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Freud IL POETA E LA FANTASIA 1907

Su noi profani ha sempre esercitato una straordinaria attrazione il problema di sapere donde quella
personalità ben strana che è il poeta tragga la propria materia – all’incirca nel senso della domanda
rivolta da quel tal Cardinale all’Ariosto – e come egli riesca con essa ad avvincerci, suscitando in noi
commozioni di cui forse non ci saremmo mai creduti capaci. (…)
Potessimo almeno trovare in noi stessi, o in coloro che sono come noi, una qualche attività in certo
modo affine al poetare! Ci sarebbe la speranza, indagando tale attività, di farci una prima idea
approssimativa della creazione poetica. (…)
Dobbiamo provare a cercare le prime tracce dell’attività poetica già nel bambino? L’occupazione
preferita e più intensa del bambino è il giuoco. Forse si può dire che ogni bambino impegnato nel
giuoco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo
piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo. Avremmo torto se pensassimo che il bambino non
prenda sul serio un tale mondo; egli prende anzi molto sul serio il suo giuoco e vi impegna notevoli
ammontari affettivi. Il contrario del giuoco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale. (…)
L’individuo crescendo smette dunque di giocare, e sembra rinunciare a conseguire il piacere che
ritraeva dal giuoco. Ma chi conosce la vita interiore dell’uomo, sa che non vi è cosa più diffìcile della
rinuncia a un piacere già una volta gustato. Effettivamente noi non possiamo rinunciare a nulla e solo
barattiamo l’una cosa con l’altra, così che ciò che sembra una rinuncia altro non è in realtà che la
formazione di un sostitutivo o surrogato. Così anche l’adolescente, quando smette di giocare,
abbandona soltanto l’appoggio agli oggetti reali: invece di giocare ora fantastica. Egli fabbrica
castelli in aria, costruisce quelli che si dicono sogni a occhi aperti. Io ritengo che la maggior parte
degli uomini in certi momenti si dedichi a fantasie. È questo un fatto che è stato trascurato per molto
tempo e di cui non è stata quindi valutata appieno l’importanza. l bambino giuoca talora anche da
solo o ai fini del giuoco costituisce con altri bambini un sistema psichico chiuso, ma anche quando
non giuoca di fronte agli adulti non nasconde loro il suo giuoco. L’adulto invece si vergogna delle
sue fantasie e le nasconde agli altri, coltivandole entro di sé come cose assolutamente private e intime:
in genere preferisce confessare le proprie colpe piuttosto che comunicare le proprie fantasie. Può darsi
che per questa ragione egli si ritenga il solo che inventi tali fantasie, non sospettando la generale
diffusione negli altri di creazioni del tutto corrispondenti. Questo diverso comportamento di chi
giuoca e di chi fantastica trova il suo fondamento nei motivi di queste due attività, diversi anche se
l’una è la continuazione dell’altra.
Il giuoco del bambino era diretto da desideri, e propriamente da quello specifico desiderio che è di
così grande aiuto nella sua educazione: il desiderio di essere grande e adulto. Egli giuoca sempre a
“essere grande”, e imita nel giuoco quel che riesce a conoscere della vita degli adulti. Non ha quindi
ragione di nascondere questo desiderio. Nell’adulto le cose stanno in un altro modo: da un lato sa che
da lui non ci si attende più che giuochi o fantastichi ma che agisca nel mondo reale, dall’altro fra i
desideri che provocano le sue fantasie ve ne sono alcuni che è assolutamente necessario nascondere:
perciò egli si vergogna delle sue fantasie, come di cose fanciullesche e illecite.
(…)
Accingiamoci dunque ad apprendere alcuni dei caratteri dell’attività fantastica. Si deve intanto dire
che l’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa. Sono desideri insoddisfatti le forze
motrici delle fantasie, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della
realtà che ci lascia insoddisfatti. I desideri promotori sono vari, secondo il sesso, il carattere e le
condizioni di vita della persona che si abbandona alla fantasia; essi si possono tuttavia raggruppare,
senza sforzatura, secondo due direzioni fondamentali: o sono desideri ambiziosi, che servono a
elevare la personalità, o sono desideri erotici. (…)
Non posso neppure trascurare la relazione delle fantasie con i sogni. I nostri sogni notturni – come si
ricava dall’interpretazione – altro non sono che fantasie. Il linguaggio, nella sua impareggiabile
sapienza, ha da gran tempo risolto il problema dell’essenza dei sogni, indicando come “sogni a occhi
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aperti” anche le aeree creazioni della fantasia. Se nonostante tale indicazione il senso dei nostri sogni
ci rimane perlopiù oscuro, ciò dipende dal fatto che durante il sonno notturno divengono in noi attivi
anche desideri di cui ci vergogniamo e che dobbiamo nascondere a noi stessi: che perciò dunque sono
stati rimossi, cacciati nell’inconscio. A tali desideri rimossi e alle loro derivazioni non può essere
concesso di esprimersi che in una maniera fortemente deformata. Ma dopo che il lavoro scientifico è
pervenuto a dilucidare la deformazione onirica non è stato difficile riconoscere che i sogni notturni
sono appagamenti di desideri, al modo stesso dei sogni a occhi aperti, e cioè delle fantasie ben note a
ognuno. (…)
scegliamo, per il nostro confronto, non i poeti massimamente valutati dalla critica, ma quei più
modesti scrittori di romanzi, novelle e racconti, che proprio per ciò trovano un più vasto pubblico di
lettori e di lettrici appassionati. Nelle opere di questi narratori vi è un elemento tipico che ci deve
colpire; esse hanno tutte un eroe che è posto al centro dell’interesse, per il quale l’autore cerca di
guadagnare con ogni mezzo la nostra simpatia e che egli sembra proteggere con una provvidenza
particolare. Quando alla fine del capitolo di un romanzo abbiamo lasciato l’eroe sanguinante per gravi
ferite e privo di sensi, siamo sicuri di ritrovarlo all’inizio del capitolo seguente amorevolmente curato
e sulla via della guarigione; e se il primo volume si è concluso con l’affondamento durante una
tempesta della nave recante il nostro eroe, siamo sicuri di leggere al principio del secondo volume la
storia del suo salvataggio miracoloso, senza il quale il romanzo non potrebbe continuare. Il senso di
sicurezza con cui accompagniamo l’eroe nel corso delle sue paurose avventure è lo stesso di quello
con cui nella vita reale un eroe si lancia in acqua per salvare uno che è in procinto di annegare, o si
espone al fuoco nemico per andare all’assalto di una posizione avversaria; quel vero sentimento
eroico che uno dei nostri migliori scrittori, Anzengruber, ha espresso in maniera stupenda: “Es kann
dir nix g’schehen.” Ritengo però che attraverso questo trasparente carattere dell’invulnerabilità si
renda senza fatica riconoscibile Sua Maestà l’Io, l’eroe di tutte le fantasticherie come di tutti i
romanzi. (…)
Anche in molti dei cosiddetti romanzi psicologici mi ha sempre colpito che un solo personaggio,
l’eroe, è descritto dall’interno: dentro la sua anima vi è in un certo senso l’autore, il quale invece
guarda agli altri personaggi dal di fuori. Il romanzo psicologico deve la sua peculiarità in genere alla
tendenza che lo scrittore moderno ha di scindere il proprio Io, mediante autosservazione, in Io parziali,
personificando in più eroi i conflitti che agitano la propria vita interiore. (…)
tanto l’attività poetica quanto la fantasticheria costituiscono una continuazione e un sostitutivo del
primitivo giuoco di bimbi. (…)

