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• INTRODUZIONE ALLA LETTURA

Diderot nella sua scrittura ha sempre un interlocutore, l’amico Grimm, un tedesco


che vive in Francia. I Salons altro non sono che lettere a Grimm, da interpretare come
delle maschere: il lettore non deve subire passivamente ma deve capire che se quello che
legge vale o meno e quindi deve esser pronto a cogliere o distruggere la sua lettura dei
quadri dei Salons. Dobbiamo tenere anche presente delle molteplici contraddizioni che
incappano nella lettura: Diderot risulta contraddittorio perché i pensieri nascono
contrastanti e questo, per Diderot, non è da considerare come una contraddizione ma
come una ricchezza dal momento che secondo Diderot stesso, il pensiero nasce dal
contrasto: egli afferma infatti “I miei pensieri sono le mie prostitute”. Per Diderot il quadro
è come una finestra che si può varcare in continuazione: ciò ci mette in luce come in gioco
ci sia la distinzione stessa tra realtà e finzione.
L’ “Académie de peinture et de sculpture”  , creata nel 1648, organizza delle
esposizioni prima private e sempre più pubbliche. I Solons sono delle esposizioni parigine
prima annuali poi biennali tra il 1746 e il 1781: in specifico sono esposizioni di pittura che
iniziano il 25 agosto, giornata della festa del re, e perdurano fino a fine settembre.
L’ingresso era gratuito. Diderot aveva dunque avuto molteplici possibilità di vederli e
commentarli. I più belli sono quelli degli anni 1761, 1763, 1765 e 1767. Il nome ‘Salon’
deriva dal nome del ‘Salon Carè’, salone quadrato collocato all’interno del Louvre. La
forma che Diderot conosce dei Salons è quella dal 1751 in poi. Il primo Salon verrà scritto
con l’invito di Grimm.

Grimm e Diderot si conoscono tramite Rousseau. Quando Grimm chiede a Diderot di
descrivere i Salon, Grimm ne ha già un’esperienza avendone già scritti tre. Non si sa bene
se sia Grimm a chiedere a Diderot di scrivere i Salon o sia Diderot ad insistere sul poter
ottenere questo compito. Altra ipotesi è che probabilmente Grimm stava diventando cieco
e quindi voleva che avesse una relazione scritta e dettagliata dei vari quadri, non
essendoci ancora delle riproduzioni.
Diderot scriveva e pubblica ‘Corrisponce Literaria’, diretta di Grimm, un rivista
molto poco diffusa perché destinata a pochi nobili in tutta Europa e qualche borghese che
se lo poteva permettere che non potevano recarsi ai Salon (pertanto Diderot deve ricreare
con la scrittura i quadri per delle persone che non li vedranno mai: è come se scrivesse ad
e per un ceco. I Slon divengono un nuovo genere letterario). Il francese aveva la
possibilità di esprimere sé stesso: scriveva come e quello che voleva, parolacce incluse.
Diderot ci scrive attraverso lettere che Grimm ricompone e le manda ai suoi lettori.
Diderot scrive in modo infiammato, scrive moltissimo: la sua scrittura viene
infiammata dalla pittura. Il rapporto tra pittura e scrittura viene indagato nei Salon di
Diderot in maniera fortissima.

Chi esponeva?
Non è che la critica d’arte nasce di punto in bianco, ma abbiamo una sorta di
regolarità di esposizioni che permettono la formazione di un pubblico differente e nuovo.
Diderot si comporterà come un critico, ma è errato consideralo tale per il semplice fatto
che non veniva retribuito. Alcuni pittori si rifiuteranno di esporre perché capisce di poter

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esser esposto a sua volta a quello che è il giudizio delle persone: siamo di fronte alla
formazione di un gusto.
L’Academiè indirizza questo nuovo pubblico sia perché è l’istituzione più forte sia
perché ci sono dei valori che vengono trasmessi: in primis il primato della pittura di storia.
Coloro che esponevano erano i membri dell’accademia: un artista per poter offrire
all’accademia la propria opera doveva superare una selezione. Ci sono due momenti:
monsò d’agremont, quello in cui viene accettato l’artista che si propone all’accademia e
monsò da recepsion, quello dell’assunzione. Tutti gli artisti di cui parla Diderot sono stati
accettati dall’accademia e quindi di altissimo livello.
C’è una sorta di gerarchia interna all’Accademia: un pittore non può presentare il
genere che vuole, può farlo ma il modo in cui verrà valutata sarà in base alla gerarchia
interna che prevede la pittura di storia come il genere più alto in assoluto. Si tratta di
soggetti più o meno noti tratti dalla storia antica religiosa o mitologica o dalla storia
recente: questa supremazia si riverbera anche nella disposizione gerarchia prevista
dall’Accademia. Diderot prenderà questa distinzione come buono inizialmente arrivando
poi a metterla in discussione nei saggi sulla pittura del 1766.
È qui che nasce tutto il discorso estetico di Diderot: si può fare pittura di storia anche
con la pittura di genere. La pittura di genere la ritroviamo in Chardin, posto da Diderot
come ‘grande mago’ il più grande esempio di pittura: Diderot dice che riesce a fare della
magia con le tempere anche se si tratta di natura morta. Chardin con la sua pittura è quasi
in grado di ribaltare questa gerarchia. La natura deve poter esser ricreata: “Chardin è in
grado di ricrearci gli occhi”, quindi la sua esperienza pittorica è in grado di donarci uno
sguardo nuovo che non è quello sulla realtà che già conoscevamo e nemmeno qualcosa
di semplicemente aderente a dei canoni estetici. È qualcosa che sta tra la natura e l’arte
che Chardin è in grado di farcelo sentire.
Il Salon è un teatro in cui avviene una ricreazione di occhi: è impossibile uscirne
senza subire una modificazione dei propri occhi e quindi della visione del mondo. Salon
’65. Senza il percorso dei Salon si avrebbero ancora degli occhi superficiali. Alla fine di
questo percorso il rischio è non riconoscere un prezzo prezioso o portare alle stelle
un’opera mediocre. Siamo all’interno di una finzione reale in cui è importante ricreare gli
occhi: ‘dare il tempo all’impressione di arrivare e entrare’.

All’ingresso del Louvre viene dato un libro che si paga in modo che l’Academiè possa
avere dei proventi, ma l’ingresso del Salon rimane gratuito. Da questo sappiamo che
moltissimi parigini andavano ai Salon.

• VARIAZIONI DEL BRUTTO: DAL PATETICO ALL’ORRORE.

Bello vs Brutto.
‘Laideur’ è un articolo scritto sull’Enyiclopedie molto esplicito: si tratta dell’analisi del
patetico all’interno dei Salons. Diderot afferma che dobbiamo avere delle conoscenze o
punti di riferimento o supporti o termini di paragone per poter giudicare dal momento che
nulla in natura è in sé buono o cattivo, bello o brutto. Immaginiamo una macchina che
compone secondo i modelli di Raffaello, questa non farebbe altro che produrre il mondo

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esattamente com’è di cui però conosciamo solo la parte che abitiamo. Ne consegue che
bello bene e rispettivi contrari non trovano spazio in natura. Nulla in natura può esser
giudicato dal momento che questa ragiona in termini di funzionalità. Dobbiamo dunque
trovare un modello che non sia in natura anche perché ciò che viene considerato ‘bello’ in
arte può non esser funzionale in natura (come un albero morto) e viceversa. La
funzionalità quindi non può esser un modello valido. Il pittore infatti utilizza una logica
diversa da quella della natura.
Ma quindi: dove sta il brutto in arte visto che non posso scegliere ciò che è brutto e
non funzionale in natura? Il brutto è e deve esser rappresentato perché anche questo è un
elemento espressivo. Diderot afferma: ben venga il brutto, il sublime, il patetico e l’orrore
quasi insostenibile in arte ma non il disgusto. Come voleva Lessing: il disgusto in pittura è
la natura.
quali sono quindi questi modelli a cui dobbiamo fare riferimento? Ne elabora due:
1.La natura viene vista come grande organismo vivente in cui tutti è correlato
risultando come complesso organizzativo. Scopo è dunque la salvaguardia del tutto.
Quindi per Diderot la natura è in un equilibrio di cui il pittore deve rendere conto: ogni
elemento di un dipinto sarà finalizzato al bell’insieme.
2.La linea vera.
Si tratta di un principio che Diderot mette a punto nel Salon 1767.
Egli afferma che gli antichi non avevano un modello ma solo la natura che sappiamo
non dava modelli. Di fatto abbiamo due possibilità: ritornare al modello degli antichi che
hanno estrapolato dalla natura il loro modello (Linea Vera degli antichi) o ritornare barbari,
allo stato brado nella natura. Quest’ultima cosa però non è possibile poiché ormai siamo
inseriti in un contesto culturale. Possiamo ritornare al modello degli antichi attraverso una
lunga e attenta osservazione della natura, dobbiamo ritrovare quel modello ideale della
bellezza che nessun maestro può infondere agli allievi: o l’allievo conserva la genialità
appresa dal maestro o lo imita, restando dunque una brutta copia della genialità del
maestro. Quindi se abbiamo un modello possiamo iniziare a giudicare attenendoci a quel
modello.
La linea vera è il discrimine che si interpone tra verità e immagine di verità: il modello
preesiste alla sua realizzazione.
La genialità di un artista può farsi attendere poiché dipende dalle condizioni esterne in cui
viviamo. Lo stesso Kant afferma che la genialità è innata all’animo umano: o lo si ha o non
lo si ha. Il modello originario si corrompe nel tempo e diviene artefatto, mera ripetizione di
cose già viste: la linea vera si altera e diviene di cattivo gusto. L’artificio quindi si
sostituisce alla verità. In questo ambito Diderot fa continui riferimento all’attore Gherric:
esso stesso costituisce un modello.
È quello che Diderot ritrova anche nel dramma borghese: l’attore deve muoversi in
modo realistico, deve trovare una sua forma di originalità perché se si rifà al proprio
maestro compierà un’imitazione e non risulterà più nuovo, ma qualcosa di già visto. “Chi
nasce sapiente resta mediocre”: credendo di esser sapiente non si va più alla ricerca di un
modello restando quello che si è. Nel dramma borghese si deve idealizzare il quotidiano o
ridurre l’ideale alla quotidianità traducendolo in una quotidianità che si può capire. Diderot
quando andava a teatro si tappava le orecchie sostenendo che la parola altro non era che

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un qualcosa di superfluo perché se un attore era bravo era in grado di far parlare il proprio
corpo attraverso la gestualità senza l’utilizzo della parola, altrimenti poteva fare come la
donna dipinta nel quadro di Hallè, allievo di Baucher, che ci mostra le spalle senza quindi
mostrarci il proprio volte e di conseguenza le sue espressione impedendoci di conoscere
quale sia il suo dramma.
Risulta quindi impossibile eguagliare gli antichi. Lavorare per imitazione è molto
pericoloso. Noi dobbiamo effettuare il processo inverso degli antichi per giungere ad un
modello per poi ritornare alla natura. I pittori devono cercare il loro modello senza basarsi
su quelli già presenti, tenendo in considerazione le proprie capacità: deve ricercare il
proprio ideale pittorico.
Il modello incontra il particolare, il particolare assurge al modello che viene
modificato in base a quello stesso particolare (vedi una venatura di un blocco di marmo ad
esempio): è quel particolare che consente all’opera di vivere per particolarità.
Il codice delle passioni.
Per il patetico quello che conta è la resa emozionale e non quella esecutiva: il
patetico brutto non emoziona a differenza di quello bello. La perfezione stilistica passa in
secondo piano rispetto all’emozionalità. Bouchet dipinge assenza di naturalezza,
artificiosità, mancanze si verità: dipinge ma non emoziona poiché lo spettatore non riesce
a leggere i segni passionali sul volto dei suoi personaggi. Il bravo artista deve saper ridare
l’emozione originale. Quindi, il brutto riferito all’oggetto può esser di due tipi:
- Relativo alla forma attraverso il tradimento di verità e modelli.
- Nel patetico, con la mancanza di calore, fuoco, sincerità e passione.
Per Diderot l’esempio massimo di patetico è rappresentato dalla pittura di Greuze
per tableau vivent: si tratta del riassunto di una scena appena svolta o che ancora si deve
svolgere. Ognuno ha un ruolo e se tal ruolo viene a mancare bisogna riscrivere il pezzo
tutto da capo: c’è dunque un centro narrativo che in Baucher manca. Con Greuze siamo in
grado di ricostruisce la scena narrativa anche attraverso l’immaginazione perché la sua
pittura è una narrazione che fissa in un’immagine, in un gesti, lo svolgersi di un racconto in
cui volti e posizioni non sono casuali. Diderot davanti ad un quadro di Greuze dice “bello,
bellissimo, sublime. Tutto tutto”. Con i personaggi di Greuze possiamo dire che siamo di
fronte a tipi di espressioni perché quei volti altro non sono che delle maschere espressive
di un patetico che narra la storia in divenire per più quadri.
Non può quindi non venirci in mente Richardson, noto per “Pamela” e “Clarissa”.
Diderot gli scrive un elogio: quando Richardson descrive i suoi protagonisti divengono una
parte di noi, come a noi familiari. Egli prende a modello il mondo, creando quindi natura,
anche se questa è da considerare anche come mostro capace di casualità e regolarità. In
Richardson abbiamo un continuo oscillare tra natura e modello, con l’uno che si adatta
all’altro. Il patetico nei suoi racconti ci accompagna perché risponde alla domanda “cosa
faremmo se ci trovassimo nella loro situazione?”. Diderot afferma che l’affettazione dei
grandi maestri non gli appartiene: Richardson non ha bisogno della
tirata perché non gli appartiene, tutto è già scritto. Il pennello di Greuze
equivale alla penna di Richardson. Dovrebbe quindi venirci in mente
Burke: siamo proprio nella dimensione del diletto di Burke.
- > Greuze: fanciulla triste per un uccellino morto.

