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LE VITE DE’ PIÙ ECCELLENTI PITTORE, SCULTORI E ARCHITETTORI

PROEMIO ALLA SECONDA ETÀ


Vasari fin da subito sottolinea il fatto che il suo interesse non era quello di fare una semplice lista
di artisti, con i loro nomi, luogo e data di nascita e infine un elenco di opere, ma vuole aggiungere il
suo giudizio all’interno perché, secondo Cicerone, caratterizza l’opera dello storico (nel secondo
libro del De oratore, Cicerone afferma che la scrittura storiografica richiede che venga espresso il
giudizio dell’autore a proposito di ciò che si tratta).
Quindi l’opera che Vasari scrive non è un semplice elenco di dati, ma è la spiegazione di come gli
uomini si sono adattati di fronte a certe situazioni.
I concetti chiave che troviamo in questo proemio sono:
• Il giudizio è una delle parole più importanti nei trattati del 500 ed è la capacità di
giudicare, assegnare dei valori, non tanto di bellezza, quanto dare un'interpretazione
storica;
• c’è esaltazione della storia che non è una mera numerazione dei fatti, ma un’esaltazione
di come gli uomini si sono comportati, adattati di fronte alla situazione in cui si sono
trovati;
• dice che attraverso questo approccio storico può far capire come l’arte è cambiata, sia per
arti che puntano al concetto di ottimo sia per arti basate sulla copia, sull’imitazione;
• Vasari ha voluto ragionare non dei singoli ma della qualità dei tempi, ciò che i tempi
richiedono (se ne parla nel capitolo XXV del Principe di Machiavelli).
Vasari dice che, sebbene la grandezza dell’arte in ognuno nasca per motivo diverso (diligenza,
studio, imitazione, conoscenza delle scienze), ha deciso di parere della stria dell’arte dividendola
in tre età, dalla “rinascita” di queste arti fino al secolo di Vasari.
1. La prima età è quella più antica ed è la più lontana dalla perfezione. Nonostante le
opere d questo periodo non meritino particolari lodi, Vasari ritiene che a questa
epoca bisogna dare gloria del momento che ha dato principio, modo e strada
perché ciò che venne dopo potesse essere perfetto. Il primo artista di questa età è
Cimabue e l’ultimo Di Bicci (tra loro parla anche di Giotto).
2. Nella seconda età le nostre arti iniziano a migliorare notevolmente, anche se non è
possibile dire che abbiamo effettivamente raggiunto la perfezione. Nascono nuovi
elementi:
• Misura
• Ordine
• Regola
• Disegno
• Maniera

PROEMIO ALLA TERZA ETÀ


La terza età è quella della perfezione; inizia con Leonardo e finisce con Michelangelo.
Secondo lui a questo punto l’arte si è elevata talmente tanto in alto, che ci si deve preoccupare che
il livello si abbassi piuttosto che migliorare ancora. Ritiene quindi che sia natura e proprietà di
queste arti quella di avere un principio umile per poi lentamente migliorare ed indie giungere al
colmo della perfezione. Diversamente dalla seconda età vengono aggiunti nuove caratteristiche
che mancavano nella seconda età:
• Nella regola mancava la licenzia, ovvero quel principio liberatorio dalle regole
• Nell’ordine, Michelangelo, viene creato l’ordine composito
• Nella misura mancava il giudizio
• Nel disegno mancava il movimento, la carnosità perché le figure erano statiche e magre e
rendevano la maniera secca, goffa.
Quindi gli eccellenti maestri descritti nella seconda parte delle Vite aggiunsero ai valori dei primi
artisti (regola, ordine, misura, disegno, maniera) maggior aderenza al vero.
Successivamente inizia a raccontare e ad elencare gli artisti della seconda età e cosa mancava in
loro. Finita la lista inizia ad elencare gli artisti della terza età e li descrivere un po’ e il rapporto
maestro-allievo.

VITA DI DELLO, PITTORE FIORENTINO E NANNI D’ANTONO DI BANCO, SCULTORE


Dello, diminutivo di Daniele, figlio di Niccolò Delli, del 1404, fiorentino. Proviene da una famiglia
povera. Egli venne sempre definito e ricordato come un pittore, ma in realtà le sue prime opere
furono le sculture di terracotta.
Dello scolpì tre opere in terracotta per l’ospedale S. Maria Nuova e la Chiesa:
1. L’incoronazione della Vergine (nella chiesa di Santa Maria Nuova);
2. La serie di apostoli (perduta);
3. Il Cristo che mostra la piaga del costato (Londra al Victoria e Albert museum).
In questo periodo la scultura è, tra tutte le arti visive, quella più meccanica di tutte, quella che
impiega più fatica, quelle che venivano pagare di meno e considerata la meno nobile.
Vedendo, infatti, che guadagnavo poco scolpendo in terracotta, e essendo che fosse uno scultore
che sapeva disegnare bene, riuscì a risolvere i suoi problemi con la pittura. Iniziò, quindi, ad
allenarsi ed imparò presto a fare buoni lavori di pittura, come dimostrano i dipinti che fece a
Firenze e anche le miniature, che gli riuscirono anche meglio.
A quei tempi si usava tenere nelle camere, per chi se lo poteva permettere, delle cassapanche di
legno (che equivalevano agli odierni guardaroba) che tutti facevano dipingere.
• Sul coperchio venivano dipinte storie che erano per lo più favole, generalmente novelle
amorose.
• La parte dietro si foderava con materiali che permettevano una miglior conservazione
delle vesti contenute.
• Non solo le cassapanche venivano dipinte, ma anche gli altri mobili d’arredo, come le
testate del letto e gli altri ornamenti che a quei tempi si usavano.
• Queste pitture non si ritrovano solo nelle case dei Medici, ma in tutte le dimore dei nobili
fiorentini.
Gli ultimi a fare ciò furono i Borgherini nel pieno Cinquecento per far dipingere la stanza nuziale
degli sposi, e fu un’eccezione. A inizio Quattrocento era ancora in uso il fare le dorature ai mobili,
oggi invece molti si vergognerebbero. La camera Borgherini, durante la repubblica del 1527-30,
un mercante fiorentino alleato dei francesi, cercò di sequestrare la stanza per venderla a qualche
francese. Fu la Borgherini a insultarlo e vietare di entrare in casa. Vasari ne fa un racconto molto
dettagliato.
Dello faceva questi lavori di artigiano che altri pittori si rifiutavano di fare perché se ne
vergognavano, tanto che si può dire che quella fosse la sua professione.
Dello dipinse tutta la camera di Giovanni de’ Medici, di cui vennero conservate alcune reliquie. E
Donatello, ancora giovane, lo aiutò.
Dello affrescò anche il chiostro verde di Santa Maria Novella, dipingendo Isacco che benedice Isaù.
Poco dopo la pittura di quest’opera, chiamato dal re, si traferì in Spagna. Sebbene non si sappia
che opere abbia portato a termine, ne tornò ricchissimo e onorato, e si pensa quindi che fossero
lavori portati a termine nel migliore dei modi. Dopo qualche anno tornò a Firenze per far vedere
come si fosse arricchito, partendo da una condizione di estrema povertà. A Firenze volle la stessa
ricompensa ottenuta in Spagna, che riuscì ad avere solo grazie ad una raccomandazione da parte
del re di Spagna. Una volta tornato, a cavallo con le bandiere, venne preso in giro dagli amici di
gioventù, ai quali lui rispose con le fiche (antico gesto osceno di beffa, in cui il pollice si inserisce
tra indice e medio, con la mano chiusa a pugno).
Vasari dice che quando torna c’è una delle altre forze che dominano il mondo: l’invidia.
Decise allora di tornare in Spagna, dove venne ricevuto volentieri, dove ricominciò a dipingere
fino alla sua morte, a quarantanove anni. Fu fatto seppellire onorevolmente dal re. L’epitaffio
recitava: “Dello, cavaliere fiorentino, illustrissimo grazie all’arte della celeberrima pittura”.
Dello è colui che da una condizione bassa si eleva alla condizione cavalleresca, grazie alla pittura.
Subito dopo Vasari mette un’altra vita che va di pari passo (opposta) a quella di Dello: Nanni Di
Banco.
Nanni di Banco nasce da una famiglia benestante ma non nobile, si dilettò nell’arte della scultura,
da lui considerata un’arte nobile. La esercitò non solo non vergognandosi di impararla e di
esercitarla ma lo considera una vera e propria gloria. Quindi la esercitò più per amore che per
bisogno.
Nanni di Banco fu allievo di Donatello: Vasari dice che lo mette prima del maestro perché muore
molto prima, anche se in realtà era per fare un collegamento con la vita di Dello. Infatti le loro vite
sono complimentari. Vediamo come Dello nasce in una situazione povera per diventare ricco
grazie all’arte, mentre Nanni di Banco nasce da una famiglia benestante e pratica un’arte poco
nobile.
Nanni di Banco non era molto intelligente ma era modesto, umile. Egli scolpì il San Filippo
Apostolo, patrono dei calzolai, in marmo che è conservato all’Orsanmichele. Quest’opera fu prima
commissionata a Donatello dall’Arte de’ Calzolai e poi, per incomprensioni legate al prezzo,
nuovamente commissionata, questa volta a Nanni, il quale promise di accettare la somma
offertagli dai committenti. Tuttavia, una volta terminata la statua, egli domandò una cifra di molto
superiore a quanto stabilito, ancora maggiorata rispetto alla somma richiesta da Donatello.
Quando non vi era un accordo tra cliente e artista, i rappresentanti delle botteghe valutavano
l’opera. Tre esperti di solito, valutavano l’opera e a quel punto il committente doveva accettare la
valutazione.
I rappresentanti delle botteghe giudicarono l’opera ancora più costosa rispetto alla cifra richiesta
da Nanni, e Donatello sostenne che quella era la cifra esatta in quanto Nanni di Banco, non
essendo al suo livello, ci aveva impiegato molto più tempo nella scultura rispetto a quanto ne
avrebbe impiegato lui, e di conseguenza era giusto pagargli la fatica e il tempo. Tuttavia, Nanni di
Banco mancava di giudizio dell’occhio, infatti, non misurò bene quanto spazio occupavano le
statue e alla fine anziché quattro si trovò spazio solo per tre. Finì con il chiedere aiuto a Donatello.
Donatello chiede a Nanni di Banco di allontanarsi dalla città e dopo che partì Donatello scolpì le
statue e le accostò insieme, facendole abbracciare. Nanni, una volta provato che Donatello aveva
risolto il suo problema, rese grazia a lui e ai suoi creati pagandogli la cena, come promesso.
Successivamente, Nanni eseguì il S. Luca per la facciata di Santa Maria del Fiore tra il 1410 e 1413,
affiancando il S. Giovanni di Donatello, il S. Marco di Niccolò Lamberti e il S. Matteo di Bernardo
Ciuffagni.
Morì all’età di 48 anni.
VITA DI LUCA DELLA ROBBIA, SCULTORE FIORENTINO
Luca della Robbia fu scultore fiorentino nato nel 1399. Il nome “Robbia” si pensa derivi dal
colorante tessile rosso che la famiglia vendeva. Fin da bambino gli viene insegnato a leggere e a
scrivere e successivamente il padre gli impose anche di imparare l’arte dell’oreficeria. Suo
maestro fu Leonardo di Ser Giovanni, orafo fiorentino, ritenuto ai tempi il miglior maestro di
Firenze. Avendo imparato a disegnare e a lavorare la cera iniziò a fare alcuni lavoretti in bronzo e
marmo, i quali gli uscirono talmente tanto bene che decise di abbandonare l’oreficeria per
diventare scultore. Sono tanti quelli che imparano a disegnare imparando l’oreficeria, che poi
diventano grandi artisti. Iniziò, quindi, a scolpire di giorno e disegnare di notte, senza mai fare
altro.
Vasari loda questo suo comportamento perché secondo lui ci vuole dono, ci vuole vocazione, ma
senza impegno non si arriva da nessuna parte. Dice infatti che nessuno diviene mai qualcuno,
eccellente, in una qualunque professione senza aver patito fin dall’inizio caldo, freddo, fame, sete e
ogni disagio. Aggiunge che quelli che pensano di diventare qualcuno senza mai faticare si stanno
solo ingannando.
A quindici anni Luca venne mandato a Rimini a fare alcune statue e alcuni ornamenti di marmo
per Sigismondo di Pandolfo Malatesti, signore della città. In questa sede Luca della Robbia diede
dimostrazione della sua bravura nella scultura di bassorilievi. Dopo essere ritornato a Firenze, gli
commissionarono cinque statuette di marmo che mancavano, secondo il disegno di Giotto, a
completamento di quelle di Andrea Pisano, nel museo dell’opera del Duomo.
1. Nella prima venne ritratto Donato (non Donatello) che insegna la grammatica
2. nella seconda Platone e Aristotele per la filosofia
3. nella terza un uomo che suona un liuto per la musica
4. nella quarta Tolomeo per l’astrologia
5. nella quinta Euclide per la geometria.
Queste opere per le loro fattezze vennero considerate migliori di quelle di Giotto. Visto l’esito del
lavoro, gli venne commissionata una cantoria (appesa all’alto) all’attuale Museo dell’Opera. Luca
studiò a lungo l’opera, e gli uscì bene, un’opera pulita e rifinita nel dettaglio ma c’era un problema,
gli mancava il giudizio, che non consiste solo nel vedere come sta rispetto al basamento, ma è
anche il fatto di capire come l’opera viene vista dallo spettatore. La cantoria da lui realizzata era
molto raffinata, bella e dettagliata ma, proprio per queste sue caratteristiche, i fedeli non
sarebbero riusciti a vedere tutto il dettaglio a causa della lontananza. Donatello invece fece una
cantoria molto più grossolana, con figure meno rifinite, non precisa ma che fa più effetto, perché si
vede meglio da lontano e da sotto, rispetto a quella di Luca della Robbia. Inoltre, la cantoria di
Donatello appariva un miglior lavoro perché sembrava quasi abbozzata, a differenza di quella di
Luca, che appariva più volte ritoccata e cambiata. Nell’arte ciò che conta è il primo schizzo, la
prima idea, che è quella che dà il tono all’opera e molte volte è la cosa migliore. A volte la bozza è
meglio dell’opera finita. Per esempio, Raffaello faceva lo schizzo, poi le opere venivano fatte dai
suoi allievi, soprattutto Giulio Romano. C’è l’idea che l’importanza dell’opera stia nella prima idea
dell’opera e spesso quando si modifica si rovina. Il primo schizzo dà il senso dell’opera, è il più
capace di esprimere l’idea che l’artista ha. similitudine con la poesia.
Vasari riporta poi una similitudine con la poesia: egli non scriveva poesie su ordinazione, scriveva
solo quando aveva inventiva, infatti le sue poesie venivano chiamate “poesie d’occasione”. Il
furore poetico è ciò che accomuna i pazzi e i poeti, coloro che escono fuori di sé perché Dio occupa
le loro anime momentaneamente. Così anche le opere artistiche sono migliori quando sono fatte
ad un tratto dal furore. È un’idea platonica ma anche ben condivisa in quel periodo.
Finita quest’opera gli fu commissionata la porta di bronzo della sagrestia, che divise in dieci
quadri, cinque e cinque, per fare in ogni quadro il volto di un uomo. Ciascun volto era diverso:
furono rappresentati giovani, vecchi, gente di mezz’età, chi con la barba e chi raso, in diversi modi,
tutti belli, tanto che il telaio risultò essere un capolavoro. Nei quadri rappresentò la Madonna con
bambino, Gesù Cristo che esce dal sepolcro, sotto gli evangelisti e più in basso i quattro discepoli.
Ma al termine di questa grande opera si rese conto di quanto lavoro avesse fatto, di quanto tempo
avesse speso per farlo e di quanta fatica avesse impiegato e decise di lasciare il marmo e il bronzo
iniziando a lavorare la creta, materiale che si smercia velocemente e che richiede meno risorse
fisiche e tempo. Ora gli mancava solo di scoprire come conservarle: il metodo che trovò prevedeva
che venissero conservate con un materiale composto da vari minerali . Per quest’invenzione
venne lodato molto. Dopo il successo di questa sua invenzione volle che le prime opere fossero
quelle che sono nell’arco che è sopra la porta di bronzo di Santa Maria del Fiore della sagrestia;
fece:
1. La resurrezione (sacrestia delle messe )
2. L’ascensione di Cristo (sacrestia vecchia)
Ora, non bastandogli quest’invenzione, cercò di ideare un modo per pitturare quelle opere. Sotto
la richiesta di Cosimo de’ Medici Luca creò un pavimento singolare, creato a inizio anni 500 e
distrutto a metà anni 600: oggi conserviamo 12 pannelli superstiti. Il tutto era molto particolare
grazie al metodo di cottura della terra. Luca creava queste opere in modo perfetto tanto che questi
lavori non solo si diffusero per tutta Italia ma anche per tutta l’Europa.
Però Luca non era il solo che dipingeva queste piastrelle, ma aiutò Agostino e Ottaviano a uscire
dalla loro condizione più povera e li inserì in questa sua attività. La loro opera più famosa fu la
volta della cappella di San Iacopo. Fecero i 4 Evangelisti e nel mezzo della volta, in un cerchio, lo
Spirito Santo, riempiendo il resto di vani a scaglie che, più vanno verso il centro più diminuiscono.
Il nipote di Luca, Andrea, lavorò con il marmo, in una maniera molto bella ,come si vede nella
cappella di Santa Maria delle Grazie fuor d’Arezzo. Vasari racconta di come ebbe l’opportunità di
parlargli da giovane e di come Andrea gli raccontò con orgoglio di aver partecipato al sepolcro di
Donato. Morì nel 1528, all’età di 84 anni, ed ebbe due figli e fu sepolto (come Luca) nella chiesa di
San Pier Maggiore.
Nel corso della sua vita, Luca, passò da un lavoro all’altro, dal marmo al bronzo e dal bronzo alla
terra e questo continuo cambiamento non lo faceva perché, come gli altri, non era contento della
sua arte o perché era instabile o perché voleva essere fantastico ma perché si sentiva attirato da
queste nuove esperienze e dal bisogno di seguire il suo gusto, ovvero con poca fatica e con molto
guadagno.
Luca della Robbia muore nel 1482.

