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CINQUECENTO

Michelangelo
1492 Battaglia dei centauri
La critica lo colloca in un periodo che sempre coincide con quello della sua frequentazione del Giardino di
San Marco. Viene menzionata per la prima volta quando l’artista è ancora vivente e in piena attività, per la
precisione in una lettera datata 5 marzo 1527 e inviata da Giovanni Borromeo, agente dei Gonzaga a
Mantova, al marchese Federico II Gonzaga che, all’epoca, era alla ricerca di un’opera di Michelangelo. Nella
missiva, si parla di un “certo quadro di figure nude, che combattono, di marmore, quale havea principiato ad
istantia d’un gran signore, ma non è finito. È braccia uno e mezo a ogni mane, et così a vedere è cosa
bellissima, e vi sono più di 25 teste e 20 corpi varii, et varie attitudine fanno”. La Battaglia viene comunque
citata dai principali biografi cinquecenteschi di Michelangelo, anche se Condivi e Vasari non concordano sul
soggetto, dal momento che per il marchigiano si tratta di un “ratto de Deianira e la zuffa de’ Centauri”,
mentre per l’aretino il rilievo raffigura “la battaglia di Ercole coi centauri”, che, aggiunge Vasari lodando la
scultura, “fu tanto bella che talvolta per chi ora la considera non par di mano di giovane, ma di maestro
pregiato e consumato negli studii e pratico in quell’arte”. Vasari, peraltro, ricordava che, esattamente come
la Madonna della Scala, l’opera all’epoca della stesura delle Vite si trovava nella casa di Leonardo Buonarroti,
ed è interessante notare come da allora non si sia mai mossa dalla casa di famiglia, visto che ancor oggi si
trova nella raccolta di Casa Buonarroti a Firenze. Per ciò che riguarda il soggetto, altri studiosi (ad esempio
Angelo Tartuferi e Fabrizio Mancinelli) vi individuano una zuffa tra i centauri e i lapiti: è l’episodio mitologico
che, narrano le Metamorfosi di Ovidio, sarebbe occorso durante i festeggiamenti per il matrimonio tra
Ippodamia e Piritoo, quest’ultimo re dei lapiti (i centauri, invitati al matrimonio, dopo essersi ubriacati
avrebbero tentato di rapire la sposa, scatenando dunque una rissa coi lapiti che alla fine avrebbero avuto la
meglio).

Qualunque sia il soggetto, è comunque evidente che Michelangelo aveva già familiarità con temi colti, tratti dalla classicità , passibili di letture allegoriche in chiave neoplatonica
(per esempio, una possibile lotta tra la natura ferina dell’uomo e le sue pulsioni spirituali, altro tema caro alla filosofia ficiniana): in questo caso, a suggerire l’argomento del
rilievo potrebbe essere stato un poeta della cerchia laurenziana, il Poliziano (Angelo Ambrogini; Montepulciano, 1454 - Firenze, 1494), almeno stando a quanto rammenta
Condivi. Il soggetto è di difficile interpretazione anche per il fatto che l’artista non è tanto interessato alla descrizione dell’episodio in sé, quanto alla sua restituzione, alla
raffigurazione dei corpi in battaglia, alla resa anatomica dei personaggi impegnati nella rissa. E nonostante la giovanissima età, Michelangelo è già in grado di proporre un modo
originale di trattare lo spazio: le figure infatti sono disposte su piani molteplici e non sfumano in modo rigido e ordinato, ma quasi s’accavallano l’una con l’altra, in modo
comunque molto credibile e verosimile. La modernità dell’opera appare ancor più evidente se si confronta l’opera di Michelang elo con la Battaglia di Bertoldo di Giovanni
conservata al Museo del Bargello di Firenze, un rilievo dal quale, probabilmente, Michelangelo trasse alcuni spunti, data anc he la sua vicinanza al più anziano maestro. Dal
confronto risulta evidente come sia alquanto distante la costruzione dello spazio di Michelangelo rispetto a quella di Bertoldo, dal momento che l’impaginazione prospettica
tipicamente quattrocentesca è già abbandonata da Michelangelo, e lo stesso dicasi per la resa minuta dei dettagli. Al contrario, Michelangelo abolisce il fondo e la cornice, ed è
tutto interessato al modellato dei corpi dei contendenti, comunicando attraverso questi ultimi la profondità della scena, e dimostrando di aver gi à raggiunto una propria
indipendenza nella trattazione del nudo maschile.
Occorre comunque specificare che si trattava di un lavoro “principiato” ma “non finito”, come scriveva Borromeo nella sua lettera al marchese di Mantova: in tutte le figure
sono ancora evidenti i segni dello scalpello dell’artista (e sono quindi non rifinite), ci sono pezzi di marmo ancora attaccati al fondo dietro i corpi dei personaggi e soprattutto c’è
una fascia in alto che è ancora tutta da sbozzare: si è dunque ipotizzato che Michelangelo avesse lasciato incompiuto questo lavoro alla scomparsa di Lorenzo il Magnifico, al
quale probabilmente era destinato, come si potrebbe supporre leggendo la lettera di Borromeo e individuando dunque nel Magnifico il “gran signore” di cui è fatta menzione.
Tuttavia anche qui, come nella Madonna della Scala, si riconoscono alcuni dei motivi che saranno proprî del Michelangelo maturo: il forte dinamismo, l’attenzione per il nudo
maschile, il non finito, l’assenza del fondo. Elementi che già prefigurano le tensioni del Rinascimento maturo e l’arrivo della poetic a manierista. E motivi che torneranno: si è
spesso sottolineato come la figura centrale della Battaglia dei centauri anticipi il potente Cristo giudice del Giudizio universale che decora la parete di fondo della Cappella
Sistina. E qualsiasi fossero i riferimenti del giovane Michelangelo (si è detto di Bertoldo di Giovanni, c’è chi ha proposto d’individuare l’ispirazione dell’ar tista nei sarcofagi
romani, chi invece nelle lastre che decoravano i pulpiti di Giovanni Pisano), lo scultore fu in grado di superarli per promuovere, già a quindici anni, una maniera personale e
modernissima.

1497 Bacco Durante il primo soggiorno a Roma il cardinal Riario chiese a Michelangelo una statua di Bacco. Ma una volta
realizzata, la statua finì nel giardino del banchiere Jacopo Galli, altro protettore dell'artista, che, secondo una moda
diffusa presso le famiglie più in vista di Roma, raccoglieva statue e frammenti antichi a formare un ricchissimo
"antiquarium". Un'idea molto precisa di quell'impressionante collezione ci è offerta dai disegni cinquecenteschi che lo
rappresentano, specialmente quelli del fiammingo Maarten van Heemskerk.
La statua, in marmo, alta 203 cm., compresa la base, oggi è conservata nel Museo nazionale del Bargello a Firenze.
Ai primi di luglio del 1496 Michelangelo, aveva già acquistato un blocco di marmo di Carrara e realizzò la statua nel giro
di un anno. L'opera rivela una padronanza assoluta dell'anatomia, dei mezzi tecnici, dei val ori di composizione, armonia
ed equilibrio classici, ma anche di sorprendente capacità inventiva, perché creata secondo la fantasia dell'artista, senza
derivazione diretta. Una libertà immaginativa potente, sostenuta comunque da una solida conoscenza dell'antichità. Il
gruppo raffigura Bacco, ebbro e barcollante, affiancato da un satiro bambino che ride maliziosamente e morde l'uva di
nascosto. Rappresenta lo splendido risultato dell'incontro dello scultore poco più che ventenne con l'onnipresente e
maestosa bellezza dell'antico in Roma.
Michelangelo aveva già potuto conoscere frammenti antichi a Firenze nel giardino di San Marco e nei tesori medicei,
a Pisa aveva potuto vedere gli antichi sarcofagi del Camposanto, ma a Roma l'antichità gli si offriva allo sguardo e allo
studio con varietà e precisione: tanto che il Bacco, nell'accostarsi alla statuaria antica, risente particolarmente di certi
tratti della scultura ellenistica.Fatto per esser visto da più di un lato, il gruppo statuario articola un complesso rapporto
spaziale tra il dio del vino e il suo piccolo accompagnatore, che lo avvicina furtivo da tergo.
Mentre Bacco incede col corpo carnoso e morbido proteso in avanti e sbilanciato, quasi inseguendo la coppa di vino
che innalza a portata dello sguardo dilatato, il satiretto si torce in un ardito contrapposto che fa ruotare la metà
superiore della figura di ben oltre novanta gradi rispetto alle gambe caprine.
Da qui deriva l'effetto dinamico: il senso di oscillazione, di instabilità, che suggerisce la camminata e il movimento tipici
delle persone ubriache. La lavorazione delle superfìci varia da parte a parte, con effetti di grana ruv ida nel satiro, e di
levigata politezza sull'epidermide del dio, di cui già le fonti notavano la mollezza effeminata, composta di tratti maschili
e femminili.
Il soggetto del gruppo scultoreo è definito nel contratto: «Una Pietà di marmo, cioè una Vergine Maria
vestita con un Cristo morto nudo in braccio». I gruppi scultorei della Pietà, prima di Michelangelo, erano su
supporto essenzialmente ligneo e diffusi soprattutto in area nordica (con il nome di Vesperbild), dove
erano collegati alla liturgia del Venerdì Santo, ma piuttosto rari in Italia[5], tutt'al più presenti in area
ferrarese: ciò fa pensare a un'esplicita richiesta "speciale" del committente, da cui anche la chiarificazione
del soggetto nel contratto. L'iconografia della Pietà veniva tradizionalmente risolta in uno schema
piuttosto rigido, con la contrapposizione tra il busto eretto e verticale di Maria e il corpo irrigidito in
1498-1500 Pietà posizione orizzontale di Gesù: tale organizzazione influenzava anche la pittura, come si vede ad esempio
nella Pietà di Pietro Perugino (1483-1493 circa).
Michelangelo innovò invece la tradizione concependo il corpo di Cristo come mollemente adagiato sulle
gambe di Maria con straordinaria naturalezza, privo della rigidità delle rappresentazioni precedenti e con
un'inedita compostezza di sentimenti. Le due figure sembrano fondersi in un momento di toccante
intimità, dando origine a un'originale composizione piramidale, raccordate dall'ampio panneggio sulle
gambe di Maria, dalle pieghe pesanti e frastagliate, generanti profondi effetti di chiaroscuro. Fortemente
espressivo è anche il gesto della mano sinistra, che pare invitare lo spettatore a meditare sulla
rappresentazione davanti ai suoi occhi, secondo le pratiche di meditazione concentrata e dolente di
ispirazione savonaroliana. La Vergine siede su una sporgenza rocciosa, qui ben finita con piccole fessure ad
arte (a differenza di altre opere dell'artista in cui era semplicemente l'avanzo della sbozzatura del marmo),
che simboleggia la sommità del monte Calvario.
Il livello di finitezza dell'opera è estremo, soprattutto nel modellato anatomico del corpo di Cristo, con
effetti di levigatura e morbidezza degni della statuaria in cera, come il dettaglio della carne tra il braccio e
il costato, modificata dalla salda presa di Maria opposta al peso del corpo abbandonato[5]. La bellezza
della statua risiede forse proprio nel naturalismo straordinariamente virtuoso della scena, fuso con
un'idealizzazione e una ricerca formale tipica del Rinascimento, e un notevole spessore psicologico e
morale.
Il fatto che la Madonna fosse molto giovane suscitò delle critiche, registrate dal Vasari, nell'incapacità
ormai di riconoscere la tradizione medievale di Maria vista come sposa di Cristo e simbolo della Chiesa: tali
iconografie, spesso antichissime, vennero abbandonate in seguito alla Controriforma, interrompendo
tradizioni secolari che vennero presto dimenticate dai contemporanei. Una Madonna giovanissima si trova
ad esempio, per restare in ambito romano, nel mosaico di Jacopo Torriti in Santa Maria Maggiore. Per
tutto il Quattrocento si continuò a ripetere tali schemi, con una conoscenza più o meno consapevole degli
scritti teologici medievali, spesso mediata dagli ordini religiosi committenti. Inoltre Michelangelo, come
scrisse il suo biografo Ascanio Condivi, sostenne che "La castità, la santità e l'incorruzione preservano la
giovinezza". Lo stesso Vasari riporta questa opinione nel confutare le critiche alla scelta dell'artista: «Se
bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s'accorgono
e non sanno eglino che le persone vergini senza essere contaminate si mantengono e conservano l'aria de
'l viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu Cristo fanno il contrario? Onde tal
cosa accrebbe assai più gloria e fama alla virtù sua che tutte l'altre dinanzi». Michelangelo inoltre non
voleva rappresentare la scena con lo scopo di narrare un episodio (la morte di Cristo) ma era
principalmente interessato all'aspetto simbolico: Maria è rappresentata giovane come quando concepì
Gesù Cristo.
1501–04 David

Diverso dall’acerbo adolescente di Donatello o del Verrocchio, trasognato trionfatore


della brutale violenza del gigante Golia
Il colosso si allontana radicalmente dall’iconografia tradizionale dell’eroe biblico
Figura atletica, giovane, nel pieno delle forze e non ancora vincitore
Ostentato virtuosismo nella resa dei particolari anatomici
Terribile concentrazione di energie fisiche e psichiche
Per la lotta solleva fieramente il volto corrucciato e tensione nelle membra
Nudità e gagliardia di Michelangelo -----> Ercole, simbolo delle virtù civiche a Firenze
Concezione umanista e repubblicana del civis-miles (cittadino-guerriero)

1503-06 Madonna di Bruges


Questa statua rappresentante la donna con Bambino, è stata realizzata nei primi anni del Cinquecento, durante i quali,
Michelangelo era impegnato nella realizzazione di una delle opere più importanti di sempre, ovvero il David. In molti
sapevano che Michelangelo stava realizzando una statua eccezionale, ma ne ignoravano il soggetto, permettendo allo
stesso Michelangelo di potersi dedicare anche ad alcuni incarichi privati.
Tra i vari lavori “extra” ci fu anche questa Madonna Michelangelo, commissionata dalla famiglia belga dei Mouscron e
che venne trasportata in grandissimo segreto da uno stretto collaboratore dello scultore. La statua venne pagata circa
4000 fiorini e venne collocata nella cappella Mouscron della Cattedrale di San Salvatore, a Bruges.
Nel periodo dei furti adoperati dai francesi sotto il controllo di Napoleone, la statua venne trafugata e portata a Parigi,
fino a che nel 1815 venne riportata in Belgio; un secolo più tardi, i tedeschi, durante la seconda guerra mondiale,
rubarono ancora una volta questa statua, che però venne ritrovata fortunatamente in una miniera in Austria, e così
venne riportata definitivamente nella Chiesa di Nostra Signora in Bruges.
Stilisticamente, l’opera è molto interessante ed originale: la statua reinterpreta il rapporto tra Gesù e Maria, dove
quest’ultima ha lo sguardo rivolto verso il basso, mentre il Bambino sembra quasi che si stia calando, allontanandosi da l
grembo Maria, reggendosi solo alla mano della mamma.
Differentemente da molte altre versioni di questo soggetto, la Vergine non sorride tenendo in braccio suo figlio come da
tradizione, ma si può notare la donna che ha lo sguardo perso nel vuoto, mentre il figlio comincia a camminare da solo e
a muovere i primi passi nel mondo. Spostando lo sguardo è possibile notare che nell’altra mano, Maria trattiene un
libretto, che probabilmente sono le Sacre Scritture, dove è riportato il triste destino di Gesù, e avendo letto la prematura
morte di suo figlio, la donna ha uno sguardo triste e perso nel vuoto.
Il grande panneggio della veste di Maria e allo stesso tempo, la semplicità della scultura rendono questo lavoro un vero e
proprio capolavoro della produzione michelangiolesca.
1505 Primo progetto monumento Giulio II
Nel 1505, Michelangelo godeva di grande successo per la realizzazione del celebre David, una statua ammirata
tutt’oggi da tutto il mondo; forte del grande successo riscosso, Michelangelo venne convocato da Giulio II Papa
per la realizzazione di una tomba da collocare nella basilica di San Pietro.
Michelangelo abbandonò immediatamente qualsiasi lavoro in atto fino a quel momento, per realizzare il
progetto del pontefice. Secondo il primo progetto della tomba di Michelangelo, la sepoltura per il papa doveva
essere: una base rettangolare, con sopra altre tre basi della stessa forma sempre più ristrette, così da formare
una piramide.
Sulla punta di questa piramide progettata per la tomba Michelangelo, doveva essere presente il catafalco del
Papa, circondato da circa quaranta statue sparse su tutta la struttura, in modo da non tralasciare alcun angolo
dell’intera architettura.
Nella parte bassa della complessa scultura, dovevano essere presenti diverse nicchie, con all’interno diverse
statue rappresentanti delle Vittorie alate, circondate da dei Prigioni. Andando più in alto, dovevano essere
presenti le figure di Mosè e San Paolo, simboli della Vita attiva e Vita contemplativa, che dovevano convogliare
l’attenzione dell’osservatore verso il catafalco del Papa.
La statua del Papa sulla sommità, accompagnato da due angeli, doveva rappresentare il risveglio del defunto
durante il Giudizio Universale.
Entrando nella struttura, si trovava il vero e proprio sarcofago del Papa. Il progetto piacque molto a Giulio II
della Rovere, ma gli altri artisti presenti nella cerchia papale, non vedevano di buon’occhio la figura di
Michelangelo, così mentre l’artista era fuori Roma per cercare il materiale per la realizzazione del grande
complesso funerario, i suoi concorrenti cominciarono a distogliere l’attenzione del Papa dal progetto del
Buonarroti, mostrandogli tanti altri lavori per esaltare la gloria di Roma, come il rinnov o dell’Antica basilica di
San Pietro in Vaticano per mano del Bramante.
Quanto Michelangelo scoprì tutto ciò, rimase molto deluso e se ne andò da Roma, per poi tornare solo nel
1512, dopo aver chiarito l’equivoco con il Papa, che gli offrì la possibilità di decorare la volta della Cappella
Sistina e di continuare il progetto per la sua Tomba.

1505 San Matteo (non finito)


Il San Matteo venne commissionato al Buonarroti dall’Opera del Duomo di Firenze, proprio mentre il celebre scultore stava
per terminare il David. L’incarico prevedeva la realizzazione dei dodici apostoli da inserire all’interno delle nicchie nei pilastri
proprio sotto la cupola del Duomo di Firenze.
Iniziati i lavori per questa statua, Michelangelo continuò a ricevere ulteriori incarichi da altri committenti, arriva ndo così a
realizzare solo una parte del San Matteo, che poi nel 1505 lasciò non completato, poiché dovette partire per Roma. L’Opera
del Duomo fiorentina allora decise di scogliere il contratto con Michelangelo per assoldare altri artisti che completarono tale
incarico ad altri artisti, come Baccio Bandinelli e Andrea e Jacopo Sansovino. Nonostante il contratto fosse stato sciolto,
Michelangelo quando tornò a Firenze nel 1506 (poiché c’erano state delle complicazioni per il progetto della Tomba di Giulio
II), riprese a lavorare sul blocco iniziale del San Matteo, arrivando così a migliorare il blocco iniziale.
Il San Matteo Michelangelo è rimasto fino alla fine dell’Ottocento negli spazi di proprietà dell’Opera del Duomo, fino a che,
proprio ad inizio del Novecento, con la realizzazione della Galleria dell’Accademia fiorentina, la statua venne trasferita lì, ed
oggi è visibile al grande pubblico.
Analizzando questa scultura, è possibile notare una forte somiglianza con i Prigioni realizzati sempre da Michelangelo, poiché
entrambi sono caratterizzati dal celebre non finito del Buonarroti, che simboleggiano una sorta di forte lotta da parte dei
protagonisti per liberarsi dal blocco di marmo originario. In questo caso, il tentativo di liberarsi del San Matteo è accentuato
dalla testa ruotata e dal divincolarsi del corpo. Schematicamente, è possibile notare che la gamba sinistra della statua è
piegata, come se fosse appoggiata su un gradino più alto, mentre la destra è distesa, formando una sorta di contrapposizione
(e si nota lo stesso schema anche nella riproduzione delle braccia); allo stesso modo, tutto il corpo, nel tentativo di liber arsi,
sembra muoversi in direzioni diverse, accentuando ancor di più la forte energia del protagonista.

1505-06 Battaglia di Cascina Nel Cinquecento, il gonfaloniere Pier Soderini consigliò di far decorare il salone di Palazzo Vecchio,
realizzato da Savonarola dopo la grandiosa rivoluzione che portò i cittadini a governare Firenze,
distaccandosi dagli antichi regimi di potere. Per la decorazione dell’ambiente presente in Palazzo
Vecchio, vennero convocati Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti; il tema portante dei lavori dei
due grandi maestri doveva essere l’esaltazione dell’esercito fiorentino, che combatteva per la difesa
della nuova Repubblica con l’aiuto di Dio.
Leonardo da Vinci si dedicò alla realizzazione della battaglia di Anghiari, un lavoro di eccezionale qualità,
che però venne irrimediabilmente rovinato e successivamente abbandonato dallo stesso artista dopo
aver tentato l’antica tecnica dell’encausto. La battaglia di Anghiari Leonardo si rivelò un vero e proprio
fallimento, mentre Michelangelo si dedicò alla realizzazione di un altro evento bellico.
Il tema del lavoro di Michelangelo era la battaglia di Cascina, avvenuta nel 1364 e tramandata
all’interno di varie fonti storiche, secondo cui i Pisani vennero sconfitti dai Fiorentini; quest’ultimi
sconfissero i nemici anche non essendo adeguatamente equipaggiati, poiché in precedenza, a causa del
grande caldo (la battaglia si combatté a fine luglio), le truppe cercarono di rinfrescarsi gettandosi
nell’Arno. Michelangelo completò il lavoro nei primi anni del Cinquecento, ma non lo finì in via definitiva
perché dovette partire per Roma a causa dell’incresciosa situazione legata alla realizzazione della tomba
di Giulio II.
Il cartone realizzato da Michelangelo venne lasciato all’interno dell’Ospedale di Sant’Onofrio, ma la
popolarità di questo capolavoro crebbe in fretta, portando diversi artisti a maturare il desiderio di
volerla tenere per se per studiare: tra questi Baccio Bandinelli, arrivò ad introdursi all’interno di Palazzo
Medici per studiarli continuamente, al fine di poter realizzare un’opera di simile bellezza.
Appropriandosi dapprima di una parte del cartone e tentando successivamente di raggiungere la perfezione michelangiolesca (e non riuscendoci), Baccio Bandinelli distrusse
una gran parte dell’opera; questo danno, sommato alla distruzione effettuata da parte di altri proprietari di altrettanti pezzi dell’opera, portarono all’eliminazione definitiva di
questo lavoro.
Fortunatamente, prima di essere distrutto, fu oggetto di grandi studi l’opera di Michelangelo, e vennero create innumerevoli copie, di cui quella che si avvicina di più
all’originale è quella di Aristotile di Sangallo.
Tra i probabili affreschi Michelangelo, questo costituisce senza dubbio uno dei più conosciuti e misteriosi, poiché l’originale è andato perduto, ma secondo le fonti ne è stato
possibile enunciare una descrizione abbastanza generica: al centro si sarebbe dovuto trovare un soldato indossante le braghe, mentre a sinistra di quest’ultimo sarebbe dovuto
esserci un gruppo di cavalieri, mentre ai lati sarebbero stati presenti degli altri soldati in corsa, rappresentati nell’atto di salire a cavallo.
Secondo degli ulteriori studi riguardanti l’aspetto del Salone di Palazzo Vecchio, i lavori della battaglia Anghiari di Leonardo e la battaglia di Cascina Michelangelo,
originariamente non sarebbero dovuti essere disposti su due muri opposti, ma piuttosto sulla stessa parete, uno affianco all’altro.

1506 Tondo Doni Conservato nella cornice originale, probabilmente disegnata dallo stesso Michelangelo, è l'unica opera su supporto
mobile, certa e compiuta, dell'artista. Di fondamentale importanza nella storia dell'arte poiché pone le basi per
il Manierismo, il dipinto è sicuramente tra le opere più emblematiche ed importanti del Cinquecento italiano.
Cornice: sulla sua superficie sembrano rincorrersi motivi dorati in oro zecchino che si alternano fra facce mostruose
e fogliame quasi come si trattassero di grottesche scolpite. Cinque teste sporgono dalla cornice con espressioni
differenti. La testa posta proprio sopra il dipinto è all’unanimità data per certa come quella di Cristo, le altre
rimangono un po’ avvolte nel mistero. Solitamente vengono identificate come teste di due profeti quelle più
alte mentre quelle in basso dovrebbero raffigurare altrettante sibille mentre c’è chi, nelle figure più femminili,
tende a vedere due angeli. Fatto sta che è una gran bella cornice. Fui io a disegnarla e la scolpirono nel legno i
Tasso, gli stessi che realizzarono tutto l’arredo della camera Doni. Osservando le meravigliose e complicate
decorazioni vedrete le tre lune crescenti riproposte più volte: sono il simbolo della casata Strozzi. Il dipinto infatti
era destinato ai coniugi Doni ovvero Agnolo Doni e Maddalena Strozzi. Come ebbe modo di scrivere l’umanista
Vespasiano da Bisticci in merito proprio agli Strozzi, era “la più bella e la più degna famiglia che fussi a Firenze”.
Intrecciati con le tre lune, ci sono virgulti di ulivo. Questi tralci trovano una spiegazione nel libro dei Salmi della
Bibbia: “sarai felice e avrai ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli
come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa.” E’ probabile che quei virgulti siano riferiti proprio a Maria, la figlia
tanto attesa della coppia che dimorò anni per arrivare nel grembo della mamma Maddalena.

La Sacra Famiglia con San Giovannino, nota come Tondo Doni, è l’unica opera certa su tavola di Michelangelo. L’artista sfrutta il formato circolare, tipico della tradizione
fiorentina, per creare un corpo compatto e articolato al suo interno, compiutamente inserito nello spazio. San Giuseppe porge il Bambino alla Madre, che nel prenderlo si
avvolge su se stessa, assumendo una posa a ‘serpentina’. All’intero gruppo è impresso il moto rotatorio, che appare fluido grazie al sapiente co ncatenamento dei gesti. Le figure
sono state elaborate come sculture: il chiaroscuro è netto, determinando un forte risalto plastico, accentuato dalla linea di contorno rilevata; i colori sono contrastanti e virati
su toni metallici, e ciò elimina qualsiasi percezione naturalistica.
Il paesaggio sullo sfondo è appena accennato, semplicemente funzionale alla costruzione simbolica dell’immagine. Esso, infatti, è separato dal primo piano attraverso un
muretto ed è occupato da figure di Ignudi, distanti dalla scena principale e quasi appena abbozzate: rappresenta il mondo pagano, separato e contrapposto al mondo cristiano
redento da Cristo, attraverso la mediazione della stirpe di Davide, rappresentata da Giuseppe e San Giovannino.

1506-08 Tondo Taddei Il Tondo Taddei nasce grazie alla commissione di un privato, ovvero Taddeo Taddei, il quale ordinò a
Michelangelo la realizzazione di questo bassorilievo per essere posto all’interno del proprio palazzo.
Nella composizione i protagonisti sono la Vergine, Gesù Bambino e San Giovannino: sulla sinistra si
trova il piccolo Giovanni che sta mostrando un cardellino a Gesù, il quale impaurito, scappa subito tra
le braccia di Maria sulla destra per proteggersi, mentre quest’ultima guarda i due piccoli bambini
giocare tra loro serenamente.
Secondo molti studiosi, questo Tondo Taddei sarebbe un’opera che risente dell’influsso dei lavori di
Leonardo da Vinci, soprattutto per quanto riguarda la somiglianza tra il “non-finito” del bassorilievo e
lo sfumato tipico dei lavori di Leonardo da Vinci. Altro collegamento tra i due artisti potrebbe esservi
grazie allo schema di causa-effetto presente nei lavori di Leonardo, riportati in questo bassorilievo
grazie alla divisione in vari piani tra i diversi protagonisti, accentuando la profondità di tutta la scena.

1508-12 Volta della Cappella Sistina

La Volta della cappella Sistina fu decorata da Michelangelo con le storie della Genesi e altri soggetti dell’Antico Testamento. La grande opera fu commissionata da Papa Giulio II
e realizzata in quattro anni dal maestro con un minimo aiuto da parte di altri artisti.
Michelangelo progettò una grande opera per la rappresentazione di 9 episodi tratti dal libro della Genesi. I soggetti sono: Separazione della luce dalle tenebre (Genesi 1,1-5),
Creazione degli astri e delle piante, (Genesi 1,11-19), Separazione della terra dalle acque (Genesi 1,9-10), Creazione di Adamo (Genesi 1,26-27), Creazione di Eva (Genesi 2,18-
25), Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre (Genesi 3,1-13.22-24), Sacrificio di Noè (Genesi 8,15-20), Diluvio universale (Genesi 6,5-8,20), Ebbrezza di Noè (Genesi
9,20-27). Lateralmente a queste rappresentazioni, sul lato lungo della volta, sono rappresentati venti giovani nudi detti Ignudi. Si tratta di figure quasi angeliche che partecipano
di umanità e divinità. Inoltre portano i simboli dei Della Rovere rappresentati dalle foglie di quercia.
Sono poi presenti 8 vele triangolari disposte lungo le pareti maggiori con scene bibliche. Sempre lungo le pareti maggiori vi sono invece 16 lunette sottostanti alle vele nelle
quali sono raffigurati gli antenati di Cristo. Tra di loro vi sono Abramo e Giuseppe. Tra le vele invece vi sono gli indovini ebrei detti Profeti e quelli pagani chiamati Sibille. Sono
disposti alternativamente in quest’ordine: Zaccaria, Gioele, Sibilla Delfica, Sibilla, Eritrea, Isaia, Ezechiele, Sibilla Cumana, Sibilla Persica, Daniele, Geremia, Sibilla Libica, Giona.
Questi personaggi trovano posto nel grande affresco poiché avevano previsto la venuta di Cristo. Le figure sono poste su dei monumentali troni marmor ei. Agli angoli vi sono
quattro grandi pennacchi che illustrano alcune vicende importanti determinate dalla presenza di Dio nella vita del popolo di Israele. Si tratta di Giuditta e Oloferne (Giuditta
13,1-10), Davide e Golia (1 Samuele 17,1-54), Punizione di Aman (Ester 7,1-10), Serpente di bronzo (Numeri 21,1-9).
1518 progetto facciata basilica di San Lorenzo
Tra il novembre e il dicembre del 1515 Leone X, della famiglia Medici, decise di tornare in visita solenne a
Firenze, e in quell’occasione nacque l’idea di indire un concorso per dotare di facciata San Lorenzo,
l’incompiuta basilica brunelleschiana patrocinata dai Medici sin dalla fondazione (1421), e luogo
deputato per le loro sepolture. La proposta cadeva in un momento in cui Michelangelo sembrava volgere
una particolare attenzione ai problemi della composizione architettonica: di qui forse l’accanimento
dell’artista nel corso della vicenda che lo portò a essere unico autore del progetto finale. Erano con lui,
all’inizio, Antonio e Giuliano da Sangallo, Jacopo Sansovino, Baccio d’Agnolo, lo stesso Raffaello. Sembra
che dapprima a Michelangelo fosse affidato soltanto il compito di sovrintendere alla decorazione
scultorea, mentre Jacopo Sansovino procedeva a far eseguire a Baccio d’Agnolo un modello ligneo per la
facciata, molto apprezzato sul momento, e oggi perduto. Nel corso dell’anno 1516 la contesa per una
così prestigiosa commissione toccò momenti di aspra lotta, finché, nell’autunno, Michelangelo ottenne
da Leone X l’incarico anche per la progettazione architettonica della facciata. Liberatosi finalmente dei
concorrenti, egli risolse genialmente il problema che sempre assillava gli architetti del Rinascimento,
quando si dovevano applicare correttamente gli ordini classici alle facciate irregolari delle chiese a pianta
basilicale: nascose, e fece dimenticare, la struttura esterna della chiesa dietro lo scenario laico di uno
splendido palazzo privato.
La progettazione michelangiolesca della facciata attraversò tre fasi principali, che si possono individuare
in tre disegni della Collezione della Casa Buonarroti, il 45 A, il 47 A, il 43 A. L’immagine ormai precisata di
quest’ultimo foglio si tradusse con ogni verosimiglianza nel grande modello ligneo della Casa Buonarroti
che rispecchia il passaggio dalla fase progettuale all’iter esecutivo, fissato nel contratto stipulato tra
Leone X e l’artista il 19 gennaio 1518. Il 10 marzo 1520 Michelangelo stesso registra la rescissione del
contratto, anche se solo per quanto concerne la fornitura del marmo, e il materiale fino ad allora
raccolto viene destinato a pavimentare la chiesa di Santa Maria del Fiore. Ma l’attività del cantiere
continua, pur se a rilento, e se ne hanno testimonianze certe fino all’aprile del 1521. In quell’anno morì
Leone X; dopo il breve pontificato di Adriano VI ascese al soglio papale, nel novembre del 1523,
Clemente VII, anch’egli un Medici, che palesò più di una volta l’intenzione di riprendere i lavori della
facciata. Soltanto la sua morte (1534) esaurì per sempre ogni possibilità di realizzare il grande e
tormentato progetto.

1521 Cristo risorto in Santa Maria sopra Minerva

Cristo è raffigurato in piedi appoggiato a una croce (simbolica, senza le dimensioni di quella del
martirio), mentre tiene anche la canna e la spugna con cui gli venne porto l'aceto e con il volto
guarda nella direzione opposta. Il corpo, dal perfetto modellato anatomico, era originariamente
nudo al completo: il drappeggio in bronzo dorato venne infatti aggiunto solo dopo il Concilio di
Trento. La posa è estremamente studiata, con una torsione complessa ma efficace che dimostra la
continua ricerca di Michelangelo verso nuove soluzione compositive.
1523-34 Biblioteca laurenziana

1524-34 Sagrestia Nuova


Alla morte dei rampolli di casa Medici Lorenzo e Giuliano, sono papa Leone X
(rispettivamente zio e fratello dei due) e il cardinale Giulio de’ Medici, futuro
Clemente VII, a voler edificare una seconda cappella funeraria nella chiesa di
famiglia, San Lorenzo. L'incarico fu affidato a Michelangelo. Questi si ispirò alla
pianta e alle proporzioni della Sacrestia Vecchia ma articolò maggiormente lo spazio
con l’inserimento di archi trionfali sulle pareti e con l’utilizzo di elementi classici
come balaustre, pilastri e cornici, sottolineati dalla grigia pietra serena. Sotto l’altare
furono quindi collocate le spoglie di Lorenzo duca di Urbino e Giuliano duca di
Nemours.

1530 Vittoria a Palazzo Vecchio


L'assegnazione al progetto della tomba e la datazione si basa su elementi stilistici che legano l'opera ai Prigioni,
come la torsione del corpo e l'anatomia vigorosa, le misure compatibili. Inoltre sulla testa ha una corona di
foglie di quercia che alluderebbe allo stemma Della Rovere.
La scultura non rappresenta un momento di lotta, essendo un'allegoria, ma rappresenta lo stato del vincitore,
che domina lo sconfitto tenendolo sottomesso con agilità, con una gamba che blocca il corpo del sottomesso,
ripiegato e incatenato. Il giovane che rappresenta il genio è bello ed elegante, mentre il dominato è vecchio e
barbuto, con un fisico flaccido e un'espressione rassegnata. Anche le superfici sono trattate in maniera diversa
per esaltare espressivamente il contrasto tra le due figure: il giovane levigato alla perfezione, il vecchio ruvido e
incompleto, per lasciare il ricordo della pesante pietra di cui è fatto.
Secondo alcuni studiosi, il Genio avrebbe le fattezze di Tommaso de' Cavalieri, giovane nobile romano
conosciuto da Michelangelo a Roma nel 1532, del quale il Buonarroti si sarebbe invaghito e a cui dedicò molte
rime amorose; il vecchio, invece, succube del Genio, alluderebbe allo stesso Michelangelo, vinto dalle armi della
bellezza di Tommaso

1533 Ultimo (quarto) progetto monumento Giulio II

Dopo una faticosa trattativa durata più di un decennio si concorda un nuovo contratto nel 1532,
secondo il quale l’artista si impegna a realizzare un monumento ben più ridotto di quello progettato
nel 1516, dal valore corrispondente ai soldi ricevuti fino a quel tempo da Giulio e dagli eredi. La
nuova sepoltura, definita come opera “resecata”, sarà addossata a una parete del transetto di
S.Pietro in Vincoli.
Nel 1533 iniziano i lavori per la collocazione di quella parte del monumento che era stata approntata
nel secondo decennio del secolo ed era rimasta nello studio romano di Michelangelo. I lavori fervono
all’arrivo di Michelangelo a Roma, ma nonostante il suo desiderio di concludere la sepoltura e
liberarsi dalle accuse e dalle minacce rivoltegli dagli eredi, l’artista viene di nuovo “precettato” dal
nuovo papa Paolo III Farnese che lo obbliga a dipingere la facciata della cappella Sistina con una
rappresentazione del Giudizio Finale.
Tanto il Papa che Michelangelo si impegnano a concludere la sepoltura appena finita la pittura del
Giudizio. Nel Novembre 1541 il Giudizio è terminato ma Michelangelo contro ogni sua aspettativa è
di nuovo obbligato da Paolo III a una nuova impresa, la pittura della cappella Paolina in Vaticano.
L’esasperazione degli eredi Della Rovere è grande e l’amarezza di Michelangelo è infinita.
1536-41 Giudizio Universale Nel Giudizio Universale, Michelangelo rappresenta il momento in cui gli angeli suonano le trombe per lo
scatenarsi dell’Apocalisse. Cristo resuscita i morti e chiama con sé in Paradiso i giusti ordinando agli angeli di
scaraventare i dannati nell’inferno.
I dannati precipitano verso l’inferno mentre i beati salgono verso il Paradiso. In centro, verso l’alto si trova
Cristo con la Vergine. Gesù al suonare delle trombe dell’Apocalisse risveglia le anime e separa i beati dai
dannati. All’interno delle due lunette superiori gli angeli conducono gli strumenti della passione, la croce, la
corona di spine e la colonna della flagellazione. Intorno alla figura di Cristo sono disposti a corona alcuni
personaggi dell’Antico Testamento: apostoli, profeti, eroine, sibille e patriarchi. Inoltre compaiono santi,
martiri e vergini. Gesù guarda a destra ed è rappresentato seminudo come un eroe classico nell’atto di alzarsi
e avanzare. La sua mano destra alzata chiama a sé i beati mentre con la mano sinistra destina i dannati nelle
profondità dell’Inferno. La Vergine invece è dipinta in posizione leggermente inferiore a Gesù e volge lo
sguardo a sinistra. La sua espressione è di sofferenza ma compassata.
Nella fascia sottostante, divisa in cinque settori, vi sono gli angeli con le trombe al centro con le sacre
scritture. In basso a sinistra è rappresentata la resurrezione dei morti mentre in alto sempre a sinistra la salita
dei beati. In alto a destra i dannati vengono cacciati nelle spire dell’Inferno che è rappresentato in basso.
Secondo gli storici i colori terrei e poco saturi utilizzati da Michelangelo nel Giudizio Universale furono una
scelta conseguente alla sua avanzata età. Inoltre l’artista fu condizionato dal progressivo pessimismo che lo
opprimeva. Il clima psicologico che traspare dall’affresco è di paura e terrore. In senso più allargato
culturalmente la visione che emerge dal Giudizio Universale di Michelangelo è profondamente diversa dal
clima sicuro e classico del primo Rinascimento. Nel vorticare delle anime di beati e dannati si scorge un
pensiero ormai privo di certezze politiche e culturali. Gli angeli presenti nel dipinto sono privi di ali e quindi
definiti apteri.
Il Giudizio Universale fu dipinto da Michelangelo sulla parete di fondo della Cappella Sistina circa 30 anni
dopo la realizzazione della volta. Segue quindi la rappresentazione delle storie della Genesi. In seguito alla
richiesta di Clemente VII Michelangelo si recò a Roma nel settembre del 1534. Michelangelo era intenzionato
ad integrare l’affresco già esistente del Perugino. Intanto Clemente VII aveva già fatto abbattere l’Assunta
con Sisto IV del maestro umbro. Secondo gli studiosi si trattò di una vendetta contro il suo predecessore
colpevole della morte del padre di Clemente VII, Giuliano de’ Medici, durante la congiura dei Pazzi. Il papa
però morì pochi giorni dopo l’arrivo dell’artista che tornò a Firenze. Alla riconferma dell’incarico da parte di
Paolo III Farnese Michelangelo cercò di prendere tempo per terminare la tomba di Giulio II de Medici a
Firenze.
Per far posto alla grande opera di Michelangelo vennero distrutti i lavori presenti sulla parete. Erano affreschi
del Quattrocento di Pietro Perugino intitolati Nascita e ritrovamento di Mosè, Assunta con Sisto IV
inginocchiato e Natività di Cristo. Furono anche eliminati alcuni ritratti di Papi tra le finestre. Infine anche due
lunette dipinte da Michelangelo all’epoca della volta. Si tratta di Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuda e Fares,
Esrom e Aram. Nel 1536 Michelangelo iniziò a dipingere il Giudizio Universale dopo la predisposizione dei
ponteggi. Il lavoro fu condotto interamente da Michelangelo con un aiuto, l’Urbino. L’affresco fu così
terminato nel 1541 e mostrato alla vigilia di Ognissanti.

Michelangelo, inizialmente, cercò di ispirarsi alle rappresentazioni tradizionali. Nel corso del progetto però decise per un’opera rivoluzionaria. Il modellato dei corpi non è quello
solido e razionale quasi idealizzato della volta. Pur nella loro fisicità i corpi del Giudizio Universale sono corretti ma sembrano soffrire della loro condizione di defunti. Le eleganti
torsioni degli Ignudi si trasformano in pose incontrollate e sofferenti che mostrano anche le imperfezioni dei corpi che vorticano sulle nubi e nel cielo. Gli angeli dell e lunette
invece sono esempi di corpi modellati con anatomie di grande effetto e potenza.
I beati che ascendono verso il Paradiso creano un groviglio di corpi. Anche i dannati cacciati all’Inferno sembrano impegnati in una lotta con gli Angeli. Il pittore Sebastiano del
Piombo per rendere meno impegnativo il lavoro a Michelangelo fece predisporre un intonaco adatto alla pittura ad olio. Il maestro però fu molto contrariato fece preparare
invece l’arriccio per la tecnica dell’affresco. Alcune figure di secondo piano però furono dipinte a secco e con una tecnica veloce definita compendiaria.Diversamente
dell’affresco realizzato sulla volta ricco dai toni saturi e brillanti nel Giudizio Universale abbondano così i grigi e i bruni terrosi. Solamente il cielo è rappresentato con un blu
limpido e intenso. La zona colorata in modo più vivace e contrastata è nel mantello della Vergine seduta a destra di Cristo. Per creare una certa spazialità e una necessaria
profondità Michelangelo utilizzò una illuminazione diretta sui personaggi in primo piano. Man mano che le figure si allontanano i contrasti si affiev oliscono e i colori si spengono
sfumando i contorni.
Un altro elemento di novità messo in atto da Michelangelo fu l’eliminazione delle cornici architettoniche. La parete destinata ad accogliere l’affresco è infatti totalmente libera e
rappresenta una realtà ultraterrena senza riferimenti allo spazio fisico. Michelangelo non utilizzò finte architetture per raccordare lo spazio virtuale con quello reale per creare
una continuità spaziale. Le forme umane sono quindi libere nel cielo e non ingabbiate in solide composizioni prospettiche. Gl i storici fanno notare come la composizione anticipi
le invenzioni barocche. Le poco più di 400 figure hanno altezze variabili e vanno da quelle più alte delle zone superiori, di circa 250 cm, a quelle in basso di circa 155 cm.
Michelangelo evitò così la struttura tradizionale della composizione per ordini sovrapposti. Per comodità però si individuano tre zone descrivibili in modo coerent e. Nelle lunette
sono rappresentati gli angeli con gli strumenti della passione. In centro si trovano Cristo e la Vergine tra i bea ti. In basso è rappresentata la fine dei tempi e l’Inferno con i
demoni, gli angeli che suonano le trombe dell’Apocalisse, la resurrezione, la salita dei beati e la discesa dei dannati.
Cristo e la Vergine sono inseriti all’interno di una mandorla compositiva illuminata. A partire dal basso in centro dove gli angeli suonano le trombe l’azione si sposta a sinistra
dove i morti risorgono. Quindi le anime salgono verso il cielo. I beati continuano l’ascesa verso Cristo mentre i dannati giunti al cospetto di Gesù vengono respinti dagli angeli
verso l’inferno in basso a destra.
1542-45 Cappella Paolina

Destra: Lapidazione di santo Stefano di Lorenzo Sabatini (a sinistra), Conversione di


Saulo di Michelangelo (al centro) e Battesimo di Paolo di Lorenzo Sabatini (a destra).
Sinistra: Battesimo del centurione di Federico Zuccari (a sinistra), Crocifissione di san Pietro di
Michelangelo (al centro) e Caduta di Simon Mago di Lorenzo Sabatini (a destra).
La cappella è a navata unica, coperta con volta a padiglione lunettata e illuminata da una trifora a lunetta semicircolare sulla parete di destra e da due
aperture circolari nella volta. Quest'ultima venne decorata da Perin del Vaga a partire dal 1542 e successivamente più volte modificata; il suo aspetto
attuale è dovuto agli interventi del 1935-1936 e vede, incorniciati da stucchi, otto affreschi di Federico Zuccari, quattro tondi e quattro vele,
raffiguranti Scene della vita degli apostoli Pietro e Paolo e, al centro, la Gloria di san Paolo. Dello stesso autore è l'affresco della lunetta della controfacciata,
raffigurante la Liberazione di san Pietro dal carcere.
Ai lati del portale d'accesso, a ridosso della controfacciata, si trovano a sinistra un confessionale ligneo intagliato del XX secolo e, a destra, una
preziosa acquasantiera; quest'ultima venne donata nel 1877 dalla Guardia nobile a papa Pio XI ed è costituita da un basamento in marmo nero
di Aquitania sul quale poggiano due putti in bronzo che reggono una vasca in marmo rosso antico di Turchia.
Ai quattro angoli delle pareti della navata trovano luogo quattro coppie di angeli dadofori, in stucco, realizzati tra il 1580 e il 1581 da Prospero Antichi. Le
pareti sono decorate con affreschi; mentre in controfacciata si trova un trompe-l'œil raffigurante una finta architettura, opera di Annibale Angelini, le due
pareti laterali presentano ciascuna tre affreschi intervallati da lesene corinzie scanalate: gli affreschi della parete di destra sono incentrati sulla figura
dell'apostolo Pietro e raffigurano al centro la Crocifissione di san Pietro di Michelangelo (1546-1550), verso la controfacciata la Caduta di Simon Mago di
Lorenzo Sabatini (1573-1576) e verso il presbiterio il Battesimo del centurione Cornelio di Federico Zuccari (1580-1585 circa); gli affreschi della parete di
sinistra, invece, sono incentrati sulla figura dell'apostolo Paolo e raffigurano al centro la Conversione di Saulo di Michelangelo (1542-1545), affiancata dai
due dipinti di Lorenzo Sabatini (1573-1576) Lapidazione di santo Stefano verso la controfacciata, e Battesimo di Paolo in casa di Anania verso il presbiterio.
In un periodo caratterizzato dal costante pensiero della morte Michelangelo eseguì gli affreschi della cappella Paolina. La scelta dei soggetti rimandava
duplicemente alla figura del committente, papa Paolo III: il nome del papa era simbolo della sua devozione verso san Paolo, mentre il suo ruolo di pontefice
massimo rimandava a san Pietro. L'affresco della conversione di Saulo stabiliva quindi un parallelismo tra l'elezione del papa ad opera del conclave e la
chiamata di Saulo, avvenuta per l'intervento diretto di Cristo. A ciò si contrapponeva, con la crocifissione di san Pietro, l'immagine del martirio come
conseguenza radicale della vita apostolica al servizio di Gesù.

