro contesto
quella “figura nel tappeto"che, secondo il James, costituirebbe la
prerogativa dell’autentica critica. Al contrario, nella complessa tessitura di
temi e di problemi, c’è come un intrecciarsi di “figure”, per così dire,
policentriche. Siamo forse, a parte l’entità del paragone, alla stregua
dell’opera di un Eliot o di un Picasso: a quella restituzione, in forme
esasperate, di una buona parte del nostro confuso panorama spirituale
attraverso un acuto sperimentalismo intellettuale non disgiunto però dalla
consapevolezza della dispersione o della degradazione dei valori umani.
Rintracciare la fisionomia completa di almeno una di queste figure o, per

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uscir di metafora, di una di queste linee di elaborazione ideologica, potrà
servire forse ad aprirsi un più chiaro sentiero nella comprensione di un
fenomeno artistico che, seppure in modo parziale, viene a rispecchiare certe
nostre inquietudini, certe non sopite interrogazioni interiori.

A questo fine abbiamo tenuto presente la distinzione fra Bergman autore e


Bergman regista: nel primo caso il regista è insieme l’autore del soggetto e
della sceneggiatura, responsabile integralmente della ideologia che sottostà
all’opera ed è per questo che ci riferiremo, per le esemplificazioni, a quei
film che, come “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole” o “Alle soglie della
vita”, portano in sé, senza compromessi o miscellazioni, la matrice della sua
personalità culturale. È chiaro, d’altra parte, che il linguaggio
cinematografico è servito a dare maggior peso e misura a queste opere nate
[2]
in altra veste . Da un confronto, sia pure intuitivo, risulta che le immagini
usate da Bergman acquistano una maggiore capacità di reazione alla realtà
anche quando, per la prevalenza del dialogo, tenderebbero ad assumere,
rispetto a esso, una funzione minore o subalterna.
Esse, data l’intensità dei loro riferimenti, sono dotate di una rilevante
forza simbolica e non si esauriscono pertanto nella mera comunicazione di
concetti ma fanno sì che le stesse azioni dei personaggi, seguite nel loro
situarsi sullo sfondo e nell’àmbito della vicenda, assumano una ricchezza di
allusioni e di significati, sfuggano cioè a quella esagerata dichiaratività che
resta il maggior rischio della macchina da presa la quale troppo spesso dice
solo quello che vede. E per quanto la natura dell’opera sia, appunto, questa
sorta di ambiguità, tesa, peraltro, a rispecchiare l’ambiguità stessa della vita,

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e il senso della globalità derivi dallo scetticismo creativo peculiare a molti
artisti (cioè dalla convinzione più sentita che ragionata che il significato della
vita sia multiplo) ciò nonostante, al fondo di essa, può ritrovarsi una certa
sedimentazione di responsabilità etiche in cui confluiscono le varie associate
ispirazioni e il vario modo di configurare i contenuti ideologici nella
specifica forma artistica.
C’è un’eco di quanto diceva Pavese in una delle sue aperte, calde lettere
agli amici: “Per l’artista tutti i sistemi intellettuali comunque vivi nel suo
[3]
tempo, sono validi, sono vita” .La temperatura morale che vive del
contatto con la vita degli uomini, coi loro disagi, coi loro sviamenti è
senz’altro presente in queste opere; il tendere all’essenziale, al metastorico
non è quindi, in Bergman, indifferenza per la condizione umana o sterile
conversazione allo specchio. Né, con l’attenzione che egli dedica alla forma,
si vengono a eludere i problemi di sostanza, ché, anzi, il suo è un
subordinare il modo al fatto, all’idea, uno studiare una parte di realtà al suo
limite di tensione e perciò il suo narrare procede secondo una specie di
religiosa ma laica meditazione in immagini. Non a caso, Bergman nasce in
Svezia, paese nella cui storia ricorre quella strana bipolarità della visione del
mondo e che resta ancor oggi diviso fra uno slancio verso il culto pagano
della natura e il rigido puritanesimo luterano ed è, in più, come afflitto da
una eccessiva risoluzione dei problemi sociali, per cui il cittadino è cosi
protetto, così sicuro del necessario da poter aver paura del superfluo e da
poter dedicare troppo tempo libero a pratiche introversive che si risolvono
spesso in disordinate escatologie o in abusi della libertà morale.

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Fra questi due poli scorre il senso del metafisico, radicato nelle tradizioni e
nei costumi, determinato forse dal clima stesso, poiché nel grigiore
dell’estremo Nord, nel venirsi perdendo delle dimensioni del giorno e della
notte, s’insinua più facilmente il mistero e insieme con esso il pensiero dei
limiti della natura umana e del massimo fra essi che è la morte. Tutto
sommato, anche Bergman si muove tra i due termini antichi della letteratura
e della filosofia scandinava, anche se per suo conto, tramite il controllo della
più complessa cultura occidentale (e si vedano, in proposito, le sue
[4]
esperienze di regista teatrale, che vanno da Pirandello, a Kafka, a Camus )
egli ne tenta una sottile legatura dialettica: tra naturismo e misticismo, tra
l’affermazione gioiosa e la negazione dolorosa del mondo terreno, tra la vita
e la morte, tra questi due pensieri-radici dell’anima collettiva del suo paese,
egli perviene, attraverso la forza d’analisi del suo discorso, a una sua
personale mediazione, a un suo suggestivo compromesso: il pensiero della
[5]
morte diventa in lui quella che è stata definita “una opzione per la vita” .

Un coefficiente di facilitazione egli lo ritrova nel particolare atteggiarsi del


luteranesimo scandinavo in forme che di esso riesprimono solo alcune
esigenze essenziali e originarie, quella riduzione, operata dal pietismo, della
religiosità a esperienza intima, di natura quasi strettamente psicologica e
quella svalutazione progressiva della “giustificazione”e della “grazia”che
già viene, in buona parte, a circoscrivere la concezione pessimistica e
negativa dell’”intramondano”. Il filo sottile ma tenace della ideologia o
almeno della convinzione morale e intellettuale del regista svedese sembra

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essere questo sforzo di comprensione e di assorbimento di quel postulato
metafisico che, ai nostri giorni, può mantenere ancora in parte intatta la sua
ragion d’essere e che è l’idea e il significato della morte. Ma mentre la morte
è cessazione di ogni operare individuale e di ogni vitale interrogazione, la
coscienza della morte può farsi sprone a quel dialogo con gli altri che è la
più vera probabilità di sganciarsi da un egoismo che nella sua chiusura, nel
suo non accrescimento è già premonizione di morte.

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Esistenzialismo positivo
D’altra parte, sarebbe possedere solo una parziale coscienza storica non
ammettere che metafisico è il discorso di Bergman unicamente nelle sue
estreme implicazioni, poiché come giudizio sul probabile destino dell’uomo
e come sottolineatura dei rischi che la nostra specie corre nel presente
termonucleare, di fronte al settimo sigillo della bomba H il suo discorso
rivela stringenti rapporti con i nostri più realistici dubbi, con i nostri meno
infondati timori. E Hiroshima e Nagasaki non sono forse i luoghi sui quali
l’Agnello ha aperto già, come per un avviso, il settimo sigillo? Non potrebbe
parafrasarsi, senza forzature, l’Apocalisse per ottenere una mera cronaca del
flagello che si abbatté sulle due città: “un gran monte ardente cadde dal cielo, una
grande stella ardente e il terzo dei viventi morì...”? Non è forse lo stesso atomo
disintegrato che brucia anche nella civile coscienza di registi ideologicamente
lontani da Bergman, come un Ciukraj, un Bondarciuk, i quali interrogandosi
sulla morte, sul doloroso destino dell’uomo, tentano anch’essi, seppure per
altra via, di riportare un pieno significato alla vita?

Più che essere morbosamente affascinato dalla morte, come sostiene


[6]
qualche critico , Bergman la sceglie, almeno nelle sue opere migliori,
quale termine di una viva dialettica ideologica. Per questo egli sembra
attenersi a ciò che è stato definito “il realismo dell’autenticità”e che si
[7]
risolve in un confluire dell’esistenzialismo positivo nello storicismo .
Bergman sembra infatti intensificare certe soluzioni positive

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dell’esistenzialismo: la vita per lui non è solo un essere-per-la fine, un
essere-per-la morte, ma la morte stessa può diventare un essere-per-la vita.
Nello “intramondano”c’è qualcosa di assolutamente utilizzabile ed è il
“con-esserci”degli altri. Il tempo non muore continuamente, come accade
nel paradigma heideggeriano, ma sopravvive con una sua calda realtà nel
ricordo e come ricordo può bastare da solo a sollecitare una ripresa totale: è
il caso, appunto, de “Il posto delle fragole” in cui un’esistenza sbagliata,
umanamente frigida, ha la possibilità, grazie al pensiero della morte, di
rigenerarsi nella comprensione e nell’affetto verso gli altri e quindi di
riacquistare un suo intero significato. Ciò che appare essere il fulcro etico
del film, anche se spostato ai poli del racconto al fine di drammatizzare la
situazione e conferirle un più accentuato dinamismo, è il flusso di coscienza
del professor Borg che diventa, in virtù del pensiero della morte, un vero e
proprio processo di coscienza. Non si può quindi affermare che in esso i dati
affondano nel gran mare della “tranquilla indifferenza”heideggeriana ma
anzi la morte, strumentata moralmente, assume un valido significato umano,
quasi banco di prova sul quale possono venir misurati e controllati i valori
dell’uomo.

In questo senso il sogno è una “sopradeterminazione”, un impulso che


deriva da un’immagine e suggerisce all’uomo atti autentici. Viene a
cancellarsi l’istinto di morte: i simboli non si orientano verso la stasi, verso
la passività ma piuttosto verso la fattiva realizzazione e comprensione di sé e
degli altri. La morte diventa così “la considerazione del poter morire”che,
come osserva Abbagnano, “ognuno di noi riferisce non solo a sé ma anche

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agli altri ed è il fondamento, talora nascosto, di attività, pensieri, affetti,
[8]
cure, sollecitudini d’ogni genere” . Ci troviamo allora nell’ambito di
quella “fedeltà alla morte”per cui “l’assumerla come prospettiva
dominante della nostra esistenza significa rovesciare la illusione volgare,
[9]
non già sottrarvisi” . Perché, come si esprime lo stesso Abbagnano “la
fedeltà alla morte dimostra l’autenticità propria dell’esistenza che si è
realizzata nella struttura, costituendo l’uomo nella sua unità propria, cioè
nel suo rapporto necessario con l’essere universale e con la comunità
[10]
coesistente” . Ed è per questo che in Bergman anche l’erotismo, pur
dissimulando la sua vera natura in giuoco, in “vaudeville”, ha una sua
serietà fondamentale: è Eros, l’istinto di vita, il grande antagonista di
Thanatos, l’istinto di morte. Il sesso, come mezzo verificatore della
sopravvivenza umana, assume quindi una sua indiscutibile positività.

D’altra parte, non può non ravvisarsi un senso religioso nell’angoscia del
professor Borg, del cavaliere Antonius Block, in quanto essi, come dice
Kierkegaard “imparano che sentire l’angoscia è un’avventura attraverso la
[11]
quale deve passare ogni uomo affinché non vada in perdizione” . La
morte, come è per Kierkegaard, serve a mettere in iscacco quella malattia
mortale che è la disperazione. Ne “Il settimo sigillo” e “Il posto delle fragole” più
che in altre opere, il coraggio dell’angoscia di fronte alla morte diventa una
ricerca di significati e di possibilità di vita reale. L’uomo non è “consegnato
alla sua impossibilità insuperabile”ma è stimolato, come da un rischio
esterno a tentare le giuste vie che ha prima rifiutate. In tal maniera, Bergman,

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ci sembra, viene ad accettare più il cosiddetto “realismo ontologico”che il
concetto di solitudine ontologica e si pone sulle tracce di quella filosofia
verace che è oggi appannaggio di molti scienziati (un Einstein, un Rostand) e
che tende a dimostrare che nell’esercizio della libertà può trovarsi
l’attuazione della autentica trascendenza dell’uomo: trascendenza che scorre
su due vie, in quanto il volere rappresenta e riguarda il divenire mentre il
conoscere riguarda l’essere. Risulta addirittura sorprendente notare come nel
nucleo della vicenda de “Il posto delle fragole” sia racchiuso, in un esempio di
vera scelta morale, il paradigma kierkegaardiano dei Papirer, sulla differenza
tra la domestica e un genio o “professore”: mentre la prima, dice
Kierkegaard, senza tanti arzigogoli, fa la scelta del bene e diventa spirito, il
genio o professore trionfi di sé e della propria scienza raramente ci arrivano.