VITA DI PAOLO UCCELLO, PITTORE FIORENTINO


Vasari inizia con il dire che Paolo Uccello sarebbe stato un pittore molto più bravo se avesse
passato più tempo nella rappresentazione di figure e animali anziché nella prospettiva. Tornare
sulla propria opera per correggerla, in un momento successivo, toglie l’idea della propria opera, e
invece di migliorarla, essa peggiora. Questo è generato dal fatto di voler studiare geometricamente
tutto, cercando ogni minimo errore da modificare. Paolo Uccello dedicò molto tempo e molte
energie allo studio della prospettiva, esagerando nella geometria secondo Vasari. Questa sua
passione per la prospettiva lo condusse alla cosiddetta “maniera secca”, tipica del Quattrocento
con il suo gusto per la prospettiva e per i corpi rigidi. Vasari non approva l’arte anti-naturalistica
di Paolo per la concezione intellettuale dello spazio e l’uso astratto del colore, per il quale gli
associa un destino povero e di poca fama. Secondo Vasari la prospettiva deve essere saputa fare
ma deve anche essere nascosta, con colore e sfumature, mentre Paolo Uccello rappresenta opere
visibilmente geometriche, così da far diventare la maniera secca.
Questo genera il voler raggiungere la perfezione, diventando solitario, strano, malinconico e
povero, come Paolo Uccello divenne, a causa del suo diletto nel dedicare tempo alla prospettiva.
Non c’è nessun dubbio che chi studia troppo porta a termine lavori che visibilmente non sono stati
portati a termine con la grazia e la facilità che contraddistingue chi lavora con giudizio (regola
della sprezzatura: non bisogna mostrare lo sforzo per non cadere nell’affettazione).
Paolo Uccello è raffigurato con uno solitario, strano, malinconico e povero perché nessuno lo
chiama più a lavorare.
L’artista deve amare la grazia, e sotto questo aspetto, Vasari sostiene che nessuno batte Raffaello.
Nel caso di Paolo Uccello l’esercizio su ogni singolo aspetto del disegno finisce per rovinarlo. Una
piccola critica di questo tipo che riporta Vasari va anche ad Andrea Mantegna perché disegnava
solo statue antiche, senza varietà di esercizio, e finisce per diventare un vizio.
Esercitarsi tropo in un’opera fa diventare artista stentato. Paolo, dunque, andò sempre dietro a
questi lavori difficili, tanto che portò alla perfezione il modo di mettere in prospettiva le piante e
gli edifici e i tetti. Tanto si interessò a queste facoltà che introdusse nel tempo modi e regole di
posizionare le figure in prospettiva. Trovò il modo di mettere in prospettiva ogni cosa e Vasari per
questo lo critica: Vasari sostiene che passarono mesi senza che lui si vedesse, e se lui avesse speso
tutto quel tempo nello studio delle figure, anche se già aveva buona pratica nel disegno, le avrebbe
portate a termine in maniera perfetta, ma utilizzando il suo tempo per studiare la prospettiva, si
trovò a vivere una vita da povero più che da famoso.
In una cappella di Santa Maria Maggiore dipinse un'Annunciazione con particolari effetti
prospettici che danno allo spettatore l'illusione di uno spazio più ampio del reale. Lavorò poi
anche a San Miniato, fuori Firenze, dove dipinse le dodici storie dei Santi Padri, nelle quali non
utilizzò un solo colore, e in questo Vasari ci dice che sbagliò, in quanto le opere che imitano la
natura non possono sembrare di pietra e viceversa.
A proposito di un suo lavoro in San Miniato si raccontava che avesse abbandonato l'opera
incompiuta perché stufo del formaggio che gli veniva quotidianamente servito, ma quando spiegò
il problema a due frati che lo riferirono all'abate questi, molto divertito, lo fece tornare e gli
procurò altri cibi.
Poi dipinse nella chiesa di Santa Maria del Carmine.
A casa De’ Medici dipinse un telaio che raffigurava animali. Amava dipingere animali, soprattutto
gli uccelli (da cui deriva il soprannome), essendo povero e non potendosene permettere di veri. A
casa De Medici dipinse fra i tanti animali dei leoni che combattevano fra loro, che sembravano
reali. Egli passava tutte le notti a fare esercizi di prospettiva anche rifiutando la moglie. Rifiutare
la moglie nella società del tempo, fa pensare a una velata accusa di omosessualità anche perché
viene rappresentato effemminato (questo spiega l’appellativo uccello). Inoltre, l’appellativo viene
utilizzato anche dallo stesso artista in documenti e opere a partire dalla seconda metà degli anni
Trenta del Quattrocento. In Santa Maria novella realizzò un Diluvio Universale, una delle sue
opere migliori che gli procurò grande fama. Vicino al Diluvio dipinse l'Ebbrezza di Noè e il
Sacrificio di Noè all'approdo dell'arca.
Affrescò in Santa Maria del Fiore, un lavoro molto ricordato oggi, il condottiero Giovanni Acuto a
cavallo, lavorò quindi a un ciclo di storie di San Benedetto nella chiesa di Santa Maria degli Angeli
(opera perduta). Invitato da Donatello, Paolo si recò a Padova per affrescare i Giganti nel palazzo
Vitali (opera perduta).
In casa sua teneva dei ritratti da lui dipinti, di cinque personaggi che considerava innovatori:
1. Giotto come iniziatore della pittura dei suoi tempi
2. Brunelleschi nell'architettura
3. Donatello per la scultura
4. sé stesso per la prospettiva
5. l'amico Giovanni Manetti per la matematica
Infine, vecchio e depresso per il giudizio negativo di Donatello sull'affresco Incredulità di San
Tommaso, si ritirò nella sua casa e smise di lavorare. Morì povero e dimenticato nel 1432 all'età
di ottantatré anni.
La vita di Paolo uccello diventa l’emblema del pittore che si perde dietro una specializzazione sola
e perde anche sé stesso, diventa un uomo il cui esercizio così ostinato lo porta a impoverire la sua
arte e sé stesso. È l’artista che rappresenta tutti i difetti della seconda età. Tecnicamente molto
bravo, ma non riesce ad andare oltre alla specializzazione della matematica e prospettiva.

VITA DI LORENZO GHIBERTI, PITTORE E SCULTORE


Vasari parte con un proemio celebrativo di Ghiberti, ma anche del modo di procedere dei
fiorentini. Ghiberti non gli sta simpatico: Ghiberti ci ha lasciato un testo scritto diviso in tre libri,
nel secondo libro ricorda gli artisti fiorentini prima di lui, da Cimabue, per arrivare a fare una
celebrazione molto esageratas di sé stesso, molto scioccante per il tempo. Inoltre, un altro testo “la
vita di Filippo Brunelleschi” scritta da Antonio Manetti, dà un’immagine negativa di Ghiberti.
Il miglioramento è un chiodo fisso di Vasari. L’artista deve continuare a ricercare e migliorarsi.
L’emulazione virtuosa di altri che diventano famosi e ricchi. Questo processo di emulazione a
Firenze è stato importante: Vasari dice che un motivo per cui i fiorentini sono eccellenti nelle arti
è perché vengono spronati dalle emulazioni e dalle critiche, infatti i fiorentini sono maligni e
criticano spesso chi non raggiunge la perfezione.
Finito il proemio, inizia il racconto della vita, che riprende tutte le notizie date da Ghiberti nei
Commentarii (lo scritto autobiografico). Lorenzo Ghiberti nasce a Firenze fra il 1378 e il 1381 e
imparò dal padre l'arte dell'orefice, ma fin da giovane si interessò anche di disegno, scultura e
pittura.
• Egli rifiniva il bronzo già indurito, che mai esce perfetto.
• Rifà delle monete antiche.
• Molti degli artisti della seconda età sono anche coniatori di monete e medaglie,
generalmente speciali.
Nel 1400 a causa di un'epidemia e di disordini politici, Lorenzo lasciò Firenze e si recò a Rimini
dove dipinse alcune stanze della residenza di Pandolfo Malatesta. Conclusa la pestilenza, Lorenzo
fu richiamato a Firenzei dal padre in quanto la corporazione dei Mercanti di Firenze aveva indetto
una gara per due nuove porte in bronzo per il Battistero di San Giovanni, lasciò quindi la
Romagna e tornò alla sua città perché gli si presentava un’occasione per farsi conoscere e per
mostrare le proprie capacità in tutta Italia. Furono scelti sette artisti: Brunelleschi, Donatello,
Iacopo della Quercia, Niccolò d’Arezzo, Simone del Colle val d’Elsa e Lorenzo Ghiberti e fu loro
assegnato il compito di realizzare in un anno una formella di bronzo che rappresentasse il
Sacrificio di Isacco. La differenza tra Ghiberti e gli altri artisti sta nel fatto che tutti hanno tenuto
nascosto il proprio progetto, per non imitarsi, ma soltanto Lorenzo continuava a mostrare ai
cittadini l’opera, per avere un confronto, e Vasari dice che in questo Lorenzo fa benissimo. Infatti,
Lorenzo portò a termine un lavoro molto ben fatto. Allo scadere del termine una giuria di
trentaquattro esperti scartò quattro delle prove; lasciando Brunelleschi e Donatello che però si
ritirarono spontaneamente affermando che l’opera di Lorenzo era la migliore. L’opera di Lorenzo
sembrava fatta d’un colpo solo, senza tornarci sopra. Secondo Filippo e Donatello l’opera era da
commissionare a Lorenzo, e fanno un passo indietro perché avrebbe donato alla città un’opera
migliore delle loro. Donatello e Filippo non sono invidiosi, ma sono generosi, cosa che non accadrà
con Lorenzo Ghiberti, che da questo successo, diventando noto in tutt’Italia, si gonfia di superbia.
Quando furono installate le porte procurarono a Lorenzo la pubblica ammirazione ed egli ebbe
l'incarico di realizzare una statua di bronzo di San Giovanni Battista che fu collocata in una
delle nicchie esterne di Orsanmichele.
La Corporazione dei Mercanti gli commissionò la terza porta del Battistero decidendo che
avrebbe sostituito quella di Andrea Pisano da spostarsi all'entrata laterale dell'edificio. I
committenti concessero piena libertà alla creatività di Lorenzo e non posero limiti di tempo o di
spesa. Lorenzo divise la porta in dieci riquadri raffiguranti episodi biblici. Fra i molti personaggi
pose il proprio ritratto e quello del padre.
Quando gli fu chiesto un giudizio sulle porte di Lorenzo, Michelangelo le definì adatte per il
Paradiso. Di solito si dice che è da questo detto di Michelangelo che gli ultimi due battenti vengono
definite “le porte del paradiso”. Durante il Medioevo, però, la processione ripeteva il percorso che
avveniva da Santa Reparata al Battistero di San Giovanni, le cui porte erano denominate “porte del
paradiso”. Il nome, quindi, non viene quindi dato da Michelangelo ma fu presente sin dal
Medioevo.
L'opera richiese venti anni di lavoro, ovviamente non solo Lorenzo fece l’opera ma fu aiutato da
molto altri artisti quali Filippo Brunelleschi, Masolino da Panicale, Niccolò Lamberti, Parri Spinelli,
Antonio Filareto, Paolo Uccello, Antonio Pollaiolo. In riconoscimento alla sua arte Lorenzo fu
nominato magistrato e ricevette un podere presso Badia di Settimo.
Solo alla fine la critica viene fuori: uno scrittore, tuttavia, non può criticare spudoratamente un
artista. Vengono quindi fatti accenni ma è nella vita di Brunelleschi che viene descritta l’incapacità
di Lorenzo Ghiberti di relazionarsi con gli altri e di riconoscerne i meriti (aneddoto della cupola).

VITA DI MASOLINO, PITTORE


Masolino da Panicale, si forma come orefice presso Lorenzo Ghiberti, avendo una buona resa,
soprattutto nei rilievi, nei corpi umani e nei vestiti. A diciannove anni entra nella bottega di
Gherardo Starnina, dal quale impara a dipingere, e dalla pittura mai si allontana. Se ne andò a
Roma per studiare e mentre viveva lì gli venne commissionata una stanza dal cardinale Giordano
Orsini.
Roma aveva un clima torrido e umido d’estate e molti non sopportavano l’estate romana, anche
per ragioni di malaria e altri tipi di febbre, anche Vasari dovette scappare da giovane da Roma, e
farsi riportare ad Arezzo. Anche Masolino scappò da Roma per questa ragione e tornò a Firenze,
dove presso la chiesa di Santa Maria del Carmine dipinse la figura di San Pietro, in pendant a un
San Paolo di Masaccio, che tutt’oggi si può vedere. Dopo quest’opera guadagnò successo e gli
venne commissionata da Felice Brancacci, la cappella Brancacci, una cappella di famiglia sita
nella chiesa di Santa Maria del Carmine. Affrescata dal 1424; nel 1427 Masolino parte per
l’Ungheria e la cappella viene affrescata dal solo Masaccio, che muore nel 1428. La volta prevedeva
la rappresentazione dei quattro evangelisti. Gli affreschi delle tre lunette vennero perduti nel
Settecento. Le figure vennero fatte a grandezza naturale, e con molta grazia, e con capacità nella
sfumatura dei colori. Vasari associa Masolino a pieno titolo al nuovo stile rinascimentale (rilievo,
forza nel disegno, unione nel colorire etc).
Unione nel colorire: Vasari inizia a vederla nei pittori a partire da Stefano Fiorentino. Capacità di
far sfumare un colore nell’altro senza creare grossi contrasti di colore e di luce.
Quest’opera fu molto stimata per le sue fattezze, molto lontane dallo stile di Giotto. Molte storie
non vennero terminate a causa della morte sopraggiunta. Vasari dice che fin da giovane ha
studiato troppo e questo gli minò la salute.
Il guaio di Masolino e Masaccio è che muoiono giovani, il primo muore a 37 anni e il secondo a soli
26 anni.
Per Vasari sarà il primo modello del disegno, il più perfetto modello da imitare, studiare e
ricopiare fino al cartone della battaglia di Cascina di Michelangelo di inizio Cinquecento. Ci vorrà
un secolo per avere un modello migliore di questo.
Vasari dice che trova le tecniche di Masolino molto diverse da quelle dei pittori suoi predecessori:
egli raggiunse la maestà delle figure, data dalla capacità di modellare gli occhi e i corpi, quella di
lavorare su luci ed ombre, di rendere più dolci i volti femminili e ai giovani abiti più leggiadri. Ma
ciò che fece meglio furono, secondo Vasari, le sfumature dei colori che riuscirono a donare alle
carni la morbidezza. Se fosse vissuto più a lungo, affinando la tecnica, si sarebbe annoverato tra i
migliori, perché le sue opere sono ben fatte, seppur non perfette.

