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Michelangelo
1492 Battaglia dei centauri
La critica lo colloca in un periodo che sempre coincide con quello della sua frequentazione del Giardino di
San Marco. Viene menzionata per la prima volta quando l’artista è ancora vivente e in piena attività, per la
precisione in una lettera datata 5 marzo 1527 e inviata da Giovanni Borromeo, agente dei Gonzaga a
Mantova, al marchese Federico II Gonzaga che, all’epoca, era alla ricerca di un’opera di Michelangelo. Nella
missiva, si parla di un “certo quadro di figure nude, che combattono, di marmore, quale havea principiato ad
istantia d’un gran signore, ma non è finito. È braccia uno e mezo a ogni mane, et così a vedere è cosa
bellissima, e vi sono più di 25 teste e 20 corpi varii, et varie attitudine fanno”. La Battaglia viene comunque
citata dai principali biografi cinquecenteschi di Michelangelo, anche se Condivi e Vasari non concordano sul
soggetto, dal momento che per il marchigiano si tratta di un “ratto de Deianira e la zuffa de’ Centauri”,
mentre per l’aretino il rilievo raffigura “la battaglia di Ercole coi centauri”, che, aggiunge Vasari lodando la
scultura, “fu tanto bella che talvolta per chi ora la considera non par di mano di giovane, ma di maestro
pregiato e consumato negli studii e pratico in quell’arte”. Vasari, peraltro, ricordava che, esattamente come
la Madonna della Scala, l’opera all’epoca della stesura delle Vite si trovava nella casa di Leonardo Buonarroti,
ed è interessante notare come da allora non si sia mai mossa dalla casa di famiglia, visto che ancor oggi si
trova nella raccolta di Casa Buonarroti a Firenze. Per ciò che riguarda il soggetto, altri studiosi (ad esempio
Angelo Tartuferi e Fabrizio Mancinelli) vi individuano una zuffa tra i centauri e i lapiti: è l’episodio mitologico
che, narrano le Metamorfosi di Ovidio, sarebbe occorso durante i festeggiamenti per il matrimonio tra
Ippodamia e Piritoo, quest’ultimo re dei lapiti (i centauri, invitati al matrimonio, dopo essersi ubriacati
avrebbero tentato di rapire la sposa, scatenando dunque una rissa coi lapiti che alla fine avrebbero avuto la
meglio).
Qualunque sia il soggetto, è comunque evidente che Michelangelo aveva già familiarità con temi colti, tratti dalla classicità , passibili di letture allegoriche in chiave neoplatonica
(per esempio, una possibile lotta tra la natura ferina dell’uomo e le sue pulsioni spirituali, altro tema caro alla filosofia ficiniana): in questo caso, a suggerire l’argomento del
rilievo potrebbe essere stato un poeta della cerchia laurenziana, il Poliziano (Angelo Ambrogini; Montepulciano, 1454 - Firenze, 1494), almeno stando a quanto rammenta
Condivi. Il soggetto è di difficile interpretazione anche per il fatto che l’artista non è tanto interessato alla descrizione dell’episodio in sé, quanto alla sua restituzione, alla
raffigurazione dei corpi in battaglia, alla resa anatomica dei personaggi impegnati nella rissa. E nonostante la giovanissima età, Michelangelo è già in grado di proporre un modo
originale di trattare lo spazio: le figure infatti sono disposte su piani molteplici e non sfumano in modo rigido e ordinato, ma quasi s’accavallano l’una con l’altra, in modo
comunque molto credibile e verosimile. La modernità dell’opera appare ancor più evidente se si confronta l’opera di Michelang elo con la Battaglia di Bertoldo di Giovanni
conservata al Museo del Bargello di Firenze, un rilievo dal quale, probabilmente, Michelangelo trasse alcuni spunti, data anc he la sua vicinanza al più anziano maestro. Dal
confronto risulta evidente come sia alquanto distante la costruzione dello spazio di Michelangelo rispetto a quella di Bertoldo, dal momento che l’impaginazione prospettica
tipicamente quattrocentesca è già abbandonata da Michelangelo, e lo stesso dicasi per la resa minuta dei dettagli. Al contrario, Michelangelo abolisce il fondo e la cornice, ed è
tutto interessato al modellato dei corpi dei contendenti, comunicando attraverso questi ultimi la profondità della scena, e dimostrando di aver gi à raggiunto una propria
indipendenza nella trattazione del nudo maschile.
Occorre comunque specificare che si trattava di un lavoro “principiato” ma “non finito”, come scriveva Borromeo nella sua lettera al marchese di Mantova: in tutte le figure
sono ancora evidenti i segni dello scalpello dell’artista (e sono quindi non rifinite), ci sono pezzi di marmo ancora attaccati al fondo dietro i corpi dei personaggi e soprattutto c’è
una fascia in alto che è ancora tutta da sbozzare: si è dunque ipotizzato che Michelangelo avesse lasciato incompiuto questo lavoro alla scomparsa di Lorenzo il Magnifico, al
quale probabilmente era destinato, come si potrebbe supporre leggendo la lettera di Borromeo e individuando dunque nel Magnifico il “gran signore” di cui è fatta menzione.
Tuttavia anche qui, come nella Madonna della Scala, si riconoscono alcuni dei motivi che saranno proprî del Michelangelo maturo: il forte dinamismo, l’attenzione per il nudo
maschile, il non finito, l’assenza del fondo. Elementi che già prefigurano le tensioni del Rinascimento maturo e l’arrivo della poetic a manierista. E motivi che torneranno: si è
spesso sottolineato come la figura centrale della Battaglia dei centauri anticipi il potente Cristo giudice del Giudizio universale che decora la parete di fondo della Cappella
Sistina. E qualsiasi fossero i riferimenti del giovane Michelangelo (si è detto di Bertoldo di Giovanni, c’è chi ha proposto d’individuare l’ispirazione dell’ar tista nei sarcofagi
romani, chi invece nelle lastre che decoravano i pulpiti di Giovanni Pisano), lo scultore fu in grado di superarli per promuovere, già a quindici anni, una maniera personale e
modernissima.
1497 Bacco Durante il primo soggiorno a Roma il cardinal Riario chiese a Michelangelo una statua di Bacco. Ma una volta
realizzata, la statua finì nel giardino del banchiere Jacopo Galli, altro protettore dell'artista, che, secondo una moda
diffusa presso le famiglie più in vista di Roma, raccoglieva statue e frammenti antichi a formare un ricchissimo
"antiquarium". Un'idea molto precisa di quell'impressionante collezione ci è offerta dai disegni cinquecenteschi che lo
rappresentano, specialmente quelli del fiammingo Maarten van Heemskerk.
La statua, in marmo, alta 203 cm., compresa la base, oggi è conservata nel Museo nazionale del Bargello a Firenze.
Ai primi di luglio del 1496 Michelangelo, aveva già acquistato un blocco di marmo di Carrara e realizzò la statua nel giro
di un anno. L'opera rivela una padronanza assoluta dell'anatomia, dei mezzi tecnici, dei val ori di composizione, armonia
ed equilibrio classici, ma anche di sorprendente capacità inventiva, perché creata secondo la fantasia dell'artista, senza
derivazione diretta. Una libertà immaginativa potente, sostenuta comunque da una solida conoscenza dell'antichità. Il
gruppo raffigura Bacco, ebbro e barcollante, affiancato da un satiro bambino che ride maliziosamente e morde l'uva di
nascosto. Rappresenta lo splendido risultato dell'incontro dello scultore poco più che ventenne con l'onnipresente e
maestosa bellezza dell'antico in Roma.
Michelangelo aveva già potuto conoscere frammenti antichi a Firenze nel giardino di San Marco e nei tesori medicei,
a Pisa aveva potuto vedere gli antichi sarcofagi del Camposanto, ma a Roma l'antichità gli si offriva allo sguardo e allo
studio con varietà e precisione: tanto che il Bacco, nell'accostarsi alla statuaria antica, risente particolarmente di certi
tratti della scultura ellenistica.Fatto per esser visto da più di un lato, il gruppo statuario articola un complesso rapporto
spaziale tra il dio del vino e il suo piccolo accompagnatore, che lo avvicina furtivo da tergo.
Mentre Bacco incede col corpo carnoso e morbido proteso in avanti e sbilanciato, quasi inseguendo la coppa di vino
che innalza a portata dello sguardo dilatato, il satiretto si torce in un ardito contrapposto che fa ruotare la metà
superiore della figura di ben oltre novanta gradi rispetto alle gambe caprine.
Da qui deriva l'effetto dinamico: il senso di oscillazione, di instabilità, che suggerisce la camminata e il movimento tipici
delle persone ubriache. La lavorazione delle superfìci varia da parte a parte, con effetti di grana ruv ida nel satiro, e di
levigata politezza sull'epidermide del dio, di cui già le fonti notavano la mollezza effeminata, composta di tratti maschili
e femminili.
Il soggetto del gruppo scultoreo è definito nel contratto: «Una Pietà di marmo, cioè una Vergine Maria
vestita con un Cristo morto nudo in braccio». I gruppi scultorei della Pietà, prima di Michelangelo, erano su
supporto essenzialmente ligneo e diffusi soprattutto in area nordica (con il nome di Vesperbild), dove
erano collegati alla liturgia del Venerdì Santo, ma piuttosto rari in Italia[5], tutt'al più presenti in area
ferrarese: ciò fa pensare a un'esplicita richiesta "speciale" del committente, da cui anche la chiarificazione
del soggetto nel contratto. L'iconografia della Pietà veniva tradizionalmente risolta in uno schema
piuttosto rigido, con la contrapposizione tra il busto eretto e verticale di Maria e il corpo irrigidito in
1498-1500 Pietà posizione orizzontale di Gesù: tale organizzazione influenzava anche la pittura, come si vede ad esempio
nella Pietà di Pietro Perugino (1483-1493 circa).
Michelangelo innovò invece la tradizione concependo il corpo di Cristo come mollemente adagiato sulle
gambe di Maria con straordinaria naturalezza, privo della rigidità delle rappresentazioni precedenti e con
un'inedita compostezza di sentimenti. Le due figure sembrano fondersi in un momento di toccante
intimità, dando origine a un'originale composizione piramidale, raccordate dall'ampio panneggio sulle
gambe di Maria, dalle pieghe pesanti e frastagliate, generanti profondi effetti di chiaroscuro. Fortemente
espressivo è anche il gesto della mano sinistra, che pare invitare lo spettatore a meditare sulla
rappresentazione davanti ai suoi occhi, secondo le pratiche di meditazione concentrata e dolente di
ispirazione savonaroliana. La Vergine siede su una sporgenza rocciosa, qui ben finita con piccole fessure ad
arte (a differenza di altre opere dell'artista in cui era semplicemente l'avanzo della sbozzatura del marmo),
che simboleggia la sommità del monte Calvario.
Il livello di finitezza dell'opera è estremo, soprattutto nel modellato anatomico del corpo di Cristo, con
effetti di levigatura e morbidezza degni della statuaria in cera, come il dettaglio della carne tra il braccio e
il costato, modificata dalla salda presa di Maria opposta al peso del corpo abbandonato[5]. La bellezza
della statua risiede forse proprio nel naturalismo straordinariamente virtuoso della scena, fuso con
un'idealizzazione e una ricerca formale tipica del Rinascimento, e un notevole spessore psicologico e
morale.
Il fatto che la Madonna fosse molto giovane suscitò delle critiche, registrate dal Vasari, nell'incapacità
ormai di riconoscere la tradizione medievale di Maria vista come sposa di Cristo e simbolo della Chiesa: tali
iconografie, spesso antichissime, vennero abbandonate in seguito alla Controriforma, interrompendo
tradizioni secolari che vennero presto dimenticate dai contemporanei. Una Madonna giovanissima si trova
ad esempio, per restare in ambito romano, nel mosaico di Jacopo Torriti in Santa Maria Maggiore. Per
tutto il Quattrocento si continuò a ripetere tali schemi, con una conoscenza più o meno consapevole degli
scritti teologici medievali, spesso mediata dagli ordini religiosi committenti. Inoltre Michelangelo, come
scrisse il suo biografo Ascanio Condivi, sostenne che "La castità, la santità e l'incorruzione preservano la
giovinezza". Lo stesso Vasari riporta questa opinione nel confutare le critiche alla scelta dell'artista: «Se
bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s'accorgono
e non sanno eglino che le persone vergini senza essere contaminate si mantengono e conservano l'aria de
'l viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu Cristo fanno il contrario? Onde tal
cosa accrebbe assai più gloria e fama alla virtù sua che tutte l'altre dinanzi». Michelangelo inoltre non
voleva rappresentare la scena con lo scopo di narrare un episodio (la morte di Cristo) ma era
principalmente interessato all'aspetto simbolico: Maria è rappresentata giovane come quando concepì
Gesù Cristo.
1501–04 David
1505-06 Battaglia di Cascina Nel Cinquecento, il gonfaloniere Pier Soderini consigliò di far decorare il salone di Palazzo Vecchio,
realizzato da Savonarola dopo la grandiosa rivoluzione che portò i cittadini a governare Firenze,
distaccandosi dagli antichi regimi di potere. Per la decorazione dell’ambiente presente in Palazzo
Vecchio, vennero convocati Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti; il tema portante dei lavori dei
due grandi maestri doveva essere l’esaltazione dell’esercito fiorentino, che combatteva per la difesa
della nuova Repubblica con l’aiuto di Dio.
Leonardo da Vinci si dedicò alla realizzazione della battaglia di Anghiari, un lavoro di eccezionale qualità,
che però venne irrimediabilmente rovinato e successivamente abbandonato dallo stesso artista dopo
aver tentato l’antica tecnica dell’encausto. La battaglia di Anghiari Leonardo si rivelò un vero e proprio
fallimento, mentre Michelangelo si dedicò alla realizzazione di un altro evento bellico.
Il tema del lavoro di Michelangelo era la battaglia di Cascina, avvenuta nel 1364 e tramandata
all’interno di varie fonti storiche, secondo cui i Pisani vennero sconfitti dai Fiorentini; quest’ultimi
sconfissero i nemici anche non essendo adeguatamente equipaggiati, poiché in precedenza, a causa del
grande caldo (la battaglia si combatté a fine luglio), le truppe cercarono di rinfrescarsi gettandosi
nell’Arno. Michelangelo completò il lavoro nei primi anni del Cinquecento, ma non lo finì in via definitiva
perché dovette partire per Roma a causa dell’incresciosa situazione legata alla realizzazione della tomba
di Giulio II.
Il cartone realizzato da Michelangelo venne lasciato all’interno dell’Ospedale di Sant’Onofrio, ma la
popolarità di questo capolavoro crebbe in fretta, portando diversi artisti a maturare il desiderio di
volerla tenere per se per studiare: tra questi Baccio Bandinelli, arrivò ad introdursi all’interno di Palazzo
Medici per studiarli continuamente, al fine di poter realizzare un’opera di simile bellezza.
Appropriandosi dapprima di una parte del cartone e tentando successivamente di raggiungere la perfezione michelangiolesca (e non riuscendoci), Baccio Bandinelli distrusse
una gran parte dell’opera; questo danno, sommato alla distruzione effettuata da parte di altri proprietari di altrettanti pezzi dell’opera, portarono all’eliminazione definitiva di
questo lavoro.
Fortunatamente, prima di essere distrutto, fu oggetto di grandi studi l’opera di Michelangelo, e vennero create innumerevoli copie, di cui quella che si avvicina di più
all’originale è quella di Aristotile di Sangallo.
Tra i probabili affreschi Michelangelo, questo costituisce senza dubbio uno dei più conosciuti e misteriosi, poiché l’originale è andato perduto, ma secondo le fonti ne è stato
possibile enunciare una descrizione abbastanza generica: al centro si sarebbe dovuto trovare un soldato indossante le braghe, mentre a sinistra di quest’ultimo sarebbe dovuto
esserci un gruppo di cavalieri, mentre ai lati sarebbero stati presenti degli altri soldati in corsa, rappresentati nell’atto di salire a cavallo.
Secondo degli ulteriori studi riguardanti l’aspetto del Salone di Palazzo Vecchio, i lavori della battaglia Anghiari di Leonardo e la battaglia di Cascina Michelangelo,
originariamente non sarebbero dovuti essere disposti su due muri opposti, ma piuttosto sulla stessa parete, uno affianco all’altro.
1506 Tondo Doni Conservato nella cornice originale, probabilmente disegnata dallo stesso Michelangelo, è l'unica opera su supporto
mobile, certa e compiuta, dell'artista. Di fondamentale importanza nella storia dell'arte poiché pone le basi per
il Manierismo, il dipinto è sicuramente tra le opere più emblematiche ed importanti del Cinquecento italiano.
Cornice: sulla sua superficie sembrano rincorrersi motivi dorati in oro zecchino che si alternano fra facce mostruose
e fogliame quasi come si trattassero di grottesche scolpite. Cinque teste sporgono dalla cornice con espressioni
differenti. La testa posta proprio sopra il dipinto è all’unanimità data per certa come quella di Cristo, le altre
rimangono un po’ avvolte nel mistero. Solitamente vengono identificate come teste di due profeti quelle più
alte mentre quelle in basso dovrebbero raffigurare altrettante sibille mentre c’è chi, nelle figure più femminili,
tende a vedere due angeli. Fatto sta che è una gran bella cornice. Fui io a disegnarla e la scolpirono nel legno i
Tasso, gli stessi che realizzarono tutto l’arredo della camera Doni. Osservando le meravigliose e complicate
decorazioni vedrete le tre lune crescenti riproposte più volte: sono il simbolo della casata Strozzi. Il dipinto infatti
era destinato ai coniugi Doni ovvero Agnolo Doni e Maddalena Strozzi. Come ebbe modo di scrivere l’umanista
Vespasiano da Bisticci in merito proprio agli Strozzi, era “la più bella e la più degna famiglia che fussi a Firenze”.
Intrecciati con le tre lune, ci sono virgulti di ulivo. Questi tralci trovano una spiegazione nel libro dei Salmi della
Bibbia: “sarai felice e avrai ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli
come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa.” E’ probabile che quei virgulti siano riferiti proprio a Maria, la figlia
tanto attesa della coppia che dimorò anni per arrivare nel grembo della mamma Maddalena.
La Sacra Famiglia con San Giovannino, nota come Tondo Doni, è l’unica opera certa su tavola di Michelangelo. L’artista sfrutta il formato circolare, tipico della tradizione
fiorentina, per creare un corpo compatto e articolato al suo interno, compiutamente inserito nello spazio. San Giuseppe porge il Bambino alla Madre, che nel prenderlo si
avvolge su se stessa, assumendo una posa a ‘serpentina’. All’intero gruppo è impresso il moto rotatorio, che appare fluido grazie al sapiente co ncatenamento dei gesti. Le figure
sono state elaborate come sculture: il chiaroscuro è netto, determinando un forte risalto plastico, accentuato dalla linea di contorno rilevata; i colori sono contrastanti e virati
su toni metallici, e ciò elimina qualsiasi percezione naturalistica.
Il paesaggio sullo sfondo è appena accennato, semplicemente funzionale alla costruzione simbolica dell’immagine. Esso, infatti, è separato dal primo piano attraverso un
muretto ed è occupato da figure di Ignudi, distanti dalla scena principale e quasi appena abbozzate: rappresenta il mondo pagano, separato e contrapposto al mondo cristiano
redento da Cristo, attraverso la mediazione della stirpe di Davide, rappresentata da Giuseppe e San Giovannino.
1506-08 Tondo Taddei Il Tondo Taddei nasce grazie alla commissione di un privato, ovvero Taddeo Taddei, il quale ordinò a
Michelangelo la realizzazione di questo bassorilievo per essere posto all’interno del proprio palazzo.
Nella composizione i protagonisti sono la Vergine, Gesù Bambino e San Giovannino: sulla sinistra si
trova il piccolo Giovanni che sta mostrando un cardellino a Gesù, il quale impaurito, scappa subito tra
le braccia di Maria sulla destra per proteggersi, mentre quest’ultima guarda i due piccoli bambini
giocare tra loro serenamente.
Secondo molti studiosi, questo Tondo Taddei sarebbe un’opera che risente dell’influsso dei lavori di
Leonardo da Vinci, soprattutto per quanto riguarda la somiglianza tra il “non-finito” del bassorilievo e
lo sfumato tipico dei lavori di Leonardo da Vinci. Altro collegamento tra i due artisti potrebbe esservi
grazie allo schema di causa-effetto presente nei lavori di Leonardo, riportati in questo bassorilievo
grazie alla divisione in vari piani tra i diversi protagonisti, accentuando la profondità di tutta la scena.
La Volta della cappella Sistina fu decorata da Michelangelo con le storie della Genesi e altri soggetti dell’Antico Testamento. La grande opera fu commissionata da Papa Giulio II
e realizzata in quattro anni dal maestro con un minimo aiuto da parte di altri artisti.
Michelangelo progettò una grande opera per la rappresentazione di 9 episodi tratti dal libro della Genesi. I soggetti sono: Separazione della luce dalle tenebre (Genesi 1,1-5),
Creazione degli astri e delle piante, (Genesi 1,11-19), Separazione della terra dalle acque (Genesi 1,9-10), Creazione di Adamo (Genesi 1,26-27), Creazione di Eva (Genesi 2,18-
25), Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre (Genesi 3,1-13.22-24), Sacrificio di Noè (Genesi 8,15-20), Diluvio universale (Genesi 6,5-8,20), Ebbrezza di Noè (Genesi
9,20-27). Lateralmente a queste rappresentazioni, sul lato lungo della volta, sono rappresentati venti giovani nudi detti Ignudi. Si tratta di figure quasi angeliche che partecipano
di umanità e divinità. Inoltre portano i simboli dei Della Rovere rappresentati dalle foglie di quercia.
Sono poi presenti 8 vele triangolari disposte lungo le pareti maggiori con scene bibliche. Sempre lungo le pareti maggiori vi sono invece 16 lunette sottostanti alle vele nelle
quali sono raffigurati gli antenati di Cristo. Tra di loro vi sono Abramo e Giuseppe. Tra le vele invece vi sono gli indovini ebrei detti Profeti e quelli pagani chiamati Sibille. Sono
disposti alternativamente in quest’ordine: Zaccaria, Gioele, Sibilla Delfica, Sibilla, Eritrea, Isaia, Ezechiele, Sibilla Cumana, Sibilla Persica, Daniele, Geremia, Sibilla Libica, Giona.
Questi personaggi trovano posto nel grande affresco poiché avevano previsto la venuta di Cristo. Le figure sono poste su dei monumentali troni marmor ei. Agli angoli vi sono
quattro grandi pennacchi che illustrano alcune vicende importanti determinate dalla presenza di Dio nella vita del popolo di Israele. Si tratta di Giuditta e Oloferne (Giuditta
13,1-10), Davide e Golia (1 Samuele 17,1-54), Punizione di Aman (Ester 7,1-10), Serpente di bronzo (Numeri 21,1-9).
1518 progetto facciata basilica di San Lorenzo
Tra il novembre e il dicembre del 1515 Leone X, della famiglia Medici, decise di tornare in visita solenne a
Firenze, e in quell’occasione nacque l’idea di indire un concorso per dotare di facciata San Lorenzo,
l’incompiuta basilica brunelleschiana patrocinata dai Medici sin dalla fondazione (1421), e luogo
deputato per le loro sepolture. La proposta cadeva in un momento in cui Michelangelo sembrava volgere
una particolare attenzione ai problemi della composizione architettonica: di qui forse l’accanimento
dell’artista nel corso della vicenda che lo portò a essere unico autore del progetto finale. Erano con lui,
all’inizio, Antonio e Giuliano da Sangallo, Jacopo Sansovino, Baccio d’Agnolo, lo stesso Raffaello. Sembra
che dapprima a Michelangelo fosse affidato soltanto il compito di sovrintendere alla decorazione
scultorea, mentre Jacopo Sansovino procedeva a far eseguire a Baccio d’Agnolo un modello ligneo per la
facciata, molto apprezzato sul momento, e oggi perduto. Nel corso dell’anno 1516 la contesa per una
così prestigiosa commissione toccò momenti di aspra lotta, finché, nell’autunno, Michelangelo ottenne
da Leone X l’incarico anche per la progettazione architettonica della facciata. Liberatosi finalmente dei
concorrenti, egli risolse genialmente il problema che sempre assillava gli architetti del Rinascimento,
quando si dovevano applicare correttamente gli ordini classici alle facciate irregolari delle chiese a pianta
basilicale: nascose, e fece dimenticare, la struttura esterna della chiesa dietro lo scenario laico di uno
splendido palazzo privato.
La progettazione michelangiolesca della facciata attraversò tre fasi principali, che si possono individuare
in tre disegni della Collezione della Casa Buonarroti, il 45 A, il 47 A, il 43 A. L’immagine ormai precisata di
quest’ultimo foglio si tradusse con ogni verosimiglianza nel grande modello ligneo della Casa Buonarroti
che rispecchia il passaggio dalla fase progettuale all’iter esecutivo, fissato nel contratto stipulato tra
Leone X e l’artista il 19 gennaio 1518. Il 10 marzo 1520 Michelangelo stesso registra la rescissione del
contratto, anche se solo per quanto concerne la fornitura del marmo, e il materiale fino ad allora
raccolto viene destinato a pavimentare la chiesa di Santa Maria del Fiore. Ma l’attività del cantiere
continua, pur se a rilento, e se ne hanno testimonianze certe fino all’aprile del 1521. In quell’anno morì
Leone X; dopo il breve pontificato di Adriano VI ascese al soglio papale, nel novembre del 1523,
Clemente VII, anch’egli un Medici, che palesò più di una volta l’intenzione di riprendere i lavori della
facciata. Soltanto la sua morte (1534) esaurì per sempre ogni possibilità di realizzare il grande e
tormentato progetto.
Cristo è raffigurato in piedi appoggiato a una croce (simbolica, senza le dimensioni di quella del
martirio), mentre tiene anche la canna e la spugna con cui gli venne porto l'aceto e con il volto
guarda nella direzione opposta. Il corpo, dal perfetto modellato anatomico, era originariamente
nudo al completo: il drappeggio in bronzo dorato venne infatti aggiunto solo dopo il Concilio di
Trento. La posa è estremamente studiata, con una torsione complessa ma efficace che dimostra la
continua ricerca di Michelangelo verso nuove soluzione compositive.
1523-34 Biblioteca laurenziana
Dopo una faticosa trattativa durata più di un decennio si concorda un nuovo contratto nel 1532,
secondo il quale l’artista si impegna a realizzare un monumento ben più ridotto di quello progettato
nel 1516, dal valore corrispondente ai soldi ricevuti fino a quel tempo da Giulio e dagli eredi. La
nuova sepoltura, definita come opera “resecata”, sarà addossata a una parete del transetto di
S.Pietro in Vincoli.
Nel 1533 iniziano i lavori per la collocazione di quella parte del monumento che era stata approntata
nel secondo decennio del secolo ed era rimasta nello studio romano di Michelangelo. I lavori fervono
all’arrivo di Michelangelo a Roma, ma nonostante il suo desiderio di concludere la sepoltura e
liberarsi dalle accuse e dalle minacce rivoltegli dagli eredi, l’artista viene di nuovo “precettato” dal
nuovo papa Paolo III Farnese che lo obbliga a dipingere la facciata della cappella Sistina con una
rappresentazione del Giudizio Finale.
Tanto il Papa che Michelangelo si impegnano a concludere la sepoltura appena finita la pittura del
Giudizio. Nel Novembre 1541 il Giudizio è terminato ma Michelangelo contro ogni sua aspettativa è
di nuovo obbligato da Paolo III a una nuova impresa, la pittura della cappella Paolina in Vaticano.
L’esasperazione degli eredi Della Rovere è grande e l’amarezza di Michelangelo è infinita.
1536-41 Giudizio Universale Nel Giudizio Universale, Michelangelo rappresenta il momento in cui gli angeli suonano le trombe per lo
scatenarsi dell’Apocalisse. Cristo resuscita i morti e chiama con sé in Paradiso i giusti ordinando agli angeli di
scaraventare i dannati nell’inferno.
