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Nuove frontiere
per la storia di genere
a cura di
Laura Guidi e Maria Rosaria Pelizzari
ISBN: 978-88-XXXXXXX
Prima edizione: XXXXX 2013
Volume III
Parte III – Immaginari e linguaggi
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257
Monica Dall’Asta
1. Schermi della memoria: storia del cinema e storia delle donne . . . . . . . 265
Lucia Cardone
2. Daisy Sylvan: attrice, regista e imprenditrice . . . . . . . . . . . . . . . . 269
Cristina Jandelli
3. Uno sguardo femminile sulla Grande Guerra: Umanità di Elvira Giallanella . 277
Micaela Veronesi
4. Un’idea di cinema nell’opera perduta
di Bianca Virginia Camagni ed Elettra Raggio . . . . . . . . . . . . . . . 285
Elena Mosconi
5. La Dora Film di Elvira Notari, esempio di “saggezza organizzativa” tra
esigenze commerciali e necessità familiari . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293
Lucia Di Girolamo
6. Anna Gentile Vertua, l’onesta cinefila . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 299
Luca Mazzei
6. The Five Senses of Queer Desire In the Letters from Sibilla Aleramo to Lina
Poletti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351
Ellen Zitani
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CAPITOLO 5. Linee per una storia del movimento delle lesbiche in Italia 537
a cura di Cristina Gramolini
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 539
Cristina Gramolini
1. La partecipazione delle lesbiche al movimento omosessuale italiano:
il caso del Fuori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 545
Daniela Danna
2. Esperienze associative miste o femminili del lesbismo politico a Milano,
tra radicalità e richiesta di integrazione, dagli esordi al 1995 . . . . . . . . 553
Cristina Gramolini
3. Pratiche e teorie della sessualità nel movimento delle lesbiche in Italia . . . 561
Helen Ibry
4. Movimento lesbico e scrittura di storia: un percorso di lettura
tra politica e identità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 567
Maya De Leo
5. Lesbiche in movimento. Questioni metodologiche e prospettive di ricerca . . 573
Elena Petricola
11
12
13
Monica Ferrari
Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, si è dibattuto, per ragioni marca-
tamente ideologiche, sull’educazione del principe e dei “grandi” in Europa, sulla
pédagogie princière; ciò ha influenzato, ovviamente, la “fortuna” di un tema cru-
ciale per comprendere le questioni politiche nel tardo Medioevo e per tutta l’età
moderna.
Novecento, nuove chiavi di lettura del fenomeno della regalità, nella società che
potremmo definire “degli ordini”, e indaga le ragioni del radicarsi del culto della
sovranità nella mentalità europea, con particolare riferimento alla Francia e all’In-
ghilterra.
Già sul finire dell’Ottocento, in Francia e in Italia, per diverse ragioni, il tema
dell’educazione del principe ha una certa fortuna. Si può affermare che esso di-
viene funzionale a una rivisitazione delle questioni connesse all’identità naziona-
le. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, in Francia, viene dato rilievo ai
grandi personaggi del siècle d’or: penso, a mero titolo esemplificativo, agli studi
sull’educazione politica di Luigi XIV di Georges Lacour Gayet (1898) o sulla for-
mazione dei Borboni di Francia, tra XVII e XVIII secolo, di Henri Druon (1897)
o, ancora, alla collezione di Mémoires pour servir à l’histoire de France (a partire dal
primo trentennio del XIX secolo). In Italia, dopo l’Unità, si inizia a “inventare una
tradizione” culturale, radicata nei singoli contesti di cui viene esaltata la specificità,
magari in riferimento a quel “secolo d’oro” che è stato, in questo caso, il Quattro-
cento3. Oltre alla messe di saggi pubblicati su alcune riviste (penso all’“Archivio
Storico Lombardo”), ricordo gli studi di Alessandro Luzio e Rodolfo Renier sul
ruolo culturale della corte di Isabella d’Este (1890), le ricerche di Achille Dina
sulla giovinezza di Ludovico il Moro (1886), l’inventario di Giuseppe Mazzatinti
sui documenti dell’Archivio sforzesco conservati alla Biblioteca Nazionale di Pa-
rigi (1893)… Questa serie di operazioni culturali ha contribuito, in Francia e in
Italia, a connettere il tema della formazione dei principi a determinate prospettive
ideologiche.
Nella seconda metà del Novecento, in Francia, la pédagogie princière trova
nuovi spunti, grazie all’impulso di alcune ricerche pionieristiche, come l’opera di
Philippe Ariès su “l’enfant et la vie familiale” nell’Europa di antico regime, che ha
mostrato, tra l’altro, le potenzialità di una fonte tanto ricca quanto straordinaria:
il Journal dell’archiatra Jean Héroard sull’infanzia e la giovinezza di Luigi XIII4.
Grazie anche a un rinnovato interesse circa i costumi, non solo educativi, della
società di corte, dovuto al famoso testo di Elias5, si inizia a riflettere sui processi
3 Cfr. Quondam, A.; Rizzo, G. (a cura di) L’identità nazionale. Miti e paradigmi storiografici ottocen-
teschi, Roma, Bulzoni, 2005.
4 Ariès, P. L’enfant et la vie familiale sous l’ancien régime, Paris, Plon,1960, tr.it., Padri e figli nell’Eu-
ropa medievale e moderna, Bari, Laterza, 1968.
5 Elias, N. Die höfische Gesellschaft, Darmstad und Neuwied, Luchterhand Verlag Gmbh, 1969-1975,
tr.it. La società di corte, Bologna, il Mulino, 1980. In Italia, penso al Centro studi sulle società di
antico regime e alla collana “Europa delle corti” edita da Bulzoni. Il primo volume venne pubblicato
nel 1978 ed era relativo agli atti di un convegno sulle corti farnesiane di Parma e Piacenza, svoltosi
nel 1976. Oggi vanno nascendo anche nuovi siti, quali, ad esempio, http://cour-de-france.fr. La let-
teratura sul tema è oggi assai vasta: per una riflessione al riguardo, cfr. Ferrari, M. “Costumi educativi
20
nella società di corte: un convegno e una ricerca” in progress, in Ead. (a cura di) Costumi educativi
nelle corti europee (XIV-XVIII secolo), Pavia, Pavia University Press, 2010, pp. 17-29; Crisciani, C.
“Nota introduttiva”, in Crisciani, C.; Zuccolin, G. (a cura di) Michele Savonarola e cultura di corte,
SISMEL, Edizioni del Galluzzo, 2011, pp. VII-XXII.
6 Ricordo il numero monografico della rivista Mélanges de l’École Française de Rome- Moyen Âge- Temps
Modernes, t. 99, 1, del 1987, dedicato a L’éducation des rois. Pédagogie et pouvoir. È di quegli anni la tra-
scrizione di parti del Journal di Jean Héroard a cura di un’équipe coordinata da Madeleine Foisil (Paris,
Fayard, 1989). Cfr. inoltre: Balzarini, R.; Ferrari Alfano, M.; Grandini, M.; et al. Segni d’infanzia. Cre-
scere come re nel Seicento, Milano, FrancoAngeli, 1991. Per una bibliografia al 1996, specie sul caso fran-
cese, si veda Ferrari, M. La paideia del sovrano. Ideologie, strategie e materialità nell’educazione principesca
del Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 1996. Con riferimento alle corti di Milano e Mantova, cfr. Ferrari,
M. “Per non manchare in tuto del debito mio”. L’educazione dei bambini Sforza nel Quattrocento, Milano,
FrancoAngeli, 2000; Ead. “Stralci di corrispondenza familiare nella seconda metà del Quattrocento: il
caso dei Gonzaga e degli Sforza”, in Ead. (a cura di) I bambini di una volta. Problemi di metodo. Studi per
Egle Becchi, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp. 15-40; anche per ulteriori approfondimenti bibliografici
si vedano i saggi di Isabella Lazzarini (“Un dialogo fra principi. Rapporti parentali, modelli educativi e
missive familiari nei carteggi quattrocenteschi”) e di Monica Ferrari (“Costumi educativi nella società
di corte: un convegno e una ricerca” in progress), in Ferrari, M. (a cura di) Costumi educativi nelle corti
europee (XIV-XVIII secolo) cit., rispettivamente pp. 53-72 e pp. 17-29. Più in generale, sul tema della
formazione del principe: Cogitore, I.; Goyet, F. (sous la direction de), Devenir roi. Essais sur la littérature
addressées au Prince, Grenoble, Ellug, 2001; Halévi, R. (sous la direction de), Le Savoir du Prince du
Moyen Âge aux Lumières, Paris, Fayard, 2002; Luciani, G. ; Volpilhac-Auger, C. (éd.), L’institution du
prince au XVIIIe siècle, Ferney -Voltaire, Centre international d’étude du XVIIIe siècle, 2003; Meyer,
J. L’éducation des princes en Europe du XVe au XIXe siècle, Paris, Perrin, 2004; Carile, P. (a cura di) La
formazione del principe in Europa dal Quattrocento al Seicento. Un tema al crocevia di diverse storie, Roma,
Aracne, 2004; Becchi, E.; Ferrari, M. (a cura di) Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori,
Milano, FrancoAngeli, 2009; Mormiche, P. Devenir Prince. L’école du pouvoir en France. XVIIe-XVIIIe
siècles, Paris, CNRS éditions, 2009. Per una riflessione sul “genere letterario” denominato “specula
principis” segnalo alcuni volumi di grande interesse, nell’ambito di una vasta produzione storiografica
qui solo accennata e rimando a essi per ulteriori approfondimenti bibliografici: Einar Mar Jónsson, Le
miroir. Naissance d’un genre littéraire, Paris, Les Belles Lettres,1995; Senellart, M. Les arts de gouverner.
Du regimen médiéval au concept de gouvernement, Paris, Seuil, 1995; Lachaud, F.; Scordia, L. (sous la
direction de), Le prince au miroir de la littérature politique de l’Antiquité aux Lumières, Publications des
Universités de Rouen et du Havre, 2007.
21
7 Cfr. Ferrari, M. “Per non manchare in tuto del debito mio” cit. Sul caso francese cfr. Ferrari, M. La
paideia del sovrano cit.; Volpilhac-Auger, C. (sous la direction de), La collection Ad usum Delphini.
L’Antiquité au miroir du Grand Siècle, vol. 1, Grenoble, Ellug, 2000; Furno, M. (sous la direction de),
La collection Ad usum Delphini. L’Antiquité au miroir du Grand Siècle, vol. 2, Grenoble, Ellug, 2005.
8 Ariès, P. Padri e figli nell’Europa medievale e moderna cit.
9 Oltre a Bloch e a Ernst H.Kantorowicz – The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political The-
ology, Princeton, Princeton University Press, 1957, tr.it. Il doppio corpo del re, Torino Einaudi, 1989
– rimando a: Marin, L. Le portrait du roi, Paris, Minuit, 1981; Apostolidès, J.M. Le roi machine,
Paris, Minuit, 1981. Per il caso di Elisabetta I, cfr. Strong, R. The cult of Elizabeth, Berkeley and Los
Angeles, University of California Press,1977; Pomeroy, E.W. Reading the portraits of Queen Elizabeth
I, Hamden, Connecticut, Archon books, 1989.
10 Nell’ ambito del dibattito sulla cultura dell’infanzia e per l’infanzia, si veda, anche per una biblio-
grafia, Becchi, E.; Ferrari, M. “Cultura per l’infanzia e cultura dell’infanzia: analisi di due casi”, in
Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, 14, 2007, pp. 177-203.
11 Cfr. Benedict, R. Patterns of Culture, Boston-New York, Hoghton Mifflin Company, 1934, tr.it.
Modelli di cultura, Milano, Feltrinelli, 1979 (4).
12 Al riguardo: Chartier, R. (sous la direction de), Pratiques de la lecture, Marseille, Rivages, 1985;
Roggero, M. L’alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette e Ottocento, Bologna, Il
Mulino, 1999.
22
13 Cfr. Pazzaglia, L.; De Giorgi, F. “Le dimensioni culturali e politiche della ricerca storica nel campo
dell’educazione”, in Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, 12, 2005, pp. 133-
154.
14 Cfr. cfr. Corsaro, W.A. The Sociology of Childhood, Thousands Oaks, Ca, Pine Forge Press, 1997,
tr.it. Le culture dei bambini, Bologna, il Mulino, 2003; Hengst, H.; Zeiher, H. (a cura di) Per una
sociologia dell’infanzia, Milano, FrancoAngeli, 2004.
15 Sul tema cfr. Cagnolati, A. (a cura di) Tra negazione e soggettività. Per una rilettura del corpo femmi-
nile nella storia dell’educazione, Milano, Guerini, 2007 ed inoltre Ead. Lo specchio delle virtù, modelli
femminili nell’Inghilterra puritana (1560-1640), Roma, Aracne, 2004.
16 Due categorie sociali che vanno considerate come distinte in quella che si può definire una “società
degli ordini” cfr. Ferrari, M. “La paideia del corpo femminile tra Quattrocento e Seicento: spunti
di riflessione a partire da casi eccellenti”, in Cagnolati, A. (a cura di) Tra negazione e soggettività cit.,
pp. 119-136.
17 Al riguardo cfr. Bierlaire, F. “Il libro nella formazione del principe: il XVI secolo”, in Becchi, E.;
Ferrari, M (a cura di) Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori cit., pp. 222-240.
18 Esemplare il caso di Madame de Genlis cfr. Dominique Julia, “L’imperium di una governante:
Madame de Genlis e l’educazione dei principi di Orléans”, in Ferrari, M. (a cura di) I bambini di
una volta cit., pp. 143-173. Ricordo anche: Cagnolati, A. L’educazione femminile nell’Inghilterra del
XVII secolo. Il Saggio per far rivivere l’antica educazione delle gentildonne di Bathsua Makin, Milano,
Unicopli, 2002.
23
19 Cfr. Emmens, J.A. «Las Meninas de Velázquez. Miroir des princes pour Philippe IV», in Neder-
lands Kunsthistorisch Jaarboek, 12, 1961, pp. 51-79. Michel Foucault apre nel 1966 Le parole e le cose
con una discussione al riguardo (cfr. tr.it. Milano, Rizzoli, 1978, ove viene riportato in copertina).
20 Ulivieri, S. (a cura di) Le bambine nella storia dell’educazione, Roma-Bari, Laterza, 1999 (ad
esempio: Ferrari, M. “Itinerari pedagogici dell’infanzia al femminile nel Seicento alla corte dei Bor-
boni”, in ivi, pp. 149-188). Anche Becchi, E. ne I bambini nella storia (Roma-Bari, Laterza, 1994)
dedica una sezione del suo testo alle bambine. Angela Giallongo cura nel 2005 gli atti di un con-
vegno, svoltosi a Urbino nel 2004, dedicato al divenire delle donne di palazzo nelle corti europee: cfr.
Giallongo, A. (a cura di) Donne di palazzo nelle corti europee. Tracce e forme di potere dall’età moderna,
Milano, Unicopli, 2005. Una sezione del volume si intitola, appunto, “Specchi”. Al riguardo, di
recente, cfr. Giallongo, A. “Sul potere femminile nell’Europa moderna. Il convegno internazionale
di Urbino”, in Ferrari, M. (a cura di) Costumi educativi nelle corti europee (XIV-XVIII secolo) cit., pp.
11-16. Circa le estensi: Mazzi, M.S. Come rose d’inverno. Le signore nella corte estense del ‘400, Ferrara,
Edizioni Comunicarte, 2004; Villa, A. Istruire e rappresentare Isabella d’Este. Il libro de natura de
amore di Mario Equicola, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 2006.
21 Cfr. Arcangeli, L.; Peyronel, S. (a cura di) Donne di potere nel Rinascimento, Roma, Viella, 2008.
Ricordo anche: Motta, G. (a cura di) Regine e sovrane. Il potere la politica, la vita privata, Milano,
FrancoAngeli, 2002; Craveri, B. Amanti e regine. Il potere delle donne, Milano, Adelphi, 2005; Walsh,
K. “La principessa in epoca premoderna: il suo ruolo e il suo campo d’azione”, in Dipper, C.; Rosa,
M. (a cura di) La società dei principi nell’Europa moderna (secoli XVI-XVII), Bologna, il Mulino,
2005, pp. 263-294; Contini, A. “Spazi femminili e costruzione di un’identità dinastica. Il caso di
Leonora di Toledo duchessa di Firenze”, in Dipper, C.; Rosa, M. (a cura di) La società dei principi
nell’Europa moderna (secoli XVI-XVII) cit., pp. 295-320; Gaglione, M. Donne e potere a Napoli. Le
24
sovrane angioine, consorti, vicarie e regnanti (1266-1442), Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino
editore, 2009; Visceglia, M.A. Riti di corte e simboli della regalità, Roma, Salerno editrice, 2009;
Cantù, F. (a cura di) I linguaggi del potere nell’età barocca, vol. 2. “Donne e sfera pubblica”, Roma,
Viella, 2009. Rimando in proposito ad alcuni panel del quinto convegno della SIS.
22 Fonti iconografiche e epistolari sono al centro di recenti contributi: Giordano, L. (a cura di) “Bea-
trice d’Este (1475-1497)”, in Quaderni di Artes/2, 2008; Cfr. inoltre il n. X, 2009 a cura di Lazzarini,
I. reperibile in http://www.retimedievali.it.
23 Sull’importanza della corrispondenza cfr. Petrucci, A. Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria,
Roma-Bari, Laterza, 2008; Braida, L. Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra in-
quietudini religiose e “buon volgare”, Roma-Bari, Laterza, 2009. Sulla corrispondenza al femminile
cfr. Doglio, M.L. Lettera e donna. Scrittura epistolare al femminile tra Quattro e Cinquecento, Roma,
Bulzoni, 1993; Gabriella Zarri, Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia.
secoli XV-XVII, Roma, Viella, 1999; Betri, M.L.; Maldini Chiarito, D. (a cura di) “Dolce dono gradi-
tissimo”. La lettera privata dal Settecento al Novecento, Milano, FrancoAngeli, 2003; Nico Ottaviani,
M.G.“Me son missa a scriver questa letera…” Lettere e altre scritture femminili tra Umbria, Toscana e
Marche nei secoli 15.-16., Napoli, Liguori, 2006.
24 Guyonne Leduc, R. (a cura di) L’educazione delle donne in Europa e in America del Nord dal Ri-
nascimento al 1848: realtà e rappresentazioni, Torino, L’Harmattan Italia, 2001 (cfr., sull’educazione
delle gentildonne, il capitolo 3); Paoli, M.P. “Di Madre in figlio. Per una storia dell’educazione alla
corte dei Medici”, in Annali di storia di Firenze, III, 2008, pp. 65-145.
25 In proposito: Niccoli, O. Rinascimento al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1991. Sulla tradizione
dei “plutarchi” al femminile nell’Ottocento italiano cfr. Porciani, I. “Il Plutarco femminile”, in Sol-
dani, S. (a cura di) L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento,
Milano, FrancoAngeli, 1989, pp. 298-299. E inoltre: Morandi, M. Garibaldi, Virgilio e il violino. La
costruzione dell’identità locale a Cremona e a Mantova dall’Unità al primo Novecento, Milano, Franco-
Angeli, 2009, specie pp. 111-112.
26 Si veda: Shemek, D. Ladies Errant.Wayward Women and Social Order in Early Modern Italy,
Durham and London, Duke University Press, 1998, tr.it. Dame erranti. Donne e trasgressione sociale
nell’Italia del Rinascimento, Mantova, Tre Lune Edizioni, 2003.
27 Si rimanda all’intervista a Christiane Klapisch-Zuber, in Guerra, E. Donne medievali, Ferrara,
Nuovecarte, 2006.
25
pesse, non solo nel XV secolo e non solo in Italia28, si va differenziando da una
produzione storiografica e da una letteratura che ha assegnato per molto tempo
centralità soprattutto ai maschi della casata e/o che si è occupata delle loro figlie,
mogli, madri e sorelle nell’ambito di romanzi o di biografie che sapessero dare
rilievo alla vita delle corti29.
Sappiamo che il Quattrocento italiano è un momento di straordinario in-
teresse per chi voglia iniziare a riflettere sul tema della formazione delle signore
e delle principesse, non tutte destinate a divenire spose di uomini di potere, ma
comunque impegnate, dalla nascita, a giocare un ruolo importante nella società.
Molte di loro avranno ruoli essenziali in un altro ambiente, diverso da quello in
cui erano nate e in cui erano state educate: inediti e imprevedibili destini le atten-
dono nella corte del marito30. Per alcune viene posto in essere un itinerario for-
mativo complesso, in un momento in cui si va ridisegnando il percorso formativo
delle élite e, insieme, lo spazio d’azione della donna nelle corti italiane nell’ambito,
più generale, di un riposizionamento di varie figure sociali in rapporto a un vasto
dibattito circa temi etici e civili.
28 Penso al numero 48, 2005 della rivista Médiévales. Cfr. inoltre Cagnolati, A. L’educazione femmi-
nile nell’Inghilterra del XVII secolo cit.; Martin-Ulrich, C. La persona de la princesse au XVIe siècle:
personnage littéraire et personnage politique, Paris, Champion, 2004.
29 Ricordo qui il caso di Isabella d’Este e rimando alla bibliografia in: Luzio, A.; Renier, R. La coltura
e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, a cura di Albonico, S., Milano, Sylvestre Bonnard,
2006 (Giornale storico della letteratura italiana, 1900).
30 Cfr. Antenhofer, C. Briefe zwischen Süd und Nord. Die Hochzeit und Ehe von Paula de Gonzaga und
Leonhard von Görz im Spiegel der fürstlichen Kommunikation (1473-1500), Innsbruck, Universitäts
Verlag Wagner, 2007.
31 Sul tema del reticolo di relazioni nelle società di corte cfr. Lazzarini, I. Amicizia e potere. Reti
politiche e sociali nell’Italia medievale, Milano, Bruno Mondadori, 2010; per quanto concerne l’età
moderna, cfr. Bély, L. La société des princes, Paris, Fayard, 1999; Dipper, C.; Rosa, M. (a cura di) La
società dei principi nell’Europa moderna (secoli XVI-XVII) cit.
26
Pia Paoli, era dedicato al tema dell’etica urbana e della catechesi cristiana nella
formazione delle donne di rango tra XV e XVII secolo con particolare attenzione
al caso fiorentino.
Con la terza relazione, dal titolo Beatrice ed Eleonora d’Aragona tra educazione ed
esercizio del potere, di Enrica Guerra, ci si è spostati invece alla corte degli Aragona
nel XV secolo32. Si è discusso dei memoriali del Carafa per Beatrice e per Eleonora
d’Aragona, sottolineando il tema della costruzione delle competenze politiche e cul-
turali della principessa tra due corti (prima e dopo il matrimonio). Come aspetto
comparativo rispetto alla realtà italiana, Antonella Cagnolati ha proposto una rela-
zione33 dedicata al tema dell’educazione di Elisabetta e Mary Tudor.
La discussione ha dilatato il campo del confronto critico, spostandosi verso
altre corti, tra Medioevo e prima età moderna. Gabriella Zuccolin, unitamente a
tutti coloro che hanno partecipato, ha sottolineato la complessità del tema (negli
intrecci tra cultura dotta e mondo dell’oralità, tra maschile e femminile)34.
32 Cfr., tra l’altro, Guerra, E. “Eleonora d’Aragona e i doveri del principe di Diomede Carafa. L’e-
sercizio del potere tra realtà e precettistica”, in Giallongo, A. (a cura di) Donne di palazzo nelle corti
europee cit., pp. 113-119. La relazione di Enrica Guerra non è stata pubblicata negli Atti.
33 Dal titolo “L’educazione della principessa tra tardo Medioevo e prima età moderna”. La relazione
di Antonella Cagnolati non è stata pubblicata negli Atti.
34 Si veda al riguardo il numero XVI, 2008 di Micrologus sui saperi nelle corti ed inoltre: Zuccolin,
G. “Gravidanza e parto nel Quattrocento. Le morti parallele di Beatrice d’Este e Anna Sforza” in
Giordano, L. (a cura di) Beatrice d’Este.1475-1497 cit., pp. 111-145. La relazione di Zuccolin non
è stata pubblicata negli Atti.
35 Cfr. Gori, G. “La danza nelle corti italiane”, in Giallongo, A. (a cura di) Donne di palazzo nelle
corti europee cit., pp. 171-182 e in particolare p. 175
36 Sul caso mantovano, cfr. Giancarlo Malacarne, Le feste del principe, Modena, Il Bulino, 2002.
37 Bartolomeo Marasca, precettore dei figli di Barbara e Ludovico Gonzaga, scrive a Barbara, il 9
agosto 1458, dicendo che Dorotea e Cecilia volevano scriverle per chiederle il maestro di ballo e
aggiunge: “Pertanto prego la prefata Illustre Signoria Vostra laude lo suo scrivere azio ge cresca lo
animo, quare virtus laudata crescit” (Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 2392,
c.242r. D’ora in avanti: ASMN, AG).
27
38 In proposito: Patrizi, G.; Quondam, A. (a cura di) Educare il corpo, educare la parola, Roma,
Bulzoni, 1998.
39 Cfr. Ferrari, M. “Principesse in divenire nel Quattrocento italiano”, in Giordano, L. (a cura di)
Beatrice d’Este cit.; Ferrari, M. “Per non manchare in tuto del debito mio” cit.
40 Cfr. Arisi Rota, A. (a cura di) Formare alle professioni. Diplomatici e politici, Milano, FrancoAngeli,
2009.
41 Nel II libro si disegna l’immagine di una donna “coltivata”, che «abbia notizie di lettere, di musica,
di pittura e sappia danzare e festeggiare». Cfr. Castiglione, B. Il libro del Cortegiano, Milano, Rizzoli,
1987, p. 213; Chemello, A. “Donna di palazzo, moglie, cortigiana: ruoli e funzioni sociali della
donna in alcuni trattati del Cinquecento”, in Prosperi, A. (a cura di) La corte e il “Cortegiano”.vol. II.
Un modello europeo, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 113-132.
42 Ricordo Pier Paolo Vergerio, interessato all’educazione di un maschio: la musica è per lui, sulla
falsariga dei classici, un’arte utile «non già per stimolare gli appetiti del senso, ma per temperare con
regola e misura gli appetiti dell’animo». Cfr. Garin, E. L’educazione umanistica in Italia cit., p. 82.
43 Cfr. Ferrari, M. La paideia del corpo femminile cit.
44 Franchino Caimi, governatore dei figli dello Sforza, riferisce a Bianca Maria che il 3 ottobre 1462,
a Pavia, i principi parteciparono alle danze insieme ad alcune donne «che farebeno digna ciaschuna
et mille festa»(Archivio di Stato di Milano, Potenze Sovrane, Francesco I Sforza, b.1457, c.308r).
28
45 Il 9 febbraio 1483 Giovanni Gonzaga scrive al padre, in occasione del carnevale: «eri Madona
Elisabet fece balare in maschara e anchora mi cum molti altri puti se fesemo maschara cum certi
capeli ala turchesca [… ] suso uno asine cum duo maschare una de nance et una de dreto che non se
conosea dove avese la facia». Cfr.ASMN, AG, b. 2105bis, c.747r.
46 Cfr. Paoli, M.P. (a cura di) Saperi a confronto nell’Europa dei secoli XIII-XIX, Pisa, Edizioni della
Normale, 2009.
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Pur nella grande varietà dei contesti culturali, nell’Italia del Quattrocento, come
del resto in tutta l’Europa medievale e rinascimentale, il rapporto delle donne
con la musica si configura, in maniera costante, secondo un’ambigua valenza: la
musica può essere per loro un’occupazione onesta, ma anche una facile occasione di
peccato che espone alla pubblica condanna. È onesta se esperita nel privato, nella vita
familiare, nell’intrattenimento con parenti e ospiti, e in generale, come innocente
diporto, o, per le monache, nella preghiera comunitaria all’interno del convento48.
È invece disonesta e moralmente pericolosa se praticata a scopo di lucro, come atti-
vità professionale che attira l’interesse di un pubblico di estranei sulla donna, il suo
corpo, la sua voce, le sue capacità artistiche.
Convergono, in questa concezione profondamente radicata per secoli, due
presupposti costanti nella cultura medievale cristiana: da un lato, l’ambiguità della
esperienza musicale profana che si indirizza ai sensi e non alla mente, ed è suscita-
trice di emozioni, aperta alle tentazioni assai più che non alla elevazione morale (di
contro, sia alla musica liturgica, governata da testi verbali sacri di cui è espressio-
ne e sottoposta al controllo dell’autorità ecclesiastica, sia alla musica speculativa,
47 Sunto della più ampia relazione, tenuta il 30 gennaio 2010, al V Congresso della Società Italiana
delle Storiche, nel panel “Educazione dell’élite femminile, cultura delle donne e per le donne tra
tardo Medio Evo e prima età moderna” coordinata da Monica Ferrari (Università degli Studi di
Pavia), il cui testo completo è inserito nel volume Costumi educativi nelle corti europee (XIV-XVIII
secolo), a cura di Ferrari, M., Pavia University Press, Pavia 2010.
48 Il canto femminile nella preghiera comunitaria, anche se talvolta di fatto tollerato, era soggetto al
divieto paolino “mulier taceat in ecclesia” (I Corinthiis, XIV, 34).
importante disciplina quadriviale che parla alla mente ma che è accessibile solo
a pochi); dall’altro, la fragilità della condizione femminile, che rende rischiosa e
compromettente ogni esperienza vissuta in autonomia, e che di fatto ingigantisce
il peso della riprovazione rispetto a quanto avviene, a parità di condizioni e di
esperienze, per l’uomo.
Nell’Europa tardomedievale, per le donne di condizione sociale bassa o mo-
desta, l’esercizio della musica voleva dire quasi esclusivamente il canto nel corso
del lavoro e delle occupazioni quotidiane, in solitudine o con altre donne: la loro
istruzione musicale, pertanto, si limitava al semplice apprendimento di un mo-
desto patrimonio condiviso, per tradizione orale e senza ricorso alla notazione
(estranea peraltro al loro mondo come lo era la conoscenza della lettura e della
scrittura).
A un livello un po’ più alto, la donna di ceto benestante, fornita di servitù e
svincolata dalle occupazioni materiali della vita domestica, poteva imparare a suo-
nare uno strumento a corde o a tastiera e a leggere la musica delle intavolature49.
Ma alle fanciulle nobili o della più alta borghesia, si forniva invece, compati-
bilmente con le loro capacità, una istruzione musicale qualificata, che prevedeva
l’esercizio del canto, di un qualche strumento e della danza, da praticare in ambito
privato o talvolta in occasioni pubbliche, ma sempre secondo procedure control-
late e di preferenza all’interno di un gruppo50.
L’istruzione musicale era impartita generalmente nella casa paterna, a opera di
fidati maestri (di canto, di strumento, di danza) oppure in convento.
Il convento funzionava come un microcosmo al cui interno vigeva lo stesso
ordinamento della società esterna. Pertanto, l’educazione della giovane in conven-
to era determinata di norma dalla sua provenienza sociale; tuttavia, la fanciulla
destinata a fare la monaca riceveva, di solito, una istruzione superiore a quella della
ragazza destinata al matrimonio. In diversi casi, poi, la futura monaca, sia che fosse
di nobile lignaggio sia di modesta condizione (purché molto dotata, e solo col
beneplacito dei suoi superiori), poteva accedere a livelli di istruzione impensabili
fuori dal convento: livelli “maschili”, dove era consentito lo studio del latino, della
filosofia, della storia antica, delle discipline del Trivio e del Quadrivio, e dunque
anche della musica speculativa. Si trattava di una opportunità preziosa ed ecce-
32
zionale: perché la musica come disciplina del Quadrivio che indagava gli aspetti
teorici, acustici, matematici, relativi al suono, alla natura degli intervalli, alla mi-
sura del tempo, ed era legata a una abbondante trattatistica affidata alla tradizione
scritta, era di norma studiata nelle università e pertanto inaccessibile alle donne;
analogamente anche l’ambito speculativo della teoria mensurale e quello della sua
applicazione pratica nella composizione polifonica, erano oggetto di studio nelle
cantorie delle grandi chiese o delle cappelle principesche, che pure non tolleravano
presenze femminili.
Sia l’istruzione superiore sia la pratica musicale del canto e/o di uno o più
strumenti erano tuttavia possibili, in convento o nell’ambito della famiglia, solo
se in piena conformità con le regole di riservatezza e controllo che governavano il
comportamento femminile, sempre accompagnate da esplicite e reiterate profes-
sioni di modestia51.
Ai più alti livelli della piramide sociale, quelli dell’alta nobiltà e delle famiglie
regnanti, l’istruzione musicale della donna rispondeva a esigenze non soltanto pri-
vate o familiari, ma anche ufficiali e politiche: perché, se il principe non appartiene
a se stesso52, la principessa appartiene al principe (padre, fratello, marito). Su di
lei si esercita un controllo rigoroso. La sua educazione è funzionale all’immagine
della famiglia, agli obblighi di rappresentanza, all’ottima organizzazione dell’ospi-
talità per ambasciatori e personaggi d’alto rango, alla dimostrazione dell’elevatezza
e dell’aggiornamento culturale della corte. A questo scopo, è bene che la dama di
palazzo sappia cantare, e suonare almeno uno strumento da camera (a tastiera e/o
a corde); sappia apprezzare e valutare la musica con gusto esercitato e sicuro e, di
conseguenza, sappia ricercare e attirare al servizio del principe o suo personale i
musicisti più qualificati e ammirati, di fatto comportandosi come uno sponsor che
sottrae alla concorrenza di altre corti i migliori compositori ed esecutori disponibili.
La principessa che sa proporre intrattenimenti raffinati con la musica − canta-
ta e suonata dagli esecutori al suo privato servizio ma anche, come preziosa mani-
festazione di speciale cortesia e ospitalità, da lei stessa e dalle sue dame in concerti
51 Fra i tanti esempi che si potrebbero citare nell’arco dei secoli, uno dei più conosciuti è quello di Il-
degarda von Bingen (1098-1178), monaca dottissima (scienziata, teologa, compositrice), la cui fama,
ben duratura dopo la sua morte, era straordinaria già lei vivente. La possibilità di scrivere, predicare,
profetizzare e comporre senza incorrere nei gravi rischi di condanna incombenti per ogni donna dal
contegno protagonistico e attivo, le derivava dall’ineccepibile modestia del suo comportamento,
ribadita con continue professioni di umiltà, quale docile e ignorante strumento della volontà divina,
e con la conclamata e indiscussa sottomissione ai superiori che la controllavano. Ildegarda poteva
essere, ma non dirsi, philosophus.
52 Cfr. Ferrari, M. “Reggere gli altri: la formazione del principe tra arte, mestiere e professione”,
in Becchi, E.; Ferrari, M. (a cura di) Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori, Milano,
Franco Angeli, 2009, pp 197-221; p. 216.
33
53 Beatrice veniva da un ambiente che vantava splendide tradizioni quanto alla perizia e alla ritualiz-
zata raffinatezza delle esibizioni private di principesse esperte nella musica e nella danza. Cfr. Nocilli,
C. La danza en la corte aragonesa de Nàpoles (1442-1502), Tesi Doctoral con menciòn de “Doctorado
Europeo”, Universidad de Valladolid, Facultad de Filosofìa y Letras, Secciòn Departemental de Hi-
storia y Ciencias de la Musica, a.a. 2006-2007.
34
vino, regina di Ungheria e raffinata ambasciatrice della cultura e della musica del
Rinascimento italianano, e Bona Sforza (1494-1557), nipote del Moro, cugina di
Vittoria Colonna, moglie di Sigismondo I e regina di Polonia, che portò a Cra-
covia l’interesse per la cultura e musica italiana, destinato a durare stabilmente.
La musica come spazio di libertà e di cultura è un’esperienza tanto più acces-
sibile a principesse, regine, dame di palazzo, quanto più si giustifica come progetto
virtuoso, con ricadute benefiche di immagine sulla famiglia e in sintonia con i
disegni del principe. L’esempio più noto del genere, coronato da duraturo successo
perché condotto nel pieno rispetto delle regole, è quello di una delle più famo-
se principesse italiane musicofile del Rinascimento: Isabella d’Este (1474-1539),
figlia di Ercole d’Este e di Eleonora d’Aragona, moglie di Francesco II Gonzaga
marchese di Mantova. Dotata di un talento musicale eccezionale e di una acuta
intelligenza, fornita fin dall’infanzia di una istruzione musicale ampia e profonda,
speculativa e pratica, Isabella giocò a Mantova (dove arrivò sposa nel 1590) un
ruolo straordinario nel sostenere e sollecitare compositori ed esecutori dediti a
quel settore della polifonia vocale profana che chiamiamo repertorio frottolistico:
repertorio che poteva eseguire personalmente, cantando e accompagnandosi da
sola, e che spaziava dall’ambito che potremmo chiamare “leggero” a quello di
tipo espressivo-sperimentale, con grande varietà di forme, tecniche compositive,
destinazioni esecutive (vocali e/o strumentali). La corte di Mantova era allora
emergente sotto il profilo politico-diplomatico e sotto quello culturale e artistico
(Isabella fu ritratta da Leonardo e da Tiziano), e ospitava due diversi organici di
musicisti: quelli del marchese, addetti alla musica ufficiale e pubblica, a quella
sacra e a quella da camera (e tra loro occupava un posto centrale Marchetto Cara),
e quelli della marchesa, cantori, strumentisti, compositori di musica da camera
(tra i quali il più apprezzato e protetto era Bartolomeo Tromboncino) in grado di
accompagnare Isabella nelle esecuzioni private e di dare veste musicale alle poesie
da lei commissionate a Pietro Bembo, Niccolò da Correggio, Giovan Battista Pio,
Antonio Tebaldeo, Gian Giorgio Trissino, Pietro Aretino, Diomede Guidotti, Bal-
dassarre Castiglione e altri ancora.
Fin dai primi tempi del matrimonio, e poi via via nel corso degli anni, Isabella
seppe far passare ciò che per lei era un interesse appassionato – la musica – come
un nobile esercizio di capacità intellettuali e artistiche moralmente proficuo e lo-
devole, per sua natura consono con gli obblighi morali e sociali di una dama: con-
cetto ben documentato nella sua corrispondenza, che ispirò il suo comportamento
per tutta la vita54.
54 Cfr. Prizer, W.F. «Una “virtù molto conveniente a madonne”: Isabella d’Este as a musician», in The
Journal of Musicology, XVII, 1999, 1, pp. 10-47.
35
55 Il modello della “donna di palazzo” che si evince dal Libro del cortegiano del conte Baldesar Casti-
glione (Venetia, Aldo Romano & Andrea, 1528), si realizza appieno in Isabella (cfr. in particolare
nel libro III i capitoli IV e V), sicuramente ai più alti livelli nella rassegna delle dame d’Italia illustri
per cultura e raffinatezza: «Se nella Lombardia verrete, v’occorrerà la signora Isabella marchesa di
Mantua; alle eccellentissime virtù della quale ingiuria si faria parlando così sobriamente, come saria
forza in questo loco a chi pur volesse parlarne» (Meier, B. (a cura di) Il Libro del Cortegiano, Torino,
UTET, 1981, p. 395).
56 Cfr. ivi, p. 39.
57 L’elegia di Castiglione fu pubblicata a cura di Serassi, P. in Poesie volgari e latine del Conte Bal-
dassar Castiglione, Roma, Pagliarini, 1760, pp. 134-137. Cfr. in proposito l’importante contributo di
Parenti, G. “Per Castiglione latino”, in Albonico, S.; Comboni, A.; Panizza, G. et al. (a cura di) Per
Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Fondazione Arnoldo e Aldo Monda-
dori, 1996, pp. 185-218, e in partic. le pp. 198-202.
58 cfr. Prizer, W.F. “Una ‘virtù molto conveniente a Madonne’” cit., p. 39.
59 Cfr. Parenti, G. “Per Castiglione latino” cit., pp. 198-199.
36
hanno stesso metro, stesso argomento virgiliano fitto di citazioni, stesso interesse
per i fascinosi effetti di una interpretazioni vocale-strumentale d’eccezione60 ed è
dunque molto probabile che alludano allo stesso personaggio. Il fatto, poi, che la
poesia fosse conservata fra le cose segrete e di particolare valore affettivo per Isa-
bella, rende ancor più probabile che proprio lei come musicista, e non la cognata
Elisabetta (per quanto a lei cara, e musicalmente dotata) fosse la dama descritta.
L’esecuzione descritta è quella di una intonazione virgiliana: una delle tipolo-
gie più nobili per argomento e più altamente espressive (vere palestre di sperimen-
tazione nei decenni che precedono l’esplosione del madrigale cinquecentesco) nel
repertorio vocale-strumentale profano delle corti italiane. In una celebre stampa
musicale miscellanea napoletana del 151961 figura una composizione anonima di
questo tipo, Dulces exuviae, che intona i versi 651-658 del quarto libro dell’Enei-
de a quattro voci, nella forma vocale-strumentale di uno strambotto: e potrebbe
proprio corrispondere alla musica allusa nella poesia di Castiglione. La proposta
di attribuzione dello strambotto anonimo a Marchetto Cara è certamente sensa-
ta62, ma non scevra da dubbi; resta spazio anche per un’altra ipotesi, ovvero che
la composizione sia di Isabella stessa, e che la poesia di Castiglione, dipingendo
i meravigliosi effetti del talento esecutivo della marchesa, che rendeva la semplice
ossatura musicale dello strambotto così straordinariamente capace di comunicare
‘affetti’, ignorasse o nascondesse l’inconfessabile talento compositivo di lei: un talen-
to che una nobile dama avrebbe potuto esercitare solo nel segreto, sotto la ferrea
protezione dell’anonimato.
37
L’attenzione alle donne di rango e alle principesse, come ha illustrato Monica Fer-
rari nella sua introduzione, è, da qualche tempo, oggetto di studi innovativi; non
è, tuttavia, così scontato trovare gli esordi della loro affermazione non tanto come
detentrici di poteri, ma come modelli per la società63. Il quadro politico frastaglia-
to dei secoli XIII-XVI faceva sì che, soprattutto all’interno delle città-Stato, figure
femminili di spicco potessero emergere con difficoltà e, se mai, solo in rapporto ai
cangianti e labili equilibri fazionari creati dagli uomini appartenenti alle famiglie e
consorterie in lotta. A questo riguardo la storia di Firenze, come vedremo meglio,
è emblematica64.
63 Sulle donne al potere esiste una vasta letteratura. Per i titoli più recenti: Poutrin, I.; Schaub,
M.K. (dir.), Femmes et pouvoir politique.Les princesses d’Europe XVe-XVIIe siècles, Paris, Bréal, 2007;
Arcangeli, L.; Peyronel Rambaldi, S. (a cura di) Donne di potere nel Rinascimento, Roma, Viella,
2008; Varallo, F. (a cura di) In assenza del re. Le reggenti dal 14 al 17 secolo (Piemonte ed Europa),
Firenze, Olschki, 2008; Cantù, F. (a cura di) I linguaggi del potere nell’ età barocca, 2, Donne e sfera
pubblica, Roma, Viella, 2009. E inoltre, con particolare riferimento alla Toscana moderna, cfr. An-
giolini, F. “Donne e potere nella Toscana Medicea. Alcune considerazioni”, in Aglietti, M. (a cura di)
Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Modelli e strategie femminili nella vita
pubblica della Toscana granducale, Pisa, Edizioni ETS, 2009, pp. 15-32; Minuto, E. “Al di là delle
stanze. Note storiografiche su donne di palazzo e di potere in età moderna”, ivi, pp. 121-134; Paoli,
M.P. La dama, il cavaliere, lo sposo celeste. Modelli e pratiche di vita femminile nella Toscana moderna,
ivi, pp. 165-213.
64 Cfr. Tomas, N.R. The Medici Women. Gender and power in Renaissance Florence, Aldeshot, Ashgate,
2003; Calvi, G.; Spinelli, R. (a cura di) Le donne Medici nel sistema europeo delle Corti, Firenze, Edi-
zioni Polistampa, 2008, tomi I e II; Fubini Leuzzi, M. Maria de’ Medici. La costruzione di una regina,
Il classico motivo di lungo periodo che lega l’uscita dall’ombra delle donne
grazie a una mediazione maschile, su cui da tempo hanno insistito gli women study
e la gender history65, è confermato anche da recenti contributi66. Modelli muliebri
letterari, divenuti quasi stereotipi di qualità fisiche e morali, erano, però, da tempo
in circolazione, tanto che la loro ricezione coinvolse vari “gradi” di donne, ruotan-
ti non solo attorno alle corti, ma nei contesti urbani dei nascenti Stati regionali67.
I canoni etici ed estetici che accomunano donne diverse avevano radici lontane
nelle classiche descriptiones mulierum.
L’origine monastica di certi atteggiamenti e comportamenti di modestia e
umiltà, che alcuni storici hanno messo in evidenza nel suffragare la categoria sto-
riografica di “disciplinamento” della donna laica o religiosa68, è stata accostata
anche ad altri modelli; è quanto Jacques Dalarun fa a proposito del rapporto di
Francesco d’Assisi con le donne e, in particolare, con Chiara, tutto basato su gio-
chi di sguardi e di silenzi, che vengono attribuiti a un retaggio cortese69. La ricerca
di primogeniture in questo campo è, a mio avviso, fuorviante. Altra cosa poi è
riferirsi ai modelli delle corti feudali più antiche, altra cosa è assumere come pietra
di paragone la corte di Urbino, culla della “civil conversazione”, immortalata da
Castiglione come stimolo all’eloquio piacevole e dotto anche per le donne di pa-
lazzo. Tutto era già cambiato con la nascita degli ordini mendicanti e soprattutto
della predicazione ad status rivolta dai domenicani alle donne (moglie, madre,
vedova) appartenenti a diversi strati sociali, sebbene soltanto alle figure di rango
più elevato fosse riservato il compito di veicolare messaggi edificanti. A questo fine
nella prima metà del Quattrocento si orientò la direzione spirituale dei domeni-
cani Giovanni Dominici, cardinale e beato, e di Antonino Pierozzi, arcivescovo di
in Arful Allies. Medici Women as Cultural Mediators 1533-1743, Atti del convegno 15-17 ottobre
2008, Firenze, Villa I Tatti e Kunsthistorische Institut, in corso di stampa.
65 Per una sintesi sulla storiografia italiana: Mantini, S. “Women’s History in Italy: Cultural Itinera-
ries and New Proposals in Current Historiographical Trends”, in Journal of Women’s History, 12, 2,
2000, pp. 170-198.
66 Cfr. Mi riferisco, per fare un esempio, al saggio di Franca Leverotti dedicato a Lucia Marliani ora
in Donne e potere nel Rinascimento cit., pp. 281-311.
67 Cfr. In proposito Tornabuoni, L. Lettere, a cura di Salvadori, P., Firenze, Olschki, 1993 e Tor-
nabuoni, L. La istoria della casta Susanna, a cura di Orvieto, P., Bergamo, Moretti & Vitali, 1992.
68 Cfr. Knox, D. “Disciplina: le origini monastiche e clericali del buon comportamento nell’Europa
cattolica del Cinquecento e del primo Seicento”, in Prodi, P. (a cura di) Disciplina dell’anima, disci-
plina del corpo, e disciplina della società tra Medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994, pp.
63-100; Zarri, G.(a cura di) Donna, disciplina, creanza cristiana. Dal XV al XVII secolo. Studi e testi a
stampa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996.
69 Cfr. Dalarun, J. Francesco: un passaggio. Donna e donne negli scritti e nella leggenda di Francesco di
Assisi, Roma, Viella, 2001.
40
Firenze dal 1446 al 1459 e santo canonizzato dal 1523. Lo sbandamento prodotto
dagli esili o dalle morti violente degli uomini addossava a giovani donne il com-
pito di mantenere saldi dei nuclei familiari altrimenti disgregati. Solo dei valori
trascendenti potevano motivare questo compito. Comprensivo verso le rinunce
prospettate a Dianora Tornabuoni, sorella di Lucrezia, l’arcivescovo Antonino così
si esprimeva: «Voi dunque figliola mia, essendo nel grado che siete, a voler perve-
nire nel grado che desiderate, vi bisogna farvi una grande violenza a ritirarvi. Ma
confortovi però che dove è il grande lavorio, sì ci si aspetta la grande ricolta, dove
è la grande fatica, ci si aspetta il grande riposo e il grande premio»70. Le attrattive
mondane che una donna di rango con più difficoltà avrebbe lasciato svanivano
davanti alla promessa della patria celeste. Attraverso questi testi scritti in volgare,
lettere e trattatelli rimasti inediti fino all’Ottocento, nonostante la loro circolazio-
ne limitata a precise destinatarie, si codificavano dei messaggi che, tra Cinque e
Seicento si consolideranno nei Paesi cattolici attraverso la ricca produzione di testi
ad hoc, vite, elogi e orazioni a stampa.
Il progresso compiuto dagli studi sulla corte ha sottratto i profili delle princi-
pesse alla classica serie di gallerie e di medaglioni fioriti tra Otto e Novecento. In
questa epoca sensibile al culto delle personalità e all’“invenzione” di una tradizione
nazionale, si collocano le biografie di alcune Medici: le due regine di Francia Ca-
terina (1519-1589) e Maria (1575-1642), e le principesse Claudia (1604-1648),
Anna (1616-1676), Anna Maria Luisa (1667-1743), tutte sposate e vissute in
corti estere. A loro e ad altre trentadue principesse, regine e imperatrici, Oreste
Ferdinando Tencajoli nel 193371. In tempi recenti sulle donne Medici si sono
avuti studi approfonditi che hanno messo in luce i vari giochi di squadra e le rela-
zioni di genere all’interno della corte fiorentina e di quelle corti (Mantova, Ferrara,
Urbino, Parigi, Innsbruck, Düsseldorf ) che, per via di matrimonio, vennero in
contatto più diretto con la dinastia al potere. La dimensione defilata, frugale del
periodo repubblicano, in cui visse anche Contessina Bardi, moglie di Cosimo il
vecchio, è stata definita da Maria Teresa Guerra Medici «un modello borghese
facoltoso ma misurato», destinato a variare con Lucrezia Tornabuoni moglie di
Piero de’ Medici e madre del Magnifico, donna religiosa e colta, perla rara nel
pantheon femminile fiorentino72; se Lucrezia sarà celebrata dai letterati dell’epoca
70 Per riferimenti bibliografici Cfr. Paoli, M.P. “Antonino da Firenze O.P. e la direzione dei laici”,
in Filoramo, G. (a cura di) Storia della direzione spirituale III, “L’età moderna”, a cura di Zarri, G.,
Brescia, Morcelliana, 2008, pp. 85-130: p. 120.
71 Oreste Ferdinando Tencajoli, Principesse italiane nella storia d’altri paesi, Roma, Modernissima
Libreria internazionale, 1933, ad indicem.
72 Cfr. Guerra Medici, M.T. “Potere e poteri femminili tra fonti normative e prassi politica”, in Le
donne Medici cit., t. I, pp. 35-50; 46-47.
41
medicea, non avvenne così, ad esempio, per Alfonsina Orsini moglie di Piero «il
fatuo» figlio di Lorenzo il Magnifico.
Un posto speciale in questo pantheon, sarà occupato da Maria Salviati, figlia
di Jacopo e di Lucrezia Medici e madre del duca Cosimo I. Dopo la morte, avve-
nuta nel 1543, fu descritta e lodata da Benedetto Varchi addirittura come «Madre
della patria»73. Una comparazione con il ritratto che Pietro Bembo nel 1555 fece
di Elisabetta Gonzaga, moglie di Guidobaldo Della Rovere duca di Urbino, mette
in luce il diverso ambito in cui si mossero donne di rango vissute negli stessi anni.
Elisabetta, rinomata per la sua “pudicizia e honestà di vita”, virtù muliebri classi-
che e non solo cristiane, si distingueva «per essere accomodata et universale a tutte
le brigate di qualsivoglia ordine e età»74, ovvero di quei sodalizi promiscui, luoghi
di “civil conversazione” da cui le donne fiorentine coeve, stando alle memorie uf-
ficiali, furono progressivamente escluse. E se “brigate” e accademie riunivano no-
biluomini e nobildonne senesi fin dagli anni Venti del Cinquecento, a Firenze sarà
la vita di corte a incrementare occasioni di “sociabilità”, una volta che, con l’arrivo
di principesse straniere, si capovolgerà quell’understatement di cui si diceva.
Le donne fiorentine furono spesso evocate sulla scorta del modello petrarchia-
no legato alla figura di Laura e, dunque, agli ideali di bellezza e di amore decantati
all’insegna del rinnovato culto per la filosofia platonica, conciliata con l’etica aristo-
telica e con la religione cristiana A questa complessa operazione si rivolse Francesco
de’ Vieri, detto il Verino secondo, nipote dell’omonimo filosofo neoplatonico75.
Due operette, una edita e una inedita, contengono il compendio delle sue conce-
zioni sulle donne chiamate a svolgere un ruolo preminente: la prima, stampata a
Firenze nel 1580, recava la dedica a Pellegrina Cappello Bentivogli, figlia di Bianca
Cappello, seconda moglie del granduca Francesco I de’ Medici; l’altra, dedicata
a Cristina di Lorena, moglie del Granduca Ferdinando I, fu scritta nel 1589 in
occasione delle loro nozze76. Profonde le differenze delle due destinatarie, Pellegri-
73 Cfr. Leuzzi, M.F. “L’oratoria funeraria nel Cinquecento. Le composizioni di Benedetto Varchi nei
loro aspetti culturali e politici”, in Rivista storica italiana, CXVIII, (2006), pp. 371-374 e Paoli, M.P.
La dama, il cavaliere, lo Sposo celeste cit., pp. 170-173.
74 Cfr. Bembo, P. Vita dello Illustrissimo S. Guidobaldo duca di Urbino e della Illustrissima Sig.
Elisabetta Gonzaga sua consorte, tradotta dal latino da Nicolò Mazzi da Cortona, In Fiorenza, per M.
Lorenzo Torrentino, 1555, pp. 176-197.
75 Cfr. Vasoli, C. “Platone allo Studio fiorentino-pisano”, in Rinascimento, XLI, 2001, pp. 39-69: 50-56.
76 de’ Vieri, F. Discorso della grandezza et felice fortuna d’una gentilissima & gratiosissima Donna qual
fu M. Laura…, All’Illustrissima Signora Pellegrina Cappello Bentivogli, In Fiorenza, Appresso Giorgio
Marescotti. MDLXXX e Id. Dello splendore & della Grandezza del principato & delle Principesse fa-
mose non meno per le virtuose & heroiche loro imprese che per gran nobiltà di sangue che per gran Potestà
regale…Alla Ser.ma Christina dell’Oreno G.D. di Toscana, in Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze,
Mss. Magliabechi XXX, codice 236, cc. 1r-63v.
42
43
81 Cfr. Del Lungo, I. La donna fiorentina del buon tempo antico, Firenze, R. Bemporad, 1906.
82 Cfr. Cervoni da Colle, G. Delle Pompe e feste fatte nella città di Pisa per la venuta della Ser.ma
Madama Christerna (sic) de l’Oreno Gran Duchessa di Toscana…, In Fiorenza, Appresso Giorgio Ma-
rescotti, 1589, p. 1.
83 Lenzi, M.L. Donne e madonne, Torino, Einaudi, 1982.
84 Cfr. Serdonati, F. Libro di M. Boccaccio delle donne illustri tradotto di latino in volgare per M. Giu-
seppe Betussi con una giunta fatta dal medesimo d’altre donne famose e una giunta fatta per M. Francesco
serdonati d’altre donne illustri antiche e moderne…, In Fiorenza, per Filippo Giunti MDXCVI, p. 525.
44
additata come esempio attuale di capacità di governo85. Nel pantheon di donne illustri
di varie epoche e di vari Paesi, solo il ritratto di Lucrezia Tornabuoni Medici è inserito
dal Serdonati per creare un ponte tra passato e presente, tra la pietas di Lucrezia e quella
della granduchessa di Toscana Giovanna d’Austria «rifugio de’ tribolati, sostentamento
de’ bisognosi, porto degli afflitti e sollevamento de’ miseri». Passata a miglior vita,
Giovanna aveva però lasciato «vivi ritratti della sua bontà nelle sue bellissime graziosis-
sime figliuole nelle quali appariscono le medesime virtù»86. Il gioco di specchi era così
perfetto: di madre in figlia. Ma non solo. Nella Vita della serenissima Eleonora Arcidu-
chessa d’Austria duchessa di Mantova et di Moferrato…con l’aggiunta delle meditazioni
che faceva in vita e dell’estratto di quelle con le quali si preparò alla morte, composta dal
gesuita Antonio Felcari e pubblicata a Mantova nel 1598 con dedica al duca Vincen-
zo, si trova un’ulteriore dedica rivolta alla moglie Eleonora Medici, figlia di Giovanna
d’Austria e di Francesco I; si tratta delle “Considerationi o spirituali esercitii” composti
dalla prima Eleonora che della Medici fu zia e suocera e alla quale, a detta del gesuita,
trasmise l’esempio del suo cammino fatto di opere virtuose, orazioni, frequenza dei
santi sacramenti della confessione e comunione. La “viva memoria” che legava la giova-
ne Medici a Madama Eleonora, “di cui vide come visse e morì”, si arricchiva di questi
tesori spirituali messi per iscritto e portati ora alla luce dall’autore87.
L’elemento religioso informerà altri ritratti di principesse Medici editi e ine-
diti, tutti mirati a costruire un percorso di formazione intimo e famigliare oltre
che ufficiale88. Modelli analoghi circolavano peraltro in vari contesti. Sempre più
una santa vita si doveva concludere con una santa morte, spesso preceduta da in-
fermità, sopportata con coraggio e fede e puntualmente descritta da confessori di
corte o direttori spirituali. Fu questo il caso di Maria di Portogallo, principessa di
Parma e Piacenza, o quello di Zanobia Del Carretto Doria, principessa di Melfi,
di cui il lucchese Pompeo Arnolfini scrisse una Relatione dell’infermità e morte…
nella quale si tratta ancora di alcune cose toccanti la sua vita pubblicata nel 1592 a
Verona (Appresso Girolamo Discepolo) e dedicata alla gentildonna lucchese La-
vinia Garzoni89. La vita diventa dunque quasi marginale rispetto al momento del
trapasso, dato che, morendo cristianamente, si rinasce.
45
90 Le lettere conservate nell’Archivio Doria 64/91, int.3 sono pubblicate in Bracco, R. Donna
Zanobia cit., pp. 133-135. Sui libri di devozione cfr. Zarri, G. Libri di spirito. Editoria religiosa in
volgare nei secoli XV-XVII, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009.
46
«Quasi si vorrebbe noi anziani che i mandorli per fiorire prendessero prima con noi
anziani l’appuntamento: e così ce la prendiamo coi giovani che fioriscono per loro
conto, senza chiederci il permesso e senza aver preso le preventive istruzioni». A chi si
riferisce Piero Calamandrei1? Al figlio.
Cinque anni dopo, nel 1943, Franco annota sul suo diario: «I figli devono educare
i genitori»2.
Sono poche battute, ma estremamente chiarificatrici della complessità insita nei
rapporti familiari, dello sguardo generazionale “naturalmente” non convergente,
ma amaramente compreso, in quel tempo, da un padre e da un figlio.
Se a Parigi, già dal 1929, l’École des parents cercava di individuare un nuovo
modello genitoriale mettendo in discussione quello declinato sull’autoritarismo
patriarcale, nella nostra cultura pedagogica, ben radicata nelle sue caratteristiche
ottocentesche e rafforzata dalle istanze del neoidealismo e del regime fascista, a
lungo, nel corso del Novecento, l’istituzione familiare è stata ritenuta un ambito
strettamente privato. Il legame di sangue legittimava comportamenti autoritari e
sottomissioni inevitabili del coniuge e dei figli ed escludeva, quasi a priori, l’atten-
zione al riconoscimento delle pur sempre presenti dinamiche affettive e relazionali.
I conflitti, i silenzi, le mortificazioni, le inadeguatezze, le illusioni amorose, il
“pacato amore coniugale” successivo a squillanti “per Nozze”, sembravano annul-
larsi nel riconoscimento sociale dei ruoli coniugali e genitoriali, legittimati, nella
1 Calamandrei, P. manoscritto inedito, 1938, esergo cit. in Cesellato, A. (a cura di) Piero e Franco
Calamandrei.Una famiglia in guerra, Bari-Roma, Laterza, 2008.
2 Ibidem. Nel 1959, sul suo Giornale dei Genitori, n. 1, pp. 3-4, Ada Prospero Marchesini Gobetti
ripropone il tema in modo interlocutorio nell’articolo, “Devono invecchiare i giovani o i genitori
ringiovanire?”, ora in, Leuzzi, M.C. (a cura di) Ada Marchesini Gobetti, Educare per emancipare.
Scritti pedagogici 1953-1968, Mandria, Lacaita, 1982, pp. 132-138.
3 Sebold, A. The Lovely Bones, tr.it. Belliti, C. Amabili resti, Roma, Edizioni e/o, 2002.
4 Ne ha parlato Michela Marzano durante il suo intervento al Festival delle Letterature, Roma, 25
maggio 2010.
50
Era un uomo di indole timida e mite (scoprii solo più tardi), ma come tutti i pa-
dri torinesi della sua generazione riteneva naturale pretendere dai figli, per il loro
futuro bene, comportamenti ispirati dai locali classici dello stoicismo, Alfieri,
D’Azeglio, De Amicis. Le carezze erano rare e imbarazzate, i doveri numerosi e
non negoziabili. […] Alto e imponente d’aspetto, mio padre aveva inoltre occhi
color ghiaccio che intimidivano già in stato di riposo; aggrottandosi, non lascia-
vano scampo, bisognava muoversi5.
Non rientrano anche questi aspetti nel bagaglio educativo delle passate, ma
non troppo, generazioni?
51
Francesca Borruso
6 Cfr. Foucault, M. L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola,
tr.it., Einaudi, Torino 1972.
7 Cfr. Ulivieri, S. “I silenzi sociali: l’infanzia, i giovani, le donne. Una storia ai margini”, in Ulivieri,
S.; Cambi, F. (a cura di) I silenzi nell’educazione. Studi storico-pedagogici, Firenze, La Nuova Italia,
1994, p. 53-71.
8 Sulla storiografia della vita privata cfr. Ariès, Ph.; Duby, G. (a cura di) La vita privata (1986), voll.
IV, tr.it. Roma-Bari, Laterza, 2001.
9 Su questo tema cfr. Chartier, R. (a cura di) La correspondance. Les usages de la lettre au XIXème siecle,
Paris, Fayard, 1991; Betri, M.L.; Maldini Chiarito, D. (a cura di) Dolce dono graditissimo. La lettera
privata dal Settecento al Novecento, Milano, Franco Angeli, 2000; Russo, A. Nel desiderio delle tue care
nuove. Scritture private e relazioni di genere nell’Ottocento risorgimentale, Milano, Franco Angeli, 2006.
Lo stupefacente inizio del racconto di Von Kleist del 1810 qui riproposto,
prosegue con la descrizione di una notte di guerriglia avvenuta qualche mese pri-
ma in una piazzaforte dell’Italia settentrionale, nel corso della quale il coraggioso
ufficiale russo Conte F. salva la Marchesa da un tentativo di stupro. Nel racconto
di Kleist, l’incontro amoroso tra i due protagonisti è sottratto al lettore come è
precluso alla coscienza della Marchesa: la stessa progressiva consapevolezza della
inaspettata gravidanza, scandita dai frequenti svenimenti della Marchesa, sembra
ribadire l’inconscietà delle sua condotta. Il conturbante intrigo si suggella con il
lieto fine di un matrimonio d’amore. Infatti, l’uomo che si presenterà rivendican-
do la paternità – il coraggioso conte F., da lei già segretamente amato – servirà solo
a svelare alla Marchesa ciò che già lei sa, ossia di essersi concessa a uno sconosciuto
in uno stato tra lo svenimento e il sogno. L’avventura della Marchesa, insomma,
può intendersi come il progressivo disoccultamento del suo, non legittimo per sé
e per gli altri, desiderio, poiché in quella notte anche lei si è fatta trascinare dalla
passione, sconcertata dall’ineluttabile consenso del concedersi a uno sconosciuto.
Insomma, il racconto non è la storia di uno stupro, bensì la storia dell’affiorare
10 Covato, C. “La vita privata nella storia dell’educazione”, in Studi sulla formazione, VII, n. 1,
2004, pp. 73-84.
11 Cfr. Pancera, C. “Figlie del Settecento”, in Ulivieri, S. (a cura di) Le bambine nella storia dell’edu-
cazione, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 189-213.
12 Von Kleist, H. La marchesa di O… a cura di Rossanda, R., tr.it. Marsilio, Venezia 1989, p. 43.
54
alla coscienza del desiderio sessuale il quale, secondo il modello dominante, è una
passione dotata di una distruttività più radicale di tante altre passioni.
Il discorso sul sesso, questione che ha dense implicazioni educative in tutti i tempi
storici, è una questione spinosa nella cultura borghese: circondato da un fragoroso
silenzio, legittimato esclusivamente nel matrimonio e finalizzato solo alla riproduzio-
ne13, diventa oggetto di rigoroso controllo e anche uno dei settori di più eclatante
disuguaglianza tra uomini e donne14. La sessualità femminile, in special modo, è cir-
condata da un severo controllo esercitato dalla famiglia ma anche dalla Chiesa, la quale
assoggetta le ragazze in una rete di pratiche devozionali e di divieti destinati a proteg-
gere la loro verginità15. Controllo da parte delle istituzioni familiari e religiose, silenzio
sociale e interiorizzazione profonda del sentimento del pudore femminile, sono le for-
me disciplinari più evidenti di gestione della sessualità per le donne16. Inoltre, il mito
della maternità come unico orizzonte di senso femminile17 contribuisce a delineare
un modello di femmina asessuata, portatrice di una sessualità indiretta, subordina-
ta al piacere dell’uomo18. Anzi, la sessualità femminile viene demonizzata in quanto
considerata come l’esatta antitesi della modestia e della purezza, qualità che avrebbero
dovuto definire la donna madre e moglie, il vero angelo della casa19.
Secondo Hobsbawm le ragioni del puritanesimo sessuale borghese risiedono
nel fatto che la famiglia borghese rappresenta un nucleo pulsante di proprietà e di
13 «Non è inoltre da trascurare lo scarto che in ogni epoca è esistito tra la precettistica dei filosofi,
dei teologi e dei moralisti che ‘tendono a rappresentare il mondo in astratto, in bianco e nero’ e ‘l’ef-
fettivo comportamento sessuale’ della vita quotidiana». Sorcinelli, P. Storia e sessualità. Casi di vita,
regole e trasgressioni tra Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 13.
14 Corbin, A. “Il segreto dell’individuo”, in Ariès, Ph.; Duby, G. (a cura di) La vita privata. L’otto-
cento, tr.it., Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 332-395.
15 Perrot, M. “Drammi e conflitti familiari”, in Ariès, Ph.; Duby, G. (a cura di) La vita privata cit., p. 219.
16 «Il XVII secolo sarebbe l’inizio di un’epoca di repressione, caratteristica delle società che chia-
miamo borghesi, e da cui forse non ci saremmo ancora completamente liberati. Nominare il sesso
sarebbe diventato, a partire da quel momento, più difficile e più costoso». Foucault, M. La volontà di
sapere, tr.it. Milano, Feltrinelli, 1979, p. 19.
17 Dalla fine del Settecento in poi, fa la sua comparsa un nuovo ideale, che è l’amore materno, il quale,
nonostante sia sempre esistito, viene adesso esaltato come valore non solo naturale ma anche sociale,
utile alla specie e alla società. Cfr. Covato, C. “Madri e figli. Infanzia e ruolo materno”, in Ead. Memorie
discordanti. Identità e differenze nella storia dell’educazione, Milano, Unicopli, 2007, p. 127 e ssg.
18 «Sebbene la discussione sul grado di frigidità femminile fosse aperta, i medici tendevano ad
accordare alle donne perbene al massimo una sessualità secondaria, indiretta, subordinata al piacere
dell’uomo, priva di una propria autonomia, una sbiadita imitazione del desiderio erotico maschile».
Cfr. Walkowitz, J.R. “Sessualità pericolose”, in Duby, G.; Perrot, M. (a cura di) Storia delle donne in
Occidente. L’ottocento, a cura di Fraisse, G., tr.it. Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 406.
19 Corbin, A. “La piccola Bibbia dei giovani sposi”, in Duby, G. (a cura di) L’amore e la sessualità,
tr.it. Bari, Dedalo, 1986, pp. 175-187.
55
attività di impresa e qualunque cosa possa mettere in crisi questa unità familiare
ed economica è inammissibile20. E ovviamente, nulla era ritenuto così pericoloso
come una passione fisica incontrollata «tale da introdurre corteggiatori e corteg-
giatrici inidonei (cioè economicamente indesiderabili), da dividere i mariti dalle
mogli, e da dilapidare risorse comuni»21. Inoltre, sul piano del comportamento
sessuale l’etica è manifestamente duplice: «castità per le borghesi nubili e fedeltà
per le maritate; libera caccia ad ogni gonnella (forse eccettuate le figlie da marito
delle classi medie e superiori) per tutti i giovani borghesi, e infedeltà tollerata per
tutti i mariti»22.
20 Hobsbawm, E.J. Il trionfo della borghesia 1848-1875 (1975), tr.it. Roma-Bari, Laterza, 2006,
p. 290.
21 Ivi., p. 290.
22 Ivi., p. 287.
23 Maldini Chiarito, D. “Norma e trasgressione nei carteggi dell’800”, in Pasi, A.; Sorcinelli, P.
(a cura di) Amori e trasgressioni. Rapporti di coppia fra ‘800 e ‘900, Bari, Dedalo, 1995, pp. 35-52.
24 Sulla nascita del matrimonio individualistico fondato su una scelta d’amore Cfr. Stone, L. Fa-
miglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento (1979), tr.it. Torino, Einaudi, 1983.
25 Cfr. Badinter, E. “L’amore in più. Storia dell’amore materno, tr.it. Milano, Longanesi, 1981; D’A-
melia, M. (a cura di) Storia della maternità, Roma-Bari, Laterza, 1997.
26 Cfr. Covato, C.; Leuzzi, M.C. (a cura di) E l’uomo educò la donna, Roma, Editori Riuniti, 1989,
pp. 91 e ss.
56
fetta compiutezza dell’unione fra un uomo e una donna, che sembra evocare la
nostalgica e arcaica fusionalità con il primo oggetto d’amore27.
In questa trasformazione socio-culturale i modelli educativi dominanti ri-
badiscono il dissidio tra amore e matrimonio28. Si parla di una ragione con-
trapposta alla passione amorosa, che già Rousseau in Giulia o la Nuova Eloisa
(romanzo epistolare del 1758) pone alla base del legame matrimoniale «fondato
non sul cieco trasporto dei cuori appassionati, ma sull’invariabile e costante
affetto di due persone ragionevoli e prive di reciproche proiezioni»29. La storia
di Julie, la quale rinuncia al suo amore per il precettore Saint-Preux sposando
Wolmar, l’uomo a lei destinato dal padre, non serve solo a ribadire l’esisten-
za della legge paterna a fondamento dell’ordine sociale, ma anche a dipingere
un’educazione sentimentale in cui l’amore, principio puramente spirituale, deve
essere scisso, alienato dalle passioni30. Per Rousseau, infatti, non è la passione
che può rendere un’unione coniugale felice, bensì un affetto pacato, costante, ra-
gionevole che si basa sull’assenza di illusioni e di mitiche aspettative. La passione
amorosa, invece, generatrice di illusioni, espone sempre al rischio dell’infelicità
e della delusione ed è destinata a spegnersi nel tempo, rendendosi inadeguata a
cementare l’unione matrimoniale.
Cosicché se l’amore coniugale si auspica come pacato sentimento di cura,
ben diverse sono le passioni che per Ottilia ne Le affinità elettive (1809) sono
«malattie senza speranza. Ciò che potrebbe sanarle – scrive – è proprio ciò che le
rende pericolose»31. E d’altronde l’ordinata geometria della coppia iniziale, quella
coniugale di Edoardo e Carlotta, viene sovvertita proprio dalla passione inelutta-
bile di Edoardo per Ottilia e di Carlotta per il Capitano. Qui la passione amorosa
è distruzione dell’esistente, dispersione e disfacimento dei progetti di vita dell’in-
dividuo, turbinio rovinoso di affetti, desideri, vissuti. Il sovvertimento dell’ordine
matrimoniale, causato dalle passioni ineluttabili dei protagonisti, viene espiato
attraverso il sacrificio di Ottilia che cercherà lucidamente la morte32.
57
33 Sulla educazione delle donne cfr. Covato, C. Sapere e pregiudizio. L’educazione delle donne fra
‘700 e ‘800, Archivio Guido Izzi, Roma 1991; Soldani, S. (a cura di) L’educazione delle donne. Scuole
e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1989; Hufton, O. Destini
femminili. Storia delle donne in Europa 1500-1800, tr.it. Milano, Mondadori, 1996.
34 Barbarulli, C. “Dalla tradizione all’innovazione. La ricerca straordinaria di Elena Raffalovich
Comparetti”, in Soldani, S. (a cura di) L’educazione delle donne cit., pp. 425-445.
58
Divertiti e vivi assolutamente come se io non esistessi e tu fossi scapolo. Sarò con-
tenta di sapere che approfitti della tua libertà come ne ho approfittato io da molto
tempo. È il mio destino di far soffrire le persone vicine, ma almeno non lo faccio
apposta. Se tieni assolutamente a vedermi, ti prego che sia per poco tempo, giacché
hai la delicatezza di chiedermi se lo desidero. Se potessi far qualcosa per te, lo farei
volentieri, ma a che serve soffrire per niente? Sono un po’ debole e ogni emozione
mi fa male. Mi è molto penoso dirti questo. Ho passato la mia vita a lottare fra il
timore di far dispiacere agli altri e i miei propri desideri. Cosa ci ho guadagnato? La
mia salute distrutta, la mia gioventù perduta e sofferenze per te, che ti sei trovato
in questa galera senza sapere perché e senza tua colpa. Del resto, non merito affatto
che tu non ti sappia consolare del mio allontanamento. So bene quanto le tue idee
sulla virtù siano diverse dalle mie. Addio ti stringo la mano35.
35 Frontali Milani, E. (a cura di) Storia di Elena attraverso le lettere 1863-1884, Milano, La Rosa,
1982 p. 80.
36 Cfr. Vegetti Finzi, S. “Introduzione”, in Storia delle passioni, Roma- Bari, Laterza, 1995, p. IX.
37 Frontali Milani, E. (a cura di) Storia di Elena attraverso le lettere cit., p. 79.
59
ficare il modello interiorizzato che le vuole madri, mogli, figlie e sorelle, iniziano a
dialogare con “quell’altro io” che domanda di entrare nella coscienza e nella storia.
Bibliografia
Ariès, P.; Duby. G. (a cura di) La vita privata (1986), voll. IV, tr.it. Roma-Bari,
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Ariès, P. Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (1960), tr.it. Roma-Bari,
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Barthes, R. Frammenti di un discorso amoroso, tr.it., Torino, Einaudi, 1979.
Covato, C.; Leuzzi, M.C. (a cura di) E l’uomo educò la donna, Roma, Editori
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Eadem (a cura di) Metamorfosi dell’identità. Per una storia delle pedagogie narrate,
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Ulivieri, S. (a cura di) Le bambine nella storia dell’educazione, Roma-Bari, Laterza,
1999.
Vegetti Finzi, S. (a cura di) Storia delle passioni, Roma-Bari, Laterza, 1995.
60
Angela Giallongo
38 Soldani, S. “Il Medioevo del Risorgimento nello specchio della nazione”, in Castelnuovo, E.;
Sergi, G. (a cura di) Arti e Storia nel Medioevo, vol. IV, “Il Medioevo al passato e al presente”, Torino,
Einaudi, 2004, vol. 4, pp. 149-186.
39 Sui rapporti coniugali Scritti vari di Antonio Rosmini sul matrimonio cristiano e le leggi civili che le
riguardano, Firenze, coi tipi di N. Cellini, 1862.
co colto urbano una mania insieme alla predilezione per il bianco. L’elevazione di
questo colore a simbolo della purezza, fin dai tempi di Gregorio Magno40, raffor-
zata, nel 1850, dal riconoscimento del dogma dell’Immacolata Concezione, servì
a esaltare l’innocenza infantile e verginale: accompagnava il battesimo, la prima
comunione, il primo abito da ballo e il vestito a strascico delle nozze. A patto che
le spose non avesse superato i limiti d’età: venticinque anni41. Per loro, ormai vec-
chie, il bianco era umiliante e ridicolo.
1. Scelte storiografiche
Senza la storia dell’amore il processo di civilizzazione sarebbe incomprensibile a livello
individuale e collettivo42. La storia è più viva se accoglie, fra le sue verità, le trasfor-
mazioni dei più intimi interessi maschili e femminili43. Huizinga, Bloch, Le Goff,
Duby e Elias avevano già incluso l’emotività nello studio dei comportamenti sociali e
mentali. Ariès, Flandrin, Shorter e Laslett hanno reso ancora più esplicite le mutevoli
forme dell’emozione più culturalizzata della storia: l’amore. Soprattutto Stone (1977)
ha individuato nella trasformazione della vita familiare e istituzionale inglese l’affer-
mazione dei valori etici aperti, dal Settecento all’Ottocento, all’idea dello scambio
affettivo. Anche se, con l’affermazione dei poteri pubblici lo Stato e il clero prote-
stante conferivano al marito-padre un indiscussa autorità estesa fino alla coercizione
fisica. Nella cattolica Italia, è riscontrabile, nel clima di tensioni tra Stato e Chiesa,
durante il processo di unificazione, lo stesso atteggiamento contraddittorio, aggravato
dal ritardo politico e culturale del Paese44. Selezionando, per il caso italiano, il legame,
suggerito da Stone, tra legittimazione autoritaria delle istituzioni e stile emotivo delle
relazioni personali tra i sessi, vale la pena esplorare le forme di attaccamento pianifi-
cate per i “promessi sposi” nel secolo in cui la famiglia entrava a far parte dello stato
e della coscienza nazionale45 con emozioni funzionali a legami autoritari e gerarchici.
40 Giallongo, A. L’avventura dello sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel Medioevo, Bari,
Dedalo, 1995, p. 25.
41 “La signorina matura” in Colombi, M. La gente per bene: leggi di convenienza sociale, Torino,
Giornale delle Donne, 1877, p. 57
42 Keith Oatley, Emotions. A Brief History, Oxford, Blackville, 2004, Breve storia delle emozioni, tr.it.
di Cristina Spinoglio, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 18.
43 Per Zeldin, T. An Intimate History of Humanity, London, Sinclair Stevenson; Storia intima dell’u-
manità, tr.it. di Bianca Lazzaro, Roma, Donzelli, 1999, p. 74.
44 cfr. Banti, A.M. Storia della borghesia italiana. L’età liberale (1861-1922), Roma, Donzelli, 1996
e Porciani, I. (a cura di) Famiglia e nazione nel lungo Ottocento italiano. Modelli, strategie, reti di
relazione, Roma, Viella, 2006, p. 294.
45 Tasca, L. «In quella società che ti tende insidie». Domesticità e letteratura educativa nell’Italia
dell’Ottocento, III Convegno SIS, novembre 2004 – Panel Famiglie borghesi in Italia tra Otto e
Novecento: realtà e rappresentazione.
62
63
Primo: non ridere quando vedi tuo marito crucciato, e non stare adirata quando
lo vedi allegro;
Secondo: condiscendi al suo piacere, servendogli a pranzo e a cena soltanto i cibi
che gli piacciono;
Terzo: sveglialo pian piano, per non “sdegnarlo”;
Quarto: non indagare mai i suoi sentimenti né riferirli “fuori casa”e non dire:
“l’avevo detto io”.
Per l’armonia della coppia, la sposa era guidata a uniformarsi, “giorno dopo
giorno”, a tutti gli stati d’animo del consorte, “senza affliggerlo”58.
52 Zambrini, F. Le opere volgari a stampa del secolo XIII e XIV, Bologna, Nicola Zanichelli, 1884.
53 “Francesco Zambrini e la ‘Scelta di curiosità letterarie inedite o rare’” in Convegno di Studi in onore
di Francesco Zambrin nel centenario della morte, Faenza, Società Torricelliana di Scienze e Lettere,
1989. p. 109.
54 Delcorno, C. (a cura di) Prediche volgari nel Campo di Siena 1427, Milano, 1989.
55 San Bernardino da Siena, Sul governo della famiglia, Parma, Stamperia Fiaccadori, 1860.
56 Pandolfini, A. Trattato del governo della famiglia, Milano, Stamperia Pietro Fraticelli, 1857.
57 Ivi, p. 57.
58 “I dodici avvertimenti che deve dare la madre alla figliola quando la manda a marito” in Lom-
bardi-Marilea Somarè, M. Oggi sposi. Amore, interesse e ragion di Stato, riti, moda, gastronomia, doti,
64
Conclusioni
Come reagivano le giovani destinatarie?
Due esempi fra i tanti della narrativa femminile del tempo. La Marchesa Co-
lombi offre nel Matrimonio in provincia (1885) la storia emotiva della protago-
nista, Gaudenza Dallara, moglie sfortunata, madre insoddisfatta di tre figli, con
alle spalle una giovinezza monotona, afflitta da una “inalterabile calma morta”60.
Anna Guendalina Lipparini, nota come Regina di Luanto, cercava a sua volta
di scuotere, alla fine del secolo, l’opinione pubblica sul problema della vulnerabi-
lità emotiva delle ragazze per bene: soffrivano di melanconia e di nervi.
Nel Martirio (1894) e in Il nuovissimo amore61(1903), si interrogava sulle falsità
usate per ingannare “creature inesperte della vita”, le quali scoprivano “poche ore dopo
le nozze” il “formidabile uragano”62 che avrebbe spazzato via tutte le loro illusioni.
Le parole del professore universitario, marito dell’infelice autrice del diario,
contenuto nel Martirio, rispecchiano la situazione tipica del rapporto della coppia
protagonisti, scandali e storie di cinquecento anni di matrimonio, Milano, Mondadori, 1983, pp. 262-
266.
59 . Giddens, A. The Transformation of Intimacy: Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies.
Cambridge, Polity, 1992, p. 15.
60 La Marchesa Colombi, Matrimonio di provincia, Milano, Galli edizioni, 1885, p. 5.
61 Regina di Luanto, Il nuovissimo amore, Torino-Roma, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo,
1903. Cortopassi, E. “Regina di Luanto alla ricerca della nuova Eva” in Les femmes-écrivains en Italie
(1870-1920): ordres et libertés. Chroniques italiennes, n. 39/40, 1994, pp. 255-269.
62 di Luanto, R. Il nuovissimo amore cit., p. 17. Padovani, G.; Verdirame, R. (a cura di) Tra letti e
salotti. Norma e trasgressione nella narrativa femminile tra Otto e Novecento, Palermo, Sellerio, 2001
p. 48, 150; Åkerström, U. Un «morboso» successo di fine Ottocento. L’amore e il matrimonio in due
romanzi di Regina di Luanto, Romansk Forum n. 16, 2002 (XV Skandinaviske romanistkongress
Oslo 12.-17. august 2002), pp. 1009-1014.
65
italiana: «La donna ha bisogno di essere guidata e protetta: come può mettersi al
livello di chi la domina sempre?»63.
Parole sprezzanti rispetto al nostro modo di sentire completamente cambiato.
Anche se la Colombi e la Lipparini non si erano rassegnate alla passività fem-
minile nella coppia, esplorando le emozioni negative delle loro contemporanee, si
accorgevano che proprio nel giorno delle nozze vi erano già i segnali che indicava-
no che le cose sarebbero andate peggio di quanto le ragazze si sarebbero aspettate.
Se nelle vicende letterarie, l’amore romantico, quale versione aggiornata di quello
“cortese”, favoriva l’idea della reciprocità affettiva tra uomini e donne, nella realtà
quotidiana i rapporti erano molto più problematici.
Le coppie affrontavano un’infinità di ostacoli, senza superarli. In questo sen-
so, le questioni poste dalle scrittrici64 rimettevano in discussione le barriere sociali
ed emotive – particolarmente evidenti nei modelli di comportamento medievale
dei Per Nozze – mostrando, fra le conseguenze tutt’altro che positive (sfiducia, de-
pressione, infelicità, frustrazione e suicidi), che queste non combaciavano affatto
con i desideri e le aspettative femminili.
66
Tiziana Pironi
Sappiamo che Una donna di Sibilla Aleramo quando uscì nel 1906 suscitò dibat-
titi e polemiche tra le emancipazioniste italiane; in particolare, Ersilia Majno non
riusciva a capire la scelta della scrittrice di aver dato veste pubblica al suo dramma
privato, rivelando tutta se stessa di fronte al mondo intero65.
Il volume venne invece molto apprezzato dalla svedese Ellen Key, un’intel-
lettuale la cui influenza in Italia non è stata fino a oggi adeguatamente studiata66.
Oggetto del mio contributo sarà perciò quello di individuare alcuni aspetti ine-
splorati del percorso formativo di Rina Faccio, alias Aleramo, facendo riferimento
alla corrispondenza tra le due scrittrici, che seguì la pubblicazione di Una donna67.
Del resto, il pensiero della Key fu un punto di riferimento importante per
il femminismo del tempo; la stessa Majno le assegnò la presidenza onoraria del
Convegno dell’Unione Femminile del 190868. Merito della svedese era di aver
65 Si veda al riguardo: Buttafuoco, A. “Vite esemplari. Donne nuove di primo Novecento”, in But-
tafuoco, A.; Zancan, M. Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, Milano Feltrinelli,
1988 (in particolare pp. 153-155); Scaramuzza, E. La santa e la spudorata. Alessandrina Ravizza e
Sibilla Aleramo, Napoli, Liguori, 2006, pp. 158-159.
66 Per quanto riguarda l’influenza di Ellen Key sul femminismo italiano di inizio Novecento, mi
permetto di segnalare il volume in corso di stampa: Pironi, T. Femminismo ed educazione in età gio-
littiana. Conflitti e sfide della modernità, Pisa, ETS.
67 Si tratta di un epistolario ancora inedito che si trova conservato presso il Fondo Ellen Key (Biblio-
teca Nazionale Reale di Stoccolma) e presso il Fondo Aleramo (Istituto Gramsci di Roma).
68 Atti del primo Congresso di Attività pratica femminile (Milano, 24-28 maggio 1908), Milano
Società Editrice di Coltura Popolare, 1909.
focalizzato l’attenzione sulla grande questione del rapporto tra maternità e auto-
nomia individuale. Una lacerante dicotomia che – secondo lei –
assilla soprattutto la coscienza delle donne migliori – quelle che sarebbero chia-
mate a rendere i più grandi servigi, – che si trovano in faccia al dilemma dei
doveri della maternità della società e dei doveri materni privati, nello stesso modo
come dovettero scegliere fra questi e lo sviluppo della propria forza individuale69.
Rispetto alla mistica della maternità su cui indulgeva buona parte del femmi-
nismo del tempo, Ellen Key ne metteva in luce gli aspetti problematici e ambiva-
lenti, peraltro pienamente espressi dalla Aleramo nel suo romanzo70.
Quest’ultima, già nel 1905, aveva presentato Ellen Key al pubblico italiano
con un articolo su Nuova Antologia, soffermandosi sulla sua educazione, in cui il
padre aveva avuto un ruolo determinante, tanto che quando lei lo accompagnò a
Stoccolma, a vent’anni, era già una donna di una cultura non comune71:
Sotto il di lui nome, ella fece le sue prime armi nella letteratura e nel giornalismo
[…]. Ella viaggiò, studiò le lingue, lesse molto […]. Ma non era felice. In lei an-
dava svolgendosi una nobile passione, quella carità superiore che consiste nel vo-
ler rendere le anime dei diseredati suscettibili di maggiori godimenti spirituali72.
Al centro erano quegli aspetti della personalità della Key da cui emergevano
le due polarità che caratterizzavano il femminismo di quegli anni: per un verso,
la conquista dell’emancipazione si rivelava inscindibile dall’uguaglianza, dal rag-
giungimento della parità dei diritti, nel fruire delle possibilità offerte dal mondo
culturale esistente, inevitabilmente declinato al maschile; per l’altro, si nutriva la
profonda insoddisfazione nei confronti di una realizzazione personale incapace di
interrogarsi sul significato dell’essere donna, spingendo perciò la ricerca di quella
cifra del femminile che in quel momento trovava esplicazione nella «maternità
sociale»73.
69 Key, E. Lifslinjer I-III, [1904], Trad.it. Amore e matrimonio, Bocca, Torino, 1909, p. 184.
70 Sulla difficoltà per la scrittrice di far convivere insieme la “donna” e la “madre” si veda: Bravo,
A. “Madri fra oppressione ed emancipazione”, in Bravo, A.; Pelaja, M.; Pescarolo, A.; Scaraffia, L. (a
cura di) Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Bari, Laterza, 2001, p. 118.
71 Nemi “Ellen Key”, in Nuova Antologia, 1 ottobre 1905, p. 511. Celandosi sotto lo pseudonimo
di Nemi, Sibilla Aleramo curava sulla rivista la rubrica delle recensioni.
72 Ivi, p. 511.
73 Sulle esperienze di «maternità sociale» del femminismo italiano di primo Novecento, si veda in
particolare: Buttafuoco, “La filantropia come politica. Esperienze dell’emancipazionismo italiano nel
Novecento”, in Ferrante, L.; Palazzi, M.; Pomata, G. (a cura di) Ragnatele di rapporti. Patronage e reti
68
Alla Sibilla, che ha saputo che noi possiamo lavorare per i nostri figli anche lot-
tando per la nostra individualità e che nostra nuova nobiltà non è soltanto la
maternità di un essere umano, ma la maternità della nuova umanità. Tua Ellen
Key, 17 febbraio 190775.
di relazioni nella storia delle donne, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 166-187.
74 Sull’attività dell’ambulatorio nel quartiere Testaccio: Guarnieri, P. “Piccoli, poveri e malati. Gli
ambulatori per l’infanzia a Roma nell’età liberale”, in Italia contemporanea, 223, 2001, pp. 225-257.
75 Key, E. Barnets Arhundale [1900], Il secolo dei fanciulli, Trad. it. Bocca, Torino, 1906. La copia
del volume è conservata presso il Fondo Aleramo, Fondazione Istituto Gramsci (d’ora in poi F. A.,
F.I.G.), 1227.
76 Nemi, “Ellen Key” cit., p. 513. Sibilla Aleramo dedicava un ulteriore e più approfondito saggio
sulla Key, intitolato “La donna dell’avvenire. Ellen Key” (La Tribuna, 30 giugno 1907, pp. 2-3)
77 “Inchiesta sulla donna e il problema dell’amore”, Pagine libere, 21, 1 novembre 1908, p. 5. Si
veda al riguardo Cotti, C. “Il femminismo come caso letterario. Un’inchiesta di inizio ’900 su amore
e sessualità”, in Memoria, 2, ottobre 1981, pp. 112-118.
78 Bisi Albini, S. “A proposito di ‘Una donna’”, in Vita femminile italiana, 9, settembre, 1907, p.
981. L’intervento della Bisi Albini fu oggetto di commenti nella corrispondenza epistolare tra Ellen
Key e Sibilla Aleramo, di cui riportiamo uno stralcio: «Hai visto il feroce articolo della Sig.ra Bisi
in risposta a quello della Jacobsen? La colpa è dell’educazione cattolica che insegna esser virtù il
69
rassegnarsi al possesso sensuale del marito, e proibisce alla donna il desiderio della felicità. E così la
signora Bisi accusa addirittura di sensualità la mia protagonista!!» (Sibilla Aleramo a Ellen Key, 25
settembre 1907, Fondo Ellen Key, d’ora in poi F.E.K), L 41: 61).
79 Piena condivisione aveva mostrato Maria Montessori che le dichiarava in un bigliettino che
avrebbe fatto grande pubblicità al libro (Maria Montessori a Rina Faccio, 2 novembre 1908, F. A.,
F. I. G, 313).
80 Lettera di R. Faccio (Sibilla Aleramo), 7 aprile 1907, in F.E.K., L 41:61,
81 Lettera di E. Key, 10 aprile 1907, F. A., F.I.G. 51/132, fasc. I. 53.
82 Key, E. “La maternità e la società”. Conferenza tenuta dalla scrittrice svedese a Milano e a Torino,
rispettivamente il 27 e il 28 maggio 1907, pubblicata in Vita femminile italiana, luglio-agosto 1907,
p. 735.
83 Al riguardo la lettera di Sibilla Aleramo: «Cara Amica, ieri abbiamo avuto la visita di Stefan
Zweig, interessante e simpatico […]. Abbiamo parlato tanto di te, cara, ed egli ci ha ripetuto che
l’influenza esercitata dai tuoi libri in Germania e Austria è straordinaria: certo la mentalità di quei
paesi è molto più preparata ad accogliere idee di vita che non lo sia la mentalità latina: ma speriamo
che anche fra noi si produca un risveglio presto, e che tu possa contribuirvi. Sarà per te una grande
gioia agire anche sulla tua Italia, non è vero?» (12 ottobre 1907, F. E. K, L 41:61).
84 Il poeta Rilke, R.M. dedicò a Ellen Key, sua cara amica, Geschichten vom lieben Gott [1900],
Storie del buon Dio, a cura di Ramondino, F., Milano, Editori Associati, 1989.
70
In questa terza parte tutto precipita. Il diritto di lasciare un figlio per salvare te
stessa mi pare chiaro e ben fondato soltanto su delle ragioni fortissime […]. Sia
di tentare tutto il possibile prima della fuga, motivo questo – che andava mag-
giormente esplicitato, come pure il presentimento cupo, mistico, della donna di
diventare come la mamma: senza forza, senza volontà, senz’anima! Questo pre-
sentimento non ha l’importanza necessaria nel libro. Soltanto dipingendo questo
sentimento con forza, la fuga sarà psicologicamente vera […]. spinta da questa
angoscia di salvare l’anima sua quando era ancora in tempo!!87
La lettera successiva della Aleramo confermava la tesi espressa dalla Key, che
aveva colto nell’estrema decisione della protagonista il rifiuto di ripetere lo stesso
destino della madre:
85 Si vedano i riferimenti all’amicizia con Gorki nella lettera di Sibilla Aleramo alla Key (12 gennaio
1908, F.E.K L. 41 a:7).
86 In merito all’amicizia tra la Key ed Ersilia Majno si rimanda al carteggio esistente presso F.E.K
di Stoccolma.
87 Lettera di E. Key, 25 luglio 1907, F. A., F.I.G. 51/132. Sono state qui mantenute le stesse sot-
tolineature del testo.
71
la luce di verità che splende silenziosa dentro di noi![..] E che tu caro grande
spirito, conoscendomi attraverso il mio strazio e il mio sforzo, possa ora amarmi,
ecco una consolazione profonda […]che vorrei potesse un giorno essere provata,
sotto altre forme, da mio figlio!88.
In una successiva lettera del 19 marzo 1908, Ellen Key ricordava all’amica
altri casi analoghi al suo, come quello di Linda Murri di cui aveva letto le Memo-
rie89. A entrambe era mancato un rapporto positivo con la figura materna durante
l’infanzia: anche la madre di Linda era stata una figura assente, malata di nervi,
totalmente passiva e incapace di reggere il confronto con la figura forte e domi-
nante del marito90.
Dal canto suo, Sibilla Aleramo si era interrogata sui motivi che avevano con-
dotto sua madre alla pazzia:
Era passata nella vita incompresa da tutti: intelligente, romantica ma senza volon-
tà: Povera, povera anima! Non le erano valse la bellezza, la bontà, l’intelligenza.
La vita le aveva chiesto della forza: non l’aveva. Amare, sacrificarsi, soccombere!
Questo il destino suo e forse di tutte le donne?91.
Ellen Key individuava perciò il filo conduttore del romanzo nel rifiuto della
protagonista di impazzire come la madre. Aveva dunque compreso fino in fondo
la scelta della protagonista di spezzare la «mostruosa catena» di mortificazione,
di annientamento in nome del «sacrificio della maternità» che si perpetuava da
secoli di madre in figlia. Di qui la negazione che l’amore materno dovesse per
forza poggiare su quel «senso di colpa che si tramanda di madre in figlia»92. Sibilla
Aleramo giustificava perciò la scelta di ribellarsi all’esclusività dell’amore materno
per interrompere quella catena del sacrificio, che provocava nei figli un distruttivo
senso di colpa: quando il figlio saprà che la madre non si è sacrificata per lui sarà
a suo volta intrepido, non troncherà la sua esistenza miseramente per una falsa
concezione del dovere dei genitori verso i generati93.
88 Lettera di R. Faccio (S. Aleramo) a Ellen Key, 28 luglio 1907 (in F.E.K., L. 41:61).
89 Lettera di E. Key, 19 marzo 1908, F. A., F.I.G. 51/132.
90 Murri, L. Memorie, Roma-Torino, Roux e Viarengo, 1905.
91 Ivi., p. 128.
92 Sul mito della “mamma-pellicano” si veda Bravo, A. “Madri fra oppressione ed emancipazione”
cit., p. 79.
93 Afferma di conseguenza: «Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più
bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla,
rinunziamo ad essere noi stessi» (Aleramo, S.Una donna cit., p. 194).
72
Chi mi ha fatto così forte? Per tanto tempo ho creduto che fosse un miracolo:
sapevo di avere in me elementi in guerra, la soavità di mia madre e la violenza
di mio padre, la timorosa melanconia dell’una e la ribelle baldanza dell’altro, il
desiderio di cantare a voce sommessa per me sola e quello di agire in mezzo al
mondo, istinto di dedizione e istinto di conquista in opposizione perpetua. I miei
genitori errarono unendosi, mi dicevo: è nella diversità delle loro tempre la causa
del male che porto dentro di me senza riparo94.
73
Lorenzo Cantatore
Sì, ero molto amata, ma non me ne importava perché io non ero innamorata. Lo
so che è bello essere innamorati…
Palma Bucarelli99
98 Questo testo è stato già pubblicato, con poche varianti, nel volume Covato, C. (a cura di) Vizi
privati e pubbliche virtù. Le verità nascoste nelle pedagogie narrate, Milano, Guerini e Associati, 2010.
99 Artom, S.; Calabrò, A.R. Sorelle d’Italia, Milano, Rizzoli, 1989, p. 92.
100 Margozzi, M. (a cura di) Palma Bucarelli. Il Museo come Avanguardia, Milano, Electa, 2009.
101 Ferrario, R. Regina di quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli, Milano, Mondadori, 2010;
Bucarelli, P. Cronache indipendenti. Arte a Roma fra 1945 e 1946, a cura di Cantatore, L., De Luca,
Roma 2010.
l’altro sesso e con il concetto di famiglia; fra le prime a contraddire l’idea che il
lavoro femminile, soprattutto quello intellettuale, sia la negazione dell’avvenenza
fisica: «Nel mio campo penso di essere stata un po’ una pioniera, nonostante che,
col mio aspetto, fosse difficile farsi prendere sul serio. La mia bellezza, in un certo
senso, mi ha ostacolato: dovevo mostrarmi sempre più dura di quello che ero in
realtà: questo non mi giovava perché finiva che mettevo soggezione»102.
Ma chi era Palma Bucarelli? Nata a Roma il 16 marzo 1910 in una famiglia
meridionale, si laurea nel 1932 in storia dell’arte. Nel 1933 vince un concorso
al Ministero della pubblica istruzione come ispettore alle antichità e belle arti,
ottenendo un primo incarico alla Galleria Borghese di Roma, per poi passare alla
Soprintendenza di Napoli e infine, nel 1939, alla Galleria nazionale d’arte moder-
na di Roma dove rimarrà come soprintendente fino al 1975. Convinta di svolge-
re una missione educatrice di tutti i cittadini senza distinzioni sociali, d’età e di
genere, negli anni difficili della ricostruzione postbellica Palma conduce battaglie
per l’affermazione dell’arte contemporanea (anche nelle sue manifestazioni più
estreme) presso il grande pubblico e per la sua salvaguardia, valorizzazione e divul-
gazione da parte dello Stato.
Poco prima della sua morte, Bucarelli ha donato all’Archivio centrale dello
Stato le sue carte personali – quaderni di scuola, manoscritti di saggi, appunti per
mostre e conferenze, fotografie, taccuini di viaggio, inviti, biglietti d’auguri ecc.
–, compresi diversi carteggi amorosi che fanno luce su una vita privata e affettiva
controcorrente rispetto alla moralità tipica del modello famigliare italiano. Grandi
amori, sì, per Palma Bucarelli, e anche un matrimonio, ma niente figli e nessuna
convivenza. Una vita da single, dunque, forse la condizione obbligata per una
donna che, fra anni Trenta e Settanta, ha deciso di non risparmiarsi sul lavoro,
raggiungendo, prima nel nostro Paese, i vertici della pubblica amministrazione.
Alcuni aspetti del nostro discorso, mettendo in relazione sfera pubblica e pri-
vata, – soprattutto l’attenzione storiografica verso l’educazione affettiva dei nostri
più vicini “progenitori” culturali (come sottolinea Leuzzi, curatrice del Panel) –
suggeriscono di applicare la categorie della “sovversività” e della “scissione” degli
affetti al caso Bucarelli. L’emancipazione dallo schema sociale della famiglia è un
tema che Palma affronterà lungo tutta la vita, ora perché in fuga dalla famiglia
d’origine che la vorrebbe vedere uscire di casa in abito bianco, ora perché im-
pegnata in relazioni con uomini sposati, ora perché troppo presa dagli impegni
professionali.
Già negli anni Trenta Palma si concentra sul rapporto con la casa e con la
famiglia: si oppone a questi due pilastri dell’educazione femminile, rivendica il
76
diritto alla solitudine, alla gestione autonoma dei propri spazi interiori e degli am-
bienti fisici dove esprimersi. Una posizione che cozza con abitudini e sentimenti
che ancora temono strappi dolorosi.
I problemi son sempre gli stessi, la casa e la famiglia mi dan sempre più fastidio, i
miei libri e le mie robe in eterno disordine per mancanza di spazio, con un senso
di provvisorio che dura da anni e per cui non trovo la soluzione, mi rendono
nervosa e mi tolgono ogni entusiasmo di vivere e di lavorare. […] l’idea che io mi
prenda una casa sola per me, qui a Roma […] sarebbe un gravissimo colpo per i
miei con le idee e i principi sociali e morali che hanno loro e che del resto hanno
più o meno tutti i genitori. Chiedere il trasferimento a Milano è minor male
ma anche questo è un passo difficile da fare. […] nella vita bisognerebbe sempre
avere il coraggio di dare degli strappi netti e definitivi e invece si cercano sempre
dei compromessi, degli accomodamenti per salvare tutto, le idee, i sentimenti, le
necessità, i ricordi e così in questi vani tentativi il tempo passa e si aggiungono
per di più i rimpianti103.