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Una fanciulla piange per un uccellino morto. Diderot fa tutto un ragionamento sul
motivo della pateticità dell’immagine. La fanciulla è triste per un uccellino morto che gli
aveva regalato il fidanzato come pegno d’amore. Potrebbe dunque trattarsi di un segno
premonitore: l’uccellino è morte perché non me ne sono presa cura così il mio finirà
perché non l’ho coltivato. A questo punto Diderot inserisce nel contesto la madre: la
fanciulla non ha coltivato il suo amore per via di una madre opprimente che le impedisce di
viverlo. Ora Diderot arriva al caso estremo: la fanciulla è triste perché ha perso la sua
verginità. Passo indietro. Il quadro è patetico e comunicativo indipendentemente dalla
causa: la fanciulla è triste per la perdita dell’uccellino che la legava a qualcosa.
Indipendentemente dalla natura della perdita, il ricordo di tal perdita innesta il patetico.
Fanatismo e furore: il teatro nella mitologia cristiana.
L’arte religiosa ha bisogno di intensità, raccoglimento e terrore; la religione è
passione spinta al fanatismo: infatti i suoi crimini sono il fondamento dell’orrore che volge
verso un patetico estremo. Ci vogliono crimini per far nascere una mitologia, il primo:
l’uccisione di Cristo. Il valore della mitologia classica e cristiana viene dibattuta nella
querelle tra Antichi e Moderni ed essendo Diderot lontano da questa si sente libero di
giudicare: se per i soggetti religiosi esalta l’eccesso che innesca il fanatismo, per i classici
predilige una maggiore semplicità rappresentata in un attimo colto al suo culmine
rappresentativo. Le due mitologie non devono sovrapporsi, altrimenti si cadrebbe nel
brutto e nel cattivo gusto. Deve esser rispettata solo la verità che è modello, linea vera.
Quello che Diderot predilige è un gusto per la teatralità dell’unità: è nell’unità
rappresentativa che si coglie il tutto. Ma quando si descrive tutto non si immagina nulla e
se ci viene offerto di più, non siamo più di fronte ad un’opera d’arte. Il discorso di Diderot,
vale anche per Lessing: bisogno cogliere l’istante fecondo. Si parla di un ‘teatro sacro’ il
cui patetico deve esser contenuto, rimanere nei limiti della natura. L’istante fecondo si
risolve non tanto in gesti e posizioni ma nella scelta delle circostanze e del momento in cui
vengono espresse attraverso i gesti. Se il quadro sa narrare, allora il pittore assurge al
sublime.
La pateticità non dipende da quello che il quadro rappresenta ma da quello che
Diderot ne trae dal racconto del quadro: dipende quindi da quanto si commuove. La
pateticità dipende dal gesto.
L’orrore e il disgusto.
Diderot non disdegna l’orrore ma l’eccesso di questo, il disgusto. Risulta esser un
trasgressione. Un esempio lo è il cadavere: non è il cadavere in sé a provocare disgusto
dal momento che la storia dell’arte è piena di queste rappresentazioni, ma ciò che ne
evidenzia eccesso e sintomi quindi la morte e i caratteri che a lei si rifanno. Ci sono
immagini infatti che costringono il fruitore a distogliere lo sguardo: se questo avviene
l’artista ha fallito dal momento che avrebbe dovuto attirare l’attenzione di questo non sulle
cose disgustose ma sue quelle orribili e paurose.
Un quadro che rappresenta orrore e disgusto dovrebbe svilupparsi si diversi piani in
modo che l’occhio possa scegliere dove ricadere; ma se la linea di suddivisione dei piani si
aggroviglia, l’immaginazione non riesce a trovare un collegamento tra i piani e si
confonde.

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Eppure c’è un disgusto che si può sopportare: prendiamo il caso de Le Raie di
Chardin. Dove sta il piacere visti animali morti e sangue? La tecnica qui ci consente si
superare il disgusto dandoci quella magia in più. Nel Salon del 1763 scrive che l’oggetto è
disgustoso ma come c’è la frutta c’è la carne del pesce pertanto se fosse l’ presente non ci
colpirebbe diversamente. La tecnica ci consente il superamento dell’orrore ma deve esser
elevatissima. La qualità della rappresentazione salva il
rappresentato. Si tratta di soggetti brutti da vedere,
impressionanti, nella polarità di orrore e disgusto, ma
qualitativamente belli: si rende illusione la realtà
attraverso la tecnica. Questa è la magia di Charidn. Nella
riproduzione fedele c’è il ruolo della tecnica, quella
stessa di Gherrick che riusciva a far piangere baciando
un cuscino.
Al pittore non serve scorticare l’uomo per comprenderne
costituzione interna e esterna perché sono movimento,
vita ed espressività che vanno lette e interpretate. Diderot stigmatizza quell’artista che per
eccesso di zelo a causa di uno studio anatomico ossessivo ed eccessivo per i particolari
anatomici lascia trasparire sotto la pelle la carne e le vene.
Maestro dell’orrore sublime si rivela
Pussin con il suo “Paysage au serpent”. La
scena rappresenta in primo piano una donna
che viene stritolata da un serpente,
successivamente un uomo assiste all’orrore e
una donna prova una reazione di orrore alla
vista dell’uomo che vede l’orrore. Sul fondo
notiamo dei viandanti.
Diderot sostiene che sono proprio qui
viandanti a correre il pericolo maggiore per il
semplice fatto che sono ignari di quello che sta accadendo. Se quelli che sono in primo
piano, le tre persone collegate tra loro, sono a conoscenza di quello che sta succedendo e
potrebbero forse scampare o comunque sono a conoscenza di quello che li attende, i
viandanti non lo sanno: lo spettatore invece è a conoscenza di tutte queste cose. Diderot
afferma l’importanza di un quadro che debba tendere al patetico, quegli stessi viandanti
potremmo esser noi: si ha un trasporto di una pateticità narrativa in una vissuta.
Tradire la natura, tradire la verità.
Per riconoscere il manierismo basta un animo corrotto perché all’uomo di buon gusto
lo stile manieristico risulta più insopportabile della bruttezza. È quello che avviene in
Boucher, tanto criticato da Diderot: se si è in grado di esaltare luce, colori, temi, varietà,
non si riscontrerà mai in lui la verità. Questi rappresenta tutto quello che Diderot aborra: il
corrotto e il corruttibile, il gusto comune e il cattivo gusto. Boucher risulta esser apprezzato
da una cerchia di fruitori corrotti e corruttibili. La riforma del gusto passa anche attraverso

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la rivendicazione di buon gusto che necessita l’eliminazione delle mele marce. Pastorales
et paysages: Diderot afferma che l’opera è in grado di attirare e ipnotizzare l’occhio, ma è
estremamente falsa perché presenta quell’ecco di pathos che Diderot vuole venga
limitato. La composizione deve rientrare nell’arte del
possibile, del ritrarre ciò che la natura è: Boucher
tradisce la natura poiché non rispetta i principi di
equilibrio e armonio in cui, ad esempio, non rientrano
dee o angioletti. I suoi seguaci non hanno nemmeno
il suo tocco e semplicemente falliscono.
La critica di Diderot al cattivo gusto raggiunge
l’apice nel Salon 1765 in cui sostiene che l’opera
debba coinvolgere ed esser disinteressatamente
interessante. Le regole del buon gusto non sono
prescrittive o innate, ma si apprendono con l’abitudine sin da giovani. Sono abitudine e
sensibilità che danno al critico quel qualcosa in più. Ma non tutti sono dotati della
medesima sensibilità. La natura viene vista come una donna che nel vestirsi lascia
intravedere ora una parte ora un’altra dando la speranza a chi la segue con assiduità di
poterla conoscere un giorno interamente. Il buon gusto diviene quindi anche riforma
morale.
Voluttuosi sono Bachelier e Lagrenee per la loro Carità romana. Se in
Bachelier l’opera funzione nel senso che l’unità pittorica coincide con
la richiesta di negare la presenza dello spettatore (non abbiamo
nessun atteggiamento di guardoni, loro non sanno che siamo lì, solo
una soldato di passaggio), dall’altra fallisce per l’estrema freddezza dei
personaggi. In Lagrenee accade poi che la donna è estremamente
giovane con un seno molto turgido mentre il vecchio sembra esser in
carne e non soffrire suggerendo quindi un atteggiamento ambiguo.
Quindi solo chi non sa cosa si patisce in prigione potrebbe esser
attratto da questo quadro.
Nel Marco Aurelio di Vien avviene poi di peggio. Su
di una balaustra due soldati distribuiscono il pane alle
persone sottostanti: un bambino che mangia con accanto
la madre; nel frattempo avviene il passaggio di Marco
Aurelio con la propria scorta: si ferma a guardare la
donna inginocchiata che gli tende le mani. Un po’ più a
sinistra una donna morta. Se si osserva bene, notiamo
che: la donna che riceve il pane non ha le mani poste nel
modo giusto; il bambino che mangia non lo fa in modo
avido perché soffre la fame, infatti è cicciottello perchè
troppo nutrito, una donna muore senza trasparire alcun
dolore, Marco Aurelio sembra esser apatico. Questa dovrebbe esser una scena altamente
patica e invece non lo è. Il tentativo di Vien di far rivivere il gusto alla greca sono
miseramente falliti.

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Hallè, L’Imperatore Traiano. Qui nulla funziona. Traiano
occupa il centro della figura rivolto verso una donna
inginocchiata tra due fanciulli; accanto all’imperatore un
soldato trattiene il suo cavallo per le briglie. I puttini sono
troppo paffutelli; l’imperatore è troppo statico; la donna è di
spalle e non ci fa capire la sua espressione e quindi non
potremmo leggere nel suo volto quale sia il suo dramma,
essendo di spalle potrebbe anche esser un uomo, ma di
fatto attira lo sguardo solo per la sua veste blu. L’unica cosa
che si salva, ma non del tutto, per Diderot è il cavallo:
sembra quasi una parvenza che si va a confondere con le nuvole. Il cielo è troppo chiaro e
tutta la zona in cui vi è Traiano è senza colore.

• TRA PIGMALIONE E GARRICK: LA PITTURA ALL’INCROCIO DELLE
ARTI.