I dannati precipitano verso l’inferno mentre i beati salgono verso il Paradiso. In centro, verso l’alto si trova
Cristo con la Vergine. Gesù al suonare delle trombe dell’Apocalisse risveglia le anime e separa i beati dai
dannati. All’interno delle due lunette superiori gli angeli conducono gli strumenti della passione, la croce, la
corona di spine e la colonna della flagellazione. Intorno alla figura di Cristo sono disposti a corona alcuni
personaggi dell’Antico Testamento: apostoli, profeti, eroine, sibille e patriarchi. Inoltre compaiono santi,
martiri e vergini. Gesù guarda a destra ed è rappresentato seminudo come un eroe classico nell’atto di alzarsi
e avanzare. La sua mano destra alzata chiama a sé i beati mentre con la mano sinistra destina i dannati nelle
profondità dell’Inferno. La Vergine invece è dipinta in posizione leggermente inferiore a Gesù e volge lo
sguardo a sinistra. La sua espressione è di sofferenza ma compassata.
Nella fascia sottostante, divisa in cinque settori, vi sono gli angeli con le trombe al centro con le sacre
scritture. In basso a sinistra è rappresentata la resurrezione dei morti mentre in alto sempre a sinistra la salita
dei beati. In alto a destra i dannati vengono cacciati nelle spire dell’Inferno che è rappresentato in basso.
Secondo gli storici i colori terrei e poco saturi utilizzati da Michelangelo nel Giudizio Universale furono una
scelta conseguente alla sua avanzata età. Inoltre l’artista fu condizionato dal progressivo pessimismo che lo
opprimeva. Il clima psicologico che traspare dall’affresco è di paura e terrore. In senso più allargato
culturalmente la visione che emerge dal Giudizio Universale di Michelangelo è profondamente diversa dal
clima sicuro e classico del primo Rinascimento. Nel vorticare delle anime di beati e dannati si scorge un
pensiero ormai privo di certezze politiche e culturali. Gli angeli presenti nel dipinto sono privi di ali e quindi
definiti apteri.
Il Giudizio Universale fu dipinto da Michelangelo sulla parete di fondo della Cappella Sistina circa 30 anni
dopo la realizzazione della volta. Segue quindi la rappresentazione delle storie della Genesi. In seguito alla
richiesta di Clemente VII Michelangelo si recò a Roma nel settembre del 1534. Michelangelo era intenzionato
ad integrare l’affresco già esistente del Perugino. Intanto Clemente VII aveva già fatto abbattere l’Assunta
con Sisto IV del maestro umbro. Secondo gli studiosi si trattò di una vendetta contro il suo predecessore
colpevole della morte del padre di Clemente VII, Giuliano de’ Medici, durante la congiura dei Pazzi. Il papa
però morì pochi giorni dopo l’arrivo dell’artista che tornò a Firenze. Alla riconferma dell’incarico da parte di
Paolo III Farnese Michelangelo cercò di prendere tempo per terminare la tomba di Giulio II de Medici a
Firenze.
Per far posto alla grande opera di Michelangelo vennero distrutti i lavori presenti sulla parete. Erano affreschi
del Quattrocento di Pietro Perugino intitolati Nascita e ritrovamento di Mosè, Assunta con Sisto IV
inginocchiato e Natività di Cristo. Furono anche eliminati alcuni ritratti di Papi tra le finestre. Infine anche due
lunette dipinte da Michelangelo all’epoca della volta. Si tratta di Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuda e Fares,
Esrom e Aram. Nel 1536 Michelangelo iniziò a dipingere il Giudizio Universale dopo la predisposizione dei
ponteggi. Il lavoro fu condotto interamente da Michelangelo con un aiuto, l’Urbino. L’affresco fu così
terminato nel 1541 e mostrato alla vigilia di Ognissanti.
Michelangelo, inizialmente, cercò di ispirarsi alle rappresentazioni tradizionali. Nel corso del progetto però decise per un’opera rivoluzionaria. Il modellato dei corpi non è quello
solido e razionale quasi idealizzato della volta. Pur nella loro fisicità i corpi del Giudizio Universale sono corretti ma sembrano soffrire della loro condizione di defunti. Le eleganti
torsioni degli Ignudi si trasformano in pose incontrollate e sofferenti che mostrano anche le imperfezioni dei corpi che vorticano sulle nubi e nel cielo. Gli angeli dell e lunette
invece sono esempi di corpi modellati con anatomie di grande effetto e potenza.
I beati che ascendono verso il Paradiso creano un groviglio di corpi. Anche i dannati cacciati all’Inferno sembrano impegnati in una lotta con gli Angeli. Il pittore Sebastiano del
Piombo per rendere meno impegnativo il lavoro a Michelangelo fece predisporre un intonaco adatto alla pittura ad olio. Il maestro però fu molto contrariato fece preparare
invece l’arriccio per la tecnica dell’affresco. Alcune figure di secondo piano però furono dipinte a secco e con una tecnica veloce definita compendiaria.Diversamente
dell’affresco realizzato sulla volta ricco dai toni saturi e brillanti nel Giudizio Universale abbondano così i grigi e i bruni terrosi. Solamente il cielo è rappresentato con un blu
limpido e intenso. La zona colorata in modo più vivace e contrastata è nel mantello della Vergine seduta a destra di Cristo. Per creare una certa spazialità e una necessaria
profondità Michelangelo utilizzò una illuminazione diretta sui personaggi in primo piano. Man mano che le figure si allontanano i contrasti si affiev oliscono e i colori si spengono
sfumando i contorni.
Un altro elemento di novità messo in atto da Michelangelo fu l’eliminazione delle cornici architettoniche. La parete destinata ad accogliere l’affresco è infatti totalmente libera e
rappresenta una realtà ultraterrena senza riferimenti allo spazio fisico. Michelangelo non utilizzò finte architetture per raccordare lo spazio virtuale con quello reale per creare
una continuità spaziale. Le forme umane sono quindi libere nel cielo e non ingabbiate in solide composizioni prospettiche. Gl i storici fanno notare come la composizione anticipi
le invenzioni barocche. Le poco più di 400 figure hanno altezze variabili e vanno da quelle più alte delle zone superiori, di circa 250 cm, a quelle in basso di circa 155 cm.
Michelangelo evitò così la struttura tradizionale della composizione per ordini sovrapposti. Per comodità però si individuano tre zone descrivibili in modo coerent e. Nelle lunette
sono rappresentati gli angeli con gli strumenti della passione. In centro si trovano Cristo e la Vergine tra i bea ti. In basso è rappresentata la fine dei tempi e l’Inferno con i
demoni, gli angeli che suonano le trombe dell’Apocalisse, la resurrezione, la salita dei beati e la discesa dei dannati.
Cristo e la Vergine sono inseriti all’interno di una mandorla compositiva illuminata. A partire dal basso in centro dove gli angeli suonano le trombe l’azione si sposta a sinistra
dove i morti risorgono. Quindi le anime salgono verso il cielo. I beati continuano l’ascesa verso Cristo mentre i dannati giunti al cospetto di Gesù vengono respinti dagli angeli
verso l’inferno in basso a destra.
1542-45 Cappella Paolina
Bramante
1502 Tempietto di Santa Maria in Montorio
Il Tempietto del Bramante fu “incastrato” nel cortile del monastero di San Pietro in Montorio: si tratta di un
minuscolo edificio, costruito perfettamente, basato sul progetto del Tempio di Vesta in Tivoli. L’ influenza del
Tempietto è stata incalcolabile: dalla sua idea è venuta l’ispirazione non soltanto per la cupola di Michelangelo
per la Basilica di San Pietro in Vaticano. Il Tempietto divenne anche un esempio per altri architetti, quali il
Palladio, che catalogò l'edificio del Bramante con quelli dell’ antichità.
Il passaggio dal Primo Rinascimento all’Alto Rinascimento è chiaramente dimostrato nel Tempietto del
Bramante del 1502. Questa cappella fu progettata con un cerchio di colonne tutt’intorno; il Tempietto faceva
parte di un cortile interno della chiesa di San Pietro in Montorio, come mostrato nella pianta seguente.
Purtroppo le colonne che circondavano il Tempietto non furono mai costruite e, di conseguenza, esso appare
molto più isolato di quanto sarebbe stato se il progetto fosse stato completato come disegnato. In quel
progetto il Bramante intendeva posizionare il Tempietto in uno spazio esterno già esistente e già pronto per
ricevere tale edificio, un concetto piuttosto radicale e audace quanto il Tempietto stesso. Infatti, il suo
nomignolo sembra ben meritato e molto appropriato: nei tre gradini a piattaforma e nel severo ordine dorico
della colonne il Tempietto è collegato e porta alla mente più di qualunque altro edificio del quindicesimo
secolo, l’architettura classica. Ugualmente brillante e stupefacente è il principio del concetto del “muro a
scultura” sia nel Tempietto che nel terrazzo interno della chiesa. Infatti non furono mai viste nicchie così
profonde, scavate da masse enormi di materiali, fino dai tempi del Brunelleschi in Santa Maria degli Angeli.
Queste cavità furono controbilanciate dalla forma convessa della cupola e dalle cornici proiettanti al di là della
cupola stessa.
Come risultato finale, il Tempietto ebbe molto più peso e influenza di quanto sia racchiuso nelle sue modeste
dimensioni.
Lo scopo del progetto del Tempietto fu soltanto quello di indicare il luogo in cui San Pietro fu crocifisso. Il Bramante preferì usare la sua cognizione di prospettiva e volume per
creare questo elegante ed armonioso edificio. Egli ridisegnò anche il cortile circostante, ma il suo progetto non fu mai portato a termine. Il Tempietto è una costruzione circolare
a gradinate che conducono a delle colonne doriche e da lì ad una balaustrata, ad un delizioso tamburo e ad una cupola elegantissima. Qui, infine, si trova un edificio che parla di
ragione e di civiltà, piuttosto che di paura e dominazione religiosa.
Naturalmente le intolleranze religiose continuarono ma l’architettura fece del suo meglio per guardare o dirigere verso un mondo più civile di quello ordinato dalla Chiesa
all’inizio del sedicesimo secolo. Questo gioiello in miniatura si trova in San Pietro in Montorio (così detto da Mons Aureus per la marna dorata caratteristica del suo terreno), la
chiesa dedicata al martirio dell’Apostolo. Oltrepassando la porta del convento appare la costruzione, solitaria e monumentale nonostante le sue piccole dimensioni: suscita nel
visitatore un che di misterioso per quel suo aspetto di antico guerriero racchiuso tutto in se stesso, imprigionato nella sua splendida armatura. Forse si trova lì a g uardia di un
segreto, viene da pensare. Definito “la prosa dei princìpi architettonici di Vitruvio”, dato che Bramante aveva studiato sia le opere del grande architetto romano del primo
secolo a.C. che le possenti e regali rovine dell’antica Roma, in realtà esso non ha nulla di teorico né tanto meno di canonic o, esprime solamente la felice vena creativa di un
pittore-architetto cinquecentesco che seppe dare ai suoi edifici rapporti coloristici di chiaroscuro liricamente accordati e mai visti prima. Ora il piccolo guerriero di pietra appare
stretto, quasi prigioniero dell’angusto spazio del cortile e ciò che di lui subito cattura l’attenzione sono le colonne, le sue forti gambe piantate a corona del minuscolo portico
che si dispongono in luce rispetto alla penombra avvolgente il corpo cilindrico del guerriero-tempio, risaltando sul vano d’ombra della porta d’entrata e delle finestre.
L’intera robusta costruzione è sottolineata e nello stesso tempo alleggerita dallo sporgere delle cornici e soprattutto dalla balaustra disposta con rigore simmetrico e dal chiaro
effetto luminoso, pronta a ripetere il ritmo delle sottostanti sedici colonne doriche che sostengono la trabeazione. Il tamburo che ne emerge, scandito da nicchie rettangolari
alternate ad altre in forma di conchiglia, sorregge la calotta della cupola percorsa da nervature appena accennate, come un elmo leggero posato sul capo di un immaginario
guerriero. Il lanternino che ne orna l’apice sembra dare l’illusione, per la sua grandezza, che il tempio sia più basso di qu el che in realtà è, confermando l’intenzione dell’autore
di rendere solido e possentemente stabile il Tempietto. Nonostante ciò, l’insieme trasmette tutto il pacato equilibrio di forme classiche raccolte e racchiuse, appena agitato e
pronto a risolversi in una più mossa e ardita soluzione, presagio delle ideazioni del futuro barocco. La “pittorica corposità spaziale” del Bramante rappresentò l’anello di
congiunzione alla geniale bizzarrìa del Borromini.
1505 progetto nuova San Pietro Il suo Progetto 1 è una cupola, gigantesca, assertiva, immane, da cui si emana il corpo stesso della
Basilica, in cui le masse murarie sono distribuite secondo un armonico sistema a cascata di volte che
indirizza carichi e spinte, progressivamente frazionati, dall’alto verso il basso e dal centro verso
l’esterno: ogni elemento murario, ogni spazio vuoto – anche il più periferico e subordinato – ha il suo
specifico ruolo di sostegno statico.
Affinché tutto si reggesse in piedi, Bramante concepì progetto basato sulla contrapposizione dinamica di
masse, per ricercare l’equilibrio attraverso l’aumento degli spessori di muri e volte in reciproco
contrasto di spinta e controspinta, di peso e contrappeso.
Per realizzare tutto ciò, l’artista, studiando a fondo l’architettura romana, decise di riutilizzare in grande
stile il calcestruzzo, che avrebbe permesso, ad esempio, di realizzare le grandi volte a botte dei bracci
della croce : di conseguenza, i suoi muri non sono leggiadri e snelli, come quelli dell’architettura
fiorentina, ma masse tozze e informi, la cui pianta deriva in negativo dalla sottrazione delle cavità degli
spazi interni; la geometria non serve perciò a disegnare delle strutture piene, come facevano Leon
Battista Alberti o Francesco di Giorgio Martini, ma a scavare dei vuoti in una massa muraria virtualmente
piena, quasi fosse un blocco di argilla. Di fatto, Bramante, che probabilmente in vita sua non aveva mai
tenuto in mano uno scalpello, concepisce, in maniera assai più spinta di Michelangelo, l’architettura
come massima espressione della scultura.
Ma come si sarebbe retta in piedi la colossale cupola, più grande di quella del Pantheon, per evitare che facesse la fine di quella di Loreto ? Ispirato alla sua esperienza milanese
e all’esempio della chiesa di San Lorenzo, Bramante adottò la soluzione statica della base a ottagono irregolare. Impostandovi sopra la cupola, i pennacchi sferici si trasformano
da triangoli in trapezi, a differenza di quanto avviene nelle basiliche quattrocentesche, che di solito utilizzano una base q uadrata: di conseguenza, l’aggetto dei pennacchi si
riduce di molto.
Così il carico della cupola cade in gran parte sul vivo dei pilastri e non in falso sui pennacchi – che staticamente sono delle mensole – contrappesando per giunta
la spinta dei quattro arconi di crociera. Dal punto di vista formale l’ottagono irregolare rende inoltre la crociera più avvolgente di una quadrata, offrendo quattro
pareti oblique rivolte al fulcro devozionale, l’altare maggiore, che copre la tomba di Pietro. Di lì, alzando lo sguardo, il fedele avrebbe ammirato non una semplice
calotta, ma una vera e propria rotonda cupolata, sollevata in aria dai quattro trapezi, metafora della Gerusalemme Celeste, c he si contrapponeva, nella sua aerea
levità, al vanitoso e transitorio trionfo della vanità umana, rappresentato dal mausoleo papale nel coro.
Raffaello
1504 Sposalizio della Vergine
Il Sommo Sacerdote, al centro del dipinto tiene la mano destra di San Giuseppe e di Maria. I due sposi sono in
piedi ai lati dell’officiante. A sinistra, San Giuseppe offre un anello a Maria che porge la mano. San Giuseppe è
vestito con un lungo e sobrio abito blu scuro con un mantello giallo arancio. I suoi capelli sono corti e scendono
sul collo. Sul mento cresce poca barba e la fisionomia è quella di un uomo maturo. Inoltre, con la mano sinistra,
regge un ramoscello fiorito. La Vergine ha un aspetto molto giovane. I capelli sono raccolti da una acconciatura
modesta. Inoltre, un nastro trasparente è avvolto sulla nuca. Maria indossa un abito rosso, bordato di blu e
scollato che arriva fino ai suoi piedi. Un mantello blu scuro avvolge quasi tutta la figura. Il sacerdote, invece,
veste un ampio abito cerimoniale con decorazioni dorate. Il suo viso anziano è incorniciato da una lunga barba
suddivisa in due parti. A destra, un ragazzo spezza un ramoscello contro il ginocchio. Inoltre, altri quattro giovani
dietro a Giuseppe portano dei sottili ramoscelli secchi. A sinistra, invece, cinque ragazze accompagnano Maria.
Sono abbigliate con vesti cinquecentesche. Infine, sul fondo, al centro, si erge un tempio classico a pianta
centrale. Il peristilio è composto da sottili colonne che reggono archi a tutto sesto. L’edificio poggia su una
gradinata che lo innalza. L’ingresso frontale apre sull’infinito. Alcuni gruppi di persone, sono disposti a destra e a
sinistra. Sotto il colonnato circolare si nota una figura isolata a sinistra e due figure a destra. Ai lati del dipinto si
apre il paesaggio. Ne lo Sposalizio della Vergine, soprattutto rispetto alle architetture, la bellezza ideale si
manifesta come amore per i rapporti geometrici ordinati. È un modo per ricordare la struttura universale
armonica e la perfezione divina.
Il dipinto di Raffaello rappresenta un episodio dei vangeli apocrifi. Infatti, dell’evento non si trova notizia nei
quattro vangeli canonici. La narrazione si concentra sulla figura della giovane Maria che visse la sua adolescenza
nel tempio di Gerusalemme. La giovane si era distinta grazie alla sua bravura nel ricamo. Venne, quindi, il tempo
del matrimonio. Maria non riusciva a scegliere uno sposo tra i pretendenti. Così, in suo aiuto, il Sommo
Sacerdote distribuì ad ogni giovane un ramo in attesa di un segno divino. Il ramo che fiorì fu quello di Giuseppe,
il più anziano tra i ragazzi.
In realtà, nel racconto non viene specificata la sua età spesso interpretata dagli artisti come molto avanzata.
Raffaello lo raffigurò, infatti, come un giovane uomo, non come un vecchio. Gli altri ragazzi mostrano i loro rami
privi di vita. Il giovane sulla destra rompe il suo contro il ginocchio. Il centro prospettico si trova al centro delle
porte del tempio che danno sul paesaggio. Simbolicamente, la prospettiva si apre, quindi, verso l’infinito.
Raffaello nel dipingere Lo sposalizio si dimostra ormai pienamente autonomo rispetto al suo maestro Perugino.
Infatti, non imita più la natura, ma crea, un modello perfetto che va oltre la realtà. Raffaello è, quindi, artefice
del bello ideale.
I personaggi che Raffaello dipinse rappresentano una mediazione tra lo studio della natura e i modelli classici che il pittore studiò attentamente. Nella costruzione del tempio e
dello spazio prospettico Raffaello utilizzò invece gli studi degli architetti del Quattrocento, quali Leon Battista Alberti. Le posizioni dei personaggi sono particolarmente eleganti
come di tradizione per i quadri di Raffaello. Inoltre, le vesti sono morbide, avvolgono i corpi modellandoli e ricadono con eleganti panneggi. Infine, i volti sono ideali, come in
tutti i lavori di Raffaello, e quasi perfettamente ovali.
I colori dell’opera sono saturi, brillanti e autonomi rispetto ai diversi elementi della scena. Prevalgono così i rossi degli abiti, il giallo del mantello di Giuseppe e il blu di quello
della Vergine. L’ambiente è poi condizionato dall’ocra che decora il lastricato e colora il tempietto. I colori freddi sono infine riservati allo sfondo, alle colline e al cielo. La luce
che avvolge la scena è particolarmente calda, pomeridiana. Lo rivelano, infatti, le ombre proiettate ai piedi dei pers onaggi. La scena è rappresentata con una rigorosa
prospettiva geometrica. Il punto di fuga si trova infatti in corrispondenza delle due aperture sovrapposte al centro del tempio circolare. Lo sposalizio si svolge nello spazio
esterno, antistante l’edificio religioso rappresentato sul fondo. Infine, i personaggi dipinti verso lo sfondo sono di grandezze progressivamente minori e s ono distribuiti in modo
da dare una chiara lettura dello spazio prospettico geometrico. Alla lettura geometrica dello spazio contribuiscono anche i rettangoli dipinti nel pavimento antistante il tempio.
Le decorazioni si susseguono poi in maniera rigorosamente prospettica. Il paesaggio, oltre il tempio, è minimale e presenta una natura appena accennata, ma già con un inizio di
prospettiva aerea.Il dipinto di forma rettangolare è sviluppato in verticale e l’inquadratura centrale valorizza il gruppo di figur e in primo piano e il tempio. La struttura del
tempietto è circolare e sembra ruotare ai confini della piazza. Costituisce, quindi, il centro ideale della composizione. Le figure hanno un andamento ritmico circolare che
sembra creare una parabola inversa rispetto alla circolarità del tempio.
La congiunzione delle mani dei due personaggi, la Vergine e San Giuseppe, crea il punto di unione tra le due parti del gruppo. Le ali di personaggi sono, così, simmetriche e unite
al centro dal Sommo Sacerdote che celebra lo sposalizio. I personaggi, che Raffaello rappresenta all’interno della scena, sono organizzati in modo gerarchico. Allo stesso modo
l’artista realizzò, poi, anche gli elementi della struttura architettonica del tempio.
Agnolo Doni: il soggetto è ritratto a mezza figura, seduto su un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama naturale. Il taglio è estremamente monumentale e
il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso destra e lo sguardo rivolto verso lo spettatore, è caratterizzato da u na sciolta naturalezza. Acuta è la rappresentazione dello
sguardo, che dimostra l'interesse del pittore verso la psicologia.
La sua condizione di ricco borghese è infatti testimoniata, oltre che dalla ricercatezza dell'abito dagli anelli alle mani, dallo sguardo sicuro e diretto. La berretta scura e i capelli
lunghi, di colore castano, incorniciano il volto, in cui il dato fisico è trattato con estrema fedeltà e cura, secondo i modelli nordici filtrati da Perugino e da altri artisti italiani. Il
segno minuto del pennello si manifesta ad esempio nei sottilissimi capelli crespi. Le maniche rosse della veste, ampie e di pesante stoffa, escono da una casacca scura, tenuta in
vita da una cintura, mentre ai polsi e al collo sporge la camicia bianca. I dettagli tuttavia non rubano mai la scena al fulc ro del dipinto, che è il volto del protagonista e il suo
stato d'animo, grazie anche alle impercettibili linee di forza e al gioco di contrasti tra chiaro e scuro, che esaltano il vi so. Le colline ad esempio degradano da sinistra verso
destra, assecondando la linea di forza che va dal collo di Agnolo Doni all'avambraccio sinistro. Due nuvolette in cielo bilanciano ad arte gli angoli vu oti del dipinto. I colori, sia
nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaello in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e d'effetto. Sul retro dei due ritratti si trova
una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, in particolare il diluvio inviato dagli dei, attribuito a un tardo seguace del Sanzio.
Maddalena Strozzi: iI ritratto raffigura la donna seduta su un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama, che nel progetto or iginario era invece un interno. Il
taglio è estremamente monumentale e il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso sinistra e la testa girata verso lo spettatore, è caratterizzato da una sciolta
naturalezza. L'opera, nell'impostazione generale, è palesemente ispirata alla Gioconda (che Raffaello ebbe la possibilità di vedere in quegli anni) ma sicuramente manca di ogni
evocazione allusiva o misteriosa tipica della ritrattistica di Leonardo da Vinci, prediligendo la rappresentazione fedele delle caratteristiche umane: infatti la figura si impone
come presenza fisica, col viso pieno, con lo sguardo rivolto all'esterno, ben consapevole del prestigio del suo rango sociale.
Raffigurata in sontuose vesti, indossa preziosi gioielli che attestano le sue virtù. La collana portata con fierezza è un gio iello in cui incastonate tre pietre differenti, ognuna con
un suo preciso significato: lo smeraldo indica la castità, il rubino indica la carità, lo zaffiro indica la purezza; la grossa perla della collana, a forma di goccia, è infine simbolo di
fedeltà matrimoniale. Il vestito è tipico della moda dell'epoca, con ampie maniche estraibili, di c olore azzurro e con damascature visibili in controluce: esempi pressoché identici
si trovano anche nei ritratti raffaelleschi della Gravida e della Dama col liocorno. Quest'ultima è stata identificata da qualche storico come la vera Maddalena Strozzi, ipotesi per
lo più scartata. Sulle spalle indossa un sottile velo trasparente.
Il dipinto, pur inserendosi nel preciso contesto della ritrattistica rinascimentale, rinuncia a raffigurare i "moti dell'animo", le caratteristich e spirituali e della personalità della
donna raffigurata, per dare spazio a una figura più idealizzata e meno realistica rispetto a quella del ritratto del marito Agnolo Doni, come si conveniva ai ritratti femminili,
evidenziando l'elevato status sociale. Il paesaggio collinare è tipico della scuola umbra, con dolci colline che sfumano in lontananza, punteggiate da segni della presenza umana
e da alberelli fronzuti.I colori, sia nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaello in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e
d'effetto.Sul retro dei due ritratti si trova una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, attribuito a un tardo seguace del Sanzio; in particolare in questa
tavola si vede il salvataggio dei due dal diluvio inviato dagli dei.
1507 Bella giardiniera Immersa in un ampio paesaggio lacustre dall'orizzonte particolarmente alto, punteggiato da alberelli e da segni della
presenza umana, si trova la Madonna seduta su una roccia, con appoggiato alle gambe Gesù Bambino; san
Giovannino si trova inginocchiato a destra, mentre dirige uno sguardo intenso a Gesù.
La composizione, sciolta e di forma piramidale, con i protagonisti legati dalla concatenazione di sguardi e gesti,
deriva con evidenza da modelli leonardeschi, come la Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, ma se ne
distacca sostituendo, al senso di mistero e all'inquietante carica di allusioni e suggestioni, un sentimento fresco di
calma e spontanea familiarità. Al posto dei "moti dell'animo" reconditi, Raffaello mise in atto una rappresentazione
dell'affettuosità, con l'abbraccio tra madre e figlio e le carezze di quest'ultimo sul ginocchio di lei, mentre il Battista
si genuflette con rispettosa devozione. A Leonardo rimandano anche il bruno del terreno, punteggiato da specie
botaniche indagate con cura, e la resa atmosferica del paesaggio di fondo, che si perde nei vapori della lontananza.
Ricordano invece Michelangelo alcuni dettagli come il piedino di Gesù su quello della madre, presente anche nella
statua della Madonna di Bruges.
Le pose delle figure sono attentamente studiate a "contrapposto". Maria è ruotata verso sinistra e fa per abbracciare
con naturalezza il figlio, il quale si allunga per prendere il libro che essa ha in grembo. Gesù mostra un elegante
classicismo, con rimandi alla scultura dell'epoca come la Madonna di Bruges di Michelangelo.
La complessità stilistica, testimoniata da alcuni disegni preparatori in cui venne definita con cura la composizione,
non intacca mai l'estrema cordialità e piacevolezza del tema. A tal proposito scrisse la Brizio: «[Raffaello è] al tempo
stesso il pittore più apprezzato dagli accademici per la sua scienza compositiva e bella armonia e il più popolare,
perché i semplici nelle sue Madonne ritrovano abbellita l'espressione dei propri sentimenti più naturali e più cari».
1507 Pala Baglioni
Deposizione borghese, lo somparto principale della Pala Baglioni. Tre uomini stanno portando il corpo morto
di Gesù nel sepolcro a sinistra. Essi sono rappresentati inarcati dallo sforzo di trascinare il pesante corpo
senza vita e sono ritratti con espedienti che amplificano il senso del movimento (come l'espediente di far
salire i gradini alle figure di sinistra) e le espressioni concitate. In particolare spicca il giovane al centro della
composizione, assente nei Vangeli, che è un ritratto del defunto Grifonetto Baglioni. Dietro spunta San
Giovanni Evangelista con le mani giunte (ispirato a figure di Perugino), mentre al centro di questo gruppo
spicca Maria Maddalena dolente, con i capelli al vento, colta nel pietoso gesto di tenere la mano di Gesù
accompagnandolo al sepolcro. Il suo volto è quello di Zenobia Sforza, moglie di Grifonetto. Gli altri due
uomini sono Giuseppe d'Arimatea a sinistra e Nicodemo tra San Giovanni e Maria Maddalena che guarda lo
spettatore.