Non trascuriamo infine di tornare su quella classe delle opere poetiche in cui non sono da vedersi
libere creazioni ma elaborazioni di un materiale già dato e noto. Anche qui rimane al poeta una certa
indipendenza, che può esprimersi nella scelta del materiale e nelle modificazioni talora profonde che
egli vi apporta. Per quel tanto poi che i materiali sono già dati, essi derivano dal patrimonio popolare
di miti, leggende e favole. L’indagine su queste formazioni della psicologia dei popoli non è affatto
esaurita; tuttavia, ad esempio per i miti, è assolutamente probabile che essi corrispondano ai residui
deformati di fantasie di desiderio di intere nazioni, e cioè ai sogni secolari [continuati per secoli] della
giovane umanità. (…)
Si ricorderà che abbiamo affermato che il sognatore a occhi aperti nasconde accuratamente agli altri
le proprie fantasie, giacché ha motivo di vergognarsene. Aggiungo ora che, anche se ce le
comunicasse, non riuscirebbe a procurarci piacere alcuno con le sue rivelazioni. Tali fantasie, quando
le apprendiamo, ci destano una certa ripugnanza, o tutt’al più ci lasciano freddi. Quando invece il
poeta ci rappresenta i suoi drammi o ci racconta ciò che noi siamo inclini a interpretare come suoi
personali sogni a occhi aperti, proviamo un vivissimo piacere che probabilmente deriva dalla
confluenza di molte fonti. Come il poeta riesca a far ciò, è il suo particolarissimo segreto; la vera ars
poetica consiste nella tecnica per superare la nostra ripugnanza, la quale è certo in connessione con
le barriere che si elevano fra ogni singolo Io e gli altri. Possiamo supporre due mezzi di questa tecnica:
il poeta addolcisce il carattere della sua fantasticheria egoistica alterandola e velandola; e ci seduce
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con un profitto di piacere puramente formale, e cioè estetico, che egli ci offre nella presentazione
delle sue fantasie. Il piacere così ottenuto, che ci viene offerto per rendere con esso possibile
sprigionare, da fonti psichiche più profonde, un piacere maggiore, può esser detto premio di
allettamento o piacere preliminare. Io sono convinto che ogni piacere estetico procuratoci dal poeta
ha il carattere di un tale piacere preliminare, e che il vero godimento dell’opera poetica provenga
dalla liberazione di tensioni nella nostra psiche. Forse contribuisce non poco a tale esito il fatto che il
poeta ci mette in condizione di gustare d’ora in poi le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza
vergogna.