Bramante
1502 Tempietto di Santa Maria in Montorio
Il Tempietto del Bramante fu “incastrato” nel cortile del monastero di San Pietro in Montorio: si tratta di un
minuscolo edificio, costruito perfettamente, basato sul progetto del Tempio di Vesta in Tivoli. L’ influenza del
Tempietto è stata incalcolabile: dalla sua idea è venuta l’ispirazione non soltanto per la cupola di Michelangelo
per la Basilica di San Pietro in Vaticano. Il Tempietto divenne anche un esempio per altri architetti, quali il
Palladio, che catalogò l'edificio del Bramante con quelli dell’ antichità.
Il passaggio dal Primo Rinascimento all’Alto Rinascimento è chiaramente dimostrato nel Tempietto del
Bramante del 1502. Questa cappella fu progettata con un cerchio di colonne tutt’intorno; il Tempietto faceva
parte di un cortile interno della chiesa di San Pietro in Montorio, come mostrato nella pianta seguente.
Purtroppo le colonne che circondavano il Tempietto non furono mai costruite e, di conseguenza, esso appare
molto più isolato di quanto sarebbe stato se il progetto fosse stato completato come disegnato. In quel
progetto il Bramante intendeva posizionare il Tempietto in uno spazio esterno già esistente e già pronto per
ricevere tale edificio, un concetto piuttosto radicale e audace quanto il Tempietto stesso. Infatti, il suo
nomignolo sembra ben meritato e molto appropriato: nei tre gradini a piattaforma e nel severo ordine dorico
della colonne il Tempietto è collegato e porta alla mente più di qualunque altro edificio del quindicesimo
secolo, l’architettura classica. Ugualmente brillante e stupefacente è il principio del concetto del “muro a
scultura” sia nel Tempietto che nel terrazzo interno della chiesa. Infatti non furono mai viste nicchie così
profonde, scavate da masse enormi di materiali, fino dai tempi del Brunelleschi in Santa Maria degli Angeli.
Queste cavità furono controbilanciate dalla forma convessa della cupola e dalle cornici proiettanti al di là della
cupola stessa.
Come risultato finale, il Tempietto ebbe molto più peso e influenza di quanto sia racchiuso nelle sue modeste
dimensioni.
Lo scopo del progetto del Tempietto fu soltanto quello di indicare il luogo in cui San Pietro fu crocifisso. Il Bramante preferì usare la sua cognizione di prospettiva e volume per
creare questo elegante ed armonioso edificio. Egli ridisegnò anche il cortile circostante, ma il suo progetto non fu mai portato a termine. Il Tempietto è una costruzione circolare
a gradinate che conducono a delle colonne doriche e da lì ad una balaustrata, ad un delizioso tamburo e ad una cupola elegantissima. Qui, infine, si trova un edificio che parla di
ragione e di civiltà, piuttosto che di paura e dominazione religiosa.
Naturalmente le intolleranze religiose continuarono ma l’architettura fece del suo meglio per guardare o dirigere verso un mondo più civile di quello ordinato dalla Chiesa
all’inizio del sedicesimo secolo. Questo gioiello in miniatura si trova in San Pietro in Montorio (così detto da Mons Aureus per la marna dorata caratteristica del suo terreno), la
chiesa dedicata al martirio dell’Apostolo. Oltrepassando la porta del convento appare la costruzione, solitaria e monumentale nonostante le sue piccole dimensioni: suscita nel
visitatore un che di misterioso per quel suo aspetto di antico guerriero racchiuso tutto in se stesso, imprigionato nella sua splendida armatura. Forse si trova lì a g uardia di un
segreto, viene da pensare. Definito “la prosa dei princìpi architettonici di Vitruvio”, dato che Bramante aveva studiato sia le opere del grande architetto romano del primo
secolo a.C. che le possenti e regali rovine dell’antica Roma, in realtà esso non ha nulla di teorico né tanto meno di canonic o, esprime solamente la felice vena creativa di un
pittore-architetto cinquecentesco che seppe dare ai suoi edifici rapporti coloristici di chiaroscuro liricamente accordati e mai visti prima. Ora il piccolo guerriero di pietra appare
stretto, quasi prigioniero dell’angusto spazio del cortile e ciò che di lui subito cattura l’attenzione sono le colonne, le sue forti gambe piantate a corona del minuscolo portico
che si dispongono in luce rispetto alla penombra avvolgente il corpo cilindrico del guerriero-tempio, risaltando sul vano d’ombra della porta d’entrata e delle finestre.
L’intera robusta costruzione è sottolineata e nello stesso tempo alleggerita dallo sporgere delle cornici e soprattutto dalla balaustra disposta con rigore simmetrico e dal chiaro
effetto luminoso, pronta a ripetere il ritmo delle sottostanti sedici colonne doriche che sostengono la trabeazione. Il tamburo che ne emerge, scandito da nicchie rettangolari
alternate ad altre in forma di conchiglia, sorregge la calotta della cupola percorsa da nervature appena accennate, come un elmo leggero posato sul capo di un immaginario
guerriero. Il lanternino che ne orna l’apice sembra dare l’illusione, per la sua grandezza, che il tempio sia più basso di qu el che in realtà è, confermando l’intenzione dell’autore
di rendere solido e possentemente stabile il Tempietto. Nonostante ciò, l’insieme trasmette tutto il pacato equilibrio di forme classiche raccolte e racchiuse, appena agitato e
pronto a risolversi in una più mossa e ardita soluzione, presagio delle ideazioni del futuro barocco. La “pittorica corposità spaziale” del Bramante rappresentò l’anello di
congiunzione alla geniale bizzarrìa del Borromini.

1505 progetto nuova San Pietro Il suo Progetto 1 è una cupola, gigantesca, assertiva, immane, da cui si emana il corpo stesso della
Basilica, in cui le masse murarie sono distribuite secondo un armonico sistema a cascata di volte che
indirizza carichi e spinte, progressivamente frazionati, dall’alto verso il basso e dal centro verso
l’esterno: ogni elemento murario, ogni spazio vuoto – anche il più periferico e subordinato – ha il suo
specifico ruolo di sostegno statico.
Affinché tutto si reggesse in piedi, Bramante concepì progetto basato sulla contrapposizione dinamica di
masse, per ricercare l’equilibrio attraverso l’aumento degli spessori di muri e volte in reciproco
contrasto di spinta e controspinta, di peso e contrappeso.
Per realizzare tutto ciò, l’artista, studiando a fondo l’architettura romana, decise di riutilizzare in grande
stile il calcestruzzo, che avrebbe permesso, ad esempio, di realizzare le grandi volte a botte dei bracci
della croce : di conseguenza, i suoi muri non sono leggiadri e snelli, come quelli dell’architettura
fiorentina, ma masse tozze e informi, la cui pianta deriva in negativo dalla sottrazione delle cavità degli
spazi interni; la geometria non serve perciò a disegnare delle strutture piene, come facevano Leon
Battista Alberti o Francesco di Giorgio Martini, ma a scavare dei vuoti in una massa muraria virtualmente
piena, quasi fosse un blocco di argilla. Di fatto, Bramante, che probabilmente in vita sua non aveva mai
tenuto in mano uno scalpello, concepisce, in maniera assai più spinta di Michelangelo, l’architettura
come massima espressione della scultura.

Ma come si sarebbe retta in piedi la colossale cupola, più grande di quella del Pantheon, per evitare che facesse la fine di quella di Loreto ? Ispirato alla sua esperienza milanese
e all’esempio della chiesa di San Lorenzo, Bramante adottò la soluzione statica della base a ottagono irregolare. Impostandovi sopra la cupola, i pennacchi sferici si trasformano
da triangoli in trapezi, a differenza di quanto avviene nelle basiliche quattrocentesche, che di solito utilizzano una base q uadrata: di conseguenza, l’aggetto dei pennacchi si
riduce di molto.
Così il carico della cupola cade in gran parte sul vivo dei pilastri e non in falso sui pennacchi – che staticamente sono delle mensole – contrappesando per giunta
la spinta dei quattro arconi di crociera. Dal punto di vista formale l’ottagono irregolare rende inoltre la crociera più avvolgente di una quadrata, offrendo quattro
pareti oblique rivolte al fulcro devozionale, l’altare maggiore, che copre la tomba di Pietro. Di lì, alzando lo sguardo, il fedele avrebbe ammirato non una semplice
calotta, ma una vera e propria rotonda cupolata, sollevata in aria dai quattro trapezi, metafora della Gerusalemme Celeste, c he si contrapponeva, nella sua aerea
levità, al vanitoso e transitorio trionfo della vanità umana, rappresentato dal mausoleo papale nel coro.

Raffaello
1504 Sposalizio della Vergine
Il Sommo Sacerdote, al centro del dipinto tiene la mano destra di San Giuseppe e di Maria. I due sposi sono in
piedi ai lati dell’officiante. A sinistra, San Giuseppe offre un anello a Maria che porge la mano. San Giuseppe è
vestito con un lungo e sobrio abito blu scuro con un mantello giallo arancio. I suoi capelli sono corti e scendono
sul collo. Sul mento cresce poca barba e la fisionomia è quella di un uomo maturo. Inoltre, con la mano sinistra,
regge un ramoscello fiorito. La Vergine ha un aspetto molto giovane. I capelli sono raccolti da una acconciatura
modesta. Inoltre, un nastro trasparente è avvolto sulla nuca. Maria indossa un abito rosso, bordato di blu e
scollato che arriva fino ai suoi piedi. Un mantello blu scuro avvolge quasi tutta la figura. Il sacerdote, invece,
veste un ampio abito cerimoniale con decorazioni dorate. Il suo viso anziano è incorniciato da una lunga barba
suddivisa in due parti. A destra, un ragazzo spezza un ramoscello contro il ginocchio. Inoltre, altri quattro giovani
dietro a Giuseppe portano dei sottili ramoscelli secchi. A sinistra, invece, cinque ragazze accompagnano Maria.
Sono abbigliate con vesti cinquecentesche. Infine, sul fondo, al centro, si erge un tempio classico a pianta
centrale. Il peristilio è composto da sottili colonne che reggono archi a tutto sesto. L’edificio poggia su una
gradinata che lo innalza. L’ingresso frontale apre sull’infinito. Alcuni gruppi di persone, sono disposti a destra e a
sinistra. Sotto il colonnato circolare si nota una figura isolata a sinistra e due figure a destra. Ai lati del dipinto si
apre il paesaggio. Ne lo Sposalizio della Vergine, soprattutto rispetto alle architetture, la bellezza ideale si
manifesta come amore per i rapporti geometrici ordinati. È un modo per ricordare la struttura universale
armonica e la perfezione divina.
Il dipinto di Raffaello rappresenta un episodio dei vangeli apocrifi. Infatti, dell’evento non si trova notizia nei
quattro vangeli canonici. La narrazione si concentra sulla figura della giovane Maria che visse la sua adolescenza
nel tempio di Gerusalemme. La giovane si era distinta grazie alla sua bravura nel ricamo. Venne, quindi, il tempo
del matrimonio. Maria non riusciva a scegliere uno sposo tra i pretendenti. Così, in suo aiuto, il Sommo
Sacerdote distribuì ad ogni giovane un ramo in attesa di un segno divino. Il ramo che fiorì fu quello di Giuseppe,
il più anziano tra i ragazzi.
In realtà, nel racconto non viene specificata la sua età spesso interpretata dagli artisti come molto avanzata.
Raffaello lo raffigurò, infatti, come un giovane uomo, non come un vecchio. Gli altri ragazzi mostrano i loro rami
privi di vita. Il giovane sulla destra rompe il suo contro il ginocchio. Il centro prospettico si trova al centro delle
porte del tempio che danno sul paesaggio. Simbolicamente, la prospettiva si apre, quindi, verso l’infinito.
Raffaello nel dipingere Lo sposalizio si dimostra ormai pienamente autonomo rispetto al suo maestro Perugino.
Infatti, non imita più la natura, ma crea, un modello perfetto che va oltre la realtà. Raffaello è, quindi, artefice
del bello ideale.
I personaggi che Raffaello dipinse rappresentano una mediazione tra lo studio della natura e i modelli classici che il pittore studiò attentamente. Nella costruzione del tempio e
dello spazio prospettico Raffaello utilizzò invece gli studi degli architetti del Quattrocento, quali Leon Battista Alberti. Le posizioni dei personaggi sono particolarmente eleganti
come di tradizione per i quadri di Raffaello. Inoltre, le vesti sono morbide, avvolgono i corpi modellandoli e ricadono con eleganti panneggi. Infine, i volti sono ideali, come in
tutti i lavori di Raffaello, e quasi perfettamente ovali.
I colori dell’opera sono saturi, brillanti e autonomi rispetto ai diversi elementi della scena. Prevalgono così i rossi degli abiti, il giallo del mantello di Giuseppe e il blu di quello
della Vergine. L’ambiente è poi condizionato dall’ocra che decora il lastricato e colora il tempietto. I colori freddi sono infine riservati allo sfondo, alle colline e al cielo. La luce
che avvolge la scena è particolarmente calda, pomeridiana. Lo rivelano, infatti, le ombre proiettate ai piedi dei pers onaggi. La scena è rappresentata con una rigorosa
prospettiva geometrica. Il punto di fuga si trova infatti in corrispondenza delle due aperture sovrapposte al centro del tempio circolare. Lo sposalizio si svolge nello spazio
esterno, antistante l’edificio religioso rappresentato sul fondo. Infine, i personaggi dipinti verso lo sfondo sono di grandezze progressivamente minori e s ono distribuiti in modo
da dare una chiara lettura dello spazio prospettico geometrico. Alla lettura geometrica dello spazio contribuiscono anche i rettangoli dipinti nel pavimento antistante il tempio.
Le decorazioni si susseguono poi in maniera rigorosamente prospettica. Il paesaggio, oltre il tempio, è minimale e presenta una natura appena accennata, ma già con un inizio di
prospettiva aerea.Il dipinto di forma rettangolare è sviluppato in verticale e l’inquadratura centrale valorizza il gruppo di figur e in primo piano e il tempio. La struttura del
tempietto è circolare e sembra ruotare ai confini della piazza. Costituisce, quindi, il centro ideale della composizione. Le figure hanno un andamento ritmico circolare che
sembra creare una parabola inversa rispetto alla circolarità del tempio.
La congiunzione delle mani dei due personaggi, la Vergine e San Giuseppe, crea il punto di unione tra le due parti del gruppo. Le ali di personaggi sono, così, simmetriche e unite
al centro dal Sommo Sacerdote che celebra lo sposalizio. I personaggi, che Raffaello rappresenta all’interno della scena, sono organizzati in modo gerarchico. Allo stesso modo
l’artista realizzò, poi, anche gli elementi della struttura architettonica del tempio.

1506 Ritratto di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi

Agnolo Doni: il soggetto è ritratto a mezza figura, seduto su un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama naturale. Il taglio è estremamente monumentale e
il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso destra e lo sguardo rivolto verso lo spettatore, è caratterizzato da u na sciolta naturalezza. Acuta è la rappresentazione dello
sguardo, che dimostra l'interesse del pittore verso la psicologia.
La sua condizione di ricco borghese è infatti testimoniata, oltre che dalla ricercatezza dell'abito dagli anelli alle mani, dallo sguardo sicuro e diretto. La berretta scura e i capelli
lunghi, di colore castano, incorniciano il volto, in cui il dato fisico è trattato con estrema fedeltà e cura, secondo i modelli nordici filtrati da Perugino e da altri artisti italiani. Il
segno minuto del pennello si manifesta ad esempio nei sottilissimi capelli crespi. Le maniche rosse della veste, ampie e di pesante stoffa, escono da una casacca scura, tenuta in
vita da una cintura, mentre ai polsi e al collo sporge la camicia bianca. I dettagli tuttavia non rubano mai la scena al fulc ro del dipinto, che è il volto del protagonista e il suo
stato d'animo, grazie anche alle impercettibili linee di forza e al gioco di contrasti tra chiaro e scuro, che esaltano il vi so. Le colline ad esempio degradano da sinistra verso
destra, assecondando la linea di forza che va dal collo di Agnolo Doni all'avambraccio sinistro. Due nuvolette in cielo bilanciano ad arte gli angoli vu oti del dipinto. I colori, sia
nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaello in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e d'effetto. Sul retro dei due ritratti si trova
una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, in particolare il diluvio inviato dagli dei, attribuito a un tardo seguace del Sanzio.
Maddalena Strozzi: iI ritratto raffigura la donna seduta su un balcone che rivela, oltre il parapetto, un magnifico panorama, che nel progetto or iginario era invece un interno. Il
taglio è estremamente monumentale e il personaggio, ritratto col busto di tre quarti verso sinistra e la testa girata verso lo spettatore, è caratterizzato da una sciolta
naturalezza. L'opera, nell'impostazione generale, è palesemente ispirata alla Gioconda (che Raffaello ebbe la possibilità di vedere in quegli anni) ma sicuramente manca di ogni
evocazione allusiva o misteriosa tipica della ritrattistica di Leonardo da Vinci, prediligendo la rappresentazione fedele delle caratteristiche umane: infatti la figura si impone
come presenza fisica, col viso pieno, con lo sguardo rivolto all'esterno, ben consapevole del prestigio del suo rango sociale.
Raffigurata in sontuose vesti, indossa preziosi gioielli che attestano le sue virtù. La collana portata con fierezza è un gio iello in cui incastonate tre pietre differenti, ognuna con
un suo preciso significato: lo smeraldo indica la castità, il rubino indica la carità, lo zaffiro indica la purezza; la grossa perla della collana, a forma di goccia, è infine simbolo di
fedeltà matrimoniale. Il vestito è tipico della moda dell'epoca, con ampie maniche estraibili, di c olore azzurro e con damascature visibili in controluce: esempi pressoché identici
si trovano anche nei ritratti raffaelleschi della Gravida e della Dama col liocorno. Quest'ultima è stata identificata da qualche storico come la vera Maddalena Strozzi, ipotesi per
lo più scartata. Sulle spalle indossa un sottile velo trasparente.
Il dipinto, pur inserendosi nel preciso contesto della ritrattistica rinascimentale, rinuncia a raffigurare i "moti dell'animo", le caratteristich e spirituali e della personalità della
donna raffigurata, per dare spazio a una figura più idealizzata e meno realistica rispetto a quella del ritratto del marito Agnolo Doni, come si conveniva ai ritratti femminili,
evidenziando l'elevato status sociale. Il paesaggio collinare è tipico della scuola umbra, con dolci colline che sfumano in lontananza, punteggiate da segni della presenza umana
e da alberelli fronzuti.I colori, sia nella figura che nello sfondo, sono esemplari delle ricerche di Raffaello in quegli anni, intonandosi a gradazioni sempre più corpose e
d'effetto.Sul retro dei due ritratti si trova una rappresentazione a monocromo del mito di Deucalione e Pirra, attribuito a un tardo seguace del Sanzio; in particolare in questa
tavola si vede il salvataggio dei due dal diluvio inviato dagli dei.

1506 Madonna del Belvedere


Immersi in un ampio paesaggio lacustre, dall'orizzonte particolarmente alto, si trovano la Madonna seduta, che
regge tra le gambe Gesù Bambino, il quale sembra muovere i primi passi incerti della fanciullezza, e san
Giovannino che, inginocchiato a sinistra, offre la croce astile, suo tipico attributo, al gioco dell'altro fanciullo. Nel
gesto di Gesù che afferra la croce c'è un richiamo al destino del suo martirio.
La composizione, sciolta e di forma piramidale, con i protagonisti legati dalla concatenazione di sguardi e gesti,
deriva con evidenza da modelli leonardeschi, come la Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, ma se ne
distacca sostituendo, al senso di mistero e all'inquietante carica di allusioni e suggestioni, un sentimento di calma e
spontanea familiarità. Al posto dei "moti dell'animo" reconditi, Raffaello mise in atto una rappresentazione
dell'affettuosità, dove è ormai sfumata anche la tradizionale malinconia della Vergine, che premonisce il destino
tragico del figlio.
Maria ha una posa contrapposta, con la gamba destra distesa lungo una diagonale, che trascina con sé il manto
azzurro bordato d'oro; alla massa azzurra si contrappone quella rossa della veste. Il rosso rappresentava la Passione
di Cristo e il blu la Chiesa, per cui nella Madonna vi era sottintesa l'unione della Madre Chiesa c on il sacrificio di suo
Figlio. Il suo busto è quindi ruotato verso destra, ma la testa e lo sguardo si dirigono invece in basso a sinistra, verso
i fanciulli. Il sole è sostituito dal volto della Vergine, che irradia il paesaggio circostante. È presente una netta linea
di contorno tra i personaggi e il paesaggio che, a differenza della pittura leonardesca, viene posto in secondo piano.
Tra le varie specie botaniche raffigurate con cura, un altro stilema derivato da Leonardo, spicca a destra
un papavero rosso: il colore, anche in questo caso, è un riferimento alla Passione, morte e resurrezione di Cristo.
1506 Madonna del cardellino
Immersi in un ampio paesaggio fluviale dall'orizzonte contornato da alberelli e da un ponte a sinistra, si trovano la
Madonna seduta su una roccia, che regge tra le gambe Gesù Bambino, mentre san Giovanni, abbracciato dalla
Vergine, è a sinistra. I due fanciulli giocano con un cardellino (Giovanni lo regge e Gesù lo accarezza), che
simboleggia la Passione di Cristo.
La composizione, sciolta e di forma piramidale, con i protagonisti legati dalla concatenazione di sguardi e gesti,
deriva con evidenza da modelli leonardeschi, come la Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, ma se ne
distacca sostituendo, al senso di mistero e all'inquietante carica di allusioni e suggestioni, sentimenti di serena
dolcezza, calma spiritualità e spontanea familiarità, ben più affabile per chi osserva. Al posto dei "moti dell'animo"
reconditi, Raffaello mise in atto una rappresentazione dell'affettuosità, dove è ormai sfumata anche la tradizionale
malinconia della Vergine, che premonisce il destino tragico del figlio. In questo caso poi lo schema a piramide è
particolarmente semplificato, con l'effetto di amplificare la massa volumetrica del gruppo, anche grazie
al chiaroscuro più intenso.
Maria ha le gambe e il busto ruotate verso destra, mentre con la testa e lo sguardo osserva in basso a sinistra, verso
il fulcro dell'azione tra i due fanciulli. Il suo busto emerge sul paesaggio, quasi a dominarlo con la grandezza delle
sue delicate forme. Alla massa azzurra del manto si contrappone quella rossa della veste: il rosso rappresentava
la Passione di Cristo e il blu la Chiesa, per cui nella Madonna vi era sottintesa l'unione della Madre Chiesa con il
sacrificio di suo Figlio. Nella sinistra tiene un libro in mano (da cui l'epiteto Sedes Sapientiae), in cui legge le profezie
sul destino del figlio, e il suo atteggiamento richiama quindi l'interruzione della lettura per rivolgere teneramente il
suo sguardo verso i bambini. Gesù poggia il piedino su quello della Madonna, riparandosi tra le sue ginocchia, da
alcuni letto come una citazione della Madonna di Bruges di Michelangelo.
A Leonardo rimandano anche il bruno del terreno, punteggiato da specie botaniche indagate con cura, e la resa
atmosferica del paesaggio di fondo, che si perde nei vapori della lontananza. I volti del Battista e di Cristo recano
un'impronta inconfondibilmente leonardesca nello sfumato che li avvolge e nei tratti somatici dallo studio dal vero.
Nei movimenti eleganti, le proporzioni delicate, i volti aulici e gentili, Raffaello raggiunse un equilibrio formale e un
ideale di bellezza che certifica la raggiunta maturità stilistica.

1507 Bella giardiniera Immersa in un ampio paesaggio lacustre dall'orizzonte particolarmente alto, punteggiato da alberelli e da segni della
presenza umana, si trova la Madonna seduta su una roccia, con appoggiato alle gambe Gesù Bambino; san
Giovannino si trova inginocchiato a destra, mentre dirige uno sguardo intenso a Gesù.
La composizione, sciolta e di forma piramidale, con i protagonisti legati dalla concatenazione di sguardi e gesti,
deriva con evidenza da modelli leonardeschi, come la Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, ma se ne
distacca sostituendo, al senso di mistero e all'inquietante carica di allusioni e suggestioni, un sentimento fresco di
calma e spontanea familiarità. Al posto dei "moti dell'animo" reconditi, Raffaello mise in atto una rappresentazione
dell'affettuosità, con l'abbraccio tra madre e figlio e le carezze di quest'ultimo sul ginocchio di lei, mentre il Battista
si genuflette con rispettosa devozione. A Leonardo rimandano anche il bruno del terreno, punteggiato da specie
botaniche indagate con cura, e la resa atmosferica del paesaggio di fondo, che si perde nei vapori della lontananza.
Ricordano invece Michelangelo alcuni dettagli come il piedino di Gesù su quello della madre, presente anche nella
statua della Madonna di Bruges.
Le pose delle figure sono attentamente studiate a "contrapposto". Maria è ruotata verso sinistra e fa per abbracciare
con naturalezza il figlio, il quale si allunga per prendere il libro che essa ha in grembo. Gesù mostra un elegante
classicismo, con rimandi alla scultura dell'epoca come la Madonna di Bruges di Michelangelo.
La complessità stilistica, testimoniata da alcuni disegni preparatori in cui venne definita con cura la composizione,
non intacca mai l'estrema cordialità e piacevolezza del tema. A tal proposito scrisse la Brizio: «[Raffaello è] al tempo
stesso il pittore più apprezzato dagli accademici per la sua scienza compositiva e bella armonia e il più popolare,
perché i semplici nelle sue Madonne ritrovano abbellita l'espressione dei propri sentimenti più naturali e più cari».
1507 Pala Baglioni
Deposizione borghese, lo somparto principale della Pala Baglioni. Tre uomini stanno portando il corpo morto
di Gesù nel sepolcro a sinistra. Essi sono rappresentati inarcati dallo sforzo di trascinare il pesante corpo
senza vita e sono ritratti con espedienti che amplificano il senso del movimento (come l'espediente di far
salire i gradini alle figure di sinistra) e le espressioni concitate. In particolare spicca il giovane al centro della
composizione, assente nei Vangeli, che è un ritratto del defunto Grifonetto Baglioni. Dietro spunta San
Giovanni Evangelista con le mani giunte (ispirato a figure di Perugino), mentre al centro di questo gruppo
spicca Maria Maddalena dolente, con i capelli al vento, colta nel pietoso gesto di tenere la mano di Gesù
accompagnandolo al sepolcro. Il suo volto è quello di Zenobia Sforza, moglie di Grifonetto. Gli altri due
uomini sono Giuseppe d'Arimatea a sinistra e Nicodemo tra San Giovanni e Maria Maddalena che guarda lo
spettatore.
A destra si trova il gruppo delle pie donne che sostengono la Vergine Maria svenuta, tenuta alla vita dalla
donna dietro di lei, mentre una le regge il capo reclinato sulla spalla e l'altra inginocchiata allunga le braccia
per sostenerla. Il volto della Madonna è quello di Atalanta Baglioni, la madre di Grifonetto, che commissionò
questo dipinto a Raffaello. La donna in ginocchio ha un movimento "a serpentina", ispirato al Tondo Doni di
Michelangelo. Altri echi michelangioleschi si colgono nel corpo abbandonato di Gesù, simile a quello
della Pietà vaticana e nel vestito giallo e verde di Nicodemo, che si ispirò alla torsione dell'incompiuto San
Matteo del Buonarroti.
I due gruppi principali sono raccordati dal giovane trasportatore con il volto di Grifonetto, che si proietta
all'indietro.
Lo straordinario paesaggio asseconda ritmicamente la composizione: se l'oscuro sepolcro nella roccia aiuta a
stagliare i personaggi a sinistra, a destra le figure sono davanti alla collina del Golgota, mentre al centro la
veduta si apre con ampio respiro su una veduta di colline punteggiate dalla presenza umana, con
l'immancabile specchio d'acqua e con lontane montagne azzurrine, velate di foschia. In primo piano le
pianticelle rappresentate con cura rimandano all'esempio di Leonardo da Vinci.
Straordinaria è la ricchezza dei colori, quasi smaltati, così come la plasticità data dal forte chiaroscuro, che dà
alle figure una monumentalità statuaria, e la concatenazione di gesti, sguardi e attitudini, che ne fanno uno
dei capolavori dell'artista. Di grande effetto è la resa dei corpi umani nelle svariate posizioni, con attenzione
alla resa anatomica, ma anche all'armonia e alla varietà.
1507-08 Madonna del baldacchino
Si tratta di una sacra conversazione organizzata attorno al fulcro del trono della Vergine coperto da
baldacchino retto da angeli, con un fondale architettonico composto da un'abside semicircolare,
grandioso ma tagliato ai margini, in modo da amplificarne la monumentalità. Da sinistra si vedono i
santi Pietro, Bernardo di Chiaravalle, Giacomo maggiore e Agostino. Due angioletti si trovano alla
base del trono e leggono l'iscrizione su un cartiglio.
Lo schema è simmetrico, raggruppato attorno all'alto trono, ma ogni staticità appare annullata
dall'intenso movimento circolare di gesti e sguardi, esasperato poi negli angeli in turbolento volo,
accuratamente scorciati, ispirati a quelli della Pala degli Otto di Filippino Lippi. Sant'Agostino ad
esempio allunga un braccio verso sinistra invitando lo spettatore a percorrere con lo sguardo lo
spazio semicircolare della nicchia, legando i personaggi uno per uno, caratteristica che a breve si
ritroverà anche negli affreschi delle Stanze vaticane. La luce che proviene da sinistra esalta la
plasticità delle figure, rispetto alla "mandorla" d'ombra creata dai drappi rigonfi del baldacchino.
Dolce è il gesto del Bambino, che gioca col proprio piedino.

1508-11 Stanza della Segnatura (Scuola di Atene, Disputa sul Sacramento, Paranso)

Disputa sul Sacramento (Teologia): Gesù è seduto al centro con le braccia aperte. Alla sua destra siede Maria mentre a sinistra San Giovanni Battista. Più in alto invece Dio Padre
benedice tenendo con la sinistra un globo. In basso invece si libra una colomba bianca. Intorno a lui si distribuiscono gli a ngeli mentre in basso siedono gli apostoli e i Santi. In
basso ai lati dell’altare dove si trova il Santo Sacramento sono raffigurati invece i Padri della Chiesa. Ai loro lati sono s eduti diversi personaggi storici che discutono
animatamente. Infine sui gradini sono sparsi alcuni volumi. Il titolo di questo grande affresco di Raffaello secondo gli studiosi dovrebbe essere il Trionfo della Religione. Infatti
nell’affresco è rappresentata la struttura dottrinale della Chiesa. Dio Padre, Gesù e lo Spirito Santo sotto forma di colomba sono allineati sulla verticale centrale a formate la SS.
Trinità. La Chiesa Trionfante è rappresentata a livello di Cristo da martiri, Santi, apostoli e patriarchi e profeti dell’Antico Testamento. Ai lati di Gesù, a partire da sinistra sono
riconoscibili: S. Pietro, Adamo, S. Giovanni Evangelista, Davide, S. Lorenzo, Giuda Maccabeo (?), S. Stefano, Mosè, S. Giacomo Maggiore, Abramo e S. Paolo. In basso al suolo, ai
lati dell’altare, invece è dipinta la Chiesa Militante. S. Gregorio Magno (con i tratti di Giulio II), S. Girolamo, S. Ambrogio e S. Agostino i Padri della Chiesa Latina sono seduti su
troni di marmo ai lati dell’altare. Inoltre sono presenti anche personaggi storici quali Sisto IV e Dante Alighieri a destra e fra’ Beato Angelico a sinistra.
Il grande affresco realizzato da Raffaello ricopre funzione religiosa. In questo dipinto si nota l’influenza di Michelangelo. La Disputa del Santo Sacramento è un dipinto equilibrato
tra toni caldi e freddi. Nel grande affresco risaltano in primo piano i rossi e i blu delle vesti.L’opera di Raffaello presenta una composizione quasi architettonica. È costruita infatti
attraverso la contrapposizione di due semicerchi. In alto il semicerchio sul quale sono disposti Cristo e i Santi. In basso, invece, si trova quello terreno nel quale è disposta la
schiera di dottori e sapienti. La struttura riprende quella del tamburo della cupola. Infatti, si divide in spicchi e veli ch e trovano esatta corrispondenza nel semicerchio in alto e in
quello in basso. Probabilmente, fu l’ultimo ad essere realizzato all’interno della stanza della segnatura da Raffaello, dei Palazzi Vaticani. Si trova sulla parete opposta d ella Scuola
di Atene.

Scuola di Atene (Filosofia): La Scuola di Atene dipinta da Raffaello Sanzio celebra il sapere umano e la conquista del bello. Papa Giulio II incaricò il maestro di rappresentare una
scena ambientata nel mondo classico per indicare le radici della civiltà romana. La lunetta che raffigura La scuola di Atene rappresenta un grande edificio classico. In primo
piano Raffaello dipinse un pavimento decorato con quadrati regolari. Su di esso si innalza una gradinata e da questa alcune architetture clas siche con archi, soffitti a botte
decorati con lacunari e nicchie contenenti statue. Sotto le nicchie sono dipinti dei bassorilievi classici. Gli edifici creano una scenografia simmetrica con al centro uno
sfondamento verso il cielo azzurro attraversato da nuvole bianche.
Nella scena vi sono scienziati e intellettuali contemporanei a Raffaello e appartenenti al mondo classico. I protagonisti dipinti al centro contro il cielo sono i filosofi Platone e
Aristotele. Platone ha un braccio alzato e con una mano indica il cielo. Si tratta di un riferimento al mondo delle idee che furono l’oggetto del suo studio. Aristotele invece ha il
braccio alzato di fronte a sé e il palmo della mano rivolto verso il basso. Con questo gesto il filosofo indica il suo interesse per l’esperienza e la natura. Il significato del grande
affresco di Raffaello è quello di celebrare la civiltà romana e il papato come erede della cultura della classicità. Alcuni personaggi hanno un asp etto che ricorda gli artisti
contemporanei di Raffaello. Platone ricorda Leonardo mentre Michelangelo impersona Eraclito. La scuola di Atene secondo il programma di Papa Giulio II doveva rappresentare
la filosofia. L’intera stanza doveva indicare i valori del bene, del vero e del bello. In particolare l’immagine doveva indicare l’unica via con la quale l’uomo può arrivare al bene e
quindi a Dio. Le statue che si vedono dipinte all’interno delle nicchie sono a sinistra Apollo e a destra Minerva. I due personaggi mitologici rappresentano la ragione.L’artista fu
così incaricato di decorare quattro stanze che componevano l’appartamento privato al secondo piano del palazzo pontificio.La prima stanza degli appartamenti vaticani era
chiamata della segnatura. In questo ambiente infatti si apponevano le firme dei documenti ufficiali. Il termine deriva dal la tino signum cioè firma. La decorazione comprendeva
l’intera volta e quattro grandi lunette con temi cristiani e di carattere mitologico di storia antica. Raffaello è comunemente considerato l’artista che perseguì il bello ideale. I
personaggi sono dipinti con pose misurate, classiche ed eleganti. Il chiaroscuro è leggero ma funzionale a creare delle figure solide e tridimensionali.I colori del fondo sono
chiari, ocra e azzurro per il cielo. Le architetture non possiedono chiaroscuri profondi e le ombre sono molto leggere. I contrasti quindi sono appiattiti e danno la possibilità di
far emergere le figure dipinte contro il fondale. I personaggi emergono quindi per i loro colori saturi contro i colori leggeri e ingrigiti che li circondano.
L’ambiente architettonico è costruito con l’uso di una solida prospettiva geometrica. Le figure di artisti e filosofi sono infatti distribuite all’interno di uno spazio prospettico che
le ordina favorendo la loro collocazione. La scenografia creata per La scuola di Atene condiziona in modo fortemente simmetrico e prospettico l’intera scena. Il punto di vista
basso rende inoltre monumentale tutta la composizione. Il movimento è dato dalle posture dei personaggi e dalle loro interazi oni. Raffaello utilizzò le masse dei personaggi
contro l’impianto prospettico e centrale della composizione per sottolineare la simmetria e creare un equilibrio compositivo. In primo piano centralmente si notano le due
figure sedute sulla scalinata e affiancate, a destra e a sinistra da gruppi di personaggi. Sulla scalinata ai lati vi sono pochi personaggi dipinti e altri si affollano lateralmente verso
il centro. Sotto l’arco che incornicia il cielo la composizione è centrata sulle figure di Platone e Aristotele. Anche il punto di fuga centrale si trova al centro di questi due
personaggi.

Parnaso (poesia): affresco che celebra la cultura umanistica affiancando le figure del mito a quelle di grandi autori del passato. All’interno di un paesaggio naturale su di
un’altura dalla quale scaturisce un ruscello limpido sono sedute la musica e la poesia. La giovane di sinistra è vestita di bianco è a seno scoperto e regge uno scettro dorato. Al
centro dell’immagine poi un giovane è seduto sulla roccia e suona uno strumento simile a un violino. Porta una corona d’allor o sul capo ed è vestito solo di un panno stretto
intorno alle reni. La giovane di destra invece è vestita di azzurro e osserva il ragazzo stringendo tra le mani una cetra. Ai lati delle tre figure centrali vi sono molti poeti e
letterati. Infine ai piedi dei tre dei seduti nasce una fonte che si riversa verso il basso. L’ambiente descrivere un’atmosfera lirica nella quale si trovano Apollo al centro e le muse.
Inoltre sono raffigurati i poeti antichi e i poeti moderni tra i quali si distinguono Omero, Saffo, Dante e Petrarca . Il Parnaso è un affresco di Raffaello di tipo mitologico e
classicheggiante. Nell’affresco l’artista raffigura il mondo della classicità e della cultura umanistica. Nel Parnaso di Raffaello si nota una prevalenza di colori freddi e azzurri del
paesaggio. Tra le figure invece si nota un’alternanza di toni caldi e freddi.

Virtù e la Legge, con Gregorio IX approva le Decretali (legge canonica) e Triboniano consegna le Pandette a Giustiniano (legge civile): L’affresco delle Virtù fu l’ultimo ad essere
completato nella Stanza della Segnatura, probabilmente entro il 1511 come farebbe pensare l’iscrizione sullo sguancio della finestra: JVLIVS. II. LIGVR. PONT. MAX. AN. CHRIS.
MDXI. PONTIFICAT. SVI. VIII. La parete sud, che doveva essere dedicata alla giurisprudenza e chiudere i richiami alle categorie del sapere con la teologia, la filosofia e la poesia
degli altri affreschi, aveva una forma particolarmente irregolare per la presenza di unalta apertura al centro. Raffaello risolse il problema della forma della parete dividendola,
tramite una finta intelaiatura architettonica, in tre zone: una superiore, dove su di un parapetto che si staglia contro il c ielo si trovano tre Virtù, e due laterali, dove dietro ad
altrettante nicchie si svolgono le scene di Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano diritto civile e Gregorio IX ch e approva le Decretali diritto canonico.
Nella parte superiore, su di uno zoccolo o di un parapetto, stanno tre figure femminili simboleggianti le virtù. Da sinistra si riconoscono la Fortezza, con l ’elmo in testa e con un
ramo di rovere allusione al casato di Giulio II Della Rovere, la Prudenza, vestita di verde e bianco con una testa virile che le guarda le spalle tra i capelli, e la Temperanza, che
impugna delle redini. La Giustizia, quarta Virtù cardinale, è raffigurata nel medaglio corrispondente sulla volta. Essa, secondo la dottrina platonica elaborata da sant’Agostino, è
gerarchicamente superiore alle altre. Alla scena prendono parte anche cinque putti, alati e non, che collegano con movimenti armoniosi le figure principali. Tre di essi
impersonano le Virtù teologali: quello che coglie i frutti dal ramo della Fortezza rappresenta la Carità, quello con la fiaccola la Speranza alludendo alla parabola biblica delle dieci
vergini, e quello che addita il cielo la Fede. Le forme ampie e monumentali dimostrano linfluenza di Michelangelo, che nell’agosto del 1511 aveva rivelato gli affreschi della volta
della Cappella Sistina. Il ritmo però è reso misurato e composto, di impianto classico, da Raffaello, avvicinandosi già agli sviluppi della Stanza di Eliodoro.
In basso a sinistra, a lato della finestra, si trova la scena di Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano, che celebra il diritto naturale e civile. L’imperatore è seduto di
profilo, con i segni del potere ben in vista corona e scettro, mentre riceve da Triboniano inginocchiato un libro; assistono una serie di dignitari con cappelli esotici, ispirati a fogge
bizantine. L’opera subì gravi danni che ne peggiorarono la leggibilità. L’esecuzione dellaffresco è di solito riferita ad aiuti del Sanzio, che operarono su suo disegno, probabilmente
il Sodoma. Ludovico Dolce, nel Dialogo della pittura 1557 accennò a un restauro degli affreschi delle Stanze da parte di Sebastiano del Piombo, che Pallucchini 1944 ipotizza
dubitativamente relativo a questa scena. Nel 2000 la scena è stata invece ritenuta uno dei segni della documentata presenza di Lorenzo Lotto nel cantiere delle stanze. Il lato
destro è occupato dalla scena di Gregorio IX che approva le Decretali. Ambientato davanti a una nicchia con cassettoni a losa nga analoga a quella dellaltra scena, vi è legata da un
sistema di corrispondenze: un papa contrapposto a un imperatore e il diritto canonico contrapposto a quello civile. Il maggiore spazio permise una rappresentazione più
articolata, con il trono del papa che si articola plasticamente in prospettiva, scorciato secondo un punto di fuga che si tr ova nel centro ideale della parete, quindi a sinistra
dell’affresco. Il papa benedicente, indossante il triregno e un sontuoso piviale, ha le fattezze di Giulio II, mentre il cardinale che gli regge il manto a sinistra potrebbe essere
Giovanni de Medici, futuro Leone X, con alle spalle il cardinale Bibbiena e Antonio Del Monte; il porporato di destra è invece identificabile con il cardinale Giulio de Medici futuro
papa Clemente VII, affiancato da Alessandro Farnese, futuro Paolo III La barba del pontefice induce a datare l’opera a dopo il giugno 1511, quando il pontefice tornò a Roma
dopo aver fatto voto di non radersela più finché non avesse liberato l’Italia dagli stranieri. L’opera è generalmente riferita ad aiuti, su disegno del Sanzio, forse Baldassarre Peruzzi
o Guglielmo di Marcillat.

1511 Ritratto Giulio II


Il papa è raffigurato seduto sulla sedia camerale con braccioli e ghiande sui pomoli dello schienale, un richiamo allo
stemma Della Rovere. La sua figura, un po' curva, è girata di tre quarti verso destra. La barba è lunga, come dal voto
fatto nel 1511, e indossa il camauro di velluto rosso, la mantella rossa bordata d'ermellino (la mozzetta) e la tunica
bianca. Lo sfondo del parato verde, con decorazioni che mostrano le chiavi di san Pietro, esalta i colori della veste e la
volumetria del soggetto. Le mani espressive, con gli anelli cerimoniali, reggono un fazzoletto o l'estremità del
bracciolo.
I pontefici erano di solito ritratti di profilo, magari in ginocchio, o rigidamente frontali, quasi ieratici, con
un'impostazione impersonale ("araldica") o comunque encomiastica. Raffaello rinnovò questa tradizione ritraendo il
papa a mezza figura, con un punto di vista diagonale e leggermente dall'alto, come se lo spettatore fosse in piedi
accanto al pontefice seduto, rimuovendo qualsiasi distacco fisico e psicologico verso il reverendo ruolo del
protagonista. Tale soluzione divenne un modello frequentissimo per i ritratti ufficiali di pontefici. Lo stesso Raffaello lo
sviluppò nel Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi, e vi si attennero Sebastiano del
Piombo (Ritratto di Clemente VII) e Diego Velázquez (Ritratto di Innocenzo X).
Eccezionale per l'epoca fu anche la rappresentazione intima dello stato d'animo di un soggetto di tale importanza, così
evidentemente introspettivo, perso nei propri pensieri. Il 1511 era infatti un anno particolarmente duro per il
pontefice, che aveva subito pesanti sconfitte da parte dei Francesi, vedendosi riprendere Bologna e subendo
continuamente la minaccia degli eserciti stranieri, che di lì a pochi anni sarebbe infatti esplosa nel drammatico Sacco di
Roma (1527).
1511-14 Stanza di Eliodoro (Cacciata di Eliodoro, Messa di Bolsena, Liberazione Pietro, Leone
Magno ferma Attila

Cacciata di Eliodoro dal tempio: La scena è tratta dal Libro dei Maccabei (Libro II, 3, 21-28) e simboleggia la protezione offerta da Dio alla Chiesa rispetto ai suoi nemici. Eliodoro
di Antiochia era un ministro di Seleuco IV, re di Siria, incaricato di profanare il tempio di Gerusalemme. Ecco che però la preghiera del sacerdote Ania, al centro della
composizione, evoca un messo divino a cavallo, seguito da due aiutanti a piedi, che travolge il profanatore nell'angolo destr o della scena. Eliodoro e i suoi seguaci sono
schiacciati al bordo del campo visivo, ricordando alcune convulse scene di massa della volta della Cappella Sistina come il Serpente di bronzo. Si tratta probabilmente di
un'allusione alla vittoria del papa sui cardinali filofrancesi scismatici, che avevano complottato contro di lui.
La scena ha luogo in un grandioso edificio classico, con lo scorcio di una navata dai soffitti dorati, aperta sullo sfondo del cielo. Al centro, il sacerdote Ania in preghiera di fronte
al candelabro acceso. Nonostante le similitudini dello sfondo con la Scuola di Atene, la luce radente sull'architettura genera un'accentuazione drammatica del tutto nuova[5]. I
ritmi pacati e solenni appaiono ormai superati da un andamento vorticoso e dinamico, in cui la concitazione dei gesti dei personaggi guida l'occ hio dello spettatore a una lettura
accelerata dell'immagine lungo direttrici prestabilite. Anziché articolarsi dal centro verso le periferie in maniera armonica, la composizione oppone una zona centrale pressoché
vuota e immota, dominata da masse d'ombra profonda e bagliori luminosi, ai due nuclei drammatici laterali, dove le figure si accalcano. Inoltre, se negli affreschi della Stanza
della Segnatura tutti i personaggi avevano pose disinvolte e naturali, nell'affresco di Eliodoro cominciano a essere introdotti gesti esasper ati e torsioni che preannunciano
il manierismo.
L'azione si svolge prevalentemente a destra, dove il cavallo travolge Eliodoro steso a terra. Il moto dei personaggi è legato da un ritmo rapido, ma perfettamente scandito, come
se ciascuno si muovesse lungo un tracciato prescritto, una coreografia. Sono state notate analogie tra l'animale e gli studi leonardeschi per il monumento Trivulzio. Il pathos è
michelangiolesco, ma Raffaello cerca anche di mantenere un distacco, l'obiettività della rappresentazione. A sinistra assiste impassibile Giulio II portato dai sediari, ribadendo
l'inviolabilità dei possedimenti della Chiesa e la sua volontà di cacciarne gli usurpatori. Si tratta di un inserimento "teatrale", con cui l'artista riafferma, contro la concezione
michelangiolesca della storia come tragedia in atto, la sua concezione della storia come exemplum: la stessa rapida prospettiva che affretta il movimento delle figure mette in
rapporto diretto il Papa in primo piano con il sacerdote orante in fondo. I due sediari del Papa hanno rispettivamente, quell o di sinistra, i tratti di Marcantonio Raimondi,
incisore e amico di Raffaello, mentre quello di destra di Raffaello. La terza figura, ritratta di profilo, a sinistra dei sediari, si ritiene essere Baldassarre Peruzzi. Il dettaglio del
personaggio issato su una colonna che la abbraccia per osservare meglio la scena venne ripreso più volte, anche negli affresc hi della Sala di Costantino.

Messa di Bolsena: La frattura asimmetrica della finestra (larga 295 cm) che si apre nella parete costrinse Raffaello ad organizzare la scena su un piano rialzato al centro e due
gruppi di figure in basso ai lati. Il miracolo eucaristico di Bolsena avvenne nel 1263, quando un sacerdote boemo, dubitante della transustanziazione, vide sgorgare gocce di
sangue vivo da un'ostia durante la celebrazione eucaristica, che macchiarono anche il corporale, reliquia da allora custodita nel Duomo di Orvieto, nella cui diocesi ricade
anche Bolsena. Vulgata vuole che l'avvenimento fosse stato riconosciuto da Urbano IV, il quale nel 1264 istituì la festa del Corpus Domini con bolla Transiturus dalla sede
apostolica in Orvieto. La scena celebrava il culto personale del papa, omaggiando al tempo stesso suo zio Sisto IV, che aveva promosso il culto del Corpus Domini, nonché il
trionfo della Chiesa nel concilio Lateranense aperto nel maggio 1512.
La scena è impostata in masse equilibrate, ma con una simmetria piuttosto libera, di estrema naturalezza, variando la success ione dei gradini che portano alla zona superiore
dell'altare e disponendo in maniera diversa le masse ai lati. La tensione appare contenuta, come interiorizzata dagli astanti. Sullo sfondo di una basilica classicheggiante aperta
sul cielo (proprio come nella Scuola di Atene), l'artista isolò l'altare attraverso la massa scura di un'esedra lignea, una specie di coro rovesciato, cinquecentesco, da cui si
sporgono due curiosi. Al centro si vede il blocco dell'altare, coperto da un telo a righe dorate e con una misurata natura morta di oggetti liturgici sopra, dove il sacerdote boemo
sta celebrando la messa, seguito da numerosi chierichetti inginocchiati con ceri processionali in mano.
Davanti a lui è inginocchiato Giulio II, in tutta la pompa della sua posizione, con i gomiti appoggiati su un voluminoso cuscino con nappe agli angoli, retto da un faldistorio con
intagli leonini. Ha alle spalle un gruppo di cardinali e più in basso alcuni sediari pontifici attendono seduti. Tra i prelati sono stati riconosciuti Raffaele Riario, con le braccia
incrociate al petto, e forse il cardinal Sangiorgio, con le mani giunte. Più che un miracolo che accade, è un miracolo che si ripete davanti al papa testimone. A sinistra si trova un
gruppo di astanti sorpresi, in piedi o seduti in terra, che ripetono come se fossero attori i loro gesti ammirativi o dimostr ativi. Se la ricostruzione storica è ancora una proiezione
immaginaria del passato, la ripetizione rituale del fatto si colloca nel presente: l'architettura all'antica, che indica un tempo remoto, è solo uno sfondo.
Liberazione di San Pietro: La scena è stata resa da Raffaello fortemente unitaria nonostante l'articolarsi della parete in tre zone, a causa dell'apertura della finestra, che
Raffaello riempì con tre momenti del racconto. Al centro, al di là di una grata tra oscure e massicce cortine murarie, avvien e l'apparizione radiosa dell'angelo nel carcere, dove
Pietro giace ancora profondamente immerso nel sonno e avvinto dalle catene; l'apparizione luminosa dell'angelo e le sbarre in controluce generano un sorprendente effetto di
profondità spaziale. L'emanazione luminosa arriva a toccare tutti gli elementi della scena, comprese le mura carcerarie, dove permangono bagliori rossicci. Pietro appare
vecchio e stanco: secondo alcuni la raffigurazione alluderebbe alla morte di Giulio II (1513), liberato dal "carcere terreno" , oppure alla liberazione di Leone X, ancora cardinale,
dalla prigionia che seguì la battaglia di Ravenna.
A destra l'angelo conduce l'apostolo fuori dal carcere, in un'atmosfera tra sogno e realtà, evocata anche dalle guardie miracolosamente cadute nel sonno; a sinistra altri soldati
scoprono la fuga, mentre si agitano al chiarore della luna e dei bagliori delle fiaccole, che accendono le loro armature di r iflessi. Sono presenti ben quattro tipi diversi di luce: la
luna, che si riflette nelle armature dei soldati; la fiaccola, con il suo riverbero fluttuante; la luce divina, che ricorda quella presente ne "Il sogno di Costantino"; infine c'è la luce
della finestra sottostante (nell'immagine è fotografata chiusa) che si somma alla luce dell'angelo. L'apertura alla base del dipinto infatti non è disegnata, bensì è una finestra
reale. Il racconto deriva dagli Atti degli Apostoli (XII, 6 e ss.). La luce è assoluta protagonista della scena notturna, e ha come unico precedente conosciuto il Sogno di
Costantino di Piero della Francesca ad Arezzo. Il tema del sogno si ritrova anche nella scena biblica corrispondente sulla volta, la Scala di Giacobbe.