Parecchie altre affinità affiorano fra l’opera di Bergman e quelli che sono
stati definiti “i presentimenti di quell’unità sintetica che si avvertono in
Kierkegaard, quando, a esempio, ritrae la vita cristiana come vita che si
afferma per mezzo della morte o quando concepisce l’eternità come
[12]
concentrata nell’attimo” . Ma nel complesso, mentre il pensatore danese,
come sostiene il più recente critico del pensiero irrazionale dell’occidente, ha
molto più spesso una concezione pessimistica e, in definitiva, nichilista della
vita umana per cui “lo stadio etico viene a perdere ogni senso e
[13]
rilevanza” , alla sfera dei valori morali storicizzati non sembra sottrarsi
l’ideologia bergmaniana che individua nell’indifferenza, nell’egoismo e non
solo nella “solitudine”i chiodi mortali dell’uomo. E, come abbiamo visto,

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nel regista svedese il giudizio morale, cioè il processo di valutazione di certe
situazioni psicologiche, non è del tutto irrelato rispetto al nostro presente.
C’è piuttosto in lui la ricerca di certi valori essenziali che possono venir
esaltati nell’uomo proprio dall’idea della morte, i parametri di
quell’”esistenzialismo essenziale”di cui parla Lavelle e per il quale
“l’esistenza ci è data come possibilità e capacità di acquistare
un’essenza”e per cui “conoscersi è come svegliare in sé una vita
[14]
nascosta” .
La presa di coscienza morale del professor Isak Borg è proprio un simile
tipo di “risveglio”. Dice inoltre il Lavelle: “L’io non è una realtà data ma
[15]
una realtà che si cerca” , e quasi tutti i film di Bergman appaiono
caratterizzati da un motivo conduttore di ricerca, di viaggio, di chi si pone
comune in cammino verso una meta: cosi il cavalier Antonius Block de “Il
settimo sigillo”come il professor Borg, come il dottor Vogler de “Il volto” e il
padrone del circo de “Una vampata d'amore”. Come non ammettere allora che
tutti questi personaggi, posti di fronte alla possibilità della morte, o
addirittura dell’apocalisse, si arricchiscono di simpatia, di calore umano e
infine di vita? L’angoscia si fa in essi inquietudine e insieme fiducia, una
sorta d'esasperata tensione della speranza.

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L’arte e la vita
“Prima di ogni vera scelta”, dice il Lavelle, “c’è l’ideale umano, e in
ultima analisi storico, delle essenze-valori”; pur restando quindi
nell’àmbito di un quadro esistenziale, i personaggi di Bergman sono
esemplari positivi di sforzo, di dignità, di tentativo di conquista di “essenze-
valori”. Ed è così che l’amore si fa “riconoscenza e accettazione della
realtà”, e la procreazione, ne “Alle soglie della vita”, acquista il vigore
simbolico di un atto che oltrepassa il tempo nel suo potenziale carattere di
perpetuazione della vita, ed è la vera morte. Così, l’arte e il più alto sforzo
morale insito nella vita dell’uomo. Il girovago padrone del circo, quando
riprende con coraggio il cammino, ha questa rivelazione in quel sogno in cui
egli ha

visto come dall’utero materno noi progrediamo verso la luce e la maturità e


poi regrediamo verso quell’utero pure materno che è la morte, ma ciò che
vale è appunto questa ampia parentesi vitale che riempie di sé lo spazio del
nulla e preme e vince su di esso quanto più saldi sono i nostri sentimenti e la
nostra accettazione della vita. Così, nel finale de “Il settimo sigillo”c'è chi si
salva ed è chi ha fede nella vita, chi gode senza interrogarla con un
ossessionante disprezzo che in sé sembra nascondere la ricerca della morte.
E questa, personificata da Bergman in un lugubre monaco nero, è, nelle sue
stesse parole un nulla, né ha nulla da rivelare; esiste allora solo nella paura
egoista degli uomini che non sanno evocare Dio o la vita senza insieme

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evocare la morte. E la religione ha irrigidito la fede in schemi di morte:
brucia, flagella, ha solo invettive piene di ferali presagi, testimonia insomma
più della morte che della vita.
Perciò l’angoscia di Block è soprattutto di natura morale. “Il mio cuore è
vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare... Vi leggo indifferenza
verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili, vi scorgo immagini
di incubo...”.

E appena un istante dopo egli si chiederà: “Perché non è possibile cogliere


Dio con i propri sensi? Questo Dio indefinito, lontano da ogni culto o a
esso nemico, non sarà la vita?”. La lunga partita a scacchi è quindi il lungo
respiro vitale che è concesso a Block per un’azione (la vita stessa) che valga
qualcosa. E l’autenticità delle proprie azioni gli viene proprio dal poter
dialogare virilmente con la morte. Gli intervalli della partita, come è in tutta
la tradizione simbolica del Nord, sono le grandi ore dell’esistenza che
l’uomo ha a sua disposizione per verificare la propria essenza morale.

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Nelle conversazioni con i giocolieri-attori, di fronte a quella vita colta così
intera, così pacificata col ritmo della natura, altri simboli emergono, fra cui
quello, ricorrente nelle opere scandinave, delle fragole. Ci sembra, infatti,
che nel grigio, freddo splendore di quei paesi del Nord queste rosse
germinazioni della natura stanno ben a rappresentare il calore della vita, i
valori umani incorrotti dai timori metafisici.

“Lo ricorderò questo momento”, dirà il cavalier Antonius Block: “Il


silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte e i
vostri volti su cui scende la sera, e Mikael che dorme sul carro e Jof che
suona la lira. Cercherò di ricordarmi tutto quello che abbiamo detto e
porterò questo ricordo con me, delicatamente, come se fosse una coppa di
latte appena munto e che non si vuol versare. E sarà per me un conforto,

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qualcosa in cui credere”. E così per l’amore, dirà lo scudiero: “Se tutto è
imperfetto in questo imperfetto mondo, l’amore è allora perfetto della sua
assoluta e squisita imperfezione”. Infine, di fronte all’apparire invisibile
della morte, lo stesso scudiero che è il coro del film: “Forse avrei potuto
liberarvi da quest’angoscia dell’eternità che vi tormenta.

Ma ormai è troppo tardi per insegnarvi la gioia smisurata di una mano che
si muove o di un cuore che pulsa”.

29
Una sincera “religiosità”
Non siamo qui di fronte a un mero panteismo, ma ci sembra che Bergman
avverta e trasmetta quel disagio della civiltà moderna, quel senso di
equilibrio instabile e precario che, come spiegava Freud, era dovuto
soprattutto alla forte menomazione della vita istintiva e degli stessi impulsi
erotici che sono spesso transvalutati in impulsi di morte. E da questo punto
di vista, i dialoghi dei film di Bergman più indicativi e più “suoi”, assumono
un vero e proprio carattere di “dibattiti drammatici”. Quando nel professor
Borg de “Il posto delle fragole” si metterà in moto il processo di autocoscienza
mediante il quale egli troverà un ponte verso gli altri, gli torneranno in mente
i versi di un’antica poesia:
“Ovunque una forza si svela,
- un fiore profuma, una spiga si piega.
- In ogni sospiro che tiro, nell’aria
- io trovo il suo amore.”
Ed è per questo che egli sarà dalla parte della nuora, cui il figlio del
professore ha rimproverato: “Tu hai uno stramaledetto bisogno di essere
viva, di vivere, di essere nella vita, di creare la vita”. L’aver accettato
l’accusa di “insensibilità, egoismo, assenza di scrupoli”, sarà per Isak
l’unica autentica possibilità di rigenerazione. La sua vera laurea honoris
causa sarà appunto la lode che gli faranno i giovani autostoppisti: “che egli
sa tutto della vita e ha imparato ad usarla”.

30
Nel flusso dei fatti attraverso i quali Borg rivaluta la sua esistenza sarà
sempre viva la luce estiva: solo nella sequenza del conferimento del
dottorato a Lund appare evidente dai toni di un nero funebre che tutti quegli
austeri professori sono

soltanto e già un rigido e banale corteo di morti. Al contrario, proprio da


quando ha saputo di “essere morto sebbene viva”, Isak Borg si è salvato e
ha recuperato la coscienza delle “essenze-valori”. In modo analogo, in “Alle
soglie della vita”, viene chiaramente dimostrato come attraverso la maternità si
riesca a vincere la morte, con questa possibilità di raddoppiare la presenza
umana, di moltiplicarla, di mettere cioè in dubbio almeno la “corsa alla
morte”della specie.

31
“Alle soglie della vita” è, a questo proposito, paradigmatico: sia perché i due
primi fallimenti, le maternità frustrate servono a dar rilievo drammatico e
simbolico all’unica nascita cui si assiste nel film e sia perché il film si rivela
quasi la chiave alla comprensione di quella simpatia di narratore che
Bergman ha, per questa profonda, radicale ragione, verso il sesso femminile.
Sembra quindi di poter dare atto al regista svedese degli sforzi fatti quale
uomo di cultura, di risalire proprio con mezzi esistenziali quell’abisso
postromantico in cui la coscienza dell’isolamento si può degradare
nell’uomo fino al sentimento di completa vanità della vita. La morte diventa
anche per lui “condizione per l’esplicarsi dell’eterna forza rigenerante
[16]
della cultura” . Ed è comprensibile che, in questa direzione, egli non
possa non confortarsi con istanze di sincera religiosità; ma di una religiosità
laica, quale, a esempio, si viene a delineare nella concezione einsteiniana
della vita morale: “Qual è il significato della vita umana, o di quella, in
genere, di ogni altra creatura? Conoscere una risposta a questa domanda
significa essere religiosi. Vi domandate: vale dunque la pena di porla? Io
rispondo: chiunque consideri la propria e l’altrui vita come priva di
[17]
significato è non soltanto infelice ma appena degno di vivere” .
Ci si è poi domandati se Bergman non concluda le sue opere con un
problema aperto: ma non si trova forse questa conclusione nel credo laico di
un uomo abituato a indagare nella cellula certe segrete tensioni del divenire
della vita? “Chi ha veramente sentito, vissuto il tormento delle domande
interiori non può nemmeno concepire da dove potrebbe venirgli la pace. E

32
quand’anche arrivasse a credere a quei misteriosi aldilà che le religioni
promettono gli sembrerebbe che fin nel fuoco dell’inferno o tra le delizie
del paradiso non potrebbe fare altro che continuare a porsi dei
[18]
problemi” .
Napoli 1961

33
INTRODUZIONE A ROBERT BRESSON

"Per me, Robert Bresson – è il miglior regista al mondo."


Andreij Arsen’evic Tarkovski

34
1

“Il processo di Giovanna d’Arco” presentato l’anno scorso a Cannes e che


apparirà tra breve in Italia, ha riproposto il nome di Robert Bresson, nome
non certo frequente nelle cronache del cinema.

Con questo suo ultimo lavoro, il regista francese non ha inteso misurarsi
con quel classico che è «La passion de Jeanne d’Arc» di C. T. Dreyer, ma ha
voluto offrire una sua documentata versione di uno dei fatti più rilevanti
della storia di Francia.
Questo film viene dopo il discusso successo di “Pickpocket” (1959) e dopo
la grande e meritata affermazione di “Un condannato a morte è fuggito”(1956).
E' doveroso e significativo ricordare che Bresson ha girato in quasi venti
anni appena sei film e ciò lo apparenta per altro verso al rigorismo morale ed
intellettuale di Dreyer.
Forse per la sua esperienza di pittore (non domenicale) egli è uno dei
pochi che credono alla essenzialità delle immagini e che si induce ad evitare
ogni compiacimento e ogni inutile ornamento.
La sua attività ha inìzio nel ’43 con “Les anges du péché”, accolto senza
riserve dalla critica. Nel ’45 presenta un’opera più impegnativa:”Les dames du
bois de Boulogne”, ispirato a «Jacques le fataliste» di Diderot. Gli unici scogli
da superare sembrano un certo gelo intellettuale e quella volontà, pur
cristallina, di astrarre i personaggi da ogni riferimento a tempi e a luoghi.
Finalmente, quattro anni dopo, l’incontro con un testo di segreto calore
umano quale “Journal d’un curé de campagne”, di Bernanos porta Bresson ad
un completo equilibrio tra strutture narrative ed intensità introspetttive.