A destra si trova il gruppo delle pie donne che sostengono la Vergine Maria svenuta, tenuta alla vita dalla
donna dietro di lei, mentre una le regge il capo reclinato sulla spalla e l'altra inginocchiata allunga le braccia
per sostenerla. Il volto della Madonna è quello di Atalanta Baglioni, la madre di Grifonetto, che commissionò
questo dipinto a Raffaello. La donna in ginocchio ha un movimento "a serpentina", ispirato al Tondo Doni di
Michelangelo. Altri echi michelangioleschi si colgono nel corpo abbandonato di Gesù, simile a quello
della Pietà vaticana e nel vestito giallo e verde di Nicodemo, che si ispirò alla torsione dell'incompiuto San
Matteo del Buonarroti.
I due gruppi principali sono raccordati dal giovane trasportatore con il volto di Grifonetto, che si proietta
all'indietro.
Lo straordinario paesaggio asseconda ritmicamente la composizione: se l'oscuro sepolcro nella roccia aiuta a
stagliare i personaggi a sinistra, a destra le figure sono davanti alla collina del Golgota, mentre al centro la
veduta si apre con ampio respiro su una veduta di colline punteggiate dalla presenza umana, con
l'immancabile specchio d'acqua e con lontane montagne azzurrine, velate di foschia. In primo piano le
pianticelle rappresentate con cura rimandano all'esempio di Leonardo da Vinci.
Straordinaria è la ricchezza dei colori, quasi smaltati, così come la plasticità data dal forte chiaroscuro, che dà
alle figure una monumentalità statuaria, e la concatenazione di gesti, sguardi e attitudini, che ne fanno uno
dei capolavori dell'artista. Di grande effetto è la resa dei corpi umani nelle svariate posizioni, con attenzione
alla resa anatomica, ma anche all'armonia e alla varietà.
1507-08 Madonna del baldacchino
Si tratta di una sacra conversazione organizzata attorno al fulcro del trono della Vergine coperto da
baldacchino retto da angeli, con un fondale architettonico composto da un'abside semicircolare,
grandioso ma tagliato ai margini, in modo da amplificarne la monumentalità. Da sinistra si vedono i
santi Pietro, Bernardo di Chiaravalle, Giacomo maggiore e Agostino. Due angioletti si trovano alla
base del trono e leggono l'iscrizione su un cartiglio.
Lo schema è simmetrico, raggruppato attorno all'alto trono, ma ogni staticità appare annullata
dall'intenso movimento circolare di gesti e sguardi, esasperato poi negli angeli in turbolento volo,
accuratamente scorciati, ispirati a quelli della Pala degli Otto di Filippino Lippi. Sant'Agostino ad
esempio allunga un braccio verso sinistra invitando lo spettatore a percorrere con lo sguardo lo
spazio semicircolare della nicchia, legando i personaggi uno per uno, caratteristica che a breve si
ritroverà anche negli affreschi delle Stanze vaticane. La luce che proviene da sinistra esalta la
plasticità delle figure, rispetto alla "mandorla" d'ombra creata dai drappi rigonfi del baldacchino.
Dolce è il gesto del Bambino, che gioca col proprio piedino.
1508-11 Stanza della Segnatura (Scuola di Atene, Disputa sul Sacramento, Paranso)
Disputa sul Sacramento (Teologia): Gesù è seduto al centro con le braccia aperte. Alla sua destra siede Maria mentre a sinistra San Giovanni Battista. Più in alto invece Dio Padre
benedice tenendo con la sinistra un globo. In basso invece si libra una colomba bianca. Intorno a lui si distribuiscono gli a ngeli mentre in basso siedono gli apostoli e i Santi. In
basso ai lati dell’altare dove si trova il Santo Sacramento sono raffigurati invece i Padri della Chiesa. Ai loro lati sono s eduti diversi personaggi storici che discutono
animatamente. Infine sui gradini sono sparsi alcuni volumi. Il titolo di questo grande affresco di Raffaello secondo gli studiosi dovrebbe essere il Trionfo della Religione. Infatti
nell’affresco è rappresentata la struttura dottrinale della Chiesa. Dio Padre, Gesù e lo Spirito Santo sotto forma di colomba sono allineati sulla verticale centrale a formate la SS.
Trinità. La Chiesa Trionfante è rappresentata a livello di Cristo da martiri, Santi, apostoli e patriarchi e profeti dell’Antico Testamento. Ai lati di Gesù, a partire da sinistra sono
riconoscibili: S. Pietro, Adamo, S. Giovanni Evangelista, Davide, S. Lorenzo, Giuda Maccabeo (?), S. Stefano, Mosè, S. Giacomo Maggiore, Abramo e S. Paolo. In basso al suolo, ai
lati dell’altare, invece è dipinta la Chiesa Militante. S. Gregorio Magno (con i tratti di Giulio II), S. Girolamo, S. Ambrogio e S. Agostino i Padri della Chiesa Latina sono seduti su
troni di marmo ai lati dell’altare. Inoltre sono presenti anche personaggi storici quali Sisto IV e Dante Alighieri a destra e fra’ Beato Angelico a sinistra.
Il grande affresco realizzato da Raffaello ricopre funzione religiosa. In questo dipinto si nota l’influenza di Michelangelo. La Disputa del Santo Sacramento è un dipinto equilibrato
tra toni caldi e freddi. Nel grande affresco risaltano in primo piano i rossi e i blu delle vesti.L’opera di Raffaello presenta una composizione quasi architettonica. È costruita infatti
attraverso la contrapposizione di due semicerchi. In alto il semicerchio sul quale sono disposti Cristo e i Santi. In basso, invece, si trova quello terreno nel quale è disposta la
schiera di dottori e sapienti. La struttura riprende quella del tamburo della cupola. Infatti, si divide in spicchi e veli ch e trovano esatta corrispondenza nel semicerchio in alto e in
quello in basso. Probabilmente, fu l’ultimo ad essere realizzato all’interno della stanza della segnatura da Raffaello, dei Palazzi Vaticani. Si trova sulla parete opposta d ella Scuola
di Atene.
Scuola di Atene (Filosofia): La Scuola di Atene dipinta da Raffaello Sanzio celebra il sapere umano e la conquista del bello. Papa Giulio II incaricò il maestro di rappresentare una
scena ambientata nel mondo classico per indicare le radici della civiltà romana. La lunetta che raffigura La scuola di Atene rappresenta un grande edificio classico. In primo
piano Raffaello dipinse un pavimento decorato con quadrati regolari. Su di esso si innalza una gradinata e da questa alcune architetture clas siche con archi, soffitti a botte
decorati con lacunari e nicchie contenenti statue. Sotto le nicchie sono dipinti dei bassorilievi classici. Gli edifici creano una scenografia simmetrica con al centro uno
sfondamento verso il cielo azzurro attraversato da nuvole bianche.
Nella scena vi sono scienziati e intellettuali contemporanei a Raffaello e appartenenti al mondo classico. I protagonisti dipinti al centro contro il cielo sono i filosofi Platone e
Aristotele. Platone ha un braccio alzato e con una mano indica il cielo. Si tratta di un riferimento al mondo delle idee che furono l’oggetto del suo studio. Aristotele invece ha il
braccio alzato di fronte a sé e il palmo della mano rivolto verso il basso. Con questo gesto il filosofo indica il suo interesse per l’esperienza e la natura. Il significato del grande
affresco di Raffaello è quello di celebrare la civiltà romana e il papato come erede della cultura della classicità. Alcuni personaggi hanno un asp etto che ricorda gli artisti
contemporanei di Raffaello. Platone ricorda Leonardo mentre Michelangelo impersona Eraclito. La scuola di Atene secondo il programma di Papa Giulio II doveva rappresentare
la filosofia. L’intera stanza doveva indicare i valori del bene, del vero e del bello. In particolare l’immagine doveva indicare l’unica via con la quale l’uomo può arrivare al bene e
quindi a Dio. Le statue che si vedono dipinte all’interno delle nicchie sono a sinistra Apollo e a destra Minerva. I due personaggi mitologici rappresentano la ragione.L’artista fu
così incaricato di decorare quattro stanze che componevano l’appartamento privato al secondo piano del palazzo pontificio.La prima stanza degli appartamenti vaticani era
chiamata della segnatura. In questo ambiente infatti si apponevano le firme dei documenti ufficiali. Il termine deriva dal la tino signum cioè firma. La decorazione comprendeva
l’intera volta e quattro grandi lunette con temi cristiani e di carattere mitologico di storia antica. Raffaello è comunemente considerato l’artista che perseguì il bello ideale. I
personaggi sono dipinti con pose misurate, classiche ed eleganti. Il chiaroscuro è leggero ma funzionale a creare delle figure solide e tridimensionali.I colori del fondo sono
chiari, ocra e azzurro per il cielo. Le architetture non possiedono chiaroscuri profondi e le ombre sono molto leggere. I contrasti quindi sono appiattiti e danno la possibilità di
far emergere le figure dipinte contro il fondale. I personaggi emergono quindi per i loro colori saturi contro i colori leggeri e ingrigiti che li circondano.
L’ambiente architettonico è costruito con l’uso di una solida prospettiva geometrica. Le figure di artisti e filosofi sono infatti distribuite all’interno di uno spazio prospettico che
le ordina favorendo la loro collocazione. La scenografia creata per La scuola di Atene condiziona in modo fortemente simmetrico e prospettico l’intera scena. Il punto di vista
basso rende inoltre monumentale tutta la composizione. Il movimento è dato dalle posture dei personaggi e dalle loro interazi oni. Raffaello utilizzò le masse dei personaggi
contro l’impianto prospettico e centrale della composizione per sottolineare la simmetria e creare un equilibrio compositivo. In primo piano centralmente si notano le due
figure sedute sulla scalinata e affiancate, a destra e a sinistra da gruppi di personaggi. Sulla scalinata ai lati vi sono pochi personaggi dipinti e altri si affollano lateralmente verso
il centro. Sotto l’arco che incornicia il cielo la composizione è centrata sulle figure di Platone e Aristotele. Anche il punto di fuga centrale si trova al centro di questi due
personaggi.
Parnaso (poesia): affresco che celebra la cultura umanistica affiancando le figure del mito a quelle di grandi autori del passato. All’interno di un paesaggio naturale su di
un’altura dalla quale scaturisce un ruscello limpido sono sedute la musica e la poesia. La giovane di sinistra è vestita di bianco è a seno scoperto e regge uno scettro dorato. Al
centro dell’immagine poi un giovane è seduto sulla roccia e suona uno strumento simile a un violino. Porta una corona d’allor o sul capo ed è vestito solo di un panno stretto
intorno alle reni. La giovane di destra invece è vestita di azzurro e osserva il ragazzo stringendo tra le mani una cetra. Ai lati delle tre figure centrali vi sono molti poeti e
letterati. Infine ai piedi dei tre dei seduti nasce una fonte che si riversa verso il basso. L’ambiente descrivere un’atmosfera lirica nella quale si trovano Apollo al centro e le muse.
Inoltre sono raffigurati i poeti antichi e i poeti moderni tra i quali si distinguono Omero, Saffo, Dante e Petrarca . Il Parnaso è un affresco di Raffaello di tipo mitologico e
classicheggiante. Nell’affresco l’artista raffigura il mondo della classicità e della cultura umanistica. Nel Parnaso di Raffaello si nota una prevalenza di colori freddi e azzurri del
paesaggio. Tra le figure invece si nota un’alternanza di toni caldi e freddi.
Virtù e la Legge, con Gregorio IX approva le Decretali (legge canonica) e Triboniano consegna le Pandette a Giustiniano (legge civile): L’affresco delle Virtù fu l’ultimo ad essere
completato nella Stanza della Segnatura, probabilmente entro il 1511 come farebbe pensare l’iscrizione sullo sguancio della finestra: JVLIVS. II. LIGVR. PONT. MAX. AN. CHRIS.
MDXI. PONTIFICAT. SVI. VIII. La parete sud, che doveva essere dedicata alla giurisprudenza e chiudere i richiami alle categorie del sapere con la teologia, la filosofia e la poesia
degli altri affreschi, aveva una forma particolarmente irregolare per la presenza di unalta apertura al centro. Raffaello risolse il problema della forma della parete dividendola,
tramite una finta intelaiatura architettonica, in tre zone: una superiore, dove su di un parapetto che si staglia contro il c ielo si trovano tre Virtù, e due laterali, dove dietro ad
altrettante nicchie si svolgono le scene di Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano diritto civile e Gregorio IX ch e approva le Decretali diritto canonico.
Nella parte superiore, su di uno zoccolo o di un parapetto, stanno tre figure femminili simboleggianti le virtù. Da sinistra si riconoscono la Fortezza, con l ’elmo in testa e con un
ramo di rovere allusione al casato di Giulio II Della Rovere, la Prudenza, vestita di verde e bianco con una testa virile che le guarda le spalle tra i capelli, e la Temperanza, che
impugna delle redini. La Giustizia, quarta Virtù cardinale, è raffigurata nel medaglio corrispondente sulla volta. Essa, secondo la dottrina platonica elaborata da sant’Agostino, è
gerarchicamente superiore alle altre. Alla scena prendono parte anche cinque putti, alati e non, che collegano con movimenti armoniosi le figure principali. Tre di essi
impersonano le Virtù teologali: quello che coglie i frutti dal ramo della Fortezza rappresenta la Carità, quello con la fiaccola la Speranza alludendo alla parabola biblica delle dieci
vergini, e quello che addita il cielo la Fede. Le forme ampie e monumentali dimostrano linfluenza di Michelangelo, che nell’agosto del 1511 aveva rivelato gli affreschi della volta
della Cappella Sistina. Il ritmo però è reso misurato e composto, di impianto classico, da Raffaello, avvicinandosi già agli sviluppi della Stanza di Eliodoro.
In basso a sinistra, a lato della finestra, si trova la scena di Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano, che celebra il diritto naturale e civile. L’imperatore è seduto di
profilo, con i segni del potere ben in vista corona e scettro, mentre riceve da Triboniano inginocchiato un libro; assistono una serie di dignitari con cappelli esotici, ispirati a fogge
bizantine. L’opera subì gravi danni che ne peggiorarono la leggibilità. L’esecuzione dellaffresco è di solito riferita ad aiuti del Sanzio, che operarono su suo disegno, probabilmente
il Sodoma. Ludovico Dolce, nel Dialogo della pittura 1557 accennò a un restauro degli affreschi delle Stanze da parte di Sebastiano del Piombo, che Pallucchini 1944 ipotizza
dubitativamente relativo a questa scena. Nel 2000 la scena è stata invece ritenuta uno dei segni della documentata presenza di Lorenzo Lotto nel cantiere delle stanze. Il lato
destro è occupato dalla scena di Gregorio IX che approva le Decretali. Ambientato davanti a una nicchia con cassettoni a losa nga analoga a quella dellaltra scena, vi è legata da un
sistema di corrispondenze: un papa contrapposto a un imperatore e il diritto canonico contrapposto a quello civile. Il maggiore spazio permise una rappresentazione più
articolata, con il trono del papa che si articola plasticamente in prospettiva, scorciato secondo un punto di fuga che si tr ova nel centro ideale della parete, quindi a sinistra
dell’affresco. Il papa benedicente, indossante il triregno e un sontuoso piviale, ha le fattezze di Giulio II, mentre il cardinale che gli regge il manto a sinistra potrebbe essere
Giovanni de Medici, futuro Leone X, con alle spalle il cardinale Bibbiena e Antonio Del Monte; il porporato di destra è invece identificabile con il cardinale Giulio de Medici futuro
papa Clemente VII, affiancato da Alessandro Farnese, futuro Paolo III La barba del pontefice induce a datare l’opera a dopo il giugno 1511, quando il pontefice tornò a Roma
dopo aver fatto voto di non radersela più finché non avesse liberato l’Italia dagli stranieri. L’opera è generalmente riferita ad aiuti, su disegno del Sanzio, forse Baldassarre Peruzzi
o Guglielmo di Marcillat.
Cacciata di Eliodoro dal tempio: La scena è tratta dal Libro dei Maccabei (Libro II, 3, 21-28) e simboleggia la protezione offerta da Dio alla Chiesa rispetto ai suoi nemici. Eliodoro
di Antiochia era un ministro di Seleuco IV, re di Siria, incaricato di profanare il tempio di Gerusalemme. Ecco che però la preghiera del sacerdote Ania, al centro della
composizione, evoca un messo divino a cavallo, seguito da due aiutanti a piedi, che travolge il profanatore nell'angolo destr o della scena. Eliodoro e i suoi seguaci sono
schiacciati al bordo del campo visivo, ricordando alcune convulse scene di massa della volta della Cappella Sistina come il Serpente di bronzo. Si tratta probabilmente di
un'allusione alla vittoria del papa sui cardinali filofrancesi scismatici, che avevano complottato contro di lui.
La scena ha luogo in un grandioso edificio classico, con lo scorcio di una navata dai soffitti dorati, aperta sullo sfondo del cielo. Al centro, il sacerdote Ania in preghiera di fronte
al candelabro acceso. Nonostante le similitudini dello sfondo con la Scuola di Atene, la luce radente sull'architettura genera un'accentuazione drammatica del tutto nuova[5]. I
ritmi pacati e solenni appaiono ormai superati da un andamento vorticoso e dinamico, in cui la concitazione dei gesti dei personaggi guida l'occ hio dello spettatore a una lettura
accelerata dell'immagine lungo direttrici prestabilite. Anziché articolarsi dal centro verso le periferie in maniera armonica, la composizione oppone una zona centrale pressoché
vuota e immota, dominata da masse d'ombra profonda e bagliori luminosi, ai due nuclei drammatici laterali, dove le figure si accalcano. Inoltre, se negli affreschi della Stanza
della Segnatura tutti i personaggi avevano pose disinvolte e naturali, nell'affresco di Eliodoro cominciano a essere introdotti gesti esasper ati e torsioni che preannunciano
il manierismo.
L'azione si svolge prevalentemente a destra, dove il cavallo travolge Eliodoro steso a terra. Il moto dei personaggi è legato da un ritmo rapido, ma perfettamente scandito, come
se ciascuno si muovesse lungo un tracciato prescritto, una coreografia. Sono state notate analogie tra l'animale e gli studi leonardeschi per il monumento Trivulzio. Il pathos è
michelangiolesco, ma Raffaello cerca anche di mantenere un distacco, l'obiettività della rappresentazione. A sinistra assiste impassibile Giulio II portato dai sediari, ribadendo
l'inviolabilità dei possedimenti della Chiesa e la sua volontà di cacciarne gli usurpatori. Si tratta di un inserimento "teatrale", con cui l'artista riafferma, contro la concezione
michelangiolesca della storia come tragedia in atto, la sua concezione della storia come exemplum: la stessa rapida prospettiva che affretta il movimento delle figure mette in
rapporto diretto il Papa in primo piano con il sacerdote orante in fondo. I due sediari del Papa hanno rispettivamente, quell o di sinistra, i tratti di Marcantonio Raimondi,
incisore e amico di Raffaello, mentre quello di destra di Raffaello. La terza figura, ritratta di profilo, a sinistra dei sediari, si ritiene essere Baldassarre Peruzzi. Il dettaglio del
personaggio issato su una colonna che la abbraccia per osservare meglio la scena venne ripreso più volte, anche negli affresc hi della Sala di Costantino.
Messa di Bolsena: La frattura asimmetrica della finestra (larga 295 cm) che si apre nella parete costrinse Raffaello ad organizzare la scena su un piano rialzato al centro e due
gruppi di figure in basso ai lati. Il miracolo eucaristico di Bolsena avvenne nel 1263, quando un sacerdote boemo, dubitante della transustanziazione, vide sgorgare gocce di
sangue vivo da un'ostia durante la celebrazione eucaristica, che macchiarono anche il corporale, reliquia da allora custodita nel Duomo di Orvieto, nella cui diocesi ricade
anche Bolsena. Vulgata vuole che l'avvenimento fosse stato riconosciuto da Urbano IV, il quale nel 1264 istituì la festa del Corpus Domini con bolla Transiturus dalla sede
apostolica in Orvieto. La scena celebrava il culto personale del papa, omaggiando al tempo stesso suo zio Sisto IV, che aveva promosso il culto del Corpus Domini, nonché il
trionfo della Chiesa nel concilio Lateranense aperto nel maggio 1512.
La scena è impostata in masse equilibrate, ma con una simmetria piuttosto libera, di estrema naturalezza, variando la success ione dei gradini che portano alla zona superiore
dell'altare e disponendo in maniera diversa le masse ai lati. La tensione appare contenuta, come interiorizzata dagli astanti. Sullo sfondo di una basilica classicheggiante aperta
sul cielo (proprio come nella Scuola di Atene), l'artista isolò l'altare attraverso la massa scura di un'esedra lignea, una specie di coro rovesciato, cinquecentesco, da cui si
sporgono due curiosi. Al centro si vede il blocco dell'altare, coperto da un telo a righe dorate e con una misurata natura morta di oggetti liturgici sopra, dove il sacerdote boemo
sta celebrando la messa, seguito da numerosi chierichetti inginocchiati con ceri processionali in mano.
Davanti a lui è inginocchiato Giulio II, in tutta la pompa della sua posizione, con i gomiti appoggiati su un voluminoso cuscino con nappe agli angoli, retto da un faldistorio con
intagli leonini. Ha alle spalle un gruppo di cardinali e più in basso alcuni sediari pontifici attendono seduti. Tra i prelati sono stati riconosciuti Raffaele Riario, con le braccia
incrociate al petto, e forse il cardinal Sangiorgio, con le mani giunte. Più che un miracolo che accade, è un miracolo che si ripete davanti al papa testimone. A sinistra si trova un
gruppo di astanti sorpresi, in piedi o seduti in terra, che ripetono come se fossero attori i loro gesti ammirativi o dimostr ativi. Se la ricostruzione storica è ancora una proiezione
immaginaria del passato, la ripetizione rituale del fatto si colloca nel presente: l'architettura all'antica, che indica un tempo remoto, è solo uno sfondo.
Liberazione di San Pietro: La scena è stata resa da Raffaello fortemente unitaria nonostante l'articolarsi della parete in tre zone, a causa dell'apertura della finestra, che
Raffaello riempì con tre momenti del racconto. Al centro, al di là di una grata tra oscure e massicce cortine murarie, avvien e l'apparizione radiosa dell'angelo nel carcere, dove
Pietro giace ancora profondamente immerso nel sonno e avvinto dalle catene; l'apparizione luminosa dell'angelo e le sbarre in controluce generano un sorprendente effetto di
profondità spaziale. L'emanazione luminosa arriva a toccare tutti gli elementi della scena, comprese le mura carcerarie, dove permangono bagliori rossicci. Pietro appare
vecchio e stanco: secondo alcuni la raffigurazione alluderebbe alla morte di Giulio II (1513), liberato dal "carcere terreno" , oppure alla liberazione di Leone X, ancora cardinale,
dalla prigionia che seguì la battaglia di Ravenna.
A destra l'angelo conduce l'apostolo fuori dal carcere, in un'atmosfera tra sogno e realtà, evocata anche dalle guardie miracolosamente cadute nel sonno; a sinistra altri soldati
scoprono la fuga, mentre si agitano al chiarore della luna e dei bagliori delle fiaccole, che accendono le loro armature di r iflessi. Sono presenti ben quattro tipi diversi di luce: la
luna, che si riflette nelle armature dei soldati; la fiaccola, con il suo riverbero fluttuante; la luce divina, che ricorda quella presente ne "Il sogno di Costantino"; infine c'è la luce
della finestra sottostante (nell'immagine è fotografata chiusa) che si somma alla luce dell'angelo. L'apertura alla base del dipinto infatti non è disegnata, bensì è una finestra
reale. Il racconto deriva dagli Atti degli Apostoli (XII, 6 e ss.). La luce è assoluta protagonista della scena notturna, e ha come unico precedente conosciuto il Sogno di
Costantino di Piero della Francesca ad Arezzo. Il tema del sogno si ritrova anche nella scena biblica corrispondente sulla volta, la Scala di Giacobbe.
Incontro di Leone Magno con Attila: La scena narra l'incontro, leggendario, avvenuto nei pressi del Mincio nel 452, tra Attila re degli Unni e Papa Leone I che avrebbe distolto il
bellicoso capo barbaro dall'invadere l'Italia. Come per la battaglia di Ponte Milvio, la propaganda cristiana ne aveva fatto un episodio miracoloso, con l'apparizione celeste di un
vecchio in abiti sacerdotali che avrebbe terrorizzato gli assalitori, sostituito però da Raffaello dai santi Pietro e Paolo, protettori della città eterna.
Raffaello ambientò la scena nei pressi di Roma, con evidenti richiami alla situazione politica contemporanea. Sullo sfondo a sinistra si riconosce infatti una città mura ta, una
basilica, un acquedotto e il Colosseo, mentre il colle su cui divampa l'incendio, a destra, è Monte Mario. I due gruppi con trapposti sono quanto di più diverso. Il gruppo degli
Unni si slancia estremamente dinamico e furente, bloccato però dalla sfolgorante apparizione degli apostoli armati di spada i n cielo. A sinistra invece il papa col suo corteo
procede ordinato e pacato nella sua infallibilità. Una tale differenziazione è rispecchiata anche nel paesaggio, placido a sinistra, sconvolto dal fuoco e dalla rovina a destra. Le
fattezze del pontefice sono quelle di Leone X, subentrato a Giulio II che era morto nel 1513, anche per l'omonimia con Leone I. Il nuovo papa figurava però già come cardinale
nell'affresco, l'ultimo a sinistra. L'idea dell'omonimia piacque al nuovo pontefice, che lo scelse come tema per la stanza successiva, quella stanza dell'Incendio di Borgo e in cui le
composizioni asimmetriche saranno la dominante stilistica.
Su uno sfondo verde scuro Altoviti è ritratto mentre di spalle si gira per guardare lo spettatore. La
mano sul petto rafforza la teatralità del gesto. I tratti di Altoviti sono giovanili e delicati, quasi
femminili, con occhi azzurri e una capigliatura lunga e bionda. Bindo Altoviti era un ricco banchiere di
una prestigiosa famiglia fiorentina crescito a Roma a causa dell'opposizione ai Medici che li avevano
cacciati dalla città. Fu un importante mecenate del Rinascimento, amico di numerosi artisti tra cui
Raffaello Sanzio.
Amore e le Grazie
In questo episodio, assente nel racconto di Apuleio, Amore chiede alle Tre Grazie (anch'esse figlie di
Venere) di intervenire a favore di Psiche che era stata mandata da Zefiro nel palazzo di Amore. La
donna di spalle è uno dei nudi femminili più belli del Rinascimento e fu imitata molte volte.
Venere e Giove
Gelosa della bellezza di Psiche ed indignata del legame di quest'ultima con Amore, Venere
chiede a Giove di cercare Psiche, introvabile, perché Amore l'ha fatta condurre da Zefiro in
un magico palazzo.
Mercurio
Giove ha incaricato Mercurio, messaggero degli dèi e dio del commercio, di cercare Psiche.
Impugnando il suo Caduceo, Mercurio scende sulla Terra. Questo affresco è il più famoso di
quelli rappresentati nei dieci pennacchi della loggia.
Venere e Psiche
Al cospetto di Venere, Psiche le dona l'ampolla con l'Acqua della Bellezza avuta da Proserpina. Venere,
che aveva sperato la morte della fanciulla, è delusa e stupita dalla riuscita dell'impresa di Psiche.
Amore e Giove
Anche Amore si è recato davanti a Giove. Il re degli dèi, baciando Amore, acconsente a sospendere la
caccia a Psiche e di accoglierla nell'Olimpo come moglie di Amore.
Mercurio e Psiche
Mentre nel racconto di Apuleio è lo stesso Giove ad accogliere Psiche nell'Olimpo e trasformarla in una
dea, nel progetto di Raffaello questo compito spetta a Mercurio. È un'identificazione allegorica, quindi,
tra il dio del commercio (Mercurio) e il ricchissimo banchiere Agostino Chigi, proprietario della Villa,
amico di Raffaello e committente di questi affreschi. Inoltre, il volto di Psiche è, con buona probabilità,
quello di Francesca Ordeaschi, l'amatissima moglie di Agostino. Sopra Psiche c'è un pavone: è il simbolo
di Giunone, protettrice del Matrimonio.