UN RICORDO D’INFANZIA DI LEONARDO DA VINCI 1910

in un punto del Trattato della pittura, in cui sembra volersi difendere dal rimprovero di irreligiosità:273
Ma tacciano tali riprensori, ché questo è il modo di conoscere l’operatore di tante mirabili cose e
questo è il modo di amare un tanto inventore, perché invero il grande amore nasce dalla gran
cognizione della cosa che si ama, e se tu non la conoscessi, poco o nulla la potrai amare.
Il valore di queste frasi di Leonardo non va cercato nella comunicazione di un’importante verità
psicologica, poiché ciò che esse affermano è palesemente falso e Leonardo lo sapeva certo altrettanto
bene quanto noi. Non è vero che gli uomini aspettino di amare o di odiare finché non abbiano studiato
e conosciuto nella sua essenza ciò che forma l’oggetto di questi affetti; piuttosto essi amano
impulsivamente, secondo motivi sentimentali che nulla hanno a che fare con la conoscenza e il cui
effetto è se mai fiaccato dalla ponderazione e dalla riflessione. Leonardo poteva dunque voler dire
soltanto che l’amore praticato dagli uomini non è l’amore vero, ineccepibile; che si dovrebbe amare
in modo da trattenere l’affetto, da sottometterlo al travaglio del pensiero e da lasciarlo libero solo
dopo che avesse superato l’esame della riflessione. E allo stesso tempo noi comprendiamo che egli
vuol farci intendere che in lui è così: sarebbe desiderabile che tutti gli altri trattassero l’amore e l’odio
nello stesso suo modo.
E in lui sembra realmente che le cose stessero così. I suoi affetti erano controllati, sottomessi alla
pulsione di ricerca (…)

L’osservazione della vita quotidiana degli uomini ci dimostra che ai più riesce di deviare parti molto
considerevoli delle loro forze pulsionali sessuali verso l’attività professionale. La pulsione sessuale è
particolarmente idonea a fornire contributi di questa natura, perché è dotata della capacità di
sublimazione, vale a dire è in grado di scambiare la sua meta immediata con altre mete, che possono
essere considerate più elevate e non sessuali. (…)
Esaminando la coincidenza che si nota in Leonardo tra la predominante pulsione di ricerca e l’atrofia
della vita sessuale, ridotta alla cosiddetta omosessualità ideale [sublimata], saremmo propensi a fare
di lui un caso esemplare del nostro terzo tipo. Dopo un periodo infantile di curiosità al servizio di
interessi sessuali, egli sarebbe riuscito a sublimare la maggior parte della sua libido in una spinta alla
ricerca: ciò costituirebbe il nucleo e il segreto del suo essere. (…)
Una sola volta, per quel che so, Leonardo inserisce nei suoi protocolli scientifici una nota sulla sua
infanzia. In un punto dove si tratta del volo del nibbio, egli s’interrompe improvvisamente per seguire
un ricordo che affiora in lui dai primi anni della sua vita.
Questo scriver sì distintamente del nibbio par che sia mio destino, perché ne la mia prima ricordazione
della mia infanzia e’ mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me e mi aprissi la bocca
colla sua coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra. (…)

Un ricordo d’infanzia, dunque, e invero molto sorprendente. Sorprendente per il suo contenuto e per
il periodo di vita a cui viene riferito. Che un uomo possa conservare un ricordo di quand’era lattante
non è forse impossibile, ma non si può in alcun modo considerare sicuro. (…) La scena del nibbio
non sarà un ricordo di Leonardo, ma una fantasia che egli si è costruito più tardi e ha riferito alla sua
infanzia (…)
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Non è indifferente ciò che un uomo crede di ricordare della propria infanzia; di regola, dietro i
frammenti di ricordi che egli stesso non riesce a comprendere, sono celate inestimabili testimonianze
delle linee più importanti del suo sviluppo psichico.286 Ora, poiché le tecniche psicoanalitiche
costituiscono per noi eccellenti mezzi per trarre alla luce questo materiale nascosto, ci sarà consentito
il tentativo di colmare la lacuna esistente nella biografia di Leonardo con l’analisi della sua fantasia
infantile. (…)
Esaminando però con l’occhio dello psicoanalista la fantasia del nibbio di Leonardo, essa cessa presto
di apparirci strana. Ci sembra di ricordare che spesso, per esempio nei sogni, abbiamo trovato qualche
cosa di simile, di modo che possiamo presumere di tradurla dal suo linguaggio particolare in parole
universalmente comprensibili. La traduzione s’indirizza allora verso la sfera erotica. La “coda” è uno
dei simboli, una delle designazioni sostitutive più note per il membro maschile, in italiano non meno
che in altre lingue;287 la situazione descritta nella fantasia, un nibbio che apre la bocca del bambino e
percuote vigorosamente la coda dentro di essa,288 corrisponde a un’immagine di fellatio, un atto
sessuale in cui il membro viene immesso nella bocca della persona con cui si ha rapporto. È
abbastanza strano che questa fantasia abbia un carattere così marcatamente passivo; essa richiama
inoltre certi sogni e fantasie di donne o di omosessuali passivi (che nel contatto sessuale assumono la
parte femminile). (…)
E poi l’indagine c’insegna che quest’abitudine, così severamente proscritta dal costume, ammette
la più innocua derivazione. Ripete soltanto, elaborata, un’altra situazione in cui tutti un tempo ci
siamo sentiti a nostro agio: quando poppanti (“essendo io in culla”) prendevamo in bocca per
succhiarlo il capezzolo della madre o della balia. L’impressione organica di questo primo nostro
godimento vitale fu certamente tale da rimaner scolpita in noi in modo indelebile; quando più tardi il
bambino fa la conoscenza della mammella della mucca, che per la sua funzione equivale a un
capezzolo – ma per la sua forma e la posizione nel basso ventre a un pene – ha raggiunto il primo
gradino per la successiva costruzione di quella fantasia sessuale che ci suscita repulsione.290
Ora comprendiamo perché Leonardo traspone il ricordo della presunta avventura col nibbio nel
periodo in cui era lattante. Dietro questa fantasia si cela null’altro che una reminiscenza del succhiare
– o dell’essere allattato – al seno materno, scena di umana bellezza e con la quale egli, al pari di molti
altri artisti, si cimentò col pennello, dipingendo la Madre di Dio col suo bambino. C’è un altro fatto
che dobbiamo tener presente, anche se ancora non lo comprendiamo, e cioè che questa reminiscenza,
ugualmente importante per i due sessi, fu rielaborata dall’uomo Leonardo come fantasia omosessuale
passiva. Lasceremo per ora da parte la questione del nesso che eventualmente congiunge
l’omosessualità con l’attività del succhiare al seno materno, e ricorderemo semplicemente che la
tradizione attribuisce di fatto a Leonardo sentimenti omosessuali. (…)

Da dove viene questo nibbio e in che modo lo ritroviamo in questo contesto?