35
In quasi tutte le sequenze egli riesce ad utilizzare i particolari più minuti
delle cose vive e delle cose morte; ma soprattutto arriva a creare un ritmo
interno che rinsalda quello che il preziosismo delle immagini potrebbe
svuotare.
Ciò che guida Bresson nella scelta degli interpreti è la loro somiglianza
morale (e non fisica) coi suoi personaggi e ciò vale sia per Giovanna, che
per il curato che per il tenente Fontaine di «Un condannato a morte».

In questa opera, vengono costretti in unità ritmo-figurativa i motivi esterni


ed interni del prigioniero che si costruisce la sua speranza di fuga, che è
speranza di dignità e di vera vita. Le mani che fabbricano i rudimentali mezzi
per l'evasione diventano simboli plastici di un pensiero dominante, pensiero
di libertà che viene trasmesso per immagini disadorne ma nette e lucide nella

36
loro sobrietà.
«Il vento soffia dove vuole » sono le parole di Cristo a Nicodemo che Bresson
ha imposto al film come sottotitolo. E una ispirata semplicità è l’anima del
racconto che se, a prima vista o da lontano, può apparire monocorde, rivela
da vicino una insospettata ricchezza d’intarsii.
Il regista svolge il tempo della vicenda, lo contrae o lo dilata secondando il
battito del cuore del protagonista; attraverso rigorosi primi piani, configura il
dialogo di quello sguardo coi poveri oggetti della cella o con gli sguardi
disperati ma virili degli altri internati nel carcere nazista: in questi momenti
d’incontro, s’accende il bianco della solidarietà ritrovata e zampilla come
una sorgente, il leitmotiv mozartiano con tutti i suoi limpidi presagi di
libertà.

Siamo di fronte ad un realismo che è ben lontano dalla passiva


registrazione della realtà; esso assume densità proprio dal rifiuto di superflue
digressioni in chiave d’avventura. Come in tutte le sue opere, dove si,
sarebbe potuto avere una scena straziante o clamorosa, Bresson ha preferito
una pacata allusione: è il suo senso classico della tragedia.
Lo spettatore si trova così di fronte ad uno schermo divenuto specchio
profondo dell’uomo, perchè il coraggio interiore è riuscito a farsi stile. Un
monito, questo, severo per i nostri tempi difficili sì, ma nei quali troppo
spesso si invocano giustificazioni per compromessi che sono ad un tempo
estetici e morali.

Napoli 1963

37
ROBERT BRESSON: UN CINEMA SENZA ORNAMENTI
“Il senso di un film è quello che parole e gesti presi insieme provocano, è quel
qualcosa che passa dietro ad un volto, quel qualcosa di indefinibile, di misterioso e di
magnifico...”
Così si esprimeva nel ’63, in una delle sue rare interviste, Robert Bresson,
il regista francese ricordato con una esauriente retrospettiva a “France
Cinéma”, piccolo grande festival tenuto a Firenze ai primi di novembre ’89.
La rassegna curata con spirito di chiarezza e di dedizione da Aldo Tassone
ha dato modo a molti di rivedere l’opera completa di un maestro della
settima arte, incluso il mediometraggio comico che si riteneva perduto.
R. Bresson, nato nel 1907 a Bromont - Lamothe, nel Puy-de-Dôme, ancora
vivente e operoso, è uno dei più schivi artisti, estraneo a qualunque forma di
autopubblicità e di narcisismo, alieno dal “festivalismo” imperante.
Conferma con le sue scelte di vita il suo “giansenismo” e la sua ardua e
accanita ricerca di “grazia” (etica oltre che estetica). Un’eccezione al suo
serio “engagement” è appunto costituito da “Les affaires publiques” del 1934
di cui anche saggisti informatissimi lamentavano l’irreparabile smarrimento.
Con soddisfatta sorpresa sono invece scorse sullo schermo dell’“Alfieri
Atelier” del capoluogo toscano, le sapide sequenze di quest’operina
giovanile, frutto dell’entusiasmo per lo slapstick o forse per il Méliès più
“cocasse”. Si sono visti scherzi pantomimici di una surriscaldata fantasia,
intarsiati a non pochi omaggi all’età d’oro della commedia hollywoodiana
muta. Una controprova della indipendenza dalla verve più sofisticata di
Clair, di cui Bresson non è stato mai né alunno né aiuto.
Dopo un tale exploit, quasi sorta di rito liberatorio giovanile da possibili
dipendenze, il regista affronterà con rigorosa coerenza solo temi drammatici,
in conseguenza anche delle traumatiche esperienze del “drôle de guerre”
concluso nel 1945.
In questo periodo egli si terrà fedele ad una geometrica equidistanza tra i
collaborazionisti culturali di Vichy e gli intellettuali dei Comitati di
Liberazione.
E’ il suo superamento pascaliano delle contingenze storiche che lo induce a
realizzare il progetto filmico de “Les anges du péché” cui apportano contributi
non irrilevanti il padre Bruckberger e lo stesso Giraudoux.

38
La vicenda si snoda, in gran parte, nel convento di Béthanie e dimostra un
inconsueto dominio del bianco e nero, e della scansione narrativa. Il difficile
tragitto dalla violenza alla Grazia risulta armonico e senza sfasature: il
giovane metteur en scène sa già captare da quei volti femminili più di quanto
essi evidenzino in superficie. Scrive su quei suoi taccuini che verranno solo
più tardi pubblicati col titolo di “Note sul cinematografo”: “non è importante quel
che mi fanno vedere ma quel che mi nascondono e soprattutto quel che non
sospettano vi sia in loro”. Fin da allora preferisce attori non professionisti con i
quali è più facile avere “scambi telepatici, divinazioni”, e che meglio gli
permettono di evitare toni teatrali e sentimenti affettati.
L’autore filmico, per Bresson, deve essere “uno strumento di precisione” che
tagli via “ogni ridondanza, ogni superfluità, ogni ornamento”.

I conflitti vanno resi con chiaroscuri, ombre, figurazioni molteplici in

39
grigio o infragrigio, anche perché, a ben guardare, c’è “un doppio e anche triplo
fondo delle cose e dei luoghi”. Nel ’44-’45, ancora al tempo dell’occupazione
nazista, gira il suo terzo film, tratto da un racconto di Diderot (un episodio di
“Jacques le fataliste”). Il suo titolo sarà “Les dames du bois de Boulogne” e a
tale opera darà il suo contributo di sceneggiatore Cocteau, che poi ammetterà
che Bresson lo ha “allineato ai suoi principi”.

Anche qui dominano bianchi e neri lucidi e sapienti e manovre


luministiche che scoprono perfidie d’alto rango, intrecciate a legami
pericolosi. La macchina da presa si muove con sagacia, fruga spazi e volti,
specilla ogni minuscolo oggetto come per una definizione morale
dell’ambiente. Le battute secche e perentorie, vera prosa cinematografica,
intensificano il campo semantico delle immagini, interagendo col taglio netto
e impietoso dei fotogrammi. I primi piani della Casarès risultano incisivi,
perforanti tenuti come sono in cornici calibrate al millimetro.
Sotto la griglia cartesiana si intuiscono i moti delle passioni, come sotto i
veli di cipria pulsano le vene e i capillari.

40
Vibra un’eco raciniana, quella cifra tragica che Barthes ravvisava nel fatto
“che non ci sono caratteri, ci sono situazioni... ogni elemento trae la sua
essenza dal posto che occupa nella costellazione generale delle forze e
delle debolezze”.
Nel 1950, si ha l’incontro, del resto ineluttabile, con l’altro grande
pascaliano di Francia, Georges Bernanos, il cui “Diario di un curato di
campagna” Bresson trascrive con fedeltà e personale partecipazione.

La scelta di un volto lontano dagli stereotipi divistici è già la soluzione di


un problema fondamentale; il regista sa che la fisionomia del protagonista
(C. Laydu) è il punto di partenza dello svolgimento diegetico, e insieme il
mezzo più energico per coinvolgere lo spettatore. Il primo piano è la scintilla
che può far ardere il fuoco di ogni sequenza, perché l’anima dell’uomo può
venir rintracciata sull’insieme dei piccoli segni del volto, nella più piccola

41
increspatura delle labbra, o nel minimo aggrottarsi della fronte o dei
sopraccigli. L’altro binario su cui imposta le ruote della sua cinepresa è
quello di una povertà di ambientazione quasi francescana (E annota sui
taccuini: “Non si crea aggiungendo ma levando. Sviluppare è cosa ben diversa dal
diluire”).
Non saranno molti i critici a recepire la finezza di un tale impianto
espositivo, ma il sensibile Bazin coglierà subito il fulcro stilistico in “quella
dialettica tra astrazione e realtà, grazie alla quale si rende palpabile la
verità delle anime”. (“Les Cahiers” del giugno ’51).

L’indigente e bistrattato parroco di Torcy risulta dal serrato periodare


filmico un apostolo travolto da prove e tempeste, sostenuto soltanto dalla
sete di giustizia e dall’amore per gli umili.
I nobilotti del villaggio sono i moderni farisei che gli rigettano in faccia i
suoi messaggi, murati come sono in atavica e opaca alterigia. Lo scontro tra
il curato e la contessa è ritmato sul metronomo raciniano, e sulle facce in
tensione traspaiono tutti i segnali del destino, le premonizioni di due percorsi
analoghi anche se divaricati. Sono due solitudini che si contrappongono
nella polarizzazione di diverse concezioni dell’esistenza.

42
Il regista porta a livelli di incandescenza il veemente dialogo, accorciando i
tempi, accelerando le entrate, sorprendendo riverberi di fuoco nelle pupille
dei due personaggi.
E sempre più rapida si fa l’esposizione visiva del diario: la penna che
traccia le parole non riesce a tener il “passo” con l’incalzare della diegesi
fotodinamica: la morte della contessa, l’aggravarsi della malattia del

giovane curato, il suo spegnersi su uno squallido golgota, una stanzetta di un


amico spretato (è da sottolineare che Bresson, come i tragici greci, non
mostra alcuna salma “in scena”). Nella memoria pre-agonica del
protagonista brillano le ricordanze di lontane albe incontaminate ma la
vicenda verrà chiusa, giansenisticamente, da un breve, tacitiano “rapporto”
sul suo decesso (e quale catarsi si innescherà, invece, nell’animo dello
spettatore forse andato per riempire una vuota mattina nella raccolta saletta

43
di piazza Ognissanti).
Dopo questo magnifico exploit, una tappa importante lungo il percorso
romanzo-cinema (che è un fatto di sostanza e non di “accidente”, un
fenomeno che va studiato comunque, come le trascrizioni musicali, come le
illustrazioni di Botticelli per Dante); Bresson resta coerente col suo metodo
di vita e passa alcuni anni in austero silenzio; alieno com’è da compromessi
industriali o affaristici. E lo stesso aspro itinerario di un Dreyer o di uno
Stroheim, artisti che i produttori temono come rischi per il box-office.
“L’uomo più integro del cinema francese” come lo definirà J.L.Godard,
riprende a lavorare solo nel 1956, quando la Gaumont accetta il piano di
lavorazione per “Un condannato a morte è fuggito”. Si tratta di un episodio reale
della Resistenza francese e il regista intende, ancora una volta, “narrarlo così
com’è, senza ornamenti”.