Banchetto nuziale
Nell'episodio finale di questo ciclo di affreschi, Amore e Psiche (a
destra della tavola, l'uno accanto all'altra) siedono al banchetto
nuziale, mentre le Ore (con ali di farfalla) spargono fiori e le Grazie
profumi. Al centro vi è Ganimede che offre una coppa a Giove, alla
cui destra è seduta Giunone. Anche le altre divinità sono presenti in
coppia: Nettuno e Anfitrite, Plutone e
Proserpina, Ercole ed Ebe. Vulcano sta aspettando sua moglie
Venere con un'espressione adirata, Bacco, accanto ad Amore, è
presente come coppiere ed Apollo è ritratto sulla sinistra
come musagete. Insieme a Pan, suona per la danza in onore di
Psiche.
1517 Logge Vaticane
Le Logge vennero progettate da Bramante come prospetto per l'antico palazzo di Niccolò III, su desiderio
di Giulio II con prosecuzione dei lavori sotto Leone X, e la soprintendenza di Raffaello dopo la morte
dell'architetto. La decorazione, a stucco e a fresco, venne affidata a Raffaello e alla sua bottega, in quel
periodo attiva anche nelle Stanze Vaticane.
La prima loggia a venire decorata, nel 1518-1519, fu proprio quella al secondo piano, poiché confinante con
l'appartamento papale. Si tratta di una lunga galleria (65 metri, per una larghezza di circa 4), in cui
lavorarono i vari allievi del Sanzio, talvolta su disegno del maestro, che a quell'epoca era impegnatissimo col
cantiere della basilica di San Pietro e altre vaste imprese. La Loggia confina, sul lato opposto a quello del
cortile, con la Sala di Costantino e la Sala dei Palafrenieri.
Il secondo ambiente a venire decorato, negli stessi anni, è la cosiddetta Prima Loggia, al piano nobile, dove
però gli affreschi raffaelleschi, tra l'altro pare interamente della bottega e di scarsa qualità, già molto
compromessi vennero sostituiti da una nuova decorazione nella seconda metà dell'Ottocento.
L'ultima loggia, al terzo piano, fu decorata dopo il 1550 da Giovanni da Udine, allievo di Raffaello; è
affiancata da un ambiente più piccolo, la cosiddetta Loggetta del cardinal Bibbiena, affacciata sul Cortile del
Maresciallo e vicina agli appartamenti del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena. In questo ambiente,
databile al 1519, sopravvivono raffinate grottesche della scuola di Raffaello.
1518-20 Autoritratto con un amico
Non si conosce l'identità dell'uomo ritratto davanti a Raffaello con una sua mano sulla spalla. La tradizione indica
il suo maestro di scherma, perché appoggia la mano sull'elsa di una spada, mentre la critica vi ha letto la
rappresentazione di un allievo (magari Polidoro da Caravaggio o Giulio Romano) o di un amico e committente,
come Giovanni Battista Branconio per il quale Raffaello aveva progettato in Borgo il distrutto Palazzo Branconio
dell'Aquila, o ancora Pietro Aretino, Baldassarre Peruzzi o Antonio da Sangallo il Giovane. Gli inventari sei-
settecenteschi si sbizzarriscono facendo i nomi del Pordenone o del Pontormo, ma tali ipotesi sono smentite da
altre effigi note e meglio documentate.
Si ignora la provenienza del dipinto e se appartenne a Francesco I di Francia; la sua presenza nel castello di
Fontainebleau è documentata solo agli inizi del Seicento. L'attribuzione a Raffaello è ormai consolidata
(Berenson, Adolfo Venturi, Pallucchini...), ma in passato si fece il nome anche di Sebastiano del Piombo.
Su uno sfondo scuro uniforme, Raffaello, che ha la barba e somiglia all'autoritratto degli Uffizi e a quelli
nelle Stanze vaticane, guarda lo spettatore come a presentargli il personaggio davanti a lui, che si volge
all'indietro. Interessante è il dialogo con lo spettatore invisibile, sottolineato dalla mano distesa che indica chi
guarda, come se fossimo davanti a un vero e proprio scambio di presentazioni. Inoltre lo spadino è un dettaglio
che ci mostra l'animo senz'altro attivo e vivo del personaggio che lo porta alla cinta.
Il taglio dei personaggi è ravvicinato, a mezza figura, la luce proveniente da sinistra, con giochi di sguardi e gesti di
immediata colloquialità. Oltre al gesto amichevole tra i due della mano sulla spalla, evidente è il loro legame
anche dall'analogia della veste e della barba, come andava di moda tenere nei primi decenni del Cinquecento.
Si tratta di un brillante esempio di come in quegli anni si andassero sviluppando modi più monumentali e
dinamici, secondo l'esempio anche di Sebastiano del Piombo.
Giorgione
1504 Pala di Castelfranco
Maria è seduta in alto al centro del dipinto e sorregge con la mano destra Gesù Bambino addormentato. Il trono sul
quale siede poggia su un sarcofago di porfido che riporta lo stemma della famiglia Costanzo. La Vergine osserva in
basso verso la tomba con uno sguardo triste e assente. Due Santi poi sono in piedi ai lati di Maria. A sinistra si trova
San Nicasio mentre a destra San Francesco. Entrambi i Santi guardano in direzione del fedele verso il fronte del
dipinto. San Nicasio indossa un’armatura di metallo lucente e sorregge un vessillo con l’ordine di Malta. San
Francesco invece porta la mano destra contro il petto e sembra invitare l’osservatore con un gesto della mano
sinistra.
I personaggi sacri poggiano su un pavimento decorato con piastrelle che formano un motivo a scacchiera. Dietro di
loro poi è presente un parapetto che pare un telo srotolato e teso. Sullo sfondo infine è visibile un ampio paesaggio
collinare. Si riconoscono campagne, due piccole figure di soldati a destra e alcune rovine di un villaggio con fortezza a
sinistra. Il sarcofago sul quale poggia il trono è probabilmente quello del figlio del committente. Per questo la
Vergine guarda verso il basso partecipando al dolore della famiglia.
I due Santi rappresentati ai lati della Vergine sono riconoscibili grazie agli attributi iconografici che indossano. Il
Santo di sinistra è San Nicasio che si identifica grazie all’insegna dei Cavalieri di Malta. A destra si trova invece San
Francesco che indossa il tipico saio francescano. In tempi passati gli storici interpretarono la figura del Santo di
sinistra come San Giorgio o San Liberale patrono della città di Treviso. Altri invece identificarono il Santo come
Nicasio perché venerato con Francesco in alcune città come a Messina. Tuzio infatti, il committente, era proprio della
città siciliana. Suo fratello ed un figlio erano inoltre Cavalieri appartenenti all’ordine dei Cavalieri di Malta. Gli storic i
però non sono ancora concordi con questa lettura storica dei personaggi.
1509 La tempesta
Appartiene al genere di paesaggi con figure. Queste sono opere di dimensioni ridotte che furono molto apprezzate
dalla nobiltà veneziana del Cinquecento. I dipinti erano destinati ad una clientela molto limitata e colta. I clienti dei
piccoli paesaggi apprezzavano infatti la descrizione della natura unita alla citazione di temi mitologico allegorici.
Fonte di numerose ipotesi interpretative; la celebre opera è solo apparentemente un paesaggio con figure. Il suo
significato nascosto è ancora oggetto di discussione ma rimane inalterato il fascino ambiguo e sottilmente
inquietante.
Ne La Tempesta è riprodotto un paesaggio campestre. Al suo interno vi sono dipinte alcune rovine classiche a
sinistra. Si notano infatti un muro parzialmente eretto e un basamento sul quale si innalzano due tronchi di
colonna. In primo piano sono dipinte tre figure. A sinistra un uomo in piedi si appoggia ad un bastone esile e lungo.
È abbigliato con vesti rinascimentali. Indossa dei calzoni corti, una camicia bianca e un gilet rosso. A destra invece
si trova una donna seminuda seduta su di un prato che allatta il figlio. Al centro è rappresentato un fiume
attraversato da un piccolo ponte. Sull’orizzonte si trova una città. Il cielo è cupo, denso di nubi e un lampo illumina
la zona sopra le case. La scena è incorniciata da grandi alberi e cespugli che creano delle quinte natur ali a destra e
a sinistra. Le indagini degli storici si concentrano soprattutto sul contenuto dell’opera. Nonostante gli sforzi il
soggetto rimane sconosciuto. Gli studiosi tendono a considerare elemento principale dell’opera il paesaggio e
l’evento naturale che sta per accadere, appunto la tempesta. I personaggi dipinti sembra infatti siano stati aggiunti
come figure di completamento dell’opera e non siano importanti per comprendere il significato. Attraverso una
radiografia si rilevò infatti che al posto dell’uomo vi era in una prima versione una donna nuda seduta in riva ad un
ruscello. Anche il ponte in lontananza era completato da una figura in cammino con un fagotto legato ad un
bastone appoggiato alla spalla.Si coglie l’utilizzo della prospettiva aerea di Leonardo da Vinci. Le parti in primo
piano sono più calde e virate verso il giallo. In profondità invece Giorgione ha utilizzato colori freddi e un azzurro
saturo.
Esiste un unico contrasto di complementarietà tra il rosso dell’abbigliamento dell’uomo e il verde diffuso su quasi
tutto il dipinto. Giorgione dipinse direttamente il lavoro disegnando solamente i personaggi. I colori furono stesi a
macchie sovrapponendo i toni chiari a quelli scuri creando quindi sovrapposizioni di colori per arrivare alle
lumeggiature. In questo modo i contorni delle forme tendono a scomparire e a creare un’amalgama ambientale
che unisce forme e sfondo.
La profondità è suggerita dalla prospettiva di grandezza che riduce la dimensione degli edifici a sinistra verso il centro del dipinto. Inoltre si coglie una fuga prospettica che
accompagna lo sguardo dello spettatore in profondità. L’orizzonte poi è alto e la struttura dell’opera vede l’alternarsi di piani che si sovrappongono verso gli edifici lontani. Il
prato in discesa con la donna è in primo piano. Da sinistra convergono verso il centro le rovine. Quindi il ponte sul fiume e infine la fuga delle abitazioni.
Le figure principali sono disposte in corrispondenza delle diagonali del quadro. Questo espediente aiuta lo spettatore ad osservare le diverse parti del dipinto. Si tratta quindi
di una progettazione creata per guidare lo sguardo dell’osservatore. Lungo la diagonale che sale da sinistra in basso è disposto l’uomo, la rovina con le colonne, il ponte la casa
in secondo piano e il grande albero per terminare con la torre che si intravede dietro le chiome. Sulla diagonale che sale da destra invece è disposta la donna, il fiume il ponte e
l’altra rovina dipinta contro due esili alberi che terminano con le loro chiome in corrispondenza dell’angolo alto a sinistra. L’uomo indossa un abito di colore rosso molto acceso
che bilancia la massa centrale dell’acqua di colore verde brillante. Diagonalmente la sua figura emerge otticamente come più importante di tutto il dipinto equilibrata però
dall’albero in alto a sinistra.
Emergono per contrasto di chiarezza i corpi delle ragazze con i loro teli bianchi. Il volto del protagonista centrale e quello del suo compagno di destra sono posti in ombra e non
si legge alcuna fisionomia. Anche il volto della ragazza di destra è nascosto dalla sua posizione. Nel dipinto si equilibrano le masse a destra e, a sinistra, per contrasti di chiarezza.
Poi, il bosco e il paesaggio in alto e, quindi, in primo piano, l’alternanza delle figure chiare con quelle in ombra.
Non vi sono elementi sui quali può agire la prospettiva geometrica se non la vasca marmorea di sinistra che è descritta con una leggera fuga prospettica e punta verso
l’orizzonte. Lo spazio è, quindi, articolato nella sovrapposizione dei piani. Le figure, soprattutto nel gruppo seduto, descr ivono lo spazio attraverso la loro sovrapposizione e il
gioco di luci e ombre. Il paesaggio corre in profondità grazie allo stesso meccanismo percettivo, poi, grazie alla prospettiva aerea e alla rappresentazione dell ’orizzonte nella
parte alta del dipinto. La grandezza degli alberi e delle abitazioni da l’idea della distanza presente tra il pri mo piano e la sommità della collina. La distanza del paesaggio è
leggibile attraverso la prospettiva aerea e Il dimensionamento delle montagne. Il primo piano è occupato interamente dal gruppo di figure dipinte verso la parte sinistra.
Lontano, a destra in basso si trova il gruppo di pecore con il pastore. Da qui chiude la prima parte del dipinto una quinta naturale rappresentata dal bosco di destra e dall’albero
di cui si vede solo il tronco che nasce da un leggero pendio, a sinistra. Quindi si sviluppa il paesaggio con le abitazioni costruite al sommo di una collina verso il centro. Infine lo
sfondo che si amalgama con il cielo nuvoloso. Se si considerano gli sguardi e i volti dei personaggi il movimento è contratto verso il centro del gruppo seduto. I due musicisti si
osservano e vengono osservati dalla donna di schiena. È quindi un movimento chiuso verso il buio e l’ombra senza che si possa no individuare i particolari dei volti.
1511 Miracolo del marito geloso
L'affresco mostra la vicenda di una donna, ingiustamente accusata di adulterio, che viene accoltellata dal marito
geloso; quando l'uomo scopre la verità, chiede perdono a sant'Antonio il quale resuscita la donna. L'opera mostra
nei paesaggi un tono idilliaco, vicino a quello espresso nei dipinti di Giorgione, che però contrasta con il fulcro
della scena: l'atto dell'omicidio, dove in una visione drammatica un uomo pugnala a morte una donna accasciata a
terra, già ferita. La posa della donna pugnalata è di estrema complessità, ma riesce ad esprimere in maniera
travolgente la drammaticità dell'avvenimento. Nell'ampia veste della donna si ha una saldezza plastica nuova,
evidenziata anche dalla tinta brillante della sottana, mentre nelle gambe che scalciano, perfettamente scorciate,
si coglie tutta la concitazione della scena.
Sorprendentemente, un attento esame della descrizione pittorica dell'affresco rivela un passaggio in cui il volume
è in realtà scolpito dal giovane Tiziano, a rilievo, piuttosto che descritto illusionisticamente. Chiaramente visibile
in una fotografia scattata in luce radente, il braccio destro della figura della sposa è modellato da una concrezione
dell'intonaco fino a cinque cm dalla superficie della parete, tanto da provocare una vera ombra nei suoi dintorni.
Oltre a descrivere il volume della parte cilindrica del braccio, la modellazione dettaglia anche il leggero
rigonfiamento delle ossa del gomito e del polso. L'attenta osservazione di questa zona dell'affresco non rivela
alcuna sutura nell'intonaco là dove il braccio incontra il tronco, indicando che il braccio modellato in tre
dimensioni e la testa e il tronco della figura costituiscono uno strato continuo di intonaco applicato in una
giornata.
Dietro lo sperone di roccia si svolge la seconda parte dell'episodio, posta volutamente in secondo piano; il marito
implora perdono al santo, in un momento che assume appunto un'importanza minore nel dipinto. La vistosa veste
dell'uomo rende estremamente esplicito lo svolgersi della scena con la doppia rappresentazione. L'effetto è
altamente realistico e credibile, privo di riferimenti artificiosi all'evento miracoloso, come apparizioni divine o
soprannaturali, in accordo con il programma che doveva essere stato concordato con l'arciconfraternita.
Il distacco da Giorgione è dato dall'immediatezza narrativa, dalla drammaticità accesa e da una scelta cromatica
molto più incisiva, abbandonando i toni più leggeri ed evanescenti. La descrizione della natura però, con i valori
atmosferici e la dolcezza tonale, deriva dal modello giorgionesco ed è qui raffigurata tra le prime volte in affresco.
Dipinto molto celebre, il suo mito risiede nelle interpretazioni date dagli storici per tentare di svelare l’enigmaticità dell’opera. Due giovani donne sono sedute sul bordo di un
antico sarcofago trasformato in una vasca. L’acqua chiara e limpida riempe infatti interamente il monumento funerario. La giovane di sinistra indossa un ampio abito bianco
stretto in vita da una cintura dorata. Le maniche molto ampie avvolgono le sue braccia creando elaborati panneggi. Le maniche, all’altezza degli avambracci sono più strette.
Quella destra è rossa mentre quella sinistra è bianca. La giovane indossa dei guanti. La scollatura dell’abito è molto ampia e lascia intravedere le spalle nude sulle quali ricadono i
capelli dorati. L’acconciatura infatti e molto semplice e le lunghe ciocche sono semplicemente raccolte verso la schiena della giovane. La posizione del suo corpo è frontale. La
gamba destra è allungata verso sinistra mentre sulla destra poggia la mano opposta che stringe dei fiori. Il suo volto è legg ermente girato verso sinistra ma lo sguardo è frontale.
Lo sguardo rivela un carattere deciso e sicuro della propria avvenenza. Accanto alla sposa il piccolo cupido gioca con l’acqua della fonte. La figura femminile dipinta a destra è
nuda e solo parzialmente coperta da un panno stretto intorno ai fianchi. Un mantello rosso ricade fino a terra dalla spalla sinistra. La giovane è seduta sul sarcofago sul lato
opposto alla sposa. Le sue gambe sono incrociate e tra i piedi è posto un lembo del mantello. Il corpo è posizionato frontalm ente mentre il volto è di profilo. Lo sguardo pare
rivolto verso la giovane di sinistra. La sua espressione è amorevole e partecipe. I tratti del suo volto sono somiglianti a quelli della gi ovane. La mano destra si appoggia con il
palmo sul bordo del sarcofago mentre la sinistra è in alto e sorregge una lampada accesa.
Il sarcofago trasformato in vasca di raccolta per l’acqua è decorato sul fronte con un bassorilievo di stile classico. In basso, in prossimità di un giovane alberello da uno scarico
fuoriesce l’acqua che si versa sul prato antistante. Gli alberi dipinti di etro alle due giovani sono in controluce e le loro sagome paiono grandi macchie scure. Infatti il cielo che
sovrasta il paesaggio riproduce l’alba a sinistra e il tramonto a destra. A sinistra, in alto, è rappresentato un castello con un grande torrione cilindrico. Sulla strada che porta
all’ingresso cavalca un cavaliere mentre alcune persone sono ferme di fronte alla porta. In basso, all’interno della collina in ombra in secondo piano, sono raffigurati due conigli
bianchi. A destra si trova un centro abitato immerso in un paesaggio fluviale. Due cavalieri sono impegnati nella caccia alla lepre mentre un pastore sorveglia il suo gregge. I due
luoghi nonostante molte ipotesi avanzate non sono stati identificati con sicurezza.
Il titolo dato all’opera Amor Sacro e Amor Profano non è quello originario. Infatti negli anni i curatori assegnarono diversi nomi al dipinto fino ad arrivare a quello attribui to oggi
che risale all’inizio dell’Ottocento. In ogni caso i titoli sono un tentativo di esprimere il dualismo rappresentato nel dipinto e la comunione delle due giovani. Infatti la somiglianza
dei visi fa pensare ad una stessa modella e quindi alla duplicità di caratteristiche psicologiche di una sola persona.
Secondo l’interpretazioni ad oggi più accreditata (Rona Goffen, 1993), il dipinto Amor Sacro e Amor Porfano rappresenta le due realtà del matrimonio. A sinistra è rappresentata
la sposa in procinto di diventare moglie. I due conigli bianchi rappresentati dietro la donna indicano appunto la promessa di una numerosa discendenza. La giovane indossa
infatti una abito matrimoniale e sul capo una corona di foglie di mirto che simboleggiavano l’unione coniugale. Il significat o del dipinto fa quindi riferimento all’amore privato e
sensuale e all’apparenza pudica e casta della sposa in società. Le due figure sono unite dall’acqua della vasca elemento simbolico mescolato da amore. In Amor Sacro e Amor
Profano è possibile identificare almeno due figure come personaggi classici. Il bambino come cupido e la giovane nuda. Nel caso della figura femminile sono state avanzate le
identificazioni di Venere che convince Medea. Nel bassorilievo scolpito sul sarcofago è possibile concepire la scena di destr a come Venere che si punge un piede per salvare
Adone assalito da Marte. A sinistra invece si tratterebbe di una scena raffigurante il ratto di Proserpina.
Molti autori, negli anni, affascinati dal dipinto enigmatico di Tiziano hanno pubblicato le loro interpretazioni. Alcuni hann o cercato riferimenti nella letteratura, altri nella
filosofia. Sono state accolte soprattutto interpretazioni legate alla filosofia neoplatonica molto seguita a Firenze. Attraver so le idee dell’Accademia di Marsilio Ficino furono
identificate le due giovani come Venere terrena e Venere Celeste. La prima, rappresentata dalla giovane vestita di bianco rappresenta l’amore carnale. La seconda a destra
invece l’amore spirituale ed eterno.Tiziano è tradizionalmente considerato allievo di Giorgione da Castelfranco. Il maestro realizzò l’opera a 25 anni nel periodo di confronto con
Giorgione e di formazione personale. Nel tempo però si è ridimensionato tale rapporto ad uno scambio di idee teorico filosofi che. Quindi ad un confronto alla pari tra due
maestri. Il tonalismo nell’opera Amor Sacro e Amor Profano è poco influente. Infatti le figure sono modellate con deciso senso plastico e diventano quasi monumentali. Da
considerare anche il classicismo con il quale Tiziano compone e colora il dipinto. Il clima che emerge dall’immagine è sereno e misurato. L’atmosfera è cristallina e i colori molto
brillanti.
Tiziano nel dipingere Amor Sacro e Amor Profano si allontana dal tonalismo che aveva condiviso con Giorgione. Infatti i colori sono brillanti, utilizzati per descrivere le figure in
modo dettagliato e preciso. Si è parlato di classicismo cromatico. I colori sono saturi, come si nota nel rosso acceso del ma ntello e della manica. I chiaroscuri contrastati e molto
solidi come nelle pieghe dell’abito e nel bassorilievo. Gli incarnati morbidi e levigati. Il colore del paesaggio è steso con un disegno chiaro degli edifici e della natura. Il cielo di
destra, al tramonto, si ritrova inoltre in altre opere di Tiziano e costituisce un modello utilizzato in seguito più volte. Si può osservare nei dipinti intitolati Baccanale degli
Andrii, Bacco e Arianna e Madonna del coniglio.
Il sarcofago con la sua monumentale massa centrale crea immediatamente una identità geometrica del primo piano. La sua presen za condiziona l’intera scena. Infatti le due
figure femminili sono ancorate alla vasca e condividono la sua presenza spaziale. La loro immagine si unifica in un insieme c he assume quasi l’aspetto di gruppo statuario.
Intorno alle figure il paesaggio e descritto da contrasti di luminosità. La profondità è così determinata dall’alternanza di quinte in ombra e parti in luce. Lo sguardo è bloccato nel
primo piano dallo sfondo molto scuro degli alberi. Si approfondisce invece ai lati verso i due paesaggi dipinti nello sfondo. La struttura del dipinto è centrale e simmetrica. Il
sarcofago infatti crea una potente àncora formale con la quale entrano in relazione le altre figure dell’immagine. Sono posti in rapporto di specularità i paesaggi e le figure
femminili inclinate verso il centro.
1519-22 Polittico Averoldi Il polittico, che nel suo complesso ha una forma rettangolare, è composto da cinque pannelli di tre
dimensioni diverse. Al centro campeggia la scena principale, con la Resurrezione di Cristo; a sinistra si
trovano i Santi Nazaro e Celso con donatore e a destra il San Sebastiano; in alto a sinistra l’Angelo
annunziante e in alto a destra la Vergine annunciata.
La tipologia del polittico era da tempo considerata antiquata e superata e certamente Tiziano cedette
alle pressioni del committente; cercò, tuttavia, di conferire una certa unità alla scena nel suo complesso,
utilizzando un unico paesaggio e la medesima fonte di luce mattutina per tutti i pannelli, sicché,
tralasciando il disturbo visivo delle cornici, sembra che i santi siano materialmente presenti al momento
della resurrezione di Gesù, assieme ai soldati armati e vestiti delle loro luccicanti armature.
Il Risorto, nella soluzione iconografica scelta da Tiziano, ricorda un Cristo che ascende al cielo: la
tradizione, infatti, prediligeva l’immagine del sepolcro vuoto con le tre Marie, oppure il Messia nel
sepolcro al momento del suo risveglio, mentre non era così comune l’immagine di Gesù sospeso in aria.
In questo caso, invece, Cristo trionfa in tutto il suo vigore fisico, con il busto lievemente di scorcio e le
braccia spalancate. Con la mano destra, il Redentore tiene il vessillo crociato, simbolo della sua vittoria
sulla morte e di tutto il Cristianesimo.
I due santi del pannello di sinistra sono i titolari della chiesa cui il polittico era destinato; anche Nazario
porta un’armatura di metallo ricca di riflessi luminosi. Il committente, Altobello Averoldi, è mostrato
inginocchiato e devotamente in preghiera. Il magnifico San Sebastiano del pannello destro, cui si deve la
Un’immagine di Cristo risorto si trova anche in uno stendardo fama dell’opera, è mostrato legato a un albero, con il piede destro su un frammento di colonna
processionale realizzato da Tiziano a Venezia tra il 1542 e il 1544 spezzata. Il vigore della sua anatomia e la complicata posizione in torsione rivela con quale attenzione
per la Confraternita del Corpus Domini di Urbino, oggi conservato Tiziano stesse meditando, in quella fase della sua carriera, sulle novità dell’arte di Michelangelo, che il
nella Galleria Nazionale delle Marche. Lo stendardo era dipinto su veneziano certamente ben conosceva.
entrambi i lati con le scene dell’Ultima cena e della Resurrezione. Possibili modelli di riferimento potevano essere sia i Prigioni del Louvre, in quegli anni già ultimati dallo
Le due scene vennero successivamente staccate dal supporto scultore fiorentino, oppure uno degli Ignudi della Cappella Sistina, che potrebbe avergli ispirato anche la
originario, separate e, nel 1545, incollate su nuove tele.Anche in posizione del Cristo risorto, assai simile a quella di Aman, dipinto in un pennacchio della Volta, a destra
questo caso, come nel Polittico Averoldi, la figura di Cristo è dell’altare. Sullo sfondo, visivamente sotto la gamba destra di Sebastiano, si scorge un angelo intento a
mostrata sospesa in aria, trionfante nella possente fisicità e nella dialogare con San Rocco, che la devozione popolare venerava, al pari di Sebastiano, come protettore
presentazione del vessillo, con i soldati in basso colti nel sonno e dalle pestilenze. I due pannelli in alto presentano l’Angelo annunciante a sinistra e la Vergine
sorpresi dall’evento miracoloso e inaspettato. L’opera è annunciata a destra. I due personaggi dell’Annunciazione, qui separati secondo una consuetudine
attualmente sottoposta ad un lavoro di restauro, allo scopo di iconografica assai diffusa nel Medioevo (la ritroviamo, per esempio, nella Cappella degli Scrovegni di
recuperare la cromia originale, offuscata dall’alterazione della Giotto), sono svincolati dalla composizione generale. Gabriele, illuminato alle spalle da una luce che fa
vernice. Appartiene alla maturità del maestro una tela oggi risaltare il suo abito bianco ricco di pieghe, tiene in mano un cartiglio, dove si leggono le parole
conservata in provincia di Mantova, in cui il pittore affronta un evangeliche “Ave [Maria] Gratia Plena”. Maria, che porta la mano destra al petto in un gesto di
soggetto mai ricordato dai Vangeli e quindi raramente accettazione, è invece immersa in una morbida penombra.Nel corso della sua carriera, Tiziano affrontò
rappresentato: il momento in cui Cristo apparve a sua madre in più occasioni il soggetto del Cristo risorto. In una tavola conservata agli Uffizi di Firenze, e
dopo la resurrezione. Tiziano dipinse quest’opera mentre si antecedente al Polittico Averoldi, la figura di Gesù è isolata, come una figura classica, e il suo bel corpo
trovava a Medole ospite del nipote; è il suo unico quadro seminudo si staglia contro un luminoso cielo azzurro. Il Risorto tiene il vessillo crociato con la mano
presente nel mantovano. sinistra; un lungo drappo bianco dal bordo frangiato gli parte dalla spalla per annodarsi sui fianchi.