Le arti della rappresentazione e lo statuto della fruizione estetica.
La pittura gioca un ruolo fondamentale nei Salon. Qui la modalità d’esposizione delle
opere in modo caotico, ammassate e senza criterio, sarebbe oggi considerato
impensabile, ma allora era molto apprezzato; lo stesso libretto che veniva consegnato
all’ingresso conteneva le opere disposte pittore per pittore e non d’esposizione.
La riflessione di Diderot sulla pittura deve esser inserita in un contesto molto più
ampio che riguarda tutte le arti in generale, in particolare a quella teatrale: in effetti la
stesura dei Salons avvenne dopo il 1759 ovvero dopo che Diderot finì di scrivere alcune
opere teatrali. Infatti più che altro si parla di interesse per la rappresentazione dato che,
secondo Diderot, la pittura è come uno spettacolo, ovvero una rappresentazione. Il fatto
del disinteresse affinchè un’opera possa esser apprezzata a pieno dal pubblico, si
accentua nel Salons perché investe per primis il rapporto epistolare tra Diderot e Grimm.
Pur riconoscendo alle diverse arti il comune fine dell’imitazione della natura, Diderot
si preoccupa in primis di sottolineare i diversi mezzi che queste utilizzano per il
raggiungimento del loro scopo. Ogni arte è imitazione di qualcosa perché trae ispirazione
da un modello che sia reale oppure ideale nella mente dell’artista. Diderot si appresta
dunque a fare un confronto tra arte e poesia: egli non pensa un’imitazione reciproca di
queste due arti perché non c’è una gerarchia delle arti di conseguenza è impensabile che
un autore cerchi di imitarne un altro.
Esaltando la possibilità di incrocio fra le arti, Diderot rifiuta una gerarchia tra le arti
perché di fatto però può accadere che un bel quadro ispiri per una bella poesia, ma non
necessariamente può accadere il contrario e questo perché pittura e poesia utilizzano
mezzi diversi: basta pensa a come sarebbe difficile rappresentare la scena descritta da
Virgilio quando Nettuno emerge dalle acque. Con questo non si sta dicendo che il pittore
non può rifarsi ai classici per le proprie rappresentazioni, ma che deve far riferimento ad
un’immaginazione plastica diversa da quella del poeta perché deve esser in grado di
tradurre in immagine quello che il poeta vuole dire, le stesse sensazioni.

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Il linguaggio della pittura non è la natura, sebbene la dipinga, ma la materialità del
colore con il quale crea combinazioni autonome e indipendenti dalla natura: si parla di
opacità della pittura.
Quando Diderot effettua confronti tra le arti, lo fa attraverso l’uso di queste che fanno
dell’immaginazione, la quale risulta essere ovviamente utilizzata in maniera diversa: ad
esempio un poeta o un romanziera risultano lasciar più spazio d’immaginazione al lettore
attraverso la semplice non descrizione di un personaggio, stessa cosa vale per lo schizzo.
In pittura l’immaginazione è molto più vincolata e regolata.
Si potrebbe dunque pensare ad una gradazione delle arti a seconda dell’utilizzo più o
meno massiccio di immaginazione ed espressione. L’unità delle arti viene riconosciuta non
tanto dall’interesse mimetico con cui esse si rivolgono alla realtà, quanto ad una più
profonda comunanza di effetti patetici prodotti nel pubblico che attraverso i sensi
raggiungono l’anima.

Il paradosso del pittore: il paradigma attoriale e la pittura.
Diderot cerca di pensare alla logica della creazione artistica: quando pensa al pittore
davanti alla tela pensa al confronto con l’attore per la propria performance. Tale riflessione
avviene soprattutto per la pittura ritrattistica perché il pittore deve rapportarsi al soggetto
interpretandolo ma senza immedesimarsi troppo, come fa l’attore con i propri ruoli.
L’autore è freddo, ma il lavoro è caldo: effetti patetici ed emotivi nonostante una creazione
fredda e distaccata. Ad esempio Greuze sembra vivere le emozioni dei suoi personaggi,
La Tour appare glaciale.
Nei Salon la pittura attraversa grandi modelli significativi: il confronto avviene sempre
tra il contemporaneo e il classico. Tale confronto risulta esser uno dei metodi per
descrivere il valore di un’opera. La pittura e il teatro sono in grado di stimolare, ma la
prima non deve farsi imitazione della seconda, altrimenti ne risulterebbe una brutta copia.
Se la pittura gode di un primato rispetto al teatro consiste nel fatto che il suo linguaggio è
più naturale e originario.
Il paradigma teatro opera nella pittura come se fosse una scena teatrale. Il
paradigma teatro agisce nel processo di fruizione dell’opera perché quando guardo un
quadro metto in atto un processo di ricostruzione delle scene.
L’immaginazione: il teatro virtuale della pittura e l’elaborazione del modello
ideale.
Lo spettatore a teatro si ritrova come di fronte ad un quadro, ovvero con una
successione di istanti tradotti in immagini, cosa che già sappiamo esser stata teorizzata da
Du Bos. Diderot vede nella pittura e in particolare in quella classicista rinascimentale, dei
modelli/paradigmi che possono ispirare l’attore. Infatti le regole pittoriche possono esser
applicate alla pantomima, ad esempio. Quello che fa Diderot è cercare di fare una riforma
del teatro: la pittura può suggerire al teatro rappresentazioni sublimi e patetiche.
Fragonard, Coreso e Calliroe. La descrizione
drammatica è travestita da visione onirica: si riconosce nel
quadro un momento culminante di una serie di successioni
visive. Quindi non rappresenta l’interpretazione di un testo
letterario ma il ritaglio ideale di una sequenza di immagini

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che l’immaginazione dello spettatore può liberare durante la sua fruizione. Greuze
costituisce agli occhi di Diderot l’eroe di un’immaginazione visiva capace di trasformare in
dispositivo scenico una storia. Ma l’immaginazione è vincolata alle regole dell’arte e alla
possibilità spaziale offerta dalla tela. Risulta quindi l’impossibilità di un pittore di realizzare
un quadro sottoposto o commissionato da altri perchè ordine e composizione devono
esser lasciate a immaginazione e creatività del pittore.
Diderot vuole farci capire che ogni attività artistica necessita un modello di
comparazione ideale che guidi il genio nella creazione e il gusto nel giudizio e che
permetta di legittimare l’intersoggettività del gusto. Il modello ideale non è possibile ma
necessario, divenendo punto di partenza per una riforma morale riconosciuta da tutti. Il
modello è per il pittore come per l’attore nel suo paradosso: è nello sforzo produttivo che
rileva l’imitazione come poesia. Ciò porta al rovesciamento della teoria di Winckelmann
che vede nell’imitazione degli antichi l’unica via per la grandezza artistica.
Un’archeologia del modello ideale: Diderot, la scultura e Flaconet.
Diderot ha un rapporto ambivalente nei confronti della scultura perché se da una
parte dice che non è in grado di giudicarla dal momento che non possiede le conoscenze
tecniche adeguate, dall’altra parte dice che i suoi soggetti sono da considerare inferiori
rispetto a quelli della pittura dal momento che rappresenta solo la parte ideale della
natura. La scultura si pone dunque come ideale e patetico che potrebbe portare un
rinnovamento alle arti plastiche essendo più antica, fatta anche per i cechi, per esser
osservata da più punti di vista. Richiede inoltre molta esperienza, e poi non la si può
lasciare a metà.
La scultura si anima come una pittura essendo una trasfigurazione estetica di un
materiale difficile da lavorare. Secondo Diderot, appare come un’arte destinata a durare
per sempre dato che la pittura tende a deteriorarsi: di fatto degli antichi ci sono pervenuti
bassorilievi, non dipinti o affreschi. La pittura da quindi una temporalità all’arte. Importante
è dunque anche l’incisione che permette la conservazione di un supporto originale
altrimenti assente: tuttavia però qui l’espressività e l’originalità sta solo nella modalità di
esecuzione e non del contenuto dato che deve rimanere fedele all’originale. Un discorso
analogo lo si potrebbe fare del calco: da sempre considerato minore perché mera copia
del reale, viene rivalutato dall’arte contemporanea come la scultura iperrealista di Bruce
Naumon. Con il calco però lo sculture si avvicina al modello naturale, ma senza troppi
sforzi.
È ancora più significativo il fatto che Diderot utilizzi la scultura come paragone per
giudicare il fallimento di alcune opere pittoriche, come per Boucher: le sue figure non sono
trasportabili in scultura che richiede severità e castità.
Per Diderot, indipendentemente dal soggetto, la statua deve operare la metamorfosi
del marmo in carne vivente; la mimesi dell’attore assume ancora
una volta l’aspetto di una performance attoriale di messa in scena
teatrale: la scultura si anima come l’attore diventa il personaggio
sulla scena. Un esempio lo abbiamo nella Galatea e Pigmalione di
Flaconet. Il mito permette di concepire le implicazioni estetiche e
antropomorfiche mettendo in scena il rapporto tra eros e
contemplazione, mettendo poi in evidenza i limiti della fruizione e lo

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statuto di disinteresse interessato dello spettatore. Falconet è stato in grado di mettere in
scena il mito, ma Diderot suggerisce delle modifiche: Pigmalione avrebbe dovuto da una
parte toccare la donna e con l’altra tenere in mano lo scalpello. In questo odo l’immagine
ci trasmetterebbe lo sforzo dell’artista di avvicinamento e presa di distanza dalla sua
creazione.

• ARTE E NATURA: DIDEROT E I PAESAGGISTI.

I ragni, le tele.
Nel dibattito tra Antichi e Moderni risulta che i filosofi si possano paragonare ai dei
ragni: essi fanno la tela del loro pensiero, infatti hanno perso il rapporto diretto con la
natura cercando di capire chi è l’uomo a partire dall’esercizio del pensiero stesso. Gli
Antichi esprimono un rapporto con la natura, come le api escono dall’alveare andando in
cerca di fiori che possono permettere loro di nutrirsi: il nutrimento viene dal di fuori.
Diderot, quindi, è ape o ragno? Soprattutto nel Salons, Diderot ha tentato di tracciare
un ponte tra le urgenze di antichi e moderni e quindi possiamo dire che nei Salons si crea
un dialogo tra loro, permettendo ai filosofi di recuperare il rapporto con la natura: si avverte
infatti l’urgenza di trovare un rapporto con la natura, che sia diretto o indiretto. L’immagine
del ragno è ambivalente: con la bava costruisce con sapienza delle ragnatele, ovvero
ordini di senso e un pensiero che deve essere espresso all’interno di forme, che possono
essere tanto discorsi filosofici quanto opere d’arte. Il nostro filosofo deve ammettere di
aver bisogno di esprimere quello che ha nella mente e deve ammettere che non riuscirà
mai a dominare le ragnatele: non c’è possibilità di dominare il mondo e le proprie forme
espressive che hanno un valore momentaneo.
L’uomo è ben presente nei Salons. Esso si presenta come cogitans aestheticus
faber ovvero in grado di produrre forme espressive culturali come le opere d’arte. I fasci di
fibre e le molecole che si raggruppano in esse presentano una sorta di ritmo, di azione-
reazione: pensando ad un corpo animato lo pensiamo come principio di fondo di azione-
reazione, di simpatia-antipatia, tutti termini che ritroviamo quando Diderot parla dei colori.
L’immagine di un quadro serve a farci capire come funziona la nostra anima: noi
dipingiamo continuamente nella nostra mente, essa pertanto risulta come un quadro in
costante movimento e mutamento, che viene attivato ogni volta che noi entriamo in
contatto col mondo esterno e con la natura.
La natura premièr voie d’institution. Tra ricerca dei principi e descrizione dei
fenomeni.
In quanto via istitutiva l’arte, la natura viene associata all’idea del creare e del
produrre e è in questo senso che il rapporto tra Antichi e Moderni debba esser
reimpostato: i Moderni devono guardare agli Antichi come maestri imitatori della natura di
cui seppero cogliere l’incessante divenire e quindi il pittore deve rendere la sua attività il
più possibile vicina a quella della natura. Bisogna dunque riscoprire l’arte antica non come
oggetto in quanto tale ma come punto di partenza per rinnovare il proprio rapporto con la
natura. Da qui la critica contro chi riteneva la bella natura come frutto di una selezione
della parti migliori (Batteaux).