La testimonianza del tenente evaso dalla prigione nazista viene sottoposta,


infatti, ad un “labor limae” di produttiva meticolosità. Quasi ogni scena è
incentrata sul carcerato e ogni suo gesto viene colto come un movimento
verso la libertà. I nudi muri della cella, i dettagli della porta, perfino della
serratura sono transvalutati in significanti da concatenare in una prosodia
visiva limpida. Ad essa si avvolge come un’onda emozionale appena
trattenuta la Messa in do minore di Mozart che fa da melodioso controcanto.
Le mani dell’ufficiale diventano simboli parlanti, come quelli di certe
pantomime orientali, e ogni segmento figurativo rinvia per simmetria o
similitudine ad altri segmenti di discorso.
L’understatement è sovrano, la litote prevale sull’iperbole e la sineddoche
è il tropo più usato, dato il senso di misura classica che Bresson raggiunge

44
quasi in ogni punto del film. Qui, la libertà è un eteronimo della Grazia e
può esser vista da più angoli filosofici, come l’evangelico “vento che soffia
dove vuole” o l’empito romantico per cui “esser liberi è niente, divenir
liberi è paradiso”.

La rassegna fiorentina è poi proseguita con “Pickpocket” (1959): anche in


questo film le dita diventano i fulcri primari delle immagini; questi arti
prensili e danzanti racchiudono tutta l’intelligenza e il destino stesso del
giovane ladro. I suoi piccoli delitti avranno un grande castigo: egli verrà
recluso e separato, pertanto, dalla donna che lo ama al di là di ogni
pregiudizio umano. Sembra, stavolta, che l’autore giansenista subisca il
fascino dell’adiacente calvinismo con il suo accettare anche una
predestinazione negativa.

45
Del 1962 è “Il processo di Giovanna d’Arco”, opera che pare rischiare
parecchio nel confronto col capolavoro dreyeriano, anche per certe fisime
scenografiche e costumistiche. La stessa interprete appare più impacciata che
ieratica e avrà lei stessa tremato a veder anche soltanto le foto della
Falconetti. “Au hasard, Balthazar” è del 1966 e sembra quasi ridondante
parlarne dato che è una delle opere più “passate” per cineclub e video
pubblici e privati. Ma non sarà banale ribadire quali finezze sottintenda
questo apologo sulla bestialità degli uomini verso gli animali. Dice
benissimo Ferrero, nel“Castoro”dedicato a Bresson:“L’ottica unilaterale e
semplificatrice dell’asino spoglia gesti e parole, movimenti e fatti da
qualsiasi sovrapposizione consolatoria, restituendone inflessibilmente, la
gratuità e la tristezza”.

Lo sguardo di Balthazar è lo sguardo sbarrato di chi ancora può stupirsi


della polimorfa malvagità dell’uomo, ma insieme riesce a sospendere la
condanna dato che sente metafisici interrogativi insorgere dentro di sé. E il
fenomeno del “dolore innocente” è anche al centro di “Mouchette” (1967). Il
volto disarmato della remissiva ragazzina si confronta invano con quelli
induriti degli adulti (la maestra punitrice, i ragazzotti violenti, l’abbrutito
genitore) che sono anch’essi impigliati in un meccanismo alienante più
grande di loro. Da contrappunto a tanta oscenità del vivere c’è solo il suono
extraterrestre del “Magnificat” di Monteverdi.

46
L’angoscia è la filigrana che pervade tutto il film, ma l’angoscia è, per
Bresson come per Kierkegaard “l’avventura attraverso la quale deve
passare l’uomo per non andare in perdizione”. Il regista ha scelto di nuovo,
dal punto di vista fisionomico, un “modello vergine” perché “non è la psicologia
che precede l’immagine ad interessarlo ma quella che da essa vien fuori
indirettamente” (ed è una dichiarazione rilasciata a Tassone nella poliedrica
intervista, inserita nel bel catalogo della rassegna).
Si capiscono così a posteriori gli equivoci interpretativi di studiosi come
Kracauer e Agel e Kyrou che non si ritenevano persuasi dal linguaggio
filmico bressoniano; oggi avrebbero decifrato meglio le sue “intenzioni
d’arte” con l’ausilio della semiotica gestuale e della microcinesica. E si
capisce quanta giusta importanza dia il cineasta francese al lavoro di
montaggio, inteso come procedura essenziale di contestualizzazione
semantica dei fotogrammi girati. E, infatti, riafferma nell’intervista
summenzionata: “il montaggio è un elemento culminante molto stimolante e
creativo. Non sono le inquadrature che devono essere drammatiche ma è l’insieme”.
Le sue opere rispondono, in fondo, a quell’obiezione di molti recensori che
non ritengono il cinema competitivo con il romanzo per quanto attiene alla
resa dello “spirituale”. Ad essi occorrerebbe riflettere sul fatto che fin da
Platone, sguardi e parole sono le uniche evidenze umane in tal senso e che il
cinema di Bresson, come quello di Dreyer o di Bergman (ma ancor prima di
Griffith e altri ancora) ha reso tali testimonianze ancor più visibili e
analizzabili. Altrimenti, non resta che un fideismo di natura teologizzante od
occultistico.

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Un’opera minore viene fuori nel ’69, pur venendo tratta da Dostoevskij
“Une femme douce” (da Krotcaja). È la storia di un coniugio senza simbiosi, di
una moglie mite che ha dentro di sé un “amor fati” adamantino. Perciò il
gesto di autodistruzione, apparentemente gratuito, è in chiave con tutte le sue
scelte precedenti. Stavolta, è stata inserita nel cast un’attrice bene accetta alla
produzione, D. Sanda. L’autore pare affascinato, calamitato da questo volto
lunare fino al punto da sfiorare appena gli altri percorsi della narrazione.
Ancora da Dostoevskij (“il più grande” per definizione dello stesso regista)
è tolto il film del 71 “Quattro notti di un sognatore”.
C’è, probabilmente, una sorta di sfida inconscia con l’opera di Visconti
“Le notti bianche” (e l’argomento è lo stesso). Bresson sposta la vicenda
ancor più vicino ai nostri giorni, così che il “sognatore” registra su un
magnetofono le sue visioni oniriche anche ad occhi aperti. Il paesaggio è una
Parigi surreale, tra il limbo del post ’68 e l’ultramoderno, così che anche i
bateaux- mouches sembrano pronti a salpare per Atlantide. (Jean Vigo è uno
dei pochi “amori” confessati da R.Bresson).

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Poi nel 74, Bresson riesce a realizzare il suo vecchio sogno di girare un
“Lancelot du Lac”. La decisione a lungo covata è quella di immergere la
leggenda in un clima di totale estraniamento. Per esso abolisce ogni
ricostruzione storica e figurativa. Ciò che appare chiaro è che questo
cavaliere di Artù gli interessa solo in quanto è un “deviante” della stessa
specie del curato di campagna, di Giovanna o del pick-pocket. Gli altri
personaggi non hanno un gran costrutto e così la stessa Ginevra si riduce ad
un mero contraltare sanguigno ad una impossibilità terrestre. L’ordito
tradisce non pochi nodi irrisolti e in esso si inscrive spesso un disegno tetro
e monocorde. (quella che S.Sontag ha chiamato “una sorta di non
autocoscienza”).
Nell’opera successiva, girata nel 77, “Le diable probablement” vibrano
invece profonde e sentite note di disperazione.

La storia del giovane Charles, trovato suicida al “père Lachaise” è una


splendida seppur cupa trenodia su una generazione perduta in utopie
deliranti. Il colore è usato da maestro espressionista, in tutti i toni più lividi,
negli accordi più stridenti; la luce è un laser che fruga negli interstizi di un
terremoto epocale. Il punto di arrivo mortale di Charles è quello di uno
Stavroghin, deciso nello scetticismo e sublime in un nichilismo che potrebbe
confinare con la trascendenza.
L’entropia incrina le cose, le divora, gli oggetti si disfano nelle loro tinte
sfuggenti, gli sfaldamenti cromatici sono paralleli e insieme intrinseci al testo
che il regista compone.
Ne “L’argent” del 1983 (ultimo film presentato nella rassegna), viene
proposta una prospettiva meno apocalittica. Il plot stesso che ruota intorno

49
ad una banconota da 500 franchi sembra accennare ad una sola laterale
responsabilità degli uomini rispetto alla onnipervasiva potenza di Mammona.
Bresson stesso dichiarerà a tutte lettere: “non è un’opera disperata ma piena di
tenerezza verso il protagonista... la colpa della catena di delitti non è della società ma
del Dio-denaro”.

Anche qui si rappresentano in una forma spoglia ed essenziale i conflitti


che sommuovono gli strati profondi, gli impulsi collettivi. Bresson muove
anime pesanti e anime leggere sullo schermo di tela, trovando per esso il
ritmo più appropriato. Colloca al posto giusto gli oggetti più banali in modo
che possano assumere una densa significanza. C’è la sua misura, il suo gusto
anche se raramente i suoi colpi di genio.
Come nelle tre o quattro sue opere che si ritengono eccellenti, egli
continua a sfrondare via gli inutili merletti, le trine e qualsiasi materiale che
possa apparire gonfio o retorico.
Come al solito non vuole costruire immagini belle o adescatrici ma
elementi iconici che risultino imprescindibili nell’articolazione di un serrato
discorso.
Tutto ciò porta a comprendere assai bene il suo distacco da tante critiche
pigre, ritardatarie o superficiali che il tempo galantuomo va dimostrando che
si possono ritorcere solo contro i loro incauti formulatori.
Napoli 1991

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ANDREJ ARSEN'EVIČ TARKOVSKIJ: TRA POESIA E RIGORE

Il film, quando non è un documentario, è un sogno. È per questo che


Tarkovskij è il più grande di tutti.
Ingmar Bergman

51
1

“Aspirare alla semplicità significa aspirare alla profondità nella rappresentazione


della vita. Ma questo, appunto, è quanto di più tormentoso vi sia nella creazione —
trovare il cammino più breve tra ciò che si vuole dire o esprimere e la
rappresentazione definitiva nell’immagine compiuta”.
È un’annotazione fissata in una pagina di “Scolpire il tempo”, il libro in cui
A. Tarkovskij ha raccolto suoi pensieri e riflessioni sui problemi del cinema.
Il rigore, l’aspirazione all’essenzialità di discorso sono state indubbiamente
le cifre che più hanno marcato l’opera di questo regista russo morto nel
1986, ad appena 53 anni (nato a Zavroz’e nel 1932). Fin da “Oggi, niente
libera uscita” del ’59, cortometraggio per la TV, e fin da “Lo schiacciasassi e il
violino” (’61), saggio di diploma presso l’Istituto di Cinematografia di Mosca,
riesce facile reperire questa sua tendenza a narrare con la massima economia
di mezzi linguistici, attraverso lo sfoltimento dei nodi dell’intreccio e dei
numero dei personaggi.
E una lezione appresa da un classico quale Puskin, filtrata poi attraverso la
sensibilità di autori del ’900 quali Chlebnikov e Pasternak, i cui testi il regista
confessa di aver avuto sempre vicini.
Nel volume citato, Tarkovskij trascrive alcuni versi di Puskin quasi
ponendoli come motto da lui scelto per l’agognata fusione tra vocazione e
destino:“Tu sei re. Vivi solo./Scegli liberamente la strada/e vai dove ti
conduce il tuo libero ingegno/perfezionando i frutti dei tuoi diletti pensieri/
senza chiedere premi per la nobile impresa./Essi sono dentro di te...”
E' la premonizione anche di ciò che gli costerà la sua opera in un’epoca
tormentata ancora dai residui di quella furiosa “vertigine” passata come una
sanguinosa tempesta sui paesi dell’Est. È anche la giustificazione alla fuga
nell’interiorità e quindi nella poesia che, nella sua più autentica natura, è
aliena da preoccupazioni di successo e di audience.
La spia al rigore è data poi dalla sintomatica preferenza che il regista
accorda agli “haiku” giapponesi —“quello che mi affascina — egli scrive — è
la purezza, la finezza e la compattezza nell’osservazione della vita...”

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Nel ’62, con “L’infanzia di Ivan” (Leone d’oro a Venezia), Tarkovskij dà
finalmente la piena misura della sua creatività. Il film solo apparentemente si
riallaccia a quel filone enfatico ed elefantiaco presente nella produzione
sovietica; la tematica patriottica viene infatti tutta trasfigurata in un flask-
back lirico, in contrasti tra luci rarefatte e bagliori incandescenti. La vicenda
del dodicenne Ivan che finirà vittima dei nazisti è tessuta in filigrane
d’argento brunito che ordiscono le maglie della sua piccola anima. Questo
impianto stilistico nuovo sembrerà, purtroppo, ai censori la riproposizione di
un formalismo decadente.
Anche in Italia, un esperto come G. Buttafava trova nell’opera “una
calligrafia a tratti compiaciuta e barocca... un vagolare preziosistico della
macchina da presa...” anche se poi ne rileva “...una specie altissima di
agiografia laica ed umanistica”.