Nel corso dei decenni il mondo della cultura italiana ha favoleggiato attorno
al personaggio della Bucarelli, all’atteggiamento spregiudicato (degno di un uomo
e poco intonato alla tradizionale remissività femminile) assunto sul lavoro e disin-
volte relazioni sentimentali, alla sua prepotente autorità culturale vs un’autorevo-
lezza intellettuale più volte messa in dubbio e attribuita agli uomini che l’hanno
amata, fiancheggiandola nella sua carriera. Da qui emergerebbe il profilo di una
donna in carriera spregiudicata, che gestiva la sua avvenenza fisica puntando al
mantenimento e all’accrescimento della posizione lavorativa e sociale: «Avevo, è
vero, un certo senso dell’autorità e grazie al mio aspetto e alla mia competenza
mi facevo rispettare»104. Certo quella bellezza altera strideva con l’impiego nel-
la pubblica amministrazione che l’avrebbe voluta bruttina e austera, più adatta
all’ambiente burocratico-ministeriale nei cui corridoi c’erano poche donne, mai
promosse dirigenti, ingrigite da un’esistenza spesa fra casa, ufficio, biblioteca e,
magari, chiesa, mortificate nella loro femminilità, spesso prive di prospettive
sentimentali, matrimoniali o anche solo sessuali: «è così carina che è un lustro
della sua classe, altrimenti così squallida d’aspetto»105. Per lei quindi era diverso:
bella, elegante, mondana, sportiva, single, colta, loquace, in carriera: «I giornali
77
mi dedicavano articoli spesso provocatori come uno della “Fiera letteraria” che si
intitolava Il complesso del comando e si divertivano a descrivere dettagliatamente le
mie toilette»106. Qualcosa di strano doveva esserci in quel personaggio: per molti
diventò un idolo di novità e intelligenza, ma per molti altri il simbolo di un cedi-
mento dei costumi, del rifiuto spudorato del focolare domestico.
Mi sembra interessante valutare il peso che i detrattori della Bucarelli hanno
dato alle sue relazioni sentimentali con uomini di una certa notorietà. Siamo di
fronte al solito pregiudizio che vuole una donna bella, sola e di successo necessa-
riamente aiutata da favori sessuali. È su questo intreccio fra carriera e sentimenti
(di cui oggi rimane vasta testimonianza diaristica ed epistolare) che il lavoro sto-
riografico può concentrarsi con profitto. Un primo spunto si ricava dall’atto di
donazione del suo archivio, con il quale la Bucarelli ha mostrato di ritenere che
per una ricostruzione della sua storia di donna “diversa” fosse fondamentale met-
tere in relazione pubblico e privato. Del resto si era mossa nella stessa prospettiva
rileggendo un suo diario del 1944 e decidendo di pubblicarlo nel 1997107.
Questo tipo di indagine richiede uno scavo nelle relazioni della Bucarelli con
quattro uomini centrali nella sua vita: lo storico dell’arte Arduino Colasanti, il
giornalista e scrittore Paolo Monelli, il medico Cesare Frugoni, lo storico dell’arte
Giulio Carlo Argan. Si tratta di declinazioni del rapporto sentimentale, amoroso
ed erotico, ma anche intellettuale, atipiche in un contesto ancora chiuso come
quello dell’Italia d’allora; quattro relazioni sovversive se ripercorse attraverso la
memoria che la stessa Bucarelli ha voluto lasciarne. Tenere un diario è un gesto let-
terario atto a conservare la memoria di qualcosa; anche la lettera può avere questa
funzione; una funzione che si amplifica se questi documenti vengono conservati
negli anni scegliendo infine di donarli ai posteri, collocandoli in un luogo di pub-
blica fruizione e stabilendone così definitivamente la natura di fonti storiografiche
liberamente consultabili.
Del primo innamoramento della giovanissima Palma, quello per Arduino Co-
lasanti, direttore generale delle antichità e belle arti e docente a “La Sapienza”, si
sono conservati pochi documenti e molte chiacchiere. È la tipica storia dell’allieva
giovane, bella, intelligente e determinata che, innamorata del professore, ne diven-
ta l’amante. Traccia del primo incontro fra i due è in una lettera di Palma all’amico
giornalista Vittorio Gorresio:
78
una sconfinata ammirazione per lui. Mi appariva come una specie di nume irrag-
giungibile, ed ora siamo diventati amicissimi108.
Lei ha 22 anni, lui 55 ed è sposato. Fra i due nasce una storia d’amore e
Palma, che l’anno successivo vince il concorso al Ministero, comincia a essere ad-
ditata come un’avventuriera guasta-famiglie. Le calunnie culminano al momento
della morte improvvisa di Colasanti, nel 1935. Inizia da qui quello che per Palma
sarà un incontrastabile destino di “amante” di uomini sposati.
Aprile 1936. Palma conosce Paolo Monelli, autorevole firma del Corriere della
Sera. Lei adesso ha 26 anni, lui 45 ed è sposato. È il primo uomo che riesce a farle
superare la sofferenza d’amore per Colasanti. Nel diario del 1938, Palma scriverà:
«sono tutta presa da Paolo, penso sempre a lui. È un uomo veramente eccezionale,
come Arduino. Dio mio, che solo a dire questo nome, sento una pena profonda.
Non dimenticherò mai» (20 maggio 1938). E ancora: «Discussioni con Paolo. […]
Io credo che lui sia soprattutto geloso di questo mio mondo e del mio amore passato
per un grande storico e critico d’arte» (8 giugno 1938). I primi anni del carteggio
con Monelli, sono scanditi dal senso di attesa da parte di lei, dall’ansia per la con-
quista di una libertà di coppia e di una vita alla luce del sole che arriverà solo molti
anni dopo: «mi ha di nuovo telefonato da Parigi, qui, in ufficio e dice che verrà
sabato e che lunedì dovrà essere in tribunale per la causa di separazione. Dio mio,
che grave responsabilità mi son presa. Ho guastato tutta la sua vita tranquilla. E poi
che ce ne faremo di questa parziale libertà? Non è divorzio ed io non posso sposarlo»
(1 giugno 1938). In questo periodo per Palma il matrimonio sembra ancora un
traguardo sociale: «Vorrei sposare un principe o comunque un bel nome, un bel
titolo, con palazzo e galleria d’arte» (24 maggio 1938). Quando finalmente Monelli
decide di stabilire la sua residenza a Roma, forse è superata la fase degli «innamorati
senza tetto»109, Palma gli trova un appartamento e, come una brava moglie, ne cura
la ristrutturazione e l’arredamento. Quella casa sarà il loro segreto nido d’amore, ma
non sarà mai la dimora ufficiale di una coppia ufficiale. In questo frangente la Bu-
carelli manifesta più volte il desiderio di una vita sentimentale e familiare regolare,
ma è come posseduta da un senso di solitudine determinato dall’irregolarità dei suoi
rapporti. Una solitudine che lei ama e odia nello stesso tempo: «soffro molto della
situazione e del passato che ha influenzato tutta la mia vita» (20 maggio 1938). Gli
impegni per l’organizzazione domestica nell’appartamento romano di Monelli (che
è stato richiamato alle armi ed è inviato di guerra) sembrano le prove generali di un
matrimonio, ma non è così. Ancora pagine di diario:
79
Non ho fatto, in tutto questo tempo, che correre per i negozi, i tappezzieri, fare
conti, andar dagli antiquari, comprare, scegliere, comprare, e le sere a innaffiare
i fiori sulla terrazza. È emozionante, è divertente, ma faticoso. Non posso occu-
parmi d’altro. Son diventata una massaia. Compro asciugamani, piatti, bicchieri,
stuoini, lampade. Ma poi son contenta. P. sarà contento di me. La sera, quando
vado ad innaffiare è già tardi e rimango fino a buio che ora viene alle nove passate.
Allora è triste, così sola, al crepuscolo, con tutta Roma che s’immerge poco a poco
nelle ombre azzurrine e la casa è ancora vuota, disabitata e mi metto a pensare a
P. alla situazione che non si risolve, a tante cose malinconiche, mentre le rondini
fanno volo pazzo attorno. E poi che angoscia saperlo sul mare, in guerra, in peri-
colo (4-20 luglio 1940).
Amore mio […] Ieri ero all’Opera a sentire il Tristano e Isotta […] è il più me-
raviglioso canto d’amore che mai l’umanità abbia espresso, insieme a quello di
Dante per Paolo e Francesca, mi dava il senso dell’ineluttabilità del nostro amore.
Purtroppo però la storia non è lieta; è sempre quella, degli amanti che non si
possono amare, che la vita separa; non finisce bene come nei film americani. Così
la tragedia che pesa sull’amore di Isotta e Tristano trovava naturale rispondenza
nel mio cuore. Avrei perciò voluto sentirla con te, questa musica e poterti aver
vicino dopo, magari per andare a bere ed annegare la disperazione cercando di
consolarci con dolci menzogne110.
110 Lettra di P. Bucarelli a P. Monelli, da Roma a Parigi, 5-6 gennaio 1938 [ma 1939].
111 Artom, S.; Calabrò, A.R. op. cit., p. 103.
80
Eppure, nei mesi bui dell’occupazione tedesca, per Palma si era aperta la pos-
sibilità di un amore coronabile col matrimonio. Cesare Frugoni, direttore dell’I-
stituto di medicina generale a “La Sapienza”, suo medico personale, le fa una corte
serrata, ha 63 anni ed è celibe, sembra il principe azzurro che pure una volta ha so-
gnato, ma Palma non riesce a innamorarsene. Lucida, consapevole della situazione
e delle esigenze della sua persona e del suo corpo, Palma annota nel suo diario:
[Cesare Frugoni] È veramente innamorato nel modo più profondo e più tenero,
aimè. Io avevo bisogno solo di fare all’amore, poiché Paolo non può, per ora,
ma non di un innamoramento sentimentale ché per quello Paolo mi basta» (23
giugno 1944).
«Io non sono punto innamorata ma [Cesare Frugoni] è meglio di un altro visto
che ogni tanto bisogna pur fare anche quelle cose. E lui è delicato e segreto come
raramente si trova» (7 luglio 1944)112.
Io non posso vedere troppo spesso neppure le persone che amo di più, finisco per
odiarle (10 luglio 1944);
Sto così bene sola (16 luglio 1944)
Ma io trovo che se non è per far l’amore è molto scomodo dormire insieme e
proprio assurdo (18 luglio 1944).
Paolo venuto a colazione da me. Sono ormai parecchi giorni che viene o a cola-
zione o a cena. Io non vorrei […] s’è troppo abituato a me e io a lui, bisogna che
non diventiamo come marito e moglie (27 luglio 1944).
È una distrazione necessaria, per me, Cesare, e niente più, purtroppo. Non amo
più Paolo, o almeno non mi attira più il pensiero di far all’amore con lui e non
m’interessa Cesare. Mi sembra di avere, da quel punto di vista lì, novant’anni. In-
vece mi interessa enormemente quel che succede, e tutta la politica, e la frana, e la
ricostruzione e le questioni che si dibattono sui giornali […]Faccio all’amore ogni
tanto perché mi pare che non debbo poi rimpiangere questo tempo di giovinezza
112 Bucarelli, P. 1944: cronaca di sei mesi cit., pp. 43, 44, 50.
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e far tutto quanto è possibile, ma non posso proprio dire che mi diverta e non
sento nulla. Penso ad altro. Bisognerebbe che tutti o la maggior parte degl’italiani
fossero come me; le cose andrebbero meglio perché s’occuperebbero seriamente
d’altro (31 luglio 1944)113.
Infine, quando una chiromante le predice che sposerà Paolo Monelli e avrà
un figlio, lo annota sul diario (2 agosto1944) ma non gli dà grande importanza.
Sembra una bambina che ha finito di credere alle favole.
Passano ancora gli anni, Palma è oramai a suo agio nel ruolo di amante e
gestisce abilmente la precarietà della sua vita intima, salda nel suo «essere in pie-
no nel mondo»114, forte e sicura di sé quando il suo vecchio compagno di studi,
Giulio Carlo Argan, come lei cinquantenne, decide di rivelarle tutto il suo amore.
Siamo fra il 1959 e il 1960, Argan è sposato e scrive a Palma lettere straordinarie,
da adolescente al primo innamoramento. Soprattutto i due hanno importanti in-
teressi in comune, a cominciare dalla lezione di Lionello Venturi per non parlare
della passione per Jean Fautrier e Alberto Giacometti. Le vicende di questo amore
serpeggiano malevolmente negli ambienti dell’intellighenzia italiana, c’è chi dice
che il libro di Palma su Fautrier pubblicato dal Saggiatore con prefazione di Un-
garetti sia stato scritto da Argan. Niente di più facile e scontato che attribuire i
meriti intellettuali di una bella donna all’uomo che le sta accanto, per di più in
segreto. Si ripetono i pettegolezzi di anni prima, quando s’era mormorato che la
vittoria di Palma al concorso del 1933 era stata facilitata dal suo rapporto con
Arduino Colasanti. Al contrario, il sodalizio Bucarelli-Argan procede sulla base di
un dialogo culturale svoltosi in buona parte fra le righe di un carteggio che oggi
rivela l’autonomia del lavoro intellettuale di lei.
In questi frammenti di vita sentimentale ci sembra di poter scorgere i sinto-
mi, progressivamente chiarificatisi, di un percorso di emancipazione da un’idea
monolitica di amore che per la donna, ancora fino a tutti gli anni Sessanta, voleva
dire prevalentemente matrimonio. Palma Bucarelli sembra segnare un passaggio
importante nella chiarificazione di una visione sovversiva del rapporto sentimen-
tale e di quello erotico dal punto di vista femminile. Una sovversività che per lei è
diventata norma e di cui ha voluto lasciare memoria, ma che per molti non ha mai
superato il limite dell’immoralità e dell’illiceità.
82
Annamaria Laserra
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87
88
Carla Perugini
1 Luis de Milán, Libro de motes de damas y caballeros en la corte valenciana de la Reina Doña Ger-
mana, Valencia, Francisco Díaz Romano, 1535, “Prólogo”, Aii (riproduzione facsimile, Valencia,
París-Valencia, 1982).
mente intitolata Obra contra los torrellistas, in lode delle donne, tanto migliori del
maschio da suscitargli invidia: «no sé como no se muere/de envidia de ser mujer»2.
Una volta usciti, però, dal topos letterario, scopriremmo che nella realtà dome-
stica e sociale di queste coppie d’amanti, la relazione uomo-donna non si discosta-
va affatto dal tradizionale binomio supremazia maschile/ sottomissione femminile
che non mancò di contraddistinguere la pur laica e gaudente società rinascimen-
tale. Milán e Heredia sono autori di due fra le opere più rappresentative dell’am-
biente vicereale dei primi decenni del Cinquecento, La visita3 e El Cortesano4. En-
trambe di genere drammatico, in quanto dialogate e scandite in parti autonome,
animate da frequenti cambi di scene e travestimenti, hanno come protagonisti
quegli stessi aristocratici, servitori e buffoni che, nella realtà storica, abitarono gli
sfarzosi palazzi della nobiltà e dei viceré di Valencia, carica di cui, per ben tre volte,
fu investita Germaine de Foix. Dall’incrociato gioco di specchi, dunque, storico
e letterario, in cui si riflette la realtà dell’epoca, la figura di Germana si mostra di
volta in volta magnificata e vilipesa, regina di cuori nei versi dei poeti, spietata ese-
cutrice della repressione imperiale nei confronti dei ribelli nei documenti storici.
2 Juan Fernández de Heredia, Obras, Edición, prólogo y notas de Rafael Ferreres, Madrid, Espasa-
Calpe, 1955, p. 32.
3 Il titolo completo recita: Coloquio en el cual se remeda el uso, trato y pláticas que las damas en
Valencia acostumbran hazer y tener en las visitas que se hazen unas a otras. Rappresentato nel 1524,
fu pubblicato nel libro postumo Obras de Juan Fernández de Heredia tanto profanas como sagradas
(Valencia, 1562).
4 Scritto intorno al 1535, ma probabilmente rivisto in seguito, il libro fu pubblicato nel 1561 a
Valencia, presso Juan de Arcos.
5 Rosa E. Ríos Lloret, Germana de Foix. Una mujer, una reina, una corte, Valencia, Biblioteca
Valenciana, 2003, p. 46.
90
generale in sua assenza col potere di convocare le Cortes, che arrivò a presiedere,
nel 1515, durante la malattia di Fernando. Le speranze di quest’ultimo di avere
un erede da contrapporre alle pretese al trono del genero Filippo il Bello e poi del
nipote Carlo naufragarono alla morte, appena dopo la nascita, dell’infante avuto
da Germana. Successivi tentativi furono causa, secondo le calunnie sparse sulla
giovane sposa da cronisti castigliani, del decesso del re, avvelenato da una pozione
afrodisiaca. Germana non avrebbe avuto altri figli.
Il nuovo re di Spagna la accasò nuovamente, nel 1519, con il fratello di un
grande elettore tedesco, da cui sperava di ottenere il voto per l’impero asburgico.
Questo secondo matrimonio, con il Marchese Giovanni di Brandeburgo, non do-
vette essere molto felice, a giudicare dalle chiacchiere riportate dai cronisti sulle
infedeltà del marito e sullo spregiudicato uso che fece delle rendite della moglie,
che praticamente dilapidò6. La coppia viaggiò molto attraverso l’Europa al seguito
dell’imperatore, assistendone anche all’incoronazione in Aquisgrana7. Al ritorno
in Spagna, Germana ricevette nuovamente l’incarico di luogotenente in una Va-
lenza sconvolta dalla rivolta delle germanías, mentre il Marchese veniva nominato
Capitano Generale. Egli morì dopo pochi anni, nel 1525, in concomitanza con
l’arrivo del re di Francia Francesco I, sconfitto dall’esercito imperiale nella recen-
te battaglia di Pavia, e condotto, lussuoso prigioniero, in Spagna. Se a Valenza
Germana non era potuta andare a ricevere l’illustre ostaggio perché impegnata al
capezzale del suo sposo, una volta vedova raggiunse la corte imperiale a Illescas,
dove accompagnò la sorella prediletta di Carlo, Leonor, promessa sposa del re di
Francia, nelle cerimonie e nelle feste8. Fu qui che incontrò nuovamente il duca
di Calabria, a cui certa storiografia vuole che l’avesse già legata un amore di gio-
ventù9. Se dunque i primi due matrimoni furono accettati per opportunità poli-
tica e obbedienza all’autorità monarchica, il terzo (anch’esso peraltro combinato
dall’imperatore, che voleva assicurarsi la riconoscenza di un possibile aspirante al
trono di Napoli)10 fu accolto di buon grado da Germana e forse accompagnato
da qualche sentimento non convenzionale. Tuttavia anche quest’ultima unione fu
oggetto di derisione e di scherno, sebbene, essendo ella premorta al marito, perlo-
meno sfuggisse all’ennesima accusa di avvelenamento nei suoi confronti, com’era
successo con Fernando il Cattolico, col marchese di Brandeburgo nonché con il
contestabile di Castiglia, Bernardino Fernández de Velasco, questa volta per «ven-
6 Ibidem, p. 93.
7 Luis Querol y Roso, La última reina de Aragón, virreina de Valencia, Valencia, Imprenta José
Presencia, 1931, p. 68.
8 Ibidem, p. 98.
9 Ibidem, pp. 104-105.
10 Rosa E. Ríos Lloret, Germana de Foix cit., p. 90.
91
garse de cierta ofensa que le infingiera a ella»11. Benché chi ci andasse a guadagnare
dal matrimonio fosse il malmesso erede napoletano, le opinioni dei cronisti e dei
diplomatici dell’epoca non mancarono di infierire sulla regina, questa volta criti-
cando spietatamente la dispari avvenenza dei coniugi, essendo Fernando conside-
rato un affascinante e coltissimo principe e la sposa «una corpulenta vieja», come
scriveva l’ambasciatore Giovanni Dantisco al re di Polonia12. Dunque, pur essendo
entrambi i coniugi nati nel 1488, lei, e lei soltanto, a trentott’anni era considerata
vecchia. E non solo: pure grassa, il che, evidentemente, anche in epoche lontane
dal contemporaneo assillo per la linea, era motivo di pregiudizio e condanna. La
cronaca burlesca di Francesillo de Zúñiga riporta grotteschi aneddoti per ridicoliz-
zare le abnormi forme della viceregina, come quando, per una scossa di imprecisa-
ta origine al suo letto, sprofonda giù per un paio di piani seppellendo due cuochi
sotto di sé13, «mole inmensa de carne», come ribadisce Dantisco al suo re14.
Passando dai documenti storici a quelli letterari, vi si può apprezzare un at-
teggiamento affatto diverso nei confronti di Germana, rappresentata, alla stregua
dei consorti, come persona affabile e cortese, ospitale e dotata di senso dell’umori-
smo. Nella Visita di Fernández de Heredia, in un battibecco bilingue fra la Señora
Hierónima e la criada Guzmana, si oppongono alle magre castigliane («¿Y vos no
us deveu mirar/quant seca stau y perduda?»)15, le prosperose signore valenziane,
«atunes hechas,/que me espanto como van»16. Il colloquio, inizialmente rappre-
sentato dinanzi alla regina Germana e al marchese di Brandeburgo, viene anni
dopo disinvoltamente offerto ai nuovi viceré, stavolta nelle persone del Duca di
Calabria e della sua seconda moglie, Doña Mencía de Mendoza, che le cronache
ci descrivono di dimensioni smisurate, tanto che, alla sua morte, si dovettero pren-
dere misure eccezionali per seppellirne il corpo, così abnorme che «es cosa certa
que cabíen en cada calsa de dita senyora Duquesa sis almuts de forment»17. Eppure
Mencía, marchesa di Zenete, viene ricordata piuttosto per la protezione accordata
agli umanisti, l’inizio del collezionismo pittorico, le inclinazioni erasmiste, le de-
diche da parte di scrittori e musicisti, la natura pietosa e devota, mentre di Germa-
na, che pure protesse le arti, ricevette omaggi letterari ed ebbe indubbie capacità
92
18 Vd. Foronda y Aguilera, M. Estancias y viajes del Emperador Carlos V: desde el día de su nacimiento
hasta el de su muerte: comprobados y corroborados con documentos originales, Madrid, Sucesores de
Rivadeneyra, 1914, p. 109.
19 «No había en España quien tantos y tan buenos músicos tuviese […] un gran músico forastero,
[…] oído e informado de la renta del Duque, dixo: Para tan chica capa, gran capilla es ésta», Timo-
neda, J. El sobremesa y alivio de caminantes, Valencia, Joan Navarro 1569 cit. in Romeu i Figueras,
J. “La cort musical del Duc de Calàbria”, in Miscel.lània homenatge a Rafael Martí de Viciana en el V
centenari del seu naixement 1502-2002, Valencia 2003, p. 421.
20 Vd. Oleza Simó, J. “La Valencia virreinal del Quinientos: una cultura señorial”, in Teatro y
prácticas escénicas. I: El Quinientos valenciano, Valencia, Institució Alfons el Magnànim, 1984, p.
66; Griffiths, J. Luis Milán, Alonso Mudarra y la canción acompañada, “Edad de Oro”, XXII (2003),
pp. 7-28; Romeu Figueras, J. Mateo Flecha el Viejo, la corte literariomusical del duque de Calabria y el
Cancionero llamado de Upsala, “Anuario Musical”, XIII, 1958, pp. 25-101.
21 Pinilla Pérez de Tudela, R. Valencia y Doña Germana. Castigo de agermanados y problemas religiosos,
Valencia, Consell Valencià de Cultura, 1994, p. 28.
93
2. Del mondo della letteratura, idealizzato anche quando possieda tratti “realisti” (e
El Cortesano ha subito questo travisamento, fino a più recenti riletture critiche)24,
non entrano a far parte ribellioni dei sudditi all’autorità, rivendicazioni economi-
che o associazionismi popolari. Men che mai vi entreranno, con le mani lordate di
sangue, quegli stessi personaggi aristocratici, sulle cui vesti o armature si potevano
scorgere ingegnose invenzioni verbali o criptiche allusioni cromatiche alla persona
amata, e la cui massima crudeltà s’esercitava nei confronti di cervi o cinghiali in-
seguiti nelle defatiganti cacce nei dintorni di Valencia, o in tornei d’amore contro
turchi altrettanto idealizzati. Ma fuori dalle pagine dei libri, dalle partiture musicali
o dai saloni delle feste, tutto un mondo di artigiani, piccoli industriali, mercanti, or-
dini mendicanti, andava incubando rancori verso una sperequata amministrazione
della giustizia, un vessatorio ordinamento fiscale, una crisi sempre più evidente del
sistema corporativo del lavoro (quello dei gremios), messo in crisi dalla concorrenza
di lavoratori stranieri svincolati dalle corporazioni, lamentando altresì l’esclusione
dall’amministrazione del municipio e la proibizione di armarsi, nonostante che un
22 Ríos Lloret, R.E. “Iniust es l’oblit. Germana de Foix, una reina desdenyada”, in Ríos Lloret, R.E.;
Vilaplana Sanchis, S. (eds.), Germana de Foix i la societat cortesana del seu temps, Valencia, Biblioteca
Valenciana, 2006, p. 33.
23 «Todos los alicientes del renacimiento italiano, todos los refinamientos de una civilización sutil se di-
fundieron por la ribera del Turia a partir del día en que él se estableció allí. Nadie podía haber revestido
su poder de un tono tan amable, y raramente dos países encontraron un intermediario tan fascinante»,
Mérimée, H. El arte dramático en Valencia desde los orígenes hasta principios del siglo XVII (1913), Va-
lencia, Institució Alfons el Magnànim, 1985, I, p. 94; «La Corte virreinal valenciana alcanzó su punto
más álgido con la llegada de Don Fernando de Aragón», Martí Ferrando, J. “La Corte virreinal valen-
ciana del Duque de Calabria”, in Reales Sitios, año XL, 158, 2003, p. 20; «Però l’esclat i la magnificència
en els costums i les festes, la força d’atracciò de l’element selecte valencià i de la noblesa, el conreu de
les activitats artístiques i el gust daleròs per una vida cortesana més subtil, s’accentuen poderosament
en temps del duc de Calàbria, el tercer marit de Germana, el napolità refinat que volgué transplantar
en l’aire rient i sensual Valencià l’ambient de les corts italianes en plena florida renaixentista», Romeu i
Figueras, J. “Literatura valenciana en «El Cortesano»” in Revista Valenciana de Filología, 4, 1951, p. 317.
24 Vd. Solervicens Bo, J. El diàleg renaixentista: Joan Lluís Vives, Cristòfor Despuig, Lluís del Milà, An-
toni Agustí, Barcelona, PAM, 1997; Sánchez Palacios, E. “Lluís del Milà i Ioan Fernàndez d’Herèdia
a la cort dels ducs de Calàbria (València 1526-1550)”, in Miscel.lània homenatge cit., pp. 433-459;
Escartì, V.J. “Estudi introductori a Lluís del Milà”, El Cortesano, Biblioteca Valenciana, Universitat
de València, 2001, I, pp. 11-54.
94
25 Vd. Vallés Borràs, V.J. La Germanía, Valencia, Instituciò Alfons el Magnànim, 2000.
26 Ivi, pp. 192-197.
27 Martí Ferrando, J. El poder sobre el territorio (Valencia, 1536-1550), Valencia, Generalitat Valen-
ciana, 2000, p. 77.
95
28 García Cárcel, R. “Germana de Foix y las Germanías”, in Ríos Lloret, R.E.; Vilaplana Sanchis,
S. (eds.), Germana de Foix cit., p. 45.
29 de Viciana, M. Libro cuarto de la Crónica de la ínclita y coronada ciudad de Valencia y de su reino
(1566), edició a cura de Joan Iborra, València, Universitat de València, 2005, pp. 546-555.
30 Faulí, J. Germana de València, segona muller de Ferran «el Catòlic», Barcelona, Rafael Dalmau,
1979, pp. 36-45.
31 Ríos Lloret, R.E.; Vilaplana Sanchis, S. “En torno al retrato de Doña Germana de Foix, del
Museo de Bellas Artes de Valencia”, in Archivo de Arte Valenciano, LXXXIII, 2002, p. 37.
96
Marina Lops
«Because it was Her Majesty’s will to have them blackmores at first, the invention
was derived by me and presented thus»32. Così scrive Ben Jonson nella nota in-
troduttiva che precede l’edizione in quarto di The Masque of Blackness, il primo
dei ventotto masques composti dall’autore e soprattutto lo spettacolo che segna il
suo esordio presso la corte degli Stuart e l’inizio della feconda quanto burrascosa
collaborazione col grande architetto e scenografo Inigo Jones.
A interessarci, nella citazione, è il riconoscimento esplicito del ruolo della
sovrana nell’ideazione dell’opera. È un’ammissione tanto più significativa perché
proviene da un poeta che tenacemente perseguì una nozione forte di authorship,
che per primo curò un’edizione completa delle proprie opere e che un nuovo sta-
tuto conferì all’identità del letterato.
Andata in sposa a Giacomo VI di Scozia nel 1589, Anna di Danimarca ascese
al trono d’Inghilterra nel 1603, quando, alla morte di Elisabetta, Giacomo unificò
nella propria persona le due corone di Scozia e Inghilterra, proclamandosi “re di
Gran Bretagna”. Amante delle lettere e protettore delle arti, Giacomo I, come
venne chiamato, fece della propria corte un centro di cultura e fu prodigo nel sov-
venzionare cerimonie sontuose, destinate a celebrare la regalità attraverso masques
in cui la sfarzosità degli allestimenti e il sorprendente gioco degli effetti scenici
proiettavano nelle forme dell’immaginazione la natura trascendente di un potere
che si diceva diretta emanazione della volontà divina.
32 Jonson, B. “The Masque of Blackness”, in Jonson, B. Masques, a cura di Amato, A., Roma, Bul-
zoni, 1966, 2 voll., vol. I, p. 87. Tutte le citazioni saranno tratte da questa edizione.
33 Tra gli studi più rilevanti in tale ambito si ricordano in particolare: Bevington, D.; Holbrook,
P. (eds.), The Politics of the Stuart Court Masque, Cambridge, Cambridge University Press, 1998;
Barroll, L. Anne of Denmark, Queen of England: A Cultural Biography, Philadelphia, University of
Pennsylvania Press, 2001; McManus, C. Women on the Renaissance Stage: Anna of Denmark abd
Female Masquing at the Stuart Court, Manchester, Manchester University Press, 2002.
34 Barroll, L. Anne of Denmark cit., p. 3.
98
99
bellezza capace di vincere il tempo «since Death herself, herself being pale and
blue, can never alter their most faithful hue» (vv. 175-6). Al mito di Fetonte, pro-
pagato dalla parola dei poeti per affermare l’idea di una umanità originariamente
bianca e quindi divenuta nera in una sua parte perché esposta all’effetto delle
fiamme precipitate dal carro del Sole, l’appassionata perorazione del Niger oppone
dunque l’idea di una primogenitura della razza nera. Ripresa da Diodoro Siculo,
come Jonson ci ricorda in una nota al testo, tale idea implica di fatto la nozione di
un primato estetico del nero in cui l’opposizione con il bianco si riflette nei termi-
ni del contrasto fra natura e artificio, riprendendo e ampliando un topos poetico
allora in voga, basti pensare al sonetto shakespeariano che inaugura la sequenza
della dark lady (sonetto 127) e nel quale il nero è proclamato «beauty’s successive
heir», erede per successione, e dunque legittimo, della bellezza.
Danese per nascita, regina di Scozia prima che d’Inghilterra, Anna sceglie
dunque di appropriarsi di un paradigma culturale in cui la sovrapposizione delle
categorie di nero/donna/bello produce l’immagine di una sovrana che si autorap-
presenta nei termini di una alterità che il discorso del Niger carica di valori positi-
vi. Non solo, se tale scelta si lascia fondamentalmente interpretare come espressio-
ne del desiderio di proiettare sul piano simbolico il senso di una identità personale
e politica distinta rispetto a quella del re, va anche sottolineato come l’adozione
di una veste “africana” richiami di fatto una tradizione sia scozzese sia inglese di
spettacoli di corte caratterizzati dalla presenza di africani, o di personaggi travestiti
da neri. Tra tutti si ricorda qui il cosiddetto “Tournament of the Black Knight and
the Black Lady” che aveva luogo presso la corte di Giacomo IV di Scozia (1473-
1513) e in cui il ruolo della “Black Queen of Beauty”, sontuosamente abbigliata a
sottolinearne il potere seduttivo, era affidato a Elen More, una donna africana al
servizio della regina, Margaret Tudor36.
Questa prima parte del masque giustappone quindi i due paradigmi culturali
rispettivamente enunciati dalla parola dei poeti e da quella del Niger; nel farlo
sembra attribuire al secondo lo statuto di verità, degradando il primo a mera men-
zogna (le winged fiction di cui si diceva). Tale relazione però muta presto di segno,
perché il registro dell’argomentazione retorica che sfrutta le capacità persuasive del
linguaggio, e che ha nel personaggio del Niger un suo nobile interprete, nulla può
dinanzi all’irruzione del numinoso, di un miracolo che interviene a confermare
«by miracle, what I [il Niger], with so much strength of argument resisted» (vv.
212-3).
36 Su questo cfr. Andrea, B. “‘Black Skin, The Queen’s Masques: Africanist Ambivalence and Fe-
minine Athor(ity) in the Masques of Blackness and Beauty”, in English Literary Renaissance, n. 29,
1999, pp. 246-81; Aasand, H. “‘To blanch and Ethiop and revive a coarse’: Queen Anne and The
Masque of Blackness”, in Studies in English Literature, n. 32, 1992, pp. 271-85.
100
101
37 Cfr. Vélez Nûñez, R. “Beyond the Emblem: Alchemical Albedo in Ben Jonson’s The Masque of
Blackness”, in Sederi, n. 8, 1997, pp. 257-62.
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Michele Bottalico
Nella storia del soggetto femminile quale si evolve nel periodo rivoluzionario,
Abigail Adams, moglie del secondo e madre del futuro sesto presidente degli
Stati Uniti, si connota come figura di transizione che segna il passaggio dal
ruolo di ineludibile dipendenza dal marito e di devota sottomissione all’univer-
so maschile, imposto dalla sopravvissuta etica puritana, a un atteggiamento di
pubblica e più determinata ribellione della donna. Più tardi, nel 1848, l’impulso
innovatore troverà una prima più decisa espressione di rilievo nella convention
di Seneca Falls, oggi ritenuta il punto di partenza del Movimento femminile.
In tale occasione l’attivista Elizabeth Cady Stanton legge una combattiva De-
claration of Rights and Sentiments modellata anche in termini linguistici sulla
Dichiarazione di Indipendenza, sovvertendone l’impostazione androcentrica, in
cui per esempio sostituisce ad all men are created equal la dizione all men and
women are created equal.
Non è a simili livelli di progressismo e di matura consapevolezza politica che
giunge Abigail Adams, persona dal carattere instabile e umorale, erudita e avida
lettrice sebbene di formazione culturale autodidattica, incline a esercitare un rigi-
do controllo sui membri della famiglia malgrado li esortasse all’autonomia, enun-
ciatrice di alcuni diritti femminili eppure non priva di una visione conservatrice
della donna, che riteneva dovesse soprattutto sovrintendere all’ambiente dome-
stico. Fervente patriota e fautrice dell’indipendenza negli anni della Rivoluzione,
successivamente Adams si mostra ostile a chiunque si opponga criticamente al
governo federale e diventa perfino sostenitrice della necessità di abolire la libertà di
stampa, tanto che una biografa odierna non esita a definirla reazionaria per i com-
38 Cfr. Withey, L. Dearest Friend: A Life of Abigail Adams, New York, Simon & Schuster, 2002, p. IX.
39 Shuffelton, F. Introduction to The Letters of John and Abigail Adams, edited with an Introduction
and Notes by F. S., New York, Penguin, 2004, p. X. Tutte le citazioni sono tradotte da chi scrive.
40 Gelles, E.B. Abigail Adams: A Writing Life, London, Routledge, 2002, p. 10. Gelles è autrice di
altre due biografie tematiche (Portia: The World of Abigail Adams, Bloomington & Indianapolis, In-
diana University Press, 1992; e Abigail and John: Portrait of a Marriage, New York, William Morrow,
2009), di una monografia (First Thoughts: Life and Letters of Abigail Adams, New York, Twayne,
1998), e di numerosi saggi in cui ristabilisce un equilibrio nella valutazione critica del personaggio,
per decenni impropriamente studiato come “femminista” ante litteram e contestatrice radicale. Per
un’analisi delle distorsioni operate da alcuni storici si veda, anche, Shingleton, J. Abigail Adams: The
Feminist Myth, 1998, http://www.ter.org/ter/essays/EPrize_Adams.pdf.
106
Qualche decennio più tardi, nella protesta femminile si stabilirà una sorta di
equazione tra la condizione della donna e quella degli schiavi afroamericani. È si-
gnificativo che le prime associazioni abolizioniste vengano fondate da attiviste che
al tempo stesso si battono per i diritti femminili, e più di un sociologo afferma che
il modello di parità fu fornito proprio dalle schiave il cui lavoro nelle piantagioni
era pari a quello dell’uomo, e che non furono prive di iniziative fondamentali
nell’affrancamento dalla schiavitù, dimostrandosi così più reattive delle contem-
poranee donne angloamericane.
In una lettera di Abigail del 31 marzo 1776, periodo in cui John Adams era
impegnato nella stesura della Dichiarazione di Indipendenza insieme a Jefferson,
compare poi una famosa invettiva spesso citata, piuttosto audace e irriverente nei
confronti del ruolo maschile:
41 The Letters of John and Abigail Adams cit., p. 72 (in seguito citato L, con il riferimento alla pagina,
dopo la citazione).
107
predecessori nei loro confronti. Non porre quei poteri illimitati nelle mani dei
mariti. Ricorda, tutti gli uomini sarebbero dei tiranni se potessero. Se non si pre-
sta particolare cura e attenzione alle donne, siamo determinate a fomentare una
ribellione, e non ci sentiremo condizionate da alcuna legge in cui non avremo
voce o rappresentanza. (L, p. 148)
Che gli individui del tuo sesso siano per natura tirannici è una verità così total-
mente provata che non ammette discussione; ma quelli di voi che desiderano
essere felici rinunciano volentieri allo sgradevole appellativo di padrone in favore
di quello di compagno, più tenero e affettuoso. Perché, allora, non escludere che
i potenti perversi e sregolati possano usarci in maniera crudele e umiliante restan-
do impuniti? In ogni epoca gli uomini di giudizio aborriscono quelle consuetu-
dini che ci considerano semplicemente schiave del vostro sesso; stimateci quindi
come creature poste dalla Provvidenza sotto la vostra protezione, e imitando l’Es-
sere Supremo fate uso di quel potere soltanto per il nostro bene. (L, pp. 148-149)
Si resta pertanto nell’ambito di una rivendicazione di libertà per così dire vigilata,
com’era costume dell’epoca e come prevedeva la consuetudine legale della coverture,
ossia della tutela maritale. Prima che il pamphlet di Thomas Paine (1776), e in seguito
la teoria politica di Mary Wollstonecraft (1792), possano influenzare anche il dissenso
femminile passeranno ancora diversi decenni, e neppure l’opera di Charles Brockden
Brown Alcuin: A Dialogue (1798), in cui si discute dei diritti naturali e della necessaria
emancipazione della donna, ha grande risonanza tra il pubblico femminile e tanto
meno tra quello maschile. Il concetto prevalente nel periodo rivoluzionario e post-
rivoluzionario è quello definito da Linda Kerber republican motherhood, che delinea
i contorni di una figura femminile “materna” a cui è affidato il compito di educare
la nuova generazione agli ideali repubblicani e al bene comune, anche a scapito degli
108
interessi individuali. Il che non fa che prevedere una semplice distinzione dei ruoli,
afferma sempre Kerber, utile a mascherare l’immutata disparità tra i sessi42.
Nell’epistolario coniugale Abigail Adams esprime pareri con toni accesi e
ben determinate convinzioni sulla necessità di separarsi dall’Inghilterra, malgrado
alle donne non fosse consentito discutere di affari politici o interferire in essi, e
informa il marito su ogni operazione militare o politica compiuta nei dintorni
fornendone una valutazione personale. «Separiamoci», scrive, «non sono degni
di essere nostri fratelli. Rinunciamo a loro; e anziché elevare suppliche, come in
passato, per la loro prosperità e felicità, imploriamo l’Onnipotente di far fallire
i loro disegni e condurre alla rovina ogni loro espediente» (L, p. 122). Abigail si
mostra preoccupata per il destino della nascente nazione, per il tipo di governo che
dovrà farsi garante della libertà e perpetuarla nel tempo, per chi dovrà formarlo,
e prevede l’urgente necessità di un corpus legislativo che possa regolare i rapporti
nell’ambito delle ex colonie (Vd. L, p. 125). E a proposito dell’opera di Thomas
Paine, ispiratrice della Rivoluzione, dichiara:
Vorrei con tutto il cuore che ogni conservatore fosse estirpato dall’America. Resto
affascinata dai principi di “Common Sense”, e mi chiedo come un cuore onesto,
che si auguri il benessere del suo Paese e la felicità dei posteri, possa esitare un
solo momento a farli propri. Voglio sapere come questi principi vengono accolti
nel Congresso. Oso dire che non dovrebbe esserci alcuna difficoltà nel procurare
un voto e direttive per l’Indipendenza da tutte le Assemblee del New England.
(L, p. 136)
42 Cfr. Kerber, L.K. Women of the Republic: Intellect and Ideology in Revolutionary America, Chapel
Hill, The University of North Carolina Press, 1980, passim.
109
recenti studi di genere ne hanno consentito una visione più oggettiva e hanno
messo in luce la personalità di donne di grande incisività, occorre evidenziare
che negli Stati Uniti Abigail Adams è tra le prime ad adottare nella sua scrittura
una retorica femminile che si ispira a quella rivoluzionaria e si suole accostare alla
liberatory civic rhetoric43. Con tale definizione si allude a un tipo di retorica di
derivazione neoclassica – come tutto nel nuovo Stato, che aveva l’ambizione di
ricollegarsi alle prime repubbliche della storia – scaturita dall’oratoria consolidata
nei discorsi pubblici e nelle petizioni di protesta politica, e poi in forma scritta
nella saggistica e nei pamphlet, che mira al riscatto dalla tirannia di ogni genere
attirando l’attenzione su particolari questioni di ingiustizia sociale.
Sul finire del Settecento, questo tipo di discorso è ovviamente predominante
nell’ambito governativo, e legale, a cui la donna non ha accesso. Ma di esso la don-
na si appropria non solo nelle poche occasioni pubbliche che inizia a conquistarsi,
ma pure nella scrittura privata, come quella delle lettere e dei diari, e infine nella
nascente narrativa in cui spesso si adotta la forma epistolare per ridurre la distanza
tra chi scrive e il pubblico. Per persuadere il marito a imprimere certe direttive
negli atti politici e nella Dichiarazione di Indipendenza, Abigail Adams fa uso di
una civic rhetoric veicolando i concetti attraverso mezzi verbali che chiamano in
causa tirannia, dispotismo, schiavitù, oppressione, e al loro opposto la libertà. Le
prime scrittrici americane, come Hannah Webster Foster, Susannah Rowson e Ju-
dith Sargeant Murray, ne mostrano l’influsso rispettivamente nei romanzi e nelle
storie pubblicate a puntate su riviste, in cui affrontano le stesse questioni che da
prospettive diverse preoccupano gli uomini del loro tempo. La libertà delle donne
di operare delle scelte di vita anche trasgressive e di plasmare il proprio destino, il
diritto di far prevalere il sentimento sulla ragione, e la non più rigida obbedienza
ad alcuni codici morali, sono infatti i temi che prevalgono nel romanzo sentimen-
tale americano, a differenza di quello inglese, e mostrano in che modo va trasfor-
mandosi la republican motherhood.
È fuori discussione che la prima narrativa di carattere ludico prodotta da
donne ha una pesante impronta didattica richiesta per arginare l’ostilità verso il
genere romanzesco e per questo motivo s’incanala nel sottogenere sentimentale
che a tale scopo appare il più idoneo. Ma è noto anche che l’intento pedagogico
imbocca due sentieri diversi: quello pubblicizzato, e dichiarato nelle prefazioni,
43 Cfr. Carey Eldred, J.; Mortensen, P. Imagining Rhetoric: Composing Women of the Early United
States, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 2002, p. 2 e passim. I due studiosi dimostrano
come le prime donne che si battono per l’estensione al soggetto femminile di un’istruzione ade-
guata propongano e adottino tale retorica anche nell’insegnamento della scrittura; laddove sul finire
dell’Ottocento il modello di insegnamento accademico è di tipo romantico, e privilegia l’aspetto
estetico a scapito di quello argomentativo.
110
lo scopo dichiarato della retorica civile era quello di causare un mutamento po-
litico rivelando il pubblico consenso e favorendo appelli a un senso comune di
ciò che era giusto. Il suo obiettivo era quello non di spostare a proprio favore
l’opinione individuale ma piuttosto di risvegliare la coscienza collettiva di una
nuova repubblica44.
44 Ibidem.
111
mescola alla liberatory civic rhetoric nel veicolare con successo la protesta, ossia la
retorica che si suole definire “sentimentale”. Come insegna Bakhtin, quella del ro-
manzo è la forma letteraria non solo sovversiva ma anche inclusiva per eccellenza,
e riesce a conciliare modalità discorsive e argomentative differenti. Nella narrativa
di seduzione scaturita dal gusto sentimentale, che tra i suoi obiettivi include quello
di contrastare i residui della mentalità coloniale, la descrizione della femminilità
oltraggiata, il pathos suscitato dall’esito finale della seduzione (la morte dell’eroina
o la sua pazzia), l’enfasi sulla crudeltà del seduttore, e la sympathy nei confronti del
frutto della seduzione (un bambino nato morto, o che muore, o che è destinato
a vita grama perché la madre muore) svelano una inaspettata enorme capacità
di persuasione del discorso sentimentale. Gran parte del pubblico medio post-
rivoluzionario è portato a identificarsi con l’eroina perseguitata, vittima di una
sopraffazione pari a quella politica, e stabilisce con il personaggio una sorta di
solidarietà affettiva. L’impatto emotivo, inoltre, è talmente alto che il lettore spesso
trascura le istanze anti-patriarcali e destabilizzanti implicite in tali romanzi, che in-
vece riportano nell’arena dibattiti da tempo iniziati e mai risolti sulla vulnerabilità
della donna, sulla seduzione, sull’arroganza maschile nel difendere le prerogative e
i privilegi attribuitisi, e su una particolare legislazione che prevede l’impossibilità,
per la donna, di citare in giudizio il seduttore, visto che al suo posto può farlo
soltanto il padre o il datore di lavoro.
È così che due romanzi delle scrittrici citate come paradigmatiche, Charlot-
te Temple di Susannah Rowson e The Coquette di Hannah Webster Foster, negli
Stati Uniti diventano i libri più letti in assoluto dopo la Bibbia, prima che a metà
dell’Ottocento Uncle Tom’s Cabin tolga loro il primato. Non sorprende, allora, che
la recente produzione critica sui rapporti tra giurisprudenza e letteratura ponga
in rilievo come molti processi contro seduttori, o contro donne ingiustamente
denunciate per ricatto dai propri seduttori, nei primi decenni dell’Ottocento con-
ducono in seguito perfino all’abrogazione di leggi lesive della dignità femminile,
proprio grazie alla retorica sentimentale adottata dagli avvocati difensori sulla scia
dei romanzi di Rowson e Foster. Il che porta due studiosi di questioni legali ad
affermare in un documentato saggio sull’esito positivo del famoso processo otto-
centesco a carico di Amelia Norman, una donna accusata di tentato omicidio del
seduttore, che se è vero che la modifica delle leggi produce mutamento culturale,
è pur vero che essa ha bisogno del dissenso espresso attraverso la letteratura per
giungere in porto45.
45 Cfr. Andrea, L.; Parry, H.; Parry, J.T. “Law, Seduction, and the Sentimental Heroine: The Case
of Amelia Norman”, in American Literature, n. 2, 2006, pp. 325-355.
112
Angelo Cardillo
Era Anita! La madre dei miei figli! La compagna della mia vita, nella buona e cattiva
fortuna! La donna, il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte! Restammo
entrambi estatici, e silenziosi, guardandoci reciprocamente, come due persone
che non si vedono per la prima volta, e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra
qualche cosa che agevoli una reminiscenza. La salutai finalmente, e le dissi: “tu devi
esser mia”. Parlavo poco il portoghese, ed articolai le proterve parole in italiano47.
46 Questo lavoro è legato a una serie di iniziative garibaldine alle quali ho partecipato nella ricor-
renza dei 150 anni della Repubblica. Ripropongo in breve le vicende della vita di Anita Garibaldi
dando voce soprattutto alla testimonianza del marito nell’intento di smitizzare fatti e luoghi comuni
circa il rapporto tra i due e di rendere merito a una storia familiare durata dieci anni sulla quale si
sono intessute trame di tradimenti e di maldicenze, ma di fatto interrotta con la prematura morte
della protagonista. Pertanto le citazioni sono tratte da Le Memorie di Giuseppe Garibaldi. Nella reda-
zione definitiva del 1872 a cura della Reale Commissione. Pubblicazione della Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2007 e da Garibaldi, G. Poema autobio-
grafico (Dall’Autografo). Carme alla Morte e altri canti inediti pubblicati da G. E. Curatolo, Bologna,
Nicola Zanichelli, 1911, dove i versi non sono numerati e per questo qui il riferimento è alla pagina.
Le poche lettere indirizzate dal marito ad Anita sono in Epistolario, vol. I, (1834-1848), a cura di
Fonterossi, G.; Candido, S.; Morelli, E., Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1973
e vanno dal 1 settembre 1845 al 21 giugno 1849 senza aggiungere sentimenti e fatti noti per altre
fonti. Per i miei scritti garibaldini, rinvio a “Garibaldi scrittore”, in G. Garibaldi: 1805-1882: Storia
Letteratura Immagine, Atti della giornata di studio tenuta a S. Maria C.V. il 29 maggio 1982, Città
di S. Maria Capua Vetere, 1983, pp. 83-112; “Per il Poema autobiografico di Giuseppe Garibaldi”, in
Forum Italicum, 44, (2010), 2, pp. 504-513; “‘Anita! La madre dei miei figli’. (Per Anita Garibaldi)”,
in Sinestesie, IX, 2011, in corso di stampa.
47 Le Memorie cit., p. 62.
Così Garibaldi narra nelle Memorie l’incontro con Anita48, a Laguna del Rio
Grande nel 1839, un incontro che segnò la vita di entrambi: la donna aveva 18
anni, lui 32.
A quel tempo il Generale viveva un momento di amara solitudine; lontano
dalla patria, in continua ricerca di aiuti finanziari che tardavano ad arrivare, aveva
perso fedeli compatrioti pronti a dargli man forte in ogni circostanza. Il pen-
siero di una figura femminile che lo accompagnava nei momenti di particolare
scoramento, prese corpo quando con il cannocchiale dalla tolda della “Itaparica”
intravide a terra una giovane:
Gettai a caso lo sguardo verso le abitazioni della Barra – così si chiamava una
collina piuttosto alta, all’entrata della Laguna, nella parte meridionale, e sulla
quale scorgevansi alcune semplici e pittoresche abitazioni – Là, […] scopersi una
giovine. Ordinai mi trasportassero in terra nella direzione di lei49.
Sceso dalla nave, si imbatté in un amico che lo invitò a casa per un caffè.
Sull’uscio vide una donna: “Era Anita!” la quale aveva sentito parlare di un leggen-
dario condottiero venuto da lontano. Quell’incontro segnò l’inizio di una storia
di amore e di avventure durata dieci anni.
Il 22 giugno 1839 Ana Maria de Jesús Ribeiro da Silva, Aninha, poi Anita, si
svegliò al frastuono dei rivoluzionari che muovevano alla conquista della cittadina.
Il giorno dopo, in chiesa, vide un marinaio che le parve bellissimo: abbronza-
to, lunghi capelli luccicanti, a boccoli sulle spalle, occhi fieri e dolcissimi: era il
capo dei conquistatori; lo si diceva venuto da un paese chiamato Italia50. Trasalì
quando lo incontrò sull’uscio di casa e lo sentì parlare con il suo padrino con
voce calda, suadente, l’accento straniero. Non capì granché quando il marinaio,
congedandosi da lei, le sussurrò «Tu devi essere mia». Giuseppe Guerzoni racconta
che alcune sere dopo Garibaldi invitò Anita a salire sulla sua nave e, presala sotto
braccio, «in faccia al cielo ed al mare la giurò sua sposa»51.
48 Nacque il 30 agosto 1821 in Brasile, a Morrinhos, presso Laguna, nella provincia di Santa Cata-
rina da Benito Ribeiro da Silva, mandriano, e da Maria Antonia de Jesus Antunes; morì il 4 agosto
1849 nella fattoria Guiccioli, alle Mandriole, nelle valli di Comacchio. Quando incontrò Garibaldi,
era già sposata, in quanto, per volontà della madre, aveva sposato a 14 anni un lavoratore del luogo,
di età matura.
49 Le Memorie cit., p. 62.
50 Garibaldi, A. Nate dal mare. Le donne Garibaldi: Anita, Costanza e Speranza, Milano, Il Saggia-
tore, 2003, p. 25.
51 Guerzoni, G. Garibaldi, vol. I, Firenze, Barbera, 1882, p. 94. Cfr. pure Gardelin, M. “L’epi-
sodio di Laguna”, in Garibaldi generale della libertà. Atti del Convegno internazionale (Roma 29-31
maggio 1982), Ufficio storico SME, Roma 1984, pp. 193-200: «Secondo gl’imperiali Anita venne
114
Quando Garibaldi riprese a navigare, Anita lo seguì sul Rio Pardo dove si con-
sumò una luna di miele tra spari, feriti e focosi, appassionati amplessi:
La mia Anita era il mio tesoro, non men fervida di me, per la sacrosanta causa
dei popoli e per una vita avventurosa. Essa si era figurato le battaglie, come un
trastullo ed i disagi della vita del campo come un passatempo. Quindi, comunque
andasse, l’avvenire ci sorrideva fortunato; e più selvaggi si presentavano gli spazio-
si americani deserti, più dilettevoli e più belli ci pareano53.
rapita. Secondo altri ella lo seguì di sua volontà. Altri ancora insinuano che si trattò di un episodio
di ‘liberi costumi’ e che Anita fece di tutto per impadronirsi del prode marinaio». La cit. a p. 198.
52 Le Memorie cit., p. 65.
53 Ivi, p. 71.
54 Curatulo, Anita Garibaldi cit., p. 62.
115
Poi il viaggio alla volta di Montevideo dove Anita giunse nei primi mesi del
1842 per ripartire verso l’Italia alla fine del 1847. Anita e José si sposarono nella
chiesa di san Francesco d’Assisi il 26 marzo del 1842; la sposa aveva indosso il
solito vestito di tutti i giorni; regalo di nozze del marito, due colombe bianche, a
ricordo di quelle che lei allevava nella sua casa a Laguna. Garibaldi ripagò il parro-
co per la cerimonia nuziale con l’unico oggetto di un certo valore che possedeva:
un orologio d’argento.
Il 30 novembre del 1843 nacque Rosita, capelli biondi anche lei; le fu dato
il nome della nonna paterna. Il 22 febbraio del 1845, nel bel mezzo di un bom-
bardamento, vide la luce Teresita, che sembrò assecondare un gioco del destino
quasi a colmare il vuoto che nella famiglia si sarebbe determinato di lì a poco,
prima di Natale, con la morte della piccola Rosita di appena due anni. Quando
nacque Ricciotti il 24 febbraio del 1847, era già in atto il graduale disimpegno
di Garibaldi rispetto al governo di Montevideo, paese nel quale la coppia visse
momenti di felicità, ma Anita non mancò di provare quel sentimento di gelosia
anche retrospettiva nei confronti del marito che l’accompagnò fino alla morte.
Il Generale, infatti, non passava inosservato al pubblico femminile: un alone di
leggenda unito a un forte carisma dell’uomo, facevano sì che ovunque suscitasse
benevolenza e ammirazione.
***
Il 27 dicembre 1847 Anita e i figli partirono sulla Carolina alla volta di Geno-
va per raggiungere a Nizza la suocera e prendere contatti con il patriota Giacomo
Medici al fine di indicare al Generale il momento più propizio al rientro in patria.
Anita lasciava per sempre le sue terre, i figli avvinti alla gonna, l’immagine del suo
uomo che sfuocava mano a mano che la nave si allontanava dalla riva.
A Genova il Corriere mercantile salutò con parole beneauguranti l’arrivo dei
Garibaldi. Giunsero a Nizza e qui la convivenza con la suocera non fu facile: Rosa
Raimondi era anziana, presa dalla famiglia, dalla casa e da null’altro. Anita, invece,
aveva imparato a crescere i figli cavalcando tra echi di bombe e lamenti di feriti,
sempre con la pistola al fianco; parlava male l’italiano e faticava ad adattarsi alle
abitudini anche culinarie del posto.
116
meco
Seguirà la mia donna, intemerata!
Inseparabile compagna ed egra
Del proscritto. Infelice!…Essa i suoi cari
Bimbi non rivedrà57
La mia buona Anita, ad onta delle mie raccomandazioni per farla rimanere,
avea deciso di accompagnarmi. L’osservazione ch’io avrei da affrontare una vita
tremenda di disagi, di privazioni, e di pericoli, frammezzo a tanti nemici, era
117
Anita si vestì da uomo per passare meglio inosservata, ma aveva lasciato intatti
i lunghi capelli neri. Il marito le disse che con quei capelli lunghi, belli, ondulati
era più donna pur se vestita da uomo; si ritrovò di lì a poco la moglie senza la
treccia.
Stanchi, luridi, stremati dalla fame e dal caldo, dormendo per terra, i gari-
baldini attraversarono i territori papalini, l’Umbria e la Toscana. Dopo una sosta
a Cetona, ripresero le marce verso l’Appennino, alla volta di Venezia. Anita av-
vertiva un indistinto malessere. Il 30 luglio giunsero nei pressi di San Marino. La
donna era in preda alla febbre; i sintomi si accentuarono e per giunta non avver-
tiva più alcun movimento del feto. Qualche giorno dopo fu necessario riprendere
la marcia: non fu possibile convincerla a non partire con il marito alla volta di
Cesenatico, né questi se la sentì di lasciare la compagna di tante avventure in un
momento di serio malessere fisico:
Era la notte tra il 2 e il 3 agosto del 1849. Le acque antistanti il porto di Cese-
natico tremavano di luce lunare. Cinque bragozzi si preparavano a veleggiare alla
volta di Venezia. Su uno erano Anita, il marito e pochi fedelissimi. Partirono alle
6 del mattino; il nemico li incalzava:
Io navigava
Alfin coi pochi, e sulla stessa barca
Erano insieme la dolente donna,
Il Bassi e l’integerrimo tribuno
Della Romana plebe, il valoroso
Ciceruacchio, e due diletti imberbi
Figli di lui. Io contemplava muto
Quei cari, e alla consorte un sorso d’acqua
118
Il tempo s’era abbellito e il vento favorevole. S’io non fossi stato addolorato
dalla situazione della mia Anita, che trovavasi in uno stato deplorabile, soffrendo
immensamente, io avrei potuto dire che superate tante difficoltà, e sulla via di
salvazione, la condizione nostra poteva chiamarsi fortunata; ma, i patimenti della
cara mia compagna erano troppo forti, e più forte era tuttora il mio rammarico
di non poter sollevarla61.
La donna, priva di forze, giaceva sul fondo della barca: bruciava per la febbre;
forte era l’arsura. Vigile, aveva coscienza di quanto accadeva intorno a lei e della
sua fine imminente. Le barche scivolavano sull’acqua solcando il chiarore lunare
riflesso dal mare; fu proprio la luna a tradirli. Attaccati dai nemici, i fuggiaschi
guadagnarono la costa per trovare rifugio tra le canne lungo la riva del Po.
Con l’aiuto del capitano Leggiero, Garibaldi portava a braccia la moglie at-
traverso le paludi:
119
Anita «si moriva»; sembra quasi che lo strazio nel tenere tra le braccia la donna
morente rendesse più leggero il suo peso. Nei versi successivi prevale un senso di
impotenza, una struggente malinconia e la tragica coscienza degli eventi: dal testo
traspare una infinita tenerezza nel «custodire un tesoro» che il Generale perdeva
insieme alla «Madre de’ miei bambini». Ma dopo questa pausa intima, accorata, fa-
miliare, direi “elegiaca”, riaffiora l’epica fierezza dell’uomo rotto a battaglie estreme:
Poi il tono della strofa ridiventa pacato, sommesso, quasi di una fiera incre-
dulità:
Giunsimo alla Mandriola, e stava Anita coricata su d’un materazzo nel birroccio
che l’avea condotta. Dissi, allora, al dottor Zannini, giunto pure in quel momento:
state per i suoi figli, ch’essa presentì di non più rivedere». (Le Memorie cit., p. 249).
64 Poema autobiografico, ed. cit., XI, p. 89.
65 Ibidem.
66 Poema autobiografico, ed. cit., pp. 90-91.
120
121
Mara Quintarelli
Tu es son épouse,
tu as reçu le sang sérère et le tribut de sang peul,
O sangs mêlés dans mes veines,
seulement le battement nu des mains!
Que j’entende le choeur des voix vermeilles des sang-mêlé!
Que j’entende le chant de l’Afrique future!
124
remissivo e mite della donna nera confinata in uno spazio domestico e limitato,
unico luogo che possa accoglierne il pulsare di vita, il bisogno di parola, l’esistenza
come persona e come identità. Volendosi africana tra le africane, Colette tace –
nell’elegia, nell’opera letteraria –, non parla, o parla pochissimo, durante le appa-
rizioni pubbliche accanto al marito. La sua espressione è quella della sofferenza: un
dolore silenzioso. Anche nell’estremo strazio del lutto, non si legge di un grido né
di una frase, solo di lacrime, lacrime che la pongono tra la disperazione umana e la
rassegnazione divina, che fanno di lei un fiore mistico a cavallo di tutte le religioni,
così come si era già voluta a cavallo dei continenti.
Il silenzio di Colette fa quindi di lei la sintesi della femminilità nell’accezione
che ella assume nel dolore africano. Il dolore viene descritto da Senghor, che fonda
sul dualismo donna-silenzio la sua speculazione sull’identità e sulla ricerca di una
patria. Ricerca da intendersi come percorso iniziatico, pellegrinaggio interiore e
poetico la cui parola passa, appunto, attraverso il silenzio, ed è cristallizzazione
della sofferenza e della nostalgia, di cui non a caso la donna – Colette, nel caso
specifico – è portavoce.
Perciò, non stupisce che nell’elegia sia spesso accostata – anche se solo implici-
tamente – alla Madonna, di cui diventa metafora. Pure, la divinità di Colette – e,
in generale, della donna di cui si fa portavoce – non è sinonimo di un modello
cristiano quanto piuttosto sintesi di una religiosità che ha dimensione metafisi-
ca. È di questo universo di valori e corrispondenze che Colette si fa interprete,
fungendo quasi da ponte per decifrare l’universo di relazioni tra visibile terreno
e invisibile divino, il cui disegno imperscrutabile e insindacabile diventa oggetto
di un dolore tutto interiore e lacerante, che attraverso di esso si realizza nella sua
compiutezza di “madre crocifissa”.
Questa fusione di religioni in un’unica spiritualità – tendente all’animismo –
si spiega alla luce del conflitto vissuto da Senghor a causa della sua duplice natura
di africano cattolico diviso tra due patrie, europea e senegalese, in costante ricerca
di una mediazione tra due poli apparentemente inconciliabili. In quest’ottica, la
donna – in generale, nella sua opera poetica, e nello specifico nel caso di Colette
nell’elegia – assurge a sintesi dello sforzo di conciliazione dell’aporia, diviene colei
che sussume l’immaginario retorico delle due culture e lo trascende, superando il
limite concreto e spirituale. Le sue lacrime di madre fanno del figlio perduto un
agnello redentore, un «enfant du bonheur» il cui sacrificio permette di rendere
meno violenta l’accusa verso quella divinità gelosa e capricciosa che conserva solo
pochi tratti del Dio cattolico. L’essenza stessa di Colette non in quanto Colette
ma in quanto rappresentante della categoria femminile, universalizzata in una co-
munione sovra-culturale, permette di rendere Philippe-Maguilen «l’enfant de la
terre sénègalaise»: all’emblema universalizzante della Donna fa così da contraltare
il rappresentante universale dell’umanità senegalese sofferente e vinta.
125
126
Bibliografia
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Martinetto, A.M. Senghor. L’uno e i molti, Roma, Bulzoni, 1992.
Njami, S. C’était Senghor, Paris, Fayard, 2006.
127
Luisa Tasca
Lo studio dei sentimenti, delle relazioni affettive, del linguaggio delle emozioni,
condotto attraverso l’analisi di tipologie diverse di scritture dell’io – epistolari,
diari, autobiografie, biografie –, pone per il lavoro storiografico alcune questioni
importanti, sulle quali si interrogano in modi diversi gli interventi qui raccolti.
Una questione centrale a essi sottesa riguarda l’importanza dell’individuo, con
la sua vita, le sue relazioni familiari e sociali, il suo mondo affettivo privato1. Nel
corso di gran parte del Novecento gli storici hanno privilegiato un approccio “per
gruppi sociali” – la borghesia, la classe operaia, l’aristocrazia –, immaginandoli
come unità coerenti nel modo di sentire, pensare e agire, delle quali l’individuo
rispecchiava in toto le caratteristiche; e hanno combinato questo approccio “per
gruppi sociali” con uno “per tempi lunghi”, non biografici, che trascendevano la
vita individuale, in certo modo “superflua” e ininfluente rispetto ai fenomeni ma-
croscopici della storia sociale ed economica, che si giocavano sul lungo periodo.
Negli ultimi decenni la storiografia ha invece riscoperto un modo individuale
e biografico di studiare il passato. Anche attraverso gli apporti della storia orale,
della storia delle donne e degli studi sulla cultura popolare, le biografie e le testi-
monianze individuali si sono spostate al centro dell’attenzione degli storici. La
crisi dei grandi modelli interpretativi, marxisti e strutturalisti, ha portato gli storici
a interrogarsi sulle traiettorie individuali, e ciò a partire non dai “grandi uomini
che hanno fatto la storia”, bensì da individui appartenenti a ceti sociali inferiori,
1 Il vocabolario è ricco: emozioni, passioni, sentimenti, sensibilità. È la vita affettiva quella che
interessa questi interventi.
i tanti Menocchio del passato. Mettere al centro gli individui nell’intreccio delle
loro relazioni pubbliche e private può dare un senso di vertigine, di dispersione,
di frammentazione: chi lavora su questo tipo di fonti – diari, corrispondenze,
autobiografie, biografie – conosce tale vertigine e il desiderio di fuggire verso delle
generalizzazioni più rassicuranti. La sfida per lo storico sta nel reggere il disagio
di questa vertigine, per salvare l’unicità di ogni esperienza personale, e dunque la
pluralità irriducibile del passato, senza rinunciare a ricostruire il contesto generale
o, meglio, i diversi contesti, nei quali l’esperienza individuale si colloca2.
Ma quale individuo è al centro della ricerca storica? Dotato di quale psicolo-
gia? Con quale sensibilità? Nelle scienze sociali è prevalsa a lungo l’immagine di un
individuo strategico, sulla base del modello razionale classico: il soggetto si dà un
fine, è in grado di determinare in modo esaustivo i mezzi suscettibili di condurlo
all’obiettivo e di scegliere tra loro i più vantaggiosi; è privo di emozioni o, meglio,
guidato dal solo aspetto psicologico del calcolo e dell’interesse. Negli anni Ottanta
alcuni economisti, come Gary Becker, si sono spinti fino al punto di considerare
l’intera psicologia umana come retta da un calcolo di costi e benefici, mezzi e fini.
La decisione di sposarsi, di avere figli, di dare loro un’istruzione, di divorziare,
sono da Becker rianalizzati utilizzando le categorie e gli strumenti dell’economia3.
Profondamente razionalisti, a proprio agio con l’idea di razionalità strumentale,
economisti, sociologi, filosofi e storici hanno privilegiato un’immagine di indivi-
duo privato di elementi inconsci, irrazionali, o anche “solo” emotivi.
Negli ultimi anni le scienze sociali hanno dato invece maggior spazio al mon-
do affettivo dell’individuo e alle dinamiche emotive dell’io, considerando la stessa
sfera affettiva e le emozioni non come risposte a stimoli, ma come giudizi, parte
dunque di un processo cognitivo complesso nel quale non vale più la dicotomia
emozioni/ragione4. D’altronde, molto prima del successo della cosiddetta apprai-
sal theory, lo stesso Jung aveva definito le due funzioni psichiche del pensiero e
del sentimento come funzioni razionali (a differenza dell’intuizione e della sen-
sazione), perché entrambe sono funzioni valutative, con la peculiarità che il pen-
siero valuta in base al binomio vero/falso, mentre il sentimento in base a quello
2 Sulla tradizione di pensiero che ha cercato di salvaguardare la dimensione individuale della storia
e, più in generale, su una storia biografica, capace di dare spazio alle persone, cfr. il ricchissimo libro
di Loriga, S. Le petit X. De la biographie à l’histoire, Paris, Seuil, 2010.
3 Becker, G. L’approccio economico al comportamento umano, Bologna, Il Mulino, 1998.
4 Cfr. Ferente, S. “Storici ed emozioni”, in Storica, nn. 43, 44, 45, 2010, pp. 371-392; Elena
Pulcini ha tentato di dare una nuova definizione di individuo nell’ambito della filosofia politica cfr.
Pulcini, E. L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino,
Bollati Boringhieri, 2001.
132
5 Jung, C.G. Introduzione alla psicologia analitica. Cinque conferenze, Torino, Bollati Boringhieri,
2000.
6 Esiste anche l’International Society for the Research on Emotions; cfr. Turner, J.; Stets, J. The
Sociology of Emotions, Cambridge, C.U.P., 2005; il numero monografico di Antropologia dal titolo
“Emozioni”, anno 5, numero 6, 2005; Cerulo, M. Il sentire controverso. Introduzione alla sociologia
delle emozioni, Milano, Carocci, 2010; Oatley, K. Breve storia delle emozioni, Bologna, Il Mulino,
2007.
7 Prete, A. (a cura di) Nostalgia. Storia di un sentimento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1992.
8 Bruner, J. La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Roma-Bari, Laterza, 2002.
133
9 Elias, N. “On Human Beings and Their Emotions: a Process-Sociological Essay”, in Theory, Cul-
ture and Society, 1987, 4, 2-3, pp. 339-361; Elias, N. Che cos’è la sociologia?, Torino, Rosenberg &
Sellier, 1990; Elias, N. Il processo di civilizzazione, Bologna, il Mulino, 1988.
10 Reddy, W.M. The Navigation of Feeling: A Framework for the History of Emotions, New York,
Cambridge University Press, 2001; Rosenwein, B. Emotional Communities in the Early Middle Ages,
Ithaca (N. Y.), Cornell, U. P., 2006.
134
11 Sul rapporto tra famiglia, educazione dei sentimenti e cattolicesimo nel caso italiano cfr. il bel
libro di Accati, L. Il mostro e la bella. Padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 1998.
12 Ricoeur, P. Storia e verità, Cosenza, Marco Editore, 1991; sul rapporto tra scrittura storica ed emo-
zioni cfr. Prochasson, C. L’Empire des émotions. Les historiens dans la mêlée, Paris, Demopolis, 2008.
135
13 Così, si può dire che la psicologia di John e Stuart Mill ha influenzato l’opera storiografica di
Grote e Buckle; cfr. Dilthey, W. “Idee su una psicologia descrittiva e analitica”, in Alfredo, M. (a
cura di) Per la fondazione delle scienze dello spirito. Scritti editi ed inediti (1860-1896), Milano, Fran-
coAngeli, 1985, pp. 351-446; cfr. Pozzi, R. Hyppolite Taine. Scienze umane e politica nell’Ottocento,
Venezia, Marsilio, 1993.
14 La bibliografia sulle scritture dell’io è sterminata; sull’analisi dei sentimenti e del linguaggio amo-
roso attraverso lo studio di epistolari cfr. Gori, C. Sentimenti: quattro carteggi d’amore, tra dimen-
sione personale e sfera pubblica, nell’Italia dell’Ottocento e del primo Novecento, PhD, Florence, Euro-
pean University Institute, 2010; Anglani, B. Teorie moderne dell’autobiografia, Bari, Graphis, 1996;
Lejeune, P. Le journal intime: histoire et anthologie, Paris, éditions Textuel, 2006.
15 Discute questo problema Serena Ferente in Storici ed emozioni cit., pp. 387-391; a rigore noi non
arriviamo mai alle emozioni stesse, nemmeno di chi ci è più vicino.
136
gard, compagni di vita e di impegno politico a partire dalla lotta partigiana nella
Resistenza, nonché entrambi autori di diari e di diverse prove autobiografiche,
scritte e orali, edite e inedite. In particolare il suo intervento affronta i nessi tra
stati mentali privati ed eventi pubblici, tra le gradazioni dell’amore e quelle delle
politica, il tema del disciplinamento dei sentimenti e delle relazioni di genere
all’interno del PCI, la memoria, il sentimento della nostalgia, la pratica della scrit-
tura di sé. Le doppie testimonianze di Franco e Maria Teresa sul proprio passato
comune consentono di mettere a confronto il diverso procedere della memoria
maschile e femminile. Monica Pacini legge l’epistolario che Adelaide Dore Pintor
intrattiene dalla Sardegna con i parenti che vivevano sul continente – in partico-
lare con il figlio maggiore Giaime – mettendo in scena la vita quotidiana e intima
di una famiglia della borghesia colta tra fascismo e guerra. Lo scopo del suo inter-
vento è di provare a misurarsi con la lettera come testo – frutto dell’interazione tra
il soggetto e i codici comportamentali e linguistici del tempo e del milieu socio-
culturale di appartenenza – interrogandosi sulle forme di espressione di emozioni
e sentimenti nella scrittura epistolare.
Luisa Tasca presenta la figura di Angelo de Gubernatis, orientalista, professore
universitario, intellettuale e poligrafo sfaccettato, ma anche fratello, marito, padre,
amante. Autobiografia, diario ed epistolario portano alla ribalta un individuo for-
temente “sociale”, inserito in una trama fitta di relazioni familiari, politiche, ami-
cali, lavorative, impegnato a spiegarsi e a spiegare il rapporto con il proprio tempo
e la società in cui ha vissuto. In particolare l’autobiografia, accusata di essere un
genere letterario avulso dalla realtà (è stato detto che è il testo a creare la vita e non
la vita a creare il testo), appare invece, nel contesto storico dell’Ottocento italiano,
un genere letterario fortemente legato alla realtà. A partire da un caso storico pre-
ciso, il rapporto tra le sorelle Vanessa Bell e Virgina Woolf (con un’appendice sulle
sorelle Brontë scritta da Marcella Soldaini), Antonella Piazza indaga la relazione
affettiva tra sorelle come una simbiosi rassicurante e insieme violenta che consente
di sopravvivere alla famiglia vittoriana ottocentesca e superare un modello fem-
minile sacrificale, segna il trionfo dell’asse orizzontale su quello edipico e verticale
tipico del patriarcato, consentendo alle sorelle Stephen di superare lutti e crolli
psichici e di dare spazio alla propria anima creativa.
Scriveva Georges Febvre: «la verità è che pretendere di ricostruire la vita af-
fettiva di una data età costituisce un’impresa estremamente seducente e, in pari
tempo, terribilmente difficile. Ma che cosa possiamo fare? Lo storico non ha il
diritto di disertare»16. Erano gli anni Trenta e Febvre pensava nei termini di storia
137
della paura, storia della gioia, storia della morte, ossia di grandi affreschi collettivi
di storia della mentalità, ordini del pensabile che determinano la percezione e l’a-
zione degli uomini in una data epoca. Lontani dal voler ricostruire grandi affreschi
di tutta un’epoca, e molto più interessati al sentire e all’agire dei singoli, abbiamo
tuttavia colto l’invito di Febvre a non disertare il tema della vita affettiva.
138
Alessandro Casellato
Lavorare sull’archivio di una famiglia è un po’ come avere a che fare con la me-
moria delle persone: sono entrambe fonti inesauribili, mobili, sempre cangianti.
Scavando, ascoltando, aspettando, può sempre venire fuori un documento, o un
ricordo, che costringe a rivedere l’insieme sotto una luce diversa. Quando si ha
a che fare con un archivio non inventariato, disseminato in varie sedi, accessibile
esclusivamente attraverso la disponibilità delle persone che lo detengono e con il
quale intrattengono forti legami affettivi e identitari, si ha ancor più forte la sen-
sazione di maneggiare non un corpus di documenti ma un corpo, vivo, che reagisce
quando lo si tocca, che a suo modo risponde quando lo si interroga17.
17 Le carte private di Piero Calamandrei – lettere, diari, appunti – sono conservate in parte a Firenze
(Istituto toscano per la storia della Resistenza), in parte a Trento (Museo storico in Trento) e in parte
a Montepulciano (presso la biblioteca comunale “Piero Calamandrei” e presso la casa di campagna
di Piero, ora di proprietà delle nipoti). L’archivio di Franco Calamandrei e Maria Teresa Regard è
conservato a Roma, nell’abitazione di famiglia. Della cura e valorizzazione di questi documenti si
occupa Silvia Calamandrei, figlia di Franco e Teresa.
Parte di questi scritti, ai quali si farà riferimento nel testo, sono stati pubblicati nei seguenti volumi:
Calamandrei, P. Lettere 1915-1956, a cura di Agosti, G.; Galante Garrone, A., Firenze, La Nuova
Italia, 1968; Id. Diario 1939-1945, a cura di Agosti, G., Firenze, La Nuova Italia, 1982; Calaman-
drei, F. La vita indivisibile. Diario 1941-1947, a cura di Bilenchi, R.; Cecchi, O., Roma, Editori
Riuniti, 1984 (seconda edizione Firenze, Giunti, 1998); Id. Le occasioni di vivere. Diario e scritti
1975-1982, a cura di Calamandrei, S.; Galante Garrone, A., Firenze, La Nuova Italia, 1995; Cala-
mandrei, P. Ada con gli occhi stellanti. Lettere 1908-1915, a cura di Calamandrei, S., Palermo, Sellerio,
2005; Id. Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924), a cura di Calamandrei, S.; Casellato,
A., Roma-Bari, Laterza, 2006; Calamandrei, P.; Calamandrei, F. Una famiglia in guerra. Lettere e
scritti (1939-1956), a cura di Casellato, A., Roma-Bari, Laterza, 2008; Regard, M.T. “Autobiografia
1924-2000. Testimonianze e ricordi”, in L’Annale Irsifar, Milano, Angeli, 2010.
18 Calamandrei, F. La vita indivisibile cit.
19 Id. Le occasioni di vivere cit.
20 Regard, M.T. “1924-1948”, in Autobiografia 1924-2000 cit., pp. 13-77.
140
per le cose della vita, costretta precocemente a uscire di casa per lavorare, Teresa
aveva incontrato la politica prima al liceo e poi nell’università. La lotta partigiana
era stata l’apice di un percorso di emancipazione, il massimo di responsabilità
personale e di esposizione sulla scena pubblica. Portare le armi, mettere le bombe,
decidere non solo della vita propria ma anche di quella altrui, non essere da meno
dei suoi coetanei maschi quanto a coraggio: questi erano stati i nove mesi di Resi-
stenza a Roma che Teresa aveva consegnato alle sue memorie.
La Liberazione fu per lei l’ultimo atto di una avventura bella e terribile. «Mi
dispiacque disfarmi della mia Beretta 7.65 che avrei voluto conservare»21, scrisse
poi nelle sue pagine autobiografiche. La pistola era stata un simbolo potente, per
quanto perturbante, di autonomia. Una volta liberata Roma, Franco – con cui
si era conosciuta all’interno dei Gap – le chiese insistentemente di sposarlo; lei
cedette: si ritrovò così a essere moglie, e presto anche madre. La sua giovinezza era
finita a vent’anni.
21 Ivi, p. 57.
22 Casellato, A. “Il figlio comunista”, in Calamandrei, P.; Calamandrei, F. Una famiglia in guerra
cit., pp. VII-CVIII.
141
luzione dei turbamenti del giovane intellettuale alla ricerca di sé: aver trovato nel
partito un approdo sicuro avrebbe “guarito” Franco dalle sue incertezze esistenziali
e politiche, ricomponendo la sua personalità e dandole forma compiuta.
I riferimenti espliciti erano all’attrazione che il fascismo aveva esercitato su Fran-
co: la fisiologica ribellione contro il padre – l’accademico, il borghese, l’antifascista
Piero Calamandrei – aveva assunto per alcuni anni questa configurazione. Franco
aveva dapprima guardato con favore all’intervento italiano nella guerra di Spagna, e
poi aveva rifiutato il percorso professionale che suo padre aveva sperato per lui: nella
scelta dell’università, aveva preferito seguire la propria vocazione letteraria piuttosto
che la tradizione di famiglia che aveva sfornato generazioni di giudici e avvocati.
Le lettere conservate da Piero Santi facevano capire che in quegli anni post ado-
lescenziali il conflitto tra padre e figlio Calamandrei attingeva a strati ben profondi;
aveva a che fare con modelli diversi di mascolinità, cioè con il definirsi di un’identità
sentimentale e sessuale, non solo politica e professionale. Le giovanili frequentazioni
omosessuali di Franco erano state comprensibilmente taciute, dopo la guerra e dopo
il matrimonio con Teresa. Rimasero come pettegolezzi, che continuarono a circolare
negli ambienti fiorentini e all’interno del PCI, usati magari per ferire (o interferire)
in certi momenti, ma tutto sommato perfettamente coerenti con l’immagine del
giovane borghese “in cerca d’autore” che nel partito aveva infine trovato una guida
salda, superando i “retaggi decadenti” suoi e del suo ceto.
3. Rileggere il diario del 1941-1947 alla luce delle nuove, privatissime, scoperte ri-
velava anche altri aspetti che sino ad allora erano sfuggiti agli sguardi di chi lo aveva
accostato innanzi tutto come fonte per la storia della Resistenza. Ad esempio, diven-
tava subito evidente quello che pur era sotto gli occhi di tutti: la chiave di volta nel
percorso esistenziale e sentimentale di Franco Calamandrei non era stato il PCI, ma
era stata Teresa. Ci sono pagine chiarissime all’interno de La vita indivisibile: sono
le lettere che lui le spedì nella primavera del 1944, mentre si trovava nascosto a San
Giovanni in Laterano dopo essere fortunosamente fuggito dal carcere di via Tasso.
È all’incontro con Teresa, e all’innamoramento profondo e travolgente che ne era
seguito, che Franco nel suo diario riconosce una funzione catartica. Nelle pagine del
diario descrive l’ebbrezza della scoperta di sé, o di una parte di sé che gli era rimasta
fin lì nascosta, il gusto di vedersi intero e completo, il piacere di sentirsi in sintonia
con il mondo esterno. La sua trasformazione interiore era certo coincisa con un
momento politicamente rivoluzionario, con la nascita di un mondo nuovo che la
guerra stava dolorosamente partorendo e che sembrava annunciare all’orizzonte una
palingenesi ancora più completa. Ma al centro c’era Teresa, non il partito23.
23 Id, “Le rivoluzioni sono periodi in cui ci si innamora. Franco, Teresa, la Resistenza”, in S-nodi,
n. 1, 2007, pp. 45-70.
142
4. Nel corso della ricerca sulle vicende di casa Calamandrei, la scoperta forse più
inattesa fu che esistevano non solo due diari di Franco, ma anche due autobiogra-
fie di sua moglie Teresa. Se i primi due erano noti a tutti, perché editi e riediti, e se
la prima memoria di Teresa era ormai diventata un file word pronto a sua volta per
la pubblicazione, la seconda autobiografia emerse misteriosamente dagli anfratti
dell’archivio di famiglia, in forma di dattiloscritto, solo nel momento in cui stava
per essere pubblicato un libro basato sulle lettere e gli scritti di Franco e Piero
Calamandrei negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale24.
I due testi di Maria Teresa Regard stavano in una strana combinazione tra
loro: il primo cominciava con la nascita dell’autrice (1924) e si concludeva nell’an-
no del suo ritiro dalla politica (1948), il secondo iniziava nel 1947, e si prolungava
per tutti i decenni successivi, fino al presente della scrittura, collocabile nei primi
anni Novanta25. La cosa rilevante era che le due metà dell’autobiografia di Teresa
non combaciavano affatto: non solo per una sfasatura cronologica che faceva so-
vrapporre la fine dell’una e l’inizio dell’altra, ma soprattutto per l’organizzazione
narrativa, cioè per le cose che vi si dicevano e per come venivano raccontate26.
La prima autobiografia era un racconto di formazione, molto interno al ge-
nere delle “memorie dei comunisti”: seguiva lo sviluppo della coscienza politica di
Teresa sin dagli anni Trenta a Napoli, aveva il suo apice nell’incontro con il PCI e
con la Resistenza a Roma, e si concludeva un po’ bruscamente nel 1948, a Milano,
143
con il ritiro dalla scena politica, in coincidenza con la fine della transizione del
dopoguerra e l’assunzione da parte di Teresa del ruolo di moglie e madre.
La “nuova” autobiografia mostrava una ben altra storia, anche se la protago-
nista era la stessa. Era sostanzialmente il racconto di una relazione extraconiugale
con I., un giovane compagno di partito, cominciata nel 1947, a Milano, nei giorni
dell’insurrezione seguita al trasferimento del prefetto Troilo, proseguita intensa-
mente per alcuni mesi fino a un chiarimento con Franco e alla scelta di cominciare
con lui una nuova vita all’estero (a Londra e a Pechino, come corrispondenti per
la stampa di partito) e poi rimasta sottotraccia nei decenni successivi, latente ma
mai del tutto interrotta, almeno sul piano psicologico. Era chiaramente un testo
che non era stato scritto per essere pubblicato.
In queste pagine, inoltre, Teresa non nascondeva gli interventi che c’erano
stati da parte dei dirigenti del Pci nella sua vita familiare a seguito della sua “tra-
sgressione”: convocata a rapporto dal segretario della federazione, era stata pesan-
temente redarguita e infine punita con l’allontanamento dalle cariche di partito.
A I., invece, era toccato un trasferimento in un’altra città: sarebbe stato lui a di-
mettersi da funzionario, un anno più tardi, e poi a lasciare definitivamente il PCI,
per propria scelta.
La seconda memoria di Teresa, quindi, era significativa non solo all’interno di
una vicenda strettamente biografica, ma soprattutto per comprendere il discipli-
namento dei sentimenti e delle relazioni di genere che il PCI operò nel dopoguer-
ra. Qui il privato era profondamente connesso al pubblico, a tal punto che senza
conoscere il “retroscena” sentimentale sarebbe stato impossibile capire quello che
era avvenuto sulla “scena” della vita politica, dalla quale Teresa, a un certo punto,
era stata costretta repentinamente a uscire.
Il PCI, ovvero il soggetto collettivo che sia Franco che Teresa avevano incrociato
negli anni della guerra e al quale continuarono a essere legati anche dopo, si rivestì
di un significato duplice per la coppia Calamandrei-Regard. Se per l’uomo era stato
il viatico di un’affermazione personale, professionale e politica, per la donna esso
risultò uno strumento di privazione e assoggettamento: nel giro dei tre anni seguiti
alla fine della guerra, Teresa si ritrovò non solo nel ruolo di moglie e di madre, ma
anche messa al bando dal partito e costretta a rinunciare all’attività politica.
144
27 Maier, C.S. “Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia, la negazione” in
Parolechiave, n. 9, 1995, pp. 29-43.
28 «L’idea di un unico momento forte della vita che fissa la propria identità è forse un artificio, un
tentativo ingannevole di affermare la propria continuità, la propria coerenza vitale» (Foa, V. Il cavallo
e la torre, Torino, Einaudi, 1987, p. 143).
145
Luisa Tasca
29 Passeron, J.C.; Revel, J. definiscono il caso come qualcosa di diverso dall’esempio, arbitraria-
mente scelto per illustrare una proposizione generale, e piuttosto come un enigma da risolvere,
che richiede un’interpretazione; Passeron, J.C.; Revel, J. (sous la direction de) Penser par cas, Paris,
Édition de l’EHESS, 2005.
30 Sulla figura di De Gubernatis cfr. Taddei, M. (a cura di) Angelo De Gubernatis. Europa e Oriente
nell’Italia umbertina, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1995; Masini, R. “Nel mondo femmi-
nile di Angelo De Gubernatis: la sua corrispondenza intima”, in Contini, A.; Scattigno, A. (a cura
di) Carte di donne. Per un censimento regionale della scrittura delle donne dal XVI al XX secolo, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, pp. 145-159.
148
tanto la loro intensità, la loro qualità e il loro significato, quanto il loro numero e
la loro estensione a venire valorizzati.
Va detto che il modello biografico al quale De Gubernatis si ispirava e che
contribuì a diffondere in Italia (fu autore di moltissime biografie e di Dizionari
biografici, soprannominato il Principe dei biografi) era quello francese di Sainte-
Beuve, per il quale l’idea di fondo è che solo un approccio biografico attento alla
famiglia, alle frequentazioni, al milieu sociale, agli aneddoti, ai dati, alle abitudini
dell’autore, possa far capire un’opera d’arte. È un modello di critica letteraria al quale
si era opposto Proust nel celebre scritto Contre Sainte-Beuve in cui accusava il critico
di superficialità, sostenendo l’idea di un io profondo dell’autore che non si poteva
identificare con l’io sociale, quotidiano, e che rimaneva nascosto agli occhi esterni.
Nella parte più privata del suo epistolario, quella che riguarda i rapporti con
la moglie – Sofia Bezobrasoff era una russa, più anziana del marito, proveniente
da una famiglia di proprietari terrieri –, Angelo De Gubernatis appare un ma-
rito distante, incapace di soddisfare i bisogni emotivi della moglie. Il rapporto
coniugale è caratterizzato dall’ammirazione sconfinata di lei nei confronti di lui:
«penso a te con molto affetto e molta gratitudine, anzi con molta ammirazione
per la generosità e la nobiltà del tuo carattere» (21 agosto 1876) e dai richiami al
marito perché non dimentichi i suoi doveri di genitore. Per quanto la moglie si
interessi alla vita culturale e sociale di Angelo, ne legga i libri, conosca le persone
che frequenta, lo conforti nei dissidi con i colleghi, non c’è cameratismo e non
c’è companionship in questa relazione, che resta asimmetrica. Lui è lontano, lei in
un’attesa febbrile: «sono avida di ogni tua carezza, di ogni tua espressione affet-
tuosa e non vorrei che il tempo avesse scemato i tuoi sentimenti. Le Russe hanno
un loro modo speciale di amare; sono esigenti» (18 aprile 1878)31. Per le necessità
legate alla distanza, la loro è una relazione che ha un alto grado di verbalizzazione
e la comunicazione epistolare è usata come strumento per appianare il conflitto e
salvaguardare l’accordo all’interno del rapporto coniugale. Il rapporto coniugale
non è però il luogo degli affetti pacati, equilibrati, ordinati. Sofia De Gubernatis
esprime tutta la sua passione, le sue frustrazioni, i suoi dolori, ma compie insieme
anche lo sforzo di autocontrollarsi: c’è quindi un’oscillazione tra la passione, le
richieste e i rimproveri fatti al marito lontano, fisicamente e affettivamente, e la
sobrietà, l’autocontrollo, la responsabilità richiesti al suo ruolo.
Si tratta di una lontananza che è fisica, ma anche dei sentimenti. Accanto alle
lettere ufficiali, esiste infatti un carteggio intimo, “riservato” che De Gubernatis
aveva separato da quello principale e donato alla Biblioteca Nazionale di Firenze
con la clausola che questo baule venisse aperto e il suo contenuto pubblicato solo
149
cinquant’anni dopo la sua morte. Questo archivio separato contiene venti pacchi
corrispondenti ad altrettante donne con cui De Gubernatis ebbe rapporti intimi,
sia fisici sia amorosi in senso lato. Con spirito classificatore, De Gubernatis cata-
loga le donne che ha frequentato, antepone a ciascun pacco di lettere sommarie
notizie biografiche sulla donna in questione e giudizi e annotazioni riguardanti il
loro rapporto. È un carteggio fisico che contiene ciocche di capelli, foto, disegni,
fiori secchi. Per alcune di queste corrispondenti De Gubernatis ha diviso le lettere
ufficiali, che sono finite nel carteggio normale, da quelle più intime raccolte in
questo carteggio riservato. Vi è quindi un’oculata amministrazione dei rapporti
con le donne e una gestione previdente della propria memoria post-mortem.
Le mittenti sono le più diverse: scrittrici di una certa fama (ad esempio Grazia
Deledda, molto più giovane di lui, con la quale intrattiene un carteggio sentimen-
tale senza che i due si incontrino), traduttrici, collaboratrici di riviste, direttrici
di scuole femminili, insegnanti, modelle di pittori e anche “cocottes” così come le
definisce lo stesso De Gubernatis. Sono donne che non si conoscono ma che sono
accomunate da una grande ammirazione per l’uomo e il professore, che sfocia in
una sorta di adorazione, una cieca fiducia nelle sue qualità intellettuali, artistiche
e anche morali. A tali lettere De Gubernatis antepone uno scritto in cui cerca di
giustificare il suo comportamento di marito e amante infedele, sostenendo che
«troppo tardi incominciai ad amare. Sento che sarei stato capace di amare molto,
di amare grandemente, di amare unicamente. La mia amatività è immensa. Ma
io non fui tanto fortunato da incontrare una sola donna che potesse realizzare
sola il mio grande sogno d’amore»32. L’amore resta un’esperienza frammentata
e transitoria, di fatto mai soddisfacente: non si concretizza in un rapporto unico
e totalizzante perché le aspettative vanno al di là della realtà. L’accento cade con
orgoglio su un’energia erotica e vitale strabordante, e su un interesse per il mondo
femminile, che però sembra nascondere una latente misoginia.
Ci sono ad esempio le lettere scritte da una cocotte parigina, Antoinette d’Or-
nay, che parlano il linguaggio dell’amore fisico, delle carezze, dello struggimento,
del desiderio di morire tra le sue braccia, di ricevere i baci come solo lui sa darli
ed è interessante il breve commento che De Gubernatis, quasi scientificamente,
antepone: «Antoinette d’Ornay. Graziosa, fine, conosciuta a Parigi; riveduta per
un mese a Roma; delicata e voluttuosa; ma si confidò della conoscenza fatta con
me a una sua pretesa madre la signora d’Albert che, lei morta, fece un tentativo
di chantage con me; avendo minacciato di denunziarla al commissario di polizia,
si tacque»33. Ma anche nelle lettere scritte da De Gubernatis, ad esempio a Luisa
150
Sicca, con la quale ha una relazione di qualche anno, prevale il linguaggio galante e
amoroso più trito, «sono tuo», «ti adoro», «lunghi baci», «il mio ardore amoroso»,
con tutte le complicazioni legate al fatto di dover organizzare gli incontri, tra orari,
luoghi, appuntamenti nelle stazioni ferroviarie, fughe di qualche giorno. Nelle
descrizioni che De Gubernatis ci ha lasciato di queste donne, esse hanno sempre
qualche difetto: sono «capricciosette e prepotenti», o sono «farfalline delicatamen-
te voluttuose», o «perfide», o «spiritualissime» o «gatte amorose», o «impetuose»;
c’è sempre una veemenza, una stereotipia e un’iperbole del linguaggio.
Insieme all’epistolario intimo, De Gubernatis ha lasciato anche un diario. Ci
si potrebbe aspettare dal diario una scrittura più impegnata nello scavo interiore,
più intima, in questo senso diversa da quella dell’autobiografia perché il diario
non era destinato a venir pubblicato, mentre l’autobiografia era una forma pubbli-
ca di scrittura. Il diario colpisce invece per il peso preponderante che hanno in esso
i rapporti con il mondo esterno, sotto forma di protocollo della corrispondenza,
di tutte le lettere ricevute e scritte, giorno per giorno, e di resoconto delle persone
incontrate e delle conversazioni sostenute durante le visite di cortesia e le serate
mondane. Anche il diario è dunque una sequenza di nomi. De Gubernatis appare
costantemente proiettato fuori di sé: è un diario dal quale mancano di conseguen-
za tante altre cose: non c’è il corpo; non ci sono riferimenti al rapporto con la
moglie; non vengono mai citati gli eventi storici coevi, né vi è una riflessione sul
rapporto tra eventi biografici e eventi collettivi; il diario non è né un luogo di ri-
flessione intellettuale, sulla propria attività creativa, perché non vi è attenzione per
il processo creativo ma solo per i suoi risultati, articoli, libri, congressi; né il diario
è un luogo di analisi dell’io, di introspezione, una dimora sicura, che permetta di
stare fuori dal mondo, dalla tempesta dei conflitti.
C’è però quello che uno psicologo junghiano chiamerebbe il lato ombra, il
lato nascosto, oscuro della personalità, in un uomo altrimenti così pubblico, così
estroverso: ovvero l’attenzione al mondo della notte e in particolare ai sogni, che
De Gubernatis trascrive in modo dettagliato, più di uno per notte, pur essendo
questi sogni a loro volta popolati non tanto da persone e figure fantastiche, quanto
da persone conosciute. Durante queste notti che possono essere, o travagliate e
insonni, oppure ricche di sogni, c’è una sorta di ritorno del rimosso, di compensa-
zione, e traspare anche l’elemento nevrotico, sofferente, ansioso di De Gubernatis:
«Sono stanco, stanco, stanco! Notte quasi insonne. Ho un terribile accesso di pian-
to nervoso» (21 Luglio 1874); il giorno dopo: «Continua l’oppressione»; «Notte
per metà insonne per una persistente oppressione al cuore» (24 luglio 1874); e
ancora: «Debolezza costante»34. De Gubernatis accoglie con piacere i sogni e si
151
lamenta quando trascorre una notte senza sogni o di sogni insignificanti. Non co-
nosce Freud e ha scarsissima dimestichezza con la psicologia del suo tempo, però
colpisce la sua attenzione per questa parte inconscia e involontaria della sua vita;
quasi volesse rimanere attivo e produttivo anche durante la notte.
Quanto queste tre tipologie di fonti, lettere, diario e autobiografia, sono stru-
menti di espressione del proprio vissuto interiore? Quanto ampi o quanto angusti
sono i limiti entro i quali l’io deve stare per parlare di sé? Quale grammatica dei
sentimenti regola la vita di quest’uomo? De Gubernatis è un uomo con una vita
emotiva intensa, inserito in una trama ricca di rapporti familiari e affettivi. Tut-
tavia, l’espressione dei sentimenti, il lessico usato per parlare del proprio mondo
affettivo e delle relazioni con gli altri è stereotipato, frettoloso, talvolta trasandato,
talaltra ampolloso. Manca inoltre l’idea che la sostanza dell’io riposi in un ordine
diverso da quello pubblico. Non c’è in De Gubernatis nessuna cogente necessità
di espressione del sé più profondo né l’angoscia dell’inespressione che spesso l’ac-
compagna. Diario, autobiografia e lettere rivelano solo in minima parte la sfera
dell’io individuale invisibile agli attori sociali. La vita emotiva non sembra mai di
difficile lettura.
Siamo di fronte a un caso di “ipersocialità”, “ipererotismo”, “ipergrafia”, con
un impiego del tempo strumentale al raggiungimento del risultato e un’aderenza
piena alla realtà, che non è mai delusiva al punto da determinare per reazione un
ritiro nel mondo interiore o nel mondo dei pochi affetti scelti; per quanto si la-
menti degli impegni e della stanchezza che ne consegue, De Gubernatis non si di-
fende mai dalle sollecitazioni esterne e non le seleziona. Si tratta sicuramente di un
aspetto individuale, dell’uomo Angelo De Gubernatis, ma esprime forse – poiché
si ritrova in altri intellettuali del calibro di De Gubernatis, come il suo amico Pa-
olo Mantegazza, anch’egli “ipergrafico”, “ipersociale”, “ipererotico” – alcuni tratti
del mondo culturale e sociale dell’Italia laica di fine Ottocento.
Le tre scritture dell’io, autobiografia, epistolario e diario, tendono a confer-
marsi reciprocamente: vi sono sicuramente nel diario e nell’epistolario aspetti che
non passano il filtro pubblico e ufficiale dell’autobiografia la quale, ovviamente,
non fa alcun riferimento né alla relazioni extra-coniugali né alle sofferenze nottur-
ne, all’ansia, al senso di oppressione, all’insonnia. Tuttavia, alcuni di questi aspetti
passano in un modo che sembra involontario, quasi dei lapsus, anche nell’autobio-
grafia: De Gubernatis lascia trasparire qua e là frammenti di sofferenza e non riesce
a non citare – ovviamente come semplici conoscenze – alcune delle donne amate.
Tra ordine e disordine dell’io prevale però il primo: la vita mantiene un carattere
rettilineo e l’ordine delle scelte, del progetto esistenziale, della volontà e della tra-
iettoria individuale, vince su ogni fragilità interiore. Anzi, lo scopo della scrittura
sembra essere lo stesso nelle tre forme, del diario, delle lettere e dell’autobiografia:
scrivere serve a preservarsi da un duplice disordine, quello di un mondo esterno
152
153
Monica Pacini
35 Cfr. Zarri, G. (a cura di) Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia, secoli
XV-XVIII, Roma, Viella, 1999.
36 Cfr. Sarti, R. “Oltre il gender? Un percorso tra recenti studi italiani di storia economico-sociale”,
in Rossi-Doria, A. (a cura di) A che punto è la storia delle donne in Italia, Roma, Viella, 2003, pp.
112-115; Fiume, G.; Vezzosi, E. (a cura di) “Storia orale, memoria delle donne e storia nazionale”, in
Genesis, n. 1, 2002, pp. 233-260 e più recentemente la pubblicazione degli atti del convegno interna-
zionale tenutosi ad Avignone il 15-16 marzo del 2001: Thébaud, F.; Dermenjian, G. (a cura di) Quand
les femmes témoignent. Histoire orale Histoire des femmes Mémoire des femmes, Paris, Publisud, 2009.
37 Cfr. Laslett, P. Household and family in past time, Cambridge, Cambridge University Press, 1972;
Wall, R.; Rabin, J.; Laslett, P. (a cura di) Forme di famiglia nella storia europea, Bologna, il Mulino,
1984 (ed. or. 1983); Ariès, P. Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari, Laterza, 1968 (ed. or.
1960); Stone, L. Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Torino, Einaudi,
1983 (ed. or. 1977). Per una critica alla visione anaffettiva delle società di antico regime cfr. Sarti, R.
Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 284-298.
38 Cfr. Barbagli, M. Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia italiana dal XV al XX secolo, Bo-
logna, il Mulino, 1984.