VITA DI MASACCIO DA SAN GIOVANNI DI VALERIO, PITTORE


Vasari articola il paragrafo introduttivo parlando di tre coppie di concetti che ritornano
regolarmente come topos della sua teoria artistica:
1. EMULAZIONE E CONCORRENZA essenziali per migliorare.
2. STUDIO E INDUSTRIA
3. La FAMA che si ottiene con l’ONORE E GLORIA
Firenze fu vissuta nello stesso periodo da Brunelleschi, Donatello, Lorenzo Ghiberti, Paolo Uccello
e Masaccio, ognuno eccellente nel proprio genere. Questo permise di eliminare quelle che Vasari
definisce “le goffe maniere”, le brutte maniere che erano giunte fino a quel momento e ad
avvicinarsi e a compiere la bella maniera che eliminava tutti quei elementi brutti e sgraziati. Noi
dobbiamo essere grati a questi artisti che grazie alla loro fatica hanno permesso alla terza età di
raggiungere la perfezione.
Masaccio non ha tempo di andare a Roma a studiare la scultura e l’architettura antica, ma
Brunelleschi gliela insegna.
Con Masaccio si va verso la capacità di dare volume alle figure, che la prima età non riusciva
ancora a dare.
Vasari inizia con un proemio, ma non sapendone molto, lo unisce in un gruppo di toscani, ognuno
eccellente nel proprio genere, che arriva a superare i limiti della prima età. Il gruppo toscano è
composto da Brunelleschi, Donatello, Paolo Uccello, Lorenzo Ghiberti e Masaccio. È il punto di
svolta rispetto alla prima età, che ha dato inizio a un percorso. La svolta verso la perfezione, il
superamento dei problemi rispetto la rappresentazione delle figure, la ripresa dei modelli classici,
è dovuta a Masaccio.
Tommaso, detto Masaccio, fu un pittore nato nella valle che da Arezzo scende a Firenze. Era una
persona astratta disordinata, sempre con la testa tra le nuvole e molto sbadato e trasandato e
sporco ma era molto generoso, senza cura di sé stesso (è proprio da questa caratteristica che
deriva il suo soprannome). Si dedicò all’arte collaborando con Masolino alla cappella Brancacci,
disegnando figure che fossero quanto più possibile reali, e progettò opere moderne.
Operò accuratamente e prestò attenzione anche alla prospettiva. Cercò più degli altri artisti di fare
corpi nudi, poco disegnati prima di lui. Fece poi una Madonna con bambino che si trova nella
cappella di Sant’Ambrogio (oggi agli Uffizi). Masaccio non fa grandi contrasti di colori, ma il colore
della pelle non deve contrastare con i colori dei panni.
Masaccio è quello che segna la distanza tra la maniera precedente e la pittura moderna che andrà
verso la perfezione.
In Santa Maria Novella dipinse una Trinità con la Madonna e Giovanni Evangelista che
contemplano Cristo in croce, ai lati due figure inginocchiate che sono di chi commissionò l’opera.
Gli elementi belli di questo dipinto, oltre alle figure, è la volta a mezza botte tracciata in
prospettiva e divisa in quadri e coperta da cassettoni degradati che la coprono così bene che
sembra uscita dal muro.
Masaccio rispetto a Gentile da Fabriano o a Pisanello ha uno stile completamento diverso, infatti
abbandona lo stile gotico di Pisanello e usa uno stile che lo fa sembrare di un’altra epoca, non
contemporaneo.
Tornato a Firenze, dopo il ritorno dall’esilio di Cosimo de Medici (che lo aiutò e lo favorì molto),
dovette terminare la cappella Brancacci, che Masolino aveva cominciato e che non riuscì a
terminare a causa della sua morte.
Quando i pittori dovevano fare un affresco o quadro a quei tempi, avevano dei consulenti che di
solito erano eruditi, letterati, filosofi e sono questi soggetti a ispirare i nuovi modelli. Cambiano
dunque i modelli, alla pittura religiosa di affianca un altro tipo di pittura.
E mostrò ancora una volta la sua maestria nella pittura tanto che se la maniera della prima età
consisteva nel dipingere figure che galleggiano nell’aria in punta dei piedi, lui riuscì a posarle nello
spazio, a scortarle in prospettiva.
Mentre dipingeva la cappella Brancacci gli fu assegnato un affresco della Sagra in Santa Maria del
Carmine, dov’egli dipinse di verde la terra e rappresentò una processione in occasione della
consacrazione della Chiesa nel 1422. Dopo questo lavoro torna alla cappella Brancacci, dove
continua le storie di San Pietro, cominciate da Masolino finendone una parte.
Questa cappella fu frequentata da molti pittori (e ogni pittore che studiò qui divenne un grande
attore a sua volta come Giovanni da Fiesole, Filippo lippi, Alesso Baldovinetti, Andrea del
Castagno, Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello) e si può dire che nessun
pittore prima di lui si avvicinò così tanto ai moderni quanto Masaccio.
Tutti coloro che hanno voluto apprendere qualcosa sono andati a visitare questa cappella. È
credenza di molti che lui avrebbe affinato ancora più la tecnica se non fosse morto così giovane a
ventisei anni.

VITA DI FILIPPO BRUNELESCHI, SCULTORE E ARCHITETTO


Filippo Brunelleschi fu smunto nella persona ma di ingegno incomparabile e dotato di numerose
virtù.
dopo molti anni in cui gli edifici venivano costruiti senza grazia, con progetti deludenti, con strane
invenzioni, con disgraziatissima grazia (ossimoro riferito all’architettura gotica), si pensava che
Filippo fosse mandato sulla terra per poter sistemare queste cose. Filippo nacque per migliorare
l’arte: costruì la cupola più alta, e la migliore tra tutte, quella di Santa Maria del Fiore in Firenze.
Nel Trecento, la cattedrale precedente viene rasa al suolo, ma sbagliano i conti e lo spazio lasciato
per costruire la cupola è talmente grande che nessun architetto è in grado di costruire la volta di
essa, fino a che arriva Filippo Brunelleschi. Questa storia viene drammatizzata come superamento
di un limite (limiti degli artisti medievali).
Era un uomo pieno di virtù, infatti nessuno fu mai più nobile d’animo e generoso rispetto a lui.
Il padre Ser Brunellesco, stimato cittadino di Firenze, aveva sposato una giovane della nobile
famiglia degli Spini e nel 1377 nacque Filippo. Gli studi di Filippo tendevano a farlo diventare
notaio come il padre ma, poiché egli dimostrava altre inclinazioni, Brunellesco lo mandò a
lavorare come apprendista presso un suo amico orefice.
Quando gli insegnavano il latino lui pensava ad altro: si dichiarerà infatti homo senza lettere.
Filippo apprese rapidamente l'arte orafa e prese ad esercitarla ad alto livello dedicandosi anche
all’orologeria; quindi, si interessò alla scultura e strinse una profonda amicizia con il giovane
Donatello, contemporaneamente cominciò a realizzare le sue prime opere architettoniche.
La sua prima scultura di grandi dimensioni fu una statua di Maria Maddalena in legno che andò
perduta in un incendio nel 1471. Dipingeva spesso ambienti cittadini per portare avanti il suo
studio della prospettiva e perfezionare la sua tecnica in questo senso, tecnica che insegnò
all'amico Masaccio.
Donatello scolpì un cristo crocifisso mostrando la sofferenza di esso, gli elementi brutti, mentre
Brunelleschi dice che l’arte deve sempre imitare l’ottimo, la bellezza anche quando si deve
rappresentare una sofferenza. Questo aneddoto porta alla nascita della ricerca della maniera bella.
Criticando l’opera di Donatello, Brunelleschi fu sfidato dall’amico a creare un’opera migliore e così
fece. Filippo, lavora per mesi a questo crocifisso portando a termine un ottimo lavoro, tanto che un
giorno Donatello torna a casa, trova davanti il crocifisso di Brunelleschi e gli cadono dalle mani le
uova appena comprate per la magnificenza dell’opera.
L’arte deve rappresentare il bello anche se è in uno stato di sofferenza: essa deve essere
accettabile e non trasformarsi in contorsioni brutte. Quello di Donatello è un errore di teoria
estetica: abbandonare il bello per rappresentare il brutto, che è ciò che faranno i tedeschi.
Nel 1401 si svolse il concorso per una nuova porta del Battistero alla quale parteciparono sia
Filippo che Donatello ma conclusero entrambi che la prova di Lorenzo Ghiberti era stata la
migliore e si prodigarono con grande generosità per convincere i giudici ad assegnare la vittoria a
Lorenzo. Filippo, dopo il concorso, donò la formella con il Sacrificio di Isacco preparata per il
concorso a Cosimo de' Medici che la fece esporre nella sagrestia di San Lorenzo.
Poco dopo Filippo Brunelleschi e Donatello si trasferirono a Roma per studiare sui modelli classici
di architettura e scultura. In particolare, Filippo studiò la volta del Pantheon mentre si
concentrava nella ricerca di una soluzione per la cupola della nuova basilica di Firenze. Quando i
loro fondi furono esauriti, Donato tornò a Firenze e Filippo rimase a Roma.
Per molti anni Filippo si trattenne a Firenze proseguendo nei suoi studi per la cupola e
collaborando di tanto in tanto con Ghiberti. Ripartì per Roma ma fu presto richiamato a Firenze
per essere consultato sul problema della cupola: non si riusciva a costruire in quanto le
imbracature in legname allora in uso risultavano inadeguate per il volume e per il peso dell'opera.
Filippo ottenne l'incarico ma una fazione di artigiani e di cittadini sostenne che sarebbe stato
imprudente affidare una simile opera ad un solo architetto e pretese che anche Ghiberti avrebbe
dovuto collaborare alla tecnica. La collaborazione fu difficile ed i due artisti si trovarono presto in
competizione. Irritato dal fatto che Lorenzo, pur percependo lo stesso compenso, evitava di
assumere responsabilità, Filippo si finse malato costringendo Ghiberti ad ammettere di non essere
in grado di dirigere da solo la costruzione; quindi, lo obbligò a farsi carico di un compito di sua
scelta e riuscì finalmente a dimostrare l'inadeguatezza del collega e rivale.
A Brunelleschi non importava che Ghiberti avesse uno stipendio come il suo, come architetto della
cupola, ma non poteva sopportare che tutto il suo lavoro, tutta la fatica di anni, lo studio, che la
fama gli fosse rubata dopo tutto il suo lavoro.
Vediamo una grande differenza tra questi due grandi artisti: Brunelleschi rimane una persona
generosa, e Vasari continua a ripeterlo, aiuta gli artisti poveri, chi ha bisogno di un progetto,
Ghiberti, invece, viene rovinato dalla vittoria del concorso che lo fa salire in superbia. Anche se
non li ha mai conosciuti, Vasari lo percepisce.
L’autobiografia, a quei tempi, era considerato un atto di superbia e Ghiberti va contro tutto ciò che
è il primo a scrivere un’autobiografia nei Commentarii.
Filippo non può sopportare che qualcuno dica di essere coautore di quell’opera unica. Ad un certo
punto cerca un modo per togliersi Ghiberti di torno. Era normale per gli architetti, oltre ai disegni
tecnici quella di fare un modello tridimensionale, di farlo fare ad un esperto scultore di legno. Il
modello deve rispettare le misure in scala e deve essere il più dettagliato possibile: scale
illuminate e scure, gli occhi per far passare la luce, porte, catene, speroni. Lorenzo chiese di
vederlo ottenendo una risposta negativa. Ghiberti ne elabora uno a sua volta e si fa pagare il
modello sei volte più di quello di Brunelleschi, intascandosi quei soldi (oltre al fatto che il modello
era inutile).
Quando Filippo si finse malato il lavoro si fermò, e le persone che dovevano costruire la cupola
fisicamente andarono da Filippo che disse “vorrei fare io da solo” al che le persone capirono che
stava fingendo perché voleva lavorare su questo progetto da solo. Sono due le cose difficili da
mettere in atto:
1. I ponti per fare in modo che i muratori possano murare
2. La catena
Alla fine a Filippo fu resa piena autonomia decisionale ma presto incontrò altre difficoltà con una
parte dei lavoratori che reagiva negativamente al suo rigore. Filippo seppe risolvere con grande
energia anche questa situazione licenziando i lavoratori sediziosi e poi riassumendoli a salario
ridotto.
Filippo seguì il lavoro passo per passo (diversamente da Leon Battista Alberti) e organizzò il
lavoro con idee brillanti, come un sistema di ruote e contrappesi per trasportare i carichi in alto o
come l'iniziativa di aprire un'osteria nella cupola in costruzione per evitare che i lavoratori
perdessero tempo scendendo e risalendo quando avevano bisogno di ristoro.
“Tremare e temere” è concetto più alto a cui un artista può arrivare. Solo tre opere nelle Vite
provocano timore e tremore:
• Cupola del Brunelleschi
• Gioconda di Leonardo per via dello studio anatomico
• Giudizio universale di Michelangelo
Filippo morì nel 1446 e fu sepolto in Santa Maria del Fiore nel cordoglio generale dei concittadini.
Il Buggiano, suo discepolo, eseguì il suo ritratto in un busto che fu collocato nel Duomo.

VITA DI DONATO, SCULTORE FIORENTINO


La vita di Donatello, da un punto di vista della presentazione dell’artista, è una vita deludente e
problematica, come se Vasari non fosse riuscito a trovare qualcosa per renderla interessante,
soprattutto dopo la Vita di Brunelleschi non riesce ad esaltare. È strano perché nel proemio alla
seconda età ne aveva data un’immagine eccellente, tanto che non sapeva se metterle nella seconda
o nella terza età, quella della perfezione. Di nessuno della seconda età aveva dato un giudizio così
positivo: né di Masaccio, né di Brunelleschi. Quando si arriva alla vita di Donatello, ci troviamo di
fronte a una vita priva di proemio. A parte un paio di aneddoti già anticipati, la vita di Donato
rimane deludente, un mero elenco di opere. Sarà che erano già stati utilizzati gli aneddoti inerenti
Donatello in Paolo Uccello, in Luca della Robbia, l’aneddoto del cristo con corpo da contadino e del
crocifisso di Brunelleschi. Rimane ben poco: anche la sottolineatura della sua noncuranza per i
soldi rimane abbastanza isolata.
Donatello nacque fra il 1382 e il 1390 anche se si dice che nacque nel 1403. Venne allevato a
Firenze da una famiglia importante e arrivò alla sua perfezione nei bassorilievi, nei quali seppe
imitare gli antichi. In gioventù fece molti lavori ma raggiunse la fama con un’Annunciazione, in cui
Vasari dice che espresse bene le passioni e il decoro di Maria che fa una reverenza, così come le
parti tecniche. Vasari non ricorda più il viaggio a Roma (di cui parla nella vita di Brunelleschi).
A suo tempo, nella prima metà del Quattrocento, si vedevano solo gli edifici dalle colonne in su,
qualche sarcofago e gli archi trionfali. Nei sarcofagi può aver studiato i bassorilievi, ma non aveva
grandi modelli per le figure a tutto tondo e in questo gli va riconosciuto la grandezza.
Successivamente Vasari riporta nuovamente l’aneddoto del Cristo contadino; aneddoto rispetto la
ricerca della bellezza: mentre nel bassorilievo è stato perfetto come giudizio e disegno, qui sbagliò
perché non rappresentò una figura ideale come quella di Cristo, ma volendo arrivare a una
rappresentazione realista o espressionista, con l’obiettivo di far esprimere la contorsione del
corpo, il dolore, finì per rappresentare un corpo sgraziato. Questo per la teoria della bella maniera
è un errore. Così devono intendersi le parole di Brunelleschi, che lo critica aspramente. Donato,
stupito, gli ordina di farne uno. Brunelleschi per non smentirsi dopo molti mesi ne realizza uno
perfettamente definito. Vasari sviluppa l’aneddoto già raccontato nella vita di Brunelleschi
togliendoci il piacere di leggerla ex novo nella vita di Donatello.
Vasari successivamente ricomincia con l’elenco delle opere: cita varie opere fiorentine che
stabiliscono la fama di Donatello, che verrà poi chiamato a Padova.
C’è un aneddoto sul giudizio, quello della cantoria “a grosse bozze”, che risulta molto meglio di
quella di Luca della Robbia. Donatello dovette realizzare un San Marco Evangelista: dopo aver
realizzato un’opera grossolana (contrariamente a quella di Luca della Robbia, curata nel
dettaglio), Donatello la fece appendere, assicurando che poi l’avrebbe lavorata. Senza averla
ritoccata, la scoperse destando meraviglia: la medesima opera grossolana, per terra sembrava
fosse imperfetta, appesa appariva perfetta.
Vasari continua a porgli lodi abbastanza scontate. Per il resto quello di Vasari è tutto un elenco.

Vasari inserisce una novella che riguarda una contesa per il pagamento di un suo lavoro: piuttosto
che far pagare poco il lavoro, lo distrugge. Si tratta di una rivendicazione che riguarda la bontà del
lavoro, non la necessità di diventare ricco: Donatello non sarà mai ricco.
Dopo la vecchiaia, divenuto decrepito, venne soccorso da Cosimo de Medici, non potendo più
lavorare.
Vasari continua poi con l’elenco delle opere.
I padovani cercarono di farlo lor cittadino e gli diedero da fare i bassorilievi nella Basilica del
Santo. Ma essendo a Padova considerata una persona miracolosa e lodato da tutti, Donatello
decise di tornare a Firenze. A Padova tutti furono soddisfatti dei suoi lavori e le continue lodi non
l’avrebbero condotto ad alcun miglioramento, a Firenze invece le continue critiche dei fiorentini
malefici dalla lingua lunga, lo avrebbero spronato a migliorare.
La scuola di Donatello si esaurisce a Firenze. Alla fine del Quattrocento: morto Rossellino,
Desiderio, si ritrova Bertoldo che verrà assunto da Lorenzo il Magnifico per guidare una sorta di
anticipazione di una scuola di scultura, Scuola di San Marco, perché nella vita di Michelangelo,
Vasari racconta a che la scultura a Firenze non era più in voga, allora chiama un vecchio allievo di
Donatello. Dispone una serie di frammenti antichi che fungono da modelli per i giovani e chiede
alle principali botteghe di Firenze che mandino i giovani migliori per istruirli sulla scultura. Qui ci
sarà il primo scontro tra Michelangelo e Torreggiano che per invidia gli spacca il naso. Ce l’avrà
per sempre storto.
Donatello lavorò tutto, dall’artigianato alle statue in marmo, bronzo, bassorilievi. Egli non ritornò
mai sulle cose, aveva l’idea ed era veloce nell’esecuzione e con molta facilità terminò i suoi lavori.
Questo è il maggior elogio che possa fare: paragonare qualcuno a Michelangelo. Nonostante gli
elogi però, è come se Vasari non fosse riuscito ad esprimere la grandezza di Donatello.
Con le vite di Masaccio, Brunelleschi (pittura e ingegneria) e Donatello (scultura a tondo,
bassorilievo, marmo, bronzo), Vasari crea una sorta di trinità delle tre arti: essi insegnano agli altri
come si deve operare. Chi viene dopo ha il lavoro facilitato, perché prende spunto da loro tre.
Vasari non oppone ancora il disegno fiorentino alla scuola veneziana, ma lo farà presto.
VITA DI ANTONIO FILARETE E DI SIMONE, SCULTORE FIORENTINO
Vasari inizia criticando papa Eugenio IV per non aver dato maggior attenzione agli artisti che
avrebbero costruito la porta di San Piero di Roma in quanto in quel periodo, in vita sia Donatello
che Brunelleschi e anche altri artisti molto capaci il papa si accontentò di alcuni artisti poco
talentosi che crearono un’opera molto sciagurata, trascurata e disgraziata. La porta venne
realizzata tra il 1433 e il 1445, Filarete, quindi, in questa opera fece uno spartimento, ovvero una
tecnica per indicare la suddivisione in quadri di una composizione pittorica o scultorea, semplice e
di basso rilievo, ovvero possiamo trovare a destra e a sinistra due figure messe verticalmente:
• Sopra troviamo il Salvatore e la Madonna
• Sotto troviamo San Piero, che sta reggendo la spada e il libro e San Paolo nell’atto di
consegnare le chiavi a Eugenio IV inginocchiato al suo fianco
• Sotto ogni figura, inoltre, possiamo trovare la storia del santo sopra.
• In calce alle immagini principali troviamo altri due rilievi con scene storiche:
• Il riquadro sul retro della porta reca una firma figurata, in cui l’artista si ritrae mentre
danza insieme ai suoi aiuti, i nomi dei quali sono incisi ai loro piedi.
In questi 12 anni però non hanno lavorato solo sulle porte ma hanno anche fatto sepolcri di papi e
cardinali di cui però oggi non ne abbiamo traccia.
Dopo quest’opera fu condotto a Milano dal duca Francesco Sforza.
Simone, fratello di Donato (cosa che probabilmente Vasari sbagliò in quanto Donatello aveva solo
una sorella), dopo il suo lavoro alla porta fece di bronzo la sepoltura di papa Martino. Da qui in poi
Vasari inizia ad elencare alcuni lavori che fece Simone, che però oggi sono attribuite ad altri artisti.