Incontro di Leone Magno con Attila: La scena narra l'incontro, leggendario, avvenuto nei pressi del Mincio nel 452, tra Attila re degli Unni e Papa Leone I che avrebbe distolto il
bellicoso capo barbaro dall'invadere l'Italia. Come per la battaglia di Ponte Milvio, la propaganda cristiana ne aveva fatto un episodio miracoloso, con l'apparizione celeste di un
vecchio in abiti sacerdotali che avrebbe terrorizzato gli assalitori, sostituito però da Raffaello dai santi Pietro e Paolo, protettori della città eterna.
Raffaello ambientò la scena nei pressi di Roma, con evidenti richiami alla situazione politica contemporanea. Sullo sfondo a sinistra si riconosce infatti una città mura ta, una
basilica, un acquedotto e il Colosseo, mentre il colle su cui divampa l'incendio, a destra, è Monte Mario. I due gruppi con trapposti sono quanto di più diverso. Il gruppo degli
Unni si slancia estremamente dinamico e furente, bloccato però dalla sfolgorante apparizione degli apostoli armati di spada i n cielo. A sinistra invece il papa col suo corteo
procede ordinato e pacato nella sua infallibilità. Una tale differenziazione è rispecchiata anche nel paesaggio, placido a sinistra, sconvolto dal fuoco e dalla rovina a destra. Le
fattezze del pontefice sono quelle di Leone X, subentrato a Giulio II che era morto nel 1513, anche per l'omonimia con Leone I. Il nuovo papa figurava però già come cardinale
nell'affresco, l'ultimo a sinistra. L'idea dell'omonimia piacque al nuovo pontefice, che lo scelse come tema per la stanza successiva, quella stanza dell'Incendio di Borgo e in cui le
composizioni asimmetriche saranno la dominante stilistica.

1511-12 Madonna di Foligno


Fu commissionata da Sigismondo de’ Comitibus di Foligno come ex voto in ringraziamento alla Vergine. Maria è
seduta sulle nuvole, illuminata da un’aura dorata intorno alla quale ruota un arco azzurro nel quale si trovano i
serafini. Gesù Bambino poggia la sua gamba sinistra su quella della madre e si aggrappa al velo con le mani. Gesù
cerca di liberarsi dalle carezze della Madonna che gli solletica l’ascella. In basso è raffigurato un paesaggio. Le
abitazioni di un villaggio sono sovrastate da un arco luminoso che pare un arcobaleno e contiene una sfera infuocata.
Nella parte inferiore sono poi collocati i Santi affiancati che partecipano alla scena. San Giovanni Battista e san
Francesco d’Assisi sono a sinistra. San Girolamo, a destra, indossa una veste azzurra ed è accompagnato da un leone.
Il Santo indica alla Vergine Maria il committente Sigismondo, rappresentato in ginocchio e di profilo. Sigismondo
porta un ampio mantello di colore porpora con la fodera di pelliccia d’ermellino. Le maniche nere rivelano poi il suo
abito coperto dal mantello. Il committente ha un aspetto anziano determinato dal volto scavato. Infatti gli zigomi
sono spigolosi e prominenti, gli occhi sono infossati. Anche le mani sono ossute e la loro pelle grinzosa. Un piccolo
angelo dipinto al centro dell’opera guarda in alto, verso la Vergine. L’angelo sostiene tabella biansata all’antica sulla
quale non si legge alcuna scritta.
Il dipinto è un ex voto che rappresenta il ringraziamento del committente per un miracolo ottenuto. L’evento che
mise in pericolo la vita di Sigismondo è rappresentato sul fondo dall’arcobaleno e dall’oggetto infuocato che
incombe sull’abitazione. In seguito ad uno scoppio o un fulmine la casa del segretario apostolico di Foligno non subì
alcun danno.
Alcuni storici hanno analizzato la pala considerando un affresco di Pietro Cavallini presente nella stessa basilica. Il
dipinto di Cavallini raffigurava un episodio narrato nella Leggenda aurea di Jacopo da Varagine. Maria con il Bambino
apparve a Roma, sul Campidoglio, all’interno di un cerchio di luce, all’imperatore Augusto, nel giorno della nascita di
Gesù. In seguito alla visione l’imperatore rinunciò a proporsi come un dio alla venerazione del popolo. La pala di
Raffaello sembra così in qualche modo riprendere la stessa configurazione dell’affresco di Pietro Cavallini come
monumento sepolcrale.
Il viso di Sigismondo è magro ed emaciato e ricorda una maschera funeraria. La tabula ansata che l’angelo regge ricorda quella che si ritrova nella tipologia sepolcrale di epoca
paleocristiana. Questo modello iconografico ispirò anche i monumenti funerari del XV secolo. Gli studiosi non hanno interpretato con certezza la tabula ansata senza iscrizione.
San Francesco d’Assisi rappresenta un riferimento ai frati Minori che reggevano la chiesa. Infatti il Santo fu il fondatore dell’ordin e. San Girolamo è accompagnato dal leone che
secondo la leggenda fu soccorso dal Santo. San Gerolamo inoltre indossa un abito che s olitamente invece è rosso. Il mantello color porpora di Sigismondo con la fodera di
pelliccia d’ermellino è molto simile alla dogalina indossata dai magistrati di Venezia e dal doge nel 1400 e nel 1500. La Ver gine indossa l’abito rosso che la caratterizza
iconograficamente e porta un mantello blu.
L’opera di Raffaello è conservata presso la Pinacoteca Vaticana a Città del Vaticano. Sigismondo de’ Comitibus di Foligno com missionò a Roma il dipinto a Raffaello Sanzio. Il
nobile in quegli anni era segretario apostolico (scriptor apostolicus) di Papa Giulio II. Raffaello realizzò tra il 1511 e il 1512 la Madonna che fu esposta sull’a ltare maggiore della
chiesa dell’Aracoeli sul Campidoglio fino al 1565. Nell’abside di questa chiesa infatti si trovava la tomba di Sigismondo.
Suor Anna de’ Comitibus (Anna Conti), nipote di Sigismondo de’ Comitibus e badessa del Monastero delle Contesse della Beata A ngelina dei Conti di Marsciano, riuscì ad
ottenere il permesso di trasferire l’opera a Foligno. La Madonna rimase sull’altare maggiore della chiesa fino al febbraio del 1797 quando le truppe di Napoleone la requisirono
per portarla al Louvre di Parigi. In seguito al Congresso di Vienna lo scultore Antonio Canova si impegnò poi a mettere in discussione il Trattato di Tolentino. Nel 1816, l’opera fu
infine consegnata a Papa Pio VII ed esposta presso i Musei Vaticani con il titolo di Madonna di Foligno. Durante la sua permanenza presso la chiesa di Foligno molti artisti e
viaggiatori ammirarono la qualità della Madonna di Raffaello e molti esponenti della nobiltà europea cercarono di acquistarla .
Il paesaggio presenta effetti che riportano al tonalismo veneto. Alcuni storici indicano la vicinanza dell’opera al lavoro di pittori di scuola ferrarese come Dosso Dossi. Inoltre la
composizione del dipinto ricorda la Pala Portuense di Ercole de’ Roberti. La figura della Vergine è simile a quella presente dell’Adorazione dei Magi di Leonardo. Quella del
Bambino invece si può mettere in relazione con l’immagine del Bambino del Tondo Doni di Michelangelo. Gesù in questo dipinto di Raffaello ha l’apparenza di un bambino reale
e non di una figura divina distante dalla realtà del fedele.
La Madonna di Foligno è un’opera originariamente dipinta con velature di tempera grassa su una tavola poi trasportata su una tela di 320 cm di altezza per 194 cm di larghezza.
Il colore e l’illuminazione Nella metà superiore prevale il contrasto tra il blu del cielo e il giallo dorato degli archi che circondano la Vergine. In b asso invece il paesaggio è reso
con diverse sfumature di verde che diventa freddo e azzurrino verso il centro abitato lontano.
La metà inferiore presenta un ambiente umano rappresentato dal paesaggio. La metà superiore invece ospita lo spazio divino nel quale si trova la Vergine con il Bambino e gli
angeli. Sigismondo de’ Conti è dipinto in primo piano, genuflesso in preghiera. I santi Gerolamo, San Giovanni Battista e San Francesco affiancano il committente. Sullo sfondo
Raffaello dipinse invece l’evento che racconta il miracolo legato a Sigismondo. La pala è di forma rettangolare con sviluppo verticale. L’inquadratura valorizza tutti i personaggi
rappresentati ambientandoli nel paesaggio. In particolare al centro e al fondo viene sottolineato l’evento miracoloso. Raffaello uniformò le diverse parti della pala
armonizzando i colori e collegando fra loro i gesti e gli sguardi dei personaggi. I due Santi e l’angelo guidano lo sguardo d el fedele verso la Madonna. Maria invece osserva in
direzione del committente. Nella Madonna di Foligno tutte componenti della struttura compositiva concorrono così a creare un ordine geometrico che diventa ordine
spirituale. Le figure di Gesù Bambino e della Vergine sono raccolte all’interno di una mandorla compositiva. La struttura del l’opera è simmetrica e la figura dell’angelo si trova
sulla verticale centrale. Raffaello fu un maestro dell’equilibrio compositivo. Inoltre seppe armonizzare le diverse parti di un dipinto per ottenere una composizione
perfettamente equilibrata.

1512 Trionfo di Galatea (Sala di Galatea a villa Farnesina)


Fonte della rappresentazione fu Teocrito (Idilli) o Ovidio (Metamorfosi), magari filtrato dal Poliziano,
o Apuleio (Asino d'oro). L'affresco mostra l'apoteosi della ninfa Galatea che cavalca un cocchio a forma
di capasanta trainato da due delfini e guidato dal fanciullo Palemone, circondata da un festoso corteo di divinità
marine (tritoni e nereidi) e vigilata, in cielo, da tre amorini che stanno per scagliare dardi amorosi contro di lei.
Un quarto putto, a cui è rivolto il casto sguardo di Galatea, tiene un fascio di frecce nascosto dietro una nuvola, a
simboleggiare la castità dell'amore platonico.
La posa statuaria della ninfa, in torsione verso sinistra, ricalca in un contesto laico e mitologico quella della Santa
Caterina d'Alessandria, riferibile al 1508 circa. La composizione è perfettamente misurata, con un ritmo
danzante e vorticoso, dominato da Galatea avvitata su sé stessa. Riprendendo forse modelli antichi (come un
bassorilievo con un Coro di Afrodite oggi nei Musei Capitolini), Raffaello ricreò una mitica classicità, utilizzando
toni cristallini e preziosi, quasi irreali, che tradiscono una conoscenza già approfondita della pittura romana
antica. Sul verde marmoreo della superficie del mare spicca il rosso "pompeiano" della veste di Galatea.
Il movimento del manto gonfiato dal vento, accompagnato da quello dei capelli, è ripreso dal gesto della vicina
nereide, che solleva un braccio mentre è rapita da un tritone. I corpi possenti delle figure dimostrano influssi
di Michelangelo, addolciti però dal senso della misura del Sanzio e dalla dolce naturalezza dei suoi personaggi,
tra cui spiccano soprattutto gli amorini, ma anche la stessa Galatea, serena e aggraziata.

1513-17 Cappella Chigi


La cappella Chigi è la seconda cappella della navata sinistra nella basilica di Santa Maria del Popolo
a Roma. Celebre scrigno di capolavori, vi lavorarono, tra gli altri, Raffaello e Gian Lorenzo Bernini.
Agostino Chigi, banchiere papale di origine senese, commissionò a Raffaello una nuova cappella per
la sua famiglia, dopo che l'artista aveva già lavorato per lui nella Villa Farnesina. Il Sanzio disegnò
l'architettura a pianta centrale e curò i cartoni per i mosaici della cupola. L'opera venne avviata nel
1513-1514 dal Lorenzetto e completata da Bernini solo nel 1652-1656, per l'allora cardinale Fabio
Chigi, poi papa Alessandro VII.
Raffaello creò un piccolo complesso a pianta centrale ispirandosi a Bramante, spoglio all'esterno e
ricco di sculture e pitture all'interno. Si tratta di un cubo sormontato da una cupola emisferica,
poggiante su un tamburo abbastanza alto dal quale penetra la luce tramite aperture.
Alla cappella si accede attraverso un arco aperto alla navata laterale della Basilica di Santa Maria
del Popolo; l'interno è uno spazio semplice, scandito da tre arcate cieche che completano, con
quello dell'ingresso, lo schema quadrato ed arricchito da nicchie destinate ad accogliere sculture e
dipinti, oltre che le tombe di Agostino Chigi e di altri membri della famiglia, caratterizzate dalla
forma piramidale, desunta forse da architetture funerarie classiche.
L'architettura rientrava pienamente nelle ricerche allora in corso a Roma, intorno alla basilica di
San Pietro, tanto che è stata vista nella cappella una riproposizione in piccolo della crociera
impostata da Bramante. Come in San Pietro il diametro della cupola è maggiore dell'ampiezza degli
archi di sostegno che configurano la pianta quadrata con angoli smussati e che quindi sostengono
la cupola su pennacchi trapezoidali, che erano una delle caratteristiche dell'impianto bramantesco.
La cupola interna è decorata da cassettoni dorati, con mosaici, eseguiti su disegno dello stesso
Raffaello. Al centro Dio creatore del firmamento (scorciato efficacemente e in un gesto impetuoso,
di memoria michelangiolesca, che sembra dare origine al moto dell'intero universo sottostante),
con intorno immagini allegoriche del Sole e dei sei pianeti conosciuti, raffigurati come divinità
pagane a mezzo busto, ciascuno guidato da un angelo che, secondo un concetto dantesco ripreso
dai neoplatonici, rappresenta il suo ordine motore, che ne limita la potenza dirigendone il corso.
Tali mosaici vennero eseguiti dal veneziano Luigi de Pace nel 1516. I cartoni originari sono perduti,
ma si conservano alcuni disegni preparatori (a Oxford e Lilla) che confermano l'originalità
dell'opera, ottimizzata per una visione dal basso.
L'altare mostra la Nascita della Vergine di Sebastiano del Piombo e Francesco Salviati, dipinta a olio
su blocchi di peperino, con paliotto bronzeo a bassorilievo del Lorenzetto (Gesù e la Samaritana).
Tutto intorno si trovano le tombe dei Chigi alternate a nicchie con sculture.
1514-17 Stanza di incendio di Borgo Nell'847 divampò nel quartiere antistante l'antica basilica di San Pietro (il "Borgo") un terribile
incendio. Leone IV, impartendo la benedizione solenne dalla Loggia delle Benedizioni, fece spegnere
miracolosamente il fuoco, salvando la popolazione e la basilica. La storia è calata in un ambiente
classico, popolato da figure eroiche che risentono dell'influenza di Michelangelo, con venature
letterarie, che alludono all'incendio di Troia di virgiliana memoria, e politiche, che alludono al ruolo
pacificatore del papa tra il divampare dei focolai di guerra tra le potenze cristiane. La rievocazione
dell'Eneide inoltre era un pretesto per celebrare la storia di Roma nella sua dimensione più eroica.
Due gruppi di architetture fanno da quinte laterali, estremamente dinamiche, mentre al centro uno
squarcio in lontananza rivela la figura del pontefice, di immota serenità dovuta alla consapevolezza
della sua infallibilità.
La parte sinistra, con un tempio in rovina che ricorda il colonnato corinzio del tempio dei Dioscuri,
mostra attraverso un arco un edificio in fiamme col tetto ormai scoperchiato. Un uomo nudo si cala
dalla parete con la tensione muscolare dello sforzo ben evidente, mentre una donna porge a un
uomo un bambino in fasce; più avanti, una scena che evoca l'episodio di Enea che avanza
trascinando sulle spalle il padre Anchise e il figlio Ascanio a lato. Dietro di essi, la donna vestita in
giallo, Creusa, ricorda vagamente la Sibilla Libica di Michelangelo nella volta della Cappella Sistina.
A destra, un gruppo di donne, si affanna per portare contenitori colmi d'acqua per domare le
fiamme in un tempio ionico, che ricorda quello di Saturno.
Al centro una serie di donne con bambini si rivolge verso il pontefice, che si affaccia da
un'architettura bramantesca a bugnato. Più a sinistra si intravede la facciata dell'antica basilica
vaticana, ornata da mosaici. Il vuoto centrale e l'insieme dei gesti riesce a far convergere l'occhio
dello spettatore sulla figura del pontefice, per quanto piccola rispetto al primo piano. Tale schema
venne ampiamente ripreso dai classicisti seicenteschi. Citazioni dotte e ricercate, prese dalla
classicità e dalla modernità, ben rappresentano l'ambiente evocato dai letterati della corte di Leone
X. Dall'armoniosa bellezza della Stanza della Segnatura si è passati ormai a uno stile più ardito e
disomogeneo, con una composizione più intensamente scenografica, senza un'articolata
organizzazione strutturale degli edifici, che paiono appunto quinte teatrali o apparati effimeri
predisposti durante le feste (lo stesso Raffaello si occupò direttamente di scenografia). Forte è la
componente sperimentale ed è stata paragonata da alcuni, nel suo attingere ai repertori urbinate,
umbro, fiorentino e veneziano, al procedimento che in quegli stessi anni coinvolgeva i letterati sulla
scelta della lingua. Raffaello andava infatti rielaborando i linguaggi dei suoi predecessori per dare
origine a quel classicismo (arte) che tanto influenzò le generazioni successive.

1514 Ritratto di Baldassarre Castiglione


Un esempio di introspezione psicologica dell’intellettuale. Il busto di Baldassarre Castiglione è rivolto verso
sinistra mentre il suo volto è rappresentato leggermente di tre quarti quasi frontalmente. Lo sguardo, invece è
diretto verso destra, oltre lo spettatore e sembra guardare un punto molto lontano. La sua espressione è molto
sicura e rivela una intelligenza molto brillante. Castiglione indossa un abbigliamento molto ricco, una abito con
inserti di pelliccia molto voluminosi verso l’attaccatura delle maniche e un cappello molto elaborato. Al collo un
fazzoletto bianco termina sotto la folta barba che incornicia l’intero volto. Lo sfondo del tutto privo di dettagli e
non si osservano arredi o altri elementi dell’ambiente.
I motivi sono una grande qualità pittorica e, poi, la fama del personaggio ritratto. Baldassarre Castiglione fu un
personaggio molto in vista nella cultura italiana del primo Cinquecento. Scrisse “Il cortegiano” nel 1528, un
manuale del perfetto uomo di corte rinascimentale. Raffaello nel ritratto di Baldassarre Castiglione unisce una
grande indagine psicologica del personaggio ad una forte idealizzazione della fisionomia. Inoltre nel libro si
afferma un ideale di perfezione che può essere paragonato a quello perseguito dalla pittura di Raffaello.
Il Ritratto di Baldassarre Castiglione è realizzato con la consueta tecnica pittorica di Raffaello. La stesura di
colore è sfumata per rendere al meglio la tessitura delle stoffe e l’incarnato. Il modellato del personaggio,
rispetto al volto, è morbido e idealizzato, non si colgono segni profondi di espressione o di età. L’abbigliamento
del notabile è dipinto con estremo realismo. Soprattutto la pelliccia è stata estremamente curata da Raffaello
per ottenere una resa luminosa del morbido pelo dell’animale. Raffaello fu l’artefice di fisionomie ideali e
classiche, che raggiunsero il massimo della perfezione formale nelle sue Madonne.
I colori sono molto limitati ed essenziali. L’abito di Baldassarre Castiglione ha le maniche in pelliccia ed è
descritto in modo molto realistico. I materiali di pregio, sono, infatti, perfettamente riprodotti. Raffaello ha dato
una grande importanza allo sguardo del protagonista che risulta meditativo e colto. Il dipinto ha un tono
generale caldo e tendente al bruno. Pare, quasi, monocromatico se non fosse per il rosa dell’incarnato e
l’azzurro penetrante degli occhi. Il capricapo, le maniche dell’abito e il colletto sono quasi neri. La pelliccia di un
grigio perla morbido e vellutato. Le parti scure dell’abito creano un forte contrasto con il resto della figura e
danno movimento ritmico alla sua massa. La luce è ideale e diffusa, non crea ombre nette e proviene da sinistra,
in alto. Una leggera ombra del Castiglione si proietta verso il lato destro del dipinto.Lo spazio Lo spazio
tridimensionale, è limitato al primo piano nel quale si trova rappresentato il protagonista del ritratto di
Raffaello. La profondità, tra la figura ritratta e lo sfondo, è di pochi metri, vista l’ombra proiettata sul muro.
Il formato dell’opera è rettangolare e il primo piano è interamente dedicato al busto del Castiglione. Infatti, gran
parte della figura del personaggio occupa il dipinto. Baldassarre Castiglione è raffigurato contro una parete o un
fondo ideale e il resto del corpo si intuisce oltre il bordo inferiore del dipinto probabilmente seduto. Il ritratto ha
una composizione centrale e, nonostante la figura sia rivolta a sinistra ha una simmetria compositiva di masse e
volumi ben equilibrata. Il centro psicologico di attenzione è il volto di Baldassarre Castiglione, sebbene non
guardi direttamente verso lo spettatore. Al centro delle diagonali del dipinto si trova l’attaccatura del collo del
personaggio. Questa accortezza stabilizza molto il ritratto realizzato da Raffaello. L’intero ritratto si può, poi,
racchiudere in una piramide compositiva con la base nel braccio di sinistra piegato di Baldassarre Castiglione. A
sinistra, invece, a partire dalle due mani del personaggio, i lati del triangolo salgono lungo il suo braccio sinistro
e il profilo della sua schiena.
1515-19 Arazzi Cappella Sistina Gli arazzi mostrano le Storie dei santi Pietro e Paolo, tratti dai Vangeli e dagli Atti degli apostoli,
legati da precise corrispondenze con i riquadri affrescati nel registro mediano della Cappella Sistina,
quello con le Storie di Cristo e di Mosè risalenti al pontificato di Sisto IV. Questi arazzi, che
ricoprivano il registro più basso (quello coi finti tendaggi) nella zona , separata
dalla pergula marmorea, destinata al papa e ai religiosi, erano utilizzati nelle solenni festività e si
leggevano, come le storie soprastanti, dalla parete dell'altare verso il lato opposto.
Attraverso la celebrazione dei primi due "architetti della Chiesa", Pietro e Paolo apostoli
rispettivamente verso gli Ebrei e verso i "Gentili", si riaffermava il collegamento col pontefice
regnante, loro erede, riallacciandosi al tema dell'intera decorazione della cappella.
Dalla Creazione nella volta di Michelangelo, al primo patto di Dio con gli uomini (le Tavole della
Legge di Mosè), rinnovato nel secondo (l'invio del Figlio salvatore, Gesù), fino alla consegna delle
chiavi che stabiliva la continuità tra la venuta di Cristo e il papato, attraverso le storie dei primi
apostoli, negli arazzi appunto. Sotto le Storie di Cristo si trovavano quattro arazzi con Storie di san
Pietro a partire dalla Pesca miracolosa; sull'altro lato, sotto le Storie di Mosè, erano presenti
sei Storie di san Paolo, a partire dal Martirio di santo Stefano fino alla Predica di san Paolo agli
Ateniesi, collocata oltre la cancellata.

1515 Ritratto di Bindo Altoviti

Su uno sfondo verde scuro Altoviti è ritratto mentre di spalle si gira per guardare lo spettatore. La
mano sul petto rafforza la teatralità del gesto. I tratti di Altoviti sono giovanili e delicati, quasi
femminili, con occhi azzurri e una capigliatura lunga e bionda. Bindo Altoviti era un ricco banchiere di
una prestigiosa famiglia fiorentina crescito a Roma a causa dell'opposizione ai Medici che li avevano
cacciati dalla città. Fu un importante mecenate del Rinascimento, amico di numerosi artisti tra cui
Raffaello Sanzio.

1516 Ritratto di Andrea Navagero e Agostino Beazzano


L'identificazione di Andrea Navagero e Agostino Beazzano, scrittori veneti, non è certa, ma
accettata quasi concordemente dalla critica. I due sono effigiati su sfondo scuro in posizioni
complementari di tre quarti, uno di schiena con la testa ruotata, l'altro frontale. Entrambi rivolgono
lo sguardo allo spettatore ed hanno un braccio poggiato su un parapetto, che coincide pressappoco
col bordo inferiore del dipinto. La tipologia del doppio ritratto è insolita ma non rara per l'epoca, ed
ebbe ulteriori sviluppi in seguito.
I due sono abbigliati alla moda, con abiti scuri di materiali diversi, uno lanoso e uno di velluto o seta,
che permisero all'autore di dedicarsi a un diverso modo di rifrazione della luce. Intensa è
l'individuazione fisica: uno ha la barba e gli occhi scavati dall'età, sulla cinquantina, l'altro è
leggermente più pingue con un caschetto, occhi sporgenti e mento aguzzo con fossetta e un
accenno di doppio mento.

1517 Volta delle Loggia di Psiche a villa Farnesina


Nella loggia, un tempo aperta sul giardino, è dipinto il ciclo con le Storie di
Amore e Psiche, tratte dall'Asino d'oro di Apuleio, opera di Raffaello e dei suoi
allievi (Raffaellino del Colle, Giovan Francesco Penni, Giulio Romano) per il
banchiere Agostino Chigi. Alcuni hanno messo in relazione la protagonista
mitologica del soggetto, Psiche, con Francesca Ordeaschi, amante di Agostino
Chigi, che da cortigiana si elevò al rango di moglie legittima del banchiere.
Le scene sono inserite in un intreccio di festoni vegetali, opera dell'altro
allievo Giovanni da Udine, che simulano un pergolato con festoni di fiori e frutta,
dividenti la volta in scomparti, che hanno uno sfondo azzurro-cielo. La presenza
degli intrecci vegetali accresce il senso di continuum della loggia con il giardino;
vi sono riconoscibili la bellezza di circa duecento specie botaniche, soprattutto
domestiche, tra cui anche numerose piante importate dalle Americhe, scoperte
solo pochi anni prima.
Il ciclo si divide in due grandi storie centrali che simulano arazzi tesi (Concilio
degli dei e Convito nuziale), dieci pennacchi in corrispondenza dei pilastri e
quattordici vele sopra gli archi. I pennacchi sono quattro su ogni lato maggiore e
uno per lato minore.
Venere e Amore
Venere sta mostrando a suo figlio Amore la bellissima principessa mortale Psiche, in modo
che egli possa (con una delle sue frecce) indurla ad innamorarsi di un uomo indegno e
deforme. È però lo stesso Amore ad innamorarsi della fanciulla.

Amore e le Grazie
In questo episodio, assente nel racconto di Apuleio, Amore chiede alle Tre Grazie (anch'esse figlie di
Venere) di intervenire a favore di Psiche che era stata mandata da Zefiro nel palazzo di Amore. La
donna di spalle è uno dei nudi femminili più belli del Rinascimento e fu imitata molte volte.

Venere con Cerere e Giunone


Venere ha scoperto il legame segreto tra il figlio e Psiche e si sta lamentando con Cerere (dea dei raccolti
e dell'agricoltura) e Giunone (moglie di Giove e protettrice del Matrimonio e della Famiglia)
dell'innaturale unione tra un dio ed una donna mortale. La dea della bellezza chiede alle due di unirsi a
lei nella vendetta contro Psiche, ma Cerere e Giunone rifiutano.

Venere sul carro


La dea della bellezza, quindi, si reca da Giove, su un cocchio dorato tirato da colombe, per
chiedergli di aiutarla a punire Psiche. Nella scena, attribuita a Giulio Romano, si è
riconosciuto l'intervento diretto del maestro Raffaello.

Venere e Giove
Gelosa della bellezza di Psiche ed indignata del legame di quest'ultima con Amore, Venere
chiede a Giove di cercare Psiche, introvabile, perché Amore l'ha fatta condurre da Zefiro in
un magico palazzo.

Mercurio
Giove ha incaricato Mercurio, messaggero degli dèi e dio del commercio, di cercare Psiche.
Impugnando il suo Caduceo, Mercurio scende sulla Terra. Questo affresco è il più famoso di
quelli rappresentati nei dieci pennacchi della loggia.

Psiche trasportata da Amorini


Dopo varie imprese, tra cui la discesa nell'Averno per ottenere l'Acqua della Bellezza da Proserpina,
Psiche viene trasportata da due Amorini sull'Olimpo per offrire a Venere la magica ampolla.

Venere e Psiche
Al cospetto di Venere, Psiche le dona l'ampolla con l'Acqua della Bellezza avuta da Proserpina. Venere,
che aveva sperato la morte della fanciulla, è delusa e stupita dalla riuscita dell'impresa di Psiche.
Amore e Giove
Anche Amore si è recato davanti a Giove. Il re degli dèi, baciando Amore, acconsente a sospendere la
caccia a Psiche e di accoglierla nell'Olimpo come moglie di Amore.

Mercurio e Psiche
Mentre nel racconto di Apuleio è lo stesso Giove ad accogliere Psiche nell'Olimpo e trasformarla in una
dea, nel progetto di Raffaello questo compito spetta a Mercurio. È un'identificazione allegorica, quindi,
tra il dio del commercio (Mercurio) e il ricchissimo banchiere Agostino Chigi, proprietario della Villa,
amico di Raffaello e committente di questi affreschi. Inoltre, il volto di Psiche è, con buona probabilità,
quello di Francesca Ordeaschi, l'amatissima moglie di Agostino. Sopra Psiche c'è un pavone: è il simbolo
di Giunone, protettrice del Matrimonio.

Concilio degli dei


Gli dei sono ora riuniti per decidere le nozze di Amore e Psiche.
Quest'ultima riceve dal dio Mercurio il nettare dell'immortalità: è
diventata una dea. Amore nel frattempo implora, al cospetto di
Giove, il perdono per la sua futura sposa. In basso a sinistra ci sono
le personificazioni del Nilo (appoggiato ad una Sfinge) e
del Gange (accanto ad una belva).

Banchetto nuziale
Nell'episodio finale di questo ciclo di affreschi, Amore e Psiche (a
destra della tavola, l'uno accanto all'altra) siedono al banchetto
nuziale, mentre le Ore (con ali di farfalla) spargono fiori e le Grazie
profumi. Al centro vi è Ganimede che offre una coppa a Giove, alla
cui destra è seduta Giunone. Anche le altre divinità sono presenti in
coppia: Nettuno e Anfitrite, Plutone e
Proserpina, Ercole ed Ebe. Vulcano sta aspettando sua moglie
Venere con un'espressione adirata, Bacco, accanto ad Amore, è
presente come coppiere ed Apollo è ritratto sulla sinistra
come musagete. Insieme a Pan, suona per la danza in onore di
Psiche.
1517 Logge Vaticane
Le Logge vennero progettate da Bramante come prospetto per l'antico palazzo di Niccolò III, su desiderio
di Giulio II con prosecuzione dei lavori sotto Leone X, e la soprintendenza di Raffaello dopo la morte
dell'architetto. La decorazione, a stucco e a fresco, venne affidata a Raffaello e alla sua bottega, in quel
periodo attiva anche nelle Stanze Vaticane.
La prima loggia a venire decorata, nel 1518-1519, fu proprio quella al secondo piano, poiché confinante con
l'appartamento papale. Si tratta di una lunga galleria (65 metri, per una larghezza di circa 4), in cui
lavorarono i vari allievi del Sanzio, talvolta su disegno del maestro, che a quell'epoca era impegnatissimo col
cantiere della basilica di San Pietro e altre vaste imprese. La Loggia confina, sul lato opposto a quello del
cortile, con la Sala di Costantino e la Sala dei Palafrenieri.
Il secondo ambiente a venire decorato, negli stessi anni, è la cosiddetta Prima Loggia, al piano nobile, dove
però gli affreschi raffaelleschi, tra l'altro pare interamente della bottega e di scarsa qualità, già molto
compromessi vennero sostituiti da una nuova decorazione nella seconda metà dell'Ottocento.
L'ultima loggia, al terzo piano, fu decorata dopo il 1550 da Giovanni da Udine, allievo di Raffaello; è
affiancata da un ambiente più piccolo, la cosiddetta Loggetta del cardinal Bibbiena, affacciata sul Cortile del
Maresciallo e vicina agli appartamenti del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena. In questo ambiente,
databile al 1519, sopravvivono raffinate grottesche della scuola di Raffaello.
1518-20 Autoritratto con un amico
Non si conosce l'identità dell'uomo ritratto davanti a Raffaello con una sua mano sulla spalla. La tradizione indica
il suo maestro di scherma, perché appoggia la mano sull'elsa di una spada, mentre la critica vi ha letto la
rappresentazione di un allievo (magari Polidoro da Caravaggio o Giulio Romano) o di un amico e committente,
come Giovanni Battista Branconio per il quale Raffaello aveva progettato in Borgo il distrutto Palazzo Branconio
dell'Aquila, o ancora Pietro Aretino, Baldassarre Peruzzi o Antonio da Sangallo il Giovane. Gli inventari sei-
settecenteschi si sbizzarriscono facendo i nomi del Pordenone o del Pontormo, ma tali ipotesi sono smentite da
altre effigi note e meglio documentate.
Si ignora la provenienza del dipinto e se appartenne a Francesco I di Francia; la sua presenza nel castello di
Fontainebleau è documentata solo agli inizi del Seicento. L'attribuzione a Raffaello è ormai consolidata
(Berenson, Adolfo Venturi, Pallucchini...), ma in passato si fece il nome anche di Sebastiano del Piombo.
Su uno sfondo scuro uniforme, Raffaello, che ha la barba e somiglia all'autoritratto degli Uffizi e a quelli
nelle Stanze vaticane, guarda lo spettatore come a presentargli il personaggio davanti a lui, che si volge
all'indietro. Interessante è il dialogo con lo spettatore invisibile, sottolineato dalla mano distesa che indica chi
guarda, come se fossimo davanti a un vero e proprio scambio di presentazioni. Inoltre lo spadino è un dettaglio
che ci mostra l'animo senz'altro attivo e vivo del personaggio che lo porta alla cinta.
Il taglio dei personaggi è ravvicinato, a mezza figura, la luce proveniente da sinistra, con giochi di sguardi e gesti di
immediata colloquialità. Oltre al gesto amichevole tra i due della mano sulla spalla, evidente è il loro legame
anche dall'analogia della veste e della barba, come andava di moda tenere nei primi decenni del Cinquecento.
Si tratta di un brillante esempio di come in quegli anni si andassero sviluppando modi più monumentali e
dinamici, secondo l'esempio anche di Sebastiano del Piombo.

1518 Ritratto di Leone X, Giuliano de Medici e Luigi de Rossi


Dipinto di Raffaello che raffigura il Pontefice in rosso, nel pieno del suo potere temporale. Il pontefice si trova al
centro del dipinto, seduto su di sedia decorata in rosso. È rivolto verso sinistra e osserva all’esterno dell’opera. È
vestito con un abito bianco e il mantello rosso scuro, come anche il suo cappuccio. Ha le braccia appoggiate ad
un tavolino coperto da un telo rosso. Sul piano inoltre è poggiato un messale aperto accanto ad una campanella
finemente decorata. Alle spalle del Pontefice vi sono poi Luigi De Rossi e Giulio dei Medici i d ue cardinali. Lo
sfondo è uniformemente scuro ma si intravedono nell’ombra alcune architetture a sinistra.
Il Ritratto di Leone X è considerato un ultimo grande esempio di ritrattistica di Raffaello. È diventato famoso per
l’accordo cromatico creato con vari toni di rosso. Secondo alcuni storici la tristezza che emana dal ritratto deriva
dalla crisi finale dell’artista in ambito professionale. Leone X con i Cardinali Luigi De Rossi e Giulio de’ Medici è
conservato a Firenze presso la Galleria degli Uffizi.Il modellato dei volumi presenta un chiaroscuro morbido che
non crea incavi profondi sulle figure. Infatti i volti dei cardinali sono parzialmente in ombra e quindi non
risentono di un forte contrasto. Il viso di Papa Leone X invece è messo in maggiore evidenza perché più
illuminato sulla destra. L’abito del Pontefice è molto elaborato grazie alle pieghe vellutate del manto porpora
che creano delle interessanti increspature. Raffaello prestò poi grande attenzione alla resa del tessuto. Un
interessante particolare che rivela la capacità tecnica dell’artista è il pomo lucido della spalliera della sedia che
riflette la luce e la finestra.
Il colore più deciso è il rosso riservato al manto pontificio e alla decorazione del suo sedile. Più chiari, ma sempre
rossi, sono gli abiti dei cardinali e la tovaglia dipinta sulla sinistra. L’abito di Papa Leone X è bianco, ombreggiato
con toni grigio caldi tendenti al ocra. Così anche il braccio del Cardinale Giulio De Medici che si appoggia alla
spalliera della sedia pontificia sulla destra.
La luce illumina chiaramente il volto di Papa Leone X dipinto di tre quarti e quasi totalmente illuminato. Così
anche il suo braccio sinistro e parte dell’abito che scende sotto la tovaglia. Sono illuminati anche la manica di
Giuliano de’ Medici e il messale a sinistra. Una luce molto diversa da quella che Raffaello dedicò alle scene in
esterno. In primo piano a sinistra si trova il tavolino con sopra il messale e gli altri oggetti. Posta in obliquo si
trova la figura del pontefice. La direzione della sedia anch’essa obliqua dirige l’occhio verso il fondo della scena.
Dietro la sedia si trova poi il cardinale Giulio de’ Medici. Leggermente più avanzato e posto tra la sedia e il Papa
si trova Il Cardinale Luigi De Rossi. Sullo fondo scuro si percepisce debolmente la fuga delle architetture classiche
a sinistra. Le diagonali del dipinto di forma rettangolare si incrociano sul torace di Papa Leone X.
Simmetricamente si dispongono quindi i Cardinali a destra e a sinistra. Il centro psicologico non è comunque il
volto del pontefice piuttosto, sono le sue mani appoggiate al messale che reggono una lente di ingrandimento.
La direttrice di movimento spezza la rigidità della simmetria. infatti una linea compositiva obliqua parte dal
messale a sinistra, si sviluppa lungo il braccio del pontefice e arriva fino al braccio del Cardinale Giulio de’ Medici
a destra.
1518-20 Trasfigurazione
La pala accosta per la prima volta due episodi trattati nel Vangelo secondo Matteo: in alto la Trasfigurazione di Gesù,
su una collinetta, con gli apostoli (Pietro, Giovanni e Giacomo) prostrati per la sfolgorante manifestazione divina di
Gesù, affiancato dalle manifestazioni sovrannaturali di Mosè ed Elia, profeti nelle cui parole si prevedeva l'accaduto;
nella parte inferiore i restanti apostoli che si incontrano con il fanciullo ossesso, con gli occhi sbiechi e circondato dai
parenti, che sarà miracolosamente guarito da Gesù al ritorno dal Monte Tabor. Tale innovazione iconografica è
probabilmente da ascrivere alla volontà di aggiungere spunti drammatici per meglio competere con Sebastiano del
Piombo e il suo tema, la Resurrezione di Lazzaro, già naturalmente dinamico.
In alto a sinistra si affacciano poi i santi Felicissimo e Agapito, la cui festa si celebrava il 6 agosto, giorno anche della
solennità della Trasfigurazione: si tratta quindi di un inserto legato a un significato liturgico. Secondo altri si tratterebbe
invece dei santi Giusto e Pastore, protettori di Narbona, e anch'essi festeggiati dalla Chiesa il 6 agosto. Interessante è il
dolce paesaggio del tramonto che si vede sulla destra, una rara notazione che chiarisce l'ora del giorno.
Particolarmente spettacolare è l'uso della luce, proveniente da fonti diverse e con differenti graduazioni, nonché
l'estremo dinamismo e la forza che scaturisce dalla contrapposizione tra le due scene. In definitiva si tratta di due
composizioni circolari, una parallela al piano dell'osservatore, in alto, e una scorciata nell'emiciclo di personaggi in
basso. Il gesto di Cristo che si libera in volo sollevando le braccia, estrema sintesi personale dell'energia
michelangiolesca, era già stato sperimentata in figure minori di affreschi o in opere come la Visione di Ezechiele, anche
se qui acquista una vitalità e un'eloquenza del tutto inedita, dando il via a reazioni a catena che animano tutta la pala.
Come nel testo evangelico, "il suo volto risplendette come il sole, le sue vesti divennero bianche come la luce" (Mt,
XVII, 1-9).
La nube che lo circonda sembra spirare un forte vento che agita le vesti dei profeti e schiaccia i tre apostoli sulla
piattaforma montuosa, mentre in basso una luce cruda e incidente, alternata a ombre profonde, rivela un concitato
protendersi di braccia e mani, col fulcro visivo spostato a destra, sulla figura dell'ossesso, bilanciato dai rimandi,
altrettanto numerosi, verso la miracolosa apparizione superiore. Qui i volti sono fortemente caratterizzati e legati a
moti di stupore, sull'esempio di Leonardo da Vinci e opere come l'Adorazione dei Magi.
La diversità tra le due metà, simmetrica e astrattamente divina quella superiore, convulsa e irregolare quella inferiore,
non compromettono però l'armonia dell'insieme, facendone "un assoluto capolavoro di movimento e organizzazione
delle masse, in cui figure singole e gruppi di eccellente fattura si combinano con grandi moltitudini in un mobile
insieme di grande vitalità". Lo stesso Vasari ricordò l'opera come "la più celebrata, la più bella e la più divina"
dell'artista. Sull'asse verticale si consuma infatti il raccordo verso la straordinaria epifania del Salvatore, che scioglie
tutto il dramma della metà inferiore in una contemplazione incondizionatamente ammirata.

Giorgione
1504 Pala di Castelfranco
Maria è seduta in alto al centro del dipinto e sorregge con la mano destra Gesù Bambino addormentato. Il trono sul
quale siede poggia su un sarcofago di porfido che riporta lo stemma della famiglia Costanzo. La Vergine osserva in
basso verso la tomba con uno sguardo triste e assente. Due Santi poi sono in piedi ai lati di Maria. A sinistra si trova
San Nicasio mentre a destra San Francesco. Entrambi i Santi guardano in direzione del fedele verso il fronte del
dipinto. San Nicasio indossa un’armatura di metallo lucente e sorregge un vessillo con l’ordine di Malta. San
Francesco invece porta la mano destra contro il petto e sembra invitare l’osservatore con un gesto della mano
sinistra.
I personaggi sacri poggiano su un pavimento decorato con piastrelle che formano un motivo a scacchiera. Dietro di
loro poi è presente un parapetto che pare un telo srotolato e teso. Sullo sfondo infine è visibile un ampio paesaggio
collinare. Si riconoscono campagne, due piccole figure di soldati a destra e alcune rovine di un villaggio con fortezza a
sinistra. Il sarcofago sul quale poggia il trono è probabilmente quello del figlio del committente. Per questo la
Vergine guarda verso il basso partecipando al dolore della famiglia.
I due Santi rappresentati ai lati della Vergine sono riconoscibili grazie agli attributi iconografici che indossano. Il
Santo di sinistra è San Nicasio che si identifica grazie all’insegna dei Cavalieri di Malta. A destra si trova invece San
Francesco che indossa il tipico saio francescano. In tempi passati gli storici interpretarono la figura del Santo di
sinistra come San Giorgio o San Liberale patrono della città di Treviso. Altri invece identificarono il Santo come
Nicasio perché venerato con Francesco in alcune città come a Messina. Tuzio infatti, il committente, era proprio della
città siciliana. Suo fratello ed un figlio erano inoltre Cavalieri appartenenti all’ordine dei Cavalieri di Malta. Gli storic i
però non sono ancora concordi con questa lettura storica dei personaggi.

1506 Ragazzo con freccia


Olio su tavola di pioppo, L'opera, come molte delle prove artistiche attribuite a Giorgione, è di datazione molto incerta
tra gli studiosi e spazia tra il primo periodo giovanile, intorno al 1500, fino agli anni precedenti alla morte, 1507-1508
circa. Essa si trovava nel Castello di Ambras presso Innsbruck almeno dal 1663. Fu trasferita a Vienna nel 1773.
Su uno sfondo scuro appare un giovane ragazzo rischiarato dalla luce, con una veste rossa allacciata sulla spalla, una
fine camicia bianca e una freccia in mano, che potrebbe qualificarlo come un ritratto in veste di san Sebastiano. Si
tratta dello stesso giovane ritratto in altre opere del maestro, come il Garzone con flauto o il David con la testa di
Golia.
Evidentissimi sono i richiami allo sfumato leonardesco, soprattutto nel volto che affiora dall'ombra con passaggi tonali
delicatissimi, nonché nell'espressione malinconica, che ricorda lo studio dei "moti dell'animo".
1507 I tre filosofi Opera enigmatica che ha acceso le fantasie interpretative di molti intellettuali e storici dell’arte. I tre
personaggi hanno età diverse e paiono matematici o astronomi inoltre le loro figure sono allegorie del
sapere umano, sono raffigurati tre uomini. Un anziano saggio con una folta lunga barba si trova a destra.
Tiene tra le mani un foglio sul quale compaiono dei complessi calcoli astronomici. Si legge la scritta
“celus” mentre a sinistra tiene un compasso. Al centro vi è un uomo abbigliato con vesti orientali, un
turbante ed una doppia tunica. Verso il centro si trova un giovane seduto con un abbigliamento che
ricorda l’antica Grecia. Tra le mani stringe un compasso e una squadra utili forse per il calcolo
geometrico. Intorno a loro si sviluppa un folto bosco soprattutto sulla destra. Infatti dietro all’uomo
anziano sono dipinte alcune fronde in ombra. Verso il centro i tronchi invece sono liberi e privi di foglie.
Sulla sinistra si innalza una rupe sulla quale sono aggrappate alcune piante rampicanti.
Una prima interpretazione identifica i tre uomini come i Magi in procinto di presentarsi alla Sacra
Famiglia. In altri casi si è parlato di matematici, astronomi o figure allegoriche. Non sono però raffigurati i
doni e la grotta che si apre sotto la rupe non indica se vi possa essere qualcuno al suo interno. Una
interpretazione più accettata comunemente è che siano tre figure allegoriche. I tre uomini Infatti a
Il maestro nella progettazione dello spazio non usò la rigida
partire dall’anziano di destra appartengono alle tre età dell’uomo che si possono interpretare come tre
prospettiva lineare. Ricorse invece al colore e alla prospettiva
età dello stadio del pensiero umano.
aerea. Per creare il senso dello spazio Giorgione utilizzò inoltre
L’anziano con la lunga barba rappresenta il medioevo, l’uomo con vesti orientali invece il pensiero e la
una disposizione scenografica dei personaggi. I tre uomini sono
cultura araba. Infine il giovane seduto con abbigliamenti neoclassici rappresenta il pensiero
disposti verso il centro con tre posizioni diverse che organizzano
rinascimentale. Anche la rappresentazione del viso è propria per ognuno di loro. Il giovane è dipinto di
lo spazio diversamente intorno a loro. Il gruppo determina così
profilo, l’uomo maturo frontalmente e l’anziano di tre quarti. Fu dipinta da Giorgione direttamente,
una precisa interpretazione dell’ambiente fisico in primo piano.
senza disegno. Alcune indagini radiografiche rivelano infatti dei ripensamenti del maestro. Il chiaroscuro
La profondità è poi determinata dal forte controluce che mette in
pur essendo un ingrediente di secondo piano nell’opera di Giorgione, è presente nella costruzione dei
evidenza il paesaggio lontano dipinto in centro. La composizione
personaggi. Di grande importanza il linguaggio tonale che utilizza le diverse gradazioni di toni per
viene ancorata verso il centro dal forte contrasto tra la rupe e gli
costruire lo spazio. Si ritrova, inoltre l’uso della prospettiva aerea e una disposizione classica delle figure.
alberi in ombra e il paesaggio luminoso che si intravede. Si forma
Soprattutto la parte sinistra con la rupe ombrosa ricorda le atmosfere di Leonardo. Sul versante del
così una zona ovale chiara che comprende paesaggio e figure. La
contenuto Giorgione utilizzò nuovi soggetti. Il maestro infatti elaborò nuovi temi figurativi simbolici e
rupe a sinistra e gli alberi a destra creano una cornice scura che
allegorici molto amati dai suoi committenti veneziani che frequentavano gli ambienti umanistici della
mette in risalto la scena e dilata lo spazio orizzontalmente. In
città.
coincidenza della diagonale che sale da sinistra in basso si trova la
Nell’opera si nota un’attenzione particolare di Giorgione verso il colore. Il disegno diventa una
linea d’ombra ai piedi della rupe. Poi il corpo del giovane seduto,
componente secondaria e ha solamente funzione di progettazione. I vari toni del colore costruiscono lo
il busto dell’uomo centrale e le chiome degli alberi a destra.
spazio all’interno dell’immagine. Giorgione utilizzò un passaggio graduale di tonalità cromatiche per dare
Anche la diagonale che sale da destra in basso viene sfruttata
l’illusione di profondità. Prendendo ad esempio i dipinti di Leonardo utilizzò i colori freddi blu e viola per
appoggiando su di essa i corpi dei due anziani in piedi.
le lontananze. Per le parti in primo piano invece il maestro di Castelfranco utilizzo i colori caldi come il
Giorgione si interessò soprattutto alla costruzione dell’immagine
rosso, l’arancio e il giallo. Per ottenere questi effetti di prospettiva aerea dipinse con una variante della
attraverso l’uso e l’accostamento di colori. La sua tecnica che sarà
pittura ad olio. Al posto della tavola di legno rivestita di tela Giorgione tese la tela su di un telaio.
utilizzata da gli altri pittori veneziani quali Tiziano e
In primo piano I colori sono caldi e saturi. Il giallo colora la veste del vecchio saggio, il rosso la veste
successivamente Tintoretto si definisce tonalismo. Ognuno di
dell’uomo orientale e un verde saturo è utilizzato per il mantello dell’uomo greco. Il primo piano è
questi artisti utilizzò un proprio stile adeguato alle personali
dipinto con marrone, ocra e verde molto caldi. In secondo piano invece la natura perde intensità e vira
concezioni estetiche. Giorgione fu il primo a sperimentare uno
sul grigio. Le colline sullo sfondo sono evidentemente azzurre mentre il cielo è grigio con un leggero tono
stile alternativo al disegno fiorentino basato sulla linea e sul
di blu.
disegno. L’artista approfondì la prospettiva aerea e lo sfumato
ideati da Leonardo. Il maestro infatti soggiornò nel 1500 a
Venezia. Inoltre Giorgione si ispirò alle intuizioni tecniche del
maestro Giovanni Bellini creando dipinti nei quali le figure e gli
sfondi si fondono attraverso luce e colore per creare un’unica
atmosfera. Giorgione spesso trascurò il disegno per dipingere
direttamente sulla superficie della tela. Di lui rimangono poche
opere .