39 Cfr. Petrucci, A. Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 144,
155; “Bibliographie”, in Diaz, B.; Siess, J. (a cura di) L’épistolaire au féminin. Correspondances des
femmes XVIIIe-XXe siècle (Colloque de Cerisy-La-Salle, 1er-5 octobre 2003), Centre de Recherche
«Textes/Histoire/Language», Université de Caen Basse-Normandie, 2006, Presses universitaires de
Caen, pp. 247-254.
40 Cfr. Betri, M.L.; Maldini Chiarito, D. “Dolce dono graditissimo”. La lettera privata dal Settecento
al Novecento, Milano, Franco Angeli, 2000; Bizzocchi, R. In famiglia. Storie di interessi e di affetti
nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2001; Guidi, L. (a cura di) Scritture femminili e Storia, Na-
poli, ClioPress, 2004; Calanca, D. Storia della famiglia italiana. Ruoli e passioni nel XX secolo, Pesaro,
Metauro, 2005. Per una rassegna critica cfr. Casalena, M.P. “Le lettere come documenti e come
testi”, in Contemporanea, n. 1, 2006, pp. 199-205.
41 Cfr. Capello, C. Il Sé e l’Altro nella scrittura autobiografica. Contributi per una formazione all’ascolto:
diari, epistolari, autobiografie, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 11.
156
42 Cfr. Dauphin, C. «Les manuels épistolaires au XIXe siècle. Pratiques éditoriales et imaginaire
social», in Planté, C. (a cura di) L’épistolaire, un genre féminin?, Paris, Honoré Champion, 1998, pp.
179-195.
43 Cfr. Maldini Chiarito, D. “L’ossequio, la confidenza e la regola: i tre linguaggi di Costanza D’A-
zeglio”, in Betri, M.L.; Maldini Chiarito, D. “Dolce dono graditissimo” cit., pp. 341-354. Garboli,
C. “Prefazione” in Manzoni, M. Journal, a cura di Garboli, C., Milano, Adelphi, 1992, pp. 11-94;
Anglani, B. “Il disotto delle carte”. Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria, Milano,
Angeli, 2004.
44 Cfr. Cattarinussi, B. (a cura di) Emozioni e sentimenti nella vita sociale, Milano, Angeli, 2000.
45 Cfr. Rosenwein, B.H. “Worrying about emotions in history”, in American Historical Review, n.
3, 2002, pp. 825-845.
157
in quel modo, mettendo in primo piano il “cosa” e il “come” più che il perché:
«comprendere non è la stessa cosa che fornire una spiegazione causale»46.
L’impressione è che lo storico della cultura stia tornando a interrogarsi sulla pos-
sibilità di recuperare le esperienze delle persone del passato, dopo decenni di prima-
to della rappresentazione discorsiva, per quanto in molti continuino a ritenere che
soltanto nei discorsi o nelle varie tipologie di testi le sensibilità – intese come modi
di stare al mondo – possano trovare una tangibile definizione. Tuttavia, quelle che
Wickberg considera promettenti linee di sviluppo della storia della sensibilità sem-
brano andare nella direzione di una critica serrata tanto alle periodizzazioni fissate
per l’Occidente dalla narrazione dominante del disciplinamento delle emozioni at-
traverso la civiltà delle buone maniere, messa a punto da Elias e dai suoi seguaci, che
alle generalizzazioni sullo “spirito del tempo” derivanti da una lettura banalizzante di
Huizinga e Febvre47. A farsi strada è l’idea di uno studio dei sentimenti attentamente
calibrato sulle specificità di valori, visioni, forme di sociabilità, emozioni, stili di
espressione delle diverse «comunità emozionali», spesso conviventi in modo conflit-
tuale e contradditorio all’interno dello stesso individuo o gruppo, lasciando cadere
la coerenza di un percorso lineare di progressivo autocontrollo48.
Dietro la sollecitazione di queste letture, il mio contributo ha subito una
torsione rispetto alle intenzioni iniziali, concentrandosi non tanto sulle forme lin-
guistiche adoperate nelle lettere per esprimere sentimenti (gioia, tristezza, grotte-
sco, ansia, malinconia…), quanto sulle funzioni emotivo-cognitive del processo di
scrittura epistolare che vede protagonista una donna della borghesia urbana, laica
e colta, nell’Italia della prima metà del Novecento.
46 Wickberg, D. “What is the history of sensibilities? On cultural histories, old and new”, in Ame-
rican Historical Review, n. 3, 2007, p. 675.
47 Cfr. Elias, N. Il processo di civilizzazione, Bologna, il Mulino, 1988, 2 voll. (ed. or. 1939); Hui-
zinga, J. L’autunno del Medioevo, Firenze, Sansoni, 1944 (ed. or. 1919); Febvre, L. “Come ricostruire
la vita affettiva di un tempo? La sensibilità e la storia”, in Id. Problemi di metodo storico, Torino,
Einaudi, 1976, pp. 121-138 (ed. originale 1941).
48 Sulla definizione di “comunità emozionale” cfr. Rosenwein, B.H. Worrying about emotions cit.,
pp. 840-845.
49 Laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e noto bibliografo, Fortunato diresse dal 1903
al 1929 la Biblioteca del Senato del Regno e collaborò assiduamente con Gentile nell’impresa della
Enciclopedia Treccani.
158
50 Cfr. Calabri, M.C. Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Torino, Utet libreria, 2007.
51 Luigi Pintor entrò giovanissimo nelle file della burocrazia ministeriale – prima come funzionario
del ministero dei Lavori Pubblici e poi delle Colonie; nel primo dopoguerra fu nominato segretario
generale e governatore della Cirenaica e dal 1922 direttore generale dell’Africa settentrionale. Pietro
Pintor fece carriera nello Stato maggiore dell’esercito e fu elevato al grado di generale d’armata
durante il fascismo. Alla vigilia dell’ingresso in guerra dell’Italia nel 1940, rimase vittima di un
misterioso incidente aereo.
159
di epistolarità familiare borghese che, tuttavia, lascia aperti molti interrogativi sui
margini di libertà effettivamente percepiti e agiti52.
Si tratta di lettere affettivamente calde ma mai sentimentali: guizzi romantici
e toni da melodramma compaiono solo nella forma della parodia; non a caso, uno
degli scrittori preferiti di Dedè era l’Aldous Huxley di Punto contro punto (1928).
Pagina dopo pagina, queste lunghe lettere stringono legami d’affetto tra gli zii e i
nipoti, sempre al centro: tutto riporta ai figli che sono monitorati nei loro umori,
tanto quanto nei loro bisogni materiali (dalle ore di sonno perse alle macchie sulla
giacchetta); seguiti nelle varie prove d’esame, osservati nei tratti del carattere, nei
desideri e nelle aspettative che lentamente maturano in tema di giochi e di letture.
È costantemente presente una forte attenzione alle fasi dello sviluppo spontaneo
del bambino, visto come «creaturina di magia», descritto con una grande variazio-
ne di aggettivi e tramite l’uso del discorso diretto53; ma questa sensibilità verso lo
svolgersi dell’individualità, formata e orientata da un ampio ventaglio di letture
pedagogiche – che comprende sia Paola Lombroso che Giuseppe Lombardo Ra-
dice – non esclude una valutazione degli attributi dei figli condizionata dalla co-
struzione culturale del genere. La descrizione della secondogenita Silvia è costruita
tutta in levare rispetto al primogenito: le mancano la grandezza e la profondità
degli occhi di lui, lei non ha i suoi riccioli, anche se compensa con la bellezza lu-
minosa e perfetta del sorriso e i capelli morbidi come fili di seta d’oro54.
Per mettere a confronto stili e registri diversi di scrittura, a questo corpo di
lettere familiari ho affiancato l’analisi di un gruppo più piccolo di lettere che Dedè
scrisse nello stesso lasso di tempo all’amica Gina Lombroso (conservate a Firenze
presso l’Archivio contemporaneo Alessandro Bonsanti) e che rispondono invece
ad una finalità altra, prioritariamente individuale: mantenere un qualche contatto
con «quel mondo a me carissimo, quello in cui si pensa, si scrive, si lavora, in un
vasto campo in cui non sono più distanza di luogo e di tempo»55.
160
Roma e alle Bibliotechine di zia Mariù (al secolo Paola Lombroso Carrara); provò
a scrivere per il teatro in anni di grande rinascita del protagonismo femminile
sulla scena56. Dopo la guerra, pubblicò racconti e traduzioni di storie per bambini
su vari periodici tra cui il “Corriere dei Piccoli”, e da tutte le sue lettere traspare
un legame forte con la scrittura descritta in termini di necessità intima – «Io ho
bisogno di parlare, o almeno di scrivere, come altri di fumare; e perciò m’avviene,
in mancanza di meglio di parlare da sola (con stupore e disappunto dei figli) o di
scombiccherare, come ieri, una lunga epistola in versi ai Dore di Firenze. Ma non
posso mettermi a scrivere cose da pubblicarsi con la previsione che non si pub-
blicheranno! A questo si ribella il mio istinto pratico»57–, ma anche di conflitto
e di frustrazione rispetto ai tempi e alle esigenze di una vita familiare sempre più
impegnativa (4 figli nati tra il 1919 e il 1928 e 11 traslochi tra il 1918 e il 1940):
Peccato che la vita sia tiranna: tutto quello che più interessa e piace sempre deve
essere sacrificato; ed io non posso dedicare che pochissimo tempo agli esperi-
menti pedagogici ai quali sarei proclive e per i quali avrei in Giaime un così
buon materiale! Un po’ stanca dell’allattamento, e soprattutto dei sonni inter-
rotti, non posso alzarmi presto. Quando mi alzo sono svegli anche i bimbi, e
comincia allora la ridda dei bagni, delle colazioni, del riordinamento della casa.
Che ci mette, poi, il pomeriggio a passare? È appena finito il brevissimo riposo
pomeridiano e già quasi occorre prepararsi per uscire; ché per i bimbi tutta la
giornata in casa sarebbe lunga e la farebbero… scontare. Immagina che zizzola
rimettere all’ordine due bambini grandi che ne hanno fatte di tutte in giardino o
a Buoncammino, e un bamboccio piccolo che – in pieno regime fascista – si di-
chiara anarchico rispetto alle sue intime effusioni. Se spesso non capitasse Niny
a dare una mano, mi sentirei scoraggiata. E ringraziamo Iddio che tutto appare
più facile quando il sole, l’azzurro, i profumi della primavera rappresentano l’at-
mosfera in cui si vive58.
56 Cfr. Dolza, D. Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra ’800 e ’900, Milano, Angeli,
1990, pp. 110-140; Schina, M. Il teatro di Eleonora Duse, Bologna, il Mulino, 1992.
57 Acs, Fortunato Pintor, lettera di Dedè Pintor a Francesca Pintor, Cagliari 15 febbraio s. a. [ma
1930].
58 Ibidem, lettera di Dedè Pintor a Pietro Pintor, Cagliari 8 aprile 1926.
161
nel corso della sua vita non perse mai il desiderio di misurarsi con la scrittura come
impegno quotidiano: se non altro, per non seppellire il tempo nel nulla59.
In questo senso, le sue lettere alla famiglia, pur nascendo da prospettive do-
mestiche anguste, quasi frusciando tra gli oggetti, i riti e le stanze della quotidiani-
tà, evidenziano un rapporto con la scrittura epistolare che va molto oltre l’esercizio
di una pratica e di un dovere familiare, diventando quasi il surrogato di un tempo
per sé, di un tempo sospeso, fatto di pensieri e di parole, che diventa sempre più
difficile da preservare e nutrire a contatto con una vita sociale rarefatta, polarizzata
tra la mite cenciosità rassegnata degli umili e la chiusa e inerte fierezza dei notabili,
tra «sudice straccerie» e inutili «orpelli»60:
Sempre medito come conciliare le faccende della casa e della maternità con i miei
desideri di attività anche diversa, ma la soluzione per ora non è stata facile. […]
io non so realizzare il pensiero se non in pace e la pace è il più difficile dei beni per
me, che ho tre bimbi piccoli e vivacissimi intorno […]. La mia vita è indubbia-
mente molto piena e non consente quasi mai un’occupazione sedentaria un po’
duratura. Mi conforta il pensiero di essere ancora abbastanza giovane per fare in
tempo, dopo cresciuti i bimbi, ad intensificare le attività predilette61.
A più riprese nelle lettere Dedè torna sul potere di attivazione emotiva e co-
gnitiva della parola scritta. Dentro il cerchio silenzioso dello spazio bianco del fo-
glio, cercare la parola scritta per esprimersi significa poter conoscere e riflettere su
quello che si sente e, dunque, sentire più a fondo i propri sentimenti62. In questa
prospettiva, le parole non sono intese solo come simboli ma come elementi attivi
del sentimento stesso e i sentimenti non sono letti come affezioni dell’anima, ma
acquistano la funzione di fattori di relazione che pongono soggetto e oggetto,
interno ed esterno in una connessione basata su un giudizio di valutazione, su una
scala di valori63.
59 Cfr. Piccone Stella, S. In prima persona. Scrivere un diario, Bologna, il Mulino, 2008, p. 10.
60 Acs, Fortunato Pintor, lettera di Dedè Pintor a Giaime Pintor, Santu Lussurgiu (Or) 9 settembre
1939. Per un ricordo dei genitori raccolti nella bolla senza tempo della scrittura e dell’ascolto della
musica nelle sere cagliaritane cfr. Pintor, L. Servabo. Memoria di fine secolo, Torino, Bollati Borin-
ghieri, 1995, pp. 19-20.
61 Acs, Fortunato Pintor, lettera di Dedè Pintor a Gina Lombroso, Cagliari 9 agosto 1926.
62 Per una riflessione teorica sul modo in cui le scienze sociali hanno affrontato il nesso tra esprimere,
conoscere e sentire cfr. Reddy, W. The navigation of feeling. A framework for the history of emotions,
Cambridge, Cambridge University Press, 2001.
63 Per un inquadramento storico e teorico rimando a Bodei, R. Geometria delle passioni. Paura,
speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 37, 44; Hillman, J. Anima.
Anatomia di una nozione personificata, Milano, Adelphi, 1985, pp. 55-74.
162
Per tornare alla domanda iniziale, per comprendere quale sensibilità incar-
nano questi documenti occorre chiedersi: che cosa Dedè giudicò di volta in volta
positivo o dannoso per sé? Assumere questa disposizione può aiutare a leggere le
lettere non solo come lo specchio di risposte emotive culturalmente apprese, ma
anche come la continua ricerca di una variazione personale alle norme dominanti.
A ragione Reddy nel suo studio rileva l’utilità di sostituire le parole «gestione» e
«navigazione» a costruzione dei sentimenti, nel tentativo di superare una lettura
tutta giocata sulla contrapposizione binaria tra assimilazione dei modelli e scarti
di libertà soggettiva64.
Nelle lettere che Dedè scrive “alla” e “per” la famiglia l’accento batte sull’emo-
zione gioiosa della maternità, percepita come momento di massima sincronia del
corpo con il mistero della natura, mentre nelle lettere a Gina Lombroso è il tempo
raccolto della scrittura a essere sentito come rilevante per il proprio benessere spi-
rituale; anzi, il tempo della gravidanza è raccontato come una parentesi durante
la quale le facoltà intellettuali restano «fasciate e intorpidite»65. Nel tentativo di
navigare tra questi sentimenti contrastanti Dedè prova a comporre una sintesi con
il linguaggio offerto dalla sua cultura, descrivendosi come «una donna che delle
donne ha le sensibilità e le esigenze sentimentali e dell’uomo il raziocinio e la cul-
tura: per cui ogni problema si complica in un interessante groviglio»66.
163
68 Cfr. Buttafuoco,A. “Motherhood as a political strategy: the role of the Italian women’s move-
ment in the creation of the Cassa nazionale di maternità”, in Bock, G.; Thane, P. (a cura di) Maternity
and gender politics: women and the rise of European welfare state, 1880s-1950s, London, Routledge,
1991, pp. 178-193.
69 Lettera di Dedè Pintor ai cugino sardi Evelina e Carola Sanna, Roma 7 agosto 1944 (di proprietà
di Antonietta Pintor, che ringrazio per averne consentito la pubblicazione).
164
Antonella Piazza
70 Cit. in Calabrese, R.; Chiavetta, E. Dello stesso padre, della stessa madre. Tredici sorelle di geni,
Ferrara, Luciana Tufani editrice, 1996, p. 208.
71 Stone, L. Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Torino, Einaudi,
1977.
166
Trust, del patrimonio dei beni culturali nazionali. Haworth, il vicariato brontia-
no, le colline di erica dello Yorkshire di Cime Tempestose o 22 Hyde Park Gate o
Bloomsbury sono inclusi come tali nel lucrativo mercato del turismo culturale.
Ridotti a icone, questi due gruppi adelfici sono certo casi di semplificazione, ma
anche di esemplificazione. Quelli delle Brontë e delle sorelle Stephen sono occa-
sioni in cui produzione artistica e biografia hanno trovato un sostegno reciproco e
hanno contribuito alla canonizzazione delle autrici.
È soprattutto nella scrittura biografica72 che si possono individuare i due
gruppi di sorelle artiste come paradigmi emotivi differenti e tracciare una linea di
continuità/discontinuità della relazione adelfica nella famiglia nucleare affettiva.
Nella sconfinata mole delle biografie sulle Brontë e su Virginia vengono prese in
esame quelle poche che, come nel caso del lavoro di May Sinclair sulle Brontë e di
Jane Dunn su V & V (come spesso vengono indicate Vanessa e Virginia), focaliz-
zano consapevolmente e problematicamente la loro attenzione sulla relazione tra
le sorelle e non solo su una di esse.
La perdita precoce della madre, una sequenza di lutti, la centralità di un padre
“letterato” e dispensatore di conoscenza, la presenza di un fratello ingombrante
sono elementi che le vite delle sorelle Brontë e delle Stephen condividono. Nella
“leggenda” brontiana lo sforzo di contrastare la fragilità psichica e morale del fra-
tello Branwell, è quello che lega le tre sorelle e le perde. Esso acuisce la loro rivalità,
la competizione invidiosa e distruttiva che riduce Charlotte a sorella matrigna che,
unica sopravvissuta e sessualmente deprivata, demolisce – in termini intellettuali
e materiali – l’opera della geniale Emily73. May Sinclair, scrittrice modernista e
femminista, riscrive la prima e più famosa biografia su Charlotte Brontë di Mary
Elizabeth Gaskell (1857). In Three Brontës (1912) in chiave antisentimentale la
Sinclair concentra ed estende l’attenzione sulla qualità e il valore della relazione
psichica delle sorelle: sull’invidia rivale privilegia la relazione di emulazione, amore
e sostegno74 tra Anne, Charlotte e Emily e le configura in una società femminile
72 La biografia è, come si sa, un genere ibrido tra scrittura storica e letteraria interessante per la
storia di genere, al cui statuto e alla cui produzione Virginia Woolf, figlia del curatore della History of
National Biography, ha contribuito con le sue riflessioni critiche (The New Biography del 1927 e The
Art of Biography del 1939) e le sue parodie del genere (Orlando, Flush). Ricostruita su documenti,
diari, lettere, autobiografie, ma anche con un potente contributo dell’immaginazione e delle prefe-
renze individuali ed emotive è scrittura rilevante per la storia delle emozioni.
73 Michie, H. Sororophobia. Differences among Women in Literature and Culture, Oxford, Oxford
University Press, 1992.
74 Sulla contrapposizione tra Klein e Winnicott/Gaddini cfr. Nunziante Cesàro, A. Del genere sessuale.
Saggi psicoanalitici sulla identità femminile, Napoli, Guida Editori, 1996. Cesàro afferma che in relazione
alla ferita narcisistica, mentre Gaddini, privilegiando la rivalità, mette in primo piano l’emulazione nel
rapporto tra fratelli, Klein, che postula come primaria l’invidia, si focalizza, invece, sulla distruzione.
167
75 «If the triangle plot dramatizes the tension between women’s loyalty to their primary bonds
with their sisters and their need for sexual fulfillment, The Three Sisters articulates the moment of
transition when the knowledge of the price paid for repressing sexual desire made it impossible for
women to accept the repression demanded by the sacrifice of the nineteenth-century shared plot»,
Wallace, D. Sisters and Rivals in British Women’s Fiction 1914-39, New York, Macmillan, 2000, p. 90.
168
violenta – con cui come uno scudo, ma a volte anche come una spada, le due so-
relle si lanciano in una vita nuova. Nel caso delle Stephen, il complesso fraterno,
in termini psicanalitici, segna il trionfo dell’asse orizzontale su quello edipico, de-
cretando la fine o la crisi della classica configurazione patriarcale dell’asse verticale,
intergenerazionale.
Ma non si trattò di un’impresa facile, né indolore: essa le vide sempre insie-
me aderendo di volta in volta – ora l’una ora l’altra – a ruoli e posizioni fluide,
flessibili, simmetriche ma anche dissonanti, qualità che colorarono le loro vite e la
loro arte, le arti sorelle della pittura di Vanessa e della scrittura di Virginia. Furono
sorelle, ma non gemelle interscambiabili, anche se dall’esterno pare ci fosse questo
rischio. Proprio i loro mariti, Leonard Woolf e Clive Bell, sembrano confonderle,
scambiarle quando le incontrarono ventenni e bellissime. Leonard Woolf in An
Autobiography dichiara:
Lytton Strachey le consacrò come «Le due donne più belle e argute di tutta
l’Inghilterra!».
Nel 1904 – Virginia 22 anni, Vanessa 25 – muore il padre, Leslie Stephen, e
con lui si chiudono le porte di 22 Hyde Park Gate, la claustrofobica e implosiva
residenza vittoriana dell’infanzia e della prima giovinezza delle sorelle Stephen,
che escono miracolosamente indenni da una sorta di soffocamento emotivo.
Vanessa e Virginia, come è noto, sono figlie dell’illustre biografo Leslie e di Julia
Duckworth. Entrambi vedovi (soprattutto lei stoicamente inconsolabile per la
perdita dell’amatissimo primo marito) hanno lui una figlia Laura – malata di
mente (verrà chiusa in manicomio) – e lei Gerald, Stella e George Duckworth.
Si sposano nel 1878 e nel giro di sei anni la nursery del terzo piano di 22 Hyde
Park Gate accoglie quattro nuovi figli: Vanessa, Thoby, Virginia e Adrian. La
madre e il padre sono il paradigma della divisione dei ruoli di genere all’interno
della famiglia nucleare affettiva. La madre, Julia – la immortale Mrs Ramsay di
76 Dunn, J. A Very Close Conspiracy. Vanessa Bell and Virginia Woolf, London, Virago Press, 2004,
tr.it. Vanessa e Virginia. Un sodalizio intellettuale, un groviglio sentimentale tra Virginia Woolf e sua
sorella Vanessa, Milano, Bompiani, 2004, p. 119.
169
77 Ivi, p. 58.
170
Bloomsbury
Nel 1904 Virginia scriveva: «L’abisso che attraversammo trasferendoci da Ken-
sington a Bloomsbury era l’abisso che separava una vita ipocrita, mummificata e
rispettabile da una vita forse sconsiderata e impudente, ma vitale»78. E Vanessa le
faceva eco: «La vita era eccitante, terribile e divertente, e noi dovevamo esplorarla,
felici di poterlo fare in libertà. […] Dava una sensazione di euforia l’aver lasciato
la casa in cui c’era tanta malinconia e tanta depressione, per venire tra queste
mura bianche, con queste grandi finestre che si aprono su prati e alberi, e avere le
proprie stanze, essere padrona del proprio tempo»79. Con Bloomsbury il santuario
della famiglia vittoriana crolla. Nel 1909 Vanessa scriveva: «Penso davvero che la
famiglia sia un’istituzione malvagia nonostante tutti gli argomenti che tu trovi a
suo favore… Anche nelle famiglie come la nostra in cui l’intelligenza celebra il
suo trionfo, si direbbe proprio che molti vizi siano inevitabili, almeno tra i suoi
membri dominanti»80. Strano sentire di Virginia favorevole al matrimonio se a
quarantacinque anni così si interrogava sulla sua ambiguità sessuale: «Ma il povero
Billy [Virginia] che non è né l’uno né l’altro, né uomo né donna, cosa farà?»81.
La convivenza dei quattro fratelli al 46 di Gordon Square – in cui Virginia e Va-
nessa si collocano come l’irresistibile polo di attrazione degli spiriti più brillanti
78 Ivi, p. 132.
79 Ivi, p. 154.
80 Ivi, p. 96.
81 Ivi, p. 67.
171
82 Kaës, R. Le complexe fraternel, Paris, Dunod, 2008, tr.it. Il complesso fraterno, Roma, Borla, 2009,
pp. 14-15.
83 Dunn, J. Vanessa e Virginia cit., p. 53.
172
173
Virginia and Vanessa playing cricket at St Ives in 1892. Virginia loved the ample spa-
ces the tennis court and terraced garden of the Stephen holiday house provided for
games. Talland House reappears in To the Lighthouse, which she wrote in 1927.
174
Marcella Soldaini
My complaint is that enough has not been made of such traces as history pre-
serves of significant lives lived by women […] What is there in … biographies
to inspire and lead you on? […] [Biographies] should rather call upon women to
take possession of this field themselves84.
84 Robins, E. Way Stations, London, Hodder & Stoughton, 1913, p. 246 cit. in Kunka, A.J.; Troy,
M.K. (eds.) May Sinclair, Moving Towards the Modern, Aldershot, England, Ashgate, 2006, p. 184.
85 Martindale, P. “The ‘Genius of Enfranchised Womanhood’: Suffrage and ‘The Three Brontës’”,
in Kunka, A.J.; Troy, M.K. (eds.) May Sinclair cit., pp. 179-196; Nata a Rock Ferry (Liverpool) nel
1863 e morta ad Aylesbury (Buckinghamshire) nel 1946, May Sinclair fu un’autrice particolarmente
attenta ai fermenti letterari, filosofici, psicoanalitici e sociali presenti non solo in Gran Bretagna ma
anche in America e nel continente europeo. Del cenacolo letterario da lei tenuto nella casa londinese
di St John’s Wood dal 1910 al 1920, fecero parte studiosi di fama internazionale come Ezra Pound,
James Joyce, Hilda Doolitle, William Butler Yeats. La sua produzione comprende numerosi romanzi
e racconti, una raccolta di poesie, due volumi filosofici sull’idealismo, un pamphlet in favore del voto
tre sorelle. L’opera della Sinclair non solo servì a rivalutare la vita di queste tre
artiste – Anne, Charlotte ed Emily – divenute poi un simbolo nella storia lette-
raria femminile e nel movimento femminista in genere, ma offrì anche un nuovo
modo di scrivere una biografia. Sfrondandola di elementi ridondanti ma anche
di pettegolezzi sulla vita privata delle protagoniste rivelati da altri critici – quali
Margaret Oliphant che considerava Charlotte una donna sessualmente frustrata
– la Sinclair ispira la sua biografia a uno dei testi più autorevoli pubblicati dopo
la morte delle Brontë, The Life of Charlotte Brontë di Elizabeth Gaskell del 1857,
di cui lei aveva curato una nuova edizione per la Dent di Londra nel 1908, ma
che l’aveva affascinata fin da quando, bambina, l’aveva scoperto nella biblioteca
paterna e l’aveva letto con avidità, rimanendo fortemente impressionata dalla tra-
gicità degli eventi in esso narrati86. Questa confidenza, che la Sinclair ci fa solo alla
fine della biografia, rappresenta in realtà una chiave di lettura per comprendere il
legame che ella stabilisce con queste scrittrici che erge a proprio modello di vita
e di scrittura, compiendo quel processo secondo cui la vita della biografa e la vita
della biografata si reinterpretano a vicenda87. In questa ottica la Sinclair seleziona
gli elementi dell’esistenza delle sorelle utili a metterne in risalto le doti artistiche e
umane che lei predilige. Da un punto di vista storico sono poche le fonti dirette
a cui fa riferimento e incorre pertanto nell’errore che lei stessa aveva attribuito
alla Gaskell, e di cui sono facilmente vittime i romanzieri che si cimentano nella
scrittura di una biografia, cioè di non riuscire a mettere da parte la propria imma-
ginazione per essere «umile servo dei fatti»88.
Tuttavia, pur nella mancanza di linearità spazio-temporale e nella esiguità dei
fatti narrati, in The Three Brontës la Sinclair esprime riflessioni storiche, sociali e
letterarie che, superando i pregiudizi vittoriani, danno luce e risalto a quanto la
vita e l’opera delle Brontë rappresentavano (e rappresentano tuttora) nella storia
delle donne in Europa. Il primo gesto che lei compie è quello di porre in relazione
le sorelle tra loro anziché focalizzarsi su una sola delle tre, come era spesso avve-
alle donne Feminism (1912), un taccuino sull’esperienza di crocerossina durante la prima guerra
mondiale (A Journal of Impressions in Belgium del 1915) e vari articoli, di stampo letterario ma anche
politico-sociale, apparsi su famose riviste inglesi e americane nei primi decenni del Novecento.
86 Sinclair, M. Le tre Brontë, cura e traduzione di Del Sapio Garbero, M., Napoli, Liguori, 2000,
p. 180.
87 Cfr. AA.VV. “Biografie: effetti di ritorno”, in DWF, n. 3, 1986. Molti critici della Sinclair, prime
fra tutti Maria Del Sapio Garbero e Suzanne Raitt, hanno indagato a fondo sull’influsso delle sorelle
Brontë sull’opera della Sinclair.
88 «The humble servant of the facts», Sinclair, M. “Introduction”, in Gaskell, E. The Life of Charlotte
Brontë, London, J.M. Dent & Sons LTD, 1908, p. IX cit. in Del Sapio Garbero, M. “Il Granito e il
Biancospino”, in Sinclair, M. Le tre Brontë cit., p. 3.
176
nuto nelle precedenti biografie89. Dunque è proprio al legame tra sorelle che la
Sinclair si interessa e, come è già stato sottolineato da Antonella Piazza, ne pone in
risalto gli aspetti positivi, quasi negando l’evidenza dell’opera di rimozione messa
in atto da Charlotte che, rimasta sola, distrugge le lettere di Emily e Anne.
Le sorelle Brontë, a differenza delle Stephens, condividono la stessa arte, non
distinguono i loro ruoli affidando la loro vena artistica a media differenti in modo
da stemperare la competizione fra loro. La Sinclair esalta il senso positivo di questa
fusione, il loro coltivare, nel chiuso della stanzetta-studio a Haworth, le emozioni,
l’immaginazione e dunque il genio creativo:
Per loro sembra che non ci sia stato assolutamente bisogno di impulsi esterni. La
cosa difficile per queste bambine era smettere di scrivere. […] Per le tre sorelle,
non un fantasma, non un’ombra di influenza. Non c’è mai stato genio che come
il loro dovette così poco all’influenza. […] Queste tre Brontë, che fra di loro si
adoravano, non sopportarono l’influenza di nessun altro90.
89 Per le altre biografie a cui la Sinclair fa riferimento si rimanda al testo Le tre Brontë cit., e in
particolare alle note della traduttrice n. 4 e 5 a p. 191.
90 Sinclair, M. Le tre Brontë cit., p. 26, p. 77, p. 100.
91 L’avvincente saggio di Del Sapio Garbero, M. Il Granito e il Biancospino, si concentra sull’im-
portanza che Haworth rivestì nella produzione creativa delle Brontë e, successivamente, anche di
May Sinclair.
177
178
rivela la spaventosa solitudine in cui le Brontë vissero. Qui c’è la loro amica più
cara e più intima, e lei è una alla quale non possono parlare della cosa che più
occupa i loro pensieri»94.
Quella delle sorelle Brontë si configura quindi come una comunità sororale
chiusa in se stessa. Manca lo slancio novecentesco verso l’esterno, la costituzione
di cenacoli letterari in cui si discutesse liberamente di arte e letteratura come avve-
niva nel gruppo di Bloomsbury. La Sinclair non spiega quali fossero le motivazioni
di una tale scelta. Forse nella vittoriana Haworth alle figlie di un pastore evange-
lico non era concesso esibire oltremodo le proprie ambizioni letterarie e così le
Brontë preferirono mantenere un certo riserbo sulle loro attività, confidandole
solo alle amiche più adatte a mantenere il segreto, come avvenne tra Charlotte e
Mary Taylor.
L’unico influsso esterno alla famiglia che avrebbe potuto incidere sulla forma-
zione di Charlotte, quello di Monsieur Héger, il professore di Bruxelles presso il
cui pensionato per signorine la scrittrice trascorse più di un anno per apprendere il
tedesco e il francese, viene minimizzato nella biografia della Sinclair, intenta a dimo-
strare quanto più significativo fosse, al confronto, il ritorno a Haworth dalle sorelle:
Per esaminare le relazioni che intercorrono tra le sorelle Brontë si può ricor-
rere alla distinzione operata da Vikki Stark in My Sister, My Self96 fra tre sorelle in
base all’ordine in cui sono nate. La maggiore, e dunque Charlotte, può essere con-
siderata un surrogato della madre e quindi non a caso Charlotte è colei che prende
la decisione di contattare le case editrici per la pubblicazione delle opere sue e delle
sorelle, anche se utilizza gli pseudonimi maschili di Currer, Ellis e Acton Bell. La
mediana invece è la più indipendente, creativa e solitaria delle tre e così fu Emily;
la minore infine è la più dipendente e fragile ma anche affettuosa e tale fu Anne
anche nel prendersi cura del fratello Branwell.
Nella biografia di May Sinclair le tre sorelle condividono emozioni e passioni
in un modo e in un mondo in cui la migliore opportunità per una donna era il
matrimonio:
94 Ivi, p. 77.
95 Ivi, p. 35.
96 Stark, V. My Sister, My Self, London, Mc Graw Hill, 2006.
179
Quel mondo, così come esisteva dal milleottocentodieci fino ai tempi di Charlot-
te nel milleottocentocinquantacinque, non era un posto fatto per una donna che
avesse un cervello e un’anima. Non c’era altra professione per la donna all’infuori
del matrimonio. […] Inoltre le consuetudini della sua educazione volevano che
le cose reali, vitali, le cose che contavano, non fossero mai menzionate in sua pre-
senza. […] In simili condizioni una donna era viva solo a metà. Era senza energie,
senza passioni, senza entusiasmi97.
Non fu così per le sorelle Brontë. Charlotte, Anne ed Emily dalle loro vite
esteriori semplici e silenziose seppero trarre emozioni profonde e le descrissero
nelle loro opere dove le loro eroine, rifiutando vuote manifestazioni sentimentali e
falsi moralismi, insegnavano alle donne a dare ascolto a desideri e inclinazioni che
fino ad allora erano stati loro interdetti. Questo fu forse il modello da cui mossero
i primi passi Vanessa e Virginia Stephen, creandosi un solido nucleo affettivo, il
loro legame di sorelle, per fronteggiare la realtà.
180
Annamaria Cecconi
1 Si veda ad esempio: Gras, H.; van Vhet, H. “Paradise Lost or Regained: Social Composition of
Theatre Audiences in the Long XIXth Century”, in Journal of Social History, vol. 38, (2), Winter
2004, pp. 471-515 L’analisi riguarda il pubblico dell’opera a Rotterdam dal 1773 al 1912; la percen-
tuale di donne nel pubblico resta sostanzialmente stabile nel lungo periodo.
2 Bono, P. “Passioni di scena. Editoriale”, in DWF, 1 (41) gennaio-marzo 1999, p. 4. «Inoltre il lavoro
della spettatrice sarà allora proprio quello di leggere lo iato, di credere e non credere, lasciandosi
Gli studi di caso che presentiamo affrontano – in un arco temporale dal di-
ciottesimo al ventesimo secolo –, temi quali la funzione di modello di una gram-
matica dei sentimenti che il palcoscenico ha proposto, la formazione di un pub-
blico femminile dell’opera lirica, l’intenzionalità delle grandi attrici del dicianno-
vesimo secolo nel “costruire” le loro spettatrici e il rapporto tra teatro delle donne
e pubblico nel neofemminismo. I saggi propongono anche una selezione delle
tipologie delle fonti documentarie (giornali, recensioni, lettere, atti processuali);
una scelta deliberata e coerente con lo sforzo di suggerire strumenti per una nuova
area di ricerca.
L’intervento che segue vuole essere una prima ricognizione delle questioni
di carattere teorico e metodologico. La rilevanza dell’argomento è significativa su
diversi fronti disciplinari: per la storia
culturale interessata alla femminilizzazione degli spazi pubblici e della cul-
tura, come ha sottolineato nella discussione Carlotta Sorba3, per la storia del
teatro e dell’opera in quanto occasione di indagare ulteriormente il doppio legame
comunicativo tra palcoscenico e pubblico.
Le studiose femministe del teatro, della danza, dell’opera lirica hanno finora
lavorato su questo legame prevalentemente dal punto di vista dell’emittente –
verso la platea. Al contrario, le ricerche di Mariani, Mascari e Plebani, invitano a
muoversi nella direzione opposta: dalla platea verso la scena. La difficoltà maggio-
re dell’impresa è considerare il pubblico femminile come una entità omogenea,
non solo sul piano sociologico, culturale e dei diversi gradi di competenza teatrale,
ma anche sul piano soggettivo dell’investimento emotivo, della risposta indivi-
duale a quanto il palcoscenico emette4. È quindi proprio il termine pubblico che
ci pone una prima difficoltà. È chiaro che in inglese female audience and female
spectatorship indicano due concetti diversi: nel primo prevale l’aspetto collettivo
e quantitativo; il secondo implica una attribuzione di consapevolezza critica, una
soggettività più marcata. La proposta di Carlotta Sorba che usa «collective specta-
tor» in un suo saggio, mi sembra una sintesi interessante e praticabile; per noi si
prendere dal piacere dell’inganno, ma decodificandolo per goderlo più a fondo e farlo fruttare nella
trasformazione di sé, nell’interpretazione del mondo, nella produzione di altri significati. Interro-
gando la Verità per dare spazio alla propria verità», ivi, p. 13
3 Sorba, C. “Intervento della discussant”, panel Il genere del pubblico: questioni per una storia della
ricezione femminile nelle arti della scena (Quinto Congresso della Società Italiana delle Storiche, Na-
poli 29 gennaio 2010) n.p.
4 Cfr. Cecconi, A. “Le emozioni della spettatrice d’Opera. Brevi note su di un dibattito, tra fem-
minismo, musicologia e Queer theory”, in Musica, le ragioni delle emozioni, “Nuova civiltà delle
macchine” XVI,1-2 (61-62), 1998, pp. 165-170.
184
5 Sorba, C. “To Please the Public: Composers and Audiences in Nineteenth-Century Italy” in Journal
of Interdisciplinary History, XXXVI, (4), Spring 2006, pp. 595–614, ivi, p. 599; un testo ormai
classico sul pubblico teatrale è Bennett, S. Theatre Audiences: A theory of Production and Reception,
London e New York, Routledge 2003 2nd in particolare pp. 67-85.
6 Si veda Cañadas, I. Public Theatre in Golden Age Madrid and Tudor-Stuart London: Class, Gender
and Festive Community, Aldershot, Ashgate 2005 pp. 41-52 e Bank, R.K. “Hustlers in the House: the
Bowery Theatre as a Mode of Historical Information”, in Engle, R.; Tice, M. (a cura di) The Ame-
rican Stage: Social and Economic Issues from the Colonial Period to the Present, Cambridge, Cambridge
University Press, 1998, pp. 47-64.
7 Per il periodo giacobita sono interessanti le osservazioni sulle dinamiche della sollecitazione
erotica del pubblico femminile analizzate da Zimmerman, S. “Disruptive Desire in Jacobean Co-
medy”, in Zimmerman, S. (a cura di) Erotic Politics: Desire on the Renaissance Stage, New York and
London, Routledge, 1992, pp. 46-47; Howard, J.E. Sex and the social conflict: “The Roaring Girl”,
ivi, pp. 174-179.
8 Cfr. Gurr, A. Playgoing in Shakespeare’s London, Cambridge, Cambridge University Press, 2002
2nd,
p. 59.
9 Solie, R. “Fictions in the Opera Box”, in Dellamora, R. (a cura di) The Work of Opera: Genre,
Nationhood and Sexual Difference, New York, Columbia University Press, 1999, pp. 185-208.
185
10 Fondamentale per lo studio della fan della cantante lirica il saggio di Castle, T. “In Praise of Bri-
gitte Fassbender: Reflections on Diva Worship”, in Blackmer, C.E.; Juliana, P. (a cura di) En Travesti.
Women, Gender Subversion, Opera, New York, Columbia University Press, 1995, pp. 20-58.
11 Dolan, J. The Feminist Spectator as Critic, Ann Arbor, the University of Michigan Press, 20093ed.;
di Dolan si veda anche “In Defense of the Discourse. Materialist Feminism, Postmodernism, Post-
structuralism and… Theory”, in TDR,1989 pp. 58-69. Per un primo approccio in italiano: Carlson,
M. Teorie del Teatro, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 564-576.
186
della spettatrice è implicita nel testo spettacolare, è costruita secondo gli stereotipi
maschili; attrice e spettatrice sono a suo parere entrambe prodotte dal testo e dal
contesto culturale che lo sottende. Alle interpreti si chiede di incorporare uno
stereotipo della femminilità, alle donne in sala di identificarsi con esso. La spetta-
trice al pari della «lettrice resistente», deve diventare una «spettatrice femminista
critica», capace di decodificare la subalternità, la passività femminile prodotte dal
palcoscenico, contro l’immedesimazione realistica con il personaggio. Negli anni
Ottanta le teatrologhe americane cercarono una saldatura con la teoria brechtiana
dello straniamento, per formulare una nuova estetica teatrale femminista, in uno
scambio attivo con la produzione drammaturgica delle avanguardie teatrali fem-
ministe e queer.
Oggi il limite delle posizioni di Dolan ci sembra stia in quel calcare la mano
sull’onnipotenza dello sguardo maschile, sulla passività femminile rispetto agli ste-
reotipi patriarcali, un postulato tipico di quegli anni di battaglie incentrate sulla
critica della rappresentazione del femminile nella storia della drammaturgia tea-
trale. La tesi di Dolan in sintesi rispecchia una fase del pensiero del femminismo
degli anni Ottanta, tutto proteso a una critica dell’ideologia maschilista e ancorato
a un’idea di teatro e di interpretazione attorica sostanzialmente subalterni all’au-
tore del testo letterario teatrale; istanze oggi capovolte dalla nuova teatrologia, più
attenta al fatto registico e alla centralità dell’interprete come componenti sostan-
ziali nella produzione di senso del fatto teatrale.
Oggi, in una diversa fase della riflessione femminista, se noi spostiamo la fo-
calizzazione sulla sala, sulla spettatrice femminile collettiva, ci accorgiamo dell’ef-
ficacia analitica delle attuali teorie del gender come performance di una identità
sessuale culturalmente costruita. Seguendo Joan Rivière – per cui la femminili-
tà è una recita dettata da codici sociali e nella recita si costruisce socialmente la
femminilità12 – e Judith Butler, potremmo leggere la relazione teatrale come un
rapporto dinamico tra due «female impersonators»: le donne che mettono in scena
la femminilità nella vita reale, e le donne che mettono in scena la femminilità sul
palcoscenico.
Afferma Judith Butler:
12 La prima analisi dell’idea di una femminilità che esiste solo come maschera che la donna indossa
per adeguarsi al desiderio maschile si deve a Riviére, J. “Womanliness as a Masquerade”, in Interna-
tional Journal of Psychoanalysis, 10, (1929) pp. 303-313.
187
sul palcoscenico può provocare piacere e applausi, mentre lo stesso travestito se-
duto accanto a noi sull’autobus può suscitare rabbia, paura e persino violenza13.
13 Butler, J. Performative Acts and Gender Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist
Theory, (1988), edizione online, p. 7 [traduzione mia].
14 Cfr. Locatelli, S. “Alla ricerca dello spettatore. Un’ipotesi semiotica”, in Cascetta, A.M.; Peja, L.
(a cura di) Elementi di drammaturgia, Milano, ISU Università Cattolica, 2002, p. 284.
15 Cannon Harris, S. “Outside the Box: The Female Spectator, The Fair Penitent, and the Kelly
Riots”, in Theatre Journal, (57, 1), Mar. 2005, Research Library, pp. 33- 55.
188
16 Rosenthal, L.J. “The Actress and the Spectatrix in Restoration Shakespeare”, in Quinsey, K.M. (a
cura di) Broken Boundaries: Women and Feminism in Restoration Shakespeare, Lexington, University
Press of Kentucky,1996, pp. 201-218 «this instability becomes most apparent in the variety of po-
tential relationships between the position of actress and spectatrix, from identification to emphatic
distinction», ivi p. 203. «Female desire and women’s insistence on sexual self- determination shape the
conflicts of many Restoration plays; at the same time […] the novelty of the female body as a specular
and frequently disempowered object contradicted and circumscribed this subjectivity», ivi, p. 207
17 Cfr., Cecconi, A. Gandolfi, R. (a cura di) Dossier “Teatro biografia e gender studies” in Teatro e
Storia, XXI, (28), 2007, pp. 329-406. Pascoe, J. Romantic Theatricality: Gender, Poetry and Specta-
torship, Ithaca and London, Cornell University Press, 1997, pp. 12-32.
189
18 Richtie, F. “The Influence of the Female audience on the Shakespeare Revival of 1736-1738:
The Case of the Shakespeare Ladies Club”, in Sabor, P.; Yachnin, P.E. (a cura di) Shakespeare and the
Eighteenth Century, Ashgate 2008, pp. 57-69. Si veda anche Jaqueline Pearson, The Prostituted Muse:
Images of Women & Women Dramatists 1642-1737, New York, St.Martin’s Press, 1988, pp. 25-41.
19 Sorba, C. Intervento della discussant cit., ibidem.
190
Il teatro può dare alle donne la capacità di rappresentare i più radicali progetti
di creazione del sé o può ridurle a semplici corpi presentandole come oggetti. Il
teatro può compiere o l’una o l’altra di tali azioni, entrambe o nessuna: dipende
dal contesto in cui il teatro è creato, prodotto e ricevuto. Dipende, in una parola,
dalla storia20.
20 Dudden, F.E. Women in the American Theatre. Actresses and Audiences (1790-1870), New Haven
and London, Yale University Press, 1994, pp. 2-3 [traduzione mia].
191
Tiziana Plebani
194
interessante ai nostri fini è che rivela alcune significative connessioni con la cultura
del tempo e in special modo con i luoghi cruciali della sua formazione e circola-
zione. Il corteggiamento era infatti iniziato ai tavoli di un caffè, si era alimentato
della libertà della villeggiatura, dell’intima atmosfera dei ritrovi nei vari casini di
conversazione e delle passeggiate (il cosiddetto liston) in Piazza San Marco. La
gelosia non era del resto ammessa nel mondo tollerante del Settecento, ma infine
il Molin si era insospettito: in una serata in cui Andriana avrebbe dovuto trovarsi
in compagnia con i propri parenti mentre lui era impegnato in affari, decideva di
rientrare a casa inaspettatamente, scoprendo l’amante chiuso dentro un camerino
contiguo alla camera da letto.
Cercando altre prove della tenacia di questa liason, forzando la serratura del
secretaire della moglie, Benetto Molin scopriva delle lettere che il Marinoni aveva
fatto pervenire a sua moglie. Di cosa parlavano? Oltre a effusioni e parole d’amore,
il carteggio verteva anche sulle scene teatrali del momento: Marinoni scambiava
con Andriana dei giudizi e dei commenti sui cantanti delle opere che avevano
entrambi ascoltato in teatro e le dava lì appuntamento, rispondendo a una mis-
siva della donna e confermandole: «io pure sarò a S. Samuel», il teatro veneziano
riservato alle opere e alle opere buffe. Le indicava il suo posto, «quarto ordine, 19
o 20», e poi si lanciava a elogiare il sopranista, l’assai conosciuto Luigi Marchesi:
«all’anima del Andreacci suplisse già bastantemente quella del Marchesi. Io rinun-
cio alla prima e m’appiglio al secondo. Vi giuro che sono inamorato di Marchesi,
esso mi piace all’estremo». E commentava anche la voce della Toti, cantante che si
esibiva allora sui palchi dei teatri veneziani.
Vediamo dunque quanta importanza rivestissero questi luoghi della vita so-
ciale e culturale del tempo per la modulazione del gusto e per la creazione di una
condivisa cultura di sentimento; tra i molti spazi di sociabilità certamente il teatro
ebbe un ruolo fondamentale nella legittimazione della cultura del sentimento,
specialmente dando energia e forza alla richiesta dei giovani di poter decidere
come e con chi sposarsi.
Se guardiamo al repertorio teatrale delle opere più rappresentate non solo a
Venezia o nelle città italiane ma anche nelle capitali europee nel pieno Settecento,
ci accorgiamo che il motivo di fondo, dalle infinite varianti pur nella costante ri-
proposizione, era la vittoria dell’amore sulle opposizioni familiari e sulle differenze
sociali. Guardiamo ai titoli più riproposti: Le industrie amorose, Le nozze in contra-
sto, Il matrimonio in commedia, Il matrimonio per inganno, Il matrimonio improv-
viso, Gli amanti alla prova, L’amor contrastato, per giungere al celebre Matrimonio
segreto di Cimarosa, consacrato da un’enorme fortuna. Il teatro riproponeva sulla
scena ciò che ogni giorno i giovani vivevano nelle case, rendendoli però vincitori
nei conflitti. Tutto questo non poteva che alimentare le speranze e le aspettative di
successo degli amori che si presentavano difficili da far digerire ai genitori.
195
Ciò che si vedeva e si ascoltava sulle scene teatrali o che si leggeva nelle pagine
della cospicua letteratura sentimentale che invadeva il mercato editoriale, instau-
rava delle significative associazioni e similitudini con ciò che si viveva nella realtà
attraverso l’esperienza empatica con le eroine o i protagonisti delle fiction.
La spinta più forte a tale processo e all’agency femminile attraverso l’influen-
za dei modelli teatrali fu data peraltro dalle sue protagoniste: cantanti, attrici e
ballerine, dalla metà del Seicento in un crescendo senza arresto, conquistavano
attraverso lo spazio della voce uno statuto peculiare che confermava la femmi-
nilizzazione della cultura e dei luoghi pubblici. Dal Seicento una simile scelta
diveniva una delle rare strade che una donna poteva perseguire per la propria
realizzazione, per l’autonomia, per un guadagno talvolta non irrilevante. A ben
vedere era l’unica vera carriera femminile che si era dischiusa. Si trattava di donne
che comunque erano oramai transitate nel campo dell’arte e della cultura e non
dimoravano più pericolosamente solo nei regni del mestiere “infame”, come anni
prima veniva considerato il teatro. Seppure non fossero scomparsi pregiudizi e alo-
ni scandalistici, cantanti, attrici e ballerine erano figure di glamour, di attrazione,
di protagonismo femminile nuovo.
Poteva quindi non apparire così disonorevole per un aristocratico o un lette-
rato legarsi con una cantante e progettare di sposarla: così avevano pensato sia il
marchese e drammaturgo Albergati Capacelli che il fisico Alessandro Volta. Del
resto chi meglio di una virtuosa della voce poteva rappresentare quella peculiare
sensibilità e il trionfo del sentimento di cui si nutriva la cultura del tempo e che
più tardi Madame de Staël avrebbe eretto a monumento con la sua Corinna.
Queste giovani donne con la loro professione divenivano di fatto “capofa-
miglia”, fonti di reddito per tutta la parentela, e attorno a loro, come sappiamo,
girava tutto un mondo di consumi, di movimento di denaro e di ascese e, talvolta,
rovine sociali. Possiamo dunque stupirci se i giovani, non certo solo a Venezia,
s’innamorassero e, già in rottura con valori del passato e con le aspettative dei
genitori, vedessero nell’unione con queste stelle del teatro la realizzazione del loro
desiderio di cambiamento e un manifesto vivente della libertà del sentimento?
Se inoltre aggiungiamo che ciò che cantavano o recitavano era spesso, come
si visto, la forza dell’amore che vinceva ostacoli e disparità, ci convinceremo che il
gioco di rimbalzo dalla scena alla vita che ne risultava, incarnato in corpi, voci e
figure femminili, consegnava nelle loro mani un potere di incantamento piuttosto
rilevante, spesso assai ingombrante e di difficile governo anche nella loro stessa
interiorità. Tra la propria vita, i propri desideri e i personaggi femminili rappre-
sentati sulla scena era facile che si creasse una sorta di cortocircuito e che l’energia
di una Cetronella o di una Mirandolina contagiasse l’interprete.
La prova di questo fenomeno di riverbero delle libertà vissute sul palcoscenico
sta nella quantità di attrici, cantanti e ballerine coinvolta negli amori proibiti, nel-
196
le richieste di correzione dei giovani, nelle suppliche dei padri, nei provvedimenti
di sfratto e in alcuni casi assai notori in città.
L’aspetto più interessante è proprio dunque la riconoscibile sovrapposizione
del ruolo con le vicende individuali: queste donne interpretavano sulla scena ciò
che spesso si trovavano a vivere nella realtà. Guardiamo il caso di Stella Cellini e
dell’amore appassionato che aveva intrecciato con il giovane aristocratico Antonio
dalla Scala: costui, conscio dell’opposizione familiare a tale unione, era giunto alla
risoluzione di fuggire da casa per riuscire a sposarla altrove. La ballerina aveva ini-
ziato a esibirsi sui palchi veneziani dal 1779 partecipando ai balli “grotteschi” che
accompagnavano l’Azor, re di Kibinga del librettista Giovanni Bertati, al teatro di
S. Moisé. Quello stesso anno avrebbe danzato a corredo di un’opera che propagan-
dava il trionfo dell’amore sulle disparità sociali, Le nozze in contrasto, sempre del
Bertati, rappresentate nel medesimo teatro; nel periodo in cui conobbe Antonio
dalla Scala volteggiava come prima ballerina in un intermezzo de Il matrimonio
per inganno, stavolta al San Cassiano.
Stella, come molte altre sue simili, portava sulla scena situazioni in cui i giova-
ni riuscivano a vincere gli ostacoli e in cui loro, donne delle professioni del teatro,
giungevano a farsi sposare dai loro pretendenti nobili o borghesi.
Tale cultura dei sentimenti inoltre rimodellava gli statuti e le relazioni dei
generi, creando nuovi modelli e diverse aspettative, non solo incentrati sulla fi-
gura femminile: l’attrazione che si concentrava su cantanti, musici o ballerini da
parte delle donne della borghesia o dell’aristocrazia, creando conflitti e tensioni in
famiglia, svela l’interesse per uomini che incarnavano più accoglienti e seducenti
modelli maschili, connotati di un minore tasso di “virilità” e più rispondenti al
nuovo gusto e a una maggiore grazia.
Nell’estate del 1779 Paolo Foscolo, lo zio materno della sedicenne nobildonna
Diana Donà, orfana di entrambi i genitori, presentava una supplica agli Inquisitori
di Stato, esponendo il rischio in cui la giovanetta si trovava; viveva da tempo nella
corte detta dei Santi, a S. Angelo, presso una certa Anna Sardi e le sue sorelle con
troppa libertà. Questa eccessiva libertà aveva permesso a Michele Fabiano, di profes-
sione ballerino, abitante nelle vicinanze, non solo di iniziare un’assidua frequentazio-
ne ma di «nutrir per essa la più forte passione e sotto la finzione di insegnarle il ballo,
sedusse l’animo della medesima a quella passione». Tra i due la relazione si strinse a
tal punto che il ballerino «dichiarò che la voleva prendere in moglie».
Paolo Foscolo chiedeva pertanto agli Inquisitori di allontanare da Venezia il
Fabiani. Costui a Venezia in teatro copriva i ruoli di primo ballerino: dal 1777
aveva ballato senza interruzione per i teatri di S. Benetto e di S. Samuele. Gli
Inquisitori lo sfrattavano dalla Dominante e allo stesso tempo Diana era fatta
accompagnare alle pizzocchere di S. Angelo. Allontanato il 23 agosto, il Fabiani fu
fatto rientrare nel febbraio successivo.
197
198
Giuseppina Mascari
Nato a Milano nel 1804 come giornale di «letteratura, teatri e mode di Francia e
d’Italia», il Corriere delle Dame fu fondato da Carolina Arienti Lattanzi e, nei pri-
mi quindici anni di attività (1804-1818), fu dalla stessa diretto e in buona parte
esteso. Ho iniziato a curiosare tra le pagine di questo giornale una decina di anni
fa, in un periodo in cui i miei studi erano incentrati sul melodramma italiano del
primo Ottocento, il Corriere delle Damecostituisce, infatti, una fonte di grande
importanza per l’indagine sul teatro d’opera italiano del XIX secolo e fondamen-
tale “punto di vista” contemporaneo sugli aspetti della vita teatrale milanese so-
prattutto nei primi vent’anni di attività, anni che, di fatto, precedono l’eccezionale
fioritura di periodici teatrali specialistici che si verificherà solo all’inizio degli anni
Trenta dell’Ottocento. Il risultato delle mie ricerche su questa fonte è stato pub-
blicato sulla rivista Fonti Musicali Italiane del 2002 col titolo “Il «Corriere delle
dame». Spoglio ed indici delle notizie musicali (1804-1818)”. Occorre precisare
che i criteri alla base della selezione degli articoli proposti nello spoglio furono so-
prattutto l’accuratezza e la ricchezza delle considerazioni di carattere strettamente
musicale (i commenti sul valore delle partiture e sullo stile, i riferimenti a prestiti
e autoimprestiti) e le riflessioni sui libretti; privilegiai dunque quelle recensioni in
cui abbondavano le osservazioni di carattere tecnico e i giudizi particolareggiati
sulla vocalità e sugli artisti. A distanza di circa sette anni mi sono ritrovata a riesa-
minare tutto questo materiale ponendomi in una prospettiva differente e tenendo
ben presente come guida alla lettura due essenziali elementi: in primo luogo il
fatto che il Corriere delle Dame fosse stato fondato e, in buona parte, esteso da una
donna, oltre a ciò il presupposto basilare che il pubblico cui la rivista si rivolgeva
era sostanzialmente un pubblico femminile. L’obiettivo che mi sono dunque posta
in questa nuova fase del lavoro è stato quello di determinare se fosse possibile,
attraverso la lettura di questo documento, individuare nelle cronache e nelle con-
siderazioni musicali ivi apparse un riflesso del punto di vista femminile sul teatro
d’opera a Milano nei primi vent’anni dell’Ottocento, avventurandomi così in un
campo per me del tutto nuovo.
La prima questione da affrontare è stata quella di stabilire chi fosse l’autore
delle cronache musicali milanesi pubblicate sulle pagine del Corriere delle Dame,
questione tutt’altro che marginale nel particolare contesto di questa nuova indagi-
ne, dato che gli articoli musicali raramente vennero firmati (alcune volte troviamo
la sigla GL e probabilmente queste recensioni si devono a Giuseppe Lattanzi, ma-
rito della compilatrice), nella maggior parte dei casi chi scrive tende a non rivelare
la propria appartenenza di genere e le recensioni sono punteggiate da impersonali
«Noi pensiamo… Noi ci proponiamo… A noi sembra… Ecco a nostro avviso…»
Dopo un’attenta rilettura, però, mi è possibile affermare che poco più di una deci-
na di articoli possono essere attribuiti con assoluta certezza a Carolina Lattanzi; la
prima recensione a lei ascrivibile è un lungo articolo sul ballo Eleazar despota della
Servia di Monticini in cui si legge:
Due parole ancora: poco importa poi se invece saran due colonne. I miei lettori
non temono per altro di annojarsi: finalmente le mie due parole (quantunque le
donne sogliano esser verbose) non saran mai dell’altezza di un cubito cadauna a
furia d’inutili ripetizioni da capo a fondo21.
Da notare che nelle cronache degli spettacoli milanesi apparse sul Corriere del-
le Dame sono frequenti i riferimenti alle critiche musicali apparse sulle altre testate
cittadine: il Corriere Milanese (1794-1815), il Giornale Italiano (1804-1815) e il
Poligrafo (1811-1814), dal 1815 in poi alla Gazzetta di Milano, ma sin da princi-
pio la Lattanzi sottolinea la volontà di fornire un proprio punto di vista personale
e autonomo rispetto a quelli espressi dagli altri giornali.
Tornando agli articoli, particolarmente interessante per comprendere le pecu-
liarità delle osservazioni della compilatrice, e dunque per individuare alcuni ele-
menti chiave utili al fine di riconoscere le recensioni da lei scritte in mancanza di
indicazioni certe, è la cronaca delle rappresentazioni date al Teatro Carcano nelle
sere del 5 e 6 dicembre 1804, solo alla fine dell’articolo troviamo l’indizio che ci
permette di attribuirlo innegabilmente alla Lattanzi: «Per la comica-buffa, Pacini
ha superato la comune aspettazione. In questa carriera nuova per lui è riuscito
mirabilmente. Io stessa ch’or scrivo il suo nome ne rido ancora».
200
Dalla lettura della recensione notiamo subito come ben poco si dice sulla
musica delle due farse, l’attenzione è invece rivolta quasi esclusivamente ai tre
interpreti principali: Maria Hochkoffler, Lorenzo Sacconi e Luigi Pacini, il che
d’altronde non costituisce certo una particolarità o novità all’interno delle crona-
che giornalistiche dell’epoca. Ciò che viceversa sembra un tratto peculiare dell’au-
trice, e quindi riflette un inequivocabile punto di vista femminile, è l’attenzione a
determinati dettagli:
Lorenzo Sacconi, che canta con buona grazia, ha avuto molto incontro nella sua
cavatina della scena IV della farsa seconda. Io non so perché nel porsi in ginoc-
chio innanzi alla giovane vedovella per farle conoscere esser lui l’amante scono-
sciuto e anonimo, se ne stia col cappello in capo. Questa inciviltà grossolana dà
troppo nell’occhio. Io so bene che molti giovani di data moderna entrano negli
appartamenti delle Signore col cappello in testa, ma io non avea mai veduto un
giovane amante porsi in ginocchio innanzi all’oggetto dei suoi affetti, conservan-
do inurbanamente la testa coperta22.
[Madama Correa] canta sempre coll’intelligenza delle cose che dice, e col senti-
mento della passione che ora la irrita, or l’addolora. Per sostenere meglio, e in tut-
te le sue parti il suo maestoso carattere, e la dignità regia, la consigliamo di sortire
dalla scena, e di rientrarvi con maggior sostenutezza di persona, e gravità di passo.
[…] Madamigella Battaglia, confidente di Merope, è una bella ragazza, che, forse
per troppa modestia, chiude spesso gli occhj quando apre la bocca, e muove la
testa con tante pietose inclinazioni, che dovrebbe riuscire eccellentemente nei sa-
cri argomenti della quaresima, come, per esempio, la morte di Abele, il sacrificio
d’Isacco. Essa contenterà meglio il pubblico, quando col crescere dell’età, cresca
pure nell’artificio della scienza teatrale23.
201
Gli esempi che potremmo citare sono molteplici ed è da notare che queste
peculiarità nello stile di scrittura della Lattanzi “critico musicale” non mutano
con il passare degli anni. Infine, un ulteriore elemento che contraddistingue le
recensioni vergate dalla Lattanzi è l’interesse mostrato per costumi e vestiario che
vengono illustrati e valutati con grande accuratezza (si veda a questo proposito la
recensione dell’opera Eraldo ed Emma di Mayr apparsa sulle scene del Teatro alla
Scala nel carnevale 1804-1805)25.
Sulla base di questi elementi chiave ho cercato inoltre di ricostruire l’attività di
Carolina Lattanzi “critico musicale”. Da notare, a questo proposito, che mentre gli
articoli comparsi sulle pagine del Corriere delle Dame del 1804 si possono attribuire
nella quasi totalità alla compilatrice, modesto è il numero dei suoi contributi di
critica teatrale per l’anno 1805, anno in cui su questo giornale furono pubblicati
diversi articoli siglati (G.L., F.B., L.S.). La Lattanzi ritornò a occuparsi di cronaca
musicale nel 1806, mentre la lettura delle recensioni apparse tra il 1807 e il 1808
mi porta a pensare che la maggior parte di esse non furono scritte da lei; d’altron-
de, il 27 settembre 1807 la compilatrice comunicò alle signore associate che per
motivi di salute si trovava costretta a interrompere la pubblicazione del foglio. Nel
1809 tornò a partecipare con una certa assiduità alla vita musicale milanese (il
Corriere delle Dame non fu pubblicato solo nel settembre di quell’anno sempre a
causa del suo cattivo stato di salute). Ristabilitasi, riprese dunque a pieno ritmo la
propria attività e diverse sono le recensioni scritte tra il 1811 e il 1815 che pos-
sono esserle attribuite con certezza. Tra queste, due mi sembrano meritare alcune
brevi riflessioni. La prima è la cronaca musicale della rappresentazione piacentina
dell’opera Carlo Magno di Giuseppe Nicolini nel 1813; è interessante notare come
in questa occasione la compilatrice, incuriosita dalle notizie pervenutele sull’eccel-
lenza degli spettacoli operistici dati in quella stagione a Piacenza, si fosse ivi recata
per assistere allo spettacolo al fine di poterne dare un veritiero resoconto alle sue
associate. Ben tre pagine di riflessioni su libretto, musica, artisti e in conclusione
un’interessante puntualizzazione sull’organico orchestrale impiegato nella Sinfonia
202
che, scrive la Lattanzi, «miglior effetto avrebbe prodotto con due violoni di più, ed
un ottavino»26. Il secondo articolo che dobbiamo menzionare è quello del 1812 in
cui venne recensita l’opera La pietra del paragone di Gioacchino Rossini. In questo
melodramma giocoso il librettista Romanelli, col personaggio di Macrobio, aveva
voluto sbeffeggiare i giornalisti e si era dunque attirato gli strali dei recensori del
Corriere Milanese e del Poligrafo. Nel resoconto critico di questo spettacolo Caro-
lina Lattanzi si rivela acuta osservatrice, e direi anche conoscitrice, di strategie e
meccanismi atti a garantire il corretto ed efficace funzionamento dell’opera buffa,
pertanto, dopo aver puntualizzato che le sue considerazioni non erano di certo
espressione di stizza o una sorta di vendetta verso colui che aveva attaccato la sua
categoria professionale, evidenzia con incisività e in modo competente i punti de-
boli dell’intreccio sviluppato da Romanelli, mostrando alle lettrici la mancanza di
inventiva, e dunque di reale interesse, nel secondo atto di questo lavoro.
Giornalista e critico musicale dunque di tutto rispetto Carolina Lattanzi, cro-
nista attenta della vita musicale dei teatri milanesi, sebbene sempre con un tocco
personale e potremmo dire “femminile”, seguendo i canoni ottocenteschi della
divisione dei sessi in materia di gusto. Stereotipi che, in seguito, vedremo usati
dalle stesse lettrici.
D’altronde, come aveva perentoriamente fatto notare a uno sprovveduto let-
tore che in una lettera metteva in dubbio il merito delle donne, la sua opinione
era che, a eccezione della prestanza fisica, le donne fossero superiori agli uomini e
capaci di intraprendere grandi opere se non fossero state tenute in soggezione dal
sesso maschile. Per citare puntualmente le sue parole: «Dico, e sostengo pertanto
che dalla gagliardia in fuori, la quale procede dalla diversa conformazione organi-
ca, giudico le donne superiori agli uomini, e capaci di grandissime cose, se il vostro
orgoglio, o per dir meglio la prepotenza vostra non le opprimesse»27.
Tanto che, una lettrice piacentina, la quale stimolata dalle cronache musicali
comparse sulle pagine del Corriere delle Dame si era cimentata in un «articoletto»
sugli Orazi e Curiazi di Cimarosa comparsi sulle scene del teatro cittadino, in
conclusione alla sua lettera la esortava in questi termini: «Continuate intanto il
vostro degno lavoro, e a scorno dei nostri detrattori fate sempre più conoscere, che
le donne possono, se il vogliono, innalzarsi a opere maschili»28.
203
Lattanzi suscitò in alcune delle lettrici del suo giornale il desiderio di esprimere
pubblicamente le proprie idee sul teatro d’opera, e non solo la summenzionata
signora piacentina, la quale, pur consapevole di non possedere conoscenze e stru-
menti per stendere con maestria una recensione musicale, tuttavia si avventurava
nell’ardua impresa inviando al giornale le sue personali impressioni sulla ripresa
del melodramma di Cimarosa proposto a Piacenza in quella stagione. Un inter-
vento conciso in cui venivano lodati con sobrietà gli artisti (David e Crescentini) e
si esprimevano alcune riflessioni sulla decadenza dei moderni spettacoli operistici.
Esemplare a questo proposito e particolarmente degno d’attenzione è l’ampio
dibattito sollevato dalla lettera inviata da un’associata che si firmava L.D. in meri-
to all’esibizione, sulle scene del teatro Carcano, del noto basso buffo Luigi Pacini.
In questo suo primo intervento L.D. rimproverava all’artista di aver interpretato
la propria parte in maniera eccessivamente caricaturale, rendendo il personaggio
ridicolo e ben lontano da quelle che erano le intenzioni dell’autore. Anche in
questa circostanza le considerazioni della signora L.D. sono presentate sotto for-
ma di lettera amichevole, potremmo dire nello stile della Lattanzi, come benevoli
suggerimenti rivolti all’artista al fine di metterlo in guardia dal rischio di trasfor-
marsi in un «artista di piazza», non solo per l’inverosimiglianza di una recitazione
estremamente ridicola, ma anche per il cattivo gusto degli stessi costumi usati. Un
invito alla moderazione, dunque, espresso in modo confidenziale e franco, d’al-
tronde, come scriveva L.D. « sono donna, né so tacere, né dissimulare»29. In difesa
di Pacini scese in campo un’altra lettrice ENR. G. la quale inviò al nostro giornale
ben quattro pagine per controbattere alle osservazione di L.D.; se nel complesso la
prima lettera appare scritta con un certo garbo e in tono moderato, lo stesso non
può dirsi di questa replica, in cui la signora ENR. G., mettendo in dubbio l’esser
donna di L.D. (alle sue critiche sarebbe mancata quella dolcezza che contraddi-
stingue il sesso femminile) fin dal principio spinge il tono delle sue osservazioni
verso la polemica. A suo avviso, inoltre, proprio grazie alla vitalità dei gesti e
alla esuberanza comica del buffo Pacini quest’opera poteva apparire ogni sera al
pubblico come qualcosa di nuovo, in particolare la nostra spettatrice sottolineava:
Io vi giuro che malgrado le incongruenze di questo dramma, (che per altro è uno
de’ passabili essendo scritto con un po’ di grammatica, di filosofia e di buon sen-
so), vi giuro, vi ripeto, che ogni volta che si giunge a quelle scene, il brio, la viva-
cità, e la somma intelligenza di Pacini, rende per me l’illusione compiuta. Io non
veggo più né teatro, né orchestra, né spettatori. Sono nella stanza della locanda
di Beltrame, trovandomi vicino alla pretesa osteria de’ merli ad assistere al comico
204
205
Premessa
Come è noto, il pubblico teatrale nasce con l’affermazione settecentesca dello Sta-
to moderno e della sfera pubblica di tipo borghese: quando lo spettacolo costitui-
sce un sistema economico e il singolo spettatore diventa parte di un gruppo dotato
di un suo modello di funzioni e auto-rappresentazioni. Nell’Ottocento il teatro
all’italiana è il contenitore principale dell’agire comunicativo e della formazione
della sfera pubblica, mentre perderà progressivamente centralità nel secolo succes-
sivo, con l’imporsi della società di massa.
Questo complesso fenomeno dalle molteplici valenze, dopo il saggio pilota di
Habermas, è stato studiato per l’Italia in primis da Bruno Sanguanini, a partire dal
Settecento fino al Novecento, con taglio soprattutto sociologico; mentre Carlotta
Sorba, da storica, ha concentrato la sua attenzione sul periodo risorgimentale e sul
melodramma31. Piergiorgio Giacché, con ottica antropologica e con attenzione
privilegiata alle rotture teatrali novecentesche, ha poi posto al centro delle sue
riflessioni «l’identità dello spettatore teatrale», sostanziando un comportamento
che, al di là delle contingenze, è parte non trascurabile dell’essere soggetto cultura-
le32; ma gli storici del teatro in generale si sono variamente interrogati in proposi-
to, a partire dalla relazione con l’attore, come dallo spazio e dalla drammaturgia33.
D’altro canto, lo stesso Habermas nella prefazione alla nuova edizione del-
la sua Storia e critica dell’opinione pubblica riconosce il limite di aver concepito
la sfera pubblica borghese al singolare e di non aver considerato le donne: «di-
versamente dall’esclusione degli uomini emarginati, l’esclusione delle donne ha
esercitato una funzione strutturale», precisa, citando Carol Pateman34. Così il
pubblico teatrale ottocentesco viene presentato come maschile e la formazione di
quello femminile non viene tematizzata, contraddicendo le fonti iconografiche;
eppure non è di poco conto capire, da un lato, come si sia arrivati alla “normalità”
dei pubblici misti novecenteschi e alla loro rappresentazione e, dall’altro, a come
il pubblico femminile abbia iniziato a percepire se stesso e la spettatrice a viversi
non solo come accompagnatrice di qualcuno.
Mi limiterò qui a proporre alcuni spunti di riflessione a partire dall’operatività
e dall’arte delle donne di teatro in contesti di particolare effervescenza sociale e
politica35. Il primo contesto, fra fine Ottocento e primo Novecento, è segnato
dal movimento emancipazionista e da una «femminizzazione»36 diffusa, mentre
la rivoluzione industriale favoriva l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e la
nascita delle nazioni le coinvolgeva politicamente; il secondo riguarda teatri nati
con il neofemminismo dopo il Sessantotto. Entrambi gli esempi chiedono il ricor-
so a fonti tradizionali, più o meno intensamente segnate dalla soggettività, come
recensioni, testi teatrali, documenti politici e teorici, memorie d’occasione e non,
epistolari, immagini; ma sollecitano anche il ricorso a fonti poco considerate come
la letteratura rosa. Chissà quanta sapienza delle attrici e quante esperienze intime
maturate nel buio di una sala vi si sono depositate! Né dobbiamo dimenticare che
l’osservazione dal vivo delle attrici aiuta a interrogare il passato.
208
37 Cfr. Mariani, L. L’attrice del cuore. Storia di Giacinta Pezzana attraverso le lettere, Firenze, le
Lettere, 2005.
38 Su queste tematiche in particolare cfr. il mio “Amicizie e possesso di sé nel teatro, la Duse e le
giovani attrici”, in Biggi, M.I.; Puppa, P. (a cura di) Voci e anime, corpi e scritture. Atti del Convegno
internazionale su Eleonora Duse, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 355-372. E in generale si vedano almeno
Molinari, C. L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli, Roma, Bulzoni, 1985,
e Schino, M. Il teatro di Eleonora Duse. Nuova edizione riveduta e ampliata, Roma, Bulzoni, 2008.
209
compianto femminile, che fa del dialogo con «le donne finte» delle commedie e
delle relazioni amicali una poetica e un modo di lavorare39. Qui nasce la sua forza:
la Duse riesce infatti ad attrarre sia le aristocratiche e le intellettuali sia le donne
comuni, creando singolari rispecchiamenti delle spettatrici con la sua perturbante
recitazione, scandalosamente segnata dall’interiorità. Sulla scena soprattutto nasce
il dialogo, grazie ai suoi scarti di recitazione, alla sua gestualità inconsueta, al gioco
fra verità e finzione, fra parole e silenzi. Questi ultimi in particolare creano un
ponte emotivo con le donne in sala, a partire da un vissuto “comune”. È in senso
lato, reso condivisibile dalla teatralità stessa. Queste spettatrici, talora eccessive per
sensibilità, contribuiscono a costruirne il suo mito di attrice divina, di attrice del
dolore; soprattutto costituiscono lo zoccolo duro del suo pubblico, a partire dalla
percezione di un’arte inedita per sapienza emotiva.
39 Duse, E.; Boito, A. Lettere d’amore, a cura di Radice, R., Milano, Il Saggiatore, 1979, pp. 358,
585, 123. Lettera a F. D’Arcais, 1885, in Pandolfi, V. Antologia del grande attore, Bari, Laterza 1954,
pp. 381-382.
40 Si tratta di espressioni ricorrenti in Boggio, M. (a cura di) Le Isabelle. Dal teatro della Maddalena
alla Isabella Andreini, Nardò (Le), Besa, 2002.
41 Bortignoni, D. “Il Teatro ‘La Maddalena’”, in Minerva. Speciale teatro, n. 5, maggio 1991, pp.
46-48.
210
L’assunzione dei temi e delle battaglie del femminismo connota sia la produzione
che la fruizione degli spettacoli: il collettivo dà vita ad assemblee settimanali in
cui si decidono anche gli spettacoli da mettere in scena e questi vedono in azione
professioniste – come Maricla Boggio, regista – o intellettuali appassionate di te-
atro – la Maraini, ad esempio, è reduce dalle esperienza del Teatro del Porcospino
e di Centocelle – e attrici professioniste e non. Dall’altra parte, il pubblico che
partecipa intensamente anche ai dibattiti che seguono gli spettacoli, si presenta
omogeneo alla scena: composto per lo più di donne, più o meno impegnate nel
movimento femminista e nella sinistra. Altre esigenze maturano poi dall’interno,
in polemica o in dialettica con tale linea, ma non riescono a imporsi: così è, ad
esempio, per alcune artiste che il 12 dicembre 1978 debuttano nello spettacolo
The a tre, dopo tre mesi di laboratorio, avendo rinnovato lo spazio della cantina-
teatro (eliminati i vecchi oggetti di scena e lo stesso palcoscenico, imbiancate le
pareti e riaperte finestre nascoste)42.
Certo «l’insieme delle parole d’ordine» tende a divorare la comunicazione
teatrale laddove gli elementi concretamente politici presenti negli spettacoli «non
possono che provenire dalla sfera del teatrale»43; ma si producono anche alcuni
fenomeni significativi. Da un lato, passano per questa esperienza numerose attrici
che porteranno con sé il bagaglio così acquisito insieme a una certa consapevo-
lezza della differenza sessuale e delle sue ricadute sui linguaggi44. Dall’altro, c’è
un’esplosione di dilettantismi che spinge molte militanti a misurarsi con la scena
e i suoi mestieri. Lo testimonia la stessa Maraini: l’aver provato «tutti i mestieri,
dal suggeritore all’elettricista, dal regista alla sarta di scena, per quanto in canti-
ne miserabili», le dà una «conoscenza dall’interno del “fare teatro” che diventa
molto utile quando si scrive un testo»45. E quando negli anni Ottanta si avvia
un significativo passaggio dal primo femminismo – caratterizzato da un lato da
processi di presa di coscienza e di riflessione teorica di grande portata e, dall’altro,
da esiti politici di massa (si pensi alla battaglia per la depenalizzazione/legalizza-
42 Gazzo, M. “L’anno della donna”, in Il Patalogo, n. 2, 1988, pp. 72-73, La artiste erano Caterina
Casini, Ippolita Avalli, Gloria Guasti, Marzia Mealli.
43 Cito dalla bella voce sulla “Teatralità” di Meldolesi, C., in Savarese, N. (a cura di) Anatomia del
teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, Firenze, La casa Usher, 1983, pp. 201-203.
44 Ne nasceranno varie iniziative: come il convegno del Teatro Femminista a Roma nel 1979 e,
nel 1981, quello su “La donna tra politica e teatro” a Ferrara; e varie associazioni e ripetuti appun-
tamenti: 1984, Melusina (promotrice Nora Fuser); 1986, l’internazionale Magdalena Project, con
sede principale a Holstebro; 1990, Associazione Divina a Torino; 1991, Il Linguaggio. della Dea a
Ravenna e Il teatro delle donne a Firenze; 1992, Associazione “Isabella Andreini Comica Gelosa” a
Roma; 1994, La Casa delle attrici al Festival di Santarcangelo, ecc.
45 Maraini, D. “Un sogno teatrale”, in Fare teatro (1866-2000), Milano, Rizzoli, 2000, vol. I, pp.
27-39.
211
46 Calabrò, A.R.; Grasso, L. (a cura di) Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca
e documentazione nell’area lombarda, Milano, Franco Angeli, 1985; Mariani, L. “Feminist Theory
and Criticism”, in Marrone, G. (eds) The Encyclopedia of Italian Literary Studies, New York-London,
Routledge, 2007, vol. I, pp. 705-711.
47 Maraini, D. “Un sogno teatrale” cit., p. 31.
48 Oltre le pagine celebri dei Passages di Walter Beniamin, vedi Sacchi, A. “Per una prospettiva
modernista: il basso materialismo della regia”, in Prove di Drammaturgia, n. 2, 2007, pp. 32-26.
49 Boggio, M. (a cura di) Le Isabelle cit., pp. 34-35.
212
213
Susanne Franco
1 Le ricerche per questo saggio sono state condotte nell’ambito del progetto “Coreografiar la hi-
storia europea: Cuerpo, política, identidad y género en la danza de la edad moderna y contem-
poránea”, finanziato dal Ministerio de Ciencia e Innovación spagnolo e coordinato dalla Universidad
de Oviedo (MICINN HAR2008-03307/ARTE).
ignorate dalle grandi narrazioni storiche, come i risvolti soggettivi di chi danza e di
chi studia la danza, ma anche i discorsi (sessuati) che la danza ha prodotto e di cui
è stata oggetto. Una prima ondata di questo rinnovamento epistemologico è stata
alimentata dalla storiografia di stampo femminista, che ha portato a scandagliare
biografie artistiche dimenticate e a indagare le modalità con cui la sessualità è stata
costruita, rappresentata e recepita anche attraverso la danza. In seguito all’intro-
duzione della prospettiva di genere l’asse dell’analisi è slittata dalla storica subalter-
nità delle donne rispetto agli uomini, alla concezione relazionale tra costruzioni e
rappresentazioni delle identità sessuate. E tuttavia, anche in ambito anglosassone,
dove la fioritura di questi studi ha una storia più antica e istituzionalizzata, in linea
generale, ci si è limitati alla danza (prevalentemente teatrale) occidentale del XX
secolo. Un altro aspetto che sorprende di questo lento e non sempre coerente svi-
luppo degli studi di genere legati alla danza è l’esigua produzione di ricerche sulle
maschilità, come dimostra lo scarso seguito avuto dal volume di Ramsay Burt, The
Male Dancer, pubblicato alla fine degli anni Novanta. Questo testo resta, infatti,
una delle rare ricognizioni storico-teoriche impostate su un solido bagaglio di teo-
rie di genere. Nella fattispecie, gli studi di danza hanno utilizzato poco la categoria
fondante del genere, quella cioè di codice binario che implica una reciprocità e
una dialettica costante fra le sue componenti di base. In altre parole, gli studi
prodotti si sono incentrati sulle dinamiche culturali che hanno forgiato i caratteri
della femminilità, i ruoli e le sfere di azione attribuiti alle donne, sfruttando meno
la forza operativa di questa categoria nel designare i rapporti sociali tra i sessi e
nel trasmettere l’idea che le informazioni sulle donne siano necessariamente anche
informazioni sugli uomini, perché l’una implica lo studio dell’altra. Le parole di
Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno sono illuminanti a questo proposito
anche nel ristretto ambito coreutico: per le due studiose la sovrapposizione storica
delle vicende del genere maschile con le sorti umane universali ha fatto sì che lo
studio della costruzione sociale degli uomini richiedesse «un’opera preliminare di
decodificazione delle categorie linguistiche e dei costrutti logici, la scelta di oggetti
distinti e circoscritti d’indagine, l’individuazione dei meccanismi psicologici e de-
gli ambiti di vita nei quali il maschile si riproduce». I pochi studi dedicati all’uomo
che (opera nel mondo della) danza hanno privilegiato il trattamento della que-
stione della virilità, spesso in stretto rapporto con la trattazione dell’omosessualità
maschile, curiosamente senza mai fare riferimento alla omosessualità femminile,
che sembra non esistere. Le maschilità al plurale sembrano, dunque, essere più un
punto di approdo che di partenza per elaborare ipotesi teoriche e individuare me-
todologie di ricerca efficaci a distinguere i singoli casi e a valutarne i tratti ricorren-
ti. In una recente opera collettanea su danza e maschilità, i saggi critici si alternano
a testimonianze autobiografiche di coreografi contemporanei sulla loro esperienza
di uomini nel mondo della danza. Da questi materiali, indubbiamente preziosi,
218
219
Per mettere a fuoco alcuni spunti di riflessione entro cui affrontare la ricezio-
ne degli studi di genere applicati agli studi di danza in Italia due citazioni possono
essere d’aiuto in quanto rivelano l’atteggiamento culturale entro cui avvengono
queste dinamiche. Con un gesto sorprendente, nel 2008, in occasione degli augu-
ri di Natale, Papa Benedetto XVI ha affrontato in modo diretto la questione del
genere in questi termini:
Ciò che spesso viene espresso ed inteso con il termine «gender», si risolve in
definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore. L’uomo
vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo di ciò che lo ri-
guarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore.
Se, per un verso, con l’uso del termine «gender» il Papa afferma indiretta-
mente che l’identità è vissuta dall’uomo moderno come il frutto di un’operazione
culturale e politica, per l’altro enfatizza la pericolosità di interventi consapevoli da
parte dell’individuo tentato ad autodeterminare il suo destino terreno. L’identità
di genere oscilla, dunque, tra l’essere un prodotto di coercizioni inconsapevoli
(non da ultimo religiose!) e il desiderio (negativo) dell’uomo di usare questa con-
sapevolezza per affrancarsene. La sua esortazione è a non sovvertire lo status quo
in nome di una legge superiore e della “Verità” suprema di cui è espressione, e ciò
proprio in virtù della consapevolezza che gli studi di genere siano uno strumento
potente in questo senso. Tale consapevolezza si trasforma in un monito a non
scandagliare il presente e il passato della cultura (occidentale) con questi strumenti
teorici per non mettere in discussione l’assetto ideologico che la governa e di cui
un certo rapporto tra i sessi è un aspetto fondante. Pur essendo l’espressione di una
prospettiva religiosa, elemento certo non trascurabile, questo pensiero è penetrato
di fatto nella cultura italiana, e in modo inconsapevole anche tra chi non se ne
fa direttamente erede, finendo per influenzare in modo determinante il modo di
concepire le identità sessuate.
D’altro canto, una nota critica di danza italiana, Elisa Vaccarino, in un re-
cente volume sulla danza contemporanea – peraltro pubblicato in una collana
parauniversitaria – e interamente dedicato a coreografi uomini, scrive:
E non si può non rilevare che per ragioni biologico-culturali si riscontra tuttora
una persistenza, salvo eccezioni come pioniere della modern […] e le protagoni-
ste del postmodern […] e del Tanztheater […] in questa divisione dei compiti tra
maschi e femmine, ancorché artisti, per cui è più frequente statisticamente che
i coreografi siano uomini. Nel caso siano poi anche gay, la libertà dal peso della
famiglia e prole, non fa che offrire più spazio all’impegno artistico e all’esplora-
zione di tutti i mondi possibili, nutrendo e potenziando la creatività – e il talento,
se c’è – a più fonti.
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221
222
Elizabeth Claire
Rahel Levin Varnhagen, intellettuale e animatrice di salotti a Berlino alla fine del
XVIII secolo è riconosciuta oggi, insieme a Henriette Herz, Dorothea Schlegel e
Caroline Schlegel-Schelling, come un’importante figura letteraria del primo ro-
manticismo tedesco. Nelle sue lettere pubblicate postume, Rahel discute lunga-
mente il fenomeno del valzer e le sensazioni di vertigine e piacere che produce.
Rahel nota che il nuovo ballo, con «il piacere che quasi tutti descrivono, metà di
loro come pericoloso, l’altra metà come celestiale»4, è al centro di una polemica
che distingue i Romantici che lo danzavano dai suoi detrattori, come Lord Byron5.
Il dibattito avviato da Rahel sulla vertigine del valzer con il giovane medico ebreo
David Veit rappresenta soltanto un esempio della più ampia controversia che ac-
compagnò la proliferazione del valzer in Europa. Attraverso una disamina incro-
ciata di testi e di fonti iconografiche tra Germania, Gran Bretagna e Francia, pos-
siamo notare come il problema della vertigine del valzer non fosse un fenomeno
isolato nei circoli intellettuali romantici, bensì un tema molto diffuso nei discorsi
medici dell’epoca sull’immaginazione, l’igiene e la patologia femminile6.
Inoltre, per via della popolarità del racconto epistolare di Wolfgang Goethe,
I dolori del giovane Werther (1774), la polemica si fece posto nell’immaginazio-
ne popolare in buona parte dell’Europa settentrionale. Qui l’eroe racconta la sua
esperienza nel ballare con Lotte, e l’amore di entrambi per il valzer (che il fidanza-
to di lei non conosce). La loro abilità nel ballare il valzer davanti ai loro pari (tra
cui in particolare il fidanzato di lei), descritto da Werther come celestiale, li uni-
sce nella loro affinità con il sublime, che possono esprimere nella danza, ma mai
consumare nelle loro vite quotidiane. Il fulcro dell’afflizione (i dolori) di Werther
e la sensazione vertiginosa che i lettori di Goethe definivano il Werther-walzer,
consiste nella tragica separazione tra il piacere di Werther nell’accompagnare Lot-
te e l’impossibilità di possederla al di fuori della sala da ballo. Questa afflizione
romantica simboleggiata dal valzer in cui è rappresentata e incorporata serve da
snodo letterario del racconto.
Chi idolatrava questa nuova danza ne glorificava la sensazione di vertigine,
mentre i filosofi della medicina, come il tedesco Marcus Herz, avevano un’opinio-
ne negativa al riguardo, tanto che lo stesso Herz si rifiutò di ballarlo anche al suo
matrimonio7. Secondo lui la giovane generazione di scrittori, a cui appartenevano
Goethe, Rahel e la moglie di Herz, Henriette, era «un’epitome di espressione oscu-
ra e pensiero poco chiaro»8. Herz, che era un difensore della filosofia dell’Illumini-
smo ed era stato discepolo di Kant, pubblicò Versuch über den Schwindel9 sul tema
della vertigine, una condizione che definì «una confusione in cui la mente sente le
idee susseguirsi troppo velocemente»10. Tentò di definire il legame tra sensazione
fisica e rappresentazione, ovvero la connessione corpo-mente che guida il potere
dell’immaginazione (Vorstellungskraft), per sviluppare la sua filosofia medica, che
«superava i confini tra fisiologia e filosofia kantiana»11, sebbene senza discutere il
fenomeno del ballare il valzer o la nota vertigine che imponeva. Quasi simultane-
amente, fu pubblicata una seconda edizione del racconto di Goethe (1787) e la
storia di Werther e Lotte continuò a proliferare, in tedesco e in traduzione, con-
7 Herz, H. Mémoirs of a Jewish Girlhood, estratti citati in traduzione inglese in Blackwell, J.;
Zantrop, S. (a cura di) Bitter Healing: German Women Writers 1700-1830, An Anthology, Lincoln,
University of Nebraska Press, 1990, p. 319.
8 Hansen, L. “From Enlightenment to Naturphilosophie: Marcus Herz, Johann Christian Reil,
and the Problem of Border Crossings”, in Journal of the History of Biology, n. 1, 1993, p. 43; Schmitz,
R. (a cura di) Henriette Herz in Erinnerungen, Briefen und Zeugnissen, Leipzig-Weimar, Gustav Kie-
penheuer Verlag, 1984, p. 439.
9 Herz, M. Versuch über den Schwindel, Berlin, Voss, 1791, p. 448.
10 Ivi, 176.
11 Hansen, L. “From Enlightenment to Naturphilosophie” cit., p. 40.
224
225
sua gamba tra quelle divaricate della partner, che, per completare il giro, ripeteva
l’azione. Ciò richiedeva che uomo e donna condividessero il controllo della forza
centripeta del ballo. Inizialmente questa negoziazione era una sfida: debolezza,
cadute e tentativi falliti di volteggiare erano facilmente addotti a segno della vol-
garità di questo ballo, della sua dissolutezza, sconvenienza e inadeguatezza all’alta
società. Contrariamente alle danze di coppia che lo precedettero, come il minuet-
to, la cui pedagogia e coreografia rinforzava l’obbedienza all’autorità autocratica e
la reverenza all’immagine regale ideale19, la rottura sociale rappresentata dal valzer
annunciava la nascita della coppia moderna e romantica come una forza sociale
isolata e autonoma nella società europea20.
La vertigine associata a questo esperimento coreutico era molto discussa, come
sottolinea Rahel, o per condannare il valzer o per descriverlo come una pratica as-
solutamente sublime. I medici in Germania, Gran Bretagna e Francia pubblicarono
trattati sulla salute delle donne sostenendo che ballare il valzer e la vertigine che esso
produceva avrebbero portato le donne a un generale stato di debolezza, collasso fisi-
co, sterilità e infine alla morte21. Nel 1814 in Francia, i medici Pariset e Villeneuve
sostennero che alcune danze rispettose delle buone maniere fossero degli eccellenti
esercizi per le donne, ma non il valzer, che «come tutti i movimenti spontanei spinti
fino a un certo livello» e «composti perlopiù da successioni ininterrotte di movimen-
ti circolari», causava «vertigine, nausea» ed era notoriamente «capace di indebolire e
diminuire le facoltà intellettuali, richiamando un’eccessiva quantità di fluidi nervosi
e spiriti vitali verso le parti inferiori del corpo»22.
Il 17 dicembre 1793, Rahel interviene nel dibattito sulla vertigine. Stimo-
lata da una lettera di David Veit, che aveva letto il Werther, si chiede come sia
possibile «mantenere la propria ragione con questi insani volteggi» affermando
19 Cfr. Franko, M. “Figural Inversions of the King’s Body”, in Franko, M.; Richards, A. (a cura di)
Acting on the Past, Hanover-London, Wesleyan Univerity Press, 2000, pp. 35-51; Bryson, N. “Cul-
tural Studies and Dance History”, in Desmond, J. (a cura di) Meaning in Motion, Durham, Duke
University Press, pp. 55-77.
20 «Il valzer, introdotto in Francia alla fine del XVIII secolo […] rende autonoma la coppia e l’au-
torizza a isolarsi dal resto della società. La sensualità dei corpi è sorprendentemente ravvicinata, il
movimento rapido che trascina la coppia abbracciata in un esaltante turbine d’emozioni gli hanno
conferito a lungo una cattiva repitazione», Houbre, G. La discipline de l’amour: l’éducation sentimen-
tale des filles et des garçons à l’âge du Romantisme, Paris, Plon, 1997, p. 212.
21 Jakob Wolf, S. Beweis daß das Walzen eine Hauptquelle der Schwäche des Körpers und des Geistes un-
serer Generation sey, Deutschlands Söhnen und Töchtern angelegentlichst empfohlen, Halle, J.C. Hendel,
1799 (1 ed. 1792).
22 Pariset ; Villeneuve «Danse», in Dictionaire des sciences médicales, vol. 8, Paris, Panckoucke, 1814,
ad vocem.
226
«semplicemente non provo questo piacere nel ballarlo»23. Rahel rigetta il piacere
descritto dai suoi pari esprimendo irritazione per il volteggiare imprudente che
ritiene faccia perdere la ragione. Rahel, nota per la sua spontaneità e il suo di-
sdegno per le convenzioni24, sembra sorprendentemente presagire le conclusioni
mediche di Pariset e Villeneuve. Ma la sua identità come animatrice di salotti
dipendeva dalla capacità di dimostrare acume intellettuale in un contesto andro-
centrico ed era resa ancora più fragile dal fatto che fosse ebrea e single. Ammette
soltanto di essere irritata dalla vertigine del valzer e non dal fatto che si manifesti
in «una successione troppo veloce di idee», come per Herz, ma perché ostacola il
pensiero25. Questo suo rigetto è però quanto meno ambivalente: definisce questo
ballo un «un piacere – e precisamente un’occupazione incessante perché ci si deve
costantemente impegnare per non cadere […] e così non si pensa a nulla e non si
vede nulla tranne la stanza nel più grottesco dei girotondi»26. «Sono una delle più
folli e instancabili danzatrici di valzer», confessa, pur continuando a sostenere di
non provare «nessuna debolezza». Nuovamente in contraddizione, conclude che
ballare il valzer è «un servizio religioso, una sorta di espressione di gratitudine e
forse anche un sacrificio, dato che sicuramente mi indebolisce»27.
Giorni dopo, Veit risponde sfidando Rahel, concludendo che evidentemente
«non era innamorata della persona con cui ballava il valzer» e sostenendo che il valzer
gratifica il corpo in un oblio che «risveglia tutti i sentimenti di cui parla Werther»28.
Il valzer, conclude Veit, con la sua «grande vicinanza», «il constante intreccio degli
sguardi» e «l’oblio di tutto il resto» getta le basi dell’amore romantico29.
Rifiutandosi di dargli ragione, Rahel ribatte: «io ballo il valzer, punto, e senza
capogiri». Veit scrive in termini filosofici e si basa unicamente sulle sue letture di
Goethe, mentre Rahel insiste di avere autorità in materia dato che si esprime a parti-
re dalla sua esperienza personale30. La lettera di Veit evoca per Rahel una più ampia
questione filosofica sulla femminilità, che sfida il suo ideale di donna indipendente.
227
Rahel insiste che l’assenza di pensiero indotta dal ballare il valzer giustifichi la sua
totale assenza di sentimenti. Per lei resta una questione meccanica e non del cuore.
Suggerisce, dal canto suo, che l’uomo che balla il valzer può indulgere nella vertigine
e, come nel Werther di Goethe, «ballare il valzer fino alla morte con tutte le donne
del mondo, se solo tornasse in vita per me!»31. Veit, nella lettera successiva, ammette:
«Sul ballare il valzer ho poco da aggiungere; hai contraddetto le mie ragioni con
l’esperienza e le mie congetture con la ragione»32. Ammette, forse ironicamente, che
Rahel lo ha superato con le sue argomentazioni e che è una donna eccezionale per il
fatto di non provare apparentemente sentimenti mentre balla il valzer.
Nel gennaio del 1794, Rahel scrive nuovamente a Veit. Questa volta il senso
di vertigine che l mozza il fiato è presente nella sua descrizione di quel che defini-
sce Walzliebelust:
l’ora della danza, l’ora della danza, l’ora della danza – e ora avrai un po’ di val-
zer. Stai respirando? Hai ragione. Werther ha ragione. Mademoiselle Levin ha
ragione. [….] [Goethe] ammette che una persona profondamente innamorata,
dal momento che prova il grande Walzliebelust, non desideri condividere questo
desiderio con nessun altro uomo33.
31 Ibidem.
32 Veit a Rahel, 16 gennaio 1794, ibidem, pp. 119-20.
33 Rahel a Viet, 6 gennaio 1794, ibidem, pp. 142-43.
34 Per un’analisi di questi sogni cfr. Claire, E. “Monstrous Choreographies” cit., pp. 216-18 e Te-
warson, H.T. Rahel Levin Varnhagen, Lincoln, University of Nebraska Press, 1998.
228
Vannina Olivesi35
Premessa
In questo articolo propongo lo studio delle pratiche e delle rappresentazioni della
creazione coreografica delle danzatrici all’Opéra di Parigi a cavallo tra XVIII e XIX
secolo. Con “creazione” intendo quel che si indicava come composizione dei balletti-
pantomimi, dei divertissement o dei passaggi danzati inseriti nei balletti o nelle opere
rappresentate sulla scena. Intendo anche la danza improvvisata sulla scena, durante
le lezioni, le prove o in privato. A partire dalla fondazione dell’Académie Royale de
Musique nel 1669, la composizione dei balletti e l’insegnamento della danza teatrale
sono prerogativa maschile. Questa chiusura istituzionale esclude le danzatrici dalla
creazione, ma alcune fonti testimoniano il loro desiderio di comporre opere e di
metterle in scena: si tratta degli archivi amministrativi dell’Opéra, di manuali di
codificazione della danza teatrale, di corrispondenze e documenti provenienti da
archivi privati di artisti36. Queste fonti sono scarse, dato che le pratiche in questione
sembrano riguardare solamente una categoria ristretta – le soliste o «prime danzatri-
ci» – e l’attività di queste donne è sottovalutata dai coreografi e dagli amministratori
dell’Opéra. In questo saggio analizzo lo statuto della creazione femminile nelle fonti
normative e descrivo le pratiche femminili di composizione, esaminando, infine, i
percorsi seguiti dalle danzatrici per accedere al mestiere di coreografo.
37 Féraud, J.F. Dictionnaire critique de la langue française, Marseille, Mossy, 1787-88; Dictionnaire
de l’Académie française, 5e, 1798.
38 Ibidem.
39 Planté, C. Introduzione alla sessione Figures de référence. Autorité, comunicazione orale al con-
vegno Deuxième rencontre européenne sur le genre, organizzato da RING, Lyon (19-21 Novembre
2008).
40 «Comptabilité. Dépenses du personnel et du matériel. 1778-1782», A. N., AJ13 38, I, ricevuta
firmata da Gardel.
230
Spesso delle amiche venivano a passare la serata da noi, e non perdevano l’occa-
sione per farmi danzare, e ciò mi faceva molto piacere. Indossavo il mio vestito
corto. In quelle occasioni componevo una gran quantità di passi, assicurando al
pubblico che me le aveva insegnate il mio maestro; tutti erano contenti, mera-
vigliati, non so veramente quel che eseguivo di fronte a loro […]. Avevo anche
l’abitudine, quando mia madre suonava l’arpa, di mettermi a danzare e a mimare.
L’ispirazione mi proveniva dal sentimento della musica e questo sentimento mi è
sempre rimasto, mi ha molto aiutato a variare la mia danza44.
Queste parole rivelano una certa ambiguità: la pratica artistica è descritta come
un atto che procura allo stesso tempo libertà di movimento e piacere di esporsi agli
sguardi con spontaneità e improvvisando, ma la danzatrice non rivendica in nes-
41 Noverre, J.G. Lettres sur les arts imitateur en général et sur la danse en particuliers, Paris, Collin; La
Haie, Immerzeel, 1807, vol. 2, p. 116.
42 Ivi, p. 121.
43 «Lettre de Velye adressée au Premier Préfet du Palais», 4 ventôse an 11, A. N., AJ13 67, IV.
44 Souvenirs di Marie Taglioni, Fonds Taglioni, BMO, R. 19, pp. 23-24.
231
sun modo questo atto di fronte al suo pubblico. Tuttavia, l’improvvisazione, per
Taglioni, è un atto di composizione che implica un investimento nell’identità di
genere. Scrive «componevo» e questo atto implica le sue «ispirazioni», il suo «senti-
mento», la sua capacità di appropriarsi della musica e di tradurla in forma danzata.
Nei suoi Souvenirs non usa mai il termine di «compositrice» per definire sé stessa,
anche perché il femminile di «compositore» non esisteva nel XIX secolo. Insom-
ma, una danzatrice può far sua la composizione, attraverso l’improvvisazione, ma
non può esercitare nello spazio pubblico la funzione sociale corrispondente.