VITA DI PIERO DELLA FRANCESCA, PITTORE DAL BORGO A SAN SEPOLCRO


Prima di Vasari non esisteva l’idea della conservazione, dello sviluppo artistico e del fatto che le
opere d’arte andavano contestualizzate e capite nella loro epoca. Infatti, le uniche opere superstiti
di Piero della Francesca sono in territori periferici, mentre quelle realizzate a Roma furono
raschiate via per far dipingere a Raffaello, più moderno, le stanze vaticane. C’era l’idea che la
pittura dopo un po’ fosse vecchia e fuori moda, ideale non condiviso da Vasari, che salverà,
rifacendo la chiesa di Santa Maria Novella, un dipinto del pittore, facendo tagliare il muro.
Vasari dà avvio alla Vita con un piccolo proemio. Sono tutti infelici coloro che dopo tutta la fatica
che hanno passato a studiare e ad allenarsi muoiono prima di poter terminare un’opera,
soprattutto un’opera quasi finita. Inoltre succede spesso che le opere non finite possono essere
rubate da qualche avaro e pubblicarle sotto il loro nome. Vasari dice che colui che ha cercato di
rubare l’onore a Pietro fu Luca Pacioli, ma si sbaglia, infatti Luca era un frate francescano che a
Milano insegna e traduce dei testi arabi e li fa conoscere a Leonardo.
Piero della Francesca fu maestro dei corpi platonici, dell’aritmetica e della geometria, divenne
cieco e infine morì precocemente.
Piero della Francesca è anche considerato maestro dei cinque poliedri regolari → chiamati
anche corpi platonici in quanto furono anche analizzati da Platone nel Timeo e da Euclide
nell’ultimo libro degli Elementi che ispirò particolarmente Piero:
1. Il tetraedro
2. Il cubo
3. L’ottaedro
4. L’icosaedro
5. Dodecaedro
Nacque a San Sepolcro nel 1406 e prese il nome della madre, Francesca, perché rimane orfano del
padre e anche perché ella lo allevò e lo aiutò a diventare eccellente come oggi lo si ricorda. Fin da
giovane si appassionò della scienza e, diversamente da altri artisti, non abbandona questo studio,
anzi lo applica all’arte.
Iniziò a lavorare presso il conte di Urbino per il quale realizzò molti quadri, distrutti durante le
guerre. Di lui rimasero degli scritti di geometria e prospettiva, nella quale fu eccellente in vita sua,
come dimostra un vaso disegnato delineando ogni sfaccettatura geometrica, utilizzando tanta
grazia e minuzia. Acquistata la fama, volle farsi conoscere in altri luoghi: fu chiamato a Ferrara dal
Duca Borso, dove dipinse molte camere nel palazzo che furono poi rovinate da Ercole I d’Este,
successore del Duca Borso che voleva rinnovare il palazzo. Le sue opere furono quindi cancellate
per lasciare spazio a quelle nuove: non rimane niente a Ferrara se non la cappella di
Sant’Agostino, malridotta dall’umidità.
Vasari non ci dice molto della vita e nemmeno delle opere di Piero della Francesca ma dice che
non gli costa nulla ricordarlo, in quanto le opere che fece (rase al suolo) parevano vivi, erano così
ben lavorati che gli mancava solo la parola per sembrare animati. Alcuni di questi ritratti sono ben
noti perché Raffaello li fece copiare per avere l’effigie di coloro che furono grandi artisti. Tutti
questi ritratti furono commissionati a Paolo Giovio da Giulio Romano, discepolo di Raffaello, e dal
Giovio posti in un museo a Como.
Paolo Giovio raduna nella sua villa sul lago di Como un Museo, inteso come galleria di ritratti di
uomini illustri, accompagnati dalle Elogia, testi esplicativi che identificano e illustrano i ritratti.
Vasari torna poi a parlare di Piero della Francesca e ne elenca delle opere: da Loreto, Piero tornò
ad Arezzo dove dipinse per Luigi Bacci la Cappella dell’altare maggiore di San Francesco, la cui
volta era già stata iniziata da Bicci di Lorenzo (e non Lorenzo di Bicci, suo padre, come dice
Vasari). In questa opera si narra la Leggenda della Vera Croce, che narra la storia del
ritrovamento del legno su cui Cristo fu crocifisso.
Fu discepolo di Piero Lorentino d’Andreo o d’Arezzo e non d’Angelo come dice Vasari, dove imitò
il suo stile e fece molte opere ad Arezzo.
SBATTIMENTO: il contrasto tra luce ed oscurità.
Piero, studioso dell’arte, si esercitò nella prospettiva e nella terracotta. Successivamente Vasari
inizia a parlare di qualche allievo, tra cui Luca Signorelli (Vasari ricorda che era suo parente).
Morì di cataratta nel 1492.

VITA DI FRA GIOVANNI DA FIESOLE DELL’ORDINE DE’ FRATI PREDICATORI ( BEATO


ANGELICO ), PITTORE
Giovanni Angelico nacque a Fiesole nel 1400, frate domenicano del convento di San Marco.
Molto raramente Vasari loda gli artisti religiosi ad eccezione di Giovanni da Fiesole.
Molto spesso Vasari scherza sui frati, prenderli in giro era una tradizione delle novelle a partire da
Boccaccio in poi. Al tempo della Giuntina, però, bisognava prestare attenzione perché il Concilio di
Trento aveva proibito di parlare dei frati nelle novelle ma Vasari ogni tanto cercava escamotage.
Soprattutto il fatto che le immagini femminili non debbano suscitare desiderio sessuale nei fedeli.
Tuttavia, di Giovanni da Fiesole ha una grande stima da uomo e religioso.
Beato Angelico era di famiglia ricca e avrebbe potuto vivere tranquillamente senza prendere i voti,
volle per sua volontà, essendo per natura buono, farsi religioso sotto i domenicani.
Contrariamente a Beato Angelico, c’è chi si fa religioso, non per fede ma per farsi ricco, che viene
considerato da Vasari insopportabile.
Sono opera di Giovanni, nel suo convento di San Marco a Firenze, alcune miniature e altrettante si
trovano in San Domenico da Fiesole, lavorate con incredibile diligenza, sebbene nella loro
elaborazione venne aiutato. Dipinse poi numerose Annunciazioni in diverse chiese.
Per l’infinità di lavori nobilmente portati a termine da Giovanni da Fiesole e per la fama raggiunta
in tutt’Italia, papa Nicola V gli fece affrescare la Cappella Niccolina e miniare alcuni libri. Fece,
sempre per il papa, la Cappella del Sacramento, che fu poi rovinata da Paolo III per costruire le
scale. Solo grazie alle copie volute da Paolo Giovio oggi ci rimangono questi ritratti.
Siccome Giovanni da Fiesole apparve al Papa, così com’era, una persona modesta, genuina, volle
nominarlo arcivescovo di Firenze. Venutone a conoscenza, Giovanni pregò il Papa di provvedere
nella ricerca di un altro frate, perché lui non voleva governare i popoli, voleva solamente essere
devoto a Dio. Il Papa gli concesse di dispensarlo dall’arcivescovado. Fu cosa rara e di gran bontà
rinunciare ad una carica così onorevole offerta da un sommo pontefice (dignità) e concederla al
prossimo. Vasari invita gli uomini contemporanei ad imparare da quest’uomo, a non essere egoisti
e a rifiutare gli incarichi che sanno di non poter sostenere, lasciando il posto a qualcuno che, al
contrario, sarebbe ugualmente degno e in grado di portare avanti l’incarico.
Giovanni da Fiesole con la sua vita santa diventa colui che si acquista, senza avere la superbia del
pittore o del miniatore (che avevamo visto in Dante) sia la fama del cielo, sia la fama eterna in
terra, per quanto può durare la terra.
Vasari dice che gli uomini che prendono i voti devono essere fedeli ai loro voti ed essere santi
uomini, perché quando queste funzioni religiose vengono operate da persona che credono poco,
fanno cadere in appetiti disonesti: lussuria, ricchezza, potere.
Per quanto riguarda l‘arte, la vita di Giovanni serve a Vasari per mettere in chiaro certe cose
rispetto ai problemi che stavano nascendo fin dai tempi della prima edizione a proposito
dell’osceno (concetto elaborato dai tempi del concilio di Trento).
Bisogna distinguere bene la bellezza negli occhi dell’artista e la bellezza che i fedeli possono
intendere come sessuale. Se appare, effettivamente, una donna bella tanto quella dei dipinti, cosa
farebbero i fedeli.
Non bisogna dipingere il brutto, bisogna sempre dipingere il bello, soprattutto quando si parla di
santi e di sante. Vasari lo dirà ancora a proposito della pietà di Michelangelo: viene criticato
perché la Madonna è troppo giovane. La Madonna è intangibile, giovane e bella. La bellezza deve
rappresentare la bellezza dell’animo. Il pittore deve sempre seguire la bella maniera, l’obiettivo di
mettere su tavola il più bello del bello, e sbagliano gli inetti che non comprendono questa regola e
non capiscono che non si tratta di essere lascivi, ma di onorare le anime sante.
Vasari dice che il problema non sta nel pittore che interpreta la bellezza, sono coloro che vedono
lascivia che hanno dei problemi. Il problema sorge quando nascono in loro desideri nei confronti
di giovani e donne. Loro dovrebbero cercare la perfezione, non la lussuria.
A questo punto Vasari deve precisare: Vasari difende il giudizio universale di Michelangelo, dove
le anime sono nude e chi voleva veder male, poteva veder male. Aretino diceva che Michelangelo
aveva sbagliato: non aveva considerato che le figure nude non devono essere fatte in una chiesa,
ma sono pitture da sauna (le saune avevano fama di essere dei “bordelli”). Questa polemica nasce
proprio mentre Vasari scrive le Vite, siamo nei primi anni Quaranta. Aretino oggi è conosciuto solo
per le sue opere erotiche, i sonetti accompagnavano i disegni con le quarantaquattro posizioni
realizzati da Giulio Romano. Tuttavia, egli aveva anche una produzione sacra. Aretino, in realtà,
poteva anche reclamare il posto da cardinale della chiesa cattolica (che non gli fu mai dato).
Vasari lodando la purezza di Giovanni da Fiesole, castiga chi pensa male. Nelle sue opere non ci
sono nudi, ma quando dipinge la Madonna la dipinge bella, non pensa al fatto che quella Madonna
può ispirare desideri sessuali nei fedeli. Per questo vasari lo esalta.
Giovanni da Fiesole fu un uomo santo (mai abbastanza lodato) che evitò tutte le occasioni
mondane. Non si curò mai di avere potere, il suo unico obiettivo era il paradiso. Dedicò la sua
intera vita a Dio. Si esercitò sempre nell’arte della pittura e non volle mai disegnare altro al di
fuori dei santi. Non gli interessò mai la ricchezza: anzi, sosteneva che la vera ricchezza era
l’accontentarsi di poco. Non fu mai veduto in collera, e quando voleva rimproverare qualcuno lo
faceva con il sorriso, bonariamente.
Non ritoccò mai i suoi dipinti, perché sosteneva che il primo schizzo era quello voluto da Dio. Si
dice che non abbia mai dipinto prima di pregare. Questa per Vasari è una grande virtù: la prima
idea, la prima ispirazione è quella che conta, altrimenti ci si allontana dal concetto di “grazia”.
Morì nel 1455, lasciando tra i suoi discepoli Benozzo.

VITA DI LEON BATISTA ALBERTI, ARCHITETTO FIORENTINO


Inizia con un proemio che parte dall’importanza della preparazione letteraria degli artisti: Vasari
sostiene che l’elemento che porta l’immortalità di un artista è essere nominati da scrittori (i pittori
antichi sono famosi solo per gli scritti su di loro). Mentre i libri erano riproducibili con la stampa,
le opere d’arte no.
L’eccezionalità dell’Alberti sta nel fatto di essersi occupato di tante discipline. È ricordato come
architetto, come letterato e come scrittore di testi teorici dell’arte: soprattutto per la sua
produzione latina; De pictura, De statua, De re aedificatoria sono trattati importanti. Vasari,
tuttavia, ne dà un giudizio limitativo perché lo ritiene un teorico: anche quando fa l’architetto fa il
progetto ma non ne segue la costruzione. Lo definisce infatti, “architetto fiorentino”.
Figlio di nobile famiglia, nato a Firenze (Vasari sbaglia in questo caso, nasce in realtà a Genova nel
1404 quando la famiglia è in esilio), fu abile aritmetico e scrittore. Scrisse dieci libri in latino
riguardo l’architettura, tre dei quali riguardavano la pittura e vennero tradotti da Cosimo Bartoli.
Scrisse un testo in endecasillabi sciolti, raro per i tempi. L’Alberti fece poi il modello per rinnovare
in stile rinascimentale la Chiesa di San Francesco a Rimini per Sigismondo Malatesti. Come Johann
Gutenberg nel 1457 (Vasari sbaglia, è il 1450) ha trovato il modo di stampare libri con uno
strumento meccanico, l’Alberti ha trovato il modo di ingrandire e diminuire le figure per la
prospettiva, forse con delle lenti e degli specchi.
L’innovazione della stampa è subito collegata alle innovazioni artistiche in una sorta di
complementarità tra le une e l’altra. Di questa vita Vasari parla di due invenzioni che hanno
rivoluzionato il mondo:
• La stampa dei libri
• La prospettiva: fu una rivoluzione non solo in pittura, ma anche in matematica, talvolta
rivoluzionando negativamente il mondo.
Con la prospettiva nasce la cartografia moderna che dà un aiuto notevole alle spedizioni navali;
non a caso a fine Quattrocento le spedizioni di scoperta aumentano e cambiano l’immagine del
mondo. L’altro uso della prospettiva che cambia il mondo è la balistica: le armi da fuoco si
conoscevano già, ma senza la prospettiva matematica era impossibile stabilire la gittata dei
cannoni. Quando ci furono le guerre d’Italia, grazie alla prospettiva matematica, i Francesi
riuscirono a conquistare le città perché adoperarono i cannoni in modo molto più efficace rispetto
agli italiani.
Grazie agli studi e alle invenzioni di quel periodo è cambiata la rappresentazione del mondo sulle
carte geografiche, l’arte della guerra e il modo di pensare l’uomo nello spazio.
Vasari non ama la prospettiva, addirittura scrive una vita in cui dubita sull’utilità della
prospettiva in pittura. Ai tempi di Alberti si voleva rifare la facciata principale di Santa Maria
Novella in marmo, Giovanni di Paolo Rucellai, a cui l’avevano commissionata, chiese consiglio a
Leon Battista, suo amico, il quale non solo lo consigliò ma gli fece l’intero progetto.
In pittura l’Alberti non fece grandi opere, nemmeno molto belle e perfette. Vasari insiste sulla
discrepanza tra l’eccellenza nelle lettere, negli studi e l’imperfezione nella pratica artistica.
Ciononostante, riusciva con il disegno a chiarire bene le sue idee, come si può vedere in alcune
carte presenti nel libro dei disegni di Vasari.
Libro dei disegni di Vasari: egli era un grandissimo collezionista di disegni e incisioni, ma quella
collezione era destinata al Duca Francesco I. Fece poi alcune altre opere fino a quando nel 1472
morì, lasciando di sé la fama dopo aver vissuto onoratamente e da gentiluomo tutta la sua vita.