1509 La tempesta
Appartiene al genere di paesaggi con figure. Queste sono opere di dimensioni ridotte che furono molto apprezzate
dalla nobiltà veneziana del Cinquecento. I dipinti erano destinati ad una clientela molto limitata e colta. I clienti dei
piccoli paesaggi apprezzavano infatti la descrizione della natura unita alla citazione di temi mitologico allegorici.
Fonte di numerose ipotesi interpretative; la celebre opera è solo apparentemente un paesaggio con figure. Il suo
significato nascosto è ancora oggetto di discussione ma rimane inalterato il fascino ambiguo e sottilmente
inquietante.
Ne La Tempesta è riprodotto un paesaggio campestre. Al suo interno vi sono dipinte alcune rovine classiche a
sinistra. Si notano infatti un muro parzialmente eretto e un basamento sul quale si innalzano due tronchi di
colonna. In primo piano sono dipinte tre figure. A sinistra un uomo in piedi si appoggia ad un bastone esile e lungo.
È abbigliato con vesti rinascimentali. Indossa dei calzoni corti, una camicia bianca e un gilet rosso. A destra invece
si trova una donna seminuda seduta su di un prato che allatta il figlio. Al centro è rappresentato un fiume
attraversato da un piccolo ponte. Sull’orizzonte si trova una città. Il cielo è cupo, denso di nubi e un lampo illumina
la zona sopra le case. La scena è incorniciata da grandi alberi e cespugli che creano delle quinte natur ali a destra e
a sinistra. Le indagini degli storici si concentrano soprattutto sul contenuto dell’opera. Nonostante gli sforzi il
soggetto rimane sconosciuto. Gli studiosi tendono a considerare elemento principale dell’opera il paesaggio e
l’evento naturale che sta per accadere, appunto la tempesta. I personaggi dipinti sembra infatti siano stati aggiunti
come figure di completamento dell’opera e non siano importanti per comprendere il significato. Attraverso una
radiografia si rilevò infatti che al posto dell’uomo vi era in una prima versione una donna nuda seduta in riva ad un
ruscello. Anche il ponte in lontananza era completato da una figura in cammino con un fagotto legato ad un
bastone appoggiato alla spalla.Si coglie l’utilizzo della prospettiva aerea di Leonardo da Vinci. Le parti in primo
piano sono più calde e virate verso il giallo. In profondità invece Giorgione ha utilizzato colori freddi e un azzurro
saturo.
Esiste un unico contrasto di complementarietà tra il rosso dell’abbigliamento dell’uomo e il verde diffuso su quasi
tutto il dipinto. Giorgione dipinse direttamente il lavoro disegnando solamente i personaggi. I colori furono stesi a
macchie sovrapponendo i toni chiari a quelli scuri creando quindi sovrapposizioni di colori per arrivare alle
lumeggiature. In questo modo i contorni delle forme tendono a scomparire e a creare un’amalgama ambientale
che unisce forme e sfondo.
La profondità è suggerita dalla prospettiva di grandezza che riduce la dimensione degli edifici a sinistra verso il centro del dipinto. Inoltre si coglie una fuga prospettica che
accompagna lo sguardo dello spettatore in profondità. L’orizzonte poi è alto e la struttura dell’opera vede l’alternarsi di piani che si sovrappongono verso gli edifici lontani. Il
prato in discesa con la donna è in primo piano. Da sinistra convergono verso il centro le rovine. Quindi il ponte sul fiume e infine la fuga delle abitazioni.
Le figure principali sono disposte in corrispondenza delle diagonali del quadro. Questo espediente aiuta lo spettatore ad osservare le diverse parti del dipinto. Si tratta quindi
di una progettazione creata per guidare lo sguardo dell’osservatore. Lungo la diagonale che sale da sinistra in basso è disposto l’uomo, la rovina con le colonne, il ponte la casa
in secondo piano e il grande albero per terminare con la torre che si intravede dietro le chiome. Sulla diagonale che sale da destra invece è disposta la donna, il fiume il ponte e
l’altra rovina dipinta contro due esili alberi che terminano con le loro chiome in corrispondenza dell’angolo alto a sinistra. L’uomo indossa un abito di colore rosso molto acceso
che bilancia la massa centrale dell’acqua di colore verde brillante. Diagonalmente la sua figura emerge otticamente come più importante di tutto il dipinto equilibrata però
dall’albero in alto a sinistra.

1510 Venere dormiente


E' uno dei capolavori del maestro di Castelfranco e tra i più celebri nudi di tutti i tempi.
E' anche il primo nudo femminile finalizzato alla contemplazione secondo una visione
classica e sensuale.
Questa figura è perfettamente immersa nella natura, fa parte del paesaggio in cui vive.
Tutto il dipinto è realizzato con sapienti modulazioni tonali che trasmettono un
sentimento malinconico, di solitudine incantata e sospesa.
Esiste una perfetta corrispondenza tra il profilo delle colline, le forme distese del
paesaggio, questa atmosfera onirica e la Venere abbandonata nel sonno.
Esiste una forte analogia anche tra i colori del cielo, rosati nel tramonto, e quelli del
corpo della Venere, come per indicare un'ideale somiglianza tra la donna e la
dimensione divina.
Giorgione esalta la femminilità e la sensualità della sua Venere e nello stesso tempo la
distacca, la allontana dallo spettatore, perchè appartiene alla dimensione magica,
poetica del sogno, a cui sembra appartenere questa natura incantata.
La composizione è basata sulle diagonali e la figura femminile si distende su una di
esse, occupando tutto il primo piano. Sull'altra diagonale si dispongono le colline e gli
elementi del paesaggio.
La venere, è adagiata su voluminosi panni bianchi e rossi, che potrebbero alludere ai
colori degli abiti nuziali delle spose di allora, e dorme ignara di essere osservata.
Questo dipinto testimonia anche l'apprendistato di Tiziano presso Giorgione, secondo
gran parte degli esperti, infatti Tiziano è intervenuto nel panneggio in primo piano,
probabilmente per completare il quadro alla morte improvvisa del maestro.
Il quadro ha subito parecchi restauri e ridipinture. Ad una radiografia, eseguita nel
1932 dal Posse è apparsa la figura di Cupido, ai piedi della dea.
Tiziano
1510 Concerto campestre Il concerto campestre è un dipinto di non certa attribuzione a Tiziano. Altri storici lo attribuiscono,
invece, a Giorgione. Una donna di schiena, a destra, suona un flauto. Davanti a lei vi sono due uomini,
vestiti in abiti rinascimentali, quello di destra suona mentre un’altra donna svestita, a sinistra versa
dell’acqua all’interno di una vasca di marmo. Le due donne sono, parzialmente, velate da un tessuto
che avvolge loro le gambe.
Il profilo della donna di sinistra è un riferimento ai volti classici. A destra, in basso, un gruppo di
pecore è accompagnato da un pastore. Il prato nel quale si trova è chiuso da un ampio bosco di alberi
che creano lo sfondo per figura della donna di destra. Al centro, in alto, si sviluppa e si approfondisce
un paesaggio con alcune abitazioni. Il cielo è pesantemente ricco di nubi è scuro verso la parte alta.
Sul prato nel quale sono sedute le figure dei protagonisti si notano, poi, molte specie di erbe
raffigurate con grande dettaglio. Le figure sono state inserite con notevole equilibrio all’interno del
paesaggio, abilità comunemente diffusa nella cultura figurativa dell’inizio del Cinquecento veneziano.
Diversamente dallo stile di Giorgione le figure sono costruite in modo più robusto e con un modellato
più evidente. Le interpretazioni più recenti attribuiscono a Giorgione i temi del concerto in natura e di
una certa interpretazione della lirica pastorale.
La vegetazione dipinta in modo attento e particolareggiato del primo piano sono, forse, di
derivazione leonardesca. Edouard Manet vide il concerto campestre di Tiziano durante le sue visite al
museo del Louvre. In questo dipinto è evidente l’utilizzo del tonalismo unito ad una linea di contorno
sfumata che crea forme incerte e chiamate con lo sfondo.
La luce mette in risalto i corpi nudi delle due ragazze a destra come a sinistra. Al centro, illumina
l’abito elegante del musico con il liuto. Il sole colpisce direttamente a destra il prato sul quale pascola
il gruppo di pecore e a sinistra il paesaggio di sfondo. Il colore più evidente in tutto il dipinto è l’abito
rosso del musicante. Invece, il colore più diffuso è il verde scuro, tendente al grigio, della natura.

Emergono per contrasto di chiarezza i corpi delle ragazze con i loro teli bianchi. Il volto del protagonista centrale e quello del suo compagno di destra sono posti in ombra e non
si legge alcuna fisionomia. Anche il volto della ragazza di destra è nascosto dalla sua posizione. Nel dipinto si equilibrano le masse a destra e, a sinistra, per contrasti di chiarezza.
Poi, il bosco e il paesaggio in alto e, quindi, in primo piano, l’alternanza delle figure chiare con quelle in ombra.
Non vi sono elementi sui quali può agire la prospettiva geometrica se non la vasca marmorea di sinistra che è descritta con una leggera fuga prospettica e punta verso
l’orizzonte. Lo spazio è, quindi, articolato nella sovrapposizione dei piani. Le figure, soprattutto nel gruppo seduto, descr ivono lo spazio attraverso la loro sovrapposizione e il
gioco di luci e ombre. Il paesaggio corre in profondità grazie allo stesso meccanismo percettivo, poi, grazie alla prospettiva aerea e alla rappresentazione dell ’orizzonte nella
parte alta del dipinto. La grandezza degli alberi e delle abitazioni da l’idea della distanza presente tra il pri mo piano e la sommità della collina. La distanza del paesaggio è
leggibile attraverso la prospettiva aerea e Il dimensionamento delle montagne. Il primo piano è occupato interamente dal gruppo di figure dipinte verso la parte sinistra.
Lontano, a destra in basso si trova il gruppo di pecore con il pastore. Da qui chiude la prima parte del dipinto una quinta naturale rappresentata dal bosco di destra e dall’albero
di cui si vede solo il tronco che nasce da un leggero pendio, a sinistra. Quindi si sviluppa il paesaggio con le abitazioni costruite al sommo di una collina verso il centro. Infine lo
sfondo che si amalgama con il cielo nuvoloso. Se si considerano gli sguardi e i volti dei personaggi il movimento è contratto verso il centro del gruppo seduto. I due musicisti si
osservano e vengono osservati dalla donna di schiena. È quindi un movimento chiuso verso il buio e l’ombra senza che si possa no individuare i particolari dei volti.
1511 Miracolo del marito geloso
L'affresco mostra la vicenda di una donna, ingiustamente accusata di adulterio, che viene accoltellata dal marito
geloso; quando l'uomo scopre la verità, chiede perdono a sant'Antonio il quale resuscita la donna. L'opera mostra
nei paesaggi un tono idilliaco, vicino a quello espresso nei dipinti di Giorgione, che però contrasta con il fulcro
della scena: l'atto dell'omicidio, dove in una visione drammatica un uomo pugnala a morte una donna accasciata a
terra, già ferita. La posa della donna pugnalata è di estrema complessità, ma riesce ad esprimere in maniera
travolgente la drammaticità dell'avvenimento. Nell'ampia veste della donna si ha una saldezza plastica nuova,
evidenziata anche dalla tinta brillante della sottana, mentre nelle gambe che scalciano, perfettamente scorciate,
si coglie tutta la concitazione della scena.
Sorprendentemente, un attento esame della descrizione pittorica dell'affresco rivela un passaggio in cui il volume
è in realtà scolpito dal giovane Tiziano, a rilievo, piuttosto che descritto illusionisticamente. Chiaramente visibile
in una fotografia scattata in luce radente, il braccio destro della figura della sposa è modellato da una concrezione
dell'intonaco fino a cinque cm dalla superficie della parete, tanto da provocare una vera ombra nei suoi dintorni.
Oltre a descrivere il volume della parte cilindrica del braccio, la modellazione dettaglia anche il leggero
rigonfiamento delle ossa del gomito e del polso. L'attenta osservazione di questa zona dell'affresco non rivela
alcuna sutura nell'intonaco là dove il braccio incontra il tronco, indicando che il braccio modellato in tre
dimensioni e la testa e il tronco della figura costituiscono uno strato continuo di intonaco applicato in una
giornata.
Dietro lo sperone di roccia si svolge la seconda parte dell'episodio, posta volutamente in secondo piano; il marito
implora perdono al santo, in un momento che assume appunto un'importanza minore nel dipinto. La vistosa veste
dell'uomo rende estremamente esplicito lo svolgersi della scena con la doppia rappresentazione. L'effetto è
altamente realistico e credibile, privo di riferimenti artificiosi all'evento miracoloso, come apparizioni divine o
soprannaturali, in accordo con il programma che doveva essere stato concordato con l'arciconfraternita.
Il distacco da Giorgione è dato dall'immediatezza narrativa, dalla drammaticità accesa e da una scelta cromatica
molto più incisiva, abbandonando i toni più leggeri ed evanescenti. La descrizione della natura però, con i valori
atmosferici e la dolcezza tonale, deriva dal modello giorgionesco ed è qui raffigurata tra le prime volte in affresco.

1514 Amor sacro e Amor profano

Dipinto molto celebre, il suo mito risiede nelle interpretazioni date dagli storici per tentare di svelare l’enigmaticità dell’opera. Due giovani donne sono sedute sul bordo di un
antico sarcofago trasformato in una vasca. L’acqua chiara e limpida riempe infatti interamente il monumento funerario. La giovane di sinistra indossa un ampio abito bianco
stretto in vita da una cintura dorata. Le maniche molto ampie avvolgono le sue braccia creando elaborati panneggi. Le maniche, all’altezza degli avambracci sono più strette.
Quella destra è rossa mentre quella sinistra è bianca. La giovane indossa dei guanti. La scollatura dell’abito è molto ampia e lascia intravedere le spalle nude sulle quali ricadono i
capelli dorati. L’acconciatura infatti e molto semplice e le lunghe ciocche sono semplicemente raccolte verso la schiena della giovane. La posizione del suo corpo è frontale. La
gamba destra è allungata verso sinistra mentre sulla destra poggia la mano opposta che stringe dei fiori. Il suo volto è legg ermente girato verso sinistra ma lo sguardo è frontale.
Lo sguardo rivela un carattere deciso e sicuro della propria avvenenza. Accanto alla sposa il piccolo cupido gioca con l’acqua della fonte. La figura femminile dipinta a destra è
nuda e solo parzialmente coperta da un panno stretto intorno ai fianchi. Un mantello rosso ricade fino a terra dalla spalla sinistra. La giovane è seduta sul sarcofago sul lato
opposto alla sposa. Le sue gambe sono incrociate e tra i piedi è posto un lembo del mantello. Il corpo è posizionato frontalm ente mentre il volto è di profilo. Lo sguardo pare
rivolto verso la giovane di sinistra. La sua espressione è amorevole e partecipe. I tratti del suo volto sono somiglianti a quelli della gi ovane. La mano destra si appoggia con il
palmo sul bordo del sarcofago mentre la sinistra è in alto e sorregge una lampada accesa.
Il sarcofago trasformato in vasca di raccolta per l’acqua è decorato sul fronte con un bassorilievo di stile classico. In basso, in prossimità di un giovane alberello da uno scarico
fuoriesce l’acqua che si versa sul prato antistante. Gli alberi dipinti di etro alle due giovani sono in controluce e le loro sagome paiono grandi macchie scure. Infatti il cielo che
sovrasta il paesaggio riproduce l’alba a sinistra e il tramonto a destra. A sinistra, in alto, è rappresentato un castello con un grande torrione cilindrico. Sulla strada che porta
all’ingresso cavalca un cavaliere mentre alcune persone sono ferme di fronte alla porta. In basso, all’interno della collina in ombra in secondo piano, sono raffigurati due conigli
bianchi. A destra si trova un centro abitato immerso in un paesaggio fluviale. Due cavalieri sono impegnati nella caccia alla lepre mentre un pastore sorveglia il suo gregge. I due
luoghi nonostante molte ipotesi avanzate non sono stati identificati con sicurezza.
Il titolo dato all’opera Amor Sacro e Amor Profano non è quello originario. Infatti negli anni i curatori assegnarono diversi nomi al dipinto fino ad arrivare a quello attribui to oggi
che risale all’inizio dell’Ottocento. In ogni caso i titoli sono un tentativo di esprimere il dualismo rappresentato nel dipinto e la comunione delle due giovani. Infatti la somiglianza
dei visi fa pensare ad una stessa modella e quindi alla duplicità di caratteristiche psicologiche di una sola persona.
Secondo l’interpretazioni ad oggi più accreditata (Rona Goffen, 1993), il dipinto Amor Sacro e Amor Porfano rappresenta le due realtà del matrimonio. A sinistra è rappresentata
la sposa in procinto di diventare moglie. I due conigli bianchi rappresentati dietro la donna indicano appunto la promessa di una numerosa discendenza. La giovane indossa
infatti una abito matrimoniale e sul capo una corona di foglie di mirto che simboleggiavano l’unione coniugale. Il significat o del dipinto fa quindi riferimento all’amore privato e
sensuale e all’apparenza pudica e casta della sposa in società. Le due figure sono unite dall’acqua della vasca elemento simbolico mescolato da amore. In Amor Sacro e Amor
Profano è possibile identificare almeno due figure come personaggi classici. Il bambino come cupido e la giovane nuda. Nel caso della figura femminile sono state avanzate le
identificazioni di Venere che convince Medea. Nel bassorilievo scolpito sul sarcofago è possibile concepire la scena di destr a come Venere che si punge un piede per salvare
Adone assalito da Marte. A sinistra invece si tratterebbe di una scena raffigurante il ratto di Proserpina.
Molti autori, negli anni, affascinati dal dipinto enigmatico di Tiziano hanno pubblicato le loro interpretazioni. Alcuni hann o cercato riferimenti nella letteratura, altri nella
filosofia. Sono state accolte soprattutto interpretazioni legate alla filosofia neoplatonica molto seguita a Firenze. Attraver so le idee dell’Accademia di Marsilio Ficino furono
identificate le due giovani come Venere terrena e Venere Celeste. La prima, rappresentata dalla giovane vestita di bianco rappresenta l’amore carnale. La seconda a destra
invece l’amore spirituale ed eterno.Tiziano è tradizionalmente considerato allievo di Giorgione da Castelfranco. Il maestro realizzò l’opera a 25 anni nel periodo di confronto con
Giorgione e di formazione personale. Nel tempo però si è ridimensionato tale rapporto ad uno scambio di idee teorico filosofi che. Quindi ad un confronto alla pari tra due
maestri. Il tonalismo nell’opera Amor Sacro e Amor Profano è poco influente. Infatti le figure sono modellate con deciso senso plastico e diventano quasi monumentali. Da
considerare anche il classicismo con il quale Tiziano compone e colora il dipinto. Il clima che emerge dall’immagine è sereno e misurato. L’atmosfera è cristallina e i colori molto
brillanti.
Tiziano nel dipingere Amor Sacro e Amor Profano si allontana dal tonalismo che aveva condiviso con Giorgione. Infatti i colori sono brillanti, utilizzati per descrivere le figure in
modo dettagliato e preciso. Si è parlato di classicismo cromatico. I colori sono saturi, come si nota nel rosso acceso del ma ntello e della manica. I chiaroscuri contrastati e molto
solidi come nelle pieghe dell’abito e nel bassorilievo. Gli incarnati morbidi e levigati. Il colore del paesaggio è steso con un disegno chiaro degli edifici e della natura. Il cielo di
destra, al tramonto, si ritrova inoltre in altre opere di Tiziano e costituisce un modello utilizzato in seguito più volte. Si può osservare nei dipinti intitolati Baccanale degli
Andrii, Bacco e Arianna e Madonna del coniglio.
Il sarcofago con la sua monumentale massa centrale crea immediatamente una identità geometrica del primo piano. La sua presen za condiziona l’intera scena. Infatti le due
figure femminili sono ancorate alla vasca e condividono la sua presenza spaziale. La loro immagine si unifica in un insieme c he assume quasi l’aspetto di gruppo statuario.
Intorno alle figure il paesaggio e descritto da contrasti di luminosità. La profondità è così determinata dall’alternanza di quinte in ombra e parti in luce. Lo sguardo è bloccato nel
primo piano dallo sfondo molto scuro degli alberi. Si approfondisce invece ai lati verso i due paesaggi dipinti nello sfondo. La struttura del dipinto è centrale e simmetrica. Il
sarcofago infatti crea una potente àncora formale con la quale entrano in relazione le altre figure dell’immagine. Sono posti in rapporto di specularità i paesaggi e le figure
femminili inclinate verso il centro.

1514 Festino degli Dei per il Camerino d’Alabastro di Alfonso I d’Este


Secondo le interpretazioni più correnti, l'episodio sarebbe tratto dai Fasti di Ovidio e narrerebbe
"un'impresa" del deforme Priapo: dopo un festino degli dei, il semidio, approfittando del torpore generato
dal vino, cerca di possedere nel sonno la ninfa Lotide o, secondo un'altra interpretazione, la dea della
castità Vesta; essa però viene svegliata dal raglio dell'asino di Sileno, tra lo scorno del farabutto e le risate
degli altri dei. Un'allusione al segreto scoperto sarebbe il fagiano sull'albero, simbolo di promiscuità e
ciarlaneria, perciò di tradimento che fa scoprire il segreto. Sarebbe quindi effigiato l'istante sospeso
immediatamente anteriore alla scoperta, una raffinata istantanea scattata prima della tempesta. Gli dei
sono riuniti in olimpico convito: un lungo, estenuante banchetto durato tutta la notte: adesso, verso l'alba,
mentre alcuni son colti dal sonno, sfiancati dal vino e dalle libagioni, Nettuno, al centro, può prendersi
qualche libertà, con la mano destra nell'intimità di Cibele, con la sinistra sul fondo schiena di Cerere; qua e
là si vedono satiri intenti al servizio, mentre a sinistra è presente Sileno, con l'asino, e il giovane Bacco, che
riempie una brocca alla botte: la sua figura si trova anche in un altro dipinto di Bellini di quegli anni, il Bacco
fanciullo nello stesso museo americano. Tra le figure ben riconoscibili, in primo piano al centro, si vede
Mercurio mollemente sdraiato: nella sua postura si è talvolta letta un'anticipazione
della Danae di Tiziano (1545).
La scena dovrebbe avere un carattere lascivo ed erotico, ma invece il tutto appare un po' rigido e freddo:
non tanto per un deficit qualitativo (essendo la tecnica perfetta e la raffinatezza dei particolari altissima),
ma piuttosto per un approccio tutto sommato casto e moderato al tema, tipico di altre opere come
la Giovane donna nuda allo specchio.Il tentativo di aggiungere dettagli più espliciti da parte dell'artista non
riuscì tuttavia a movimentare questa scampagnata divina, tantomeno a renderla fascinosamente erotica: lo
scarto di cultura e di mentalità col secolo che entrava - con i suoi nuovi astri nascenti - era evidentemente
troppo abbondante. In definitiva a Bellini interessava creare un tono di pacata ed arcaica fiaba mitologica,
caratteristica che neanche le modifiche successive alterarono.
«Eppure, anche per le mani di altri, resta non sfiorata la purezza della poesia di Giovanni, che era quella di
uomo che meditava [...] sulla bellezza dell'esserci dell'uomo al mondo». Così, a ben vedere, il dipinto è
attraversato da una sorridente e blanda ironia, che evita di fermarsi sui particolari più crudi del racconto del
poeta latino, per meditare invece nel considerare amabilmente le divine debolezze degli dei. Philipp Fehl ha
avanzato anche un'altra ipotesi, cioè che l'opera rappresenti un passo dell'Ovidio volgarizzato (traduzione
delle Metamorfosi), pubblicato da Giovanni de' Buonsignori, piuttosto che dei Fasti. In quel testo il festino è
in realtà un baccanale, i cui convenuti non sono dei ma uomini: solo in un secondo momento la
composizione sarebbe stata mutata per adeguarla all'altra fonte letteraria. Nella redazione originale
belliniana infatti solo i satiri e il Bacco fanciullo sono manifestamente divini, a indicare lo svolgimento dei
misteri bacchici, gli altri personaggi non è detto che lo siano.

1514 Madonna col bambino, San Giovanni e un santo


L'opera fa parte di una serie di sacre conversazioni in un paesaggio, databili più o
meno agli stessi anni, tra le quali spicca per dimensioni e qualità la Sacra
conversazione Balbi della Fondazione Magnani-Rocca. Anche nella tela di Monaco lo
spazio pittorico è diviso in due metà asimmetriche, una dominata da una parete scura
e una di aperto paesaggio; in primo piano risaltano per contrasto le luminose figure
della Vergine col Bambino, mentre a destra si vede il committente inginocchiato, una
figura piuttosto statica e convenzionale.
Come nell'altra opera la Madonna guarda verso lo spettatore, mentre il Bambino si
rivolge verso il santo alla sinistra, un san Giovanni Battista seminudo che offre la
spalla, in una vitale rotazione, alla ricezione della luce. In basso si trova l'Agnus Dei,
suo attributo tipico che ricorda anche il destino sacrificale di Gesù.
1518 Assunta dei Frari
La prima importante commissione religiosa per il giovane Tiziano fu la pala intitolata Assunta. Il dipinto venne
commissionato dal priore dei francescani della chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari di Venezia. Gli apostoli con
Giuseppe di Arimatea alzano gli sguardi e le braccia verso l’alto. Infatti sopra di loro gli angeli portano Maria in ci elo. La
Vergine è in piedi su un arco di nubi e apre le braccia. In alto, nel Paradiso dorato, tra schiere di angeli la accoglie Dio
Padre. Nel dipinto Tiziano rappresenta un importante episodio legato ai vangeli e alla cultura cristiana popolare. Maria
viene trasferita in cielo con il corpo e non solo con lo spirito. Questa verità della fede si trasformò in dogma nel 1950 con
Papa Pio XII. Questo trasferimento corporale in Paradiso rende Maria diversa dai Santi che risiedono in cielo con la sola
anima. L’assunzione in cielo del corpo di Maria avvenne in presenza di Giuseppe di Arimatea e degli apostoli. La
Madonna fu avvisata tre giorni prima della sua morte dall’Arcangelo Gabriele. Maria convocò quindi presso di sè gli
apostoli e Giuseppe di Arimatea. Alla sua morte avvenne l’Assunzione dell’anima. Nel momento in cui invece il cadavere
di Maria fu deposto nel sepolcro si attuò il transito anche del corpo assunto in cielo dagli angeli.
Fu il priore dei francescani, padre Germano, nel 1516 a commissionare l’Assunta a Tiziano. La pala era destinata
all’altare maggiore e fu quindi la prima importante commissione ufficiale per Tiziano. L’opera fu inaugurata nel 1518.
Il dipinto rivela uno stile compositivo e formale ormai lontano dalle composte rappresentazioni di Giorgione da
Castelfranco. La struttura è articolata su tre livelli sovrapposti e le posture dei personaggi sono molto espressive. La
scena inoltre si caratterizza per la somiglianza ad una rappresentazione teatrale. I personaggi paiono infatti messi in
posa per rappresentare e dipinti con gesti molto eloquenti.
Da Giorgione di Castelfranco, Tiziano apprese l’utilizzo del tonalismo. Questa tecnica prevede di utilizzare le variazioni di
tono di un colore per creare le forme e dare l’impressione della profondità. In Assunta, realizzato dall’artista intorno ai
trent’anni, il tonalismo permette di creare il volume delle vesti. Infatti il rosso utilizzato per dipingere gran parte degli
abiti è declinato con toni chiari e scuri per rappresentare luci e ombre. Nei panneggi le pieghe profonde sono
rappresentate da campiture di colore più scuro. Il contrasto che si viene a creare con le zone chiare sostituisce il disegno
utilizzato invece dagli artisti di Firenze.
Nel dipinto il colore ambientale terreno è più freddo, grigio e azzurrino nel cielo. In alto invece nella zona circolare del
Paradiso è caldo e dorato. Infatti dalla figura di Dio si diffonde una luce intensa che illumina la Vergine e gli angeli.
La spazialità nel dipinto viene determinata dalla sovrapposizione delle figure in primo piano. Sono i contrasti di
luminosità a rendere l’impressione di figure vicine o in profondità. Il giovane dipinto a sinistra con il viso rivolto in alt o e
la mano sul cuore risulta più evidente e in primo piano rispetto all’uomo che solleva il braccio al centro. L’ombra che lo
avvolge e lo rende una sagoma scura arretra di molto la sua immagine.
Inizialmente le opere di Tiziano furono molto vicine alla concezione composta e ai contenuti enigmatici di Giorgione. In
seguito però il maestro formulò un proprio linguaggio che prevede anche una composizione complessa e teatrale. Il
piano del dipinto si suddivide su tre livelli sovrapposti. In basso si trovano gli Apostoli, in centro la Vergine Assunta in
cielo e in alto Dio con gli angeli. Maria è disposta in corrispondenza dell’asse verticale del dipinto. Inoltre si trova al
centro di un arco compositivo concavo formato da nuvole e popolato da angeli.

1519-22 Polittico Averoldi Il polittico, che nel suo complesso ha una forma rettangolare, è composto da cinque pannelli di tre
dimensioni diverse. Al centro campeggia la scena principale, con la Resurrezione di Cristo; a sinistra si
trovano i Santi Nazaro e Celso con donatore e a destra il San Sebastiano; in alto a sinistra l’Angelo
annunziante e in alto a destra la Vergine annunciata.
La tipologia del polittico era da tempo considerata antiquata e superata e certamente Tiziano cedette
alle pressioni del committente; cercò, tuttavia, di conferire una certa unità alla scena nel suo complesso,
utilizzando un unico paesaggio e la medesima fonte di luce mattutina per tutti i pannelli, sicché,
tralasciando il disturbo visivo delle cornici, sembra che i santi siano materialmente presenti al momento
della resurrezione di Gesù, assieme ai soldati armati e vestiti delle loro luccicanti armature.
Il Risorto, nella soluzione iconografica scelta da Tiziano, ricorda un Cristo che ascende al cielo: la
tradizione, infatti, prediligeva l’immagine del sepolcro vuoto con le tre Marie, oppure il Messia nel
sepolcro al momento del suo risveglio, mentre non era così comune l’immagine di Gesù sospeso in aria.
In questo caso, invece, Cristo trionfa in tutto il suo vigore fisico, con il busto lievemente di scorcio e le
braccia spalancate. Con la mano destra, il Redentore tiene il vessillo crociato, simbolo della sua vittoria
sulla morte e di tutto il Cristianesimo.
I due santi del pannello di sinistra sono i titolari della chiesa cui il polittico era destinato; anche Nazario
porta un’armatura di metallo ricca di riflessi luminosi. Il committente, Altobello Averoldi, è mostrato
inginocchiato e devotamente in preghiera. Il magnifico San Sebastiano del pannello destro, cui si deve la
Un’immagine di Cristo risorto si trova anche in uno stendardo fama dell’opera, è mostrato legato a un albero, con il piede destro su un frammento di colonna
processionale realizzato da Tiziano a Venezia tra il 1542 e il 1544 spezzata. Il vigore della sua anatomia e la complicata posizione in torsione rivela con quale attenzione
per la Confraternita del Corpus Domini di Urbino, oggi conservato Tiziano stesse meditando, in quella fase della sua carriera, sulle novità dell’arte di Michelangelo, che il
nella Galleria Nazionale delle Marche. Lo stendardo era dipinto su veneziano certamente ben conosceva.
entrambi i lati con le scene dell’Ultima cena e della Resurrezione. Possibili modelli di riferimento potevano essere sia i Prigioni del Louvre, in quegli anni già ultimati dallo
Le due scene vennero successivamente staccate dal supporto scultore fiorentino, oppure uno degli Ignudi della Cappella Sistina, che potrebbe avergli ispirato anche la
originario, separate e, nel 1545, incollate su nuove tele.Anche in posizione del Cristo risorto, assai simile a quella di Aman, dipinto in un pennacchio della Volta, a destra
questo caso, come nel Polittico Averoldi, la figura di Cristo è dell’altare. Sullo sfondo, visivamente sotto la gamba destra di Sebastiano, si scorge un angelo intento a
mostrata sospesa in aria, trionfante nella possente fisicità e nella dialogare con San Rocco, che la devozione popolare venerava, al pari di Sebastiano, come protettore
presentazione del vessillo, con i soldati in basso colti nel sonno e dalle pestilenze. I due pannelli in alto presentano l’Angelo annunciante a sinistra e la Vergine
sorpresi dall’evento miracoloso e inaspettato. L’opera è annunciata a destra. I due personaggi dell’Annunciazione, qui separati secondo una consuetudine
attualmente sottoposta ad un lavoro di restauro, allo scopo di iconografica assai diffusa nel Medioevo (la ritroviamo, per esempio, nella Cappella degli Scrovegni di
recuperare la cromia originale, offuscata dall’alterazione della Giotto), sono svincolati dalla composizione generale. Gabriele, illuminato alle spalle da una luce che fa
vernice. Appartiene alla maturità del maestro una tela oggi risaltare il suo abito bianco ricco di pieghe, tiene in mano un cartiglio, dove si leggono le parole
conservata in provincia di Mantova, in cui il pittore affronta un evangeliche “Ave [Maria] Gratia Plena”. Maria, che porta la mano destra al petto in un gesto di
soggetto mai ricordato dai Vangeli e quindi raramente accettazione, è invece immersa in una morbida penombra.Nel corso della sua carriera, Tiziano affrontò
rappresentato: il momento in cui Cristo apparve a sua madre in più occasioni il soggetto del Cristo risorto. In una tavola conservata agli Uffizi di Firenze, e
dopo la resurrezione. Tiziano dipinse quest’opera mentre si antecedente al Polittico Averoldi, la figura di Gesù è isolata, come una figura classica, e il suo bel corpo
trovava a Medole ospite del nipote; è il suo unico quadro seminudo si staglia contro un luminoso cielo azzurro. Il Risorto tiene il vessillo crociato con la mano
presente nel mantovano. sinistra; un lungo drappo bianco dal bordo frangiato gli parte dalla spalla per annodarsi sui fianchi.
1519-26 Pala Pesaro Nel dipinto si trova Jacopo Pesaro il vincitore dei Turchi a Santa Maura nel 1502 e la sua famiglia. Al sommo di una
scalinata, sulla destra è seduta su un trono la Vergine con in braccio il Bambino. Davanti a lei San Pietro interrompe la
lettura per presentare il committente il vescovo Jacopo Pesaro. Alla sua sinistra un alfiere sventola il vessillo di
Alessandro VI e trattiene un turco prigioniero. A destra il Bambino sorride a San Francesco mentre Sant’Antonio osserva i
familiari di Jacopo Pesaro. Francesco, cavaliere, è inginocchiato e indossa un prezioso abito rosso. Sono poi raffigurati
Antonio, Fantino e Giovanni. Il bambino che guarda verso lo spettatore è Leonardo, figlio di Antonio. I due angeli sopra la
nuvoletta rimettono a posto la croce che si era inclinata. La veste azzurra e il mantello giallo indossati da San Pietro sono
i colori araldici dei Pesaro. Invece la piccola frasca di alloro disposta sulla bandiera e il turco prigioniero con il turbante
bianco rappresentano la vittoria contro i turchi. Jacopo Pesaro, il committente presente nel dipinto, era infatti il vescovo
e comandante che guidò venti galee papali nella battaglia di Santa Maura del 1503.
La Pala Pesaro fu realizzata da Tiziano in seguito alla commissione di Jacopo Pesaro, vescovo di Pafo nell’isola di Cipro, i l
24 aprile 1519. L’opera rappresenta un ringraziamento per la vittoria ottenuta a Santa Maura contro i turchi il il 28
giugno 1502. Nella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari si trova anche la Pala intitolata Assunta del 1518. I colori
sono disposti sulla tela da creare un crescendo di saturazione verso la Madonna e il Bambino. Infatti le architetture sono
dipinte con un grigio caldo. Così gli abiti dei personaggi dipinti a destra con San Francesco e Sant’Antonio e di quelli nel
gruppo di sinistra. Solo San Pietro indossa una veste azzurra e un mantello giallo. Accanto a lui spicca l’arancio del
vessillo di Alessandro VI. Infine il colore si accentua nella veste rossa della Madonna e nel suo mantello azzurro. Il velo
bianco rende molto luminoso il suo ritratto e quello di Gesù Bambino.
Otre lo spazio del colonnato si apre il cielo attraversato da grandi nuvole bianche. Nel 1522 Tiziano per la chiesa dei Frari
realizzò la grande pala d’altare chiamata Pala Pesaro. La composizione è nuova rispetto alle opere precedenti. Infatti la
figura della Vergine è posta in modo decentrato, a destra. Tradizionalmente la figura della Madonna trovava sempre
spazio al centro. Ora invece nella Pala Pesaro al suo posto si trova la figura di San Pietro. Inquadra la scena una grande
quinta architettonica e, in alto a destra, si trova la Madonna. I personaggi sono distribuiti sulla scena in modo molto
originale. Maria si trova al vertice di una piramide compositiva che comprende gli altri personaggi in basso.

Anni 20 Bacco e Arianna & Baccanale degli Andrii per il Camerino d’Alabastro di Alfonso I
d’Este
1536-38 Ritratti di Francesco Maria della Rovere e Eleonora Gonzaga

Francesco Maria della Rovere: La posa scelta dal duca doveva ricordare quella di Carlo V eseguita da Tiziano nel Palazzo Ducale di Mantova all'interno della serie dei Dodici
Cesari e oggi nota da incisioni. A mezza figura, indossa l'armatura e, ruotando leggermente il busto, poggia il bastone del comando da condottiero sul fianco (simbolo
del generalato ottenuto dalla Repubblica veneziana), distendendo il braccio destro vicino all'elsa della spada.
Lo sguardo è fisso verso lo spettatore, evidenziato dal taglio compositivo che lo pone sullo sfondo scuro della parete, mentre il resto del corpo ha di etro un drappo
di velluto rosso che copre un ripiano. Vi si trovano appoggiati il suo elmo, con fastoso cimiero figurato (un dragone, allusione ai legami con la casa d'Aragona) e piumato, e altri
bastoni da maresciallo: uno ha le insegne dello Stato pontificio, l'altro è quello della Repubblica fiorentina. Tra questi si trova un ramo di rovere con germogli, oggetto
dell'evidente significato araldico e dinastico: il ramo reciso getta nuove foglie, alludendo all'ottenimento del feudo di Urbino dopo l'estinzione della casata dei Montefeltro.
Inoltre vi si trova un piccolo cartiglio con uno dei motti del duca, "SE SIBI", che alluderebbe alla sua volontà di combattere per sé e per la sua casata: quindi i quattro bastoni
simboleggiano tutta la sua brillante carriera militare, a capo delle milizie di Venezia, di Firenze, del papa e di quelle per "se stesso", ovvero del Ducato di Pesaro/Urbino.
Nonostante la posa cerimoniale, il ritratto del duca colpisce per la sua intensità umana, secondo uno stile perseguito da Tiz iano in quegli anni anche nei ritratti del papa e
dell'imperatore. L'epidermide mostra il segni del tempo trascorso, ma anziché imbruttire il protagonista ne amplificano caratteristiche come il valore, la nobiltà d' animo, il
coraggio. Incorniciato dalla barba e dai capelli scuri, il volto brilla per una fascio di luce che ne indaga con cura i particolari.
Tiziano seppe adattare la sua pennellata ai diversi effetti materici, rendendola ad esempio rapida per le piume del cimiero, ruvida e pastosa per il raso rosso, densa e pastosa
per l'incarnato, levigata e accesa con tocchi di bianco per dare l'effetto di lucidità dell'armatura.
L'opera è stata confrontata con il Ritratto di Federico da Montefeltro di Piero della Francesca (1465-1472 circa) per sintetizzare il completo cambiamento di prospettiva politica
e culturale del ducato di Urbino: se nel Quattrocento l'ampia veduta dello sfondo sottintendeva un microcosmo luminoso e sereno, nel secolo successivo il suo signore si fa
ritrarre in una stanza chiusa tra simboli militari, come se il suo orizzonte si fosse ridotto a una angolo in pericolo da difendere tra i nuovi, grandi imperi intercontinentali.
Eleonora Gonzaga Della Rovere: è seduta e ritratta a mezza figura di tre quarti verso sinistra. Indossa un copricapo con ricami dorati che riprende una moda lanciata
da Isabella d'Este-Gonzaga, assai in voga tra le nobildonne norditaliane del tempo. Il vestito è in sontuoso velluto scuro, con fiocchetti dorati e uno scollo coperto da seta
bianca e orlato da intarsi dorati con pietre preziose. I colori ricordano quelli della sella dei Montefeltro, dai quali i Della Rovere avevano ereditato il ducato. Alle maniche
escono sbuffi di seta, ondulati elegantemente. La cintura è un cordone dorato con nappa finale, a cui è appeso una martora con la testa-gioiello, in oro con perle e rubini
incastonati; la duchessa ne accarezza con la mano destra la pelliccia scura. La donna indossa anche altri gioielli, tra cui u na catena al collo con pendente con perle a goccia
(simbolo di purezza della sposa), orecchini pure di perla, e anelli.
Lo sfondo è una parete grigia, nella quale si apre una finestra che mostra un lontano paesaggio verdeggiante. Vicino alla duc hessa, sotto la finestra, sta un tavolino coperto da
un panno verde, sul quale si trovano un cagnolino pezzato che dorme e un orologio dorato coronato da una statuetta. Si tratta di elementi simbolici, presenti anche in altri
dipinti di Tiziano. Il cane, ad esempio, è quasi identico a quello della Venere di Urbino e simboleggia fedeltà. L'orologio compare nel ritratto di Fabrizio Salvaresio a Vienna, in
quello di Granvelle al Museo Nelson-Atkins di Kansas City e in quello di Gentiluomo con orologio al Prado. Esso simboleggia l'eternità, magari nell'accezione di fedeltà eterna
nel matrimonio, oppure la temperanza (per la regolarità del ticchettio) o addirittura potrebbe rappresentare un memento mori, per lo scorrere del tempo. Potrebbe anche
essere semplicemente uno status symbol: si ha, dopotutto, notizia che i duchi di Urbino collezionavano tali manufatti e che una volta lo stesso Tiziano fece da intermediario
all'acquisto di un esemplare realizzato da un maestro orologiaio di Augusta.

1538 Venere di Urbino


Nel dipinto Tiziano crea una immagine perfettamente equilibrata e con un impianto compositivo
che non toglie nulla alla naturalezza della figura. Venere con il corpo privo di abiti, è distesa su un
lenzuolo bianco che copre il materasso ricoperto da un tessuto dai motivi floreali. Venere indossa
un anello al dito mignolo e un bracciale d’oro con pietre preziose. Inoltre porta una perla come
orecchino. I capelli biondi della dea sono sollevati e intrecciati a formare un’acconciatura che
incorona la nuca. Invece altri sono sciolti e cadono sulle spalle.
La dea sostiene il busto e il braccio destro appoggiandosi a due cuscini. Venere ha il viso orientato
frontalmente e sembra guardare l’osservatore che si pone virtualmente davanti a lei. Con la mano
sinistra copre il pube mentre la mano destra tiene alcune rose rosse che cadono sul lenzuolo. Un
cane di piccole dimensioni è accucciato ai piedi della dea.
L’interno che circonda la protagonista del dipinto presenta decorazioni di tipo rinascimentale.
Sulle pareti sono poi fissati candelabri di metallo dorato. Le cassapanche sono decorate con rilievi
a girali e elementi antropomorfi come usavano al tempo. Infine il pavimento è ricoperto da
piastrelle a riquadri. Sul fondo della stanza, a destra sono visibili due ancelle che prelevano
indumenti dalla cassapanca. Una delle due infatti è inginocchiata e opera all’interno del cassone.
La sua compagna invece la assiste in piedi e regge sulla spalla un abito dalla confezione raffinata.
Le due ancelle indossano abiti del cinquecento dalla foggia elegante e curata.Guidobaldo, il
committente dell’opera, intendeva utilizzare il dipinto di Tiziano come esempio di vita coniugale
nei confronti della giovane moglie Giulia da Varano. I due nobili si erano sposati infatti nel 1534 in
seguito a accordi politici e probabilmente serviva un incentivo per scaldare la loro unione.
Tiziano fece un’operazione di attualizzazione della figura di Venere. Infatti la dea non è inserita in
un ambiente classico ma è distesa all’interno di una stanza. L’arredo, le decorazioni e l’architettura
rivelano quindi che si tratta di un ambiente del Cinquecento, come le figure delle due ancelle.
Il gesto di coprire il pube che compie Venere è un tratto iconografico che compare nelle statue
classiche indicate come Venere pudica. Inoltre la figura della rosa rossa rimanda al fiore sacro alla
dea. La rosa poi, per il suo breve momento di fioritura simboleggia la bellezza che sfiorisce e
quindi rimanda al trascorrere del tempo.
Il messaggio morale che ne consegue è quindi legato alla presenza delle rose e del cane accanto a Venere. Le rose rosse, simb olo di bellezza, sfuggono inevitabilmente anche
dalle mani di una dea. Invece il cane rimane fermo al suo posto. Quindi, la bellezza con il passare del tempo svanisce mentre la fedeltà coniugale resiste e consola. Il cane che è
presente in altre Veneri dell’epoca rappresenta forse la fedeltà coniugale. La figura dell’animale si trova anche nella Venere con amorino e cagnolino, esposta agli Uffizi di
Firenze. Quest’opera fu prodotta, probabilmente, all’interno della bottega di Tiziano. Lo stesso animale compare anche nel Ritratto di Eleonora Gonzaga Della Rovere. Anche in
questo caso l’animale rappresenta la fedeltà coniugale. Un altro simbolo che rappresenta la purezza di una giovane sposa è la perla a forma di goccia che Venere indossa come
orecchino. In altri dipinti la perla si trova come pendente che decora una collana oppure una spilla.
Tiziano dipinse la Venere intorno al 1538. Un documento storico infatti attesta che nel 1538 il nobile della Rovere scrisse a l suo agente di Venezia con la richiesta di acquistare
un nudo di Tiziano. Allo stesso tempo Guidobaldo chiedeva alla madre il denaro necessario. Eleonora Gonzaga però non diede nul la al figlio perché non apprezzava la scelta del
soggetto. La Venere di Tiziano così rimase nella bottega dall’artista. Il nobile Guidobaldo però non cedette e convinse Tiziano a non vendere ad alcuno il nudo tanto desiderato.
L’artista dopo qualche mese probabilmente fu compensato e inviò la Venere a Urbino.
Il pittore e biografo Giorgio Vasari menzionò l’opera ne Le vite, il primo testo di biografie di artisti. Vasari non descrisse la figura della dea, nonostante la notorietà dell’opera. Lo
scrittore invece apprezzò la fattura dei panneggi. La Venere di Tiziano diventò presto un dipinto molto ammirato. Così il maestro veneto a altri artisti di Venezia realizzarono
molte copie e varianti dell’opera. Questa informazione però non è stata documentata e gli storici non la ritengono valida. Infatti in altre opere di Tiziano compare lo stesso viso e
solo il ritratto intitolato La Bella fu dipinto per il palazzo di Urbino. Altri ritratti da medesimo volto sono il Ritratto di fanciulla in pelliccia e il Ritratto di fanciulla con cappello
piumato. Alcuni storici hanno ipotizzato che tale modella fu forse una giovane amante di Tiziano.
La Venere di Tiziano nel tempo accumulò molti ammiratori e diventò un’attrattiva della Galleria degli Uffizi e fu citata in molti testi . In seguito a questa notorietà, molti
viaggiatori che ebbero la possibilità di osservarla dal vero commissionarono delle copie. La Venere di Urbino di Tiziano Vecellio è considerata dagli storici una delle opere più
importante sul tema del nudo femminile. L’opera di Tiziano quindi nel tempo accumulò una grande fama. Infatti il dipinto rappresentò un modello per le Veneri distese
rappresentate nel corso dell’Ottocento. Un esempio di Venere distesa è l’interpretazione che ne da Édouard Manet nel dipinto intitolato Olympia. In questa versione attualizzata
al suo tempo l’artista riprese anche parte dell’ambiente presente nel dipinto di Tiziano. Manet inoltre aveva realizzato proprio una copia dell’opera come aveva fatto anche
Ingres. La copia dipinta da Manet si trova ora alla collezione Rouart a Parigi. Tiziano, insieme a Giorgione, fu un esponente del tonalismo veneto. Fu così definito per via dell’uso
esclusivo della pittura tonale nella costruzione dell’immagine. Alcuni dettagli presenti nel dipinto presentano un taglio molto realistico come il piccolo cane. I capelli dal colore
dorato e dall’andamento morbido sono tipici di molte figure femminili di Tiziano come anche la fisionomia della dea.
La Venere di Urbino è un dipinto realizzato con colori ad olio stesi su una tela di 119 x 165 cm.L’incarnato dai colori caldi della dea risalta g razie ai colori scuri e grigi presenti
nello sfondo. Inoltre la zona di rosso intenso contribuisce a virare il cromatismo dell’intera opera verso una tonalità calda. Il corpo della Venere è armonizzato con quello del
lenzuolo che l’accoglie. Il rosso porpora dei materassi viene richiamato dalla veste dell’ancella. Il resto del dipinto è int eressato da colori tendenti al grigio e bruni. Si fanno più
freddi e grigi in prossimità del loggiato e del paesaggio all’esterno. Questo sfondo fa da cornice al busto della Venere che spicca nettamente per contrasto di chiarezza.
L’illuminazione proviene dal fronte del dipinto e anche da una finestra posta sullo sfondo decorata con una colonnina al centro. La fonte luminosa che si trova a sinist ra produce
l’ombra dell’ancella che si proietta sulla parete alle sue spalle. La luce del sole è appena visibile e traspare verso l ’orizzonte. Controluce si stagliano un vaso, con una pianta dalla
forma circolare e un albero in lontananza. Infatti oltre la finestra si apre il cielo dai toni dorati contro il quale si evid enziano un vaso di mirto e un albero lontano.
La Venere in primo piano è distesa e dipinta con un attenzione estremamente realistica. Occupa interamente la porzione inferiore del dipinto. Il suo corpo disteso, infatti, si
estende dal margine sinistro, che quasi tocca con il gomito, al margine destro che incontra con la gamba sinistra completamente distesa. Lo spazio è suggerito dalla
sovrapposizione dei piani, la Venere, la cortina, la scena di fondo e il paesaggio che traspare in lontananza. Lo spazio geom etrico è rappresentato dalla scansione di questi piani.
Solo sulla destra si possono cogliere delle linee di fuga segnate dalla linea del pavimento e da quella dell’arazzo appeso al muro.
La composizione della Venere di Urbino è particolarmente articolata. Il primo piano è occupato dalla linea obliqua che corre lungo il corpo della Venere. Il secondo piano è diviso
verticalmente dalla cortina che separa la scena sul fondo. Vi sono quindi più centri psicologici di interesse. In ogni caso, il corpo e lo sguardo della Venere di Urbino catturano
esclusivamente l’attenzione dell’osservatore. La parete scura che fa da sfondo alla figura femminile si interrompe bruscamente in corrispondenza delle spalle di Venere. Si viene
così a creare una evidente linea verticale che indirizza lo sguardo dell’osservatore verso l’inguine della dea. Si crea poi una direttrice che procede lungo il ventre verso lo sguardo
di Venere.
La Venere di Urbino se confrontata con la Venere di Dresda del Giorgione risulta più provocante. Infatti nel dipinto di Giorgione la dea è addormentata e quindi l’osservatore ha
l’impressione di rubare uno sguardo sulla Venere. Manca quindi l’intenzionalità della Venere ad esporsi come invece avviene nel dipinto di Tiziano.