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Facendo della natura un oggetto di conoscenza, l’uomo si tira fuori dalla natura
stessa, diventa colui che la osserva dall’esterno e questo per Diderot non è possibile
perchè l’uomo è un essere naturale e corporeo. Diderot dice di sentirsi un ragno, ma chi
vuole davvero conoscere la natura deve pensare di essere un po’ come un’ ape. Optare
per uno studio della natura a livello di esperienza sensibile significa allontanarsi dalla
teologia e dalle scienze esatte che altrimenti la ridurrebbero ad una sequenza di di
fenomeni.
La natura è animata in modo ritmico, polare: la natura è naturante, ovvero è principio
vitale che anima ogni fenomeno di cui noi facciamo esperienza, è natura naturans.
L’artista riesce a cogliere questa polarità della natura, composta da forze che si
contrappongono e dal suo essere energia, animazione. Il paesaggista ci mostra la natura
nel suo darsi: ci mostra la natura che a noi si mostra nei suoi rapporti di forze. Egli ci
presenta la natura nel suo mostrarsi a noi, cercando di avvicinarci alla proposta di
paesaggio come messa in scena: la natura infatti è caratterizzata da un succedersi di
scene in quanto ordini momentanei. Il paesaggio secondo Diderot deve essere animato: il
fruitore deve percepire la vita, la natura vivente nel suo prendere forma. Molto spesso i
paesaggi sono rappresentazione di fenomeni di passaggio (alba, tramonto ecc): a Diderot
interessa che il fruitore percepisca l’essere metamorfico della natura. Insiste anche sulla
“magia” del dipinto, quando esso è capace di generare l’illusione delle presenza, “come
se” i fenomeni naturali si realizzassero al nostro cospetto.
Il pittore manovale e la bella natura.
Quando noi pensiamo ad un dipinto noi sappiamo che dietro vi è stata
un’elaborazione da parte del pittore: egli infatti prima compie un’esperienza poi arriva il
quadro vero e proprio. Questo percorso può essere percorso a ritroso, ovvero è possibile
partire dal dipinto per ritornare all’esperienza ed è quello che cercherà di dimostrare
Diderot quando parlerà di Vernet.
L’immagine mentale è una sorta di schizzo, un abbozzo che richiede la pazienza del
fare. Questo può spiegarci quanto diventa efficace riprendere l’immagine del ragno, per
giocare sul doppio significato della tela: la tela del ragno è la tela del pittore, che diventa
ordine allo stato nascente che il pittore cerca di elaborare in modo che il fruitore possa
cogliere l’ordine della natura. Già la natura presenta un ordine, che però l’uomo attraverso
la conoscenza e il proprio fare, ovvero l’arte, può esplicitare. Possiamo quindi dire che
Diderot deve molto alla scuola dell’empirismo e a Locke, ma cerca di elaborare un teoria
conoscitiva nuova, che sta tra l’empirismo e la ricerca kantiana: l’artista deve esplicitare un
ordine, anche delle leggi, che il filosofo non riesce a spiegare. L’artista dipingendo un
paesaggio può superare la filosofia stessa: la filosofia ha dei limiti perché non può essere
racchiusa in leggi astratte, perché il rischio è quello di perdere il principio vitale che viene
invece colto dall’artista.
Observer: la ri-creazione dello sguardo.
Il pittore per prima cosa deve osservare. Questi diviene spettatore della natura, ma
pur mantenendosi tale non potrà mai osservarla dall’esterno perché è immerso in essa
pertanto tutti i sensi verranno coinvolti. I momenti dipinti scelti, si presentano a noi come
se di fronte a noi si stessero svolgendo al nostro cospetto. Diderot immagina di
passeggiare attraverso i dipinti di Vernet: immagina di attraversare i luoghi che l’artista ha

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dipinto accompagnando il fruitore all’ interno di un percorso non solo visivo, ma che
coinvolge tutto i sensi.
Ma il corretto funzionamento dei nostri occhi non significa che noi vediamo: serve un
allenamento della vista, un esercizio quindi esperienza. Ciò implica un processo cognitivo
che dalla sensazione giunge all’idea. Possiamo a questo punto riscontrare delle
conseguenze:
- L’esperienza è un atto che non procede mai allo stesso modo.
- La realtà è mutevole e diversificata perciò dobbiamo uscire dagli schemi fisse che ci
aiutano ad identificare le forme, come sfera o cubo.
Mediante la pittura lo sguardo giunge al culmine del proprio processo educativo sino
al punto di ricreare un secondo sguardo che dipende dalla magia sprigionata dal dipinto e
dalla capacità dell’osservatore di patirli senza farsi assoggettare. Per ricrearsi lo sguardo
necessita di una sospensione della realtà: paradossalmente solo così è possibile cogliere
la realtà delle cose. ma la ricreazione dello sguardo comporta anche un lavoro
immaginifico sia inventivo sia creativo che però non astrae isolando i dati visibili da quelli
fornitici dagli altri sensi.

• DIDEROT E GLI OCCHI DEL NOVECENTO: PERCORSI DELL’INVISIBILE
NEI SALONS.

Diderot solonnier: i suoi occhi.
“Il percorso dell’invisibile” è una frase che viene presa da una lettera che Diderot
scrive a Sophie Voillard il 10 Giugno 1759. Proprio in quell’ano Diderot inizia a scrivere al
buio quello che lui vede durante il giorno nei Salons: si tratta di una metodologia di
scrittura che va incontro ai non vedenti dal momento che i destinatari dei suoi scritti erano
proprio quegli aristocratici che non potevano vedere i Salons per ragioni varie. Diderot qui
ci pone il problema dell’invisibile che verrà ripreso poi dal ‘900.
In cosa consiste questo invisibile? Per Diderot vedere un quadro significa vedere un
teatro di forze ovviamente invisibili, disgreganti e aggreganti, forze primitive e energia
primaria (concetti che ritroviamo in Strarobinsky). La pateticità deriva da una
intersoggettività tra me e queste forze invisibili. Chiaro ed esplicito è il rifermento a Paul
Klee: la pittura non deve imitare l’invisibile ma la pittura deve rendere visibile aspetti della
realtà altrimenti incogli bili e inconoscibili.
Vede l’aria?
Come prima definizione potremmo dire che si tratta di qualcosa molto in concreto.
Ma vedere l’aria per Diderot significa qualcos’altro.
Ovviamente in Francia era nota, studiata e applicata la prospettiva aera di Leonardo,
ma il significato a cui si rifà Diderot va oltre questo concetto. Diderot afferma che quando
si parla di esprimere un gesto significa esprimere gesti incorporei, e quindi l’aria è
qualcosa di non riconducibile alla sensibilità del quadro: la materia non esaurisce in un
quadro ciò che noi vediamo.
Emerge dunque una definizione di aria molto diversa dalle definizioni precedenti, ma
di fatto l’aria per Diderot si applica a tutte le dimensioni e i dettagli del quadro: spesso
troviamo il francese attento alla descrizione di piccolissimi oggetti in cui nota l’aria

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letteralmente entrare. Diderot afferma che è importante che venga resa attraverso il
colore: il pittore ci fa vedere la mera percezione e quello che va oltre il colore, quindi la
fisicità del colore nasconde un significato invisibile. (autocritica: potrebbe esser un
accostamento indebito dal momento che non ci sono riferimenti).
L’aria risulta quindi esser sensibile a eventi che si creano sulla tela. Sono eventi che
non vengono dati per scontati pertanto dobbiamo esser in grado di percepirli. Greuze ci fa
sentire qualcosa non riconducibile alla sensibilità del quadro: è tra i colori che vediamo
quella sensibilità altrimenti invisibile.
Se riusciamo a vedere in questo modo l’invisibilità, i nostri occhi cambierebbe per
sempre il loro modo di vedere il mondo. “Il mondo non esiste come dato in sé”, è quello
che afferma Proust. Ci sta dicendo che il mondo viene ricreato ogni volta che un artista
cambia il modo di vedere il mondo: in sostanza, il mondo risulta esser una concrezione di
visioni per abitudini. Non dobbiamo però pensare che il mondo sia lì ad aspettare
l’interpretazione di ciascuno di noi, ma che la pittura è in grado di ricrearci un mondo.
Lo spatium del quadro.
È in poche parole il problema della resa della carnagione, problema che Didi-
Huberman si pone ed è cruciale come l’aria per Diderot. Problema: si deve render la
carnalità in pittura ma non da un punto di vista cromatico, ma della vibrazione superficiale
della carne. Bisogna rendere l’invisibile della carne; “visibile, ma non ancora visto”:
sappiamo che quella vibrazione della carnalità c’è in potenza ma non riusciamo a
riprodurla e coglierla attraverso il colore.
Non funziona nel ‘900 la traduzione pittorica dell’idea platonica, ovvero: non è che si
ha l’idea, la traduzione di questa e quindi una materialità dell’idea. Non funziona così per il
‘900, ma esiste quel miracolo di una donazione dell’idea attraverso la pittura. Il pittore
scopre che attraverso la materialità del colore è in grado idi rendere esistenza a qualcosa.
L’incarnato diviene per Didi-Huberman l’Euridice del pittore, ovvero una profondità
immateriale intensiva verso l’invisibile in cui si deve scendere per riportare in vita
(muovere) il colore. Il problema è che diviene qualcosa che esaurisce il pittore ma che non
ha fine.
Didi-Huberman dedica il problema dell’incarnato al “Capolavoro sconosciuto” di
Balzac: in quel piede si riconosce la bellezza dell’introvabile. Si parla dell’invisibile del
visibile: c’è una qualità del colore visibile e concreto e qualcos’altro che non riusciamo a
percepire oggettivamente. Si tratta del tentativo di parlare dell’invisibile perché la bellezza
del piede insiste in quel punto. In sostanza è come se fosse un gesto dipinto che noi non
vediamo ma percepiamo.
Diderot afferma “gli artisti erano in grado di influire sulla natura, e di render divini
elementi come il seno di Venere o il piede di Teti”. In pratica l’artista riesce a render
materiale qualcosa di immateriale, renderlo divino e farcelo vedere attraverso la natura.
L’artista attinge da qualcosa reale un modello reale. La pittura risulta in grado di
divinizzare il reale. Il modello ideale nasce anche attraverso l’opera dell’artista, in grado di
estrapolarlo dalla natura, ma questo modello non può prenderlo dalla natura, ma deve
ricrearlo: attraverso quel modello ricreato scorgiamo l’elemento naturale e riusciamo a
vedere la natura. È il discorso circa la linea vera.

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Ad esempio, pensiamo all’opera di Balzac. La donna ideale è incomparabile, ma non
riusciamo a percepirla dal momento che l’artista continua ad aggiungere dettagli su
dettagli e, rimanendo impercettibile, rimane immateriale. Questa donna incomparabile è
l’Euridice del pittore: inavvicinabile, il pittore vede il lato invisibile ma non può tradurlo in
pittura. L’origine della donna che Frenhofer vuole dipingere è sfigurata poiché alla
continua ricerca della modella ideale e ciò pertanto non lo esaurisce, essendo un modello
infinito e inconcluso: lo percepiamo ma non è rappresentabile questo modello ideale
proprio perché inconcluso.
È come lo stile del pittore: lo riconosciamo ma non lo vediamo al di là della resa
pittorica. Chardin afferma che anche tra le opere del più abile falsario che ripropone i suoi
quadri, riuscirebbe a riconoscere quello dipinto da sé: si tratta di quell’accento che
sappiamo che c’è ma che di fatto non è visibile. Si riconosce qualcosa di originale come
familiare.
Troviamo dunque comunanza in questo rapporto tra arte e natura: è un rapporto che
ci fa capire che non volge mai al primato dell’una sull’altra o all’annullamento di una
sull’altra. Se diciamo “bello come la natura” quel ‘come’ deve esser inteso in senso
virtuale, nonché fatto di rapporti invisibili e quindi non preesiste. Si tratta di una relazione
chiasmica e di intersoggettività.
Ad esempio, il chiaro di luna. Diderot “stavo per criticare il quadro di Vernet sul
chiaro di luna quando, guardando fuori dalla finestra, vidi il chiaro di luna riflesso sulla
finestra, l’albero, la strada. In sostanza o visto in natura la stessa cosa che l’artista aveva
imitato nel quadro”.
Il satiro e il lettore.
È la figura che emerge nelle considerazioni che Lyotard dedica alla scrittura e allo
stile dei Salons. Il suo è un invito a non considerare la maniera critica di Diderot troppo
velocemente e a considerare i Salons come un’opera in atto di compiersi. Ci invita poi
anche a confondere lo stile. Infatti Lyotard suggerisce che il posto di Grimm e dello
spettatore siano interscambiabili, non c’è il rivolgersi a Grimm sia un gesto finto o fittizio
ma non esaurirebbe il suo scopo. Se da una parte Diderot sembra infrangere il precetto
che impone che il protagonista non si debba mai rivolgere direttamente allo spettatore,
dall’altra in realtà Diderot non lo infrange perché non si rivolge all’esterno della scena.
Grimm è nel teatro dei Salon insieme a noi. È un gioco di relazioni che non si svolge mai
davanti al quadro, ma è un gioco per personaggi ciechi con memoria di vedenti nel quale
siamo coinvolti.
La finestra Vernet.
Si tratta di un passo che chiama in causa la natura come arte e l’arte come natura.
Sa da un lato il quadro-natura riprende il concetto che l’arte è compiuta quando sembra
natura e la natura colpisce quando racchiude in sé l’arte, dall’altra suggerisce un ulteriore
approfondimento. Si tratta di segreti rapporti che ne generano la reciproca bellezza: <<il
chiaro di luna non è bello solo dalla finestra, ma anche nei suoi riflessi sull’albero,
sull’acque, etc.>>
In questo senso nessuna ha il primato sull’altra ma risuonano entrambe in una
virtualità intersoggettiva.