Qui si offre spontaneamente un confronto così poco ravvicinato che si sarebbe tentati di rinunciarvi.
Nella scrittura geroglifica degli antichi Egizi la madre viene indicata con la figura dell’avvoltoio. 292
Inoltre gli Egizi veneravano una divinità materna che veniva raffigurata con una testa di avvoltoio o
con più teste, almeno una delle quali era di avvoltoio.293 Il nome di questa dea si pronunziava Mut;
che l’affinità fonetica con la nostra parola Mutter [madre] sia soltanto casuale? Così l’avvoltoio è
veramente in rapporto con la madre; ma questo a che cosa ci può servire? Possiamo forse credere che
Leonardo lo sapesse, dal momento che la lettura dei geroglifici è stata fatta per la prima volta da
François Champollion (1790-1832)?294
Varrebbe la pena di ricercare per quale via soltanto gli Egizi siano pervenuti alla scelta
dell’avvoltoio quale simbolo della maternità. Ora, la religione e la civiltà degli Egizi erano oggetto di
curiosità scientifica già presso i Greci e i Romani e, molto prima che noi stessi riuscissimo a decifrare
i monumenti d’Egitto, esistevano sparse notizie in proposito, provenienti da scritti dell’antichità
classica che si sono salvati e che in parte sono di autori noti, come Strabone, Plutarco, Ammiano
Marcellino, in parte recano nomi sconosciuti e sono di origine e redazione incerta, come i
Hieroglyphica di Orapollo Niloo e il libro di sapienza sacerdotale dell’Oriente tramandato sotto il
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nome del divino Ermete Trismegisto. Da queste fonti apprendiamo che l’avvoltoio veniva considerato
simbolo della maternità perché si credeva che in questa specie d’uccelli esistessero soltanto femmine
e non maschi. La storia naturale degli antichi conosceva anche un corrispettivo maschile di questa
situazione; si riteneva che gli scarabei, considerati dagli Egizi coleotteri divini e come tali venerati,
fossero soltanto maschi.
Ora, come avveniva la fecondazione degli avvoltoi, se tutti erano femmine? Un passaggio di
Orapollo ci fornisce in proposito una spiegazione ingegnosa.297 In un certo periodo questi uccelli si
arrestano in volo, dischiudono la vagina e concepiscono dal vento.
Siamo dunque arrivati in modo imprevisto a considerare come affatto verosimile un’eventualità che
fino a poco fa dovevamo respingere come assurda. Leonardo può benissimo aver conosciuto (…)

Quindi la favola dell’unisessualità e del concepimento dell’avvoltoio non era affatto rimasta un
aneddoto indifferente, come quella analoga degli scarabei; i Padri della Chiesa se n’erano
impossessati per avere sottomano, contro chi dubitasse della Storia Sacra, un argomento tratto dalla
storia naturale. Se gli avvoltoi, stando alle più attendibili notizie dell’antichità, erano destinati a farsi
fecondare dal vento, perché non sarebbe potuto succedere lo stesso, sia pure una volta sola, con una
femmina umana? Per questa possibilità di utilizzarla, “quasi tutti” i Padri della Chiesa solevano
raccontare la favola dell’avvoltoio, sicché non è quasi possibile dubitare che attraverso così
autorevole patrocinio anche Leonardo ne sia giunto a conoscenza.
Possiamo rappresentarci la genesi di questa fantasia di Leonardo nel modo seguente. Quando una
volta, in un Padre della Chiesa o in un libro di scienze naturali, egli lesse che gli avvoltoi erano tutti
femmine e sapevano riprodursi senza il concorso del maschio, emerse in lui un ricordo che si
trasformò in quella fantasia, la quale però intendeva significare che anch’egli era stato in fondo un
figlio di avvoltoio, che aveva avuto una madre ma non un padre, e a questo si accompagnò, nel modo
in cui soltanto impressioni così antiche possono esprimersi, un’eco del godimento provato al seno
materno. L’allusione fatta dai Padri della Chiesa all’immagine della Santa Vergine col Bambino, cara
ad ogni artista, dovette contribuire a fargli apparire preziosa e significativa questa fantasia. Egli
pervenne dunque a identificarsi con Cristo bambino, consolatore e redentore non di quell’unica donna
soltanto. (…)