1543 Ritratto di Paolo III Farnese


L'opera si presenta come un capolavoro assoluto della ritrattistica, tanto è vero che fu apprezzato ben presto anche
dal capostipite dei Farnese, nonché committente della stessa. Paolo III, dopo l'esecuzione della pittura, entusiasta del
lavoro svolto da Tiziano, chiese di conseguenza allo stesso di entrare a far parte degli uomini al servizio papale
a Roma, offrendogli l'ufficio della piombatura delle bolle pontificie, fino ad allora affidato a Sebastiano del Piombo.
L'invito ebbe tuttavia lo stesso esito di quello avanzato da Leone X nel 1513; fu infatti rifiutato dal maestro, che
preferì rimanere a Venezia.
Il dipinto raffigura con particolari di assoluto realismo (come i dettagli sulle mani, le fosse scavate sulle guance o la
folta barba bianca) un anziano Paolo III, già settantacinquenne, caratterizzato da uno sguardo lucido, più di uomo
politico che di chiesa. La posa di tre quarti assunta dal papa rispecchia l'iconografia classica di questo genere di
rappresentazioni, già adottate in precedenza nel Ritratto di Giulio II eseguito da Raffaello, o in quello di Clemente
VII di Sebastiano del Piombo, ma che verrà ripreso anche successivamente, con il sontuoso Ritratto di Innocenzo
X di Diego Velazquez.
Lo stile si confà al livello della committenza, particolarmente prestigiosa che portò il Tiziano a realizzare il ritratto nei
minimi particolari, con pennellate sottili sui ritagli di barba, delle sopracciglia fin anche ai bordi dell'abito o della
tappezzeria della sedia. I preziosi particolari si riscontrano anche nelle mani mani ossute del papa, con la destra che
poggia su una borsa, che denota l'attenzione ai beni terreni, all'epoca non del tutto fuori luogo per i pontefici, sul cui
dito anulare fa bella mostra l'anello papale.
Dello stesso dipinto esistono diverse copie di epoche successive che testimoniano il successo che l'opera ebbe sin
dall'origine, tra queste una di Scipione Pulzone nella Galleria Spada di Roma, mentre un'altra versione sempre
di Tiziano che differisce dalla prima redazione per l'aggiunta del camauro sul capo del papa, databile un anno dopo
quella in esame, quindi al 1545-1546, fu eseguita per il cardinale camerlengo Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora,
nipote anch'egli di Papa Paolo III, ed è identificabile con la tela anch'essa giunta al Museo di Capodimonte.
1545 Ritratto di Pietro Aretino

1546 Ritratto di Paolo III Farnese e i suoi nipoti


Ispirato chiaramente al quadro di Raffaello Sanzio del Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de'
Rossi, l'opera è una fotografia impietosa da parte di Tiziano della controversa politica nepotistica dei pontefici di
quel tempo. La scena ritrae il vecchio papa Paolo III, settantasettenne, seduto su di una sedia, con il
nipote Ottavio, genuflesso come fosse in procinto di dover attendere un comando o un richiamo; dietro c'è invece
l'altro nipote, Alessandro, in posa ufficiale con l'abito cardinalizio.
Il ritratto, oltre a rappresentare in maniera celata quelle che erano le trame e gli intrighi di casa Farnese, mette in
evidenza anche i caratteri attraverso le pose e i gesti i caratteri psicologici dei tre soggetti raffigurati. Il papa,
curvo, appare debole e malaticcio, ma comunque non privo d'energia, come mostrano sia l'ossuta mano sinistra
che stringe il bracciolo della sedia, su cui rimane ancorato, lasciando intendere che non vuole lasciare il potere
conferitogli, sia gli occhi vivi e attenti, che si concretizzano con la mano destra che si nasconde dietro al tavolo,
quasi a voler celare qualcosa o una "mossa" spiazzante che ha in atto per Ottavio, mentre con lo sguardo sembra
voler anticipare il rimprovero che sta per avviare proprio verso il nipote.Quest'ultimo, personalità subdola e
ambigua, viene raffigurato nell'atto d'inchinarsi per dovere formale dinanzi al pontefice, pronto a sentire le sue
parole. Il cardinale Alessandro, invece, viene raffigurato con una mano ben salda sulla sedia papale, con lo sguardo
rivolto verso l'osservatore, dando l'impressione che non stia partecipando al colloquio tra gli altri due personaggi.
Lo sfondo e la tovaglia sono scuri e l'uso di colori pastosi e di pennellate poco definite, perché rapide ed
abbozzate, lascia un senso di oppressione e di tetraggine alla composizione. Si riscontra nella cromia una netta
predominanza dell'uso del rosso/scarlatto, delle quali si distinguono almeno quattro tonalità diverse (quella del
tavolo, dell'abito di Alessandro, del papa e della tenda) nonché una rara capacità di introspezione psicologica dei
personaggi, che daranno modo alla critica successiva di utilizzare come termine di confronto di questi ultimi
elementi le opere shakespeariane.
Nella figura del nipote Ottavio, di cui è caratteristico il naso adunco, è evidente il richiamo alla posa del discobolo,
caratteristica del manierismo nota come figura serpentinata. Una copia antica della tela, per la porzione
riguardante la figura di Alessandro, è nella Galleria Corsini di Roma.

1547 Ritratto di Carlo V L'opera ritrae Carlo V d'Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, a cavallo. Il quadro è uno dei tanti di
Tiziano commissionati dalla famiglia imperiale. L'Impero moderno del Cinquecento non è più quello cavalleresco-
medievale e necessita di un'immagine pubblica nuova ed efficace. Inoltre deve coniugare insieme classicità
(rappresentata dall'esempio costante dell'Impero romano) e modernità, in modo che le diverse etnie e culture
che compongono l'enorme Impero possano tutte riconoscersi nella figura unificante dell'imperatore. Tiziano –
profondo conoscitore della comunicazione – riesce in quest'opera delicatissima, armonizzando gli
ideali cavallereschi della Borgogna (ben conosciuti dall'imperatore) con i riferimenti al mondo classico (Carlo V
era infatti anche chiamato Caesar Carolus, nel tentativo di avvicinarlo al modello dato dagli imperatori romani).
L'opera viene commissionata da Maria d'Ungheria, sorella di Carlo V, per celebrare la vittoria dell'esercito del
fratello sui protestanti della Lega di Smalcalda a Mühlberg (24 aprile 1547). L'imperatore a cavallo viene
raffigurato come un vero e proprio soldato di Cristo in difesa della cristianità minacciata dal crescente diffondersi
del Protestantesimo. Egli sostiene con la mano destra una lancia - un riferimento sia alla possenza degli antichi
imperatori romani (di cui come detto Carlo si considera l'erede) sia un riferimento alla lancia di Longino (che
venne conficcata nel costato di Gesù Cristo durante la Passione) o a quella di San Giorgio (con la quale il santo
trafisse il drago, bestia comunemente associata all'eresia).
Il volto di Carlo è serio ed impassibile, anche se non totalmente realistico; Tiziano infatti nel dipingerlo ne addolcì
il prognatismo mandibolare, tipico degli appartenenti alla casata degli Asburgo. Oltre a ciò, ebbe cura di
tralasciare i segni della gotta di cui l'imperatore soffriva al tempo della battaglia e che lo avevano costretto a
seguirne lo svolgimento a grande distanza, disteso su una lettiga. L'Imperatore indossa una prestigiosa armatura
ricoperta d'oro e d'argento, che tuttora è conservata nell'Armeria del Palazzo Reale di Madrid insieme alla
raffinata bardatura del cavallo. Il paesaggio di fondo è placido, occupato dal fiume Elba, e non vengono
rappresentati i nemici sconfitti (dietro alla figura equestre c'è solo un bosco). La luce e i colori sono molto caldi,
con predominanza dei rossi e degli ocra.
Il dipinto ha parlato ai sudditi e ai nemici dell'imperatore in modo inequivocabile, mostrando nello stesso tempo
la forza del guerriero, la saggezza del sovrano, la fatica dell'uomo[4]. Secondo un aneddoto, peraltro confermato
da una serie di radiografie, il quadro appena eseguito venne rovesciato a terra dal vento mentre si trovava all'aria
messo ad asciugare. Ne risultò danneggiata la parte posteriore del cavallo, che fu poi ridipinta da un altro pittore
(Christoph Amberger). L'opera divenne l'immagine dinastica per eccellenza della casa d'Austria. Nel 1734 rischiò
però di finire bruciata dal grande incendio che distrusse il palazzo reale, il Real Alcázar di Madrid; la traccia
lasciata dall'incendio è chiaramente visibile nell'alone scuro che pervade l'estremità inferiore. Dal 1827 è
custodita presso il Museo del Prado di Madrid.
Lorenzo Lotto
1508 Polittico di Recanati (cuspide col Compianto sul Cristo morto)
Il polittico è composto da un'ancona centinata principale, attorno alla quale si dispongono altri due pannelli
minori della stessa forma e, in alto, due riquadri laterali con Santi e una cimasa rettangolare con la Pietà. Lo
schema quattrocentesco del polittico venne probabilmente scelto dagli stessi committenti, ma l'artista lo
sviluppò in una composizione unitaria, almeno per i pannelli inferiori, come se la scena si svolgesse sotto un
loggiato, con volta a botte cassettonata al centro e due volte minori ai lati e con l'apertura verso il paesaggio
alle estremità. Sicuramente la cornice originaria doveva enfatizzare la scansione degli spazi, simulando
probabilmente gli elementi architettonici di una loggia che si raccordavano a quelli dipinti. Le nicchie dello
sfondo, con le calotte decorate da mosaici alla bizantina, si rifanno ad alcune pale di Giovanni Bellini, così
come alla cultura prospettica quattrocentesca rimanda il pavimento a scacchi.
I pannelli sono così divisi:
 Madonna col Bambino, angeli e santi Domenico, Gregorio e Urbano, al centro, 227x108 cm
 Santi Tommaso d'Aquino e Flaviano, a sinistra, 155x67 cm
 Santi Pietro martire e Vito, a destra, 155x67 cm
 Santi Lucia e Vincenzo Ferrer, in alto a sinistra, 67x67 cm
 Santi Caterina da Siena e Sigismondo, in alto a destra, 67x67 cm
 Pietà, in alto al centro (cimasa), 80x108 cm
Spicca la presenza di santi domenicani, legati all'ordine che gestiva la chiesa, e dei patroni di
Recanati, Flaviano e Vito. Nella tavola centrale Maria, col Bambino benedicente in grembo, è nell'atto di
consegnare, per intercessione di un angelo, lo scapolare bianco dei domenicani a san Domenico: il santo è
infatti raffigurato in ginocchio ai piedi del trono. Moderno è il voluto squilibrio verso sinistra (come nella Pala
di Santa Cristina), così come la luce fredda e differenziata, tra zone più o meno esposte ai raggi solari, che non
esita a lasciare in ombra personaggi come i due papi ai lati del trono di Maria. Un altro elemento innovativo,
tipico dell'ironia di Lotto, sono i due angioletti musicanti alla base del trono, che si ritraggono spaventati
dall'apparizione del santo.
Nella Pietà campeggia il corpo morto di Cristo tra figure che emergono dallo sfondo scuro: un angelo,
Nicodemo, la Maddalena e forse la Madonna, che si copre il viso piangente. Forte è l'effetto di drammaticità,
acuito dalla luce fredda, la composizione serrata e la ricchezza di gesti e atteggiamenti, resi più espressivi da
un leggero sovradimensionamento delle mani.

1527 Ritratto di Andrea Odoni L'opera è nota fin dall'antico. Nel 1532 Marcantonio Michiel la segnalò nella collezione di Andrea Odoni,
mercante lombardo residente a Venezia, permettendone poi il riconoscimento in epoca moderna. La vide
anche Vasari e nel 1660 entrò nelle collezioni reali inglesi, acquistata sulla piazza di Amsterdam. In
passato venne attribuita anche a Tiziano e a Correggio.
Lo stile è tipico del soggiorno veneziano dell'artista, con toni più densi e pastosi, una gamma cromatica
addolcita ed effetti atmosferici che sfocano i contorni. Il quadro costituisce anche la più antica
rappresentazione di un uomo accanto a elementi della propria collezione artistica, tale da figurare come
una primissima attestazione pittorica di un interesse o di un intento di raccolta museale nella storia
del Rinascimento.
Il formato orizzontale era già stato utilizzato dall'artista per ritratti di coniugi e in questo caso è
sperimentato anche per un ritratto singolo, del gentiluomo tra la propria collezione di marmi antichi.
Indicato spesso come opera-simbolo dell'umanista nel suo studiolo, il Ritratto di Andrea Odoni pare che
però non mostri pezzi realmente presenti nelle collezioni del ricco mercante e politico veneziano, a parte
la testa di Adriano in primo piano a destra. L'insieme deve quindi essere legato a significati simbolici, che
alludono alla natura e alle virtù dell'effigiato. L'uomo è mostrato seduto presso un tavolino, indossa
un robone, una ricca veste bordata di pelliccia; tiene in mano una statuetta, forse immagine di una Diana
Efesina, protendendola verso lo spettatore mentre la mano sinistra è portata al petto, con enfasi
sentimentale tipica delle opere di Lotto. Sul tavolo si trova un libretto, con lacci, e alcune medaglie.
Correggio
1519 Camera della Badessa La camera faceva originariamente parte di un complesso di sei ambienti, che costituivano
l'appartamento personale della badessa Giovanna da Piacenza. La funzione di questo ambiente in
particolare non è nota: forse studiolo, forse sala di rappresentanza o forse, a giudicare dalle stoviglie
incluse nella decorazione, a sala da pranzo. A base pressoché quadrata (circa 7x6,95 m), la camera è
coperta da una volta a ombrello di gusto tardo gotico, realizzata nel 1514 da Giorgio da Erba, e
originariamente presentava arazzi alle pareti.
La volta vuole imitare un pergolato aperto sul cielo, trasformando quindi l'ambiente interno in un
giardino illusorio. I costoloni della volta, delimitati da nervature che simulano canne di bambu,
dividono ciascun spicchio in quattro zone, corrispondenti a una parete. Al centro della volta si trova lo
stemma della badessa, composto da tre lune falcate chiamate Crescenti, in stucco dorato, attorno al
quale l'artista ideò un sistema di fasce rosa artisticamente annodate, a cui sono legate dei festoni
vegetali, uno per settore.
Lo sfondo è un finto pergolato, che ricorda e sviluppa i temi della Camera degli Sposi di Mantegna e
della Sala delle Asse di Leonardo. Ciascun festone termina in un'apertura ovale dove, sullo sfondo di
un cielo sereno, si affacciano gruppi di puttini. In basso poi, lungo le pareti, si trovano lunette che
simulano nicchie contenenti statue, realizzate con uno straordinario effetto a trompe-l'œil studiando
l'illuminazione reale della stanza. La fascia più bassa infine simula peducci con arieti, ai quali sono
appesi teli di lino tesi, sostenenti vari oggetti (piatti, vasi, brocche, peltri...), altro brano di
virtuosismo. Sulla cappa del camino, infine, Correggio dipinse la dea Diana su un cocchio tirato da
cervi.
Il camino: La dea Diana, dea della caccia e dalla luna, è su un cocchio trainato da cervi (esclusi dal dipinto ad eccezione di alcune zampe) ed arma ta di arco e frecce. Il nome
della dea della Castità e della Caccia si lega a quello della committente (Giovanna-Gianna-Giana-Diana) e ne esalta le qualità virginali. Lo stemma della badessa conteneva
inoltre tre falci di luna, a rimarcarne il legame con la dea. Diana è sul cocchio e afferra un drappo compiendo il gesto ambivalente di coprire o svelare qualcosa, forse l'intera
volta. Rivolge allo spettatore uno sguardo intenso: essa è il punto di inizio e di fine dell'intera decorazione pittorica. A essa si riferiscono i putti che si affacciano negli ovali,
portando armi e trofei di caccia. Sull'architrave del camino si trova incisa una frase latina: IGNEM GLADIO NE FODIAS, ovverosia "Non disturbare la fiamma con la spada". Si
tratta di una frase di estrazione classica che si riallaccia alle contese della badessa con l'autorità ecclesiastica, ribadendo la propria indipendenza a fronte della volontà di
soffocare quel centro umanistico della sua cerchia ristabilendo una più rigida clausura.
Sul carattere "lunare" della decorazione scrisse una pagina Gombrich: "[Vi sono] alcune prove collaterali che, secondo me, rafforzano l'ipotesi "lunatica". Una di queste è la
grande profusione di conchiglie e di corni. Le conchiglie sono un prodotto della Luna e si formano in mare quando la Luna è i n fase crescente, e Pan soffia in una conchiglia. In
quanto ai corni, oltre a quelli che spuntano sulle teste d'ariete appese sotto le nicchie, ci sono anche quelli in forma di c ornucopia che costituiscono gli attributi di tre dei
personaggi. Gli oggetti metallici appesi sotto le nicchie ricordano il frastuono rituale che, secondo Vitruvio e altri autori, si otteneva percuotendo vasi metallici durante le eclissi
di Luna. Spero infine che non mi consideriate troppo frivolo se mi permetto di ricordarvi che ancor oggi chiamiamo lunette (t ermine già in uso nel Rinascimento) le nicchie di
questa forma"

Il fregio: Il fregio alla base della volta mostra, come si è accennato, peducci con arieti ingioiellati, tra i quali sono tesi dei lembi di lino in cui sono appoggiate stoviglie e
suppellettili all'antica. I piatti e le brocche via via rappresentati sono stati messi in relazione con le figure soprastanti per una lettura alchemi ca. Le bande continue rimandano
al liber linteus che richiama il tema del convito. Gli arieti rimandano probabilmente al segno dell'Ariete, il primo della primavera. Inoltre ricorda i sacri recinti dei suovetaurilia,
con le teste degli animali sacrificali appese.

Le lunette: Il contenuto filosofico/letterario della decorazione della Camera si sviluppò soprattutto nella serie composte da divinità olimpiche e immagini simboliche
monocrome. Simulano nicchie bordate di conchiglie riverse. Si tratta di un complicato insieme che è stato spiegato in vari modi dagli studiosi, con interpretazioni anche
discordi. Esistono precise corrispondenze simmetriche lungo le diagonali, passando quindi sempre attraverso il centro: la più evidente è quella delle tre figure (tre Grazie/tre
Parche), da cui si sono mosse le letture di tutte le altre. Secondo Panofsky il concetto base della decorazione è la rappresentazione delle virtù della badessa (la "speculum
morale"), seguito dai quattro elementi ("speculum naturale") e dalle divinità ("speculum doctrinale"). Altre letture sono un'allegoria della caccia (Corrado Ricci, Roberto Longhi),
l'evoluzione della vita sociale e individuale (Barilli) o un riferimento alle imprese pitagoriche della badessa (Guizzoni). Forse la badessa voleva qui mettere alla prova i propri
ospiti in una sorta di locus dissertationis, dove le varie corrispondenze erano oggetto di decifrazioni e spunto di dissertazione.
L'illuminazione delle lunette dal basso proietta l'ombra delle figure sullo sfondo della finta nicchia, creando una perfetta illusione di profondità. Gli illustri personag gi mitologici
delle lunette sono spiati nella loro più innocente e semplice umanità: le Parche, a cui spetta il compito severo di t essere e tagliare i destini degli uomini, sono tre fanciulle
dolcissime intente a lavorare un sottilissimo filo trasparente; Giunone, appesa con pesanti incudini d'oro legate ai suoi pie di, è poco più che un'adolescente spaventata che
guarda impaurita verso l'osservatore. Niente dell'archeologismo accademico che aveva informato la decorazione di Alessandro Araldi nella stanza ad iacente a questa, e niente
del solenne dialogo con l'Antico che caratterizzava l'elegante linguaggio del Sanzio sopravvive in questi monocromi di “cera fumante”, in queste figure morbide e tremolanti,
fatte di “moto” e “fiato”.

I putti: Sedici sono gli ovali con putti che si affacciano su uno sfondo celeste, uno per spicchio. Essi portano vari oggetti legati s oprattutto alla caccia e collegati, secondo le
letture di Panofsky e Frazzi, alle lunette sottostanti. Così i putti sopra la Virgo pegnans reggono un ghirlanda vegetale, simbolo di verginità, quelli sopra la terra uno scudo con la
maschera di Medusa, che pietrifica, quindi simbolo di roccia, oppure quelli sopra il serapeo hanno un arco che ha la forma di giogo, da intendere forse come guida dei destin i.
Quelli sopra la Virtus si sporgono fuori dall'ovale e cercano di afferrare qualcosa, forse l'Occasio, l'occasione fortunata.
I putti delle lunette sono collegati fra loro da molteplici rimandi narrativi e ad uno che suona il corno in un ovato corrispond e il suo compagno nell'ovato adiacente che,
infastidito dalla musica, fa il gesto di turarsi le orecchie. Pur esibendo virtuosistici contrapposti e scorci altrettanto sapienti, questi putti mantengono intatta tutta la freschezza
propria dei giochi infantili, dei piccoli dispetti e della soave e “smaliziata ilarità” dei trastulli.

1520-21 Cupola San Giovanni Evangelista


La decorazione ad affresco della cupola di San Giovanni Evangelista a Parma fu la prima commissione
pubblica di elevato impegno e di indubbio prestigio che il Correggio riuscì ad ottenere.
I pagamenti registrati nei Libri del monastero della chiesa parmense si snodano dal 6 luglio 1520 al 23
gennaio 1524. In origine gli affreschi si dispiegavano, oltre che sulla superficie della cupola (con la
raffigurazione della Visione di San Giovanni Evangelista a Patmos), sui pennacchi, al di sopra della porta,
collocata nel braccio sinistro della crociera, dove è rappresentato San Giovanni Evangelista in atto di
scrivere, e sulla superficie concava dell’abside che ospitava l’Incoronazione della Vergine . Quest’ultimo
affresco, tuttavia, fu distrutto nel 1587.
La decorazione di San Giovanni tradisce suggestioni provenienti dagli affreschi di Michelangelo della
Cappella Sistina e, in maniera ancor più limpida, una riflessione su alcune opere di Raffaello, quali
la Visione di Ezechiele, allora conservata a Bologna presso i conti Ercolani, o la cappella Chigi, in Santa
Maria del Popolo a Roma. Pertanto essa ha indotto a pensare, ancor più della decorazione della Camera
del Monastero di San Paolo, un soggiorno di studio del Correggio a Roma.
Ma il dato più rilevante è senz’altro da ricercarsi nell’innovativo impianto prospettico immaginato dal
Correggio.
A differenza della tradizione quattrocentesca, la decorazione appare libera da partiture architettoniche e
organizzata per essere guardata da due distinti punti di vista. Quello che avevano i frati benedettini, riuniti
nel coro, i soli a cui era dato di vedere la figura di San Giovanni, e quello dei fedeli nella navata. In questo,
l’opera si impone come uno dei più originali e riusciti esperimenti illusionistici della pittura del
Cinquecento. L’abilità a gestire le figure in scorcio, quella che era allora considerata una delle più ardite
difficoltà dell’arte e che il Correggio aveva già indagato negli ovati della Camera di San Paolo, tr ova
nell’architettura di nuvole degli affreschi di San Giovanni la sua prima compiuta espressione. La lezione
dell’illusionismo di Mantegna, già valorizzata nella decorazione della Camera di San Paolo, è adesso
portata a un vertice altissimo che solo la successiva decorazione per la cupola del Duomo potrà superare
ma che resterà unico per tutto il corso della produzione artistica del Cinquecento.
Esiste un buon numero di disegni preparatori per le figure degli apostoli e del Cristo che dimostrano
l’accuratezza con cui ogni singolo dettaglio fu studiato dal Correggio.
Il soggetto rappresentato è la Parousia, cioè la visione del secondo avvento di Cristo, avuta da San
Giovanni sull’isola di Patmos così come è descritto nell’Apocalisse: “Eccolo venire sulle nubi, e così lo
vedrà ogni occhio”(Apocalisse I, 7).
Non abbiamo testimonianze di quale fu la reazione della committenza e del pubblico a questa innovativa
opera del Correggio, ma a giudicare dal fatto che l’artista ottenne, negli anni in cui vi attendeva, il compito
di affrescare la cupola del vicino Duomo di Parma si può credere che, sebbene ancora in fieri, il lavoro
riscuotesse un elevato successo.
Fu probabilmente la decorazione della cupola di San Giovanni a sancire l’affermazione della fama del
Correggio a Parma. Nella prima metà degli anni venti egli ottenne un gran numero di importanti
commissioni e il 26 agosto 1525, il suo nome è registrato in una lista di periti e artisti (tra cui Alessandro
Araldi e Michelangelo Anselmi) chiamati a giudicare la stabilità della chiesa di Santa Maria della Steccata a
Parma. Da qui in avanti le commissioni che l’artista riceverà saranno sempre più importanti.
1524-30 Cupola del Duomo di Parma La cupola del Duomo è a base ottagonale con i lati irregolari e l'assialità un po' deformata[7]. Ciò
complicò il calcolo delle simmetrie e degli scorci, che il pittore dovette risolvere avvalendosi in
tutta probabilità di un astrolabio. Correggio concepì la sua decorazione affidandosi, come già in
San Giovanni Evangelista, a un illusionismo libero da partiture geometriche, che va ben oltre il
possibile esempio offerto da Mantegna o da Melozzo da Forlì, i quali, da artisti quattrocenteschi,
collocavano i propri personaggi entro un rigoroso schema geometrico. Correggio organizzò invece
lo spazio dipinto intorno a un vortice di corpi in volo, che crea una spirale come mai visto prima,
che al contrario annulla l'architettura, eliminando visivamente gli angoli e facendo scomparire la
fisicità della struttura muraria: i personaggi infatti, più che sembrare dipinti sull'intonaco, per un
eccellente equilibrio sembrano librarsi in aria.
Il tamburo è occupato da un parapetto illusorio, traforato da oculi veri (per risolvere i problemi di
illuminazione, fatti aprire al maestro Iorio da Erba), lungo il quale stanno in equilibrio una serie di
angeli e gli apostoli. Dal parapetto una spirale di nubi si attorciglia in un crescendo di sentimenti e
di luce, con l'episodio della nube su cui sale Maria, vestita di rosso e blu e spinta da angeli, alati e
apteri, verso la sua glorificazione celeste. Al centro un abbacinante scoppio di lume dorato
perfeziona la prodigiosa apparizione divina di Gesù che ha spalancato i cieli e si fa incontro alla
madre, proprio come accadeva negli affreschi della cupola di San Giovanni Evangelista[1]. La
composizione a spirale, perfezionata da tutti gli accorgimenti prospettici sia di riduzione della
scala delle figure, sia di sfocatura nella luce per i soggetti più lontani, guida l'occhio dello
spettatore in profondità e accentua il moto ascendente delle figure.
Nel fitto groviglio paradisiaco sono presenti santi, patriarchi e angeli. Sono riconoscibili alla destra
di Maria i personaggi maschili fondamentali della Bibbia: Adamo, Abramo, Isacco e Davide; a
sinistra tre donne di estrema importanza biblica: Eva (con la mela fogliata), la primaria ragione
dell'incarnazione divina, Rebecca, sposa ideale, e Giuditta (con la testa di Oloferne), l'eroina che
salvò il suo popolo[9]. Vicino a Maria si vede il volto di Giuseppe suo sposo, riconoscibile per la
mazza fiorita: secondo una tradizione orale il suo volto conterrebbe l'autoritratto di Correggio,
anche se si tratta di un'ipotesi impossibile dal punto di vista teologico. In genere però Correggio
evitò di rappresentare precisi dettagli iconografici, come i singoli attributi che avrebbero
permesso di identificare le figure di ciascun apostolo o ciascun santo, o, scelta ancor più radicale,
la tomba da cui la Vergine fu assunta in cielo. Questa omissione, come è stato notato, aveva in
realtà lo scopo di coinvolgere nella visione della cupola lo spazio concreto della chiesa
sottostante, permettendo ai fedeli di immaginare la presenza della tomba nello spazio in cui si
trovava l'altare e di percepire quindi la continuità tra mondo terreno e reale e mondo divino
illusivamente finto dalla pittura.Al di là della presenza di tanti corpi nudi (alcuni dei quali studiati
in splendidi disegni a matita rossa, come lo studio per Eva o lo studio per il parapetto) nel cuore
religioso e ideologico della cattedrale, gli affreschi del Correggio non risultavano - e a tutt'oggi non
risultano - facilmente leggibili. A ciò contribuisce anche l'originalissima stesura del colore, leggero
e fluente, senza stacchi netti tra figura e figura, all'insegna di un continuum con ambreggiature
radenti.

1526-27 Matrimonio mistico di santa Caterina


La prima menzione di quest’opera si trova nella seconda edizione delle Vite di Giorgio Vasari, stampata nel
1568. A quella data la tavola si trovava presso Francesco Grillenzoni a Modena. Nel 1582 passò nella
collezione di Caterina Nobili Sforza di Santafiora che la portò a Roma. Successivamente entrò nella collezione
di Scipione Borghese il quale, secondo le fonti seicentesche, non sarebbe stato disposto a rivenderla ad
alcun prezzo. C’erano allora molti acquirenti interessati ad ottenere questo delizioso quadretto: Daniel Nys e
Nicolas Renier avevano tentato invano di negoziarne la compera ma il Matrimonio mistico di Santa
Caterina rimase a Roma ancora fino alla metà del Seicento. Da Scipione Borghese passò presso il cardinal
Antonio Barberini, dove potè vederlo ed elogiarlo Domenico Ottonelli.
Purtroppo a causa dell’esilio di Antonio Barberini in Francia, non fu più possibile proteggere il dipinto dalle
mire dei più abili acquirenti. La corrispondenza del Cardinal Mazzarino presenta numerosi riferimenti al
tentativo di comprare dal Barberini questo dipinto; il cardinale si era dichiarato “disposto a fare un’offerta et
offerta tale che togliesse l’animo ad ogni altro concorrente”.
Il successo di queste trattative, fece sì che l’opera passasse in Francia dove ancora oggi si trova. Fra tutte le
versioni che il Correggio aveva dato di questo tema nel corso della sua ricerca artistica, questa è
indubbiamente la più raffinata e la più studiata. Il fulcro del dipinto è rappresentato dalle tre mani della
Vergine, del Bambino e della giovanissima Santa Caterina. Tutti gli sguardi dei personaggi convergono verso
questo fulcro narrativo e affettivo, incluso quello del San Sebastiano, ospite inconsueto di questa mistica
unione. Sullo sfondo di destra si intravede la scena del martirio del santo. La presenza del santo martire si
può spiegare con l’appartenenza alla confraternita di San Sebastiano del committente dell’opera.
Anche gli artisti rimasero affascinati da questo dipinto. Ad esso si ispirò Giulio Cesare Procaccini,
Ludovico Cigoli ne trasse una bella copia e Annibale Carracci volle rendergli un esplicito omaggio.
1526-27 Educazione di Cupido
Poiché la tela è inferiore di 30 centimetri in altezza e in larghezza rispetto al suo pendant oggi al Louvre, si suppone che
possa essere stata decurtata. Il dipinto ha una valenza simbolica di compiacimento culturale, riferibile al clima
umanistico italiano, da tempo impegnato nella dialettica sulle valenze umane e spirituali dell'amore. La tesi concettuale
parte dal piccolo Eros-Cupido, posto al centro, quale fanciullo capace di colpire con le sue frecce qualunque persona e di
accendere in essa un'irrefrenabile passione amorosa, spesso causa di negative conseguenze. La madre allora, nella sua
prima natura di Venere celeste, divina, intelligente, provvidente, che deve altresì temperarlo e indirizzarlo al bene. El la è
ben conscia della irragionevolezza del piccolo figlio, dotato di poteri travolgenti, e decide di passare dalla tradizionale
punizione post factum all'educazione preventiva. Ha scelto Mercurio come insegnante, in quanto dio onnipresente,
alato, portatore dei voleri di Zeus, astuto conoscitore di ogni cosa.
Venere alata, con le piume azzurre, ha tolto l'arco dalle mani di Eros e trattiene il figlioletto presso il maestro. La sua
nudità è totale, magnificente, uscita dal manto purpureo; ha una posa mossa, flessa e contrapposta, studiata
magistralmente e vivificata dal gioco delle ombre e dalla smagliante luce sul petto. Ella ci guarda, rimarcando
l'importanza della sua decisione didattica, quasi a coinvolgerci nel monito avvertibile circa le intemperanze di Amore, e
sorride compiaciuta. Mercurio è a sua volta nudo, soltanto ricinto dalla vitta azzurra, e indossa i propri attributi specific i:
gli alari ai piedi, per volare, e il pètaso come copricapo, anch'esso aligero, descritti con estrema cura. Mercurio introduce
il dio-bambino alla lettura dei precetti che devono ordinare i sentimenti, ma Cupido tentenna, tra diligenza ed
impazienza, dondolandosi sulle piccole gambe, già pronte all'infantile svicolarsi. Nelle sue alucce si raccolgono i colori
degli dei che lo istruiscono, ma il loro fremere già prelude, nel battito, all'abbandono dell'apprendimento e al ritorno ai
liberi capricci. Un dipinto moraleggiante e didascalico, senza dubbio, ma di respirante disincanto e felicità. Una
composizione raccolta nel magnifico silenzio del bosco, rorido di cortecce, muschi e finissime erbe, ma connotato da un
desiderio di cielo, come si comprende dalle varie ali qui predisposte, e dalle luci che filtrano.
I due soggetti mitologici, i primi che il Correggio abbia dipinto per opere da cavalletto (escludendo appunto gli affreschi
della Camera di San Paolo) e la fitta trama di citazioni dall'antica che esibiscono presuppongono comunque un
committente di cultura elevata in grado di apprezzare stile e soggetto dei due lavori. È stato infatti notato come la figura
di Venere richiami prototipi antichi quali la Venus pudica forse studiati sulla suggestione offerta dalla
perduta Leda di Leonardo da Vinci, che già aveva ispirato la figura del re moro dell’Adorazione dei Magi di Brera. La posa
di Mercurio parrebbe invece suggerita da quella della Sant'Anna del cartone di Leonardo da Vinci. A differenza del
pendant al Louvre, che esibisce uno scoperto erotismo, quest'opera mantiene un tono dolce e un po' naif, come si addice
alla scena rappresentata, l'educazione del piccolo Cupido.

1526-27 Venere e Amore


Venere e il figlio, incarnazioni dell'erotismo, si sono assopiti totalmente nudi - appena sopravvelati dall'ampio drappo
azzurro - e tali appaiono non appena il satiro voglioso (forse Pan) silentemente li scopre. Il soggetto era piuttosto
comune nel Cinquecento, probabilmente derivava dalla descrizione di un bassorilievo che ornava una fontana
presente nella Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna e dall'incisione che accompagnava quel testo.
L'atmosfera innegabilmente lasciva inviterebbe a lèggere la scena come un'allegoria delle potenze progenitrici della
natura e dei piaceri dell'amore carnale. L'idea della forza terrestre onnipervasiva sembra essere il soggetto principale
del dipinto. Infatti da sotto il lenzuolo, sul quale sono sdraiati Venere e Cupido, spunta una torcia accesa, le cui
fiamme sono rivolte verso l'alto: simbolo dell'amore non sopito, e assai temibile. La pelle del gran leone sulla quale
dormono Venere e Cupido può rappresentare - al contrario - il concetto astratto della fortezza temperante, anche
perché le frecce della faretra pericolosa sono immobili, e l'arco è ben custodito dalla dea madre.
E se l'Educazione di Amore si riferiva alla fulgida dea come portatrice di alti sentimenti positivi (Venere Celeste), così
questa tela affiancante - quale imprescindibile compimento di una cultura tutta rinascimentale, pienamente vissuta
dal Maffei - è dedicata all'insorgere dell'eros come dono universale, egualmente offerto dalla Venere Pandemia, ossia
da una potenza divina che non dimentica alcuno.
Rispetto ai possibili modelli, il dipinto del Louvre spicca per essere al tempo stesso meno volgare e più seducente. La
sensualità della Venere addormentata è valorizzata dalla posa arcuata del suo corpo su cui si riverbera la calda luce
del crepuscolo, ma la presenza del paffuto cupido che riposa sereno al suo fianco, sfiorandole una coscia, così come
l'espressione dolce del satiro-fanciullo che spia la scena, rendono l'immagine molto più fresca e dolce rispetto a lavori
simili che forse il Correggio poté aver conosciuto. Al modo del Correggio maturo la composizione è apparentemente
semplice, ma in realtà estremamente complessa, continuamente ingegnata su diagonali, scorci e rimandi (si notino i
giri uncinati delle braccia), e impostata per la visione dall'alto, quella del satiro.

1529-30 La notte/Adorazione dei pastori di Dresda


anni 30 Amori di Giove

Andrea del Sarto


1513-14 Nascita della Vergine
La scena è ambientata all'interno di una casa della borghesia fiorentina, dove compaiono: a destra Sant'Anna è
sdraiata su un ampio letto a baldacchino, dalla quale guarda le inservienti che si prendono cura di lei e della figlia.
Due ancelle portano da mangiare a sant'Anna. Al centro due nobildonne, che indossano le "gamurre", tipiche vesti
fiorentine, sono venute a visitare la partoriente: queste secondo la tradizione potrebbero essere Ismeria, sorella
di sant'Anna, e sua figlia sant'Elisabetta.
San Gioacchino raffigurato come un uomo anziano, che assiste alla scena, in disparte quasi intimidito dalle donne
alacremente impegnate nelle diverse attività. A sinistra tre ancelle si apprestano a lavare la bambina in un bacile e
sono intente a cucire le fasce; Bambino si scalda vicino al fuoco del camino. In alto, alcuni angeli, che assiepati sul
baldacchino, assistono alla scena.
La descrizione minuziosa e dettagliata degli arredi, dell'abbigliamento e degli oggetti quotidiani, come le ciabatte
ai piedi del letto e il camino acceso, decorato da profilature di marmo, sono un prezioso documento storico e di
costume. I ritmi tranquilli, le pose cadenzate e l'organica relazione tra figure e spazio architettonico si conciliano
ad un morbido modellato ottenuto attraverso un sapiente uso dello sfumato pittorico di matrice leonardesca.
L'opera dimostra come la predicazione di Girolamo Savonarola (1452 – 1498) è passata anche nella cultura e
nell'arte, anche se, in modo postumo, infatti Andrea del Sarto nella Natività di Maria Vergine, ritrae tutte le giovani
donne in abiti composti e castigati, col capo opportunamente coperto e i capelli celati da una cuffia monacale. Sul
camino si trova l'iscrizione con la data dell'opera e la firma dell'artista.

1517 Madonna delle arpie


Il titolo tradizionale della pala risale a Vasari, che lesse le figure scolpite sugli spigoli del piedistallo come arpie. Qui si
legge l'iscrizione "AND.[rea del] SAR.[to] FLOR.[entinus] FAC.[iebat] / AD SUMMUM REGINA TRONUM DEFERTUR IN
ALTUM M.D.XVII.". In una nicchia architettonica appena accennata, calata in una calda penombra, Maria si leva su un
piedistallo, col Bambino in braccio e reggente un libro appoggiato alla coscia. Due putti la sostengono in basso. Ai lati
si trovano i santi Francesco, col crocifisso, e Giovanni evangelista, che con un gesto enfatico
di michelangiolesca memoria tiene aperto un libro e con una mano nascosta sembra indicarne un punto. I due santi
guardano verso lo spettatore, mentre Maria e Gesù hanno lo sguardo diretto in basso.
Antonio Natali propose un'interpretazione della pala legata al capitolo IX dell'Apocalisse di Giovanni, a cui alluderebbe
il libro tenuto aperto. Le figure del basamento non sarebbero arpie, né tantomeno le sfingi lette da altri studiosi
(Monti, Shearman), ma le "locuste" citate nel testo, portatrici di calamità e distruzione. Ciò appare confermato anche
da fumo che si leva dal piedistallo, già notato da Vasari e tornato in evidenza con l'ultimo restauro, che sarebbe quello
salente dal "pozzo dell'Abisso", a oscurare il sole e l'atmosfera.
San Francesco quindi, oltre che titolare della chiesa, potrebbe rappresentare l'esempio per coloro che eviteranno tali
tormenti, poiché segnati dal sigillo cristiano. Maria sarebbe quindi rappresentata nel momento in cui sottomette
Satana, chiudendone simbolicamente il pozzo.
1524 Pietà
Una roccia che declina da sinistra verso destra fa da sfondo al Compianto sul Cristo morto, o Pietà. Gesù dopo la
crocifissione viene adagiato sul sudario e la pietra dell'unzione, prima di essere messo nel sepolcro che si intravede
a sinistra, nel dolore generale: Giovanni apostolo gli tiene la schiena, la Madonna un braccio e Maria Maddalena,
che ha i gomiti piegati e le mani intrecciate portate al viso, sta vicino ai suoi piedi e lo guarda attonita.
Partecipano alla scena tre santi: san Pietro, titolare del monastero, un santo maschile in rosso, san Paolo, e
una santa Caterina d'Alessandria, riconoscibile per la ruota spezzata, nelle cui fattezze si celerebbe un ritratto della
badessa committente. In primo piano si trova il calice eucaristico, che chiarisce come il corpo di Cristo sia venerato
presente nell'eucaristia: un tema particolarmente adatto a una pala d'altare, che si ritrova, negli stessi anni,
accennato anche in altre pale come la Deposizione di Pontormo o il Cristo morto compianto da quattro
angeli di Rosso Fiorentino.
In basso, nel bordo più vicino all'altare, l'artista dipinse il calice eucaristico, a voler rimarcare il significato di
redenzione del sacrificio di Cristo che si rinnova nel rito dell'eucaristia. In alto a destra si apre un leggero paesaggio
di colline che sfumano in lontananza e una città turrita azzurina. In questa prova Andrea del Sarto ammantò le
figure di una nuova monumentalità, derivata dall'esempio michelangiolesco, e di colori brillanti alla Raffaello,
colpiti però da una luce forte che crea inaspettati bagliori a cangiantismo, tipici della prima "maniera"
di Pontormo e Rosso Fiorentino, i due più brillanti allievi del Sarto con cui insturarò un rapporto di confronto/sfida.
Sapiente è la composizione dei personaggi, con rimandi l'un l'altro lungo le due diagonali, che si intersecano dietro
la figura di Cristo. Il pathos scaturisce dall'atmosfera sospesa e le emozioni trattenute, piuttosto che su una vera e
propria manifestazione di dolore dei personaggi.
Pontormo
1517-18 Giuseppe in Egitto L'opera è forse la più celebre e innovativa di tutto il ciclo pittorico Borgherini-Acciaiuoli. Racconta il
ricongiungimento di Giuseppe con la sua famiglia in Egitto (Genesi 47,13 e 48) con una serie di episodi
rappresentati contemporaneamente e su piani diversi, con un brulicare di personaggi e figure ispirato più
alle incisioni tedesche che alle tradizionali composizioni italiane. Nordico è infatti l'aspetto di numerosi
personaggi, delle vesti, del massiccio castello al centro e anche degli alberi che punteggiano qua e là il
paesaggio.In primo piano a sinistra Giuseppe presenta al faraone la sua famiglia da lui invitata a trasf erirsi
in Egitto; a destra Giuseppe procede sul carro trionfale trascinato da tre putti, mentre un quarto si erge su
una colonna dietro il protagonista, il quale si sta piegando, aiutato da un altro fanciullo, verso un
personaggio inginocchiato che gli presenta una supplica scritta, a simboleggiare il potere e la
considerazione di cui egli godeva. A destra, su un edificio cilindrico, si avvolge una scala senza ringhiera,
salita da Giuseppe che tiene per mano uno dei suoi figli mentre più in alto un secondo fanciullo è accolto
dalla madre affettuosamente; dietro di essi sale il messaggero che ha mandato a chiamare Giuseppe su
richiesta dell'anziano padre di lui Giacobbe. Giuseppe, i figli Efraim e Manasse sono infine accolti nella
stanza aperta in alto a destra, dove Giacobbe, vecchissimo e ormai pronto a morire, impartisce loro la
benedizione. Il protagonista appare quindi più volte, in una sorta di narrazione continua, facilmente
identificabile tramite la tunica ocra, il mantello violaceo e il copricapo rosso. Tra i due edifici, ornati da
statue che paiono vive, si assiepa una folla di persone mentre più dietro, tra i macigni di un sentiero in
salita, alcuni personaggi di difficile identificazione rivolgono la loro attenzione a quello che avviene in primo
piano. Tra le sculture, quella maschile di sinistra appare come un omaggio al Bacco di Jacopo Sansovino, in
una posa che sarà sviluppata pochi anni dopo nel suo San Quintino. Secondo la testimonianza di Vasari il
ragazzo con la veste marrone e il mantello scuro seduto su un gradino al centro sarebbe un ritratto del
giovane Bronzino, allievo di Pontormo.

1519-21 Vertumno e Pomona

Ovidio raccontò la storia di Vertumno e Pomona nelle Metamorfosi (XIV, 622-697 e 765-769). Le due divinità sono rappresentate agli angoli inferiori della lunetta, ciascuna con
l'attributo che le caratterizza: a sinistra Vertumno con il canestro, a destra Pomona con la falce. Essi indossano abiti da contadini, come anche gli altri personaggi presenti. Il mito
è quindi calato in un'atmosfera popolaresca e rustica, assomigliando più alla rappresentazione del riposo di un gruppo di cam pagnoli durante un assolato giorno di festa. La
scena non ha carattere narrativo. In alto si legge l'iscrizione tratta dalle Georgiche di Virgilio (1, 21), dove vengono invocati gli dei e le dee protettori dei campi: DIIQUE DEAEQUE
QUIBUS ARVA TUERI. Al centro della lunetta si apre la finestra ad oculo (oggi coperta da un tendaggio, ma nata come fonte di illuminazione della sala), attorno al quale il pittore
disegnò fronde di alloro che dipartono simmetriche e quattro putti, due sui rami e due seduti su un muretto, che reggono le estremità di una grande ghirlanda fatta di foglie,
frutta e nastri. Sullo stesso muro stanno adagiate due figure, un uomo nudo dalla parte di Vertumno, e una donna vestita di rosso con camicia azzurra e scialle bianco dalla parte
di Pomona, forse una rappresentazione della dea Cerere. Una terza donna si trova poco sotto, girata di spalle, mentre dal lato opposto stanno un uomo sdraiato e un cane in
scorcio molto realistico (ma ottimizzato per la visione frontale piuttosto che dal basso, come sarebbe naturale per lo spetta tore).
L'adolescente nudo sopra Vertumno fa penzolare le gambe e si allunga, appoggiandosi sull'avambraccio destro e stendendosi, per sollevare il panno violetto e toccare una foglia
di alloro. Egli potrebbe rappresentare un giovane Bacco, dio del vino. Un notevole realismo si può cogliere ad esempio nella figura di Vertumno, rappresentato come un vecchio
col volto solcato, le mani nodose, le ginocchia ossute, deformate dal lavoro nei campi. Curiosa è la figura del cane s magrito, corrucciato e come sul punto di abbaiare, in
posizione molto naturale derivata sicuramente da uno studio dal vero. Questo particolare interesse verso l'universo naturale venne ispirato probabilmente dalle stampe
tedesche, allora già molto diffuse anche a Firenze, con animali, vegetali e uomini rappresentati con la stessa dignità e interesse dell'artista. Secondo un'interpretazione allegorica
più complessa l'affresco potrebbe costituire una metafora politica esaltante il destino e l'immoratlità dell a casata medicea, ricollegandosi al tema celebrativo degli altri affreschi
del salone. Il troncone d'alloro rappresentarebbe i vari rami della dinastia (Lorenzo de' Medici usò spesso il Laurus come rimando alla sua persona). Il rinnovarsi generazionale è
evocato dall'idea della rigenerazione della natura nel trascorrere delle stagioni. Vertumno simboleggerebbe l'inverno e l'uom o seduto accanto a lui Apollo, dio del Sole; Pomona
l'estate o la primavera e la donna di spalle accanto ad essa Diana, cioè la luna. Il complesso delle figure in primo piano simboleggerebbe quindi il trascorrere dei giorni e delle
stagioni. La profondità spaziale, come in altre opere del periodo, appare assottigliata, senza però intaccare l'ariosità data dal cielo aperto dello sfondo. Tutto è calibrato con
attenzione all'equilibrio generale, movimentato però dalla pluralità di direzioni che suggeriscono le articolate posizioni dei personaggi, i loro ges ti e i loro sguardi.
1522 Ritratto di gentildonna in rosso

1522-25 Affreschi con storie di Cristo

Orazione nell’orto:
Resurrezione: La lunetta della Resurrezione è la meglio conservata del ciclo, in cui sono ancora in larga parte leggibili i dettagli. Ciò si deve sicuramente alla sua posizione
originaria in angolo sopra un portale, quindi maggiormente riparata. Fa eccezione la caduta dei colori più scuri, in parte do vuta anche allo stacco, che rendeva metalliche le armi
dei soldati (le spade, le scuri, le alabarde), oggi bianche come l'arriccio di fondo.
La scena ha uno schema pressoché simmetrico, con al centro la figura di Gesù che si leva senza peso e circondato di luce dal sepolcro (non visibile), tra un folto gruppo di soldati
addormentati. Un raffinato gioco formale si attua nella varietà delle pose dei dormienti e nei continui richiami a forme tond eggianti nei loro volti, nei cappelli, negli scudi (Adolfo
Venturi parlò di "dischi policromi", 1932). Nella parte superiore invece prevalgono le linee dritte e appuntite delle lance, delle bandiere e dell'asta del vessillo di Cristo. La
ricchezza cromatica è un vero e proprio caleidoscopio di gialli, rossi-arancio, bianchi, verdi, grigi e viola, scelti in tonalità tenui e poco consueti. In generale le influenze nordiche
si manifestano nei profili allungati e nell'abbigliamento dei personaggi, nonché nel senso drammatico degli eventi: grazie a tali ricerche l'artista scioglieva tutti i legami con la
tradizione fiorentina, arrivando a una nuova e liberissima sintesi formale.