Questa analisi è confermata dallo studio del Manuel complet de la danse pub-
blicato nel 1830 nel quale Carlo Blasis afferma che l’apprendimento dell’improv-
visazione è consigliato «per sviluppare il genio del giovane danzatore»45. E aggiun-
ge: «Se l’allievo è dotato del genio della composizione e di una immaginazione
creatrice, il maestro abile nella sua arte lo lascerà esercitare le sue forze nell’in-
venzione e nella combinazione dei passi […]»46. Blasis non fa altro che riprende-
re la categoria del «genio» introdotta nel campo della danza teatrale settant’anni
prima da Noverre nella prima edizione delle sue Lettres. In effetti, a partire da
Noverre, il maestro di ballo si presenta come un artista completo: diventa «un
compositore»47, «un pittore»48, «un genio»49, categorie del pensiero che, all’epo-
ca, escludono le danzatrici dalla creazione.
Il Manuel di Blasis introduce tuttavia una novità rispetto alle Lettres: la diffe-
renza tra i sessi non è più semplicemente una questione di potere o di sapere, ma
è ancorata a una fase precedente all’apprendimento o alla pedagogia, dato che il
“genio” si fonda sulla dimensione vocazionale dell’arte. In un contesto in cui la
paternità delle opere coreografiche non è garantita da sistemi di notazione della
danza, e in cui l’improvvisazione e la composizione erano pratiche se non proprio
correnti almeno tollerate per i solisti, la retorica del genio assicura una legittimità
simbolica ai coreografi e permette loro di consolidare una posizione d’élite rispetto
agli altri artisti, a prescindere dal loro sesso.
232
50 Mémoire adressé à Napoléon Ier par Pierre Gardel et Louis Milon sur l’exclusivité du droit des Maîtres
de Ballet à composer pour le grand opéra, A. N., AJ13 82, 1805, p. 3; Rapport de Pierre Gardel, Premier
Maître des ballets, A. N., AJ13 1039, mars 1813, p. 3.
51 Saint-Léon, A. De l’Etat Actuel de la Danse, Lisbona, Tipogr. du Progresso, 1856, p. 17.
233
espressamente come condizione [tra le due parti] che i passi e i ruoli creati da
Mademoiselle Carlotta Grisi resteranno sua proprietà esclusiva e che in nessun
caso l’amministrazione potrà ritirarglieli»52. Ottiene l’esclusiva sui ruoli tagliati
su misura all’Opéra e sulle scene straniere quando è in congedo53. Nel fare ciò, la
danzatrice si appropria della coreografia composta da un maestro di ballo che può
trasmetterla ai suoi allievi, ma soltanto lei ha il diritto di danzarla pubblicamente.
Tra il 1834 e il 1838 Thérèse Elssler, che ha debuttato come coreografa nel
1833 nei teatri di Londra e Berlino dove sono state rappresentate tre delle sue
opere coreografiche54, compone dei passi a due che inserisce nei divertissement
di alcune opere musicali e adatta le coreografie dei balletti composti da altri co-
reografi uomini riproposti sulla scena in occasione del suo debutto55. Nel 1838,
compone la coreografia di un balletto su un libretto di Eugène Scribe, La Volière
ou les oiseaux de Boccace56, un insuccesso. In seguito, soltanto due altri balletti
creati da donne saranno allestiti: Fanny Cerrito compone Gemma nel 1854, su
un libretto di Théophile Gautier. Marie Taglioni ha composto delle coreografie
nel corso di tutta la sua carriera e si esercita nella scrittura dei libretti di balletto
nella solitudine della sua intimità57. I suoi quaderni manoscritti, conservati alla
biblioteca dell’Opéra testimoniano questi numerosi tentativi. Nel 1860 ottiene
che la coreografia del suo balletto intitolato Le Papillon, sia messa in scena su
musica di Jacques Hoffenbach58. L’opera sarà rappresentata quarantadue volte e
riscuoterà un importante successo di critica e di publico. Taglioni accederà in
seguito all’incarico di insegnante per la classe di perfezionamento della scuola di
danza dell’Opéra e la danzatrice Madame Dominique le succederà.
In conclusione, se si considera il repertorio di balletti dell’Opéra, in ottant’an-
ni di storia la creazione femminile si rivela quantitativamente molto debole: solo
tre opere femminili sono rappresentate sulle 120 allestite tra 1770 e 1860. D’altra
parte, si dovrà attendere l’inizio del XX secolo perché una danzatrice sia nominata
come maestro di ballo. Il carattere androcentrico dell’organizzazione dell’Opéra,
l’assunzione di maestri di ballo effettuata sulla base di criteri omosociali, la co-
struzione discorsiva del mito del coreografo unico creatore dell’opera strettamente
legata alla categoria del genio romantico, sono tutte condizioni che conducono
alla svalutazione delle danzatrici che osano pretendere allo statuto di «maestre di
234
ballo»59. In effetti, è proprio nel momento in cui i coreografi perdono i loro diritti
d’autore e si limitano alla sola creazione delle coreografie, e in cui la professione si
femminilizza in massa, che nasce l’opportunità per le danzatrici di veder ricono-
scere pubblicamente il loro statuto di coreografe.
59 Cfr. la critica delle maîtresses de ballet in Meadous, M.K. Les anglais peints par eux-mêmes, Paris,
L. Curmer, 1840, vol. 2, pp. 25-29.
235
Emmanuelle Delattre60
63 Cfr. la documentazione sugli esami conservata a Paris, Archives Nationales, AJ 13- AJ13/78,
AJ13/120, ma anche la banca dati documentaria costituita per la mia tesi di dottorato in corso:
L’histoire de l’école de danse (1784-1939), dir. J.-C. Yon, Université de Versailles-Saint-Quentin-en-
Yvelines.
64 Adice, G.L. Théorie de la gymnastique de la danse théâtrale, avec une monographie des divers malaises
qui sont la conséquence de l’exercice de la danse théâtrale, Paris, Chaix, 1859, t. 7, p. 97.
238
239
68 Ivi, p. 200.
69 Tamvaco, J.L. Les cancans de l’opéra, journal d’une habilleuse (1836-1848), Paris, CNRS, 2000. La
sartina non è altro che Louis Gentil, controllore del materiale tra 1831 e 1848. Questo testo riunisce
un insieme di aneddoti, di osservazioni e annotazioni.
70 Véron, L.D. Mémoires d’un bourgeois à Paris cit., p. 196.
71 Baudelaire, C. Le spleen de Paris suivi du Fanfarlo, Lausanne, Rencontres, 1968, trad. it. a cura di
Tatone Marino, A. La Fanfarlo, Torino, Einaudi, 1980.
240
lo sguardo, è anche perché il suo corpo esibito fa di lei una donna desiderata72.
Questo corpo, che dovrebbe incarnare una forma di femminilità ideale, è model-
lato dallo sforzo fisico e da esercizi che hanno come conseguenze principali il raf-
forzamento e l’elasticità dei muscoli. Sappiamo che Marie Taglioni si sottoponeva
a esercizi molto faticosi, che si imponeva più volte al giorno e cui abbinava una
dieta73. D’altra parte, la differenziazione dei sessi è prevista nell’organizzazione
stessa delle lezioni dell’Académie: se all’inizio del XIX secolo le classi sono miste, a
partire dalla riforma del 1805 non lo sono più74. Secondo gli insegnanti, e soprat-
tutto Gardel, primo maestro di ballo e riformatore della scuola nella prima metà
del XIX secolo, allievi e allieve non devono frequentarsi per ragioni di decenza, ma
soprattutto per ragioni funzionali: femmine e maschi non hanno gli stessi ruoli in
scena, non devono quindi avere la stessa preparazione fisica. In questo modo gli
allievi e le allieve si incontrano soltanto in alcune circostanze previste dallo stesso
regolamento, ovvero le prove e la lezione di perfezionamento che riunisce gli allie-
vi più grandi. Questa separazione dei sessi risponde, quindi, a una specializzazione
degli esercizi e produce conseguenze diverse sul corpo: gli uomini devono saltare
e le donne no e ciò implica una preparazione fisica diversa, che, di conseguenza,
modella una muscolatura diversa. Il lavoro fisico agisce dunque sulla fisionomia
dei danzatori e delle danzatrici rinforzando muscoli diversi e rispondendo in tal
modo all’idealizzazione dei corpi e delle posture.
Il corpo desiderato delle danzatrici è doppiamente “braccato”, il che intensifi-
ca il desiderio che provoca in scena e fuori dalla scena, ovvero nei luoghi in cui può
essere visto. In scena il corpo in movimento è in esibizione. Inoltre, il dispositivo
visivo è condizionato dal genere: le danzatrici eseguono, gli uomini in platea osser-
vano. Questa dialettica di corpi e sguardi prosegue oltre la scena, tra le quinte, nel
foyer o nei recessi del luogo teatrale, in cui lo spettatore non si limita a guardare,
ma cerca un contatto diretto con questa o quella signorina.
A partire dal 1831 l’Opéra diventa un’impresa semiprivata e si adottano
nuove strategie per fidelizzare gli spettatori e rendere il più possibile redditizi gli
spettacoli. Si sviluppano allora delle pratiche di distinzione sociale tra categorie
diverse di spettatori: gli abbonati e ricchi spettatori abituali dell’Opéra circolano
nei diversi saloni, nel foyer della danza divertendosi e incontrando le danzatrici.
Questo gioco tra le artiste, incluse le più giovani, e gli abbonati dell’Opéra, oltre a
72 Cfr. Corbin, A. Les filles de noces, misères sexuelles et prostitution (19e et 20e siècle), Paris, Aubier,
1978 e Corbin, A.; Courtine, J.J.; Vigarello, G. L’histoire du corps, t. 2: De la révolution à la Grande
Guerre, Paris, Seuil, 2005.
73 Jacq-Mioche, S. «Taglioni Marie» e «Taglioni Philippe», in Dictionnaire de la danse, a cura di Le
Moal, P., Paris, Larousse, 1999, pp. 407-409.
74 Cfr. Paris, Archives nationales, AJ13/62.
241
essere una pratica sociale diffusa, partecipa a una certa costruzione dell’immagine
della femminilità.
In questo modo la molteplicità dei discorsi, siano essi iconografici, pratici
o emananti dall’istituzione, fa apparire un’ambivalenza e una dualità nella dif-
fusione dell’immagine della femminilità delle danzatrici dell’Académie de danse
dell’Opéra di Parigi. L’immagine della danzatrice che appare alle altre danzatrici
e al pubblico è quella della star, della prima ballerina, come Marie Taglioni, in-
nalzata a vero e proprio modello, oppure il suo opposto, il volto nascosto della
danzatrice nella quotidianità, proveniente da un ambiente molto modesto, che
vive miseramente e che cerca attraverso l’esposizione del suo corpo una forma
di distinzione o di ascensione sociale. Questa divergenza nella costruzione della
rappresentazione della femminilità della giovane danzatrice è legata all’esibizione
del corpo femminile osservato e desiderato dal pubblico maschile. Il sovrapporsi e
combinarsi di questi discorsi divergenti o contraddittori costruisce, nel corso del
XIX secolo, l’immagine della femminilità in seno all’Académie.
242
Patrizia Veroli
L’americana Isadora Duncan (1877-1927) è la più famosa degli artisti che all’alba
del Novecento hanno inventato la danza moderna. I suoi soli su musiche di autori
romantici non raccontavano alcuna storia, e non si conformavano alle regole della
danza accademica, il cui codice, nato in epoca barocca, era all’epoca ancora l’unico
a governare lo spettacolo coreografico, attribuendogli un crisma artistico. A lungo
onnipresente fu il richiamo all’iconografia greca: corpo di profilo, peplo, piedi
nudi. Situata all’apice della catena di trasmissione americana del modernismo (do-
minante fino agli ultimi decenni del Novecento, quando è stato riscoperto quello
di marca tedesca), Duncan è stata mitizzata come artista spontanea e geniale. La
sua personalità di donna indipendente e non convenzionale (ebbe un figlio fuori
dal matrimonio, istituzione contro cui sempre si pronunciò, e visse liberamente
relazioni eterosessuali e saffiche) è sembrata il perfetto corrispettivo della trasgres-
sività della sua arte. Il mito di Duncan ha dominato il Novecento.
Negli ultimi anni Duncan è stata oggetto di studi decostruzionisti che hanno
investito soprattutto il suo ricorso alla iconografia greco-antica. La storica Ann
Daly ha fatto ricorso al concetto di «consacrazione culturale»76 avanzato da Pierre
Bourdieu per mostrare che Duncan ha consapevolmente usato i segni della cultu-
ra greca, investita all’epoca dalla nostalgia di quanti in Occidente erano delusi e
impauriti dalla modernità, per legittimare la sua danza, che gli abiti succinti e la
77 Daly, A. Done into Dance. Isadora Duncan in America, Bloomigton and Indianapolis, Indiana
University Press, 1995.
78 Benjamin, W. Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Repoduzierbarkeit, Franfurt a. M, Sur-
kamp, 1955, tr.it. Filippini, E. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società
di massa, Torino, Einaudi, 1966.
79 Segnalo in particolare Mirzoeff, N. (a cura di) The Visual Culture Reader, London-New York,
Routledge, 1998.
244
80 Cit. in Kurth, P. Isadora. A Sensational Life, Little, Boston-New York-London, Brown and Com-
pany, 2001, p. 396.
81 Franko, M. Dancing Modernism / Performing Politics, Bloomington-Indianapolis, Indiana Univer-
sity Press, 1995, pp. 1-20.
82 «Gli atteggiamenti che assumiamo influenzano la nostra anima: un semplice rovesciamento all’in-
dietro della testa, eseguito con passione, produce in noi un fremito bacchico di gioia, di erotismo o
desiderio», cfr. Duncan, I. “L’art de la danse”, in L’oeuvre, n. 11, 1911, s.p. 12.
245
promozionali) alla realtà. Come sono state negoziate quelle foto? La costruzione
neoclassica dell’immagine da chi è stata scelta? E come è stata letta nel tempo? Le
scuole dei primi danzatori modernisti, donne e uomini, necessiterebbero di uno
studio a sé. Qual era il prezzo, in termini di libertà individuale, per seguire corsi
che volevano educare alla libertà di movimento e alla rigenerazione della vita? Dal
punto di vista di genere le scuole di Isadora, tutte femminili, erano conservatrici.
Le fotografie hanno eliminato dalla vicenda di Isadora complessità e contraddizio-
ni, mitizzandola come genio romantico solitario e incompreso. Hanno trasforma-
to la storia in «natura»83.
Con attenzione vanno letti anche i testi di Duncan, gettati sul mercato dopo
la sua morte. La maggiore raccolta, The Art of the Dance (L’arte della danza), uscì
nel 1928 curata da Seldon Cheney, un critico teatrale che aveva iniziato a colla-
borare con la danzatrice per pubblicarne alcuni testi che usava come commento
ai suoi recital84. Versioni differenti dello stesso scritto, redatte in fretta e in parte
incomprensibili, sottolineature, punti di sospensione: il curatore del volume do-
vette fare scelte inevitabilmente soggettive.
Per decenni, tuttavia, la trasmissione dell’arte e della personalità di Isado-
ra non si è giocata sui suoi scritti, ma su My Life (La mia vita)85, l’autobiografia
incompiuta, pubblicata qualche settimana dopo la sua morte negli Stati Uniti e
poi uscita in varie lingue con rimaneggiamenti vari. Così come le letture che nel
tempo ne sono state fatte, le peripezie del testo meriterebbero uno studio. Capitoli
verisimilmente scritti da Isadora assieme alla scrittrice Mercedes de Acosta, con cui
ebbe negli ultimi anni una relazione omosessuale, l’alternarsi di diverse segretarie
nella stesura di un testo compromesso dalle frequenti crisi emotive di Isadora in
preda all’alcool, le liti coll’editore, capitoli scomparsi, le censure delle parti più
esplicitamente erotiche di cui si lamentò il padre di una sua figlia, Edward Gordon
Craig, noto teorico del teatro. L’editore Liveright volle da Isadora un testo piccan-
te e carico di dettagli sulla sua vita sessuale: il sostentamento dell’artista dipendeva
dal denaro che lui le inviava periodicamente.
Come valutare La mia vita? In La morte dell’autore, Barthes ha negato la pos-
sibilità di un testo-confessione, che rinvii direttamente all’autore. Questi è per lui
un personaggio moderno, che nasce da una società in cui, sin dal medioevo, si è
valorizzato il prestigio dell’individuo e della persona. L’autore non inventa nulla
83 Barthes, R. “Le Mythe aujourd’hui”, in Id. Mythologies, pp. 193-247, tr.it. di Lonzi, L. “Il mito,
oggi”, in Id. Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974, p. 210.
84 Duncan, I. The Art of the Dance, New York, Theatre Arts, 1928, tr.it. di Sciubba, S. L’arte della
danza, a cura di Barbara Nomellini, E.; Veroli, P., Palermo, L’Epos, 2007.
85 Duncan, I. My Life, Garden City Publishing Company Inc., New York, Garden City, 1927, tr.it.
La mia vita, Roma, Dino Audino Editore, 2003 (1° ed. it. Roma, Il Poligono, 1948).
246
per Barthes, fa del bricolage: l’«io» è un essere di carta86. Dopo di lui, che più tardi,
in Il piacere del testo87 ha però recuperato il bisogno della figura dell’autore, Michel
Foucault, in Che cos’è un autore?, ha sottolineato la qualità di atto performati-
vo dell’autobiografia88. Ancorché produttrice di storia, l’autobiografia non è un
racconto storico. Smith e Watson, che da anni si dedicano allo studio di questo
genere letterario, sottolineano che è necessario distinguere in essa l’autore dall’«io
narrante» e dall’«io narrato», nonché identificare il «lettore implicito» del testo,
la persona immaginaria a cui è diretto. A loro avviso la scrittura autobiografica è
un processo intersoggettivo, che si sviluppa all’interno di un patto tra scrittore e
lettore e si pone al di fuori dell’opposizione vero/falso89. È vano cercare la verità
storica di My Life (La mia vita), ma è utile distinguere quello che vi è presentato
come vero. Come L’arte della danza, La mia vita fu scritto per gli Stati Uniti. Ferita
dal ritiro del suo passaporto americano, rifiutata e contestata durante la sua ultima
tournée per le sue simpatie verso la Russia sovietica (dove aveva aperto una scuola)
e per le sue proclamazioni aggressive, Isadora mette in scena un «io narrante» che
utilizza il modello identitario della self-made woman per raccontare una storia fatta
soltanto di audacie e vittorie. È un «io» che si monumentalizza come madre soffe-
rente e artista ispirata, diretta erede di Walt Whitman, che se la prende con lo scul-
tore George Grey Barnard per non averla rappresentata in bronzo come «America
Dancing», preferendo immortalare il presidente Lincoln90, e che si dichiara «fie-
ramente democratica», ironizzando sulle case regnanti europee e su quelle classi
agiate che pure sono state essenziali al successo delle sue danze91. Il testo è abitato
da un lettore uomo, puritano e conservatore, che diffida dell’«io narrante» ed è
interessato soprattutto al modo in cui Isadora ha gestito la sua sessualità. I dettagli
che l’«io narrante» dà dell’iniziazione sentimentale e sessuale dell’«io narrato», rap-
presentato come sempre ingenuo e agito dai sentimenti, sono degni di un roman-
zo pornografico e sfiorano a tratti la caricatura. Molto del mito di Isadora come
danzatrice spontanea e incapace di vere composizioni coreografiche viene da qui.
86 Barthes, R. “La mort de l’auteur”, in Le bruissement de la langue, Paris, Seuil, 1984, pp. 61-67, tr.it.
di Belletto, B. “La morte dell’autore”, in Id. Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Torino, Einaudi,
1988, pp. 51-56.
87 Barthes, R. Le plaisir du texte, Paris, Seuil, 1973, tr.it. di Lonzi, L. Variazioni sulla scrittura seguite
da Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1999.
88 Foucault, M. Dits et écrits 1954-1988, vol. I, Paris, Quarto Gallimard, 2001, pp. 817-849, tr.it.
di Milanese, C. Scritti letterari, Milano, Feltrinelli Milano 1971, pp. 1-21.
89 Smith, S.; Watson, J. Reading Autobiography. A Guide for Interpreting Life Narratives, Min-
neapolis-London, University of Minnesota Press, 2001. Vedi anche Lejeune, P. Le pacte autobio-
graphique, Paris, Seuil, 1996.
90 Duncan, I. La mia vita cit., p. 227.
91 Ivi, p. 161.
247
Non c’è menzione di alcuna preparazione alla danza, né della fatica implicata da
questa pratica. L’«io narrante» è una donna intensamente consapevole del proprio
corpo, di cui descrive il risveglio della sensualità, la trasformazione dei seni, l’arro-
tondamento dei fianchi92. In un paesaggio ossessionato dal sesso, la danza rischia
sempre di giocare un ruolo equivoco, di essere il giocattolo grazioso e inutile con
cui trastullarsi dopo un’orgia. L’«io narrante» non fa che proclamare la propria
libertà, ma è pieno di contraddizioni e censure. L’apologia del libero amore si fa
a spese dei legami saffici; salvo pochi casi, il nome degli amanti è nascosto sotto
pseudonimi che ne dissimulano l’identità minimizzandone la persona. Le allieve
restano children o pupil, anche quando i fatti riportati si situano al momento in cui
la maggiore delle cosiddette «Isadorables», Thérèse, ha circa 22 anni, e la minore,
Erika, ne ha 16. La loro personalità non è mai valorizzata. I mecenati non sono
mai giudicati degni di menzione. Una presunta superiorità etnica come donna
«bianca» è esibita verso i neri americani, evidentemente per compiacere il lettore
«implicito» del testo, conservatore e razzista, ma è censurata verso le popolazioni
nere di altri Paesi93. Ogni tensione con la sorella Elizabeth, che a lungo diresse la
scuola tedesca, è omessa, così come qualsiasi debito di riconoscenza verso di lei.
Nessun disaccordo colle «Isadorables» è mai descritto.
Per tutto il testo non cessa di apparire l’immagine della «piccola tunica greca»,
dei veli trasparenti, delle gambe e dei piedi nudi, i segni con cui la danzatrice si
è fatta applaudire dalle élite culturali europee. Come mai questo refrain? È il se-
gno dell’identità dell’autrice del libro? È una garanzia di autenticità del racconto,
richiesta dall’editore o da lui stesso inserita nel volume? Quando è narrato il viag-
gio in Grecia del 1903, l’«io narrante» riferisce del suggerimento di Raymond di
vestirsi alla greca da quel momento in poi e riflette: «Mi sembrò che tutti i nostri
sogni fossero solo follie gloriose, perché noi non eravamo, e non potevamo essere
che dei moderni»94.
L’icona greca è stato dunque un sogno necessario, uno strumento di promo-
zione sublime, una raffinata gabbia, la sola possibile a una donna nata nell’Otto-
cento per dare corpo al futuro?
92 Ivi, p. 136.
93 Ivi, pp. 213-223.
94 IVi, p. 96.
248
Marina Nordera
95 Butler, J. Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, New York, Routledge, 1990,
tr.it di Zuppet, R. Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Milano, Sansoni, 2004.
96 Foster, S.L. “Choreographies of Gender”, in Signs, n. 1, 1998, pp. 1-33.
97 Ivi, pp. 5-6.
250
sociale98. Il pericolo risiede nella rottura dell’equilibrio in seno alla coppia in cui
non vi è una netta differenziazione dei ruoli di genere, ancora più confusi nella
destabilizzazione del turbinio che costituisce la materia stessa di questa danza.
Così nel valzer la coppia diventa metafora di una riconfigurazione dei ruoli sociali
rispetto agli assetti di antico regime. Nella società borghese moderna nascente,
sulla base della definizione dei ruoli di genere prefigurata dall’Illuminismo e da
Rousseau in particolare, si afferma la separazione della sfera pubblica e da quella
privata, la prima assegnata agli uomini, la seconda alle donne, e l’elaborazione
della loro complementarità in una concezione organica della società. Nel valzer
la coppia rappresenta la tensione tra egualitarismo e mobilità sociale e le identità
femminile e maschile giocano con queste mutazioni delle strutture e dei nuovi
sguardi che alimentano e legittimano.
Nella storiografia della danza teatrale nel XIX secolo, una funzione paradig-
matica di primo piano è stata assegnata ad alcune istituzioni teatrali fortemente
gerarchizzate ed emanazione diretta del predominio culturale esercitato dai poteri
centrali (la Monarchia, lo Stato), quale l’Opéra di Parigi. Spesso dunque la “fab-
bricazione dei generi” è studiata in questi contesti, grazie anche al fatto che l’obbli-
go di registrazione delle operazioni amministrative ha prodotto e conservato ricchi
fondi di archivio. Ci si potrebbe domandare come siano immaginate e rappresen-
tate le costruzioni e le relazioni di genere nella danza fuori dall’Opéra di Parigi,
nei teatri minori e di provincia, nelle compagnie di giro e nei generi spettacolari
che non siano il balletto (come la féerie, il melodramma, il vaudeville). In realtà, i
protagonisti e le protagoniste della danza sono parte attiva di una rete di relazioni
più ampia, sia personale sia professionale, e le loro carriere, nella maggior parte dei
casi instabili, dimostrano una certa mobilità sociale. Questa constatazione impone
di ripensare la funzione e il valore delle istituzioni controllate dal potere, che sono
certo dotate di un potenziale simbolico non sottovalutabile, ma che monopoliz-
zano la scrittura storica e danno una visione piramidale e rigida delle relazioni di
genere. Sarebbe interessante, piuttosto, seguire le carriere di un certo numero di
artiste/i in Europa che operano ai margini dell’istituzione, studiarne le strategie di
costruzione e di negoziazione delle identità, che rispondono a imperativi sociali
meno costrittivi, in cui, cioè, le resistenze del singolo possono scardinare i sistemi
di controllo e consentire traiettorie di vita più creative.
Un altro snodo fondamentale degli studi che pongono in relazione tra loro
danza e questioni di genere è dato dalla resistenza alla penetrazione culturale delle
rappresentazioni della danza e ciò a dispetto della diffusione e del radicamento
delle pratiche. La danza è un fattore ambiguo di emancipazione sociale, tanto
251
per gli uomini quanto per le donne, e in cui interagiscono immaginazione, rap-
presentazione ed esperienza vissuta delle percezioni corporee. Questa ambiguità
è costante sulla lunga durata, anche se si configura in discorsi e rappresentazioni
sempre nuovi. Nelle argomentazioni contro l’attività sociale della danza elaborate
dal discorso medico in relazione al valzer alla fine del XVIII secolo ho osservato
una continuità con le fonti dello stesso tipo che ho studiato per il XVI e XVII
secolo. Il mutamento di paradigma scientifico che interviene nel corso del XVIII
secolo e il rinnovamento profondo operatosi nelle concezioni del corpo (dalla te-
oria degli umori al corpo macchina) non sembra aver destabilizzato la continuità
sulla lunga durata di questi discorsi di cui richiamo i punti principali: debolezza
del corpo femminile, pericolosità dello sforzo per gli organi della riproduzione
(minaccia di sterilità), perdita del controllo sulla percezione e sui sensi (con risvolti
importanti sull’equilibrio fisico e morale). Per esempio, gli effetti del godimento
della vertigine nel valzer sembrano essere identificati come una patologia special-
mente femminile, proprio perché nella donna non vi è soluzione di continuità tra
percezione e immaginazione. E questa attitudine è un residuo della corrisponden-
za tra elementi psicologici e fisiologici istituita dalla teoria degli umori. La conti-
nuità storica riguardo al tipo di pericoli evocati dai medici potrebbe essere interna
alla tradizione degli scritti medici e in alcuni casi tenere conto solo in parte delle
pratiche coreutiche a cui fa riferimento. I medici si sono scagliati infatti contro la
gagliarda, il valzer, le nuove danze venute dalle Americhe, il rock and roll, e così
via. Uno studio di queste fonti sulla lunga durata potrebbe chiarire permanenze
e rotture, e probabilmente ci consentirebbe di riconsiderare una relazione causale
tra danze, condanna morale, discorso medico, che mi sembra appiattire il modo in
cui questi fenomeni sono studiati e che si fondano, in fin dei conti, su una pretesa
neutralità delle argomentazioni mediche: i medici sono uomini e la medicina è
una forma culturale.
Quando, a partire dal 1830, si inaugura il processo di privatizzazione
dell’Opéra di Parigi, la ballerina aumenta il suo potere contrattuale, fino a pre-
tendere delle remunerazioni quattro volte maggiori rispetto a quelle di un uomo
e persino del compositore di balletti. In effetti, il successo di pubblico è affidato
alla potenza della sua immagine, che si nutre della spettacolarizzazione della vita
privata e della realtà sociale in cui si muove come compendio “naturale” alla vita
dello spettacolo. Secondo Hélène Marquié, tra la fine del XVIII e il XIX secolo la
danza appare come il campo privilegiato per la messa in scena della femminilità,
e un campo di osservazione dei processi all’opera nell’elaborazione del genere99.
252
253
sono in fondo diverse da quelle messe in atto dalla ballerina romantica Maria
Taglioni che, pur dedicandosi tramite un indefesso lavoro a costruire il suo corpo
scenico, e pur cimentandosi con la creazione normalmente riservata agli uomini,
resta imbrigliata nelle maglie della dominazione maschile. Queste dinamiche si
manifestano nelle modalità di trasmissione e nella regolamentazione dei diritti
d’autore, tanto che al momento di cogliere i frutti del suo lavoro creativo ren-
de omaggio ai suoi maestri (maschi)102. Soltanto quando i coreografi perdono i
diritti d’autore per i libretti di ballo e limitano alla sola composizione coreogra-
fica la loro attività, si apre per le danzatrici l’opportunità di vedere riconoscere
pubblicamente il loro statuto di coreografe. Se l’autorità del coreografo è legata
all’autorialità del libretto e ai diritti che ne derivano, lo spiraglio della creatività
femminile si dischiude nel momento in cui la scrittura esce dalle prerogative della
figura professionale del maestro di ballo. La scrittura e la pubblicazione del libretto
diventa quindi un’arma del potere fallologocentrico dei maestri di ballo all’Opéra
e della riaffermazione del predominio maschile. In effetti secondo Hélène Mar-
quié, proprio nel momento in cui la danza si stacca dalla narrazione, la sua cate-
gorizzazione femminile raggiunge il suo apogeo103. D’altro canto, Veroli mostra
come anche per Duncan, che la storiografia tradizionale ha raffigurato (e ancora
raffigura) come l’icona e l’incarnazione dell’emancipazione femminile, la pratica
della scrittura resti balbuziente e che gli scritti arrivati fino a noi non siano altro
che il frutto di una rielaborazione altrui, di un bricolaggio a partire da frammenti
sconnessi e disarticolati.
In conclusione, un invito a interrogarsi incessantemente sulle prestrutture
nel maneggiare le fonti del corpo, impregnate di ideologia, quella del loro tempo,
come della nostra.
254
Monica Dall’Asta
1. Storia del cinema e storia delle donne: appunti su una convergenza in corso
Solo di recente la storia del cinema ha iniziato a incrociare i suoi percorsi
con la storia delle donne. Tuttora, i più accreditati repertori biografici riservano
qualche spazio alle donne quasi esclusivamente in quanto attrici, mentre appena
una manciata di nomi femminili compare sporadicamente nei volumi dedicati
ai registi. In genere la storia del cinema ha considerato la creatività e l’iniziativa
femminile quali variabili senza importanza per il destino artistico, economico e
industriale del cinema. Ciò ha prodotto una visione del cinema mutilata, come
costruzione tutta maschile, dove il femminile ha spazio solo nella misura in cui si
presta a farsi oggetto di sguardo.
La feminist film theory è sorta in un primo tempo precisamente su questo assun-
to, asserendo il dominio del piacere maschile sulla dinamica degli sguardi filmici e
intraprendendo la decostruzione critica dei suoi meccanismi1. In seguito, un discor-
so più complesso ha preso forma a partire dalla messa in questione di tale egemonia,
interrogando e affermando il piacere della visione femminile nello stesso contesto
del cinema classico. Ancora poco avvezza alla metodologia della ricerca storica, la
teoria femminista arriva nel tempo a mostrare come il discorso sul cinema sia viziato
all’origine dall’esclusione della soggettività femminile e, in particolare, dalla sotto-
valutazione del ruolo attivo svolto dalla spettatrice nell’orientare le stesse scelte di
1 Si tratta della tesi avanzata da Laura Mulvey nel suo storico saggio “Visual Pleasure and Narrative
Cinema”, in Screen, n. 3, 1975, tr.it. “Piacere visivo e cinema narrativo”, in nuova dwf, n. 8, 1978,
pp. 26-41.
produzione2. Nascono così i primi studi sul melodramma come genere fondamen-
talmente femminile, mentre la critica delle donne, ovvero delle spettatrici militanti,
lavora per annettersi importanti territori del cinema classico e moderno, da autori
come Hitchcock e Sternberg, a generi come il noir, l’horror e la fantascienza3. Ma
l’affermazione, compiuta su un piano ermeneutico e per via deduttiva, della produt-
tività simbolica dello sguardo femminile non può che evidenziare la contraddizione
rappresentata dall’apparente esiguità del numero di donne concretamente implicate
nei processi produttivi. Nonostante apprezzabili ricerche che tentano di scardinare il
teorema della natura maschile dello sguardo, analizzando il lavoro di cineaste come
Dorothy Arzner, Ida Lupino, Germaine Dulac, Maya Deren, Marguerite Duras,
Chantal Ackerman, Sally Potter e altre, il paesaggio culturale del cinema sembra ine-
vitabilmente destinato a rimanere concepito come un terreno a egemonia maschile.
Si tratta dunque di un problema teorico che non può trovare risposte mante-
nendosi nel campo metodologico dell’ermeneutica e dell’estetica e necessita invece
di essere affrontato attraverso una nuova metodologia di ricerca empirica, in grado
di fornire un nuovo patrimonio di conoscenze di base. Una svolta storica inter-
viene negli studi femministi sul cinema sul finire del secolo scorso. Muovendo
da un’iniziativa di Jane Gaines (già Duke, ora Columbia University), il progetto
denominato Women Film Pioneers (d’ora in poi WFP) è cresciuto in poco più d’un
decennio fino a contare attualmente su numerose dozzine di studiose e studiosi
disseminati in tutto il mondo4. Il successo dell’iniziativa, che si concretizza in
258
una già cospicua serie di prodotti e appuntamenti di ricerca5, rende ben chiara
l’esigenza, che in questi ultimi anni le storiche del cinema hanno sentito, di co-
noscere meglio i percorsi biografici e professionali di cineaste oggi dimenticate, di
interrogare l’esiguità delle tracce tramandate e di obiettare alla supposta assenza di
esperienze femminili importanti nella storia della cultura e dell’industria cinema-
tografica attraverso una meticolosa indagine sulle fonti.
Schematicamente, i presupposti metodologici della ricerca possono essere ri-
assunti in tre punti. Il primo riguarda il problema della periodizzazione, il secondo
la scelta di un approccio transnazionale, il terzo la volontà di inserirsi in un quadro
di storia sociale. Tutti e tre gli aspetti sono direttamente coinvolti nel processo
di convergenza interdisciplinare tra storia del cinema e storia della donne che in
effetti costituisce la principale novità della ricerca.
5 Parallelamente all’avvio della ricerca sulle pioniere, ha preso il via, sotto l’egida di una nuova asso-
ciazione denominata Women and Film History International, un appuntamento convegnistico dal
titolo Women and the Silent Screen, giunto alla VI edizione (Utrecht 1999, Santa Cruz 2001, Mon-
treal 2004, Guadalajara 2006, Stoccolma 2008, Bologna 2010), che ha a sua volta alimentato una
cospicua serie di pubblicazioni: Bean, J.M.; Negra, D. (a cura di) A Feminist Reader in Early Cinema,
Durham and London, Duke University Press, 2002; Maule, R.; Russel, C. (a cura di) “Cinephilia
and Women’s Cinema in the 1920s”, in Framework, n. 1, Spring 2005, numero monografico; Maule,
R. (a cura di) “Femmes et cinéma muet: nouvelles problématiques, nouvelles méthodologies”, in
Cinémas, n. 1, Automne 2005, numero monografico; Hastie, A.; Stamp, S. (a cura di) “Women and
the Silent Screen”, in Film History, n. 2, 2006, numero monografico; Bull, S.; Söderberg Widding,
A. (a cura di) Not so Silent: Women in Cinema Before Sound, Stockholm, Acta Universitatis Stockhol-
miensis, 2010. Per una panoramica della ricerca in corso in Italia, si veda Dall’Asta, M. (a cura di)
Non solo dive. Pioniere del cinema italiano, Bologna, Cineteca di Bologna, 2008.
259
6 L’influente nozione del cinema come sfera pubblica è stato introdotto da Hansen, M. in Babel
and Babylon: Spectatorship in American Silent Film. London: Harvard University Press, 1991; tr.it.
Babele e Babilonia. Il cinema muto americano e il suo spettatore, Torino, Kaplan, 2006.
7 Il fenomeno è stato analizzato in modo approfondito nel contesto del cinema americano da Ward
Mahar, K. Women Filmmakers in Early Hollywood, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2007.
260
3. L’approccio transnazionale
Ulteriore elemento caratterizzante del progetto è la scelta di dare estensione glo-
bale alla ricerca. Dal punto di vista metodologico, ciò implica un’organizzazione
reticolare e collaborativa del lavoro scientifico, ispirata al modello femminista del-
le reti di donne. Si tratta di un approccio altamente innovativo, dove la collabo-
razione tra gruppi di ricerca su scala globale è posta come condizione necessaria
per un’indagine di tipo comparatistico, che per la prima volta coinvolge territori
tradizionalmente trascurati in Occidente dalla storia del cinema (come la Cina,
l’India, il Medio Oriente, l’Egitto), allo scopo di offrire qualcosa come un’immagi-
ne sinottica dei percorsi femminili nelle diverse cinematografie, ovvero nei diversi
contesti culturali, agli albori della modernità novecentesca.
L’adozione di una prospettiva transnazionale è uno degli aspetti che, come
si è detto, hanno conferito alla ricerca un profilo quantitativo, producendo una
261
moltiplicazione dei nomi e delle figure e dunque una maggiore complessità del
campo di studio. Nello stesso tempo, si può dire che i vantaggi dell’operazione
siano in funzione dei suoi limiti. Infatti, l’incremento numerico delle figure ot-
tenuto grazie all’approccio globale è pur sempre un incremento relativo, che in
ogni caso non può e non vuole occultare gli aspetti di esiguità e di minoranza che
caratterizzano l’insieme delle cineaste, ma mira al contrario a valorizzarli facendo-
ne il perno privilegiato di un’esplorazione su scala globale. In altri termini, non
è in quanto “numerose”, ma proprio in quanto “relativamente numerose” che le
donne costituiscono un veicolo eccellente per fare il giro del mondo con l’aiuto
del cinema, ovvero per accedere a una sintetica apprensione della diversità dei
processi sociali, economici, politici e culturali che segnarono le loro esperienze
nei vari contesti territoriali. Si tratta, come ho suggerito altrove, di un tentativo di
storia “seriale” che non sacrifica la differenza dei percorsi individuali al tentativo di
rinvenire nelle carriere delle singole figure una supposta comune qualità femmini-
le, ma aspira piuttosto a enumerare variabili e ricorrenze, a evidenziare analogie e
peculiarità, a costruire costellazioni di casi affini o contrastanti, anche seguendo le
traiettorie transnazionali e l’intreccio di collaborazioni e incontri che punteggiano
molte biografie9.
In effetti, il piano globale è reso pertinente dalla stessa esperienza transnazio-
nale di molte di queste pioniere10. Ancora una volta si tratta di un aspetto che,
se non esclusivo, è almeno abbastanza specifico del cinema muto, un periodo in
cui l’assenza degli ostacoli linguistici poi introdotti dal sonoro e la vivacità di un
settore industriale che vede fiorire un po’ ovunque sempre nuove imprese favori-
scono singolarmente i fenomeni di emigrazione e immigrazione professionale, resi
anche più intensi dallo scoppio della guerra. Ma è chiaro che questa vocazione al
viaggio assuma un valore particolare nel caso delle donne, fornendo un paradigma
tramite il quale indagare aspirazioni e percorsi di ricerca delle “donne nuove” di
inizio Novecento.
Infine, l’attività transnazionale delle prime cineaste è lo specchio nel quale
si riflette l’attività delle ricercatrici odierne, anch’esse impegnate a disegnare reti
di dialogo e collaborazione con cui infrangere i confini tra culture e tradizioni di
9 Cfr. Dall’Asta, M. “Sfide e prospettive di una storia femminista del cinema”, in La valle dell’Eden,
2008, n. 19, luglio-dicembre 2007, pp. 81-94, e Id. “What It Means to Be a Woman: Theorizing
Feminist Film History Beyond the Essentialism/Constructionism Divide”, in Bull, S.; Söderberg
Widding, A. (a cura di) Not so Silent… cit., pp. 39-47.
10 Si veda in proposito Stutesman, D. (a cura di) “Trans-nationalizing Women’s Film History”, in
Framework, n. 2, Fall 2010, numero monografico atti del seminario omonimo svoltosi nel marzo
2010 alla Columbia University (New York), nell’ambito del progetto Women’s Film History Network,
coordinato da Christine Gledhill presso la Univesity of Sunderland (UK).
262
11 Gaines, J. “Esse sono noi? Il nostro lavoro sulle donne al lavoro nell’industria cinematografica
muta”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive cit., pp. 19-30.
12 Il riferimento è allo storico convegno, svoltosi nel 1978 appunto a Brighton, dove un gruppo di
giovani studiosi diede il via a una profonda revisione delle categorie storiografiche tradizionali, con
particolare riferimento alla rappresentazione canonica del cinema dei primi tempi. Per un’introdu-
zione alle principali questioni affrontate nell’ambito di questo filone di studi, si veda Elsaesser, T. (a
cura di) Early Cinema: Space Frame Narrative, London, British Film Institute and Indiana University
Press, 1990.
263
13 Si tratta della sezione italiana del progetto WFP, costituitasi a partire da un convegno organizzato
nel 2007 dall’Università di Bologna in collaborazione con Associazione Orlando e Biblioteca Italiana
delle Donne, i cui lavori sono confluiti nel già citato volume Non solo dive. Per quanto riguarda la
ricerca sul cinema sonoro, va ricordato il lavoro di Cardone, L.; Fanchi, M. (a cura di) “Genere e
generi. Figure femminili nell`immaginario cinematografico italiano”, in Comunicazioni sociali, n. 2,
maggio-agosto 2007, numero monografico.
264
Lucia Cardone
L’incontro fra la storia del cinema e la storia delle donne, almeno in ambito italia-
no, non è mai pienamente avvenuto, seppure i punti di vicinanza e sconfinamen-
to, gli incroci, le aree e gli interessi che affratellano i due campi di studio siano
numerosi, densi ed estremamente promettenti. Forse per la duplice natura dello
schermo, luogo di luminescente visibilità e insieme membrana opaca che ingom-
bra lo sguardo e impedisce il contatto; o forse, più prosaicamente, per la ineffabile
separatezza degli ambiti disciplinari, i sentieri delle ricerche, ancorché solidali,
riescono a incrociarsi e contaminarsi sempre più raramente.
Del resto, nel panorama degli studi cinematografici in Italia, a fronte di spac-
cati e ormai tradizionali analisi di impianto teorico, dei più recenti approcci le-
gati al lavoro sulla ricezione, e alla forte spinta a indagare le nuove frontiere del
cinema (in special modo il versante tecnologico, della fruizione dell’audiovisivo),
la prospettiva storica e segnatamente quella di genere è quanto mai debole, fram-
mentaria, marginale. Tuttavia, proprio da questa marginalità coltivata con passio-
ne, sembrano venire segnali positivi, sguardi differenti e ingegnosi che tentano di
annodare i fili della storia del cinema e della storia delle donne, in una rete ancora
lasca, certo, ma intessuta e tenuta assieme da punti saldi. Ne è un esempio la re-
cente riflessione sulle figure femminili nell’immaginario cinematografico italiano
pubblicata dalla rivista Comunicazioni sociali, un lavoro interdisciplinare che ha
coinvolto storiche, storici e storiche del cinema, mettendo in evidenza un campo
di indagine vasto, multiforme, attraversato da sguardi e approcci diversi14. Nella
14 Si tratta di un lavoro che ho curato assieme a Mariagrazia Fanchi e che mi permetto di segnalare:
Cardone, L.; Fanchi, M. (a cura di) “Genere e generi. Figure femminili nell`immaginario cinemato-
grafico italiano”, in Comunicazioni sociali, n. 2, maggio-agosto 2007, numero monografico.
15 Al gruppo di ricerca coordinato da Dall’Asta e Jandelli, oltre a questo panel, si deve il recente
convegno internazionale Women and the Silent Screen VI (Bologna, 24-26 giugno 2010), realizzato in
collaborazione con la Cineteca di Bologna e Women and Film History International.
16 L’intervento di Lucia Di Girolamo ha messo in evidenza i meccanismi della gestione familiare,
decisamente incentrata sulla figura carismatica di Elvira Notari. Cfr. Di Girolamo, L. “La Dora Film
di Elvira Notari, esempio di ‘saggezza organizzativa’ tra esigenze commerciali e necessità familiari”,
infra, pp. ???
17 La scoperta di queste figure di donne lombarde, registe e produttrici, si deve alle ricerche di Elena
Mosconi. Cfr. Mosconi, E. “Un’idea di cinema nell’opera perduta di Bianca Virginia Camagni ed
Elettra Raggio”, infra, pp.
18 Lo studio che Cristina Jandelli ha dedicato a Daisy Sylvan muove da un approccio biografico, in-
trecciando le fonti e metodi analitici della storia del cinema con i documenti, gli archivi e le modalità
266
di indagine della ricerca storica. Cfr., Jandelli, C. “Daisy Sylvan attrice, regista e imprenditrice”,
infra, pp.??
19 Le ricerche di Luca Mazzei sulle riviste e sui paratesti cinematografici hanno portato alla scoperta
di numerosi e notevoli casi di scritture femminili sul cinema. Cfr., infra. ??
20 Cfr. Veronesi, M. “Uno sguardo femminile sulla grande guerra: Umanità di Elvira Giallanella”,
infra pp. Della stessa autrice si veda anche “Una donna vuol ‘rifare il mondo’. Umanità di Elvira Gial-
lanella”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive. Pioniere del cinema italiano, Bologna, Cineteca di
Bologna, 2008, pp. 159-172.
267
riprese dal vivo del Carso, teatro di sanguinose battaglie – porta sullo schermo
le eclettiche parole d’ordine del pacifismo di quegli anni, mettendo insieme l’u-
manesimo socialista e i sentimenti di un vago e solare cristianesimo. Potremmo
addirittura leggere questo film come una sorta di eco per immagini dei dibattiti
ospitati sulle coeve riviste femminili, una versione per lo schermo di quelle ap-
passionate riflessioni, dello sgomento per la tragedia appena consumata e di un
rifiuto della guerra netto e quasi istintivo. Un ritrovamento eccezionale, quello
di Umanità, che diviene paradigmatico sia delle difficoltà sia della necessità di
incrociare gli studi cinematografici con la storia delle donne, mostrando i fecondi
scambi e rimandi fra le immagini sullo schermo e le parole e riflessioni femminili
sul mondo, sull’attualità. Una contaminazione più che auspicabile, dunque, e che
per realizzarsi ha bisogno anzi tutto di un reciproco riconoscimento, di un guar-
darsi e ascoltarsi le une con le altre, storiche e storiche del cinema, in una rete di
sguardi che mette in gioco saperi e discipline differenti, e che è, soprattutto, un
mettersi in gioco. Lo schermo, da membrana che ostacola e impedisce il contatto,
può forse divenire un terreno di scambio, un luogo di duplice e multiforme visi-
bilità, lo spazio d’azione e di interpretazione per guardare alla storia da prospettive
desuete e necessarie. La scommessa, ciò che ci sta a cuore, è di tentare di costruire
assieme, autorevolmente, un’altra storia del cinema, una storia capace di raccon-
tare, fuori e dentro lo schermo, le vite e le relazioni di quei soggetti imprevisti, le
donne, che, a partire dal cinema delle origini, hanno abitato e reso viva la scena
cinematografica italiana.
268
Cristina Jandelli
«Giana sola al mondo è salvata dalla malavita dal grande attore Luigi Rasi21 e lan-
ciata nelle vie gloriose dell’arte». Con queste parole un fragilissimo programma di
sala relativo al film Sovrana di Daisy Sylvan (1920), conservato presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze22, apre il racconto di un complicato melodramma
cinematografico finora indicato dagli storici del cinema, ma erroneamente, come
riduzione della commedia teatrale Suzeraine, scritta da Dario Niccodemi per Ga-
brielle Réjane nel 190723. Il film segna l’esordio alla regia di una delle prime e più
controverse pioniere del cinema italiano, di cui continuiamo a sapere ancora poco
per la difficoltà di reperire e incrociare fonti utili a ricostruirne la breve carriera
cancellata dalla storia.
21 Indicato fra i principali interpreti di Sovrana, Luigi Rasi era stato chiamato a dirigere in qualità
di traduttore ed erudito teatrale nel 1882 la Scuola di Recitazione di Firenze, posizione che man-
tenne fino alla morte avvenuta nel 1918, anno in cui inizia, secondo le cronache, la lavorazione del
film. Purtroppo i riscontri tentati finora per comprendere la natura di questo sorprendente sodalizio
artistico non hanno avuto frutto, ma è lecito pensare che la Mazzantini possa aver realmente intrat-
tenuto rapporti professionali con il maestro. Probabilmente Rasi aveva partecipato alle fasi iniziali del
progetto, di cui forse avrebbe dovuto assumere la direzione artistica, e morendo lo lasciò incompiuto
(Buchs, R. Il teatro e la scuola di recitazione di via Laura: cronistoria dalle origini alla demolizione, Tesi
di laurea discussa all’Università degli Studi di Firenze, Relatore Prof. Siro Ferrone, a.a. 1991-92).
22 Sovrana, fasc., Stampa Sansaini, Roma, senza data, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze,
S.9191, Ufficio Gruppi, c. “cinema”, 1.
23 La commedia Suzeraine di Dario Niccodemi debuttò a Parigi, protagonista Gabrielle Réjane, il
14 marzo 1907. Ma da un confronto fra il racconto del film contenuto nell’opuscolo e l’intreccio
della pièce teatrale di Niccodemi non sembra emergere alcun rapporto di filiazione.
I suoi film non esistono più, ma le polemiche giornalistiche che suscitò la sua
impresa cinematografica, la Daisy Film, ne fanno un personaggio di sicuro interesse
per tentare di ricostruire, attraverso il suo destino individuale, il più ampio tema
del progressivo isolamento che investì le donne inserite, fra anni Dieci e Venti, nel
contesto produttivo del cinema italiano24. La presenza della sua Casa di produzione
a Firenze non passò infatti inosservata: gli atteggiamenti spavaldi da imprenditrice
“sovrana” le inimicarono attori e maestranze e alle querele per comportamenti an-
tisindacali la cineasta reagì negando e contrattaccando, infine sparì come le opere
da lei prodotte, dirette e interpretate. Questo raccontano le riviste di cinema dei
primi anni Venti: la storia di un fallimento. D’altronde la sconfitta professiona-
le della Sylvan si specchia in un più ampio insuccesso collettivo delle pioniere del
muto all’interno dell’industria cinematografica del periodo25, a sua volta da riferire
al quadro storico di una società che, dopo la guerra mondiale e durante l’ascesa del
fascismo, ridisegna con precisione il confine dei ruoli pubblici femminili. Mentre le
fonti secondarie permettono di ricostruire i film di Daisy Sylvan (di cui il secondo
appare decisamente autobiografico), la sua immagine resta per sempre compromes-
sa, segnata com’è da una campagna giornalistica denigratoria che non può certo
renderla un modello positivo e virtuoso ai nostri occhi, meno che mai un caso in cui
specchiarsi26. Non si tratta dunque di un esempio, ma di una vicenda esemplare del
rapporto fra società italiana e attività professionali femminili nei primi anni Venti.
Il vero nome di Daisy Sylvan – produttrice, regista e interprete di due film,
entrambi perduti – era Elena Mazzantini. Nata a Roma il 12 luglio 1874 e tra-
24 La presente ricerca si inserisce nel quadro del progetto internazionale Women Film Pioneers, coor-
dinato da Jane Gaines (Columbia University, New York) e finalizzato alla riscoperta del lavoro delle
numerose donne che furono attive nell’industria cinematografica mondiale tra la fine dell’Ottocento
e i primi anni Trenta del Novecento in ruoli creativi, tecnici e/o manageriali: registe e sceneggiatrici,
ma anche produttrici, montatrici, distributrici, esercenti ecc. Tale programma si è andato svilup-
pando parallelamente al lavoro di preparazione del Women Film Pioneers Project, risorsa elettronica
a cura di Gaines, J.; Vatsal, R.; Dall’Asta, M. in corso di pubblicazione presso il Center for Digital
Research and Scholarship della Columbia University. Destinato a raccogliere i profili biografici delle
centinaia di cineaste che furono attive in tutto il mondo nei primi decenni del Novecento, questo
innovativo progetto di pubblicazione digitale prevede tra l’altro la realizzazione di una piattaforma
sperimentale per la ricerca collaborativa.
25 Per un’interpretazione delle serie di fallimenti femminili che caratterizzarono il contesto produt-
tivo cinematografico italiano cfr. Dall’Asta, M. “What It Means to Be a Woman: Theorizing Feminist
Film History Beyond the Essentialism/Constructionism Divide”, in Bull, S.; Söderbergh Widding,
A. Not so Silent: Women in Cinema Before Sound, Stockholm, Acta Universitatis Stockholmiensis,
2010, p. 47.
26 Gaines, J. “Esse sono noi? Il nostro lavoro sulle donne al lavoro nell’industria cinematografica
muta”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive. Pioniere del cinema italiano, Bologna, Cineteca di
Bologna, 2008, pp. 19-30.
270
27 Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Anagrafe e Cimiteri, Schede individuali ana-
grafiche radiati, cf. 12045. Ora in Pepi, L. Elena Mazzantini cit., p. 15.
28 «Corre voce che la Daisy Film di Firenze stia per trasportare le sue tende a Roma». Bardi, E.
“Comunicato”, in L’arte del silenzio, n. 16, 1 settembre 1920, p. 4.
29 Martinelli, V. “Una realtà ignorata: lo sviluppo del cinema regionale in Italia negli anni venti”,
Immagine. Note di storia del cinema, n. 40-41, 1998, p. 47.
30 Cardini, G. “Un bel casetto…”, in L’arte italiana, n. 10-11, 1918, p. 3.
31 “Conversando con Daisy Sylvan”, in Le maschere, n. 16, 18 aprile 1920, p. 1.
32 Cfr. Jandelli, C. “‘La più intelligente di tutte’: Diana Karenne”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non
solo dive cit., pp. 51-59.
33 Cardini, G. “Un bel casetto…” cit., p. 3.
34 «Essere cumulativamente autrice, direttrice ed interprete di un soggetto è un’impresa tanto ardua
che, neppure Elettra Raggio, Margherita Soave o Margot Pellegrinetti avrebbero il coraggio di
affrontare». Contropelo, Roma, n. 48, 29 novembre 1919, p. 14.
271
272
le querele sia le insolvenze di cui in sostanza veniva accusata la Sylvan come pro-
duttrice.
Come per Sovrana, anche per …Bolscevismo?? fu stampato un opuscolo pub-
blicitario, anch’esso conservato alla Biblioteca Nazionale42. Contrariamente a
quanto si pensava finora, un’attenta lettura della sinossi, contenuta nel program-
ma di sala del film (che veniva presentato da numerose pubblicità a pagamento
sulle riviste di cinema come «cinedramma di avventure»), evidenzia la struttura
di un morality play, con «scene violente di vita sociale, unitamente al dramma
intimo»43: tema centrale sembra essere l’amore per il lavoro. Daisy Sylvan lo de-
finisce un «grande film di carattere sociale e morale», aggiungendo: «Io desidero
svolgere romanzi che non siano di puro intreccio, ma abbiano un contenuto mo-
rale o sociale, tratto dalla vita vissuta. Il cinematografo deve avere una funzione
educativa quanto il teatro»44. La prima pagina dell’opuscolo annuncia che il film
è tratto dal romanzo La fiamma nella steppa di Danilo Korsakoff45, «adattato ad
altro ambiente».
Pubblicizzato fra l’inizio del 1920 e la fine del 1921, il film risulta sottoposto
al visto di censura nel marzo del 1922. Il visto fu accordato solo dopo l’esecuzione
dei numerosi tagli richiesti sulle scene di crudo realismo, raffiguranti esecuzioni
sommarie e donne violentate46. Dopo una proiezione privata romana nel febbraio
del 1921, di cui dà conto solo il quindicinale Febo47, la pellicola pur distribuita
non fu mai programmata (stesso destino ebbe Sovrana, che costituiva con Bolsce-
vismo?? una sorta di “pacchetto”); identica sorte toccò a centinaia di altre opere sti-
vate negli stessi anni nei magazzini del fallimentare consorzio denominato Unione
Cinematografica Italiana.
L’opuscolo non è l’unico documento utile a ricostruire …Bolscevismo??: in
una recensione anonima, seguita alla proiezione privata, si legge che «la Daisy
42 ..Bolscevismo??, fasc., Roma, Stampa Sansaini, senza data, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze,
S.9191, Ufficio Gruppi, c. “cinema”, 1. Gli opuscoli di Sovrana e …Bolscevismo??, stampati a Roma e
privi di data (editi dal concessionario della Daisy Film, A. M. Capasso, con sede in via Gregoriana 5,
Roma), di formato orizzontale, spillati e di dodici pagine ciascuno, sono di identica fattura. Ciò può
far effettivamente supporre una distribuzione congiunta delle due pellicole. L’opuscolo di …Bolsce-
vismo?? è stato parzialmente riprodotto, ma senza citare la fonte, in Strazzulla, G.; Baldassini, D. “Il
(non) mistero di Daisy Sylvan”, in Immagine. Note di storia del cinema, n. 33, 1995-1996, pp. 23-25.
43 Baiardo, “Bolscevismo”, Il Fortunio, n. 5, 15 agosto 1920, p. 14. L’articolo è presentato come
una cronaca dal set.
44 “Conversando con Daisy Sylvan”, in Le maschere, n. 16, 18 aprile 1920, p. 1. Il corsivo è mio.
45 Esule russo secondo Martinelli, V. “Les metteuses-en-scène”, in Cinemasessanta, n. 141,
settembre-ottobre 1981, pp. 20-25.
46 Martinelli, V. Una realtà ignorata cit., p. 47.
47 “Una visione privata di ‘Bolscevismo’”, in Febo, n. 46, 12 febbraio 1921, p. 3.
273
Film ha realizzato l’interessante scenario con una dignità d’arte, mediante una
messa in scena elegante e moderna, curata nei dettagli, perfettamente intonata
nell’insieme»48. I maggiori entusiasmi sono suscitati dall’attrice, di cui il recensore
loda apertamente l’interpretazione. Impegnata nel ruolo di Elena e della sorella
Enelia, la Sylvan riesce, stando all’opinione del giornalista, a rendere la doppia ca-
ratterizzazione senza ricorrere ad artifici o trucchi, con la sola abilità interpretativa.
Incarnando le due sorelle, secondo quanto lascia intendere l’opuscolo, la Sylvan dà
vita a due personaggi di opposte qualità morali. Secondo il recensore nel doppio
l’attrice si rende irriconoscibile: lo sdoppiamento è certificato dai tratti marcati
delle due caratterizzazioni psicologiche, quindi da differenti atteggiamenti fisici,
espressioni e gestualità. Le cronache dell’epoca sembrano concordi nell’attribuire
alla Sylvan buone doti d’interprete. Forse la Mazzantini fu poco avveduta nelle
questioni imprenditoriali, ma non pare fosse un’attrice improvvisata. Una Elena
Mazzantini compare fra gli interpreti del film La fanciulla di Capri di Ivo Illumi-
nati, mediometraggio prodotto dalla romana Celio Film nel 191449: ma anche di
questo titolo non resta traccia e dunque rimane impossibile verificare il dato.
L’opuscolo di …Bolscevismo?? presenta il film con la frase «Non si perviene al
bene che a traverso il bene: che è Amore – Dovere – Lavoro». L’intreccio si risolve
in una lotta fra il bene e il male dove la Sylvan interpreta i ruoli della proba Elena
Morgani e della sua amorale sorella Enelia50: entrambe appaiono vessate da un
malefico giornalista dal nome esotico di Zobisant (nelle foto di scena è raffigurato
con il pizzetto alla Lenin), «uomo nefasto che già seminò per malvagia passione
il dolore nell’anima di Elena Morgani». Dal suo ufficio, denominato Lavoro e
Patria, questo «fiore di bellezza e di bontà» guida «l’operosità dell’industre paese»
274
275
la bella Elena vince il braccio di ferro contro Zobisant facendolo capitolare; nella
realtà Azzurri ebbe senz’altro la meglio nella diatriba a mezzo stampa, attaccando
in pubblico la Sylvan e accusandola di litigiosità e soprusi, nonostante la Syl-
van lo avesse querelato per diffamazione54. Nella trama di …Bolscevismo?? pare
dunque depositata una testimonianza indiretta delle tormentate vicende della sua
lavorazione, travestita da racconto avventuroso. La creazione filmica assume così
la fisionomia dell’autoritratto che dà voce al desiderio femminile di emanciparsi
attraverso il lavoro creativo in una società dominata dal disordine civile e dall’arro-
ganza maschile. La vicenda di Daisy Sylvan, ricostruita attraverso numerose fonti
dell’epoca, finisce per somigliare a quella di molte altre attrici-produttrici (non-
ché, spesso, anche registe) del periodo e si specchia nel più generale fallimento
che colpisce in Europa l’iniziativa femminile negli anni che seguono la fine della
grande guerra. Per far luce su casi minori come questo oggi, si rende indispensabile
tornare a interrogare, con massima scientificità e approccio dinamico, le fonti e gli
archivi, ma anche far dialogare le piccole storie di imprenditoria e produzione lo-
cale con il contesto nazionale e internazionale di riferimento. Lo studio di questo
singolare caso mostra quanto siamo ancora lontani dal riuscire a ridare una voce
e un senso ai sogni e ai desideri femminili d’inizio Novecento. Ma è comunque
venuto il momento di affiancare all’analisi delle realizzazioni concrete, cioè allo
studio dei film realizzati da donne, di cui in passato la feminist film theory si è am-
piamente occupata, la ricostruzione delle avventure più incompiute, evanescenti
e dimenticate, usando ogni metodologia possa rivelarsi efficace per raccontarle:
solo così la storiografia del cinema femminile, che da circa un decennio ha preso
forma grazie a una nuova comunità scientifica internazionale55, potrà portare un
concreto contributo all’avanzamento delle conoscenze nel più vasto ambito della
storia delle donne nel Novecento.
276
Micaela Veronesi
Scoperto per caso negli archivi della Cineteca Nazionale di Roma, Umanità si è
presentato fin dalla prima visione come un film al contempo geniale e naif, corag-
gioso e contraddittorio e misterioso. Realizzato da Elvira Giallanella nel 1919, il
film affronta il tema della prima guerra mondiale in un’ottica peculiare. Dichia-
ratamente pacifista, ma non didascalico, racconta l’orrore della guerra senza mo-
strare immagini violente, restituendo una visione specificamente femminile della
Storia e in particolare della dialettica guerra/pace.
Mi sono già occupata di Elvira Giallanella e del suo film altrove56; in questo
saggio approfondirò alcuni aspetti dell’opera e della sua regista, soffermandomi
soprattutto su quelle sequenze che risultano totalmente originali rispetto al testo
letterario dal quale trae origine.
Le mie ricerche sono progredite: ora sappiamo che, quando gira Umanità,
Elvira Giallanella ha trentaquattro anni.
A partire dal 1917 la regista compare spesso sulle pagine delle riviste cine-
matografiche in qualità di produttrice e distributrice del marchio Vera Film, per
promuoverne i titoli in uscita. Nel settembre 1919 tutte le testate di cinema più
importanti (Film, La vita cinematografica, La rivista cinematografica) riferiscono
che Giallanella ha fondato a Milano una nuova Casa, la Liana Film. Nei numeri
56 Per una più approfondita analisi del film e della sua genesi produttiva, si veda Veronesi, M.
“Una donna vuol rifare il mondo, Umanità di Elvira Giallanella”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non
solo dive, Bologna, Cineteca di Bologna, 2008, pp. 159-172; versione inglese “A Woman Wishes to
‘Make a New World’”, in Bull, S.; Söderbergh Widding, A. (a cura di) Not so silent, Stoccolma, Acta
Universitatis Stockholmiensis, 2010, pp. 67-79.
278
d’Europa. Nel 1919 disordini sociali si succedono a vari livelli sia fra i lavoratori
delle fabbriche sia in ambito politico, con echi della rivoluzione russa da un lato e
movimenti nazionalisti dall’altro. Sono le tensioni e i dibattiti accesi che porteran-
no a nuovi e più cruenti conflitti, ciò di cui la regista sembra consapevole. Affron-
tando la guerra nel suo territorio più difficile, dunque, quello della morte e della
distruzione, del deserto di rovine e dei piccoli orfani, e recandosi nei luoghi dove
si è combattuto (come si è detto alcune scene sono girate nel Carso), Giallanella
non pare tanto interessata a raccontare l’evento appena trascorso quanto a evi-
denziare nuovi pericoli e a suggerire possibili vie d’uscita per evitare drammatiche
conseguenze, dimostrando il desiderio di un nuovo linguaggio capace di risolvere
i conflitti piuttosto che combatterli e un bisogno di conciliazione, piuttosto che
di radicalizzazione57.
In primo luogo, la regista esprime una paura effettiva, che rappresenta con
le immagini del comizio politico situate all’inizio del film58. Nel 1919 donne
e uomini (come Tranquillino, il piccolo protagonista) non sanno da che parte
iniziare a ricostruire il mondo: da un lato c’è un trattato di pace come quello di
Versailles, che non accontenta nessuno e fa paura quasi quanto una dichiarazione
di guerra, dall’altro la rivoluzione bolscevica, che promette di dilagare dalla Russia
al resto del mondo. In questo periodo l’Italia socialista scende più volte in piazza,
con scioperi e rivendicazioni che culminano con l’occupazione delle fabbriche del
settembre 1920; ma questi sono anche gli anni delle prime avvisaglie della desta-
bilizzazione fascista con manifestazioni di piazza e l’assalto del 15 aprile 1919 alla
sede dell’Avanti! a Milano.
Giallanella rappresenta i due bambini in un interno borghese nell’atto di com-
piere alcune monellerie mentre i genitori dormono: rubano marmellata e sigarette
e mentre la piccola mangia nel letto, il maschietto, di poco più grande, legge il
giornale fumando. Oltre all’evidenza degli stereotipi che emergono in questa se-
quenza, è importante sottolineare che i titoli del giornale riferiscono di una situa-
zione di instabilità politica che fa preoccupare la bambina, mentre Tranquillino si
fa carico di risolvere gli eventuali problemi e sogna se stesso che tiene un comizio.
Più avanti nel film, quando tutto il mondo è ormai distrutto, è di nuovo il
bambino a farsi carico dello stereotipo maschile, dichiarando di poter costruire un
57 Si veda in proposito il riferimento a Virginia Woolf in Banti, A.M. L’onore della nazione. Identità
sessuali e violenza nel nazionalismo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi, 2005, pp.
377-378.
58 Non sappiamo ancora dire se le immagini, che paiono di repertorio, rappresentino un comizio
particolare e in quale città siano state riprese, anche se da alcuni indizi supponiamo si tratti di Mi-
lano. Si vede una grande folla e uomini che prendono la parola, sullo sfondo alcuni stendardi, e tra
la gente si intravedono anche alcune donne e dei bambini.
279
mondo nuovo, ma è lui stesso a cadere nella spirale di violenza che fa fallire ogni
sua azione. Tranquillino si aggira desolato fra le rovine della società, ma ovunque
guardi non vede che baionette, bombe, elmetti e altri residuati bellici, che resti-
tuiscono un senso di profonda e forse totale contaminazione del mondo. Non fu
facile per chi si trovava in medias res vedersi dal di fuori e notare «fino a che punto
la brutalizzazione della guerra li avesse irrimediabilmente coinvolti»59: come sotto-
lineano Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker, «le generazioni del periodo
interbellico non colsero la contaminazione del mondo operata dalla cultura di
violenza scaturita dalla Grande Guerra»60. Tuttavia la regista ha saputo cogliere
proprio questo nodo cruciale e rappresentarlo attraverso le immagini.
Anche la sequenza del “teatro della guerra”, in cui si vedono i bambini salire
su un palco dove domina uno scheletro avvolto nella bandiera, funziona come ten-
tativo di dar corpo a un aspetto fondamentale, ma spesso dimenticato, o meglio ri-
mosso, della guerra: il cadavere del soldato ucciso. In una cultura come quella co-
eva «in cui l’anonimato è condizione sovrana dell’individuo»61, Giallanella estrae
dalla dimensione di massa un simbolo concreto della carneficina e lo espone su un
palcoscenico, parafrasando un più che abusato modo di dire – teatro di guerra – e
catalizzando l’orrore della guerra nel cadavere scarnificato del soldato ucciso.
Nel corso del film i bambini si muovono fra le macerie e i residuati bellici
come in una sorta di museo degli orrori. Ma ciò che scoprono poco alla volta è
che l’orrore più grande è insito nell’essere umano. Nei vari tentativi compiuti per
“ricostruire il mondo nuovo”, Tranquillino non riesce a trovare una via d’uscita
alla spirale di violenza che caratterizza la storia dell’umanità. Cerca informazioni
utili nell’Enciclopedia di Storia universale, prova a rifarsi a modelli di società
preesistenti, reali o immaginari: gli antichi romani, Atlantide, Robinson Crusoe,
l’arca di Noè, ma ogni tentativo fallisce a causa dell’ira che permea le azioni uma-
ne, mentre Dio pare solo uno spettatore inerme. Il culmine di questa sequenza è
un atto di violenza gratuita a cui di nuovo possiamo attribuire una valenza sim-
bolica: ribaltando la situazione per cui, nei ricordi di guerra, «è preferibile con-
siderarsi vittime piuttosto che responsabili di sofferenza e di soppressione di un
altro individuo. Perché la morte non è mai data ma è sempre subita, anonima: se
ne è, sempre, vittima»62, Giallanella rovescia coraggiosamente la prospettiva, mo-
strando un bambino che uccide una tartaruga come simbolo di tutti gli atti vio-
59 Audoin-Rouzeau, S.; Becker, A. La violenza, la crociata, il lutto (la grande guerra e la storia del
novecento), Torino, Einaudi, 2002, p. 212.
60 Ibidem.
61 Plebani, T. “Corpi di pace, corpi di guerra”, in Lanfranco, M.; Di Rienzo, M.G. (a cura di) Donne
disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi, Napoli, Intra Moenia, 2003, p. 42.
62 Audoin-Rouzeau, S.; Becker, A. “La violenza, la crociata, il lutto… cit., p. XXVIII.
280
lenti commessi dall’umanità. Certo, si tratta ancora di una visione del male come
fatto ineluttabile, parte integrante dell’individuo, ma è proprio contro questa
attitudine rassegnata che Elvira si batte cercando una soluzione, come dimostra
il finale del film. Umanità sostiene inequivocabilmente che la guerra è orrore e
deve essere evitata con tutti i mezzi. Possiamo ipotizzare una vicinanza ideologica
fra Giallanella e il movimento per la pace che trasversalmente in questo periodo
va raccogliendo adesioni in ambito socialista e non solo. Come ha scritto Franca
Pieroni Bortolotti, al movimento per la pace, dentro e fuori l’Internazionale so-
cialista, si deve il merito di aver cercato alternative efficaci ai conflitti, nell’intento
di dimostrare che andasse superata la diffusa convinzione che alla guerra non ci
fosse rimedio63.
La sequenza finale offre un susseguirsi di inquadrature e di didascalie. I bam-
bini non compaiono più e neppure i territori di guerra. Si vedono invece fabbri-
che, ciminiere, operai, scene di lavoro nei campi, trattori, miniere, mentre le dida-
scalie lanciano una serie di messaggi che sembrano quasi degli slogan: «lavoro per
ognuno – pane per tutti – ozio per nessuno»; «volontà, sacrifici, fede riconducono
la prosperità e il benessere»; «i popoli hanno il bene che sanno conquistare con la
loro virtù, non con la violenza»; «pacificare in un grande tentativo di bene le masse
umane, ecco il problema». Alla fine, come in un’apoteosi, appare Gesù seguito da
molti bambini, mentre la didascalia recita: «sacrificarsi per un ideale di umanità,
non uccidere i propri fratelli».
Queste immagini finali sono un inno al lavoro che pacifica in una sorta di
commistione fra ideali socialisti e cristiani, commistione che storicamente si collo-
ca in quella tradizione che vede femminismo, pacifismo ed europeismo «organica-
mente congiunti»64 fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Sul «recupero dei valori
originari del cristianesimo», volto a ricostruire una sorta di continuità fra le idee
di fratellanza e uguaglianza dei primi cristiani e quelle socialiste, è utile la lettura
dello studio di Maria Pia Bigaran65, che attraverso l’analisi di tre testate socialiste
dei primi del Novecento evidenzia come «la non violenza, il pacifismo, l’idea di
giustizia sociale fondata sulla partecipazione di tutti al lavoro produttivo sono gli
elementi di un insegnamento che fa continuamente appello ad una nuova fede e
ad una nuova civiltà»66, verso la «convergenza di ambienti laici, cattolici e socia-
63 Pieroni Bortolotti, F. La donna, la Pace, l’Europa. L’Associazione internazionale delle donne dalle
origini alla prima guerra mondiale, Milano, Angeli, 1985, pp. 9-10.
64 Ivi, p. 7.
65 Bigaran, M.P. “Per una donna nuova. Tre giornali di propaganda socialista tra le donne”, in
Nuova DWF, 1982, pp. 53-72.
66 Ivi, p. 57.
281
282
72 Per il lavoro di ricerca e la stesura di questo saggio mi sono stati a vario titolo di aiuto alcuni amici
e colleghi che colgo l’occasione per ringraziare: prima di tutto Monica Dall’Asta e Cristina Jandelli
per avermi coinvolta in questo e in altri appassionanti progetti; Federica Gargano, Luca Mazzei per
l’amicizia e l’aiuto nelle ricerche a Roma e Firenze; Teresa Antolin, Alberto Friedmann, per aver
condiviso informazioni preziose; Luca Tenconi per la simpatica rilettura; Marco Esposito e Luca
Vallocchia, archivisti dell’Archivio storico della Camera di commercio di Roma, per la disponibilità
con cui mi hanno accolta; Silvio d’Alò per essersi fatto coinvolgere come solo lui sa fare.
283
Elena Mosconi
1. Polvere di stelle
Perché occuparsi di Elettra Raggio e Bianca Virginia Camagni, due figure certa-
mente minori nel panorama cinematografico italiano degli anni Dieci? E in quale
modo affrontare la ricerca, dal momento che le tracce filmiche latitano quasi com-
pletamente, mentre le rare tracce biografiche sono gravate dal peso di una “mo-
numentalità” costruita quasi sempre a pagamento su riviste di settore, in forma di
pubblicità più o meno nascosta, finanziata dalle stesse Case di produzione? Infine
a quale scopo considerare insieme due figure distinte, scegliendole all’interno di
un firmamento divistico che conta centinaia di piccole, medie e grandi stelle?
Se i primi due quesiti trovano risposta nell’orizzonte metodologico della sto-
riografia del cinema di genere e più in generale della storia delle donne, abituato a
fare i conti tanto con la loro invisibilità quanto con la loro eccessiva esposizione73,
una precisazione va riservata al tentativo di leggere in parallelo le vicende profes-
sionali di queste due attrici e cineaste. A mio parere esso è giustificato non solo dal
comune contesto socio-culturale in cui si formano e operano le due artiste, quello
73 Costituiscono una premessa teorica e metodologica rilevante ai fini del seguente intervento:
Bean, J.M.; Negra, D. (a cura di) A Feminist Reader in Early Cinema, Durham – London, Duke
University Press, 2002; Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive: pioniere del cinema italiano, Bologna,
Cineteca di Bologna, 2008; Jandelli, C. Le dive italiane del cinema muto, Palermo, L’epos, 2006;
Dalle Vacche, A. Diva: Defiance and Passion in Early Italian Cinema, Austin, University of Texas
Press, 2008; Bull, S.; Söderbergh Widding, A. (a cura di) Not so Silent. Women in Cinema before
Sound, Stockholm, Stockholm University Press, 2010.
2. Itinerari di formazione
Entrambe lombarde, entrambe nascono nell’ultimo scorcio dell’Ottocento: Gine-
vra Francesca Rusconi, vero nome di Elettra Raggio, nel 1887 e Bianca Virginia
Camagni nel 188974. La loro formazione è quella tipica delle giovani della facolto-
sa borghesia: la prima studia musica, canto, recitazione e danza, mentre della se-
conda si sa che «aveva ricevuto un’educazione raffinata, parlava diverse lingue, era
pianista delicata e sensibile, aveva viaggiato l’Europa, amava la compagnia dei let-
terati e degli artisti, artista lei stessa, inquieta, sfavillante di bellezza e di talento»75.
La vocazione artistica abbraccia dapprima il teatro: all’inizio degli anni Dieci
la Camagni entra in una compagnia filodrammatica, mentre Ginevra Rusconi
esordisce nella compagnia del celebre attore Ermete Novelli con il quale effettua
una tournée teatrale in Sud America.
L’ingresso nel mondo della celluloide avviene per entrambe alla vigilia della
guerra nella Casa di produzione più importante del capoluogo lombardo: la Mi-
lano Films. Questo sarà di fatto il loro unico punto di contatto, se pure le due
donne non si incontreranno mai sullo stesso set. Gli esordi mettono in luce una
tecnica attoriale che, sebbene ancora acerba, risulta lontana dalla solennità dei
gesti enfatici e delle lunghe pause delle dive più celebrate: vi si ritrova invece un
carattere personale e vivace.
Più in particolare, Bianca Camagni appare ai cronisti «più raccolta e severa
delle [dive] maggiori. […] La sua passione è contenuta, il tormento interiore si
rivela più nei modi del volto che nella grande drammaticità di ampio e sicuro
74 Cfr. Losma, E. Per non dimenticare Bianca Virginia Camagni (relazione presentata al convegno
Women and Silent Screen VI, Bologna 2010); Mosconi, E. “Elettra Raggio e la sua opera”, in De
Berti, R.; Locatelli, M. (a cura di) Figure della modernità nel cinema italiano (1900-1940), Pisa, ETS,
2008, pp. 47-72.
75 Spagnol, T.A. “Facciamo un film? Ricordi di produzione 1921”, in Cinema, n. 81, 10 novembre
1939, pp. 284-285.
286
effetto»76. I mezzi di cui si avvale sono essenziali: «da un moto lieve del volto, da
un cenno, da un segno, da un battito di palpebre, da una declinazione della fronte,
si genera di continuo la virtù espressiva della sua arte»77.
Una sobria espressività caratterizza pure l’agire scenico di Elettra Raggio: il
critico Spada sottolinea la «linea snella e flessuosa della figura, con quell’elettrico
ed espressivo gestire, che ha del fanciullesco ed appassionato nella gioia, e del tra-
gico nel dolore; con quel suo volto fine ed affilato […] con quella semplicità infine
di gioco mimico e quella sprezzante maniera che ella ha di abbandonare tutte le
ricerche artificiose, le leziosità, le stucchevoli preziosità della plastica e della posa»78.
Manelli parla di una recitazione quasi primitiva, «nel senso di profonda, di sana,
di contrapposta alla nervosità isterica del nostro tempo»79.
L’espressività di cui si fa tramite il gesto attoriale si inquadra nel più generale
aspetto estetico. Di Elettra Raggio vengono ricordati lo «sguardo forte, fiero, co-
raggioso». L’immagine di donna energica dalla «fronte pensosa», gli «occhi rivo-
luzionari», le «labbra frementi di comandi e di rimproveri», avvalorata dai ritratti
fotografici che ne mostrano il naso lungo e affilato, il volto teso, le conferisce
un’autorevolezza quasi “virile”: «Elettra Raggio è la più mascolina di tutte. Lo è
nello spirito, come nel fisico». L’energia e l’attitudine al comando sono però al ser-
vizio di una nobile causa: la sua è «un’anima dominatrice, ma giusta, ma generosa,
ma incorruttibile»80.
A proposito di Bianca Camagni, invece, Tito Alacci osserva: «Non dirò che
sia una delle attrici maggiori; ma certamente è una delle più sincere. È una bella
ragazza, con un corpo ben proporzionato e con una faccia intelligente»81; numerosi
altri critici ne riconoscono l’eleganza, il fascino e la bellezza.
Di là dalle differenze d’aspetto, e da un comune atteggiamento antidivistico,
ciò che avvicina maggiormente le due donne è l’approccio di tipo riflessivo al cine-
ma, continuamente ribadito dalla critica soprattutto rispetto ai film nei quali esse
esplicano ruoli autoriali, nell’ideazione del soggetto o nella regia.
Bianca Virginia Camagni – scrive il recensore di Apollon – «è forse la più intel-
ligente e la più colta tra le attrici del nostro cinematografo. La piccola ombra, che
ella ha scritto e interpretato, è il primo esempio di un dramma di qualche valore
287
3. Nobilitare l’arte
Di fronte a tali elogi, vale la pena ripercorrere la filmografia delle due attrici. Come
per la maggior parte delle pioniere del cinema muto, il loro periodo di attività si
concentra nella seconda metà degli anni Dieci, favorito dal successo internazionale
del cinema italiano e dalla stagione divistica che si era dilatata ulteriormente dopo
la partenza per il fronte di molti uomini, quando si erano aperte nuove possibi-
lità di occupazione, e soprattutto una diversa visibilità sulla scena pubblica delle
donne. Va inoltre ricordata l’estrazione sociale benestante delle attrici che le rende
disponibili ad arrischiarsi in un territorio relativamente nuovo e ancora in fase
di sviluppo senza problemi economici o rigorismi di stampo conservatore. Forse
proprio le buone conoscenze maturate negli ambienti intellettuali fanno sì che
entrambe promuovano l’avvicinamento al cinema di artisti e personaggi pubblici:
Bianca Camagni lavora con lo scultore e illustratore Severo Pozzati, con cui ha una
breve relazione, Elettra Raggio fa dirigere due dei suoi film al cartellonista Achil-
le Mauzan85. L’atteggiamento cooperativo è ancora una volta tipico (e peculiare)
288
delle due cineaste, le quali amano coinvolgere dei collaboratori nel perseguimento
del proprio ideale espressivo.
Dopo aver preso parte ad alcuni film come attrici, entrambe sentono il desi-
derio di esplicare la loro creatività nella stesura di soggetti e nella regia e arrivano a
fondare una Casa di produzione che porta il proprio nome, veicolo di un’autoria-
lità nella quale sentono di doversi cimentare fino in fondo, oltre che di una certa
autoimprenditorialità nutrita di senso pratico. Tuttavia si tratta di un’esperienza
breve: la loro carriera viene soffocata, all’inizio degli anni Venti, dalla crisi del
cinema italiano che travolge anche i loro sogni di un rinnovamento artistico della
settima arte.
Le prime interpretazioni della Camagni, a partire dal 1914, risentono della
direzione ora inconsistente ora più consapevole (nel caso di Augusto Genina) dei
direttori della Milano Film. Progressivamente l’attrice acquista maggiore auto-
nomia e si cimenta in due film di cui scrive anche il soggetto: La piccola ombra
(co-regia di Ugo Falena, 1916) e Il figlio della guerra (Falena, 1916). In entrambi i
soggetti il tema della maternità svolge un ruolo cruciale, per esempio quello di una
maternità problematica, frutto di una violenza subita durante la guerra, a cui saprà
porre rimedio il figlio, una volta diventato adulto, sacrificandosi per la patria. In
seguito la cineasta prende parte a un nutrito gruppo di film d’autore: opere d’am-
biente lirico, come I pagliacci (Francesco Bertolini, 1915) e Cavalleria Rusticana
(Falena, 1916); oppure tratte da lavori di celebri letterati. Si tratta della commedia
surreale e moderna Il re, le torri, gli alfieri (Ivo Illuminati, 1916), su sceneggiatura
di Lucio D’Ambra; del «mistero in 4 atti» di Gabriele D’Annunzio La crociata
degli innocenti (Gino Rossetti e Alessandro Boutet), realizzato tra il 1915 e il 1917;
infine della commedia tratta dal romanzo di Marco Praga L’ondina (A. Albertoni,
1917). La sua partecipazione a Fantasia bianca (Alfredo Masi e Severo Pozzati,
1919), un ambizioso film sperimentale con musiche di Vittorio Gui, non sembra
possa essere circoscritta alla sola interpretazione (come si è sempre ritenuto), ma
va invece estesa a un più vasto concorso di idee: prova ne sia il fatto che l’attrice
decide, a distanza di due anni, di fondare una propria Casa di produzione e di
rieditare il film, dopo averne modificato sostanzialmente il soggetto, con l’aiuto
di Tito A. Spagnol86. La collaborazione con Spagnol prosegue con La sconosciuta,
scritto, interpretato e codiretto nel 1921, e con la messa in cantiere di altri due
film per la propria società (Il cuore e l’ombra; La bella nonna), che però non sem-
brano aver mai visto la luce.
86 Offrono un’accurata descrizione di questo film considerato perduto Giordani, C. “The Copy Vani-
shes, ovvero Il film senza il film. Note su Fantasia bianca”, in Fotogenia, nn. 4-5, 1999, pp. 133-148
e il già citato volume su Sepo. Purtroppo non è possibile determinare le corrispondenze tra Fantasia
bianca e il successivo Fantasia.
289
87 Spagnol, T.A. “Facciamo un film?” cit. e “Facciamo un film? Ricordi di produzione 1921”, in
Cinema, n. 82, 25 novembre 1939, pp. 310-311.
290
Solo pochi fotogrammi di Elettra Raggio nei panni della ninfa Giovinezza e
rare immagini di Bianca Camagni negli abiti di Pierrot restano oggi a documen-
tare l’idea, o meglio l’utopia, di un “altro” cinema, un’arte non narrativa ma in
certo modo sperimentale e riflessiva nella quale entrambe le attrici hanno creduto,
almeno per una breve parte della loro carriera. Il film Primavera che – come sot-
tolinea già la critica coeva – «è un poema che ha tutti gli elementi del fantastico e
dell’irreale: ed è insieme poema didascalico, il cui simbolo è velame a una filosofia
tanto profonda quanto umana»88, si fa progetto di un cinema simbolista, in cui
Elettra Raggio riversa il tentativo di trasporre sullo schermo significati che vanno
oltre le forme sensibili, cogliendo il processo di continua smaterializzazione e rifi-
gurazione che informa la creazione artistica.
Allo stesso modo Bianca Camagni, nei panni di Pierrot, in Fantasia bianca
esprime la più ampia gamma di sentimenti – dall’amore alla gelosia; dalla pazzia
alla morte – senza ricorrere alle didascalie, ma in una fusione di elementi visivi
e musicali, di luci e ombre, colori e linee, paesaggi e corpi: il film testimonia la
ricerca di un’arte unitaria, non riproduttiva ma smaniosa di assemblare in forma
sincretica l’eredità di arti diverse.
Per quanto marginale e per certi versi velleitaria, questa ricerca di un cinema
d’arte è forse la maggiore eredità che le due attrici ci hanno tramandato: una via
marginale e poco battuta, cancellata dal definitivo imporsi di uno stile filmico
sempre più narrativo e commerciale, ma le cui tracce sono lì a dirci come e che
cosa d’altro – con il fattivo contributo di donne intelligenti e volitive – il cinema
avrebbe potuto essere.
291
Lucia Di Girolamo
La storia della Dora Film e l’avventura di Elvira Notari nel mondo della produzio-
ne cinematografica dei primi anni del Novecento sono state oggetto di molteplici
studi volti a illuminare il lavoro e la personalità di quella che può essere considera-
ta tra le prime registe della storia del cinema. Tuttavia, molto resta ancora da fare.
Purtroppo lo studio del cinema muto italiano comporta non pochi problemi
per la ricerca storica: l’irreperibilità della maggior parte delle pellicole e la scom-
parsa di numerose testimonianze documentali costringono la studiosa a operare
come un restauratore che tenti di colmare le lacune di un dipinto cercando di
rispettare la verità storica dell’opera. Spesso attingere a fonti paratestuali muoven-
dosi lungo i confini dell’oggetto di ricerca rappresenta l’unica strada per sondare
terreni che altrimenti rimarrebbero inesplorati. Per tale motivo, le riviste dei primi
tre decenni del Novecento specializzate in cinema, teatro o varietà, rappresentano
preziose fonti “di confine”: e non mi riferisco alle recensioni, alle riflessioni di
natura teorica o agli articoli sugli attori, ma alle pagine “superflue”, all’insieme di
piccoli trafiletti, annunci economici, brevi comunicazioni societarie, in cui è pos-
sibile rintracciare notizie a volte sorprendenti sui rapporti fra i membri delle sin-
gole società. Così è stato anche per il presente intervento, in cui si cercherà di fare
maggiore chiarezza sui ruoli di Elvira e Nicola Notari all’interno della Dora Film.
Alla fine di agosto del 1915, sul numero 311 de La Cine-Fono, rivista cine-
matografica napoletana tra le più influenti in Italia, compare un curioso annuncio
dai toni decisi:
Diffida
Il sottoscritto, allo scopo di smentire delle voci tendenziose circolanti nell’am-
biente cinematografico, dichiara che la Film Dora è di sua proprietà, che è diretta
unicamente da lui tanto nella parte artistica che nella tecnica come pure nella
creazione dei soggetti. Si riserva di adire il magistrato contro chiunque si permet-
tesse asserire il contrario89.
Questo dramma robusto e nuovo nella forma passa sotto gli occhi della folla
entusiasmandola. La signora Elvira Notari ha tutto il merito di una così bella
concezione, in lei abbiamo la vera soggettista cinematografica: in tutti i suoi la-
vori dedicati alla Dora film, si ritrova una perfetta armonia, potenti situazioni
drammatiche, episodi nuovi, che interessano ed incatenano il pubblico in un’at-
tesa ansiosa90.
Nello stesso articolo è ancora “donna” Elvira che viene indicata come l’unica
detentrice dei diritti di un’altra opera cinematografica, A Marechiaro ‘nce sta na
fenesta, da cui la direzione del tempio della canzone napoletana, il Trianon, volle
trarre una rappresentazione multimediale costruita intrecciando la performance
degli attori in scena con le immagini del film. È dunque Elvira Coda che decide
del destino della Dora Film, ma allora perché questa oscillazione dei giornalisti
nell’attribuire a lei o a Nicola Notari la direzione della Casa di produzione o il
concepimento e la realizzazione dei film?
La breve diffida di Nicola Notari non è l’unica traccia di questa indecisione.
Negli anni compresi tra il 1911 e il 1913 altre due riviste napoletane, Triumphilm
e Cinema, indicano il marito di Elvira come il principale fautore del successo e
della crescita della Dora. Per Triumphilm è Nicola Notari che ha l’idea, definita
“genialissima”91, di filmare La guerra italo-turca degli scugnizzi napoletani (1912).
Senza dubbio questi sporadici, brevi articoli sull’importanza di Nicola Notari nel-
la società di famiglia non diminuiscono la rilevanza del ruolo della moglie, poi-
ché, più che il protagonismo assoluto della signora Notari, è il rapporto che ella
intesse con il marito, gli operai e gli attori a determinare la qualità del suo lavoro
di imprenditrice.
294
La Dora Film, che come è noto prende il nome dalla secondogenita dei coniu-
gi Notari, nasce sulla scorta di un’esigenza familiare, quella di procurarsi con atti-
vità le più redditizie possibili nuove entrate. Come già osservato da Giuliana Bru-
no in quello che rimane il più ricco testo sulla storia di Elvira Notari, Rovine con
vista92, quella di Nicola Notari e signora è quasi una scelta naturale, direi inevitabi-
le, se consideriamo il tessuto socio-economico di una città come Napoli tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, fatto di innumerevoli piccole imprese di
artigianato nelle quali la sapienza del lavoro manuale femminile era un patrimonio
da investire. Queste micro-imprese erano sostanzialmente a conduzione familiare,
si trattava per lo più di attività sartoriali o del pellame, per le quali la delicatezza
delle mani femminili rappresentava una garanzia di precisione e qualità. Non pas-
sò molto tempo affinché tale modello imprenditoriale venisse adottato per il con-
veniente affare del cinematografo. Fu così anche per i Notari, e prima ancora che
cominciassero a produrre pellicole autonomamente. In un’intervista rilasciata a
Vittorio Martinelli93, Eduardo Notari, il famoso Gennariello, protagonista di tanti
film della Dora, racconta che prima di sua madre era sua nonna a guidare l’attività.
A quel tempo l’attività dei Notari consisteva nel colorare a mano le pellicole della
Pathé e la madre di Nicola supervisionava tutto il gruppo familiare che collabora-
va. Il ruolo primario delle donne era dunque una questione di famiglia per i Nota-
ri. Nella già citata intervista di Martinelli, Eduardo Notari dichiara che sua madre
Elvira era chiamata la “marescialla”, per l’estremo controllo esercitato su tutto ciò
che riguardava la propria vita, dal lavoro al marito, ai figli. Due famose fotografie
sembrano confermare la centralità del ruolo di Elvira, sia nel gruppo familiare sia
in quello di lavoro. La prima immagine, appartenente al fondo Martinelli della
Cineteca di Bologna e pubblicata nel libro di Giuliana Bruno94, ritrae la regista
nel 1923, all’acme del suo successo, seduta sul sedile posteriore di un’automobile
ferma in una piazza romana, circondata dal marito, dal figlio e da altri personaggi
maschili, presumibilmente suoi collaboratori. La composizione dell’immagine è
concepita in modo da portare l’attenzione all’estremità destra dell’inquadratura,
verso Elvira che, a parte l’autista, è l’unica comodamente seduta, quasi in segno di
rispetto sia verso la donna che verso la sua autorità. La seconda fotografia, anch’es-
92 Bruno, G. Streetwalking on a Ruined Map. Cultural Theory and the City Films of Elvira Notari, Prin-
ceton, Princeton University Press, 1993, tr.it. di Nadotti, M. Rovine con vista. Alla ricerca del cinema
perduto di Elvira Notari, Milano, La Tartaruga, 1995.
93 Martinelli, V. “Due o tre cose che so di Elvira Notari”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive.
Pioniere del cinema italiano (Atti del convegno, Bologna 14-16 dicembre 2007), Bologna, Cineteca
di Bologna, 2008, pp. 133-136.
94 Bruno, G. Rovine con vista cit., p. 94.
295
Il film fu un successo e portò nelle casse della Dora un cospicuo introito, visto
che fu proiettato per più sere al Mercadante. Nicola ed Elvira si erano dunque di-
95 La fotografia è stata pubblicata in Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive cit., p. 138.
96 Troianelli, E. Elvira Notari pioniera del cinema napoletano (1875-1946), Roma, Euroma, 1989,
p. 19.
97 “L’emozionante cattura del pazzo a Bagnoli”, in Il Mattino, 3-4 agosto 1912, p. 5.
296
visi chiaramente i compiti. Elvira era la mente “creativa” della casa e Nicola quella
“pratica”, colui che si occupava spesso delle riprese e delle questioni strettamente
finanziarie. I trafiletti promozionali pubblicati sulle riviste specializzate dell’epo-
ca indicano in Nicola il responsabile degli affari della Dora, pur continuando a
osannare la fantasia di Elvira e la sua capacità di raccontare storie. Tuttavia, si può
pensare che l’abilità imprenditoriale di Elvira consistesse soprattutto nell’essere,
come scrive ancora Enza Troianelli, «un genio della saggezza organizzativa»98. Da
quanto si può evincere dai discorsi che emergono dalle riviste dell’epoca, la gestio-
ne generale della Dora si basava su una collaborazione armonica dei vari membri,
e non poteva essere altrimenti, avendo ereditato un modello di organizzazione
aziendale basato sui legami parentali. Tuttavia a questo prima dimensione più
interna e privata della Dora, se ne aggiunge un’altra dove si trova indelebile il
marchio della personalità di Elvira. Mi riferisco alla dimensione più strettamente
produttiva (soggetti, scelta degli attori, film, pubblicità) una sfera nella quale,
contrariamente a quanto espresso dalla diffida firmata dal marito Nicola, la regista
era assoluta protagonista.
La Dora Film insieme alla Partenope Film di Roberto Troncone sono state
negli ultimi anni le realtà produttive partenopee più studiate99. Attingendo alle
radici della tradizione culturale cittadina, ma, soprattutto, alla declinazione più
“moderna” che ne avevano saputo dare i romanzieri d’appendice e gli autori delle
melodie più in voga, nel giro di vent’anni la Dora apponeva il proprio marchio
su circa una settantina di lavori. Si può convenire con Giuliana Bruno quando
scrive che il realismo di Elvira Notari dà corpo all’eccesso100, poiché è in questa
esuberanza che si rintraccia la cifra personale della regista. Elvira era soprattutto
un’imprenditrice, come tale orientata a fare le scelte più convenienti per la propria
azienda e l’eccesso, si sa, era una garanzia di successo presso il pubblico. Troppo
spesso si è voluto vedere in questa cineasta una femminista ante litteram e si sono
volute caricare la sua immagine e le sue scelte di una visione ideologica. A meno di
non essere smentiti dalla scoperta di testimonianze determinanti in futuro, l’abili-
tà della regista nell’immettere, ancora negli anni Venti, le sue pellicole sul mercato
prima di ottenere l’approvazione della censura rispondeva semplicemente a esi-
297
genze di cassa e non certo alla volontà di elevarsi a vessillo della lotta antifascista.
Allo stesso modo tutta la sua attività di imprenditrice rispondeva a urgenze stret-
tamente economiche, il suo interesse era quello della Dora Film. Senza dubbio
l’attività di regista rappresentò per l’ex ragazza di Salerno un campo di espressione
eccezionale, anche se dominato da presenze maschili. Frequentemente, quando si
parla di Elvira Notari si cita una sua famosa frase: «Siamo di Napoli e dobbiamo
fare i film per i napoletani». In queste poche parole la regista esprime tutto il senso
delle sue scelte, scelte di convenienza, operate da una donna che dimostrò di essere
una vera “macchina” per lo spettacolo. Se il successo di una Casa di produzione ci-
nematografica è determinato da chi compie le scelte commerciali più vantaggiose,
allora di sicuro si può affermare che la Dora Film fu un’impresa a conduzione fem-
minile, ma che lo fu perché, come si è detto, in essa i ruoli professionali seguirono
quelli familiari: a Napoli, tanto negli strati più bassi della popolazione quanto
nella piccola borghesia, ceto cui appartenevano i signori Notari, non era difficile
trovare nella madre la figura preminente. Una divertente poesia scritta dall’ami-
co di famiglia Vincenzo Caccavone, pubblicata da Enza Troianelli, descrive una
Elvira Notari in grado di barcamenarsi egregiamente tra faccende domestiche e
produzione cinematografica:
Elvira Notari era allo stesso tempo madre, moglie, donna dalle ineccepibili
capacità artistiche e imprenditoriali. Sospesa tra il rispetto dei ruoli tradizionali
e la necessità di coordinare questa tradizione con esigenze lavorative, Elvira non
poteva fare altrimenti che fare di necessità virtù, con tutta la saggezza organizzativa
di una vera imprenditrice moderna.
298
Luca Mazzei
In Francia, patria d’origine, se non di tutta la cinefilia, almeno della sua teorizza-
zione più intensa, alle origini del nuovo sentimento d’amore che lega lo spettatore
allo schermo, c’è una donna: Ève Francis. È lei infatti, com’è noto, che a Parigi
nel 1916 convince l’amico Delluc (poi ideatore del termine fotogenia, nonché fon-
datore dei primi cineclub) a frequentare per la prima volta una sala cinemato-
grafica102. Per Louis Delluc, già affermato critico teatrale, la cosa si risolve in una
folgorazione. Il cinema, da lui in precedenza ferocemente odiato, diventa infatti
d’ora in poi il motore della sua intera vita. Anche quando poco dopo, nel luglio
1917, Delluc entra nella redazione della prestigiosa rivista Film, per la quale già in
agosto assume la titolarità della pagina della critica, una donna l’ha già preceduto.
È la romanziera Colette, autrice di articoli di argomento cinematografico per Le
Matin fin dal 1914, nonché di una notevole recensione di Forfaiture (The Cheat,
Cecil B. De Mille, 1915) apparsa su Excelsior nel 1916 e dal giugno al luglio del
1917 titolare della rubrica di recensioni della stessa rivista Film. È proprio da lei
infatti che, un mese dopo il suo ingresso al giornale, Delluc eredita la rubrica103.
In ogni suo nuovo passo, insomma, le donne lo hanno preceduto.
Casi fortuiti, e questioni d’oltralpe, si dirà. E per di più relativi al solo pioniere
degli “anni tardi” Louis Delluc. Può essere. Ma certo le coincidenze che sottolineano
gli esordi delle fortune cinematografiche di Delluc non possono che mettere dei so-
spetti, far pensare cioè a un meccanismo assai più vasto di successione/sostituzione e
102 Cfr. Lherminier, P. Louis Delluc et le cinéma français, Ramsay, Paris, 2008, pp. 33-35.
103 Ivi, pp. 35-39; Colette, Au cinéma, Paris Flammarion, 1975, pp. 7, 10-15; 29-75.
conseguente rimozione, operante a più livelli e in vari Paesi. Anche in Italia, infatti,
Paese nel quale, durante il periodo 1908-1919, la cinematografia non svolge certo un
ruolo minore, questa singolare coincidenza si ripete, seppure con alcune variazioni.
Ci riferiamo qui non tanto al caso del giornalismo – mondo in cui a un certo
punto anche le donne cominceranno a dire la loro sul cinema, ma che in Italia
resta comunque assai chiuso a influssi apparentabili a quelli francesi104 – quan-
to piuttosto alla frequentazione della sala cinematografica, che proprio in questo
periodo si apre anche nel nostro Paese a inversioni dei consolidati rapporti di
genere105, nonché, tornando alla carta stampata, al caso eclatante del racconto
d’ambientazione cinematografica, ovvero a quel tipo di narrazione che raggiunge-
rà la notorietà internazionale con i Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi
Pirandello (1916). Ebbene, il primo racconto italiano dedicato al cinema finora
identificato (e sicuramente uno dei primissimi racconti sul cinema in assoluto) è
opera anche in questo caso di una donna.