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• PITTURA E TEATRO: LA PANTOMIMA.

La pateticità non dipende da quello che il quadro rappresenta ma da quello che
Diderot ne trae dal racconto del quadro: dipende quindi da quanto si commuove. La
pateticità dipende dal gesto: nella pantomima il verbo non c’è, ma tutto viene rimandato al
gesto. Si tratta pertanto veramente di un racconto fatto attraverso i gesti. Non era però
molto amata dal ‘700, a differenza di un Diderot che la rivaluta: si tratta veramente di un
linguaggio espressivo che si sostituisce alla parola, ala punto di arrivare ad esser patetica.

Tra gli attori che Diderot amava vi era Riccoboni: piace sia a teatro sia in un quadro
pittorico. L’azione muta è la parte che segna il destino del lavoro che un attore deve fare
sul suo personaggio. Ma in pittura tutto è azione muta: tuttavia però pochi la esercitano
bene. Dobbiamo sapere che nel ‘700 gli attori si ispiravano ai pittori e viceversa, i pittori si
ispiravano andando a teatro: quindi a Diderot ciò che non piace in scena non piace
nemmeno nella pittura. Si parla quindi dell’azione ostentata poco realistica, pantomimica,
espressiva: la peggior cosa sia a teatro sia nel dipinto. Diderot infatti parla del gesto
scenico dal momento che non tutti si trovano così vicini da poter vedere l’espressione
dell’attore: è il gesto ancora di più del volto ad esprimere. Il gesto infatti deve stimolare
negli spettatori quel vivo interesse recepito dal fruitore come emozione. Ma mai forzatura,
altrimenti si cade nell’eccesso.
Tutti gli attori sanno dunque che esaltando l’arte gestuale esaltano l’espressività e
l’arte gestuale diviene pittura nello spazio.
Du Bos pertanto si chiedeva “come faccio a convincere efficacemente gli Olandesi
ad abbracciare il cattolicesimo?”: il quadro è sicuramente molto efficace. Tuttavia il quadro
ci dice una sola cosa dal momento che si tratta di una sola scena: molto più efficace sono
tanti quadri in successione, quindi il teatro. Ognuno di essi è estremamente significativo.
Sarà l’immaginazione del fruitore a porre in movimento i vari quadri della scena.

Gherrik infila la testa tra i battenti di una porta e nello spazio di 4 o 5 secondi la sua
espressione passa dalla pazza gioia, alla gioia moderata, alla calma, allo stuperore, alla
tristezza, all’abbattimento, all’orrore, alla calma.
Qui Diderot voleva dimostrare che l’attore ha più intelligenza che passione: è ovvio
che l’attore che nel giro di un minuto non provi tutte queste emozioni, ma è altrettanto vero
che è in grado di portarle sul volto pur non provandole. Di conseguenza anche il volto è un
linguaggio espressivo e passionale anche se non sorretti dalla passione. Diderot qui
voleva dimostrare la paradossale scissione tra rappresentazione mimica e scenicità:
dimostrare che non c’è connessione diretta tra i due atteggiamenti. Ma il ‘700 ci dimostra
anche il contrario: basta tenere sul volto un’espressione sul volto ripetuta e tenuta per
provarla. Al fruitore arriva proprio quella gamma di segni come passione.
Si parla di universalità condivisa del linguaggio passionale: passando dalla
pantomima al fermo della pittura o al gesto dell’attore, è un linguaggio muto
universalmente comunicabile e riconoscibile.

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La pittura deve esser un tableau vivant, altrimenti c’è qualcosa che non va: tutto è
parte della composizione, anche i personaggi secondari. Infatti tutti i dettagli devono
rendere al massimo al fine della comunicazione complessiva: ogni dettagli concorre alla
formazione del quadro che deve esser espressivo. Non è come nel teatro che lo
spettatore si concentrava solo sull’attore che recitava mentre l’altro attore non coinvolto si
metteva a far altro.

Ma la pantomima per Diderot è linguaggio teatrale e anche quotidiano che indica il
fatto che tutti noi siamo all’interno di una gestualità: tutti noi assumiamo una gestualità a
seconda del ruolo che vogliamo svolgere all’interno di un contesto sociale. Non è
un’accusa, ma una constatazione: c’è un linguaggio dei gesti, che talvolta cade
nell’eccesso opposto diventando provocatorio. Da questo linguaggio gestuale non se ne
esce mai.

La pantomima è il quadro che esisteva nella mente del poeta quando scriveva, e nel
quadro del pittore quando dipinge. Se il drammaturgo scrive pensando all’azione teatrale,
non scrive parole ma gesti anche se scrive parole; se invece scrive senza pensare
all’azione scrive una decente opera letteraria. Quindi se il pittore non ha presente un
quadro di pantomima quando inizia a dipingere non potrà far agire i propri personaggi che
assumeranno quelle posizioni improbabili.

Gli attori sono dei pittori mancati (si parla ovviamente di grandi attori, non mediocri)
perché la connessione tra teatro e pittura è sempre presente: mettono in scena linguaggi
gestuali.





SALON 1765

Charles Vanloo, La Chaste Suzanne
Al centro Susanna seduta posta tra i due vecchioni
piegata verso quello di sinistra. La figura di Susanna esprime a
pieno il suo turbamento e dolore inoltre è piena di naturalezza.
Tutto il corpo di Susanna è disposto nel miglior dei modi
possibili e il panno bianco che la copre riflette al meglio
l’incarnato. Il vecchio di destra è di profilo. La scelta della testa
è buona ma doveva suggerire più movimento e espressione:
risulta una figura pesante e fredda. Il vecchio di sinistra è in
piedi, visibile quasi in faccia. Sta scostando le vesti da
Susanna: la sua figura risulta ancora più fredda. Maggior
trasporto nei vecchi avrebbero messo Susanna ancora più in
risalto che avrebbe quindi comunicato più terrore ed

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espressione risultando più vera e naturale. Nel complesso però l’opera funziona.
Boucher.
Viene definito come falso pittore e detentore dell’ingegno: non ha gusto, non ha mai
osservato la natura, non ha mai conosciuto la verità. La sua è una ‘arte’ troppo di maniera:
confusione di oggetti ammassati, nature romanesche e ideali, troppe moine e smancerie.
Hallè, L’imperatore Traiano.
Vedi sopra.
Vien, Marco Aurelio.
Vedi sopra.
Lagrenee, Le sacrifice de Jephtè
Al centro della tela un altare acceso, a lato Jefte curvo e pronto sulla figlia pronto a
ucciderla, questa ha il seno scoperto ed è di spalle (non si vedono tra di loro quidni). A
destra di Jefte due soldati oziosi e inutili, a sinistra sullo sfondo tre anziani mentre di fronte
alla ragazza un soldato inginocchiato pronto a ricevere il sangue che colerà. Il padre è
molto espressivo ma non con quell’espressione di un padre che sta per sgozzare la figlia:
ha l’espressione di un assassino che evoca un’atrocità insopportabile. Il momento scelto
prima del diletto non è né pittoresco né patetico: non può esser una buona composizione
se ci sono personaggi superflui, né è interessante la buona resa del personaggi se
l’azione non ha il merito di suscitare l’interesse e quindi celare i vari difetti.
Lagrenee, La charitè romaine
Risultano l’uno più preoccupato dell’altro con lo
sguardo fisso su una grata. La donna offre al vecchio il suo
seno che non osa accettarlo. La donna è bellissima e il
vecchio anche, senza trasparire alcuna sofferenza appena
passata. Così non funziona: il vecchio dovrebbe desiderare
quel seno che appena lo vede quando è ancora incatenato al
muro cerca di afferrarlo e la donna deve esser matura e
vestito in modo semplice.

Deshays, Artemise au tombeau de Mausole
Composizione triste lugubre sepolcrale: grandezza negligenza e disordine regnano
da sovrani e al meglio esprimono questi sentimenti. La luce si concentra sul volto di
moribondo raddoppiando gli effetti. La sua tomba occupa la destra. Tutto il dipinto è
caratterizzato da questi profumi che bruciano. Artemisia è inginocchiata su un cuscino
davanti alla tomba e abbraccia l’urna con le ceneri del marito. Due donne che l’anno
seguita condividono con lei i medesimi sentimenti di disperazione.
Bachelier, La charitè romaine
Due figure  : una donna sta nutrendo il vecchio padre, seduta
china su di lui visibile frontalmente. La posizione non è comoda però
per questa azione. La scena è illuminata da una sola scena che cade
dall’alto di una volta aperta: la luce fa si che metà della testa della
donna sia in ombra. L’uomo è estremamente vecchio dall’aspetto
estremamente sgradevole. L’unica cosa ben riuscita è aver dato ai
due alcun presentimento di esser osservati che altrimenti ne

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toglierebbe il patetico e non sarebbe più una carità.
Chardin
Chardin è amato fortemente da Diderot. Di fatto però in lui non c’è
molta pantomima, gestualità empatica, ma orrore e nature morte.
Perché lo ama così tanto? Il non guardare è fondamentale per il
disinteresse estetico: il ragazzino non ci guarda perché concentrato in
alto consentendoci di fare il nostro mestiere, ovvero il bravo fruitore
non come uno spione ma come colui che si identifica e partecipa dell’opera. Il piccolo
racconto sta nello sguardo del ragazzo che cade su un cassetto
semi aperto dal quale esce qualcosa che non s a p p i a m o ,
animando via a via la scena. Siamo nella d i m e n s i o n e
dell’immaginazione che parte da uno sguardo che racconta. È magia
perché l’azione mette in moto l’immaginazione.
Per guardare un quadro di pantomima dobbiamo avere
occhi esperti. Oggi non piangiamo più davanti ad un’opera perché
abbiamo occhi diversi: dobbiamo dunque imparare a vedere.
Ma per guardare Chardin non dobbiamo imparare a vedere nulla
perché i suoi quadri ci dicono esattamente quello che dicevano ai tempi di Diderot: quindi
un quadro di natura morta ci parla del valore qualitativo della tecnica che risulta
commozione.
Casanova, Une marche d’armèè
Sia Casanova sia Diderot sembrano esser disperati nel render l’immaginazione vera
nei nostri occhi che alla fine lo diventano davvero. Diderot cerca quindi di guardare l’opera
con maggior freddezza. Troviamo sulla destra un monticello alla cui base è posto un ponte
che arriva sino ad una torre con accanto un’altra torre e una capanna, sotto il ponticello le
acque che scendono dalla montagna formano uno stagno, sullo sfondo delle rovine. La
scena è dominata dalla marcia dell’armata che discende dal monticello. Se la
composizione è ben riuscita non lo è da un pdv della tecnica che manca del tutto: è
spento, la resa cromatica è delle peggiori, l’occhio risulta immobile sulla tela.