1526-28 Deposizione

Deposizione: Situata entro la cornice lignea originale, di Baccio d'Agnolo, viene solitamente chiamata con il riferimento tradizionale alla deposizione dalla croce del corpo morto
di Cristo, anche se a ben guardare non vi è rappresentata alcuna croce; sarebbe quindi più opportuno parlare di "trasporto di Cristo" verso il sepolcro e di compianto sul Cristo
morto, come si evince dalla presenza dei numerosi personaggi dolenti che si affollano attorno alla protagonista del gruppo, Maria vestita d'azzurro. Sicuramente l'episodio del
compianto doveva avere un importante ruolo, essendo la cappella dedicata alla Pietà: si tratterebbe comunque di una pietà "dissociata", dove cioè madre e figlio non sono uniti
ma separati. L'unione in opere d'arte di vari temi relativi ai momenti dopo la crocifissione era comunque già diffusa, si pensi ad esempio alla Deposizione
Borghese di Raffaello (1507), pure in quel caso un "trasporto" unito al "compianto". Un'altra interpretazione, descritta da Antonio Natali, è che la scena illustri l'eucaristia, col
corpo di Cristo, "pane degli angeli" secondo sant'Agostino, calato idealmente sulla mensa d'altare sottostante: in questo senso si spiegherebbe anche l'insolito doppio rispetto al
soggetto analogo della vetrata di Guillaume de Marcillat.
La composizione è molto serrata, con undici personaggi uniti in un "nodo inestricabile di figure", come scrisse Adolfo Venturi[5], formanti una sorta di piramide rovesciata. I gesti
sono spesso enfatici, i volti dolenti, in modo da accentuare la tensione espressiva. In primo piano a sinistra due personaggi trasportano il Cristo morto procedendo in diagonale
verso destra e verso il centro del dipinto. Il corpo divino si viene quindi a trovare sopra l'altare e richiama la sua offerta come panis angelicus. Quello che tiene le gambe di Gesù
è accovacciato, mentre quello che regge le spalle sta in piedi; entrambi rivolgono lo sguar do verso l'esterno, dove si trovano i possibili spettatori, ed entrambi non percepiscono
per niente il peso della salma, come dimostra il loro procedere in punta di piedi. Essi sono stati interpretati come angeli, che sono in attesa di spiccare il volo fuori dal dipinto per
portare il Cristo nelle braccia di Dio Padre già raffigurato nella cupoletta della cappella.
Un'altra figura, questa volta femminile, si leva in alto a sinistra e, senza chiarimento di dove essa poggi, si sporge in avanti a tenere con dolcezza la testa di Cristo. Un'altra donna,
di cui si intravede la testa voltata, le spalle, le mani e un avambraccio, regge invece la mano sinistra di Gesù. Essa sta rivolta indietro rivolgendosi a Maria, che occupa gran pa rte
della parte centrale e destra col suo vaporosissimo manto, circondata da quattro donne. Essa ha il volto tormentato e leva un braccio verso il figlio, arretrando, lungo la
diagonale, come prima di uno svenimento, quasi a lasciare spazio alla figura del figlio che procede. Essa, a ben guardare, è seduta in posizione rialzata, come si scorge dalle
gambe piegate che si intravedono al centro. Verso di lei accorre una donna in primo piano vestita di rosa (la Maddalena?), con un fazzoletto di lino per asciugare le lacrime e
ritratta a figura intera, di spalle. A destra della Vergine si trova invece una testa di vecchia, che le rivolge uno sguardo preoccupato. Dietro si trovano altre due presenze eteree,
che sembrano galleggiare nel vuoto: una pia donna che porta un braccio al petto, e una col capo scoperto, che si protende in avanti come spiccando il volo, allungando le braccia
indietro; essa è vestita da una sottilissima guaina verde e magnificata da un drappo arancione che la avvolge da dietro, gonfiato da una misteriosa brezza.
1528-29 Visitazione Citato e descritto da Vasari, l'affresco trattò la visitazione attingendo alle più avanzate novità spaziali allora
venute alla luce sulla piazza artistica fiorentina. Invece di riferirsi a Ghirlandaio, fonte di ispirazione per la
maggior parte delle scene, Pontormo prese a modello piuttosto le opere di Raffaello e di Fra Bartolomeo, come
la Pala Pitti dalla quale derivò il moto circolare delle figure attorno al nucleo della Visitazione vera e propria.
Inoltre, a differenza di Andrea del Sarto, per ampliare lo spazio Pontormo non ricorse a figure disposte lungo le
diagonali, ma sviluppò i gradini, assai inconsueti in questa iconografia, su cui pose delle figure che creano una
sorta di quinte laterali e che incoraggiano lo scorrere dei personaggi circolarmente, come
nel Parnaso di Raffaello. Nel complesso però la spazio appare insufficiente rispetto alla sovrabbondanza di
personaggi, creando una sottile inquietudine che si allontana da tali posatissimi modelli.
Sulla sommità di cinque gradini Maria riceve l'omaggio di sant'Elisabetta, inginocchiata su un gradino più basso,
sullo sfondo di un'esedra colonnata su cui si trova anche la firma dell'artista. Sopra di essa, che è su un fondale
scuro, stanno un putto e un anziano, che movimentano ulteriormente la composizione. Maria ed Elisabetta
ricordano la Madonna dell'Impannata, sempre di Raffaello, mentre nelle altre figure femminili si riscontrano
similarità, nelle pose e nelle fisionomie, con i lavori di Andrea del Sarto. Rispetto alla vivace vena narrativa delle
altre scene del ciclo dipinte dal del Sarto, lo spazio appare qui più bloccato e circoscritto, in pose statuarie come
quella del santo col libro, in primo piano a destra, o della canefora a sinistra, o ancora della madre col ba mbino in
secondo piano, accanto a Maria. Si tratta di echi michelangioleschi, così come lo stridore della veste gialla di
Elisabetta, che ha fatto ipotizzare un viaggio dell'artista a Roma, verso il 1515, dove dovette vedere le novità
nella Cappella Sistina e nelle Stanze di Raffaello. Per Luciano Berti l'affresco presenta "una maggiore decisione
unitaria nello spazio, dunque, mentre il medesimo schema fondamentale classico [...] trova ora in Pontormo un
moto di variazioni molto più intenso di personaggio in personaggio...".
Notevole è il putto seduto a destra, figura sciolta e densa di malinconica emozione, in cui si coglie già lo stile di
poetica "maniera" della maturità del pittore. La sua posa disinvolta sui gradini richiama quella
del Diogene nella Scuola di Atene di Raffaello, presupponendo quindi un viaggio a Roma di poco anteriore
all'affresco, o comunque la conoscenza dell'opera raffaellesca tramite disegni o incisioni. Anche lo sguardo
enigmatico della donna a sinistra, lievemente caricato e inquieto, è indice di una nuova sensibilità, estranea ad
esempio ai pittori fiorentini della generazione immediatamente precedente come Fra Bartolomeo. Nuovo è
anche il gesticolare del gruppo sulla destra.

1534 Ritratto del duca Alessandro de Medici

Rosso Fiorentino
1518 Pala dello Spedaligno
Si tratta di una sacra conversazione, con al centro la Madonna, seduta sullo sfondo di un damasco dorato, che
tiene in braccio il Bambino e conversa con quattro santi attorno a lei. A sinistra si vede san Giovanni Battista,
patrono di Firenze e titolare della cappella in Ognissanti, seguito da sant'Antonio Abate, protettore degli animali e
quindi adatto alla località di campagna, e, sull'altro lato, da santo Stefano, titolare della chiesa di Grezzano, con la
pietra della lapidazione in testa, e uno scheletrico san Girolamo col libro, col ventre incavato, lo sterno, le costole e
le clavicole ben in vista, la magrezza estrema del collo e del braccio, rivelando un legame con gli studi anatomici
che all'epoca si iniziavano ad effettuare sui cadaveri. I due santi centrali, come hanno dimostrato anche le
radiografie, erano nella prima stesura san Benedetto, protettore del padre di una vedova che aveva lasciato i suoi
beni all'ospedale, e san Leonardo, omonimo del Buonafede, i cui ceppi si intravedono ancora nell'ombra dietro la
testa della Vergine. Per modificarli venne aggiunto un Tau sulla veste di Benedetto e un sasso sulla testa di
Leonardo, nascondendo i ceppi in un'ombra indefinita. Ai piedi di Maria, seduti su un gradino, si trovano due
squisiti angioletti, presi nella lettura di un libro, che sembrano estranei alla generale inquietudine dei santi.
La composizione è semplificata e si ispira alle pale fiorentine del Quattrocento, come la Pala di
Sant'Ambrogio di Botticelli (1470). Nuova è però l'eliminazione di qualsiasi gerarchia tra la Vergine e i santi: essa
infatti non è come di consueto in posizione dominante, ma è inserita al centro del gruppo in uno spazio
circoscritto. Inoltre, a differenza di quello che andava facendo Pontormo in quegli stessi anni in opere come la Pala
Pucci, Rosso tese a chiudere la composizione su sé stessa, anziché aprirla verso l'esterno o, tantomeno, mantenere
la classica scansione ritmata[1]. Come per Pontormo la spazialità appare compressa, con una forte riduzione della
profondità.
Gli effetti spigolosi e scabri furono ispirati invece dall'osservazione di lavori scultorei, come i rilievi dell'ultimo Donatello nei pulpiti della Passione e della Resurrezione in San
Lorenzo. I santi hanno infatti volti incupiti da ombreggiature molto marcate, con sguardi privi di serenità, ora interrogativi, ora attoniti, all'insegna di un senso generale
d'inquietudine, sottolineata anche dalla gestualità. Nel san Girolamo ad esempio si notano già caratteristiche che verranno sviluppate nelle opere future, come l'espres sività
caricata nella posa e nel volto (si è parlato di espressione "crudele e disperata"), nonché una sfaccettatura dei volumi che esaspera le forme. A una ricerca in tale senso va
ascritta anche l'accentuazione delle ombre attorno agli occhi, così antinaturalistica: nel caso del Bambino tale evidenza è però dovuta al riaffiorare di un pentimento, forse
corretto all'epoca della risistemazione dei santi: di occhi, infatti, il Bambino Gesù ne ha ben quattro.
Tali caratteristiche sottilmente inquietanti appaiono però mitigate dalla dolcezza di alcune figure, come quelle degli angioletti, o dalla ricchezza cromatica, con effetti cangianti.

Anni 20-40 Galleria di Fontainbleau


Le pareti lunghe sono sui lati nord-sud e quelle brevi sono direzionate quindi sull'asse est-ovest. Ai
quattro punti cardinali si trovano scene legate al tema dell'amore. Al centro della parete nord infatti
si apriva un camerino contenente un perduto ovale con Giove e Semele, mentre sul lato opposto un
altro ovale rappresenta l'Amore di Giove e Danae; alle due testate Vasari ricordò di aver visto a ovest
un Venere e Amore (perduto, noto forse da un disegno al Louvre) e, ad est un dipinto con Bacco,
Venere e Amore, forse identificabile con quello al Musée national d'histoire et d'art della città di
Lussemburgo.
Al centro campeggiava un busto del sovrano in marmo. I lati lunghi presentano una serie di dodici
riquadri - circondati da stucchi e intervallati dalle finestre - con affreschi il cui aspetto è però
compromesso dalle modifiche e dei rifacimenti apportati sin da un'epoca molto vicina al loro
completamento. Ciò si nota confrontando l'aspetto odierno degli affreschi con le copie coeve, i
disegni preparatori e le prime incisionidell'intera decorazione. Il tema degli affreschi della galleria è
essenzialmente una celebrazione allegorica della vita. Le virtù e le imprese di Francesco I, sebbene il
significato iconografico di molti particolari resti ancora oggi oggetto di dibattiti e incertezze. La
stessa Margherita di Navarra, sorella del sovrano, gli scriveva in una lettera di non riuscire a venire a
capo del significato di quelle storie senza la sua guida, anche se non è chiaro se si tratti di
un'affermazione reale o retorica.
In due affreschi il sovrano viene rappresentato direttamente (Illuminazione e Unità dello Stato),
mentre le altre scene dovrebbero contenere allusioni più o meno evidenti alla sua vita. Ad esempio
l'Elefante reale, che porta la salamandra reale sul copricapo e una gualdrappa coi gigli di Francia e una
grossa "F", altro non sarebbe che un ritratto allegorico del re e delle sue qualità: grandezza, potenza,
bontà, temperanza, generosità. Le storie di Cloebis e Biton e dei Fratelli di Catania evocherebbero
l'amore verso i genitori e i parenti, ovvero la pietas familiare che lo legavano alla venerata
madre Luisa di Savoia o alla sorella Margherita di Navarra.

La Morte di Adone, secondo Panofsky, allude all'evento tragico della morte del Delfino Francesco di Valois il 10 agosto 1536: data dopo la quale si procedette probabilmente a
una revisione iconografica. Anche la Perdita della gioventù perpetua sarebbe un'amara riflessione sul trascorrere del tempo, controbilanciata dall'Educazione di Achille che
allude a una giovinezza guidata con saggezza, forse riferendosi ancora una volta ai figli del re. Marc Fumaroli ha proposto che nella lettura delle scene siano da tenere in conto
anche i tre Inni pindarici scritti in quegli anni da Luigi Alamanni (un altro fiorentino esule in Francia) per il re e sua sorella, nonché la consulenza letteraria di Lazare de Baïf,
ambasciatore e letterato, già allievo di Giano Lascaris. Falciani imbastì una lettura esegetica più ampia, legata alla contrapposizione tra amore carnale negativo e amore
spirituale positivo, implicita nel motto dell'emblema reale della salamandra (scelta da Francesco I almeno dal 1504): "notrisco al buono, stringo al reo", ovvero mi alimento al
fuoco del bene e mi estinguo a quello maligno. La Lotta tra Centauri e Lapiti ad esempio conterrebbe una condatta verso coloro che si abbandonano sfrenatamente all'amore
carnale, mentre la Peridta della gioventù perpetua mostrerebbe la stupidità della razza umana, ingannata dal "precipizio dei sensi". Anche la Vendetta di Nauplio e la Morte di
Adone si riferirebbero ai pericoli dell'amore carnale e le sue conseguenze, mentre l''Educazione di Achille indicherebbe la strada per la vita virtuosa; parimenti le scene sulla
destra mostrerebbero gli effetti legati alla scelta dell'amore spirituale. Il Sacrificio la protezione offerta alla religione.

1521 Deposizione La pala mostra un momento fino ad allora rappresentato raramente, ovvero la discesa del corpo di Gesù dalla c roce
subito dopo lo stacco, ispirandosi al racconto di Matteo (27, 45; 57), in cui la terra viene avvolta da una fitta oscurità. La
scena è infatti ambientata al crepuscolo, con un delicato trapasso delle luci serali dalla linea dell'orizzonte alla parte
alta del dipinto. Mai rappresentato prima e non descritto dai vangeli è il fatto del corpo di Cristo che sembra essere sul
punto di scivolare dalle mani dei suoi soccorritori, che si affannano concitatamente per evitarne la caduta[1].
L'esplosione emotiva di questo episodio è combinata, nella parte inferiore, con una forte spiritualità scaturita dalla
ricca gamma di pose ed espressioni degli astanti, tra i quali spiccano la Madonna ferita dal dolore, la Maddalena
inginocchiata e protesa verso di essa, san Giovanni piegato dal dolore. La disposizione asimmetrica delle scale genera
un moto violento, accentuato dall'incertezza degli appoggi degli uomini che calano il corpo di Cristo.
Simile per la forma della tavola e per le misure, oltre che per il tema, a quella del Pontormo, tuttavia ne differisce
profondamente per la concezione. Il Rosso ottiene il dramma per la volumetria angolosa che sfaccetta le figure (si veda
la Maddalena e la sua veste, la figura più in alto di Nicodemo, ecc.), per il movimento convulso di alcuni personaggi, per
i colori intensi prevalentemente rosseggianti stagliati sulla distesa uniforme del cielo, con la luce che incide da destra
con forza, creando aspri urti chiaroscurali. Tinte complementari sono spesso accostate, con effetti cangianti, e si
stagliano con forza gli effetti "fosforescenti" nei punti di maggiore luminosità, rispetto allo sfondo. La particolare
stesura, con una sottile patina degli impasti, rende qua e là visibili l'imprimitura e gli strati sottostanti, rivelando
talvolta curiose annotazioni autografe, come le scritte relative ai colori da impiegare, poi cambiate bruscamente in
corso d'opera sulla spalla destra della donna in primo piano, che poi è invece colorata di un rosa salmon e, o "azzurro"
nel panno del depositore più basso (che invece è giallo) o nello chignon della Maddalena. Le deformazioni dei corpi e
dei volti giungono all'estrema esasperazione: il vecchio affacciato dall'alto sulla croce, Nicodemo, ha il viso contratto
come una maschera. I depositori formano una sorta di circolo, complessamente articolato sui piani in tre dimensioni
delle scale, che asseconda la forma centinata della pala, anche tramite il mantello di Nicodem. Sullo sfondo, al bordo
dell'intenso blu che riprendeva il lapislazzuli degli affreschi di Cenni di Francesco, si intravedono, piccolissimi, alcuni
armigeri, simbolo della perfidia e malvagità umana che ha condotto Cristo sulla croce[3]. Un capitolo aperto nello
studio dell'opera è rappresentato dall'individuazione delle fonti iconografiche che hanno ispirato l'artista. Alcuni hanno
ipotizzato un'assoluta originalità dell'artista nell'invenzione, altri sono risaliti fino a fonti medievali, come il gruppo
ligneo della Deposizione nel Duomo di Volterra (XIII secolo), oppure con alcuni personaggi della Strage degli Innocenti e
con lo spartito della Deposizione di Cenni di Francesco nella cappella a cui era destinata la pala. L'opera più vicina a
quella del Rosso è comunque la Deposizione per la Santissima Annunziata (Firenze) di Firenze, avviata da Filippino
Lippi e terminata da Perugino: analoga è l'impostazione della Croce e la presenza delle due scale laterali, una
appoggiata sul davanti, una sul dietro. Il depositore col perizoma giallo assomiglia a una figura del perduto cartone
della Battaglia di Cascina di Michelangelo, mentre il corpo di Cristo cita la Pietà vaticana. L'accostamento di colori
complementari deriva forse dalla visione della volta e le lunette della Cappella Sistina, viste forse in un viaggio a Roma
tra il 1518 e il 1521, così come la posa di san Giovanni, col volto nascosto tra le mani, ricorda quella dell'Adamo
nella Cacciata dei progenitori dall'Eden, di Masaccio.Inoltre sarebbero presenti echi delle stampe di Dürer, all'epoca
assai popolari a Firenze.
1523 Sposalizio della Vergine
La scena è molto affollata e impostata simmetricamente, con al centro Giuseppe, con la mazza fiorita, che sta
infilando l'anello a Maria benedetto dal sacerdote dietro di loro. Abbandonando la tradizione iconografica, senza
sottostare a quei vincoli dottrinali che di lì a poco ribadirà la controriforma, Giuseppe è rappresentato come un
bel giovane, anziché anziano e quindi incapace di intaccare la verginità di Maria. Una tale scelta rivoluzionaria ha
sempre interessato gli studiosi e l'unica possibile spiegazione finora trovata è che voglia rappresentare
simbolicamente la renovatio ecclesiae promossa da Leone X e portata avanti da Clemente VII. Non è escluso però
che si tratti di una scelta dell'autore, artista ai limiti del dissacrante, per non dire in alcuni casi quasi blasfemo. San
Giuseppe è stato definito somigliante al David di Donatello, secondo un'ispirazione da fonti quattrocentesche che
si ritrova anche in altre opere dell'artista.
La scena principale si svolge arretrata alla sommità di alcuni gradini, ai lati dei quali si trovano alcune figure: due
putti che si abbracciano, un santo monaco domenicano che indica la scena, forse san Vincenzo Ferrer (che
contiene forse il ritratto del committente), una santa anziana (forse sant'Anna) e la santa giovane col libro
(sant'Apollonia), che tiene in mano qualcosa di metallico, forse una chiave. L'identificazione di gran parte delle
figure resta incerta. Sguardi e gesti di queste figure indirizzano le figure in profondità, verso la scena centrale,
secondo uno schema che supera ormai la tradizionale forma piramidale trasformandola in qualcosa di più
complesso, in spazi saldati entro due semicerchi opposti. L'affollamento è stato letto come "una gioiosa festa
popolata da vari invitati".
La tavolozza è vivace e cangiante, tipica degli sperimentatori manieristi, e col suo oscurarsi in profondità aiuta a
far percepire la profondità spaziale. Come fonti che hanno ispirato la composizione sono stati indicati gli affreschi
di Pontormo e Franciabigio nel Chiostrino dei Voti, in particolare la Visitazione, con un'analoga struttura a gradini
con figure in piedi, sedute e inginocchiate disposte a mezzaluna attorno al centro, e lo Sposalizio della Vergine,
con la figura simile del sacerdote e la quinta architettonica dislocata appena dietro le figure. Nuova, rispetto ad
esempio ad opere di appena un anno prima come la Pala Dei, è la consistenza del colore, diventato sbaliginante e
ricco di riflessi cangianti, forse per influenza di Perin del Vaga appena tornato da Roma

1527 Cristo morto


Cristo morto, col costato ferito, è raffigurato nella sua nudità, seduto sul sepolcro-altare su un sudario blu intenso
e retto da quattro angeli. Due di essi, quelli in primo piano, illuminati più fortemente, tengono in mano due grossi
ceri: in quello di destra la veste assume originalissimi toni cangianti, tra il rosso e l'azzurro. In terra si trovano gli
strumenti della Passione (i chiodi e l'asta con la spugna imbevuta di aceto), mentre in testa Cristo ha ancora la
corona di spine.
La tavola, sebbene si ispiri alla tradizione quattrocentesca delle Pietà in cui il Cristo morto è tenuto col busto
eretto da angeli o dai dolenti, presenta molti elementi innovativi, a partire proprio dalla figura del Cristo, dalla
posa serpentinata, precariamente scivolosa, e mai così possente e sensuale, che dimostra sia l'assimilazione
di Michelangelo (ad esempio nelle possenti gambe in scorcio, che ricordano quelle dei Veggenti della volta della
Cappella Sistina), sia della statuaria antica: per il torso di Cristo è stato ipotizzato come modello il Torso Gaddi,
all'epoca a Roma e oggi agli Uffizi, ma è stato citato anche il Cristo della Minerva; molto scultoreo è anche il
braccio destro pendente, così simile a quello della Pietà vaticana. Più che richiamare un modello all'artista doveva
però interessare l'esaltazione del corpo umano, accuratamente descritto fino all'ultimo dettaglio nella sua nudità
(i peli del pube sono un unicum nella ritrattistica sacra del Cristo), per certi versi conturbante. Il plasticismo del
corpo raggiunge infatti vertici di straordinaria morbidezza, sotto una luce calda e intensa[3], con il piede e le sue
dita inarcati, che fanno pensare a un corpo quasi ancora in vita.
Se non fosse per i pochi attributi religiosi, la scena potrebbe essere scambiata per una morte di Adone, restando
in bilico tra il tema religioso e il trattamento squisitamente profano e languido di esso, anche in termini sensuali,
in accordo con le tendenze dell'arte nell'epoca clementina. Gli angeli, proprio come quelli di Pontormo, lo
reggono senza sforzo, con una presa leggera delle mani. Antonio Natali ha proposto una lettura simile
alla Deposizione di Pontormo della Cappella Capponi a Firenze, cioè legata al tema del corpo eucaristico di Cristo
che viene deposto sulla mensa d'altare, ipotizzando quindi una destinazione chiesastica della pala, magari
all'interno della cappella Cesi in Santa Maria della Pace pure affrescata dal Rosso all'inizio del suo soggiorno
romano. Al tema eucaristico richiamerebbero la forma del sepolcro, così simile a un gradino d'altare, e la
presenza dei ceri, come se fossero poggiati idealmente sulla mensa.
Fra’ Bartolomeo
1512 Matrimonio Mistico di santa Caterina

L'opera mostra l'insolita iconografia del matrimonio mistico di santa Caterina da Siena, ricalcato sull'episodio
riguardante l'omonima santa Caterina d'Alessandria, in uso come soggetto dal medioevo.
La scena è ambientata entro la nicchia di una chiesa e sotto una tenda retta da angeli, imitante la Madonna del
Baldacchino di Raffaello. A Raffaello si rifà anche la disposizione semicircolare dei santi attorno al trono di Maria
(da sinistra Pietro, Lorenzo, Stefano, Francesco d'Assisi e Domenico che si abbracciano in segno di fratellanza,
Bartolomeo e due martiri), che esplorano la spazialità disponibile. Rispetto al modello però Fra Bartolomeo
accrebbe la monumentalità delle figure e variò maggiormente le attitudini dei personaggi.
Evidenti sono le ampie campiture di colore, tra le caratteristiche più tipiche dello stile di Fra Bartolomeo, unite
alla monumentalità dei personaggi e all'atmosfera solenne e pacata, dove i movimenti appaiono rallentati.
Spicca la giocosità degli angioletti in alto, raffigurati in scorci a contrapposto.
Giulio Romano
1520-24 Stanza di Costantino (Donazione di Costantino, Battaglia di Ponte Milvio, Visione
di Costantino)

Donazione di Costantino: La decorazione della Sala di Costantino, l'ultima delle Stanze, venne commissionata da Leone X nel 1517. Il Sanzio, preso da mille impegni, fece appena
in tempo a disegnare i cartoni e avviare una sorta di arriccio per la prima parete, prima di morire improvvisamente il 6 aprile 1520. L'opera venne allora continuata dai suoi
allievi, tra cui spiccavano soprattutto Giulio Romano e Giovan Francesco Penni.
La Sala di Costantino è dedicata alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo e all'affermazione ed il primato d ella Chiesa romana, con evidenti richiami alla delicata situazione
contemporanea. Durante la Repubblica Romana instaurata dai giacobini e successivamente nel periodo napoleonico, i francesi elaborarono alcuni piani per staccare gli affreschi
e renderli portabili. La Donazione di Costantino è l'episodio leggendario secondo cui l'imperatore romano fece dono a papa Silvestro I della città di Roma e dei territori
pertinenti, fondando il potere temporale del vescovo di Roma. In realtà tale episodio è un falso storico, come provò già Lorenzo Valla nel 1440. I pontefici medicei, sotto i cui
pontificati fu completata la decorazione, ignorarono però tale confutazione concludendo tutto il ciclo storico a celebrazione del papato proprio con questa scena.
La scena è ambientata all'interno di un edificio che ricorda l'antica basilica di San Pietro, con la lunga navata paleocristiana in prospettiva, l'abside decorata da mosaici e la
tomba dell'apostolo Pietro con le colonne tortili in fondo presso l'altare. In secondo piano, dietro una serie di personaggi con pose riprese da altri affreschi raffaelleschi
(l'Incendio di Borgo, la Messa di Bolsena) e che hanno il compito di dirigere l'occhio dello spettatore in profondità, si svolge la scena della donazione. Il papa, seduto
sulla cattedra, riceve dall'imperatore una statua dorata della Dea Roma, simbolo della sovranità sulla città. Vasari elencò vari ritratti tra i personaggi: Giulio Romano, Baldassarre
Castiglione, Giovanni Pontano, il Marullo e altri. Sulle colonne in primo piano si leggono le iscrizioni: "Iam Tandem Christum Libere Profiteri Licet" (sinistra) e "Ecclesiae Dos a
Constantino Tributa" (destra).

Battaglia di Costantino contro Massenzio: Il soggetto del dipinto è la battaglia di Ponte Milvio, quando Costantino sconfisse Massenzio. La convulsa scena di battaglia è ispirata
ai rilievi sui sarcofagi romani e su altri monumenti, con l'imperatore che ad esempio è plasmato su quello del fregio traianeo nell'Arco di Costantino.
Al centro incede trionfante Costantino su un cavallo bianco, che macina i nemici sotto gli zoccoli. Gli si parano davanti le truppe avversarie, che si piegano però alla sua
inarrestabile avanzata. A destra si vede il ponte Milvio, strapieno di soldati; nel fiume le barche dell'esercito di Massenzio vengono colpite e fatte rovesciare dagli arcieri, mentre
altri soldati vi cadono per la spinta della zuffa; tra questi, in basso a sinistra, si trova anche Massenzio a cavallo, riconoscibile per la corona in testa, che è ormai inevitabilmente
destinato alla sconfitta. In alto tre apparizioni angeliche confermano l'esito divino della battaglia. Nello sfondo, in alto a sinistra, un edificio rappresenta probabilmente villa
Madama, allora in costruzione secondo i progetti del Sanzio.

Visione di Costantino: Il soggetto del dipinto è l'episodio che la tradizione tramanda come accaduto alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, quando Costantino avrebbe avuto
la visione premonitrice di una croce in cielo e della scritta "In hoc signo vinces".
La scena si ispira, nella composizione generale, agli episodi dell'Adlocutio presenti in numerosi rilievi dell'Antica Roma (come sulla Colonna Traiana o sull'Arco di Costantino).
Mostra infatti il comandante che, da un piano rialzato, arringa l'esercito per spronarlo alla vittoria. Sul basamento da cui Costantino parla si trova anche la scritta chiarificatrice
"ADLOCUTIO QUA DIVINITATIS IMPULSI CONSTANTINIANI VICTORIAM REPERERE. Nel cielo, al centro appare la Croce sorretta da angeli e la scritta con caratteri greci EN
TOYTΩI NIKA, cioè "in questo vinci". Interessante la vista sullo sfondo di una Roma antica ricostruita in alcuni dei suoi monumenti, tra cui si riconosce la Meta Romuli di forma
piramidale, il mausoleo di Augusto e quello di Adriano, un ponte sul Tevere e un alto mausoleo (forse il Terebinthus Neronis). Il nano in primo piano a destra doveva essere il
buffone del cardinale Ippolito de' Medici, tale Gradasso Berettai.
1525 Palazzo Te

Verso la metà del XV secolo Mantova era divisa dal canale Rio in due grandi isole circondate dai laghi; una terza piccola isola, chiamata sin dal Medioevo Tejeto e abbreviata
in Te, venne scelta per l'edificazione del palazzo Te. Due sono le ipotesi più attendibili sul significato del termine teieto o tejeto: esso potrebbe derivare da tiglieto (bosco di
tigli), oppure essere collegato a tegia, dal latino attegia, che significa capanna. Il palazzo è un edificio a pianta quadrata con al centro un grande cortile quadrato anch'esso, un
tempo decorato con un labirinto, con quattro entrate sui quattro lati (Giulio Romano si ispira nell'impianto alla descrizione vitruviana della casa di abita zione: la domus
romana con quattro entrate, ciascuna su uno dei quattro lati). Il palazzo ha proporzioni insolite: si presenta come un largo e basso blocco, a un piano solo, la cui altezza è circa
un quarto della larghezza.
Il complesso è simmetrico secondo un asse longitudinale. Sul lato principale dell'asse (a nord-ovest) l'apertura di ingresso è un vestibolo quadrato, con quattro colonne che lo
dividono in tre navate. La volta della navata centrale è a botte e le due laterali mostrano un soffitto piano (alla maniera dell'atrium descritto da Vitruvio e che tanto ebbe
successo nei palazzi italiani del Cinquecento), in questo modo assume una conformazione a serliana estrusa.
L'entrata principale (a sud - est) verso la città e il giardino è una loggia, la cosiddetta Loggia Grande, all'esterno composta da tre grandi arcate su colonne binate a comporre una
successione di serliane che si specchiano nelle piccole peschiere antistanti. La balconata continua al secondo registro, sulla parte alta della facciata era in origine una loggia;
questo lato del palazzo fu infatti ampiamente rimaneggiato alla fine del '700, quando fu aggiunto anche il frontone triangola re che sormonta le grandi serliane centrali.
Le facciate esterne sono su due livelli (registri), uniti da paraste lisce doriche di ordine gigante. Gli intercolumni variano secondo un ritmo complesso. Tutta la superficie esterna
è trattata a bugnato (comprese le cornici delle finestre e delle porte) più marcato al primo registro:
- Il primo registro bugnato, ha finestre rettangolari incorniciate da conci sporgenti (bugne rustiche).
- Il secondo registro ha un bugnato più liscio e regolare, con finestre quadrate senza cornice
Il cortile interno segue anch'esso un ordine dorico ma qui su colonne (semicolonne) di marmo lasciate quasi grezze sormontate da una possente trabeazione dorica. Qui la
superficie parietale è trattata con un bugnato rustico non troppo marcato, regolare e omogeneo senza rilevanti differenze fra primo e secondo registro. Romano ispirandosi a
un linguaggio architettonico classico, lo reinterpreta creando un'opera con un ricco campionario di invenzioni stilistiche, r eminiscenze archeologiche, spunti naturali e
decorativi, quali ad esempio:
- colonne giganti doriche inglobate in superfici parietali trattare a blocchi di pietra a superficie rustica
- alcuni conci del triglifo cadenti nel fregio della trabeazione che circonda e corona il cortile quadrato. Lo si può notare nelle facciate sull'asse longitudinale (ossia nord-ovest e
sud-est), al centro di ogni intercolumnio un triglifo che sembra scivolare verso il basso, come fosse un concio in chiave d'arco; su questi due lati anche gli intercolumni, come
all'esterno, non sono tutti uguali. Questi dettagli spiazzano l'osservatore e danno una sensazione di non finito all'insieme.
Pare che il palazzo fosse, in origine, dipinto anche in esterno, ma i colori sono scomparsi mentre rimangono gli affreschi interni eseguiti dallo stesso Giulio Romano e da molti
collaboratori. Oltre agli affreschi le pareti erano arricchite da tendaggi e applicazioni di cuoio dorate e argentate, le por te di legni intarsiati e bronzi e i caminetti costituiti di
nobili marmi.

1528-30 Sala dei giganti a Palazzo Te


L’ambiente narra la vicenda della Caduta dei Giganti, tratta dalle Metamorfosi di
Ovidio. La camera è la più famosa e spettacolare del palazzo, sia per il dinamismo e
la potenza espressiva delle enormi e tumultuose immagini, sia per l’audace
ideazione pittorica, volta a negare i limiti architettonici dell’ambiente, in maniera
tale che la pittura non abbia altri vincoli spaziali se non quelli generati dalla realtà
dipinta. Giulio Romano infatti interviene per celare gli stacchi tra i piani orizzontale
e verticale: smussa gli angoli tra le pareti e la volta e realizza un pavimento, oggi
perduto, costituito da un mosaico di ciottoli di fiume che prosegue, dipinto, alla
base delle pareti. Con questo stupefacente artificio unitario e illusionistico, l’artista
intende catapultare lo spettatore nel vivo dell’evento in atto, per produrre in lui
stupore e sensazione di straniamento.
La scena è fissata nel momento in cui dal cielo si scatena la vendetta divina nei
confronti degli sciagurati giganti che, dalla piana greca di Flegra, tentano il vano
assalto all’Olimpo, sovrapponendo al massiccio dell’Ossa il monte Pelio. Giove,
rappresentato sulla volta con in pugno i fulmini, abbandonato il trono, scende sulle
nuvole sottostanti, chiama a sé l’assemblea degli immortali e, assistito da Giunone,
punisce i ribelli: alcuni dei giganti vengono travolti dal precipitare della montagna,
altri sono investiti da impetuosi corsi d’acqua, altri ancora vengono abbattutti dal
crollo di un edificio. La scena, in origine, era resa ancora più drammatica dal
bagliore delle fiamme prodotte da un camino realizzato sulla parete tra le finestre.
Il pavimento, ideato da Paolo Pozzo, risale al secondo Settecento.
Perin del Vaga
dal 1545 Appartamenti privati papa a Castel Sant’Angelo (Sala Paolina, Sala di Amore e
Psiche) La volta è ripartita da sovrabbondanti e luminosi stucchi bianco-dorati mentre le pareti, comprese la
strombatura delle finestre, sono completamente ricoperte di splendidi affreschi caratterizzati da una
fittissima sequenza di scene, figure, finte architetture, tromp l’oeil e grottesche.
Il tema di questo ricchissimo ciclo pittorico è incentrato sulle figure di San Paolo e di Alessandro
Magno in un rimando ai nomi del pontefice (al secolo Alessandro Farnese) e costituisce uno dei
progetti mediatici più interessanti dell’arte cinquecentesca.
Gli episodi tratti dalla vita e dalle imprese di Alessandro compaiono sia sulla volta della sala
all’interno di coloratissimo riquadri, che lungo le pareti, dipinti con l’uso della pittura monocroma
all’interno di quadri riportati . Quelle che riguardano la vita di San Paolo figurano invece nei tondi
posti sopra le porte e realizzati con la medesima tecnica pittorica. Attraverso le imprese dei due
personaggi, con i quali il Papa si identifica, assistiamo alla celebrazione del potere papale ed
all’affermazione del ruolo egemone della Chiesa di Roma che si erge al di sopra di tutti, imperatore
compreso.
Per comprendere appieno il complesso significato allegorico delle scene, dobbiamo però
considerare il contesto storico e la situazione politica in cui versava la Chiesa all’epoca. Il papato
stava attraversando una delle più gravi crisi della sua storia: la riforma Luterana col diffondersi del
protestantesimo, insieme al drammatico sacco di Roma compiuto dai Lanzichenecchi nel 1527,
avevano mostrato al mondo la sua debolezza e fragilità. Paolo III è chiamato dunque a riprendere in
mano le redini della Chiesa e risollevarne l’immagine agli occhi del mondo intero. Per farlo si affida
al potere propagandistico delle immagini.

Nell’episodio in cui Alessandro Magno fa erigere e consacrare i 12 altari dopo le vittorie in India, dobbiamo ad esempio adot tare una chiave di lettura di tipo “sacrale” ed
interpretarlo come un’allusione all’impulso costruttivo profuso per la fabbrica di San Pietro. Dal 1546 aveva infatti nominato niente meno che Michelangelo che resterà alla
guida del cantiere fino alla sua morte.
Un altro esempio interessante è costituito dalla scena di clemenza compiuta da Alessandro Magno nei confronti dei familiari del re persiano Dario. Allude infatti ad una impresa
militare compiuta da Paolo III ovvero l’intervento armato contro la ribelle città di Perugia. Questo si concluse con la repressione della rivolta che risparmiò tuttavia la famiglia
Baglioni fautrice dell’insurrezione. L’episodio in cui Alessandro Magno fa mettere in salvo in uno scrigno i poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, celebra invece i l livello culturale del
pontefice. Si tratta di un chiaro riferimento alla raffinata cultura umanista e all’amore del Papa per i testi classici.
Nel ciclo di pittorico non poteva mancare inoltre l’omaggio ai “padroni di casa”. I lati corti della sala sono dominati infat ti da un lato dall’imperatore Adriano, senza il quale il
monumento non sarebbe sorto, dall’altra dall’Arcangelo Michele, grazie al quale assurgerà invece a simbolo della cristianità. Una presenza, la loro, che testimonia la continuità
tra la Roma imperiale e quella papale.

Il riquadro, il più celebre tra quelli che compongono il ciclo ad affresco presente nella Sala di
Amore e Psiche in Castel Sant'Angelo, fu progettato, come tutti gli altri, da Perin del Vaga.
L'artista si ispirò alla tredicesima delle 33 incisioni realizzate dal Maestro del Dado e da
Agostino Veneziano su disegni dell'artista fiammingo Michiel Coxcie (1532-35), allora molto
note. L'autografia è provata dalla presenza di un analogo schizzo di Perino tra i disegni
preparatori per le scene della favola, conservati presso l'Albertina di Vienna.
Nel riquadro la narrazione è suddivisa in tre momenti distinti, cronologicamente disposti da
destra a sinistra, che tradiscono così l'ispirazione dall'incisione originale. A destra, in
penombra, Psiche si ferisce con la punta di una freccia di Amore. Al centro la giovane,
impugnando la lampada, si avvicina allo sposo addormentato, che ha abbandonato le frecce e
l'arco ai piedi del letto. A sinistra Amore, ormai sveglio e deluso del tradimento di Psiche, vola
via abbandonandola alla sua disperazione. Si tratta di una fedele trasposizione da
Apuleio, l'Asino d'Oro ( libro V, cap. 23).
Se sul piano compositivo il precedente dell'incisione è rigorosamente rispettato, su quello
formale Perino mostra qui il suo tipico stile, sintesi tra le armonie naturalistiche di Raffaello e
una raffinata astrazione intellettuale, aggiornata sul sofisticato manierismo di Rosso Fiorentino
e del Primaticcio che, attivo a Fontainebleu, era a Roma nel 1540.
La scena centrale si apre verso lo spettatore come una quinta teatrale delimitata dal
baldacchino del letto e illuminata dalla luce che irradia dalla lampada e che si riflette sulle due
figure morbidamente modellate, dalle membra lunghe e affusolate. Gli amanti si stagliano sul
bianco delle lenzuola, cui fa da contrasto il rosso acceso dei tendaggi in una gamma cromatica
tutta giocata tra questi due estremi. La felice illustrazione della fiaba di Amore e
Psiche avrebbe costituito il punto di riferimento per analoghi cicli pittorici, realizzati dopo la
metà del XVI secolo: tra gli altri, quello in Palazzo Spada Capodiferro (post 1550) e quello in
Palazzo Vitelli a Sant'Egidio, presso Città di Castello (Prospero Fontana, 1555-59).
Sebastiano del Piombo
1512 Polifemo (Sala di Galatea a villa Farnesina)
Sebastiano del Piombo era venuto da Venezia proprio al seguito del Chigi e presso di lui trovò i primi incarichi a
Roma. In particolare gli vennero affidate otto lunette nella Sala di Galatea al pian terreno della villa. Qualche
mese dopo, quando Raffaello aveva terminato il Trionfo di Galatea, il Piombo iniziò a dipingere il riquadro
adiacente a sinistra, con Polifemo che guarda idealmente l'apoteosi della ninfa amata.
Probabilmente le pareti dovevano essere decorate, nei piani iniziali, da altre scene della storia della ninfa, mai
completate: per questo gli i due affreschi esistenti non raffigurano gli eventi principali delle sue storie. Fonte
della rappresentazione fu Teocrito (Idilli) o Ovidio (Metamorfosi), magari filtrato dal Poliziano, o Apuleio (Asino
d'oro). L'affresco mostra un enorme Polifemo che, in una monumentale torsione, rivolge il proprio sguardo
malinconico verso il mare a destra, seduto su un idilliaco litorale sabbioso. Tiene in mano un bastone da pastore
e un flauto, ed ha vicino un cane.
La ricchezza e la densità del colore nella sua veste azzurra, così come gli effetti di avvolgimento atmosferico nel
paesaggio (per quanto possibili nella tecnica ad affresco), rimandano al colorismo veneziano e all'intonazione
malinconica dei seguaci di Giorgione, di cui Sebastiano faceva parte. Egli fu il primo a portare queste novità a
Roma, riscuotendo un discreto successo.
La monumentalità della figura rimanda all'esempio di Michelangelo, che proprio in quegli anni aveva scoperto gli
affreschi della volta della Cappella Sistina, ma ha anche precedenti in area veneziana, come gli affreschi
del Fondaco dei Tedeschi di Giorgione e del giovane Tiziano.
1515 Pietà
L'opera è una delle più antiche testimonianze della collaborazione tra Michelangelo e Sebastiano del Piombo ed
era destinata alla chiesa di San Francesco di Viterbo. Commissionata da Giovanni Botonti, chierico di camera, la
pala fruttò all'artista grande notorietà, segnando l'inizio della sua feconda collaborazione con Michelangelo.
Al Buonarroti è infatti riferita da Vasari l'esecuzione del cartone, come sembrano confermare l'esistenza di studi
preparatori e la consistenza del disegno sottostante il dipinto, visto con le radiografie. Recentemente è stato
individuato nel paesaggio in notturna una veduta di Viterbo compresi gli impianti termali di Santa Maria in Silice e
il Bulicame che, secondo Dante Alighieri sono il varco di accesso agli Inferi. Anche Michelangelo Buonarroti venne
a Viterbo in quegli anni a curarsi il mal della pietra; in quella circostanza ritrasse l'impianto termale del Bacucco in
un foglio ora conservato a Lilla (Alessi).
In un paesaggio notturno, che Vasari attribuì completamente a fra' Sebastiano, si trovano le due figure
monumentali e isolate di Maria e Gesù morto, disteso ai suoi piedi. L'impostazione patetica della Vergine, che
stringe i pugni e guarda verso il cielo, l'attenzione alle volumetrie e all'anatomia rimandano invece alla lezione di
Michelangelo. Il bellissimo corpo di Cristo in particolare, risaltato dal contrasto con il sudario bianco, spicca come
nodo della composizione, alla base della piramide che ha il vertice nella testa di Maria, molto mascolina.
Pienamente compiuta appare la sintesi tra l'espressività delle figure umane ispirata da Michelangelo e l'uso del
colore e del paesaggio tipicamente veneti.
Nonostante il paesaggio lunare, con fini accordi cromatici, le figure principali sono illuminate frontalmente in
maniera tradizionale. L'ambientazione notturna, così rara e cruciale per i futuri sviluppi dell'arte italiana, era
dettata da necessità legate a una corretta lettura del testo biblico, e ad esigenze narrative, per isolare il corpo
morto di Cristo dalla sfondo e amplificarne il dramma. Traspare nel dipinto, certamente il capolavoro di
Sebastiano, spoglio, severo e quasi arcaico, «la solitudine senza speranza che separa la Madre impietrita e il Figlio
morto, ed entrambi da un Dio Padre addirittura nullificato dall'audacissima idea […] di prolungare oltre il
momento evangelico della morte sulla croce le tenebre sul mondo» (Rosci).
Più che alla tradizionale iconografia della Vesperbild, il pittore sembra essersi qui indirizzato verso un tipo di
spiritualità più vicina agli agostiniani, tanto che si parla piuttosto di Andachtbild, ossia di "immagine per la
preghiera".

1516-19 Resurrezione di Lazzaro


Giulio de' Medici (futuro Clemente VII) commissionò due pale d'altare per la cattedrale della sede episcopale di
Narbonne, di cui era titolare dal 1515, una a Sebastiano del Piombo (la Resurrezione di Lazzaro, appunto), e una
a Raffaello, la Trasfigurazione. Nell'abituale contesa tra Raffaello e Michelangelo alla corte papale fu naturale
per il Buonarroti aiutare l'amico veneziano offrendogli i propri disegni per la pala, in particolare per le figure del
Salvatore e di Lazzaro (del quale resta un disegno autografo al British Museum).
I due artisti ritardarono il più possibile il completamento delle rispettive pale per non rivelarsi per primi. Alla
fine fu Sebastiano a consegnare la pala, che venne spedita in Francia, mentre quella di Raffaello rimase
incompleta dopo la morte dell'artista, nel 1520 e successivamente trattenuta a Roma.
Il soggetto della pala è la resurrezione di Lazzaro, miracolo di Gesù narrato nel Vangelo di Giovanni (11). Alla
richiesta delle sorelle Marta e Maria, Cristo visita la tomba di loro fratello Lazzaro, morto qualche giorno pr ima,
e lo risuscita. La scena, che di per sé si prestava a una rappresentazione dinamica, mostra il Salvatore che,
rialzato leggermente su un gradino con un gesto eloquente, indica Lazzaro seminudo che si ridesta togliendosi
le bende che lo avvolgono, nella sorpresa generale. Gruppi si accalcano sul primo piano, anche troppo affollato,
mentre il respiro si allarga nel paesaggio nello sfondo, con ancora due gruppi di figure come quinte e una
veduta cittadina con rovine e un ponte che ricorda Roma.
L'orchestrazione cromatica spetta sicuramente a Sebastiano, che ormai si era definitivamente allontanato
dal tonalismo veneto della sua formazione. Spiccano infatti tonalità vivaci e contrastanti, anche se leggermente
velate dall'atmosfera, che conferisce un'intonazione emozionale e misteriosa alla scena.
1526 Ritratto papa Clemente VII
Un primo riferimento all'opera risale al 1531 grazie ad una lettera che lo stesso Sebastiano del Piombo inviò
a Michelangelo, nella quale si faceva riferimento a due ritratti eseguiti del papa Clemente VII, risalenti a prima
del Sacco di Roma, tant'è che il papa viene citato privo di barba, che invece deciderà di farsi crescere, per voto,
solo in data successiva all'evento del 1527.
I due dipinti vengono poi citati dal Vasari nelle sue Vite, registrandone uno presso le collezioni del vescovo
di Vaison, mentre l'altro, di dimensioni «molto maggiore, cioè infino al ginocchio ed a sedere», permanente
entro la bottega romana di del Piombo, dove rimarrà fin anche dopo la morte del pittore, nel 1547, allorché fu
inventariato e acquistato da Fulvio Orsini, banchiere di casa Farnese, per la sua collezione d'arte.
Il ritratto si rifà allo schema che diverrà quindi classico per questo genere di composizioni, adottato
da Raffaello nel suo Ritratto di Leone X agli Uffizi di Firenze, dove figura nella composizione anche il ritratto a
Clemente VII, all'epoca Giulio de' Medici, in quanto ancora col titolo di cardinale, nonché cugino dello stesso
papa Leone X.[1] La posa obliqua, seduta con inquadratura fino al ginocchio, con espressione fiera e severa,
lasciano intravedere il carattere volitivo e decisionista del pontefice. Tra le massime espressioni artistiche
di Sebastiano del Piombo, l'opera risulta anche essere un'importante testimonianza storica, in quanto
riprendente il papa senza barba, quindi in un momento antecedente al voto fatto a seguito del Sacco di Roma
del 1527, a partire dal quale il pontefice decise di farsi crescere i peli facciali (i ritratti successivi, fino alla morte
del papa avvenuta nel 1537, vedranno infatti lo stesso raffigurato sempre con la caratteristica barba lunga).[2]
Lo stile della composizione è pressoché in linea con altre due opere coeve, il Ritratto di Anton Francesco degli
Albizi a Houston, che si racconta dai documenti storici che al Buonarroti l'opera sia piaciuta meno rispetto al
ritratto napoletano di Clemente VII, e quello di Andrea Doria alla Galleria Doria Pamphilj di Roma.[2] Una
versione di cinque anni successiva a quella di Capodimonte, con il papa ritratto con barba, è al Getty
Museum di Los Angeles, mentre sempre al Museo di Capodimonte di Napoli si conserva quello che molto
probabilmente è considerato il prototipo del volto, eseguito con la tecnica dell'olio su lavagna, supporto non
inusuale nel catalogo del del Piombo. Sul retro del ritratto "senza barba" di Capodimonte è infine posto il sigillo
in cera lacca grigia (identificativa delle opere provenienti da Roma, mentre quelle segnalate con cera lacca rossa
erano i dipinti di provenienza dalle raccolte emiliane) con il giglio Farnese e il numero d'inventario 124.