Nei primi tre o quattro anni di vita si fissano impressioni e si avviano modi di reagire verso il mondo
esterno che nessuna esperienza successiva potrà più privare della loro importanza. (…)
Procedendo nel lavoro d’interpretazione, incontriamo un sorprendente problema: perché questo
contenuto mnestico è stato rielaborato come situazione omosessuale? La madre che allatta il bambino
– o meglio: al cui seno il bambino succhia – è tramutata in un nibbio che ficca la sua coda nella bocca
del bambino. Abbiamo affermato che la “coda” del nibbio, secondo una comune sostituzione
linguistica, non può avere altro significato che quello dell’organo genitale maschile, del pene. Ma
non comprendiamo in che modo l’attività fantastica sia riuscita a dotare proprio l’uccello che incarna
la madre del contrassegno della virilità (…)
Il chiarimento viene dalle teorie sessuali dei bambini. C’è stato in verità un periodo in cui l’organo
genitale maschile è stato ritenuto compatibile con la raffigurazione della madre. 306 Quando il
maschietto rivolge per la prima volta la sua curiosità verso l’enigma della vita sessuale è dominato
dall’interesse per il proprio organo genitale. Egli trova questa parte del suo corpo troppo preziosa e
troppo importante perché possa pensare che in altre persone, alle quali si sente così simile, manchi.
Dato che non può indovinare che esiste anche un altro tipo di formazione genitale, di pari valore,
deve ricorrere alla supposizione che tutte le persone, comprese le donne, posseggano un membro
simile al suo. Questo preconcetto s’instaura così solidamente nel giovane investigatore che non viene
distrutto neppure dalle sue prime osservazioni di genitali di piccole bambine. La percezione gli dice
– è vero – che c’è qualcosa di diverso da quello che c’è in lui, ma egli non è in grado di confessare a
sé stesso che il contenuto della percezione è che non riesce a trovare un membro nella bambina. Che
il membro possa mancare gli sembra un’idea sconvolgente, insopportabile, e perciò egli opta per una
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soluzione di compromesso: il membro c’è anche nella bambina, soltanto che è molto piccolo; in
seguito crescerà (…)
Significative analogie biologiche ci inducono a ritenere che lo sviluppo mentale del singolo ripete in
forma abbreviata il corso evolutivo dell’umanità (…)
Orbene, la supposizione infantile che la madre abbia il pene è la fonte comune da cui derivano la
configurazione androgina delle divinità materne (come l’egizia Mut) e la coda del nibbio nella
fantasia infantile di Leonardo. (…)
Una breve riflessione ci rammenta a questo punto che non possiamo contentarci di questa spiegazione
della coda del nibbio nella fantasia infantile di Leonardo. Pare che in essa ci sia qualche cosa di più,
che ancora non comprendiamo. Il suo tratto più sorprendente è di certo quello per cui il succhiare al
seno materno si converte nel venir allattato, quindi in passività e con ciò in una situazione di indubbio
carattere omosessuale. Memori della circostanza storicamente verosimile che Leonardo si
comportasse durante la sua vita come una persona di sentimenti omosessuali, sorge in noi irresistibile
la domanda se questa fantasia non rechi testimonianza di una relazione causale tra il rapporto infantile
di Leonardo con sua madre e la sua successiva omosessualità, manifesta seppure ideale. (…)
Tu nel tuo discorso hai a concludere la terra essere una stella quasi simile alla luna, e così proverai la
nobiltà del nostro mondo! (…)
La fantasia del nibbio di Leonardo ci lega ancora a sé. Con parole che ricordano in modo fin troppo
palese la descrizione di un atto sessuale (“e molte volte mi percotessi con tal coda dentro 326 alle
labbra”), Leonardo pone in rilievo l’intensità delle relazioni erotiche tra madre e bambino. Da questo
collegamento fra l’attività della madre (del nibbio) e l’accentuazione della zona orale non è difficile
intuire un secondo contenuto mnestico della fantasia. Possiamo tradurre: “Mia madre mi ha stampato
innumerevoli ardenti baci sulla bocca.” La fantasia è costituita dal ricordo dell’essere allattato e
dell’essere baciato dalla madre.
La natura benigna ha concesso all’artista di esprimere i moti più segreti del suo animo, a lui stesso
celati, attraverso creazioni che scuotono potentemente gli altri, gli estranei all’artista, senza che
quest’ultimi sappiano indicare donde provenga la loro emozione. Non dovrebbe esserci nell’opera
complessiva di Leonardo una testimonianza di ciò che la sua memoria ha serbato come la più forte
impressione della sua infanzia? Non possiamo fare a meno di pensare che ci sia. Se però si considera
quali profonde trasformazioni debba subire un’impressione vitale dell’artista prima di poter dare il
suo contributo all’opera d’arte, si dovrà, soprattutto nel caso di Leonardo, mantenere la pretesa di
certezza della prova entro limiti assolutamente modesti.
A chi pensi ai quadri di Leonardo, la memoria richiamerà un singolare, seducente e misterioso
sorriso che l’artista ha evocato sulle labbra delle sue figure femminili. (…)

Il dipinto di Leonardo più vicino nel tempo al ritratto di Monna Lisa è il quadro di Sant’Anna, la
Vergine e il Bambino [tav. 2]. Esso mostra il sorriso leonardesco chiaramente soffuso nella maniera
più bella su entrambi i visi femminili. (…)
In questo quadro è tracciata in sintesi la storia della sua infanzia; le particolarità ch’esso presenta si
spiegano in base alle più personali impressioni della vita di Leonardo. In casa di suo padre egli non
trovò solo la buona matrigna Donna Albiera, ma anche la nonna, madre di suo padre, Monna Lucia
che, possiamo ben supporre, non sarà stata meno tenera verso di lui di quanto sogliono esserlo le
nonne. Questa circostanza gli suggerì forse di rappresentare un’infanzia protetta dalla madre e dalla
nonna. (…)
L’analista è di diverso avviso; per lui nulla è troppo piccolo per manifestare processi mentali nascosti
(…)
Non crediamo più che salute e malattia, soggetti normali e nervosi si debbano distinguere nettamente
tra loro, né che certe connotazioni nevrotiche debbano esser giudicate prova di inferiorità generale.
Oggi sappiamo che i sintomi nevrotici sono formazioni sostitutive di determinati atti di rimozione
che siamo tenuti a compiere nel corso del nostro sviluppo da bambini a uomini civili; sappiamo che