Boudin, La fille qui reconnait son enfant a Notre-Dame parmi les enfants
trouves
La chiesta; tra due pilastri il banco dei trovatelli, attorno al banco la folla, tra la folla
una donna che tiene in braccio un bambino e lo bacia. La folla nuoce all’effetto patetico.
Diderot come Greuze cerca di spiegare quello che avrebbe dovuto vedere: un padre e una
madre sono andati a Notre Dame con la figlia maggiore, una minore e un fratellino, al
banco dei trovatelli la maggiore riconosce suo figlio e subito lo prende. Niente riuscirà a
distrarla. Il pallore nel viso della madre, lo sguardo del padre terrificante, pochi spettatori
alla scena.
Greuze, La jeune fille qui pleure son oiseau mort
Vedi sopra.
Greuze, Le files ingrat

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Nella stanza la luce entra solo dalla porta se aperta o da
una grata quando chiusa, sulla destra una poltrona con il padre
del figlio ingrato: il figlio maggiore nonostante possa esser di
grande aiuto alla famiglia si è appena arruolato e il padre ne è
indignato. Al centro del quadro il figlio dall’aria violenta e
aggressiva minacciando con la mano. Il padre cerca di alzarsi
ma una figlia lo trattiene. Il maggiore cerca di divincolarsi dalla
presa degli altri familiari. Accrescono drammaticità alla scena
sulla sinistra un fratellino più giovane di tutti dall’aria intimidita, il soldato sulla destra che
ha accompagnato il figlio ingrato e al centro un cane che abbaia. Tutto è stato stabilito. È
bello ma non quanto il successivo.
Greuze, Le muvais fils puni
Il figlio ritorna dalla guarra esattamente nel momento in cui
suo padre è appena morto, steso su un letto brutto senza
materasso. Una luce illumina appena il suo viso, il resto è nella
penombra. La disperazione la si vede bene nella sorella
maggior abbandonata all’indietro sulla poltrona di pelle nera nel
cui seno un bambino ha nascosto il suo viso. Il figlio ingrato è
mutilato: ha perso il braccio con il quale minacciava il padre e la
gamba con la quale ha respinto la madre. La madre tace, ma le braccia sono protese
verso il padre per far capire la conseguenza delle sue azioni. Probabilmente questa è la
reazione meno adeguata alla situazione.
Loutherbourg. Diderot suggerisce di raggiungere la moglie nell’osservare la natura.
- Rendez vous de la Table. Una delle opere meno buono poichè commissionata.
Se si divide a metà questa scena di caccia noteremmo due pezzi di quadri
ricalcati l’uno sull’altro. Si ha una perfetta simmetria in cui i personaggi sono rigidi
e fantocci. Sarebbe meglio confinare la simmetria all’architettura
che alla pittura. Inoltre la stessa costruzione architettonica in un
contesto pittorico viene messa di sbieco per nasconderne la
simmetria. Diderot apprezza la freschezza e il luogo.
- Una matinèè apres la pluie. Un commencement d’orage au
soleil couchant. Rappresenta il preannuncio di un temporale  :
al centro un castello con delle bestie dirette ai campi, sulla
sinistra delle rocce con un sentiero molto illuminato, a destra
uno sfondo con inizio di paesaggio. Diderot apprezza il castello
e la ben resa di un cielo che preannuncia il temporale.
Le prince, Pastrorale russe
Diderot viene incantato dal silenzio innocente del quadro. Tocco leggero e semplice
con pochi effetti di luci. Un vecchio, seduto sotto un albero forse cieco, ha terminato di
suonare la chitarra per ascoltare, assieme ad una ragazza, un giovane pastore che suona
il piffero; a destra delle pietre con delle pecore al pascolo. Nonostante sia debole di colore,
colpisce.

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Lepiecie, La descente de Guillame-le-conquerant en Agleterre
Il pittore ha scelto un momento che avrebbe dovuto
mostrare qualcosa di crescente: un generale che fa capire ai
suoi soldati che bisognano vincere o morire a tutti i costi
bruciando i vascelli. A destra un bagliore fa intuire che i
vascelli non bruciano più, dei soldati muti e oziosi, un figura
con le braccia protese che grida ma non si sa a chi, Guglielmo
al centro del suo esercito preceduto dalla fanteria. Ma è un
esercito privo di entusiasmo militare: la folla è muta, fredda. Se lepide avesse voluto
davvero un quadro avrebbe dovuto far bruciare i vascelli, far gridare Guglielmo e far
emergere le passioni dai volti.
Lepiecie, Jesus Christ baptise pas saint Jaen
L’artista sceglie una scena solitaria  con figure dalla posizione fortuita e bizzarra. A
destra sullo sfondo tre apostoli che sembrano spaventati. San Giovanni battezza Gesù
con gli occhi al cielo senza osservare quello che sta facendo. Un Cristo sulla sinistra etico,
che risulta molto differente da quello posto sulla croce. A sinistra una colomba al centro
della luce con attorno qualche cherubino dall’altra alcuni angeli che formano un gruppo. Il
colore, le posizioni, le espressioni non trasmettono nulla che sia una messaggio religioso:
un pittore di soggetti sacri dovrebbe invece esser una specie di predicatore più chiaro
cosa che qui non è assolutamente.
Fragonard, L’antre de Platon
Il quadro mette in scena una storia narrata da Pausania:
Coreso e Calliroe, nel momento drammatico della tragica morte
suicida di Coreso che si sta dando con un pugnale per salvare la
bella Calliroe dal sacrificio a cui egli stesso l'aveva portata. Il
quadro è una scena teatrale, quasi un fotogramma
cinematografico. Diderot scrisse di non avere visto il quadro, ma di
averlo sognato trovandosi dentro la caverna di Platone. È il mito
della caverna. Era una caverna oscura: alle spalle di uomini
incatenati l’entrata della caverna, alle loro spalle uomini con figurine
ben realizzate ognuna indicante il proprio ruolo alle cui spalle vi era una
luminosa lampada, davanti agli uomini incatenati una tela sulla quale
venivano proiettate le ombre delle figure tanto verosimili da sembrare
vere. Nessuno poteva liberarsi per cercare la verità di cui sospettava,
pena terribili pene. Sulla tela le cose apparivano prima in modo
confusionario, poi sempre più nitide.
Greuze, Le baiser envoyè
Una fanciulla dalle vesti aderenti che le mettono in evidenza il
corpo anche se è coperto, si affaccia ad una finestra sulla strada.
Ella si è appena alzata dal letto senza nemmeno il tempo di vestirsi; ha ricevuto un
biglietto dal suo amante che passando da sotto la finestra le lancia un bacio. é ebbra non
sa più quello che fa: il braccio sinistro risulta pesante e cade su un vaso di fiori
rompendolo. È un quadro che Diderot stesso non avrebbe mai attribuito a Greuze per lo
stile e il pannello, ma riporta tutto il suo spirito e finezza. Come dice Diderot “è un quadro
che fa girar la testa a tutti”.

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Sculpture

Winckelmann “Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella natura”,
prima edizioni 1755, seconda edizione 1756. Il tedesco intende trattare la statua come una
persona descrivendo anche le emozioni gli egli prova di fronte ad
essa, cambia cambia le regole del gioco parlando di arte: ciò
possiamo riscontrarlo nel commento al cosiddetto ‘Torso di
Michelangelo’ o ‘Torso del Belvedere’, solito ad esser identificato con
a Ercole per la muscolatura. Winckelmann afferma la propria difficoltà
di descrizione del torso di Ercole dato che la natura l’ha privato delle
parti più belle quali testa e arti. Diderot tuttavia afferma che
Winckelmann nella propria descrizione procede attraverso
l’integramento dell’immagine con un procedimento metaforico: la
descrizione avviene con metafore che mettono in collegamento le
parti del corpo tutte (anche quelle mancanti) con quello che sappiamo da miti e altre opere
d’arte. Pertanto il francese enumera quelli che ritiene che per il tedesco siano fattori che
rendono la scultura greca superiore: due sono questi fattori e sono uno di ordine naturale,
l’arto di educazione.
Quando si parla di ‘natura’
ci si riferisce a ‘corpo bello’.
Quando si parla di antico ci
si riferisce alle statue.

L’ordine naturale prevede che clima e posizione geografica siano vantaggiose per i Greci,
per cui avrebbe ‘bel corpo’ e ‘bel sangue’. Tuttavia, afferma Winckelmann, non basta
avere il copro bello, bisogna infatti saperlo mantenere attraverso una rigida eduzione sotto
tanti aspetti: fisica morale intellettuale politica. il tedesco pertanto illustra i due modelli per
eccellenza in ambito di educazione: la rigorosità di Sparta (corpo) e i ginnasi di Atena,
luoghi in cui poter avere una mente sempre attiva quindi bella (mente). Ne consegue:
mente sana in corpo sano.
Diderot non è molto soddisfatto di questa posizione di Winckelmann: è giusto
studiare gli antichi Greci, ma non bisogna privilegiarlo. Infatti il tedesco afferma che gli
scultori greci non si limitavano a copiare i bei corpi, ma arrivavano a formare dei concetti
generali di idee di bellezza e questa frequente e ossessiva osservazione della natura,
spinse i Greci a continue ricerche di bellezza: stiamo parlando della Teoria del Bello
Ideale. Questa teoria potrebbe esser di Winckelmann se non fosse che prende in realtà
non dal tedesco ma da Raffaello: per costruire qualcosa di ideale l’artista osserva la bella
natura selezionandone le parti più belle per poi ricomporle in un corpo unico [questo viene
dal mito del pittore Zeus che per dipingere la bella Elena di Troia prese le parti più belle di
cinque fanciulle cretesi]. In questa teoria del bello ideale si inserisce la pratica dell’electio,
ovvero della selezione.

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Diderot e Winckelmann possono essere accumunati: davanti ad un quadro quello
che importa di più è il momento dell’espressione, anche perché entrambi descrivono
espressioni. Winckelmann scrive un commento comparato tra il
Laocoonte e Niobe. Egli sottolinea la lotta tra elementi che
esprimono dolore. Il mito di Laocoonte viene raccontato
nell’Eneide di Virgilio, ma mentre nell’originale il sacerdote grida,
nella statua la bocca rimane chiusa: è qui
che notiamo la grandezza d’animo del greco
mosso da una forza morale che si oppone a
quello che sta vivendo e resiste al dolore del
corpo.
Niobe invece è una donna che vede morire
uno dopo l’altro i suoi 50 figli. Qui il dolore
più che fisico è di una madre mossa dal dolore della perdita. Secondo
Winckelmann abbiamo qui una variante espressiva: il Laocoonte non
grida perché non accetta quello che sta succedendo anche se sa che
soccomberà, in Niobe c’è invece una resistenza passiva perché arriva
ad un grado così alto di sopportazione del dolore in cui il pathos si annulla. È come se
Niobe stesse subendo una paralisi del pensare e del sentire rimanendo dunque
inespressiva. Questa rigidità si riflette anche nel mito: Niobe sarà destinata a trasformarsi
in roccia. L’essenza di passioni che evidenzia l’estrema bellezza, perché incontaminata.
Winckelmann ritiene che queste due statue siano da ritenere come due modelli di
espressione molto drammatici di generi diversi. Infatti Winckelmann dice tutte le sua
analisi sono a partire da una serie di variabili, in primis il genere e in secondo luogo l’età.
Ci sono forme caratteristiche per entrambi i generi: apollineo e dionisiaco per il genere
maschile, e Venere per quello femminile. Non bisogna limitarsi alle forme esterne del
corpo, ma anche e soprattutto sull’espressione.

Winckelmann “Storia dell’arte dell’antichità”, 1754.
Però in Winckelmann troviamo una certa ambiguità: se da una parte parla della
teoria dell’electio per giungere al bello ideale, dall’altra ha una tendenza metafisica
platonica che sostiene che i Greci tali modelli se li erano
prefigurati ma solo nella mente. Tale ambiguità è ben
visibile nel commento in cui si confrontano ‘Apollo di
Belvedere’ e ‘Antinoo di Belvedere’, entrambi ai Musei
Vaticani nel salone Belvedere. Il tedesco dice di Apollo
di essere una bella statua tale da esser considerata
modello di bellezza, mentre l’Antinoo è bello ma
rappresenta ciò che di più bello la natura ha da darci.
Ne consegue che Winckelmann vede nell’Apollo un
elemento intellettuale che la natura non ci fa vedere ma
solo percepire.

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Diderot pertanto si chiede come gli antichi potessero fare buona arte che per farla noi
dovremmo guardare a loro. Diderot afferma che gli antichi studiavano nel corso degli anni
e di generazione in generazione, accettando che la vista stessa deteriora noi e il nostro
corpo: qui non si parla più di electio come in Winckelmann. Gli antichi pertanto cercavano
di individuare queste alterazioni e deformazioni che il nostro corpo subiva: la linea vera
non esiste in natura, ma viene concepita nella mente dei grandi artisti, come in Raffaello.
Diderot aggiunge che le statue greche avevano tutte le caratteristiche di un copro
umano, ad eccezione della fisiologicità. Infine, Diderot non esprime simpatia per un gusto
all’antica bel espresso ad esempio in Vienn. “non bisogna confondere una smorfia per
passione”. In un confronto tra pittura e scultura afferma che la scultura debba esser più
seria in quanto non si può permettere di sbagliare a differenza della pittura.