Il testo in questione è Cinematografo. Scene famigliari per fanciulle, comme-
dia in due atti edita da Paravia nel gennaio 1898 e di cui è autrice la comasca
Anna Gentile Vertua, a lungo nota per i suoi racconti e commedie destinati a un
pubblico di fanciulle e signorine106. Per quanto importante al giorno d’oggi quale
104 Sintomatico, in questo senso, il caso di Matilde Serao. Autrice fin dai primi anni del Novecento
di alcuni pioneristici “soffietti” pubblicitari su film in programmazione (tanto ampi e ben costruiti
che qualcuno li ha poi scambiati per “recensioni”), nonché, negli anni Dieci, anche di alcune lunghe
descrizioni di anteprime cinematografiche, la severa borghese Serao infatti manterrà a lungo una
posizione di distacco nei confronti del cinema, anticipando solo per certi più fortunati passi, nelle
sue prose, il dibattito successivo. Sul rapporto fra Matilde Serao e il cinema, vedi: Annunziata, G.
“Matilde Serao e il cinematografo”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive. Pioniere del cinema
muto italiano, Bologna, Cineteca di Bologna, pp. 249-255, e di Girolamo, L. “Lo sguardo indiscreto:
influenze del cinema nel quotidiano agli inizi del Novecento”, in Annali. Dipartimento di Storia delle
Arti e dello Spettacolo, IX, n. 9, 2008, pp. 287-288.
105 Per un’analisi di questo aspetto rimando a Alovisio, S. “La spettatrice muta. Il pubblico cinema-
tografico femminile nell’Italia del primo Novecento”, in Dall’Asta, M. (a cura di) Non solo dive. cit.,
pp. 269-288 nonché al mio Al cinematografo da sole. Il cinema descritto dalle donne fra 1898 e 1916,
in ivi, pp. pp. 257-268.
106 Nata a Dongo nel 1850, Anna Gentile Vertua esordì diciottenne con il volume Letture giova-
nili per fanciulle. Da allora la sua produzione continuò ininterrotta, riscuotendo, a suo tempo, un
notevole successo. Oltre alla narrativa e al teatro per fanciulle, pubblicò anche manuali di buone
maniere per giovani donne, settore a cui deve la sua maggior fortuna. Morì nel 1927. Sulla produ-
zione teatrale dell’autrice: Cutrona, F. “Il palcoscenico dei buoni sentimenti. Anna Vertua Gentile
scrittrice di teatro per l’infanzia”, in Boero, P. (a cura di) Storie di donne. Contessa Lara - Anna Vertua
Gentile - Ida Baccini - Jolanda: scrittura per l’infanzia e letteratura popolare fra Otto e Novecento, Ge-
nova, Brigati, 2002. Ulteriori informazioni sulla sua produzione sono inoltre rintracciabili nella voce
“Vertua Gentile Anna” in Ronconi, E. e Redazione Vallecchi Dizionario generale degli autori italiani
contemporanei, Firenze, Vallecchi, 1974, e in Villani, C. Stelle femminili, Napoli, Tip. Aldina, 1913.
300
precursore di un interesse narrativo che per vari anni troverà in ambito letterario
e paraletterario sicura fortuna, il testo non intende, sia chiaro, al tempo della sua
uscita, fondare alcun genere. Sbaglieremmo a proporlo, anche nell’ambito di un
rilettura critica, in questi termini.
La struttura generale della pièce, è infatti la ripetizione di un modello già mes-
so in atto più volte dalla Vertua. Lo schema prevede un confronto diretto fra un
simbolo della modernità (qui, appunto, il cinematografo; altrove, in altre “com-
medie famigliari per fanciulle” della Vertua, la fotografia, il telefono, una bambola
meccanica, lo sport107, o altro) e un gruppo di giovani donne provenienti da va-
rie classi sociali, le quali risultano puntualmente capaci, più ancora di eventuali
protagonisti maschili (in generale, comunque, scarsamente presenti), di gestire a
loro favore le epifanie della modernità. Ciò ovviamente non toglie valore al testo
della Vertua, ma anzi, in qualche modo, come vedremo, ne moltiplica la forza.
Tale strutturazione inoltre, mette in luce un ulteriore aspetto interessante della
produzione della scrittrice, troppo spesso vista, in seguito, dalla critica letteraria o
socio-letteraria, come semplice spinta professionale, al servizio di quelle proposte
“normalizzatrici” di cui la Vertua, con i suoi popolari manuali di buone maniere
per signorine, in qualche modo si faceva promotrice108. In realtà, la volontà che
motiva le evoluzioni della sua penna non appare motivata solo dal desiderio di
iniziare una collana di “corrette” letture per giovani fanciulle timorate di Dio e
dell’autorità, ma anche da quello di dare sfogo a certe pulsioni che erano comun-
que emergenti nel giovane mondo femminile dell’epoca (cioè, se vogliamo, di
proporre racconti ispirati, nella loro apertura verso il “moderno” e il “popolare,”
a quell’interclassismo moderato e quell’innovazione controllata che erano tipici
dello spirito della Rerum Novarum).
A farne fede, al di là dei meccanismi psicologici esibiti nel tessuto narrativo di
queste commedie (peraltro generalmente assai ridotto), sono le trovate più ovvie
delle quali si fregiano. Si pensi per esempio alla trama di La bambola fonografo, dove
una bambina dimostra una grandissima capacità naturale nel comprendere i mecca-
nismi di funzionamento di un automa, comparandoli intuitivamente a quelli a lei
più noti di un orologio a cucù e volgendoli in breve a suo favore. O alla struttura de
107 Cfr. Vertua, A.G. La fotografia istantanea. Scene famigliari per fanciulle in un atto, Torino, Paravia,
1898; Id, Il telefono. Scene famigliari per fanciulle in un atto, Torino, Paravia, 1898; Id, Bambola
fonografo. Scene famigliari per fanciulle, Torino, Paravia, 1898; Id. Al telefono. Scene famigliari per fan-
ciulle, Torino, Paravia, 1898, Id. Sport. Scene famigliari per fanciulle in un atto, Torino, Paravia, 1898.
108 Vertua, A.G. L’arte di farsi amare dal marito: consigli alle giovani spose, Milano, Giovanni Gnocchi,
1889; Id. Come devo comportarmi? libro per tutti, Milano, Hoepli, 1897 (arrivato nel 1921 alla de-
cima edizione); Id. Genitori, figlioli e Maestri. Norme e Consigli di educazione pratica, raccomandati da
Anna Vertua Gentile, Milano, A. De Mohr e C., 1907; Id, La voce dell’esperienza. Libro per signorine,
Piacenza, Tip. L’arte Bodoniana, 1915.
301
302
della ragazza traggono il loro guadagno. In questo spazio intermedio fra città e
campagna (Linda è d’altronde una signorina di paese che si è trovata a far l’operaia
a cottimo in città e anche la sua allieva vede il suo futuro in un’omologazione
borghese di stampo cittadino), ma che al tempo stesso si pone anche a mezzo fra
privato e pubblico (siamo infatti in uno spazio domestico ma aperto, che sfuma
nell’esterno della strada e dei campi), da dietro la siepe compaiono all’improvviso
due uomini, uno dei quali regge un grande apparecchio fotografico.
La sorpresa, proprio in virtù dello statuto ibrido di questo luogo, familiare
eppure condiviso con gli altri, non sembra grandissima. La semplice comparsa
dell’operatore attiva un meccanismo di ritualità sociale nel quale la ragazza da
insegnante si fa immediatamente allieva. Attanti della scena diventano ora, non
più Linda e la sua pupilla, ma la madre di questa e il fotografo.
Appena affacciatosi, infatti, l’operatore «rizza» subito il suo «apparecchio», ren-
dendo subito palesi alle tre donne, senza dir altro, tutte le sue intenzioni professio-
nali. Rivolgendosi all’ortolana, domanda: «Buona donna!…. me la fate fare la vostra
fotografia?»112 Soggiungendo subito dopo: «Voi continuate a sgusciare fagiuoli come
se niente fosse!…»113. La cosa, che agli occhi di Linda appare singolare, non scuote
però più di tanto la donna, che con evidente finta naturalezza, così gli si rivolge:
«Faccia pure, signore, se le accomoda. Ma quanto mi paga la compiacenza?»114. La
risposta dell’uomo, evidentemente felicissimo di trovarsi di fronte una partner com-
merciale così smaliziata, è altrettanto veloce: «“Dieci lire!” – risponde il signore,
sorridendo»115. E con altrettanta celerità «fotografa e paga»116.
La veloce, ma ferma, contrattazione commerciale, tutta svolta sul limitare
dell’aia, sembra sottolineare le dinamiche di scambio tipiche degli spazi di confi-
ne: una ferma contadina lei, un uomo dai tipici modi disinibiti e metropolitani
lui; l’esibizione di una studiata e solida performance da parte della donna, l’ester-
nazione della fiducia di essere proprietario di un dispositivo “raro” da parte di
lui. Il fotografo però rivolge ben presto le sue attenzioni anche a Linda, sicura di
sé nell’insegnamento del francese, ma di fatto totalmente impreparata a questo
genere di dinamiche “moderne” che mettono in gioco una capacità relazionale che
va oltre le barriere di classe e investe in modo nuovo anche quelle legate al genere
sessuale: «Fanciulla!»117 dice lui «Mi concede il favore di cinematografarla?…»118
303
La domanda scuote moltissimo la ragazza (che più tardi, parlando con le so-
relle si dimostrerà ancora assai emozionata: «Ci-ne-ma-to-gra-far-la!… Una parola
lunga che non finisce più!…»119) e l’ortolana viene subito in suo aiuto rispondendo
per lei: «Sì; ma per lo stesso compenso!»120. Pronta – come dice Linda alle sorelle,
«come se mi avesse letto in fronte che davo lezione di francese» – arriva la risposta
del fotografo: «Ça va sans dire!»121. Quindi, continua Linda, «mi ci-ne-ma-to-gra-
fò, poi mi porse il biglietto da dieci lire dal di sopra della siepe!…»122
Il passo a questo punto è compiuto, il fotografo si è mostrato per quello che
realmente è – ovvero non un banale, ormai quasi usuale fotografo, ma un moder-
no cinematografista (probabilmente, si fa intendere, un operatore Lumiére) – e
anche l’ortolana ha espresso a Linda la sua vera natura, che, nell’ambito delle
situazioni generate dalla commedia, non è solo quella di una madre di estrazione
popolare, ma anche di guida nei meandri della modernizzazione nel rapporto con
il proprio corpo e con la propria immagine.
Il passo, insomma, è fondamentale, ma non indolore. Le sorelle infatti, cui
Linda racconta subito la propria avventura, si dimostrano assai perplesse. «Non ti
sei vergognata di farti pagare per un semplice atto di compiacenza?»123, domanda la
sorella malata, Bice. «È la domanda che volevo farti anch’io»124 soggiunge Lina, più
piccola di un anno e più legata alla dimensione casalinga. Linda risponde loro con
le parole dell’ortolana, divenuta qui, improvvisamente sorella di pena e maestra di
vita: «Quel signore — disse — va intorno a fare fotografie che poi farà vedere in
qualche teatro facendosi pagare. E se lui si fa pagare perché non ci pagherà noi?»125.
Perché, risponde Bice, custode dell’etica borghese precedente la modernizzazione,
potrebbe trattarsi di un dilettante, non di uno che fa cinematografie per mostrarle
ad altri (troviamo qui, evidentemente, la differenza fra il fotografo, in genere a quel
tempo un dilettante, e il cinematografista, fin da subito un professionista)126. Anche
lei inizialmente agitata dal dubbio di Bice, Linda replica di nuovo con un pensiero
che ancora una volta le è stato suggerito dalla madre della sua allieva: «Se è un dilet-
tante, fa le fotografie per suo piacere. E paghi il suo piacere. Che si ha da farsi rubare
il muso e gli atti — sono sue parole — per niente?»127
119 Ibidem.
120 Ibidem.
121 Ibidem.
122 Ibidem.
123 Ibidem.
124 Ibidem.
125 Ivi, p. 13.
126 Sorlin, P. I figli di Nadar. Il secolo dell’immagine analogica, Torino, Einaudi, 2001.
127 Vertua, A.G. Cinematografo cit., p. 13.
304
Sì; ti ho veduta, Linda. Eri seduta a un tavolino, e davi lezione a una fanciulla.
Vidi le tue labbra muoversi; vidi la tua mano far scorrere la penna su la carta; ti
vidi gli occhi come adesso!… E subito nell’anima mi entrò il desiderio di vederti;
di vedervi tutte tre!… !… Mio marito trovò giusto il desiderio; volle accompa-
305
gnarmi; vuole conoscervi; vi amerà perché è buono e nobile!… Per farmi piacere,
ha comperata al paese la casetta che fu già del povero papà!129
Ecco dunque, forse, il punto centrale. A differenza del «caffè chantant», dove
la performance femminile, nella ricostruzione di Margherita/Vertua, è tutta proiet-
tata sulla ricezione di un uditorio maschile («Un agnellino compagno in bocca di
lupacci cattivi!… No; no; no; dia retta a me; ascolti la vecchia Margherita che la sa
lunga, che conosce la vita»130, dice l’anziana donna), il cinematografo non ha un
pubblico solo maschile, anzi…
Il cinematografista che l’ha ripresa quel giorno facendola entrare nel mondo
dello schermo, non è dunque solo il destinante di un mondo di sguardi maschili
(curioso tra l’altro che, per converso, in un evidente gioco degli inganni, a pro-
porre a Linda il «caffè chantant», sia una donna e non un uomo), ma un moderno
fauno dalla malizia scoperta eppure in fondo diretta a un fine onesto; qualità pe-
raltro, che in lui dipende per intero dalla “macchina” stessa, strumento di cui egli
è completamente espressione, quasi fosse più che un uomo in carne e ossa, una
mera manifestazione della pulsione scopica in sé.
Nel libro della Vertua, insomma, il ruolo dell’uomo come cinematografista/
straniero è più che mai un ruolo di servizio, un ministero devoto a un culto fem-
minile che, fra l’ombra di un grande platano e quella di una sala cinematografica,
ha quale prima officiante un’ortolana volitiva, per ancella una semplice allieva, e
per beneficiata una maestrina dalla ferrea volontà, la cui ombra, sottrattale per ma-
gia dalla macchina stessa (anche l’obolo delle dieci lire sembra svolgere in questo
senso una funzione rituale), attiva per incanto la “Dea ex cinematografo” Giulia,
che viene a risolvere con le sue finanze una situazione giunta ormai quasi a un
punto di non ritorno.
Numerose sono d’altronde le fonti che tra il 1898 e il 1916 ci parlano della
sala cinematografica italiana, se non come di un mondo completamente composto
da donne, almeno come un ambiente che intorno alla spettatorialità femminile si
modella. Un ambiente, cioè, nel quale le donne possono trovare o ricavare uno
spazio proprio, nei fatti assai differente dal mondo esterno. Un mondo nel quale
invece il cittadino di sesso maschile sembra trovarsi spaesato, ovvero senza gli
opportuni riferimenti.
La commedia in due atti “per signorine” Cinematografo non è, dunque, solo
un anello nella lunga collana di opere di una scrittrice dotata di una grande pro-
duttività letteraria. Gallina onesta, potremmo dire parafrasando Eco, nel giorna-
306
lismo come in letteratura, non fa mai una buona cinefila. Qui, invece, la passione
per il cinema, seppure inteso solo come mezzo moderno in grado di provare la
maggiore duttilità del mondo femminile (considerato nel suo complesso) nei con-
fronti dei cambiamenti sociali in atto, è palpabile. In questo senso la commedia
della Vertua è quindi piuttosto un’opera che mescola una certa ben temperata
dose di standardizzazione con elementi di pionierismo e di profondità di analisi.
O, se vogliamo, è un’ulteriore dimostrazione di quanto Giovanni Papini lasciava
intendere scrivendo il 18 maggio 1907 su «La Stampa» che «i filosofi per quanto
uomini ritirati e nemici del chiasso, farebbero molto male a lasciare codesti nuovi
stabilimenti di passatempo alla semplice curiosità dei ragazzi, delle signore e degli
uomini comuni»131. Ma Papini sbagliava in pieno nel ritenere che dal quel mondo
di donne, bambini e persone qualunque che formava il pubblico del cinematogra-
fo, soggetto per lui potenzialmente assai filosofico, ma ancora alieno ai dotti espo-
nenti maschili della cultura dominante dell’epoca, non fossero già giunte alcune
importanti riflessioni sulla novità del mezzo, prima dell’arrivo di quella cinefilia
“ufficiale”, che anche in Italia, nel corso degli anni Venti, avrebbe ridotto le spetta-
trici abituali al ruolo di cineappassionate, ovvero di “indisciplinate” fan.
Poco si differenzia, insomma, se non in positivo, il «Sia benedetto il
cinematografo!»132 che la Vertua urla, mettendolo in bocca alle sue protagoniste
nel suo scritto per famiglie del 1898, da quel Viva il cinematografo! di cui si fregerà
con titolo a effetto l’articolo – cinefilo per strillo, moderato per contenuti – pub-
blicato su «La Stampa» nel dicembre 1913 dal pioniere del “giorno dopo” Giu-
seppe Prezzolini133. Ma d’altronde, in quel 1913, il cinema aveva già cominciato a
muovere ben altri interessi.
307
Patrizia Dogliani
Trascurato sino a tempi recenti, il tema della rappresentazione del corpo diviene
oggi un efficace strumento metodologico per la comprensione di società e di cul-
ture. Questo panel ha tentato di far incontrare ricerche assai diverse tra loro, legate
a differenti aree geografiche e periodi storici (essenzialmente il contemporaneo,
ma anche con invasioni nel moderno), inoltre appartenenti a settori disciplinari,
quali storia politica e sociale, storia dell’arte e storia culturale, con un impiego
ampio delle fonti, da quelle letterarie alle visive, quali pittura e fotografia. Appa-
rentemente diverse tra loro per impostazione, per obiettivi che si pongono e per
conclusioni alle quali giungono, questi contributi sono in realtà uniti dall’atten-
zione alla lettura di genere sottoposta alla variante della sua rappresentazione dei
corpi femminile e maschile. La rappresentazione non è mai neutra; essa è ispirata
dalla politica, dalla comunicazione pubblica, dai sentimenti e dai dialoghi privati,
dal prodotto artistico. La rappresentazione declina nel simbolico e nei corpi che
suggerisce si legge un’epoca: quanto ritrae di se stessa, risultato di mentalità e
di classi sociali. In tali rappresentazioni la femminilità è molto spesso sottomes-
sa a poteri sociali e di genere, estetizzata, o ancora nazionalizzata come nel caso
dell’Argentina qui analizzato; mentre la mascolinità diviene quasi sempre virilità
dominante, come nelle rappresentazioni, qui descritte, militari e coloniali.
314
Sontag sulla fotografia, sono oramai parte del bagaglio metodologico di ricercatri-
ci che si occupano di questi temi. Non ho ritenuto opportuno ripeterli, piuttosto
ho creduto più proficuo lasciare ciascun intervento libero di far richiamo ai pro-
pri specifici riferimenti letterari. Occorre infine ricordare che nel vivo il panel ha
compreso un’introduzione, un dibattito e un commento finale affidato alla storica
americana Mary Gibson, alla quale fu chiesto non solo di entrare nel merito dei
singoli interventi ma anche di integrarli con i suoi studi, in particolare su crimi-
nalità, trasgressione e legislazione in epoca liberale e fascista e sull’influenza che
la scuola lombrosiana ebbe su giudizi e pregiudizi medici e psicologici relativi al
corpo e alla sua rappresentazione nella sfera pubblica. È in cantiere una successiva
pubblicazione che presenti per esteso questi e altri interventi sul tema.
315
Lorenzo Benadusi
L’identità maschile si è costruita nel corso della storia sul forte nesso tra capa-
cità combattiva e virilità. Questo legame è stato al centro di diverse ricerche
antropologiche e psicologiche, ma tranne rare eccezioni, non ha avuto ampia
trattazione proprio in ambito storico. Soprattutto negli studi sull’età contem-
poranea si è sottovalutata la permanenza di un vincolo stretto tra mascolinità e
militarismo, ritenuto indispensabile per la trasformazione marziale ed eroica del
corpo dei cittadini in vista della potenza della nazione. Tema questo in qualche
modo già al centro dell’interesse di Virginia Woolf, che in piena guerra civile
spagnola denunciava il ritardo con cui si era iniziato a riflettere sui terribili effet-
ti dell’ingerenza della politica nella sfera privata delle persone. In realtà, secondo
la scrittrice inglese, solo con i regimi totalitari ci si accorgeva di un maschilismo
guerrafondaio che le donne avevano già provato sulla loro pelle in secoli e secoli
di soggezione, emarginazione e discriminazione. Ne Le tre ghinee Virginia Woolf
così descriveva dunque quella figura di uomo che emergeva dalla macerie della
guerra di Spagna, simbolizzando il legame indissolubile tra militarismo, nazio-
nalismo e virilità:
Anche il rapporto tra società civile e mondo militare ha iniziato a essere inda-
gato dal punto di vista storico solo negli ultimi anni. La ricostruzione di battaglie
e guerre e l’attenzione all’organizzazione dell’esercito hanno infatti a lungo carat-
terizzato la storia militare, finendo spesso per circoscriverla in un ambito specifico
e chiuso verso l’esterno. La netta distinzione tra sfera militare e vita civile è dovuta
inevitabilmente alla struttura di un’istituzione con ascritta nella sua natura que-
sta idea di separatezza, simbolizzata chiaramente dalla caserma, divisa dal mondo
esterno e con regole e stili di vita al suo interno del tutto particolari. Un’istituzione
totale proprio per questo tentativo di un completo controllo e di una radicale
trasformazione dell’individuo, costretto o indotto ad abbandonare le abitudini
civili per trasformarsi in una nuova persona, con regole e comportamenti diversi
da quelli precedentemente avuti. Una serie di riti e costumi accentuano la perce-
zione dei soldati di una rottura con il passato: il servizio militare comincia con lo
spogliare il neofita e col fargli indossare abiti nuovi: cambia di aspetto fisico, segno
tangibile di vita nuova e di una consacrazione simile a quella cui è sottoposto chi
entra nella vita monastica2.
Società civile e mondo militare non sono però camere stagne perfettamente
impermeabili, ma strutture vicendevolmente condizionate, soggette a inevitabili
osmosi. L’esercito è stato ad esempio un modello di organizzazione, di disciplina-
mento e di acculturazione patriottica a lungo considerato come emblema ideale
da estendere alla società civile. Anche l’immagine del soldato doveva servire da
modello universale a cui conformare il corpo e il comportamento dei cittadini.
La rappresentazione del condottiero, dell’eroe impavido e del temerario cavaliere
serviva inoltre a oscurare quella di un esercito in armi, anche perché la giovane
nazione italiana non aveva alle sue spalle un passato di guerre e conquiste, né una
tradizione militare su cui creare un culto della patria e un sentimento di orgoglio
nazionale3. Il primato italiano era soprattutto basato su fattori culturali, artistici
e spirituali, e non certo sul ferro e il fuoco su cui si era invece edificata la Prussia
bismarckiana. Tra gli stereotipi diffusi sul carattere degli italiani non mancava il ri-
chiamo a un popolo imbelle, mercenario e privo di senso del dovere e di spirito di
318
4 Banti, A.; Mondini, M. “Da Novara a Custoza: culture militari e discorso nazionale tra Risorgi-
mento e Unità”, in Guerra e pace. L’elmo di Scipio. Dall’Unità alla Repubblica, Torino, Einaudi, 2002,
pp. 417-462, Storia d’Italia, Annale 28.
5 Cfr. Banti, A.M. L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal
XVIII secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi, 2005; Riall, L. “Eroi maschili, virilità e forme della
guerra”, in Banti, A.M.; Ginsborg, P. (a cura di) Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 2007, pp. 253-
288, Storia d’Italia, Annali 22 e Isnenghi, M. Garibaldi fu ferito: storia e mito di un rivoluzionario
disciplinato, Roma, Donzelli, 2007.
319
sciplinata e da quel rigido codice virile che il nuovo Stato cercava di diffondere,
affiancando all’eroe guerriero, il combattente inquadrato nei ranghi dell’esercito,
obbediente ai superiori e fedele al sovrano.
Il nesso tra corpo maschile e nazione doveva quindi rinsaldarsi ulteriormente
con l’introduzione della coscrizione obbligatoria, che da una parte portava a una
declinazione solo al maschile della cittadinanza, e dall’altra a una sempre più stret-
ta identificazione tra virilità e militarismo. L’esercito era investito inoltre del com-
pito di “fare gli italiani”, un proposito da intendersi anche in riferimento all’ambi-
to corporeo. È stata non a caso l’antropometria militare la prima a fornire dati su
peso, altezza e circonferenza toracica dei tanti italiani soggetti alla visita di leva, e
il quadro che emergeva non era edificante. Il processo di unificazione aveva infatti
evidenziato sia la forte disomogeneità fisica dei cittadini, sia i gravi problemi di
denutrizione, rachitismo, malattia e deperimento organico della popolazione, e
in particolar modo di quella meridionale. Le statistiche post-unitarie mostravano
chiaramente la gravità di queste deficienze – basti pensare che tra il 1861 e il
1876 ben un terzo dei coscritti era stato riformato per malattie o inadeguatezze
fisiche6. Soprattutto se confrontata con le popolazioni anglo-sassoni, questa a dir
poco preoccupante radiografia corporea dei maschi italiani alimentava tutta una
serie di studi sul presunto declino della razza latina e sul rischio di una progressiva
effeminatezza delle genti mediterranee7. Lo sforzo della classe dirigente liberale
era dunque rivolto anche a migliorare e potenziare gli italiani dal punto di vista
fisico. Come dimostra abbondantemente Gaetano Bonetta8, lo Stato doveva farsi
carico dell’igiene e della salute dei suoi cittadini, modellando e temprando il corpo
maschile in vista del benessere e della potenza della patria.
La cultura italiana dei primi del Novecento, come del resto quella dei princi-
pali Paesi europei, giungeva così alla prova del primo conflitto mondiale sull’onda
di questa esaltata retorica virilista e militarista. La mascolinità era profondamente
legata a una visione performativa che obbligava gli uomini a dimostrare ed esibire
la propria virilità, innanzitutto attraverso la forza e il coraggio dimostrati in bat-
taglia. Ma anche in questo caso non si può sottolineare solo il richiamo presente
6 Cfr. Farolfi, B. “Dall’antropometria militare alla storia del corpo”, in Quaderni Storici, f. 3, 1979,
pp. 1056-1091 e Id. “L’antropologia negativa degli italiani: i riformati alla leva dal 1862 al 1886”,
in Berti, M.L.; Gigli Marchetti, A. (a cura di) Salute e classi lavoratrici in Italia dall’unità al fascismo,
Milano, Franco Angeli, 1982, pp. 165-197.
7 Cfr. Mosso, A. “Le cagioni dell’effeminatezza latina”, in Nuova Antologia, f. 22, 16 novembre
1897, pp. 249-265 e Nani, M. “Fisiologia sociale e politica della razza latina: note sui dispositivi di
‘naturalizzazione’ negli scritti di Angelo Mosso”, in Burgio, A.; Casali, L. (a cura di) Studi sul razzismo
italiano, Bologna, CLUEB, 1996, pp. 29-60.
8 Bonetta, G. Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano,
Franco Angeli, 1990.
320
321
ra del corpo impotente, violato o mutilato, si unisce l’esaltazione del corpo ancor
più allenato, temprato e fortificato dal combattimento. Questa ambivalenza è del
resto insita nella guerra stessa, anche perché – come nota giustamente Joanna
Bourke – noi siamo portati a porre più attenzione al morire che all’uccidere, ma
entrambe le opzioni sono sempre presenti e creano tanto la seduzione che il terrore
per la guerra13.
In ogni caso, nonostante i quasi nove milioni di morti e oltre venti milioni di
feriti e mutilati, terminato il conflitto l’immagine dell’uomo continuava a basarsi
sulla rappresentazione del soldato diffusa nei primi del Novecento. Il culto dei
caduti, trasformato in una vera e propria religione civile, era del resto usato per ce-
lare il volto tragico della guerra. I martiri erano infatti il simbolo della nazione che
la gente poteva venerare e il sacrificio del soldato un retaggio da emulare, un esem-
pio fecondo per l’avvenire, un invito eterno a dare la propria vita per la nazione.
La rappresentazione stereotipata e seriale dei soldati in lapidi e sculture ricalcava
dunque il cliché del figlio che si immola per la madre patria, del giovane idealizzato
in una morte salvifica che lo sospinge verso la gloria. Sofferenza e dolore erano
trasfigurati per veicolare un’immagine di pace e serenità, trasformando una morte
subita in una morte donata. Il processo di idealizzazione del soldato portava a pre-
ferire alla realistica rappresentazione del fante con divisa d’ordinanza, quella alle-
gorica del guerriero nudo, lontano dal campo di battaglia, cinto di alloro o armato
di gladio, tra le braccia di un angelo o sorretto dalla vittoria alata. I committenti
e gli artisti di questa “industria del cadavere” erano costretti a trovare un precario
equilibrio tra eroismo e orrore della guerra, tra elegia ed epica, tra celebrazione
e lutto. Se il rischio alla lunga era quello di arrivare a una sovraesposizione della
figura del soldato dagli effetti negativi, nell’immediato il culto politico della morte
si alimentava con una retorica dell’eroismo che rendeva assai complicata la smilita-
rizzazione della società, continuando ad annullare il confine tra militare e civile e a
connotare negativamente, fino al punto di considerarlo non appartenente alla co-
munità nazionale, chi non si identificava nei valori del conflitto e non partecipava
alla sua rimembranza. È proprio la difficoltà della classe dirigente liberale a utiliz-
zare e gestire la celebrazione e il ricordo della guerra a delegittimarla di fronte al
paese. Nelle aule parlamentari la vittoria era smarrita proprio per questa incapacità
di utilizzarla come risorsa politica, mentre nelle piazze assumeva un valore mitico
tale da ampliare ancor di più lo iato tra paese e governo14. Antiparlamentarismo e
militarismo si alimentavano a vicenda, favorendo quel processo di brutalizzazione
della politica e assuefazione alla violenza che aveva la sua origine nella disumaniz-
13 Bourke, J. La seduzione della guerra. Miti e storie dei soldati in battaglia, Roma, Carocci, 2007.
14 Baravelli, A. La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del
sistema liberale (1919-1924), Roma, Carocci, 2006.
322
zazione del nemico avvenuta durante il conflitto15. Anche il fascino del fascismo
era in gran parte dovuto al tentativo di perpetuare le condizioni belliche in tempo
di pace, con questo non si vuole però anticipare il suo avvento, collocando guerra
e dopoguerra in un piano inclinato che porta inevitabilmente dall’interventismo,
allo squadrismo e al totalitarismo. La militarizzazione della società e il progetto
di rigenerazione della nazione possono condurre a uno sviluppo antidemocratico,
ma non sono di per sé proto-fascismo o embrionale totalitarismo. L’esito delle ele-
zioni del 1919, con il successo di cattolici e socialisti, due partiti tiepidi o contrari
all’intervento, è del resto una prova inconfutabile della non inevitabilità di questa
deriva violenta e autoritaria nata con il conflitto. Sarà proprio il fascismo a cercare
di perpetuare le condizioni belliche in tempo di pace, per annullare i confini tra
società civili e militare, e realizzare una rivoluzione antropologica da cui sarebbe
nato l’uomo nuovo, il cittadino-soldato, il milite dell’idea, in una parola il romano
della modernità. Un disegno totalitario di irreggimentazione degli italiani che non
riuscirà tuttavia a porre fine a queste aspetti ambivalenti del rapporto tra corpo,
militarismo e mascolinità, come si evince dalla stessa immagine di Mussolini. Il
mito del politico, dell’uomo moderato e del buon padre di famiglia, rimane infatti
presente nonostante il richiamo martellante al ben diverso mito del Duce intran-
sigente, soldato e guerriero. Insomma non sparisce l’ambivalenza tra l’immagine
dello statista responsabile e del condottiero intransigente, del civile e del militare,
del Presidente degli Italiani e del Duce dei fascisti. Così come non spariscono le
contraddizioni tra la rispettabilità borghese del buon cittadino e la moralità in
uniforme del soldato inquadrato o la belluina “immoralità” del milite squadrista.
15 Questo processo, comune ai diversi paesi belligeranti, assume forme diverse proprio a seconda
del modo in cui viene rielaborata la guerra in tempo di pace e vengono reinseriti i combattenti nella
società civile. Sul caso inglese cfr. Lowrence, J. “Forging a Peaceable Kingdom. War, violence and fear
of brutalization in post First World War Britain”, in The Journal of Modern History, settembre 2003,
pp. 557-589 e Kingsley Kent, S. Making Peace. The reconstruction of Gender in Interwar Britain,
Princetonm, Princeton University press, 1993. Per il caso francese cfr. Prost, A. In the Wake of War.
‘Les Anciens Combattants’ and French Society 1914-1939, Providence, Berg, 1992.
323
Monica Di Barbora
La fotografia può essere uno strumento prezioso per costruire percorsi di ricerca
sul genere. Per riflettere sulla costruzione di modelli e la loro rappresentazione e
trasmissione; su quali atteggiamenti società ed epoche diverse considerino appro-
priati a ciascun genere e in che modo tendano a restituire, attraverso l’immagine,
le relazioni tra generi; per indagare come, e se, questi processi influiscano sui mec-
canismi sociali.
Si tratta di uno strumento che ancora attende di essere messo alla prova con
una certa ampiezza e profondità in questo ambito, nonostante alcuni lavori anche
interessanti già apparsi.
Tra i temi che la fotografia consente di indagare, sicuramente centrale, anche
in un’ottica di genere, è quello della rappresentazione del corpo. L’immagine fo-
tografica ha, infatti, il corpo tra i propri oggetti privilegiati. Alcuni generi, addi-
rittura, vivono esclusivamente della sua rappresentazione: la fotografia di moda, la
fotografia erotica e pornografica, la fotografia medica, tanto per fare alcuni esem-
pi. La fotografia, a differenza delle fonti “classiche”, non rinnega il corpo, anzi, lo
mette in scena. Tanto che, ad esempio, Elio Grazioli, in un libro da poco riedito,
ha scelto di rileggere l’intera storia della fotografia proprio seguendo le tracce la-
sciate dalla raffigurazione del corpo umano16. Che è molto spesso, tra parentesi,
almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, raffigurazione del corpo femmi-
nile da parte di un soggetto maschile. Terreno particolarmente fertile anche per
studiare gli approcci di genere, e la loro evoluzione, rispetto ad alcune questioni
16 Grazioli, E. Corpo e figura umana nella fotografia, Milano, Bruno Mondadori, 2009; I ed. 1998.
molta iconografia formale e gran parte della struttura simbolica [della rappresen-
tazione del corpo] affondano le radici nella pittura, ma la fotografia sostituisce
alla presenza del dipinto una vivacità e una immediatezza tali da superare la que-
stione estetica e coinvolgerci in quello che è stato chiamato «l’intreccio problema-
tico» di rappresentazione e sessualità17.
Temi centrali, com’è ovvio, per le studiose e gli studiosi che lavorano sul ge-
nere.
La raffigurazione del corpo attraverso la fotografia, tuttavia, non si può legge-
re solamente nella chiave di “immediatezza” che Clarke pare suggerire. Il corpo è
soggetto privilegiato della fotografia ma, al tempo stesso, l’immagine fotografica
ne nega la tridimensionalità, l’odore, la consistenza, talvolta il colore. In qualche
modo la fotografia mette in scena il corpo ma ne sottrae la corporeità. Di più, la
fotografia ha un suo proprio corpo troppo spesso trascurato. Una materialità, una
fisicità che non sono neutre.
Emerge immediatamente quella che è, in qualche modo, l’ambiguità costitu-
tiva dell’immagine fotografica: realtà e rappresentazione. Indice e icona, per dirla
17 Clarke, G. The Photograph. A visual and cultural history, Oxford, Oxford University press, 1997;
tr.it. La fotografia. Una storia culturale e visuale, Torino, Einaudi, 2009, p. 138.
18 Clarke, G. The Photograph cit., p. 138. La citazione in Clarke è da Solomon-Godeau, A. Photo-
graphy at the Dock, Minneapolis, University of Minnesota press, 1991.
326
con Barthes19. Traccia di una presenza ma, al tempo stesso, interpretazione e co-
struzione di un senso non univoco di quella presenza.
Già la storia dell’arte precedente all’invenzione della fotografia è in gran parte
figura di corpi. La fotografia immette, in quest’ambito, due fondamentali ele-
menti di novità. Anzitutto, abbiamo detto, mette in scena dei corpi “reali”, non
costruiti per coincidere con un modello astratto, più o meno percepito come este-
ticamente gradevole, o adatto a incarnare un valore simbolico, ma corpi che sono
“dati”. Impegnata a costruire una narrazione, non coinvolge corpi immobili nel
tempo; non prescinde da età, diversità sessuale, pigmentazione della pelle.
La seconda novità introdotta dalla fotografia è la possibilità, per il soggetto
raffigurato, di partecipare, in qualche misura, alla propria rappresentazione, alla
messa in scena del proprio corpo. Esso ha l’opportunità, più o meno ampia a se-
conda del contesto, di proporre un’immagine di sé che asseconda, per così dire, lo
sguardo del fotografo o lo contraddice. Un’immagine di sé, anche, che asseconda
o contraddice la rappresentazione che la società, pubblico ipotizzato, si aspetta.
L’atteggiamento del corpo, lo sguardo, la scelta di un certo abbigliamento o di una
certa pettinatura, sono tutti elementi che aiutano il soggetto a partecipare, a volte
in maniera più libera ed evidente, a volte in maniera marginale, alla costruzione
della propria immagine.
Oltre alla presenza di un corpo, o di più corpi (e allora diventa interessante
indagare anche la relazione spaziale che si costruisce tra i corpi raffigurati), la fo-
tografia ci consegna anche un’altra presenza: quella di uno sguardo. Uno sguardo
spesso maschile che, spesso su un corpo femminile, costruisce un proprio imma-
ginario. La fotografia diventa così strumento per piegare un corpo reale a una
rappresentazione culturale. La fotografia, prodotto per eccellenza di una società
borghese e industriale, fortemente patriarcale, ne restituisce lo sguardo. Prezioso e
potente strumento di controllo sociale.
Dal Novecento, tuttavia, sempre più diffusamente la donna si è fatta anche
soggetto di sguardo, in parte anche grazie alla stessa diffusione della fotografia.
È senza dubbio ingenuo, e sarebbe ingiusto e riduttivo, pensare che sia dato
uno sguardo femminile, senza ulteriori aggettivazioni. Tanto più che anche la cul-
tura visiva femminile nasce e si struttura all’interno di un immaginario visuale
che è stato costruito, e continua in gran parte a esserlo, sulla base dello sguardo
maschile. Guardando una fotografia non si può inferire il genere del suo autore,
tuttavia, sarebbe fruttuoso invertire la questione: può aiutarci a leggere significati
e portati di un’immagine conoscere il genere del suo autore?20 Il ruolo di “oggetto
19 Barthes, R. La chambre claire. Note sur la photographie, Paris, Cahiers du cinéma, Gallimard, Seuil,
1980.
20 Si veda, Bronfen, E. “Des femmes regardent des femmes”, in Photos de femmes, de Julia Margaret
327
di sguardo” rivestito dalla donna nel corso di tutta la storia, le ha offerto una pro-
spettiva diversa sulla questione, capace di riverberarsi anche sulla comunicazione
fotografica?
Le artiste fotografe hanno lavorato molto, fin dall’Ottocento, sul ritratto e
sull’autoritratto. Per ragioni tecniche e sociali, almeno fino alla fine del XIX seco-
lo, ma non solo. Lavorare sulla propria immagine, sulla raffigurazione del proprio
corpo, è stato un mezzo per indagare se stesse, il proprio spazio nella società, i
propri canoni estetici, il proprio desiderio e la propria sessualità. Ha significato
poter finalmente costruire una rappresentazione autonoma del femminile e del
sé21. Di questo potere, però, le donne si sono potute appropriare solo rimettendo
in discussione la propria posizione nel mondo. Sulla rappresentazione del sé, si
gioca il loro stesso ruolo all’interno della società e della cultura, nel circolo, vizioso
o virtuoso, che si instaura tra rappresentazione e comportamenti, aspetto, atteg-
giamenti accettati. La donna, quindi, deve cercare di costruirsi al tempo stesso
come oggetto di rappresentazione e come soggetto capace di rappresentazione.
Difficile sopravvalutare il ruolo della fotografia per studiare questo percorso. Nelle
parole di Anne Higonnet:
Per creare nuove immagini di sé, le donne hanno dovuto imparare a coltivare
nuovi atteggiamenti nei confronti di se stesse, del proprio corpo e del proprio
posto all’interno della società. […] Esperienza e rappresentazione si rincorrono22.
Dal momento che la capacità di proporre una propria lettura del mondo è
notoriamente uno dei tratti distintivi del potere, è un percorso assai interessante e
ancora in grandissima parte da esplorare il modo in cui le donne hanno scelto di
gestire questa nuova possibilità. Anche rispetto alla propria relazione col maschile.
Criticità e prospettive
Utilizzare la fotografia nell’ambito della ricerca storica, significa fare i conti con
alcune questioni. È indispensabile fare tesoro della lunga tradizione di raffinata
critica delle fonti storiche, ragionando però, contemporaneamente su una speci-
Cameron à Bettina Rheims, Paris, Plume, 2001;. tr.it. Donne viste dalle donne, Una storia illustrata
delle donne fotografe, Contrasto, 2002.
21 Muzzarelli, F. Il corpo e l’azione: donne e fotografia tra otto e novecento, Monteveglio, Atlante, 2007.
22 Higonnet, A. “Immagini e rappresentazioni femminili”, in Duby, G.; Perrot, M. Storia delle
donne. Il Novecento, a cura di Thébaud, F., Roma, Bari, Laterza 1992, p. 409; ed.or. Higonnet, A.
“Femmes et images. Apparences, loisirs, subsistance”, in Histoire des femmes en Occident, vol. 4: le
XIXe siècle, Paris, Plon, 1991, pp. 249-275.
328
329
lo sforzo più consistente, anche nella messa a punto degli strumenti di analisi. Ma
senza dubbio questo potrebbe essere un interessante ambito di sperimentazione.
In Italia mancano, poi, quasi completamente lavori che indaghino più atten-
tamente l’altra faccia della medaglia, per così dire, cioè le donne fotografe. Quali
le loro biografie; i soggetti indagati; il riconoscimento sociale, e artistico; i modelli
culturali e visivi applicati. Non creando uno spazio fittizio, isolato dal contesto,
in cui inseguire l’autorialità al femminile come discorso a se stante, ma in un
confronto continuo con un sistema culturale e comunicativo alla cui elaborazione
contribuiscono generi diversi. Una riflessione più ampia, quindi, sullo sguardo al
femminile attraverso l’obiettivo.
Grandi opportunità per la storia di genere, anche in relazione alla rappresen-
tazione del corpo, possono venire dal nuovo interesse per la fotografia vernacolare
e di autori meno noti. In particolare, credo che si rivelerà molto fruttuoso un
approccio che includa gli studi dei cosiddetti fotografi di paese, al centro di una
progressiva rivalutazione in questi anni. L’elemento, in particolare, che li rende di
grandissimo interesse deriva dal contatto non occasionale di questi fotografi col
territorio che raccontano. Un territorio e una comunità che essi rappresentano
secondo modalità visive e secondo stereotipi sociali “interni” alla comunità stes-
sa. Le immagini prodotte in questo ambito ci possono dire molto, quindi, sulle
norme sociali, che spesso si giocano proprio sul corpo della donna e sulla codifica
della loro rappresentazione, nonché sui modelli visivi che hanno educato, all’im-
magine e alla ritualità sociale, intere generazioni.
Si pensi, ad esempio, ai gruppi di famiglia o alla fotografia di matrimonio,
rito in cui la donna si mette in scena e si rappresenta, davanti alla collettività a
cui appartiene, offrendo un’immagine di sé che è negoziazione tra il suo essere e
le attese del gruppo.
Si tratta, inoltre, delle fotografie sulle quali si è strutturato, fin dall’infanzia, il
rapporto con l’immagine fotografica di intere generazioni. Magari filtrato da chi, in
famiglia, aveva il ruolo di costruire l’album che ne tracciava la storia, spesso una donna.
Infine, sarebbe necessario e proficuo fare un passo avanti anche dal punto di
vista della resa storiografica dei risultati della ricerca. La tecnologia mette a dispo-
sizione strumenti ricchi e interattivi con cui trasmettere i risultati dei nostri lavori.
Credo che la fotografia, in combinazione con altre fonti, si presti particolarmente
bene all’utilizzo di questi strumenti. I nuovi supporti digitali consentirebbero di
presentare nuclei documentali più ampi; di creare percorsi tra le immagini, per-
mettendo il confronto tra più edizioni di una stessa fotografia, tra più scatti di
un singolo evento, tra immagini prodotte con tecniche diverse; offrirebbero la
possibilità all’utente di sfruttare un approccio interattivo.
Potrebbe essere una sfida interessante per la storia di genere proporre nuove
forme di restituzione di nuovi percorsi di ricerca.
330
Alessia Muroni
23 Sutherland-Norris, A.; Nochlin, L. Femmes peintres 1550-1950, Parigi, des femmes, 1991; Heller,
N. Femmes artistes, Parigi, Editions Herscher, 1991; Bartolena, S. Arte al femminile. Donne e artiste
dal rinascimento al XXI secolo, Milano, Electa, 2003.
24 I problemi della didattica dell’arte alle donne si trascinano in realtà fino a epoca tardissima: le
donne sono ammesse nelle accademie di Belle Arti solo nella seconda metà del XIX secolo, nel 1873
in Italia. Cfr. Trasforini, M.A. Nel segno delle artiste. Donne, professioni d’arte e modernità, Bologna,
Il Mulino, 2007, pp. 71-78.
25 Gregori, M. et al. Sofonisba Anguissola e le sue sorelle, catalogo mostra Cremona 1994, Milano,
Leonardo Arte, 1994.
26 «Voglio che questa donna abbia notizia di lettere, di musica, di pittura, e sappia danzare e festeg-
giare, accompagnando con quella discreta modestia e col dar bona opinione di se», Castiglione, B.
Il libro del Cortegiano, III, IX (ed. consult. Castiglione, B. Il libro del Cortegiano, a cura di Preti, L.,
Torino, Einaudi, 1965, p. 201).
27 Indicativo poi, a mio parere, che di tutti i generi minori accessibili alle donne quello più raramente
frequentato sia la pittura di paesaggio: ove certo lo studio dal vero presupponeva una libertà di mo-
vimento che alle donne non poteva essere concessa.
28 Cfr. Goffen, R. Renaissance Rivals: Leonardo, Michelangelo, Raphael, Titian, New Haven, Yale
University Press, 2002.
332
tante scrittrici che hanno lavorato sotto nome maschile, o in anonimato, costrette
a tale pratica dai pregiudizi legati soprattutto alla moralità e ai pregiudizi contro
le donne che guadagnano col proprio lavoro. Quante artiste di cui conosciamo
il nome ma che non sappiamo collegare ad alcuna opera, si offrono in tele non
riconosciute ai nostri sguardi? E di quante abbiamo perso il nome perché sulle loro
opere non c’era? E quante sono state ignorate dalla storiografia ufficiale basata sui
grandi nomi e sulla gerarchia dei generi e del genere?
Di molte tra le trentacinque artiste ospitate nella Galleria degli Autoritratti
degli Uffizi, l’autoritratto è l’unica testimonianza storica esistente. Niente opere,
documenti, menzioni in dizionari e trattati di pittura. Niente, se non la tela che
ne conserva col volto il nome e la competenza tecnica. Una situazione disperante,
anche in casi in cui la preminenza del nome avrebbe dovuto garantire una maggio-
re documentazione: di Marietta Robusti, figlia del Tintoretto, attiva in una delle
botteghe più importanti e studiate di Venezia, possediamo solo l’autoritratto29.
L’autoritratto è esercizio di osservazione esteriore e psicologica, è diario artisti-
co ed esistenziale, è testimonianza della fisicità, dell’esistenza stessa dell’artista, ed
è soprattutto manifesto di poetica, di stile, di visione. Tutto ciò ritorna amplificato
nell’autoritratto femminile. Esso infatti deve non solo certificare l’abilità dell’arti-
sta ma anche riconfermarne la femminilità; garantirne l’onorabilità e la modestia;
testimoniarne il garbo, l’appropriatezza dei modi, l’autocontrollo.
Lo statuto dell’autoritratto femminile è dunque sospeso tra eccezionalità e
regolarità, dichiara mentre nega, proclama la meraviglia di un “caso” ma rassicura
sulla sua riconducibilità alla norma di genere.
Non solo: a giudicare dagli epistolari sopravvissuti, alle pittrici viene spesso
richiesto di fornire un’immagine di sé che testimoni della propria valentia, ma
anche che esiste. Perché c’è sempre il dubbio che sia un uomo, invece, a compierne
le opere, tanto più quando esse testimonino di una abilità che davvero non pare
appartenere alle donne.
Donne che facevano cose da uomini dovevano confermare, insomma, di esser
prima di tutto donne.
Tre di queste donne sono Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi ed Elisabet-
ta Sirani. Nell’opera di ciascuna di esse è possibile rintracciare la pratica assidua
del nudo all’interno della pittura di storia, doppia eccezione che può ben essere
letta come affermazione del diritto dell’artista a percorrere i sentieri dell’arte senza
limitazioni di sorta o di sesso, in virtù della propria professionalità, e affermazione
di sé come donna, proprio in quanto essere umano, in virtù della qualità e anzi
dell’eccellenza del proprio agire artistico.
29 Marinelli, S. “Marietta Robusti”, in Limentani Virdis, C. (a cura di) Le tele svelate. Pittrici venete
dal Cinquecento al Novecento, Venezia,, Eidos, 1996, pp. 53-62.
333
30 Cantaro, M.T. Lavinia Fontana bolognese “pittora singolare”, Milano-Roma, Jandi Sapi, 1989.
31 Fontana, L. Cleopatra, 1604-14, Roma, Galleria Spada, inv. n. 245.
32 Fontana, L.Minerva in atto di abbigliarsi, 1613, Roma, Galleria Borghese, inv. n. 7.
33 Possiamo rintracciare un lontano antecedente concettuale negli amorini che giocano con gli at-
tributi di tutti gli dei, compresa Minerva, nelle lunette della Loggia di Psiche affrescata a opera di
Raffaello e collaboratori nella Villa Farnesina di Roma, 1518 circa.
34 Su Artemisia Gentileschi Contini, R.; Papi, G. (a cura di) Artemisia, catalogo mostra Firenze
1991, Roma, Leonardo- De Luca, 1991; Christiansen, K.; Mann, J.W. Orazio e Artemisia Gentile-
334
caravaggismo romano. Tuttavia una carriera che avrebbe potuto seguire le ben col-
laudate e regolari impronte della Fontana è gravemente inficiata, nel 1611, dallo
stupro a opera del pittore Agostino Tassi, e dall’inquisitorio processo che ne segue.
Nonostante ciò, la carriera di Artemisia è comunque ottima, sancita dall’ingresso,
prima donna a godere di tale privilegio, nell’Accademia delle Arti del Disegno
di Firenze, e caratterizzata da buoni rapporti con i più grandi artisti del tempo,
dal favore e dalla protezione di persone influenti, a cominciare dai Medici, e da
amicizie di elevato livello intellettuale, come quella epistolare con Galileo Galilei.
La prima opera attribuita ad Artemisia è Susanna e i vecchioni35. Analogamen-
te a Cleopatra, si tratta di un tema, seppur religioso, che si presta a una interpreta-
zione in cui sensualità ed erotismo si coniugano in forme più o meno allusive, e in
cui l’insidia, la tentata seduzione coinvolgono lo spettatore in un ruolo di compli-
ce voyeurismo, in cui persino la disperazione di Susanna è offerta di sé, tentazione
in cui da spettatori si può indulgere, all’ombra di biblici guardoni. La versione di
Artemisia fa stracci delle suadenti esposizioni, stilizzate al punto giusto, realizzate
da pittori di ogni epoca. Non è sensuale gioco di linee, né morbide e levigate mas-
se, ma un nudo reale, straordinariamente vero e fragile, indifeso nel suo pallore, la
cui onesta concretezza svela l’inganno delle versioni in voga, e mostra la violenza
maschile in tutto il suo terrificante potere. Naturalmente quest’opera, come altre
sue, è stata letta in relazione allo stupro e all’aura di scandalo che sempre accom-
pagnò la pittrice. Non possiamo neanche dimenticare la teoria che – sulla base di
confronti iconografici visuali e scritti – vede nei due uomini i ritratti del padre e di
Agostino Tassi. Dipinto dalla diciassettenne Artemisia proprio all’epoca del pro-
cesso, può essere letto come una muta ma eloquentissima protesta per le violenze
fisiche e psicologiche subite. Non è opportuno forzare l’immagine oltre il dovuto:
ma certo è evidente la sincerità e l’assoluta originalità dell’approccio dell’artista.
Vita molto più riparata ha invece Elisabetta Sirani (Bologna 1638-Bologna
1665)36, figlia di Giovanni Andrea Sirani, copista e mercante d’arte, che trasforma
casa Sirani in un luogo di incontro, un cenacolo intellettuale che lancia Elisabetta
sul mercato dell’arte. Come altre artiste, Chiara Varotari, Sofonisba Anguissola o
Rosalba Carriera, Elisabetta Sirani ha una nutrita bottega di donne; una tematica,
quella delle botteghe femminili, non ancora indagata a fondo.
schi, catalogo mostra Roma 1991, Milano, Skira, 1991; Menzio, E. (a cura di) Artemisia Gentileschi,
Lettere. Precedute da: Atti di un processo per stupro, Milano, Abscondita, 2004.
35 Gentileschi, A. Susanna e i vecchioni, 1610, Pommersfelden, Graf von Schönborn Kunstsamm-
lungen, inv. n. 191.
36 Modesti, A. Elisabetta Sirani. Una virtuosa del Seicento bolognese, Bologna, Editrice Compositori,
2004; Bentini, J.; Fortunati, V. (a cura di) Elisabetta Sirani “pittrice eroina” 1638-1665, catalogo
mostra Bologna 2004, Bologna, Editrice Compositori, 2004.
335
Muore a soli 27 anni, con quasi duecento opere all’attivo, a causa di un’ulcera
perforata, e in seguito a un’agonia così dura da ingenerare un’accusa di avvelena-
mento e un processo contro una delle serve di casa Sirani, processo poi interrotto
per mancanza di prove.
Non è forse un caso che sia la Fontana che la Gentileschi, donne sposate, pos-
sedessero maggiore sicurezza nella rappresentazione del nudo maschile, mentre la
Sirani, che per il resto dimostra una salda competenza nel disegno e nella pittura,
si dimostra carente nel nudo maschile, una carenza che, nubile, non poteva in
alcun modo integrare37.
Nella pittura mitologica la Sirani preferisce figure femminili forti e domi-
nanti38, caratterizzante da nudi austeri e corpi saldi come il carattere delle stesse.
Sontuoso e spettacolare è invece il nudo della Galatea39: la bellissima ninfa, figlia
di Nereo, si offre al nostro sguardo con una levità giocosa che sembra irridere il
desiderio. Un nudo femminile che svolge funzione analoga e contraria a quella
dei nudi femminili già visti per Cleopatra e Susanna: la bellezza della ninfa ci
coinvolge, è vero. Eppure la sua madreperlacea bellezza è come chiusa in se stessa,
nascosta dietro gli occhi rivolti ostinatamente all’interno della scena. Galatea sfug-
ge a noi come sfugge indifferente al desiderio di Polifemo.
La firma di Elisabetta Sirani, ricamata sul cuscino, è parte integrante e centra-
le dell’opera40. La pittrice vergine, bellezza sfuggita al destino delle donne, regina
libera di una comunità femminile, si nasconde al centro della sua opera, dietro
l’attestazione di un’identità professionale e culturale autonoma. Questo bellissi-
mo nudo pagano e galante si inserisce insomma nell’economia della pittura della
Sirani, essenzialmente incentrata sulla tematica religiosa, come l’eccezione che,
analogamente alla Lettera nascosta di Poe, pone sotto gli occhi di tutti, lievemente,
il segreto di vite diverse dalla norma, in cui l’arte diviene la porta che apre su un
mondo altrimenti precluso.
37 Si possono comparare ad esempio le belle anatomie femminili dei suoi quadri con l’incerto e gra-
cile nudo del san Sebastiano nella pala con la Madonna con Gesù bambino e i SS. Antonio da Padova,
Martino, Rocco e Sebastiano, chiesa di San Martino a Trasasso di Monzuno.
38 Modesti, A. Elisabetta Sirani cit., pp. 227-291.
39 Sirani, E. Galatea, 1664, Modena, collezione privata.
40 Modesti, A. Elisabetta Sirani cit., p. 135.
336
Barbara Spadaro
Le rappresentazioni dei corpi, sia visuali che letterarie, sono tra i veicoli più co-
muni ed efficaci del discorso coloniale e della sua rappresentazione asimmetrica
del mondo. Forse più che di “corpi coloniali” – che come espressione sembra
evocare un mondo a parte – si dovrebbe parlare di corpi tra madrepatria e colonie,
per via della relazione identitaria che intercorre tra soggetti che si definiscono
e rappresentano scrutandosi a vicenda, filtrando le proprie esperienze attraverso
immagini e stereotipi circolanti nelle culture in cui sono immersi, rimanipolandoli
e rilanciandoli.
Per tracciare un percorso sintetico in questa varietà, ho deciso di portare solo
due esempi che mostrino il diverso utilizzo della rappresentazione dei corpi nella
costruzione delle identità di genere. Tratterò soprattutto di corpi femminili, ben-
ché anche le rappresentazioni dei corpi maschili – in particolare quelli degli ascari
e dei soldati italiani – siano importanti tasselli delle relazioni coloniali. I corpi
femminili tuttavia sono oggetto di curiosità, osservazione, attrazione, propaganda
in tutte le vicende coloniali; sono centrali per la costruzione delle identità di ge-
nere di colonizzatori e colonizzati e per i rapporti di potere che di conseguenza si
stabiliscono sia in madrepatria che in colonia41.
Quelle che utilizzo qui non sono fonti ufficiali o di propaganda, ma testi scrit-
ti e pubblicati in Italia da esponenti di un’élite – un ufficiale e una contessa – con
una certa familiarità con le colonie africane, italiane e non. Entrambi gli autori
41 Dopo i celebri lavori di Ann Stoler, un volume che mette materialità e rappresentazioni dei corpi
al centro degli incontri coloniali tra culture è Ballantyne, T.; Burton, A. (a cura di) Bodies in Contact.
Rethinking Colonial Encounters in World History, Durham and London, Duke UP, 2005.
scrivono sulla base delle loro esperienze personali, nella convinzione che queste
possano servire d’esempio per i loro connazionali, contribuendo alla conoscenza
della Libia42: i loro racconti quindi sono pieni di quel tipo di osservazioni etno-
grafiche improvvisate che si ritrovano nella letteratura di viaggio e nelle opere di
amministratori e militari di stanza in colonia. Questo tipo di materiali colmava
il vuoto di conoscenza sui possedimenti extraeuropei, e già dalla seconda metà
dell’Ottocento costituiva oggetto di interesse da parte del pubblico istruito della
madrepatria: oltre a pubblicare libri e articoli, spesso questi personaggi venivano
invitati a tenere conferenze dalle società geografiche o da circoli culturali, finendo
per intrattenere rapporti con il mondo accademico e politico43. La scelta delle due
fonti quindi è stata determinata anche dalla loro pubblicazione e circolazione nel
panorama culturale della borghesia italiana tra le due guerre, di cui le considero
rappresentative. Inoltre, insieme i due testi rivelano la continuità di alcuni temi
del discorso coloniale nell’élite borghese che confluisce nel fascismo, in particolare
quello della superiorità della cultura e della civiltà europee – prima ancora che
specificamente italiane o fasciste – su quella araba.
L’identità di genere dei due autori determina modi diversi sia di considera-
re gli aspetti positivi e negativi del progresso europeo rispetto alle colonie sia di
rapportarsi ai libici. Inoltre queste opere contribuirono non solo alla costruzione
del discorso coloniale italiano, ma anche a quella della soggettività dei rispettivi
autori: il tenente consegna ai posteri la sua testimonianza sulle sue intricate vicen-
de militari, accreditandosi come esperto della politica coloniale italiana, mentre
la contessa assume pubblicamente il ruolo di viaggiatrice e propagandista. Come
vedremo, è attraverso il confronto con i sudditi coloniali, condotto in particolare
sul piano dell’identità di genere, che emergono questi ruoli.
Anche se i corpi delle donne nere sono l’elemento più analizzato dalla ricerca
italiana sulle rappresentazioni visuali e letterarie del colonialismo, Giulietta Stefa-
ni ha fatto notare che sono le donne arabe, turche o beduine, più che le cosiddette
veneri nere eritree, a occupare l’immaginario letterario italiano tra gli anni Venti
e Trenta44, conformemente alla risalente fascinazione europea per l’harem45 e al
42 Anche se prima del 1934 è improprio parlare di Libia per indicare le colonie di Tripolitania e
Cirenaica e i territori del Fezzan, adotto questo termine per brevità.
43 Sorgoni, B. Parole e corpi: antropologia, discorso giuridico e politiche interrazziali nella colonia Eritrea
(1890-1941). Napoli, Liguori, 1988.
44 Stefani, G. Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale. Una storia di genere, Verona, Ombre-
corte, 2007.
45 Malek, A. Le harem colonial: images d’un sous-érotisme, Garance, 1981; Mernissi, F. L’Harem e l’Oc-
cidente, Firenze, Giunti, 2000. Un percorso tra le rappresentazioni italiane coloniali e postcoloniali
delle donne arabe e di colore è in Ponzanesi, S. “Beyond the Black Venus: Colonial Sexual Politics
338
and Contemporary Visual Practices’” in Andall and Derek Duncan, J. (a cura di) Italian Colonialism.
Legacies and Memories, Oxford, Peter Lang, 2005, pp. 165-189.
46 Papa, C. Sotto altri cieli. L’Oltremare nel movimento femminile italiano (1870-1915), Roma, Viella,
2009.
47 Rossotti, A. Fra i beduini. Vita e riflessioni di prigionia araba, Roma, Ausonia, 1920.
48 Nel 1919, sotto l’influenza della politica dei mandati internazionali e del principio della collabo-
razione asimmetrica tra colonizzati e colonizzatori, i libici vennero associati all’amministrazione della
colonia, dotati di alcuni organismi rappresentativi e di una forma di cittadinanza. Questo cambia-
mento in Italia incassò critiche da tutti gli schieramenti politici.
339
uso e consumo del piacere maschile privato – cioè una donna muta e sottomessa,
dotata di alcune selezionate caratteristiche estetico-igieniche occidentali, rese più
intriganti da un tocco di esotismo.
Il rapporto di questo ufficiale con la civiltà europea, le sue raffinatezze e la sua
cultura è pieno di contraddizioni che tradiscono il disagio di fronte ai cambiamenti
che, anche in Italia, stavano portando le donne a essere più istruite e autonome nei
giudizi, più libere di uscire dalla sfera familiare ed esercitare delle scelte di consumi
negli spazi pubblici della sociabilità e del tempo libero. Il progresso di cui Rossotti è
fiero e si sente rappresentante in colonia e al rientro è quello che procura all’Europa
una potenza militare, tecnologica e industriale tale da influenzare il resto del mondo,
e a lui di viaggiare ed essere informato; è un’idea di civiltà che deve essere ben visibile
anche sui corpi femminili, ma senza sovvertire le gerarchie e i ruoli di genere.
L’immagine della donna velata e confinata nel privato è ricca di fascino ai
suoi occhi, perché combina il controllo sessuale con la promessa di piaceri senza
limiti. Descrivendo le libiche, Rossotti utilizza metafore animali, per far risaltare
la fisicità su altri aspetti della persona e sancirne l’inferiorità su una supposta scala
evolutiva – un procedimento, questo, tipicamente applicato nelle descrizioni dei
sudditi coloniali, e in particolare delle donne di colore. Tuttavia sulle arabe si
riconoscono alcune influenze culturali (seppure di una cultura “decaduta”) che le
innalzano antropologicamente rispetto a quelle nere: i loro corpi scatenano fan-
tasie di piaceri erotici raffinati, ritenuti indispensabili per primeggiare tra le rivali
e mantenere sempre vivo il desiderio maschile; ma allo stesso tempo sono meno
disponibili, perché nascosti dal velo e dall’harem, e protetti dal controllo sociale
maschile. Un punto più volte sottolineato dall’ufficiale infatti è l’inaccessibilità
delle musulmane agli italiani. Anche se i rapporti tra italiani e libiche sono una
pagina ancora tutta da scrivere, l’accento messo sulla gelosia dei musulmani e la
sorveglianza di cui fanno oggetto le donne, specialmente quelle delle famiglie più
ricche, nel discorso coloniale accompagna un pregiudizio negativo sulla loro mo-
ralità, e sull’innata tendenza femminile all’inganno e all’intrigo.
340
50 Ghezzi, C. Colonie, coloniali. Storie di donne, uomini e istituti fra Italia e Africa, Roma, Istituto
Italiano per l’Africa e l’Oriente, 2003.
51 Per cui cfr. Spadaro, B. “Intrepide massaie. Genere, imperialismo e totalitarismo nella prepara-
zione coloniale femminile durante il fascismo (1937-1943)” in Contemporanea, XIII, n. 1, 2010,
pp. 27-52.
341
e accettate, dai capi villaggio agli italiani, viene giudicata una forma di oppressione
paragonabile all’harem o al velo. Inoltre la contessa si preoccupa di precisare che sua
figlia e la sua amica non prendono parte alla visita dei bordelli, a garanzia di un co-
dice di integrità morale che si applica alle giovani italiane, cui la colonia dà occasione
di spingersi in spazi inaccessibili in patria.
L’ambiguo rapporto delle donne italiane con la costruzione dell’ordine coloniale
e delle sue gerarchie di genere, classe e razza si esprime in questo libro anche attraverso
un codice di sopraffazione dello sguardo. L’invadenza della fotografa si adegua allo
status delle interlocutrici: le fotografie riprodotte nel volume sono scattate a donne
di villaggi dell’interno della colonia, molte delle quali nere, o a bambine di passaggio
– mentre le mogli dei notabili di Tripoli restano personaggi letterari, o almeno la con-
tessa non osa pubblicarne i ritratti. Il fatto poi di essere donne in viaggio con la mac-
china fotografica, è un particolare sottolineato più volte, come segno di modernità;
ma presentarsi ai lettori come signore avventuriere e tecnologicamente abili si accorda
anche con le esigenze istituzionali e di prestigio della causa coloniale italiana. Non ci
sono ritratti destabilizzanti delle tre italiane, dal punto di vista delle identità di genere;
anche se un certo autocompiacimento per la propria abilità e disinvoltura traspare
in più punti del racconto, le loro performance vengono ricondotte innanzi tutto alle
superiori caratteristiche della “razza dei colonizzatori”, che devono essere mostrate ai
sudditi coloniali. La Petrucci si mette sulle orme di audaci esploratrici del passato, dalla
mitica Cecilia Plautilla, figlia di un proconsole romano, alle viaggiatrici inglesi, a Elena
d’Aosta: attraverso questi riferimenti e la scelta delle fotografie che ritraggono lei o le
ragazze – bianche figure femminili tra paesaggi grandiosi e resti di antiche civiltà, che
suggeriscono momenti di solitudine, raccoglimento o meditazione – sembra comporsi
un ritratto ideale di donna. La dimensione eroica che emerge attraverso questi sfondi,
nel contesto coloniale italiano si accentua e si moltiplica, caricandosi di valenze politi-
che. La colonia quindi offre alla contessa nuovi spazi di espressione e di affermazione
che per le italiane in Libia non erano scontati, ma di cui lei riesce ad appropriarsi in
virtù della sua posizione sociale, competenze culturali e personalità.
Per riprendere il tema iniziale – la relazione identitaria tra i corpi tra madre-
patria e colonie, e i rapporti di potere espressi nelle loro rappresentazioni – vor-
rei concludere con una serie di domande: questo gioco di riflessi tra corpi, cosa
genera nei sudditi coloniali? Quali sono gli effetti della retorica sulla condizione
di musulmane oppresse e recluse, per le libiche? E quali gli strascichi di queste
costruzioni identitarie nella visual culture italiana contemporanea? Gli studi di ge-
nere anche in Italia ormai da tempo sollevano questi interrogativi52 e tanti aspetti
dell’incontro coloniale con la Libia (il ruolo delle donne libiche nella storia e nella
costruzione del discorso coloniale italiano) si offrono alla ricerca storica.
342
Cecilia Tossounian
During the 1920s and 1930s, several beauty contests were held in Argentina.
Some of them were internal contests, aimed to select Beauty Queens, the most
beautiful Argentine women. Others were organised to choose Miss Argentina and
represent the nation in a global stage. While these several contests were all in
the search for the essence of Argentina’s beauty, they presented some differences
regarding ways of organising the event, criteria for selection of candidates and
discourses which justified the competitions. Beauty contests became very popular
thanks to a highly commercial promotion of them, which counted on the support
of several male intellectuals, writers and journalist who, through the organisation
of something so trivial as the election of beautiful women, were debating about
what qualities national femininity should have as well as what image Argentina
wanted to transmit about itself to the rest of the world.
In this paper, I analyse representations of Argentina’s national and gender
identities through the study of beauty contests held in Argentina during the inter-
war period. First, I examine internal contests, which selected the most beautiful
Argentine women and crowned them as Beauty Queens. Then, I study how the
participants embodied the modern girl figure through an analysis of the interviews
conducted to the winners. Finally, I consider several Miss Argentina contests and
study what images the winners embodied in order to represent the nation abroad.
Through this analysis, I intend to show how beauty contests functioned as an
arena to redefine a national type of beauty and a national identity.
344
the provinces of the country55. The winners also expressed that the modern girl
was a positive figure, as long as she did not lose her good manners and femininity
by doing such things. The winners demonstrated that Argentina and its women,
although modern, could still symbolise morality and innocence. It was a much
softer version of the upper-class modern girl of Buenos Aires that the audience
and mainly the male judges chose to represent a modern and national image of
womanhood.
The mission that Miss Argentina has to fulfil is of importance for the motherland
and it is an invaluable honour for the beauty queen selected in our contest. It
55 “Conversando con nuestras triunfadoras”, in El Hogar, 22 February, 1929, pp. 8, 68, here p. 8.
56 “En fecha próxima se cerrará el el plazo de recepción de foto”, in Crítica, 11 April, 1930, p. 5;
“El moderno concepto de belleza”, in Crítica, 11 August, 1930, p. 20.
57 “De todas partes del país llegan fotografías del certámen de belleza”, in Crítica, 31 March, 1930,
p. 15.
345
will mean to prove abroad the degree of physical perfection that our people have
achieved, as well as proving that women of our country have nothing to envy
regarding elegance, spirituality, grace, femininity and beauty to the most civilised
nations of the world58.
Crítica even put itself in the “patriotic” place of having to “educate” Euro-
peans about Argentine beauty through its candidate, since it declared with irrita-
tion that in a London parade Argentine women were represented by a «mulatto
woman, of dark skin of course, ridiculous and dressed with a picturesque outfit»59.
Both readers and contestants, by participating in the beauty contest, had a patri-
otic mission to play. They could prove that Argentina was a “civilised country”,
which had left its backward moral prejudices behind and was engaged in this
modern type of contests, as the rest of the (civilised) world was. In addition, Miss
Argentina could show to the rest of the world the superior physical and moral
qualities that Argentine women had achieved, which were comparable, if not bet-
ter, to those of women of other countries.
This patriotic duty could not be accomplished if the participants, besides
“spiritual charm”, were not beautiful. According to several journalists, the Argen-
tine candidates had good chances to win the contests because of their renowned
beauty. The “physical perfection” of Argentine women was the direct product of
the “crisol de razas” (melting pot). As an article of Crítica stated,
However, Crítica declared that besides this diversity, there was a type of Ar-
gentine woman who had her “own personality”, moulded by the influence of «a
particular environment and a certain kind of education»61.
The claim for the existence of a national beauty type, unique and superior
in comparison to others due to nature, education and intermingling of differ-
ent European “races”, was assumed to be inherently white. None of the partici-
346
pants in the several beauty contests organised during this period was a mestizo
woman. From the point of view of the eugenic standards that the newspapers
were promoting through the beauty contests, mestizo women were erased from
the definition of what national femininity was. Beauty was defined according to
Western patterns and this occluded any mention to them. Nevertheless, if mes-
tizo women were not part of this definition of beauty, if Argentina’s women were
blessed with “spiritual charm” and were also so modern that they had nothing to
envy women of “civilised” countries, if they could even be more beautiful than
European women because of the miscegenation of different European “races”,
who was this Argentine woman? What was her specificity? Framed by this eugenic
and nationalist discourse, the photos and written descriptions of the winners ac-
quire an important meaning, as they must express Argentinenness. Both Crítica
and Noticias Gráficas presented their own different versions of what an Argentine
beauty type meant.
When the final selection of Miss Argentina arrived, Crítica published the pho-
tos and names of the final participants for the award of Miss Argentina. Eugenia
Vidal, one of the representatives of Buenos Aires, was proclaimed Miss Argentina
and her photo was published in the newspaper. She was portrayed wearing a very
exotic, sexy and trendy outfit, a Mantón de Manila used as a dress. The long Span-
ish shawl she was wearing as a dress conveyed Spanish and Mexican reminiscences.
In the 1920s and 1930s it was widely famous and expressed exoticism and cosmo-
politanism62. Besides publishing this photo of Miss Argentina, Crítica wrote several
articles describing her and interviewed the winner. In one article she was described
as the embodiment of porteño girls, a synthesis of the city. When interviewed, she
said she liked to sew, play the piano, read, practice sports, go to the cinema and drive
a car. Her highest ambition was to become a famous film star63.
Through the photos, descriptions and statements made by the winner, Crítica
put much emphasis on the modern traits of Miss Argentina. The exoticism and
cosmopolitanism of her outfit, her description as the synthesis of the city and her
hobbies and tastes made her the perfect embodiment of a modern young girl of
the city of Buenos Aires, conveying the idea of an urban and global modernity.
In fact, there was nothing that indentified the winner as Argentine. This was the
female image that the judges of the contest selected to represent Argentina in the
1930 Miss Universe contest, competing against 34 candidates from all over the
world. Crítica’s version of a national femininity portrayed the winner as a com-
mon person in the guise of an exotic, modern and global figure.
62 Hershfield, J. Imagining la Chica Moderna: Women, Nation, and Visual Culture in Mexico,
1917-1936, Durham and London, Duke University Press, 2008, pp. 6, 150.
63 “Eugenia Vidal fue elegida Miss Argentina”, in Crítica, 3 August, 1930, p. 9.
347
In 1932 Noticias Gráficas proclaimed its Miss Argentina. After the narrow-
ing of the final candidates, the photos of the 12 finalists of each province were
published in the newspaper. Among them, there was the photo of Ana Rovner,
the most fashionable of the contestants – who was elected Miss Capital Federal
among 22 participants representing each barrio of Buenos Aires-, and one of Ale-
jandrina del Carmen Goñi, Miss Córdoba, who became the winner of the contest.
While Miss Capital Federal had short hair and wore a glamorous evening gown
and a feather tippet, Miss Córdoba wore what looked like a simple attire and had
long hair combed in two braids.
When interviewed by the journalists, Miss Argentina, daughter of a Basque
family, was portrayed as a modest yet trendy person. She stated she was a fan of
films and film stars and fond of playing tennis. She confessed that she did not use
make-up because she did not like it, and that she was compelled by the judges to
put on some lipstick before the final ceremony64. The journalist described her as «an
authentic beauty, a beauty of pure features […], the representation of the universally
renowned beauty of Argentine women». Her name and her physical characteristics
made the journalist portray her as an “evocation of a magnificent woman of the Ar-
gentine historical past”. Her face was described as the combination of all Argentine
graces65. Through this portrait of the winner, Noticias Gráficas stressed the modest
and authentic traits of Miss Argentina, – the genuineness of a native beauty type
which indeed did not need make-up to enhance her beauty – while also showing her
taste for modern habits, such as playing tennis and going to the cinema.
After the selection of Miss Argentina of 1932, the organisers of the contest
were required to send Miss Argentina abroad with the typical dress of the country,
as all the candidates had to parade with their “national costumes” in one of the
events organised by the contest, a ball in typical dresses. The issue was debated in
an article of Noticas Gráficas, where it was stated that
for sure, Miss Argentina will not be able to shine with any authentically typical
dress. As it is known, Argentina does not have such a typical attire. The outfit of
the chinita, which can be considered the only one that belongs to us, does not
have the necessary dissemination in the country as to consider it an expression
of our national customs. However, it is under consideration the possibility that
Alejandrina del Carmen takes the outfit of the chinita among her dresses to use
it in the typical dress ball66.
64 “Miss Argentina nos representará dignamente”, in Noticias Gráficas, 29 June, 1932, p. 14.
65 Ibidem.
66 “Miss Argentina parte mañana para Europa”, in Noticias Gráficas, 1 July, 1932, p. 9.
348
The figure of the china that the article mentioned was the loyal companion
of the gaucho, the national symbol of Argentina, who populated the Pampas.
She could be, as the gaucho, of mixed race, usually known as mestiza. She typi-
cally wore a simple cotton shirt, a loose dress and headscarf covering her shoul-
ders, and had long dark hair, groomed with two simple braids67. I could not trace
whether Miss Argentina ultimately wore this national costume, as the photos of
the participants to the Miss Universe contest of 1932 that I found in Argentine
and foreign newspapers only showed them dressed in evening gowns68. As far as
I could look into, both Misses Argentina, especially the one of 1930, ultimately
paraded in evening gowns, showing to the rest of the world their sophistication
and trendiness.
The debate whether there was a national costume and what it should be
showed the problems that Argentina had in constructing a female representation
of nationhood related with traditions rooted in the past. Clothing turned into
an important element in defining a national identity and gaucho garments were
accepted during this period as something that represented the typically national
and were used especially during carnival69. But the typically national did not have
an equivalent in female clothing. As stated above, none of the photos of the par-
ticipants or winners of the several beauty contests organised during this period
showed a mestizo woman nor women endorsing a mestizo outfit such as the one
of the china. National dresses were related to authentic cultural values rooted in
the past, which in Argentina’s case implied a rediscovery and praise of mestizo tra-
ditions. This vein was embodied by the gaucho figure and not by his companion,
the china.
3. Final remarks
In the context of post-war anxiety about national identity, a large number of
countries recruited beautiful women in the service of nation building through
beauty contests. In the case of Argentina, beauty contests were an arena to debate
over Argentina’s ideals of womanhood as well as its national identity. The con-
testants, whether Beauty Queens or Miss Argentina, defined the identity of the
Argentine beauty type. Regarding physical beauty, the contests encouraged a defi-
67 Masotta, C. Gauchos in the early 1900s: Argentine Photo Postcards, Buenos Aires, La Marca Edi-
torial, 2007.
68 “La proclamación de ‘Miss Universo 1932’”, in Mundo Gráfico, 10 August, 1932, p. 4.
69 Earle, R. “Nationalism and national dress in Spanish America”, in Roces, M.; Edwards, L. (eds.)
The Politics of Dress in Asia and the Americas, Eastbourne, Sussex Academic Press, 2007, pp. 163-81,
here pp. 174-75.
349
350
Ellen Zitani
[I]o amo la notte stellata, amo o il mare in tempesto, amo la rosa sbocciata: tutto
ciò che basta a sé stesso, che esprime nei nostri sensi la massima potenza o la mas-
sima bellezza o la più grandiosa vastità. E se amo una creatura viva gli è che trovo
in lei una somma d’emozioni umane…come tutto che ai nostri occhi palesa il
simbolo del mistero universo, come le stelle, come il mare, come il fiore70.
Made famous by her feminist anthem, Una donna, the author Sibilla Aleramo met
the young scholar, Lina Poletti, at the national meeting of the CNDI (Consiglio
Nazionale Donne Italiane) held in Rome, April 24-30, 1908. The women, almost
a decade apart in age, engaged in a two-year long romance well-documented in
their extensive correspondence71 and in Aleramo’s lyrical novel, Il Passaggio (1919).
Examining queer language through the lens of the five senses illuminates cer-
tain characteristics and understandings of the historical figures. The tangible terms
of touch, sight, hearing, taste and smell provide us with a window through which
to experience Sibilla’s same-sex desire in a way that respects the historicity of her
language. Easy terms for same-sex desire such as “lesbica” or “omosessuale” were
not used anywhere in the letters. In fact, the term “omosessualismo” was used
once and remains the only example of when their same-sex desire was named at
all72. Therefore this analysis examines the queer language Sibilla used to illuminate
her desire without assigning any modern labels to it.
70 Fondazione Istituto Gramsci, L’Archivio Sibilla Aleramo, Corr/999, 180. “Lettere di S.A. a Lina
Poletti”, fascicolo 1, by Aleramo, S., April 29, 1909. (Hereafter: FIG, Corr/999, 180).
71 The letters are housed at the Fondazione Istituto Gramsci in Rome. Alessandra Cenni edited and pub-
lished some of the letters between Aleramo and Poletti in Lettere d’Amore a Lina, Milano, Grafica Sipiel,
1982. This article makes use of both the published and unpublished letters, the majority of which were
written by Aleramo. Any mistakes from transcription are my own. I would like to thank Giovanna
Bosman and Cristiana Pipitoni at the Fondazione Istituto Gramsci for their gracious assistance.
72 Fondazione Istituto Gramsci, L’Archivio Sibilla Aleramo. Corr/999, 180 “Lettere senze date o
brani di lettere” Carte 184, Fascicolo 1, Lettera 98, by Sibilla Aleramo, N date.
The above passage provided the inspiration for this analysis; because the let-
ters themselves are poetic and filled with metaphor and references to nature, a
more literary, rather than traditionally historical analysis proved appropriate. In
a world where sexuality and gender identity were not confined by labels, lesbian
desire appeared passionate, emotional, tangible, expressible, treasured, sometimes
public and sometimes private.
1. Sight
«Ma ti rivedrò nevvero? Ancora sognerò il più ineffabile dei sogni, le mie pupille
nelle tue pupille…»73
352
2. Hearing
Come stanotte il mare respira ampio e calmo. Trema su di lui il bagliore lunare. La
senti tu? Puoi tu, stasera stessa, a traverse tanto spazio, immaginare che ti tendo
le braccia da questa terrazza sospesa nel silenzio, e vivere lo stesso mio desiderio
delirante? … E la tua voce che s’accorda col mormorio dell’onda…78
78 Aleramo, S. Lettere d’Amore, p. 30-31 Written from Santa Marinella, June 2, 1909.
79 FIG, Corr/999, 180, Sibilla Aleramo, April 6, 1909.
80 Aleramo, S. Il Passaggio, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 68. First edition published in 1919.
81 FIG, Corr/999, 180, by Sibilla Aleramo, March 10, 1909.
82 Cenni, A. Introduction to Lettere d’Amore a Lina cit., p. 17.
353
The senses of smell and taste are intrinsically connected as smell heightens
taste. Sibilla used scent much more than taste in her letters as she wrote metaphors
based on nature for the passion between the two women; the flowers, air and the
breeze all played a role in the delights of the homoerotic nose.
Sibilla described scent time and again with the word “fragranza”. As Lina
touched her, the fragrance of the budding springtime shrouded Sibilla: «[Tue
mani] passano sulla mia fronte come vento di primavera. E tutta la fragranza e
tutto lo spasimo della primavera mi avvolgono …»85 Sibilla expressed the sensa-
tion of Lina’s touch through a description of scent. The fragrant spring air is a
metaphor for the way her body felt in the presence of her lover.
Perhaps the most alluring and familiar scent evoked in the letters is that of
pine. For many Italians, the pine groves indicate summer, escaping the heat in
their shade next to the ocean. Pine groves stir memories of young love and carefree
times. Sibilla imagined Lina in a pine grove near Ravenna. «Un saluto per te che
giungi alla tua pineta nell’alba d’aprile! E bianchi spini ti dicano l’ebbrezza della
vita, fragranza e strazio. Mia fanciulla, ho un desiderio folle di raggiungerti così,
di venire con te a respirare la giovinezza marina…»86 Even a casual reference to the
pine grove is not overlooked – as it is an important place in Lina’s heart: «Che cosa
fai ora? Sei china tu pure al tavolo? O sogni nella tua selva fragrante?»87
Taste, for Sibilla, had a similar effect as scent. Sibilla experienced the joy of tast-
ing Lina’s lips, and craved for more. «Voglio ancora cogliere sulle tue labbra il sapore
della gioia, voglio avere da te il senso pieno della vita, una volta….»88 The noticeable
absence of references to taste perhaps indicate it’s power as a taboo. While Sibilla
83 Fondazione Istituto Gramsci. L’Archivio Sibilla Aleramo. Corr/1000. “Appunti, note, copie di
lettera di S.A. per l.P.” Fascicolo 2, by Sibilla Aleramo, March 17, 1910.
84 Fondazione Istituto Gramsci. L’Archivio Sibilla Aleramo. Corr/1000, “Appunti, note, copie di
lettera di S.A. per L.P.” Fascicolo 2, by Sibilla Aleramo, 1909. No day or month.
85 Aleramo, S. Lettere d’Amore, p. 31-32. Written on June 2, 1909.
86 FIG, Corr/999, 180, Sibilla Aleramo, March 31, 1909.
87 FIG, Corr/999, 180, Sibilla Aleramo, June 2, 1909.
88 FIG, Corr/999, 180, Sibilla Aleramo, June 2, 1909.
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often used the words “dolcezza” and “amarezza”, I read these adjectives as more
emotional characteristics rather than anything that indicated a deeper queer desire.
4. Touch
Noi siamo … nella stanza chiusa. Io sono distesa sul piccolo letto, e ho i capelli
sparsi sul guanciale e gli occhi socchiusi. Tu mi parli, col tuo volto chino sopra
il mio, volto di rosa fiammante e le mani toccano lievi l’arpa della mia chioma89.
For Sibilla, touching is blessed, restful, motherly and erotic. In the above quo-
te, one can imagine Sibilla’s senses heightened, as Lina hovered over her in bed. Si-
billa no doubt felt her lover’s weight on her body as she took in the delicate aroma
of Lina’s skin. She felt Lina’s fingers in her hair and saw Lina’s rosy face descending
towards her own. The touching was sensual and erotic, musical and ethereal.
However, Sibilla often referred to Lina as a young girl, or her daughter and
it is not surprising therefore to find a passage where the touch of the two women
resembled that of mother and daughter. In fact, some historians believe that the
mother-daughter type of lesbian relationship was common in the late 19th centu-
ry90. Sibilla wrote: «… qualcosa in fondo a te tremava e anche scongiurava, per
tua madre, per te stessa, per la vita, Lina. E avrei voluto prendervi fra le mie brac-
cia come tenni il mio bimbo, cullarti, guarirti, ritrovarti più bella e più forte dopo
la prova.»91 Sibilla begged Lina to let her love her as a mother would a child. She
knew that there would be joy and pleasure in this intimacy for them both: Lina,
the ever strong younger girl who nonetheless still needed to be cared for, and Si-
billa, the woman who had given up her beloved son to escape an abusive husband.
In each other’s arms, this mother-daughter caress was both erotic and nurturing.
Conclusion
Cogliendomi in quest’ora mi sottometta e mi consoli, nudità contro nudità, bri-
vido sterile e vasto, ch’è l’ora, i sensi finalmente son disciolti, godono essi e spasi-
mano non più asserviti alla natura, natura essi stessi ineffabilmente, e oblio e follia
hanno ali sospese d’aquila92.
355
The above quote comes from Sibilla Aleramo’s Il Passaggio, in a chapter about
Lina Poletti titled, “La Favola”. To Sibilla, Lina was indeed a fairytale and the
women’s five senses melted into a warm and erotic mixture, communally work-
ing together toward the heightened sensations of mutual love. They created these
sensations through their bodies and words, through a look, their voices, through
touch, scent, and occasionally taste.
Analyzing Sibilla’s letters to Lina through a queer analysis of the five senses
provides a deeper understanding of the intimacy between the two women. This
method proved especially effective because the letters were poetic and full of meta-
phor, as if the two women shared a special language not intended for any other
reader. Yet, because the letters were saved, and Aleramo published a chapter about
their love affair, it is possible that this already famous author may have been aware
that the act of writing about same-sex desire could bring to the forefront the hid-
den nature of early-twentieth-century queer desire as she did with the cause of
feminism through her book, Una donna. The erotic and the intimate were made
public through this literary exercise. More than 100 years ago these women loved
each other, and their ways of loving are better understood by us today through this
exploration of sense memory.
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1. Lo stato dell’arte
Gli studi storici sulla violenza di genere, in particolare quella inerente i reati ses-
suali, non hanno trovato finora in Italia molta accoglienza. Con alcune rilevanti
eccezioni1, che mostrano come da poco più di una decina d’anni il tema − legato
soprattutto agli aspetti culturali e mentali inerenti il sesso, la sua disciplina giuri-
1 Mi limito, senza alcuna pretesa di esaustività, a citare alcuni studi, che costituiscono una base di
partenza scientifica per chiunque voglia interessarsi all’argomento: Genesis, 2010, 2, dedicato a “Vio-
lenza”, a cura di Donato, M.C.; Ferrante, L.; Pelizzari, M.R. “Il corpo nei racconti di stupro. Ma-
schile/femminile in alcuni processi del primo Novecento”, in Ead. (a cura di) Il corpo e il suo doppio.
Storia e cultura, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino 2010, pp. 101-118; Arrivo, G. Seduzioni, pro-
messe, matrimoni. Il processo per stupro nella Toscana del Settecento, Premessa di Lombardi, D., Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2006; Ead. “Raccontare lo stupro. Strategie narrative e modelli
giudiziari nei processi fiorentini di fine Settecento”, in Filippini, N.M.; Plebani, T.; Scattigno, A. (a
cura di) Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, Roma, Viella, 2002,
pp. 69-86; Guarnieri, P. L’ammazzabambini. Legge e scienza in un processo di fine Ottocento, Roma-
Bari, Laterza, 2006; Ead. “’Dangerous Girls’, Family Secrets and Incest Law in Italy 1861-1930”, in
International Journal of Law and Psychiatry, 21, 1998, pp. 369-383; Ead. “L’incesto scandaloso: legge
e mentalità nell’Italia unita”, in Passato e Presente, 58, 2003, pp. 45-68. Lucrezi, F.; Botta, F.; Rizzelli,
G. Violenza sessuale e società antiche. Profili storico-giuridici, Lecce, Edizioni Del Grifo, 2003. Sul
dibattito pubblico in Italia, relativo ai comportamenti sessuali, tra Ottocento e Novecento, si veda
Wanrooij, B.P.F. Storia del pudore. La questione sessuale in Italia 1860-1940, Venezia, Marsilio, 1990.
Per un’indagine sulla nozione di pubblico scandalo, si veda Rizzo, D. Gli spazi della morale. Buon
costume e ordine delle famiglie in Italia in età liberale, Roma, Biblink Editori, 2004; e Id. “L’impossi-
bile privato. Fama e pubblico scandalo in età liberale”, in Quaderni storici, 2003, 112, pp. 215-242.
dica, le sue pratiche nonché il dibattito pubblico su temi come “onore”, “pudore”,
“omosessualità” e simili − sta interessando un numero sempre maggiore di stu-
diose e studiosi di storia. Nell’ambito più generale dei Women’s Study, inglesi e
francesi soprattutto, risalgono almeno già alla fine degli anni Settanta del secolo
scorso i contributi, che si sono soffermati in particolare sulla violenza sessuale in
vari contesti storici e geografici2.
Di recente, nuove risorse bibliografiche ed elettroniche hanno arricchito il
panorama scientifico. Stefan Blaschke, che ha messo insieme una vasta bibliografia
dedicata alle violenze sessuali nella storia, dal titolo A History of Rape: Bibliography,
ha anche realizzato un blog tematico The History of Rape Blog3. Si tratta di una sorta
di bibliografia globale della violenza, intesa come work in progress, senza limiti di
tempo né di luogo, né di approccio disciplinare e tematico. Si considerano non
solo gli aspetti storici della violenza sessuale, ma è compresa anche la letteratura
che affronta queste tematiche nell’ottica delle scienze umane e sociali: dalla filo-
sofia alla sociologia, dalla psicologia alla letteratura, dalla medicina alla crimino-
logia, dall’arte alle forme di rappresentazione della violenza nei mass media. Le
opere prese in considerazione abbracciano “temi di confine”, in quanto aprono la
riflessione sulla violenza di genere nella storia a tematiche più generali: corpo/cor-
poreità; genere e militarismo; violenza sessuale in tempo di guerra; considerazioni
teoriche sulla mascolinità, sul rapporto maschile/femminile, nonché sulle figure,
le immagini e le costruzioni sociali relative ai generi.
2 Molti degli studi sulla tematica criminalità e gender possono fornire interessanti spunti per in-
dagini storiche: Brownmiller, S. Against our will: men, women and rape, Harmondsworth, Penguin,
1975; Chesnais, J.C. “Il sesso e la violenza: storia della violenza carnale”, in Id. Storia della violenza
in Occidente dal 1800 a oggi, trad.it. di Serra, A., Milano, Longanesi, 1982; Shorter, E. Storia del
corpo femminile, trad.it. di Manzari, M., Milano, Feltrinelli, 1984; Tomaselli, S.; Porter, R. (eds.)
Rape: an Historical and Social Enquiry, Oxford, B. Blackwell, 1986; Corbin, A. (a cura di) La vio-
lenza sessuale nella storia, Roma- Bari, Laterza, 1992; Arnot, M.L.; Usborne, C. (eds.) Gender and
Crime in Modern Europe, London, UCL Press, 1999; D’Cruze, S. (ed.) Everyday Violence in Britain,
1850-1950: Gender and Class, Harlow, Longman-Pearson Education, 2000; Vigarello, G. Storia della
violenza sessuale. XVI-XX secolo, trad.it. di Folin, A:, Venezia, Marsilio, 2001; Davidoff, L. “Kinship
as a categorical Concept: a Case Study of Nineteenth Century Siblings”, in Journal of Social History,
39, n. 2, 2005, pp. 411-428; Palk, D. Gender, crime and judicial discretion: 1780-1830, Woodbridge,
the Royal Historical Society, Boydell press, 2006; Sabean, D.W.; Teuscher, S.; Mathieu, J. (eds.)
Kinship in Europe: Approaches to Long-term Development (1300-1900), Oxford, Berghahn Books,
2007; Bourke, J. Storia della violenza sessuale dal 1860 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009; Cavina, M.
Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Milano-Bari, Laterza, 2011.
3 Se ne veda la segnalazione di Ermacora, M.; Tiepolato, S. in DEP, 2011, 16, p. 145 ss. La biblio-
grafia è scaricabile all’indirizzo http://de.geocities.com/history_guide/horb/index.html.
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4 Il reato di stupro prevedeva varie distinzioni: si andava da quello semplice, avvenuto con il pieno
e libero consenso della vittima, a quello qualificato, quando il consenso era stato estorto con la se-
duzione, grazie all’inganno o con una promessa di future nozze; e infine quello violento, perpetrato
attraverso l’uso della forza.
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magine di corpi mutilati. Immagine che non rispecchia il punto di vista di coloro
che le praticano, «per i quali le mutilazioni sessuali sono manipolazioni corporee
che consentono la realizzazione di un canone di bellezza ideale perseguito dagli
appartenenti alle comunità etniche». Per tentare di chiarire la complessità di tali
pratiche, superando un punto di vista esclusivamente occidentale, è indispensabile
che psicologia, antropologia e sociologia oltrepassino, come del resto si sta facen-
do, i limiti angusti dei propri territori disciplinari.
Il dialogo interdisciplinare della sezione si conclude con lo sguardo di Beatrice
Salvatore sull’arte che parla di violenza, e di Vitulia Ivone, che affronta il tema
della violenza nel rapporto genere/ diritto. Salvatore analizza, infatti, le modalità
con cui, attraverso le immagini e un linguaggio a volte crudo, anche disturbante,
l’arte ci ha fatto rivivere molteplici aspetti della violenza: di genere o politica, raz-
ziale o domestica. Ai linguaggi dell’arte si aggiungono, a completare e arricchire il
discorso, quelli del diritto. Ivone si sofferma a valutare il mutamento che si verifica
nella società italiana, attraversata da alcune novità in modo sempre più incisivo: la
parità tra i coniugi, tra loro e verso i figli; l’introduzione della potestà “genitoriale”;
il superamento della discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio rispetto ai
figli legittimi. Grazie a queste innovazioni, si è aperto un forte dibattito nel nostro
Paese «fino a collocare, la donna, nelle relazioni personali, sociali e giuridiche, in
una relazione di eguaglianza con l’uomo, il cui ruolo di potere incominciava a
indebolirsi sempre di più».
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Arianna Bonnini
5 Sul tema della violenza sessuale nelle diverse epoche storiche cfr. almeno Corbin, A. (présenté
par) Violence sexuelles, Paris, Éditions Imago, 1989, tr.it. di Garin, M. La violenza sessuale nella storia,
Roma-Bari, Laterza, 1993; Vigarello, G. Storia della violenza sessuale, XVI-XX secolo, Venezia, Mar-
silio, 2001; Lucrezi, F.; Botta, F.; Rizzelli, G. Violenza sessuale e società antiche. Profili storico-giuridici,
Lecce, Edizioni Del Grifo, 2003; Bourke, J. Rape. A History from 1860 to the Present Day, London,
Virago Press, 2007, tr.it. di Cavallo, M.G.; Fantoni, L.; Falcone, P. Stupro. Storia della violenza
sessuale dal 1860 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009.
6 A questo proposito, il ciclo di incontri promosso dal Comitato contro la violenza alle donne del
Dipartimento di Discipline Storiche assieme alla Società Italiana delle Storiche La violenza sessuale
contro le donne ieri e oggi: un crimine negato (Bologna, 5 marzo-11 aprile 2008); e il convegno inter-
nazionale organizzato dal Comitato del decennale della fondazione dell’Università Milano-Bicocca
Conflitto o violenza? Trasformazioni delle identità di genere e violenza contro le donne (Milano, 8-9
maggio 2008).
7 Difatti, la tematica dell’abuso sessuale contro la donna longobarda viene solo parzialmente ana-
lizzata in: Guerra, Medici, M.T. I diritti delle donne nella società altomedievale, Roma, Edizioni
qualsiasi studio sull’altomedioevo risente della nota penuria delle fonti, la diffi-
coltà di reperire notizie in merito a episodi di abuso sessuale a danno delle donne
longobarde cresce a dismisura, con ogni probabilità perché simili casi dovevano
essere gestiti nel modo più riservato possibile (senza lasciare quindi traccia docu-
mentaria) per evitare di esporre pubblicamente la vittima e la sua famiglia. Difatti,
a fronte di qualche centinaio di documenti pubblici e privati di età longobarda,
in appena un paio si rammentano processi avvenuti contro stupratori. Risalenti
entrambe alla seconda metà del IX secolo e prodotte in ambito centro meridionale
(l’una a Montecassino, l’altra a Salerno), queste carte ci consegnano le testimo-
nianze di due donne, l’esperienza delle quali permette di verificare cosa significasse
essere state oggetto di un atto, imposto con la forza, disonorevole e umiliante. I
documenti (di cui in questa sede analizzeremo solo quello salernitano, più ricco di
dettagli)8 non si limitano a riportare la voce delle vittime, ma consentono anche
di accertare l’effettiva applicazione della norma codificata per il reato di violenza
carnale. A interrogativi quali il tipo di condanna inflitta all’aggressore, la liceità di
un eventuale matrimonio convenzionalmente definito riparatore, la consegna di
un indennizzo alla donna violentata, si darà risposta innanzitutto analizzando le
specifiche disposizioni contenute nel corpus legislativo longobardo; in un secondo
momento invece indagheremo se gli iudices ricordati nelle cartulae si attenessero a
quanto il codice prevedeva o, al contrario, se sentenziassero in forme di arbitrato
o consuetudinarie9. Come abbiamo detto, punto di partenza della nostra analisi
saranno le leggi longobarde raccolte nel cosiddetto e noto Editto di Rotari del 643
nel quale venne messa per iscritto la massima parte delle cawarfidae, cioè delle
norme di stirpe fino ad allora trasmesse oralmente10. Di carattere “aperto”, l’Editto
venne incrementato da diversi monarchi fino al IX secolo, rispecchiando le evo-
luzioni culturali, sociali e istituzionali del regno longobardo (e del principato di
Benevento che ne fu l’erede), pur permanendo vigente un parallelo complesso di
consuetudini per regolare le questioni di minor rilievo.
Scientifiche Italiane, 1986; e Balzaretti, R. “‘These are things that men do, not women’: the social
regulation of female violence in Langobard Italy”, in Halsall, G. (eds.) Violence and Society in the
Early Medieval West, Woodbridge, The Boydell Press, 1998, pp. 175-192.
8 Codex Diplomaticus Cavensis, ediderunt Morcaldi, M.; Schiani, M.; De Stefano, S., I, Napoli-
Milano, Hoepli, 1873, doc. 106, p. 135.
9 In merito alla percezione del reato di violenza sessuale nelle fonti narrative si rimanda a: Bonnini,
A. “Le donne violate. Lo stupro nell’Italia longobarda (secoli VI-XI)”, in Nuova Rivista Storica (in
corso di stampa).
10 Nel presente lavoro, le citazioni (indicate con il nome del re legislatore e il numero del titolo di
legge) sono tratte dalla versione italiana con testo latino emendato a fronte Le leggi dei Longobardi.
Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di Azzara, C.; Gasparri, S., Roma, Viella,
2005.
366
11 Rotari 31, 186, 187, 195, 205-207; Liutprando 22, 141; Ratchis 10.
12 Arechi 12.
13 Si rinvia almeno a Venturini, C. “Legislazione tardoantica romana dopo Costantino in materia di
stuprum, adulterium e divortium”, in Comportamenti e immaginario della sessualità nell’alto medioevo,
Spoleto, Cisam, 2006, Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, LIII, pp.
177-214 e in particolare alle pp. 184-190.
14 Ivi, pp. 188-190.
15 Liutprando 22.
16 Liutprando 141.
17 Rotari 195.
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re18. Anche nei documenti il caso di stupro va ricavato dal contesto. In assenza di
un lessico giuridico specifico per questo tipo di reato, i notai misero per iscritto ciò
che le vittime, o i loro rappresentanti, riportavano del fatto. Attraverso locuzioni
come «apprendere […] biolentiare […] fornicare»19 o «in birtute conpreendere
[…] et in terra […] iactare et adulterare»20 veniva espresso il rapporto sessuale
consumato tra la vittima e l’aggressore rendendo la prepotenza fisica con cui alla
donna era stato imposto quell’atto.