1519-26 Pala Pesaro Nel dipinto si trova Jacopo Pesaro il vincitore dei Turchi a Santa Maura nel 1502 e la sua famiglia. Al sommo di una
scalinata, sulla destra è seduta su un trono la Vergine con in braccio il Bambino. Davanti a lei San Pietro interrompe la
lettura per presentare il committente il vescovo Jacopo Pesaro. Alla sua sinistra un alfiere sventola il vessillo di
Alessandro VI e trattiene un turco prigioniero. A destra il Bambino sorride a San Francesco mentre Sant’Antonio osserva i
familiari di Jacopo Pesaro. Francesco, cavaliere, è inginocchiato e indossa un prezioso abito rosso. Sono poi raffigurati
Antonio, Fantino e Giovanni. Il bambino che guarda verso lo spettatore è Leonardo, figlio di Antonio. I due angeli sopra la
nuvoletta rimettono a posto la croce che si era inclinata. La veste azzurra e il mantello giallo indossati da San Pietro sono
i colori araldici dei Pesaro. Invece la piccola frasca di alloro disposta sulla bandiera e il turco prigioniero con il turbante
bianco rappresentano la vittoria contro i turchi. Jacopo Pesaro, il committente presente nel dipinto, era infatti il vescovo
e comandante che guidò venti galee papali nella battaglia di Santa Maura del 1503.
La Pala Pesaro fu realizzata da Tiziano in seguito alla commissione di Jacopo Pesaro, vescovo di Pafo nell’isola di Cipro, i l
24 aprile 1519. L’opera rappresenta un ringraziamento per la vittoria ottenuta a Santa Maura contro i turchi il il 28
giugno 1502. Nella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari si trova anche la Pala intitolata Assunta del 1518. I colori
sono disposti sulla tela da creare un crescendo di saturazione verso la Madonna e il Bambino. Infatti le architetture sono
dipinte con un grigio caldo. Così gli abiti dei personaggi dipinti a destra con San Francesco e Sant’Antonio e di quelli nel
gruppo di sinistra. Solo San Pietro indossa una veste azzurra e un mantello giallo. Accanto a lui spicca l’arancio del
vessillo di Alessandro VI. Infine il colore si accentua nella veste rossa della Madonna e nel suo mantello azzurro. Il velo
bianco rende molto luminoso il suo ritratto e quello di Gesù Bambino.
Otre lo spazio del colonnato si apre il cielo attraversato da grandi nuvole bianche. Nel 1522 Tiziano per la chiesa dei Frari
realizzò la grande pala d’altare chiamata Pala Pesaro. La composizione è nuova rispetto alle opere precedenti. Infatti la
figura della Vergine è posta in modo decentrato, a destra. Tradizionalmente la figura della Madonna trovava sempre
spazio al centro. Ora invece nella Pala Pesaro al suo posto si trova la figura di San Pietro. Inquadra la scena una grande
quinta architettonica e, in alto a destra, si trova la Madonna. I personaggi sono distribuiti sulla scena in modo molto
originale. Maria si trova al vertice di una piramide compositiva che comprende gli altri personaggi in basso.
Anni 20 Bacco e Arianna & Baccanale degli Andrii per il Camerino d’Alabastro di Alfonso I
d’Este
1536-38 Ritratti di Francesco Maria della Rovere e Eleonora Gonzaga
Francesco Maria della Rovere: La posa scelta dal duca doveva ricordare quella di Carlo V eseguita da Tiziano nel Palazzo Ducale di Mantova all'interno della serie dei Dodici
Cesari e oggi nota da incisioni. A mezza figura, indossa l'armatura e, ruotando leggermente il busto, poggia il bastone del comando da condottiero sul fianco (simbolo
del generalato ottenuto dalla Repubblica veneziana), distendendo il braccio destro vicino all'elsa della spada.
Lo sguardo è fisso verso lo spettatore, evidenziato dal taglio compositivo che lo pone sullo sfondo scuro della parete, mentre il resto del corpo ha di etro un drappo
di velluto rosso che copre un ripiano. Vi si trovano appoggiati il suo elmo, con fastoso cimiero figurato (un dragone, allusione ai legami con la casa d'Aragona) e piumato, e altri
bastoni da maresciallo: uno ha le insegne dello Stato pontificio, l'altro è quello della Repubblica fiorentina. Tra questi si trova un ramo di rovere con germogli, oggetto
dell'evidente significato araldico e dinastico: il ramo reciso getta nuove foglie, alludendo all'ottenimento del feudo di Urbino dopo l'estinzione della casata dei Montefeltro.
Inoltre vi si trova un piccolo cartiglio con uno dei motti del duca, "SE SIBI", che alluderebbe alla sua volontà di combattere per sé e per la sua casata: quindi i quattro bastoni
simboleggiano tutta la sua brillante carriera militare, a capo delle milizie di Venezia, di Firenze, del papa e di quelle per "se stesso", ovvero del Ducato di Pesaro/Urbino.
Nonostante la posa cerimoniale, il ritratto del duca colpisce per la sua intensità umana, secondo uno stile perseguito da Tiz iano in quegli anni anche nei ritratti del papa e
dell'imperatore. L'epidermide mostra il segni del tempo trascorso, ma anziché imbruttire il protagonista ne amplificano caratteristiche come il valore, la nobiltà d' animo, il
coraggio. Incorniciato dalla barba e dai capelli scuri, il volto brilla per una fascio di luce che ne indaga con cura i particolari.
Tiziano seppe adattare la sua pennellata ai diversi effetti materici, rendendola ad esempio rapida per le piume del cimiero, ruvida e pastosa per il raso rosso, densa e pastosa
per l'incarnato, levigata e accesa con tocchi di bianco per dare l'effetto di lucidità dell'armatura.
L'opera è stata confrontata con il Ritratto di Federico da Montefeltro di Piero della Francesca (1465-1472 circa) per sintetizzare il completo cambiamento di prospettiva politica
e culturale del ducato di Urbino: se nel Quattrocento l'ampia veduta dello sfondo sottintendeva un microcosmo luminoso e sereno, nel secolo successivo il suo signore si fa
ritrarre in una stanza chiusa tra simboli militari, come se il suo orizzonte si fosse ridotto a una angolo in pericolo da difendere tra i nuovi, grandi imperi intercontinentali.
Eleonora Gonzaga Della Rovere: è seduta e ritratta a mezza figura di tre quarti verso sinistra. Indossa un copricapo con ricami dorati che riprende una moda lanciata
da Isabella d'Este-Gonzaga, assai in voga tra le nobildonne norditaliane del tempo. Il vestito è in sontuoso velluto scuro, con fiocchetti dorati e uno scollo coperto da seta
bianca e orlato da intarsi dorati con pietre preziose. I colori ricordano quelli della sella dei Montefeltro, dai quali i Della Rovere avevano ereditato il ducato. Alle maniche
escono sbuffi di seta, ondulati elegantemente. La cintura è un cordone dorato con nappa finale, a cui è appeso una martora con la testa-gioiello, in oro con perle e rubini
incastonati; la duchessa ne accarezza con la mano destra la pelliccia scura. La donna indossa anche altri gioielli, tra cui u na catena al collo con pendente con perle a goccia
(simbolo di purezza della sposa), orecchini pure di perla, e anelli.
Lo sfondo è una parete grigia, nella quale si apre una finestra che mostra un lontano paesaggio verdeggiante. Vicino alla duc hessa, sotto la finestra, sta un tavolino coperto da
un panno verde, sul quale si trovano un cagnolino pezzato che dorme e un orologio dorato coronato da una statuetta. Si tratta di elementi simbolici, presenti anche in altri
dipinti di Tiziano. Il cane, ad esempio, è quasi identico a quello della Venere di Urbino e simboleggia fedeltà. L'orologio compare nel ritratto di Fabrizio Salvaresio a Vienna, in
quello di Granvelle al Museo Nelson-Atkins di Kansas City e in quello di Gentiluomo con orologio al Prado. Esso simboleggia l'eternità, magari nell'accezione di fedeltà eterna
nel matrimonio, oppure la temperanza (per la regolarità del ticchettio) o addirittura potrebbe rappresentare un memento mori, per lo scorrere del tempo. Potrebbe anche
essere semplicemente uno status symbol: si ha, dopotutto, notizia che i duchi di Urbino collezionavano tali manufatti e che una volta lo stesso Tiziano fece da intermediario
all'acquisto di un esemplare realizzato da un maestro orologiaio di Augusta.
1547 Ritratto di Carlo V L'opera ritrae Carlo V d'Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, a cavallo. Il quadro è uno dei tanti di
Tiziano commissionati dalla famiglia imperiale. L'Impero moderno del Cinquecento non è più quello cavalleresco-
medievale e necessita di un'immagine pubblica nuova ed efficace. Inoltre deve coniugare insieme classicità
(rappresentata dall'esempio costante dell'Impero romano) e modernità, in modo che le diverse etnie e culture
che compongono l'enorme Impero possano tutte riconoscersi nella figura unificante dell'imperatore. Tiziano –
profondo conoscitore della comunicazione – riesce in quest'opera delicatissima, armonizzando gli
ideali cavallereschi della Borgogna (ben conosciuti dall'imperatore) con i riferimenti al mondo classico (Carlo V
era infatti anche chiamato Caesar Carolus, nel tentativo di avvicinarlo al modello dato dagli imperatori romani).
L'opera viene commissionata da Maria d'Ungheria, sorella di Carlo V, per celebrare la vittoria dell'esercito del
fratello sui protestanti della Lega di Smalcalda a Mühlberg (24 aprile 1547). L'imperatore a cavallo viene
raffigurato come un vero e proprio soldato di Cristo in difesa della cristianità minacciata dal crescente diffondersi
del Protestantesimo. Egli sostiene con la mano destra una lancia - un riferimento sia alla possenza degli antichi
imperatori romani (di cui come detto Carlo si considera l'erede) sia un riferimento alla lancia di Longino (che
venne conficcata nel costato di Gesù Cristo durante la Passione) o a quella di San Giorgio (con la quale il santo
trafisse il drago, bestia comunemente associata all'eresia).
Il volto di Carlo è serio ed impassibile, anche se non totalmente realistico; Tiziano infatti nel dipingerlo ne addolcì
il prognatismo mandibolare, tipico degli appartenenti alla casata degli Asburgo. Oltre a ciò, ebbe cura di
tralasciare i segni della gotta di cui l'imperatore soffriva al tempo della battaglia e che lo avevano costretto a
seguirne lo svolgimento a grande distanza, disteso su una lettiga. L'Imperatore indossa una prestigiosa armatura
ricoperta d'oro e d'argento, che tuttora è conservata nell'Armeria del Palazzo Reale di Madrid insieme alla
raffinata bardatura del cavallo. Il paesaggio di fondo è placido, occupato dal fiume Elba, e non vengono
rappresentati i nemici sconfitti (dietro alla figura equestre c'è solo un bosco). La luce e i colori sono molto caldi,
con predominanza dei rossi e degli ocra.
Il dipinto ha parlato ai sudditi e ai nemici dell'imperatore in modo inequivocabile, mostrando nello stesso tempo
la forza del guerriero, la saggezza del sovrano, la fatica dell'uomo[4]. Secondo un aneddoto, peraltro confermato
da una serie di radiografie, il quadro appena eseguito venne rovesciato a terra dal vento mentre si trovava all'aria
messo ad asciugare. Ne risultò danneggiata la parte posteriore del cavallo, che fu poi ridipinta da un altro pittore
(Christoph Amberger). L'opera divenne l'immagine dinastica per eccellenza della casa d'Austria. Nel 1734 rischiò
però di finire bruciata dal grande incendio che distrusse il palazzo reale, il Real Alcázar di Madrid; la traccia
lasciata dall'incendio è chiaramente visibile nell'alone scuro che pervade l'estremità inferiore. Dal 1827 è
custodita presso il Museo del Prado di Madrid.
Lorenzo Lotto
1508 Polittico di Recanati (cuspide col Compianto sul Cristo morto)
Il polittico è composto da un'ancona centinata principale, attorno alla quale si dispongono altri due pannelli
minori della stessa forma e, in alto, due riquadri laterali con Santi e una cimasa rettangolare con la Pietà. Lo
schema quattrocentesco del polittico venne probabilmente scelto dagli stessi committenti, ma l'artista lo
sviluppò in una composizione unitaria, almeno per i pannelli inferiori, come se la scena si svolgesse sotto un
loggiato, con volta a botte cassettonata al centro e due volte minori ai lati e con l'apertura verso il paesaggio
alle estremità. Sicuramente la cornice originaria doveva enfatizzare la scansione degli spazi, simulando
probabilmente gli elementi architettonici di una loggia che si raccordavano a quelli dipinti. Le nicchie dello
sfondo, con le calotte decorate da mosaici alla bizantina, si rifanno ad alcune pale di Giovanni Bellini, così
come alla cultura prospettica quattrocentesca rimanda il pavimento a scacchi.
I pannelli sono così divisi:
Madonna col Bambino, angeli e santi Domenico, Gregorio e Urbano, al centro, 227x108 cm
Santi Tommaso d'Aquino e Flaviano, a sinistra, 155x67 cm
Santi Pietro martire e Vito, a destra, 155x67 cm
Santi Lucia e Vincenzo Ferrer, in alto a sinistra, 67x67 cm
Santi Caterina da Siena e Sigismondo, in alto a destra, 67x67 cm
Pietà, in alto al centro (cimasa), 80x108 cm
Spicca la presenza di santi domenicani, legati all'ordine che gestiva la chiesa, e dei patroni di
Recanati, Flaviano e Vito. Nella tavola centrale Maria, col Bambino benedicente in grembo, è nell'atto di
consegnare, per intercessione di un angelo, lo scapolare bianco dei domenicani a san Domenico: il santo è
infatti raffigurato in ginocchio ai piedi del trono. Moderno è il voluto squilibrio verso sinistra (come nella Pala
di Santa Cristina), così come la luce fredda e differenziata, tra zone più o meno esposte ai raggi solari, che non
esita a lasciare in ombra personaggi come i due papi ai lati del trono di Maria. Un altro elemento innovativo,
tipico dell'ironia di Lotto, sono i due angioletti musicanti alla base del trono, che si ritraggono spaventati
dall'apparizione del santo.
Nella Pietà campeggia il corpo morto di Cristo tra figure che emergono dallo sfondo scuro: un angelo,
Nicodemo, la Maddalena e forse la Madonna, che si copre il viso piangente. Forte è l'effetto di drammaticità,
acuito dalla luce fredda, la composizione serrata e la ricchezza di gesti e atteggiamenti, resi più espressivi da
un leggero sovradimensionamento delle mani.
1527 Ritratto di Andrea Odoni L'opera è nota fin dall'antico. Nel 1532 Marcantonio Michiel la segnalò nella collezione di Andrea Odoni,
mercante lombardo residente a Venezia, permettendone poi il riconoscimento in epoca moderna. La vide
anche Vasari e nel 1660 entrò nelle collezioni reali inglesi, acquistata sulla piazza di Amsterdam. In
passato venne attribuita anche a Tiziano e a Correggio.
Lo stile è tipico del soggiorno veneziano dell'artista, con toni più densi e pastosi, una gamma cromatica
addolcita ed effetti atmosferici che sfocano i contorni. Il quadro costituisce anche la più antica
rappresentazione di un uomo accanto a elementi della propria collezione artistica, tale da figurare come
una primissima attestazione pittorica di un interesse o di un intento di raccolta museale nella storia
del Rinascimento.
Il formato orizzontale era già stato utilizzato dall'artista per ritratti di coniugi e in questo caso è
sperimentato anche per un ritratto singolo, del gentiluomo tra la propria collezione di marmi antichi.
Indicato spesso come opera-simbolo dell'umanista nel suo studiolo, il Ritratto di Andrea Odoni pare che
però non mostri pezzi realmente presenti nelle collezioni del ricco mercante e politico veneziano, a parte
la testa di Adriano in primo piano a destra. L'insieme deve quindi essere legato a significati simbolici, che
alludono alla natura e alle virtù dell'effigiato. L'uomo è mostrato seduto presso un tavolino, indossa
un robone, una ricca veste bordata di pelliccia; tiene in mano una statuetta, forse immagine di una Diana
Efesina, protendendola verso lo spettatore mentre la mano sinistra è portata al petto, con enfasi
sentimentale tipica delle opere di Lotto. Sul tavolo si trova un libretto, con lacci, e alcune medaglie.
Correggio
1519 Camera della Badessa La camera faceva originariamente parte di un complesso di sei ambienti, che costituivano
l'appartamento personale della badessa Giovanna da Piacenza. La funzione di questo ambiente in
particolare non è nota: forse studiolo, forse sala di rappresentanza o forse, a giudicare dalle stoviglie
incluse nella decorazione, a sala da pranzo. A base pressoché quadrata (circa 7x6,95 m), la camera è
coperta da una volta a ombrello di gusto tardo gotico, realizzata nel 1514 da Giorgio da Erba, e
originariamente presentava arazzi alle pareti.
La volta vuole imitare un pergolato aperto sul cielo, trasformando quindi l'ambiente interno in un
giardino illusorio. I costoloni della volta, delimitati da nervature che simulano canne di bambu,
dividono ciascun spicchio in quattro zone, corrispondenti a una parete. Al centro della volta si trova lo
stemma della badessa, composto da tre lune falcate chiamate Crescenti, in stucco dorato, attorno al
quale l'artista ideò un sistema di fasce rosa artisticamente annodate, a cui sono legate dei festoni
vegetali, uno per settore.
Lo sfondo è un finto pergolato, che ricorda e sviluppa i temi della Camera degli Sposi di Mantegna e
della Sala delle Asse di Leonardo. Ciascun festone termina in un'apertura ovale dove, sullo sfondo di
un cielo sereno, si affacciano gruppi di puttini. In basso poi, lungo le pareti, si trovano lunette che
simulano nicchie contenenti statue, realizzate con uno straordinario effetto a trompe-l'œil studiando
l'illuminazione reale della stanza. La fascia più bassa infine simula peducci con arieti, ai quali sono
appesi teli di lino tesi, sostenenti vari oggetti (piatti, vasi, brocche, peltri...), altro brano di
virtuosismo. Sulla cappa del camino, infine, Correggio dipinse la dea Diana su un cocchio tirato da
cervi.
Il camino: La dea Diana, dea della caccia e dalla luna, è su un cocchio trainato da cervi (esclusi dal dipinto ad eccezione di alcune zampe) ed arma ta di arco e frecce. Il nome
della dea della Castità e della Caccia si lega a quello della committente (Giovanna-Gianna-Giana-Diana) e ne esalta le qualità virginali. Lo stemma della badessa conteneva
inoltre tre falci di luna, a rimarcarne il legame con la dea. Diana è sul cocchio e afferra un drappo compiendo il gesto ambivalente di coprire o svelare qualcosa, forse l'intera
volta. Rivolge allo spettatore uno sguardo intenso: essa è il punto di inizio e di fine dell'intera decorazione pittorica. A essa si riferiscono i putti che si affacciano negli ovali,
portando armi e trofei di caccia. Sull'architrave del camino si trova incisa una frase latina: IGNEM GLADIO NE FODIAS, ovverosia "Non disturbare la fiamma con la spada". Si
tratta di una frase di estrazione classica che si riallaccia alle contese della badessa con l'autorità ecclesiastica, ribadendo la propria indipendenza a fronte della volontà di
soffocare quel centro umanistico della sua cerchia ristabilendo una più rigida clausura.
Sul carattere "lunare" della decorazione scrisse una pagina Gombrich: "[Vi sono] alcune prove collaterali che, secondo me, rafforzano l'ipotesi "lunatica". Una di queste è la
grande profusione di conchiglie e di corni. Le conchiglie sono un prodotto della Luna e si formano in mare quando la Luna è i n fase crescente, e Pan soffia in una conchiglia. In
quanto ai corni, oltre a quelli che spuntano sulle teste d'ariete appese sotto le nicchie, ci sono anche quelli in forma di c ornucopia che costituiscono gli attributi di tre dei
personaggi. Gli oggetti metallici appesi sotto le nicchie ricordano il frastuono rituale che, secondo Vitruvio e altri autori, si otteneva percuotendo vasi metallici durante le eclissi
di Luna. Spero infine che non mi consideriate troppo frivolo se mi permetto di ricordarvi che ancor oggi chiamiamo lunette (t ermine già in uso nel Rinascimento) le nicchie di
questa forma"
Il fregio: Il fregio alla base della volta mostra, come si è accennato, peducci con arieti ingioiellati, tra i quali sono tesi dei lembi di lino in cui sono appoggiate stoviglie e
suppellettili all'antica. I piatti e le brocche via via rappresentati sono stati messi in relazione con le figure soprastanti per una lettura alchemi ca. Le bande continue rimandano
al liber linteus che richiama il tema del convito. Gli arieti rimandano probabilmente al segno dell'Ariete, il primo della primavera. Inoltre ricorda i sacri recinti dei suovetaurilia,
con le teste degli animali sacrificali appese.
Le lunette: Il contenuto filosofico/letterario della decorazione della Camera si sviluppò soprattutto nella serie composte da divinità olimpiche e immagini simboliche
monocrome. Simulano nicchie bordate di conchiglie riverse. Si tratta di un complicato insieme che è stato spiegato in vari modi dagli studiosi, con interpretazioni anche
discordi. Esistono precise corrispondenze simmetriche lungo le diagonali, passando quindi sempre attraverso il centro: la più evidente è quella delle tre figure (tre Grazie/tre
Parche), da cui si sono mosse le letture di tutte le altre. Secondo Panofsky il concetto base della decorazione è la rappresentazione delle virtù della badessa (la "speculum
morale"), seguito dai quattro elementi ("speculum naturale") e dalle divinità ("speculum doctrinale"). Altre letture sono un'allegoria della caccia (Corrado Ricci, Roberto Longhi),
l'evoluzione della vita sociale e individuale (Barilli) o un riferimento alle imprese pitagoriche della badessa (Guizzoni). Forse la badessa voleva qui mettere alla prova i propri
ospiti in una sorta di locus dissertationis, dove le varie corrispondenze erano oggetto di decifrazioni e spunto di dissertazione.
L'illuminazione delle lunette dal basso proietta l'ombra delle figure sullo sfondo della finta nicchia, creando una perfetta illusione di profondità. Gli illustri personag gi mitologici
delle lunette sono spiati nella loro più innocente e semplice umanità: le Parche, a cui spetta il compito severo di t essere e tagliare i destini degli uomini, sono tre fanciulle
dolcissime intente a lavorare un sottilissimo filo trasparente; Giunone, appesa con pesanti incudini d'oro legate ai suoi pie di, è poco più che un'adolescente spaventata che
guarda impaurita verso l'osservatore. Niente dell'archeologismo accademico che aveva informato la decorazione di Alessandro Araldi nella stanza ad iacente a questa, e niente
del solenne dialogo con l'Antico che caratterizzava l'elegante linguaggio del Sanzio sopravvive in questi monocromi di “cera fumante”, in queste figure morbide e tremolanti,
fatte di “moto” e “fiato”.
I putti: Sedici sono gli ovali con putti che si affacciano su uno sfondo celeste, uno per spicchio. Essi portano vari oggetti legati s oprattutto alla caccia e collegati, secondo le
letture di Panofsky e Frazzi, alle lunette sottostanti. Così i putti sopra la Virgo pegnans reggono un ghirlanda vegetale, simbolo di verginità, quelli sopra la terra uno scudo con la
maschera di Medusa, che pietrifica, quindi simbolo di roccia, oppure quelli sopra il serapeo hanno un arco che ha la forma di giogo, da intendere forse come guida dei destin i.
Quelli sopra la Virtus si sporgono fuori dall'ovale e cercano di afferrare qualcosa, forse l'Occasio, l'occasione fortunata.
I putti delle lunette sono collegati fra loro da molteplici rimandi narrativi e ad uno che suona il corno in un ovato corrispond e il suo compagno nell'ovato adiacente che,
infastidito dalla musica, fa il gesto di turarsi le orecchie. Pur esibendo virtuosistici contrapposti e scorci altrettanto sapienti, questi putti mantengono intatta tutta la freschezza
propria dei giochi infantili, dei piccoli dispetti e della soave e “smaliziata ilarità” dei trastulli.
Ovidio raccontò la storia di Vertumno e Pomona nelle Metamorfosi (XIV, 622-697 e 765-769). Le due divinità sono rappresentate agli angoli inferiori della lunetta, ciascuna con
l'attributo che le caratterizza: a sinistra Vertumno con il canestro, a destra Pomona con la falce. Essi indossano abiti da contadini, come anche gli altri personaggi presenti. Il mito
è quindi calato in un'atmosfera popolaresca e rustica, assomigliando più alla rappresentazione del riposo di un gruppo di cam pagnoli durante un assolato giorno di festa. La
scena non ha carattere narrativo. In alto si legge l'iscrizione tratta dalle Georgiche di Virgilio (1, 21), dove vengono invocati gli dei e le dee protettori dei campi: DIIQUE DEAEQUE
QUIBUS ARVA TUERI. Al centro della lunetta si apre la finestra ad oculo (oggi coperta da un tendaggio, ma nata come fonte di illuminazione della sala), attorno al quale il pittore
disegnò fronde di alloro che dipartono simmetriche e quattro putti, due sui rami e due seduti su un muretto, che reggono le estremità di una grande ghirlanda fatta di foglie,
frutta e nastri. Sullo stesso muro stanno adagiate due figure, un uomo nudo dalla parte di Vertumno, e una donna vestita di rosso con camicia azzurra e scialle bianco dalla parte
di Pomona, forse una rappresentazione della dea Cerere. Una terza donna si trova poco sotto, girata di spalle, mentre dal lato opposto stanno un uomo sdraiato e un cane in
scorcio molto realistico (ma ottimizzato per la visione frontale piuttosto che dal basso, come sarebbe naturale per lo spetta tore).
L'adolescente nudo sopra Vertumno fa penzolare le gambe e si allunga, appoggiandosi sull'avambraccio destro e stendendosi, per sollevare il panno violetto e toccare una foglia
di alloro. Egli potrebbe rappresentare un giovane Bacco, dio del vino. Un notevole realismo si può cogliere ad esempio nella figura di Vertumno, rappresentato come un vecchio
col volto solcato, le mani nodose, le ginocchia ossute, deformate dal lavoro nei campi. Curiosa è la figura del cane s magrito, corrucciato e come sul punto di abbaiare, in
posizione molto naturale derivata sicuramente da uno studio dal vero. Questo particolare interesse verso l'universo naturale venne ispirato probabilmente dalle stampe
tedesche, allora già molto diffuse anche a Firenze, con animali, vegetali e uomini rappresentati con la stessa dignità e interesse dell'artista. Secondo un'interpretazione allegorica
più complessa l'affresco potrebbe costituire una metafora politica esaltante il destino e l'immoratlità dell a casata medicea, ricollegandosi al tema celebrativo degli altri affreschi
del salone. Il troncone d'alloro rappresentarebbe i vari rami della dinastia (Lorenzo de' Medici usò spesso il Laurus come rimando alla sua persona). Il rinnovarsi generazionale è
evocato dall'idea della rigenerazione della natura nel trascorrere delle stagioni. Vertumno simboleggerebbe l'inverno e l'uom o seduto accanto a lui Apollo, dio del Sole; Pomona
l'estate o la primavera e la donna di spalle accanto ad essa Diana, cioè la luna. Il complesso delle figure in primo piano simboleggerebbe quindi il trascorrere dei giorni e delle
stagioni. La profondità spaziale, come in altre opere del periodo, appare assottigliata, senza però intaccare l'ariosità data dal cielo aperto dello sfondo. Tutto è calibrato con
attenzione all'equilibrio generale, movimentato però dalla pluralità di direzioni che suggeriscono le articolate posizioni dei personaggi, i loro ges ti e i loro sguardi.
1522 Ritratto di gentildonna in rosso
Orazione nell’orto:
Resurrezione: La lunetta della Resurrezione è la meglio conservata del ciclo, in cui sono ancora in larga parte leggibili i dettagli. Ciò si deve sicuramente alla sua posizione
originaria in angolo sopra un portale, quindi maggiormente riparata. Fa eccezione la caduta dei colori più scuri, in parte do vuta anche allo stacco, che rendeva metalliche le armi
dei soldati (le spade, le scuri, le alabarde), oggi bianche come l'arriccio di fondo.