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Ne “L’infanzia di Ivan” c’è già tutta una morfologia particolare del discorso
iconico: la prospettiva imbricata delle immagini, l’accumulo di metafore
divergenti, l’uso di metonimie scelte con occhio fresco e felice. È la resa
visiva di certi splendidi poemi della lirica sperimentale russa, messa a
servizio di un’idea-valore.
Ma anche i burocrati sono al lavoro e se non ad impedire certamente
riescono a decelerare l’attività di Tarkovskij. Sono gli effetti di un disgelo
che prosegue a fasi alterne, da un lato cercando di dimenticare lo
zdanovismo, dall’altro ponendo cento barriere a chi si mostri eterodosso e
cerchi nuovi e difficili sentieri.
Passano perciò ben quattro anni prima che il regista possa realizzare il suo
secondo lungometraggio: “Andrej Rublëv”(1966) che verrà, comunque a
segnare un punto fermo nell’arte filmica del secondo dopoguerra. Anche
quest’opera viene avversata sia apertamente che surrettiziamente: la prima
proiezione avviene alla vecchia “Domkino” sotto la protezione di poliziotti a
cavallo; subito dopo, un ukase destina la pellicola, ad un lungo riposo in
scaffali d’archivio ben sigillati.

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Il “Rublëv” verra visionato all’estero solo nel 1969 (al Festival di Cannes) e
dopo altri due anni di quarantena ne sarà permessa in patria una “discreta”
circolazione.
L'ambientazione è evidentemente storica ma la visione del mondo nel
“Rublëv” è al di là delle mere contingenze cronologiche. Il monaco pittore e il
suo maestro e antagonista Teofane rappresentano due forme diverse di
accettazione del mistero esistenziale. Il primo sa che il tempo è un’idea, non
è un oggetto; il più vecchio prende invece distanza da ciò che dipinge e lo
congela nelle tradizionali forme bizantine.

Contro la consuetudine si schiera Andreij, teso com’è ad affermare i valori


dell’arte come attività libera in cui concretizzare i principi umani di speranza
e di fede.
La preoccupazione di Tarkovskij non è quella della puntualità
scenografica, ma quella di rendere la temperie psicologica di quel confronto
che riappare ogni volta tra un maestro che conclude un’epoca e un suo
allievo che la innova.
L’obiettivo del regista esplora in profondità i luoghi in cui si muovono i
personaggi: l’occhio di cristallo è attratto dai colori oscuri, dai grigi solchi,
dai segni lasciati sulle cose dal lavoro umano. Quando inquadra il monaco-
pittore, lo situa tra oggetti che fanno risaltare la sua capacità di
concentrazione interiore: si veda la sequenza in cui Rublëv ammira “Il
miracolo del trionfante S.Giorgio”. Gli abiti logori e frusti, i tronchi vetusti,
i consunti blocchi di marmo spingono a focalizzare l’attenzione di chi guarda
sul rigoroso gioco della fisionomia.

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Tarkovskij riesce anche a rendere, con la macchina da presa, quella
“prospettiva inversa”, tipica di quegli artisti medioevali, che, come ha ben
chiarito P. Florensky, “esprime l’esigenza di una peculiare messa in luce dei
particolari problemi spirituali...” (non certo un limite tecnico, come
ipotizzato da alcuni).
La ieraticità che ne deriva, con la scansione meditata delle immagini, dei
dettagli, dei primissimi piani rende bene la convergenza tra esperienza
mistica e vicissitudine realmente sofferta. E l’autore annoterà nel libro citato:
“Nel film il cielo figura solo come spazio cui tende tutto quello che cresce in terra...i
suoi riverberi sul suolo, sul fiume, sulle pozzanghere”.

Questa complessità nella tessitura umanistico-religiosa non è troppo


gradita, se devono passare ben sei anni prima che il regista possa realizzare
“Solaris”(1972), opera di modernissima impostazione ed intelaiatura. Alcuni
hanno voluta definirla la risposta russa a “Odissea nello spazio”, ma essa si
colloca lungo un’altra direttrice estetica attenta a seguire ben diversi percorsi
di poesia.
Fin dalle prime inquadrature, risulta lampante che, per Tarkovskij, il
cosmo non è un impero illimitato da conquistare o con cui fronteggiarsi,
bensì un territorio neutro dove l’uomo può ancor meglio mettere alla prova
la sua sostanza psicofisica.

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Ha centrato bene il problema C. Cosulich quando ha parlato di “un film di
fantacoscienza” e, infatti, se si nota bene, al di là dell’itinerario esteriore,
l’avventura spaziale attraversa ricordi, inquietudini, storie drammatiche di un
uomo in bilico. I tagli trasversali alla linea del tempo non accennano a
dimensioni scientifiche ma a indagini mentali e percettive.

La stessa monocromia viene usata non per raffigurare luoghi iperuranii ma


per rendere certe acute ossessioni tra sogno e rammarico, tra pentimento e
rabbia. La cosmonave in cui gravita il personaggio non è tanto un mezzo per
approdare a remote galassie quanto uno strumento per riappropriarsi del
tormentoso vissuto.

Nel ’74, il regista porta a compimento “Lo Specchio”, in cui i versi di certe
poesie del padre Arsenij, intersecano le immagini in un controcanto di
riflessioni miti o lancinanti. Ciò solleva qualche riserva in non pochi
recensori e ad essi il regista pensa quando rivendica la funzione primaria
dell’immagine “chiamata ad esprimere la vita stessa, ad incarnarla esprimendone

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l’unicità”. Così, si può capire la pregnanza estrema del volto di Leonardo che
ritorna con ritmo quasi matematico tra una sequenza e l’altra; è il simbolo
più alto del rigore stilistico e, insieme, della catarsi e della sublimazione che
una vita d’artista abbia offerto agli uomini.

Il montaggio stesso assume qui un suo andamento musicale, come unione


organica di singole scene e variante ideale del collegamento già contenuto a
priori nel materiale impresso sulla pellicola.
Qualcuno ha voluto definire, ironicamente “artistocratico”, “Lo Specchio”,
ma il film è scevro di qualunque snobismo; la finezza della tessitura
sentimentale è la controprova di un impegno umano, come di un sofferto

diario che tende a dare conto di tutte le intermittenze del cuore. Aleksej, il
protagonista, è diviso tra orgoglio e rammarico, tra indipendenza e nostalgia,
ma non si pente di aver seguito la via della libertà; anche di quella creativa
che passa per le strette porte dell’arte non cortigiana (Un’eco puskiniana,

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ancora una volta).

Le parti più suggestive sono quelle dell’infanzia, quando il bambino si


avventura fuori della dacia e scopre la concertazione audiovisiva della
natura. Sovraimpressioni, viraggi, striature come di flash del subconscio
dominano le sequenze più problematiche, della irrisolta maturità (la madre,
poi la moglie, figure femminili che quasi si confondono), mentre un alito di
vento sfoglia le pagine di un codice atlantico. Le allusioni al clima
tormentoso dello stalinismo sono molteplici; la più impregnata di ritmo e
pathos è quella della madre che

ritorna correndo nella tipografia in cui lavora per eliminare un semplice


refuso che potrebbe costarle il lager.
L’ermetismo è il prezzo che il regista-poeta paga in nome di uno stile
inedito, di inquadrature fascinose, di evocazioni iconiche di pura vita
mentale e di stati d’animo. Il discorso è pensiero impresso sulla celluloide, è

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colore intriso di idee e di emozioni, sfuggenti come i tropismi e i fosfemi di
tanti flussi di coscienza che un uomo tenta di fissare sulla pagina o sullo
schermo. Nel 1979, Tarkovskij porta a buon fine un altro arduo lavoro,
secondo le sue ipotesi sempre meno conformistiche, sempre meno asservite
agli schemi commerciali:

“Stalker”. Il termine indica il ruolo del “cacciatore che si pone in agguato”,


ma un’interpretazione più lata potrebbe essere “chi va alla ricerca di una
preda incognita, in una terra sconosciuta”. Giustamente Grazzini vede il
film come un’ulteriore “lode al cinema di poesia”; purtroppo molti altri
recensori sono quasi sbalorditi di fronte a questi slanci verso vette così
lontane dalle cupole e, dai soffitti artificiali di marca hollywoodiana.
Il regista cammina imperterrito lungo il suo sentiero e ribadisce nel suo
volume il credo secondo il quale: “l’artista non ha il diritto morale di abbassarsi
ad un certo livello medio, in nome di una malintesa maggiore accessibilità e
comprensibilità”. Citando Pasternak, egli ricorda che “il vero poeta si sente
ostaggio dell’eternità, prigioniero del tempo e deve, perciò, dire cose dure, difficili,
non casuali o di passaggio”.
“Stalker” è tutto ossessivamente concentrato sul tema dell’umana dignità e
della sofferenza infernale che insorge quand’essa venga lesa per una ragione
o per l’altra.

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Il viaggio che lo Scrittore e lo Scienziato intraprendono all’interno della
“Zona” è una sorta di cammino dantesco in una selva selvaggia del mondo
contemporaneo. Essi hanno saputo che esiste una misteriosa “Stanza” in cui
vengono esauditi i desideri più profondi e più nobili degli uomini; è una tale
ricerca che li spinge a superare acquitrini, luridi canaloni, discariche orrende
(allegorie di un certo panorama morale che i quotidiani incasellano in poche
colonne e sotto titoli eufemistici). Essi dibattono tra loro e con lo Stalker su
tali situazioni e problemi e sul loro volto si disegna in solchi sempre più grigi
e oscuri lo sdegno per un’epoca in cui, come afferma lo Scrittore, “anche il
caso è il risultato di qualche legge sbagliata, benché ancora celata
all’umana comprensione”.
La macchina da presa segue i tre con lunghe panoramiche dai colori
torbidi e bituminosi, usando metonimie e sineddoche degli oggetti che il suo
mirino sfiora di continuo (carcasse d’auto, residui bellici, siringhe macchiate
di sangue, rami marciti e calpestati).
C’è qualche surplus di dialogo, qualche scatto di cerebralismo nel racconto
anche troppo insistito (ma la sofferenza indotta nello spettatore può anche
essere un rimedio revulsivo al male che gli cresce intorno di giorno in
giorno); qualche paradosso risulta sfuggente, qualche illazione non
facilmente decifrabile ma non si deve dimenticare che non pochi grandi
autori hanno proposto tali “esercizi spirituali” di laico vigore (da Dreyer e
Bergman, da Antonioni a Zanussi).
Quando i tre “esploratori” rinunceranno ad arrivare alla mèta e
torneranno sui loro mesti passi, sarà proprio lo Stalker a trovare

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nell’abbraccio della figlioletta quella vergine energia e quella gioia spontanea
che sono forse i segni più veraci del soprannaturale.

Nel 1980, Andrej Tarkovskij, oppresso da problemi politici e familiari,


abbandona l’URSS e viene a lavorare in Italia e poi in Svezia. Tre anni dopo
porta a termine “Nostalghia”, il racconto, il parte autobiografico delle vicende
di un poeta, Gorcakov, andato in Italia a raccogliere materiale su un
compositore russo.
Anche stavolta il film appare un poema pieno di un’armonia densa e
difficile, soffuso di una struggente e coerente malinconia che non dà tregua a
chi è seduto in poltrona nel buio raccolto e semideserto della sala
cinematografica.

