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La lezione che stiamo iniziando segue due direzioni che potrebbero essere apparen-
tate, sotto una certa prospettiva, ma che invece hanno, per Cassirer, differenze nette. Si tratta
del tema del mito e di quello della storia.
Ad un primo sguardo, mito e storia potrebbero essere accomunati almeno per due
motivi. Il primo riguarda la direzione al passato, all’origine, di entrambi i tipi di ragionamento.
Il mito, a tutta prima, è un racconto che intende spiegare l’origine del presente in un passato
archetipico dal quale il presente prenderebbe il suo senso. La stessa cosa si potrebbe dire
della storia. Essa non è una semplice cronaca di fatti passati, ma un’interrogazione rivolta ad
un’origine, seppur documentata, che deve assumere un senso per l’interrogante e, necessa-
riamente, deve rispondere ad una domanda che l’interrogante pone a partire dal suo presente.
L’altro aspetto è quello della mancanza di scientificità rigorosa. Se assumiamo per
vero che la scienza è una conoscenza che deve costruire una legge generale descrivibile in
termini matematici e che deve poter rendere ragione del caso individuale che sotto tale legge
ricade, allora tanto la narrazione del passato originario del mito quanto il racconto del passato
fatto dallo storico ricadono al difuori dei confini della razionalità scientifica e, pertanto, non
dovrebbero essere classificati come scienze vere e proprie.
Eppure, Cassirer non è disposto a trattare né il mito né la storia secondo questa mo-
dalità.
Tra i fenomeni culturali, il mito (come anche la religione per Cassirer) è quello che
meno si presta a un’indagine logica. Da questo punto di vista, come per la storia, il mito si
pone al di fuori del campo dell’analisi scientifica, se la intendiamo nei termini di scienza
matematizzata. Tuttavia, per Cassirer, se vogliamo veramente intendere rendere comprensi-
bile il mito come forma simbolica, ovvero come modalità di messa in forma dell’esperienza,
occorre cambiare punto di vista. La filosofia della cultura quindi si propone di analizzare il
mito, come pure la religione – che sotto questo profilo, almeno inizialmente, viene accomu-
nata ad esso –, in quanto espressione culturale. Nella prospettiva della critica della civiltà, la
domanda da porre per rendere comprensibile il mito riguarda non l’oggetto della narrazione
mitica, ma il narrare stesso, ovvero la forma dell’immaginazione che lo spirito usa.
Ogni fenomeno naturale o umano può essere interpretato da un punto di vista mitico.
Tuttavia, è impossibile trovare delle “costanti mitiche” dal punto di vista del contenuto. Ciò
significa allora che dobbiamo rinunciare all’idea di comprendere il mito come fenomeno uni-
tario? Dobbiamo forse accettare che semplicemente vi sia una molteplicità di espressioni
prerazionali che non possono essere ricondotte ad un’unità di comprensione? Per Cassirer
questo significherebbe abdicare al ruolo della filosofia critica stessa. Dobbiamo allora guarda
re alla facoltà forgiatrice di miti, ovvero a quell’unica attività simbolica che pure si esprime in
molteplici modalità.
Certo, se cerchiamo di rintracciare una struttura logica interna al mito, non possiamo
che rimanerne delusi: il mito non è filosofia. Anzi, esso si contrappone alla filosofia, proprio
perché, differentemente da questa, non ha un carattere teoretico.
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con quella che sta alla base della nostra concezione della verità empirica o
scientifica (Cassirer 2009, p. 151).
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la natura sottostia ad una dimensione normativa, malgrado essa non sia stringente, necessaria,
meccanica. D’altronde, però, il mito non si riduce a questa sola dimensione. Il carattere eziolo-
gico del mito ne è solo uno degli aspetti, e rischia di far dimenticare un altro aspetto centrale:
quello dinamico. Il mito infatti ha una sorta di vitalità interna, di plasticità. Esso tiene insieme
una struttura concettuale con una struttura percettiva. Se la prima dà stabilità e regolarità al
mondo costruito dal mito, la seconda rende ragione della sua fluidità. Come infatti la perce-
zione è un flusso continuo in costante divenire, che non può mai essere cristallizzato se non
grazie ad un intervento dell’osservazione, così il mondo mitico, pur riposando su un ordine,
non ha caratteri fissi, bensì è costantemente in movimento.
La prospettiva che il pensiero mitico adotta per dare senso all’esperienza è quella del
dramma: il mondo è attraversato da forze in conflitto tra loro, e l’uomo da una parte deve
capire quali sono queste linee di tensione, dall’altra deve entrare in questa dinamica conflit-
tuale. «La percezione mitica è sempre compenetrata da elementi emotivi» (Cassirer 2009, p.