La scena ha uno schema pressoché simmetrico, con al centro la figura di Gesù che si leva senza peso e circondato di luce dal sepolcro (non visibile), tra un folto gruppo di soldati
addormentati. Un raffinato gioco formale si attua nella varietà delle pose dei dormienti e nei continui richiami a forme tond eggianti nei loro volti, nei cappelli, negli scudi (Adolfo
Venturi parlò di "dischi policromi", 1932). Nella parte superiore invece prevalgono le linee dritte e appuntite delle lance, delle bandiere e dell'asta del vessillo di Cristo. La
ricchezza cromatica è un vero e proprio caleidoscopio di gialli, rossi-arancio, bianchi, verdi, grigi e viola, scelti in tonalità tenui e poco consueti. In generale le influenze nordiche
si manifestano nei profili allungati e nell'abbigliamento dei personaggi, nonché nel senso drammatico degli eventi: grazie a tali ricerche l'artista scioglieva tutti i legami con la
tradizione fiorentina, arrivando a una nuova e liberissima sintesi formale.
1526-28 Deposizione
Deposizione: Situata entro la cornice lignea originale, di Baccio d'Agnolo, viene solitamente chiamata con il riferimento tradizionale alla deposizione dalla croce del corpo morto
di Cristo, anche se a ben guardare non vi è rappresentata alcuna croce; sarebbe quindi più opportuno parlare di "trasporto di Cristo" verso il sepolcro e di compianto sul Cristo
morto, come si evince dalla presenza dei numerosi personaggi dolenti che si affollano attorno alla protagonista del gruppo, Maria vestita d'azzurro. Sicuramente l'episodio del
compianto doveva avere un importante ruolo, essendo la cappella dedicata alla Pietà: si tratterebbe comunque di una pietà "dissociata", dove cioè madre e figlio non sono uniti
ma separati. L'unione in opere d'arte di vari temi relativi ai momenti dopo la crocifissione era comunque già diffusa, si pensi ad esempio alla Deposizione
Borghese di Raffaello (1507), pure in quel caso un "trasporto" unito al "compianto". Un'altra interpretazione, descritta da Antonio Natali, è che la scena illustri l'eucaristia, col
corpo di Cristo, "pane degli angeli" secondo sant'Agostino, calato idealmente sulla mensa d'altare sottostante: in questo senso si spiegherebbe anche l'insolito doppio rispetto al
soggetto analogo della vetrata di Guillaume de Marcillat.
La composizione è molto serrata, con undici personaggi uniti in un "nodo inestricabile di figure", come scrisse Adolfo Venturi[5], formanti una sorta di piramide rovesciata. I gesti
sono spesso enfatici, i volti dolenti, in modo da accentuare la tensione espressiva. In primo piano a sinistra due personaggi trasportano il Cristo morto procedendo in diagonale
verso destra e verso il centro del dipinto. Il corpo divino si viene quindi a trovare sopra l'altare e richiama la sua offerta come panis angelicus. Quello che tiene le gambe di Gesù
è accovacciato, mentre quello che regge le spalle sta in piedi; entrambi rivolgono lo sguar do verso l'esterno, dove si trovano i possibili spettatori, ed entrambi non percepiscono
per niente il peso della salma, come dimostra il loro procedere in punta di piedi. Essi sono stati interpretati come angeli, che sono in attesa di spiccare il volo fuori dal dipinto per
portare il Cristo nelle braccia di Dio Padre già raffigurato nella cupoletta della cappella.
Un'altra figura, questa volta femminile, si leva in alto a sinistra e, senza chiarimento di dove essa poggi, si sporge in avanti a tenere con dolcezza la testa di Cristo. Un'altra donna,
di cui si intravede la testa voltata, le spalle, le mani e un avambraccio, regge invece la mano sinistra di Gesù. Essa sta rivolta indietro rivolgendosi a Maria, che occupa gran pa rte
della parte centrale e destra col suo vaporosissimo manto, circondata da quattro donne. Essa ha il volto tormentato e leva un braccio verso il figlio, arretrando, lungo la
diagonale, come prima di uno svenimento, quasi a lasciare spazio alla figura del figlio che procede. Essa, a ben guardare, è seduta in posizione rialzata, come si scorge dalle
gambe piegate che si intravedono al centro. Verso di lei accorre una donna in primo piano vestita di rosa (la Maddalena?), con un fazzoletto di lino per asciugare le lacrime e
ritratta a figura intera, di spalle. A destra della Vergine si trova invece una testa di vecchia, che le rivolge uno sguardo preoccupato. Dietro si trovano altre due presenze eteree,
che sembrano galleggiare nel vuoto: una pia donna che porta un braccio al petto, e una col capo scoperto, che si protende in avanti come spiccando il volo, allungando le braccia
indietro; essa è vestita da una sottilissima guaina verde e magnificata da un drappo arancione che la avvolge da dietro, gonfiato da una misteriosa brezza.
1528-29 Visitazione Citato e descritto da Vasari, l'affresco trattò la visitazione attingendo alle più avanzate novità spaziali allora
venute alla luce sulla piazza artistica fiorentina. Invece di riferirsi a Ghirlandaio, fonte di ispirazione per la
maggior parte delle scene, Pontormo prese a modello piuttosto le opere di Raffaello e di Fra Bartolomeo, come
la Pala Pitti dalla quale derivò il moto circolare delle figure attorno al nucleo della Visitazione vera e propria.
Inoltre, a differenza di Andrea del Sarto, per ampliare lo spazio Pontormo non ricorse a figure disposte lungo le
diagonali, ma sviluppò i gradini, assai inconsueti in questa iconografia, su cui pose delle figure che creano una
sorta di quinte laterali e che incoraggiano lo scorrere dei personaggi circolarmente, come
nel Parnaso di Raffaello. Nel complesso però la spazio appare insufficiente rispetto alla sovrabbondanza di
personaggi, creando una sottile inquietudine che si allontana da tali posatissimi modelli.
Sulla sommità di cinque gradini Maria riceve l'omaggio di sant'Elisabetta, inginocchiata su un gradino più basso,
sullo sfondo di un'esedra colonnata su cui si trova anche la firma dell'artista. Sopra di essa, che è su un fondale
scuro, stanno un putto e un anziano, che movimentano ulteriormente la composizione. Maria ed Elisabetta
ricordano la Madonna dell'Impannata, sempre di Raffaello, mentre nelle altre figure femminili si riscontrano
similarità, nelle pose e nelle fisionomie, con i lavori di Andrea del Sarto. Rispetto alla vivace vena narrativa delle
altre scene del ciclo dipinte dal del Sarto, lo spazio appare qui più bloccato e circoscritto, in pose statuarie come
quella del santo col libro, in primo piano a destra, o della canefora a sinistra, o ancora della madre col ba mbino in
secondo piano, accanto a Maria. Si tratta di echi michelangioleschi, così come lo stridore della veste gialla di
Elisabetta, che ha fatto ipotizzare un viaggio dell'artista a Roma, verso il 1515, dove dovette vedere le novità
nella Cappella Sistina e nelle Stanze di Raffaello. Per Luciano Berti l'affresco presenta "una maggiore decisione
unitaria nello spazio, dunque, mentre il medesimo schema fondamentale classico [...] trova ora in Pontormo un
moto di variazioni molto più intenso di personaggio in personaggio...".
Notevole è il putto seduto a destra, figura sciolta e densa di malinconica emozione, in cui si coglie già lo stile di
poetica "maniera" della maturità del pittore. La sua posa disinvolta sui gradini richiama quella
del Diogene nella Scuola di Atene di Raffaello, presupponendo quindi un viaggio a Roma di poco anteriore
all'affresco, o comunque la conoscenza dell'opera raffaellesca tramite disegni o incisioni. Anche lo sguardo
enigmatico della donna a sinistra, lievemente caricato e inquieto, è indice di una nuova sensibilità, estranea ad
esempio ai pittori fiorentini della generazione immediatamente precedente come Fra Bartolomeo. Nuovo è
anche il gesticolare del gruppo sulla destra.
Rosso Fiorentino
1518 Pala dello Spedaligno
Si tratta di una sacra conversazione, con al centro la Madonna, seduta sullo sfondo di un damasco dorato, che
tiene in braccio il Bambino e conversa con quattro santi attorno a lei. A sinistra si vede san Giovanni Battista,
patrono di Firenze e titolare della cappella in Ognissanti, seguito da sant'Antonio Abate, protettore degli animali e
quindi adatto alla località di campagna, e, sull'altro lato, da santo Stefano, titolare della chiesa di Grezzano, con la
pietra della lapidazione in testa, e uno scheletrico san Girolamo col libro, col ventre incavato, lo sterno, le costole e
le clavicole ben in vista, la magrezza estrema del collo e del braccio, rivelando un legame con gli studi anatomici
che all'epoca si iniziavano ad effettuare sui cadaveri. I due santi centrali, come hanno dimostrato anche le
radiografie, erano nella prima stesura san Benedetto, protettore del padre di una vedova che aveva lasciato i suoi
beni all'ospedale, e san Leonardo, omonimo del Buonafede, i cui ceppi si intravedono ancora nell'ombra dietro la
testa della Vergine. Per modificarli venne aggiunto un Tau sulla veste di Benedetto e un sasso sulla testa di
Leonardo, nascondendo i ceppi in un'ombra indefinita. Ai piedi di Maria, seduti su un gradino, si trovano due
squisiti angioletti, presi nella lettura di un libro, che sembrano estranei alla generale inquietudine dei santi.
La composizione è semplificata e si ispira alle pale fiorentine del Quattrocento, come la Pala di
Sant'Ambrogio di Botticelli (1470). Nuova è però l'eliminazione di qualsiasi gerarchia tra la Vergine e i santi: essa
infatti non è come di consueto in posizione dominante, ma è inserita al centro del gruppo in uno spazio
circoscritto. Inoltre, a differenza di quello che andava facendo Pontormo in quegli stessi anni in opere come la Pala
Pucci, Rosso tese a chiudere la composizione su sé stessa, anziché aprirla verso l'esterno o, tantomeno, mantenere
la classica scansione ritmata[1]. Come per Pontormo la spazialità appare compressa, con una forte riduzione della
profondità.
Gli effetti spigolosi e scabri furono ispirati invece dall'osservazione di lavori scultorei, come i rilievi dell'ultimo Donatello nei pulpiti della Passione e della Resurrezione in San
Lorenzo. I santi hanno infatti volti incupiti da ombreggiature molto marcate, con sguardi privi di serenità, ora interrogativi, ora attoniti, all'insegna di un senso generale
d'inquietudine, sottolineata anche dalla gestualità. Nel san Girolamo ad esempio si notano già caratteristiche che verranno sviluppate nelle opere future, come l'espres sività
caricata nella posa e nel volto (si è parlato di espressione "crudele e disperata"), nonché una sfaccettatura dei volumi che esaspera le forme. A una ricerca in tale senso va
ascritta anche l'accentuazione delle ombre attorno agli occhi, così antinaturalistica: nel caso del Bambino tale evidenza è però dovuta al riaffiorare di un pentimento, forse
corretto all'epoca della risistemazione dei santi: di occhi, infatti, il Bambino Gesù ne ha ben quattro.
Tali caratteristiche sottilmente inquietanti appaiono però mitigate dalla dolcezza di alcune figure, come quelle degli angioletti, o dalla ricchezza cromatica, con effetti cangianti.
La Morte di Adone, secondo Panofsky, allude all'evento tragico della morte del Delfino Francesco di Valois il 10 agosto 1536: data dopo la quale si procedette probabilmente a
una revisione iconografica. Anche la Perdita della gioventù perpetua sarebbe un'amara riflessione sul trascorrere del tempo, controbilanciata dall'Educazione di Achille che
allude a una giovinezza guidata con saggezza, forse riferendosi ancora una volta ai figli del re. Marc Fumaroli ha proposto che nella lettura delle scene siano da tenere in conto
anche i tre Inni pindarici scritti in quegli anni da Luigi Alamanni (un altro fiorentino esule in Francia) per il re e sua sorella, nonché la consulenza letteraria di Lazare de Baïf,
ambasciatore e letterato, già allievo di Giano Lascaris. Falciani imbastì una lettura esegetica più ampia, legata alla contrapposizione tra amore carnale negativo e amore
spirituale positivo, implicita nel motto dell'emblema reale della salamandra (scelta da Francesco I almeno dal 1504): "notrisco al buono, stringo al reo", ovvero mi alimento al
fuoco del bene e mi estinguo a quello maligno. La Lotta tra Centauri e Lapiti ad esempio conterrebbe una condatta verso coloro che si abbandonano sfrenatamente all'amore
carnale, mentre la Peridta della gioventù perpetua mostrerebbe la stupidità della razza umana, ingannata dal "precipizio dei sensi". Anche la Vendetta di Nauplio e la Morte di
Adone si riferirebbero ai pericoli dell'amore carnale e le sue conseguenze, mentre l''Educazione di Achille indicherebbe la strada per la vita virtuosa; parimenti le scene sulla
destra mostrerebbero gli effetti legati alla scelta dell'amore spirituale. Il Sacrificio la protezione offerta alla religione.
1521 Deposizione La pala mostra un momento fino ad allora rappresentato raramente, ovvero la discesa del corpo di Gesù dalla c roce
subito dopo lo stacco, ispirandosi al racconto di Matteo (27, 45; 57), in cui la terra viene avvolta da una fitta oscurità. La
scena è infatti ambientata al crepuscolo, con un delicato trapasso delle luci serali dalla linea dell'orizzonte alla parte
alta del dipinto. Mai rappresentato prima e non descritto dai vangeli è il fatto del corpo di Cristo che sembra essere sul
punto di scivolare dalle mani dei suoi soccorritori, che si affannano concitatamente per evitarne la caduta[1].
L'esplosione emotiva di questo episodio è combinata, nella parte inferiore, con una forte spiritualità scaturita dalla
ricca gamma di pose ed espressioni degli astanti, tra i quali spiccano la Madonna ferita dal dolore, la Maddalena
inginocchiata e protesa verso di essa, san Giovanni piegato dal dolore. La disposizione asimmetrica delle scale genera
un moto violento, accentuato dall'incertezza degli appoggi degli uomini che calano il corpo di Cristo.
Simile per la forma della tavola e per le misure, oltre che per il tema, a quella del Pontormo, tuttavia ne differisce
profondamente per la concezione. Il Rosso ottiene il dramma per la volumetria angolosa che sfaccetta le figure (si veda
la Maddalena e la sua veste, la figura più in alto di Nicodemo, ecc.), per il movimento convulso di alcuni personaggi, per
i colori intensi prevalentemente rosseggianti stagliati sulla distesa uniforme del cielo, con la luce che incide da destra
con forza, creando aspri urti chiaroscurali. Tinte complementari sono spesso accostate, con effetti cangianti, e si
stagliano con forza gli effetti "fosforescenti" nei punti di maggiore luminosità, rispetto allo sfondo. La particolare
stesura, con una sottile patina degli impasti, rende qua e là visibili l'imprimitura e gli strati sottostanti, rivelando
talvolta curiose annotazioni autografe, come le scritte relative ai colori da impiegare, poi cambiate bruscamente in
corso d'opera sulla spalla destra della donna in primo piano, che poi è invece colorata di un rosa salmon e, o "azzurro"
nel panno del depositore più basso (che invece è giallo) o nello chignon della Maddalena. Le deformazioni dei corpi e
dei volti giungono all'estrema esasperazione: il vecchio affacciato dall'alto sulla croce, Nicodemo, ha il viso contratto
come una maschera. I depositori formano una sorta di circolo, complessamente articolato sui piani in tre dimensioni
delle scale, che asseconda la forma centinata della pala, anche tramite il mantello di Nicodem. Sullo sfondo, al bordo
dell'intenso blu che riprendeva il lapislazzuli degli affreschi di Cenni di Francesco, si intravedono, piccolissimi, alcuni
armigeri, simbolo della perfidia e malvagità umana che ha condotto Cristo sulla croce[3]. Un capitolo aperto nello
studio dell'opera è rappresentato dall'individuazione delle fonti iconografiche che hanno ispirato l'artista. Alcuni hanno
ipotizzato un'assoluta originalità dell'artista nell'invenzione, altri sono risaliti fino a fonti medievali, come il gruppo
ligneo della Deposizione nel Duomo di Volterra (XIII secolo), oppure con alcuni personaggi della Strage degli Innocenti e
con lo spartito della Deposizione di Cenni di Francesco nella cappella a cui era destinata la pala. L'opera più vicina a
quella del Rosso è comunque la Deposizione per la Santissima Annunziata (Firenze) di Firenze, avviata da Filippino
Lippi e terminata da Perugino: analoga è l'impostazione della Croce e la presenza delle due scale laterali, una
appoggiata sul davanti, una sul dietro. Il depositore col perizoma giallo assomiglia a una figura del perduto cartone
della Battaglia di Cascina di Michelangelo, mentre il corpo di Cristo cita la Pietà vaticana. L'accostamento di colori
complementari deriva forse dalla visione della volta e le lunette della Cappella Sistina, viste forse in un viaggio a Roma
tra il 1518 e il 1521, così come la posa di san Giovanni, col volto nascosto tra le mani, ricorda quella dell'Adamo
nella Cacciata dei progenitori dall'Eden, di Masaccio.Inoltre sarebbero presenti echi delle stampe di Dürer, all'epoca
assai popolari a Firenze.
1523 Sposalizio della Vergine
La scena è molto affollata e impostata simmetricamente, con al centro Giuseppe, con la mazza fiorita, che sta
infilando l'anello a Maria benedetto dal sacerdote dietro di loro. Abbandonando la tradizione iconografica, senza
sottostare a quei vincoli dottrinali che di lì a poco ribadirà la controriforma, Giuseppe è rappresentato come un
bel giovane, anziché anziano e quindi incapace di intaccare la verginità di Maria. Una tale scelta rivoluzionaria ha
sempre interessato gli studiosi e l'unica possibile spiegazione finora trovata è che voglia rappresentare
simbolicamente la renovatio ecclesiae promossa da Leone X e portata avanti da Clemente VII. Non è escluso però
che si tratti di una scelta dell'autore, artista ai limiti del dissacrante, per non dire in alcuni casi quasi blasfemo. San
Giuseppe è stato definito somigliante al David di Donatello, secondo un'ispirazione da fonti quattrocentesche che
si ritrova anche in altre opere dell'artista.
La scena principale si svolge arretrata alla sommità di alcuni gradini, ai lati dei quali si trovano alcune figure: due
putti che si abbracciano, un santo monaco domenicano che indica la scena, forse san Vincenzo Ferrer (che
contiene forse il ritratto del committente), una santa anziana (forse sant'Anna) e la santa giovane col libro
(sant'Apollonia), che tiene in mano qualcosa di metallico, forse una chiave. L'identificazione di gran parte delle
figure resta incerta. Sguardi e gesti di queste figure indirizzano le figure in profondità, verso la scena centrale,
secondo uno schema che supera ormai la tradizionale forma piramidale trasformandola in qualcosa di più
complesso, in spazi saldati entro due semicerchi opposti. L'affollamento è stato letto come "una gioiosa festa
popolata da vari invitati".
La tavolozza è vivace e cangiante, tipica degli sperimentatori manieristi, e col suo oscurarsi in profondità aiuta a
far percepire la profondità spaziale. Come fonti che hanno ispirato la composizione sono stati indicati gli affreschi
di Pontormo e Franciabigio nel Chiostrino dei Voti, in particolare la Visitazione, con un'analoga struttura a gradini
con figure in piedi, sedute e inginocchiate disposte a mezzaluna attorno al centro, e lo Sposalizio della Vergine,
con la figura simile del sacerdote e la quinta architettonica dislocata appena dietro le figure. Nuova, rispetto ad
esempio ad opere di appena un anno prima come la Pala Dei, è la consistenza del colore, diventato sbaliginante e
ricco di riflessi cangianti, forse per influenza di Perin del Vaga appena tornato da Roma
L'opera mostra l'insolita iconografia del matrimonio mistico di santa Caterina da Siena, ricalcato sull'episodio
riguardante l'omonima santa Caterina d'Alessandria, in uso come soggetto dal medioevo.
La scena è ambientata entro la nicchia di una chiesa e sotto una tenda retta da angeli, imitante la Madonna del
Baldacchino di Raffaello. A Raffaello si rifà anche la disposizione semicircolare dei santi attorno al trono di Maria
(da sinistra Pietro, Lorenzo, Stefano, Francesco d'Assisi e Domenico che si abbracciano in segno di fratellanza,
Bartolomeo e due martiri), che esplorano la spazialità disponibile. Rispetto al modello però Fra Bartolomeo
accrebbe la monumentalità delle figure e variò maggiormente le attitudini dei personaggi.
Evidenti sono le ampie campiture di colore, tra le caratteristiche più tipiche dello stile di Fra Bartolomeo, unite
alla monumentalità dei personaggi e all'atmosfera solenne e pacata, dove i movimenti appaiono rallentati.
Spicca la giocosità degli angioletti in alto, raffigurati in scorci a contrapposto.
Giulio Romano
1520-24 Stanza di Costantino (Donazione di Costantino, Battaglia di Ponte Milvio, Visione
di Costantino)
Donazione di Costantino: La decorazione della Sala di Costantino, l'ultima delle Stanze, venne commissionata da Leone X nel 1517. Il Sanzio, preso da mille impegni, fece appena
in tempo a disegnare i cartoni e avviare una sorta di arriccio per la prima parete, prima di morire improvvisamente il 6 aprile 1520. L'opera venne allora continuata dai suoi
allievi, tra cui spiccavano soprattutto Giulio Romano e Giovan Francesco Penni.
La Sala di Costantino è dedicata alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo e all'affermazione ed il primato d ella Chiesa romana, con evidenti richiami alla delicata situazione
contemporanea. Durante la Repubblica Romana instaurata dai giacobini e successivamente nel periodo napoleonico, i francesi elaborarono alcuni piani per staccare gli affreschi
e renderli portabili. La Donazione di Costantino è l'episodio leggendario secondo cui l'imperatore romano fece dono a papa Silvestro I della città di Roma e dei territori
pertinenti, fondando il potere temporale del vescovo di Roma. In realtà tale episodio è un falso storico, come provò già Lorenzo Valla nel 1440. I pontefici medicei, sotto i cui
pontificati fu completata la decorazione, ignorarono però tale confutazione concludendo tutto il ciclo storico a celebrazione del papato proprio con questa scena.
La scena è ambientata all'interno di un edificio che ricorda l'antica basilica di San Pietro, con la lunga navata paleocristiana in prospettiva, l'abside decorata da mosaici e la
tomba dell'apostolo Pietro con le colonne tortili in fondo presso l'altare. In secondo piano, dietro una serie di personaggi con pose riprese da altri affreschi raffaelleschi
(l'Incendio di Borgo, la Messa di Bolsena) e che hanno il compito di dirigere l'occhio dello spettatore in profondità, si svolge la scena della donazione. Il papa, seduto
sulla cattedra, riceve dall'imperatore una statua dorata della Dea Roma, simbolo della sovranità sulla città. Vasari elencò vari ritratti tra i personaggi: Giulio Romano, Baldassarre
Castiglione, Giovanni Pontano, il Marullo e altri. Sulle colonne in primo piano si leggono le iscrizioni: "Iam Tandem Christum Libere Profiteri Licet" (sinistra) e "Ecclesiae Dos a
Constantino Tributa" (destra).
Battaglia di Costantino contro Massenzio: Il soggetto del dipinto è la battaglia di Ponte Milvio, quando Costantino sconfisse Massenzio. La convulsa scena di battaglia è ispirata
ai rilievi sui sarcofagi romani e su altri monumenti, con l'imperatore che ad esempio è plasmato su quello del fregio traianeo nell'Arco di Costantino.
Al centro incede trionfante Costantino su un cavallo bianco, che macina i nemici sotto gli zoccoli. Gli si parano davanti le truppe avversarie, che si piegano però alla sua
inarrestabile avanzata. A destra si vede il ponte Milvio, strapieno di soldati; nel fiume le barche dell'esercito di Massenzio vengono colpite e fatte rovesciare dagli arcieri, mentre
altri soldati vi cadono per la spinta della zuffa; tra questi, in basso a sinistra, si trova anche Massenzio a cavallo, riconoscibile per la corona in testa, che è ormai inevitabilmente
destinato alla sconfitta. In alto tre apparizioni angeliche confermano l'esito divino della battaglia. Nello sfondo, in alto a sinistra, un edificio rappresenta probabilmente villa
Madama, allora in costruzione secondo i progetti del Sanzio.
Visione di Costantino: Il soggetto del dipinto è l'episodio che la tradizione tramanda come accaduto alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, quando Costantino avrebbe avuto
la visione premonitrice di una croce in cielo e della scritta "In hoc signo vinces".
La scena si ispira, nella composizione generale, agli episodi dell'Adlocutio presenti in numerosi rilievi dell'Antica Roma (come sulla Colonna Traiana o sull'Arco di Costantino).
Mostra infatti il comandante che, da un piano rialzato, arringa l'esercito per spronarlo alla vittoria. Sul basamento da cui Costantino parla si trova anche la scritta chiarificatrice
"ADLOCUTIO QUA DIVINITATIS IMPULSI CONSTANTINIANI VICTORIAM REPERERE. Nel cielo, al centro appare la Croce sorretta da angeli e la scritta con caratteri greci EN
TOYTΩI NIKA, cioè "in questo vinci". Interessante la vista sullo sfondo di una Roma antica ricostruita in alcuni dei suoi monumenti, tra cui si riconosce la Meta Romuli di forma
piramidale, il mausoleo di Augusto e quello di Adriano, un ponte sul Tevere e un alto mausoleo (forse il Terebinthus Neronis). Il nano in primo piano a destra doveva essere il
buffone del cardinale Ippolito de' Medici, tale Gradasso Berettai.
1525 Palazzo Te
Verso la metà del XV secolo Mantova era divisa dal canale Rio in due grandi isole circondate dai laghi; una terza piccola isola, chiamata sin dal Medioevo Tejeto e abbreviata
in Te, venne scelta per l'edificazione del palazzo Te. Due sono le ipotesi più attendibili sul significato del termine teieto o tejeto: esso potrebbe derivare da tiglieto (bosco di
tigli), oppure essere collegato a tegia, dal latino attegia, che significa capanna. Il palazzo è un edificio a pianta quadrata con al centro un grande cortile quadrato anch'esso, un
tempo decorato con un labirinto, con quattro entrate sui quattro lati (Giulio Romano si ispira nell'impianto alla descrizione vitruviana della casa di abita zione: la domus
romana con quattro entrate, ciascuna su uno dei quattro lati). Il palazzo ha proporzioni insolite: si presenta come un largo e basso blocco, a un piano solo, la cui altezza è circa
un quarto della larghezza.
Il complesso è simmetrico secondo un asse longitudinale. Sul lato principale dell'asse (a nord-ovest) l'apertura di ingresso è un vestibolo quadrato, con quattro colonne che lo
dividono in tre navate. La volta della navata centrale è a botte e le due laterali mostrano un soffitto piano (alla maniera dell'atrium descritto da Vitruvio e che tanto ebbe
successo nei palazzi italiani del Cinquecento), in questo modo assume una conformazione a serliana estrusa.
L'entrata principale (a sud - est) verso la città e il giardino è una loggia, la cosiddetta Loggia Grande, all'esterno composta da tre grandi arcate su colonne binate a comporre una
successione di serliane che si specchiano nelle piccole peschiere antistanti. La balconata continua al secondo registro, sulla parte alta della facciata era in origine una loggia;
questo lato del palazzo fu infatti ampiamente rimaneggiato alla fine del '700, quando fu aggiunto anche il frontone triangola re che sormonta le grandi serliane centrali.
Le facciate esterne sono su due livelli (registri), uniti da paraste lisce doriche di ordine gigante. Gli intercolumni variano secondo un ritmo complesso. Tutta la superficie esterna
è trattata a bugnato (comprese le cornici delle finestre e delle porte) più marcato al primo registro:
- Il primo registro bugnato, ha finestre rettangolari incorniciate da conci sporgenti (bugne rustiche).