Il mentore pittorico, stavolta, è Piero della Francesca con quella castità di


linee aeree e con quella morbidezza estrema dei rarefatti colori che ne fanno
un nome singolare dell’arte pittorica. Nel film c’è una prosodia lenta,

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insistita ma onnipervasiva; ai critici frettolosi il regista risponde con
intransigenza e fuori dai denti come chi persegue un suo itinerario decisivo:
“Non mi interessa il movimento esteriore, né l’intrigo o il complesso degli
avvenimenti: di queste cose, di film in film ho sempre meno bisogno”.
E’ pacifico, infatti, che uno stile di questo genere possa attrarre solo quegli
“Happy few” che sappiano sottrarsi ai sortilegi facili del demone televisivo,
a quel suo accavallare immagini al trotto e al galoppo. (Un thrilling sta a
Tarkovskij come le battute monosillabiche di un fumetto stanno a Eliot o alla
Cvetaeva).

L’autore è di fronte a scommesse estreme, preda di quella angoscia


autentica che è l’unico modo perché non si rischi la perdizione totale (e
banale), egli è ormai — come direbbe Dostojevskj — “un’anima che non
conosce più misura” e così ancora una volta i suoi fotogrammi danno conto
di crateri serafici, di bagliori tenui e di letti dalle lenzuola pietrificate. Egli sta
lottando con l’angelo nero, come tanti eremiti e monaci delle sante icone
della sua Russia. Da alcuni mesi ha saputo di esser gravemente malato e si
induce a questo colloquio supremo con i valori escatologici, col senso
ultimo della vita e dell’operare dell’uomo che è per lui il “poiein” filmico.
Ha lavorato in modo durissimo, accettando solo il contributo alla
sceneggiatura di un altro poeta legato alla natura di quei luoghi italiani cui
“Nostalghia” è stato girato, Tonino Guerra. Ha atteso, in modo insonne, che
su di un paesaggio colorato calasse un’ora diversa, dalla luce zodiacale, per
cogliere il cambiamento di clima spirituale ch’essa comporta; e in sequenze
d’alto spessore ha dipinto certe metamorfosi della natura e dei sentimenti
umani.

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Questo sforzo, questa capacità di sincretismo gli ha concesso di mettere
insieme inquadrature di dolci colline italiane e di villaggi russi e perfino di
collocare un’isba all'interno di una cattedrale romanica.
Il premio ottenuto è l’approdo all’organicità di quelle cose che solo certe
ovvie convenzioni tendono a distinguere e separare e che i poeti
ricompongono in quell’unità che è stata detta sinestesia. Anche il
protagonista della vicenda filmica muore esperendo questa sensazione
gloriosa della piena globalità di ciò che i sensi umani possono cogliere.
L’ultimissimo impegno artistico per Tarkovskij sarà, nel 1986, (anno della
morte), “Sacrificio” (“Offret”). La narrazione per immagini è qui
contrappuntata dalla “Passione secondo Matteo” di J.S. Bach.

Di nuovo, l’ottimo attore bergmaniano, Erland Josephson, darà vita e


movimento interiore al protagonista, lungo una parabola antica e sempre
attuale. Alexander è un uomo che è stato attore ma è ora in fase di grande e
irreversibile distacco dalla vita. Ogni cosa, lo spinge a rompere col passato, a
bruciare ogni ponte dietro di sé e perciò si viene serrando di ora in ora in un
mistico silenzio.

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I simboli prescelti sono numerosi e talvolta anche un po’ grevi (l’albero da
innaffiare è la Fede), ma il regista sa come instaurare un crescendo
drammatico che rende credibili anche le inquadrature più eccentriche, perché
c’è un’osmosi tra il suo dolore e quello del personaggio, come in un
testamento scritto auscultando l’affievolirsi del polso, e l’intiepidirsi
progressivo del sangue nelle arterie.

Nelle pagine scritte di “Scolpire il tempo”, alle ultime righe, egli versa
l’inchiostro della sua indignazione per il deterioramento morale dell’epoca:
“soffochiamo per l’eccesso di informazione e i messaggi più importanti, quelli in
grado di trasformare la nostra vita, non raggiungono la nostra coscienza”.
C’è un parallelismo sorprendente tra le sequenze del film quando
attingono certe asprezze e certi soprassalti d’indignazione e le frasi scritte
come commento e retaggio a chi vorrà meditarle, e c’è la aggressiva sincerità
di chi deve concludere non solo un discorso ma la sua stessa vita.

L’obiettivo è ormai quello specchio scuro che ritrae i crittogrammi


dell’esistenza; allegoriche e anagogiche sono anche le figure marginali del
racconto fotodinamico e policromatico: lo stesso incendio finale della casa è

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in chiave misterica; quel fuoco terribile non è altro che luce (“il sacrificio della
vita”).

Perciò l’albero si rianimerà e si ricoprirà di foglie e di rami e di frutti: un


miracolo o la rigorosa e storica realtà della grande poesia?
Napoli 1991

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UN'ANIMA ALLO SPECCHIO
I “Diari” dì A.Tarkovskij

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"L'angoscia è l’avventura attraverso la quale si dà che l’uomo non vada
in perdizione.” Questo paradigma kierkegaardiano sembra il filo rosso che
corre per le settecento pagine dei “Diari-Martirologio” di Andrej Tarkovskij
pubblicati dalle Edizioni della Meridiana ( Firenze 2002).
Sono così, tradotti in italiano (da N.Mozzato) e corredati da numerose
foto, gli appunti tenuti dal regista russo dall'aprile 1970 al dicembre 1986.
Essi rappresentano, come scrive il figlio nell'introduzione, "l'unica
testimonianza della vita quotidiana del padre, in tutta la sua asprezza ed
onestà".
Ciò che appare evidente fin dalle prime pagine dei sette quaderni raccolti
nel volume è che, anche al di fuori dei gulag, uno spirito libero e creativo
vive mille tormenti nel regime sovietico.
Eppure, quando Tarkovskij avvia il suo "giornale - martirologio” non è uno
sconosciuto: ha trentotto anni e ha al suo attivo varii riconoscimenti
internazionali, quali il “Leone d'oro” a Venezia, per “L'infanzia di Ivan” un
importante premio a Cannes per il ”Rublëv”e altri ancora.
Non si è placata, però, l'ostilità della nomenklatura contro l'ultimo film, già
tenuto “in frigo” per diversi anni e oggetto di accuse pretestuose (“film
violento").
A mò di consolazione, il regista trascrive alcune lettere di ammiratori e,
quasi per intero, lo stenogramma dell'intervento (in un dibattito a Mosca) di
un matematico che ha parlato di “artisti che ci fanno sentire la vera misura
delle cose ... al di là della crescente inflazione emotiva.”
Il 1° settembre 1970 annota: "Vorrei tanto far vedere l'"Andrej Rublëv”a
Solzenitsyn. Parlarne con Šostakovic?” Sono due personalità che egli sente
vicine, oppresse - come sono- anch'esse dall'odio fazioso dei servi del potere
sovietico.

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Fin dall'inizio, perciò, "Martirologio”si delinea come il discorso di un'anima
allo specchio, che fissa con coraggio i punti più acerbi della sua sofferenza
d'uomo e d'artista.
Ne viene fuori il profilo di un essere autentico che dischiude il suo cuore,
con la coscienza - tra lo stoico e il cristiano- di dover accettare il suo destino.
Un uomo sostenuto, comunque, dalla profonda convinzione che esistono
valori perenni e indistruttibili nella storia! “... la religione, la filosofia, l'arte ...
tre pilastri sui quali poggia il mondo... per materializzare simbolicamente l'idea
dell'infinito".
Non poche volte egli ha l'impressione di ripercorrere le vicende del padre,
avversato anche lui, a suo tempo, dall'insolente burocrazia zdanoviana. Ad
Arsenij Tarkovskij - come ricorda G. Chiaramonte nella prefazione, biechi
censori rifiutarono la pubblicazione delle prime opere, accusandolo di esser
“membro di quel Pantheon Nero della poesia russa cui appartengono
anche Achmatova, Gumilev, Mandelstam..."
Invece, proprio la poesia paterna servirà spesso al regista quale stella
polare per orientarsi nel cammino da lui intrapreso. Ne ha parlato anche in
“Scolpire il tempo” (1986), sua testimonianza sul lavoro cinematografico e
sulle idee che lo hanno ispirato.
Il giorno 7 agosto 1970 segna, finalmente, un evento gioioso: è nato
Andrjuska, figlio suo e di Larissa. Ne annota sesso, peso, statura, numeretto
della maternità. In più, trascrive sul quaderno il conciso telegramma di
Zavattini: “Evviva il nuovo Tarkovskij!".
Intanto, nonostante l'altalena ipocrita tra permessi e divieti il lavoro va
avanti: con lo scrittore F.Gorenstein stende la sceneggiatura di quello che
sarà “Solaris” (dal romanzo di S. Lem). Non sempre, invece, riesce a
dominare certi tropismi della mente: pensa, infatti, che i genitori non gli
perdonino la separazione dalla prima moglie Ira. In un soprassalto negativo
annota: “Non mi sento adulto quando sto con loro... è molto difficile
comunicare quando non si può dire né sì né no, né bianco né nero...“
E' indubbio che la franchezza dei giudizi è un forte leitmotiv dei “Diari”:
essa è esercitata verso i funzionarii ma anche verso parenti, amici,
collaboratori. Talvolta, perfino contro i libri che va leggendo: “Noi” - di
Zamjatyn gli pare - “debole e pretenzioso, una prosa a brandelli che vorrebbe
essere dinamica. Fastidiosa."
Al contrario, resta estasiato alla scoperta de “II gioco delle perle di
vetro”di Hermann Hesse e ne trascrive varie frasi aforistiche: “La virtù

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deve esser vissuta e non insegnata ex cathedra.” e ancora: “Ciò che tu
chiami passione non è una forza dell'anima ma l'attrito tra l'anima e il
mondo esterno."
Gli autori da cui non si distacca mai sono Dostojevskij e Tolstoj. Cita di
frequente anche Seneca e Montaigne, maestri dello stoicismo antico e di
quello moderno.
Appunta tra i tanti progetti la realizzazione filmica de "L'idiota" e de “La
morte di Ivan Ilic”. Sente questi temi a lui congeniali dato che in essi la
morte vale come ricerca di possibilità e di significati esistenziali. In un
essere umano il pensiero della fine può indurre a benefiche metànoie,
rendendo “etica" una vita “meramente estetica”, e attuando “quel volo
della coscienza assoluta che la libera dalle miserie dell' "esserci", come
afferma K.Jaspers.
In “Martirologio” non si tratta di esercizi di vuota filosofia perchè non c'è
mese che egli non debba affrontare seri malanni e quell'astenia che non lo
abbandona mai.
Ci sono momenti neri di depressione in cui scrive: “ho fatto poco;
terribilmente poco e così male. Tre miserabili film!”(sic)
Ma non demorde dall'impegno del lavoro e porta a termine “Solaris";
contro di esso si solleva di nuovo la canèa burocratica che sotto forma di
"suggerimenti” esige tagli di intere sequenze.

II regista resiste con lucida intransigenza: per lui “eseguire le correzioni”è


impossibile, equivarrebbe a “distruggere il film.”.
E piovono le solite accuse di“elitismo", “formalismo” etc. Ma Andrej sa
bene che “vi sono cose più importanti della felicità e che la ricerca della verità è
quasi sempre un percorso doloroso": è il suo modo di essere dissidente, fermo e
incorruttibile.
Bene ha fatto l'adorato Andrjuska a sottolinearlo nella solidale
introduzione ai “Diari".
Essi sono, in fondo, anche la cronaca drammatica della lotta del regista

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col Leviatano politico che vuole invadere ogni recesso dell'anima e del
pensiero.
Ci sono parentesi positive: nel dicembre 1972 c'è il primo viaggio in
Italia. I luoghi pittoreschi e turistici lo lasciano freddo ma Roma lo
sbalordisce: “città straordinaria ... su di essa come sul tronco degli alberi si
contano gli anelli dei decenni e, forse, di intere epoche."
Intanto, “Solaris” ha avuto ottime accoglienze anche se, soprattutto
all'estero, i distributori lo hanno tagliato con l'accetta, Un critico acuto,
C.Cosulich, lo ha giustamente definito un film di “fantacoscienza". In esso
il protagonista, Kelvin, va infatti alla ricerca dei limiti morali della
conoscenza. Simbolica è la scena in cui al dogmatico e iperrazionale
professor Sartorius cade una lente degli occhiali proprio mentre ostenta la
sua sicumera epistemologica.