VITA DI ANTONELLO DA MESSINA, PITTORE


Con la vita di Antonello da Messina Vasari vuole introdurre la pittura ad olio. Essendo che anche i
pittori fuori dall’Italia hanno la necessità di migliorare la pittura e la loro tecnica vediamo come
Giovanni da Bruggia, un giorno, lavorando nelle Fiandre, lasciò un suo dipinto ad asciugare al sole,
dopo averci passato moltissimo tempo. Quando però torna a vedere il risultato si accorse che il
sole aveva rovinato tutto. Da quel momento Giovanni inizia a sperimentare diverse tecniche. Dopo
varie sperimentazioni scoprì che l’olio di semi di lino e di noci, tra i tanti olii che aveva provato,
erano quelli che si seccavano più facilmente. Bolliti assieme ad altre miscele, davano vita alla
vernice da tutti fortemente desiderata:
• Il colore era molto acceso
• Dopo che si asciugava il colore rimaneva comunque acceso e quindi non c’era il bisogno di
ripassarlo
• Era anche molto più semplice da sfumare rispetto alla tempera.
Molto felice della sua scoperta iniziò ad realizzare molti lavori con questa tecnica, raffinandola.
Dopo che si sparse la voce della sua nuova invenzione in tutt’Italia e nel resto del mondo, crebbe il
desiderio da molti artisti di conoscere la tecnica, ma egli per molto tempo non volle essere visto
mentre lavorava perché non voleva rivelare a nessuno il segreto.
Il caso della pittura ad olio è il caso di invidia più diffuso che però non arriva a far del male.
Solo una volta divenuto vecchio confidò il segreto a Ruggieri da Bruggia, suo allievo, il quale a
sua volta lo confidò ad un suo discepolo. Tuttavia, il segreto non varcò mai il confine delle Fiandre.
Ritornando a Antonello da Messina vediamo come, dopo aver visto un’opera a Napoli di Giovanni
si innamorò del suo stile e andò alle Fiandre dove se lo fece insegnare. Dopo la morte del maestro
ritornò a Messina dove continuò ad esercitarsi. Iniziò a dipingere molti quadri sparsi nelle case dei
signori. Alla fine, avendo egli acquisito grande fama e nome, gli fu commissionata una tavola per
San Cassano a Messina. Dopo la scoperta della pittura a olio, fu sempre amato e onorato dai
signori fino alla sua morte.
Fra i pittori ritenuti eccellenti a Venezia spiccò il nome di Domenico Veneziano, che, una volta
arrivato Antonello in città, gli fece tutte le cortesie possibili. Antonello, non voler essere da meno,
dopo non molti mesi gli insegnò la tecnica della pittura a olio. Vasari qua sottolinea che le persone
che non vedono che dietro la gentilezza nasconde un doppio fine sono troppo ingenue. Le
accortezze di Domenico nei suoi confronti gli tolsero di mano ciò che Antonello aveva guadagnato
con tanta fatica e ciò che non avrebbe svelato per nulla al mondo, nemmeno per un’ingente
somma di denaro.
Dopo la tavola di San Cassano, Antonello fece molti altri ritratti a nobiluomini veneziani, infatti a
Venezia fu molto apprezzato come ritrattista. Gli furono poi commissionate alcune storie nel
palazzo della Signoria, ma si ammalò e morì nel 1479 a quarantanove anni. Fu sempre molto
onorato per la conoscenza della pittura a olio. La morte di Antonello ricrebbe a molti suoi amici.
Vasari loda Giovanni e Antonello, uno per aver creato la pittura ad olio e l’altro per averla
importata in Italia, perché entrambi arricchirono l’arte.

VITA DI FRA FILIPPO LIPPI E FILIPPO LIPPI (FIGLIO), PITTORE FIORENTINO


Ci sono due Filippo Lippi di cui Vasari parla (padre e figlio), che Vasari chiama Fra Filippo Lippi e
Filippo Lippi. Noi li chiamiamo Filippo Lippi e Filippino Lippi.
Filippo Lippi nasce al convento del Carmine, dove c’è la cappella Brancacci. Rimane orfano di
madre, che muore poco dopo averlo partorito e di padre quando aveva due anni. La zia quando lui
ha otto anni non può più allevarlo e lo mette in convento dai frati.
Era molto bravo nella manualità ma non tanto nel latino, infatti, al posto di studiare faceva i
disegni sui suoi libri e sui libri degli altri. Il priore decide quindi di insegnargli il disegno.
La cappella Bracacci ha un ruolo importante per fra Filippo Lippi in quanto lui e i suoi amici
andavano sempre a studiare in questa cappella. Durante la giovinezza, oltre che in quegli della
maturità, realizzò moltissime opere lodevoli. Poco tempo dopo lavorò la tecnica detta “a terra
verde” (monocromi di colore verde) dipingendo un San Giovanni Battista nel chiostro vicino alla
sagra di Masaccio.
Giorno dopo giorno la sua tecnica si assimilò a quella di Masaccio, tanto che is disse che lo spirito
di Masaccio fosse entrato in lui.
Dipinse un San Marziale su un pilastro della chiesa del Carmine che gli arrecò molta fama, potendo
essere paragonata alle opere di Masaccio. Sentitosi lodare da tutti a diciassette anni prese i voti.
Un giorno spingendosi al largo su una barca con i suoi amici, fu catturato dai Turchi e tenuto
schiavo per diciotto mesi. Questi, che non sapevano nulla della pittura, furono stupiti dalla
capacità di Filippo Lippi e decisero quindi di lasciarlo libero. Dopo essere stato lasciato passo a
Firenze alcuni mesi.
Un particolare aneddoto di Filippo Lippi è il suo rapporto con le donne. Pensava, infatti, che
avrebbe potuto avere, grazie all’abilità nell’arte, tutte le donne che voleva. Molte volte era così
concentrato sull’amore che non riusciva a portare avanti un lavoro, infatti usciva per spassarsi per
qualche giorno. Si dice che Cosimo de’ Medici, quando gli commissionò un’opera lo rinchiuse in
casa sua per evitare che andasse a perdere tempo con le donne.
Ma il suo desiderio continuava a crescere tanto che calò dalla finestra rischiando di rompersi la
schiena, solo per poter passare il tempo con le donne. Quando Filippo ritornò Cosimo decise di
lasciarlo libera pensando alla pazzia e ai rischi a cui poteva incorrere. Filippo disse che il miglior
modo di poter tirare fuori il migliore di se era di farlo in libertà.
Per dipingere una madonna, Filippo, chiese di avere una modella: la donna che le fece da modella
fu Lucrezia, novizia figlia di Francesco Buti. Si innamorò così tanto di lei che la “rapì” dal quale
ebbe un figlio maschio, Filippino Lippi.
Dipinse poi la Cappella Maggiore del Duomo di Prato, in cui mostrò tutto il suo valore. In questo
lavoro dipinse soggetti con abbigliamenti poco usati a quei tempi, dove iniziò ad esortare la gente
ad abbandonare quella semplicità piuttosto passata. In questo lavoro vennero dipinte le storie di
Santo Stefano in cui ritrae allo specchio anche sé stesso tra tutte le altre figure, vestito di nero, in
abito da prelato, e affianco il suo aiutante Fra Diamante. Quest’opera fu la più eccellente perché le
figure parevano vive.
Filippo fu eccellente in tutte le sue pitture, soprattutto nelle miniature dove superò se stesso tanto
che nessuno riuscì nemmeno a uguagliarlo ai suoi tempi e pochi ai tempi di Vasari. Addirittura,
Michelangelo lo copiò in molte cose, sebbene non l’abbia mai celebrato apertamente.
La comunità di Spoleto chiese un grande pittore a Cosimo de’ Medici, il quale gli inviò Filippo per
dipingere l’abside del Duomo di Spoleto, lavorata con lapislazzuli. Ma purtroppo morì prima di
finirla nel 1438 (In realtà morì nel 1469).
Filippino Lippi fu allevato da Botticello dopo la morte del padre, e questo sottolinea la rottura dei
rapporti con Fra Diamante (il padre voleva che instaurasse dei rapporti con lui).
• Fu il primo che inventò nuovi modi per abbellire gli abiti, con veste antichi.
• Fu anche il primo che ha dato luce alle grottesche che somigliano a quelle antiche.
• Nei primi anni dei suoi lavori finì la cappella Brancacci. Che era stata iniziata sa Masolino e
non del tutto finita da Masaccio, a causa della morte.

VITA DI ANDREA DEL CASTAGNO E DI DOMENICO VINIZIANO, PITTORI


La vita di Andrea del Castagno è particolarmente legata a quella di Domenico Veneziano, che ha
portato la pittura a olio a Venezia dopo averlo imparato da Antonella da Messina.
Una della fonti di informazioni di Vasari era il libro di Antonio Billi, solitamente molto
attendibile, ma nella vita di Andrea del Castagno, dopo aver ricordato le sue opere, conclude
dicendo che Andrea del Castagno ha assassinato Domenico Veneziano per invidia. Sulla base di
questa fonte, Vasari, crea la vita di Andrea del Castagno, sviluppandola come una sorta di novella.
Vasari inizia con un proemio sull’invidia, importantissimo dal punto di vista negativo.
Vasari sottolinea quanto sia biasimevole in una persona così eccelsa il vizio dell’invidia, che
nessuno dovrebbe avere, e quanto sia inglorioso il cercare, specialmente fingendosi amici, di
disonorare un “concorrente” e, soprattutto, il togliergli la vita. Vasari dice che in questi uomini
vive uno spirito non inumano ma crudele e diabolico.
• INVIDIA è una parola latina che probabilmente in latino aveva un senso più forte
dell’italiano: segnalava il voler far del male agli altri, era una specie di malocchio. Nelle
lingue romanze ha avuto percorsi diversi: nel Trecento, in Dante, “invidia” significava
“togliere agli altri”.
• AVARIZIA, dice Machiavelli, non è ossessione nel tenere tutto ciò che si ha, per i fiorentini
quella è meschinità, avaro è chi vuole avere le cose degli altri.
Andrea del Castagno nacque intorno al 1418 in un paesino detto Il castagno, da cui deriva il suo
cognome.
Rimane orfano di padre e cresce con lo zio tra i pascoli, il quale lo alleva vedendo che era molto
sveglio, non solo nel seguire il gregge, ma anche non farlo scappare, nel proteggerlo. Un giorno,
fuggendo dalla pioggia, vede un pittore dipingere e ne rimane affascinato. Da quel giorno in poi
iniziò a disegnare dappertutto. Tutti gli facevano i complimenti e questi complimenti arrivarono
fino alle orecchie di Bernando de’ Medici che lo portò a Firenze e lo affidò ad un maestro di una
bottega, per fargli studiare l’arte, ma non sappiamo chi fosse, neanche Vasari riesce a scoprirlo.
Vasari ci dice che a seguito degli studi, Andrea mostrò grandissima abilità nel superare le difficoltà
nel disegno. Meno bravo fu invece nella pittura.
Quando Domenico porta la pittura ad olio a Firenze, Andrea si sente superato, invidioso.
Vasari elenca le opere portate a termine da Andrea e si sofferma sul Cristo battuto alla colonna
che, per Vasari, merita un’ecfrasi. Fa l’elogio di questa pittura e si lamenta del fatto che è stata
rovinata. Sottolinea inoltre che questa sarebbe di certo stata un’opera splendida se Andrea avesse
saputo dipingere.
Andrea aveva grandissima invidia di Domenico Veneziano perché, sebbene lo superasse nel
disegno, Domenico era molto lodato dai cittadini, dunque, per rabbia e sdegno cercò un modo per
sbarazzarsene. Andrea riusciva a fingere di essere amico di qualcuno ma dietro le sue spalle
criticava le opere altrui e, certe volte, le rovinava addirittura. Non accettava nemmeno le critiche
che gli facevano (alle sue opere).
Andrea fa un lungo piano per potersi sbarazzare di Domenica, ma non prima che gli insegnasse la
tecnica della pittura ad olio.
Domenico ha le qualità dei grandi artisti, che Vasari chiama gli artisti universali: non solo dipinge,
intona canti e poesie (fa serenate) e suona il liuto (come Leonardo). Andrea si finse quindi amico
di Domenico, che in quanto persona di buon cuore lo accolse, portando avanti una vera amicizia
da un lato, e una falsa amicizia dall’altro: ogni notte si trovavano e andavano a fare delle serenate
alle loro innamorate. In questo tempo condiviso, Domenico, volendo davvero bene ad Andrea, gli
insegnò la pittura a olio, che ancora non era nota in Toscana.
In realtà però Domenico morì dopo Andrea, questo lo si scopre quasi un secolo dopo.
Successivamente Vasari elenca e descrive i dipinti portati a termine da Andrea del Castagno. Viene
aggiunta un’opera, probabilmente inventata da Vasari per avvalorare il resto del racconto, che
ritrae sé stesso in Giuda Iscariota, il traditore: Andrea è il traditore, colui che tradisce l’amico
accecato dall’invidia.
Avendo Andrea condotto l’opera al termine, accecato dall’invidia per le lodi che udiva dare a
Domenico, decise di ucciderlo, e dopo aver pensato a diverse vie optò per assassinarlo nel ritorno
a casa dopo una serenata con il liuto (che Domenico suonava), e dopo averlo lasciato a terra, tornò
a dipingere con la tecnica della pittura a olio.
Nel 1478, quando nella famiglia de’ Pazzi morì Giuliano de’ Medici, e fu deliberato che l’assassino
fu Lorenzo de’ Medici, fu ordinato un ritratto d’infamia nel Palazzo del Podestà, di tutti i traditori.
Ad Andrea, essendo a servizio dei Medici, venne dato il compito di fare questo lavoro, che accolse
con grande gioia e fece benissimo. Da quel momento viene chiamato Andrea degli Impiccati.
In questo caso Vasari sbaglia: i responsabili della congiura de’ Pazzi furono dipinti da Botticelli,
Andrea del Castagno dipinse i congiurati Albizzi e Peruzzi.
Subito dopo la Vita di Andrea del Castagno, Vasari inserisce le vite di due pittori gotici, più anziani
di Andrea: Pisanello e Piero Pollaiuolo. Questa correlazione risulta strana: prima Vasari afferma
che il disegno di Andrea è molto efficace, poi però lo mette a capo di una generazione di pittori che
non seguono la linea fiorentina del disegno, ma una linea che va verso il gotico.

VITA DI GENTILE DA FABRIANO E DI VITTORIO PISANELLO VERONESE, PITTORI


In Gentile da Fabriano troviamo un affollamento che nel Quattrocento fiorentino non è presente,
infatti in Leon Battista Alberti nel Quattrocento aveva detto “poche figure”. Le figure nei dipinti di
Gentile da Fabriano sono tante e i quadri sono ricchi di lamine di oro (rimando al gotico). In lui
non si trovano rimandi alla pittura fiorentina, solo alla linea gotica.
Il proemio non funziona, forse perché Vasari vuole creare una dipendenza da Andrea del Castagno
per dire che quella generazione di pittori è nata da un pittore immorale e che continua a sbagliare
nella linea. La generazione che viene dopo quest’artista ha una linea gotica basata sui contorni,
sulla linea, che Vasari non accetta nella pittura fiorentina.
Chi ha un grande maestro parte già avvantaggiato perché gli insegna a risolvere le difficoltà,
invece se uno è senza maestro ci mette molto più tempo ad arrivare all’eccellenza in quanto deve
imparare a risolvere i problemi da solo. Questo lo possiamo riscontrare in Pisanello, un pittore
veronese, ma proviene a Pisa, viene definito veronese perché lavorò molto a Verona. Ha fatto
l’apprendistato alla bottega di Andrea del Castagno e avendo finito le sue opere dopo che egli morì
acquistò fama e papa Martino V lo volle portare con sé a Roma. Gli commissionò alcune pitture che
finì in maniera eccellente perché utilizzò un azzurro marino, così bello e così acceso che tutt’oggi è
imparagonabile alle altre opere. In realtà questa notizia dell’ apprendistato è infondata in quanto
André era più giovane di Pisanello di almeno vent’anni e non poteva essere, quindi, il suo maestro.
A concorrenza delle opere di Pisanello ne dipinse alcune Gentile da Fabriano. Possiamo ricordare i
profeti tra le finestre. Vasari successivamente fa un elenco delle sue opere e gli fa degli elogi
scontati, di poco conto.
Tornando a Pisanello, Vasari ci dice che le notizie riportate sono frutto di immaginazione, perché
non aveva ancora abbastanza informazioni su di lui.
Marco de Medici fu uno degli informatori di Vasari sull’arte veronese, insieme allo scultore Danese
Cattaneo. Vasari sapeva poco dell’arte veronese. Grazie alle notizie dategli dai due aggiunse un
enorme capitolo dedicato agli artisti veronesi, da Fra Giocondo, ai suoi tempi, ad eccezione di
Pisanello, che approfondisce nella sua vita.
Vasari successivamente elenca delle opere di Pisanello.
• Disegnò parecchi animali nella chiesa Santa Nastasia di Verona nella cappella dei Pellegrini
• Dipinse la “Visione di sant’Eustachio” → opera perduta.
Pisanello ritrasse in medaglioni di bronzo dei principi dei suoi tempi, dei quali poi vennero dipinti
dei ritratti.
Vasari termina dicendo che Pisanello venne celebrato dai poeti, cosa importantissima per Vasari
in quanto dice che l’unico modo per un artista di diventare immortale è quello di essere ricordati
dai poeti, citati da loro.