Dal momento che presso i longobardi per ogni reato era corrisposta una com-
posizione in denaro, sulla base dell’entità di quanto richiesto allo stupratore si
può ritenere che l’abuso sessuale fosse stimato tra le colpe più gravi. Difatti, che
si giungesse o meno a un accordo nuziale post violentiam, l’aggressore avrebbe
dovuto consegnare 900 solidi, somma riservata in generale a quegli episodi che
fomentavano disordini sociali e alteravano una situazione di pace21. Difatti, i
parenti della donna stuprata avrebbero ricercato verosimilmente la faida, ossia
tentato di vendicarsi del disonore gettato sull’intero nucleo familiare ricorrendo
alle armi22. La composizione sarebbe servita sia a demotivare quanti avevano in
animo di commettere un simile reato sia ad acquietare gli animi dei familiari
della vittima risarcendoli con metà dei 900 solidi previsti (l’altra metà spettava al
fisco come riconoscimento dell’autorità regia quale garante della giustizia)23. Dal
momento che la donna longobarda, priva per sua natura della forza necessaria a
difendersi e quindi bisognosa di protezione, era necessariamente sottoposta alla
tutela (definita mundio) di un uomo (di solito il padre, il fratello o il marito), la
somma che le sarebbe spettata in qualità di parte lesa veniva consegnata al cosid-
detto mundoaldo, rappresentante legale e amministratore dei beni della stessa.
In genere il mundoaldo si limitava a incassare e gestire la composizione, e solo
quando la vittima di stupro fosse stata una donna nubile e il mundio esercitato
da un suo consanguineo24, costui avrebbe potuto imporle di sposare il colpevole
18 Rotari 186.
19 Cuozzo, E.; Martin, J.M. «Documents inédits ou peu connus des archives du Mont-Cassin
(VIIIe-Xe siécle)», in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Age, 103/1, 1991, doc. 38 nell’82,
p. 115 e 210.
20 Codex Diplomaticus Cavensis cit.
21 A esempio, Rotari 8. La violenza sessuale a danno di monache e di donne non libere (a esempio,
le ancillae) e le relative punizioni e conseguenze sono argomentate in Bonnini, A. “Le donne vio-
late…” cit.
22 Il tentativo da parte dei legislatori di allontanare il pericolo che le famiglie praticassero la ven-
detta privata è enunciato principalmente in Rotari 74.
23 Rotari 186, 187.
24 Rotari 195, Liutprando 120. Cfr. Liutprando 12.
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per supplire al disonore inferto a lei e all’intera famiglia. È presumibile che questa
soluzione sarebbe stata accettata anche dall’aggressore: dal momento che si tende
a pensare che gran parte degli abusi sessuali avvenisse per impulso di libidine
e istinto di sopraffazione maschile, il matrimonio riparatore avrebbe evitato al
reo o, nel peggiore dei casi, di morire per mano dei parenti della donna violata,
o di pagare (qualora, sfumato il tentativo di trovare un qualche tipo di accordo
che accontentasse le parti coinvolte, il mundoaldo avesse denunciato il fatto alle
autorità) la composizione prescritta. Confrontati con quelli ascrivibili alla mag-
gioranza dei reati (raramente superiori ai 100 solidi), i 900 indicati per la violenza
sessuale dovevano essere una somma decisamente molto alta e di cui pochi indi-
vidui avrebbero potuto disporre. Per chi non era in grado di pagare era previsto
l’asservimento25. Difatti, nell’anno 894 un tale Teodelgardo di Nocera, colpevole
di stupro, venne consegnato dai giudici alla famiglia della vittima poiché privo
della ricchezza con cui riscattare la propria colpa. Il documento in questione, già
richiamato in precedenza, oltre a testimoniare una sostanziale corrispondenza tra
le disposizioni legislative e la loro applicazione, permette anche di sentire la voce
della donna violentata. Accompagnata dal suo mundoaldo Adelfrido, Adelgisa si
era presentata ai giudici presso il palazzo principesco di Salerno accusando Teo-
delgardo di averla «in terra […] iactata et adulterata». Sopraffatta dalla forza di
Teodelgardo, Adelgisa venne messa nelle condizioni di subire un rapporto sessuale
che, come la donna sostenne, ne compromise la virtus. Presumendo che fosse nu-
bile (e, verosimilmente, illibata) al momento dello stupro, è ipotizzabile che forse
Adelgisa avesse inteso denunciare, attraverso la sua deposizione, anche la perdita
della verginità. A ogni modo, la virtus che Adelgisa riteneva pregiudicata di certo
coincideva con il disonore che la violenza attirava su di lei e sulla sua famiglia e
di cui vi è traccia anche nelle leggi, che a questo proposito parlano di iniuria26.
Sulla vittima di stupro, come accade ancora oggi, poteva rimanere pure il dubbio
che avesse concorso al reato provocando l’aggressore; senza contare che il rapporto
subito e magari un’eventuale gravidanza erano capaci di dissuadere i potenziali
mariti dal chiedere la donna in sposa. Tornando al processo, dopo aver confessato
ai giudici di essere colpevole dello stupro della donna e di non possedere «tanta
[…] res aut substantia» con cui far fronte alla pena, Teodelgardo venne consegnato
«in manu […] Adelgise et Adelfrid».
Chiuso il caso, non è dato sapere quale sorte avesse atteso Adelgisa dopo
l’accaduto. Ciò che contava per la legge era impedire che la donna, soggetto de-
bole e perciò bisognoso di difesa, garante della continuità generazionale per la
369
sua capacità socialmente utile di procreare, elemento di rilievo nel sistema so-
cio-patrimoniale delle famiglie, subisse maltrattamenti e soprusi pericolosi per la
conservazione della pace e dell’ordine pubblico. Gli obiettivi del legislatore erano
evitare le faide tra nuclei parentali e rendere giustizia alla donna condannando il
reo al versamento dell’indennizzo dovutole. La questione in merito al futuro della
vittima di stupro riguardava le parti in causa, alle cui decisioni la legge si sarebbe
opposta solo qualora la donna fosse stata obbligata a unirsi a un uomo (l’aggres-
sore) da lei non desiderato. È presumibile che gli episodi di violenza sessuale che
non finivano davanti ai giudici venissero gestiti in modo arbitrario, ossia tentando
di arrivare a un’intesa che rendesse superfluo ricorrere alle autorità competenti.
Verosimilmente, lo status sociale, quello civile, la disponibilità economica e gli
interessi dei contendenti sarebbero stati gli elementi decisivi di qualsiasi accordo.
Da voci isolate come quella di Adelgisa possiamo apprendere cosa signifi-
casse subire una violenza sessuale per una donna longobarda. La perdita della
virtus, intesa soprattutto come reputazione, avrebbe nuociuto sia a una donna già
maritata (o vedova) sia nubile. A quest’ultima, in particolare, l’accaduto avrebbe
forse arrecato maggior danno. Il fatto di essere stata violata avrebbe potuto infatti
precludere alla donna la possibilità di sposare un uomo diverso dall’aggressore,
costringendola al nubilato, oppure a unirsi a un individuo di condizione giuridica
inferiore (a esempio, un servo), a dedicarsi alla preghiera o magari, in casi estremi,
perfino a mercificare il proprio corpo. Lo stupro sarebbe stato causa di imbarazzo
e disonore, di dissoluzione dei progetti familiari, di contesa armata ed economica
tra le parti, e motivo perché la comunità mal giudicasse una donna, oggetto suo
malgrado di un interesse sessuale violento, proprio per quella «virtus conpreensa».
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Premessa
La prospettiva con la quale la Chiesa tratta il problema scabroso della violenza
di cui sono vittime le donne è certamente, a giudicare dai documenti ufficiali, di
netta condanna e forte riprovazione. E tuttavia accade che le prescrizioni e i divieti
canonici siano ignorati e/o trasgrediti proprio dagli ecclesiastici, da quei soggetti
che dovrebbero rispettarli e farli rispettare. Non bisogna dimenticare, infatti, che
nella vicenda delle monacazioni forzate, condannate senza esitazione dai padri
conciliari a Trento, talora protagonisti negativi, ovvero complici delle famiglie che
vogliono a tutti i costi “sistemare” la propria figliola in monastero o in convento,
sono proprio alcuni sacerdoti e religiosi, che magari perseguono fini tutt’altro che
edificanti e nobili, se non addirittura inconfessabili. La “sistemazione” nei mona-
steri e nei conventi non sempre è sicura: Erasmo da Rotterdam, nei Colloquia fa-
miliaria, scritti tra il 1497 e il 1533, ci ricorda che «nei conventi la verginità corre
spesso gravi pericoli»27. Il grande umanista cristiano evidentemente si riferisce ai
tempi normali. Ma si sa che, durante i rivolgimenti politici e sociali, la clausura era
violata e le monache violentate: di episodi del genere è piena la storia.
Esiste, poi, uno spazio nel quale la violenza psicologica, che può tradursi e
talvolta si traduce in violenza fisica, è addirittura riservata ai sacerdoti secolari e
regolari che amministrano il sacramento della riconciliazione e che, abusando del
27 da Rotterdam, E. I colloqui, traduzione dal latino e note a cura di Brega, G.P., Milano, Feltri-
nelli,1967, p. 40.
loro potere, possono indurre le penitenti a pratiche sessuali illecite. I manuali per
confessori – ma anche le costituzioni sinodali provinciali e diocesane – parlano,
in questi casi, di sollicitatio ad turpia. È bene ricordare che la Chiesa prevedeva la
scomunica per coloro che obbligavano le ragazze a monacarsi e affidava addirittura
al tribunale dell’Inquisizione coloro che sollecitavano le penitenti a commettere
cose turpi.
Ma, mentre la letteratura sulla vita monastica femminile è piuttosto consi-
stente, non possiamo dire altrettanto per quella relativa alle pratiche sessuali con-
nesse con il sacramento della confessione. Anche il romanzo si è interessato al
tema delle monacazioni forzate: ci riferiamo in particolare alla Storia di una capi-
nera di Giovanni Verga (1870). Negli ultimi tempi, la cinematografia ha dedicato
qualche attenzione all’argomento scabroso degli abusi sessuali commessi in istituti
religiosi: si pensi al film The Magdalene Sisters di Peter Mullan, il regista scozzese
cattolico che ha portato, nel 2002, sugli schermi l’amara vicenda delle ragazze
irlandesi che, avendo “peccato”, venivano rinchiuse, con il consenso dei loro geni-
tori o parenti, in quei “penitenziari” gestiti da suore che erano i Magdalene, dove
erano obbligate a espiare una colpa che, in molti casi, non avevano commesso,
essendo state vittime di abusi sessuali. Per le ragazze più sfortunate, la violenza
continuava anche all’interno del riformatorio, perché qualche sacerdote o addirit-
tura prelato, complici le suore che gestivano l’istituto, si avvaleva dei loro “servigi”.
La Chiesa si è trovata, dunque, nella condizione imbarazzante di dover con-
statare che talora le insidie maggiori alle donne provengono dal suo stesso seno,
ovvero da suoi rappresentanti, da chierici e religiosi, tristi protagonisti di episodi
boccacceschi, che, però, non sono un’invenzione dello scrittore di Certaldo e che
si trovano nella realtà prima ancora che nel Decameron28.
28 Ó Cuilleanáin, C. Religion and the Clergy in Boccaccio’s Decameron, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1984.
372
una società la cui concezione dell’onore familiare pone in primo piano l’integrità
fisica delle donne29.
29 Zarri, G. Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, il Mulino,
2000, p. 28.
30 von Nettesheim, H.C.A. Della nobiltà ed eccellenza delle donne, Torino, Aragno, 2007, pp. 135-
136.
31 Medioli, F. L’«Inferno monacale» di Arcangela Tarabotti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, p. 35.
32 Ibidem.
373
Alcune si fanno Monache per timor del Padre, overo de Parenti, overo per im-
portunità loro. Altre a mera persuasione de parenti interessati, overo di Monache
senza spirito, senza sapere ne pensare quello che faccino. Altre mosse da leggie-
rezza in deliberar di farsi Monache, e semplicemente si ritrovano di haverlo detto
à Genitori, ma poi se ne pentono, ma come timide non ardiscono di ridirsi,
temendo apportare disgusto alla casa; e per non mostrarsi instabili; e così entrano
in Monastero sconsolate, disperate, e immerse in mille passioni, che le tormenta-
no, e se vivono tal’hora tutto il tempo di vita inquiete. […] Alcune altre si fanno
Monache per fuggire le fatiche, e travagli di questa vita, e in particolare la povertà
che le travaglia. Altre, perché sono brutte di corpo, overo patiscono difetti corpo-
rali. Altre, perché non hanno dote da maritarsi secondo lo stato loro, overo come
vorrebbero, e non entrano per servire a Dio, e per loro salute33.
Perbenedetti ci ricorda, tra l’altro, che alcune si fanno monache «perché sono
brutte di corpo, overo patiscono difetti corporali». Arcangela Tarabotti è “bellina
e zoppa” e forse la zoppia la condanna vieppiù alla clausura monastica. All’inizio
del XX secolo, Nicola Monterisi, arcivescovo di Salerno (1929-1944), si scaglia
contro una mentalità diffusa nel Mezzogiorno, che vede protagoniste negative le
mamme, «certe madri che quando hanno un figlio o figlia storpio o difettoso lo
vogliono mandare in chiesa per farli prete o bizzoca, e poi sono i primi a lagnarsi
delle bizzoche e di certi preti»34.
2. La «sollicitatio ad turpia»
La sollicitatio ad turpia è – come si legge nelle istruzioni manoscritte dell’Inqui-
sizione di Modena, redatte prima del 1608 – il reato di «quei confessori, i quali
nell’atto della confessione tentassero donne o sollecitassero a peccato carnale o
ad atti osceni»35. Per cercare di estirpare l’abuso, la Chiesa, nel corso del tempo,
33 Synodus dioecesana Ecclesiae Venusinae ab […] D. Andrea Perbenedicto […], episcopo Venusino
habita anno Domini MDCXIIII […], Venetijs, apud Evangelistam Deuch., 1620, p. 439.
34 Monterisi, N. Trent’anni di episcopato nel Mezzogiorno (1913-1944). Memorie, scritti editi ed
inediti, a cura di De Rosa, G., Roma, AVE, 1981, p. 41.
35 Prosperi, A. Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996,
p. 516.
374
è intervenuta a più riprese: innanzitutto con la bolla Cum sicut nuper, conosciuta
come bolla Contra sollicitantes, pubblicata da Paolo IV Carafa il 18 febbraio 1559,
che concedeva all’inquisitore di Granada il potere di giudicare quelli che usavano
la confessione dei peccati come occasione per rapporti sessuali. Poco tempo prima,
il 5 gennaio 1559, lo stesso Paolo IV aveva pubblicato la bolla con la quale arruo-
lava i confessori al servizio dell’Inquisizione romana. In questa maniera, come ha
scritto Adriano Prosperi, «nacque una strategia di controllo della confessione che
subordinò palesemente e continuamente il tribunale di foro interno al tribunale
di foro esterno»36.
Il 16 aprile 1561, Pio IV, reiterando la bolla di Paolo IV, estese a tutta la
Spagna il potere degli inquisitori di trattare i casi di sollicitatio. Secondo alcuni
studiosi, non si sa quando il provvedimento, che in un primo momento fu limi-
tato alla sola Spagna, sia stato esteso ad altri Paesi cattolici. Secondo altri, l’uni-
versalizzazione della repressione avvenne con la costituzione del 30 agosto 1622,
con la quale Gregorio XV estese gli effetti della bolla di Pio IV a tutta la cristianità
cattolica. Contemporaneamente l’ambito nel quale il reato andava perseguito si
ampliò: non solo durante la confessione, ma anche «subito prima e subito dopo, o
in occasione o col pretesto della confessione, anche se poi questa non avviene; op-
pure senza confessione, nel confessionale o qualunque altro luogo in cui si ascol-
tano confessioni, o anche simulando la confessione per sollecitare i penitenti»37.
Nel XVIII secolo, i documenti più significativi sono una bolla del 1741 e un
decreto del 1745 di Benedetto XIV, nei quali si individuavano, tra l’altro, i casi di
sollecitazione reciproca tra confessore e penitente. Insomma, anche la penitente
poteva rivolgere proposte indecenti al confessore. Famoso il caso del padre Fran-
cesco Caracciolo, confessore nella basilica di San Lorenzo in Lucina tra il 1606 e
il 1607, che si sottrasse alla tentazione fuggendo «nella sua stanza, dove si fece una
disciplina di sangue»38.
Nell’Italia cinquecentesca, indipendentemente dalle misure proposte da
Roma, alcuni vescovi riformatori, come Gian Matteo Giberti, a Verona, e Carlo
Borromeo, a Milano, cercarono di limitare i danni provocati dagli “abusi” connes-
si col sacramento della penitenza che erano stati denunciati al concilio di Trento,
prendendo una serie di misure precauzionali, a cominciare dall’introduzione di
una barriera che impedisse il contatto tra confessore e donne penitenti. Pericoloso
era soprattutto il contatto visivo, la possibilità che il confessore e la penitente po-
tessero guardarsi senza filtri e senza inibizioni, per cui il semplice sguardo poteva
36 Ivi, p. 511.
37 Trombetta, P.L. La confessione della lussuria. Definizione e controllo del piacere nel cattolicesimo,
Genova, Costa & Nolan, 1991, p. 99.
38 Prosperi, A. Tribunali della coscienza cit., p. 542.
375
39 de Boer, W. “«Ad audiendi non videndi commoditatem». Note sull’introduzione del confessionale
soprattutto in Italia”, in Quaderni storici, n. 77, 1991, pp. 543-572.
40 De Luca, G. Introduzione alla storia della pietà, I: Archivio italiano per la storia della pietà. II:
Scrittori di religione del Trecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962, p. 82.
41 Sinodo di Matera celebrato da Sigismondo Saraceno, arcivescovo di Matera e Acherunto 1597, a cura
di Jeno de’ Coronei, N., Napoli, Di Falco e f., 1880, p. 9. Per un refuso il 1567 è diventato 1597.
42 Constitutioni sinodali della Chiesa metropolitana di Salerno. Publicate, et approvate nel terzo sinodo
diocesano […] celebrato dall’illustriss. […] Monsign. D. Gasparo Cervantes di Gaete […] l’anno
MDLXVII. […], in Roma, per li heredi di Valerio, et Aloisio Dorici, 1568, f. 28r.
43 da Siena, B. Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a cura di del Corno, C., Milano, Rusconi,
1989, vol. I, p. 628.
44 Delumeau, J. La peur en Occident. XIVe-XVIIIe siècles. Une cité assiégée, Paris, Fayard, 1978; trad.
it. La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino, SEI, 1979, p. 499.
45 Prosperi, A. Tribunali della coscienza cit., p. 527.
376
santo tribunale con il viso coperto «con decenza con un velo che non sia notevol-
mente trasparente, fatto di crespo, di lino, di lana, o per lo meno di qualche stoffa
di seta di colore modesto». Borromeo raccomanda di affidare la confessione delle
donne a preti anziani, presumibilmente più capaci di rintuzzare gli attacchi della
seduzione femminile. Delumeau ne conclude che «per la Chiesa cattolica di allora,
il prete è un essere costantemente in pericolo e il suo grande nemico è la donna.
Sotto questo aspetto non lo si sorveglia, ed egli non si sorveglia, mai abbastanza»46.
La sospettosità quasi puritana, che Gabriele De Rosa47 ha evidenziato con
riferimento alle prescrizioni sul contegno della donna, contenute nel Trattato della
visita pastorale del 1685 di Giuseppe Crispino, vescovo di Amelia, è, infatti, lar-
gamente presente e diffusa negli scritti degli uomini di Chiesa dell’età moderna.
Non è forse considerata la donna un inviato di Satana – proprio come l’ebreo, il
musulmano e l’idolatra48?
377
378
Federico Sanguineti
In una delle prime ottave del Morgante (1478) di Pulci, Orlando, accolto a brac-
cia aperte dalla moglie, reagisce, fuori di sé, in modo violento: «gli volle in su la
testa dar col brando» (I 17 8). Il contesto è comico, ma si ride per non piangere.
Indagando la trattatistica familiare di età umanistica – da Leon Battista Alberti al
beato Cherubino da Spoleto – emerge questa divisione del lavoro: la trattatistica
borghese elabora le forme di violenza psicologica che il marito deve esercitare
nei confronti della moglie, considerata come proprietà privata; quella religiosa si
incarica non solo di giustificare ma di imporre la violenza domestica, anche nei
confronti dei bambini. Inquisizione e caccia alle streghe nascono in famiglia.
Eppure, proprio in età umanistica, non manca la consapevolezza ereditata dal
mondo antico greco-romano, secondo cui l’uso della violenza può essere utile a
educare schiavi, ma bisogna astenersene se si vuol dar vita a uomini liberi:
51 La citazione di Matteo Palmieri è in Vita civile, edizione critica a cura di Belloni, G., Firenze,
Sansoni, 1982, p. 35; sul rapporto fra punizione e radici religiose è d’obbligo il rinvio a Greven,
P. Spare the Child. The Religious Roots of Punishment and the Psychological Impact of Physical Abuse,
New York, Alfred A. Knopf, 1992 (a pp. 46-54 Biblical Roots); la Regola del governo di cura familiare
di Giovanni Dominici è antologizzata in Il pensiero pedagogico dello Umanesimo, a cura di Garin,
E., Firenze, Giuntine Sansoni, 1958 (in particolare pp. 82-83); le Regole della vita matrimoniale di
Frate Cherubino sono riprodotte dalla ristampa per cura di Francesco Zambrini e di Carlo Negroni,
Bologna 1969 (pp. 10-14); per I libri della famiglia di Leon Battista Alberti, si fa riferimento all’e-
dizione a cura di Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, Torino, Einaudi, 1971, passim; la Città delle
dame di Christine de Pizan è citata secondo l’edizione di Earl Jeffrey Richards, a cura di Patrizia
Caraffi, Milano Trento, Luni ed., 1998. Mentre gli atti sono in stampa è apparso il volume di Cavina,
M. Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Milano-Bari, Laterza, 2011.
Se io ragionassi de’ fanciulli none atti a excellente virtù ma che seguissino arti
meccaniche e servili, forse io direi che alle volti bisognasse pichiargli. Quegli che
hanno il padre et il maestro disposti et solleciti a fargli buoni non mi piace abbino
busse: prima perché pare cosa non benigna, ma più tosto contro a natura et atta
a fare gli animi servi; et alle volti poi, cresciuti, se lo riputano a ingiuria, onde se
ne scema l’affectione del naturale amore.
Disgraziatamente parole come queste, che si leggono nella Vita civile (1431)
di Matteo Palmieri, sono rimaste, troppo spesso, inascoltate.
380
2. Giovanni Dominici, autore della Regola del governo di cura familiare (scritto fra
il 1401 e il 1403), considera i figli come il maggiore dei doni affidati da Dio: «Niu-
na cosa Dio t’ha commessa tanto cara a lui quanto i figliuoli». Eppure raccomanda
nei loro confronti un’educazione fondata sulla violenza, che va raddoppiata nel
caso in cui le vittime non si adattino a essa. Di questa «salutevole disciplina» la
prole, fin dai primi anni d’età, deve essere grata. La violenza va inflitta non in
modo occasionale, ma organizzato e sistematico: «non aspramente», ma con e
per amore. Il procedimento è quello dell’inquisizione: occorre piegare il fisico e
la volontà dei bambini, al punto che siano essi stessi a chiedere spontaneamente
di essere puniti. In altre parole: «spesse, non furiose battiture». Come fra inqui-
sitore ed eretico, la relazione fra genitori e figli assume forme perverse. Fin dalla
più tenera età, entro le mura domestiche è riservato ai giovani quel trattamento
sadico che, fuori casa, viene inflitto a chi sia in sospetto di eresia. Il sistema giudi-
ziario ecclesiastico per la lotta all’eterodossia è in atto quotidianamente fra padre
e figlio. L’inquisizione esige interrogatorio, accertamento della colpevolezza e in-
vito a ritrattare; l’educazione religiosa «ringraziare sotto la disciplina», «tacere nel
conspetto de’ genitori» e «rispondere con reverenzia». Come nei tribunali istituiti
per sradicare la miscredenza da Gregorio IX, il papa che scomunicò Federico II e
canonizzò san Francesco, e presieduti da francescani o domenicani, la punizione
dei figli è dimezzata nel caso di confessione spontanea, raddoppiata altrimenti:
Tre reverenzie servar gli fa ne’ parlari. La prima ringraziare sotto la disciplina;
la seconda tacere nel conspetto de’ genitori; la terza rispondere con reverenzia.
Perché di bisogno ha d’essere tenuto a freno la sdrucciolente età al male e non al
bene, spesso convengonsi disciplinare i bambolini, ma non aspramente: spesse,
non furiose battiture fanno loro il buon pro; così si correggono, così diventan
buoni. E perché si vuol loro insegnare al ben vengan prontamente, in quanto
puoi ordina, come hanno fatto fallo, vengano a domandare correzione, dando lor
men disciplina il doppio che se sono altrimenti trovati in fallo. E sarà utile spesso,
ogni dì una volta, fare loro capitolo, e che ciascuno s’accusi di bugie, inganni,
disobedienze e altri falli; cominciando tu a domandare quando sono minori sì che
si confessino in pubblico o in occulto da te, e sé stessi dispongano alla correzio-
ne; come detto è, doppiando la disciplina se nega o scusa il suo fallo, o vero non
381
s’acconcia alla battitura [corsivo mio]. Di tali gastigamenti fa’ ti ringrazino; però
che ’l debbon fare, più che se dessi loro danari o vestimenti. E questo non vuol
durare solo insino hanno tre anni, quattro o cinque, ma insino n’hanno bisogno
ancora d’anni venticinque.
Il genitore è invitato ad agire sulla base di puri e semplici sospetti. Egli deve
investigare partendo sempre dalla presunzione che la prole sia colpevole. Estranea
è l’idea che gli adulti abbiano doveri nei confronti dei bambini. Al contrario, sono
i figli a essere gerarchicamente sottomessi ai genitori. Le relazioni familiari fra ge-
nitori e figli in sé non esistono; sono una replica, ancor più rigida e formalizzata,
di quelle fra discepolo e maestro o fra suddito e prelato: «Non sono meno obligati
i figliuoli a’ padri e madri, sieno i religiosi a’ suoi abati o priori, o cittadini a’ suoi
iudici o rettori; i quali d’ogni tempo al comandamento de’ superiori s’apparecchia-
no alla salutevole disciplina». I figli non sono esseri sociali, ma proprietà privata
dei genitori: «sono del padre e della madre»; anzi, si precisa, sono «cosa del padre e
della madre». Oggetto dunque, non soggetto. I genitori sono autorizzati a sentirsi
come un Dio in terra: sui figli hanno potere di vita o di morte. Di fronte a tale
tribunale, il figlio è considerato colpevole, persino se riesce a provare la propria in-
nocenza. Diseducato ad amare in modo naturale e spontaneo, il bambino si educa
ad amare ideologicamente in forma religiosa. Disimparando ad amare, impara la
predica dell’amore. Al posto dell’amore reale subentra la religione dell’amore. La
stessa logica del ragionamento anticipa il procedere dilemmatico che, nel secolo
successivo, sarà tipico di Machiavelli. Con l’uso della violenza la volontà del figlio
è piegata a quella dei genitori, volpe e leone, madre e padre. Il fine religioso giu-
stifica i mezzi violenti:
E perché non si debbe far così? il figliuolo è cosa del padre e della madre, e però
possono dare in su loro quando vogliono [corsivo mio]. Che ne perdono i figliuoli?
o son battuti che l’hanno meritato, o non meritato. Nel primo caso, ringrazino di
giustizia; nel secondo caso, meritano avendo pazienzia. E però sempre e in ogni
caso sono loro utile le busse e battiture, e a questo s’avvezzerebbono se s’amassono
in Dio, e non pure nella carne.
Così, debbono non presummere di parlare nella presenza del padre e della madre,
essendo ancora barbuti, ma ascoltare e rispondere, o domandare per sapere o vero
382
obedire. Santo è il silenzio a’ giovani e vecchi: e beatus homo qui non delinquit in
verbo. L’umiltà non parla.
3. Nelle Regole della vita matrimoniale (1477) del beato Cherubino, dovere del
marito è mediare fra mondo esterno, vita culturale e sociale, e realtà claustrale in
cui la moglie va relegata. Si tratta di un compito spirituale, che poggia su un’in-
combenza squisitamente materiale, fisica e corporea: «La seconda cosa, ch’è tenuto
lo marito dare alla moglie, si chiama correzione, reprensione, gastigamento». Punto
di partenza è la constatazione della fallibilità degli esseri umani: non c’è nessuno
– pensa il frate – che per quanto viva «virtuosamente e sapientissimamente» non
sia soggetto a errore: la donna, in particolare, è «fragile e difettosa». Se l’errore è
commesso da una donna sposata, il compito di intervenire e correggere, tramite
misure repressive, vale a dire punizioni fisiche, spetta direttamente al marito. A
383
Ma nota tu, figliuolo mio amatissimo, che nella correzione, la quale tu dai alla
tua mogliera, per essere moderata, tieni quella regola che tiene il cerusico, o vero
il medico di piaga, per curare e sanare una nascenza o postema. In prima met-
te le cose mollificative leggieri, come fusse bianco d’uovo; e se con queste cose
mollificative la nascenza si rompe, buono è. Ma se non si rompe, mette le cose
mollificative più ardenti e più forti; e se con queste cose la nascenza si rompe, an-
cora sta bene, ché non si cura altrimenti tagliare. E se non si rompe, mette mano
alla lancetta o rasoio, e taglia; e se non basta una tagliata, ne fa due e tre; e con la
mano preme e calca, e così ne cava ogni putredine o marcia. E se così non facesse,
non sarebbe buono medico, perché si dice: medico pietoso fa la piaga verminosa.
Alla scienza medica si affianca la religione dei padri, assumendo come model-
lo la pazienza di Giobbe:
Così ancora, quando tu vedi la tua moglie fare alcuno delitto, non così subita-
mente debbi correre a ingiurie e percussioni e bastonate; ma prima amorosamen-
te e con piacevolezza debbi dolcemente insegnarle quel delitto, che non lo facci
più per non offendere Iddio, e per non dannare l’anima, e per non fare cosa che
sia vergogna a te e a sé. E di ciò abbiamo lo esemplo nella Santa Scrittura di quello
384
Ma nota che io ti dico che non la debbi battere, perché forse non apparecchia
così bene come tu vorresti, o per altra cosa leggieri, e difetto piccolo e minimo;
ma dico che tu debbi battere tua moglie, quando facessi gran difetto; verbi gratia
come, se bestemmiassi Iddio o alcuno Santo, se nominassi lo demonio, se si di-
lettassi stare alla finestra, e dare volentieri audienza ad alcuni giovani inonesti, o
avessi alcuna mala pratica, conversazione e compagnia, o vero facessi alcuno altro
difetto notabile, che fussi peccato mortale. Francamente allora battila, non con
animo irato, ma per zelo e carità dell’anima sua; ché quella battitura e percus-
sione, a te che la farai sarà meritoria, e a lei che la sosterrà sarà utile e fruttifera.
4. Il riferimento a Giobbe e l’uso della violenza restano impliciti nel terzo dei Libri
della famiglia (1433-1434) di Leon Battista Alberti, dove, alla domanda del gio-
vane Lionardo, su come il marito debba riprendere la moglie, l’esperto e anziano
Giannozzo risponde:
Eh! Eh! Pur con buono modo, ché a me sempre parse, figliuoli miei, correggendo
cominciare con la dolcezza, acciò che il vizio si spenga e la benivolenza s’accenda.
E apprendete questo da me. Le femmine troppo meglio si gastigano con modo e
umanità che con quale si sia durezza e severità. El servo potrà patire le minaccia,
le busse, e non forse sdegnerà se tu lo sgriderai; ma la moglie più tosto te ubidirà
amandoti che temendoti, e ciascuno libero animo più sarà presto a compiacerti
che a servirti. […] E così tutte le moglie sono a’ mariti obediente quanto questi
sanno essere mariti.
Per saper «essere mariti» è sufficiente, secondo Alberti, che la donna sia «serra-
ta in casa», che a lei sia riservato il «governo delle cose minori» e che di altro non
si occupi se non delle «faccenduzze di casa». Espressione di borghesi «contenti del
[…] privato», l’ideologia albertiana della «santa masserizia» non elimina la violen-
za domestica, ma, ipocritamente, la censura. Delegato così il lavoro sporco alla
Chiesa, il borghese si illude di poterne uscire con le mani pulite. Eppure, già nel
Quattrocento, un’alternativa alla maschile politica di «sicurezza» (security) come
385
386
Giulia Castelnovo
Nell’Ancien Régime i sobborghi marsigliesi, come quelli di molte città, erano spa-
zi sociali, etnici e sessuati fluidi, dove multiformi sfaccettature di adattamento
rispondevano a condizioni di estrema precarietà e povertà52. La prostituzione e
il suo sfruttamento divenivano una risorsa per molte donne, e costituivano un
fenomeno sociale che riuniva insieme prostitute, protettori, ruffiani e ruffiane,
clienti, mariti ignari o complici, vicini di quartiere, così come giudici e agenti di
polizia. Le donne in questo contesto davano spesso una risposta tutt’altro che pas-
siva alle proprie condizioni d’inferiorità, operando a volte in collaborazione con
gli uomini di famiglia, altre volte da sole, ma più comunemente unite in piccoli
gruppi femminili. Ne sono un esempio le numerose “imprese di famiglia” in cui
le donne lavoravano insieme; generalmente la madre gestiva di comune accordo
il commercio del corpo delle figlie. La nozione di “marginalità”, utilizzata am-
piamente anche dalla storiografia di genere per definire le donne che si situavano
al di fuori dei ruoli legittimi stabiliti dal potere e dalla società patriarcale, è stata
definita da Bronislaw Geremek collegando insieme le relazioni socio-economiche
con la gerarchia dei valori culturali53. Le prostitute, in particolare, sono sempre
state definite a partire dall’idea di confine, irregolarità, margine. Tuttavia le donne
povere e sole e le prostitute dei sobborghi marsigliesi, come le donne delle altre
città, non possono essere definite come “marginali”, liminali, perché al contrario
52 Sulla città di Marsiglia vedi: Emmanuelli, F.X. Vivre a Marseille sous l’ancien Régime, Paris, Perrin,
1999.
53 Geremek, B. Les marginaux parisiens aux XIVe et XVe siècles, Paris, Flammarion, 1976.
erano membri a pieno titolo della comunità in cui vivevano, presenze attive e
formative del loro quartiere, e questi quartieri poveri erano la città stessa, la sua
materia costituente. Come spiega Daniel Roche54, non esiste necessariamente una
coincidenza tra marginalità e povertà: la marginalità deve essere messa in relazione
con la condizione giuridica, il ceto sociale e l’identità di genere, e deve essere posta
in relazione con i suoi utilizzatori, il loro ambiente e la percezione che i destinatari
stessi hanno dell’attributo di “marginali”. Queste prostitute, ruffiane, o “oneste”
abitanti dei quartieri, erano al centro di una trama complessa di relazioni; erano
fortemente presenti negli spazi esterni dei loro quartieri e al tempo stesso avevano
il loro fulcro nella casa. Non esisteva distinzione tra l’interno della casa e l’esterno
della strada: il marciapiede era, potremmo dire con Michelle Perrot, il campo di
battaglia per l’appropriazione dello spazio urbano55, e insieme la soglia che univa
l’esterno all’interno. Le donne che ci parlano dai verbali si muovono nella città
come in una fitta foresta e la sfruttano per «gagner leur vie»56.
A partire soprattutto dal 1685, a Marsiglia il potere civile – ed ecclesiastico –
introdusse nuovi strumenti di polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico, a
imitazione di quelli attivi sin dagli anni Sessanta del XVII secolo nella capitale57:
da un lato le procedure sommarie di una “polizia del buon costume” e dall’altro
la creazione di una maison de force femminile, il Réfuge. L’erezione a Marsiglia, nel
1630, del primo Monastère des Filles Repenties58 fu in parte la risposta all’idea che
la peste che si era abbattuta sulla provincia tra il 1629 e il 1630 fosse un castigo
divino dovuto ai peccati della città, come avvenne anche a Napoli nel 1631 con la
fondazione di numerosi conservatori femminili in seguito all’eruzione del Vesuvio.
Il Monastère des Filles Repenties, dipendente dal vescovo ma retto da laici si rivelò
tuttavia un fallimento. Fu così che nel 1640 per iniziativa di tre consoli membri
della compagnia del Saint-Sacrement, e con il sostegno dei gesuiti, venne fondato
il Refuge o Hôpital de saint Joseph59 per rinchiudere a forza le donne che, nell’ottica
dell’autorità patriarcale ed ecclesiastica, rifiutavano di adeguarsi all’ordine sociale,
54 Roche, D. “Paris capitale des pauvres: quelques réflexions sur le paupérisme parisien entre XVIIe
et XVIIIe siècle”, in Mélanges de l’Ecole française de Rome , n. 99, 1987, pp. 829-859.
55 Perrot, M. “Le genre de la ville”, in Communications, n. 65, 1997, pp. 149-163.
56 Ibidem.
57 Piasenza, P. Polizia e città. Strategie d’ordine, conflitti e rivolte a Parigi tra Sei e Settecento, Bologna,
Il Mulino, 1990. in part. Cap.IV, pp. 157 ss.
58 Espeut, P. Histoire du Refuge de Marseille, Marseille, 1945, p. 2.
59 Riani, A. “Le Grand Renfermement vu a travers le Refuge de Marseille”, in Provence historique,
n. XXXII, juillet-août 1982, p. 283; “Des politiques de répression des prostituées”, in Femmes, n.
89, 2000, pp. 24-27.
388
60 Ibidem.
61 Gauvard, C. “Violence citadine et réseaux de solidarité. L’exemple français aux XIVe et XVe
siècles”, in Annales. Économies, Sociétés, Civilisations, n. 5, 1993, pp. 1113-1126.
62 Rossiaud, J. La Prostitution médiévale, Paris, Flammarion, 1990; “La prostitution dans les villes
françaises au XVe siècle”, in Communications , n. 35, 1982, pp. 68-84; “Prostitution, jeunesse et
société dans les villes du Sud-Est au XVe siècle”, in Annales. Économies, Sociétés, Civilisations , n. 2,
1976, pp. 289-325.
389
Il dit […] qu’une soir, étant a la fenêtre de sa maison entre dix ou onze heures
de soir, il entendit crier une femme qui était dans une boutique […] et qu’on la
battait bien fort et qu’âpres avoir été bien battue il la vit sortir et [la patronne]
rentra dans sa boutique avec deux hommes qui apparemment avaient battu cette
femme.»64
390
65 Ibidem.
66 Ibidem.
67 D’Amelia, M. “Indefinito omega. Riflessioni sulla solidarietà”, in DWF, n. 10-11, 1979, p. 9.
391
392
Lola Gonzalez-Quijano
394
esercitate dalle donne pubbliche prima della loro iscrizione al registro delle donne
pubbliche. Questa statistica deve essere presa con cautela dal momento che ri-
guarda solo la prostituzione regolamentata e visto che la maggioranza delle donne
non indicano una precedente occupazione; d’altro canto essa mostra l’importanza
numerica delle professioni operaie (32 su 41) e soprattutto il fatto che la maggior
parte dei mestieri indicati corrispondono a settori d’attività dove la manodopera
femminile risulta maggioritaria. Nel 1860 gli operai sono più di 400.000 a Parigi,
un quarto dei quali sono donne che lavorano soprattutto in atelier o nelle manifat-
ture, concentrate nei settori di attività “Abiti” (63,40%), “fili e tessuti” (61,10%)
e “articoli parigini” (54%)73, comprendenti 29 dei lavori indicati dalle prostitute.
La maggior parte di questi mestieri ha in comune una bassa remunerazione dal
momento che si tratta di professioni per le quali il tirocinio e la qualificazione non
sono riconosciuti, specialmente a causa della rappresentazione della donna e del
lavoro femminile74.
È molto difficile avere dati precisi e completi sui salari, visto che questi flut-
tuano a seconda delle stagioni, delle persone e del livello, ma le cifre risultanti
dall›indagine della Camera di commercio di Parigi ci sembrano rivelatrici di pa-
recchie tendenze. Nel 1860, i salari femminili si estendono tra i cinquanta cente-
simi e i dieci franchi al giorno, e la quasi totalità delle donne guadagnano meno
di quattro franchi. Per contro, i salari maschili (benché non riguardino gli stessi
lavori) variano dai cinquanta centesimi ai venti franchi al giorno, e la metà degli
operai guadagnano quattro franchi o più75. Tali redditi sono giornalieri, ma per
stimare il budget annuale di un’operaia è necessario tener conto dei giorni festivi
e soprattutto dei giorni senza lavoro. Parecchi filantropi come Fénélon Gibon76,
Julie-Victoire Daubié77 o il conte d’Haussonville78 hanno provato a stimare tale
budget, e anche se non a tutti risultano le stesse cifre, tutti sono d’accordo nel
definire lo stipendio operaio femminile come un salario di sussistenza nel migliore
dei casi e un salario da fame nel peggiore. La remunerazione del lavoro femminile
è sufficiente soltanto quando l’operaia è giovane, in buona salute e produttiva, e
395
79 Perrot, M. «Grèves féminines» in Les Ouvriers en grève (France, 1871-1890), tome 1, Mouton,
1974, pp. 318-330.
80 Louis, M.V. Le Droit de cuissage. France 1830-1930, Les Editions de l’atelier, 1994.
81 Tilly, L.; Scott, J. Women, Work and Family, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1978.
82 Archivio della Questura di Parigi, DA 881, cartello “Jeanne Marie Le Métayer”.
396
397
398
86 Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi, ASNA), Tribunale Penale (d’ora in poi, TP), Processi
(d’ora in poi, PR), anno 1904, fs. 190 / 11479. Si proporranno le prime riflessioni, relative ad alcuni
casi di violenza carnale, abusi o atti di libidine su minori di anni 15, accaduti a Napoli e provincia,
tra 1902 e 1904, e tra 1915 e 1917, presenti nelle carte di processi, istruiti, rispettivamente nel 1904
e nel 1917. Si tratta dei primi risultati di un’indagine più ampia sui processi per reati sessuali, con
vittime minori di 21 anni, istruiti nel 1901-1904, nel 1917, nel 1936 e nel 1938. Sono stati scelti
questi anni perché sono i primi del Novecento di cui nell’ASNA è stata avviata la schedatura su
supporto informatico dei processi con l’indicazione del tipo di reato
costanti87. Soprattutto nei tempi immediatamente successivi alla scoperta del fat-
to, il passaparola sembra coinvolgere le donne del vicinato. Nella ricostruzione
del racconto di abuso sessuale, emergono, infatti, perlopiù figure femminili pro-
tagoniste nei momenti decisivi: fornivano il primo soccorso, facevano una prima
“visita di controllo” sul corpo della vittima88, aiutavano la madre a cercare un
medico per verificare e attestare, nell’ipotesi di una denuncia formale, il tipo di
abuso e di danno subito. Si incontrano inoltre donne in primo piano negli scontri
pubblici tra le famiglie coinvolte: la madre della vittima da una parte, e la madre
o la moglie, a seconda dei casi, del presunto colpevole, dall’altra. Erano, del resto,
soprattutto la madre e/o la moglie dell’accusato a intercedere per chiedere la re-
missione della denuncia, a offrire soldi o a fare minacce di ritorsioni per salvare il
proprio congiunto.
Come si può interpretare la decisa presenza delle famiglie, con a capo le don-
ne, nel reagire pubblicamente alla scoperta dell’abuso subito dai propri bambini?
Siamo di fronte a casi, legati probabilmente, a una realtà spiegabile, in parte, con il
vissuto delle famiglie meridionali, napoletane in particolare, che nei vicoli condi-
videvano abitualmente la loro quotidianità. Va, inoltre, considerato un elemento
importante: i casi di cui sto scrivendo non sono abusi consumati tra componenti
della stessa famiglia, ma vicende che coinvolgevano vicini di casa, episodi scoperti
perlopiù in modo inequivocabile, che talvolta erano stati anche causa di contagio
venereo. Vi erano implicati vicini che avevano libero accesso nella casa del minore,
che attiravano la vittima nella propria casa, nella propria bottega oppure la ade-
scavano portandola in viottoli di campagna o in altri luoghi appartati. Particolar-
mente coinvolgente era la scoperta di adescamenti perpetuati abitualmente da un
adulto nei confronti di più bambine abitanti nel quartiere. Capitava in questi casi
che un episodio di molestie, venuto alla luce per qualche circostanza accidentale,
facesse scattare le reazioni di altre vittime e delle loro famiglie che fino a quel mo-
mento avevano preferito tacere89. Ciò comportava l’entrata in scena dei differenti
87 Sono in tutto 6545 i processi dell’anno 1917, con schedatura informatica. Quelli relativi a reati
a sfondo sessuale, che avevano come parte lesa una donna o un minore (sia maschio che femmina),
sono 172 (circa il 2,62%), di cui, per oltraggio al pudore: 21 (12,2%); per atti di libidine: 33
(19,2%); per violenza carnale: 118 (68,6%). Per il 1904, la schedatura informatica è ancora in corso.
Al momento ho individuato 252 processi per reati sessuali. Di cui, per oltraggio al pudore e atti di
libidine su minori: 23 (9,14%); per violenza carnale su minori: 40 (13,09%).
88 Si tratta in genere di donne con particolari abilità: fare le iniezioni, prestare aiuto durante il
parto, conoscere l’arte di preparare decotti e tisane medicamentosi, e così via. Particolarmente signi-
ficativo, il caso descritto in ASNA, TPN, PR, anno 1917, fs. 14/ 664
89 Esemplare è tutta la vicenda narrata nel processo contro Michele Mennella, detto Naso di cane,
un uomo accusato di molestare diverse bambine del vicinato, tra gli 8 e i 14 anni. ASNA, TP, PR,
anno 1904, 186/11345
400
gruppi familiari, di vittima e accusato. Potremmo dire, anche se può apparire ba-
nale, che si riproducono ambienti tipici della cultura del vicolo napoletano in cui
tutto viene vissuto collettivamente e le donne assumono una funzione importante
nella rete di relazioni familiari. Il ricorso alla legge diventava in alcune vicende
successivo a una mobilitazione spontanea da parte delle donne coinvolte, che pri-
ma cercavano di punire il colpevole con le proprie mani90. Preferivano, infatti,
finché era possibile, evitare di affrontare il tribunale da sole, soprattutto negli anni
di guerra, mentre gli uomini erano al fronte91. Sarebbe interessante confrontare
analoghi processi in altre realtà italiane dello stesso periodo.
Alcuni racconti rivelano utili elementi per delineare il rapporto tra madri e
figli adolescenti. Gli atti processuali raccontano di madri, che controllavano la
sessualità dei figli e, perciò, sensibili di fronte a ogni indizio di natura, come dire?,
emergenziale. Questo non solo nei periodi di assenza prolungata del capofamiglia.
Incontriamo, infatti, donne che raccontano di sorvegliare attentamente i figli, os-
servandone momenti di confusione, di stanchezza e dolore fisico, causati da moti-
vi che generavano sospetti. Qualche madre si descrive mentre, in preda a sospetti,
la notte si alzava e toglieva le lenzuola alla figlia o al figlio per osservare eventuali
tracce di violenza sul suo corpo92. Dai racconti emerge, nella maggior parte dei
casi, come il corpo dei figli fino all’adolescenza fosse sotto gli occhi attenti delle
madri, pronte a cogliere indizi e manifestazioni allarmanti.
90 La madre di una bambina, abusata da un contadino, aveva colpito l’uomo, al volto e alle mani,
con un coltello. ASNA, TP, PR, anno 1917, 96/4881.
91 È emblematico, nel 1916, il caso della madre di una bambina, molestata da un ventenne, con
disagio mentale che, con la propria sorella e una vicina di casa, aveva organizzato una spedizione per
cercare il ragazzo e bastonarlo. ASNA, TP, PR, anno1917, 29/1506.
92 Particolarmente significativo il racconto della madre di un ragazzo abusato, contenuto in ASNA,
TP, PR, anno 1917, fs. 14/ 664.
93 Su 20 casi, relativi ad abusi su bambine, solo un uomo ha 63 anni. In genere hanno tra i 17 e i
29 anni (8 su 20) e tra i 30 e i 59 anni (9 su 20). In 2 casi, al di sotto dei 15.
401
Dai particolari che emergono nei racconti si nota che già molto prima dei
dodici anni di età i bambini, di entrambi i sessi, avevano interiorizzato i compor-
tamenti legati alla sessualità, collocandoli nella sfera del peccato e della sporcizia
morale. Ciò non aveva impedito, evidentemente, l’accettazione di palpeggiamenti
e di sovrapposizioni di genitali dietro ricompensa. L’accettazione di soldi e pic-
coli regali veniva indicata dagli avvocati degli stupratori come segno di precoce
perversione soprattutto nelle bambine, definite, in più di un caso, consapevoli
adescatrici. Per le più povere, ritorna spesso, a difesa dell’imputato, l’insinuazione
di immoralità, in primo luogo, per i “mali esempi” familiari. Nel dibattito che si
affermò in Italia tra Ottocento e Novecento, la causa della prostituzione minorile
fu indicata, in genere, non nella richiesta di un pubblico maschile, ma nell’immo-
ralità che contraddistingueva le classi povere. In pratica, le origini della prostitu-
zione andavano rintracciate nella precocità sessuale delle giovani proletarie. La tesi
dell’«immoralità naturale» delle classi proletarie offrì una “spiegazione scientifica”
di queste diffuse pratiche sessuali che non minacciava né l’ordine sociale stabilito
né il potere maschile94. Nei riguardi dell’infanzia veniva all’epoca formulato un
pregiudizio di tipo sociale: le ricerche degli antropologi e gli studi lombrosiani si
concentravano sui figli delle classi povere sebbene non fosse estranea nella cultura
scientifica italiana, anche prima della psicanalisi, l’idea di una congenita perversio-
ne dei bambini, a prescindere dalla condizione sociale95.
Le espressioni più di frequente usate da bambine e bambini per indicare che
a loro era stato chiesto di compiere azioni che avevano a che fare con pratiche ses-
suali erano di due tipi: «voleva fare con me le schifezze» oppure «si voleva divertire
con me». Schifo/divertimento coesistono con uguale valore negativo nella rico-
struzione dei fatti da parte sia delle vittime che degli accusati e dei testimoni. Tutti
usavano di frequente un medesimo linguaggio per definire determinati compor-
tamenti relativi al sesso: porcherie, sudicerie, schifezze, tradotti poi dai verbalizzanti
in linguaggio burocratico con “atti osceni”, “atti illeciti”, “atti di libidine”, “atti
contro natura”, “atti turpi”, “atti immondi”. I più piccoli, pur nella loro ingenuità,
in genere erano in grado di dare un nome preciso agli organi sessuali. Si servivano
di modi di dire locali, come la bimba che dichiarava: «mi condusse un giorno a
casa sua e facendomi sedere sul poggiolo interno della finestra mi pose il pesce sulla
94 Rimando a Gibson, M.; Hahn Rafter, N. “Introduzione”, in Lombroso, C.; Ferrero, G. La donna
delinquente, la prostituta e la donna normale, trad.it. di Morpurgo, M., Milano, etal./edizioni, 2010,
pp. 1-43.
95 Cfr. Guarnieri, P. “Un piccolo essere perverso. Il bambino nella cultura scientifica italiana tra
‘800 e ‘900”, in Contemporanea, 2, 2006, pp. 253-284. Non mi soffermo su indicazioni bibliogra-
fiche relative alla tematica violenza e gender. In proposito, rimando a quanto da me indicato nell’In-
troduzione alla presente sessione.
402
96 ASNA, TP, PR, anno 1904, 190 / 11479. Il sottolineato è nel verbale.
97 Sono comportamenti che si ritrovano in tempi, luoghi e realtà socio-culturali differenti. Per
alcune interessanti analogie, Sohn, A.M. “L’oltraggio al pudore sulla persona delle bambine e la
sessualità nella vita quotidiana (Francia, 1870-1939)”, in Corbin, A. (a cura di) La violenza sessuale
cit., pp. 63-104.
98 Chesnais, J.C. “Il sesso e la violenza: storia della violenza carnale”, in Id. Storia della violenza in
Occidente dal 1800 a oggi, trad.it. di Serra, A., Milano, Longanesi, 1982, p. 155.
403
tra adolescenti maschi, quali denudazione e palpeggiamenti dei genitali fino alla
richiesta di masturbazioni reciproche, all’interno di espressioni tipiche dell’età di
passaggio, e quindi non manifestazioni di una futura inclinazione ai cosiddetti atti
sessuali contro natura99. In più di un procedimento, istruito per atti di libidine e di
violenza carnale, ritornano di frequente vicende ambientate all’interno di piccoli
gruppi di adolescenti. L’età dei ragazzi coinvolti poteva variare dagli 11 ai 17 anni,
spesso si trattava di lavoratori, abituati a stare insieme tutta la giornata. Gruppi
nei quali si instauravano precisi rapporti di leadership da parte dei più grandi e
più forti fisicamente, che nell’atto sessuale svolgevano la funzione attiva. I vari
racconti del “fatto” tracciano storie ai confini, situazioni in chiaroscuro che vanno
contestualizzate per essere meglio comprese100.
Una volta ricevuta la denuncia del fatto, e sentiti i testimoni bisognava
stabilire se i ragazzi, soprattutto quelli di età inferiore ai 13 anni, fossero stati
in grado di commettere la violenza carnale. Quindi, particolare importanza ri-
vestiva la perizia medica che doveva stabilire lo sviluppo e le funzioni, relative
all’atto sessuale, dei loro organi. Il codice penale Zanardelli era molto severo
in particolare quando la violenza, in tutte le sue forme, riguardava una vittima
che non avesse compiuto il dodicesimo anno101. Si riscontrano casi di violenza
su bambini di 6-7 anni, commessi da quasi coetanei, tra gli 11 e i 12 anni.
Nonostante la giovanissima età dei “violentatori”, questi ultimi in alcuni casi
venivano anche arrestati. Li consideravano, in pratica, dei piccoli uomini, con
tutte le responsabilità e i doveri che ciò poteva precocemente comportare. È
probabile che l’interesse e la severità verso queste manifestazioni di giochi erotici
tra adolescenti dello stesso sesso, considerati atti di libidine, adombrassero la vo-
lontà di reprimere sin dal loro nascere ogni tipo di intimità sessuale che potesse
“degenerare” verso l’omosessualità. I motivi addotti dagli avvocati riflettevano
bene, contribuendo nello stesso tempo alla loro formazione, i giudizi e le opi-
nioni legate al sesso e alle sue “degenerazioni”. Uno stesso adolescente di 11-12
anni, accusato di violenza era definito indifferentemente un «monello», in base
all’età, ma anche un «viziosetto», perché colpevole di comportamenti immondi
99 Si veda il caso di Amedeo, di quasi 7 anni, che aveva subito un ‘gioco’ da parte di un gruppo di
tre adolescenti tra gli 11 e i 12 anni, tutti suoi vicini di casa che, offrendogli 25 centesimi «volevano
indurlo a lasciarsi violentare». ASNA, TP, PR, anno 1904, 186/ 11315.
100 Tra il gioco “proibito” e la tentata violenza carnale sembra, ad esempio, configurarsi la vicenda
che vide protagonisti Vincenzo di 14 anni e Anselmo di 17, entrambi operai in un mulino di Torre
Annunziata. ASNA, TP, PR, anno 1917, 14/664.
101 La legge che regolava i reati sessuali era l’art. 331 (i minori di 12 anni erano contemplati nel n.
1 del capoverso dell’art. 331). Cfr. “I delitti contro il buono costume e l’ordine delle famiglie”, in
Pessina, E. (a cura di) Enciclopedia del diritto penale italiano. Raccolta di monografie, vol. IX, Milano,
Società Editrice Libraria, 1909, pp. 1-267.
404
102 Particolarmente significativa la lettura della“Storia clinica” redatta dal prof. Almerico Radice, e
dal dott. Ettore Mariotti. ASNA, TP, PR, anno 1917, 14/664.
405
103 Cfr. Scurti, A. “Gli esordi della medicalizzazione degli omosessuali”, in Società e storia, 2005,
108, pp. 283-317.
406
Roberta Galeano
1. Il tema
La violenza domestica, e più precisamente la violenza dei mariti sulle proprie mo-
gli a Napoli nei primi del Novecento è il tema di questo intervento. L’obiettivo è
di analizzare, attraverso lo studio delle fonti d’archivio relative ai casi di maltratta-
menti in famiglia e lesioni volontarie depositate presso l’Archivio di Stato di Na-
poli104, le dinamiche di genere sottese alla violenza sulle donne, in un periodo in
cui essa era tollerata e favorita dalle norme giuridiche, secondo le quali un marito
era legittimato a usare strumenti quali percosse o altri tipi di punizioni corporali
sulla propria moglie a fini educativi105.
Il limite esistente tra violenza “giustificata” (quello stabilito dallo jus corri-
gendi) e “ingiustificata” (maltrattamenti gravi e continuati senza giusta causa) era
104 Si tratta dei primi risultati della ricerca per la tesi di dottorato in Storia delle donne e delle
identità di genere presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”. I fondi consultati presso
l’Archivio di Stato di Napoli, per gli anni 1902, 1917, 1925 e 1932, sono: l’Archivio Generale della
Questura di Napoli, Polizia Giudiziaria e il Tribunale penale di Napoli, processi. La scelta degli anni
campione è stata effettuata in relazione a questioni di carattere storico, relative alla data dell’entrata
in vigore dei Codici penali, accanto a ragioni di carattere pratico, dettate dalla necessità di intrecciare
le fonti della Questura con quelle del Tribunale penale di Napoli. Più precisamente, la scelta degli
anni 1902, 1917 e 1925 è dipesa anche dalla possibilità di accedere, per quegli stessi anni, agli indici
informatizzati dei processi del Tribunale Penale e di Assise di Napoli (1901-1904; 1917; 1925; 1930;
1934-1938).
105 Vincenzi Amato, D. “Il diritto di famiglia”, in Barbagli, M.; Saraceno, C. (a cura di) Lo stato delle
famiglie in Italia, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 37-52.
inoltre di difficile definizione. Nei casi in cui a essere maltrattata dal coniuge con
ingiurie, minacce, sevizie e percosse era la moglie che «non sa oppure non vuole
compatire il marito, o viceversa, cerca tutte le occasioni per contraddirlo, per ur-
tarlo, per ripetergli a iosa i suoi malanni e i suoi guai»106, il giudice poteva applicare
l’attenuante della provocazione. Il Codice Zanardelli107, puniva con la reclusione
sino a trenta mesi il reato di maltrattamenti gravi e continuati (minacce, ingiurie,
percosse) nei confronti di un coniuge verso l’altro. Tuttavia l’intervento nella sfera
privata per il suddetto reato era possibile solo in seguito a querela della parte lesa,
in modo da garantire l’intimità e l’armonia coniugale da arbitrarie ingerenze della
Pubblica Autorità108.
Con il mio articolo mi propongo quindi di illustrare, sia pur sinteticamente, il
modo in cui le donne riconoscono, raccontano e in quali casi e secondo quali mo-
dalità denunciano la violenza subita nell’ambito delle relazioni familiari/affettive,
in un periodo storico in cui la condotta delle stesse era considerata una delle cause
della violenza da esse subita, insieme all’abuso di alcool da parte dei mariti, la po-
vertà e il degrado109. Particolare attenzione sarà data all’uso della querela da parte
delle mogli nei casi di maltrattamenti in famiglia. Si tratterà di verificare i termini
di un possibile uso strumentale della querela ai fini di una negoziazione del potere
all’interno della sfera domestica. L’analisi descrittiva dei dati da me raccolti, aperta
a successive verifiche, mostrerà inoltre alcune significative similitudini con i dati
attuali sulla violenza sulle donne.
106 Crivellari, G. Il Codice penale per il Regno d’Italia interpretato, Torino, UTET, 1896, vol. VIII,
p. 1073.
107 Art. 391, capo V «Dell’abuso dei mezzi di punizione o di disciplina e dei maltrattamenti in fa-
miglia e verso i fanciulli», titolo IX «Dei delitti contro la persona», Codice penale per il Regno d’Italia.
Con indice analitico-alfabetico, Roma, Stamperia Reale, 1889.
108 Giordani, F. “Querela” (1913), in Digesto italiano. Enciclopedia metodica e alfabetica di legisla-
zione, dottrina e giurisprudenza, Torino, UTET, 1908-1913, vol. XIX parte II; sulla separazione tra
sfera pubblica e privata in età liberale cfr. Rizzo, D. Gli spazi della morale, Roma, Biblink, 2004;
Saraceno, C. “La Famiglia. I paradossi della costruzione del privato”, in Ariès, P.; Duby, G. (a cura
di) La vita privata. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 33-78.
109 Cfr. Terragni, L. “La violenza in famiglia”, in Barbagli, M; Saraceno, C. (a cura di) Lo stato delle
famiglie cit., pp. 184-192.
408
Dal confronto dei dati sulla violenza all’esterno e all’interno della famiglia,
è emerso che la percentuale di lesioni personali volontarie che avviene all’esterno
della sfera domestica (tra persone senza nessun legame di parentela) è molto più
alta tra gli uomini (70%), i quali per il 94,1% dei casi sono feriti da altri uomini,
mentre le donne, all’esterno delle relazioni familiari/affettive, sono ferite prin-
cipalmente da altre donne110. Le donne sono, al contrario, le principali vittime
della violenza che avviene all’interno delle relazioni familiari/affettive, nell’ambito
delle quali esse sono maltrattate, picchiate e ferite prevalentemente da mariti, figli
maschi, amanti o ex amanti111. Dall’analisi dei dati i figli maschi risultano essere i
principali responsabili dei maltrattamenti sui genitori. Infine, mentre le figlie sono
maltrattate prevalentemente dalle madri, i figli subiscono maltrattamenti dai padri
come dalle madri. Scopo ultimo della mia ricerca sarà quello di analizzare in modo
più approfondito i suddetti casi, per poter definire le caratteristiche qualitative che
li contraddistinguono.
Le fonti suggeriscono ampiamente la possibilità di considerare le querele degli
indicatori del modo in cui le donne, vittime quasi esclusive della violenza do-
mestica, utilizzavano le possibilità di azione a loro disposizione, nel tentativo di
risolvere situazioni familiari divenute intollerabili.
Nei primi anni del Novecento le mogli sporgono querela contro i propri ma-
riti per denunciare casi di violenze gravi dopo anni di sopportazione. Dai loro rac-
conti emergono storie coniugali difficili, caratterizzate da alti tassi di violenza fisica
e morale subita nel corso degli anni di matrimonio. Casi di tentati suicidi tramite
avvelenamento sono preceduti da anni di violenze; fughe presso i genitori sono
seguite da ricongiungimenti con il coniuge violento; diffide da parte degli Agenti
di Pubblica Sicurezza contro i mariti sono affiancate da tentativi di riconciliazio-
ne. Carmela B. è uccisa dal proprio marito sei giorni dopo aver sporto contro di
lui formale querela, «sia perché fatta oggetto di continui maltrattamenti da parte
dello stesso, sia perché ieri l’A. percuoteva anche il proprio figlio Enrico di anni
quattro producendogli una contusione al naso giudicata guaribile fra dieci giorni,
come dall’acclusa perizia medica»112. Sono storie che suscitano la compassione e la
solidarietà del vicinato e dei membri della famiglia, i quali non sempre restavano
in silenzio una volta che la violenza sulle donne emergeva all’esterno delle mura
110 Per gli interessanti contributi sulla violenza delle donne in relazione alla violenza sulle donne cfr.
Dauphin, C.; Farge, A. (a cura di) De la violence et des femmes, Paris, Albin Michel, 1997.
111 I dati emersi si direbbero non difformi dai dati attuali sulla violenza di genere, cfr. ISTAT, La
violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia, Rapporto 2006; Danna, D.
Ginocidio. La violenza contro le donne nell’era globale, Milano, Elèuthera, 2007.
112 Rapporto dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza, Napoli, sez. Porto, anno 1902, Archivio di Stato di
Napoli, Archivio Generale della Questura di Napoli, Polizia Giudiziaria, b.3417, f. 21234.
409
Nel 1932 le fonti rivelano inoltre una distribuzione diversa dei casi di maltrat-
tamenti in famiglia rispetto agli anni precedenti. In particolare è possibile ricono-
scere da un lato un significativo aumento delle querele delle mogli contro i propri
mariti, dall’altro un decremento dei casi di maltrattamenti dei genitori da parte
dei propri figli115. A mio avviso, la diminuzione delle denunce per maltrattamenti
113 Rapporto dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza, Torre Annunziata, anno 1932, Archivio di Stato di
Napoli, Archivio Generale della Questura di Napoli, Polizia Giudiziaria, b.5609, f. 16097.
114 Rapporto dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza, Napoli, sez. Porto, anno 1932, Archivio di Stato di
Napoli, Archivio Generale della Questura di Napoli, Polizia Giudiziaria, b.5609, f.178844.
115 Le querele per maltrattamenti sporte dalle mogli contro i propri mariti sono 11 nel 1902, 14 nel
1917, 17 nel 1925 e 55 nel 1932. Mentre i casi di maltrattamenti sui genitori sono 33 nel 1902, 6
410
in famiglia sui genitori negli anni Trenta del Novecento, potrebbe indicare l’au-
mento durante gli anni del fascismo della discrepanza tra ciò che avviene all’inter-
no della famiglia e ciò che viene denunciato116. Mentre l’aumento delle querele da
parte delle mogli contro i propri mariti, insieme al diverso uso che esse fanno di
tale strumento giuridico rispetto ai primi anni del secolo, è probabilmente legato
alle modifiche che il Codice penale del 1930 apporta al reato di maltrattamenti in
famiglia. Il Codice Rocco, infatti, inserisce il reato di maltrattamenti in famiglia
insieme a quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, tra i delitti con-
tro la famiglia e contro l’assistenza familiare, accanto al nuovo reato di violazione
degli obblighi di assistenza familiare117. Il reato di maltrattamenti commesso sul
coniuge, inoltre, diventa un reato d’azione pubblica, punito con la reclusione da
uno a cinque anni.
Tali modifiche, che riflettono il maggiore peso dato alla famiglia come bene
offeso, favoriscono un rafforzamento del modello del breadwinner. Le donne che,
come mogli e madri, negli anni Trenta sono legittimate quasi esclusivamente sul
terreno della protezione degli obblighi di mantenimento, considerano la mancata
assistenza familiare il limite oltre il quale la violenza dei mariti smette di essere
accettabile118.
Tra le fonti della Questura di Napoli ho individuato inoltre alcuni significativi
casi di donne che, ferite gravemente dai loro mariti o amanti/ex amanti e medicate
ai posti di Pronto Soccorso, non sporgono querela contro l’autore della lesione op-
pure dichiarano di essersi ferite incidentalmente. Nei suddetti casi, l’autore delle
lesioni risulta essere, in seguito alle indagini degli agenti di Pubblica Sicurezza, il
marito o il compagno della donna ferita. Sono i casi di lesione volontaria grave,
per i quali era prescritto l’intervento d’ufficio. Qui la violenza nei confronti delle
mogli emergeva in tutta la sua brutalità e con conseguenze gravi sulla salute del-
le donne. Gli Agenti di Pubblica Sicurezza indagavano e nella maggioranza dei
casi si risaliva alla responsabilità dei mariti. La dimensione matrimoniale usciva
dalla sua dimensione privata in seguito al fallimento delle strategie individuali
nel 1917, 29 nel 1925, 10 nel 1932. Tali dati restano aperti all’ulteriore verifica attraverso l’analisi
dei processi.
116 Per tutto il periodo fascista cfr. De Grazia, V. Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993
(ed. or. 1992).
117 Art. 570, 571, 572, Capo IV “Dei delitti contro l’assistenza familiare”, Titolo XI “Dei delitti
contro la famiglia”, Codice penale del Regno d’Italia. Testo definitivo approvato con R. decreto 19 ottobre
1930 n. 1398, Napoli, Tip. Pansini, 1936.
118 Sull’istituto del mantenimento come possibile mezzo di riequilibrio delle differenze di genere
dall’altro cfr. Avolio, T. “Il diritto delle mogli al mantenimento: l’istituzionalizzazione del ruolo di
consumatrici in età contemporanea”, in Arru, A.; Stella, M. (a cura di) I consumi. Una questione di
genere, Roma, Carocci, 2003, pp. 75-85.
411
Conclusione
I racconti delle percosse, delle sevizie e dei tormenti patiti nel corso del matrimo-
nio sono spesso affiancati, nelle querele sporte dalle mogli contro i propri mariti,
dalla denuncia del mancato rispetto dei doveri coniugali dei mariti, «oziosi» e
«inumani» che «fanno languire la propria famiglia» o che avanzano richieste di
«congiunzione carnale contro natura».
Le querelanti si presentano come vittime, «oneste» e «laboriose», che da sole
devono provvedere ai bisogni della famiglia. La violenza dei mariti è presentata
come intollerabile proprio perché essi sono debitori di quello che è riconosciuto
come il principale dei doveri/diritti coniugali: il mantenimento e sostentamento
della famiglia. Negli anni Trenta del Novecento il reato di violazione degli obbli-
ghi familiari, come si evince dalle fonti analizzate, si configura come la principale
risorsa a disposizione delle mogli per denunciare la violenza dei propri mariti,
rafforzando il ruolo di dipendenza femminile all’interno della famiglia.
412
Annalisa Di Nuzzo
Le riflessioni proposte sono il frutto di una ricerca sul campo, condotta dal 2007
al 2009, sulle donne transmigranti dai paesi dell’Est (Ucraina-Romania) ad alcune
zone della provincia di Napoli e di Salerno119. Da queste “storie di vita” emerge un
nuovo modello di identità femminile; un soggetto nomade che instaura un serra-
to confronto con il tradizionale matricentrismo meridionale attraverso scenari di
domesticità talvolta caratterizzati da “discreti” abusi e silenziose violenze. Nuovi
poteri della cura che ho definito matricentrismo transmigrante.
Attraverso le testimonianze emerge come questa difficile scelta migratoria sia
legata alle trasformazioni storico-sociali che le società di appartenenza hanno avu-
to dopo il crollo dei regimi socialisti e alla capacità di queste donne che hanno
saputo utilizzare le loro radici “socialiste” determinando mutamenti anche nei
Paesi d’origine.
La migrazione femminile oggi è collegata alla postmodernità e al cambia-
mento dei ruoli di genere e delle dinamiche economiche a esso connesse. Il diritto
alla cittadinanza, le identità, il potere della cura nell’ambito dell’accudimento ri-
scrivono processi culturali e di riconoscimento della diversità, plasmando nuove
pratiche comunitarie e ibridazioni culturali. Una sorta di cittadinanza interiore120
che caratterizza le nuove soggettività e individua nuovi diritti in una dimensione
119 I risultati della ricerca sono stati pubblicati nel testo di Di Nuzzo, A. La morte, la cura, l’amore.
Donne ucraine e rumene in Campania, Roma Cisu, 2009, al quale si rimanda anche per tutti i rife-
rimenti metodologici.
120 Cigarini, L. La politica del desiderio, Parma, Pratiche Editrice,1995.
414
415
Oggi, in contesti radicalmente diversi, la cura del corpo e della gestione del-
la sofferenza è delegata a queste donne migranti che ascoltano, vedono, amano,
odiano il corpo che soffre, non lo rimuovono, non lo dimenticano, lo accudisco-
no e ne condividono lo spazio angusto della domesticità, precludendolo a quella
parte del mondo edonista in cui la cura è mercato: cercano di inventarsi una
strada che è fatta di compassione attiva, di professionalità inventata, affranca-
mento economico. Sono protagoniste di una nuova possibilità di vivere, una più
autentica dimensione dell’esistenza, una forma di lavoro sociale che finisce con
lo sfuggire a una semplice oggettivazione della prestazione e che oscilla sempre
tra rancore e solidarietà. Un lavoro che instaura un inestricabile rapporto tra
denaro-cura-emozioni-affetto non riuscendo più a distinguere ciò che è lavoro, e
quindi denaro, da ciò che è coinvolgimento emotivo nel lavoro. In questo senso
si potrebbe parlare di “missione della cura”, anche se io sposterei più in avanti i
termini della questione fino a parlare di “olocausto della cura” che sarebbe pre-
sente in alcuni aspetti dell’identità femminile. Aspetti che, provocatoriamente,
la Kaplan125 definisce le vere perversioni delle donne e che hanno a che fare con
il masochismo e la sofferenza tanto da farlo diventare un tratto culturale del
comportamento femminile.
L’etica del socialismo e del collettivismo, la negazione della soggettività e
dell’individualismo, il lavoro come sacrificio, bene della collettività, insieme alla
critica della decadenza borghese, hanno probabilmente costituito la base per con-
fermare lo stereotipo etnico del perché la donne dell’Est sono più brave a gestire
l’accudimento.
La difficile elaborazione del rapporto con la cura del corpo che soffre che
queste donne stanno di fatto realizzando si scontra con il tentativo dell’edonismo
occidentale di rimozione del dolore. Sono queste donne che ogni giorno hanno
un rapporto con la concretezza di questi corpi, perché solo nel corpo la sofferenza,
la malattia divengono realtà ed escono dall’astrazione e da ogni rischio di retorica.
Queste donne sembrano interpreti di un nuovo modo di declinare il senso del
tragico, un nichilismo propositivo che coniuga emozioni e ragioni. La frammen-
tazione del sé domina ma in senso positivo, nonostante la precarietà, la sofferenza,
si fa strada il dire di sì alla vita che si trasforma in nuova attitudine a declinare
più ruoli e più tempi contemporaneamente. Protagoniste indiscusse della scelta
migratoria coniugano la maternità a distanza, l’essere motore economico del si-
stema familiare di provenienza e diventano protagoniste di quello che ho definito
matricentrismo trasmigrante126.
125 Kaplan, L.J. Le perversioni femminili. Le tentazioni di Emma Bovary, Milano, Raffaello Cortina
Editore, 2002.
126 Di Nuzzo, A. La morte, la cura cit., p. 230.
416
127 Goddard, V. “Women’s Sexuality and Group Identity in Naples”, in Caplan, P. (a cura di) The
Cultural Construction of Sexuality, London, Tavistock, 1987, pp.
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419
Signora molto malata. Io facevo tutto, pulivo casa, ma pulivo anche lei, cambiavo
pannolini, la lavavo, la pulivo quando c’era bisogno, però signora era molto mala-
ta, molto violenta, nervosa, diceva anche brutte parole, mi picchiava, mi trattava
male … però lei non capiva niente … aveva malattia non so come (morbo di
Alzheimer) … Mi sgridava ma so che non era lei. E io volevo bene tanto quando
è morta per me grande sofferenza.
420
in altri a quella che prevede il loro superamento in nome del rispetto della libertà
individuale e di quello dell’integrità della persona.
Tra le ipotesi d’indirizzo psicoanalitico bisogna ricordare quella di Bruno Bet-
telheim, secondo il quale alla base della circoncisione femminile e della deflorazio-
ne rituale vi sarebbero l’invidia dell’uomo per la funzione procreativa della donna
e il suo desiderio di acquisire il potere sulla vagina e sul sangue mestruale. In
sostanza per Bettelheim, la circoncisione femminile sarebbe espressione dell’am-
bivalenza psichica degli uomini nei confronti delle donne e della loro funzione
sessuale. Egli ritiene che l’uomo, insoddisfatto di non possedere attributi sessuali
femminili, affermerebbe attraverso l’escissione e l’introincisione il suo potere sul
sesso “debole” e sul sangue mestruale: gli uomini, facendo sanguinare le donne a
loro piacimento, dimostrerebbero di aver vinto il timore del sangue e l’ansia per
le mestruazioni129.
Per Marie Bonaparte le mutilazioni genitali sono un antidoto alla masturba-
zione imposta dalla fisiologia dei corpi alle ragazze occidentali130.
Osservazioni che si potrebbero muovere a queste interpretazioni sono l’aver
utilizzato categorie interpretative occidentali per comprendere fenomeni apparte-
nenti a contesti extra-occidentali e di aver comparato situazioni “normali” di culture
normalmente “sane” a fenomeni di alienazione legati a motivazioni psicologiche.
Nell’analisi di Ida Magli la “chiusura”, attraverso l’infibulazione, potrebbe es-
sere la contropartita dell’“apertura” di cui la donna è portatrice e che la rende mez-
zo di comunicazione con l’aldilà, regno dei morti e degli antenati131. L’autrice, pur
essendo un’antropologa di professione, fornisce un’analisi che rimane schiacciata
su interpretazioni di tipo psicoanalitico.
Il rapporto col contesto emerge invece dall’interpretazione di Evelyne Sul-
lerot, secondo la quale l’infibulazione, nei Paesi islamici, va posta in relazione
all’esaltazione della verginità e della moralità femminile, valori predominanti della
cultura islamica. La studiosa ritiene che i quattro elementi fondamentali che do-
minano la vita delle donne nelle società patriarcali (esaltazione della fertilità ed
esacrazione dell’adulterio femminile; confinamento domestico; esclusione dalla
proprietà; assenza di status civico) sembrano essere consoni alla condizione della
donna nei Paesi islamici ove si pratica l’infibulazione, che serve a garantire castità
ed è sostituto della reclusione fisica132.
129 Bettelheim, B. Symbolic Wounds, London, Thames and Hudson, 1955, pp. 112-114, 119-123.
130 Bonaparte, M. “Notes on Excission”, in Psychoannalysis and the Social Scieces, New York, Inter-
national University Press, II, 1950, pp. 78-82.
131 Magli, I. La donna un problema aperto, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 67.
132 Sullerot, E. Woman, Society and Change, Word University Library, McGraw Hill Book Co, 1973,
pp. 20-26.
422
133 Belmont, N.; Valabrega, J.P. “Sessualità”, in Enciclopedia, vol. XII, Einaudi, Torino, 1981, pp.
826-829.
423
134 Sindzingre, N. «Le Plus et le Moins: à propos de l’excisions», in Cahiers d’Études Africaines,
XVII, n. 65, 1977, pp. 65-75; «Un excès par défaut. Excision et representations de la féminité», in
L’Homme, XIX, nn. 3-4, pp. 171-187.
135 Visca, D. Circoncisione femminile escissione e infibulazione: realtà e proposte di cambiamento,
Roma, Bulzoni, 1982, pp. 22, 23, 20.
136 Ivi, p. 25.
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un’altra ragione ovvia, sebbene dichiarata meno spesso, per purificare una ragazza
è di renderla migliore per l’uomo, migliore per il coito. Naturalmente questo non
significa renderla più attraente, ma diminuirne l’indipendenza e frustrarne il de-
siderio prima e durante il rapporto, per assicurarne il buon esito. Si crede che gli
uomini siano spossati dai preliminari, che rischiano di provocare loro un’eiacula-
zione precoce. Una buona moglie risparmia fastidi inutili al marito e aumenta la
propria possibilità di concepire137.
La società, per dirla con Firth, si prende cura dei suoi membri così come si fa
in fabbrica con le materie prime138. Gli uomini sono manipolati per essere adatti
all’uso sociale secondo un determinato sistema di valori; poiché ogni istituzione
tende a creare e a perpetuare un proprio sistema di valori, cui gli individui si
conformano, anche se questi valori fossero privi di importanza per il benessere
sociale, si tenderebbe a conservarli, perché contribuiscono al mantenimento di
un’istituzione preesistente. È invero la forza della tradizione, cui si riferiscono gli
etnografi nelle loro analisi quando tentano di comprendere fenomeni sociali e
fatti inquietanti. Queste mutilazioni, all’interno di determinati sistemi culturali,
hanno anche valore in termini di identità di gruppo. Tali pratiche, inoltre, sono
inserite all’interno di rituali iniziatici tribali e consentono l’ingresso dell’individuo
nella cultura, che, in questo caso, è la conquista di un nuovo ruolo sociale o di una
nuova categoria sessuale. Il senso delle mutilazioni sessuali non muta: «la società
modifica, secondo le sue rappresentazioni di immaginario collettivo, il dato natu-
rale in modo da potersene servire»139.
Del nuovo status di donna che si acquisisce mediante le mutilazioni sessuali
parla anche Carla Pasquinelli. L’antropologa, sottolineando l’importanza del con-
testo, da intendere come struttura di significati condivisi dai componenti di un
gruppo sociale, si sofferma sul bride-price (prezzo della sposa), cioè sul compenso,
in bestiame o in denaro, che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della
futura moglie in cambio di una donna illibata. Il valore di una sposa dipende dalla
sua verginità e le mutilazioni genitali femminili sono una forma di protezione che
limitano i desideri e le tentazioni di rapporti prematrimoniali, ma che soprattutto
preservano e difendono la donna da violenze e stupri. La studiosa sostiene, inoltre,
che mentre nella nostra società lo statuto di genere è soggetto a una negoziazio-
ne continua nelle società più tradizionali appare più fisso. Nelle società africane,
quindi, la creazione dell’identità di genere prima di essere un percorso metaforico
137 Gideon, M.; Arioti, K.M. “Vergogna e genere”, in La Ricerca folklorica, Brescia, Grafo editore,
n. 40, ott. 1999, p. 110.
138 William Firth, R. Noi, Tikopia, Bari, Laterza, 1976, pp. 392, 444.
139 Visca, D. Circoncisione femminile cit., p. 26.
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è una manipolazione fisica dei corpi. Le mutilazioni genitali femminili sono “un
marcatore sessuale” che interviene su due livelli: esse asportano la parte maschile
dell’apparato genitale femminile (clitoride), consentendo alla ragazza di diventare
una donna a pieno titolo, e ne determinano l’aspetto fisico, costringendo il cor-
po della donna ad assumere un’andatura flessuosa e lenta che è una conseguenza
dell’operazione (infibulazione)140. Le mutilazioni genitali femminili, in questo
modo contribuiscono a regolare la gestione delle risorse e la rete complessa degli
scambi matrimoniali e delle relazioni sociali.
Libertà individuale e integrità delle persona sono gli elementi che emergono
dalle parole di Michela Fusaschi, la quale ritiene che sia giusto portare avanti un
dialogo che ricostruisca i singoli percorsi di vita. L’antropologa dice che
Conclusioni
Culture, significati e funzioni sociali, libertà individuale, rispetto della persona
sono solo alcuni delle problematiche da affrontare quando si parla di mutilazioni
sessuali. Ma parlarne non basta, come non basta spiegare questi riti con categorie
occidentali, perché ogni lettura non può essere esaustiva e, soprattutto, non può
esserlo quando le distanze culturali diventano barriere che ostacolano la compren-
sione. Se noi ci chiedessimo alla luce delle interpretazioni delle studiose italiane,
quale elemento emerge in maniera costante dalle loro spiegazioni delle mutilazioni
sessuali o fino a che punto la cultura occidentale condiziona le loro interpretazio-
ni, potremmo sostenere che pratiche così complesse non possono né essere com-
pletamente comprese né schiacciate da interpretazioni che risentono della volontà,
se pur inconsapevole, di ridurre la diversità all’unità.
140 Pasquinelli, C. “Identità di genere e prezzo della sposa. Antropologia delle mutilazioni dei geni-
tali femminili”, in La Ricerca folklorica, Brescia, Grafo editore, n. 44, ott. 2001, pp. 6-7; Id. Infibu-
lazione. Il corpo violato, Roma, Meltemi, 2007, pp. 94-95.
141 Fusachi, M. “Corpi segnati: infibulazioni e altre modificazioni dei genitali femminili”, in Voci
Cosenza, Gruppo periodici Pellegrini, a. I, n. 1, gennaio-giugno 2004, p. 103; Id. I segni sul corpo. Per
un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili, Torino Bollati Boringhieri 2003.
426
427
Beatrice Salvatore
Ho scelto questo titolo, la scena rovesciata appunto, per introdurre con un’imma-
gine immediata, il senso del mio intervento centrato sul tema della violenza – letto
attraverso la particolare lente dell’arte contemporanea – e su un’interpretazione
del fare artistico come narrazione, che “restituendoci” in altra forma il senso della
violenza e del dolore, lo contiene, aiutandoci attraverso il racconto, a ri-conoscerlo
e forse, a superarlo, ricostruendo la continuità tra sé e il mondo. L’immagine infat-
ti, ci rimanda a un’idea di ribaltamento, di cambio di prospettiva, di uno sguardo
“altro” sulle cose. Considero il fare arte, in genere, una sorta di “rovescio” della
medaglia, la zona in ombra delle cose, forse quella che ci dice di più, pur misterio-
samente, a volte, sul nostro stare al mondo.
L’arte, spesso, ha parlato di violenza. Attraverso le immagini e un linguaggio
a volte crudo, anche disturbante, ce la rimanda, ce la ricorda, ce la fa rivivere:
violenza di genere o politica, violenza razziale o quella legata ai rapporti di coppia
o ancora ai legami familiari. Perché chi fa arte sceglie di mostrare scenari inquie-
tanti, sceglie di parlare di sofferenza e di dolore, costringendoci a guardare in
modo amplificato ciò che comunque, da sempre, appartiene all’uomo ma che,
sempre, cerchiamo di dimenticare, rimuovere dalla nostra vista e coscienza? Quale
necessità o quale urgenza, si può dire, si muove dietro la narrazione della violen-
za? Per provare a rispondere a queste domande e a tracciare una sorta di ricerca
“trasversale” attraverso l’arte contemporanea, ho focalizzato la mia attenzione sulla
pratica artistica femminile e sul lavoro di alcune artiste in particolare, quali Carol
Rama, Louise Bourgeois, Frida Kahlo, Ana Mendieta, Regina José Galindo, Teresa
Margolles, Nan Goldin, Sue Williams, Shirin Neshat, Sophie Calle e Nathalie
Djurberg, che hanno fatto della violenza e del dolore (e della narrazione di esso) il
tema privilegiato del loro fare artistico come se esso da sempre appartenesse all’a-
nimo e alla sensibilità femminile. Cercherò quindi di trattare l’argomento dell’arte
contemporanea e più specificamente dell’arte “di genere”, partendo proprio dal
concetto di “rovesciamento” cui accennavo all’inizio.
Cos’è la violenza? Come la vivono e soprattutto, la elaborano le donne con la
loro particolare sensibilità? La violenza e il dolore inevitabile, che ne consegue, si può
considerare come una sorta di lesione traumatica dell’integrità della propria identità
individuale o sociale, che, culturalmente, colpisce maggiormente le donne. Esse, per
altro incarnano da sempre, per il fatto di poter donare la vita, una sorta di rifiuto
intrinseco della violenza, evocando la magia del corpo e della fertilità. Le donne
“contengono” la vita, la accolgono, rappresentando la continuità, quella opposta alla
frattura, al trauma. Non a caso il Mito di Medea, colpisce proprio per un paradosso,
la ferocia compiuta proprio da una donna, ferita a sua volta. Medea, la sacerdotessa,
si vendica sui suoi figli, portando la Morte per sua volontà e spezzando così proprio
quel filo che naturalmente la lega alla Vita. Cosa compie Medea? Una sorta di rito,
così come il suo popolo compiva riti di sacrificio per propiziarsi le messi e la buona
riuscita del raccolto, ma per “esprimere”, rendere evidente il suo dolore di donna
abbandonata. È il racconto, in una parola, del suo dolore, della violenza subìta, at-
traverso un dolore, che in fondo, infligge a se stessa. L’esempio di Medea e del mito a
lei legato è estremo, come lo sono tutti i Miti, ma rappresenta in qualche modo una
differente possibilità di forza, una potenzialità tutta femminile che può rimandare a
un concetto di violenza più intimo, del tutto privato che fa da contraltare a un senso
di forza maschile legata al dominio, a una violenza socializzata e riconosciuta che si
fonda sul potere. La donna, potremmo dire, non provoca la violenza, non la cerca
come linguaggio che le appartiene, essa può però riprodurla, “contenerla”, così come
può contenere la Vita, con una forza e una potenzialità diverse, quella del racconto e
del linguaggio come dono e come restituzione di una continuità spezzata. Non par-
liamo forse di “trama”, di “tessuto” di un racconto, sottolineando i legami, l’unione
continua di parti, di fili, che formeranno poi, miracolosamente, un’unità? Bene.
Sto associando infatti, l’arte del raccontare a quella, antica e tutta femminile, della
tessitura. Che solo le donne conoscono. Noi come Penelope. Che tesse all’infinito
la sua storia e quella del suo uomo. E penso a Sherazade. Alle sue Mille e una notte.
Una trama intessuta lentamente. Unica e infinita. Anche lì, forte, c’è un legame tra
un dolore e una forza narratrice. La forza della continuità: Sherazade racconta, notte
dopo notte, svelando anche a se stessa il suo profondo scopo e senso. Con il suo
racconto, dunque, salva se stessa e guarisce il re Shariyar. La sua lunga narrazione,
le immagini che evoca, hanno forza guaritrice e terapeutica. Che superano una frat-
tura, un trauma. Ecco che allora, torno alle artiste e al loro racconto per immagini.
Esse parlano di violenza, sofferenza, dolore, racchiudendoli in un rituale che in altre
parole si chiama arte.
430
Ho scelto Carol Rama, artista ormai novantunenne, così come la scelsi anni
fa come oggetto della mia tesi, per iniziare questo viaggio nell’arte femminile, che
trasforma attraverso la creatività (e la sua narrazione) il peso di dolori autobiogra-
fici e di storie di sofferenza. «La rabbia è la mia condizione di vita da sempre; sono
l’ira e la violenza a spingermi a dipingere; e il lavoro mi appaga, mi rasserena».
Carol Rama è un’artista autobiografica. Sin da giovanissima, dipinge acquerelli in
cui ogni personaggio, ogni oggetto che compare sulla scena dell’opera trova il suo
riscontro nella sua storia e nella sua memoria. Corpi femminili troncati, dentiere,
letti di contenzione, sedie a rotelle, animali, scarpe e altro, rappresentano la sua
storia e sono i soggetti dei primi acquerelli, che negli anni della loro esecuzione
(1936-1946) risultarono addirittura inaccettabili (la sua prima personale nel 1945
fu bloccata e le opere sequestrate) per la loro “verità”, per il fatto di aver portato
alla luce quel “rovescio” della medaglia, le zone d’ombra della sua e della nostra
esistenza. Questi lavori riflettono le angosce e le fantasie di una giovane donna,
che ha dovuto di colpo confrontarsi con gli aspetti più traumatici della vita, dopo
un’infanzia piuttosto protetta nella casa paterna. Anche Louise Bourgeois, artista
parigina, nata nel 1911 e recentemente scomparsa, “usa” l’arte e l’espressività per
“guarire”, “rovesciando la scena del dolore come in uno specchio. Dandogli un
senso. Bourgeois parlando della sua pratica artistica, afferma: «Il dolore è il sog-
getto di cui mi occupo. Dare significato e forma alla frustrazione e alla sofferenza.
A quello che succede al mio corpo va dato un aspetto formale. Si potrebbe quindi
dire che il dolore è il riscatto del formalismo». O ancora: «Esorcizzare fa bene.
Cauterizzare, bruciare per guarire. È come potare gli alberi. La mia arte è questo.
Lo so fare bene».
Il dolore che ci racconta Bourgeois (figg. 1, 2, 3) è un dolore tutto legato a
una femminilità intrisa di conflitti e all’essere madre e figlia. Bourgeois e Carol
Rama sono donne che hanno creato una perfetta consonanza tra l’arte e la vita. La
vita è arte e l’arte è la vita. Non c’è differenza, non c’è distanza. E in questo legame
comincia il racconto:
Un artista mette in scena i suoi problemi. Non c’è comunque cura, perché
l’espressione di sé non comporta apprendimento. Lo esclude. Ecco perché si
ripete continuamente.
A Sisifo piaceva spingere il suo macigno. Era la sua ragione di vita. Era una forma
di auto-espressione e non gli ha mai fatto imparare niente.
Camus non voleva imparare. Voleva giustificare la sua sofferenza. Io voglio im-
parare.
Anche la vita e l’opera della pittrice Frida Kahlo, ormai notissima artista mes-
sicana, molto legata alle tradizioni anche pittoriche e culturali della sua terra, può
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142 Corpus. Arte in azione è la rassegna dedicata alla performance e interamente declinata al fem-
minile, curata da Adriana Rispoli e Eugenio Viola, in co-produzione con il Napoli Teatro Festival
Italia, che si è tenuta al Madre dal 7 al 26 giugno 2010 e che ha ospitato artiste provenienti dai
Paesi dell’America Latina come Tania Bruguera, Maria José Arjona, Teresa Margolles e Regina José
Galindo, ma anche la napoletana MaraM e la croata Xena Zupanic (con Sebastiano Deva). Per un
approfondimento sulla rassegna si rimanda alla mia recensione apparsa sul N. 66 (agosto-settembre)
della rivista Espoarte.
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no di maschere grottesche, di incubi bui come la notte, che però ci parlano della
nostra quotidianità, della nostra “normalità”, che ci impedisce a volte di vedere
i contorni della nostra esistenza e della violenza che, sempre, si nasconde nelle
relazioni. I linguaggi creativi di queste artiste, così differenti tra loro, ci hanno
guidato in questa breve indagine nella relazione tra arte femminile e violenza e nel
potere di una differente sensibilità, quella del racconto che, espressa, può aprire
alla possibilità di trasformazione del trauma, restituendo o ricostruendo, l’integrità
del sé e contribuendo a ricomporre i nostri privati e intimi racconti autobiografici.
Ringrazio chi mi ha dato l’opportunità di parlare, qui, oggi e ringrazio voi che
mi avete seguito con pazienza. E fate conto che anche io, come donna, vi abbia
raccontato una storia.
Riferimenti bibliografici
Bettelheim, B. Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle
fiabe, traduzione di Andrea D’Anna, Milano, Feltrinelli, 2008.
Kahlo, F. Lettere appassionate, a cura di Martha Zamora, trad. di Monica
Martignoni, Milano, Abscondita, (collana Carte d’artisti), 2002.
Poli, F. Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni Cinquanta
a oggi, Milano, Mondadori Electa, 2005.
Sitografia
www.reginajosegalindo.com
http://www.fkahlo.com/
http://www.carolrama.com/ita/hp-ita.htm
http://www.women.it/oltreluna/vocidiartiste/louise.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Sophie_Calle
http://www.museomadre.it/mostre_show.cfm?id=78
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Immagini
Figura 1. Louise Bourgeois, The Woven Child, 2002, Fabric, 35.5×68.5×35.5 cm, Private
Collection. © Louise Bourgeois Trust. Courtesy Hauser & Wirth; photo: Christopher Burke
Figura 2. Louise Bourgeois, Temper Tantrum, 2000, Pink fabric, 22.9×33×50.8 cm, Pri-
vate Collection. © Louise Bourgeois Trust. Courtesy Hauser & Wirth; photo: Christopher
Burke
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Figura 5. Regina José Galindo, Perra, Escribo la palabra PERRA con un cuchillo sobre
mi pierna derecha. Una denuncia de los sucesos cometidos contra mujeres en Guatemala,
donde han aparecido cuerpos torturados y con inscripciones hechas con cuchillo o navaja.
PrometeoGallery di Ida Pisani. Milano, Italia. 2005. Stampa lambda su dibond, 70 x 93
cm. Courtesy the artist and prometeogallery di Ida Pisani, Milan/Lucca.
Figura 6. Regina José Galindo, El Peso de la Sangre. Un litro de sangre humana, cayendo
gota, a gota, sobre mi cabeza y mi cuerpo. Plaza Central. Ciudad de Guatemala, Guate-
mala. 2004
Stampa lambda su dibond, 75 x 100 cm. Courtesy the artist and prometeogallery di Ida
Pisani, Milan/Lucca.
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Figura 7. Regina José Galindo, Caparazón. El miedo en su forma sonora, en cada estallido,
en cada golpe. Mi cuerpo desnudo permanece en posición fetal dentro de un domo blin-
dada. Un grupo de individuos, armados con palos, golpea frenéticamente el domo hasta
destrozar sus propias armas.
Corpus. Arte in Azione. MADRE, Museo D’Arte Contemporanea Donna Regina. Napoli,
Italia. 2010. Foto: Rafael Burillo, Teresa Margolles, Amedeo Benestante. Stampa lambda
su forex, 113×169 cm. Courtesy the artist and prometeogallery di Ida Pisani, Milan/Lucca.
Figura 8. Nathalie Djurberg, There Ain’t No Pill, 2004, clay animation, video, music by
Hans Berg, 5:25 min. Ed.: 4, II. Courtesy Giò Marconi, Milano.
439
Figure 9-10. Nathalie Djurberg, Tiger Licking Girl’s Butt, 2004, clay animation, video,
sound effects by Hans Berg, 2:15 min. Ed.: 6, II. Courtesy Giò Marconi, Milano.
Si ringraziano tutte le artiste e le gallerie che hanno concesso di riprodurre queste immagini.
440
Vitulia Ivone
143 Così Santosuosso, A. “Corpi e soggetti: l’invenzione del sé tra biotecnologie e categorie giuridico-
politiche”, in Storia delle donne, 1, 2005, p. 13.
442
443
444
445
essere stata costretta ad azioni od omissioni. Nel caso dello stalking invece, se
da un lato la vittima è al più indotta a cambiare stile di vita, abitudini, luoghi e
tempi di conduzione della propria esistenza (cosa che non sempre può qualificarsi
come costrizione a «omettere, tollerare o fare qualcosa»), dall’altro non necessa-
riamente lo stalker ricorrerà a modalità violente o minacciose di realizzazione del
fatto, privilegiando invece – come spesso accade – comportamenti più circospetti,
seppur non meno invasivi e lesivi della libertà della vittima. Ci si riferisce a quei
comportamenti che risultino molesti nei confronti della donna «in un luogo pub-
blico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro
biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo».
Si auspica tuttavia, l’introduzione di ulteriori misure di sostegno e tutela delle
vittime della violenza di genere, nonché norme idonee a prevenirne la realizzazio-
ne, anche sulla base di misure volte a garantire un’effettiva sensibilizzazione rispet-
to a tali questioni, in ragione dell’incidenza che i fattori sociali e gli stereotipi cul-
turali rivestono in ordine a tali reati. Ora, almeno per quanto riguarda il tentativo
di conferire maggiore determinatezza alla fattispecie, ben può la giurisprudenza,
attraverso interpretazioni adeguatrici e costituzionalmente orientate, contribuire a
recuperare la necessaria tassatività della norma valorizzando la funzione del delitto
di atti persecutori, quale presupposto per un vero e proprio habeas corpus della
donna.
4. Prospettive
È nelle corde della politica privilegiare il ricorso a disposizioni penali, sfruttandone
il potenziale simbolico a fronte di casistiche da brivido: tuttavia, tale impostazione
strategica talvolta danneggia la stessa effettività ed efficacia delle norme, lasciando
spazio al rischio – denunciato più volte dal pensiero femminista – di rappresentare
la donna – vittima privilegiata dei delitti sessuali – come soggetto sempre e co-
munque debole, legato all’altro sesso da un rapporto di prevaricazione che lo Stato
deve farsi carico di criminalizzare. Ciò dà vita, nel concreto, a una deresponsabi-
lizzazione del singolo individuo, della relazione di coppia, dell’impegno emotivo
di ogni persona nell’intuire il potenziale di un aiuto psicologico, di un supporto
competente. Una politica lungimirante e non miope, attenta cioè agli effetti di
lungo periodo delle riforme, dovrebbe poter coniugare norme penali e misure
extrapenali, politiche sociali a sostegno delle vittime, per sradicare le cause, prima
ancora degli effetti, di tali fenomeni. La riforma sullo stalking è stata vissuta dalle
donne come occasione di assoluto rilievo per ottenere legittimazione simbolica
del proprio esistere come soggetto politico, portatore di una strutturale differenza,
rivendicata contro un nemico (altrettanto) simbolico: la violenza sessuale – segno
emblematico del patriarcato – capace di coagulare consensi e mobilitare coscienze,
446
pur al prezzo di ridurre la complessità del rapporto tra sessi a relazione tra colpevo-
le e vittima. Questo è il clima in cui è stata pensata e scritta la riforma, concepita
come strumento di affermazione di una soggettività politica sessuata144, in striden-
te contrasto con una società che sembra aver accettato la realizzazione concreta
del principio di eguaglianza, che sembra disposta a non colpevolizzare le donne
per il loro abbigliamento o la libertà dei costumi, che sembra pronta a invertire
lo schema dei ruoli così come consegnato dalle generazioni precedenti. L’assistere
all’attuale recrudescenza dei casi di atti persecutori contro le donne, soprattutto
se perpetrati e consumati nell’ambito di relazioni cosiddette “affettive”, consegna
nelle mani del giurista una società contraddittoria e retriva, in cui alle apparenze
corrispondono le verità più inconfessabili e le pulsioni più medievali: la speranza
che la normativa possa modificare tale stato di cose è pura illusione. Il percorso nel
quale agire è ben altro: sono i luoghi della crescita degli individui i veri incubatori
degli uomini di domani, sono le palestre dove si impara il rispetto delle donne e
l’attuazione del principio di eguaglianza. La famiglia, la scuola, i luoghi dello sva-
go, le palestre: è qui che l’impegno non deve andare evaso. Nessuno può abdicare
al costante compito di educare e di impegnarsi perché l’educazione al rispetto
reciproco non diventi il dinosauro del passato da proteggere come specie estinta. E
agli operatori del diritto viene affidato il compito di tradurre i principi e di tenere
alta l’attenzione ai temi della persona.
Da queste considerazioni emerge dunque che il diritto – lungi dall’essere spet-
tatore estraneo e disincantato – è chiamato al compito difficilissimo di trovare di
volta in volta i punti di equilibrio, sempre mobili, che consentano di impostare
correttamente nella scena pubblica il confronto di convinzioni etiche, cultura-
li, religiose, secondo una concezione nuova e più ricca dello stesso principio di
laicità. Occorre evitare che il diritto assuma il compito di controllore sociale, di
“guardiano notturno” delle coscienze individuali, perché il rischio che corriamo
è molto alto: demandare al diritto il compito di contribuire a fissare le identità
collettive impedendone il pieno e libero sviluppo.
144 Alcuni studi sul tema hanno risposto al problema della tutela della donna mediante la creazione
di diritti specifici delle donne, ossia di diritti sessuati. Secondo tali teorie bisognerebbe dar vita a
un diritto femminile che garantisca l’inviolabilità del corpo delle donne attraverso la valorizzazione
della geneaologia femminile, la responsabilità della donna madre verso il proprio sesso, quindi verso
il sesso della donna stuprata, la sottrazione di solidarietà al figlio stupratore come espressione di
autorità materna esercitata nel nome del proprio sesso.