Al ritorno in Russia, Tarkovskij ottiene l'agognato permesso di dar inizio


alle riprese de “Lo specchio": in esso si avvererà il suo sogno di “scolpire il
tempo", nella splendida fusione tra ricordi e realtà presente. Nel fluire dei
cromatismi emergono i simboli, tra i quali domina il volto di Leonardo,
tranquillo nella acquietata disperazione. Le citazioni dei versi del padre
Arsenij controcantano sovente le pregnanti inquadrature. Non si avvertono
sfasature, perfino la polemica (antistaliniana) è inserita con souplesse e
senza levate di vessilli rancorosi.

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A Mosca, nonostante l'ottima accoglienza fatta dal pubblico al DomKino, i
piccoli despoti della cultura ufficiale riprendono le loro tattiche di sabotaggio
e ostruzionismo. Provocano il regista fine ad incitare il regista a fare un film
su Lenin.
Il quaderno del ‘76 si apre, invece, su una nota di ottimismo: l'incontro, a
Mosca, con Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore italiano, e l'inizio di una
delle più salde amicizie di Tarkovskij.
Insieme, vanno già configurando il soggetto di quello che poi sarà
“Nostalghia", anche se restano progetti ancora non realizzati, tra i quali,
“Hoffmaniana", “La fuga” sull'ultimo anno di vita di Tolstoj e “Le
tentazioni di S.Antonio”( da Flaubert).
A teatro, si prolungano le prove per l’”Amleto” che sarà portato a termine
nonostante dilazioni e intralci creati a bella posta dai burocrati.
Andrej si sente oppresso da una tristezza profonda: “come se tutti i pori della
mia anima si stessero aprendo, lasciandola indifesa.” Ma si riprende subito ed è
come se il suo pessimismo si transvalutasse continuamente in una virile
invocazione di fede.
Finalmente, a gennaio del‘77 gira i “provini”per gli attori di "Stalker". La
vicenda è ricavata da un racconto dei fratelli Strugatskij. Essa si svolge
lungo un “percorso dantesco”che porta ad una “zona”dove si trova la
“Stanza” in cui -si dice- si realizzino tutti i desideri. Il Virgilio dello scrittore
e dello scienziato è, appunto, un “battitore “di piste sconosciute (lo
stalker).

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L'allegoria è chiara pur senza essere esibita né declamata.
Il gusto figurativo garantisce l'organicità del racconto per immagini in cui
sono incastonati preziosi versi del padre Arsenij. L'allusione è ai rischi che
l'uomo contemporaneo corre nella brama di voler acquisire una conoscenza
che “può esser funesta... entropia, fuga dalla realtà". La preoccupazione per lo
spirituale viene fuori proprio dalla consapevolezza che il progresso
scientifico ha prodotto “apprendisti stregoni”come in una nemesi che
riafferma la dimensione metafisica.
Passano i mesi, tal volta ci sono spazi di vuoto tra un appunto e l'altro. Il 5
ottobre "79” Tarkovskij annota la morte di Marija Ivanovna, la sua cara
madre e scrive: ”... adesso mi sento indifeso...”. La saluta, pero, con un
arrivederci e aggiunge: “Ma che ne sappiamo noi della morte, che non sappiamo
niente neanche della vita?"
Nell'80, il regista intraprende un altro e più lungo viaggio in Italia, su
invito di Tonino Guerra. È l'occasione per girare uno"special”( “Tempo di
viaggio” sorta di preludio a “Nostalghìa” trasmesso poi dalla RAI-TV quasi
tre anni dopo).
A maggio, a Cannes, “Stalker” riceve applausi e ed elogi “strepitosi”: “Sono
perfino imbarazzato - si legge nel “Diario “– a ripetere quel che dice G.L. Rondi".
Ma, di fatto, avendo l'URSS presentato, in precedenza, la pellicola al
festival di Rotterdam, gli è precluso di concorrere alla “Palma d'oro". Un
altro abile sgambetto a chi, d'altra parte, nel settore "interno" era stato
conferito il titolo di “artista emerito dell'Unione Sovietica".
Nel febbraio 1982, Tarkovskij accetta volentieri la proposta del Maestro
Claudio Abbado di curare la regia del “Boris Godunov”. I1 progetto viene

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realizzato in pochi mesi e l'opera va in scena al Covent Garden di Londra.

Il 7 marzo ‘83 il regista è di nuovo a Roma dove è spesso a cena con


Antonioni e altri amici tra cui Donatella Baglivo e Norman Mozzato,
rispettivamente documentarista e interprete-traduttore.
Viaggia per la penisola con l'operatore P. Lanci per sopralluoghi in
previsione di “Nostalghia": a Portonovo, (Ancona) si ferma devotamente di
fronte ad un'icona della Madonna di Vladimir, arrivata lì non si sa come.
Sul “Diario” l'agnostico Andrej annota: “Come ho pregato oggi, come ho
pregato!"
Nel suo giornale intimo si preoccupa di chiarire, anche a se stesso il
significato di “nostalghia":..è la malattia mortale di non potersi staccare dalle
proprie radici". C'è, inoltre, come la premonizione che sarà un'opera
“testamentaria", il presentimento che sia l'ultimo periodo del “martirologio".
Eppure, nel film ci sono prospettive di una “bellezza salvifica"; i paesaggi
inquadrati, la stessa aurea chioma di Domiziana appaiono come correlativi
oggettivi della “filocalia” che Tarkovskij cita, avendo di recente letto
l'opera di S. Giovanni Climaco ed altri anacoreti.
Si dimostra, così, che anche la settima arte può essere trasfiguratrice delle
emozioni se “rivissute in tranquillità” e si è sulla scia dei Bresson, dei Dreyer,
dei Dovzenko.
Sul piano pratico è validissimo l'aiuto dell'amico Tonino che lo informa
altresì della avvenuta assegnazione del “David di Donatello".
Ha ricevuto anche altri premi ma su di essi glissa volentieri, mentre sempre
più spazio dedica al problema della fede religiosa.

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Legge molto a questo riguardo, si interroga in profondità e trascrive sul
“Martirologio” frasi di Newton, Einstein e Max Born esprimenti la
convinzione che “la scienza non ha il diritto di dar giudizi in questo campo".
Non gli manca qualche battuta umoristica come quella del 29 aprile 1982:
“oggi ho sognato Breznev che parlava molto benevolmente con me. Mio Dio!“
L'esclamazione finale è in italiano per dare ad essa la sua effettiva valenza
semantica.
Gli amici di Roma lo trascinano spesso a cinema, ma raramente ne viene
gratificato: ad esempio “Possession” di Zulawsky gli appare “ rivoltante ...
satanico... mostruoso ... soldi, soldi, soldi."
Il 22/5 è a Napoli dove conosce Roberto De Simone “un uomo straordinario
che vive in uno strano appartamento-museo, pieno di pastori, marionette, oggetti di
artigianato popolare”. La città invece “dopo l'ultimo terremoto non si è rimessa in
sesto", ne ricava "una sensazione di anarchia, cioè di libertà al limite dell'anarchia."
E' stanco, ma nemmeno al rientro a Roma riesce a riposare dato che
“l'Italia ha vinto la Coppa del Mondo (di calcio) e i tifosi fanno festa per giorni con
“bandiere, sirene, battole, tamburi, grida, balli, crisi isteriche, abbracci, urla."
Non è un'atmosfera che gli conviene dato che sente crescere in sé la
preoccupazione per Larissa e Andrjuska che sono lontani, in Russia; troppo
lontani.
A fine agosto è chiamato a Venezia, dalla Mostra d'arte cinematografica in
qualità di giurato, insieme a Zurlini, Pontecorvo, S.Ray, Berlanga, Monicelli.
Quel visionare anche sei film al giorno non lo diverte molto, è quasi una
sorta di indigestione oculare.
Una bella sorpresa è, al contrario, l'arrivo di Lara da Mosca anche se il
figlio adorato è dovuto rimanere in URSS quasi in ostaggio.
Per riaverlo con loro, Tarkovskij pensa di chiedere l'intermediazione di

75
Papa Wojtyla; scrive anche a Pertini e a Mitterand. Infatti, il tempo passa ma
la situazione non muta affatto, anche se si sono avvicendati nuovi capi di
stato nell'Unione Sovietica.
Sul "Diario” il regista segna: “ci ritroviamo cacciati oltre le frontiere della
Russia. Sono diventato come una mosca bianca, incompreso e inutile. Scomodo.”
Si conforta leggendo “Ikonostas”di P.Florenskij, martire dello stalinismo:
“Si deve accettare ciò che e stato disposto per noi più in alto... da Colui che può con
una parola sola cacciare tutti i demoni dalla terra.”

Ma passano mesi e mesi senza risultati a riguardo della questione del figlio;
a maggio dell'85, Andrej parte per la Svezia dove a Gotland ( nomina omina)
dà avvio a quella che sarà l'ultima sua opera,“Sacrificio". Lavorano con lui
l'operatore di Bergman, Nykvist e l'attore Erland Josephson, nella parte
principale.
Il film è un apologo di altissima tragicità con molte sequenze
contrappuntate dalla “Matthäus Passion”di J.S.Bach.
II protagonista, Alessandro, è un uomo arrivato al totale distacco dal
mondo, dai suoi falsi valori, pronto a scommesse estreme, quasi un
“innocente”("jurodivij").
Di fronte all'annuncio della TV di un imminente catastrofe nucleare, gli
affiorano sulle labbra le parole del “Paternoster” e si reca ad ascoltare le
voci degli uccelli e lo sgocciolio dell'acqua. Nelle inquadrature del film la
luce livida si trasfigura in magici crepuscoli o in gloriosi arcobaleni, anche
nel momento in cui Alexander dà fuoco alla casa, in un rito di purificazione.
Nel finale, però dietro al rogo appare in prospettiva un laghetto cristallino
presso il quale svetta un albero: il bambino Ometto da esso trae l'acqua per
innaffiarlo, tale è la sua fede di fanciullo che esso possa rinascere e rifiorire.

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A Tarkovskij, al rientro dalla Svezia - nel settembre 1985 - Larissa
comunica una buona notizia: il comune di Firenze ha messo a loro
disposizione uno spazioso alloggio. Invece, nemmeno l'avvento di Gorbacev
ha risolto ancora la questione del ricongiungimento del figlio. Questo
malessere si addiziona ai dolori che il regista sempre più avverte e viene
diagnosticato un tumore. Il 29 settembre dello stesso anno scrive, in piena
depressione: “Ho perso la voglia di vivere” poi progetta un esposto al
presidente Reagan da trasmettere tramite l'amico Rostropovič.

Poco dopo, viene ricoverato in ospedale a Parigi, affettuosamente assistito,


oltre che dalla moglie, da Marina Vlady e suo marito che sovraintende, da
medico, alle diverse terapie.

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Finalmente, il 19 gennaio 1986, Tarkovskij può annotare sul
“Martirologio": “Sono arrivati Andrjuska e Anna Semionovna!...lui è cresciuto
molto, il dolce, buon ragazzo dai grandi denti... tutto questo ha del miracoloso!"
Nonostante le attente cure, il male si aggrava. Vengono a visitarlo in molti,
amici, colleghi, tra i quali Zanussi; Kurosawa, di passaggio a Parigi, gli ha
inviato dei fiori e un breve scritto gentile.
Il 12 maggio annota che un amico gli ha telefonato da Cannes per riferigli
che “durante la proiezione di "Sacrificio” molti piangevano.” All'opera sono stati
assegnati ben tre premi: il premio della Giuria ecumenica, il FIPRESCI,
oltre a quello “per il contributo artistico” dato a Nykvist.
Le annotazioni sul diario si rarefanno ma a luglio é scritto: nonostante il
termine “sacrificio” (sacrificale) comporti un significato quasi negativo, in effetti,
l'essenza di questo atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino."
Il 26 ottobre si trova ancora un appunto sul progetto di un film su “II
Golgota”e la glossa che così suona: “creare la poesia degli avvenimenti. Il mito.
Con una misteriosa profondità. Con una domanda."