- Il secondo registro ha un bugnato più liscio e regolare, con finestre quadrate senza cornice
Il cortile interno segue anch'esso un ordine dorico ma qui su colonne (semicolonne) di marmo lasciate quasi grezze sormontate da una possente trabeazione dorica. Qui la
superficie parietale è trattata con un bugnato rustico non troppo marcato, regolare e omogeneo senza rilevanti differenze fra primo e secondo registro. Romano ispirandosi a
un linguaggio architettonico classico, lo reinterpreta creando un'opera con un ricco campionario di invenzioni stilistiche, r eminiscenze archeologiche, spunti naturali e
decorativi, quali ad esempio:
- colonne giganti doriche inglobate in superfici parietali trattare a blocchi di pietra a superficie rustica
- alcuni conci del triglifo cadenti nel fregio della trabeazione che circonda e corona il cortile quadrato. Lo si può notare nelle facciate sull'asse longitudinale (ossia nord-ovest e
sud-est), al centro di ogni intercolumnio un triglifo che sembra scivolare verso il basso, come fosse un concio in chiave d'arco; su questi due lati anche gli intercolumni, come
all'esterno, non sono tutti uguali. Questi dettagli spiazzano l'osservatore e danno una sensazione di non finito all'insieme.
Pare che il palazzo fosse, in origine, dipinto anche in esterno, ma i colori sono scomparsi mentre rimangono gli affreschi interni eseguiti dallo stesso Giulio Romano e da molti
collaboratori. Oltre agli affreschi le pareti erano arricchite da tendaggi e applicazioni di cuoio dorate e argentate, le por te di legni intarsiati e bronzi e i caminetti costituiti di
nobili marmi.
Nell’episodio in cui Alessandro Magno fa erigere e consacrare i 12 altari dopo le vittorie in India, dobbiamo ad esempio adot tare una chiave di lettura di tipo “sacrale” ed
interpretarlo come un’allusione all’impulso costruttivo profuso per la fabbrica di San Pietro. Dal 1546 aveva infatti nominato niente meno che Michelangelo che resterà alla
guida del cantiere fino alla sua morte.
Un altro esempio interessante è costituito dalla scena di clemenza compiuta da Alessandro Magno nei confronti dei familiari del re persiano Dario. Allude infatti ad una impresa
militare compiuta da Paolo III ovvero l’intervento armato contro la ribelle città di Perugia. Questo si concluse con la repressione della rivolta che risparmiò tuttavia la famiglia
Baglioni fautrice dell’insurrezione. L’episodio in cui Alessandro Magno fa mettere in salvo in uno scrigno i poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, celebra invece i l livello culturale del
pontefice. Si tratta di un chiaro riferimento alla raffinata cultura umanista e all’amore del Papa per i testi classici.
Nel ciclo di pittorico non poteva mancare inoltre l’omaggio ai “padroni di casa”. I lati corti della sala sono dominati infat ti da un lato dall’imperatore Adriano, senza il quale il
monumento non sarebbe sorto, dall’altra dall’Arcangelo Michele, grazie al quale assurgerà invece a simbolo della cristianità. Una presenza, la loro, che testimonia la continuità
tra la Roma imperiale e quella papale.
Il riquadro, il più celebre tra quelli che compongono il ciclo ad affresco presente nella Sala di
Amore e Psiche in Castel Sant'Angelo, fu progettato, come tutti gli altri, da Perin del Vaga.
L'artista si ispirò alla tredicesima delle 33 incisioni realizzate dal Maestro del Dado e da
Agostino Veneziano su disegni dell'artista fiammingo Michiel Coxcie (1532-35), allora molto
note. L'autografia è provata dalla presenza di un analogo schizzo di Perino tra i disegni
preparatori per le scene della favola, conservati presso l'Albertina di Vienna.
Nel riquadro la narrazione è suddivisa in tre momenti distinti, cronologicamente disposti da
destra a sinistra, che tradiscono così l'ispirazione dall'incisione originale. A destra, in
penombra, Psiche si ferisce con la punta di una freccia di Amore. Al centro la giovane,
impugnando la lampada, si avvicina allo sposo addormentato, che ha abbandonato le frecce e
l'arco ai piedi del letto. A sinistra Amore, ormai sveglio e deluso del tradimento di Psiche, vola
via abbandonandola alla sua disperazione. Si tratta di una fedele trasposizione da
Apuleio, l'Asino d'Oro ( libro V, cap. 23).
Se sul piano compositivo il precedente dell'incisione è rigorosamente rispettato, su quello
formale Perino mostra qui il suo tipico stile, sintesi tra le armonie naturalistiche di Raffaello e
una raffinata astrazione intellettuale, aggiornata sul sofisticato manierismo di Rosso Fiorentino
e del Primaticcio che, attivo a Fontainebleu, era a Roma nel 1540.
La scena centrale si apre verso lo spettatore come una quinta teatrale delimitata dal
baldacchino del letto e illuminata dalla luce che irradia dalla lampada e che si riflette sulle due
figure morbidamente modellate, dalle membra lunghe e affusolate. Gli amanti si stagliano sul
bianco delle lenzuola, cui fa da contrasto il rosso acceso dei tendaggi in una gamma cromatica
tutta giocata tra questi due estremi. La felice illustrazione della fiaba di Amore e
Psiche avrebbe costituito il punto di riferimento per analoghi cicli pittorici, realizzati dopo la
metà del XVI secolo: tra gli altri, quello in Palazzo Spada Capodiferro (post 1550) e quello in
Palazzo Vitelli a Sant'Egidio, presso Città di Castello (Prospero Fontana, 1555-59).
Sebastiano del Piombo
1512 Polifemo (Sala di Galatea a villa Farnesina)
Sebastiano del Piombo era venuto da Venezia proprio al seguito del Chigi e presso di lui trovò i primi incarichi a
Roma. In particolare gli vennero affidate otto lunette nella Sala di Galatea al pian terreno della villa. Qualche
mese dopo, quando Raffaello aveva terminato il Trionfo di Galatea, il Piombo iniziò a dipingere il riquadro
adiacente a sinistra, con Polifemo che guarda idealmente l'apoteosi della ninfa amata.
Probabilmente le pareti dovevano essere decorate, nei piani iniziali, da altre scene della storia della ninfa, mai
completate: per questo gli i due affreschi esistenti non raffigurano gli eventi principali delle sue storie. Fonte
della rappresentazione fu Teocrito (Idilli) o Ovidio (Metamorfosi), magari filtrato dal Poliziano, o Apuleio (Asino
d'oro). L'affresco mostra un enorme Polifemo che, in una monumentale torsione, rivolge il proprio sguardo
malinconico verso il mare a destra, seduto su un idilliaco litorale sabbioso. Tiene in mano un bastone da pastore
e un flauto, ed ha vicino un cane.
La ricchezza e la densità del colore nella sua veste azzurra, così come gli effetti di avvolgimento atmosferico nel
paesaggio (per quanto possibili nella tecnica ad affresco), rimandano al colorismo veneziano e all'intonazione
malinconica dei seguaci di Giorgione, di cui Sebastiano faceva parte. Egli fu il primo a portare queste novità a
Roma, riscuotendo un discreto successo.
La monumentalità della figura rimanda all'esempio di Michelangelo, che proprio in quegli anni aveva scoperto gli
affreschi della volta della Cappella Sistina, ma ha anche precedenti in area veneziana, come gli affreschi
del Fondaco dei Tedeschi di Giorgione e del giovane Tiziano.
1515 Pietà
L'opera è una delle più antiche testimonianze della collaborazione tra Michelangelo e Sebastiano del Piombo ed
era destinata alla chiesa di San Francesco di Viterbo. Commissionata da Giovanni Botonti, chierico di camera, la
pala fruttò all'artista grande notorietà, segnando l'inizio della sua feconda collaborazione con Michelangelo.
Al Buonarroti è infatti riferita da Vasari l'esecuzione del cartone, come sembrano confermare l'esistenza di studi
preparatori e la consistenza del disegno sottostante il dipinto, visto con le radiografie. Recentemente è stato
individuato nel paesaggio in notturna una veduta di Viterbo compresi gli impianti termali di Santa Maria in Silice e
il Bulicame che, secondo Dante Alighieri sono il varco di accesso agli Inferi. Anche Michelangelo Buonarroti venne
a Viterbo in quegli anni a curarsi il mal della pietra; in quella circostanza ritrasse l'impianto termale del Bacucco in
un foglio ora conservato a Lilla (Alessi).
In un paesaggio notturno, che Vasari attribuì completamente a fra' Sebastiano, si trovano le due figure
monumentali e isolate di Maria e Gesù morto, disteso ai suoi piedi. L'impostazione patetica della Vergine, che
stringe i pugni e guarda verso il cielo, l'attenzione alle volumetrie e all'anatomia rimandano invece alla lezione di
Michelangelo. Il bellissimo corpo di Cristo in particolare, risaltato dal contrasto con il sudario bianco, spicca come
nodo della composizione, alla base della piramide che ha il vertice nella testa di Maria, molto mascolina.
Pienamente compiuta appare la sintesi tra l'espressività delle figure umane ispirata da Michelangelo e l'uso del
colore e del paesaggio tipicamente veneti.
Nonostante il paesaggio lunare, con fini accordi cromatici, le figure principali sono illuminate frontalmente in
maniera tradizionale. L'ambientazione notturna, così rara e cruciale per i futuri sviluppi dell'arte italiana, era
dettata da necessità legate a una corretta lettura del testo biblico, e ad esigenze narrative, per isolare il corpo
morto di Cristo dalla sfondo e amplificarne il dramma. Traspare nel dipinto, certamente il capolavoro di
Sebastiano, spoglio, severo e quasi arcaico, «la solitudine senza speranza che separa la Madre impietrita e il Figlio
morto, ed entrambi da un Dio Padre addirittura nullificato dall'audacissima idea […] di prolungare oltre il
momento evangelico della morte sulla croce le tenebre sul mondo» (Rosci).
Più che alla tradizionale iconografia della Vesperbild, il pittore sembra essersi qui indirizzato verso un tipo di
spiritualità più vicina agli agostiniani, tanto che si parla piuttosto di Andachtbild, ossia di "immagine per la
preghiera".
Parmigianino
1522 Stufetta della rocca Sanvitale
La piccola stanza al pian terreno della Rocca (435x350x390 cm) presenta una volta unghiata, con tre peducci per lato che creano quattro o tre lunette per lato, unite agli angoli a
due a due da una doppia vela. Per la decorazione Parmigianino inventò un finto pergolato coperto da una fitta vegetazione e aperto al centro su un cielo azzurro, bordato da una
siepe di rose arrampicate su un incannicciato. Al centro una cornice di legno intagliato racchiude una sorta di finto specchi o, con il motto Respice Finem ("guarda la fine") su
sfondo avorio, un invito a seguire il tragico finale della fabula sottostante. Sui peducci, che al posto dei capitelli hanno mascheroni in stucco, si trovano vari putti, mentre le vele
sono decorate da finti oculi tra motivi geometrici. Nelle quattordici lunette, alte e strette, si trova infine illustrato il mito di Diana e Atteone. Secondo Le
metamorfosi di Ovidio (Libro III, vv.138-253), il cacciatore Atteone sorprese in un bosco Diana nuda al bagno presso una fonte tra le ninfe; per questo venne punito con la
trasformazione in cervo, venendo sbranato dai suoi stessi cani. Il tema è spiegato anche dai versi latini che corrono lungo il fregio, in lettere dorate su sfondo chiaro, al di sotto
delle lunette.
La parte inferiore delle pareti non è invece affatto decorata e forse era coperta da arazzi. Il bagno della dea ha fatto ipotizzare che l'ambiente fosse una "stufetta", cioè un bagno
privato, ipotesi oggi largamente condivisa dalla critica sebbene non manchino proposte alternative, come quella che si tratti dello studiolo del conte, con gli affreschi adombranti
varie allusioni all'alchimia. Le scene si leggono dalla parete sud, dove il giovane Atteone, rappresentato con capelli lunghi e lineamenti femminei, si rivolge a due compagni che lo
seguono con corni da caccia e i levrieri, mentre un altro cane, tenuto al guinzaglio, si trova davanti a lui nella lunetta pi ù a destra. Forse si tratta però di una ninfa, seguita da due
compagni del cacciatore (strano però che sia vestita esattamente come Atteone nelle scene seguenti). La parete ovest mostra Atteone, riconoscibile per la veste bianca e rossa,
che, scoperta la dea nuda al centro, immersa in una fonte, viene gradualmente trasformato in cervo, con la testa già mutata e il corpo ancora umano; due ninfe invece
all'estrema sinistra sembrano preoccupate, ma non troppo, dell'inaspettata intrusione e una di loro si copre il petto chiacchierando con la compagna. A nord i compagni di
Atteone proseguono la caccia e trovatolo come cervo lo fanno assalire dai cani: la scena della cattura si svolge infatti nell a terza lunetta da sinistra. Qui si trovano al centro, sul
peduccio, anche due putti apteri (senza ali), che si abbracciano, un neonato con collana di corallo rosso che tiene alcuni rami di ciliegie in mano e una bambina con orecchini e
capelli biondi, che guarda verso lo spettatore. Sull'ultimo lato, quello est, si vede al centro la dea Cerere in abito cinquecentesco molto scollato, forse un ritratto di Paola
Gonzaga stessa, che assiste con imperturbabile curiosità agli avvenimenti, sollevando una spiga di grano, quale attributo e afferrando un bacile poggia to su un tavolino accanto a
una brocca, come se stesse assistendo a una rappresentazione teatrale durante un banchetto. Ai lati, nelle altre due lunette, si vedono cani da caccia, ora su sfondo neutro, ora
boscoso, ora a piena figura, ora a mezza, ora sporgenti solo con la testa. Il significato degli affreschi è sfuggente, nonostante i numerosi studi a tal proposito. L'ipotesi più
semplice è che si tratti semplicemente di un tema mitologico letterario scelto poiché correlato all'attività svolta in quella st anza, il bagno della contessa che quindi era
paragonata alla dea Diana (Ghidiglia Quintavalle, 1966). C'è anche chi ha proposto una lettura alchemica (Fagiolo dell'Arco, 1970, Mutti, 1987), secondo cui la storia rappresenta
l'unione del principio maschile e femminile, ove il cacciatore Atteone, pur di appropriarsi del principio divino, la dea Diana, è disposto a mutarsi da predatore a preda e a morire.
L'opera è chiaramente ispirata alla Camera di San Paolo di Correggio, con un simile pergolato di foglie e rampicanti, a sua volta derivato da opere quattrocentesche
di Mantegna e Leonardo da Vinci. Rispetto al modello però, Parmigianino arricchì la rappresentazione di tematiche morali ed usò una tagliente definizione delle forme, opposta
alla morbida intonazione luminosa correggesca. Il plasticismo pieno e naturalistico del suo maestro qui si ammorbidisce infatti in soluzioni di più fluida e lieve stilizzazione. Scrive
Pallucchini che in questi affreschi "vi è una presa di posizione linguistica più preziosa e manierata nei confronti dell'arte correggesca, tanto più naturale ed espansiva... una
meditazione più sottile ed elegante dell'immagine, che si costituisce con una preziosità di accenti che certo mancava nella pienezza sensuale del gusto correggesco. Si inizia
perciò un processo di idealizzazione della forma sottilmente intellettualistica". Alla naturalezza espressiva di luce e colore, alla profondità atmosferica del Correggio che, nella
Camera di San Paolo, si libera del limite del soffitto, il Parmigianino sceglie di bloccare lo spazio decorando la volta con un sorta di cesellatura minuta e preziosa, che esaspera la
rappresentazione del reale fino ad annullarne la verità in un artificio arcaicizzante.
1523 Ritratto di un collezionista
Freedberg, nel 1950, fu il primo a chiarire come il personaggio, rappresentato a mezza figura di tre quarti,
appoggiato a un tavolo, fosse stato identificato come un prelato senza motivo, ipotizzando che rappresentasse
invece il cavalier Francesco Baiardi. Oggi si ritiene che rappresenti un collezionista e che l'oggetto che ha
generato l'equivoco, più che il cappello (un berretto nero a tese ribaltate) fosse stato il libro tenuto in mano, un
ben preciso libro d'ore, l'Offiziolo Durazzo oggi nella Biblioteca Berio di Genova. Si tratta di un libro miniato circa
vent'anni prima da Francesco Marmitta, pittore di Parma, già erroneamente indicato come maestro del
Parmigianino (Grapaldo, 1506, e Lanzi, 1796). L'effigiato quindi potrebbe essere quindi il proprietario di allora,
che Mezzetti (1965) riconobbe anche in un ritratto della collezione Bergstein esposto a Londra nel 1984 e
attribuito con riserva a Dosso Dossi da Mendhelson (1914).
L'uomo, col busto di tre quarti verso destra e il volto ruotato verso lo spettatore (ma gli occhi evitano il contatto
visivo volgendo a sinistra) è illuminato fortemente da una fonte di luce frontale, che evidenzia un incarnato
liscio, dai toni quasi smaltati, e indossa un ampio mantello nero bordato di pelliccia, vero oggetto di lusso, oltre
al cappello dello stesso colore. I capelli sono lunghi e a caschetto, coprenti le orecchie, incorniciando uno
sguardo attento e altero, che ispira fierezza, nobiltà e integrità morale. La sinistra regge l'Offiziolo, dalla legatura
finemente decorata, e la destra è appoggiata sul tavolo, con un anello d'oro con pietra preziosa al mignolo,
vicina a un bronzetto all'antica di una divinità o una personificazione femminile (forse Cerere), tre medaglie di
bronzo e un'antica moneta argentea. Tali oggetti chiariscono gli interessi raffinati del gentiluomo. Sullo sfondo si
vede a sinistra, ben illuminato, un bassorilievo di Marte, Venere e Cupido, tema neoplatonico, mentre la parte
sinistra è occupato da un paesaggio. Più che a una finestra, che avrebbe l'imposta particolarmente bassa,
verrebbe da pensare piuttosto a un quadro nel quadro, mostrante un albero frondoso e un cielo all'aurora.
I personaggi sono quindici. Sono disposti attorno a due narrazioni: la Deposizione del corpo di Cristo e il disperato
svenimento della Vergine. Con la croce e le scale a dare sviluppo verticale, la costruzione della profondità è
lasciata al corpo di Gesù (come puntualmente evidenzia il Vasari) e ad una serie di mani e braccia che si
protendono vero lo spettare al centro dell’opera.
Un vero e proprio trionfo di drappeggi e vesti colorate riempie la scena. Nonostante i restauri ottocenteschi,
l’affresco deve aver perso in misura significativa la sua originale luminosità e le molteplici tonalità di colore che
comunque, ancora oggi, lo caratterizzano.
Prendete il tempo che è necessario per ammirare la Deposizione di Daniele da Volterra. E’ una composizione fatta
di mille particolari tutti da approfondire: di anatomie michelangiolesche, di dinamismo accentuato ma mai fuori
misura (guardate i tre personaggi maschili sul lato destro dell’affresco partendo da quello che si tuffa dal la croce
come se avesse ali), di abiti dove la Maniera mette in mostra le mirabili capacità tecniche dei suoi maestri, di
capacità di rappresentare tutta la paletta dei sentimenti del genere umano.
Benvenuto Cellini
1540-43 Saliera per il re di Francia (Francesco I)
Oro, ebano e smalti; Una figura femminile e una maschile siedono agli opposti su una base ovale. Sono entrambe
nude e intrecciano le gambe al centro in prossimità di un piccolo bacile. La donna porta una cornucopia e i suoi
capelli sono decorati con frutta e fiori. Inoltre, siede sopra ad un cuscino che ricorda la pelle di un elefante e porta
la sua mano sinistra al seno. L’uomo, invece, impugna un tridente e siede su una conchiglia trainata da cavalli
marini. Nel gruppo infine è inserito anche un tempietto e alcuni mascheroni decorano il bacile centrale. Alcuni
strumenti impiegati per il lavoro della terra e nel mare sono sparsi sulla base. I due personaggi scolpiti
rappresentano la dea Cerere e Nettuno. La dea della terra incrocia le sue gambe con il dio dei mari e dalla loro
unione viene prodotto il sale. Cerere infatti sostiene una cornucopia che simboleggia l’abbondanza. Le altre figure
che compaiono sotto le due principali sono l’Aurora, il Giorno, il Crepuscolo e la Notte. Inoltre compaiono i venti
che agitano terra e cielo.
Carlo IX di Francia donò la Saliera di Francesco I all’arciduca Ferdinando II del Tirolo. Il sovrano ringraziò in tal
modo l’arciduca per aver favorito il suo matrimonio con Elisabetta d’Austria. La Saliera passò così agli Asburgo e
dal 1871 si trova esposta presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. In quegli anni l’artista si trovava in
Francia. L’artista ebbe l’idea di creare una saliera originale ed estremamente preziosa in seguito alla richiesta del
cardinale Ippolito d’Este. Il committente chiese quindi a Luigi Alamanni e Gabriele Cesano, due intellettuali alle
sue dipendenze, di indicare il soggetto adeguato all’artista. Cellini, però, non accettò le indicazioni dei due uomini
e realizzò un modello in cera che fu molto apprezzato dal cardinale. Purtroppo i costi per la realizzazione erano
molto alti e il committente rinunciò alla saliera. Benvenuto Cellini si recò poi in Francia nel settembre del 1540.
L’artista fu ospitato da Francesco I che gli mise a disposizione molte risorse per le sue creazioni e gli diede la
possibilità di realizzare finalmente il suo ambizioso progetto. Gli storici considerano il manufatto un capolavoro di
alta oreficeria.
Le figure sono realizzate con grande attenzione e anche i più piccoli particolari sono curati. Sebbene sia alto solo
26 cm, si tratta di una importante testimonianza del Manierismo in Europa. Inoltre è evidente la ricerca di forme
eleganti, armoniose e il gusto ricercato tipico del Manierismo. Le allegorie dei momenti del giorno derivano
invece dalle tombe di Giuliano e Lorenzo de’ Medici scolpite nella cappella Palatina di San Lorenzo a Firenze.
L’opera di piccolo formato di Benvenuto Cellini fu realizzata in oro e smalto. Le figure poggiano su una base
ellittica in ebano.
1545-54 Perseo Commissione di Cosimo de’ Medici, l’opera era destinata a creare, insieme ad altre, la scenografia cerimoniale in
piazza della Signoria a Firenze, nella Loggia dei Lanzi. Un tempo tale spazio era destinato a runioni del popolo. Cosimo
de’ Medici era consapevole del grande potere propagandistico dell’arte. Decise quindi di creare una spettacolare
scenografia pubblica per le cerimonie della corte medicea. Il giovane eroe classico è raffigurato in piedi e nudo. La
mano destra stringe l’impugnatura di una spada con la punta a sciabola. Con la mano sinistra invece Perseo solleva la
testa appena recisa di Medusa. Il suo viso esanime è voltato verso l’esterno mentre dal moncone del collo scendono
rivoli di sangue. Il volto di Medusa ha connotati classici e gli occhi sono chiusi. Sul capo Perseo indossa un elaborato
elmo metallico decorato. Alle caviglie sono innestate due piccole ali e porta dei sandali. I piedi dell’eroe poggiano
direttamente sul corpo decapitato della Gorgone. Dal suo collo infine fuoriescono violenti getti di sangue. In cadavere
poggia a sua volta su di un tessuto che copre parzialmente il piano.
Cellini era un abile orafo. Le sue sculture quindi, anche quelle di grandi dimensioni, furono eseguite con attenzione
quasi maniacale ad ogni singolo dettaglio. Si possono valutare particolari quali le decorazioni complesse sull’elmo
indossato da Perseo. Poi, le ciocche accurate e disposte accuratamente delle capigliature. Le fisionomie dei
personaggi sono infine molto espressive. La scultura venne realizzata attraverso una fusione unica e non assemblando
pezzi realizzati separatamente. Questo accorgimento tecnico permise a Cellini di vantare un gran prestigio
professionale.
Perseo dopo aver decapitato la Gorgone Medusa espone al pubblico il trofeo. Assume quindi una postura aggraziata
ed elegante. Come anche altri maestri del Manierismo, Benvenuto Cellini creò sculture dalle posture raffinate che non
mostrano la fatica dell’azione. Esibiscono invece un’estrema eleganza anche in un gesto brutale e violento.
1548-1453 Busto bronzeo Cosimo I de Medici
Quando Camerini realizzò il portone di Forte Stella riservò un posto che accogliesse un pregevole busto
bronzeo raffigurante il fondatore di Portoferraio Cosimo I de' Medici, che voleva lasciare un tangibile segno di
affetto alla sua città. Il busto di Cosimo fu terminato nella primavera del 1548 a Firenze da Benvenuto Cellini e
inventariato nel Guardaroba ducale l'anno 1553 come un busto "scolpito in bronzo e tocco d'oro" con riferimento
all'antica doratura.
Cosimo de' Medici dette incarico all'architetto Camerini di portare il suo busto bronzeo a Portof erraio, che lo
descrive grande due volte il naturale fino alla cintura. L’opera fu collocata nella nicchia sulla porta di ingresso del
Forte Stella il 15 novembre 1557 e vi rimase fino al 2 maggio 1781, quando fu trasportata agli Uffizi per volere di
Leopoldo I.
La figura del Granduca è presentata alla maniera dei ritratti imperiali e con la testa leggermente ruotata, a conferire
un portamento nobile e altero. Stilisticamente rivela grande raffinatezza tecnica ed una precisa attenzione ai
dettagli. In particolare si nota la cura dedicata dal Cellini per le preziose decorazioni allegoriche e araldiche
dell’armatura, sulla quale spicca l'emblema del Toson d'Oro.
Giorgio Vasari
1534 Ritratto del duca Alessandro de Medici
Alessandro de’ Medici, detto il “moro” per la sua carnagione scura, era figlio naturale di Lorenzo, Duca d’Urbino,
fratello del Papa, e di una serva mulatta, ma alcuni ritengono che fosse addirittura figlio del Papa stesso, il quale
intervenne presso l’imperatore per farlo nominare duca di Firenze.
Questo suo ritratto fu commissionato al Vasari da Ottaviano de’ Medici probabilmente su richiesta del duca
stesso, così come era avvenuto pochi mesi prima per il Ritratto di Lorenzo il Magnifico. Entrambi i dipinti erano
corredati da una lunga lettera di accompagnamento che ne svelava il significato allegorico con intento
celebrativo della dinastia medicea, presso la quale l’artista aretino rimarrà al servizio come pittore e architetto di
corte per tutta la durata della sua carriera artistica.
Il giovane duca è rappresentato a figura intera secondo una tipologia inconsueta all’epoca, che tuttavia richiama
chiaramente quella di Giuliano de’ Medici di Michelangelo, nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo. L’armatura
splendente di cui è rivestito è lo specchio delle sue qualità, mentre il mantello rosso adagiato sulla seduta
simboleggia il sangue dei nemici sconfitti. Lo sgabello rotondo indica che il suo regno non avrà mai fine poiché i
suoi oppositori, rappresentati dalle erme scolpite sulle zampe, sono stati soggiogati per sempre. Sullo sfondo la
città di Firenze in fiamme ricorda l’assedio del 1530, mentre il ramo d’alloro che rinasce vigoroso dal tronco
tagliato, richiamo al Ritratto di Cosimo il Vecchio del Pontormo, simboleggia la dinastia medicea tornata al
potere più forte dopo l’esilio.
Vasari e i suoi assistenti lavorano in maniera elaborata e fantasiosa. La narrazione si svolge all'interno di un insolito spazio illusionistico inondato di ornamenti allegorici e inoltre
da numerose figure in architettura dipinta circondate da simulazioni di sculture. I gesti e le espressioni dei personaggi sono stravaganti ed esagerati in maniera cortese, secondo
lo stile maniero della metà del Cinquecento. La decorazione di questa sala esemplifica il terzo tipo di decorazione parietale: è stilisticamente legata alla Camera della
Fortuna di Casa Vasari . Questa sala è rettangolare. Il suo soffitto piatto in legno è composto da forme a cassettoni incassate. Questi quadrati sono creati dall'intersezione di travi
in legno. una mensola appoggiato sulla parte superiore della parete sostiene l'estremità di ogni trave. La parete est contiene sei grandi finestre nella zona inferiore e sei piccole
nella zona superiore. Le pareti nord e sud contengono ciascuna una sola baia, mentre la parete ovest ne contiene due. Il trattamento della decorazione murale è geometrico e
architettonico. Il muro non è considerato come una superficie bidimensionale dipinta, ma piuttosto come una struttura plastica, architettonica in cui lo spazio immaginario e
reale possono espandersi e contrarsi come uno. La parete, trattata in stile fregio, è divisa in due zone orizzontali, ciascuna a sua volta suddivisa in tre parti verticali. La parte
superiore contiene ad ogni estremità un busto ritratto di un antico imperatore incorniciato da Ignudi alati o allegorie della Vittoria. Un motto latino è iscritto in un cartiglio sopra
questa composizione. Al centro di questa zona superiore, figure femminili sedute inquadrate dai peducci lignei pres entano uno stemma. Possono essere identificati dagli
attributi che detengono e dall'iscrizione latina sul cartiglio ai loro piedi. Variazioni di motivi grotteschi aggiunti alla decorazione complessiva di questa zona.