VITA DI LORENZO COSTA FERRARESE, PITTORE


Lorenzo Costa, essendo incline di natura alla pittura si trasferì a Firenze per studiare le loro opere
(di Filippo Lippi e Benozzo…) e dopo che arrivò, essendo che gli piacque molto la loro maniera
rimase per molti mesi a studiar nel le opere e a disegnare dal vivo. Una volta tornato a Ferrara,
anche se aveva la maniera ancora secca fece molte buone opere, tra le quali ricordiamo il Polittico
Griffoni. Il Polittico Griffoni in realtà fu realizzato da Francesco del Cossa (con il quale Vasari
scambia Lorenzo Costa).
Per Vasari, Costa è diligente, ma non è un grande complimento per un artista perché quando sei
diligente, nell’arte, significa che fai vedere la difficoltà la fatica.

Andò poi a servizio di Francesco Gonzaga, gli dipinse molte storie all’interno del palazzo.
Il guaio della collezione Gonzaga è che era enorme e venne in parte perduta e in parte rubata nel
1630. Pochi anni prima la dinastia era finita e vendettero la maggior parte dei quadri, tra cui quelli
di Giulio Romano, citato da Shakespeare come il più grande autore. I quadri di Mantegna furono il
ciclo più importante venduto alla corona inglese.
A Bologna, nel palazzo di Giovanni Bentivogli dipinse stanze devastate nel 1507. Furono suoi
discepoli Ercole de’ Roberti e il Mazzolino.
Questa Vita contiene pochissime notizie, per lo più sbagliate. Leggiamo però un tentativo di far
discendere la scuola ferrarese da quella fiorentina.
Uno degli errori che ritroviamo è quello di confondere Ercole de’ Roberti come allievo di Lorenzo
Costa, quando in realtà fu allievo di Francesco del Cossa.

VITA DI ERCOLE FERRARESE, PITTORE


Vasari ci dice che molto prima della morte di Lorenza Costa, suo discepolo Ercole de’ Roberti fu
chiamato a lavorare in molti posti ma non volle abbandonare il suo maestro. In realtà ercole de’
Roberti fu discepolo di Francesco del Cossa e non di Lorenzo Costa. Vasari dice che non ha voluto
abbandonare il suo maestro per gli insegnamenti trasmessi quando di solito ci si stacca dal
maestro, aprendo bottega, per avere una maggiore fama.
Ercole, riconoscendosi legato a Lorenzo, fu al suo servizio, divenendone simbolicamente fratello e
figlio. Egli dipinse la tavola in San Petronio (Bologna), con talmente tanta buona maniera che è
quasi impossibile vedere di meglio, nemmeno immaginarsi la fatica che Ercole pose in quell’opera.
Vasari elogia Ercole de’ Roberti “grandissima intelligenza e si affaticava nelle cose dell’arte”.
Essendo Ercole nato così valoroso nella sua arte e avendo come usanza, quando lavorava, che
nessuno potesse guardare i suoi lavori, fu molto odiato da tutti a Bologna.
Vasari, anche a distanza di decenni, prova risentimento rispetto alle ostilità che lui dovette subire
nel periodo in cui lavorò a Bologna tra il 1539 e il 1540.
I bolognesi si accordarono dunque con un legnaiolo e si rinchiusero in una cappella mentre Ercole
lavorava e, la notte seguente, entrati nella cappella forzando la porta, non si accontentarono solo
di vedere l’opera ma gli rubarono tutti i cartonati, gli schizzi, i disegni e ogni cosa gli servisse per
portare avanti l’opera. Ercole, provando sdegno nei loro confronti, non appena ebbe finito l’opera
abbandonò Bologna. Morì a causa di un ictus e lasciò Guido Aspertini, suo allievo, che desiderando
di essere stimato come il suo maestro, studiò e si impegno talmente tanto che morì a solo
trentacinque anni. Sui ferraresi Vasari non dice molto. Sui veneziani, invece, ha molte più notizie.

VITA DI IACOPO, GIOVANNI E GENTILE BELLINI, PITTORI VENEZIANI


La vita inizia con un proemio. Una della caratteristiche di queste vite sta nel fatto che la pittura ha
innalzato socialmente questa famiglia. Iacopo Bellini, discepolo di Gentile da Fabriano, fu
concorrente di Domenico Veneziano, che insegnò l’arte della pittura ad olio ad Andrea del
Castagno. Iacopo Bellini si affaticò per diventare eccellente nella pittura, ma riuscì ad esserlo solo
dopo la partenza di Domenico Veneziano. Iacopo ebbe due figli inclini all’arte: Giovanni e Gentile.
Quest’ultimo venne chiamato così in onore di Gentile da Fabriano. Quando i figli crebbero, Iacopo
insegnò loro con diligenza il lavoro del disegno. Non passò molto tempo prima che i figli
superassero il padre in bravura che fu fiero di ciò, infatti, li spronava sempre a migliorarsi, di
vincersi l’un l’altro, così come facevano i toscani, e di continuare una tradizione.
Le prime opere che portarono alla fama Iacopo furono il ritratto di Giorgio Cornaro e di Caterina
Cornaro.
Questi ritratti vennero eseguiti su tela, così come era consuetudine fare a Venezia; non si usava
dipingere su tavole di legno, e le poche che vennero prodotte erano d’abete, che abbondava nella
zona del Suditirolo e al confine con la Slovenia. La pittura su tela era diffusa a Venezia sia perché
non si rompe ed è priva di tarli, sia perché si possono fare pitture della grandezza richiesta e
anche perché è facile trasportarla. Gentile, come il padre, fece le sue prime opere su tela, che gli
arrecarono grandissima fama.
Gentile viene lodato da Vasari per una pittura dipinta per la Sala del Maggior Consiglio, in cui
vengono uniti elementi assai diversi, ma mischiati in maniera ottima. Sempre per questa sala
vennero eseguite altre opere da parte di Giovanni. Giovanni pur avendo i limiti della seconda età
fu giustamente lodato da Vasari.
Le prime opere di Giovanni furono alcuni ritratti di naturale, di cui una tra le più famose è il
ritratto di Leonardo Loredan.
Giovanni dipinse diversi ritratti anche per il sovrano turco, che scaturirono parecchio stupore,
fino al punto che volle conoscere l’artista. Ma, a causa dell’età di Giovanni, decisero di mandare
Gentile che arrivò sano e salvo a Costantinopoli dove venne viziato in quanto ospite. Lì fece un
ritratto dell’imperatore, opera ritenuta talmente tanto divina che il sovrano volle un autoritratto
di Gentile stesso.
Vasari non ha sfruttato l’episodio del rapimento di Filippo Lippi da parte dei saraceni, perché ne
aveva bisogno qui, per parlare dell’effetto che la pittura fa sugli islamici: in un luogo in cui la
pittura è bandita, sceglie di farla apprezzare dal sovrano turco.
Poco dopo il suo ritorno, Gentile, morì e Giovanni rimase vedovo del fratello, con il quale aveva un
ottimo rapporto: continuò a dipingere ritratti dal vivo (di naturale), importando quell’usanza
anche in città. Tra i tanti ritratti fece anche quello di Pietro Bembo prima che andasse a vivere con
Papa Leone X, dipinto così bene che venne celebrato nelle rime di Bembo stesso.
Giovanni Bellino fu inoltre annoverato fra i migliori artisti nella seconda ottava del XXXIII canto
dell’Orlando Furioso di Ariosto. Ariosto in quest’elenco cita anche i due Dosso, che erano i pittori
del ducato di Ferrara mentre ci lavorava Ariosto, e Vasari lo rimprovera per “aver prostituito la
penna” citandoli, in quanto non sono al livello degli altri maestri. Lo rimprovera anche di aver
ingiustamente immortalato coloro che non meritavano di essere al pari dei grandi maestri.
Vasari non si dichiarerà mai poeta, ma cerca di salvare la memoria di grandi maestri.
Vengono infine citati i discepoli di Giovanni (Gian Bellino).

VITA DEL CECCA, INGEGNERE FIORENTINO


Le Vite che Vasari scrive del Cecca sono molto diverse nelle due edizioni: nella prima fa di lui un
ingegnere militare, nella seconda diventa un ingegnere degli spettacoli popolari, soprattutto
religiosi. Molto probabilmente nella seconda edizione Vasari si concentra anche sulla propria
esperienza di architetto e ingegnere di spettacoli, trasferendola al Cecca, perché per lui il Cecca è il
punto di contatto, di trasferimento di una tradizione che aveva avuto fortuna con Brunelleschi e
che poi si è trasferita fino all’inizio del Cinquecento fino a perdersi.
Vasari inventa nuove macchine teatrali, soprattutto per spettacoli religiosi, dove la religiosità
popolare viene attratta dai cieli, dalle stelle, dagli angeli che vengono innalzati in cielo. Lo
spettacolo più famoso è quello delle nuvole che portavano in cielo i putti. È proprio con questo
spettacolo, che Vasari dice di essere finito all’epoca del Cecca.
La Vita si apre con un piccolo proemio: la necessità degli uomini di vivere bene, li indusse a
costruire gli edifici, le statue, i bagni e tutte le comodità che molti bramano e che pochi
posseggono. Ciò comportò la necessità di costruire anche attrezzature create per la trazione dei
carichi pesanti nei cantieri architettonici, e tutti quegli ingegni utili per poter realizzare tutte
queste necessità. E chiunque sia riuscito a creare queste attrezzature venne lodato, come accadde
al Cecca che operò con risparmio, soddisfazione e grazia dei suoi cittadini. Soprattutto gli sono
venute in mano molte cose molto onorate.
Il Cecca fu uno scultore che si divise tra il costruire palchi e il fare lavoro di fino, dedicandosi per
sua passione agli argani e alle macchine da guerra: per questo il comune di Firenze gli diede uno
stipendio per lavoro a tempo pieno.
Vasari introduce poi la descrizione delle nuvole: dicesi che furono inventate dal Cecca per la festa
di San Giovanni. Se è vero che ai tempi di Vasari queste erano quasi del tutto scomparse, è anche
vero che erano feste che si usavano celebrare sia pubblicamente che nelle case private dei nobili.
I cieli rappresentati erano coperti da bambagia (nuvole), dai Cherubini (i bambini che facevano gli
angioletti), Serafini, altri Angeli. Erano diversi i colori utilizzati.
Quando Piancaldoli era accerchiata dall’esercito nemico, Cecca con il suo ingegno riuscì a salvare
molti soldati, anche se dopo, per sua cattiva sorte, fu ucciso.
Vasari ha poche informazioni molto confuse sugli artisti ferraresi; solo dal Novecento abbiamo la
grande riscoperta di informazioni più precise ad essi legate. Vasari, infatti, cerca di dare notizie
precise ma non ci riesce. Ferrara rimane un punto debole all’interno delle Vite perché da un lato,
Vasari la visitò ma solo di passaggio, dall’altro egli non ebbe buoni informatori.

VITA DI DOMENICO GHIRLANDAIO, PITTORE FIORENTINO


Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio fu considerato uno dei più grandi pittore del tuo tempo
grazie alla grandezza e alla quantità delle opere. Seguiva molto il suo istinto e questo era una delle
ragioni per cui era considerato uno dei più grandi pittori di quel tempo.
Iniziò il suo percorso come orafo grazie al padre e fu chiamato Ghirlandaio grazie alla sua
invenzione: ovvero fu il primo che creò quell’ornamento da mettere sul capo delle fanciulle
fiorentine che si chiamavano, appunto, ghirlande. Non solo fu il primo inventore ma tutti gli
ornamenti che erano poi fatti da altre persone non erano piaciute; solo quelli che uscivano dalla
bottega di Domenico erano apprezzate.
Non piacendogli l’arte dell’orario decise di abbandonarlo e darsi alla pittura.
Le sue prime opere furono:
• Ognissanti nella cappella de’ Vespucci, dove troviamo un Cristo morto, alle sue spalle e a
sinistra possiamo vedere Maria che lo abbraccia; sulla destra una figura femminile bionda
forse Maria Maddalena, che gli sta adagiando le gambe per terra. Intorno un gruppo di
variegato di santi, tra i quali San Giovanni, che gli sostiene un braccio, Giuseppe d’Arimatea
e Nicodemo. In alto, nella lunetta, si vede raffigurata una Madonna della Misericordia sotto
il cui mantello, sorretto da due angeli, stanno inginocchiati vari personaggi appartenenti
alla famiglia Vespucci. In primo piano, quasi alle spalle, a profil perdu, si trovano un
anziano vestito di rosso probabilmente Ser Amerigo Vespucci e una donna vestita di nero,
forse sua moglie Nanna Onesti.
Altre opere che possiamo trovare sono:
• Dipinse in santa croce, all’entrata della chiesa, la storia di San Paolino (opera perduta).
• Lavorò insieme a Francesco Sassetti una cappella con storie di San Francesco.
i. Ritrasse il ponte di santa trinità col palazzo degli spini, fingendo nella prima
facciata la storia di San Francesco.
ii. In un’altra facciata fece quando San Francesco rifiuta l’erede irà a Pietro
Bernardone, suo padre, con la presenza del vicario. Di cui troviamo anche la
presenza di Lorenzo il magnifico
iii. Nell’ultima vediamo la morte di San Francesco e un frate che li bacia la mano.
• Il lavoro più famoso fu la Madonna con il figlio in collo e quattro angeli intorno. Lavorata in
tempera.
Fu chiamato a Roma da papa Sisto IV a dipingere la sua cappella con altri artisti; dipinse quando
Cristo chiama Pietro e Andrea e la resurrezione di Cristo.
In questo stesso periodo la moglie di un suo caro amico, Francesco Tornabuoni, morì subito dopo
il parto. Tornabuoni chiese all’amico Domenico di farle la Sepoltura nella Minerva per onorarla.
Volle che Domenico dipingesse tutta la faccia dove era sepolta e volle anche che facesse una
piccola tavoletta a tempera.
In quella parete fece quattro storie:
1. Due di San Giovanni Batista
2. Due della Madonna
Molto soddisfatto del lavoro di Domenico, Francesco lo disse a suo parente Giovanni che,
ascoltando le parole di Francesco, decise di chiedere a Domenico di rinfrescare la parete in Santa
Maria Novella. Giovanni, soddisfatto del lavoro fatto decise subito di pagarlo, ma a Domenico non
interessavano molto i soldi quanto gli interessava la soddisfazione del suo richiedente.
Successivamente Giovanni chiese a Domenico di farli altre opere:
• Due grandi armi di pietra; una dei Tornaquinci e uno dei Tornabuoni da mettere fuori della
cappella
• Oltre a questi due chiese di farli anche di Giachinotti, Popoleschi, Marabotini e Cardinali.
Ritrasse anche Giovanni Tornabuoni
Dopo aver fatto grandissime opere a Pisa e a Siena si ammalò di una gravissima febbre che dopo 5
giorni gli tolse la vita.

VITA D’ANTONIO E PIERO POLLAIUOLO, PITTORI E SCULTORI FIORENTINI


L’incontro tra la virtù dell’artista e capacità del committente è posto guidato dalla fortuna (al
contrario dell’invidia, che è l’elemento che ostacola quest’incontro) → chiaro collegamento a
Machiavelli.
Antonio e Piero Pollaiuolo furono molto stimati per le rare virtù che avevano guadagnato con la
loro fatica e il loro ingegno. Figli di una famiglia non agiata di Firenze, ma essendo nota a loro
padre la loro intelligenza, Antonio fu istruito sotto l’ala dell’orefice Bartoluccio Ghiberti e Piero
istruito da Andrea del Castagno, in realtà però Andrea era morì quando Piero avevo 15 anni. È
sicuro che abbia studiato le opere del Castagno ma molto probabilmente si istruì con il fratello.
Vasari inizia con il raccontare il percorso di Antonio ma interrompe il racconto per introdurre
un’altra figura, Maso Finiguerra, che ebbe fama per la lavorazione del metallo. Non si era mai visto
nessuno che facesse tante figure metalliche quante ne faceva lui, e questo lo dimostrano le paci da
lui lavorate in San Giovanni di Firenze con storie della Passione di Cristo. Di Maso, Vasari ne
parlerà di nuovo nella terza età, dove fa la storia delle incisioni nel mondo moderno.
A concorrenza di Maso Finiguerra ci fu Antonio Pollaiuolo che fece alcune storie che rivelarono la
sua grandezza e dove superò Maso nel disegno, ottenendo così un lavoro nell’altare di San
Giovanni, così come da usanza dei grandi maestri.
Rendendosi conto che l’arte dell’oreficeria non ripagava gli artefici, Antonio decise di dedicarsi
alla pittura, essendo che suo fratello Piero si era avvicinato a quest’arte per imparare il modo per
utilizzare i colori, e ad Antonio risultò un’arte talmente tanto diversa che se non avesse preso la
ferma decisione di abbandonare l’oreficeria, non sarebbe mai giunto il momento di dedicarsi alla
pittura.
Tra le tante opere, iniziarono a dipingere la mitologia.
Vi sono ritratti di umanisti, probabilmente i Pollaiuolo erano in contatto con qualcuno di essi.
Molto spesso il tema da dipingere veniva proposto da qualche letterato e, se l’artista non era colto,
gli chiedeva consigli su come dipingere la storia e su quali elementi porre il riconoscimento dei
personaggi, quali elementi caratterizzanti.
Vasari elogia fin troppo questo pittore, o almeno sembra. Conosce la novità del soggetto per quel
tempo: i fratelli Pollaiuolo e Botticelli iniziano la rappresentazione mitologica del Paganesimo
riportato in auge dagli umanisti, anche se non sembra che ci sia stati rapporti stretti tra umanisti e
pittori. Il rapporto tra letterati e pittori era un rapporto che mediava quello tra committente e
pittore. Inoltre, Vasari loda Antonio del Pollaiuolo per lo studio dell’anatomia, in cui sembra aver
preceduto chiunque altro: si prendevano i cadaveri dei condannati a morte, quelli che non
meritavano sepoltura cristiana e medici o pittori andavano a studiarne l’anatomia per vedere
com’erano strutturati i muscoli e i legamenti.
I fratelli, dopo essere diventati ricchi, muoiono poco dopo. La loro eredità furono i tanti allievi
lasciati sulla Terra, tra i quali Andrea Sansovino (architetto).
“Se forse avesse avuto contrari i tempi”: richiamo alla qualità dei tempi di cui Machiavelli parla nel
XXV capitolo del Principe. In Machiavelli la qualità dei tempi era l’incontro tra l’indole del principe
con ciò che richiedevano i tempi: l’impeto nell’azione o l’attesa. Nell’arte, per Vasari, è meglio
trovare tempi di pace, in cui non ci sono grandi rivoluzioni, ma è allo stesso modo necessario che
ci sia un incontro tra committente e artista.
Infine, Vasari racconta ancora una cosa: gli artisti facevano anche altri lavori a quell’età; pittura di
cassoni, disegno delle bestie da parata religiosa per le feste, gioielli e ricami. Dice che Antonio era
un grande ricamatore.