156), e laddove la percezione mantiene una coloritura emotiva, anche nella nostra vita attuale,
essa mantiene un carattere mitico. Ciò significa che la forma mitica non è definitivamente
superata, ma sopravvive nella nostra esperienza nella misura in cui essa è emotivamente con-
notata. Il tentativo del pensiero scientifico di estirpare questa radice emotiva dalla compren-
sione del mondo ha seguito la linea della distinzione tra le qualità primarie e secondarie, tra
le qualità oggettive e le qualità soggettive. Eppure, l’approccio mitico non è stato eradicato
dalla nostra esperienza, e sopravvive ancora, seppur a volte in maniera silente.
L’interpretazione di John Dewey, per Cassirer, è illuminante: il mito non sarebbe un
sistema di credenze dogmatiche, bensì sarebbe costituito da azioni. L’acquisizione secondo
cui il rito come atto precede il mito come contenuto troverebbe così la sua spiegazione:
l’espressione dei sentimenti e delle emozioni avverrebbe nel rito in modo concreto, e in que-
sto modo il vivere le emozioni suscitate dal rito permetterebbe di riconoscerle e esprimerle
narrativamente nel mito.
Si capisce così il motivo del fallimento di tanti tentativi di intellettualizzare il mito:
essi trascurerebbero proprio l’aspetto peculiare della forma simbolica del mito, ovvero il fatto
che il substrato del mito è il sentimento e non il pensiero:
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capacità di percepire le differenze empiriche fra le cose, ma nella sua con-
cezione della natura e della vita tutte quelle differenze sono cancellate da
un più vivo sentimento, dal senso di una fondamentale e insopprimibile
solidarietà di vita, vigente al di là della molteplice varietà delle singole forme
(Cassirer 2009, p. 164).
Mentre il pensiero scientifico opera una serie di distinzioni atte ad oggettivare, clas-
sificare e concettualizzare la natura, il pensiero mitico mantiene una visione sintetica della
vita, basata sul sentimento e sull’emozione come modalità di intuizione della realtà profonda
della natura. Essa non è un oggetto di conoscenza, ma un’unità che può essere colta non
grazie alla distinzione e alla contrapposizione tra soggetto e oggetto ma, tutt’al contrario,
grazie ad un’unificazione simpatetica con essa.
La solidarietà della vita è tale che non è possibile accettare la morte come connaturata
alla vita, ma come qualcosa che occorre dall’esterno, come violenza o come punizione (come
nel caso del racconto biblico). Anche il culto dei morti alto non è che un’espressione di questa
unità di vita che travalica il confine della morte, così come l’identificazione totemica tra uomo
e animale rispecchia il sentimento di unità tra uomo e natura, un’unità così stretta da far
pensare all’uomo di essere quell’animale totemico.
Il mito così viene trattato da Cassirer in maniera anti-riduzionistica. Ogni tentativo di
intellettualizzare il mito, e quindi di ricondurlo a concetti, è dichiarato fallimentare. Esso,
piuttosto, può essere compreso solo nella misura in cui lo si accetta come una forma simbolica,
come una modalità di dare ordine all’esperienza, un ordine che non si basa su concetti, ma
su emozioni, tanto da dare alla realtà esterna i connotati emotivi del soggetto. Solo dandogli
dignità di forma simbolica il mito può essere preso come modalità di espressione dello spirito
umano, una modalità fluida e tuttavia non caotica.
La tematica della seconda parte di questa lezione, che riprende il testo di due lezioni
di un corso di filosofia della storia tenuto alla Yale University nel 1941-42, è appunto quella
della storia. La domanda a cui Cassirer intende dare risposta è: la storia può essere definita
una scienza? E successivamente: se la intendiamo come una scienza, dobbiamo dire che essa
è di tipo diverso dalle scienze matematizzate?
La risposta di Cassirer è netta: non possiamo distinguere due tipi di scienze, ma nella
misura in cui la storia utilizza una categorizzazione logica, ovvero una sussunzione di un caso
particolare sotto un concetto generale ad opera di un giudizio, essa è scienza alla pari di tutte
le altre:
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Il riferimento polemico di Cassirer è alla teoria, portata avanti dalla scuola neokan-
tiana del Baden, secondo cui, per giustificare la validità delle scienze non matematizzate, oc-
corre dividere l’intero campo del sapere in due sezioni: quella delle scienze nomotetiche,
ovvero rivolte alla legge universale, e quella delle scienze idiografiche, ovvero diretta all’indi-
viduale. In questo modo, le prime sarebbero dirette al generale, mentre le seconde agli indi-
vidui.