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Tarkovskij si spegne nella notte tra il 28 e il 29 dicembre 1986, a
cinquantaquattro anni. Il 3 gennaio ‘87, viene celebrata una cerimonia nella
cattedrale Alexander Nevskij, in rue Daru, a Parigi. Sul sagrate Rostropovič
suona per lui una suite per violoncello di Bach. Riposa, oggi, nel cimitero
ortodosso di Sainte Geneviève des Bois, tra le betulle, simbolo dell'amata
patria in compagnia di tanti altri esuli russi.
Napoli 2003

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NOTE SULLE ICONE
1.Icone
Non molto tempo fa l'annerimento dei colori era considerato il segno più
valide per la datazione di una icona russa.
Ora, però, sappiamo che questa idea è fondamentalmente sbagliata. Essa
derivava dal fatto che la maggior parte dei icone antiche ci arrivava coperta
da annoso strati di polvere e nero fumo. Al momento, attraversa gli sforzi
dei moderni restauratori le icone vengono "rivelate", cioè gli strati "oscuri"
sono rimossi ed esse si mostrano nella piena e gloria e bellezza dei loro
colori originali.

L'uomo moderna resta meravigliato da questo trasformarsi dalle "tavole


nere" in magnifici luminosi quadri al punto che è disposto a ritenere questa
metamorfosi la principale caratteristica della favolosa, poetica qualità delle
icone.
Nell'appassionato di arte moderna, anche nel più erudito, l'ammirazione
tende a mescolarsi con un certo atteggiamento di condiscendenza verso le
tinte delle icone: gli autori sembrano averle adoperate con fanciullesca
prodigalità da cuori semplici che nessun artista avveduto avrebbe osato
usare, ad eccezione, forse, di Marc Chagall o un Joan Mirò. Nella sua
esuberanza cromatica, la pittura iconografica russa ricorda in qualche modo,

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le maschere rituali africane o amerindie così vivacemente dipinte e ornate
con penne di uccelli esotici.
E' vero che dopo aver visto le opere dei pittori del XIX secolo, anche di
quelli che più coraggiosamente si sono opposti al "color scuro", allorché si
visita una mostra di antiche pitture russe, ogni velo cade dagli occhi e si
esperisce una gioia irreprimibile come se ci si trovasse su di un prato
ricolmo di fiori.
E sebbene la gamma tematica delle icone sia piuttosto limitata, si sente che
la propria vista si spalanca sul mondo, ma non su quello che ci circonda
ogni giorno, ma sull'immenso molteplice universo dei colori creati
dall'immaginazione.

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2.Le icone attraverso i secoli
L’origine delle icone non si può datare con precisione; è un fatto, però, che
nelle catacombe cristiane si osservano già immagini sacre e medaglioni che
rappresentano i volti del Cristo, della Vergine e dei primi martiri. Essi sono
dipinti con tratti ben marcati e con notevole cura del colore.
In S.Priscilla come in S.Callisto come in altri luoghi sotterranei di culto, a
Roma e altrove, queste pitture parietali rivelano il graduale prevalere della
iconografia sul simbolismo: non tanto affreschi del ”Buon Pastore" o dello
"Ichthus Ouranios" quanto figurazioni sia pur stilizzate di volti santi. Col
venir meno delle persecuzioni imperiali e della clandestinità, le componenti
fisionomiche assumono le modulazioni "realistiche" di quella che è stata
chiamata "pictura compendiaria".
Sono, infatti, opere espressive, dai colori luminosi e dai contrasti netti, che
hanno qui caratteri che si tramanderanno nei canoni dell'arte musiva e poi
delle icone greco-bizantine.
Lo sviluppo di questa linea estetica è parallelo alla crescente
istituzionalizzazione del Cristianesimo e si diffonde, naturalmente, in tutto il
territorio della "koiné dialektos" che va da Roma a Ravenna, da
Costantinopoli a Edessa e fino in Egitto.

I profili grafici dei mosaici riprendono quelli degli affreschi catacombali


ma a dominare in essi è lo splendore delle tessere auree. Il motivo
fondamentale che li ispira è l'illustrazione ciclica e didascalica del Vecchio e
Nuovo Testamento. Non senza ragione, Gregorio Magno chiamerà questi

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mosaici narrativi "Biblia pauperum" poichè permettono la lettura del Libro
divino a tutti i fedeli, non escludendo quelli analfabeti. Così, a S.Prassede
come in S.Giovanni in Laterano o in altre basiliche erette tra il V e l’VIII
sec., conche, mura, absidi si popolano di decine di personaggi
dall'atteggiamento semplice e severo, dai corpi modellati vigorosamente e col
senso della tridimensionalità (anticipazione della prospettiva policentrica
delle vere e proprie icone). Anche i codici miniati, in scala ridotta,
seguiranno queste precise norme grafiche e cromatiche (da quelli di Rabula
in Siria del VI sec. fino a quelli di Kiev del XIV sec.)
La creazione di tali immagini procederà dappertutto nonostante le ondate
di iconoclastia. In Italia, la scuola romanica distorcerà il termine in
"ancona” ma il riferimento resta a quel tipo di ritratto sacro e ai canoni
consacrati nei secoli: S.Marco, a Venezia, è il monumento più glorioso in cui
si possono ammirare le figurazioni che resteranno immutate nella
iconografia orientale (la ”Trinità” che sarà ripresa, ad esempio, da Rubliov
e da altri artisti delle varie scuole russe).
Intanto, a Monreale, presso Palermo, viene portata a perfezione la "Biblia
pauperum”: in quel trionfo di luce dorata, si può esperire la ”filocalia"
l'amore del bello in quanto essenza umana e soprannaturale. Niente di
accessorio è sovrapposto allo splendore di quei mosaici. Nello stesso
periodo, a Napoli arrivano o sono dipinte, in loco, autentiche icone: la
"Vergine del Carmine” (“S.Maria la Bruna”) o quella di Montevergine
(”Mamma schiavona”, cioè Slavona); altre se ne incontrano nel sud d'Italia,
come la “Madonna Acheropita" di Rossano o quella del Duomo di Crotone.
E non pochi artisti restano legati alla linea delle "ancone”; basti ricordare
Pietro Cavallini, operoso anche a Napoli o Duccio o lo stesso Cimabue.
Lo confermano le loro tavole dal disegno preciso, ben scontornato, quasi
scultoreo.
Poi verrà Giotto, con l'attenzione dedicata all'ambiente e all'architettura che
circonda i personaggi e poi il pieno Rinascimento che sostituirà la sinuosità
grafica alla ieraticità rigorosa dei gesti e delle fisionomie delle "icone" (o
"ancone)
In Oriente, l'ortodossia si rifiuterà di seguire questa evoluzione che, per
essa, è in contrasto con la perennità del messaggio evangelico. In Russia
come in Grecia o in Bulgaria, il pittore d'immagini sacre, confermerà, in ogni
sua opera, il netto distacco dalla teologia scolastica come dall'umanesimo.
Sia Rublëv che Teofane il Greco accetteranno pienamente i canoni dell'arte

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bizantina e, nonostante l'ineluttabile apporto personale, il loro impegno sarà
verso la perfezione dei segni, della tempera e nell'uso dell'oro zecchino, sarà
la ricerca del senso della celestiale trasfigurazione non del dramma umano,
come in Masaccio o in Bellini, in Caravaggio o in Luca Giordano. Il ritratto
sacro su tavola, pertanto, subirà solo lievi ritocchi e scarse modificazioni: ciò
che conta non è l'originalità ma quel che non è transeunte.
Gli iconografi resisteranno, per secoli, anche nei tempi più recenti alle più
crudeli persecuzioni e intimidazioni, anche nei Gulag e nelle celle di
isolamento. Le icone conservate nei luoghi più segreti e più cari, riappaiono
oggi anche a testimonianza della libertà ritrovata.

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3.Le icone di luce
Icona è una parola greca antica per indicare un’immagine. Nella tradizione
dei mosaici e degli affreschi bizantini e poi russi essa è la visione
materializzata del Cristo, della Vergine, dei Santi.
Come annota Pavel Florenskij ne "Le porte regali"(Adelfi,1990) "le icone
non sono ritratti ma presenze di una superiore realtà spirituale" e ricorda
come,nella Bibbia, si fa distinzione tra "immagine di Dio"e “somiglianza a
Dio". L'esclusione della corrispondenza fisionomica è quindi un canone
sacro per il pittore ortodosso d'icone.
Egli rende ascetico l'aspetto dei volti, pacato e quasi disseccato, per farvi
affiorare l'anima; con l'assenza di ombre e di chiaroscuri vuole
un'affermazione totale della vita, di tutto l'esistente. Stilizza i contorni per
dare un forte rilievo alle figure sul legno.

I simboli cromatici sono rigorosamente rispettati nel loro contesto


teologico: l'oro zecchino non è la terrena ricchezza ma è la luce
intramontabile nella sua purezza e perennità. E il blu è il colore del cielo, il
rosso-porpora la regalità, l'ocra la carne della creatura umana, la sua fronte,
il suo naso, la bocca.
La stessa regola della "prospettiva rovesciata" è il criterio fondamentale
per configurare l'immagine in modo da non farla apparire deformata
qualunque sia il punto di vista dell'osservatore. In pratica, sono gli occhi del

85
volto dipìnto che guardano lo spettatore e non viceversa.
La stessa struttura lignea, la consistenza delle tinte, la maniera di stenderle
sulla tavola e poi di verniciarle sono subordinate ad un "principio
architettonico" inteso ad attingere nella sua conchiusa armonia una gioia che
è superamento di ogni pena e meschinità terrestri.
Così, anche nella più piccola icona si ritrova la ieraticità dei grandi mosaici
di Kiev o di Monreale o degli affreschi di maestri dell'arte quale Andrej
Rublëv: dalla tranquilla maestosità di quei Cristi Pantocratori, di quelle
Vergini e Santi in gloria promana un affetto cosmico per chi vaga angosciato
nei grigi labirinti del mondo.
Una fede ed una tecnica appassionate permettono anche all'iconografo di
oggi di farsi intermediario tra il visibile e l'invisibile; nei più minuti lavori si
impegna a recuperare una fedeltà che non sia automatico ricalco ma
devozione ispirata.
Assai spesso rifiuta, pertanto, ogni sorta di rifinitura metallica e di pietre
semipreziose perchè le considera decorazioni accessorie che nulla possono
aggiungere all'intriseco pregio e al significato profondo dell'opera.
Un'icona è qualcosa che dura nel tempo, che invita credenti e noncredenti
a sottrarsi all'effimero, all'evanescenza delle mille immagini che
occhieggiano banalmente dai pletorici massmedia. Essa sollecita il benefico
intervento della riflessione su valori che resistono da secoli pur attraverso le
tempeste della storia e il fluttuar delle mode.
Napoli 1991- 1995

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[1]
“Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di
Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla
formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si
sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne
assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini,
Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche
questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel
campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e
mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che « Cinema Nuovo »
intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno
1961)
[2]
Cfr. Pittura su legno, ne Il Dramma, Torino, n. 283, dell’aprile 1960.
[3]
Cfr. lettera di Cesare Pavese a Rino dal Sasso, in data 20 marzo 1950,
riportata in L’Europa Letteraria, Roma, n.3 del giugno
[4]
Cfr. Il Nuovo Spettatore Cinematografico, Torino, n. 8 del febbraio
1960.
[5]
Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino,
Einaudi.
[6]
David Robinson, in Sight and Sound, Londra, vol. XXVII, n. 5
dell’estate 1958.
[7]
Francis Jeanson, Le problème moral et la pensée de Sartre, Parigi, 1958
[8]
Nicola Abbagnano, Possibilità e libertà, Torino,Taylor, 1956.
[9]
Nicola Abbagnano, Introduzione all'esistenzialismo, Torino, 1957.
[10]
Ibid., p. 151.
[11]
Soeren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Firenze, Bocca.
[12]
G. de Ruggiero, L’esistenzialismo, Bari, Laterza, 1951.

87
[13]
György Lukács, La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1959.
[14]
Louis Lavelle, De l’acte, Parigi, Aubier, 1937. 14 Ibid.
[15]
Ibid.,
[16]
Ernesto de Martino, op.cit.
[17]
Albert Einstein, Idee e opinioni, Milano, Schwartz, 1958.
[18]
Jean Rostand, Ce que je crois, Parigi, 1956.

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