VITA DI SANDRO BOTTICELLO, PITTORE FIORENTINO


Questa Vita non ha un proemio. Sandro Botticelli nasce a Firenze da un cittadino fiorentino, da cui
viene diligentemente allevato e fatto istruire in lettura e scrittura. Dopo che Sandro imparò tutto
quello che aveva bisogno di imparare, non accontentandosi di una scuola così semplice, il padre,
infastidito dalla stravaganza del figlio, decise di mandarlo in un bottega ad imparare l’arte
dell’oreficeria con Botticello dal quale prende il cognome (in realtà era il fratello di Sandro).
Molti artisti iniziano come orefici e non accade solo a Firenze, ma anche a Bologna con Francesco
Francia: Sandro Botticelli si innamora del disegno e vuole diventare pittore. Il padre,
comprendendo l’inclinazione del figlio, e rispettandola, lo fa istruire da Filippo Lippi, il quale
trasmessogli amore e maniera per la pittura, lo fece diventare un artista eccellente. Siamo di
fronte a un padre, prima infastidito, che capisce e rispetta l’inclinazione del figlio, assecondandolo.
Vasari si lamenta del fatto che spesso i genitori non capiscono le inclinazioni dei figli e vogliono
che facciano ciò che loro preferiscono.
Il suo primo lavoro fu la Fortezza. Dipinse poi un Sant’Agostino nella Basilica di Ognissanti di
Firenze, che è tutt’ora presente.
Prima di Vasari non c’era la concezione di conservare le opere: Vasari non distrugge gli affreschi
antichi, anzi fa tagliare la parete per salvare i dipinti dei predecessori, in questo caso quello di
Botticelli.
La nascita di venere e la primavera di Botticelli sono due delle opere più importanti di Botticelli
oggi, sono il simbolo del rinascimento, ma Vasari dedica a queste due opere solo una semplice
riga.
Data la fama di Botticelli a Firenze, venne chiamato a Roma, dove Papa Sisto IV desiderava fargli
dipingere la Cappella Sistina.
Botticelli fu uno dei primissimi che ha raffigurato la commedia di Dante.
Botticelli inizia a fare dei disegni per illustrare l’edizione della Commedia commentata da Landino.
Finì per essere in ritardo con il lavoro mentre il testo di Landino fu già stampato (anche se fece un
pessimo lavoro in quanto il legno era intagliato male) ma l’artista realizzò solo i primi diciannove
canti. Qualche anno dopo si rimette al lavoro e fa ottantanove disegni, quasi uno per ogni canto:
alcuni li colora altri parzialmente e alti li lascia in bianco. Fa un totale di ottantanove disegni, quasi
uno per ogni canto. Per rappresentare il cammino di Dante e Virgilio lo fa con la
rappresentazione simultanea, tipica dei minatori medievali. Non prende un’immagine per
rappresentare l’atto, disegna narrazioni diverse in un solo atto. Attua il tentativo di racchiudere il
tutto in una sola immagine. Nel Paradiso, Botticelli arriva a un altro tipo di rappresentazione:
forse perché ci sono meno azioni.
Il fatto di non aver portato a termine un buon lavorò lo portò ad abbandonare la pittura, ma non
avendo entrate per vivere, fu un grosso problema. Decise di divenire Piagnone (seguace di
Savonarola), e ne conseguì che abbandonò la pittura pagana e bruciò molte delle sue opere fatte
prima della conversione.
Alla fine della vita Vasari ci parla di un particolare aneddoto.
BURLA DEI CAPPUCCI: Sandro decise di fare uno scherzo, insieme ad un suo allievo, a Biagio
(altro suo allievo) che riuscì a vendere una Madonna con gli angeli. L’indomani avrebbe portato
l’acquirente ad osservarla, per mostrargliele la bellezza e riscattare il denaro. La notte precedente
la Botticelli e quest’altro allievo, Iacopo, fecero otto cappucci di carta, di quelli utilizzati dai
cittadini e li posero sopra le teste degli angeli. Arrivata la mattina, Biagio entro in bottega con
l’acquirente e vide la Madonna, non in mezzo agli angeli come li aveva lasciati ma in mezzo alla
Signoria di Firenze. Biagio iniziò subito a scusarsi con l’acquirente ma vedendo che lui lodava
l’opera, decise di tacere. Dopo aver venduto l’opera, Biagio tornò alla bottega, dove vide gli angeli
essere angeli. Racconto tutto l’accaduto a Botticelli, il quale gli fece credere che lui avesse avuto
dei capogiri a causa dei soldi ricevuti.
Infine, Vasari ricorda un’ultima opera di Botticcello: la tavola dei Magi, che rappresenta la
Calunnia d’Apelle.

VITA DI ANDREA VERROCCHIO, PITTORE, SCULTORE E ARCHITETTO


Verrocchio fu uno di quei artisti che Vasari chiama universali (come suo allievo Leonardo Da
Vinci) grazie a tutte le cose che sapeva fare:
• Era orefice
• Studioso
• Disegnatore di prospettiva
• Intagliatore, anche se non si capisce cosa intende Vasari, se intagliatore di legno, marmo o
pietre dure
• Pittore
• Musico, colui che intonava con la voce le canzoni.
L’unica sua pecca stava nel fatto che gli mancava la dote naturale: infatti sarebbe stato un
eccellente artista in quanto ha passato molto tempo a studiare.
È richiamato il concetto di sprezzatura: studia tanto ma lo studio senza dono è chiaramente
visibile. In gioventù studiò le scienze, in particolar modo matematica e geometria.
In questo tempo mancavano a Roma alcuni degli Apostoli che solitamente stavano sull’altare della
cappella del Papa, per il che fu mandato Andrea al quale vennero commissionati da Papa Sisto
tutti i lavori necessari che egli portò a termine con diligenza e perfezione. Proprio a Roma Andrea
capisce il valore del classicismo, comprende che dedicarsi alla scultura è più redditizio che fare
l’orefice in quel determinato momento. E così iniziò a gettare alcune statuette per le quali fu molto
lodato.
Successivamente iniziò a lavorare il marmo, portando a termine la bara della moglie di Giovanni
Tornabuoni.
Fu poi commissionato a Verrocchio un San Tommaso di bronzo in quanto i committenti non
riuscirono a prendere una decisione: alcuni volevano che l’opera venisse commissionata a
Donatello, altri a Ghiberti. La lotta, tuttavia, continuò talmente tanto a lungo che i due artisti
morirono e le statue vennero commissionate a Verrocchio. Arriva alla fama di Donato, e arriva
addirittura a sostituire i due grandi scultori di inizio Quattrocento: Ghiberti e Donatello.
Non potendo crescere ancora di più di fama in questo campo e non poteva nemmeno diventare
ancora più bravo decise quindi di voltare le spalle alla pittura e dedicarsi al disegno. Iniziò a
disegnare delle opere che però rimasero imperfette, solo il disegno della Dama con il mazzolino fu
un buon disegno e i capelli della donna furono copiati anche da Leonardo nel ritratto di Ginevra
de’ Medici.
Successivamente Verrocchio realizzò la palla di rame per la cupola del Brunelleschi, come egli
stesso lasciò scritto. E siccome non si riposava mai, tralasciava un’opera e ne iniziava un’altra.
Entra un altro dei temi narrativi di Vasari: il maestro che viene superato dall’allievo e decide
quindi di non lavorare più in quell’arte. Quando Verrocchio vede cos’è in grado di fare Leonardo
decide di lasciare la pittura. Verrocchio capisce di non avere il dono e rispetto a chi ha il dono,
come Leonardo, non riuscirà mai a superarlo.
Morì all’età di cinquantasei anni.
Vasari elenca poi gli allievi, tra i quali spiccano: Pietro Perugino e Leonardo da Vinci. Due artisti
completamente diversi: Perugino che resta ancorato alla seconda età, un artista che continua a
ripetersi volta dopo volta (non avendo nessun concorrente in Perugia non riesce più a migliorare)
e Leonardo che apre la terza età e che è l’artista che interviene sempre a innovare. Mentre
Perugino si ripete, Leonardo cerca sempre di cambiare.

VITA DI ANDREA MANTEGNA, PITTORE MANTOVANO


Vasari dice che Andrea Mantegna sia nato a Mantova anche se questo è un errore, molto
probabilmente lo da mantovano perché ha lavorato parecchio per i Gonzaga. Anche questa vita
inizia con il parlare del periodo quando Andrea pascolava le pecore e impara a disegnare.
Questo è uno dei topos ricorrenti in Vasari, quello dell’artista che grazie alle proprie qualità
raggiunge alti vertici sociali. Mantegna, in effetti, è figlio di un falegname.
Il maestro di Mantegna fu lo Squarcione pittore padovano, che oltre a diventare il suo insegnate,
diventò anche il suo padre adottivo. Il loro rapporto era molto bello, lo Squarcione lo aiutava, gli
insegnava e continuava a fargli i complimenti, fino a quando Mantegna sposò la figlia di Iacopo
Bellini, nemico dello Squarcione: da quel momento iniziò un rapporto di inimicizia con il maestro.
Durante una mostra delle opere di Mantegna, lo Squarcione umiliò e criticò pubblicamente l’opera
di Mantegna, disse che:
• Non era un buon lavoro perché nel rappresentarle aveva imitato le opere di marmo
antiche rendendo l’opera simile ad una scultura, rendendola “dura” e non rappresentando
la dolcezza delle linee dei corpi e della natura, come vuole la bella maniera.
• Aggiunge che sarebbe stato un lavoro migliore se al posto di utilizzare diversi colori,
avesse pinto con il colore del marmo, in quanto in questo modo, i soggetti non
assomigliavano a viventi ma a statue di marmo.
Nonostante Mantegna capì che le critiche erano in parte giuste, continuò ad affermare che le
statue antiche erano perfette in quanto i maestri eccellenti avevano preso tutto ciò che di migliore
c’era dalle persone vive.
Iniziò, quindi, ad esercitarsi e a cercare di acquistare la dolcezza necessaria.
Nella Pala di San Zero in Verona, Mantegna migliorò nettamente la sua maniera, soprattutto nelle
opere che dipinse a Mantova, su commissione dei Gonzaga, come la Camera degli Sposi, opera
mozzafiato.
Raggiunse talmente tanta fama che venne invitato da Papa Innocenzo VIII a dipingere la muraglia
del Belvedere, così come avevano fatto molti altri. Si recò quindi a Roma, in veste di cavaliere e fu
accolto amorevolmente dal papa fin da subito. Iniziò a dipingere con diligenza e minuzia, tanto che
i dipinti più che tali sembrano “miniature”. Si dice che essendo il papa molto impegnato non si
occupò di fornire il necessario per la pittura a Mantegna e fu così che egli dovette trovare
soluzioni alternative: utilizzò la terretta (terra che si fa con vasi di credenza che viene mescolata
con carbone macinato) per rappresentare le Virtù e la Discrezione (qui si cita il racconto di
Scardeone che indica l’ingratitudine al posto della discrezione).
Andrea venne descritto da Vasari come artista “di così gentili e lodevoli costumi” in tutte le sue
azioni. Questo è un elemento lodevolissimo per Vasari: è necessario che un uomo sia colto e
gradito, soprattutto in un’età in cui non c’è più la bottega che fa da rete di salvamento, ed è quindi
necessario che gli artisti abbiano queste doti.
Fu citato anche nell’Orlando Furioso da Ariosto rendendolo un artista immortale.

VITA DI BERNARDINO PINTURICCHIO, PITTORE PERUGINO


Inizia con un proemio.
Vasari parla di come molti sono aiutati dalla fortuna senza avere la virtù al contrario altrettanti
sono coloro che possiedono la virtù ma non hanno la fortuna. La fortuna, infatti, aiuta
maggiormente coloro che sono privi di virtù. Vasari inizia a parlare di fortuna e virtù per
evidenziare il fatto che Pinturicchio abbia avuto in vita più fama di quanta in realtà ne meritasse.
Vasari riprende Machiavelli: virtù e fortuna XV capitolo. Machiavelli sosteneva che chi si basa solo
sulla fortuna cade se non è aiutato dalla virtù. Vasari tende ad applicare questo detto a
Pinturicchio che lavorerà aiutato dalla fortuna ma il giudizio che gli altri ne daranno sarà basso. La
fortuna aiuta chi si fonda solo su di lei per diventare conosciuto. Ha avuto più fama che merito.
Nonostante non avesse grande merito ebbe un sacco di committenze.
Avendo lavorato in gioventù molte opere con Pietro Perugino, suo maestro, fu chiamato da
Francesco Piccolomini a Siena per dipingere la libreria voluta da Papa Pio II nel duomo della città.
La libreria Piccolomini, gioiello del Rinascimento, è in uno stile diverso rispetto al resto del
duomo. Le figure hanno un po’ di rigidezza, mancano di carnosità, ma nel proemio Vasari ci dice
anche che Pinturicchio fece lavorare un sacco di persone. Quando sono molte le persone che
lavorano in una sola opera, a causa dello stile diverso, della bravura diversa l’opera molto
probabilmente risulterà sgraziata. Cosa che però non accade in questa libreria, Vasari ci dice che la
libreria era spettacolare a colpo d’occhio e la ragione sta nel fatto che tutti gli schizzi furono fatti
da Raffaello Sanzio.
Pinturicchio usò molto fare gli ornamenti in oro alle sue pitture, per soddisfare le persone che un
po’ di arte se ne intendevano. Vasari dice che non bisogna usare l’oro come si faceva nel Medioevo,
è necessario che sia bravo il pittore, non buona la materia.
In quelle stanze, inoltre dipinse la disputa di Santa aterina d’Alessandria davanti all’imperatore
Massimino e la ricreò in prospettiva, errando. Per questi errori Vasari condanna Pinturicchio: per
l’uso dell’oro con l’obiettivo di rendere più ricca la pittura e per l’errore di prospettiva. Vasari
definisce l’arte di Pinturicchio come “cosa goffissima” e “eresia grandissima” delineandone un
profilo in seguito “strano” e “fantastico”. Non è un caso che questa vita preceda quella di Iacopo
l’Indaco, detto “il bizzarro”, quasi a formare una sorta di dittico. Vasari sostiene che lavorare di
pratica è un grande peccato contro l’arte: il pittore smette di progettare, di pensare, ma ripete ciò
che ha già fatto, lavora di pratica.
Quando ebbe cinquantanove anni, gli fu commissionata una tavola della Natività nella Chiesa di
San Francesco, a Siena; avendo pitturato quest’opera i frati gli offrirono una camera in cui
alloggiare e gliela consegnarono vuota, priva di tutto come richiesto ad eccezione di un cassone
grande e antico. Ma Pinturicchio, come strano uomo che era si lamentò talmente tanto della
presenza di quel cassone che i frati si adoperarono per portarlo via. E fu tanta la loro fortuna che
nel trasferimento si ruppe un’asse, dalla quale caddero cinquecento ducati d’oro. Pinturicchio si
dispiacque tanto amaramente dell’accaduto, essendo così avido e pensando che per la sua
testardaggine di non voler nulla perse il bottino, ripensando che avrebbe potuto avere quei soldi,
morì.
La novella che Vasari riporta serve a trasporre sul piano aneddotico i tratti essenziali dell’animo
di Pinturicchio.
Vasari alla fine della Vita aggiunge che Pinturicchio riuscì a soddisfare molti principi e signori,
perché era presto e spedito, e consegnava velocemente le opere come piaceva a loro, sebbene non
fossero ottime come quelle di chi le fa adagio e con diligenza.
VITA DI FRANCESCO FRANCIA, PITTORE BOLOGNESE
Francesco Francia nacque a Bologna nel 1450 da genitori economicamente modesti.
Come molti altri pittori Francesco nasce come orefice, dove applicò con ingegno e volontà,
divenne una persona, artista moderno, capace di trattare con i committenti e con le altre persone
e per via della sua grazia riuscì gradevole e allegro, fu in grado a tirare su di morale i malinconici.
Ragion per cui fu amato non solo da tutti coloro che lo conoscevano ma anche dai principi italiani
e dai signori. Mentre fece l’orefice si avvicinò al disegno come si vede in alcuni eccellenti lavori di
niello.
• Egli fu eccellente nel coniare medaglie celebrative e monete.
• Un’arte in cui avevano già fatto grandi prove Pisanello e il Caradosso in tempi più recenti.
• Da queste medaglie oltre alla fama ottenne numerosi regali.
Francia, desideroso di maggior gloria, avendo conosciuto Mantegna e altri pittori, decise di
dilettarsi nella pittura, in cui non aveva esperienza. Inizia così ad esercitarsi sulla pittura ad olio
per mesi per poi passare agli affreschi dopo che iniziò a diventare famoso con la pittura ad olio.
La prima opera fu una tavola per Bartolomeo Felisini. Lavorò poi una tavola per i Bentivogli, per
l’altare maggiore della Misericordia con la Natività di Cristo.
Dopo la partenza dei Bentivoglio da Bologna (per suo sommo dispiacere), fece tre tavole che
andarono a Modena. Sparsa la voce della sua bravura, le città fecero a gara per le sue opere. Anche
i ferraresi, nonostante la loro scuola di pittura, vogliono delle opere del Francia. Addirittura, la
Toscana rivendica qualcosa di suo: non le grandi capitali dell’arte toscana (Firenze, Siena) ma
Lucca, dove manda un’opera ritenuta “degna”, che quindi non arriva all’eccellenza.
Dopo che Raffaello arrivò a Roma dove molti arrivarono ad ammirare le sue opere (tra cui i
bolognesi) si mise in contatto con il Francia (dove a Bologna non aveva alcun avversario).
Iniziarono a scambiarsi molte lettere. Francesco aveva sempre voluto vedere, da quel momento, le
opere di Raffaello (dopo aver sentito tutte quelle lodi) ma era ormai troppo vecchio per poter
andare fino a Roma. Un’occasione si presentò quando fu commissionata a Raffaello una tavola di
Santa Cecilia che doveva essere inviata a Bologna. La indirizzò quindi al Francia che aveva il
compito, in quanto amico, di porre la tavola sull’altare così com’era. Il Francia apprese la notizia
molto contento, perché finalmente gli era possibile vedere le opere di Raffaello. La tavola giunse a
Bologna con una lettera in cui Raffaello chiedeva al Francia di sistemare qualunque elemento che
si poteva essere rovinato durante il viaggio. Quando il Francia fece estrarre la tavola
dall’imballaggio, rimase stupito dalla magnificenza dell’opera e soprattutto così tanto addolorato.
Il Francia credeva di essere il migliore, non aveva percepito come l’arte fosse cambiata a inizio
Cinquecento tra Firenze e Roma. Chi non aveva vissuto quel cambiamento era rimasto superato ed
egli era rimasto a Bologna, in periferia, dove non aveva concorrenti.
Alla pinacoteca di Bologna hanno messo la tavola di Santa Cecilia di fronte alle opere del Francia.
Le sue opere viste da sole non sono niente male, ma paragonate a quelle di Raffaello si vede la
differenza. Fece riporre la tavola presso San Giovanni in Monte e a causa del dolore e della
malinconia, come dicono alcuni, morì. Talvolta, altri sostengono che morì improvvisamente a
causa di un ictus.
Francia sa trattare con le persone, è gentile, ha la grazia ma ad un certo punto scopre di essere
superato. Stranamente qui Vasari non dice nulla degli allievi del Francia, ne parlerà nella terza età
a proposito dell’ambiente bolognese. Vuole chiudere la Vita del Francia con questo aneddoto
esemplare: la storia di un artista rimasto in una situazione periferica che pensava di essere il
migliore del suo tempo ma scopre di essere un pittore superato. Cosa che nella sua presunzione,
Perugino non vorrà mai accettare. Il Francia, uomo saggio capisce di essere superato dai tempi.