SALON 1767

Introduzione
Diderot avvisa l’amico che questo Salon non sarà saggio folle e fecondo quanto il
precedente, soprattutto per l’assenza di parecchi artisti perché “stanchi di esporre come
bestie e di venir sbranati”. Di questo ritiro ne avranno vantaggio solo i mercenari che
acquistando il quadro porteranno con sé e i propri eredi una ricchezza in danaro molto
alta: questi amatori Diderot li definisce la razza maledetta e sono coloro che decidono a
caso la reputazione(fortuna degli artisti per non parlare di quelle volte che affidano ad
artisti minori o mediocri pere pubbliche. L’arte necessita educazione e la maggior parte dei
nostri artisti deriva dalla parte bassa della popolazione.
Se Diderot ammette di non poter giudicare in fatto di abilità tecnica, non lo è nel caso
del modello ideale, ed è proprio in questo che consta la sua copiosa corrispondenza con
Falconet. L’idea generale di Diderot o verità o primo tipo secondo Platone esiste solo nella
mente di Dio, mentre le forme o cosa individuale altro non sono che emanazioni dell’idea
generale: quindi l’idea generale della bellezza non esiste in natura ma solo nella mente di
Dio e quindi non Flacont non può dire di aver dipinto la donna più bella, dipinto che si
ridurrebbe ad esser solo un ritratto. Lo scopo di un artista secondo Diderot è innalzarsi
nelle produzioni fino all’idea generale altrimenti la sua opera non sarebbe che una
riproduzione della cosa individuale e quindi una produzione di terzo livello dopo idea
generale e cosa individuale.
Se quanto detto fino adesso è vero, il modello ideale di uomo o donno è superiore
agli altri nelle funzioni di vita una volta raggiunto il massimo dello sviluppo. Ma questo
modello non esiste in natura, quindi: come hanno fatto gli Antichi? Questi hanno
estrapolato dalla natura il loro modello: la linea vera. Gli Antichi per trovarlo si sono
prestati ad una lunga osservazione della natura. Se le arti non hanno raggiunto in nessun
luogo e tempo la perfezione degli Antichi è perché la Grecia è l’unico luogo della terra in
cui ci si è adoperati ad una ricerca graduale permettendoci di raggiungere gradualmente
un ideale di bellezza e perfezione prossimo a quello riducendoci ad esserne più o meno
degli imitatori. Risulta quindi impossibile eguagliare gli antichi. Le opere degli Antichi
testimoniano la loro immortale sublimità e la mediocrità delle opere future. Ma questi
modelli nuocono molto gli uomini di genio.

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Vanloo, Diderot.
Grazioso come una donna che fa la boccuccia. Troppo lusso
nell’abbigliamento. Accessori impeccabili attraverso una buona resa del colore,
idem l’incarnato. Frontale nella posizione di un segretario di Stato e non di un
filosofo. Diderot attribuisce la colpa della mal riuscita del ritratto a Madame
Vanloo che distraeva l’artista durante la sua esecuzione: a secondo
dell’influenza Vanloo avrebbe dato una sfumatura diversa all’opera, ma
sarebbe stato molto meglio lasciarlo da solo. Diderot non si riconosce: ha
fronte ampia, occhi vivi, aspetto rude. L’unico, afferma, che lo ha ben ritratto è
stato Gerard.
Vanloo, Notre ami Cochin
Visto di profilo con il braccio destro appoggiato alle schienale di una sedia di paglia.
Molto rassomigliante. Se si paragona questo ritratto con quello che cocihn fece di sé si
potrà distinguere la fisionomia che si ha e quella che si vorrebbe avere. Vanloo è un artista
molto capace soprattutto nelle composizioni di grandi insieme come si può vedere in
alcuni dipinti familiari. È il contrario di Lagrenee.
Vien, Saint Deni prechant la foi en France. Doyen, epidemiè des Ardents.
A destra una facciata di una costruzione architettonica  : degli
scalini conducono ad una piattaforma su cui troviamo l’apostolo
Daniele che predica con alcuni discepoli. Ai piedi della scalinata quattro
donne inginocchiate: una piange, due meditano, una guarda con gioia.
Dietro di loro tre vegliardi. Quindi una folla che occupa praticamente la
parte sinistra del quadro. In alto seduta su di una nuvola la Religione
con un velo sul capo, sotto di lei un angelo che scende per incoronare
l’apostolo. Il tutto sembra dare una sorta di circolarità. Il santo è ben
fatto nella sua posa da oratore con il braccio destro alzato: la luce che
risplende su di lui fa sì che l’occhio ricada per primo su di lui.
Il quadro è da leggere e confrontare con l’Epidemiè des Ardents di
Doyen. Il primo è tutto il contrario di questo. In Vien ritroviamo l’armonia
del colore e una sorta di debolezza o pace, qui oscurità caldo e vigore. Il dipinto di Vien
invita l’occhio a studiarlo con tranquillità in tutti i suoi particolari, quello di Doyen sembra
pungere l’occhio e affrettarsi a finire do guardarlo.
Tuttavia però il quadro di vien risulta esser privo di movimento, ed è come se fosse una
grande famiglia dal momento che non si vedono altro che donne e bambini. Diderot quindi
ci suggerisce quello che avrebbe voluto vedere e Vien avrebbe dovuto rappresentare:
bastava cambiare la scelta del momento rappresentato ovvero un Daniele che infiamma la
plebaglia con il suo fanatismo accendendo gli animi della folla invogliandola ad abbattere
gli falsi dei e i rispettivi monumenti. Vien disegna molto bene ma non pensa né sente: è
privo di ingegno e immaginazione.
Tuttavia possiamo trovare alcuni punti a suo favore. La resa pittorica. Ad esempio
l’angelo che incorona l’apostolo non potrebbe esser più bello: leggerezza e grazia. Se la
Religione, anche se non è abbastanza aerea, è meno dipinta di lui, lui è meno dipinto dalla
folla sottostante ma la cosa non turba. Il santo è grande, cosa accentuata dalla sua veste

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che non aderisce al corpo ma ricade in lunghe piene suggerendo un aumento di volume
che sarebbe stato ancora maggiore se la testa fosse stata più grossa.
Diderot dicendo che il pubblico si era diviso sulla superiorità dei quadro di Vien o
Doyen, afferma che sembrasse esser superiore Doyen per il fatto che vi fossero più
esperti di poesia che di pittura pertanto si preferisse il movimento alla pace pacata.
Il quadro di Doyen racconta un fatto del 1129 sotto Luigi VI: cadde
dal cielo su Parigi un fuoco che portò disgrazie e morti crudeli. Il
flagello terminò con l’intercessione di Genevieve. Infatti in cima
alla tela a sinistra è possibile vedere la santa inginocchiata su una
nuvola: sta pregando con le braccia rivolte verso la terra e lo
sguardo nel punto luminoso nel cielo sopra di lei. Sotto di lei degli
angioletti che si contendono l’onore di portare il gregge della
santa: idea che stona con la tristezza del paesaggio. Alti putti su
altre nubi rossastre coprono la parte alta di un edificio, un
ospedale. Da cui notiamo subito un frenetico che si lancia fuori
con le braccia nude rivolte verso la santa. Sul sagrato un cadavere
che si vede solo di schiena, ma completamente nudo. Da una
fogna si vedono fuoriuscire due piedi di un morto e le due
estremità di una barella. Nel centro del sagrato una madre inginocchiata con braccia e
sguardi rivolti verso il cielo chiedendo salvezza per il suo bambino: è attorniata da tre
donne che la sostengono e si aggiungono alla preghiera con lei. Dietro di loro il marito che
tiene in braccio il bambino dolorante che tiene per la mano la mamma: anche gli occhi del
padre sono in preghiera verso il cielo. La folla ha le teste supplicanti rivolte verso la santa.
Sulla sinistra un uomo robusto che regge un uomo ferito e debole nudo con il corpo
reclinato all’indietro, mentre l’uomo che lo sostiene risulta esser di spalle con il volto di
profilo ma sempre rivolto verso la santa. Sulla terrazza una donna morta e poco più in là il
suo bambino che si chiede se sia viva o morta, al di là della donna la terrazza cede e si
rompe.
Al primo impatto il quadro è imponente e richiama l’attenzione dello spettatore.
Tuttavia se si ben osserva risulta esser un luogo ambiguo: i palazzi non si riconoscono, e
nelle catastrofi si vedono dei mendicanti nei dintorni dei palazzi e non gli abitanti dei
palazzi attorno alle abitazioni dei mendicanti. Difficile è dunque la lettura del quadro.
Genevieve risulta ben fatta, né è pesante sulle nuvole, tuttavia è un po’ maniera: la
posizione è innaturale, il volto privo di compassione. E gli angioletti che circondano la
santa risultano esser come sei cerchi di luce, mentre da un pdv fisico sono troppo rigonfi e
trasparenti. Ma, se la nuvola di questi puttini è ben resa, quella che sorregge la santa è
troppo pesante e gli angioletti leggeri come bolle di sapone. Diderot afferma che la parte
principale del quadro (mogli marito bambino malato e sorelle) è la parte meno riuscito. In
primis le donne formano un ammasso di corpi mal riuscito anche se talvolta i drappeggi
delle vesti risultano ben riusciti; il bambino fa solo un po’ di smorfie; il padre dovrebbe
forse assumere più dignità. Il gruppo del malato sorretto da un uomo sulla sinistra
dovrebbe esser posto a maggior distanza dagli altri. Qui Diderot riconosce la scuola di
Carracci per colore, espressione, disegno. La donna morta risulta esser bella e nobile
nella morte anche in un posizione scomoda come la sua e il bambino che si protende

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verso di lei non potrebbe esser più espressivo di così. Buona idea è quella di far uscire dei
piedi da una caverna o fogna, ma l’entrata è vuota come a suggerire che sia ricolma di
cadaveri: ma se Rembrandt era sublime suggerendo due braccia che escono dalla
cavarne evocando la resurrezione di Lazzaro, qui non lo è affatto.
Il fatto che il quadro non è ben disposto lo si può capire dalla linea di congiunzione
che dovrebbe essere una sola e che quindi dovrebbe guidare colui che descrive e colui
che guarda: qui questa linea è spezzata e discontinua. Inoltre l’autore ha una scarsa
conoscenza della prospettiva che induce a sbagliare non solo nella resa dell’architettura
ma anche dell’occupazione dello spazio da pare dei personaggi. Infinte tutto è pervaso da
troppi toni giallastri cadendo inevitabilmente nella monotonia. Se è vero che Doyen si sia
ispirato al Miracolo di S. Francesco di Rubens allora non dobbiamo stupirci di trovare
anche qui questi stessi errori.
Tuttavia però il quadro è bello, pieno di calore e immaginazione, c’è espressione e
movimento. Questo successo che viene riconosciuto più per la poesia che per la tecnica
potrebbe montare la testa a Doyen, come afferma Diderot, per farlo quindi cadere
nell’eccessivo. Comunque sia Diderot è convinto che se anche possa esser giudicato il più
bel quadro dalla maggior parte del pubblico perché attratto dal colore, prima o poi quello
stesso pubblico si allontanerà per la discordanza dei colori.
Lagrenee, La chaste Suzanne
Il soggetto viene inventato da Giuseppe Cesari o
Cavaliere D’Arpino e prevede una donna nuda che per far si
che due vecchi non la vedano copre loro la visuale con le
proprie vesti rimanendo nuda davanti all’occhio dello
spettatore: si tratta di una scena che non presuppone
testimoni. Qui viene giocata tutta la differenza tra donna che
viene vista e una donna che si mostra, tra l’indecenza di una
donna svestita a differenza di una non indecente ma nuda. Nel
caso di Lagrenee i vecchioni, sebben resi molto bene da un
pdv cromatico risultano esser freddi a differenza di una Susanna “bella bellissima”
altamente espressiva: i suoi occhi di spavento e terrore rivolti verso il cielo sembrano
contrastare la tranquillità dei due vecchioni al punto che renderebbe l’episodio
irriconoscibile se non lo si conoscesse.
Chardin, Deux tableau rapresentats divers instruments de musique
Gli strumenti sono disposti con gusto, tutto per forma e
colore è della più grande varietà. C’è chi sostiene che
Chardin avesse potuto far meglio ma costoro dovrebbero
guardare il quadro dopo qualche anno, in modo tale che il
tempo abbia potuto
apportare il suo effetto
sul dipinto: coloro che
non sospettano
dell’intervento del tempo
possono apprezzarne gli effetti solo attraverso buon
senso ed esperienza. Con Chardin l’occhio è sempre

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ricreato: ci si fermerà davanti ad un suo quadro come d’istinto.