447
Il controllo pubblico del corpo è uno dei tratti caratterizzanti di tutte le società
umane, seppure questo assuma modalità e finalità differenti a seconda dei diversi
momenti storici. Nel corso della storia si manifesta talune volte stabilendo criteri
estetici ai quali i corpi devono conformarsi, altre imponendo canoni sanitari con
conseguente disapprovazione di comportamenti antigienici, altre ancora fissando
regole riferibili alle funzioni che i corpi devono esercitare al fine di assolvere agli
obblighi e alle responsabilità pubbliche. Nel caso dei corpi femminili il controllo
ha assunto e assume spesso la forma contraddittoria della sua protezione che si
esercita nella sfera pubblica, ma che si arresta davanti alle violazioni del corpo nella
sfera privata1. Alla base di questa contraddizione, che si è costruita intorno alla
dicotomia pubblico/privato, vi è la convergenza di due tendenze rinvenibili già
nelle società antiche. Da un lato, l’intento di tutelare il corpo femminile per la sua
funzione di riproduzione, come “luogo” che origina e custodisce la vita, dall’altro
lato la legittimazione della subordinazione femminile scaturita dal riconoscimento
del pater familias (a partire dal diritto romano) da cui si origina, per le società oc-
cidentali, il patriarcato nelle sue espressioni in ambito sia familiare, che pubblico.
Da allora e nelle società contemporanee il dominio pubblico assume i contorni di
uno stato paternalista che definisce i confini della mascolinità e per differenza della
femminilità, legittima la divisione sessuale del lavoro, attribuisce i ruoli sociali e
1 Perrot, M. “Donne in lotta per i diritti del loro corpo”, in Filippi, N.M.; Plebani, T.; Scattigno,
A. (a cura di) Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, Roma, Viella,
2002, pp. 3-17.
2 Moller Okin, S. Justice gender and the family, Princeton, Princeton University Press 1989, trad.
it. Palombella, G.; Pievatolo, M.C. Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Bari,
Edizioni Dedalo, 1989.
3 Memmi, D. “Verso una confessione laica?”, in Filippi, N.M.; Plebani, T.; Scattigno, A. Corpi
e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, Roma, Viella, 2002, pp. 229-246.
452
recente intorno alle pratiche che segnano la vita e la morte degli individui descrive
una fase più intensa di punizione che riduce gli spazi di libertà che gli individui si
sono guadagnati mediante l’acquisizione di una maggiore consapevolezza del pro-
prio corpo e le possibilità del suo controllo. Si assiste a un vero e proprio discipli-
namento che si sta imponendo attraverso le pratiche legate alla riproduzione e con
esso a una riaffermazione dei ruoli maschili e femminili nei quali si confondono i
confini del biologico (sesso) e della costruzione sociale (genere) circa i ruoli degli
uomini e delle donne. Da qui, attraverso una rinnovata ri-naturalizzazione delle
differenze si sta rianimando la retorica pubblica – laica e religiosa4 – sui ruoli di
genere e con essa delle definizioni della coppia, della famiglia e della genitorialità.
Questa progressiva ri-naturalizzazione mette al centro del dibattito il binomio
sesso/genere soprattutto perché sembra che il pensiero femminista e quello della
differenza non siano riusciti a evitare la trappola paventata più di dieci anni fa da
J. Butler5. Quest’ultima infatti suggeriva di superare la dicotomia sesso/genere
senza considerare il genere come dato, seppure socialmente costruito, al fine di
evitare il rischio di rendere fisse, come se fossero naturali, differenze di natura so-
ciale. Guardando allo scenario italiano, e non solo, sembra invece che il pensiero
femminista, non sia più in grado di arginare questa tendenza, ma a tratti pare so-
stenerla, non interrogandosi più sui significati biologici e sociali del corpo, in par-
ticolare per gli ambiti legati alla sessualità e alla riproduzione. Questa lacuna apre
a molte considerazioni, in particolare sul venire meno dell’impegno politico che il
pensiero femminista implicitamente portava con sé. Negli anni del suo maggiore
successo, il femminismo è stato in grado di intervenire nel dibattito pubblico po-
nendo come centrale non solo l’affermazione dei principi dell’autodeterminazione
e dell’emancipazione dal patriarcato, ma soprattutto la necessità di ridistribuire il
potere tra i generi facendo della negoziazione una pratica di ridefinizione della dia-
lettica tra di essi. L’attuale silenzio, o la flebile voce, di cui il femminismo sembra
dotato tradiscono un’incapacità critica rispetto alle strutture patriarcali dominanti
e un ripiegamento nell’alveo privato della portata delle istanze delle donne. In
questo senso, qualche anno fa Nancy Fraser6 ha fatto notare che la portata del
4 Usiamo l’aggettivo religiosa, senza specificazione del credo religioso, perché paradossalmente
l’unica forma di accordo tra i credi religiosi presenti in Italia sembra essere quello del controllo sulle
donne, soprattutto sui loro corpi, che appare tollerato e che suscita l’indignazione solo davanti alla
morte di qualche giovane donna che abbia rifiutato le costrizioni delle famiglie d’origine (soprattutto
se straniere). Una debole riprovazione suscitano i numeri degli abusi domestici, di violenze e omicidi
consumati a opera dei partner o in ambito familiare.
5 Ci si riferisce alla introduzione dell’autrice scritta nel 1999 in occasione della ristampa del suo
volume più noto, Butler, J. Gender Trouble, New York, London, Routledge, 1999.
6 Fraser, N. “Mapping the feminist imagination: from redistribution to recognition to representa-
tion”, in Browne, J. (a cura di) The future of gender, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
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e della sessualità sia uno degli strumenti attraverso il quale si esercita il controllo
del corpo delle donne, e con esso, il sodalizio tra diritto e potere, reso possibile
dall’esclusione dalla storia delle donne. Questa situazione può essere superata solo
mediante una rifondazione del diritto che ribalti le norme sociali prevalenti dando
a coloro che soccombono nelle relazioni sociali strumenti che consentano di resi-
stere e affermare la propria identità, anche attraverso il superamento di alcuni falsi
dilemmi, in particolare di quello tra differenziazione e universalismo.
In questo contesto così stringente si muovono gli individui che esprimono
la propria soggettività contrapponendo alla retorica pubblica le narrazioni delle
proprie biografie. La resistenza estrema giocata proprio sul corpo è quella che si
incontra nelle narrazioni contenute nei romanzi dell’anoressia/bulimia descritti
nel saggio di Lucia Rodler. Si tratta di veri e propri romanzi di formazione nei qua-
li le protagoniste raccontano la rabbia come l’elemento struggente della propria
ribellione alle costrizioni del mondo esterno. Le protagoniste di questi romanzi
sono descritte come giovani eroine dei nostri tempi costrette in un corpo rifiutato.
L’euforia che infonde il potere di controllo sul proprio corpo è lo strumento della
resistenza al disciplinamento. Nei romanzi, vi è il rifiuto anche della retorica pub-
blica intorno alle persone anoressiche/bulimiche che, da un lato, le descrive come
ingenue vittime di processi emulatori di modelli estetici e dall’altra, le connota,
più benevolmente, come malate.
Meno violenta, anche se certo non meno complessa, la soggettività espressa
nei due saggi successivi. Nel suo contributo Fulvia D’Aloisio descrive, attraverso
i racconti di giovani donne, le loro scelte di fecondità come complicati percorsi
stretti tra aspettative sociali sulla maternità e negoziazione con il partner. In parti-
colare, D’Aloisio affronta il tema della contraccezione attraverso il coito interrotto
suggerendo l’intrigante argomentazione che questo sia, da un lato, l’attenuazione
della razionalità dei singoli, e dall’altra un’attribuzione di responsabilità che le
donne fanno al proprio partner.
Nel saggio di Gianfranca Ranisio invece la soggettività è interpretata come
agency delle donne nel complicato momento della gravidanza. Attraverso i raccon-
ti di alcune donne, l’autrice osserva che, come conseguenza della medicalizzazio-
ne, sopratutto il parto ha perso il suo carattere sociale. Divenuto principalmente
un evento medico, dal parto sono state espulse le presenze femminili e le compe-
tenze che lo connotavano. Progressivamente spogliate della sicurezza che queste
infondevano, le giovani donne si affidano a un sapere razionale – moderno che
è quello scientifico. Nei racconti raccolti dall’autrice ai corsi di preparazione al
parto emerge però la resistenza a questa medicalizzazione e la volontà delle donne
– come partorienti e come professioniste – di riprendersi il controllo di questo
momento della propria vita principalmente attraverso una riscoperta dei segnali
del corpo e una maggiore consapevolezza di sé.
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457
Paola Borgna
7 Di Pietro, M.L.; Sgreccia, E. Procreazione assistita e fecondazione artificiale tra scienza, bioetica e
diritto, Brescia, Editrice La Scuola, 1999, p. 134.
8 Chi scrive ha compiuto una prima analisi della legge 40/2004 in Borgna, P. Sociologia del corpo,
Roma-Bari, Laterza, 2005. Detta analisi è qui ripresa, aggiornata e ampliata.
sentenza 151/2009 della Corte Costituzionale su alcuni commi della legge. Cia-
scuno di questi percorsi sarà analizzato nei termini dello scontro che l’ha caratteriz-
zato tra rappresentazioni del corpo costruite sotto la sollecitazione e nell’interesse di
gruppi più o meno ampi e più o meno in grado di determinare l’agenda politica
che hanno chiesto di trovare spazio, con fortune diverse, nella regolamentazione
giuridica della riproduzione assistita.
9 Sul divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell’articolo 14 della legge, cfr. infra.
460
quanto previsto dalla legge n. 194 del 1978, recante norme per la tutela sociale
della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza); vietava (sino alla
sentenza della Corte Costituzionale 151/2009; cfr. infra) l’applicazione delle tec-
niche alla produzione di un numero di embrioni superiore a quello strettamente
necessario a un unico e contemporaneo impianto (fissato nel numero di tre); vieta
altresì la riduzione embrionaria di gravidanze plurime.
Tornando alla locuzione “procreazione medicalmente assistita”10. Chi ne ha ram-
mentato la provenienza teologica ha fatto pure notare che la locuzione è del tutto
impropria per indicare le tecniche di riproduzione artificiale11. L’osservazione ci trova
concordi; non però per i motivi di chi l’ha formulata. L’espressione non è quella in
uso in prevalenza in ambito scientifico12. Ma non è impropria rispetto ai contenuti
che connota. Come sempre accade, il linguaggio non è neutro e in questo caso rinvia
chiaramente a una rappresentazione della riproduzione che assegna alla donna un
ruolo – al più – da comprimaria. Secondo tale rappresentazione, nella riproduzione
la donna collabora (come il prefisso pro suggerisce) a un disegno a lei superiore. È
difficile non pensare in proposito a quanto chi ha studiato la storia della gravidanza ci
ha insegnato in tema di espropriazione e occupazione del corpo della donna.
Potremmo dire così: per chi l’ha rilevata rammentandone l’origine teologica,
siamo di fronte a una improprietà dell’utilizzo della locuzione – per così dire –
“per difetto”; l’utilizzo dell’espressione nella legge 40 costituisce in questa prospet-
tiva il tentativo di addolcire una realtà che stravolge un atto che pone le premesse
all’intervento creativo di Dio e che trasforma i soggetti coinvolti in impersonali
produttori di gameti13.
La stessa locuzione – proponiamo qui – può essere considerata impropria “per
eccesso”: per eccesso di attori che richiama sulla scena; questione di rappresenta-
zioni, anche in questo caso.
Se pure non trapelasse dalla locuzione “procreazione medicalmente assistita”
utilizzata sin dall’intitolazione della legge (si potrebbe obiettare che il termine
“procreazione” è entrato nel linguaggio corrente come semplice sinonimo, imme-
10 Nel testo si è scelto di utilizzare la locuzione solo quando si richiama testualmente la legge
40/2004.
11 Di Pietro, M.L.; Casini, M. “Il dibattito parlamentare sulla ‘procreazione medicalmente
assistita’”, in Medicina e Morale, n. 4, 2002, pp. 617-666, e Di Pietro, M.L.; Sgreccia, E. Procreazione
assistita cit., p. 134 (in realtà gli autori contrappongono la procreazione assistita alla fecondazione
artificiale).
12 Un semplice esercizio condotto sugli Oxford journals dell’area medica consultabili nella banca
dati online della Oxford University Press restituisce per la ricerca con parole chiave nel titolo un
rapporto di 11 a 1 tra le occorrenze di assisted reproduct* e quelle di assisted procreat*.
13 Di Pietro, M.L.; Sgreccia, E. Procreazione assistita cit., pp. 129-130.
461
14 Duden, B. Der Frauenleib als öffentlicher Ort: Vom Mißbrauch des Begriffs Leben, Hamburg/
Zürich, Luchterhand, 1991, tr.it. Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di
vita, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 107.
462
legge, sfociando poi istituzionalmente nel deposito (luglio 2004) presso la Corte
di Cassazione di cinque quesiti referendari, quattro dei quali – quelli parzialmente
abrogativi della medesima legge – poi giudicati ammissibili dalla Corte Costitu-
zionale (gennaio 2005). Bocciato il quesito che puntava ad abrogare l’intera legge,
a seguito della decisione della Corte Costituzionale nel giugno 2005 gli italiani
sono stati chiamati a esprimersi su quesiti che chiedevano l’abrogazione del limite
alla ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni; delle norme sui limiti all’accesso;
delle norme sulle finalità, sui diritti dei soggetti coinvolti e sui limiti all’accesso;
delle norme che vietano la fecondazione eterologa.
In relazione ai temi cui si riferivano i quattro quesiti referendari, ci limitia-
mo in questa sede a ribadire che ciascuno di essi rinvia in maniera più o meno
diretta a rappresentazioni del corpo e delle sue regole d’uso, che chi chiedeva
di abrogare articoli e commi della legge 40 dichiarava di non condividere e che
chiedeva di modificare. Basta scorrere le sentenze della Corte Costituzionale
– che rimandano puntualmente alle memorie depositate pro e contro l’ammis-
sibilità dei referendum – per dare nome e cognome ai gruppi che si sono con-
trapposti su questi temi.
Tutti conosciamo l’esito della consultazione referendaria15; a dar ragione
di alcune istanze della quale, tuttavia, è intervenuta la Corte Costituzionale
nell’aprile 2009. Chiamata in questo caso a svolgere le sue funzioni di “giu-
dice delle leggi”, nel senso di controllarne la costituzionalità, con la sentenza
151/2009 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di
parte dei commi 2 e 3 dell’art. 14 della legge 40/2004. In relazione al comma 2,
è dichiarata l’illegittimità costituzionale limitatamente alle parole «ad un unico
e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre»: in assenza di ogni
considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si
sottopone a procedure di procreazione medicalmente assistita, quella parte del
comma si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione (riguardato sotto il
duplice profilo del principio di ragionevolezza e quello di uguaglianza), nonché
con l’art. 32 della Costituzione (per il connesso pregiudizio alla salute della
donna, ed eventualmente del feto).
La raggiunta conclusione in relazione al comma 2 introduce una deroga al
principio generale del divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell’art. 1416
e comporta la declaratoria di incostituzionalità del comma 3, limitatamente alla
parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni – da realizzare appena
463
possibile, come previsto in tale norma – debba essere effettuato senza pregiudizio
della salute della donna17.
Per effetto di tale sentenza, rappresentazioni del corpo della donna e delle sue
regole d’uso diverse da quelle che avevano trovato originariamente espressione nel-
la legge trovano riconoscimento. Anche in questo caso è estremamente interessan-
te scorrere l’elenco delle parti che si sono costituite nel giudizio innanzi alla Corte
e hanno depositato memorie (in realtà dichiarate inammissibili in applicazione del
consolidato ordinamento della giurisprudenza costituzionale, in quanto formulate
da soggetti non parte del giudizio a quo, né titolari di un interesse qualificato,
immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio).
17 Il testo di Laura Ronchetti contenuto in questa sezione invita a riflettere sul significato della
scelta della Corte Costituzionale di ricondurre la propria decisione alla tutela della salute psicofisica
della persona invece che alla libertà personale (e sulle relative rappresentazioni sottese, ci permet-
tiamo di aggiungere).
18 In proposito cfr. ad esempio Rodotà, S. “Per un nuovo statuto del corpo umano”, in Di Meo, A.;
Mancina, C. (a cura di) Bioetica, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 41-68.
464
Era così facile attendersi che una serie di divieti della legge fossero destinati a
essere aggirati, non ultimo rivolgendosi a centri di riproduzione assistita stranieri;
a patto, è ovvio, di poterselo permettere economicamente (osservazione che ne
comporterebbe tutta una serie di altre in tema di disuguaglianze sociali acuite
dalla legge 40/2004). L’effetto di questo e di altri immaginabili modi di aggirare le
norme in materia di riproduzione assistita rischia di essere la complessiva delegit-
timazione dello strumento legislativo.
Per concludere. Nell’iter che ha condotto all’approvazione della legge, nella
mobilitazione che ha portato ai referendum parzialmente abrogativi della mede-
sima e nella recente sentenza della Corte Costituzionale richiamata si sono con-
frontate e scontrate rappresentazioni del corpo – della donna, dell’uomo, del na-
scituro –, della riproduzione e della famiglia diverse, ciascuna delle quali chiedeva
di trovare spazio nella regolamentazione giuridica della riproduzione assistita. La
mobilitazione con cui idee altre concernenti il corpo chiedono riconoscimento
costituisce un tentativo di intervenire nei processi di costruzione sociale del corpo.
Con la richiesta forte – rivolta allo Stato, alle istituzioni, all’opinione pubblica –
che le regole, e la realtà che su di esse prende forma, vengano costruite (meglio:
ricostruite) tenendone conto.
I corpi che noi donne abbiamo e siamo, che avremo e che saremo dipendono
e dipenderanno anche dall’esito di scontri di questo tipo tra libertà e controllo
pubblico, come recita appunto il titolo di questa sezione.
465
Fulvia D’Aloisio
1. Generi e fecondità
La cosiddetta Seconda transizione demografica ha interessato, a partire dalla fine
degli anni Sessanta, tutti i Paesi europei e gli Stati Uniti, seppur con tempi e
modalità differenti, ma al suo interno l’Italia presenta delle specificità che hanno
contribuito a farne un caso: da Paese con un passato di alta fecondità, l’Italia si è
trasformata nel giro di pochi decenni in paese con la più bassa fecondità europea;
questo nonostante alcuni vincoli importanti, quali la forza e la pregnanza dei le-
gami familiari, il peso e l’influenza della religione cattolica e della sua ideologia
pronatalista19.
Da quando “le cicogne non volano più”, per usare un’evocativa espressione di
Giuseppe Micheli20, il dibattito politico-mediatico in Italia, ma per certi versi an-
che la letteratura scientifica, non hanno lesinato atteggiamenti di preoccupazione,
quando non di proprio allarme: nel 2000, alcuni demografi titolano il loro saggio
Il malessere demografico in Italia, facendo esplicito riferimento all’“eccesso” di bassa
fecondità e alla “deformazione” della struttura per età della popolazione italiana,
visto come un fattore di vulnerabilità della società stessa21.
19 Sulla cosiddetta famiglia forte cfr. Reher, D. “Family ties in Western Europe: persistent con-
trasts”, in Population and Development Review, n. 24, 1998, pp. 203-234.
20 Micheli, G.A. (a cura di) Strategie di family formation. Cosa sta cambiando nella famiglia forte
mediterranea, Milano, Franco Angeli, 2006, p. 9.
21 Golini, A.; Mussino, A.; Savioli, M. Il malessere demografico. Una ricerca sui comuni italiani,
Bologna, Il Mulino, 2000.
22 Rosina, A.; Sabbadini, L.L. Diventare padri In Italia, Roma, ISTAT, 2005, p. 9.
23 Bourdieu, P. Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 9-10.
24 Ivi, p. 10.
25 Busoni, M. Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Roma, Carocci, 2000, p. 48.
26 Ivi p. 23.
27 Si fa qui riferimento ai dati etnografici della ricerca Explaining Low Fetility in Italy (ELFI),
468
coordinata da David Kertzer (Brown University, Providence, USA), Marzio Barbagli (Isituto Carlo
Cattaneo, Bologna), e da Laura Bernardi (Max Plank Institute for Demographic Research, Rostok,
Germany). E’stata svolta con metodologia antropologica in quattro città italiane: Bologna, Padova,
Napoli e Cagliari.
28 Winter, J. “La famiglia in Europa e le due guerre mondiali”, in Barbagli, M.; Kertzer, D. (a cura
di) Storia della famiglia in Europa, Roma, Laterza, 2005, pp. 229-257
29 Krause, E. “Fertility politics as a ‘Social Viagra’: reproducing boundaries, social cohesion and
modernity in Italy”, in American Anthropologist, vol. 109, 2007, pp. 350-362.
469
30 A questo proposito, Barbagli, M.; Kertzer, D. op. cit., 2005 distinguono già nel corso dell’Otto-
cento, in assenza degli strumenti contraccettivi disponibili alla fine del Novecento, due categorie per
il controllo delle nascite: quelli che impedivano le gravidanze e quelli che evitavano che le gravidanze
fossero portate a termine partorendo figli vivi (cioè l’aborto).
31 Van de Kaa, D.J. “Europe Second Demographic Transition”, in Population Bulletin, Population
Reference Bureau, 41,1,1987, pp. 1-59; Lesthaeghe, R.J. “The Second Demographic transition in we-
stern countries: an interpretation”, in Oppenheim Mason, K.; Jensen, A.M. (eds.) Gender and family
changes in industrialized countries, Clarendon Press, Oxford, 1999, pp. 17-62.
32 Barbagli, M. Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia, Il Mulino, Bologna 1984;
anche la Seconda Indagine sulla Fecondità in Italia sottolinea come l’analisi del sistema di genere
e delle sue connessioni con la fecondità siano molto complessa: Maffioli, D.; Laura Sabbadini, L.
“L’asimmetria di genere nelle coppie con figli”, in De Sandre, P.; Pinnelli, A.; Santini, A. Natalità e fe-
condità in trasformazione: percorsi e fattori del cambiamento, Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 723-744.
33 Micheli, G.A. La società del figlio assente. Voci a confronto sulla seconda transizione demografia
in Italia, Milano, Franco Angeli, 1995; Fazio, I.; Lombardi, D. (a cura di) Generazioni. Legami di
parentela tra passato e presente, Roma, Viella, 2006; D’Alosio, F. (a cura di) Non son tempi per fare
figli. Orientamenti e comportamenti riproduttivi nella bassa fecondità italiana, Milano, Guerini, 2007;
Billari, F.C.; Dalla Zuanna, G. La rivoluzione nella culla. Il declino che non c’è, Milano, Università
Bocconi Editore, 2008.
470
scelta e deliberazione siano elementi tematizzati come centrali nelle interviste della
recente ricerca in Italia, non è chiaro in che modo esse agiscano, se corrispondano
a una volontà maschile, femminile o di entrambi i partner e comunque in quale
forma concretamente si articolino: a questo proposito può essere utile scegliere
come elemento di riflessione i metodi contraccettivi.
Il coito interrotto è un metodo che ricorre contraddittoriamente quale filo
rosso nella trasformazione della fecondità italiana: nella Seconda Indagine sulla
fecondità, gli autori sottolineavano che, a metà degli anni Novanta, l’Italia conti-
nuava a restare sostanzialmente agganciata a un modello tradizionale che vedeva
la prevalenza del il coito interrotto (30%)34. Così se nel confronto con la prima
indagine del 1979, la copertura contraccettiva delle donne in età feconda risultava
ulteriormente aumentata, tuttavia il coito interrotto restava in sé il metodo più
praticato.
I demografi hanno ulteriormente illustrato come ancora oggi in Italia agi-
scano un numero indefinito di nascite non programmate: tratto peculiare di tali
nascite sarebbe un margine di mancato controllo, di sospensione della raziona-
lità, e d’altro canto alcuni studiosi hanno sottolineato che l’idea di una costante
razionalità sottostante i comportamenti demografici rispecchia più una volontà
dello stato di disciplinare i comportamenti dei suoi cittadini che non un reale
andamento delle cose35.
Anche ricerche qualitative e in profondità, già negli anni Ottanta nelle re-
gioni dell’Italia meridionale, lasciavano emergere una forte presenza del caso e
dell’accidentalità, veicolata dal coito interrotto, generalmente rispetto alle nascite
di secondo ordine36. Più recentemente, a metà degli anni Novanta e nell’Italia cen-
trale, E. Krause registra un’analoga situazione nel suo terreno di ricerca in Toscana,
nella provincia di Prato. Il bambino non pianificato, secondo Krause, è segno di
una sospensione della razionalità, e a sua volta di una modernizzazione contrad-
dittoria e per certi versi incompiuta; al contempo, secondo l’autrice le nascite non
pianificate ci illustrano tutta l’inadeguatezza del binario oppositivo tra razionalità
e irrazionalità, restituendoci la complessità delle motivazioni retrostanti le scelte37.
34 De Sandre, P.; Onagro, F.; Rettorali, R. et al. Matrimonio e figli: tra rinvio e rinuncia, Bologna,
Il Mulino, 1997, p. 99.
35 Krause, E. “They Just Happened”: The Curious Case of the Unplanned Baby and the “End” of Ratio-
nality, Relazione presentata al Congresso dell’American Anthropological Association, Philadelphia,
dicembre 2009.
36 Oppo, A.; Piccone Stella, S.; Signorelli, A. Maternità, Identità scelte. I percorsi dell’emancipazione
femminile nel Mezzogiorno, Napoli, Liguori, 2000.
37 Krause, E. A crisis of birth. Population politics and family-making in Italy, Belmont, Thomson
lerning, 2005.
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Nella ricerca da noi condotta in quattro città italiane, l’uso della contracce-
zione, e dunque anche del coito interrotto è stato indagato in profondità con do-
mande specifiche, e la rappresentazione che ne scaturisce presenta ulteriori spunti
di novità: le donne intervistate tematizzano l’uso del coito interrotto come un
metodo più “naturale” ma soprattutto più condiviso, concertato cioè all’interno
della coppia e responsabilizzante verso il partner, che ne diviene l’attore centrale.
In un recente articolo si evidenzia come, verso metodi come la spirale, vengano
espresse perplessità circa la salute, mentre il coito interrotto è descritto come il
metodo migliore dal punto di vista della condivisione, dell’accordo tra i partner, e
persino dell’abilità di stabilire una buona intesa sessuale e di coppia38. Gli autori
concludono dunque che, al contrario di quanto affermato da molta letteratura
demografica che insiste sul retaggio della tradizione, il coito interrotto possa dive-
nire il simbolo di una nuova modernità di coppia, avvalorato e persino ostentato
dalle donne di classe media, quale metodo in grado di superare il coinvolgimento
solo femminile nell’uso di mezzi quali la pillola. Ipotesi fondata nell’etnografia
e di sicuro effetto, se non fosse che l’antropologia richiede necessariamente uno
sguardo critico alle eventuali discrepanze tra l’asserito e il praticato: infatti gli au-
tori stessi si chiedono, alla fine, se e quanto questo metodo, seppur diversamente
manipolato e investito di nuovo significato dai protagonisti, possa in realtà celare
un vecchio squilibrio di genere, che riflette il ritardo nella diffusione di contrac-
cettivi d’altro tipo e che vede la fecondità nettamente nelle mani degli uomini,
pur essendo viceversa rappresentata come più equamente distribuita e condivisa
all’interno della coppia.
Nei limiti del presente contributo, mi chiedo se l’asserita condivisione del
controllo delle nascite, fondata nell’uso diffuso del coito interrotto, e la casualità
riproduttiva che spesso ne discende, non possano essere strumenti attraverso cui la
volontà di contenimento delle nascite trovi piuttosto una rappresentazione della
“responsabilità” più equamente distribuita: in questo caso la casualità e l’accidente
costituirebbero un limite a una responsabilità, quella del controllo della fecondità,
ancora socialmente stigmatizzata (sia dalla cultura cattolica sia da quella politico-
mediatica), cui le donne italiane tentano di sottrarsi delegando appunto al caso, e
in sostanza e a una nuova invocazione della centralità della “natura”, un compito
difficile e problematico: quello di mitigare l’idea di una prevalente “responsabilità”
femminile della bassa fecondità attuale. L’ipotesi richiede di essere suffragata da
ulteriori dati di ricerca; il punto centrale è però che, in termini antropologici, non
si tratta di stabilire se siffatti strumenti di controllo delle nascite segnino realmente
38 Gribaldo, A.; Judd, M.; Kertzer, D. “An Imperfect Contraceptive Society: Fertility and Contra-
ception in Italy”, in Population and Development Review, 35(3), 2009, pp. 551–584.
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473
Gianfranca Ranisio
Gli studi sulla riproduzione e sul parto, che si sono sviluppati negli ultimi decenni
del Novecento, hanno sottolineato come il processo di medicalizzazione abbia
assunto dimensioni sempre più invasive e si sia esteso all’intero percorso nascita.
Il corpo femminile, in quanto corpo che dà la vita e snodo simbolico tra indivi-
duale, sociale e politico, è un corpo che è stato sottoposto al controllo sociale, in
passato attraverso pratiche e rituali magico-religiosi, oggi attraverso la scienza e la
medicina.
La medicalizzazione del percorso nascita, che è ormai parte della cultura eu-
roamericana, costituisce una modalità di questo controllo. La situazione oggi dif-
fusa è quella del parto come momento medico ed esperienza strettamente legata
all’agire sanitario.
Negli studi di antropologia medica, in una prima fase, si è ritenuto oppor-
tuno promuovere la consapevolezza dell’inappropriatezza della medicalizzazione,
affermando i significati culturali e sociali del percorso nascita, anche attraverso il
ricorso ad esempi storici o etnologici, che dimostravano come nelle società del
passato e anche nelle società etnologiche il parto fosse percepito come un evento
fisiologico, che aveva un carattere familiare e sociale, che era legato a complessi
rituali e chiamava in causa competenze e capacità femminili. Nelle culture et-
nologiche e in quelle del passato non c’era l’aspettativa che la vita dovesse essere
immune da disagi e da dolori, tra i quali anche quelli del mettere al mondo, a
differenza della società contemporanea, che vuole nascondere il dolore e la morte.
Come scriveva la Kitzinger, il parto umano è un atto culturale, in cui i pro-
cessi fisiologici spontanei operano in un contesto di usanze, il rispetto delle quali
è considerato essenziale o auspicabile per un buon esito. Attualmente la rimozione
degli aspetti sociali del parto ha avuto come conseguenza che si sia attribuito alla
medicina il compito di prendersi in carica l’evento e darne l’unica definizione
socialmente riconosciuta. Ne consegue un senso di inadeguatezza che prende la
donna e la rende dipendente dal medico e dalla tecnologia medica, sia questa
rappresentata da un monitor, da un ecografo o da altra macchina, che sono con-
siderate come garanzia per un buon esito del parto. Intorno agli anni Settanta e
soprattutto negli anni Ottanta sono sorte associazioni e movimenti che rivendi-
cavano il diritto delle donne di vivere l’esperienza del parto da protagoniste, di
scegliere modalità, assistenza e luogo del parto e che hanno promosso iniziative
di sensibilizzazione e di contrasto alla medicalizzazione, che già allora appariva
eccessiva, in favore di una maggiore umanizzazione e della restituzione alla donna
di una nuova centralità.
Anche le ostetriche rivendicavano una diversa considerazione del loro ruolo
denunciando che l’eccessiva medicalizzazione le aveva esautorate dal parto e chie-
dendosi come fosse accaduto, attraverso quali percorsi e processi tale evento fosse
divenuto appannaggio della scienza medica e in particolare della corporazione dei
ginecologi in prevalenza maschi.
Antropologhe e femministe hanno posto in rilievo l’eccessiva medicalizzazio-
ne del corpo femminile, ponendo in evidenza come questo modello, che è stato
elaborato nell’Europa occidentale e nell’America settentrionale durante il XX se-
colo, rischi di diventare globale. Anche il movimento per la salute delle donne si
è interrogato chiedendosi se e a quali livelli il sapere scientifico biomedico fosse
effettivamente una presenza positiva nella vita delle donne e delle loro famiglie.
Tuttavia, in una fase successiva, le ricerche antropologiche hanno maggior-
mente problematizzato il rapporto delle donne con la medicalizzazione, ponendo
in evidenza come questo rapporto si presenti in modo contraddittorio e ambiguo,
poiché le donne, per sottrarsi al dominio che i processi biologici esercitano sulla
loro vita, accettano il controllo sul loro corpo da parte della biomedicina, o fanno
ricorso a un approccio pragmatico, piuttosto che ideologico, rispetto alle tecnolo-
gie e ai servizi medici, così come ad altri settori dell’esperienza. Inoltre, anche in
quelle situazioni in cui le donne appaiono vittime di tali processi, studi più attenti
rivelano che spesso sono in grado di opporre forme e modalità di resistenza, che
passano anche attraverso i loro corpi. L’attitudine verso la medicalizzazione può
essere positiva, negativa o ambivalente, può mutare nel corso del tempo. La rispo-
sta è spesso legata alle percezioni di come la tecnologia o le cure del corpo possano
migliorare o peggiorare le condizioni di vita. Molti studi sottolineano ormai che
le donne non sono solo vittime passive, ma anzi ricercano le tecniche biomediche
per acquisire un’indipendenza da condizioni biologiche o per soddisfare dei de-
sideri personali. Pertanto, in certe situazioni, la maggioranza delle donne ritiene
che sia nel proprio interesse accettare la medicalizzazione e la considera garanzia
di un esito positivo.
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477
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Dalle loro parole appare che queste donne continuano ad avere paura di non
essere psicologicamente e fisicamente all’altezza della prova, sembra che non rie-
scano a “sentire” il loro corpo se non con gli accertamenti, basandosi sui risultati
scientifici più che sulle proprie sensazioni.
Forse è questa la differenza più rilevante rispetto ai due gruppi: le conoscenze
che acquisiscono – intendendo con questo i due processi, e cioè non solo il modo
in cui le conoscenze sono trasmesse ma anche il modo in cui sono interiorizzate –
condizionano il rapporto con il corpo. I corsi, infatti, in entrambi i casi veicolano
rappresentazioni del corpo e di ciò che viene considerato “naturale”, o pertinen-
te alla “natura”. Inoltre il corso rappresenta non solo un’esperienza che consente
di acquisire informazioni e conoscenze, ma anche di intessere rapporti amicali e
condividere emozioni, dubbi e percezioni, con altre donne nelle stesse situazioni,
creando legami di tipo nuovo che sostituiscono quelli della rete familiare e del
vicinato del passato.
È evidente perciò che, rispetto alle decisioni e alle scelte, ogni azione è media-
ta socio-culturalmente sia nella sua produzione, che nella sua interpretazione e che
la capacità di negoziare le azioni non può prescindere dalle forze, dai rapporti di
potere, anche contraddittori, con cui la vita delle donne deve fare i conti.
Sulla base di queste due situazioni, qui solo accennate, ci si può porre una
serie di interrogativi sull’agency delle donne rispetto alla medicalizzazione del per-
corso nascita: cioè sul modo in cui si determina la volontà di scegliere, di decidere
e come questa debba tener conto non solo delle conoscenze e delle competenze
acquisite, ma anche delle precedenti esperienze e del modo in cui il corpo interio-
rizza le conoscenze e se ne appropria. Inoltre, è rilevante considerare come tali vo-
lontà e consapevolezze spesso siano messe a dura prova dal verificarsi di situazioni
che prescindono da quelli che erano i propri desiderata e le proprie conoscenze.
479
Laura Ronchetti
39 Ferrara, G. “Il diritto come storia”, in Diritto pubblico, 2005, fasc. 1, pp. 1-18, p. 3.
40 Ferrara, G. La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Torino, Feltrinelli, 2007.
41 Moller Okin, S. Le donne e la giustizia: la famiglia come problema politico, Dedalo, Bari, 1999.
Per femminismo giuridico si intende quel insieme di teorie che offrono un’analisi
critica del diritto e delle sue categorie ordinanti muovendo da un’ottica di genere
[…]. L’intento principale è quello di smascherare la pretesa neutralità e univer-
salità del diritto e degli strumenti concettuali che esso utilizza, mettendone in
primo luogo in luce il modello antropologico di riferimento, vale a dire l’uomo
bianco, adulto, sano di mente, possidente, possibilmente coniugato43.
42 Facchi, A. Il pensiero femminista sul diritto: un percorso da Carol Gilligan a Tove Stamg Dahl, in
Zanetti, G. (a cura di) Filosofi del diritto contemporanei, Cortina, Milano 1999, par. 1.
43 Pitch, T. Corso di Femminismo giuridico, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli studi di
Perugia.
44 Marella, M.R. “‘Break On Through to the Other Side’: appunti sull’influenza di Marx nel
femminismo giuridico”, in Rivista critica del diritto privato, 2000, fasc. 4, pp. 741-766.
45 Pitch, T. I diritti fondamentali: differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenza sessuale, Torino,
Giappichelli, 2004, p. 95.
482
46 Società italiana delle storiche, Bertilotti,T.; Galasso, C.; Gissi, A. et al.(a cura di) Altri Femmi-
nismi. Corpi. Culture. Lavoro, Roma, Manifestolibri, 2006.
47 MacKinnon, M.C. Toward a Feminist Theory of the State, Harvard, 1989, p. 159.
48 Minow, M. Making All the Difference: Inclusion, Exclusion, and American Law, Ithaca 1990.
49 Frug, M.J. “A Postmodern Feminist Legal Manifesto”, in Harvard Law Review, 1992.
483
neità al diritto era un lusso che non tutte potevano permettersi, non disconoscen-
do un ruolo liberatorio del diritto.
Perché questo ruolo possa storicamente inverarsi, però, anche in Italia bi-
sognerebbe accompagnare il ragionamento sulle forme di giuridicità più con-
sone all’autonomia delle donne – con riferimento alle varie proposte di “vuoti
legislativi”50 di “diritto leggero” o di interventi normativi di garanzia51 – con il
tentativo di rifondare una teoria del diritto. Si tratterebbe di partire da una pro-
spettiva incentrata su un nuovo modo di concepire le relazioni, sottolineando la
dipendenza reciproca di tutti. Un diritto che provi a mantenere la promessa di
ribaltare le norme sociali, dando a coloro che vivono una relazione sbilanciata gli
strumenti per non soccombere di fronte al potere del più forte materialmente e
socialmente e per consentire a tutti il pieno svolgimento della propria personalità.
484
tivo. È pur vero che spesso le pluralità sono irriducibili. Il conflitto tra differenze,
tuttavia, non deve spaventare perché crea lo spazio pubblico della con-vivenza e
della con-divisione, superando la mera coesistenza.
Un ripensamento radicale del diritto deve, infatti, comprendere una rifonda-
zione della forma stessa delle convivenze, a partire da una rivalutazione del con-
cetto di limite. Parlare del limite, della propria finitezza, e della finitezza di ciò
che consente la condizione umana (il pianeta terra), ci immerge in una visione
relazionale del diritto, ci permette di introdurre il concetto di riconoscimento
reciproco e di rispetto nel conflitto e del conflitto.
Muovendo dal carattere storico e convenzionale dei diritti, che si affermano
attraverso i conflitti sociali, i processi culturali e la loro capacità di fare storia tra-
sformandosi in atti normativi, si ritiene che proprio la convivenza fondata sulla
limitazione reciproca consenta di trasformare il potere di fatto di pochi in diritti
di tutti.
Questo è possibile solo in base a una determinata idea di Costituzione, intesa
– a partire da una suggestione di Foucault55 – come “controcondotta” rispetto ai
rapporti di potere di fatto esistenti, nella più generale accezione controfattuale del
diritto: il principio della diffusione del potere muove dalla consapevolezza della
necessità normativa di apporre quelle limitazioni che possano fondare una nuova
legittimazione, ispirata proprio alla frantumazione del potere tra tutti56.
Per valorizzare la controcondotta della Costituzione è necessaria da parte del
pensiero delle donne, tuttavia, una sua risignificazione57, attraverso una sua inter-
pretazione alla luce dei principi politici sessuati abbandonando l’atteggiamento
di disconoscimento della Costituzione che ha caratterizzato il femminismo italia-
no58. Credo che la richiesta di “degiuridicazione” a favore di «un diritto leggero»59
dovrebbe essere sostituita da una nuova proposta di senso della convivenza attra-
verso una rilettura sessuata dei principi politici normativizzati in Costituzione.
Non credo che questo esaurisca le possibili pratiche politiche, ma certamente im-
plica una rilettura dei principi costituzionali e dei metodi interpretativi del testo
costituzionale.
Non è un caso, d’altra parte, che il diritto leggero sia stato ideato e praticato
da magistrate e avvocate che sapevano come conquistare nella giurisprudenza la
485
garanzia dell’autonomia delle donne che “cattive” leggi potevano strozzare. Parti-
vano da sé e dalle proprie competenze, non potendo contare su università e cultura
aperte al pensiero e alla pratica dei femminismi.
Le attuali trasformazioni dell’ordinamento giuridico italiano richiedono, tut-
tavia, un impegno che vada oltre la pratica forense e investa piuttosto la teoria
generale del diritto.
Nel ragionare intorno a questa teoria è necessario liberarsi di alcuni falsi di-
lemmi che hanno occupato troppo a lungo la riflessione delle giuriste. In partico-
lare l’alternativa tra differenza e uguaglianza, tra norma discriminatoria e diritto
diseguale, tra differenziazione e universalismo sembrerebbe insufficiente se non
mistificante60. Non si tratta di alternativa, ma di integrazione. Non solo perché
l’uguaglianza sostanziale non può che nutrirsi delle differenze come ha spiegato
Gianformaggio61, ma anche perché la giustizia sociale non può non dare in base
ai bisogni e alle esigenze, e infine perché condivido l’idea che «la soggettività e
l’universalismo non solo non si escludano a vicenda, ma rappresentino due facce
della stessa medaglia»62.
Una giuridicità rifondata deve, dunque, ripensare il soggetto di diritto come
soggetto contestualizzato, sessuato e incarnato. La storia delle donne insegna in
particolare che autonomia delle donne non può che passare per il riconoscimento
giuridico della piena sovranità sui nostri corpi. «L’iscrizione nel diritto dell’invio-
labilità» del corpo delle donne, infatti, «è questione di […] costituzione dell’ordi-
namento giuridico»63.
60 Lonzi, C. “Per una libera sessualità polimorfa”, in Le filosofie femministe cit., p. 188, parlava in
proposito di «dilemma imposto dal potere maschile».
61 Cfr. Gianformaggio, L. Eguaglianza, donne e diritto, a cura di Facchi, A.; Faralli, C.; Pitch, T.,
Bologna, Il Mulino, 2005.
62 Žižek, S. Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Milano, Raffaello Cortina, 2003, p.
287.
63 Campari, M.G.; Cigarini, L. “Fonte e principi di un nuovo diritto” cit.
486
Non è che il legislatore non abbia modo di limitare il potere, altamente disci-
plinante, della medicina. Anzi, ancora con la legge n. 194 del 1978 sull’interruzio-
ne volontaria della gravidanza, diritto e medicina sono stati dispositivi di discipli-
namento fortemente convergenti tra loro. Tale alleanza si è cementata sulla pretesa
di interferire, più che relazionarsi, con le decisioni delle donne sul proprio corpo,
sul proprio futuro, sulla relazione con se stesse e gli altri. Questa interferenza trova
il proprio assioma nella cultura cattolica che ha costruito nei secoli la scissione del
corpo della donna fecondato in due sfere di interessi messe in contrapposizione64.
Anche quando la Corte costituzionale nel 1975 e poi il legislatore nel 1978
faranno prevalere l’interesse della donna, questo sarà costruito come antagonista
a quello del feto, come se la procreazione fosse un processo tutto biologico, mec-
canico e non, invece, relazionale65. Questa cultura manichea della gravidanza, in
cui la donna è il primo pericolo per il feto, non poteva che avere ricadute sulla ri-
costruzione giuridica di una persona – solo e sempre una donna – che può portare
a compimento il processo procreativo.
Nell’ordinamento italiano, infatti, l’autodeterminazione delle donne nella
procreazione è costretta nella sfera della tutela della salute psicofisica nell’ambito
del diritto alla salute ex art. 32 senza un’adeguata valorizzazione della inviolabilità
della libertà personale, fisica e morale, di cui all’art. 13. In quest’interpretazione
costituzionale è come se il diritto avesse affidato alla medicina il compito di sorve-
gliare e di disciplinare per suo conto il comportamento delle donne.
Questa alleanza tra politica e medicina è oramai rimessa in discussione per
quanto concerne la missione dell’arte medica, apprestare cure in “scienza e co-
scienza” appunto. Lo straripamento del potere normativo è, infatti, di estrema
attualità e coinvolge, non solo il desiderio di non maternità – con l’annosa que-
stione della commercializzazione della pillola abortiva RU486 e dei limiti alla l.
n. 194 del 1978 in genere – ma anche l’opposto desiderio di genitorialità – con la
fecondazione assistita e il trattamento dei “grandi prematuri” –, fino a rincorrere
le forme di una morte soggettivamente dignitosa.
La discrezionalità legislativa non può, tuttavia, travolgere ogni evidenza scien-
tifica e ogni possibilità di una scelta terapeutica calibrata sul singolo caso anche in
base al convincimento costruito nell’ambito della relazione di cura e di fiducia che
si dovrebbe instaurare tra paziente e medico.
La stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 151 del 2009, nel dichiarare
l’illegittimità della legge n. 40 del 2004 sulla fecondazione assistita, ha ricordato
64 Guarnieri, P. (a cura di) In scienza e coscienza. Maternità, nascite e aborti tra esperienze e bioetica,
Roma, Carocci editore, 2009.
65 Niccolai, S. “La legge sulla fecondazione assistita e l’eredità dell’aborto”, in Costituzionalismo.
it, n. 2/2005.
487
di aver «ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa
pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzio-
ne e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la
regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il
consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali».
Anche questa sentenza, tuttavia, risente della cultura di provenienza come
dimostra il suo linguaggio: «la tutela dell›embrione non è comunque assoluta ma
limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle
esigenze di procreazione», come se l’embrione potesse esistere senza le esigenze
della procreazione!
Questo dimostra che non premia un approccio solo demolitore al diritto,
ma che è necessario offrire alla scienza giuridica le parole e i concetti più consoni
all’autonomia delle donne. I margini di resistenza alle forme di colonizzazione
del corpo delle donne si restringono e richiedono un’analisi e una proposta di
senso all’altezza della situazione. Una nuova teoria del diritto che abbia la forza di
imporsi nella scienza giuridica potrebbe rappresentare uno strumento utile per far
fare la storia ai femminismi.
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Lucia Rodler
trasformazioni del corpo: durante l’adolescenza, quando esso subisce una serie di
mutamenti naturali (per lo più ingrassando di qualche chilo), una ragazza vive con
disagio questa situazione. Incomicia perciò una dieta che si trasforma presto in un
disturbo difficilmente controllabile. In genere la famiglia reagisce con preoccupa-
zione, consulta una serie di medici, propone in qualche caso la psicoterapia sino
a quando si rende necessario un ricovero. Dopo un periodo più o meno lungo la
protagonista riesce a superare il problema e decide di raccontare la propria espe-
rienza in un libro-testimonianza. Di qui muovo dunque per un’indagine femmi-
nile (più che femminista) che interessa un corpo poco libero e molto controllato,
anzitutto nel privato. Mi colloco perciò a margine di questa sessione, cercando di
mostrare alcuni elementi comuni a un argomento letterario che merita discrezione
e cautela, un rispetto insomma che spero avere avuto.
1. Un’inventio fiabesca
In collera con il mondo, il personaggio anoressico-bulimico illustra la sequenza di
frustrazione, scontento e aggressività proposta da Algirdas Greimas67: una bambi-
na modello ha subito una delusione – un lutto, una violenza, la distanza di un ge-
nitore – che ha provocato una risentita amarezza (termine che possiede tra l’altro
un carattere gustativo). Per ragioni diverse questo dispiacere non si manifesta in
forme di ostilità dirette, ma si esprime nel corpo in un modo violento, evidente,
provocatorio:
Come potrò mai mettere fine […] alla mia rabbia divorante? La rabbia si tra-
sforma in ansia o, peggio, in depressione […]; la rabbia che accumulo potrebbe,
nella mia fantasia, travolgere il mondo intero […]; esprimo la mia aggressività
scagliando nel mio corpo del cibo di cui non sento neanche il sapore, come dei
proiettili che non posso sparare contro gli altri […]; sono disperata di dovere
gettare la mia vita nel fondo di un gabinetto, di essere costretta a vomitare […]
tutta la rabbia e la tristezza che mi invade68.
67 Greimas, Du sens II. Essais sémiotiques, Paris, Seuil, 1983, trad.it. Del senso 2. Narrativa, modalità,
passioni, Milano, Bompiani, 19983, pp. 215-238.
68 De Clercq, F. Tutto il pane del mondo, Firenze, Sansoni, 1990, pp. 34, 59, 84, 65.
69 Fathallah, J. Monkey Taming, London, Random House, 2006, trad.it. Sono bruttissima, Milano,
Mondadori 2007, pp. 9, 19, 34-35, 7.
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spesso sola: «Erano troppe e troppo lunghe le ore che passavo da sola, da quando
tornavo da scuola a quando era ora di andare a letto. Il frigorifero mi teneva
compagnia». La solitudine si placa dunque grazie al cibo che, però, deforma il
corpo, producendo una rabbia che prende forma nei modi illustrati da Marya
Hornbacher nell’«autobiografia» del 1998, intitolata Sprecata: lo «spazio vuoto» e
controllato dell’anoressica e/o quello pieno della bulimica che vomita per respin-
gere i propri «eccessi» emotivi. In entrambi i casi «il corpo assume la colpa, ma non
è il problema principale»70. Di uguale parere la De Clercq che precisa:
70 Hornbacher, M. Wasted, New York, HarperCollins, 1998, trad.it. Sprecata, Milano, Corbaccio,
1998, pp. 104, 119.
71 De Clerq, F. Tutto il pane cit., p. 1.
72 De Clerq, F. Donne invisibili, Milano, Rizzoli, 1995, p. 9.
491
3. Un’elocutio faticosa
Anche quando decide di raccontare la sua storia, il personaggio non ha vita facile,
visto che deve trovare le parole con cui descrivere il rapporto con il cibo. Per la
Hornbacher «il lessico è ampiamente carente: le parole mancano di forma e di gusto,
73 Caro, I. La petite fille qui ne voulait pas grossir, Paris, Flammarion, 2008, trad.it. La ragazza che
non voleva crescere, Milano, Cairo, 2009, pp. 229-230.
74 Hornbacher, M. Sprecata cit., p. 46.
75 De Clerq, F. Tutto il pane cit., pp. 11, 72, 83.
492
di temperatura e di peso. Fame e freddo, carne e ossa sono parole comuni. Non posso
esprimere come esse abbiano per me un significato diverso rispetto a quello che forse
hanno per voi»76. Il personaggio con problemi alimentari ha dunque scarsa fiducia
nelle parole, non possiede quello che un tempo si sarebbe detto linguaggio delle
passioni. E forse anche per questo le narratrici si rappresentano con la fisionomia
di un animale aggressivo, scegliendo la deformazione zoomorfica: l’animale diviene
figura di una rabbia senza parole, informe e indomabile. Non per caso la Fathallah
intitola la storia della guarigione di Jess Monkey Taming, sottolineando il percorso di
addomesticamento della scimmia che accompagna la malattia: «Hai mangiato trop-
po, brutta porcella» – afferma una «scimmia scheletrica e dall’aspetto demoniaco» che
«spunta nella testa» con «voce insidiosa e autorevole» come una metonimia in aggua-
to (nel senso del contenuto per il contenente, di una voce interna che condiziona il
corpo)77. Anche Justine, la giovane narratrice francese che nel 2007 ha trasformato il
suo blog nel romanzo Ho deciso di non mangiare più, dà forma caricaturale al suo ma-
lessere: «Lo chiamo “il serpente”, d’istinto, perché i serpenti mi hanno sempre fatto
molta paura». E quando sopravviene un impulso bulimico, Justine avverte una vera
e propria metamorfosi: «In quei momenti, ero in completa balia del serpente. Aveva
fatto la sua muta, non aveva più la pelle dell’anoressia, ma era sempre dentro di me,
e mi possedeva totalmente. Avevo gli occhi di un serpente, la lingua di un serpen-
te, capace di urlare parolacce, d’insultare»78. E in queste descrizioni pare di sentire
quell’eco stregonesca che accompagna il digiuno, almeno secondo la convincente
ricostruzione storica di Walter Vandereycken e Ron van Deth79: dalle indemoniate
medioevali alle pazienti convinte di essere in possesso di spiriti diabolici, la nutrizio-
ne viene vissuta come un gesto impossibile, anche da raccontare:«ci sono stati anni
di fatica che non potrò mai spiegare con parole o immagini adeguate»80.
4. Un’actio circolare
Il personaggio anoressico-bulimico vive dentro un tempo circolare scandito da
una serie di riti corporei ripetuti in modo maniacale. La giornata tipo di Jess inizia
più o meno così: «Mi trascinavo giù dal letto e andavo dritta in bagno. Mi pesavo
493
tre volte: una volta con il piede sinistro, una volta con il piede destro, e poi di
nuovo con il sinistro, e sempre con lo stesso tipo di mutande», e ancora: «Facevo
ginnastica religiosamente: esercizi mirati cinque volte al giorno. Quel ritmo l’ave-
vo stabilito io, nessuno mi aveva detto quante volte al giorno dovevo ripetere gli
esercizi. Perciò, me lo inventai»81. Nella ripetizione di gesti ordinati e metodici,
Jess controlla la paura del vuoto, ignoto e minaccioso anche quando riferito al
tempo. Che il personaggio anoressico-bulimico abbia un cattivo rapporto con
la dimensione temporale si intuisce dai riferimenti a un’infanzia di sofferenza:
perso il padre, Fabiola e Jess hanno vissuto con una madre distratta; con un padre
spesso assente, Isabelle sente la madre troppo vicina; Justine rifiuta i cambiamenti
avvenuti dopo la nascita della sorellina; può essere dunque che le situazioni difficili
vissute dalle bambine abbiano ostacolato una crescita serena e fiduciosa nel futuro.
Nulla di strano perciò se questi personaggi vogliono difendersi da nuove paure,
impegnandosi a compiere gesti rassicuranti, in attesa di un domani miracolosa-
mente migliore. E così passano i giorni e gli anni in un rapporto sadomasochistico
con un corpo che va riempito di cibo per non pensare e poi svuotato per potere
ricominciare:
494
confusivi. D’altra parte la vita del personaggio anoressico risulta intrappolata dai
numeri del peso e delle calorie, eletti a custodi fiabeschi dell’identità, come spiega
bene la Hornbacher:
495
Dunque questo corpo non viene inventato per sfilare in passerella, ma per
contenere un odio onnicomprensivo. Questa almeno la voce di una letteratura
che cerca a sua volta di contenere la collera dentro un romanzo di formazione. E
alla fine le narratrici ce la fanno a stare meglio e a inventarsi di nuovo: ascoltiamo
la De Clercq: «Tutto è di nuovo da inventare» in «un momento che si affronta,
stupefatti e increduli, con commozione» quando, abbandonata la leggerezza fiabe-
sca, il personaggio diventa orgoglioso del proprio «spessore», di quel corpo cui la
sofferenza ha garantito la pesantezza di un «baricentro più basso» e la stabilità di
«una buona costruzione antisismica»86. Si tratta, beninteso, di una semplificazione
letteraria ma credo che anche queste briciole possano avere un peso.
496
Silvia Leonelli
Era altresì assente il discorso sul corpo inteso come crocevia di influenze so-
ciali e culturali. Per utilizzare due termini cari alla Fenomenologia, prima degli
anni Settanta nei contesti educativi c’era il Korper, il dato biologico, l’organismo
in senso funzionale (non a caso le nozioni di puericultura sulle malattie erano le
uniche ritenute importanti per chi si occupava professionalmente di infanzia);
non c’era attenzione, invece, per il Leib, per il corpo vissuto, interpretato come
intreccio tra memorie, emozioni, esperienze e significati.
Merito dunque dei vari femminismi che si sono succeduti nei contesti edu-
cativi l’aver decostruito le logiche sottese all’occultamento del corpo, svelando
il funzionamento del paradigma disgiuntivo di genere; l’aver implementato una
riflessione anche sul corpo vissuto del soggetto educativo e del/la professionista
dell’educazione; l’aver portato l’attenzione sul corpo socialmente condizionato,
facendo altresì risaltare la sua polisemia, nei Nidi, nelle scuole di ogni grado,
nell’Università.
Nel corso dei decenni, quel corpo guardato in modo nuovo è stato indagato,
appunto, nel proprio sex-gender system di riferimento, e considerato valorizzando-
ne la processualità; ma anche lo sguardo su di esso ha subìto variazioni. I femmi-
nismi, infatti, sono stati recepiti sulla scena educativa con un andamento simile
ad altre discipline (1. studi sull’uguaglianza tra i sessi; 2. studi sulla differenza
sessuale; 3. studi attuali, carichi di complessità); si sono così succedute diverse
angolazioni visuali, che hanno avuto delle ripercussioni.
La “tensione verso l’uguaglianza”, così come è stata teorizzata negli anni Settan-
ta, dove non è stata seguita dagli auspicati cambiamenti simbolico-culturali si è tra-
sformata spesso in “indifferenziazione”, concetto legato alla mancanza di attenzione
verso il maschile e il femminile. Si è così assistito a una “neutralizzazione della diffe-
renza” persino nei lavori di cura, nei quali, essendo predominante la presenza fem-
minile, ha avuto luogo un dibattito più ampio che in altre professioni e che quindi
avrebbero dovuto essere immuni dal pericolo del neutro. I contesti dell’istruzione,
in particolare, continuano a soffrire di questa “neutralizzazione” che, non a caso, è
minima nelle educatrici di Nido e nelle insegnanti di scuola dell’infanzia e cresce nel
passaggio tra un ordine di scuola e un altro: infatti, è massima nella secondaria supe-
riore e nell’università, quasi che, ancora oggi, si creda che il Sapere e la Conoscenza
(con la maiuscola) debbano essere “depurati” da ogni elemento di soggettività.
La “tensione verso la differenza” degli anni Ottanta/Novanta ha riportato al cen-
tro delle analisi il “materno” che, tuttavia, nel lavoro educativo costituisce l’archetipo
di genere più potente e più insidioso. La madre che cura è un simbolo che attraversa
la storia dell’educazione, una figura che può mettere in ombra la preparazione cultu-
rale e scientifica necessaria al lavoro di cura che, per essere intesa in senso professiona-
le, deve essere caratterizzata da conoscenze approfondite, da padronanza di numerose
tecniche e metodologie, da una vera e propria deontologia e da alcune parole-chiave:
498
499
500
3. Spunti di riflessione
Il dato più significativo messo in luce dalla ricerca è che sembra perduto, in questo
campione, il discorso sul genere. Mentre si teorizza la categoria post-gender, al fine
di complessificare il concetto stesso di genere, i nostri cinquecento studenti sono
ritornati a considerare la donna e l’uomo diversi per “essenza”, per “natura”. Pochi
hanno fatto riferimenti espliciti alle variabili socio-culturali, alle pressioni della so-
cietà. Pochissimi hanno collegato il diventare donne e uomini al tipo di educazione
ricevuta, alle relazioni intessute, ai modelli interiorizzati. Ancora meno hanno fatto
riferimento alle influenze culturali e sociali che hanno costruito/plasmato/influenza-
to le loro rappresentazioni e le aspettative professionali. Solo qualche studentessa di
Scienze della Formazione Primaria pare avere ben riflettuto sulla questione, una in
particolare fornisce una risposta esemplare che lega, davvero, il corpo vissuto, l’iden-
tità di genere e lo stile di cura: «Credo che, per quanto nella nostra società vengano
assegnati ruoli e atteggiamenti differenti in base al sesso, nel lavoro di cura sia più
importante la coscienza del proprio corpo e l’accettazione di sé».
Se è vero che per proiettarci verso i contesti educativi del domani possiamo
solo interpellare chi si sta preparando a divenire professionista della cura, dalle
parole di queste studentesse e studenti si traggono alcune indicazioni che potreb-
bero – sottolineo: potrebbero – prefigurare lo scenario di senso sul corpo, all’in-
terno del quale a loro volta essi educheranno le generazioni successive. E allora
occorre ribadire la necessità di una ri-negoziazione generazionale delle questioni
501
502
Martina Salvante
1 Mi riferisco a iniziative quali il premio Maria Baiocchi sui temi dell’orientamento sessuale e identità
di genere, promosso dall’associazione Di’Gay Project e ormai arrivato alla sua VI edizione (2010),
oppure il nuovo Premio di Laurea in Studi sul lesbismo e sul genere promosso dall’Associazione na-
zionale ArciLesbica. Inoltre, cfr. De Leo, M. “«Una parola scritta con l’inchiostro invisibile». Per una
storia della storiografia sull’omosessualità femminile”, in Genesis, n. 1, 2007, pp. 225-244; Dragone,
M.; Gramolini, C.; Guazzo, P. et al. (a cura di) Il movimento delle lesbiche in Italia, Milano, Il Dito e
la Luna, 2008; Cavarocchi, F. “Orgoglio e pregiudizio. Note sul movimento gay e lesbico italiano”,
in Zapruder, n. 21, 2010, pp. 78-87.
2 Si ricorda qui l’articolo che maggiormente ha diffuso una certa accezione della categoria di genere:
Scott, J.W. “Gender: A Useful Category of Historical Analysis”, in The American Historical Review,
n. 5, 1986, pp. 1053-1075. Per una discussione sulla ricezione e la rielaborazione di quella categoria
analitica a vent’anni di distanza, cfr. il forum Revisiting Gender: A Useful Category of Analysis, Ibidem,
n. 5, 2008, pp. 1344-1430.
3 Vezzosi, E. “Il genere: una categoria sufficiente per l’analisi storica?”, in Contemporanea, n. 2, 2010,
p. 312.
4 Gloria Anzaldúa, però, già ammoniva contro un certo uso del termine queer, da parte di accademici
e accademiche bianche, che rischia di cancellare pericolosamente ogni differenza (razza, classe, etnia)
sotto un unico ombrello falsamente unificante. Cfr. Anzaldúa, G. “To(o) Queer the Writer – Loca,
escritora, chicana”, in Warland, B. (a cura di) Inversions. Writing by Dykes, Queers, and Lesbians, Press
Gang Publishers, Vancouver, 1991, p. 250. Cfr. anche Sullivan, N. A Critical Introduction to Queer
Theory, Edinburgh, Edinburgh UP, 2003.
5 Prova significativa del gap esistente tra le due storiografie per quanto concerne lo studio delle
sessualità è, ad esempio, l’esistenza nel mondo anglosassone di riviste specificamente dedicate alla
questione, come Journal of the History of Sexuality, Sexualities, Studies in Gender and Sexuality, Journal
of Homosexuality o GLQ.
506
tribuire a formulare analisi più generali delle categorie sessuali e di genere che
riguardano l’insieme degli individui6.
Tutti e tre gli interventi qui presentati affrontano, in vario modo, il tema
dell’omosessualità. Diverse sono le fonti e la metodologia utilizzate, come le con-
clusioni tratte, ma i tre articoli ben dialogano tra loro, facendo tutti riferimento,
più o meno, al tema della prostituzione e/o del corpo come oggetto di scambio.
Gli interventi interagiscono tra loro anche cronologicamente e, quasi passandosi
un testimone ideale, stendono il proprio sguardo lungo vari decenni della storia
d’Italia, dall’unità al secondo dopoguerra. Secondo l’“Ortodossia Foucauldiana”7
è negli ultimi decenni dell’Ottocento che nasce, per così dire, l’omosessuale “mo-
derno”, tratteggiato da sessuologi e criminologi. Sono quelli, all’incirca, gli stessi
anni (1871-1905) in cui si svolsero i processi per reati «contro il buon costume
e l’ordine delle famiglie» di cui Domenico Rizzo ha rintracciato e analizzato gli
incartamenti. In particolare, le udienze, celebrate davanti al tribunale penale di
Roma, riguardano atti sessuali tra persone dello stesso sesso in cui, per la mag-
gior parte, sono coinvolti minori. L’autore, più che rivolgere la propria attenzione
alla cultura e alle strutture giuridiche, utilizza la ricca documentazione rinvenuta
per riflettere sul legame che intercorre tra pratiche e ruoli sessuali, contrattazione
economica e costruzione sociale della mascolinità. Rizzo, infatti, sostiene che la
negoziazione pecuniaria della disponibilità sessuale tra uomini – spesso di età di-
verse – permette anche a colui che si presta al “ruolo passivo” di salvaguardare, e
vedere altresì riconosciuta, la propria mascolinità.
A questa stimolante riflessione sul denaro come medium in grado di innescare
una sospensione momentanea dell’altrimenti rigida distinzione tra attivo e passivo
– sinonimi di maschile e femminile – segue l’intervento di Nerina Milletti sulle
genealogie lesbiche. L’autrice, partendo dalla definizione che Cesare Lombroso
dette delle tribadi – equiparate alle prostitute8 – nel suo La donna delinquente
(1893), mette in luce l’uso che gli scienziati ottocenteschi fecero di immagini
estratte da testi della classicità latina e greca per descrivere l’amore tra donne. È
6 Fra le poche eccezioni ricordo Benadusi, L. Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità sotto il fa-
scismo, Milano, Feltrinelli, 2005; Milletti, N.; Passerini, L. (a cura di) Fuori dalla norma. Storie
lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, Rosenberg & Sellier, Torino, 2007.
7 Riprendo qui un’espressione di Garber, L. in “Where in the World Are the Lesbians?”, in Journal of
the History of Sexuality, n. 1/2, 2005, p. 35.
8 A testimonianza della concezione alquanto diffusa di un accostamento tra le due “perversioni” si
cita qui il medico legale Paolo Manunza che scrisse: «Il tribadismo delle prostitute è stato descritto
un’infinità di volte e in tutti i paesi (Mantegazza, Lombroso e Ferrero, Havelock, Ellis, Bourneville,
Krafft-Ebing, Dalla Volta, ecc.)». Vedi Manunza, P. “Prostituzione”, in Dizionario di criminologia, a
cura di Florian, E.; Niceforo, A.; Pende, N. vol. II, Milano, Vallardi, 1943, p. 741.
507
9 Herzog “Syncopated Sex: Transforming European Sexual Cultures”, in The American Historical
Review, n. 5, 2009, p. 1308.
10 Cfr. Benadusi, L. “Per una storia dell’omosessualità nell’Italia del Novecento. Gli studi psicanali-
tici”, in Storia e problemi contemporanei, n. 37, 2004, pp. 183-203.
11 Cantarella, E. Dammi mille baci, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 82 ss.
508
della prostituzione maschile con l’immagine della mascolinità. Essa è stata ridotta
a fenomeno di sotto-cultura del mondo omosessuale (tralasciando completamen-
te gli uomini che si “vendono” alle donne), senza che si indagassero il ruolo e
le esperienze individuali di chi vi era coinvolto a vario titolo (clienti, prostituti,
sfruttatori), i contesti in cui tali pratiche maturavano e le configurazioni identita-
rie che le caratterizzavano12. Mentre la prostituzione femminile era giudicata non
solo come faccenda morale, ma anche, e soprattutto, come problema sociale e di
salute pubblica (per il timore delle malattie veneree), quella maschile era per lo più
fatta passare come un fenomeno circoscritto a un piccolo gruppo di pervertiti ben
distinto dal resto della società.
Mancano nella versione scritta altri due interventi che avevano contribuito alla
ricchezza dei temi e dei casi proposti dal panel Comportamenti sessuali nell’Italia uni-
ta: corpi e linguaggi tra esperienze e norme, presentato a Napoli nel gennaio 2010 nel
contesto del V Congresso SIS. Vorrei, infatti, ricordare e ringraziare anche Gabriella
Romano e Francesca Vassalle. La prima, nel quadro del proprio percorso profes-
sionale di regista di documentari dedicati alla ricostruzione storica delle esperienze
di omosessuali e lesbiche italiani, aveva illustrato e commentato la testimonianza
e le esperienze di Lucy, transessuale ottuagenari*. Vassalle, invece, aveva diretto il
proprio sguardo oltre il periodo del ventennio fascista, durante il quale il regime, in
nome del motto «il numero è potenza», aveva promosso matrimoni e nascite, oltre
che censurato pratiche sessuali “anomale” (contraccezione, aborto, omosessualità,
celibato/nubilato). In particolare, l’autrice, attraverso l’accostamento di dati quan-
titativi e qualitativi, rifletteva su pratiche e politiche contraccettive che, in un Paese
ancora fortemente segnato dalla morale cattolica e da un’ancora vigente legislazione
fascista in tema di famiglia e sessualità, rivelavano la conformità parziale di italiani e
italiane ai canoni riproduttivi dell’eterosessualità normativa.
Nel complesso i tre contributi qui pubblicati esortano a discutere più estesa-
mente i temi della sessualità nel più ampio contesto della storia nazionale – ma an-
che transnazionale, se pensiamo, ad esempio, alla fortuna delle teorie lombrosiane
in alcuni Paesi esteri13 – dando, così, un significativo apporto alla storia sociale e
12 Come già osservato da Jeffrey Weeks, i primi studi sulla prostituzione maschile sono stati anche
i primi grandi studi quantitativi sull’omosessualità (Magnus Hirschfeld, Havelock Ellis, ecc). Cfr.
Weeks, J. “Inverts, Perverts, and Mary-Annes: Male Prostitution and the Regulation of Homosexu-
ality in England in the Nineteenth and Early Twentieth Centuries”, in Journal of Homosexuality, n.
1-2, 1981, pp. 113-134.
13 Per un accenno a riguardo rimando al mio contributo “La prostituzione maschile nel discorso
scientifico della prima metà del Novecento”.
509
culturale tout court. Essi spronano pure a interrogarci in modo più profondo su
concetti-chiave – quali identità, desiderio, ruolo, amore, ecc. –, facendo altresì
attenzione all’uso e al metodo con cui certe categorie analitiche – fra cui genere,
classe, etnia – sono impiegate nell’indagine storiografica. È, infatti, importante
tenere a mente che «categories of analysis are subjective, fashioned in the critical
minds of historians to help us identify, organise and assess certain kinds of eviden-
ce of particular interest to us»14.
Simili considerazioni teoriche forniscono la possibilità di riflettere sulle scelte
metodologiche che storici e storiche compiono nel selezionare, leggere (tra le ri-
ghe) e poi narrare fonti e documentazioni relative all’intimità e al corpo; oppure
nell’estrapolare da atti prodotti da istituzioni (disciplinanti) e soggetti riconosciuti
(medici, criminologi) tracce di desideri, comportamenti e motivazioni individua-
li, oltre che indizi di reti relazionali informali o, comunque, altre rispetto alle
gerarchie sociali comunemente riconosciute (dovute a età, genere, censo, ecc.)15.
È questo il caso delle fonti processuali di Rizzo o delle osservazioni psico-fisiche
di medici e criminologi su tribadi e prostituti, presentate da Milletti e Salvante.
I tre articoli, infatti, suggeriscono alcuni argomenti rilevanti alla discussione
sulle sessualità, fornendo, più che risposte immediate, spunti utili alle ricerche e
ai colloqui futuri. Tra questi, la distinzione tra pratiche, comportamenti e identità
sessuali quali termini non sempre tra loro congiunti e associati alla consapevolezza.
Oppure la differenziazione tra le esperienze sessuali, il loro significato per gli indivi-
dui coinvolti e la loro identificazione all’interno di un preciso sistema di riferimento
concettuale (medico, legale, comunitario, ecc). È questo il caso, ad esempio, del
sesso che coinvolge o è praticato da minori; come pure della prostituzione, esercitata
da uomini o da donne. Quali pratiche socio-sessuali, al di là dei comportamenti
proibiti dalla legge, sorsero proprio in conseguenza di certe sanzioni? Quale il ruolo
ricoperto dal denaro nella legittimazione di certi comportamenti? Quali rappresen-
tazioni identitarie accompagnarono tali prassi? Come mutarono queste nel tempo?
Quale davvero il legame tra identità sessuale e scelta dell’oggetto del desiderio?
Mi auguro che numerose possano essere nel futuro le repliche a questi – e
anche altri – interrogativi storiografici che la storia delle sessualità, in dialogo con
la storia di genere, continua utilmente a suscitare, esortandoci così ad ampliare gli
orizzonti delle nostre conoscenze.
510
16 Cfr., ad esempio, Wanrooij, P.F. “The History of Sexuality (1860-1945)”, in Willson, P. (a cura
di) Gender, Family and Sexuality. The Private Sphere in Italy, 1860-1945, Basingstoke, Palgrave Mac-
millan, 2004, pp. 173-192.
511
Domenico Rizzo
17 Il riferimento è allo spoglio completo delle annate 1875, 1880, 1885, 1890 e 1905 delle Sen-
tenze di I grado del Tribunale penale di Roma presso l’Archivio di Stato di Roma. Per un quadro
d’insieme dei risultati rinvio al mio Gli spazi della morale. Buon costume e ordine delle famiglie in Italia
in età liberale (Roma, Biblink, 2004), dove non si trattano invece i casi qui presentati.
514
Siamo nell’estate del 1880, a Borgo, il rione popolare adiacente alla Città del
Vaticano18. Giuseppe ha sei anni, è figlio di una fruttivendola del rione; Romolo ha
11 anni e Giovanni 16 e fa il muratore; vivono tutti a pochi metri di distanza l’uno
dall’altro e si conoscono di quel tipo di conoscenza alimentata dalla compresenza
continua nelle stesse strade. Tutti loro conoscono bene anche un quarto ragazzo,
Orazio, 13 anni, che fa il macellaio e vive a Campo de’ Fiori, ma la cui madre ha
anch’essa una bottega a Borgo, il che lo rende partecipe (almeno) di due vicinati.
I rioni popolari del centro storico della città sono ancora caratterizzati, alla
fine dell’Ottocento, da ritmi e stili di vita descritti molte volte dagli studiosi dei
contesti di antico regime, anche con riferimento alla sessualità di bambini e ragaz-
zi19. E un dato comune a tutti i casi ai quali faccio riferimento è proprio l’estrazio-
ne popolare dei protagonisti.
In un pomeriggio di agosto Giuseppe, il bambino di 6 anni, è seduto davanti
alla porta di casa. Passano gli altri e lo invitano a unirsi a loro per fare il bagno in
una pozza d’acqua fuori Porta Angelica. E fanno il bagno.
Le versioni su quello che accade dopo fornite dai quattro non discordano
molto; e anche se ciascuno omette i dettagli che ritiene possano aggravare la pro-
pria posizione, nella sostanza i fatti risultano chiari.
Il sedicenne propone al bambino di fare «una porcheria per uno» in cambio
di «due soldi». Secondo tutti il bambino avrebbe risposto: «no, ne voglio quattro».
Anche il bambino sostiene che gli sono stati dati quattro soldi, tacendo sulla con-
trattazione. È il tredicenne Orazio a darglieli, che è anche il primo a penetrarlo
(anche su questo concordano tutti). Quindi è la volta dell’undicenne Romolo e
infine del sedicenne Giovanni (soltanto Romolo nella sua testimonianza inverte
l’ordine collocandosi per ultimo).
Rientrando nel centro abitato attraverso Porta Angelica il bambino piange
perché ha dolore; il più grande del gruppo minaccia di affogarlo se racconterà alla
madre quello che è successo; Orazio gli toglie quindi i quattro soldi. Ma è curioso
a quest’ultimo riguardo come Orazio – che ammette tutto il resto – neghi invece
questo particolare, confermato dagli altri oltre che dal bambino20.
«Quattro soldi» quindi, non donati a compensazione successiva all’atto ma
pagati prima, a sanzione dell’accordo. Non la sopraffazione fisica del soggetto evi-
18 Archivio di Stato di Roma. Tribunale civile e penale (d’ora in avanti ASR, TCP), Sentenze, vol.
5539, 24 aprile 1880; ibidem, Processi penali, b. 3.691, f. 19.686.
19 Rinvio per tutti a Vigarello, G. Storia della violenza sessuale (XVI-XX secolo), Venezia, Marsilio,
2001.
20 Il caso arriverà in tribunale perché il piccolo Giuseppe, tornato a casa, continuerà a essere dolo-
rante e la madre scoprirà tutto, denunciando i tre. Romolo e Orazio vengono condannati a un anno
di custodia; Giovanni a due anni di carcere, in ragione della diversa età dei tre.
515
3. Il “contratto” sessuale
Nella scala di valori e nell’ottica dei soggetti coinvolti la violenza è nel tradimento
dell’accordo fatto; la prevaricazione sta nell’aver tolto a forza i «quattro soldi»
pattuiti. È questo il momento in cui la debolezza del soggetto si fa più evidente,
in cui l’asimmetria di forza determinata dall’età è invalicabile. È significativo che
Orazio neghi soltanto questo aspetto del suo comportamento, che lo colloca al di
fuori delle regole del gioco21.
Si è detto che i rapporti improntati a dinamiche violente sono in netta mino-
ranza. Ora si può aggiungere che a prevalere è il codice del “contratto”, dell’accor-
do preventivo basato sulla corresponsione di denaro. Esempi numerosi sembrano
attestarlo. E in taluni rapporti uno-a-uno questo schema si ripete più e più volte,
costruendo relazioni che durano anche mesi, soprattutto tra ragazzi di poco più
grandi – come nel caso di un sedicenne e di un tredicenne – finché per caso la
polizia non li sorprende in un luogo pubblico.
Due garzoni di un fabbro, un quattordicenne e un sedicenne, in un pomerig-
gio di maggio del 1885, sono di ritorno dalla consegna di una cancellata di ferro.
Passano nei pressi del Colosseo. Il più grande propone al più piccolo un rapporto
sessuale: «al che mi opposi dapprima – spiega il più giovane – ma poscia avendomi
offerta una lira mi prestai»22.
Ancora una volta è il più grande a proporre un rapporto che vede il più gio-
vane nel ruolo passivo. La dichiarazione di quest’ultimo sintetizza in una frase una
dinamica complessa e densa di significati, nella quale anche i termini utilizzati
sono emblematici: a trasformare l’opposizione in consenso c’è una lira.
Ma prima di interrogarci sulla natura di questo “contratto sessuale” è oppor-
tuno segnalare la sua ricorrenza anche nei casi che vedono coinvolti uomini adulti
con ragazzi giovanissimi. Lo schema è identico: l’adulto offre qualcosa in cambio
di una prestazione passiva del più giovane. Si tratta per lo più di pochi soldi ma –
in contesti di estrema marginalità sociale – anche di cibo23.
21 In un altro caso di gruppo il fatto di essersi ripreso i soldi viene spiegato con il fatto di “avere
tralasciata l’operazione”. Cfr. ASR, TCP, Processi penali, b. 4.370, f. 35.013.
22 Li sorprende la polizia sotto un arco del monumento, che a lungo è luogo di rapporti sessuali per
innamorati come per prostitute e clienti. ASR, TCP, Processi penali, b. 4.270, f. 32.697.
23 È il caso ad esempio del sodalizio tra un dodicenne e un contadino quarantacinquenne che allog-
giano nel dormitorio municipale di Roma nel 1875: con lui da più tempo «mi presto a quell’azione»
dichiara il ragazzo, «mentre per corrispettivo esso mi diede da mangiare» (ASR, TCP, Processi penali,
b. 3.140, f. 7.953).
516
Il passaggio che più ci interessa è quello relativo alla proposta, sulla quale le
fonti sono più loquaci quando dalla proposta stessa è scaturito un conflitto (altri-
menti i verbali istruttorii si concentrano sugli atti compiuti). Vediamone soltanto
un esempio tra i tanti.
Uno «scopino» municipale di 49 anni ferma per la strada un ragazzino di 12
per tre giorni consecutivi rinnovandogli la sua proposta sempre negli stessi termi-
ni («Se ti fai dare in c…, ti regalo quattro lire»)24. Il primo giorno gli mostra le
quattro lire per dimostrare che non lo trufferà. Il secondo giorno gli spiega che «la
prima volta gli avrebbe fatto male, ma in seguito no»; il terzo giorno gli offre di
dormire con lui in cambio non solo di quattro lire ma anche di cibo. Nelle pro-
poste dell’uomo c’è il richiamo a una potenziale continuità di rapporto, presente
anche in altri casi. Il ragazzo però ogni volta rifiuta e quando l’uomo, il giorno
dopo, lo fa inciampare nella ramazza racconta tutto al padre che sporge querela.
Queste vicende suggeriscono evidentemente che il soggetto più giovane non
è affatto sempre disponibile e che le dinamiche di tali rapporti non presentano
alcun automatismo. Molte variabili sono destinate a sfuggirci, variabili contestuali
all’interazione che segnano probabilmente le linee di confine tra successo e insuc-
cesso di una profferta. In ogni caso, se si tratta di un contratto, sarebbe ingenuo
immaginare che la posta in gioco sia unicamente materiale. Qual è allora?
517
«rapporto tipico tra denaro e prostituzione»25. Mentre nel rapporto tra coniugi –
nota – doni da parte dell’uomo per la donna possono avere sia la forma del dono
in natura sia quella del dono in denaro, quando si tratta di un rapporto extra-
matrimoniale – se viene pagato un prezzo – allora a questo prezzo corrisponde
una forma in denaro.
Sullo sfondo c’è una implicita asimmetria di ruoli, una diversità tra i sessi che
soltanto il «dono» e il «controdono» libero, ispirato dall’amicitia, possono tradurre
in relazione stabile e morale (ricalcando il rapporto tra uomo e dio, impostato
dalla teologia cattolica)26.
Al contrario, nota efficacemente Simmel, «offrendo denaro ci si libera com-
pletamente dal rapporto, l’obbligazione viene meno in modo più radicale che con
qualsiasi oggetto specifico, al quale per il suo contenuto, la sua scelta, il suo uso,
resta più facilmente attaccato un soffio della personalità del donatore».
In quest’ottica il dono creerebbe pertanto relazione, laddove il denaro con-
sentirebbe di evitarlo.
Per un rapporto tra persone […] il denaro non è mai l’intermediario adeguato;
per il piacere venale, che rifiuta ogni rapporto che vada al di là dell’attimo e
dell’impulso esclusivamente sessuale, il denaro, che una volta dato si separa in
modo assoluto dalla personalità e tronca ogni ulteriore conseguenza nel modo
più netto, serve nel modo materialmente e simbolicamente più perfetto. Pagando
in denaro ogni cosa è chiusa nel modo più radicale, come si chiude con la prosti-
tuta dopo aver raggiunto il soddisfacimento.
25 Simmel, G. Filosofia del denaro, a cura di Cavalli, A.; Perucchi, L., Torino, UTET, 1984, pp.
536-37, passim.
26 Cfr. Clavero, B. Antidora. Antropología Católica de la Economía Moderna, Milano, Giuffré, 1991.
518
Inoltre, il presupposto rigido che regola dall’esterno questi rapporti è che sia il
soggetto attivo a trarre piacere e il soggetto passivo a consentire il piacere dell’altro,
un presupposto che è alla base evidentemente anche e soprattutto dei rapporti tra
uomini e donne e che è costitutivo dell’identità maschile.
Il soggetto passivo per natura – e quindi gratuitamente – è femminile. Gli
adulti che molestano bambine – nei casi giudiziari emersi nello stesso periodo –
spesso “donano” qualcosa dopo; non contrattano il prezzo della loro disponibilità
né risarciscono; creano un’obbligazione e una relazione. Tra maschi anche di età
diversa si tratta invece di trarre piacere senza “passivizzare” l’altro. Il denaro è per
lo più riconoscimento della mascolinità dell’altro, anche solo potenziale come nel
caso dei bambini.
È interessante come nei casi tra uomini adulti e adolescenti in cui viene ado-
perata la forza e non la contrattazione della disponibilità sessuale del più giovane,
non solo gli imputati ma anche i testimoni (e alla fine i medici legali) siano con-
cordi nel ritenere che si tratti di un soggetto «passivo abituale»; esterno quindi
all’area della mascolinità egemone (di un tredicenne si dice ad esempio che avesse
nel rione il soprannome di «paraculetto»; di un altro quello di «chiappetta»).
È al di fuori cioè del “contratto” che si apre l’area dell’identità maschile debo-
le, subalterna, che funge da spauracchio e da spettro costante per tutti. Così, ad
esempio: un quindicenne offre a un bambino di 11 anni – amico, che frequenta
abitualmente, vicino di casa – un soldo dopo una prestazione, che è già indizio
di uno scarso riconoscimento dell’altro; il bambino lamenta dolore e minaccia di
dirlo alla madre e il ragazzo lo minaccia allora di «dirlo ai ragazzini». Quella che
viene minacciata è una tipica procedura di blaming!
Siamo nel cuore, mi sembra si possa dire, di una pratica di produzione e
riproduzione sociale della mascolinità, incentrata sulla rigidità della distinzione
tra attivo e passivo come sinonimi di maschile e di femminile. Una riproduzione
che – come gli studi sulla mascolinità hanno più volte sottolineato – avviene in
misura significativa nel confronto con altri maschi.
La natura eccezionale di queste fonti consiste nel fatto che permettono di
cogliere anche rapporti infantili. I bambini sono pressoché assenti dalle fonti di
antico regime, per ragioni complesse, sulle quali molto ci si è interrogati: è mutata
la sensibilità verso l’infanzia a partire dal tardo Settecento oppure sono nuove
norme penali che inventano nuovi crimini nominandoli? Ora, a prescindere da
questo dibattito, l’opportunità di avere un quadro delle pratiche sessuali di tutte
le fasce di età almeno per l’Ottocento, suggerisce nuovi spazi per la ricerca: rimane
da indagare a fondo il continuum dei comportamenti che vanno dall’infanzia fino
all’età matura. È in questa continuità che sembrano ravvisarsi le forme di un ap-
prendistato infantile, nel quale il denaro è un medium fondamentale.
519
Del tutto aperta resta evidentemente la questione sui tempi, i luoghi e le mo-
dalità del cambiamento del paradigma culturale e delle pratiche che contrappon-
gono rigidamente ruoli attivi a ruoli passivi, associandoli a mascolinità e femmini-
lità. Un dialogo meno frammentato tra storia di genere e storia delle omosessualità
potrebbe in questo senso giovare a entrambe.
520
Nerina Milletti
Quando nel 1893 esce La donna delinquente di Guglielmo Ferrero e Cesare Lombroso,
opera destinata a una vasta e duratura notorietà27, la lesbica non è ancora ben costi-
tuita come figura autonoma: le due sottocategorie in cui vengono distinte le tribadi
(le occasionali e le nate col marchio dell’atavismo e, per questo motivo, facilmente
riconoscibili per le loro caratteristiche maschili) sono, infatti, incluse in quella generale
della prostituta28. Oggi associare lesbismo e prostituzione può sorprendere e apparire
arbitrario. Infatti, la nostra idea di “lesbica”, formatasi dopo la nascita del movimento
omosessuale e di quello femminista, è quella di una donna che ama le donne e che dà
a loro le proprie energie, emotive e sessuali. Un concetto congruente con l’accezione
odierna di sessualità, considerata come relazione ed espressione di sé, più che mecca-
nica risposta a un’esigenza fisiologica; non si tratta di un mero comportamento o di
uno specifico atto sessuale, ma di una scelta etica, oltre che erotica, difficilmente con-
ciliabile con l’oggettificazione del corpo, implicita nella vendita di prestazioni sessuali.
Apparentemente depurata da ogni traccia di mascolinità, trasgressione o im-
moralità, la lesbica di oggi è certamente una “specie” molto diversa da quella di un
secolo fa; in passato, invece, il suo rapporto con figure della devianza ora distinte
– come la meretrice o la donna-uomo, l’ottentotta, l’onanista, ma anche la folle o
la ninfomane – è stato così stretto da farle spesso coincidere in una sola categoria.
E quella che noi oggi chiamiamo identità lesbica – amalgama costituito, in pro-
porzioni variabili, dalla percezione soggettiva e dalle caratteristiche attribuite dalla
società – trascina necessariamente con sé la stratificazione delle concezioni passate.
Tanto più le definizioni di una categoria esecrata sono vaghe e lasciano spazio
all’interpretazione, tanto più possono essere “adattate” al sentire di un particolare
momento storico, che ne evidenzia alcuni tratti e ne mette in ombra altri. Le carat-
teristiche “dimenticate” sono però archiviate solo temporaneamente: non scom-
paiono del tutto, continuano a esistere come elementi costitutivi di quel materiale
di base da cui il nostro immaginario – consapevolmente o meno – può attingere
e, all’occorrenza, venire facilmente ripescate per avvalorare nuovi atteggiamenti
(nonché modalità di controllo) rispetto alla sessualità femminile.
29 Va notato però che qualche pagina prima Pausania considerava degni della specie d’amore più
elevata, l’eros celeste o uraniano, solo i rapporti tra uomini.
522
Il secondo mito che spiega la nascita di esseri omosessuali si trova in una favo-
la raccontata da Fedro (15 a.C.-50 d.C.): Prometeo, ubriaco, sbaglia nell’attaccare
i relativi organi sessuali ai corpi che aveva precedentemente plasmato nell’argilla.
Queste creature male assemblate sono i molles mares, maschi effeminati, e le tri-
badi, femmine con membri maschili. Anche in questo caso, come per Aristofane,
omosessuali maschi e femmine nascono insieme, ma in modo diverso dagli etero-
sessuali; inoltre, la loro specificità non è la ricerca di un simile in cui rispecchiarsi,
bensì l’errata costituzione.
L’autore latino più utilizzato dagli studiosi di fine XIX però non è Fedro ma
Marziale (40-104 d.C.), che in un paio di epigrammi se la prende con «la più tri-
bade delle tribadi», Filene, usurpatrice dei peggiori privilegi fallici, e con Bassa. A
lei – dimostrazione vivente che le matrone romane possono commettere adulterio,
tradendo mariti e ordine sociale, anche senza uomini – si rivolge, scrivendo che
«inter se geminos audes committere cunnos / Mentiturque virum prodigiosa Venus».
Innumerevoli versioni, più o meno caste, sono emerse dagli «abissi di perples-
sità in cui gli amori di Bassa hanno gettato generazioni di traduttori»30, ma a par-
30 Bonnet, M.J. Les relations amoureuses entre les femmes, Paris, Odile Jacob, 1995, p. 57.
523
tire dalla metà del 1500 – quando venne “riscoperta” la clitoride, organo del quale
si erano perse le tracce durante il Medioevo – la tribade non è (più) la donna che
si procura il piacere senza l’uomo (secondo l’etimo greco, con lo sfregamento dei
genitali), ma quella che lo ha come un uomo, penetrando un’altra donna grazie ad
una clitoride eccezionalmente grande. E non ci saranno più dubbi: la «prodigiosa
Venus» di Bassa non può essere altro che un (piccolo) pene, non un amore incon-
sueto o sorprendente31. Allo stesso modo, non come un dito o un olisbo, viene
interpretato lo “speciale strumento” di Megilla.
Nel XIX secolo l’ermafroditismo era tornato in auge con Richard von Krafft-
Ebing, autore della Psychopathia sexualis (1886). Il suo “ermafroditismo psichico”
è però una sorta dell’odierna bisessualità, dovuto alla coesistenza di caratteri psi-
chici maschili e femminili, ed è meno grave della vera e propria “inversione”, con-
cetto codificato dallo psichiatra Carl Westphal nel 1870, che manteneva intatto il
binarismo dei generi, minacciato dall’omosessualità.
31 Come ad esempio lo traduce Danna, D. in Amiche, compagne, amanti. Storia dell’amore tra donne,
edizione integrale con aggiornamenti, Trento, Uniservice, 2003, p. 47: «stringi e avvinghi / come un
sol uomo due sorelle Fica / e questo amore innaturale / imita l’uomo».
32 Taruffi, C. Sull’ordinamento della teratologia. Memoria III (fine), Bologna, Gamberini e Parmeg-
giani, 1902, p. 16.
33 Id. Sull’ordinamento della teratologia. Memoria III (parte II) cit., 1901, p. 39.
524
34 Fournier, F. «Clitorisme», in Dictionnaire des sciences médicales, vol. 5, Panckoucke, Paris, 1813,
pp. 376-378. Benché non indicato esplicitamente nel testo, è probabile che l’autore sia François
Fournier de Pescay, il primo medico di discendenza nera della storia, che scrisse anche la voce “So-
domie”, ivi, vol. 51, 1821, pp. 441-448.
35 Moraglia, G.B.C. “Tribadismo, saffismo, pervertimenti sessuali”, in Archivio di psichiatria,
scienze penali ed antropologia criminale, n. 30, 1895, pp. 379-427.
36 Poma, A. Dizionario anatomico-medico-legale compilato sulle tracce dei migliori autori, Padova,
Minerva, 1834, p. 85.
37 Mantegazza, P. Gli amori degli uomini. Saggio di una etnologia dell’amore, vol.2, Milano, Paolo
Mantegazza Editore, 1886, p. 136-137.
525
38 Foucault, M. La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 42-43.
39 Ottolenghi, “Fascinazione e telestesia”, in Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia
criminale, ser. II, n. 23, 1902, pp. 244-246.
40 La sua Psychopathia Sexualis fu tradotta in italiano nel 1889.
41 Ferrero, G.; Lombroso, C. La donna delinquente cit., p. 428.
526
La presunta ipertrofia dei genitali esterni delle prostitute, che appunto «ravvi-
cina e confonde i due sessi» per la «tendenza al ritorno atavistico verso l’ermafro-
ditismo», viene collegata da Lombroso alla deformazione delle piccole labbra, nota
come “grembiule delle Ottentotte”. Essa è associata, pertanto, agli scimpanzé, in
una triangolazione di atavismi che al suo vertice ha la razza: «È probabile, non
però certo, che anche la frequenza dell’ipertrofia delle piccole labbra, sì grande
nelle prostitute, sia un avanzo dell’epoca del grembiule delle Ottentotte che noi
vedemmo connettersi con analoghe anomalie nelle scimpanzé»42.
Era infatti noto che tra le Nama-Ottentotte «le ragazze hanno il costume della
masturbazione reciproca, di cui parlano liberamente nei loro racconti e anche nel-
le loro canzoni» ed è «così comune che si può chiamare vizio naturale»43.
42 Ivi, p. 362..
43 Taruffi, C. Sull’ordinamento della teratologia. Memoria III (parte II) cit., p. 51; Mantegazza, P. Gli
amori degli uomini cit., p. 138.
527
Martina Salvante
44 Cfr. Don Romesburg, “‘Wouldn’t a Boy Do?’ Placing Early-Twentieth-Century Male Youth Sex
Work into Histories of Sexuality”, in Journal of the History of Sexuality, n. 3, 2009, pp. 367-392.
in seguito alla pubblicazione del suo Psychopathia sexualis (1886). Ma, in que-
sti studi, all’intento tassonomico si associava l’obiettivo di difesa sociale proprio
dell’antropologia criminale45. Il primo saggio, del medico Giuseppe Vidoni46, era
stato pubblicato in due versioni: la prima nel 1922 sul periodico Il Manicomio e
la seconda, con l’aggiunta di alcune annotazioni, nel 1940 su Giustizia penale47.
Anche il secondo articolo, scritto dal medico Alberto Giordano, fu stampato su
quest’ultimo periodico nel 195148. All’analisi di questi due saggi si affianca la pre-
sentazione di altri lavori che trattarono a vario titolo il tema dell’omosessualità e
della prostituzione come sua manifestazione collaterale. Le informazioni che si
traggono dagli articoli sono parziali e soggettive, ma ci forniscono un’importante
testimonianza degli interessi e delle pratiche scientifiche in voga al periodo e della
prolungata influenza che le teorie di Lombroso ebbero sull’identificazione e il
trattamento della “devianza”. Gli uomini e i ragazzi citati negli articoli erano stati
incontrati dagli autori nelle carceri o nei centri per minorenni traviati, dove erano
stati rinchiusi per aver commesso reati contro la proprietà, quali il furto, oppure
atti osceni in luogo pubblico.
Giuseppe Vidoni si rifaceva alle teorie di Lombroso, riaggiornandole secondo
le concezioni della «scuola costituzionalista» che attribuiva agli ormoni, piuttosto
che all’atavismo, influenza determinante sui tipi somatici e i tratti psicologici. Nel
1921 egli dedicò alla trattazione della prostituzione femminile un intero volume,
in cui condivise l’opinione lombrosiana sulla prostituta come criminale tipica49,
individuando la causa di tale degenerazione nell’iperovarismo precoce e altri fat-
tori endocrini (p. 32 ss.). Aderendo al parere sulla virilità delle donne delinquenti,
Vidoni propose, tra le altre, l’ipotesi del positivista tedesco Hans Kurella, cioè
che «le prostitute siano una sotto-specie degli omosessuali, con abitudini di vita e
di costumi maschili, i quali influenzano corrispondentemente anche la struttura
fisica del corpo»50.
45 Cfr. Gibson, M.; Rafter, N. “Prefazione”, in Ferrero, G.; Lombroso, C. La donna delinquente, la
prostituta e la donna normale cit., pp. 22-25.
46 Vidoni era professore di Demografia e Biologia delle razze all’Università di Genova, oltre che
direttore del Dipartimento di Igiene e Medicina sociale per la provincia di Genova.
47 Vidoni, G. “Per lo studio della prostituzione maschile”, in Il Manicomio, n. 3, 1922, pp. 225-246
e Id. “Ancora per lo studio della prostituzione maschile”, in La Giustizia penale, I, 1940, cc. 386-401.
Le citazioni sono riprese dalla versione del 1940.
48 Giordano, A. “Il valore criminogeno della prostituzione maschile nell’età evolutiva”, in La Giu-
stizia penale, I, 1951, cc. 206-219.
49 Vidoni, G. Prostitute e prostituzione, Torino-Genova, Lattes, 1921.
50 Ivi, p. 30. Il Nervenarzt Kurella tradusse in tedesco gran parte dei lavori di Lombroso. Vedi
Bondio, M.G. “From the “Atavistic” to the “Inferior” Criminal Type: the Impact of the Lombro-
sian Theory of the Born Criminal on German Psychiatry”, in Becker, P.; Wetzell, R.F. (a cura di)
530
Mentre in quella monografia non vi era alcun accenno agli uomini che pratica-
vano la «vendita dell’amore», l’anno seguente Vidoni dedicò un intero articolo alla
questione, riportandovi le storie di nove ragazzi incontrati nelle carceri genovesi.
Egli era dell’avviso che i soggetti esaminati fossero utili testimonianze per lo studio
dell’omosessualità, benché l’esiguità dei casi rendesse difficile formulare un’ipote-
si universalmente valida. Secondo lo scienziato costoro, parimenti alle prostitute
donne, erano portati a «sostenere la lotta per l’esistenza con comodità e facilità»,
cioè sfruttavano la propria «tendenza al delitto dandosi alla prostituzione» (c. 397)
e commettendo qualche furto. Otto uomini su nove di quelli esaminati da Vidoni
potevano essere definiti «veri omosessuali costituzionali» (c. 397), per i quali, cioè,
il fattore endocrino era cagione primaria dell’omosessualità. Inoltre, lo studioso
respingeva l’idea di considerare alla stessa stregua attivi e passivi, individui dediti
alla prostituzione e soggetti viventi in austera castità, raccomandando piuttosto
le dovute distinzioni. Infine, conscio del fatto che il problema della prostituzione
maschile fosse ancora «troppo ignorato e spesso del tutto confuso, senza alcuna
distinzione, con quello dell’omosessualità», Vidoni auspicava indagini scientifiche
più compiute e la realizzazione di provvedimenti pratici, quali una «più elevata e
cosciente educazione sessuale» e una « più efficace e sincera lotta contro la delin-
quenza minorile» (c. 401).
Tra i casi presentati si cita quello di F.U. di anni 16. Figlio di una prostituta,
era stato allontanato dal collegio per aver avuto rapporti omosessuali. Vidoni an-
notava che il ragazzo «per qualche regalo praticava anche coito per bocca» oltre
a masturbarsi più volte al giorno. Era inoltre dedito a frequentare assiduamente
i cinematografi e altri luoghi equivoci in cerca di clienti cui offrirsi. Nelle sue os-
servazioni lo studioso aveva riscontrato nel giovane deficienza mentale e, dal lato
somatico, la presenza di stigmate degenerative.
Ancora, G.R. di anni 28 confessò di aver amato, fin dall’asilo infantile, vestirsi
da donna, giocare con le bambole e stare in compagnia delle ragazze. Durante le
scuole elementari «malgrado tutto non potevo abbandonare le mie abitudini delle
bambole e sempre maggiormente più simulavo la bambina, dedicandomi anche a
dei lavori femminili». In seguito alla scoperta da parte dei fratelli della sua tresca
con un ragazzo di cui si era innamorato, fu costretto a lasciare casa a 15 anni,
incominciando così «il tirocinio di Cocotto» col nome di battaglia di Romoletta.
Dopo aver esercitato per un po’ sulla strada, cominciò a frequentare una casa di
piacere in cui ebbe l’opportunità di incontrare un inglese, di cui divenne il mante-
nuto fino all’età di 20 anni, quando fu costretto ad andare militare in Africa, dove
ne combinò «d’ogni sorta e genere, finché ottenni la riforma». Una volta rientrato,
Criminals and their Scientists, Cambridge, Cambridge UP, 2009, p. 189 ss.
531
però, «incominciai col praticare gente di mala vita e così divenni un ladro» fino al
momento in cui fu «gettato in galera, al pari di un delinquente nato». Alla confes-
sione del giovane – «non feci mai l’attivo e sono ancora del tutto vergine» – Vidoni
fece seguire alcune rapide annotazioni: «È stato condannato più volte per furto.
Ha pose femminee. Beve e fuma poco, ha fatto uso di cocaina. Tiene i capelli
lunghi. Si nota plagioprosopia, lingua con qualche solcatura, scarsissimo pelo agli
arti, alluce abnormemente distanziato. Esiste dermografismo rosso, torpore dei
riflessi cremasterici ed inversione del riflesso oculo-cardiaco» (cc. 393-395).
Sono molti gli elementi che, agli occhi di medici e criminologi, accomunava-
no prostitute e omosessuali: la base biotipologica della loro “degenerazione” (do-
vuta ora ad atavismo, ora a cause endocrine), la conseguente prossimità al mondo
del crimine e a comportamenti devianti (furti, consumo di droghe, perversioni)51.
Al di là di certe categorizzazioni “scientifiche”, tuttavia, è verosimile che i cosid-
detti “effeminati” prendessero a modello, per stile di vita e sfrontatezza sessuale,
proprio le meretrici52.
Come accennato in precedenza, Vidoni ristampò nel 1940 il suo saggio sui
prostituti in seguito al crescente interesse che il tema dell’omosessualità riscosse
all’epoca nel mondo medico-legale. Leonidio Ribeiro, ad esempio, aveva vinto
nel 1933 il premio Lombroso, conferitogli dalla Reale Accademia medica d’Italia,
per i suoi studi sull’omosessualità e sulla biotipologia dei neri criminali53. In un
articolo del 1936 il medico di Rio de Janeiro presentò i risultati di uno studio
condotto su un campione di 184 omosessuali maschi, rintracciati in bordelli e
case di prostituzione brasiliani54. In base ai presunti «segni di anormalità somati-
che» riscontrati nei soggetti esaminati, Ribeiro era convinto che l’omosessualità,
in quanto patologia, non fosse da punire, bensì da curare. Nel 1940 fu pubblicato
in Italia il suo libro Omosessualità e endocrinologia con un’introduzione del noto
endocrinologo madrileno Gregorio Maranón e la traduzione di Giulio A. Belloni,
giurista con la passione per la criminologia55.