Tale tesi, sostenuta da nomi quali Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert, afferma
che occorre suddividere le scienze in base alle differenze metodologiche. In altri termini: in
base alla metodologia che viene adottata per lo studio di un oggetto, si definisce anche il tipo
di scienza che si dirige a tale oggetto. Nel caso infatti delle scienze nomotetiche, il metodo
utilizzato mira alla costruzione di una legge universale che sia in grado di spiegare ogni sin-
golo caso che ricade sotto di essa come un caso esemplare della legge stessa. Ma, poiché in
alcuni ambiti di conoscenza, costruire una legge universale che sia in grado di dare ragione
interamente del singolo caso che ricade sotto di essa è impossibile, allora tale tipo di cono-
scenza andrebbe incontro a due differenti destini: nel primo caso, non assurgerebbe alla di-
gnità di conoscenza, rimanendo al difuori del campo della razionalità in senso forte; nel se-
condo caso, dovrebbe essere identificato una specifica modalità di conoscenza che non ri-
chiede la costruzione di una legge universale ma solamente un’attitudine descrittiva nei con-
fronti dell’individuale. In questo modo, però, si spezzerebbe l’unità stessa del sapere, che non
sarebbe più visto come un unico movimento di pensiero, fatte salve le differenze, ma come
una duplicità insanabile.
È contro questa frattura che si schiera Cassirer. E lo fa seguendo la direzione tracciata
da Cartesio nelle Regulae ad directionem ingenii, in cui il filosofo ritrova la posizione unitaria
dell’«umano sapere» che pure si differenzia, ma solo per la differenza degli oggetti a cui si
applica. Certo, lo stesso Cassirer riconosce che tale approccio necessita della rilettura mo-
derna della conoscenza in generale:
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individuata una volta che ci rendiamo conto che la cultura scientifica ha assunto, da Darwin
in poi, la biologia e non la fisica come modello. In effetti, all’epoca in cui Kant scrive, la
scienza per eccellenza era certamente la fisica newtoniana. Essa incarnava, per così dire, tutte
le virtù che doveva possedere una scienza per poter essere detta tale. L’esattezza matematica,
il rigore metodologico, la ripetibilità dell’esperimento ne garantivano intrinsecamente la vali-
dità.
Tuttavia, nota Cassirer, l’introduzione della teoria evoluzionistica darwiniana modi-
fica nettamente questo scenario. Se, infatti, analizziamo lo scheletro concettuale della biolo-
gia, ci rendiamo conto che essa non è assimilabile alla fisica. Perché lo studio biologico sia
efficace, occorre infatti «introdurre concetti nuovi e specifici, che non si ritrovano nella fisica
classica» (Cassirer 1981, pp. 129-130):
Ogni fenomeno organico, ogni fenomeno vitale, può essere spiegato se-
condo le medesime leggi che troviamo nella chimica e nella fisica. Ma ciò
non significa che la struttura logica della biologia coincida con la struttura
delle scienze della materia inorganica. La biologia introduce un concetto
nuovo: il concetto di forma (Cassirer 1981, p. 130).
Il parallelo che Cassirer istituisce è allora chiaro: come la biologia deve introdurre
un ordine di comprensione che non può essere ridotto a quello della scienza matematizzata,
pur non annullandone la validità, così la storia deve accettare di dirigersi ad un campo irridu-
cibile a quello della pura vita organica, ovvero al «regno dell’uomo». Con questo, Cassirer
non nega che sia possibile individuare, all’interno della spiegazione delle condizioni storiche,
dei fattori economici materialistici, come accade nella filosofia di Marx, o dei fattori biologici
e ambientali. Ma ciò non significa che la storia possa essere ridotta semplicemente a questi
fattori.
In ogni causazione storica c’è qualcosa di più di quel che troviamo nella
causazione fisica o biologica. È cioè presente non soltanto la causazione
in senso generale, ma quel che chiamiamo «motivazione» (Cassirer 1981,
p. 134).
Cassirer rifiuta qui di affrontare il problema della libertà da un punto di vista metafi-
sico – anche perché condivide con Kant l’impossibilità di poterlo fare. Egli assume, piuttosto,
una sorta di atteggiamento descrittivo. Nella ricostruzione storica, non si può prescindere dal
ruolo del personaggio storico, dalle sue personali decisioni, dalla “causalità individuale”. Per
comprendere perché un certo personaggio storico abbia agito in un modo piuttosto che in
un altro, non si può fare ricorso ad una mera causalità efficiente. Occorre, piuttosto, adottare
il metodo dell’interpretazione, e fare riferimento a termini quali «spiegazione, descrizione, ed inter-
pretazione». Ciò non significa che lo storico non adotti un metodo rigoroso. Tutt’altro: egli
deve da un lato fare riferimento alle fonti, e non può prescindere da esse, rifugiandosi in un
mondo immaginativo, e dall’altro applicare il ragionamento logico per interpretare corretta-
mente tali fonti. In questo, scrive Cassirer, non vi è alcuna differenza metodologica tra le
scienze naturali e la storia:
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Le forme del pensiero che studiamo in logica restano le stesse indipenden-
temente dall’oggetto cui il nostro pensiero di volta in volta si applica. La
formazione dei concetti e dei giudizi, le forme del ragionare e dell’argo-
mentare, il metodo dell’ipotesi e della verificazione: tutto questo dev’essere
utilizzato in storia nell’identico modo che in qualsiasi altra scienza (Cassi-
rer 1981, p. 135).