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noi tutti produciamo tali formazioni sostitutive e che soltanto il loro numero, intensità e distribuzione
giustificano il concetto pratico di malattia e la conclusione di inferiorità costituzionale. (…)
Ci limitiamo a rilevare un fatto ormai indubbio, cioè che l’opera creativa dell’artista fornisce uno
sbocco anche al suo desiderio sessuale (…) Al culmine della sua vita, poco dopo i cinquant’anni, in
un’età in cui nella donna i caratteri sessuali sono già regrediti, mentre nell’uomo non di rado la libido
tenta ancora un’energica puntata, si opera in Leonardo una nuova trasformazione. Strati ancor più
profondi della sua psiche diventano di nuovo attivi; ma questa ulteriore regressione torna a vantaggio
della sua arte, che stava atrofizzandosi. Egli incontra la donna che desta in lui il ricordo della felicità
e dell’estasi sensuale racchiuse nel sorriso della madre, e sotto l’influsso di questa evocazione ritrova
l’afflato che lo sorreggeva all’inizio dei suoi tentativi artistici, quando creava col pennello donne
sorridenti. Dipinge Monna Lisa, Sant’Anna con la Vergine e il Bambino e la serie di misteriose figure
contraddistinte dall’enigmatico sorriso. (…)
Se la mia opera desterà, anche tra gli amici e conoscitori della psicoanalisi, l’impressione che ho
semplicemente scritto un romanzo psicoanalitico, risponderò che io stesso non esagero la certezza dei
miei risultati. (…)
Le pulsioni e le loro trasformazioni sono il dato ultimo che la psicoanalisi possa riconoscere. (…)
Naturalmente è mortificante pensare che un Dio giusto e una Provvidenza benevola non ci proteggano
meglio da simili influenze nel periodo più indifeso della nostra vita. Ma dimentichiamo troppo
facilmente che nella nostra vita tutto è dovuto al caso, sin dalla nostra origine che scaturisce
dall’incontro dello spermatozoo e dell’uovo: caso che peraltro ha la sua parte nell’insieme delle leggi
e delle necessità della natura e soltanto con i nostri desideri e con le nostre illusioni non ha alcun
rapporto.

IL MOTIVO DELLA SCELTA DEGLI SCRIGNI 1913


Due scene di Shakespeare, lieta l’una, tragica l’altra, mi hanno di recente fornito lo spunto per
impostare e risolvere un piccolo problema.
La scena lieta è quella della scelta fra tre scrigni compiuta dai pretendenti nel Mercante di Venezia.
La giovane e avveduta Porzia è vincolata dalla volontà paterna a prendere per marito tra i suoi
pretendenti solo colui che sceglierà, fra i tre scrigni, quello giusto. Gli scrigni sono rispettivamente
d’oro, d’argento e di piombo, e quello giusto contiene il ritratto della fanciulla. I due aspiranti che
avevano scelto gli scrigni d’oro e d’argento si sono già ritirati a mani vuote. Il terzo, Bassanio, si
decide per quello di piombo e con ciò ottiene la mano della sposa, la cui simpatia, già prima del
giudizio della sorte, era per lui. (…)

Riprendiamo ora in considerazione il nostro materiale. Nel poema estone, come nel racconto delle
Gesta Romanorum, si tratta della scelta di una ragazza fra tre pretendenti; nella scena del Mercante
di Venezia, che verte apparentemente sullo stesso motivo, subentra al medesimo tempo una specie di
inversione, essendo un uomo a scegliere fra tre scrigni. Se avessimo qui a che fare con un sogno,
penseremmo lì per lì che gli scrigni siano donne, simboli cioè – come i barattoli, gli astucci, le scatole,
le ceste ecc. – di ciò ch’è essenziale nella donna e perciò della donna stessa. Ora, se ci permettiamo
di accogliere anche nel mito tale sostituzione simbolica, la scena degli scrigni del Mercante di Venezia
diventa veramente espressione di quella inversione che avevamo supposto. D’un colpo, proprio come
accade solo nelle fiabe, siamo riusciti a spogliare il nostro soggetto del suo paludamento astrale e
vediamo ora che esso tratta un motivo umano, cioè la scelta che un uomo compie fra tre donne. (…)

Se dobbiamo attenerci a tali indizi, la terza delle nostre sorelle, tra le quali la scelta ha luogo, sarebbe
una morta. Ma essa può anche essere qualcos’altro e cioè la Morte in persona, la Dea della Morte.
Grazie a uno spostamento tutt’altro che raro, le qualità che una divinità dispensa agli uomini vengono
attribuite a lei stessa. Tale spostamento non ci sorprenderà affatto nel caso della Dea della Morte, sol
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che consideriamo come nelle versioni e rappresentazioni moderne, che qui sarebbero state anticipate,
la Morte stessa figuri sempre come un morto. Ma se la terza è la Dea della Morte, possiamo dire di
conoscere le tre sorelle. Esse sono i simboli del Destino, le Moire o Parche o Norne, la terza delle
quali ha nome Atropo: l’Inesorabile. (…)