Promenade Vernet
Questi paesaggi sono così realistici e belli tali da permettere l’immedesimazione di
sé all’interno di questi potendo compiere passeggiate sebbene immaginarie all’interno del
quadro.
Premier site
Sulla destra una montagna elevata
la cui parte bassa ci viene nascosta dalla
massa di una roccia i cui piedi si
abbassavano e rialzavano separando la
profondità della scena. Le rocce si
aprivano in un varco lasciando passare
un torrente che si infrangeva
spumeggiante sulle rocce. Sulla
sporgenza dell’estrema destra due
pescatori: uno seduto con le gambe a
penzoloni con la lenza in mano, l’altro
ricurvo sul primo intrattenendosi con lui.
Su una carreggiata sassosa un carro
coperto guidato da un contadino diretti verso il villaggio situato al di sotto della carreggiata.
La bellezza del sito è tale da tenerci sospesi nell’ammirazione. Discorso sulla macchina di
Raffaello: vedi sopra nell’introduzione.
Deuxime site
Delle montagne coperte di alberi e arbusti sulla destra, a cui piedi troviamo un
viandante di spalle con il suo bastone con saccotto in spalla. Sul pendio un sentiero largo;
verso la sommità un carro coperto trainato da buoi con un contadino. Procedendo sul
sentiero un ponte: al di sotto si poteva vedere tutta la voragine con un fiume che questo
permetteva di oltrepassare, spettacolo che solitamente si vedeva dal basso delle
montagne. Uno spettacolo misto di piacere e terrore, sublime. Il ponte conduceva alla
cresta delle sommità di una serie di montagne parallele alle prime; scendere lungo quel
versante significava scendere dalla parte opposta a quella da cui si era saliti. Scendendo
lungo la riva del lago formato dal torrente è possibile notare le acque del fiume che
ricadono in tante falde fino a formare una cascata. Ai piedi delle montagne a sinistra una
caverna oscura. L’immaginazione di Diderot vi pone
una fanciulla che ve ne sta uscendo con un ragazzo
a braccetto. Tuttavia però in realtà vi era una donna
che si riposava a riva con il suo cane, più avanti un
gruppo di uomini e donne, ancora più in là un
contadino che indica la strada ad un viandante.
Diderot rimase completamente incantato da
questo quadro da rimanerne a bocca aperta
silenzioso con le braccia lungo i fianchi. L’oggetto più

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lontano che si vede è il ponte e straordinaria è l’immaginazione dello spazio al di là di
questo. Diderot definisce Vernet ‘artista’ per il semplice fatto che per ben comprendere un
quadro si presta alla sostituzione di questo alla natura, anche se ciò comporta
l’apprezzare di poche opere. A questo punto comprende la difficoltà della differenza di
fascino tra pittura e poesia e la difficoltà di rendere da una lingua all’altra i passi che si
comprendono meglio.
Sixieme site
Sulla destra una roccia che si perde nelle nuvole; in primo piano i colori si
distinguono, in lontananza confondono. Sullo sfondo delle vecchie arcate, con una
piattaforma su cui si erige un faro. Sulla destra un fiume che si infrange su delle masse
roccioso, nelle quali ritroviamo delle barche; sulla sinistra dei pescatori affaccendati su un
lembo di terra di foresta illuminata dalla luce che veniva da dietro. Sullo sfondo è possibile
riscontrare uno scorcio di mare con delle marche le cui acque a destra bagnavano la base
del faro e altre costruzioni lì a fianco.
Anche qui Diderot rimane stupefatto. A questo punto inizia la riflessione iniziata
precedentemente: vedi sopra nell’introduzione il discorso sul chiaro di luna,
l’immaginazione, poesia e pittura.
Julliart, Trois paysages, sous un meme numero
Diderot accusa Julliart. Non è sufficiente rappresentare qualche oggetto naturalistico
per fare di questi un quadro, bisogna renderli vivi: far trasparire l’acqua, renderla
schiumosa, far passare la luce fra le foglie dell’albero, rendere imponente la montagna, è
l’esatto contrario di Poussin che riesce a rendere al meglio i sentimenti che provano i suoi
personaggi come il terrore nella scena in cui una donna viene avvolta nelle spire di un
serpente che la trascina sul fondo delle acque. Non è sufficiente un bel drappeggio per
rendere la Vergine bella, deve esser viva e non statica; San Giuseppe è banale; Gesù
Bambino ha il ventre teso come un pallone, manco fosse malato.
Robert, Un grand paysage dand le gout des campagnes d’Italie
Alcune opere come queste dovrebbero, secondo Diderot, esser riosservate fuori da
questo Salon per le dimensioni e per la competizione con altri artisti anche perché i nostri
occhi potrebbero diventare cattivi giudici se assaliti da tante tecniche diverse, inoltre
Diderot colloca al di fuori dei Salons alcune opere isolate per le quali gli era parso di
provar troppo disprezzo. Ci sono quadri che sebbene estesi risultano piccoli e altri
sebbene piccoli le loro figure sembrano grandi: la spiegazione bisognerebbe trovarla o
nelle figure stesse o nel rapporto di queste figure con gli esseri circostanti. In questo grane
o piccolo quadro sulla destra abbiamo un’architettura in rovina, di fronte ad essa una
statua sul cui piedistallo scorre una fontana le cui acque vengono raccolte in una vasca.
Attorno a questa uomini e animali. Un ponte collega il lato dx da quello sx dividendo in due
la composizione, sotto di esse un fiume, sulla sinistra quindi una barca: il fondo sulla
sinistra è costituito da qualche albero, sulla destra da una campagna. Per sentire come
tutto il paesaggio è debole basterebbe confrontarlo con un Vernet anche se non è
necessario: è proprio Vernet che sa rendere bene un paesaggio in cui tutto è omogeneo e
nulla è a discapito dell’altro.
Robert, Ruine de un arc de triomphe, et autres monumens

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L’effetto è una dolce malinconia  : osservando
queste rovine è come se anticipassion le distruzioni del
tempo e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli
edifici in cui abitiamo. A dx una costruzione stretta alla
cui base una nicchia per una statua: ogni lato delle
nicchia ha una colonna senza capitello. Un soldato
disteso su blocchi di pietra con la pianta dei piedi rivolta
verso la costruzione a destra e la testa verso sinistra verso
cui si fanno avanti un soldato con una donna con in braccio
un bambino. Sullo sfondo acque, un duomo in rovina e altre
rovine ancora. Le figure sulle sfondo sono poi molto poco curate: “Signor Robert curate le vostre
figure, fatene meno e fatene meglio perché tutte hanno spirito e dignità”.
Robert, Grande galerie eclairee du fond
opera molto apprezzata da Diderot. È una galleria
voltata con un colonnato a destra e sinistra. Verso la
metà la volta è spezzata e mostra al di sopra di sé i
resti di un edificio sovrapposto. La luce proviene
dall’apertura sul fondo. A sinistra una fontana (fatta da
una statua antica seduta). La folla al si sotto della
galleria radunata in piccoli gruppi con scene varie
come attingere l’acqua o riposare. Diderot quindi “ma
studiate Vernet per imparare a disegnare e dipingere,
a rendere interessanti le vostre figure; e poiché vi siete
votato alla pittura delle rovine, sappiate che questo genere ha la sua poetica e voi la
ignorate nel modo più assoluto, cercatela. Avere il fare ma vi manca l’ideale”. Aggiunge poi
che vi sono troppe figure e che bisognerebbe concentrarsi solo su quelle che
suggeriscono solitudine e silenzio. Le rovine poi dovrebbero suggerire la corruzione del
tempo e quindi rassegnarci alla fine che ci attende. Di fatto però è il più bel quadro
esposto da questo autore tale da indurre Diderot a dire “non si pensa all’arte, si ammira,
ed è la stessa ammirazione che si accorda alla natura”.
Riflessione sullo schizzo.
Se uno schizzo ci piace di più di un quadro è perché c’è più vita e meno forme: un
animale morto è solo forma e privo di vita, gli uccellini hanno forme inviluppate quindi
pieno di vita. Uno schizzo viene meglio di un quadro perché rappresenta l’ardore del genio
a differenza del quadro che è l’opera del lavoro frutto di lunghi studi. Lo schizzo ci cattura
e piace di più perché lascia più spazio alla nostra immaginazione.
Robert, Partie d’un temple.
A destra a lato della costruzione una guardia svizzera vicino ad una cancellata,
davanti una sedia di paglia e una devota che va verso la cancellata; contro un muro tre
monaci bianchi seduti; sotto un’arcata a tutto sesto una balaustra con delle figure. È un
pezzo toccante che ci porta all’oblio: non siamo più nel Salon ma in una chiesa sotto una
volta dove regna la calma. Un peccato è che le figure non corrispondano alla perfezione
del resto. Ancora una volta Robert dovrebbe guardare a Vernet e la suo disposizione di
figure e azioni.

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Esquisse coloriee d’apres nature a Rome
A sinistra un muro contro il quale troviamo una pensilina, sotto questa una fontana, al
di sotto un trogolo tordo al quale vi è appoggiato un contadino, più in là verso destra un
uomo in piedi e una donna accovacciata. Povero nella composizione, privo di effetto,
figure brutte




Loutherburg, Autre paysage
Sulla destra sulla sommità di una roccia un castello,
sotto tre arcate aperte: tra queste scorre un ruscello che si
infrange e ricade sulle rocce sottostanti creando una cascata
con delle piccole falde. Alla basa uno stagno. Sulla sinistra
una rupe coperta in cima da arbusti; ai suoi piedi un
viandante guida un cavallo carico di bagagli: sembra che
l’intenzione sia quella sia arrampicarsi verso le arcate tramite
un sentiero segnato dalla roccia. Tra il cavallo e il viandante
una capra, più a sinistra una contadina a bordo di un’asina e
un pastore che conduce il suo bestiame allo stagno. La
composizione potrebbe esser confrontata con Vernet: Loutherbur non fa altro che inserire nei suoi
paesaggi bestiame e contadini a differenza di un Vernet che crea situazioni e soluzioni sempre
differenti. Però Vernet è pur sempre inferiore a Poussin per l’ideale. Per esser un buon
paesaggista, dice Diderot, si deve rappresentare il fascino della natura con eventi tanto dolci
quanto terribili in modo tale che l’immaginazione possa poi entrare in gioco per poterne fruirne al
meglio, altrimenti oggetti e persone risulteranno solo o male o ben disposti. Bisogna prima
osservare e studiare la natura poi realizzare in pittura. Prendiamo il caso Puossin: sebbene i
soggetti siano disposti su più piani isolati tra loro, rispondono tutti ad un’idea comune e quindi i più
esposti al pericolo saranno quelli più lontani da questi perché non se lo aspettano, come nel caso
de Paysage au serpent.
Lepiecie, Un tableau de famille
Si tratta di un vecchio prete che legge l’antico Testamento al padre, alla madre e ai
figli. La scena e monotona basata tutta sul grigio, simmetria, con la freddezza dei
personaggi nei quali ben poco ingegno è stato inserito. Il prete ad esempio parla con la
mano e tace con la bocca. Diderot si ferma dunque qui con la descrizione di questo
quadro.
Joillan, Belisaire
Diderot sostiene che non sia un quadro perché troppo
scuro e grigio e si fa fatica a distinguere le figure. Quasi al
centro della tela un Belisario seduto, seduta per terra la figlia
con la testa sulle gambe del padre che le stringe la mano, ai
piedi un cane che dorme; a destra con le spalle voltate
completamente a Belisario, suo moglie; a sinistra un giovane
che chiede l’elemosina: intorno a lui dei passanti, un soldato,
una donna che sborsa qualche spicciolo, alcuni che parlano

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tra cui uno che invita al silenzio. A sinistra un vestibolo conduce ad un edificio, a destra il
muro di un edificio. Belisario è rigido, privo di nobiltà e freddo. Le figure sono sparse e non
dicono nulla. È un tema che è già stato affrontato e comunque risulta privo di tutto (colore,
composizione, sensibilità, espressione, etc.) e di conseguenza è una nullità.

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