Parmigianino
1522 Stufetta della rocca Sanvitale

La piccola stanza al pian terreno della Rocca (435x350x390 cm) presenta una volta unghiata, con tre peducci per lato che creano quattro o tre lunette per lato, unite agli angoli a
due a due da una doppia vela. Per la decorazione Parmigianino inventò un finto pergolato coperto da una fitta vegetazione e aperto al centro su un cielo azzurro, bordato da una
siepe di rose arrampicate su un incannicciato. Al centro una cornice di legno intagliato racchiude una sorta di finto specchi o, con il motto Respice Finem ("guarda la fine") su
sfondo avorio, un invito a seguire il tragico finale della fabula sottostante. Sui peducci, che al posto dei capitelli hanno mascheroni in stucco, si trovano vari putti, mentre le vele
sono decorate da finti oculi tra motivi geometrici. Nelle quattordici lunette, alte e strette, si trova infine illustrato il mito di Diana e Atteone. Secondo Le
metamorfosi di Ovidio (Libro III, vv.138-253), il cacciatore Atteone sorprese in un bosco Diana nuda al bagno presso una fonte tra le ninfe; per questo venne punito con la
trasformazione in cervo, venendo sbranato dai suoi stessi cani. Il tema è spiegato anche dai versi latini che corrono lungo il fregio, in lettere dorate su sfondo chiaro, al di sotto
delle lunette.
La parte inferiore delle pareti non è invece affatto decorata e forse era coperta da arazzi. Il bagno della dea ha fatto ipotizzare che l'ambiente fosse una "stufetta", cioè un bagno
privato, ipotesi oggi largamente condivisa dalla critica sebbene non manchino proposte alternative, come quella che si tratti dello studiolo del conte, con gli affreschi adombranti
varie allusioni all'alchimia. Le scene si leggono dalla parete sud, dove il giovane Atteone, rappresentato con capelli lunghi e lineamenti femminei, si rivolge a due compagni che lo
seguono con corni da caccia e i levrieri, mentre un altro cane, tenuto al guinzaglio, si trova davanti a lui nella lunetta pi ù a destra. Forse si tratta però di una ninfa, seguita da due
compagni del cacciatore (strano però che sia vestita esattamente come Atteone nelle scene seguenti). La parete ovest mostra Atteone, riconoscibile per la veste bianca e rossa,
che, scoperta la dea nuda al centro, immersa in una fonte, viene gradualmente trasformato in cervo, con la testa già mutata e il corpo ancora umano; due ninfe invece
all'estrema sinistra sembrano preoccupate, ma non troppo, dell'inaspettata intrusione e una di loro si copre il petto chiacchierando con la compagna. A nord i compagni di
Atteone proseguono la caccia e trovatolo come cervo lo fanno assalire dai cani: la scena della cattura si svolge infatti nell a terza lunetta da sinistra. Qui si trovano al centro, sul
peduccio, anche due putti apteri (senza ali), che si abbracciano, un neonato con collana di corallo rosso che tiene alcuni rami di ciliegie in mano e una bambina con orecchini e
capelli biondi, che guarda verso lo spettatore. Sull'ultimo lato, quello est, si vede al centro la dea Cerere in abito cinquecentesco molto scollato, forse un ritratto di Paola
Gonzaga stessa, che assiste con imperturbabile curiosità agli avvenimenti, sollevando una spiga di grano, quale attributo e afferrando un bacile poggia to su un tavolino accanto a
una brocca, come se stesse assistendo a una rappresentazione teatrale durante un banchetto. Ai lati, nelle altre due lunette, si vedono cani da caccia, ora su sfondo neutro, ora
boscoso, ora a piena figura, ora a mezza, ora sporgenti solo con la testa. Il significato degli affreschi è sfuggente, nonostante i numerosi studi a tal proposito. L'ipotesi più
semplice è che si tratti semplicemente di un tema mitologico letterario scelto poiché correlato all'attività svolta in quella st anza, il bagno della contessa che quindi era
paragonata alla dea Diana (Ghidiglia Quintavalle, 1966). C'è anche chi ha proposto una lettura alchemica (Fagiolo dell'Arco, 1970, Mutti, 1987), secondo cui la storia rappresenta
l'unione del principio maschile e femminile, ove il cacciatore Atteone, pur di appropriarsi del principio divino, la dea Diana, è disposto a mutarsi da predatore a preda e a morire.
L'opera è chiaramente ispirata alla Camera di San Paolo di Correggio, con un simile pergolato di foglie e rampicanti, a sua volta derivato da opere quattrocentesche
di Mantegna e Leonardo da Vinci. Rispetto al modello però, Parmigianino arricchì la rappresentazione di tematiche morali ed usò una tagliente definizione delle forme, opposta
alla morbida intonazione luminosa correggesca. Il plasticismo pieno e naturalistico del suo maestro qui si ammorbidisce infatti in soluzioni di più fluida e lieve stilizzazione. Scrive
Pallucchini che in questi affreschi "vi è una presa di posizione linguistica più preziosa e manierata nei confronti dell'arte correggesca, tanto più naturale ed espansiva... una
meditazione più sottile ed elegante dell'immagine, che si costituisce con una preziosità di accenti che certo mancava nella pienezza sensuale del gusto correggesco. Si inizia
perciò un processo di idealizzazione della forma sottilmente intellettualistica". Alla naturalezza espressiva di luce e colore, alla profondità atmosferica del Correggio che, nella
Camera di San Paolo, si libera del limite del soffitto, il Parmigianino sceglie di bloccare lo spazio decorando la volta con un sorta di cesellatura minuta e preziosa, che esaspera la
rappresentazione del reale fino ad annullarne la verità in un artificio arcaicizzante.
1523 Ritratto di un collezionista
Freedberg, nel 1950, fu il primo a chiarire come il personaggio, rappresentato a mezza figura di tre quarti,
appoggiato a un tavolo, fosse stato identificato come un prelato senza motivo, ipotizzando che rappresentasse
invece il cavalier Francesco Baiardi. Oggi si ritiene che rappresenti un collezionista e che l'oggetto che ha
generato l'equivoco, più che il cappello (un berretto nero a tese ribaltate) fosse stato il libro tenuto in mano, un
ben preciso libro d'ore, l'Offiziolo Durazzo oggi nella Biblioteca Berio di Genova. Si tratta di un libro miniato circa
vent'anni prima da Francesco Marmitta, pittore di Parma, già erroneamente indicato come maestro del
Parmigianino (Grapaldo, 1506, e Lanzi, 1796). L'effigiato quindi potrebbe essere quindi il proprietario di allora,
che Mezzetti (1965) riconobbe anche in un ritratto della collezione Bergstein esposto a Londra nel 1984 e
attribuito con riserva a Dosso Dossi da Mendhelson (1914).
L'uomo, col busto di tre quarti verso destra e il volto ruotato verso lo spettatore (ma gli occhi evitano il contatto
visivo volgendo a sinistra) è illuminato fortemente da una fonte di luce frontale, che evidenzia un incarnato
liscio, dai toni quasi smaltati, e indossa un ampio mantello nero bordato di pelliccia, vero oggetto di lusso, oltre
al cappello dello stesso colore. I capelli sono lunghi e a caschetto, coprenti le orecchie, incorniciando uno
sguardo attento e altero, che ispira fierezza, nobiltà e integrità morale. La sinistra regge l'Offiziolo, dalla legatura
finemente decorata, e la destra è appoggiata sul tavolo, con un anello d'oro con pietra preziosa al mignolo,
vicina a un bronzetto all'antica di una divinità o una personificazione femminile (forse Cerere), tre medaglie di
bronzo e un'antica moneta argentea. Tali oggetti chiariscono gli interessi raffinati del gentiluomo. Sullo sfondo si
vede a sinistra, ben illuminato, un bassorilievo di Marte, Venere e Cupido, tema neoplatonico, mentre la parte
sinistra è occupato da un paesaggio. Più che a una finestra, che avrebbe l'imposta particolarmente bassa,
verrebbe da pensare piuttosto a un quadro nel quadro, mostrante un albero frondoso e un cielo all'aurora.

1524 Autoritratto con specchio convesso


La tavola mostra appunto il giovane artista che ritrae il suo volto al centro di una stanza distorta dalla visione dello
specchio convesso, con in primo piano una mano appoggiata sul ripiano dove sta lo specchio, che diventa oblunga e
deforme, ma finissima nella stesura pittorica. Si tratta della mano destra (va considerato infatti che si tratta di uno
specchio), con la sinistra che è fuori dal campo visivo, impegnata probabilmente a dipingere.
Un anellino d'oro è infilato al mignolo e la manica plissettata è dipinta con veloci e sicure pennellate di bianco.
Curioso è anche l'abito, rappresentato a grandi linee con pennellate veloci e sicure, una pelliccia da inverno padano,
dalla quale sbuca il polsino a sbuffo della camicia bianca di batista. I capelli sono curati, a caschetto, il volto
da adolescente (aveva ventun'anni), di angelica bellezza, come scrisse Vasari.
La stanza mostra se non la ricchezza almeno l'agiatezza della famiglia: un soffitto a cassettoni e una finestra
"impannata", cioè copribile per tre quarti da un panno per proteggere dal freddo e filtrare la luce come si addiceva a
uno studio di pittori. Non si vedono mobili, sintomo di una certa austerità.
Negli studi sul manierismo, l'Autoritratto entro uno specchio convesso è diventato una sorta di emblema di quel
periodo dell'arte, grazie alla presenza della visione anamorfica. Varie letture, talvolta bizzarre, sono state proposte
sulla scia della sua fama e in base alla conoscenza dell'interesse dell'artista per l'alchimia. In particolare Fagiolo
dell'Arco vi vedeva una rappresentazione dell'opus alchemico (1969-1970), con la rotondità della tavola che
corrisponderebbe alla "prima materia", lo specchio allo sperimentalismo alchemico, e l'espressione alla malinconia,
tipica qualità del carattere dell'alchimista. Freedman (1986) e Boehm (1986) vi lessero un ritratto dell'animo
interiore. Oggi queste interpretazioni sono considerate in genere troppo sottili, confermando piuttosto la
giustificazione vasariana dello sfoggio virtuoso per l'"entratura" nella competitiva corte pontificia.

1524 Ritratto di Galeazzo Sanvitale


Si tratta di un "ritratto da parata", destinato cioè a magnificare l'immagine del conte presso i suoi ospiti, non un'effigie
privata: ciò si deduce dalla ricchezza di oggetti che ne qualificano i nobili interessi e la raffinatezza dei costumi. Si tratta di
uno dei più celebri ritratti di Parmigianino, col conte, allora ventottenne, raffigurato seduto su una sedia Savonarola, col
corpo di tre quarti verso sinistra e il volto ruotato frontalmente, che direziona un intenso sguardo verso lo spettatore.
Indossa un'ampia giubba nera, secondo la moda del tempo, da cui escono due maniche di pesante stoffa rossa decorate
da tagli sequenziali, che scoprono la vaporosa camicia bianca, con ricami sul polsino. Il berretto è dello stesso colore
scarlatto, con tagli eleganti lungo il bordo, perline dorate, una piuma e un cammeo a decorare. Si tratta di un vestito alla
francese, che in quei tempi poteva intendere anche la particolare fede politica del protagonista.
La mano sinistra è poggiata sul bracciolo e, con un anello d'oro con pietra al mignolo, regge un guanto, vicino all'elsa
della spada. L'altra è invece ancora inguantata e mostra allo spettatore una medaglia bronzea, recante due simboli.
Questi ultimi sono stati letti come una "C" e una "F", allusive al titolo di "Comes Fontanellati", o come un "72". Sul
significato del numero sono state fatte varie ipotesi, legate soprattutto all'alchimia,che vedono nei due numeri allusioni
alla Luna e a Giove; oppure alla congiunzione fra Sole e Luna, che alluderebbe all'unione matrimoniale fra Galeazzo e la
moglie Paola Gonzaga. Tutte ipotesi che però contrastano con le fonti antiche, che in nessun caso ricordano il conte
come alchimista (lo fu invero con tutta probabilità il Parmigianino, ma non è questa una ragione perché egli inserisse
messaggi in codice in un dipinto ritraente un suo committente).
Il volto con uno sguardo magnetico, è illuminato incisivamente da destra, evidenziando l'incarnato chiaro e liscio, la
soffice barba, i lunghi favoriti e i ricci leggeri della capigliatura. La fronte è spaziosa, gli occhi chiari ed espressivi, il naso
dritto. Una certa intimità tra pittore e soggetto dovette essere necessaria per poter restituire così efficacemente la
giovanile bellezza, la fiera baldanza e la ricchezza di interessi del conte, guerriero e gentiluomo al contempo.
Su un tavolino dietro a esso si trovano appoggiati i pezzi di un'armatura lucente e una mazza ferrata, simboli evocativi
della sua indole guerriera. Oltre un muro, a destra, si apre poi una veduta di un albero frondoso, elemento piacevole e
decorativo, con le foglie lumeggiate con sapiente maestria. Questa vegetazione è così fitta da bloccare lo spazio,
assumendo una funzione di variazione di colore dell'ambiente chiuso. Il dipinto, di raffinatissima fattura, segue solo
apparentemente i canoni della ritrattistica cinquecentesca; in realtà presenta un elaborato gioco di piani e di effetti. La
sedia è posta di traverso, il busto è in posizione frontale mentre il muro di sfondo si colloca in obliquo. Quest'ultimo
viene presentato scialbo, in netto contrasto con la lussureggiante vegetazione che s'intravede dalla vicina finestra. Anche
la luce illumina sostanzialmente solo il volto e le braccia del Sanvitale, mentre uno sprazzo si riflette sull'armatura
lucidata, interrotto soltanto da una piccola ammaccatura decentrata. Ne esistono disegni preparatori al Cabinet des
Dessins del Louvre e in collezione Tobley; copie antiche sono invece presso l'Historical Society di New York e nella rocca
di Fontanellato.
1525 Visione di San Girolamo
Il dipinto si divide in due registri sovrapposti, uno terreno dove san Girolamo addormentato vicino al crocifisso (suo è
l'inconfondibile cappello cardinalizio abbandonato a terra vicino a un teschio) ha la visione in sogno di san Giovanni (si
riconosce per l'abbigliamento, la lunga croce e il bacile per i battesimi legato alla cintura), in primo piano che, nel gesto suo
più tipico di Precursore, indica il Bambino, rappresentato nella metà superiore, quella celeste, mentre scivola dalle gambe
della madre, uno sfolgorante Madonna seduta su un raggio di luna e nubi, illuminata da una sfolgorante emissione di luce
divina alle sue spalle, ispirata alle visioni del Correggio. La composizione si assesta così su piani verticali in sequenza, in
rapida successione, senza interesse a definire uno spazio geometricamente misurabile, ma che al contrario appare
spregiudicatamente innaturale e vertiginoso.
La Madonna mostra un'influenza raffaellesca nella posa e nello sciolto rapporto col figlio (Madonna di Foligno, che all'epoca
era visibile a Roma), così come nella tavolozza cromatica, arricchita di toni intensi e cangianti. La figura del Battista, che in
primo piano guarda verso lo spettatore e compie un'elegante torsione per indicare l'epifania divina dietro di sé, fa venire
altresì alla mente le figure solenni di Michelangelo, dalla muscolatura accentuata e complessamente atteggiate. La stessa
posa del Bambino, che scivola via da Maria citò la Madonna di Bruges del Buonarroti, opera che pochi avevano veduto di
persona, conosciuta forse attraverso disegni o attraverso le citazioni di Raffaello, come nella Madonna del Cardellino. Il
braccio sollevato di Girolamo dormiente riprende invece opere del Correggio, come la Venere e Amore spiati da un satiro o
il san Rocco nella Madonna di San Sebastiano.
Numerosi dettagli sono veri gioielli di virtuosismo, dalla croce di canne del Battista, mai così realistica prima di allora, alla
pelle maculata che lo copre, dal sottobosco nei pressi del san Girolamo addormentato, ai riflessi cangianti nella setosa
veste del petto di Maria, di scultorea memoria, visti forse su antiche statue di ispirazione ellenistica. Straordinario è poi il
Bambino nudo al centro, più adulto della tradizione e leziosamente atteggiato mentre sgambettando fa per scendere dal
grembo materno per proiettarsi verso lo spettatore, al quale rivolge lo sguardo, con una mano che tiene un libretto aperto
sul ginocchio di Maria e l'altra che tocca i capelli appoggiata al gomito, vicino a dove Maria gli porge
con nonchalance la palma del martirio, chiusa in un pensiero malinconico. Si tratta di ricercate e quasi innaturali posizioni di
aristocratica eleganza. Molto originale è l'effetto di verticalità, che dal Battista, tramite il suo gesto, si trasmette fino al
volto della Vergine. Ad esso si contrappongono varie sfondature spaziali in profondo, tramite l'uso di scorci arditi, come il
corpo di Girolamo o lo stesso Bambino. Sicuramente Parmigianino voleva stupire l'ambiente romano con un'opera
sfacciatamente innovativa, che rielaborava spunti dei più grandi maestri allora attivi in città.

1527 Conversione di Paolo


L'esattore romano Saulo è appena caduto da cavallo, quando uno squarcio luminoso nel cielo segna la sua
illuminazione divina e conversione al cristianesimo. Il tema è svolto con il protagonista semisdraiato a terra, con le
braccia spalancate, di cui una appoggiata al suolo, e le gambe divaricate, dando un grande dinamismo alla scena,
magnificato soprattutto dal cavallo bianco che si impenna, di profilo col muso girato verso lo spettatore. Elemento
curioso e sfarzoso è la sella di pelliccia d'ermellino. L'uso delle torsioni, le proporzioni allungate e gli arti gonfiati
(soprattutto i polpacci e le cosce) sono perfettamente compatibili con la produzione dopo il soggiorno romano,
influenzata da Michelangelo, ma rielaborata in qualcosa di più originale, di "manierista". Lo sguardo è estatico,
rivolto verso l'alto, proprio come nel San Rocco e un donatore.
La figura antinaturalistica del cavallo, dal collo gonfio e la testa piccola e sottile, le redini ridotte a un filamento
capriccioso, la gualdrappa setosa, le vesti leggere del santo, le lumeggiature dorate della superficie, danno al dipinto
il segno di un'invenzione decorativa, di un'astrazione deformata e compiaciuta.
Il tutto è ambientato in un paesaggio fatto di alberelli fronzuti, colline e montagne, legato ai modi di Dosso Dossi e
della pittura nordica, da cui sembra derivare il cupo cielo plumbeo, con toni rossastri attorno all'emanazione divina.
Esiste un disegno che riproduce con poche variazioni la tela e se il riferimento alla Cacciata di Eliodoro di Raffaello,
nelle Stanze vaticane.

1530 Madonna di Santa Margherita


Come ricorda Vasari, l'opera mostra "Nostra Donna, santa Margherita d'Antiochia, san Petronio, san Girolamo e san
Michele". Da Affò in poi c'è anche ritiene Michele un angelo, opinione oggi minoritaria presso la critica, ma ancora
avvalorata. In effetti il santo posto al centro, che chiama in causa lo spettatore guardandolo negli occhi, non ha, a
parte le ali piumate, i tradizionali attributi né della spada né dell'armatura o la bilancia, ma un piccolo crocifisso tra le
mani, che si trova vicino a quello più grande e con Gesù crocifisso rilievo di san Girolamo, posto all'estrema destra
con un ampio mantello rosso retto dalle braccia incrociate. Nelle dita della sua mano sinistra si notano anche le corde
rosse del cappello cardinalizio, suo tradizionale attributo mai più indossato dopo la scelta eremitica.
Il centro del dipinto è occupato dalla Madonna col Bambino che, volgendosi verso sinistra al vescovo Petronio,
protettore di Bologna, porge verso l'altro lato il Bambino che fissa con intensità la protagonista, Margherita, la quale
ricambia lo sguardo intenso avvicinadogli il volto e solleticandogli il mento, mentre con l'altra mano si appoggia con
familiarità al ginocchio di Maria. Essa, che indossa un mantello con ricami dorati e fodera di pelliccia, è riconoscibile
inequivocabilmente dal mostro che le sta vicino, in basso a destra. La figura mostruosa, in penombra, spalanca le
fauci mostrando la lingua arricciata e la poderosa dentatura, ma nessuno lo considera, confinato a un ruolo
semplicemente iconografico, per identificare la santa. L'iconografia ricalca quella del matrimonio mistico di santa
Caterina d'Alessandria, e non è improbabile che sia una risposta a distanza alla Madonna di San
Girolamo del Correggio, allontanadosi il più possibile dalla sua eleganza levigata e soffice: estremamente simili sono
le due sante protagoniste, nella posa e nell'attitudine di familiare intimità col Bambino. Non è escluso dopotutto che
Parmigianino stesso l'avesse vista di persona sull'altare Bergonzi della chiesa di Sant'Antonio a Parma in occasione di
qualche breve rientro in famiglia
Francesco Salviati
dal 1538 Oratorio di San Giovanni decollato – pala Deposizione, Visitazione
La tavola fu realizzata per l’altare posto alla destra del portale principale di Santa Croce, commissionata da
Agostino Dini, ricco e potente uomo di fiducia di Cosimo I de’ Medici, che abitava nel vicino borgo Santa Croce.
Si tratta dell’ultimo lavoro di Salviati a Firenze, prima che l’abbandonasse per Roma, non avendo più ricevuto
committenze da parte di Cosimo I, dopo la decorazione della Sala dell’Udienza in Palazzo Vecchio, di cui
nella Deposizione ripropone i colori intensi e cangianti. La cornice, forse su disegno di Salviati stesso, costituisce
un elemento indissolubile dalla tavola e deve essere riferita all’importante bottega fiorentina di Battista di
Marco del Tasso.
Il dipinto rappresentò per Santa Croce, non ancora rinnovata da Vasari , un elemento di straordinaria
modernità.

anni 40 Trionfo di Furio Camillo nella Sala dell’Udienza (Palazzo Vecchio)


Le pareti sono decorate, nelle scene principali, dalle storie di Furio Camillo, generale romano
che di ritorno dall'esilio liberò Roma dagli invasori Galli Boi nel 390 a.C. L'allusione simbolica
era evidentemente legata alla ripresa della città di Firenze da parte di Cosimo dopo la morte
violenta del suo predecessore Alessandro, e alla sconfitta e cacciata dei dissidenti.
Le scene si dispiegano su un unico registro principale, con la fascia inferiore occupata da
festoni e medaglioni a monocromo. Essendo una sala d'angolo del palazzo, un lato lungo e
uno breve sono interessanti da un totale di cinque finestre, tra le quali si inseriscono
allegorie scene più piccole, mentre sui due lati interni si trovano due scene più grandi, divise
dai rispettivi portali, con in mezzo altre allegorie e divinità, tutte legate al tema del T empo e
dell'eternità.
La prima di queste scene maggiori si trova a sinistra della parete maggiore e rappresenta
il Trionfo di Camillo dopo la conquista di Veio, incoronato dalla Fama e preceduto da un
carro con la statua di Giunone. Sopra la porta l'Allegoria della Pace che brucia le armi. Segue
un'altra scena maggiore, Camillo che irrompe armato durante la pesa dell'oro sottratto
da Brenno ai Romani.
Nella parete seguente Camillo sconfigge i Galli nei pressi di Ardea, il Sacrificio di Isacco tra le
allegorie di Carità, Fortezza, Speranza e Fede e l'Assedio di Falerii, quando Camillo fa
bastonare il maestro che aveva tradito la sua città. Le storie proseguono quindi nei
medaglioni sopra le finestre dell'altro lato maggiore: gli Abitanti di Sutri supplicano Camillo di
liberare la loro città dagli Etruschi, l'Allegoria di Firenze, dell'Arno e dei Medici e una scena
non pienamente chiarita, di Camillo che esce dalla sua tenda e va in battaglia. Tra le finestre,
da sinistra, gli dei Kairos (Cronos), Marte che sottomette un Gallo, Diana e un'Allegoria del
Tempo con gli attributi di Fede e Speranza. Nell'ultima parete, quella nord, due scene
chiudono il ciclo sopra le finestre: Camillo inaugura un Tempio e Camillo riceve la carica di
dittatore. Tra le finestre Hecate (dea egizia della luna), l'Allegoria del Favore e Phanes (dioe
egizio del sole).
anni 50 Palazzo Ricci-Sacchetti ciclo di affreschi
Nell’androne è murato un rilievo romano del III secolo, raffigurante un episodio del regno di Settimio
Severo. Al di sopra di questo è posta una Madonna col bambino del 1400 di scuola fiorentina. Nel primo
piano, importante è il salone delle udienze del cardinal Ricci, detto salone dei Mappamondi da
due globi - uno terrestre e uno celeste - opera di Vincenzo Coronelli li' posti: la presenza
del baldacchino testimonia delle frequenti visite papali.[9] Esso è decorato da affreschi di Francesco
Salviati e aiuti, eseguiti nel 1553-1554 e raffiguranti Storie di Davide (le descrizioni partono dalla parete
a destra di chi guarda le finestre in senso orario).
Prima parete:
 Saul tenta di trafiggere Davide;
 Morte di Saul e di Gionata;
 Annunzio a Davide della morte di Saul;
Seconda parete:
 Uccisione di Uria;
 Bagno di Betsabea;
 Betsabea si reca da Davide;
Terza parete:
 Davide parla ai soldati;
 Morte di Assalonne;
 Annunzio a Davide della morte di Assalonne;
 Quarta parete
 Davide risparmia Saul;
 Davide danza davanti all'Arca dell'Alleanza alla presenza di Mikal;
 Davide salvato da Mikal;
Su vicolo del Cefalo si affacciano 4 stanze adorne di stucchi e affreschi, mentre un gruppo di
artisti manieristi francesi e italiani, comprendenti Maitre Ponce, Girolamo da Faenza detto il Fantino,
Marco Marcucci di Faenza, Giovanni Antonio Veneziano, Marco Duval detto il sordo (Marco Francese),
Stefano Pieri (Stefano da Firenze), Nicolò da Bruyn, e G. A. Napolitano decorarono fra il 1553 e il 1556
altre stanze verso il giardino con grottesche, scene dell'Antico Testamento e mitologiche.
La Galleria, adattata a sala da pranzo e ricevimenti, è situata verso il Tevere e decorata con dipinti
raffiguranti soggetti biblici di Pietro da Cortona. Notevole è anche la sala da pranzo fatta edificare dal
cardinale Ricci nel 1573, decorata con affreschi alle pareti del salernitano Giacomo Rocca, raffiguranti
coppie di Sibille e Profeti sul modello della Cappella Sistina. Essa è inoltre adornata da due affreschi di
Pietro da Cortona raffiguranti La Sacra Famiglia e Adamo ed Eva. Il soffitto della sala da pranzo venne
eseguito nel 1573 dall'intagliatore Ambrogio Bonazzini,i l quale scolpì più tardi quello dell’Oratorio del
Gonfalone.

anni 60 Sala dei Fasti Farnesiani a Palazzo Farnese Roma


Oggi ufficio dell’ambasciatore, il salone costituisce la stanza centrale del piano nobile, si apre sulla
loggia di Michelangelo che dà su piazza Farnese. In passato, era la stanza di rappresentanza della
famiglia. Il soffitto, probabilmente firmato dal Sangallo, sarebbe anche il più antico del palazzo.
La decorazione ad affreschi della stanza, commissionata dal Cardinale Ranuccio all’artista fiorentino
Francesco Salviati, è stata dipinta tra il 1557 e il 1563. Alla morte di Salviati, Taddeo e Federico
Zuccari la terminarono. Le grandi composizioni centrali, circondate da figure allegoriche, illustrano i
fasti della famiglia Farnese. Salviati ha concepito uno schema simmetrico per mettere in risalto la
glorificazione di due membri fondatori della famiglia.
Come nella stanza delle udienze del Palazzo Vecchio a Firenze, Salviati abbina architettura in
trompe-l’oeil e scene storiche per servire uno scopo politico: esaltare la lealtà della famiglia Farnese
nei confronti della Chiesa.
Di fronte al camino è rappresentato un archetipo dell’eroe Farnese, Ranuccio il Vecchio, che,
guidando le sue truppe papali, conquista le terre familiari: a sinistra Ranuccio riceve il bastone di
comando dal papa Eugenio IV, a destra la vittoria delle truppe condotte per Firenze dai Farnese sui
Pisani).
La parete opposta è dedicata a Paolo III in apoteosi, seduto tra la Pace e la Prosperità. A destra, è
stata identificata una scena del Concilio di Trento di cui Paolo III fu il promotore. A sinistra, la Pace di
Nizza (1538) mette in scena Carlo V e Francesco I. Le scene rappresentate sulle altre due pareti sono
attribuite ai fratelli Zuccari. In basso, le figure antiche realizzate in trompe-l’oeil risalgono al XIX°
secolo.
Daniele da Volterra
1541 Deposizione di Trinità dei monti

I personaggi sono quindici. Sono disposti attorno a due narrazioni: la Deposizione del corpo di Cristo e il disperato
svenimento della Vergine. Con la croce e le scale a dare sviluppo verticale, la costruzione della profondità è
lasciata al corpo di Gesù (come puntualmente evidenzia il Vasari) e ad una serie di mani e braccia che si
protendono vero lo spettare al centro dell’opera.
Un vero e proprio trionfo di drappeggi e vesti colorate riempie la scena. Nonostante i restauri ottocenteschi,
l’affresco deve aver perso in misura significativa la sua originale luminosità e le molteplici tonalità di colore che
comunque, ancora oggi, lo caratterizzano.
Prendete il tempo che è necessario per ammirare la Deposizione di Daniele da Volterra. E’ una composizione fatta
di mille particolari tutti da approfondire: di anatomie michelangiolesche, di dinamismo accentuato ma mai fuori
misura (guardate i tre personaggi maschili sul lato destro dell’affresco partendo da quello che si tuffa dal la croce
come se avesse ali), di abiti dove la Maniera mette in mostra le mirabili capacità tecniche dei suoi maestri, di
capacità di rappresentare tutta la paletta dei sentimenti del genere umano.

Benvenuto Cellini
1540-43 Saliera per il re di Francia (Francesco I)
Oro, ebano e smalti; Una figura femminile e una maschile siedono agli opposti su una base ovale. Sono entrambe
nude e intrecciano le gambe al centro in prossimità di un piccolo bacile. La donna porta una cornucopia e i suoi
capelli sono decorati con frutta e fiori. Inoltre, siede sopra ad un cuscino che ricorda la pelle di un elefante e porta
la sua mano sinistra al seno. L’uomo, invece, impugna un tridente e siede su una conchiglia trainata da cavalli
marini. Nel gruppo infine è inserito anche un tempietto e alcuni mascheroni decorano il bacile centrale. Alcuni
strumenti impiegati per il lavoro della terra e nel mare sono sparsi sulla base. I due personaggi scolpiti
rappresentano la dea Cerere e Nettuno. La dea della terra incrocia le sue gambe con il dio dei mari e dalla loro
unione viene prodotto il sale. Cerere infatti sostiene una cornucopia che simboleggia l’abbondanza. Le altre figure
che compaiono sotto le due principali sono l’Aurora, il Giorno, il Crepuscolo e la Notte. Inoltre compaiono i venti
che agitano terra e cielo.
Carlo IX di Francia donò la Saliera di Francesco I all’arciduca Ferdinando II del Tirolo. Il sovrano ringraziò in tal
modo l’arciduca per aver favorito il suo matrimonio con Elisabetta d’Austria. La Saliera passò così agli Asburgo e
dal 1871 si trova esposta presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. In quegli anni l’artista si trovava in
Francia. L’artista ebbe l’idea di creare una saliera originale ed estremamente preziosa in seguito alla richiesta del
cardinale Ippolito d’Este. Il committente chiese quindi a Luigi Alamanni e Gabriele Cesano, due intellettuali alle
sue dipendenze, di indicare il soggetto adeguato all’artista. Cellini, però, non accettò le indicazioni dei due uomini
e realizzò un modello in cera che fu molto apprezzato dal cardinale. Purtroppo i costi per la realizzazione erano
molto alti e il committente rinunciò alla saliera. Benvenuto Cellini si recò poi in Francia nel settembre del 1540.
L’artista fu ospitato da Francesco I che gli mise a disposizione molte risorse per le sue creazioni e gli diede la
possibilità di realizzare finalmente il suo ambizioso progetto. Gli storici considerano il manufatto un capolavoro di
alta oreficeria.
Le figure sono realizzate con grande attenzione e anche i più piccoli particolari sono curati. Sebbene sia alto solo
26 cm, si tratta di una importante testimonianza del Manierismo in Europa. Inoltre è evidente la ricerca di forme
eleganti, armoniose e il gusto ricercato tipico del Manierismo. Le allegorie dei momenti del giorno derivano
invece dalle tombe di Giuliano e Lorenzo de’ Medici scolpite nella cappella Palatina di San Lorenzo a Firenze.
L’opera di piccolo formato di Benvenuto Cellini fu realizzata in oro e smalto. Le figure poggiano su una base
ellittica in ebano.

1545-54 Perseo Commissione di Cosimo de’ Medici, l’opera era destinata a creare, insieme ad altre, la scenografia cerimoniale in
piazza della Signoria a Firenze, nella Loggia dei Lanzi. Un tempo tale spazio era destinato a runioni del popolo. Cosimo
de’ Medici era consapevole del grande potere propagandistico dell’arte. Decise quindi di creare una spettacolare
scenografia pubblica per le cerimonie della corte medicea. Il giovane eroe classico è raffigurato in piedi e nudo. La
mano destra stringe l’impugnatura di una spada con la punta a sciabola. Con la mano sinistra invece Perseo solleva la
testa appena recisa di Medusa. Il suo viso esanime è voltato verso l’esterno mentre dal moncone del collo scendono
rivoli di sangue. Il volto di Medusa ha connotati classici e gli occhi sono chiusi. Sul capo Perseo indossa un elaborato
elmo metallico decorato. Alle caviglie sono innestate due piccole ali e porta dei sandali. I piedi dell’eroe poggiano
direttamente sul corpo decapitato della Gorgone. Dal suo collo infine fuoriescono violenti getti di sangue. In cadavere
poggia a sua volta su di un tessuto che copre parzialmente il piano.
Cellini era un abile orafo. Le sue sculture quindi, anche quelle di grandi dimensioni, furono eseguite con attenzione
quasi maniacale ad ogni singolo dettaglio. Si possono valutare particolari quali le decorazioni complesse sull’elmo
indossato da Perseo. Poi, le ciocche accurate e disposte accuratamente delle capigliature. Le fisionomie dei
personaggi sono infine molto espressive. La scultura venne realizzata attraverso una fusione unica e non assemblando
pezzi realizzati separatamente. Questo accorgimento tecnico permise a Cellini di vantare un gran prestigio
professionale.
Perseo dopo aver decapitato la Gorgone Medusa espone al pubblico il trofeo. Assume quindi una postura aggraziata
ed elegante. Come anche altri maestri del Manierismo, Benvenuto Cellini creò sculture dalle posture raffinate che non
mostrano la fatica dell’azione. Esibiscono invece un’estrema eleganza anche in un gesto brutale e violento.
1548-1453 Busto bronzeo Cosimo I de Medici
Quando Camerini realizzò il portone di Forte Stella riservò un posto che accogliesse un pregevole busto
bronzeo raffigurante il fondatore di Portoferraio Cosimo I de' Medici, che voleva lasciare un tangibile segno di
affetto alla sua città. Il busto di Cosimo fu terminato nella primavera del 1548 a Firenze da Benvenuto Cellini e
inventariato nel Guardaroba ducale l'anno 1553 come un busto "scolpito in bronzo e tocco d'oro" con riferimento
all'antica doratura.
Cosimo de' Medici dette incarico all'architetto Camerini di portare il suo busto bronzeo a Portof erraio, che lo
descrive grande due volte il naturale fino alla cintura. L’opera fu collocata nella nicchia sulla porta di ingresso del
Forte Stella il 15 novembre 1557 e vi rimase fino al 2 maggio 1781, quando fu trasportata agli Uffizi per volere di
Leopoldo I.
La figura del Granduca è presentata alla maniera dei ritratti imperiali e con la testa leggermente ruotata, a conferire
un portamento nobile e altero. Stilisticamente rivela grande raffinatezza tecnica ed una precisa attenzione ai
dettagli. In particolare si nota la cura dedicata dal Cellini per le preziose decorazioni allegoriche e araldiche
dell’armatura, sulla quale spicca l'emblema del Toson d'Oro.

Giorgio Vasari
1534 Ritratto del duca Alessandro de Medici
Alessandro de’ Medici, detto il “moro” per la sua carnagione scura, era figlio naturale di Lorenzo, Duca d’Urbino,
fratello del Papa, e di una serva mulatta, ma alcuni ritengono che fosse addirittura figlio del Papa stesso, il quale
intervenne presso l’imperatore per farlo nominare duca di Firenze.
Questo suo ritratto fu commissionato al Vasari da Ottaviano de’ Medici probabilmente su richiesta del duca
stesso, così come era avvenuto pochi mesi prima per il Ritratto di Lorenzo il Magnifico. Entrambi i dipinti erano
corredati da una lunga lettera di accompagnamento che ne svelava il significato allegorico con intento
celebrativo della dinastia medicea, presso la quale l’artista aretino rimarrà al servizio come pittore e architetto di
corte per tutta la durata della sua carriera artistica.
Il giovane duca è rappresentato a figura intera secondo una tipologia inconsueta all’epoca, che tuttavia richiama
chiaramente quella di Giuliano de’ Medici di Michelangelo, nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo. L’armatura
splendente di cui è rivestito è lo specchio delle sue qualità, mentre il mantello rosso adagiato sulla seduta
simboleggia il sangue dei nemici sconfitti. Lo sgabello rotondo indica che il suo regno non avrà mai fine poiché i
suoi oppositori, rappresentati dalle erme scolpite sulle zampe, sono stati soggiogati per sempre. Sullo sfondo la
città di Firenze in fiamme ricorda l’assedio del 1530, mentre il ramo d’alloro che rinasce vigoroso dal tronco
tagliato, richiamo al Ritratto di Cosimo il Vecchio del Pontormo, simboleggia la dinastia medicea tornata al
potere più forte dopo l’esilio.

1546 Sala dei 100 giorni

Vasari e i suoi assistenti lavorano in maniera elaborata e fantasiosa. La narrazione si svolge all'interno di un insolito spazio illusionistico inondato di ornamenti allegorici e inoltre
da numerose figure in architettura dipinta circondate da simulazioni di sculture. I gesti e le espressioni dei personaggi sono stravaganti ed esagerati in maniera cortese, secondo
lo stile maniero della metà del Cinquecento. La decorazione di questa sala esemplifica il terzo tipo di decorazione parietale: è stilisticamente legata alla Camera della
Fortuna di Casa Vasari . Questa sala è rettangolare. Il suo soffitto piatto in legno è composto da forme a cassettoni incassate. Questi quadrati sono creati dall'intersezione di travi
in legno. una mensola appoggiato sulla parte superiore della parete sostiene l'estremità di ogni trave. La parete est contiene sei grandi finestre nella zona inferiore e sei piccole
nella zona superiore. Le pareti nord e sud contengono ciascuna una sola baia, mentre la parete ovest ne contiene due. Il trattamento della decorazione murale è geometrico e
architettonico. Il muro non è considerato come una superficie bidimensionale dipinta, ma piuttosto come una struttura plastica, architettonica in cui lo spazio immaginario e
reale possono espandersi e contrarsi come uno. La parete, trattata in stile fregio, è divisa in due zone orizzontali, ciascuna a sua volta suddivisa in tre parti verticali. La parte
superiore contiene ad ogni estremità un busto ritratto di un antico imperatore incorniciato da Ignudi alati o allegorie della Vittoria. Un motto latino è iscritto in un cartiglio sopra
questa composizione. Al centro di questa zona superiore, figure femminili sedute inquadrate dai peducci lignei pres entano uno stemma. Possono essere identificati dagli
attributi che detengono e dall'iscrizione latina sul cartiglio ai loro piedi. Variazioni di motivi grotteschi aggiunti alla decorazione complessiva di questa zona.
Le parti inferiore e superiore sono separate da due frontoni spezzati alle estremità del muro (dove riposano i busti antichi) e dall'architrave che corre tra di lor o. Questo
architrave sostiene una maschera elaborata e motivi a festoni. Nella parte inferiore della parete vi sono due tabernacoli dipinti che sorreggono i frontoni spezzati sopra
descritti. Il motivo del tabernacolo contiene un'area aperta, o nicchia, dalla quale si protende verso lo spettatore una figura femminil e in piedi: motivo derivante dagli studi
michelangioleschi vasariani delle Cappelle Medicee . Al centro della parte inferiore, colonne doriche incorniciano raffigurazioni di un'istoria.
L'utilizzo dell'architettura dipinta per inquadrare una scena narrativa, comunemente nell'antichità, è stato elaborato nel Quattrocento , ad esempio, nel Salone dei
Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara , e successivamente nell'Alto Rinascimento, come esemplificato dalla Sala di Costantino in Vaticano Palazzo . Le storie sono piene di citazioni
stilistiche dall'arte passata e presente. Il dado ( zoccolo o basamento) del muro è stato trasformato o eliminato. Vasari crea un nuovo dispositivo su larga scala utilizzando gradini
dipinti illusionisticamente che si estendono dal centro della zona inferiore fino al pavimento fisico vero e proprio. Sembra che lo spettatore possa entrare nella scena dipinta e
partecipare agli eventi che si verificano nella storia narrativa . Secondo Sydney Freedberg , il motivo dei gradini è una trasformazione del ricetto (vestibolo) di Michelangelo
nella Biblioteca Laurenziana . Altre fonti importanti per i motivi del Vasari sono la loro esedra del Cortile del Belvedere in Vaticano e l' affresco del Ninfeo nella feritoia della
finestra della Sala di Costantino , sempre nel Palazzo Vaticano. Lo schema decorativo della Sala dei Cento Giorni è sistemato e inquadrato in quadro riportato , ovvero scene di
storia inquadrate indipendenti. I quadri o cornici sono affiancati da tabernacoli contenenti figure che simboleggiano virtù morali o estetiche. E il disegno complessivo è fuso da
motivi classici e grotteschi. L'esecuzione della Sala dei Cento Giorni è preziosa per Vasari. Si tratta, infatti, dell'inizio di un programma pittorico formalizzato e complesso che
verrà ulteriormente elaborato nei cicli decorativi di Palazzo Vecchio .
anni 50 Allegoria della Terra nel Salone degli elementi (Palazzo Vecchio)
È la prima sala del cosiddetto Quartiere degli Elementi, ovvero l’insieme delle cinque sale e dei due
loggiati privati di Cosimo I. Il Granduca aveva commissionato la realizzazione delle decorazioni a Battista
del Tasso che passarono poi nelle mani del Vasari e della sua bottega quando Nostro Signore lo chiamò al
suo cospetto.
Tutte le sale del Quartiere degli Elementi sono dedicate a una divinità mitologica e ciascuna di queste
divinità corrisponde al piano sottostante a un membro della famiglia Medici. Niente nell’arte è casuale,
soprattutto in quella rinascimentale.

dal 1563 Salone dei Cinquecento (Palazzo Vecchio)


Gli affreschi furono realizzati dal Vasari con aiuti e riguardano tutti scene di battaglie vinte sulla
Repubblica di Pisa e quella di Siena. Sulla parete est potete vedere la presa di Siena, la conquista di
Porto Ercole e la Vittoria di Cosimo I a Marciano in Val di Chiana mentre su quella ovest c’è la
sconfitta dei pisani alla torre di San Vincenzo, Massimiliano d’Austria che tenta la conquista di Livorno
e Pisa attaccata dalle truppe fiorentine.
Giorgio Vasari però non si limitò a decorare le pareti ma decise di rendere ancora più imponente e
maestosa quella sala. Alzò il soffitto di sette metri decorandolo poi con uno spettacolare soffitto a
cassettoni con intagli dorati. I 42 riquadri raffigurano tutte scene della vita di Cosimo I e non sono
nient’altro che un’esaltazione bell’e buona del personaggio. Giorgio Vasari coordinò il team di pittori
all’opera ma fu Vincenzo Borghini a mettere a punto il soggetto iconografico.
il Salone su alzato di ben 7 metri, raggiungendo gli attuali 18 metri, e superando così di 3 metri
l’altezza della sala veneziana. Solidissime e amplissime doppie capriate ne sostengono il tetto e con
un complicato sistema di ancoraggio trattengono il soffitto a cassettoni.
Giorgio Vasari trasforma la sala in un complesso apparato per la glorificazione del duca. Il programma
iconografico fu fornito dal Borghini. Al centro dei 42 riquadri del soffitto “Apoteosi del duca Cosimo I”
che è rappresentato mentre la Gloria lo incorona, circondato dagli stemmi delle Arti fiorentine. Tutto
intorno su dipanano le immagini degli episodi salienti della storia di Firenze, dalla fondazione
all’epoca contemporanea, e delle città e territori che le sono sottomessi, così come dei quartieri della
città.

1569-72 Studiolo di Francesco I (Palazzo Vecchio)


La stanza rettangolare è coperta da una volta a botte, affrescata dal Poppi e da Jacopo Zucchi. Al centro del soffitto
l'affresco con Prometeo e la simmetria delle specie, che da Pandora riceve il proiettile simboleggiandone la
corruzione, era il punto di partenza per tutto il ciclo decorativo; attorno vi sono le personificazioni dei Quattro
elementi (Aria, Acqua, Terra e Fuoco), che determinano il tema per il lato corrispondente. Nei riquadri accanto agli
Elementi sono affrescate coppie di fanciulli abbracciati, che simboleggiano le qualità risultanti dalle fusioni a due a
due dei vari Elementi. Sull'asse centrale, ai lati, l'impresa di Francesco I de' Medici (Donnola) e l'Allegoria dei legami
tra i quattro elementi. Nei quattro riquadri angolari, infine, sono rappresentate alcune entità alchemiche:
 La Flemma, fredda e umida come l'acqua
 Il Sangue, umido e caldo come l'aria
 La Malinconia, fredda e secca come la terra
 La Collera, calda e secca come il fuoco
Sulle due lunette alle estremità sono collocati i ritratti dei genitori di Francesco: Cosimo I e Eleonora di
Toledo di Alessandro Allori, tra raffigurazioni delle stagioni e dei segni zodiacali a esse associati.
Le pareti sono decorate da due registri di pannelli dipinti, tre per fila per ciascun lato minore e otto sul lato maggiore;
in quello superiore agli angoli sono presenti nicchie con statue in bronzo, che rappresentano figure mitologiche
correlate agli Elementi. In totale quindi sono presenti otto nicchie per le statue e 36 dipinti, meno due dispersi (in uno
è stata collocata la porta sul salone dei Cinquecento, aperta nel 1920, in un altro è stata lasciata la cornice vuota).
Dietro ogni pannello si trovano armadi, con l'eccezione di una presa d'aria, e delle porte che conducono alla stanza da
letto di Francesco, e ad altre due stanzette "segrete" (lo studiolo di Cosimo e il presunto Tesoro); la porta principale
sul Salone dei Cinquecento è un'aggiunta recente. Le varie pitture (soggetti mitologici e pagani) dovevano forse
suggerire i vari materiali conservati in ciascuno sportello.
Tra i pannelli più interessanti ci sono le Sorelle di Fetonte di Santi di Tito, il Lanificio di Mirabello Cavalori, la Pesca
delle perle di Alessandro Allori, le Miniere di diamanti di Maso da San Friano, le Terme di Pozzuoli di Girolamo
Macchietti, ecc. Particolarmente interessante è il pannello della Fucina o Laboratorio d'alchimia, dipinto da Giovanni
Stradano, dove Francesco si fece ritrarre a sinistra nelle vesti di un artigiano, impegnato nel lavoro della fonderia: un
chiaro segno della personalità inquieta di Francesco, che preferiva le sue attività scientifiche alla politica ed al
cerimoniale di corte. Non è da escludere che Jacopo Zucchi eseguisse per lo Studiolo mediceo delle meraviglie i
pittoreschi bozzetti su rame, due dei quali a Roma nella Galleria Borghese con Il profeta Daniele e la manna (Allegoria
della creazione) e la Pesca delle perle e del corallo (Scoperta dell'America), che illustra la fauna delle Isole Canarie e
l'origine dei fossili, la storia naturale nel genere della natura morta, completando la serie agli Uffizi delle Età
dell'uomo.
1572-79 Cupola di Santa Maria del Fiore col Giudizio Universale (muore nel ’74) e Federico
Zuccari
Giorgio Vasari e Federico Zuccari si arrampicarono fin lassù sui ponteggi per dar vita a un grandioso
Giudizio Universale, lo stesso tema iconografico del vicino Battistero di San Giovanni.
Il grande affresco di 3.600 metri quadrati comprende oltre 700 figure in totale: 248 angeli, 235 anime
e 21 personificazioni, più 102 personaggi facente parti del mondo religioso, 35 dannati, mostri, putti,
ritratti e 12 animali.
Nel progetto originale del Brunelleschi, l’interno della cupola avrebbe dovuto essere decorato con un
grande mosaico ma successivamente Cosimo I de’ Medici preferì al mosaico un affresco e affidò il
lavoro al Vasari.
Nel 1574 però Vasari morì e morì pure il Granduca Cosimo I. Il successore Granduca Francesco I volle
far concludere il lavoro a Federico Zuccari. Finalmente il 19 agosto del 1579 gli affreschi vennero
svelati mostrando tutta la loro magnificenza.
Cristo Giudice è circondato da un’aurea luminosa e dal suo tribunale formato da numerose allegorie,
angeli e beati. Pensate cosa volle dire per il Vasari affrontare quel grande affresco a 90 metri di
altezza con parecchi anni già a pesargli sulle spalle e sulle gambe.
Zuccari portò a termine il lavoro cominciato dal Vasari in tre anni cambiando un po’ l’idea iniziale del
predecessore. Se il Vasari s’era ispirato liberamente al modo di Michelangelo di dipingere i corpi,
Zuccari preferì riproporre uno stile più tipicamente raffaellesco. Tanto fu orgoglioso questo artista per
aver lavorato a questo capolavoro che volle ricordare l’evento realizzandosi da solo una medaglia
celebrativa, oggi conservata nelle collezioni del Bargello.