Le parti inferiore e superiore sono separate da due frontoni spezzati alle estremità del muro (dove riposano i busti antichi) e dall'architrave che corre tra di lor o. Questo
architrave sostiene una maschera elaborata e motivi a festoni. Nella parte inferiore della parete vi sono due tabernacoli dipinti che sorreggono i frontoni spezzati sopra
descritti. Il motivo del tabernacolo contiene un'area aperta, o nicchia, dalla quale si protende verso lo spettatore una figura femminil e in piedi: motivo derivante dagli studi
michelangioleschi vasariani delle Cappelle Medicee . Al centro della parte inferiore, colonne doriche incorniciano raffigurazioni di un'istoria.
L'utilizzo dell'architettura dipinta per inquadrare una scena narrativa, comunemente nell'antichità, è stato elaborato nel Quattrocento , ad esempio, nel Salone dei
Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara , e successivamente nell'Alto Rinascimento, come esemplificato dalla Sala di Costantino in Vaticano Palazzo . Le storie sono piene di citazioni
stilistiche dall'arte passata e presente. Il dado ( zoccolo o basamento) del muro è stato trasformato o eliminato. Vasari crea un nuovo dispositivo su larga scala utilizzando gradini
dipinti illusionisticamente che si estendono dal centro della zona inferiore fino al pavimento fisico vero e proprio. Sembra che lo spettatore possa entrare nella scena dipinta e
partecipare agli eventi che si verificano nella storia narrativa . Secondo Sydney Freedberg , il motivo dei gradini è una trasformazione del ricetto (vestibolo) di Michelangelo
nella Biblioteca Laurenziana . Altre fonti importanti per i motivi del Vasari sono la loro esedra del Cortile del Belvedere in Vaticano e l' affresco del Ninfeo nella feritoia della
finestra della Sala di Costantino , sempre nel Palazzo Vaticano. Lo schema decorativo della Sala dei Cento Giorni è sistemato e inquadrato in quadro riportato , ovvero scene di
storia inquadrate indipendenti. I quadri o cornici sono affiancati da tabernacoli contenenti figure che simboleggiano virtù morali o estetiche. E il disegno complessivo è fuso da
motivi classici e grotteschi. L'esecuzione della Sala dei Cento Giorni è preziosa per Vasari. Si tratta, infatti, dell'inizio di un programma pittorico formalizzato e complesso che
verrà ulteriormente elaborato nei cicli decorativi di Palazzo Vecchio .
anni 50 Allegoria della Terra nel Salone degli elementi (Palazzo Vecchio)
È la prima sala del cosiddetto Quartiere degli Elementi, ovvero l’insieme delle cinque sale e dei due
loggiati privati di Cosimo I. Il Granduca aveva commissionato la realizzazione delle decorazioni a Battista
del Tasso che passarono poi nelle mani del Vasari e della sua bottega quando Nostro Signore lo chiamò al
suo cospetto.
Tutte le sale del Quartiere degli Elementi sono dedicate a una divinità mitologica e ciascuna di queste
divinità corrisponde al piano sottostante a un membro della famiglia Medici. Niente nell’arte è casuale,
soprattutto in quella rinascimentale.
1572 Allegria della Lega Santa e Battaglia di Lepanto (nella Sala Regia Vaticana)
Jacopo Tintoretto
1555-1556 Susanna e i vecchioni
L'opera raffigura Susanna, la cui storia è narrata nella versione greca del Libro di Daniele. Susanna è nel
giardino di suo marito e si sta preparando per un bagno. Si siede completamente nuda a destra nel
dipinto su una pietra sotto un albero e si guarda allo specchio, che è appoggiato a una siepe di rose in
fiore tra due alberi. Il tronco dell'albero anteriore si estende come una linea su tutta l'altezza
dell'immagine e la divide in due sezioni: una a sinistra, che copre solo il 20 percento dell'area
dell'immagine, e una a destra molto più grande, che occupa circa 80 percento. La luce del sole cade su
parti del viso e del corpo di Susanna, che Tintoretto ha sviluppato come un effetto chiaroscuro. La
giovane si sporge leggermente in avanti, tirando la gamba destra verso la parte superiore del corpo con le
braccia. Nella mano destra tiene un panno bianco chiaro, foderato di pizzo e frange dorate, che gioca
attorno alla sua gamba destra. Il piede sinistro di Susanna è immerso nell'acqua fino al polpaccio. I suoi
capelli biondi sono intrecciati in modo elaborato, un anello con una perla bianca pende sull'orecchio
sinistro e indossa un braccialetto su ogni polso. Accanto allo specchio sono i gioielli che ha tolto, due
anelli d'oro, la collana di perle, la forcina, il pettine e un barattolo per l'unzione bianco. Dietro Susanna si
può vedere il suo prezioso abito rosso ricamato, che crea un contrasto di colore con gli elementi bianchi.
Due vecchi emergono - non notati da Susanna - come guardoni da entrambi i lati del muro di rose. Uno
degli uomini si guarda intorno alla siepe di rose sullo sfondo. Il secondo, un uomo calvo con la barba
bianca, vestito con una veste rosso salmone, striscia da dietro la griglia. Le sue guance sono accese di
rosso, tiene saldamente lo sguardo lussurioso sulla superficie dell'acqua, in cui probabilmente si riflette la
parte inferiore del corpo di Susanna.
Una gazza è seduta su un ramo a destra sopra Susanna, dietro di essa si può vedere un arbusto
di sambucus. Una famiglia di anatre nuota nel fiume a destra dietro uno dei vecchi. Lo stretto giardino
con piscina è delimitato da una staccionata in legno oltre alla siepe di rose. I pali nella zona d'ingresso
sono progettati come cariatide. Attraverso l'ingresso, la vista si apre su un ampio giardino con un fiume,
prati e boschi. Sulla sponda del fiume sullo sfondo su può vedere un cervo e una cerva. Uno sguardo più
ravvicinato rivela in alto a sinistra il profilo di una città circondata dall'acqua, che è probabilmente la città
lagunare di Venezia - la patria di Tintoretto. Le tre figure sono integrate in una composizione triangolare,
la cui punta si è spostata leggermente a destra dall'asse centrale dell'immagine.
Paolo Veronese
1573 Convito in casa di Levi
Nacque con il titolo di Ultima Cena, cambiato poi con Convito in casa di Levi. olio su tela, rappresenta l’episodio del Vangelo detto appunto Ultima cena. Il Veronese fu costretto
a cambiare il titolo al dipinto perché il suo lavoro venne contestato dal Tribunale dell’Inquisizione. I funzionari del temut o organo di controllo cattolico contestarono alcune
figure inserite nella scena. A suscitare contrarietà furono cani, pappagalli, uomini ebbri e nani. Levi era il nome dell’esattor e delle tasse che organizzò la cena per festeggiare la
chiamata di Cristo. I personaggi indossano abiti contemporanei mentre Gesù in centro invece indossa una veste coperta da un mantello.
Il dipinto del Veronese fu realizzato con colori chiari e luminosi come tipico del suo stile. Infatti il chiaroscuro è ridott o al minimo o del tutto assente. Per differenziare le forme
Veronese utilizzò accostamenti di colori complementari. Il suo modo di dipingere rientra nelle influenze del Manierismo come quello di Tin toretto. Il disegno utilizzato per
creare i vari personaggi è molto accurato e le figure sono dettagliate. Il modellato dei corpi e degli abiti rende i personaggi monumentali. Questa resa è poi ulteriormente
favorita dall’inquadratura dal basso verso l’alto. Le posizioni dei personaggi sono dinamiche e tutte attentamente studiate per costruire una resa scenografica d’effetto.
Il tema sacro dell’Ultima Cena fu trasformato dal Veronese nella scenografica rappresentazione di un banchetto signorile. La scena è ambientata all’interno di un palazzo in st ile
Classico cinquecentesco. Le architetture sono ricche e sontuose. Spiccano decorazioni, bassorilievi, colonne e capitelli decorati. Lo sfondo è rappresentato da una prospettiva
esterna di facciate e edifici dell’epoca.
Giambologna Esposta al Museo del Bargello di Firenze era destinata a coronare la fontana della villa del cardinale Ferdinando
dei Medici. Mercurio è poggiato con il piede sinistro sul vento generato dalla bocca di Zefiro. Il messaggero degli
1580 Mercurio dei sta infatti per spiccare il volo grazie alle ali che si innestano alle caviglie. La gamba destra invece è flessa
indietro come il braccio sinistro che regge il caduceo. Il braccio destro è rivolto verso l’alto e anticipa l’ascesa
verso il cielo. Sul capo indossa il tradizionale emetto con le ali.
Il progetto iniziale di un Mercurio volante fu commissionato dal delegato papale Cesi. La statua era destinata al
cortile dell’Archiginnasio sede dell’antica università di Bologna. La sua presenza doveva rappresentare un monito
per gli studenti. Il dito indice puntato verso l’alto ricorda infatti la natura divina del sapere. Tale intenzione non fu
però portata a termine e il modello venne ospitato presso il Museo civico di Bologna. Seguirono altre versioni
fino ad arrivare a quella proposta a Firenze ai Medici.
I principi fiorentini ne ordinarono una copia da donare all’imperatore Massimiliano II d’Asburgo in occasione
delle intese per il matrimonio tra Francesco e la sorella del regnante. Giambologna fu quindi incaricato di fondere
altre due copie in bronzo ora a Vienna e Dresda. Nel 1580 realizzò la copia per il cardinale Ferdinando dei Medici
da porre al centro di una fontana nella sua villa monumentale. Ora la copia è esposta presso il Museo Nazionale
del Bargello di Firenze.
Il Mercurio volante è una scultura in bronzo del manierista Jean de Boulogne, fiammingo ma operante a Firenze.
Il dio ha l’aspetto di un adolescente come rivela il corpo sottile. Il modellato inoltre è molto lontano da
quelli michelangioleschi. La loro corporatura atletica e possente lascia il posto ad un fisico sottile e leggero. La
posa assunta da Mercurio non comunica impegno muscolare nell’azione. Il dio sembra invece compiere lo slancio
verso l’alto con l’agilità della danza. Questa caratteristica fu tipica del Manierismo che prevedeva la capacità di
rappresentare elegantemente e senza sforzo apparente il movimento.
Questo gruppo scultoreo fu collocato dapprima, nel 1599, sul Canto dei Carnesecchi. Nel XVI secolo il quadrivio
si chiamava così perché qui si trovavano le case di questa famiglia. Il canto era formato dal quadrivio composto
da via Rondinelli, via Cerretani, via Panzani, via dei Banchi. Letteralmente canto significa "angolo", cioè incrocio
in questo caso. Nel quadrivio venne collocato, nel 1599, il gruppo di Ercole e il centauro Nesso. Da questo
angolo prendeva nome il Palazzo delle Cento Finestre, già detto del Centauro.
Statua marmorea collocata a Firenze nella Loggia dei Lanzi. Questo gruppo scultoreo fu collocato dapprima, nel
1599, sul Canto dei Carnesecchi a Firenze, poi lo si trasferì sotto il loggiato degli Uffizi, dal lato meridionale; più
tardi fu posto sulla piazzetta che si trova vicina al Ponte Vecchio, sulla riva sinistra dell'Arno e, nel 1812, trovò la
sua sede definitiva nella Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria. La scultura è caratterizzata dalla grande forza
plastica espressa dalla poderosa torsione, quasi elastica, del corpo del centauro Nesso, piegato dalla forza di
Ercole.
Benché la Grande macelleria di Annibale abbia dei punti di contatto con i precedenti di analogo contenuto fiamminghi ed italiani, rispetto a questi presenta delle rilevanti
discontinuità. In primo luogo, nella tela ora ad Oxford Annibale omette ogni elemento di trivialità, o di greve comicità, non di rado riscon trabili nei dipinti di genere dedicati alla
raffigurazione di mestieri umili; al contrario egli descrive con assoluta chiarezza e spregiudicata verosimiglianza – quasi documentaristica – le attività che si svolgono in una
macelleria.
La rappresentazione è obbiettiva e realistica. I beccai, al lavoro, sono estremament e spontanei e credibili; in primo piano, in basso, è raffigurato il macellaio pronto a tagliare la
testa ad un capretto e, vicino a lui, un altro personaggio cerca faticosamente di appendere un mezzano di vitello ad un ganci o (lo sforzo è evidenziato dalla torsione del busto e
della testa). Al centro invece, un altro dei macellai dispone ordinatamente le bistecche di vitello sul banco. Completa il gr uppo dei bottegai titolari l'uomo con il grembiule
bianco, che regge la stadera con cui pesa la carne. Nella composizione sono presenti anche una vecchia e una guardia svizzera. A differenza di quanto non sia per i macellai al
lavoro, in queste figure sembra cogliersi un elemento grottesco, più in linea con i precedenti e in specie con le opere del Passarotti[3]. Non è chiaro quale sia la funzione di questi
personaggi, e in particolare dell'alabardiere, che è dentro la bottega. Una spiegazione proposta è che la presenza dei due alluda satiric amente alla severa proibizione, imposta a
Bologna dal cardinale Gabriele Paleotti, di consumare carne durante la quaresima. La vecchia cliente sarebbe lì in quanto gli anziani erano esentati dal divieto, mentre la guardia
vigila sul rispetto della prescrizione del Paleotti (resta però non chiarito il gesto dello svizzero che si fruga in tasca). Circa la composizione, la Grande macelleria ha vari elementi
di originalità: i bottegai all'opera sono raffigurati a figura intera (mentre molte delle composizioni di analogo soggetto preferiscono la mezza figura) e sono disposti
ordinatamente nello spazio della bottega (raffigurata dall'interno, elemento che il Carracci ha mutuato dagli affreschi vatic ani di Michelangelo e Raffaello cui si è ispirato anche
per la disposizione degli astanti nello spazio). Nel dipinto di Oxford, inoltre, vi è equilibrio tra i protagonisti umani della scena e le vivande (in questo caso la carne), mentre, nelle
composizioni di genere pur prossime alla tela carraccesca, queste ultime tendono ad assumere un ruolo dominante: è la capacità del pittore di riprodurle con realismo e in
grande varietà e quantità, l'effetto ricercato. Nella Macelleria di Annibale, diversamente, il fulcro del dipinto non è tanto la raffigurazione della merce esposta in bottega (per
quanto l'opera eccella anche in questo senso), quanto piuttosto il lavoro dell'uomo. E per quest'aspetto, forse, Annibale potrebbe aver avuto in mente alcune opere di Jacopo
Bassano ove, parimenti (sia pure in dipinti che non sono propriamente pitture di genere), è sottolineata la nobiltà del lavoro degli umili. Molte sono state le interpretazioni
proposte sulla tela, dirette a disvelarne un ipotetico significato allegorico o comunque un sottotesto implicito. Un'ipotesi particolarmente suggestiva in questo senso è che i
macellai all'opera nella bottega siano in realtà i tre Carracci (aiutati da un garzone/allievo), nella cui famiglia di provenienza la professione del beccaio era praticata, e che il forte
naturalismo dell'opera simboleggi e rivendichi il programma di rinnovamento della pittura da loro propugnato[8]. Tesi forse affascinante, ma, pur sostenuta da uno studioso di
grande valore come Martin, probabilmente priva fondamento.
1584-85 Il mangiafagioli
La scena è ambientata in una povera osteria di Bologna. In primo piano, sulla tovaglia bianca, spiccano
l’erbazzone (piatto tipico della cucina reggiana) disposto in un piatto di ceramica dipinta e con il bordo dorato;
del pane; tre cipollotti freschi e crudi; un bicchiere di vino rosso e una brocca. Insieme creano una suggestiva
natura morta.
Un uomo è seduto presso un tavolo. Indossa camicia e giubba; in testa ha un cappello di paglia ornato dalle
penne di un gallo cedrone o di fagiano. Il mangiatore di fagioli è colto proprio nell’atto di portarsi alla bocca
con avidità una cucchiaiata di fagioli, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore. La bocca spalancata, lo
sguardo fisso e vagamente diffidente, il busto ricurvo in avanti, la mano sinistra che stringe il pane sono
particolari di intenso realismo: alludono alla condizione miserevole del personaggio. I colori bassi e terrosi, il
disegno veloce e poco accurato evidenziano ulteriormente il senso di dimessa quotidianità del dipinto.
1585 Pietà con santi Annibale Carracci con una sapiente costruzione dispone le figure principali della scena e i due angeli che sorreggono la
Vergine come a comporre una specie di tableau vivant attorno al corpo inerme di Cristo, posto a sedere sul basamento
del sepolcro e con il capo abbandonato sulle ginocchia della madre, che giace svenuta dietro di lui. A destra, in primo
piano, c'è la Maddalena, figura che allude all'intitolazione della chiesa dove si trovava in origine il dipinto. La presenza a
sinistra di Francesco e Chiara d’Assisi si riferisce alla devozione per questi santi da parte dei cappuccini, committenti
dell'opera. Nella parte superiore della pala si apre uno squarcio di paradiso, da cui discendono figure angeliche recanti
la croce, simbolo della vittoria di Cristo sul peccato, e il drappo bianco che ne annuncia l’imminente Resurrezione. Come
già rilevato dal Bellori, l'opera, al pari del contemporaneo Battesimo eseguito a Bologna, segna uno dei primi espliciti
omaggi di Annibale verso l'opera del Correggio. Nella Pietà fatta per i cappuccini, infatti, l'esuberanza degli angeli e le
nubi dense e fluttuanti capaci di sostenerli e avvolgerli evocano da vicino gli affreschi della cupola del Duomo di
Parma e la pala della Madonna della Scodella. Inoltre, in quest'opera, Annibale si confronta per la prima volta con
il Compianto Del Bono dell'Allegri, dipinto che costituirà un punto di riferimento costante per il più noto dei Carracci,
citato più volte negli anni successivi, sia in opere pittoriche che in incisioni.
I riferimenti a Correggio sono così evidenti da rendere verosimile l'ipotesi che il dipinto sia stato eseguito direttamente
a Parma, sotto il diretto influsso del maestro rinascimentale. La critica contemporanea ha descritto l'opera come una
delle più innovative del suo tempo, scorgendovi già delle avvisaglie proto-barocche: Andrea Emiliani, per esempio, ha
definito la Pietà di Parma come «il dipinto più moderno d'Europa», mentre Eugenio Riccomini ha sottolineato come nel
quadro si manifesti «un nuovo epos cristiano». Nel Museo dell'Ermitage è custodita una Pietà con santi, attribuita
ad Agostino Carracci, molto vicina all'opera parmense di Annibale, che in passato fu assegnata a quest'ultimo. Uno
studio preparatorio di Annibale per la pala di Parma, raffigurante il Cristo in Pietà, si trova nel Gabinetto dei disegni e
delle stampe degli Uffizi. Recenti studi hanno messo in relazione al dipinto parmense anche tre ulteriori disegni, tutti
attribuiti a Ludovico Carracci (rispettivamente conservati presso la Christ Church Picture Gallery ad Oxford,
il Nationalmuseum di Stoccolma e lo Statens Museum for Kunst di Copenaghen, dei tre, quest'ultimo quello più vicino
alla tela della Galleria). Se ne è dedotto che Annibale possa aver goduto, per questo importante esordio fuori Bologna,
dell'aiuto del più esperto ed anziano cugino. In ogni caso il più giovane dei Carracci si sarebbe parzialmente discostato,
nell'esecuzione definitiva, dai suggerimenti di Ludovico per abbracciare modi più decisamente correggeschi.
1586 Matrimonio mistico di Santa Caterina
Questo capolavoro di Annibale ritrae una delle più famose sante, Caterina d’Alessandria. La Vergine col Bambino
appare miracolosamente davanti a Caterina, che china la testa, mentre il piccolo Gesù le mette un anello al dito.
Questo matrimonio mistico è una metafora del suo impegno per una vita cristiana all’insegna della castità. La
ruota chiodata nell’angolo in basso a sinistra e l’angelo che regge una palma alle spalle di Caterina prefigurano il
suo martirio.
Annibale dipinse questa pala d’altare sotto il patronato dell’adolescente Duca Ranuccio I Farnese per la chiesa dei
cappuccini di Parma nel 1585. Dieci anni dopo, il fratello di Ranuccio, il cardinale Odoardo Farnese, assunse
Annibale per eseguire la magnifica decorazione del suo palazzo romano. Ranuccio permise ad Annibale di por tare
questo dipinto con sè a Roma come dono di presentazione per suo fratello e come perfetto esempio del suo
enorme talento.
Il tema iconografico della scena principale del ciclo del Camerino, per l'appunto l'Ercole al bivio, di cui si rinvengono mol ti esempi già in epoca rinascimentale, deriva da una
favola del filosofo greco Prodico di Ceo, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., giuntaci attraverso il racconto di Senofonte, riportato nei Memorabilia. Nella favola di Prodico, ad un
adolescente Ercole, mentre un giorno era seduto chiedendosi se dedicare la sua vita alla virtù o al piacere, appaiono due donne, la prima delle quali si presenta come la Virtù e
l'altra come la Felicità (o, per chi le è ostile, come la Depravazione), ognuna delle quali espone al giovane eroe i vantaggi dell'una e dell'altra scelta di vita, tentando di
convincerlo a seguire la strada che ciascuna di esse personifica. Nella tela di Annibale, riprendendo questo antico apologo, il giovane Ercole - in cui deve individuarsi lo stesso
Odoardo Farnese - è, raffigurato tra due figure femminili, personificazioni allegoriche, l'una (alla destra dell'eroe), della Virtù e l'altra (alla sua sinistra), della Voluttà (così la
denomina Bellori). La prima è severamente abbigliata e, mentre imbraccia un parazonio, indica ad Ercole un'ardua salita - appunto il faticoso cammino della virtù - al termine
della quale vi è Pegaso, a sua volta simbolo di virtù e mezzo di ascensione al cielo, ma anche impresa dei Farnese. Ai suoi piedi vi è un poeta coronato d'alloro, pronto a
declamare le gesta dell'eroe se questi sceglierà la giusta direzione. La Voluttà, invece, è seminuda, succintamente coperta di veli quasi trasparenti. Essa mostra ad Ercole-
Odoardo un cammino piano e fiorito, dove compaiono strumenti musicali e spartiti, carte da gioco e maschere teatrali, allusiv i ai piaceri della vita, ma anche all'ingannevolezza
(le maschere) di queste vacue occupazioni. Il giovane eroe sembra indeciso su quale strada scegliere, ma il suo sguardo in tralice si dirige verso la Virtù, lasciando intendere che
alla fine sarà questa la via su cui si incamminerà.
Stilisticamente l'opera riflette il momento di transizione della pittura di Annibale, causato dall'arrivo a Roma. Infatti, le figure di Ercole, della Virtù e del poeta, con la loro
solidità scultorea, manifestano già il recepimento di un influsso classico e sono probabilmente il frutto delle prime riflessioni del pittore sulla statuaria antica (il poeta ricorda
una divinità fluviale, la Virtù una dea olimpica ed Ercole rimanda a celebri sculture come l'Ercole Farnese, il Laocoonte e l'Ares Ludovisi[3]), viceversa la sinuosa e
sensuale Voluttà sembra ancora legata ad un modello veneziano, quantunque anche per questa figura sia stato proposto un precedente figurativo romano, individuato nella
giovane donna vestita di bianco che compare (in basso sulla destra) nell'affresco di Tommaso Laureti, raffigurante la Giustizia di Bruto[6]. Come evidenziato da Erwin Panofsky,
che al dipinto di Annibale ha dedicato una lunga analisi in un celebre saggio del 1930 (Hercules am Scheidewege und andere antike Bildstoff in der neueren Kunst, tradotto in
italiano, nel 2013, con il titolo di Ercole al bivio), sul piano compositivo il dipinto del Camerino farnesiano deriva da un bellissimo rilievo romano di età augu stea (copia di un
originale greco) raffigurante Ercole tra le Esperidi, (il reperto fa parte della collezione di Villa Albani). La posizione assisa di Ercole e la sua nudità, la sua collocazione spaziale tra
due figure femminili che si fronteggiano, la presenza dell'albero alle spalle dell'eroe, sono tutti elementi che si ritrovano nella tela di Annibale. Panofsky, inoltre, mostra come
l'Ercole al bivio di Annibale Carracci sia divenuto il riferimento canonico per la gran parte dei pittori che si sono successivamente cimentati con questo tema. La posizione seduta
di Ercole, il gesto indicante della Virtù, le ingannevoli maschere ai piedi della Voluttà, sono elementi che da Annibale in poi diverranno frequentissimi nelle raffigurazioni della
favola prodicea.
1595 Paesaggio con fiume e ponte
Annibale Carracci e Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio erano i pittori più richiesti a Roma nel Seicento: il primo
si era affermato per gli affreschi della Galleria Farnese a Palazzo Farnese, mentre il secondo con i dipinti per la
cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi; stili e caratteri diversi li accomuna il lavoro compiuto
congiuntamente nella Cappella Cerasi della Basilica di Santa Maria del Popolo.
La tematica prettamente cristiana dell’ Assunzione di Maria in Cielo, ovvero della Vergine assunta alla gloria
celeste con l’anima e con il corpo, era già stata precedentemente trattata dal Carracci in due precedenti opere: il
dipinto l’Assunzione della Vergine realizzato tra il 1587 e il 1590 e conservato presso il Museo del Prado di Madrid e
la tela l’ Assunzione, realizzata nel 1592 e conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Il dipinto “Assunzione della Vergine” presenta una struttura piramidale con in alto la Vergine tra gli angeli, con le
braccia aperte, e alle sue spalle si intravede il gruppo degli apostoli, tra incredulità e stupore, mentre in basso,
davanti al sepolcro sono raffigurati san Pietro e san Paolo. I colori accessi e brillanti sottolinenano il giusto equilibrio
tra luci e ombre, anticipando l’arte barocca.
Ludovico Carracci
1587-89 Conversione di Paolo
Fu console dell'Accademia Fiorentina nel 1544 e nel 1572 gli venne offerto l'incarico di vescovo
di Glandèves in Provenza, che tenne dal 1572 al 1591, dopo rinuncia, anche se già dal 1578 era tornato in Italia
per dedicarsi alle lettere.
Partecipò alla compilazione del Calendario gregoriano. Fu ritratto tra il 1534 e il 1538 da Agnolo Bronzino in
abiti civili, dipinto conservato alla Gemäldegalerie di Berlino. Nell'emblematico ritratto in vesti nere (secondo
la più aggiornata moda dell'epoca), egli tiene in mano un libretto con scritto Pietro Bembo, riferimento al
contemporaneo letterato. Un altro ritratto, di autore fiorentino anonimo, si trova alla National Gallery di
Washington.
Il duca Cosimo I de' Medici è raffigurato come il musicista mitologico e poeta Orfeo dopo aver calmato
Cerbero, il cane custode dell'Ade da cui Orfeo desiderava recuperare sua moglie, Euridice. Il ritratto
altamente sensuale del giovane duca nudo può avere diversi significati: l'età pacifica che la nuova
generazione di Medici desiderava inaugurare, il mecenatismo del duca delle arti e delle lettere, o il suo
matrimonio con Eleonora di Toledo nel 1539. Questo dipinto potrebbe sono stati realizzati in concomitanza
con le cerimonie che celebrano quest'ultima occasione.
La donna è rappresentata con un sontuoso vestito rosso, ornato da pizzi nella parte superiore e da una
cintura con pietre preziose. Le maniche hanno un gonfio sbuffo arricciato nella parte superiore e in quella
inferiore sono invece aderenti e, come di consueto, estraibili, tenute da lacci .
Indossa inoltre due collane: una di queste reca la scritta amour dure sans fin, le cui parole si rincorrono in
maniera che possono essere lette da una parte all'altra, senza interruzioni, amplificando il significato di
continuità del motto. Dure sans fin amour e Sans fin amour dure sono infatti altrettanto significative.