La terza sorella dovrebbe essere la Dea della Morte, cioè la Morte stessa, e invece, nel giudizio di
Paride, essa è la Dea dell’Amore, nella favola di Apuleio una beltà paragonabile a quella dea, nel
Mercante la più bella e la più accorta delle donne, nel Lear la sola figlia fedele. Potrebbe immaginarsi
una contraddizione più flagrante? Forse sì: per quanto possa parere inverosimile, il paradosso
maggiore è ancora un altro. Quello per cui nel nostro tema si ha ogni volta una libera scelta fra donne
e la scelta va invece a finire sulla morte, che pur nessuno sceglie e di cui si divien vittima per volontà
del destino. Fortunatamente certe contraddizioni di natura particolare, certe sostituzioni di un
contenuto con un altro diametralmente opposto, non presentano alcuna seria difficoltà all’indagine
psicoanalitica. Non invocheremo qui il fatto che gli opposti, nel linguaggio dell’inconscio, nel sogno
ad esempio, trovano assai frequentemente espressione in un identico e solo elemento. Rammenteremo
invece che nella vita psichica esistono motivi capaci di determinare la conversione nell’opposto
mediante la cosiddetta formazione reattiva, e che proprio nella scoperta di questi motivi tenuti celati
identifichiamo l’acquisizione più pregevole del nostro lavoro. La creazione delle Moire è il prodotto
di una intuizione che rende l’uomo consapevole di essere anch’egli parte della natura, e come tale
soggetto alla legge inesorabile della morte. Contro l’assoggettamento a questa legge qualcosa
nell’uomo doveva ribellarsi, poiché soltanto con grande rammarico egli rinuncia alla sua posizione
di privilegio. Sappiamo già come l’uomo impieghi l’attività della sua fantasia per soddisfare quei
desideri che non trovano appagamento nella realtà. Così la sua fantasia si ribellò all’intuizione calatasi
nel mito delle Moire e creò l’altro mito – che deriva dal primo – nel quale la Dea della Morte fu
sostituita dalla Dea dell’Amore e dalle raffigurazioni umane che ad essa possono essere equiparate.
La terza delle sorelle non soltanto non è più la Morte, ma è addirittura la più bella tra le donne, la più
buona, la più desiderabile, la più degna d’essere amata. Questa sostituzione non era tecnicamente
affatto difficile: era predisposta da un’antica ambivalenza, e si realizzò attraverso antichissime
connessioni che non potevano esser state dimenticate da troppo tempo. La stessa Dea dell’Amore,
che adesso prendeva il posto della Dea della Morte, in origine si era già identificata con lei. Persino
la greca Afrodite non si era completamente disgiunta dai suoi rapporti con l’Averno, benché da lungo
tempo avesse ceduto il suo ruolo ctonico ad altre figure divine, quali Persefone e Artemide-Ecate
triforme. Le grandi divinità-madri dei popoli orientali sembra fossero generatrici e annientatrici
insieme, dee della vita e della fecondità nello stesso tempo che dee della morte. Detto questo, la
sostituzione nel nostro tema dell’oggetto del desiderio col suo opposto si rifà a una identità che ha
origini remotissime. Queste considerazioni soddisfano anche alla domanda circa l’origine di quel
particolare elemento che nel mito delle tre sorelle è dato dalla scelta. Si tratta anche qui di un desiderio
che si esprime mediante un’inversione. La libertà della scelta sta al posto della necessità,
dell’inesorabilità del destino. In tal modo l’uomo vince la morte che ha dovuto riconoscere con
l’intelletto. Non si può immaginare trionfo maggiore dell’appagamento di desiderio. Là dove nella
realtà si è costretti a ubbidire per forza, qui si sceglie; e colei che viene scelta non è la terribile ma la
più bella, la più desiderabile delle creature. (…)
Abbiamo fin qui seguito il mito e la sua trasformazione e speriamo di avere indicato le oscure ragioni
di tale trasformazione. Possiamo ora bene interessarci dell’impiego che ne ha fatto il poeta. La nostra
impressione è che il poeta abbia compiuto la riduzione del motivo al mito primitivo, che in tal modo
è da noi nuovamente avvertito nel suo toccante significato che era stato smorzato dalla deformazione.
Grazie a questa attenuazione della deformazione, cioè al parziale ritorno all’elemento primitivo, il
poeta riesce a suscitare in noi un effetto più profondo. (…) Il poeta ci avvicina all’antico motivo
allorché assegna a un uomo ormai vecchio e prossimo alla morte il compito della scelta fra le tre
sorelle. L’elaborazione regressiva, che egli ha così compiuto sul mito – deformato dal
capovolgimento dei desideri umani – ne lascia trasparire il significato primitivo a tal segno da
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consentirci, forse, anche una piatta interpretazione allegorica delle tre figure femminili del tema. Si
potrebbe affermare che ciò che è qui raffigurato sono le tre relazioni inevitabili dell’uomo nei
confronti della donna: verso colei che lo genera, verso colei che gli è compagna, e verso colei che lo
annienta; o anche le tre forme nelle quali variamente si atteggia per l’uomo, nel corso della vita,
l’immagine materna: la madre vera, la donna amata che egli sceglie secondo l’immagine della madre
e, infine, la madre-terra che lo riprende nel suo seno. Ma quando un uomo è ormai vecchio, il suo
anelito all’amore di una donna, a quell’amore che a suo tempo aveva ottenuto dalla madre, è vano.
Solo la terza delle creature fatali, la silenziosa Dea della Morte, lo accoglierà tra le sue braccia.