1572 Allegria della Lega Santa e Battaglia di Lepanto (nella Sala Regia Vaticana)

Jacopo Tintoretto
1555-1556 Susanna e i vecchioni
L'opera raffigura Susanna, la cui storia è narrata nella versione greca del Libro di Daniele. Susanna è nel
giardino di suo marito e si sta preparando per un bagno. Si siede completamente nuda a destra nel
dipinto su una pietra sotto un albero e si guarda allo specchio, che è appoggiato a una siepe di rose in
fiore tra due alberi. Il tronco dell'albero anteriore si estende come una linea su tutta l'altezza
dell'immagine e la divide in due sezioni: una a sinistra, che copre solo il 20 percento dell'area
dell'immagine, e una a destra molto più grande, che occupa circa 80 percento. La luce del sole cade su
parti del viso e del corpo di Susanna, che Tintoretto ha sviluppato come un effetto chiaroscuro. La
giovane si sporge leggermente in avanti, tirando la gamba destra verso la parte superiore del corpo con le
braccia. Nella mano destra tiene un panno bianco chiaro, foderato di pizzo e frange dorate, che gioca
attorno alla sua gamba destra. Il piede sinistro di Susanna è immerso nell'acqua fino al polpaccio. I suoi
capelli biondi sono intrecciati in modo elaborato, un anello con una perla bianca pende sull'orecchio
sinistro e indossa un braccialetto su ogni polso. Accanto allo specchio sono i gioielli che ha tolto, due
anelli d'oro, la collana di perle, la forcina, il pettine e un barattolo per l'unzione bianco. Dietro Susanna si
può vedere il suo prezioso abito rosso ricamato, che crea un contrasto di colore con gli elementi bianchi.
Due vecchi emergono - non notati da Susanna - come guardoni da entrambi i lati del muro di rose. Uno
degli uomini si guarda intorno alla siepe di rose sullo sfondo. Il secondo, un uomo calvo con la barba
bianca, vestito con una veste rosso salmone, striscia da dietro la griglia. Le sue guance sono accese di
rosso, tiene saldamente lo sguardo lussurioso sulla superficie dell'acqua, in cui probabilmente si riflette la
parte inferiore del corpo di Susanna.
Una gazza è seduta su un ramo a destra sopra Susanna, dietro di essa si può vedere un arbusto
di sambucus. Una famiglia di anatre nuota nel fiume a destra dietro uno dei vecchi. Lo stretto giardino
con piscina è delimitato da una staccionata in legno oltre alla siepe di rose. I pali nella zona d'ingresso
sono progettati come cariatide. Attraverso l'ingresso, la vista si apre su un ampio giardino con un fiume,
prati e boschi. Sulla sponda del fiume sullo sfondo su può vedere un cervo e una cerva. Uno sguardo più
ravvicinato rivela in alto a sinistra il profilo di una città circondata dall'acqua, che è probabilmente la città
lagunare di Venezia - la patria di Tintoretto. Le tre figure sono integrate in una composizione triangolare,
la cui punta si è spostata leggermente a destra dall'asse centrale dell'immagine.
Paolo Veronese
1573 Convito in casa di Levi

Nacque con il titolo di Ultima Cena, cambiato poi con Convito in casa di Levi. olio su tela, rappresenta l’episodio del Vangelo detto appunto Ultima cena. Il Veronese fu costretto
a cambiare il titolo al dipinto perché il suo lavoro venne contestato dal Tribunale dell’Inquisizione. I funzionari del temut o organo di controllo cattolico contestarono alcune
figure inserite nella scena. A suscitare contrarietà furono cani, pappagalli, uomini ebbri e nani. Levi era il nome dell’esattor e delle tasse che organizzò la cena per festeggiare la
chiamata di Cristo. I personaggi indossano abiti contemporanei mentre Gesù in centro invece indossa una veste coperta da un mantello.
Il dipinto del Veronese fu realizzato con colori chiari e luminosi come tipico del suo stile. Infatti il chiaroscuro è ridott o al minimo o del tutto assente. Per differenziare le forme
Veronese utilizzò accostamenti di colori complementari. Il suo modo di dipingere rientra nelle influenze del Manierismo come quello di Tin toretto. Il disegno utilizzato per
creare i vari personaggi è molto accurato e le figure sono dettagliate. Il modellato dei corpi e degli abiti rende i personaggi monumentali. Questa resa è poi ulteriormente
favorita dall’inquadratura dal basso verso l’alto. Le posizioni dei personaggi sono dinamiche e tutte attentamente studiate per costruire una resa scenografica d’effetto.
Il tema sacro dell’Ultima Cena fu trasformato dal Veronese nella scenografica rappresentazione di un banchetto signorile. La scena è ambientata all’interno di un palazzo in st ile
Classico cinquecentesco. Le architetture sono ricche e sontuose. Spiccano decorazioni, bassorilievi, colonne e capitelli decorati. Lo sfondo è rappresentato da una prospettiva
esterna di facciate e edifici dell’epoca.

Giambologna Esposta al Museo del Bargello di Firenze era destinata a coronare la fontana della villa del cardinale Ferdinando
dei Medici. Mercurio è poggiato con il piede sinistro sul vento generato dalla bocca di Zefiro. Il messaggero degli
1580 Mercurio dei sta infatti per spiccare il volo grazie alle ali che si innestano alle caviglie. La gamba destra invece è flessa
indietro come il braccio sinistro che regge il caduceo. Il braccio destro è rivolto verso l’alto e anticipa l’ascesa
verso il cielo. Sul capo indossa il tradizionale emetto con le ali.
Il progetto iniziale di un Mercurio volante fu commissionato dal delegato papale Cesi. La statua era destinata al
cortile dell’Archiginnasio sede dell’antica università di Bologna. La sua presenza doveva rappresentare un monito
per gli studenti. Il dito indice puntato verso l’alto ricorda infatti la natura divina del sapere. Tale intenzione non fu
però portata a termine e il modello venne ospitato presso il Museo civico di Bologna. Seguirono altre versioni
fino ad arrivare a quella proposta a Firenze ai Medici.
I principi fiorentini ne ordinarono una copia da donare all’imperatore Massimiliano II d’Asburgo in occasione
delle intese per il matrimonio tra Francesco e la sorella del regnante. Giambologna fu quindi incaricato di fondere
altre due copie in bronzo ora a Vienna e Dresda. Nel 1580 realizzò la copia per il cardinale Ferdinando dei Medici
da porre al centro di una fontana nella sua villa monumentale. Ora la copia è esposta presso il Museo Nazionale
del Bargello di Firenze.
Il Mercurio volante è una scultura in bronzo del manierista Jean de Boulogne, fiammingo ma operante a Firenze.
Il dio ha l’aspetto di un adolescente come rivela il corpo sottile. Il modellato inoltre è molto lontano da
quelli michelangioleschi. La loro corporatura atletica e possente lascia il posto ad un fisico sottile e leggero. La
posa assunta da Mercurio non comunica impegno muscolare nell’azione. Il dio sembra invece compiere lo slancio
verso l’alto con l’agilità della danza. Questa caratteristica fu tipica del Manierismo che prevedeva la capacità di
rappresentare elegantemente e senza sforzo apparente il movimento.

1582 Ratto della Sabina


Un giovane romano afferra e solleva una giovane Sabina. In basso un uomo più anziano, probabilmente il padre della
ragazza, tenta di bloccare il rapitore. La ragazza infatti cerca di divincolarsi e allarga le braccia in segno di terrore. La sua
espressione è chiaramente disperata. Stessa disperazione, per il senso di impotenza, è sul viso dell’anziano inginocchiato.
Le figure rappresentano un episodio dell’antichità. Per questo motivo e per ragioni stilistiche i personaggi sono
rappresentati nudi.
Il ratto delle Sabine è un episodio mitologico relativo alla fondazione di Roma. Si riferisce ad un evento politico e
strategico organizzato da Romolo. Dopo aver fondato Roma nel 753 a.C. il sovrano si trovò nella necessità di offrire delle
compagne ai propri concittadini. Il ratto si consumò durante la celebrazione di un imponente spettacolo organizzato per
celebrare la città. Parteciparono alcuni popoli tra i quali i Ceninensi, i Antemnati, i Crustumini e i Sabini.
Durante la manifestazione ad un cenno di Romolo i suoi uomini con le armi in pugno si impossessarono delle donne
nubili. Le fonti storiche non riportano i fatti in modo chiaro. Sembra comunque che non venne ucciso alcuno e gli altri
invitati tornarono nelle loro città. A loro volta però in seguito reagirono attaccando Roma ma furono sconfitti. È celebre il
dipinto di David che rappresenta il momento in cui le Sabine, ormai spose romane, si pongono tra i due eserciti per
chiedere la pace. Il Giambologna scolpì una enorme statua, di oltre quattro metri di altezza, destinata ad arredare
scenograficamente la Loggia dei Lanzi. L’opera si trova infatti posizionata accanto al Perseo di Benvenuto Cellini. Lo stile
elaborato e la struttura complessa si concretizzano nella disposizione ad S dei personaggi. È molto evidente infatti la
torsione del corpo del giovane romano. Questa direttrice a serpentina nasce con il corpo frontale del Sabino
inginocchiato. Ruota con il corpo visto di schiena del giovane romano che si avvita. Termina quindi sul corpo della
giovanissima Sabina rappresentata di tre quarti.
1587-93 Monumento equestre a Cosimo I de Medici
La statua venne commissionata da Ferdinando I de' Medici per celebrare il padre, che era stato il
primo Granduca di Toscana e che era scomparso circa 15 anni prima.
Fu commissionata nel 1587 al più importante scultore attivo a Firenze all'epoca, il Giambologna. Il
grandioso progetto prevedeva una statua in bronzo ed era la prima grande scultura equestre che si fosse
realizzata a Firenze.
Giambologna per l'importante commissione ebbe bisogno di una fonderia apposita per affrontare l'opera
di grandi dimensioni. Ebbe come modelli più vicini il monumento equestre al
Gattamelata di Donatello a Padova e il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni di Andrea del
Verrocchio a Venezia. Un'altra fonte di ispirazione fu la testa di cavallo ellenistica che era nelle collezioni
medicee e che oggi si trova al Museo archeologico nazionale di Firenze.
Nel 1591 il cavallo era pronto ed era stato fuso in un'unica gittata. Nel 1594 l'opera fu finalmente
completa, con la figura del Granduca e con il piedistallo marmoreo, sul quale furono sistemati tre
bassorilievi che raffigurano episodi salienti della sua vita: L'elezione a duca (avvenuta nel 1537), La
conquista di Siena (1555) e Il conferimento del titolo di Granduca (1569), ciascun bassorilievo con un
cartiglio esplicativo in alto, in latino. Sempre sul piedistallo si trovano anche i capricorni, simbolo dello
stesso Cosimo, in quanto figura di virilità, di magnificenza e simbolo di condottiero, in quanto la stella
maggiore nella costellazione dell'Auriga è associata a Amaltea e quindi alla "capra". Sul lato est un'altra
iscrizione latina, scolpita nel bronzo, celebra le imprese del granduca.
La statua ebbe una grande fama, e Giambologna ricevette molte analoghe commissioni per monumenti
simili: per Parigi il Monumento a Enrico IV di Borbone, commissionato dalla vedova Maria de'
Medici (distrutto durante la Rivoluzione francese), per Madrid quello a Filippo III di Spagna (ancora oggi
in Plaza Mayor a Madrid), e per Firenze quello per lo stesso Ferdinando I de' Medici. Queste opere,
incompiute quando morì il Giambologna, furono completate dal suo allievo Pietro Tacca.
1594 Ercole e il centauro Nesso

Questo gruppo scultoreo fu collocato dapprima, nel 1599, sul Canto dei Carnesecchi. Nel XVI secolo il quadrivio
si chiamava così perché qui si trovavano le case di questa famiglia. Il canto era formato dal quadrivio composto
da via Rondinelli, via Cerretani, via Panzani, via dei Banchi. Letteralmente canto significa "angolo", cioè incrocio
in questo caso. Nel quadrivio venne collocato, nel 1599, il gruppo di Ercole e il centauro Nesso. Da questo
angolo prendeva nome il Palazzo delle Cento Finestre, già detto del Centauro.
Statua marmorea collocata a Firenze nella Loggia dei Lanzi. Questo gruppo scultoreo fu collocato dapprima, nel
1599, sul Canto dei Carnesecchi a Firenze, poi lo si trasferì sotto il loggiato degli Uffizi, dal lato meridionale; più
tardi fu posto sulla piazzetta che si trova vicina al Ponte Vecchio, sulla riva sinistra dell'Arno e, nel 1812, trovò la
sua sede definitiva nella Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria. La scultura è caratterizzata dalla grande forza
plastica espressa dalla poderosa torsione, quasi elastica, del corpo del centauro Nesso, piegato dalla forza di
Ercole.

1602-07 Monumento equestre a Ferdinando I de Medici


Si tratta di una delle ultime opere del Giambologna, commissionata dopo che lo scultore aveva raggiunto grande
popolarità internazionale con le sue statue equestri, richieste dai maggiori regnanti europei e iniziate proprio da
una commissione di Ferdinando I, il monumento equestre a Cosimo I, in piazza della Signoria.
Fin dalla fase progettuale il maestro fu affiancato da Pietro Tacca, suo valente allievo e in seguito suo successore
nella bottega di borgo Pinti. A lui spetta il completamento dopo la morte del maestro. Il modello in scala reale fu
definito nel 1602 e gettato in bronzo nell'autunno dello stesso anno, ma l'opera fu portata a termine solo
nel 1607 e sistemata nella piazza nell'ottobre del 1608 in occasione delle nozze di Cosimo II con Maria
Maddalena d'Austria. L'opera venne fusa con il bronzo proveniente dai cannoni delle galee turche, vinte
dai Cavalieri dell'Ordine Militare di Santo Stefano. A tale memoria, nella cinghia sottopancia del cavallo venne
inciso: "De' metalli rapiti al fero Trace". Una satira popolare aveva trasformato quest'iscrizione in "De' denari
rubati in guerra e in pace", a ricordo della salace tassazione dei duchi.
La collocazione del monumento ha evidente riferimento alla devozione del granduca - e più in generale della
famiglia de' Medici - alla basilica della Santissima Annunziata, ma, indipendentemente da questo valore
simbolico, assume nel contesto urbano il ruolo di centro della piazza e di fuoco dell'asse tra la piazza del
Duomo e quella della Santissima Annunziata.
Il granduca si presenta a cavallo, in corazza, con ben evidente sul petto la croce di Santo Stefano, ordine
equestre istituito da Cosimo I. I cartigli sul basamento (segnato da due ampie specchiature in granito rosso),
opera interamente di Pietro Tacca, risalgono invece al 1640. In quello che guarda alla basilica è raffigurata
l'originale impresa araldica di Ferdinando I, formata da uno sciame d'api con il motto "MAIESTATE TANTUM".
L'ape regina è contornata, a cerchi concentrici sfalsati, dalle altre api dell'alveare, per cui rimane difficile
contarne il numero senza confondersi. La simbologia dell'impresa è allusivamente molto chiara: il granduca al
centro (l'ape regina) che non incute nessun timore, attorniato dal pacifico popolo fiorentino rappresentato dalle
api operose.
Annibale Carracci
1580 La bottega del macellaio

Benché la Grande macelleria di Annibale abbia dei punti di contatto con i precedenti di analogo contenuto fiamminghi ed italiani, rispetto a questi presenta delle rilevanti
discontinuità. In primo luogo, nella tela ora ad Oxford Annibale omette ogni elemento di trivialità, o di greve comicità, non di rado riscon trabili nei dipinti di genere dedicati alla
raffigurazione di mestieri umili; al contrario egli descrive con assoluta chiarezza e spregiudicata verosimiglianza – quasi documentaristica – le attività che si svolgono in una
macelleria.
La rappresentazione è obbiettiva e realistica. I beccai, al lavoro, sono estremament e spontanei e credibili; in primo piano, in basso, è raffigurato il macellaio pronto a tagliare la
testa ad un capretto e, vicino a lui, un altro personaggio cerca faticosamente di appendere un mezzano di vitello ad un ganci o (lo sforzo è evidenziato dalla torsione del busto e
della testa). Al centro invece, un altro dei macellai dispone ordinatamente le bistecche di vitello sul banco. Completa il gr uppo dei bottegai titolari l'uomo con il grembiule
bianco, che regge la stadera con cui pesa la carne. Nella composizione sono presenti anche una vecchia e una guardia svizzera. A differenza di quanto non sia per i macellai al
lavoro, in queste figure sembra cogliersi un elemento grottesco, più in linea con i precedenti e in specie con le opere del Passarotti[3]. Non è chiaro quale sia la funzione di questi
personaggi, e in particolare dell'alabardiere, che è dentro la bottega. Una spiegazione proposta è che la presenza dei due alluda satiric amente alla severa proibizione, imposta a
Bologna dal cardinale Gabriele Paleotti, di consumare carne durante la quaresima. La vecchia cliente sarebbe lì in quanto gli anziani erano esentati dal divieto, mentre la guardia
vigila sul rispetto della prescrizione del Paleotti (resta però non chiarito il gesto dello svizzero che si fruga in tasca). Circa la composizione, la Grande macelleria ha vari elementi
di originalità: i bottegai all'opera sono raffigurati a figura intera (mentre molte delle composizioni di analogo soggetto preferiscono la mezza figura) e sono disposti
ordinatamente nello spazio della bottega (raffigurata dall'interno, elemento che il Carracci ha mutuato dagli affreschi vatic ani di Michelangelo e Raffaello cui si è ispirato anche
per la disposizione degli astanti nello spazio). Nel dipinto di Oxford, inoltre, vi è equilibrio tra i protagonisti umani della scena e le vivande (in questo caso la carne), mentre, nelle
composizioni di genere pur prossime alla tela carraccesca, queste ultime tendono ad assumere un ruolo dominante: è la capacità del pittore di riprodurle con realismo e in
grande varietà e quantità, l'effetto ricercato. Nella Macelleria di Annibale, diversamente, il fulcro del dipinto non è tanto la raffigurazione della merce esposta in bottega (per
quanto l'opera eccella anche in questo senso), quanto piuttosto il lavoro dell'uomo. E per quest'aspetto, forse, Annibale potrebbe aver avuto in mente alcune opere di Jacopo
Bassano ove, parimenti (sia pure in dipinti che non sono propriamente pitture di genere), è sottolineata la nobiltà del lavoro degli umili. Molte sono state le interpretazioni
proposte sulla tela, dirette a disvelarne un ipotetico significato allegorico o comunque un sottotesto implicito. Un'ipotesi particolarmente suggestiva in questo senso è che i
macellai all'opera nella bottega siano in realtà i tre Carracci (aiutati da un garzone/allievo), nella cui famiglia di provenienza la professione del beccaio era praticata, e che il forte
naturalismo dell'opera simboleggi e rivendichi il programma di rinnovamento della pittura da loro propugnato[8]. Tesi forse affascinante, ma, pur sostenuta da uno studioso di
grande valore come Martin, probabilmente priva fondamento.

1584-85 Il mangiafagioli
La scena è ambientata in una povera osteria di Bologna. In primo piano, sulla tovaglia bianca, spiccano
l’erbazzone (piatto tipico della cucina reggiana) disposto in un piatto di ceramica dipinta e con il bordo dorato;
del pane; tre cipollotti freschi e crudi; un bicchiere di vino rosso e una brocca. Insieme creano una suggestiva
natura morta.
Un uomo è seduto presso un tavolo. Indossa camicia e giubba; in testa ha un cappello di paglia ornato dalle
penne di un gallo cedrone o di fagiano. Il mangiatore di fagioli è colto proprio nell’atto di portarsi alla bocca
con avidità una cucchiaiata di fagioli, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore. La bocca spalancata, lo
sguardo fisso e vagamente diffidente, il busto ricurvo in avanti, la mano sinistra che stringe il pane sono
particolari di intenso realismo: alludono alla condizione miserevole del personaggio. I colori bassi e terrosi, il
disegno veloce e poco accurato evidenziano ulteriormente il senso di dimessa quotidianità del dipinto.

1585 Pietà con santi Annibale Carracci con una sapiente costruzione dispone le figure principali della scena e i due angeli che sorreggono la
Vergine come a comporre una specie di tableau vivant attorno al corpo inerme di Cristo, posto a sedere sul basamento
del sepolcro e con il capo abbandonato sulle ginocchia della madre, che giace svenuta dietro di lui. A destra, in primo
piano, c'è la Maddalena, figura che allude all'intitolazione della chiesa dove si trovava in origine il dipinto. La presenza a
sinistra di Francesco e Chiara d’Assisi si riferisce alla devozione per questi santi da parte dei cappuccini, committenti
dell'opera. Nella parte superiore della pala si apre uno squarcio di paradiso, da cui discendono figure angeliche recanti
la croce, simbolo della vittoria di Cristo sul peccato, e il drappo bianco che ne annuncia l’imminente Resurrezione. Come
già rilevato dal Bellori, l'opera, al pari del contemporaneo Battesimo eseguito a Bologna, segna uno dei primi espliciti
omaggi di Annibale verso l'opera del Correggio. Nella Pietà fatta per i cappuccini, infatti, l'esuberanza degli angeli e le
nubi dense e fluttuanti capaci di sostenerli e avvolgerli evocano da vicino gli affreschi della cupola del Duomo di
Parma e la pala della Madonna della Scodella. Inoltre, in quest'opera, Annibale si confronta per la prima volta con
il Compianto Del Bono dell'Allegri, dipinto che costituirà un punto di riferimento costante per il più noto dei Carracci,
citato più volte negli anni successivi, sia in opere pittoriche che in incisioni.
I riferimenti a Correggio sono così evidenti da rendere verosimile l'ipotesi che il dipinto sia stato eseguito direttamente
a Parma, sotto il diretto influsso del maestro rinascimentale. La critica contemporanea ha descritto l'opera come una
delle più innovative del suo tempo, scorgendovi già delle avvisaglie proto-barocche: Andrea Emiliani, per esempio, ha
definito la Pietà di Parma come «il dipinto più moderno d'Europa», mentre Eugenio Riccomini ha sottolineato come nel
quadro si manifesti «un nuovo epos cristiano». Nel Museo dell'Ermitage è custodita una Pietà con santi, attribuita
ad Agostino Carracci, molto vicina all'opera parmense di Annibale, che in passato fu assegnata a quest'ultimo. Uno
studio preparatorio di Annibale per la pala di Parma, raffigurante il Cristo in Pietà, si trova nel Gabinetto dei disegni e
delle stampe degli Uffizi. Recenti studi hanno messo in relazione al dipinto parmense anche tre ulteriori disegni, tutti
attribuiti a Ludovico Carracci (rispettivamente conservati presso la Christ Church Picture Gallery ad Oxford,
il Nationalmuseum di Stoccolma e lo Statens Museum for Kunst di Copenaghen, dei tre, quest'ultimo quello più vicino
alla tela della Galleria). Se ne è dedotto che Annibale possa aver goduto, per questo importante esordio fuori Bologna,
dell'aiuto del più esperto ed anziano cugino. In ogni caso il più giovane dei Carracci si sarebbe parzialmente discostato,
nell'esecuzione definitiva, dai suggerimenti di Ludovico per abbracciare modi più decisamente correggeschi.
1586 Matrimonio mistico di Santa Caterina

Questo capolavoro di Annibale ritrae una delle più famose sante, Caterina d’Alessandria. La Vergine col Bambino
appare miracolosamente davanti a Caterina, che china la testa, mentre il piccolo Gesù le mette un anello al dito.
Questo matrimonio mistico è una metafora del suo impegno per una vita cristiana all’insegna della castità. La
ruota chiodata nell’angolo in basso a sinistra e l’angelo che regge una palma alle spalle di Caterina prefigurano il
suo martirio.
Annibale dipinse questa pala d’altare sotto il patronato dell’adolescente Duca Ranuccio I Farnese per la chiesa dei
cappuccini di Parma nel 1585. Dieci anni dopo, il fratello di Ranuccio, il cardinale Odoardo Farnese, assunse
Annibale per eseguire la magnifica decorazione del suo palazzo romano. Ranuccio permise ad Annibale di por tare
questo dipinto con sè a Roma come dono di presentazione per suo fratello e come perfetto esempio del suo
enorme talento.

1588 Madonna con bambino e santi


Il dipinto segna un importante momento di evoluzione degli interessi artistici di Annibale Carracci. Infatti, se le opere
degli anni immediatamente antecedenti sono caratterizzate da una forte adesione alla pittura veneziana
del Veronese, del Tintoretto e di Tiziano, nella Madonna di San Giorgio Annibale sperimenta altre direzioni di ricerca.
Per quanto la calda cromìa e alcuni dettagli – come la figura di santa Caterina, accostabile ai tipi del Veronese –
rimandino ancora a Venezia, la composizione simmetrica e frontale del dipinto, la centralità della Vergine, la placidità
dell’azione, avvicinano la Madonna di San Giorgio piuttosto alle sacre conversazioni rinascimentali.
Il primo modello di riferimento, in questo senso, è il Correggio – maestro che aveva fortemente influenzato la pittura
di Annibale prima della svolta veneziana – ed in particolare la sua Madonna di San Francesco, cui corrisponde il
particolare del rilievo scolpito sul trono, collocato in una nicchia ovale, all'interno del quale, nel dipinto di Annibale, s i
scorge re Davide che suona la cetra. Anche l'inquadramento della scena tra colonne ioniche in diaspro deriva
dall'opera di Correggio. Ancor più significativa è la circostanza che in questo dipinto Annibale si misura direttamente,
per la prima volta, con la grande tradizione centro-italiana di derivazione fiorentina.
Si è colta, infatti, nella Madonna di San Giorgio un'accentuata assonanza compositiva sia con la Madonna delle
Arpie di Andrea del Sarto sia con il Salvator mundi di Fra Bartolomeo. Lo svolgersi dell'azione contro una nicchia
chiusa e il maggior raccoglimento degli personaggi raffigurati, inseriti in uno schema piramidale, avvicinano l'opera
della Pinacoteca bolognese a questi precedenti fiorentini ancor più che alla Madonna di Correggio. Altrettanto
percepibile è l'attenzione per Raffaello. Si individuano, infatti, nella tela di Annibale, chiari rimandi alla Madonna del
Cardellino, da cui è derivato il gruppo della Vergine e dei due bambini e del quale vi è una citazione letterale nel
particolare del piede del Bambin Gesù poggiato sul piede della Madre.

1595-96 Ercole al bivio nel Camerino di Odoacre a Palazzo Farnese

Il tema iconografico della scena principale del ciclo del Camerino, per l'appunto l'Ercole al bivio, di cui si rinvengono mol ti esempi già in epoca rinascimentale, deriva da una
favola del filosofo greco Prodico di Ceo, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., giuntaci attraverso il racconto di Senofonte, riportato nei Memorabilia. Nella favola di Prodico, ad un
adolescente Ercole, mentre un giorno era seduto chiedendosi se dedicare la sua vita alla virtù o al piacere, appaiono due donne, la prima delle quali si presenta come la Virtù e
l'altra come la Felicità (o, per chi le è ostile, come la Depravazione), ognuna delle quali espone al giovane eroe i vantaggi dell'una e dell'altra scelta di vita, tentando di
convincerlo a seguire la strada che ciascuna di esse personifica. Nella tela di Annibale, riprendendo questo antico apologo, il giovane Ercole - in cui deve individuarsi lo stesso
Odoardo Farnese - è, raffigurato tra due figure femminili, personificazioni allegoriche, l'una (alla destra dell'eroe), della Virtù e l'altra (alla sua sinistra), della Voluttà (così la
denomina Bellori). La prima è severamente abbigliata e, mentre imbraccia un parazonio, indica ad Ercole un'ardua salita - appunto il faticoso cammino della virtù - al termine
della quale vi è Pegaso, a sua volta simbolo di virtù e mezzo di ascensione al cielo, ma anche impresa dei Farnese. Ai suoi piedi vi è un poeta coronato d'alloro, pronto a
declamare le gesta dell'eroe se questi sceglierà la giusta direzione. La Voluttà, invece, è seminuda, succintamente coperta di veli quasi trasparenti. Essa mostra ad Ercole-
Odoardo un cammino piano e fiorito, dove compaiono strumenti musicali e spartiti, carte da gioco e maschere teatrali, allusiv i ai piaceri della vita, ma anche all'ingannevolezza
(le maschere) di queste vacue occupazioni. Il giovane eroe sembra indeciso su quale strada scegliere, ma il suo sguardo in tralice si dirige verso la Virtù, lasciando intendere che
alla fine sarà questa la via su cui si incamminerà.
Stilisticamente l'opera riflette il momento di transizione della pittura di Annibale, causato dall'arrivo a Roma. Infatti, le figure di Ercole, della Virtù e del poeta, con la loro
solidità scultorea, manifestano già il recepimento di un influsso classico e sono probabilmente il frutto delle prime riflessioni del pittore sulla statuaria antica (il poeta ricorda
una divinità fluviale, la Virtù una dea olimpica ed Ercole rimanda a celebri sculture come l'Ercole Farnese, il Laocoonte e l'Ares Ludovisi[3]), viceversa la sinuosa e
sensuale Voluttà sembra ancora legata ad un modello veneziano, quantunque anche per questa figura sia stato proposto un precedente figurativo romano, individuato nella
giovane donna vestita di bianco che compare (in basso sulla destra) nell'affresco di Tommaso Laureti, raffigurante la Giustizia di Bruto[6]. Come evidenziato da Erwin Panofsky,
che al dipinto di Annibale ha dedicato una lunga analisi in un celebre saggio del 1930 (Hercules am Scheidewege und andere antike Bildstoff in der neueren Kunst, tradotto in
italiano, nel 2013, con il titolo di Ercole al bivio), sul piano compositivo il dipinto del Camerino farnesiano deriva da un bellissimo rilievo romano di età augu stea (copia di un
originale greco) raffigurante Ercole tra le Esperidi, (il reperto fa parte della collezione di Villa Albani). La posizione assisa di Ercole e la sua nudità, la sua collocazione spaziale tra
due figure femminili che si fronteggiano, la presenza dell'albero alle spalle dell'eroe, sono tutti elementi che si ritrovano nella tela di Annibale. Panofsky, inoltre, mostra come
l'Ercole al bivio di Annibale Carracci sia divenuto il riferimento canonico per la gran parte dei pittori che si sono successivamente cimentati con questo tema. La posizione seduta
di Ercole, il gesto indicante della Virtù, le ingannevoli maschere ai piedi della Voluttà, sono elementi che da Annibale in poi diverranno frequentissimi nelle raffigurazioni della
favola prodicea.
1595 Paesaggio con fiume e ponte

1600-1601 Assunta (Cappella Cerasi)

Annibale Carracci e Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio erano i pittori più richiesti a Roma nel Seicento: il primo
si era affermato per gli affreschi della Galleria Farnese a Palazzo Farnese, mentre il secondo con i dipinti per la
cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi; stili e caratteri diversi li accomuna il lavoro compiuto
congiuntamente nella Cappella Cerasi della Basilica di Santa Maria del Popolo.
La tematica prettamente cristiana dell’ Assunzione di Maria in Cielo, ovvero della Vergine assunta alla gloria
celeste con l’anima e con il corpo, era già stata precedentemente trattata dal Carracci in due precedenti opere: il
dipinto l’Assunzione della Vergine realizzato tra il 1587 e il 1590 e conservato presso il Museo del Prado di Madrid e
la tela l’ Assunzione, realizzata nel 1592 e conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Il dipinto “Assunzione della Vergine” presenta una struttura piramidale con in alto la Vergine tra gli angeli, con le
braccia aperte, e alle sue spalle si intravede il gruppo degli apostoli, tra incredulità e stupore, mentre in basso,
davanti al sepolcro sono raffigurati san Pietro e san Paolo. I colori accessi e brillanti sottolinenano il giusto equilibrio
tra luci e ombre, anticipando l’arte barocca.

Ludovico Carracci
1587-89 Conversione di Paolo

1590 Romolo e Remo con la lupa per palazzo Magnani a Bologna


Questo dipinto è considerato da molti storici dell'arte il primo vero paesaggio nella pittura. Benché ci
siano altri dipinti precedenti in tema (anche dello stesso autore), questo, per la preponderanza e la
forza schiacciante dell'atmosfera paesaggistica rispetto ai personaggi dipinti (i pargoli Romolo e Remo
con la Lupa), è considerato dagli storici dell'arte un vero e proprio punto di svolta.
Due lumi due scuri, un po' di orizzonte alto e un alberone ben visto di sotto in su e sodamente
frappato, mostrano un sito immenso. Il color di quell'acqua, che – non contrastato da verde vago – né
da sfacciato azzurro che la batta – prevalendo a quell'aere nubiloso, fa mirabilmente il suo effetto, e
sul colore mortificato di essa, le carni tenere dei pargoletti han sangue, son vive. Il paesaggio poi non
è, con tutta evidenza, generico o vago ma ognuno può riconoscervi un qualsiasi affascinante angolo
agreste ed autunnale del territorio italiano.
La “superiorità” evidente del paesaggio sulle figure umane è considerata una vera e propria
“rivoluzione artistica” ed il vero tema del dipinto. Non è più l'Uomo al centro del mondo ma ora lo
diventa il mondo stesso nella sua complessità ed interezza naturale.
Agnolo Bronzino
1535–40 Ritratto di Ugo Martelli (David)

Fu console dell'Accademia Fiorentina nel 1544 e nel 1572 gli venne offerto l'incarico di vescovo
di Glandèves in Provenza, che tenne dal 1572 al 1591, dopo rinuncia, anche se già dal 1578 era tornato in Italia
per dedicarsi alle lettere.
Partecipò alla compilazione del Calendario gregoriano. Fu ritratto tra il 1534 e il 1538 da Agnolo Bronzino in
abiti civili, dipinto conservato alla Gemäldegalerie di Berlino. Nell'emblematico ritratto in vesti nere (secondo
la più aggiornata moda dell'epoca), egli tiene in mano un libretto con scritto Pietro Bembo, riferimento al
contemporaneo letterato. Un altro ritratto, di autore fiorentino anonimo, si trova alla National Gallery di
Washington.

1538 Ritratto di Cosimo I de Medici come Orfeo

Il duca Cosimo I de' Medici è raffigurato come il musicista mitologico e poeta Orfeo dopo aver calmato
Cerbero, il cane custode dell'Ade da cui Orfeo desiderava recuperare sua moglie, Euridice. Il ritratto
altamente sensuale del giovane duca nudo può avere diversi significati: l'età pacifica che la nuova
generazione di Medici desiderava inaugurare, il mecenatismo del duca delle arti e delle lettere, o il suo
matrimonio con Eleonora di Toledo nel 1539. Questo dipinto potrebbe sono stati realizzati in concomitanza
con le cerimonie che celebrano quest'ultima occasione.

1540-45 Venere e Cupido


Intorno al 1540, per ragioni di opportunità politica, Cosimo I decise di omaggiare Francesco I, re di Francia,
inviandogli un dono. Per questo commissionò al Bronzino un’elegante e raffinatissima Allegoria con Venere e
Cupido, detta anche Allegoria del Trionfo di Venere. Il fine squisitamente propagandistico dell’iniziativa spiega
in parte la difficoltà che ancora oggi la critica incontra nell’interpretare l’opera: si tratta di un dipinto molto
complesso, il cui soggetto fu probabilmente elaborato da un letterato, che ben testimonia il clima colto e
raffinato che si respirava presso la corte medicea in pieno Cinquecento. Vasari lo descrive come una «Venere
ignuda con Cupido che la baciava, et il Piacere da un lato et il Giuoco con altri amori, e dall’altro la Fraude, la
Gelosia et altre passioni d’amore».
Protagonisti dell’opera sono Venere e Cupido, ossia Afrodite ed Eros per i Greci. Entrambi sono rappresentati
nudi. L’algida pittura di Bronzino li rende somiglianti a sculture di cera; l’artista infatti amò utilizzare colori
freddi e smaltati, che rendono le sue scene rarefatte e preziose. Venere presenta una pelle cerulea, membra
sinuose e allungate e assume una posizione serpentinata torcendo il proprio corpo con eleganza. Indossa un
prezioso diadema che riporta, al centro, la sua stessa figura. Nella mano sinistra tiene la mela d’oro, suo
specifico attributo, vinta in quanto la più bella fra tutte le dee; accanto a lei si scorge una colomba, animale
sacro di questa divinità. Venere e Cupido si stanno baciando: un bacio ambiguo, sicuramente troppo sensuale
per essere una semplice espressione di amore materno e filiale. Infatti, il giovane dio sta anche toccando con
la mano il seno di lei; inoltre la bocca di Venere è dischiusa e si intravedono i denti e perfino la punta della sua
lingua. Il sentimento messo in scena dal quadro è dunque di natura passionale e non platonica.
Venere e Amore sono circondati da quattro misteriosi e ambigui personaggi: un putto che sparge rose festoso,
non accorgendosi che un ramo spinoso sta per ferirgli il piede destro; un mostro con volto di ragazza, mani
invertite (la mano destra è al posto della sinistra) e corpo di serpente e di leone; una vecchia che urla
portando le mani al capo; un vecchio calvo e barbuto, nonché alato e muscoloso, che sta per coprire tutti con
un grande telo blu. Alle sue spalle si intravede una clessidra. Si scorgono anche due maschere, abbandonate
per terra in primo piano; una terza maschera si trova in alto a sinistra. Tutte queste figure sono chiaramente
delle allegorie. Il mostro, che tiene un favo di miele, simbolo di dolcezza, in una mano e un pungiglione
velenoso nell’altra, rappresenta, verosimilmente, “l’inganno” e costituisce la chiave di lettura per
l’interpretazione dell’opera, al pari delle maschere, le quali chiariscono subito che tutto, in questa scena, è una
recitazione. L’amore sensuale, quando è accompagnato dall’inganno, genera, sì, piacere e gioia (il putto) ma
anche gelosia e disperazione (la vecchia), in attesa che comunque il tempo (il vecchio) cancelli tutto,
spegnendo il fuoco di ogni passione. D’altro canto, Venere e Cupido stanno chiaramente tradendo la fiducia
reciproca: mentre si baciano, lei gli sfila una freccia dalla faretra, lui sta per rubarle il diadema dai capelli.
1545 Ritratto di Lucrezia Panciatichi

La donna è rappresentata con un sontuoso vestito rosso, ornato da pizzi nella parte superiore e da una
cintura con pietre preziose. Le maniche hanno un gonfio sbuffo arricciato nella parte superiore e in quella
inferiore sono invece aderenti e, come di consueto, estraibili, tenute da lacci .
Indossa inoltre due collane: una di queste reca la scritta amour dure sans fin, le cui parole si rincorrono in
maniera che possono essere lette da una parte all'altra, senza interruzioni, amplificando il significato di
continuità del motto. Dure sans fin amour e Sans fin amour dure sono infatti altrettanto significative.

1545 Ritratto di Eleonora da Toledo con il figlio Giovanni


Lo sfondo scuro, apparentemente piatto, si illumina attorno al viso di Eleonora, ritratta seduta col figlio
accanto in piedi. In realtà, a ben guardare, si scopre che non si tratta di una parete ma di un cielo plumbeo
con, in lontananza, una veduta di una tenuta, probabilmente quella di Poggio a Caiano, a cui la famiglia ducale
era particolarmente legata. Bronzino creò un ritratto ufficiale che rispecchia l'ideale cinquecentesco di potere
assoluto: le forme dei protagonisti sono levigate, prive di forti contrasti chiaroscurali, illuminate da una luce
fredda che le blocca nella rigidità della posa ufficiale. Depurati da qualsiasi imperfezione naturale, i
protagonisti appaiono imperturbabili e decorosi, degni del loro ruolo di sovrani.
L'attenzione dell'artista si concentrò soprattutto nella descrizione precisa dell'abbigliamento, che qualifica
con immediatezza il rango dei personaggi[5]. L'elaboratissimo abito indossato dalla donna, reso
perfettamente nella sua tridimensionalità e materialità dal Bronzino, mostra un corpetto aderente, una rete
di cordincino dorato con perle sulle spalle, maniche ampie con tagli dai quali sbuffa la camicia bianca
sottostante e un'ampia gonna. al centro del petto risalta il motivo stilizzato della melagrana, derivato dalle
damascature e, in questo caso, simboleggiante la fecondità della donna e presente anche nelle ghirlande sulla
volta della Cappella di Eleonora in Palazzo Vecchio, affrescata sempre dal Bronzino.
Si tratta di un broccato ricamato alla spagnola e può essere considerato una sorta di pubblicità dell'industria
della seta fiorentina, decaduta nei primi difficoltosi anni del Cinquecento e rinata sotto il regno di Cosimo I.
Eleonora indossa numerosi gioielli, che testimoniano la sua straordinaria ricchezza (personale, oltre che del
marito). Perle di varie dimensioni e sfumature si trovano al collo (due fili, uno con un pendente d'oro con
grosso diamante e perla a goccia), agli orecchi (a goccia), sulla rete che copre le spalle e sulla cuffia. La
preziosa cinta d'oro, decorata con pietre e con una nappina pure di perle, fu forse realizzata
dall'orafo Benvenuto Cellini. La sua mano affusolata non indossa anelli. Sebbene l'artista cercasse di creare un
ritratto cerimoniale e dotato di astrazione, sono state lette varie emozioni sui volti dei protagonisti, da una
certa malinconia di Eleonora (o piuttosto una certa solenne alterigia), all'irrequietezza del bambino, che
sembra cercare con gli occhi vispi un diversivo allo stare in posa.

1545 Ritratto di Cosimo I de Medici in armatura


Cosimo I de’ Medici è rappresentato al centro del ritratto con il corpo rivolto a destra ma il viso e lo sguardo a
sinistra. Il Duca indossa un’armatura metallica molto elaborata che lascia libera solo la mano destra
appoggiata sull’elmo. Anche il capo è scoperto e i capelli scuri si confondono con lo sfondo. L’espressione del
Duca è seria e determinata e lo sguardo sembra rivolto lontano. Infine dietro al personaggio è presente uno
tendone scuro mosso da leggeri panneggi. Cosimo I de’ Medici fu in carica come secondo Duca di Firenze dal 6
gennaio 1537 al 21 agosto 1569 succedendo ad Alessandro De Medici. Divenne poi granduca di Toscana dal
21 agosto 1569 al 21 aprile 1574 e venne incoronato il 5 marzo 1570 a Roma. Il padre era il noto condottiero
Giovanni dalle Bande Nere mentre la madre era Maria Salviati. Fu sposato in prime nozze con Eleonora da
Toledo morta di malaria nel 1562 e quindi dal 1570 con Camilla Martelli. Cosimo I divenne secondo Duca di
Firenze in seguito all’assassinio di Alessandro de’ Medici nel 1537. Cosimo all’età di 17 anni giunse così a
Firenze con pochi servi dal Mugello. Superò gli ostacoli posti dai personaggi più influenti di Firenze e si fece
nominare Duca della città. Impostò una struttura governativa che ebbe fine solo con la proclamazione del
Regno d’Italia.
Inizialmente il ritratto si trovava nella villa di Castello, ultima dimora del Granduca. Nel 1925 lo storico
dell’arte e sovrintendente Carlo Gamba attribuì il ritratto al Bronzino. L’opera da allora si trova presso la
Galleria degli Uffizi di Firenze. Una versione del dipinto si trova presso l’Art Gallery of New South Wales di
Sydney. L’opera presenta dimensioni leggermente superiori a quella della Galleria degli Uffizi di Firenze. Il
Bronzino all’epoca del ritratto aveva circa 40 anni quindi era già un artista affermato alla corte dei Medici.
Cosimo I invece nato nel 1519 aveva 26 anni ed era ancora Duca di Firenze. Il Ritratto fu replicato diverse
volte da altri artisti. La versione ospitata alla Galleria degli Uffizi di Firenze presenta ancora una cornice del
Cinquecento di colore nero con decorazioni in oro zecchino. Vasari nel 1568 descrisse il dipinto indicando la
tessa posizione del giovane Duca simile a quella del ritratto degli Uffizi. Gli storici nel datare l’opera
considerarono che Cosimo I ricevette nel 1546 l’onorificenza al Toson d’oro. Inoltre il Bronzino inviò una
lettera nel 1545 al maggiordomo Riccio con richiesta di ottenere il prezioso blu di lapislazzulo da utilizzare
nello sfondo. Il Bronzino fu uno degli Artisti di corte del Granduca Cosimo I de’ Medici. L’artista lavorò sempre
nella città di Firenze e fu considerato un grande ritrattista. Isuoi personaggi sono raffigurati con un’eleganza e
una freddezza che caratterizzano la nobiltà dei suoi committenti. Infatti nei volti è raro osservare una resa
emotiva. Inoltre i personaggi sono raffigurati in pose eleganti e di maniera spesso con torsioni del busto.
L’artista diede una grande importanza anche alla raffigurazione delle mani le cui dita sono allungate e
assumono pose aristocratiche ed eleganti.
Il Ritratto di Cosimo I del Bronzino presenta una intonazione calda nell’incarnato, sull’armatura con riflessi dorati e nello sfondo molto scuro. La luce che proviene dal centro e
da sinistra mette bene in evidenza il viso che presenta solo una leggera ombra a destra. In primo piano è data grande rilevan za alla mano illuminata a partire dal polso. Infine
l’armatura metallica riflette la luce con variazioni rispetto e diverse superfici e lavorazioni del metallo. Infatti intorno al collo e sull’avambraccio il metallo liscio è più chiaro
riflette la luce in modo più contrastato come anche sulle punte aguzze del torace. Lo sfondo in ombra è molto s curo crea una cornice che proietta in primo piano la figura del
Duca. Nel ritratto giovanile di Cosimo I lo spazio è rappresentato solamente dall’articolazione tra la sua figura è quella del tendone scuro di fondo. L’immagine è quindi
protagonista e lo sfondo diventa quasi un elemento ideale del ritratto ufficiale del Duca. L’opera del Bronzino è rettangolare e sviluppata in verticale. Inquadratura racchiude
con un campo molto stretto l’immagine del Duca che viene tagliata in basso. Cosimo infatti è rappresentato a mezza figura con il busto di traverso che occupa l’intera larghezza
del dipinto. Il volto è centrato sulla verticale centrale come anche il torace. Il braccio destro invece è posto su una linea obliqua che sale da sinistra. Anche le spalle scendono in
obliquo verso il basso creando una base triangolare che stabilizza lo statuario viso di Cosimo I.

1565-69 Martirio di San Lorenzo


L’ultima opera del Bronzino è lo stravagante martirio di San Lorenzo, massima espressione della pittura
manierista, conservato lungo la navata sinistra della Basilica di San Lorenzo, dietro il pulpito della Passione
di Donatello. È un affresco di grandi dimensioni, realizzato alla fine degli anni ’60 del Cinquecento, molto
criticato già subito dopo la sua realizzazione per l’eccessiva presenza di nudi per quel periodo di piena
Controriforma. Il colto Raffaello Borghini criticò questi nudi per la loro indecenza: “Sono tutti nudi o di pochi
panni ricoperti, cosa molto disconvenevole”. Quella nudità, secondo il pensiero dell’insigne fiorentino, era
sconveniente sia per i romani dell’epoca di Valeriano (ritratto a destra), sia per la loro collocazione
all’interno di una chiesa Cristiana Cattolica.
Il tema dell’affresco è il martirio di San Lorenzo, sdraiato sulla graticola, doveva esaltare la figura del Santo
patrono mediceo e non suscitare scandalo a Firenze. Stilisticamente qui il Bronzino è molto particolare, si
stacca dalla sua pittura canonica e perlacea, arrivando a snaturare le figure, ovvero: l’artista rende i
personaggi simili a manichini senza vita. San Lorenzo sembra in posa e non ha alcun elemento drammatico,
è rappresentato nel momento in cui il Santo ironizza con l’imperatore romano, incitandolo a mettere più
legna o a girarlo dall’altra parte perché non ancora cotto, decretando la vittoria del cristianesimo sul mondo
pagano. Sono evidenti nella raffigurazione anche i “Michelangiolismi” nei corpi, sebbene non mostrino alcun
dinamismo plastico, sembrano piuttosto bloccati e senza vita. Le proporzioni dell’anatomia dei corpi non
tornano più, probabilmente a Bronzino non interessa più la ricerca formale della perfezione anatomica.
Anche i colori perdono la loro naturalezza, sono diafani, manca volutamente il chiaroscuro e la conseguente
volumetria. È uno stile, quello di Bronzino, che ricorda di più i colori cangianti delle opere di Pontormo. A
detta degli studiosi, la posa della figura di San Lorenzo è una ripresa, sdraiata, dell’Idolino di Pesaro, oggi
conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, Bronzino riproduce lo stesso gesto con la mano .
L’Idolino fu scoperto a Pesaro intorno al 1530 e, poco dopo, entrò nelle collezioni di Cosimo I de’ Medici. In
quell’anno Bronzino si trovava a Pesaro, per le commissioni dei Della Rovere, signori di Pesaro e Urbino,
probabilmente fu presente al ritrovamento della scultura datata 14 d. C., copia romana di una statua greca
del V secolo avanti. È possibile che la citazione dipenda da una visione diretta durante la scoperta, oltre che
dalla presenza dell’opera nelle collezioni medicee. È da notare la posa vi rtuosistica e irreale del carnefice
che attizza il fuoco: è un virtuosismo manierista, mentre la figura di spalle richiama Michelangelo della
Cappella Sistina.

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