VITA DI PIETRO PERUGINO, PITTORE


Vasari inizia con il dire che la povertà sprona un soggetto ad impegnarsi ancora di più in quanto
sono alla ricerca di una vita migliore: questo lo si vede chiaramente con Pietro Perugino che partì
da Perugia e si trasferì a Firenze in cerca di fortuna.
Essendo dotato di dono naturale, studiò pittura e lavorò giorno e notte e non conobbe altri piaceri
al di fuori di questo (dormiva addirittura in una cassa non avendo il letto per mesi).
Vasari lo fa nascere povero e gli assegna una grande volontà e dei grandi sacrifici fino a un certo
punto della sua vita.
Perugino nacque a Perugia figlio di un povero signore, detto Cristofano. In realtà, Pietro Vannucci,
contrariamente a quanto afferma Vasari, nacque in una famiglia facoltosa, a giudicare dalle
proprietà dei genitori. Che sia nato a Castello della Pieve, invece, fu confermato dallo stesso
Perugino.
Pietro studiò alla bottega di un pittore di Perugia che però non era molto valido in quel mestiere
ma ha spinto, spronava altri a diventare eccellenti. Fu infatti lui sottolinearne a Pietro quanto
guadagno e onore derivasse da un’eccellente pittura. Così Pietro gli chiese dove si imparava l’arte,
quali erano i migliori maestri e il maestro gli rispose che a Firenze, più che in ogni altro posto, si
formavano grandi artisti, soprattutto pittori in quanto in quella città c’erano tre elementi che li
spronavano:
1. Onorare il buono e il bello, anche andando oltre il nome dell’artista che ha realizzato
l’opera
2. Firenze era una città cara, dove costava molto la vita. Per poterci vivere bisognava essere
“industriosi” quindi utilizzare continuamente ingegno e giudizio ed essere veloce nella
produzione delle opere, per guadagnare quanto più possibile.
3. La cupidità (desiderio intenso) d’onore e di gloria spinge gli allievi a superare i maestri
Una volta laureato devi andare fuori da Firenze per ottenere fortuna. Firenze è come Kronos, che
mangia i propri figli. Essa con il continuo superamento disfa ciò che gli altri hanno fatto: se un
artista è eccellente verrà, con il passare del tempo, superato da qualcuno più bravo e più moderno,
che ha studiato e migliorato le tecniche del suo maestro. È ciò è noto già in Dante nell’XI capitolo
della Commedia, con Oderisi da Gubbio.
Alla ricerca dell’eccellenza, Pietro, si trasferì a Firenze. Il suo maestro a Firenze fu Verrocchio,
studiò insieme a Leonardo, il Ghirlandaio e Filippino Lippi.
Vasari dice che il suo guaio era quello di essere vissuto troppo.
Le sue prime opere furono fuori dalla Porta di Prato, a San Martino, in un convento oggi rovinato a
causa delle guerre. Iniziò inoltre a lavorare opere che vennero successivamente esportate in
Francia, in Spagna e in molti altri Paesi. Essendo che la reputazione delle sue opere fu eccellente,
molti mercanti iniziarono a fare incetta dei lavori e a esportarli, con un notevole guadagno.
Molti dei lavori di Perugino si trovavano fuori dalla Porta a Pinti, nel convento dei Frati Ingesuati
di San Girolamo (confraternita laica del XIV secolo). Il detto convento fu rovinato, ma Vasari ne
descrive buona parte.
Essendo dai fiorentini molto richieste le opere di Perugino, un priore del convento degli Ingesuati
gli fece dipingere un muro del chiostro con una Natività dei Magi che fu portato a termine dal
Perugino in maniera minuta.
Vasari ci racconta poi un aneddoto riguardo il priore: egli fu molto eccellente nel fare gli azzurri
oltremarini con i lapislazzuli e volle che Pietro in tutte le opere che fece all’interno del convento
abbondasse nell’uso di questo colore.
Gli Ingesuati erano studiosi di chimica ed esperti nel preparare i colori, in particolare gli
ultramarini di lapislazzuli, tanto che da loro si riforniva Michelangelo.
Tuttavia, codesto priore era avaro e diffidente, e non si fidò di Pietro, il quale era di natura un
uomo per bene e non avido e, essendo che gli stava stretta la diffidenza del pittore, decise quindi
di farlo vergognare. Prese una catinella d’acqua e iniziando a dipingere, ogni due pennellate
risciacquava il pennello nell’acqua pulita, dov’era più ciò che rimaneva nella catinella che ciò che
aveva utilizzato per l’opera. Il priore, che vide il suo sacchetto di lapislazzuli svuotarsi e il lavoro
procedere alquanto lentamente pensava che la calce consumasse troppo colore. Pietro gli fece
notare che non poteva averli rubati perché anche il priore assisteva ai lavori. Ad un certo punto
Pietro recuperò l’ultramarino e quando il priore fu di ritorno glielo tornò, invitandolo a fidarsi
degli uomini per bene che non ingannano mai chi si fida di loro, ma che volendo possono
ingannare gli sfiduciati come lui.
Vasari non parla sempre male di Perugino: in quest’aneddoto dice che è una persona onesta.
Anche se era un uomo con ideali totalmente differenti dai suoi (dipingeva solo figure religiose,
mentre Vasari era ateo) almeno era però un uomo onesto.
Successivamente Perugino portò a termine molte altre opere che lo condussero a fama e
ricchezza. Addirittura, collaboro alla realizzazione della Cappella Sistina assieme a Botticelli,
Ghirlandaio e Cosimo Rosselli e i relativi collaboratori Pinturicchio, Piero di Cosimo e Luca
Signorelli. Nella Cappella Sistina Perugino disegnò Cristo che consegna le chiavi a San Pietro, in
compagnia di Bartolomeo della Gatta (Priore di San Clemente di Arezzo) e la Natività di Cristo, il
Battesimo di Cristo e la nascita di Mosè. Tuttavia, queste opere vennero rase al suolo per volontà
di Papa Paolo III per lasciare spazio al Giudizio Universale di Michelangelo.
Una volta diventato ricco decise di tornare a Perugia ma la ricchezza gli fece cambiare il modo di
lavorare. Perugino evitò Firenze, evitò Roma dove ci furono altri pittori grandi in quanto non
voleva avere concorrenti. Si trasferì a Perugia dove non vi era la concorrenza e iniziò a ripetere
tutto ciò che aveva già fatto: questa sarà la sua disgrazia. Fece ancora molte opere dopo il suo
ritorno ma qualcosa ormai si era bloccato. Lavorò talmente tanto che continuò a ripetersi: passò
dalla bella maniera che aveva imparato a Firenze, si trasformò in una maniera che continuava a
ripetere, secca. In questo senso si parla di manierismo: avere un modello e continuare a ripeterlo.
Vedendo perdere la grandezza di quel nome che si era fatto iniziò ad offendere tutti gli altri. Iniziò
a sparlare dei nuovi artisti (addirittura alcuni artefici gli fecero dei dispetti) ma soprattutto arrivò
a litigare in pubblico con Michelangelo, che sostenne che in pittura era un goffo. Perugino porta
Michelangelo davanti ai giudici e, questi ultimi, danno ragione a Michelangelo.
Intanto i Frati de’ Servi di Firenze, volendo che la tavola dell’altare maggiore venisse rifatta da un
artista famoso, essendo che Leonardo si trasferì in Francia e Filippino Lippi a metà dell’opera
morì, la commissionarono a Perugino. Per quest’opera erano necessarie due tavole, una al
contrario rispetto al coro e l’altra rispetto alla chiesa:
• Dietro al coro si doveva realizzare Cristo in croce
• Da tanti l’Assunzione della Madonna
Pietro fece, però, delle opere così ordinarie che pose il Cristi davanti e l’assunzione dietro.
Ed esse furono tolte per poter porre il tabernacolo. Quando si scoprì l’accaduto, Pietro fu a lungo
biasimato: i suoi amici per riportarlo sulla retta via gli dissero che non si era impegnato e che
aveva tralasciato o per avarizia o per non perdere tempo. Ancora una volta si era ripetuto ma
venne preso in giro con sonetti e villanie. I sonetti contro i pittori a Firenze erano comuni,
soprattutto quando una figura iniziava a diventare antipatica o per pura antipatia o perché
diventa troppo grande.
L’aneddoto testimonia il cambiamento del gusto nel primo Cinquecento, quando ormai Raffaello,
che cominciava a Roma le stanze nel 1508, Michelangelo che stava per iniziare il soffitto della
Cappella Sistina e Andrea del Sarto con altri allievi, avrebbero rivoluzionato i canoni
rinascimentali.
Ancora una volta prima della sua morte tornò ad impegnarsi, quando dipinse nella chiesa di San
Piero, l’Ascensione con gli Apostoli che guardano verso il cielo: fu lavorata con molta diligenza e fu
la miglior opera presente a Perugia tra tutte quelle lavorate da Perugino.
Non fidandosi più di nessuno, soleva Pietro recarsi al Castello del Pieve (dove stava portando
avanti un’opera) con tutti i suoi denari addosso; un giorno, alcuni lo aspettarono e lo derubarono
ma non lo uccisero. Anche quando riuscì a riavere indietro una parte del bottino, si dice che per il
dolore morì.
L’accusa di avarizia, tanto che il dolore per un furto lo avrebbe quasi ucciso, è ricorrente in tutta la
biografia e partecipa alla costruzione poco nobile del personaggio. Essa è in relazione con i miseri
natali che Vasari attribuisce inizialmente al Perugino.

VITA DI LUCA SIGNORELLI DA CORTANA, PITTORE


Luca Signorelli, fu pittore eccellente che mostrò il modo di rappresentare i nudi ai suoi successori
e che si possono rappresentare in movimento. È stato il primo a mostrare come con le conoscenze
di anatomia si possa raffigurare bene il corpo umano, nudo. Vasari insiste molto sulla capacità di
fare le muscolature ma soprattutto, rispetto ai pittori precedenti, di poter disegnare bene i
movimenti degli arti e i muscoli in pittura (l’articolazione). Luca Signorelli viene qui esaltato per la
capacità di rappresentare i nudi. È chiaro che tale elemento giustifica la sua presenza alla fine
della seconda età, dal momento che essa è l’antecedente dell’arte evocata con Michelangelo nella
terza età e nei suoi nudi. Questa Vita è quindi un ponte tra le due età.
Egli fu allievo e discepolo di Piero della Francesca, si sforzò molto di imitare il maestro e di
superarlo ma la maniera di Luca (dolce e attento ai movimenti) è molto diversa da quella di Piero
(astratto e matematico).
PA Volterra dipinse un affresco nella Chiesa di San Francesco sulla Circoncisione del signore, che
sarebbe stata ancora perfetta se solo il punto rovinato dall’umidità, non fosse stato rifatto dal
Soddoma molto meno bello. Vasari dice che sarebbe meglio tenersi le opere rovinate piuttosto che
farle ritoccare ai dilettanti.
Vasari dice che non si meraviglia del fatto che le opere di Luca furono lodate sempre da
Michelangelo, nemmeno del fatto che Michelangelo riprese nel Giudizio universale le invenzioni di
Luca.
Lui è riuscito a fare i nudi in modo da agevolarne la rappresentazione per i successori, che hanno
imparato da lui. Vasari non ricorda qui la cappella del Pinturicchio, ma ricorda la cappella di Luca
Signorelli per farne un passaggio alla terza età.
Dipinse poi per Papa Sisto il testamento e la morte di Mosè. Se ne tornò infine a Cortona, ormai
vecchio, dove fece un’opera per la Compagnia di San Girolamo.
Alloggiò in casa Vasari, dove viveva un piccolo Vasari di otto anni. Vasari ricorda Signorelli come
un vecchio pulito e ordinato. Egli, avendo capito dal maestro che gli insegnava a scrivere che lui
non aspettava altro che dedicarsi all’arte un giorno disse a suo padre di fargli imparare il disegno
perché, anche se sarebbe diventato un letterato, dell’arte del disegno avrebbe solo giovato.
Avendo poi inteso che Vasari aveva delle violente epistassi, gli pose amorevolmente al collo il
diaspro perché si credeva che esso avesse il potere di bloccare le epistassi dal naso, che aiutasse
nella coagulazione del sangue. Luca Signorelli visse sempre da signore più che da pittore, da
gentiluomo onorato. Mezzo paralitico dipinse un affresco nella facciata dell’altare della cappella di
un palazzo che non poté finire perché morì a 82 anni.
L’affresco è la pittura che richiede più sforzo tra tutte: molta prestezza e molta capacità di capire
come vengono i colori in poco tempo.
Fu Luca persona di ottimi costumi, amorevole con gli amici, insegnò volentieri l’arte ai suoi
discepoli, visse da uomo ricco e si vestì bene, fu infine di conversazione dolce e piacevole.
L’arte della conversazione è fondamentale nel Cinquecento.
Si chiude così la seconda età delle Vite di Vasari. Non è più Perugino ma Luca Signorelli che apre la
via a Michelangelo. Luca Signorelli è il pittore che non ha gli stessi difetti degli altri: non è rimasto
un pittore provinciale, è riuscito ad avere la possibilità di continuare a studiare e migliorare,
vedendo le pitture degli altri, e questo insieme all’aspetto esteriore ne fa un modello del nuovo
artista.

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