PERSONAGGI PSICOPATICI SULLA SCENA 1905

Se scopo del dramma, come si ritiene dai tempi di Aristotele, è quello di suscitare “pietà e terrore”,
di provocare una “purificazione degli affetti”, potremo dire, ampliando tale descrizione, che l’intento
è di far scaturire fonti di piacere o di godimento dalla nostra vita affettiva, allo stesso modo che il
comico, il motto di spirito e simili le fanno sgorgare dalla nostra attività intellettuale la quale, per
altro verso, aveva rese inaccessibili molte di queste fonti. È certo che lo “sfogo” dei propri affetti ha
qui il primo posto (…) Lo spettatore vive troppo poco intensamente, si sente “misero, al quale nulla
di grande può accadere”, da tempo ha dovuto soffocare, o meglio rivolgere altrove, la sua ambizione
di porre sé stesso al centro della macchina mondiale, vuole sentire, agire, plasmare tutto a sua volontà:
in breve, essere un eroe; e gli autori e attori teatrali glielo consentono, permettendogli di identificarsi
con un eroe. (…)
Gli eroi sono innanzitutto ribelli a Dio o a una divinità, e dall’afflizione del più debole di fronte al
potere divino deve scaturire piacere, in virtù del soddisfacimento masochistico e, direttamente, del
godimento insito nella personalità la cui eroica grandezza è pur sempre esaltata. È lo stato d’animo
prometeico dell’uomo, ma frammisto alla disposizione mediocre a lasciarsi temporaneamente placare
da una soddisfazione fugace.
Tema del dramma è dunque ogni genere di sofferenze, dalle quali esso promette di ricavar piacere
per lo spettatore. (…)
Ma la gamma delle possibilità si estende, e il dramma psicologico diventa dramma psicopatologico,
quando il conflitto non è più tra due impulsi pressappoco ugualmente consci, bensì tra una fonte
conscia e una rimossa della sofferenza, alla quale dobbiamo partecipare e dalla quale dobbiamo trarre
piacere. Condizione del godimento è qui che lo spettatore sia anche nevrotico. Infatti solo a un
nevrotico la rivelazione e il riconoscimento più o meno cosciente dell’impulso rimosso possono
procurare piacere e non schietta avversione (…) Il primo di questi drammi moderni è l’Amleto.244
Tratta il tema di un uomo precedentemente normale che diventa nevrotico a causa della particolare
natura del compito assegnatogli; in lui cerca di farsi strada un impulso che fino a quel momento era
stato felicemente rimosso. L’Amleto si distingue per tre caratteristiche, che appaiono importanti per
il nostro problema: 1) l’eroe non è psicopatico, ma lo diviene solo nel corso travolgente dell’azione;
2) l’impulso rimosso è di quelli che sono ugualmente rimossi in tutti noi, la cui rimozione è parte
integrante dei fondamenti della nostra evoluzione personale, e proprio questa rimozione viene scossa
dalla situazione drammatica. Grazie a queste due condizioni ci è facile riconoscerci nell’eroe; siamo
suscettibili come lui dello stesso conflitto, dal momento che “l’uomo che non perde la ragione davanti
a certi avvenimenti, non ha una ragione da perdere”. 3) Ma tale forma artistica sembra porre come
condizione che, quanto più l’impulso che lotta per emergere nella coscienza è riconoscibile con
certezza, tanto meno esso venga chiamato chiaramente per nome, così che nell’ascoltatore il processo
si compia di nuovo mentre la sua attenzione è distratta ed egli sia in preda ai suoi sentimenti invece
di rendersi conto di quanto avviene.

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La negazione 1925

Il modo in cui i nostri pazienti presentano le loro associazioni durante il lavoro analitico ci fornisce
lo spunto per alcune osservazioni interessanti. “Ora Lei penserà che io voglia dire qualche cosa di
offensivo, ma in realtà non ho questa intenzione.” Comprendiamo che questo è il ripudio, mediante
proiezione, di un’associazione che sta or ora emergendo. Oppure: “Lei domanda chi possa essere
questa persona del sogno. Non è mia madre.” Noi rettifichiamo: dunque è la madre. Ci prendiamo la
libertà, nell’interpretazione, di trascurare la negazione e di cogliere il puro contenuto
dell’associazione. (…) Il contenuto rimosso di una rappresentazione o di un pensiero può dunque
penetrare nella coscienza a condizione di lasciarsi negare (…)

PREFAZIONE A “EDGAR POE, STUDIO PSICOANALITICO” DI MARIE BONAPARTE 1933


In questo libro la mia amica e allieva Marie Bonaparte ha proiettato la luce della psicoanalisi sulla
vita e sull’opera di un grande poeta che aveva una natura patologica. Grazie a questo lavoro
interpretativo, si comprende ora fino a che punto i caratteri dell’opera di Poe siano stati condizionati
dalla particolare natura dell’uomo; e si comprende però anche che questa fu a sua volta il sedimento
di legami emotivi e dolorose esperienze risalenti alla sua prima età. Queste ricerche, pur non essendo
intese a spiegare il genio di un autore, mostrano però i motivi che tale genio hanno destato e il
materiale che ad esso è stato recato dal destino. Reputo particolarmente affascinante studiare le leggi
della vita psichica umana in personalità eminenti.

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