532
56 Cfr. Gibson, M. Born to Crime: Cesare Lombroso and the Origins of Biological Criminology, West-
port (Conn.), Praeger, 2002.
57 Di Tullio, B. “Nella delinquenza minorile: reati sessuali e prostituzione maschile”, in Bollettino
dell’amministrazione carceraria, n. 4, 1927, p. 2.
58 Rdl 20 luglio 1934, n. 1404.
533
Giordano e Mieli erano concordi nel sostenere che i prostituti non fossero
necessariamente omosessuali. Quello che differenziava la posizione del primo da
quella del secondo era, però, il silenzio di Giordano sul biasimo sociale che afflig-
geva l’omosessualità e che molto spesso era la causa primaria sia del nascondimen-
to dei rapporti intrattenuti, sia della ricerca di sesso occasionale a pagamento, che,
a sua volta, alimentava la prostituzione di giovani.
Gli importanti rivolgimenti istituzionali che ebbero luogo in Italia nel tempo
intercorso tra gli articoli di Vidoni, Di Tullio e Mieli degli anni Venti e quello di
534
Giordano del 1951 hanno riscontro anche nel modo in cui le scienze medico-
criminologiche affrontarono la questione della prostituzione maschile. Essa non
fu più vista come un esecrabile comportamento di natura patologica circoscritto
a ristrette cerchie di “pervertiti”, bensì come possibile focolaio per il traviamento
dei giovani ed eventuale «primo passo sulla via dell’aperta violazione della legge
penale»60. Perdurava, tuttavia, la differenziazione tra omosessualità “costituziona-
le” e “occasionale”, rafforzata da una rigida percezione binaria del maschile e del
femminile, mentre, al contempo, non vi era alcuna considerazione per la soggetti-
vità del desiderio e l’individualità dell’esperienza.
Intanto, durante il ventennio, il fascismo aveva preteso di dedicarsi alla cura
delle nuove generazioni tramite l’istituzione di enti – quali l’Omni, l’Opera na-
zionale Balilla, il Tribunale dei minori – che inquadrassero i giovani e ne con-
tenessero gli elementi “devianti”. L’intento primario era quello di impedire che
il minore fosse “contagiato”, moralmente o socialmente, da ambienti o persone
considerati “antisociali” e “pericolosi”. Per ottenere questi risultati erano necessarie
una rigida sorveglianza e una scrupolosa schedatura degli elementi genericamente
“anomali”61.
Le stesse conclusioni di Giordano nel 1951, se appaiono ammirevoli nel voler
evitare stupide etichettature affibbiate a minorenni che avevano commesso reati e
che erano in procinto di intraprendere un percorso di rieducazione (come il ter-
mine “pederasta” segnato sulle cartelle biografiche dei giovani internati), davano
tuttavia l’impressione di ritenere ancora l’istituzionalizzazione e la disciplina come
unici strumenti capaci di debellare ogni forma di asocialità giovanile, altrimenti
causata da malattia, abbandono sociale o familiare, ecc. D’altronde, fu soltanto
con la Legge 25 luglio 1956, n. 888 sul funzionamento dei tribunali per minori
e delle istituzioni collegate che si cominciò a ravvisare la necessità di spostare l’ac-
cento dalla pena e dal controllo sociale alla risocializzazione del minore “deviante”,
ammettendo così la centralità del trattamento individualizzato e dell’assistenza
sociale.
60 Funzionamento delle case di rieducazione per minorenni, Napoli, Casa ed. Pietrocola, 1939, p. 3.
61 Cfr. Cazzaniga, A. “Rilievi e considerazioni sui minorenni osservati nel centro di rieducazione
di Milano”, in Atti del 1° Congresso internazionale di criminologia, (Roma 3-8 ottobre 1938), vol. II,
Roma, Tip. delle Mantellate, 1939, p. 53-67.
535
Cristina Gramolini
nizzazione mista con i gay; anche queste ultime hanno espresso una pratica di
preferenza femminile, dando vita a esperienze come FUORI! Donna o Arcigay
Donna, ma è impossibile equiparare le due formule che si distinguono per il carat-
tere strategico dell’una, irriducibile a quello tecnico dell’altra: il separatismo eleva
l’identità lesbica a matrice di una società alternativa e ostile a quella patriarcale e
sviluppa una comunità lesbica autogestita; nell’altro versante del movimento, le
reti femminili sono funzionali a valorizzare lo specifico lesbico, quasi un’articola-
zione interna del soggetto omosessuale in cammino per la liberazione.
Esaminando alcune vicende dei tre decenni passati, le ricerche che seguono
evidenziano le influenze delle culture correnti sulle prospettive delle politiche le-
sbiche. Ad esempio negli anni Settanta la contestazione di massa contro la famiglia
e contro i ruoli sessuali ispirava tutte le lesbiche impegnate politicamente, tanto
il FUORI! Donna che i collettivi lesbici femministi: si conduceva una critica alla
coppia monogamica, alla fallocrazia e si rifiutava il concetto che oggi ha preso il
nome di “orientamento sessuale”, ritenuto biologistico e deterministico, in nome
di un desiderio inteso come anarchico.
Il riflesso delle culture critiche sul nascente movimento lesbico può essere
considerato prova del fatto che i soggetti, pur isolati e muti in quanto omosessuali,
erano però partecipi del loro tempo in quanto cittadine, dunque nel momento
della scelta dell’attivismo lesbico erano portatrici di paradigmi politici tratti da
altri ambiti di liberazione che verranno applicati in modo analogico. L’influenza di
paradigmi esterni alla comunità lesbica non implica l’assenza di autoproduzioni,
elaborate a partire da apporti stranieri, che progressivamente occuperanno spazi
sempre maggiori.
La concettualizzazione del desiderio lesbico come scelta dettata dalla presa di
coscienza implica un approccio forse un po’ unilaterale che trascura le componenti
inconsce del desiderio stesso; nel corso del tempo si è gradualmente verificato un
rovesciamento di senso, forse altrettanto unilaterale, con l’affermazione di un’idea
di desiderio come dato di fatto, tendenza sessuale indipendente dal contesto, che
non avrebbe alcuna influenza sulla scelta d’oggetto delle persone.
I saggi seguenti mostrano che nel circuito degli spazi lesbici a lungo si è vis-
sute nella dicotomia dentro/fuori: spazi protetti per la sfera sentimentale e per la
ridefinizione di sé, sottratti al giudizio e alle conseguenze dirette della violazione
del proibito. Il movimento è rimasto per un certo periodo appartato rispetto al
sociale, creando ambienti dove vivere integralmente come soggetti desideranti e
pensanti, che però abitavano il sociale eterosessista come clandestine. Nei luoghi
di ritrovo per lesbiche, locali di incontro o gruppi di riflessione, approdano donne
con vissuti dolorosi, che con paura si scoprono diverse o che sono abituate alla
doppia vita, che cercano la serenità perduta e intrecciano amori e amicizie; vi ap-
prodano anche donne politicizzate che provano ad articolare una rappresentazione
540
541
minando le strategie adottate in ambiti diversi per mettere in parola l’erotismo taciu-
to. Questa ricerca ci restituisce un dibattito teorico di alto livello e fa luce sui risultati
culturali conseguiti negli spazi protetti del circuito lesbico, cui si accennava sopra. La
riflessione del movimento si nutre di apporti provenienti dall’estero, grazie all’im-
portazione culturale svolta dal Bollettino del CLI e dalla casa editrice &stro, messi in
gioco all’interno di convegni nazionali molto partecipati, ma sottratti all’attenzione
pubblica. All’inizio degli anni Novanta si sviluppa una querelle circa le tendenze
prosex delle controculture lesbiche d’oltreoceano, etichettate come sadomasochismo
lesbico, che creano imbarazzo nelle lesbiche femministe, che le giudicano degradanti
e cercano di evitarne l’afflusso in Italia: ad esempio nelle Settimane Lesbiche si ve-
rificano conflitti su proiezioni o laboratori che propongono la pornografia lesbica.
Interessante è osservare che nello stesso periodo le lesbiche unite politicamente ai
gay ricorrono ai linguaggi del sesso sicuro, in auge per la lotta all’AIDS, per trattare
in modo franco di pratiche sessuali tra donne, prima avvolte in un’aura di mistero
e di allusione: il risultato è asettico, ma nello stesso tempo consente la nominazione
di atti che non avevano prima trovato espressione. La ricostruzione giunge fino al
queer, che denaturalizza le identità e intende demolire le norme sessiste mettendo in
scena i rapporti di potere che si giocano sessualmente.
Il saggio di Maya De Leo tratta delle linee principali della storiografia inter-
nazionale a proposito delle elaborazioni identitarie del lesbismo: la politica della
visibilità ha il suo riflesso teorico nella saggistica tesa al reperimento dei precedenti
storici della lesbica contemporanea, con indagini nel passato condotte anche con
procedimenti indiziari; dalle ricerche sulla presenza del maschile nell’immaginario
lesbico, tanto butch-femme quanto romantico, passando attraverso la stagione del-
le pratiche decostruttive del binomio naturalità/devianza, si arriva alla svolta degli
anni Novanta, quando a essere decostruita è l’autorappresentazione del lesbismo,
interpretato anch’esso come una narrativa prodotta dal discorso sessista dominan-
te. Il queer rifiuta l’opposizione tra cultura ufficiale e culture di resistenza, metten-
do in crisi le politiche dell’identità e per questa via della visibilità e, dal punto di
vista della ricerca storica, della rivendicazione del passato delle lesbiche.
Il saggio di Elena Petricola segnala che ci troviamo all’inizio di un processo
di reperimento delle fonti a proposito del lesbismo politico in Italia e sottolinea
l’importanza della memorialistica come fonte capace di consentire la ricostruzione
delle esperienze meno visibili e anche delle intersezioni tra il lesbismo e altri mo-
vimenti o formazioni politiche tradizionali, si pensi ai femminismi, alla sinistra
extraparlamentare e ai partiti storici del movimento operaio. Appare auspicabile
integrare la documentazione scritta con la storia orale e collocare l’attivismo del-
le donne omosessuali nella storia sociale e culturale del Paese (e internazionale),
dall’identitarismo alla critica queer, che ha mostrato la coimplicazione tra espe-
rienze oppositive e i contesti a cui pure si contrappongono.
542
543
Daniela Danna
Un pressante dibattito politico, che in Italia non è ancora diventato anche sto-
riografico, riguarda l’autonomia organizzativa delle donne lesbiche versus la loro
partecipazione ad associazioni e collettivi misti. La questione dell’autonomia delle
donne è al centro di questa disputa, ma al di là delle questioni organizzative for-
mali, è interessante esaminare che cosa concretamente facciano e propongano le
donne che partecipano ad associazioni miste, se le loro posizioni si ispirino co-
munque al femminismo, se conducano battaglie per le donne anche internamente
ai gruppi misti e quali ne siano gli esiti.
In questo lavoro si vuole cominciare a riflettere con gli strumenti della storia
orale (e dell’analisi documentale)1 sull’autonomia di organizzazione e contenuti
portati dalle donne lesbiche (e non solo, come vedremo) a partire da un caso
specifico, quello della militanza nel gruppo omosessuale degli anni Settanta che si
è dato il nome di FUORI! con il punto esclamativo, acrostico di Fronte Unitario
Omosessuale Rivoluzionario Italiano – per brevità in questo articolo “Fuori”.
Il Fuori è stato l’iniziatore, e per tutti gli anni Settanta il principale esponente,
del movimento gay in Italia. Nacque come collettivo nel 1971, con l’obiettivo di
creare una rivista per diffondere le proprie idee sull’essere omosessuali, censurate
dalla stampa a carattere nazionale. La rivista vivrà fino al 1982. A Sanremo, a par-
tire dal 5 aprile 1972, avvenne la “Stonewall italiana”, cioè l’interruzione del con-
1 Interviste con Anna Cuculo, E. A., Angelo Pezzana, conversazioni con Margherita Jorino Leist,
Maria Schiavo e Myriam Cristallo, realizzate dall’autrice nei primi mesi del 2007. I numeri del Fuori!
si possono leggere sul sito: http://www.omofonie.it/biblioteca.htm.
546
Dall’intervista con Anna Cuculo, un’altra protagonista della stagione del Fuo-
ri a Torino: «C’erano tante simpatizzanti, ma avevano mille paure che le allonta-
navano: paura di perdere il lavoro, la casa… e non avevano torto». Infatti Sala
dichiara che non andò a Sanremo perché: «Gli statali non possono, se no il posto
lo saluti!».
Le specificità legate all’essere omosessuali sì, ma donne, risultano quindi es-
sere state analizzate fin da subito, e il risultato è stata la condivisione delle analisi
e delle istanze del movimento femminista. Su Fuori! il collettivo redazionale fem-
minile scrive:
La lotta degli omosessuali e delle donne è una lotta comune: contro un sistema
basato sullo sfruttamento di alcuni uomini su altri uomini e di tutti gli uomini
indistintamente sulle donne.
Gli omosessuali maschi sono oppressi perché scegliendo di stare con un individuo
del proprio sesso rimettono in discussione la “virilità’, il potere sessuale, econo-
mico e sociale che il maschio detiene. Le donne sono oppresse, prima che come
omosessuali (che si ribellano alla subordinazione al maschio, al ruolo di madri, e
spose), innanzitutto come donne3.
Gli articoli delle donne pubblicati su Fuori! contengono analisi molto simili a
quelle delle femministe: la repressione del lesbismo e di tutti i comportamenti non
conformi allo stereotipo di genere della “brava moglie e madre” è ottenuta attra-
verso una censura e repressione feroci sulla sessualità delle ragazze. Non si tratta di
un pregiudizio, non è uno sbaglio che può essere corretto attraverso una rettifica
informativa, con l’avanzare della Ragione su modello illuministico, è piuttosto
un aspetto del dominio maschile, che in questi scritti appare fortemente legato al
modo di produzione capitalistico. Sono le stesse madri a sorvegliare e punire le
figlie perché si adeguino al loro ruolo di serve dei maschi. Sono denunciati come
dannosi e deleteri anche il modello di virilità proposto agli uomini, la monoga-
547
mia, la famiglia. Jorino Leist nel primo numero scrive un articolo intitolato “La
liberazione della donna”, accogliendo le analisi del femminismo e integrandole
con il ritratto delle lesbiche come “perfette femministe”, il cui posto è all’interno
di quel movimento:
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che dava voce allo stesso problema, e per quanto riguarda i gay era uguale, ma
ahimè la maggior parte dei comunisti di allora erano rudi e violenti».
Le donne del Fuori, che allora contavano per un decimo delle tessere totali,
convocano a Roma, sempre nel 1974, il I Congresso internazionale delle donne
omosessuali, che vede un’affluenza scarsissima: appena una quindicina di donne
che fanno autocoscienza. Il resoconto è pubblicato su Fuori! Donna. Si sottolinea
la scoperta che ognuna vive la sua omosessualità in modo diverso: la diversità deve
essere un valore nella costruzione della cultura lesbica.
Ancora il rapporto tra lesbismo e la “sorella maggiore” del femminismo è il
tema del n. 13 di Fuori!, del 1974, dal titolo “Fuori Donna ovvero femminismo
e lesbismo”. Le lesbiche avevano contattato i gruppi femministi italiani con una
lettera:
Il rapporto con la sorella maggiore era difficile: l’accusa di essere lesbiche era
ed è uno stereotipo cui gli avversari del femminismo hanno sempre fatto ricorso,
di qui le difficoltà ad affrontare questo tema nei gruppi di donne, che pure al loro
interno avevano molte militanti che si identificavano come lesbiche e che facevano
di tutto perché di lesbismo si parlasse e scrivesse, come Giovanna Pala del collet-
tivo romano Pompeo Magno4. Le femministe di Torino sono comunque elogiate
dal collettivo redazionale: a partire dalle incomprensioni e dai rifiuti iniziali, la
situazione si è evoluta in una vera sorellanza.
Gli altri articoli di Fuori! Donna sono la proposta di uno sciopero delle don-
ne, un’idea partita dalla Francia: si propone la sospensione del lavoro salariato, di
quello scolastico e universitario, del lavoro domestico, della cura dei figli, delle
compere, del servizio sessuale e della prostituzione. E poi: «Sospendiamo di conso-
lare, di curare, di assistere, di applaudire, di incoraggiare, di guarire, di sostenere,
di tacere, di confessarci agli psichiatri ed ai curati, di piacere, di ispirare e di far
4 Vedi la sua intervista in Danna, D. Io ho una bella figlia. Le madri lesbiche raccontano, Forlì, Zoe,
1998, pp. 97-101.
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Nel 1980 anche dal Congresso del Fuori uscì a maggioranza una proposta di
creare le unioni civili, rifiutando l’assimilazione al matrimonio.
Il Fuori si autoscioglie nel 1981, constatando l’esiguità delle proprie forze
nell’inarrestabile riflusso. Sono finiti «gli anni belli in cui avevamo degli ideali, si
pensava di portare dei frutti, c’era voglia di uscir fuori e cercare di far capire alla
gente che non eravamo delle malate… anche con buoni risultati tutto sommato»
(intervistata anonima).
Non mancano infatti tra le intervistate i paragoni deludenti con lo stato di
cose attuale: «Stiamo tornando indietro di 150 anni, eravamo più liberi negli anni
70, c’era più voglia di fare, quelle che hanno trent’anni oggi pensano alla loro car-
riera» (M. J. L.), accanto però a valutazioni molto più positive: «Quella dell’omo-
sessualità è una battaglia che abbiamo vinto. Due battaglie ho vinto nella mia vita:
questa e il rifiuto del matrimonio» (M.C.). Anche Stefania Sala dà una valutazione
positiva: «Ora si accetta che l’omosessualità ci sia, è già tanto!»
Vuoi fare un bilancio del periodo del Fuori? A cosa è servito, secondo te?
È servito a liberarmi! Per questo adoro Angelo e gli sarò sempre grata, senza di
lui non avrei avuto quella liberazione politica e mentale, io che giravo rasente
al muro, io che non disegnavo pur avendone le capacità, io che dovevo stare di
nascosto nelle mie storie…
Poi ho letto altri libri, però la liberazione è stata tutta da parte di Angelo e dai
discorsi dei Radicali: il potere di essere se stessi…
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Cristina Gramolini
Daniela Pellegrini, fondatrice nel 1965 del gruppo che si chiamerà DEMAU,
Demistificazione dell’Autoritarismo patriarcale, e nel 1981 del Cicip & Ciciap, un
locale tuttora separatista per donne, ricorda che negli anni Settanta le donne sco-
privano la loro sessualità e rifiutavano di essere contraltare passivo della sessualità
maschile, da lei definita omosessuale, con un uso improprio e negativo del termine8:
per molte questo comportò una sospensione della vita sessuale, al fine di metterne
a fuoco le componenti aggressive, competitive, sadiche, privatistiche, razziste. Da-
niela Pellegrini ricorda che con l’ardore dello scoprirsi tra donne come intelligenti e
libere, molte scoprirono anche il desiderio e ci fu un momento in cui sperimentare
l’omosessualità divenne un privilegio e un dover essere ideologico, ma si faceva au-
tocoscienza anche su questo tema per interrogare i retaggi patriarcali, secondo l’im-
postazione del privato è politico. Pellegrini contesta da sempre la nozione di lesbica,
perché non vuole etichettare le sessualità: si definisce “donna in movimento” per
cambiare se stessa e il mondo basato sul potere e su un simbolico truculento, che si
ripresentano a prescindere da dove, come e con chi si pratica la sessualità; a suo pare-
re sarà il pensiero della differenza sessuale e la figura alata della Madre a far ricadere
le donne in una logica dicotomica speculare a quella da cui ci si voleva staccare: «si
smise di interrogare gli immaginari e si perse il più grande imprevisto della storia: le
donne che parlano dal non-luogo della non-appartenenza»9.
Il nuovo femminismo, da DEMAU a Rivolta Femminile, respinge la prospet-
tiva paritaria nella cosiddetta “questione femminile” e rifiuta di integrarsi nella
società maschile senza cambiarla. In questo clima le lesbiche femministe comin-
ciano a esprimere un desiderio di esplicitazione di sé come parte significativa della
contestazione del patriarcato, ma nei luoghi di elaborazione delle donne la mag-
gior parte delle attiviste che vivevano in coppia con altre donne considerava il
lesbismo come tema non politico, o perché troppo immediato, o per il rifiuto di
divisioni tra donne, o in nome del rigetto del concetto di tendenza sessuale, a cui
si opponeva l’idea di desiderio come energia mobile e come scelta.
Piera Zanotti, un’operaia metalmeccanica trentacinquenne che diventerà una
militante lesbica per il resto della sua vita, nel 1970 frequentava via Cherubini ma
nel 1972 se ne allontana e si affaccia al FUORI!, che aveva appena messo a se-
gno una clamorosa contestazione a Sanremo contro il Congresso di Sessuologia10;
Piera diventa amica di Mario Mieli e sente in sé un’urgenza: «era più importante
per me esprimere la mia identità. Il femminismo mi ha fatto nascere come donna,
mi ha fatto capire che avevo dei diritti come donna, però non mi trovavo come
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lesbica […] di fare del lesbismo tra le quattro pareti non me ne fregava, perché
volevo essere una lesbica pubblica», anche se «alle donne grandi del femminismo
nazionale io dirò sempre grazie»11.
Nel 1974 anche Lorenza Accorsi si avvicina al FUORI!, che ha sede in via
di Porta Vigentina, dove si riuniscono una decina di lesbiche con cui è possibile
confrontarsi apertamente e non solo attraverso confidenze. Il FUORI!, come il
femminismo, rifiuta la fissità dell’opposizione tra omosessualità ed eterosessualità,
ma al suo interno il gruppo femminile avverte come altro da sé il vivere e sentire
gay e si riunisce separatamente dalla componente maschile: l’attitudine a separarsi
dai gay si presenta qui all’interno di un’organizzazione mista, come accadrà an-
che nella futura vicenda di Arcigay12; in poco tempo molte si trasferiranno in un
gruppo esplicitamente lesbico collocato nel movimento delle donne, il collettivo
Da Donna a Donna, nella sede di area radicale dell’MLD, il Movimento di Libe-
razione della Donna, di via Zecca Vecchia.
Laura Aveta, che ritiene che oggi sia sopraggiunta una grande banalizzazione
dei temi della sessualità, si definisce della generazione del Sessantotto e tra il 1977
e il 1985 a Milano ha abitato nella Casa delle donne occupata di via Lanzone: era
una casa separatista in cui aveva sede la redazione milanese di Quotidiano Donna
e la Pagina Lesbica del giornale. Aveta ricorda che le donne venivano da un’educa-
zione separata vissuta come menomazione, ma con l’autocoscienza il separatismo
dagli uomini aveva preso la luce nuova dell’autonomia, per questo si rifiutavano
i finanziamenti istituzionali, nessun termine mutuato dal maschile era accettato,
era centrale il creare cultura e spazi autonomi, ci si autodefiniva donne e non lesbi-
che per non essere monorientate13. Sulla sessualità valeva la rivoluzione di Carla
Lonzi, clitoridea e comunque non solo genitale, tuttavia Laura Aveta ricorda che
c’erano lesbiche che si vantavano di frequentare i locali notturni di striptease e che
ponevano l’imbarazzante problema dell’imitazione degli uomini. Lorenza Accorsi
sostiene che nei gruppi lesbici si è sempre fatto riferimento a Carla Lonzi, vivendo
e teorizzando una sessualità estranea allo stile usa e getta e in cui ad esempio la
penetrazione non era elemento di ruolo né fonte di orgasmo, ma una pratica che
completava lo scambio di desiderio e di amore.
Grazie alla Pagina Lesbica curata da Laura Aveta, nel 1979 appena ventenne
arriva al gruppo Da Donna a Donna Lucia Giansiracusa, che sarà un’attivista
11 La vita politica di una lesbica proletaria a Milano dagli anni Cinquanta a oggi. Conversazione con
Piera Zanotti (Atti della Seconda Settimana Lesbica 1996 Comunità lesbica. Libertà di movimento).
12 Santostefano, V. “Voci di donne lesbiche in Arcigay tra il 1989 e il 1996”, in Dragone, M.;
Gramolini, C.; Guazzo, P. et al. (a cura di) Il movimento delle lesbiche in Italia, Milano, Il Dito e la
Luna, 2008, pp. 79-93.
13 Aveta, L. “Le pagine lesbiche di Quotidiano Donna”, in Towanda!, n. 21, 2006, pp. 17-18.
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lesbica di lungo corso. Lucia sostiene che allora, non diversamente da oggi, l’affi-
liazione iniziale a un gruppo non avveniva per scelta ideologica ma grazie a con-
tatti personali. In quel periodo la percezione diffusa era di imminenza del crollo
della società tradizionale, confermata dal fatto che nascevano ovunque esperienze
anticonformiste di vita in comune; tra l’altro nel movimento delle donne si scri-
veva firmando solo con i nomi, rifiutando il cognome patriarcale, e questa pratica
consentiva una certa copertura alle lesbiche che producevano testi. Giansiracusa
ricorda di aver riattivato la firma autografa solo quando si convinse che il mondo
non sarebbe cambiato tanto a fondo quanto le era sembrato all’inizio del suo per-
corso: a quel punto la visibilità della firma acquistava valore, si trattava almeno di
un coming out nel contesto dato14.
Ogni settimana in Da Donna a Donna si incontravano una cinquantina di
lesbiche e il bisogno più diffuso era di consolidare se stesse all’interno della piccola
comunità, più che pensare ad agire pubblicamente, non a caso si faceva scarso
uso dello spazio della Pagina Lesbica. L’8 marzo del 1980 Accorsi e Giansiracusa
sono in piazza Duomo con un cartello lesbico: insieme a poche altre compagne
vogliono diventare attive sul piano sociale, benché in un’ottica non rivendicativa,
e per questo danno vita al gruppo Phoenix, che allaccerà rapporti epistolari e
contatti con le realtà lesbiche di altre città, partecipando ai convegni separatisti
nazionali15. La collocazione del gruppo è saldamente femminista ma, come accade
in tutti i gruppi lesbici italiani negli anni Ottanta, si coagula progressivamente al
suo interno un’insofferenza per il silenzio femminista sul lesbismo. Le discussio-
ni che si svolgono al Phoenix ogni settimana sono occupate dalla riflessione sul
“Sottosopra” verde16 e ancor più sul manifesto delle Radicalesbians17, diffuso dal
movimento femminista romano di via Pompeo Magno, e poi sugli articoli del Bol-
lettino del CLI; ma si spende anche in attività concrete: le iniziative per l’8 marzo,
il prestare aiuto alle lesbiche in difficoltà; si discute della propria autoscoperta, di
paure nella sessualità, di rapporti che non reggono di fronte allo stigma sociale,
insomma di ciò che oggi chiameremmo minority stress, ma in un’ottica percepita
dalle protagoniste come radicalmente estranea al mondo gay, considerato parte
dell’universo maschile.
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18 Si veda in questo senso l’importanza di Wittig, M. The straight mind, letto a New York alla Modern
LanguageAssociation Convention nel 1978, pubblicato in Bollettino del CLI, febbraio 1990.
19 Lorenza Accorsi, intervista cit.
20 Antonia Paternò, intervista del 10 gennaio 2010.
21 Mulas, O. La parola viola. Voci lesbiche da “Babilonia”, in Dragone, M.; Gramolini, C.; Guazzo, P.
et al. (a cura di) Il movimento delle lesbiche in Italia cit., pp. 203-233.
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Sarah Sajetti ha 17 anni quando nel 1988 entra nel CIG Arcigay, il Centro
di Iniziativa Gay di via Torricelli, dove si era da poco costituito il gruppo lesbico
Blu di Mitilene, animato da Rita Faustini e da Nina Peci, che teneva riunioni
settimanali di accoglienza con una trentina di donne: «si parlava molto e si rac-
coglieva materiale, come libri, film, articoli, per confutare i pregiudizi, intanto
le universitarie mettevano nei bagni della Statale adesivi che invitavano al Blu;
i gay erano più numerosi e si riunivano nella stessa stanza, in quel periodo si
dedicavano a costruire una comunità che avesse come base non solo l’interesse
sessuale ma un forte spirito sociale, fondata sull’accoglienza, la cultura, la visibi-
lità, e si occupavano anche di lotta all’AIDS»22. Sarah era una lesbica dichiarata,
mitizzava il femminismo degli anni Settanta ma lo credeva lontano e concluso; la
sua era una formazione «di assalto, non di riflessione»23; del separatismo lesbico
lamentava l’autoreferenzialità e l’invisibilità, mentre l’unione con i gay per lei era
importante per risolvere le discriminazioni. Con l’obiettivo della visibilità, Sajetti
accoglie positivamente nel 1989 la rete nazionale Arcigay Donna lanciata da Gra-
ziella Bertozzo e già nel 1991 alcune attiviste di Arcigay Donna creano non poco
sconcerto nello staff del Salone della Fotografia di Milano perché richiedono per
le loro fidanzate l’ingresso gratuito, una promozione applicata alle coppie etero-
sessuali. Nel 1992 si celebrano i matrimoni in piazza della Scala, Sarah e la sua
compagna Anna Ciarletta si uniscono sotto i flash, insieme ad altre coppie, tutte
maschili: negli ambienti separatisti c’è freddezza verso queste azioni, considerate
improntate all’assimilazione alla coppia tradizionale. Sarah oggi dice che non si
percepiva come un soggetto le cui azioni avessero una rilevanza storica e consi-
dera il suo più grande risultato la chiusura delle Pagine Viola di Babilonia, con il
conseguente cambio di sottotitolo del giornale che diventa Mensile gay e lesbico, a
conferma di un suo radicale non-separatismo; anche lei però organizza il Bar Don-
ne al circolo Arcigay Querelle, in via De Castillia una volta al mese, dove si danno
spettacoli di cabaret a cui partecipano anche le separatiste milanesi e più avanti
promuoverà “La lunga notte del teatro lesbico”, con Eleonora Dall’Ovo, che avrà
un grandissimo successo: neppure Sajetti è immune insomma dalla creazione di
spazi privilegiati per donne.
Negli anni Novanta cresce in tutti gli ambienti lesbici italiani un desiderio
di coming out, promosso dalle attiviste più giovani; nel 1993 in via Imbonati a
Milano apre il locale Towanda!, un’associazione esplicitamente lesbica, visibile e
formalizzata, che inaugura un servizio telefonico di aiuto ancora attivo, la Linea
Lesbica Amica, e l’omonima rivista registrata Towanda!.
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Helen Ibry
In questo articolo presenterò le linee principali dei discorsi sulla sessualità che
sono circolati nel movimento lesbico italiano dal 1987 al 2002 mettendo a fuoco
alcuni incontri di rilevanza nazionale in quanto importanti momenti di ritrovo e
discussione fra singole e gruppi, per far emergere le esigenze, le teorie, le pratiche
e le costruzioni identitarie. Le fonti di questa ricerca sono gli atti e i documenti
scritti relativi a convegni e incontri nazionali, articoli pubblicati sulle riviste Ba-
bilonia, Bollettino del CLI e Towanda!, vari materiali pubblicati da gruppi lesbici
e alcune interviste.
Nel 1987 ha luogo il convegno nazionale Da desiderio a desiderio. Donne,
sessualità, progettualità lesbica, il primo interamente dedicato alla sessualità, che
segna una svolta nell’elaborazione di un linguaggio lesbico su questo tema. Ne-
gli anni precedenti, il fiorire del movimento lesbo-femminista separatista aveva
portato alla nascita di gruppi in molte città d’Italia e alla realizzazione di diversi
convegni nazionali in cui i discorsi sulla sessualità ruotavano attorno alla ricerca di
parole e di modelli di pensiero. Tra i riferimenti teorici principali vi erano Carla
Lonzi27 e i primi scritti di Monique Wittig28. Cruciale è la definizione di sé come
altro dai modelli patriarcali che per secoli hanno plasmato i corpi femminili, ma vi
26 Questo articolo è estratto e rielaborato a partire dal mio più ampio lavoro “Sessualità in mo-
vimento: legittimazione e affermazione del desiderio lesbico”, ”, in Dragone, M.; Gramolini, C.;
Guazzo, P. et al. (a cura di) Il movimento delle lesbiche in Italia cit., pp. 273-298.
27 La donna clitoridea e la donna vaginale, Firenze, Scritti di Rivolta Femminile, 1971.
28 Il corpo lesbico, Roma, Edizioni delle Donne, 1976; “The Straight Mind”, in Feminist Issues, 1,
1980, pp. 103-111.
29 Da desiderio a desiderio. Donne, sessualità, progettualità lesbica. Atti del convegno (5-7 dicembre
1987, Impruneta), Firenze, L’Amandorla, 1989, p. 169.
30 “Amore proibito. Ricerche americane sull’esistenza lesbica”, in NuovaDWF, n. 23/24.
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Italiane) nel 1986 è Usi dell’erotico. L’erotico come potere in cui l’autrice, Audre Lorde,
afferma che l’erotico è «un’asserzione della forza vitale delle donne»31 che non deve es-
sere disprezzata bensì lasciata sgorgare e posta alla base dell’azione. È un modo questo
per entrare in contatto con il proprio sentire profondo e per legittimare l’autonomia
femminile slegandola dalle forme in cui il maschile tenta di ridurla.
Un importante seminario avvenuto durante il convegno del 1987 è Il piacere
e il sapere dei nostri rapporti: la figura delle amanti nella nostra società lesbica. Qui il
dibattito ruota attorno all’omonimo documento presentato da Sandra De Perini32
che fa un tentativo di integrazione del lesbismo nel pensiero della differenza ses-
suale proponendo la figura simbolica delle “amanti” come fondativa del passaggio
dal linguaggio dell’intimità a quello politico; essa «rappresenta il momento in
cui abbiamo abbandonato il rapporto nostalgico che ci legava alla madre e siamo
andate avanti, diventando a nostra volta madri reali o simboliche. Le Amanti sono
una figura sociale che non può essere intesa riduttivamente nel senso di coppia,
spazio chiuso, ma nel senso di spazio originario ritrovato, […] un luogo da cui
guardiamo il mondo», il «luogo simbolico della differenza lesbica»33.
Nel 1989 donne di Arcigay, lontane dal pensiero lesbofemminista separatista,
fondano Arcigay Donna. Esse parlano di sessualità prevalentemente attraverso le
questioni della salute, promuovendo campagne di informazione e prevenzione sulle
malattie trasmissibili sessualmente, rivolgendosi all’opinione pubblica e non solo
alla comunità lesbica. Nei loro volantini e comunicati si parla esplicitamente di pra-
tiche sessuali, descrivendole e rappresentandole graficamente, e di “sesso sicuro”,
proponendo l’uso di protezioni durante i rapporti sessuali. Sulla rivista Babilonia
scrivono diverse lesbiche vicine ad Arcigay: utilizzano foto e immagini erotiche di
grandi dimensioni, parlano di feticismo, di mode presenti all’estero, di rottura del
tabù sul dildo, di sadomasochismo34 e di prostituzione fra lesbiche. Non che le lesbo-
femministe non ne avessero parlato (il Bollettino del CLI pubblica negli anni Ottanta
vari articoli su questi temi), ma la posizione è molto critica per il timore di essere
riportate alla mercificazione patriarcale del corpo femminile. Se le prime tacciano
le seconde di essere inibite, censurate, sessuofobiche, le seconde accusano le prime
di essere antifemministe e mere imitatrici dei modelli maschili. Le une mirano alla
detabuizzazione di pratiche e discorsi, tralasciando però l’analisi dei significati socio-
culturali ed economici a esse connessi, le altre idealizzano la sessualità lesbica come
fondamento per una nuova donnità. Gli anni Novanta saranno caratterizzati dalla
31 Lorde, A. “Usi dell’erotico. L’erotico come potere”, in Bollettina del CLI, mag-giu, 1986, p. 5.
32 De Perini, S. “Il piacere e il sapere dei nostri rapporti”, in Bollettino del CLI, nov-dic, 1987, pp.
6-9.
33 Da desiderio a desiderio cit., p. 104, 170.
34 D’ora in poi: sm.
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contrapposizione fra queste due anime del movimento lesbico in particolare attorno
ai temi della salute lesbica, del sm (sadomasochismo), della pornografia, del transes-
sualismo e dell’uso degli oggetti sessuali. Ne ritroviamo le tracce nel corso delle tre
Settimane Lesbiche, convegni nazionali realizzati nel 1991, nel 1996 e nel 1998 da
un coordinamento fra gruppi lesbici italiani. Il tema della prevenzione dell’aids verrà
escluso dalla Prima Settimana Lesbica35 in quanto, in assenza di casi conosciuti di tra-
smissione del virus fra lesbiche, è considerato imitativo delle questioni affrontate dai
gay. Sarà invece incluso durante la Seconda Settimana Lesbica in cui prevale la linea
della collaborazione e conoscenza reciproca fra gruppi. Si parlerà del problema della
lesbofobia presente in molte strutture sanitarie e della «tutela della salute psicofisica
delle lesbiche», sulla scorta della riflessione secondo cui «è il concetto di salute che
non può fare a meno della nostra identità sessuale»36.
Il dibattito sul sm giunge all’apice del conflitto in occasione della Seconda
e della Terza Settimana Lesbica37. Fino ad allora aveva prevalso la linea del netto
rifiuto del sm considerato come «un parto della mente maschile», che gode nel
vedere una donna subire violenza, e denunciato come contrapposto a una «libe-
razione sessuale per le lesbiche» poiché mostra la violenza come fenomeno scisso
dal genere della persona che la pratica, cioè come fenomeno senza implicazioni
sociali e culturali. Veniva criticato anche il concetto di mutuo consenso ricordan-
do che «le femministe hanno da sempre denunciato la violenza […] fatta passare
per “consenziente”»38. Dopo l’annullamento di uno spettacolo di teatrodanza sul
sm previsto per la Seconda Settimana Lesbica, il dibattito continua focosamente
sulle riviste lesbiche. Viene tradotta un’intervista ad Audre Lorde39 in cui questa,
pur non volendo regolamentare le pratiche sessuali, pone l’attenzione ai significati
del dominio, della sottomissione, del potere fondato sulla disuguaglianza politica,
culturale ed economica. Replica Olivia Pinto che dichiara di non accettare la con-
danna del sm che lei considera «una modalità erotica ed estetica, una tra le tante
possibilità della sessualità […] [:] Io sto parlando di gioco, di lucidità, di sessualità,
di fiducia nell’altra, di limiti noti e consapevolmente (comunque consensualmen-
te) superati e, perché no, di catarsi e liberazione che la tensione può dare»40.
564
Il confronto viene portato avanti nel 1998 durante la Terza Settimana Lesbica,
dove ogni gruppo organizza i suoi spazi autonomamente. Si svolgono, così, senza
convergere, tre iniziative sul sm: alcune lo pongono in una luce positiva, altre
negativa. La svolta avverrà con il convegno Erotismo lesbico. Movimenti del deside-
rio41 organizzato da ArciLesbica, in cui la nota dominante è l’apertura al dialogo,
che non comporta necessariamente l’adesione al sm o l’abbandono delle riflessioni
femministe, ma consente di parlare senza veti pregiudiziali di pratiche e fantasie
presenti nell’immaginario e nelle esperienze delle lesbiche.
Il dibattito investe anche il tema della pornografia che negli anni precedenti
aveva visto schierate da una parte coloro che la ritengono una rappresentazione
degradante delle donne, frutto dell’immaginario maschile violento e fallocentri-
co, dall’altra coloro che considerano «un atto di libertà mettere in scena fantasie
erotiche e non temerle come se fossero necessariamente una partecipazione alla
cultura dello stupro»42.
Cosa determina questo cambiamento nelle posizioni interne al movimento
lesbico? Credo che la volontà di calcare le piazze e di ottenere riconoscimenti pub-
blici simbolici e legislativi, rafforzata dalla Risoluzione del Parlamento europeo
dell’8 febbraio 199443, contribuisca a modificare le prospettive di un movimento,
quello lesbico separatista, che fino ad allora aveva lavorato soprattutto all’interno
della comunità per costruire un’identità prima negata. Lo scenario politico e i lin-
guaggi sono cambiati, la contrapposizione fra lesbiche separatiste e non separatiste
è meno accesa e i posizionamenti identitari sono un po’ più fluidi per due ragioni:
da un lato la minore necessità di un’affermazione identitaria rigida, grazie a una
ormai parzialmente acquisita legittimità, dall’altro l’imporsi del pensiero queer.
Detabuizzati, il sm e la pornografia torneranno a essere temi marginali, mentre
dal 1998 cominciano ad assumere centralità altre questioni: la crisi dell’identità di ge-
nere promossa dal pensiero queer e dai soggetti transessuali e transgender e il significato
del dildo. Mi soffermo qui sul secondo. Già nel convegno Erotismo lesbico. Movimenti
del desiderio si discute apertamente di oggetti sessuali durante il dibattito La cassetta
degli attrezzi. Ricette per la pratica erotica lesbica, a cura dello SH!, sexy shop di Londra
per sole donne. La concezione del dildo, che le lesbofemministe rifiutavano in quanto
oggetto che emula la presenza del pene, viene rovesciata per sottolineare il suo potere
di demitizzazione del fallo, il piacere del gioco e della penetrazione. È poi con Beatriz
565
Preciado nel 2002 che il dildo viene messo al centro di un intero impianto teorico44.
Preciado propone una “società contra-sessuale” in cui le relazioni fra persone siano
regolate da contratti temporanei. Con lo scopo di denaturalizzare e demistificare le
costruzioni socio-politiche e tecnologiche che stanno alla base di corpi, sessi, generi e
sessualità, propone di considerarci soggetti post-identitari e post-gender. Tra le pratiche
contra-sessuali, che «vanno intese come tecnologie di resistenza, ovvero come forme di
contro-disciplina»45 situate in una temporalità frattale e contingente, vi sono: 1) l’uso
del dildo, oggetto banale, riutilizzabile, commercializzabile, che «denuncia la pretesa
del pene a passare per fallo», «precede il pene» che è solo uno dei molti possibili dildo46;
2) l’erotizzazione dell’ano, «centro erogeno universale che travalica i limiti anatomici
imposti dalla differenza sessuale […] [e] genera dei benefici che non possono essere
misurati all’interno di un’economia eterocentrica»; 3) l’istituzione di rapporti sm con-
sensuali che rendono «manifeste le strutture erotiche di potere soggiacenti al contratto
che l’eterosessualità ha imposto come natura»47. Preciado confuta ogni possibile spon-
taneità del piacere considerando il desiderio come esito retroattivo delle tecnologie
sessuali e mette in campo la parodia dell’orgasmo per demistificarlo.
Durante il convegno In teoria & pratica: laboratorio queer intorno al Manifesto
di Beatriz Preciado48 organizzato dal Centro Studi GLTQ e dall’associazione Ireos
di Firenze si riflette sulle teorie di Preciado ed emergono posizioni differenti: alcu-
ne partecipanti mostrano di condividere pienamente le sue posizioni; altre notano
che Preciado rende onnipresente il dildo e forse, invece che annullare il fallo, lo ri-
conferma, tra l’altro non nominando mai la vulva; altre ancora, pur condividendo
un approccio decostruzionista e apprezzando le pratiche contra-sessuali proposte,
muovono forti critiche perché la proposta di annullamento di qualunque posi-
zionamento identitario rischia di rendere impraticabile l’azione collettiva e di far
tornare alla prevaricazione del neutro.
In questo rapido e dunque non esaustivo excursus temporale emergono ten-
tativi molteplici di autorizzare un desiderio socialmente negato e di liberarsi dai
sensi di colpa a esso connessi. Si tratta dunque di una ricerca di parole, di libertà,
di appropriazione di sé come singole e come gruppi attraverso la sperimentazione
in territori prima negati. Si delinea insomma la costruzione di una differenza le-
sbica, fondata anche e soprattutto sulla sessualità, che muta al mutare del contesto
e delle strategie politiche.
566
Maya De Leo
Questo breve saggio propone un percorso di lettura che attraversa la storia del
movimento lesbico a partire dalle prospettive storiografiche cui esso ha dato vita
nel corso della sua storia ormai più che trentennale. Al centro dell’analisi si trova-
no infatti le riflessioni elaborate, in maniera più o meno esplicita, all’interno del
movimento, in risposta a interrogativi che costituiscono questioni cruciali per la
ricerca storica, non solo di genere.
Le questioni principali attraverso le quali si snoda questo percorso ruotano
essenzialmente attorno a tre punti: le riflessioni sul “soggetto” e sui processi di
“assoggettamento”, la problematizzazione del rapporto tra esperienza personale
e mobilitazione collettiva all’interno di questi stessi processi, le analisi relative
al ruolo delle narrazioni e delle rappresentazioni nelle dinamiche di costruzione
identitaria.
Per quanto riguarda il primo punto, ossia la questione del “soggetto lesbico”,
è importante sottolineare l’enorme lavoro svolto dal movimento lesbico per la
promozione della visibilità lesbica, tema presente praticamente in tutte le associa-
zioni, mobilitazioni e pubblicazioni. In storiografia questo impegno si è tradotto
nella possibilità di attestare l’esistenza di questo stesso soggetto anche nel passato
e quindi di recuperare voci e tracce dell’esistenza lesbica.
L’asserzione dell’esistenza del desiderio e del soggetto lesbico nel presente,
infatti, consente la pensabilità stessa del “passato lesbico”, e rende possibile imma-
ginarlo anche quando non esistono né tracce né voci. In questo senso, la prima
stagione storiografica lesbica, che comprende studi soprattutto americani, pren-
dendo atto dell’impossibilità di ottenere una conoscenza documentata della vita
delle donne del passato, ha dato vita all’esplorazione dei legami tra donne e degli
49 Cfr., ad esempio, Faderman, L. Surpassing the Love of Men: Romantic Friendships and Love Between
Women from the Renaissance to the Present, New York, William Morrow & CO, 1981; Vicinus, M.
“Distance and Desire: English Boarding-School Friendships”, in Signs, 1984, n. 4, pp. 600-22;
Bonnet, M.J. Un choix sans équivoque. Recherches historiques sur les relations amoureuses entre femmes
XVIe-XXe siècles, Paris, Denoël, 1981.
50 Nestle, J. “Butch-Femme Relationships: Sexual Courage in the 1950’s”, in Heresies, 1981, n. 12,
pp. 21-24, trad.it. “Relazioni lesbiche. Coraggio sessuale negli anni ’50, o ‘la bulla e la femmina’”, in
Nuova DWF, 1985, n. 23-24, pp. 103-11.
568
51 Newton, E. “The Mythic Mannish Lesbian: Radclyffe Hall and the New Woman”, in Signs, 1984,
n. 4, pp. 557-75; Smith-Rosenberg, C. Disorderly Conduct: Visions of Gender in Victorian America,
New York, A. A. Knopf, 1985.
52 Bruner, J. “The Narrative Construction of Reality”, in Critical Inquiry, 18, 1991, pp. 1-21.
53 Scott, J.W. “The Evidence of Experience”, in Critical Inquiry, 17, 1991, pp. 773-797.
569
Gli studi, soprattutto statunitensi, che hanno accolto per primi questo tipo
di sollecitazioni, variamente riconducibili alla queer theory, hanno proposto sulla
scia di queste considerazioni un cambiamento di paradigma storiografico: se la
prima storiografia lesbica aveva posto al centro i soggetti con l’obiettivo prioritario
di riscattarli dal silenzio al quale le narrazioni dominanti – sia del presente che
del passato – li avevano condannati, la storiografia queer mette al centro proprio
l’interrelazione tra i soggetti e queste stesse narrazioni, prima rifiutate storiografi-
camente come oppressive e neganti. La stessa parola queer, che è un insulto omo-
fobico, sta a segnalare questo cambiamento di prospettiva, asserendo la volontà di
riappropriarsi anche delle narrazioni dominanti, decostruendole e risignificandole.
Volontà che si traduce, sul piano storiografico, nell’inclusione tra gli oggetti di
ricerca, delle visioni stigmatizzanti del lesbismo, come nel caso degli studi dedicati
al discorso medico otto-novecentesco che patologizzava il lesbismo, alla pornogra-
fia o alle rappresentazioni negative in letteratura, arte e cinema54.
La ricezione del queer in Italia nel corso degli ultimi quindici anni, sia ne-
gli studi di genere sia nelle pratiche di mobilitazione politica, come nel caso del
movimento lesbico, è stata molto ambivalente, proprio poiché si è letto in questa
centralità delle narrazioni normative una rinuncia a distinguere tra un discorso
imposto e uno autonomo, da isolare e “ritagliare” per riconoscere come proprio.
D’altra parte il queer non ha rappresentato la semplice “importazione” di un
prodotto dell’accademia statunitense, ma ha costituito, al contrario, una risposta
a una parte delle questioni sollevate proprio dalla riflessione lesbica, non ultima
quella sviluppata e diffusa in Italia grazie al movimento.
Il queer ha tentato infatti di fornire una risposta alla riflessione lesbica sulla
costruzione sociale, culturale e simbolica della norma e della devianza, mostran-
do la dimensione tutta “artificiale” delle opposizioni dicotomiche uomo/donna
ed eterosessuale/omosessuale, di cui proprio il movimento lesbico aveva messo
in dubbio la presupposta naturalità, portando avanti una profonda analisi sulla
costruzione della differenza, dei ruoli e delle categorie sessuali. Il queer ha offerto
inoltre una collocazione del “soggetto lesbico”, che la stessa riflessione lesbofem-
minista aveva individuato come soggetto non riconducibile alla categoria di “don-
na” né inscrivibile nel sistema binario dei generi.
54 Cfr., ad esempio, Duggan, L. “The Trials of Alice Mitchell: Sensationalism, Sexology, and the
Lesbian Subject in Turn-of-the-Century America”, in Signs, 1993, n. 4, pp. 791-814; Thompson,
V. “Creating Boundaries: Homosexuality and the Changing Social Order in France, 1830-1870”,
in Merrick, J.; Ragan Jr., B.T. (eds.) Homosexuality in Modern France, New York-Oxford, Oxford
University Press, 1996; Traub, V. “The Ambiguities of ‘Lesbian’ Viewing Pleasure: The (Dis)articula-
tions of Black Widow”, in Epstein, J.; Straub, K. (eds.) Body Guards. The Cultural Politics of Gender
Ambiguity, London, Routledge, 1991, pp. 305-328.
570
55 Hogan, K. “Where Experience and Representation Collide. Lesbians, Feminists and the AIDS
Crisis”, in Heller, D.A. (ed.) Cross Purposes. Lesbians, Feminists and the Limits of Alliance, Bloo-
mington, Indiana University Press, 1997, p. 107.
56 Ibidem.
57 Cfr. ad esempio Creekmur, C.K.; Doty, A. (eds.) Out in Culture, Gay, Lesbian, and Queer Essays on
Popular Culture, Durham, Duke University Press, 1995.
571
58 Dragone, M.; Gramolini, C.; Guazzo, P. et al. (a cura di) Il movimento delle lesbiche in Italia, pre-
fazione di Passerini, L., Milano, Il Dito e la Luna, 2008.
572
Elena Petricola
Com’è noto, le pubblicazioni che hanno affrontato la storia del movimento poli-
tico delle lesbiche in Italia in maniera diretta o parziale sono davvero un numero
esiguo. Infatti, oltre al volume dal titolo Il movimento delle lesbiche in Italia, uscito
nel 200859, sono disponibili pochi altri lavori che ci permettano di venire a con-
tatto, davvero parzialmente, con quella e quelle storie60.
Come spesso viene ricordato e lamentato negli ambienti di ricerca, queste
narrazioni non hanno ancora sostanzialmente spazi di cittadinanza in ambito ac-
cademico, e in Italia siamo ancora lontani dal poter vedere avviati degli studi che
per dimensioni e visibilità siano paragonabili ai gay and lesbian study di prove-
nienza anglosassone, così come da una piena appartenenza di questo argomento a
quello della storia dei movimenti e della storia politica in generale.
Le ragioni sono molteplici e già più volte ricordate e qui forse, più che ripro-
porle nuovamente, conviene guardare al problema non solo in termini di politiche
culturali, ma anche entrando nel merito di uno specifico metodologico e per indi-
viduare possibili piste di ricerca.
In occasione del V Congresso della Sis, invitata come discussant al panel Linee
per una storia del movimento delle lesbiche in Italia, ho avuto modo, leggendo le
59 Dragone, M.; Gramolini, C.; Guazzo, P. et al. (a cura di) Il movimento delle lesbiche in Italia, con
una prefazione di Luisa Passerini, Milano, Il dito e la luna, 2008.
60 Cavarocchi, F. “Orgoglio e pregiudizio. Note sul movimento gay e lesbico italiano”, in Zapruder,
n. 22, 2010, pp. 78-87; Pedote, P.; Poidimani, N.; (a cura di) We will survive! Lesbiche, gay e trans,
Mimesis Edizioni, Milano, 2007; Marcasciano, P. Antologaia. Sesso genere cultura degli anni Settanta,
Milano, Il dito e la luna, 2007; Rossi Barilli, G. Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano, 1999.
574
Inoltre, mentre la parte di storia del movimento delle lesbiche che si può
ascrivere agli anni Ottanta e successivi si presenta in maniera per certi aspetti
più autonoma e riconoscibile, la parte che riguarda gli anni Settanta offre invece
caratteristiche più complesse, proprio per l’intreccio con i femminismi e con le
numerose difficoltà o scelte a nominarlo e a nominarsi in maniera autonoma e
visibile. In questo senso dunque sembra anche più complesso sul piano metodolo-
gico poterne ricostruire i percorsi, gli intrecci e le ragioni teoriche, immaginando
di cogliere molti degli attraversamenti che hanno portato numerose donne, nei
loro percorsi individuali, a scegliere un contesto o un altro in relazione alle proprie
inclinazioni, desideri, spostamenti identitari e per contingenze politiche.
Come arrivare allora ad acquisire strumenti perché questa “mobilità” interna
ai femminismi emerga in maniera utile anche a rendere la non fissità delle situa-
zioni che si vengono a creare (gruppi di piccola entità, luoghi di incontro)? Imma-
ginando futuri lavori di ricerca sarebbe fondamentale partire da una mappatura di
presenze che possa passare attraverso le fonti orali e con una raccolta di patrimonio
memorialistico utile in questo senso65.
A questo proposito, infatti, si potrebbero vagliare alcune ipotesi che riguar-
dano gli attraversamenti di collettivi e di reti all’interno dei quali maturano altre
esperienze, più circoscritte e legate allo specifico lesbico, pur se in dialogo ma
anche in conflitto con i percorsi femministi.
Questo mette in evidenza anche lo stato dei lavori sui femminismi stessi, e
la necessità di portare alla luce le contraddizioni che li hanno attraversati proprio
in relazione al lesbismo, politico o meno. Un invito dunque a non ricalcare la
separazione e i silenzi che storicamente sono pesati all’interno di quei percorsi66.
In particolare per quel che riguarda il movimento lesbico, e soprattutto i suoi
esordi, sappiamo come il lavoro di ricerca sia ancora agli inizi e sostanzialmente le-
gato alla buona volontà di ambienti militanti che a vario titolo sono interessati a far
emergere questa vicenda. Già i primi saggi, nell’intreccio tra memorialistica, ricerca
documentata e militanza avevano tratteggiato la vicenda particolare del Pompeo
Magno, a Roma, nella quale l’emergere del lesbismo all’interno dei femminismi
aveva avuto un segno particolare e più visibile e definito che in altri contesti67.
65 Cfr. Cavallin, P. Nespole, nurzie e camionare. Il lesbismo a Bologna negli anni Settanta e Ottanta,
Bli, Roma, 2002.
66 Per alcune considerazioni generali, vd. Schiavo, M. Movimento a più voci. Il femminismo degli
anni Settanta attraverso il racconto di una protagonista, Milano, Franco Angeli, 2002. In particolare
sui conflitti e i silenzi tra femminismi e movimento lesbico cfr. Guazzo, P. “Traduttrici e traditrici.
Testi e ricezioni transnazionali nel contesto lesbo-femminista italiano dagli anni Ottanta al 1990”,
in Zapruder, n. 13, 2007, pp. 26-40.
67 Pomeranzi, B.M. “Pratiche politiche tra donne. Il separatismo lesbico”, in Crispino, A.M. (a cura
di) Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea, Roma, Unione donne italiane,
575
Un’altra questione che diventa sempre più impellente porsi è come affrontare
metodologicamente la storia politica e nello specifico quella dei movimenti in
relazione all’argomento in oggetto. Spesso l’approccio a queste storie si è mosso da
un’ottica interna, anch’essa almeno in parte legata alla memorialistica dei protago-
nisti e solo negli ultimi anni più toccata da un approccio storiografico elaborato
e attento non solo alle vicende delle singole organizzazioni, ma anche alle culture
politiche che hanno espresso e al modo in cui queste storie si sono intrecciate con
quelle del periodo storico che le ha ospitate68. Ancor più difficile è stata la possi-
bilità di coniugare un percorso legato agli studi di genere all’interno della storia
politica, volendo analizzare in quale modo queste stesse culture politiche – siano
esse parlamentari o extraparlamentari – hanno contribuito a produrre discorso
sulle identità e sulle preferenze sessuali69.
Allo stesso modo, anche per la storia del movimento lesbico si può porre un
problema analogo, in termini di approccio e di lettura della sua storia alla luce di
un’ottica non solo interna, anche se spesso – comprensibilmente – è questo il pri-
mo motore che porta alla ricostruzione storica, e attenta all’intreccio con la storia
degli anni Settanta, Ottanta e Novanta e con gli strumenti di ricerca storiografica
che sono stati elaborati negli ultimi decenni.
Sul piano del contesto storico, infatti, sarebbe interessante non dimenticare il
nesso, forte e profondo, tra la storia delle donne di quegli stessi anni e la possibilità
e praticabilità di presa di parola da parte delle soggettività lesbiche, ora in termini
meno identitari ora mettendo in campo invece identità forti e definite.
In questo senso dunque potrebbe essere utile e interessante analizzare l’in-
treccio dal quale emergono non soltanto i percorsi delle singole, i loro interessi
politici ecc., ma anche una più ampia contestualizzazione all’interno della quale
siano presenti dei riferimenti alla storia sociale delle donne di quegli anni, e alle
possibilità che si sono costruite tra scolarizzazione, approccio al mondo del lavoro
e riforme che ne hanno direttamente o indirettamente interessato la vita, grazie
anche alle conquiste e ai percorsi di libertà seguiti nei decenni precedenti dalle
donne stesse70.
Circolo la Goccia, 1989, vol. II, pp. 139-144; Ead. “Differenza lesbica e lesbo-femminismo”, in
Memoria, n. 13, 1985, pp. 72-78.
68 Vd. a questo proposito Crainz, G. Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta,
Roma, Donzelli, 2003 e l’ormai ricca bibliografia storica sul Sessantotto italiano.
69 Per fare due esempi, uno metodologico, nel caso di Bellassai, S. La morale comunista: pubblico e
privato nella rappresentazione del Pci1947-1956, Roma, Carocci, 2000, e uno nel merito per quel
che riguarda Voli, S. Quando il privato diventa politico. Lotta continua 1968-1976, Roma, Edizioni
Associate, 2006.
70 In questo senso vanno pensate in termini periodizzanti alcune riforme degli anni Settanta, non
576
solo per il loro significato simbolico ma anche per il modo in cui hanno raccolto un cambiamento
sociale e sono stati motori del conflitto sociale. Pensiamo alla questione del divorzio (1970) e del
diritto di famiglia (1975), e ovviamente alla depenalizzazione dell’aborto (1978).
577
Claudia Pancino
La relazione fra i due termini “medicina” e “donne” si coniuga nelle diverse forme
di elaborazione del pensiero medico-filosofico e nelle pratiche di cura del corpo
femminile. È cioè nell’esercizio dei mestieri terapeutici, delle professioni sanitarie
e nella loro specializzazione e organizzazione – soprattutto per quanto riguarda il
medico e l’ostetrica –, ma anche nell’espressione delle terapie e cure quotidiane e
familiari, che il binomio assume concretezza di significato. Si deve tener presente
che raramente si è verificata una sintonia dialettica fra quanto i medici pensavano,
e scrivevano, e i diversi modi di curare le donne. I comportamenti terapeutici spes-
se volte erano assolutamente disgiunti dall’espressione teorica del pensiero medico
del tempo in cui venivano praticati. Non sempre conoscenza dotta coincideva
infatti con capacità pratica di curare e guarire, né sempre gli studiosi erano anche
curatori, anzi, per lunghi secoli la corrispondenza è stata incerta se non rara.
Gli scritti che dalla medicina della Grecia classica sono stati dedicati allo stu-
dio della specificità femminile non si traducevano infatti immediatamente in pra-
tiche terapeutiche, né erano destinati a chi effettivamente curava le donne. Anche
quando nel Medio Evo giunsero in Europa, grazie alla mediazione araba, le opere
mediche della classicità, quei testi erano in latino. Semplificando si può ipotizzare
che le donne venissero curate da donne, che solo con l’età moderna poco a poco
divennero in qualche modo destinatarie di testi medici, mentre generalmente esse
curavano grazie a un sapere popolare tramandato oralmente.
Dei disturbi legati alla sfera della riproduzione, di assistenza a gravidanza e
parto, e in genere della cura del corpo femminile, si occupavano prima di tutto le
ostetriche, mestiere antichissimo che dalla Grecia antica fino all’Età moderna si
modifica di poco, per essere poi oggetto di riforme – soprattutto dal XVIII secolo
582
1 Moulinier, L. Conception et corps féminin selon Hildegarde de Bingen, Storia delle donne, 1 (2005),
pp. 139-157, ISSN 1826-7505, © 2005 Firenze University Press. Le citazioni sono a p. 140, 143.
583
ne” che furono scritti in volgare da medici addottorati. Dal Cinquecento nuove
forme di comunicazione del sapere si affiancano ai testi latini di medicina dotta,
prodotto di una sensibile evoluzione in seno al pensiero medico: sono testi di
medicina pratica in volgare che, grazie all’invenzione e alla diffusione della stam-
pa, si presentano anche come particolare genere editoriale. Sono a volte semplici
ricettari terapeutici, che in un indistinguibile amalgama di conoscenza dotta e sa-
pere popolare, viceversa abbracciano quel modernissimo ideale che è la diffusione
della conoscenza a un numero sempre maggiore di lettori, pure a quelli che «non
comprendono la favella latina» (come scriveva il medico cinquecentesco Scipione
Mercurio, appunto in un testo in volgare rivolto alle levatrici).
Quegli scritti dunque specificamente destinati alle malattie delle donne,
in area italiana sono preceduti dalla pubblicazione in volgare tedesco di alcune
edizioni dal contenuto simile. Si tratta del Rosengarten di Rhodion (Eucherius
Roesslin) del 1508 – De Partu hominis et quae circa ipsum accidunt, e il De con-
ceptu et generazione hominis del medico svizzero Jacob Rueff (questi i titoli delle
traduzioni latine grazie alle quali circolarono in Europa). Furono, questi due, testi
“scientifici”, proponendo le teorie mediche classiche, e pratici, con indicazioni
proprio per le levatrici. L’intento è chiaramente divulgativo, poche le novità in
fatto di conoscenza ostetrica, i contenuti non vanno molto al di là del territorio
della nascita e del parto. In realtà a Ferrara il medico di corte Michele Savonaro-
la aveva precedentemente scritto l’operetta Ad mulieres ferrarienses. De regimine
pregnantium et noviter natorum, di contenuto sensibilmente più ampio, ricca di
consigli pratici e di rimedi per diversi disturbi della donna e del bambino, databile
attorno alla metà del Quattrocento, e quindi codice manoscritto. Il contesto – la
corte estense di Ferrara – l’uso sì del volgare, per le donne di Ferrara, ma la forma
manoscritta, caratterizzano quel bellissimo documento come opera destinata a un
pubblico limitato e circoscritto. Non è così per Le medicine pertinenti alle infer-
mità delle donne, del 1563, opera in tre libri di Giovanni Marinello, o Marinelli
(padre della più famosa Lucrezia Marinella), né per La Comare o ricoglitrice, del
1596, del già citato medico romano Scipione Mercurio.
Non entrerò nel merito dei contenuti di queste due opere molto ricche non
tanto, o non solo, per la storia dell’ostetricia, quanto piuttosto per il fatto che
medici addottorati decidano di dedicare le loro fatiche a un pubblico che non è
il pubblico dei dotti, ma un pubblico di terapeuti, anche terapeuti del popolo,
soprattutto donne, spesso analfabete. Per questo scrivono in volgare; poco importa
allora se quel che è scritto nei loro libri presenti spesso ben poco di originale. È
invece fondamentale vedere queste prime forme di travaso di conoscenza dalla cul-
tura dotta universitaria e libresca al mondo femminile della terapia e dell’assisten-
za. I suoi consigli, dice Marinello «non solamente sono utili, e necessari à medici,
ma anco à levatrici, e ad ogni gran donna», a ogni donna di valore. Mercurio scrive
584
per le comari, cioè le ostetriche, affinché nei casi difficili siano in grado di «reggersi
e governarsi» e scrive in volgare «perché la mia Commare non intende la favella
latina, e in quella lingua possa anco esser letto [il libro] da padri di famiglia, e da
qualche altro, il quale non intenda il latino, che in bisogni di questa sorte potrà
porgere aiuti importanti. Ho anco scritto in volgare, perché mi è piaciuto di fare
così». Autore graffiante Mercurio, rivendica la scelta del volgare, come prima di
lui Marinello, che nella prefazione della sua opera si difende dalle temute critiche
come quella «che primieramente tolgo l’autorità alla medicina, riducendola in
lingua volgare italiana». Non si deve dimenticare che le opere scritte in italiano
rendevano possibile la lettura a voce alta per uditrici analfabete. Soprattutto La co-
mare di Mercurio avrà grande successo e molte riedizioni, divulgando conoscenza,
contribuendo anche a creare “modelli di comportamento terapeutico”, ma andan-
do inoltre incontro a quella che oggi definiremmo un’esigenza di formazione delle
donne e un bisogno terapeutico diffuso e quotidiano, di tutela della salute delle
donne. Inoltre, nelle pagine di Marinello e di Mercurio si intravvede un mondo
di relazioni di donne, di gesti, di scambio. C’è anche traccia di scambi inversi a
quelli a cui siamo abituati: Marinello ad esempio, in una altra sua opera di consigli
“al femminile”, Gli ornamenti delle donne, propone per iscritto consigli dietetici
ricevuti da una vicina di casa. È infatti importante ricordare che in questi scritti
cinquecenteschi sulle “malattie delle donne” non c’è ancora quel radicale atteggia-
mento di superiorità dei medici nei confronti dei terapeuti popolari, soprattutto
delle donne, né quella necessità professionale di distinguersi che porrà separazioni,
tendendo a mettere sempre maggiore distanza fra guaritrici popolari e medici.
L’uso del volgare è dunque una caratteristica fondamentale.
In questa prospettiva, della storia della medicina delle donne-medicina per le
donne, sembra allora poco rilevante, dal punto di vista dell’impatto sociale delle
forme di conoscenza, sottolineare, come è stato sostenuto, che Roesslin (Rho-
dion), nel suo Rosengarten, possa aver “copiato” copiato dal libello Ad mulieres fer-
rarienses (1460 c.) del medico Michele Savonarola, attivo alla corte di Ferrara2. È
più rilevante che Roesslin abbia scritto il suo trattatello in volgare, per diffondere
conoscenza e istruire le donne, e che il suo libriccino abbia avuto tante edizioni e
traduzioni. La divulgazione – cioè uso del volgare, la stampa e le ristampe – segna
una profonda cesura rispetto a un sapere dotto e libresco3. Nonostante la maggio-
re originalità di Savonarola rispetto a Roesslin, dal punto di vista storico-sociale,
poco ha modificato quel sapere “migliore” rimasto entro le mura di una città e
2 Questa ipotesi è stata sostenuta da Gabriella Zuccolin al congresso. Si veda della stessa, “Medicina,
filosofia e cultura di corte (XV secolo, Italia settentrionale)”, in I castelli di Yale. Quaderni di filosofia,
IX, 9, 2007-2008, pp. 55-81, in part. le pp. 70-81 (Michele Savonarola, 1385-1466).
3 Cfr. di seguito il contributo di Carla Mazzoni.
585
della sua corte. Cosa ne è venuto alle donne? Roesslin, come poi nella penisola ita-
liana Marinello e Mercurio, non scrivono spinti da un intento pedagogico e mo-
rale verso padri e madri di famiglia, ma piuttosto tesi a migliorare la pratica della
“medicina per le donne”. Il manualetto di Roesslin, ad esempio, era “adottato”,
diremmo oggi, nelle scuole per levatrici, mentre Mercurio dichiara nell’introdu-
zione alla sua Comare di essersi messo all’opera sperando di salvare la vita a madri
e neonati. È in testi come quelli di Marinello e Mercurio, ma anche di Roesslin,
che si può trovare un incontro fra la pratica femminile dell’assistenza e della cura,
e un sapere accademico che mentre va verso l’incolto popolo femminile, ne fa
propri anche alcuni insegnamenti, riconoscendo competenze pratiche che sicura-
mente non appartenevano ai medici, «perché – come scriveva Scipione Mercurio
– quello [medico] se col consiglio l’aiuta [la donna], la comare col consiglio e con
la mano». Sette edizioni successive de La comare, dal 1596 al 1721, significano
che un rilevante numero di donne ne è venuto a contatto, o come partorienti e
puerpere, o perché malate, o in qualità di ostetriche e guaritrici.
È invece una meditata lettura di tutti, o quasi, i trattati medici ostetrico-
ginecologici dotti, del Cinque-Seicento, a far emergere l’immagine di lunga durata
di corpo femminile, e di donna, che caratterizza la storia della medicina dotta e la
cultura occidentali: il modello è quello di una donna fatta per procreare, da curare
se non genera. Una attenta lettura di una serie di testi “scientifici” può portare a
«smontare il meccanismo che ha storicamente fabbricato il consenso attorno ad
un’inferiorità della donna assieme fisica e morale» – come scrive Carla Mazzoni – a
partire da presunte basi biologiche. Anche questo tipo di ricerca ha messo in luce
quanto sia la diffusione della stampa a far circolare opere dotte su “le malattie delle
donne” che il pensiero medievale occidentale generalmente non aveva ritenuto
degne di interesse medico-filosofico. Ed è il confronto fra la presenza di opere in
latino e opere in volgare a porre anche in questo caso la questione della finalità
delle opere mediche. Le opere mediche in latino sono essenzialmente rivolte ai
medici, non così, si è già ripetuto, le opere in volgare4.
Una lettura unitaria delle varie sfaccettature della ricerca e dei contributi sto-
riografici su Medicina delle donne, medicina per le donne dal Medio Evo all’Otto-
cento5 potrebbe volgere attorno a due ambiti tematici, sviluppabili a loro volta
lungo due direttrici:
a) la riflessione storiografica sulla “trasmissione del sapere medico e terapeu-
tico”, relativamente alle “malattie delle donne” e alla cura del corpo femminile si
può snodare in primo luogo attorno al tema della pubblicità (edizioni, traduzioni,
4 Ibidem.
5 Questo il titolo della sezione del Congresso SIS.
586
587
moderna era stato lo specchio di una visione del corpo che riguardava l’insieme
di sessualità, bellezza, salute (compresa la “salute riproduttiva”). Semplificando
si può dire che, a conclusione di lunghi e intricati processi storici, quel sapere e
saper fare – e anche “saper vedere” l’interezza dell’essere donna – nella modernità
sarebbero in qualche modo sopravvissuti proprio nell’esercizio femminile dell’as-
sistenza al parto. L’essere donna della levatrice, fino alle recentissime riforme del
percorso formativo universitario, ha continuato a essere un segno di continuità
unico nella storia delle professioni. L’appartenenza di genere, infatti, si è prefigu-
rata per i secoli XVIII, XIX e XX, quale memoria storica di forme di conoscenza
e cura che la storia della medicina occidentale e delle professioni sanitarie avevano
in buona parte cancellato.
Nota bibliografica
Claudia Pancino, Malati medici mammane saltimbanchi. Malattia e cura nella Bo-
logna d’età moderna, in Storia di Bologna. III. L’età moderna, a cura di Paolo Prodi
e Adriano Prosperi, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 369-455; Ead.,
Scipion Mercurio. Il pensiero e la carriera di un medico nella prima Età moderna, in
Albano Biondi (a cura di) Modernità: definizioni ed esercizi, Quaderni di discipline
storiche 12, Clueb, Bologna 1998, pp. 247-270; Ead, “I medicamenti sono di tre
sorti”: magia scienza e religione ne «Gli errori popolari d’Italia» di Scipione Mercurio
(1603), in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, a cura di Adriano
Prosperi (con la collaborazione di Massimo Donattini e Gian Paolo Brizzi), Roma,
Bulzoni, 2001, vol. I, pp. 385-421; Ead., La croyance aux envies maternelles entre
culture savante et culture populaire, in «Ethnologie française », 2, 1997, pp. 154-
162; Ead., Teatri anatomici, in Atlante delle professioni, a cura di Maria Malatesta,
Bologna, Bononia University press, 2009, pp. 31-33; Ead, Il bambino e l’acqua
sporca. Storia dell’assistenza la parto dalle mammane alle ostetriche (XVI-XIX sec),
Angeli, Milano, 1984.
Ho fatto inoltre riferimento a: Eucharius Roesslin, De partu hominis et quae
circa ipsum accidunt, Parigi 1535 [1513]; Scipione Mercurio, La comare o ricogli-
trice, Venezia 1596; Il trattato ginecologico-pediatrico in volgare «Ad mulieres ferra-
rienses de regimine pregnantium et noviter natorum usque ad septennium» di Michele
Savonarola, a cura di Luigi Belloni, Milano, s.i.t., 1952.
588
Carla Mazzoni
Questo lavoro di ricerca sulla medicina per le donne parte dal presupposto che
per smontare il meccanismo che ha storicamente fabbricato il consenso attorno a
un’inferiorità della donna assieme fisica e morale, sia necessario esaminare critica-
mente anche le opere scientifiche che hanno teorizzato su base biologica tale sup-
posta inferiorità. Nello specifico ho preso in esame testi che trattano delle malattie
femminili nell’arco di tempo compreso fra il XVI e i primi decenni del XIX secolo.
La Biblioteca universitaria di Bologna, dove lavoro, si è costituita nel XVIII
secolo a partire dall’Istituto delle scienze, fondato dal nobile Luigi Ferdinando
Marsili: dotata di molti importanti fondi scientifici, in primo luogo quello del
naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi, la biblioteca è ricca di testi medici di età
moderna. Scopo dello studio leggerne un gruppo selezionato, per capire quale
concezione della “natura” femminile vi si celasse, e come venissero esaminate e
definite le malattie che la tradizione medica antica e medievale aveva da sempre
chiamato “delle donne”.
Le radici di tale tradizione affondano nella Grecia del VI secolo avanti Cristo,
quando i filosofi naturalisti cosiddetti presocratici avevano ravvisato il principio
(arché) della vita all’interno del cosmo, rifiutando spiegazioni teistiche e magi-
che. L’unità della natura e dei viventi – uomo compreso – veniva da loro fondata
sui costituenti primi, acqua, fuoco, aria e terra in una corrispondenza fra macro
e microcosmo destinata a permanere indiscussa per molti secoli. Questi quattro
elementi confluirono poi nell’opera medica fondamentale dell’antichità, il Corpus
Hippocraticum, collezione di scritti tradizionalmente attribuiti a Ippocrate di Cos
(V secolo a. C.), dove trova espressione compiuta la teoria dei quattro umori co-
stitutivi del corpo umano: sangue, bile gialla, bile nera e flegma. La salute viene
intesa come equilibrio (giusta mescolanza, krasis) fra i quattro umori. Quando
l’equilibrio si rompe, compare la malattia, causata quindi dal predominio (eccesso,
pléthora) di un solo elemento sugli altri. L’insegnamento di Ippocrate fu in seguito
sviluppato e sistematizzato da Claudio Galeno di Pergamo (131-201), le cui con-
cezioni si imposero per molti secoli come verità dogmatiche, analogamente a ciò
che avveniva con Aristotele nel campo della filosofia7.
Nella concezione ippocratica il corpo sano è dunque un corpo in equilibrio,
ma i corpi non sono tutti uguali, sono sessuati e il corpo della donna è diverso
da quello dell’uomo: questa diversità, sancita perentoriamente dalla “scienza”, si
esprime in termini rigidamente gerarchici.
Poiché si ritiene che la vita (così come l’intelligenza) nasca dal calore, e che
la natura della donna sia umida e fredda, sarà il rapporto con l’umido a sancire
“scientificamente” l’inferiorità femminile. L’elemento “acqua”, tramutato in ca-
tegoria etica, sancisce il destino pubblico delle donne, perché ciò che è freddo e
umido non può stare alla pari con ciò che è caldo e secco8. L’unica ragion d’essere
della donna, il solo scopo della sua esistenza, sta nella generazione di un figlio,
onde assicurare la continuità della casa (oikos). La nozione di salute femminile si
identificherà quindi totalmente con la fecondità, che elimina, sia pure temporane-
amente, il male di essere una donna9.
Va detto anche che il pensiero medico, accompagnando le proprie riflessioni
a osservazioni empiriche, è in generale più pragmatico di quello filosofico, e il mo-
dello di corpo che ne ricava definisce l’inferiorità femminile in modo più sfumato
rispetto ad Aristotele, convinto dell’inferiorità ontologica della femmina10.
Nessun testo ippocratico, infatti, aveva mai negato l’esistenza di un seme fem-
minile attivo nel momento della riproduzione11, cosa esclusa invece da Aristotele,
per il quale il contributo della femmina umana si limita al sangue mestruale, flui-
do crudo in eccesso, pura materia: solo il maschio può fornire la forma, il pneuma,
spirito vitale, al futuro essere umano12.
590
591
• Thresor des remedes secrets pour les maladies des femmes pris du latin et faict fran-
cois, Paris, Jacques du Puys, 1587, anonimo, ma in realtà plagio del Marinelli
a opera di Jean Liebault. Albertino Bottoni, De morbis muliebribus libri tres,
Venetiis, apud Paulum Meietum, 1588.
• Luis Mercado, De mulierum affectionibus libri IIII, Venetiis, apud Felicem
Valgrisium, 1587.
• Girolamo Mercuriale, De morbis muliebribus praelectiones, Venetiis, Felix Val-
grisius, 1587.
• Tre diverse edizioni di Gynaeciae, ossia antologie di testi medici antichi e
moderni di argomento ginecologico, e precisamente:
- Gynaeciorum hoc est, De mulierum… morbis, libri veterum ac recentio-
rum aliquot…, Basileae, per Thomam Guarinum, 1566
- Gynaeciorum sive de mulierum affectibus commentarii graecorum, latino-
rum, barbarorum…, Basileae, per Conradum Vualdkirch, 1586.
- Gynaeciorum, sive De mulierum tum communibus, tum gravidarum, pa-
rientium, et puerperarum affectibus & morbis, libri graecorum, arabum,
latinorum… opera & studio Israelis Spachii…, Argentinae, sumptibus La-
zari Zetzneri, 1597.
Sono complessivamente ben otto libri, due in volgare e sei in latino, editi fra
il 1563 e il 1597, che possiamo distinguere in due tipologie, una di genere dotto,
comprendente le Gynaeciae e le tre monografie latine, e una di tipo divulgativo,
comprendente il testo del Marinelli e il Thresor. Dal momento che la medicina
medievale aveva evitato l’argomento come indegno di trattazione, ciò dimostra
che nella seconda metà del XVI secolo il quadro della letteratura medica su questo
tema era in movimento, anche grazie allo sviluppo della stampa.
Dopo aver esaminato i nostri otto testi cinquecenteschi possiamo affermare
che tutti, al di là della tipologia, si pongono sulla linea di sviluppo del filone
medico, più flessibile del modello aristotelico-galenico. I due tipi di opera si diffe-
renziano però nel modo di affrontare l’argomento, perché diversi sono gli autori e
diverso è il pubblico cui si rivolgono. Destinatari dei testi in latino sono i medici,
mentre Giovanni Marinelli rivendica gli scopi divulgativi che stanno dietro alla
sua scelta del volgare: il libro potrà essere utile soprattutto alle gentildonne, per
sé e per le figlie.
Nei testi dotti la materia è esposta in modo sistematico, descrivendo e talora il-
lustrando l’apparato genitale femminile. L’elemento di innovazione è costituito dalla
presenza nel discorso medico dell’anatomia e della chirurgia, anche se per molto
tempo ancora ciò non darà luogo a radicali cambiamenti nella pratica. Rappresenta
comunque un reale progresso appuntare l’attenzione scientifica sul corpo umano
concreto, anche se permane costante il richiamo alla teoria degli umori, e ciò dà
592
13 «La thése galéniste est, en somme, le frein que les anatomistes imposent à la liberté d’observation
qu’ils se sont accordée», Berriot-Salvadore, E. Un corps, un destin: la femme dens la médicine de la
Renaissance, Paris, Champion, p. 21.
14 Pancino, C.; d’Yvoire, J. Formato nel segreto: nascituri e feti fra immagini e immaginario dal XVI al
XXI secolo, Roma, Carocci, 2006.
15 Marinelli, G. “Medicine partenenti alle infermità delle donne”, in Venetia, appresso Giovanni
Valgrisio, 1574, c. 95 v.
16 «la vie de la femme ne seroit une vie, mais plustost une langueur miserable en la vie, si n’estoit
la foecundité», Thrésor des remedes secrets pour les maladies des femmes, Paris, chez Jacques du Puys,
1587, c. *II v.
593
594
19 Tradotto da Maria Antonietta Scarabello, è una sintesi dell’articolo di Mott, M.L.; Muniz, A.;
Fabergé Alves, O.S. et al. “As parteiras eram “tutte quante” italianas (São Paulo, 1870-1920)”, in
História Questões e Debates, n. 47, pp. 65-94, 2007.
20 Pancino, C. Il bambino e l´acqua sporca. Storia della assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche
(secoli XV-XIX), Milano, Fanco Angeli, 1984, p. 127.
21 Museu Emílio Ribas, Centro de Memória da Saúde, São Paulo, Livro do Serviço Sanitário, 046/
MO6, p. 45.
22 Junior, A. “Das Comadres no Rio de Janeiro”, in Revista de Ginecologia e d´Obstetrícia, n. 1, 1908,
pp. 279-281.
23 Tesdeschi, U. Le condizione sanitarie a San Paolo (Brasile). Rapporto del vice-console, Roma, Tip.
Nazionale di G. Bertero E.C. 1907.
596
24 Centro de Memória da Saúde, Museu Emílio Ribas, São Paulo, Livros de Registros da Fiscalização
do Exercício Profissional (1892-1919).
25 Sulle levatrici italiane vedere: Pancino, C. Il bambino e l´acqua sporca cit.; Filippini, N.M. “Leva-
trici e ostetricanti a Venezia tra Sette e Ottocento”, in Quaderni Storici, n. 58, 1985, pp. 149-180; Gélis,
J. Sage-femme ou médecin: une nouvelle conception de la vie, Paris, Fayard, 1988; Gissi, A. “Between
Tradition and Profession. Italian Midwives during the Fascist Period”, in Willson, P. Gender, Family
and Sexuality, New York, Palgrave MacMilan, 2004, pp. 122-138; Vecchio, D.C. “Gender, Domestic
values, and Italian Working Women in Milwakee: Immigrant Midwives and Businesswomen”, in
Gabaccia, D.R.; Iacovetta, F. (eds.) Women, Gender, and Transnational Lives. Italian Workers of the
world, Toronto, University of Toronto Press, 2002, pp. 160-188.
26 Centro de Memória da Saúde, Museu Emílio Ribas, São Paulo, Livros de Registros da Fiscalização
do Exercício Profissional.
597
macia (alla fine del 1913 São Paulo non aveva scuola di Medicina). Le aspiranti
dovevano presentare l’atto di nascita e di vaccinazione, comprovante identità e
idoneità, e pagare una tassa. Tutte le levatrici esaminate dalla suddetta scuola
avevano il cognome italiano27.
Nel 1902 fu istituita la Scuola per Levatrici, presso la Scuola di Farmacia e di
Odontologia, che in questo periodo abilitò undici levatrici straniere, delle quali
otto erano italiane – nove se consideriamo i cognomi italiani28. Nel 1912, il corso
fu chiuso e fu inaugurata una Scuola per Levatrici annessa alla Maternità. Tra il
1914 e il 1930, questa Scuola ricevette richiesta di 49 levatrici diplomate all’estero
per convalidare il diploma, 33 di origine italiana, di cui la maggioranza diplomata
all’Università di Padova29.
A causa delle difficoltà per convalidare il titolo e iscriversi al registro, molte
levatrici straniere di origini diverse non seguirono le regole, a dispetto delle multe
previste per chi trasgrediva. Il Servizio di Vigilanza, pur avendo dimostrato in pa-
recchie occasioni la volontà politica di controllare l’esercizio del mestiere, non fu
effettivo. Levatrici straniere e brasiliane con o senza diploma o registro seguitarono
a esercitare, collaborando anche con medici.
Ursula Endrizzi arrivò a São Paulo alla fine del decennio del 1870. Pubblicò
annunci continuativamente negli Almanacchi tra 1883 e 189130. Lavorò per e con
alcuni dei principali medici della città. Il Dottor Ferreira attestò di aver visto il
diploma della levatrice, ottenuto all’Università di Innsbruck31. Le consigliò di so-
stenere l’esame di abilitazione, consiglio che pare non abbia seguito, poiché il suo
nome appare in una lista dei professionisti che esercitavano illegalmente – pubbli-
cata sul Fanfulla, un giornale della comunità italiana32. Clorinda Fiano, dopo una
denuncia, cercò di convalidare il diploma. Viaggiò da São Paulo a Rio de Janeiro
per la convalida presso la Facoltà di Medicina di quella città. Ritornata a São Paulo
si iscrisse al Servizio di Vigilanza. La levatrice era nata a Napoli. Nelle pagine del
Fanfulla, informava che si era diplomata all’Università di quella città, avendo lavo-
rato all’Ospedale Gesù Maria con «l’illustre Prof. Ottaviano Morisano»33.
598
Levatrice autorizzata dalla legge […], conosciuta dalla comunità siriana, fa sapere
a tutti che è ritornata dal viaggio in Europa ed è pronta ad assistere gestanti e a
curare malattie delle donne, facendo uso di una nuova pratica di massaggio nel
corso delle visite. Il suo studio […] è aperto per visite tra le ore 13 e 15 […]
Riceve partorienti a pensione39.
34 Fanfulla, 9/10/1896.
35 “Anais do Primeiro Congresso Médico Paulista”, São Paulo, O Estado de São Paulo, 1917.
36 “Diário Popular”, São Paulo, 8/3/1892.
37 “Diário Popular”, São Paulo, 10/7/1895.
38 “O Estado de São Paulo”, 21/6/ 1915.
39 Al-Akfar, 19/2/1904.
599
40 Centro de Memória da Saúde, Museu Emílio Ribas, São Paulo, Livros de Registros da Fiscalização
do Exercício Profissional.
41 Ibidem.
42 Ibidem; “Almanaque Laemmert”, 1928.
43 “Il Brasile e gli italiani”, Pubblicazione del Fanfulla, Firenze, Bemporad, 1906.
600
Molte delle attività svolte dalle levatrici erano proibite dalla legislazione, sep-
pur la legge e la pratica non sempre seguissero la stessa via. Le levatrici, che fossero
brasiliane, italiane o di qualunque altra nazionalità, nello svolgimento del mestie-
re, spesso sfidavano apertamente la legislazione. Era loro proibito di annuncia-
re consulti, ricevere partorienti o gestanti a casa o in qualunque altro luogo che
avesse il carattere di maternità o infermeria, prescrivere ricette o somministrare
farmaci; praticare la ginecologia, praticare qualunque manovra in caso di distocia
(salvo quando fosse impossibile la presenza di un medico).
Per concludere sottolineo che i giornali di São Paulo pubblicarono, nel corso
del periodo studiato, articoli riguardanti l’attività delle levatrici italiane, che per-
mettono di analizzare le aspettative sulle funzioni e mansioni di queste lavoratrici.
Mentre la levatrice Celeste Pavani è considerata portavoce del discorso compe-
tente44, la famigerata Mme. Natalina Rosati è esecrata come «creatrice di angeli»,
«colonizzatrice del paradiso», «l’orrenda megera il cui nome non è sconosciuto dai
registri della polizia»45.
Non è stato necessario cercare le levatrici italiane come un ago nel pagliaio.
La loro presenza nello spazio pubblico è evidente nella documentazione, come
quella di altre lavoratrici. Molti tra i documenti trovati suggeriscono che esse aves-
sero parte attiva nel quotidiano di São Paulo. Convissero nello stesso periodo
levatrici diplomate con carriera lunga e di successo; mammane con tipi diversi di
qualificazione, esperienza e conoscenze (o no) delle regole dell’asepsi; donne che
esercitavano legalmente oppure nella clandestinità.
Non è inappropriata l’affermazione di alcuni autori che l’assistenza al parto
delle donne immigranti era svolta da mammane, di cui molte con poca esperienza,
che non conoscevano le regole di igiene e le modalità di trasmissione delle malat-
tie. Nel 1930, l’Ispettore Capo del Servizio Sanitario richiedeva il ricovero di M.
C., italiana, che viveva in Brasile dai 9 anni di età ed esercitava il mestiere «pur
essendo lebbrosa». L’Ispettoria l’avrebbe diffidata diverse volte, fu aperta un’inda-
gine che le impediva di esercitare ed imponeva il suo ricovero – il che a quanto
pare non successe immediatamente. Nell’Indagine Epidemiologica, M. C. negò
di aver avuto contatto con altri malati «escluso aver aiutato in due parti – come
mammana – un medico ammalato, 13 anni prima»46.
Tuttavia il gruppo di levatrici, e di altre lavoratrici di origine italiana dell’area
della Salute che prestarono servizio alla popolazione, composto da donne alfabe-
tizzate, indipendenti, che avevano grande mobilità, qualificazione professionale e
44 A Capital, 14/6/1915.
45 Diário Popular, 22/3/1897; O Estado de São Paulo, 16/7/1902; A Capital, 19/7/1913.
46 Centro de Memória da Saúde, Museu Emílio Ribas, São Paulo, Serviço de profilaxia da Lepra.
Prontuário 979.
601
voce propria, non può essere dimenticato, giacchè arricchisce la conoscenza sto-
rica. Nel sollevare nuove questioni, amplia in modo significativo il ventaglio di
profili di donne immigranti e rende visibili professioniste che prestavano servizi di
cui ancora di recente non si era percepito il significato e l’importanza.
Per finire ci riportiamo a un’osservazione di Zuleika Alvim, in Brava Gente!
La storica afferma che la vita degli italiani in Brasile «si divide in due momenti:
prima e dopo aver emigrato»47. Traducendo il commento al caso delle levatrici, il
brano citato ci ricorda che le levatrici avevano una storia pregressa. Questa storia
– perché vennnero, dove passarono, il motivo del viaggio, se vennero sole, in cerca
di una vita migliore, di piú libertà, con la speranza di fare fortuna e tornare…è un
capitolo che ancora non siamo riuscite a scrivere.
47 Alvin, Z. Brava Gente. Os Italianos em São Paulo (1870-1920), São Paulo, Brasiliense, 1986.
602
Il binomio “cura” (intesa come prendersi cura, nel senso più tradizionale di atten-
zione, interesse, sollecitudine per l’altra persona) – cure mediche, psicologiche,
farmacologiche, etc. (intese come trattamento, terapia) – non è sempre esistito
come noi oggi siamo abituati a pensarlo. Solo nel corso dell’Ottocento si istituzio-
nalizza progressivamente la separazione tra il prendersi cura e la cura come terapia
e guarigione. Cercheremo di esaminare questo passaggio, ripercorrendone breve-
mente le tappe, mentre Giovanna Vicarelli si fermerà soprattutto sulle professioni
nel corso del Novecento. In particolare, sulla femminilizzazione della professione
medica, che ha favorito la possibilità di sviluppare studi mirati sulla salute della
donna.
Il processo che ha visto la separazione della cura dalle cure è un processo lun-
go. La separazione comincia proprio con la nascita della medicina scientifica dopo
gli sconvolgimenti della rivoluzione francese. «L’état des lumières semble permet-
tre de rendre [la médecine] plus complète, et ses effets plus durables, qu’Hippo-
crate même ne put le faire de son temps»1, la rivoluzione rimette in discussione
conoscenze e istituzioni, svincola la medicina dai sistemi di pensiero che l’hanno
tenuta imbrigliata2. Nasce a Parigi la medicina anatomo-clinica3, che si impone
progressivamente al resto dell’Europa dai primi dell’Ottocento alla metà del secolo
come medicina “clinica e laica”, fondata su solide basi sperimentali4.
Il lavoro di ricerca non è mai facilmente conciliabile con il lavoro di cura5. I
progressi in anatomia e fisiologia si traducono in avanzamenti della diagnostica,
ma non producono molti effetti sulla terapeutica e le cure restano ancora legate a
una terapeutica d’Ancien Régime.
Durante tutto l’Ottocento permane dunque l’intreccio tra cura e cure. Que-
sto intreccio è testimoniato in modo esemplare dal lavoro di cura svolto da varie
congregazioni di religiose, che noi chiamiamo Suore di Carità. Come leggiamo
nel contributo di Jacqueline Lalouette, sono religiose di congregazioni fondate in
un contesto nuovo, post-rivoluzione francese, ma anche di congregazioni nate in
Ancien Régime, scomparse con la rivoluzione e poi rifondate. Sono religiose inse-
gnanti e ospedaliere (alcune solo ospedaliere), religiose appartenenti a congregazioni
salva-malati, nate proprio in occasioni di epidemie. Esse svolgono lavoro di cura
nell’ambito domestico con soccorsi a domicilio, ma anche nell’ambito più vasto di
istituzioni ospedaliere, di comunità di villaggio, di centri urbani, perfino sul teatro
di operazioni militari (nelle quali erano impegnate le truppe militari francesi).
Queste suore, che dal 1810 furono chiamate anche a Napoli da Murat e ac-
colte nel monastero di Regina Coeli, non dispensavano genericamente cure, ma
– come leggiamo in Lettere e documenti delle Suore della Carità di S.Giovanna
Antida Thouret6 – avevano anche delle competenze nella preparazione dei rimedi,
oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001; per l’Italia al volume su Malattia e medicina, a cura di Franco Della
Peruta, Torino, Einaudi, 1984, Storia d’Italia, Annali 7, (dove per la prima volta l’impostazione è
di storia sociale della medicina) e a Cosmacini, G. Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla
peste europea alla guerra mondiale 1348-1918, Roma-Bari, Laterza, 1987; per il Regno di Napoli
(poi delle due Sicilie) a Catapano, V.D. Medicina a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, Napoli,
Liguori, 1990; Borrelli, A. “Le origini della Scuola medica dell’Ospedale degl’ Incurabili di Napoli”,
in Archivio storico per le province napoletane, CXVIII, 2000; Botti, G. “L’organizzazione sanitaria
nel Decennio”, in Lepre, A. (a cura di) Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815),
Napoli, Liguori, 1985; Ead. “Strutture sanitarie e malati nell’Ottocento borbonico”, in Massafra,
A. (a cura di) Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, Bari, Dedalo, 1988; Ead.
“Da ospedale-ricovero a ospedale-clinico: il Collegio medico-cerusico degli Incurabili di Napoli”,
in Botti, G.; Guidi, L.; Valenzi, L. (a cura di) Povertà e beneficenza tra Rivoluzione e Restaurazione,
Napoli, Morano,1990.
4 La descrizione di un caso di dubbia identificazione fatta da Pomme nel 1750 ci appare oggi
come un parto della fantasia, se messa a confronto con quella fatta nel 1825 da Bayle, collaboratore
di Laënnec, padre della «medicina osservativa». Bayle descrive oggetti reali tuttora reperibili, in Fou-
cault, M. Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1969, p. 4.
5 Tousijn, W. Il sistema delle occupazioni sanitarie, Bologna, il Mulino 2000, p. 57.
6 Santa Giovanna Antida Thouret, fondatrice delle Suore della Carità, 1765-1826, Lettere e docu-
menti, Suore della Carità di S.Giovanna Antida Thouret, Roma, 1974, pp. 117-119, 469-471.
606
sull’uso delle erbe, “sulla tecnica di preparazione e sul procedimento delle distil-
lazioni” e distribuivano i farmaci secondo le ricette dei medici, ai quali dovevano
rendere conto. A Napoli organizzano subito un orto dei semplici e aprono una
farmacia, dove preparano rimedi per l’ospedale degli Incurabili e per gli abitanti
poveri del quartiere S. Lorenzo.
Le suore seguivano poi dei corsi (tenuti da professionisti) sui salassi e sulla
cura delle piaghe, applicavano i vescicanti. Adoperavano, quindi, una terapeutica
di Ancien Régime. Questa non era, però, una peculiarità delle suore: fino alla fine
dell’Ottocento erano in uso solo purganti, emetici e salassi, in quanto la medicina
non aveva ancora individuato scientificamente l’origine del contagio. La svolta
avviene solo alla fine dell’Ottocento, con la nascita della moderna batteriologia,
quando Pasteur scopre il bacillo della febbre puerperale nel 1878, Koch quello
della tubercolosi nel 1882 e del colera nel 1883, Yersin quello della peste nel 1894.
Per tutto il secolo cura e cure continuano ad andare di pari passo. Basti pensa-
re all’impossibilità per la medicina ufficiale di affrontare le epidemie di colera, che
si diffondono in Europa a partire dal 1815 e decimano la popolazione dei centri
urbani nel corso del secolo. Le Suore di Carità, che si prodigano in occasione delle
epidemie (in particolare di colera) muoiono numerose. Sono alcune centinaia a
morire sul campo. Queste religiose realizzano concretamente, attraverso il loro
operato il binomio cura-cure dal quale siamo partiti. Si tratta di un’esemplificazio-
ne importante, data la difficoltà di far venire alla luce per i secoli passati il lavoro
di cura svolto individualmente dalle donne. Non c’è per il secolo diciannovesimo
l’opportunità dell’“osservazione della casa”, di un lavoro sul campo come quello
svolto da Lorenza Maluccelli, anche se naturalmente esistono fonti (come corri-
spondenza, epistolari) che ci danno la possibilità di entrare nel privato.
Le cure finiscono col diventare socialmente prevalenti sulla cura, quando lo
sviluppo della scienza (chimica, farmacologica, microbiologica) fa passi avanti tali
da consentire non solo la professionalizzazione dei medici, ma anche dei rappre-
sentanti le arti salutari minori7 (è un processo che porta alla scomparsa di figure
empiriche, legate a una attività prescientifica8).
607
In questa fase alle donne non viene riconosciuta nessuna competenza, nep-
pure quella della terapeutica tradizionale. Le Suore di Carità – per continuare
nella nostra esemplificazione – devono ripiegare sul privato. Le donne laiche “non
autorizzate” in Ancien Régime all’esercizio delle arti salutari vengono nel corso
dell’Ottocento estromesse anche da ambiti come quello del parto e da saperi legati
all’attività di riproduzione, da sempre tradizionalmente e unicamente nelle loro
mani. Non riscuote grande successo la lotta delle levatrici per non essere esclu-
se dall’unica arte salutare (quella di raccogliere i parti) che potevano esercitare
dall’antichità e i chirurghi-ostetrici finiscono con l’occupare sempre più stabil-
mente uno spazio esclusivamente femminile. Questo processo diventa più eviden-
te dopo la scoperta fatta da Pasteur del bacillo della febbre puerperale. La scoperta
permette di diffondere le pratiche dell’antisepsi e contribuisce a far diminuire la
mortalità delle donne che si rivolgono all’ospedale per partorire. Finisce quindi
con lo smussare la diffidenza verso gli ostetrici maschi.
D’altra parte le donne di “civil condizione” sono escluse dall’istruzione supe-
riore fino alla fine dell’Ottocento e non hanno, quindi, titoli di studio adeguati
per “appartenere a quella sfera pubblica in cui agiscono le professioni”. Le donne
sono ammesse in Italia agli studi universitari nel 1876 (nelle università di Parigi,
Zurigo, Losanna, Berna e Ginevra l’iscrizione è consentita già tra il 1863 e il
1872) e solo a partire da questa data cominciano lentamente ad appropriarsi nello
scorcio dell’Ottocento e lungo tutto il Novecento di un sapere (quello che dà
accesso alle professioni) che si direbbe completamente estraneo al loro orizzonte.
Uno sguardo più attento ci fa, però, vedere (come caso concreto faccio riferi-
mento all’arte farmaceutica che è quella che ho studiato approfonditamente) come
continuava a essere trasmesso anche all’interno di circuiti femminili un sapere che
sembrava pubblicamente appannaggio di medici e farmacisti maschi. L’arte di tratta-
re le erbe e di trasformarle in rimedi, di praticare il salasso e di offrire le più elementa-
ri cure non era completamente estranea al mondo femminile. E non mi riferisco solo
alla realtà dei monasteri femminili, dove le suore conoscevano il latino, potevano
leggere le ricette dei medici ed erano quindi ammesse alla preparazione dei rimedi.
Vengono fuori continuamente dalle carte d’archivio tracce della presenza
femminile in occasione dei passaggi di proprietà delle farmacie napoletane. Que-
ste erano gestite il più delle volte in modo familiare con la partecipazione di ma-
dri, mogli, figlie, cognate etc. al lavoro che si svolgeva nelle botteghe e soprattutto
nei retrobottega delle farmacie, dove i rimedi venivano preparati caso per caso su
indicazione del medico (la farmacia rimane essenzialmente galenica per gran parte
dell’Ottocento!). Le donne facevano un lavoro non riconosciuto, ma non erano
così lontane dall’arte di fare e smerciare farmaci. Non a caso ad avanzare le prime
rivendicazioni sono le vedove dei farmacisti che hanno imparato il mestiere, lavo-
rando accanto ai mariti.
608
9 de Fourcroy, A.F. (Parigi 1755-1809) pubblicò nel 1792 la sua opera di maggior successo dal
titolo Philosophie chimique, una delle sintesi più brillanti della chimica lavoisieriana, tradotta in ben
undici lingue.
10 Warolin, C.; Bourillet, F.; Storck, J. (a cura di) L’Académie Nationale de Pharmacie de 1803 à
2003, Paris, Pharmathèmes Édition Communication Santé, 2003, pp. 131-132.
11 Botti, G. Sulle vie della salute. Da speziale a farmacista-imprenditore nel lungo Ottocento a Napoli,
Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 83-85.
12 Si dice di farmaco capace di uccidere ed espellere i vermi intestinali.
13 Archivio di Stato di Napoli, Regio Protomedicato, f. 155.
14 Botti, G. Sulle vie della salute cit., pp. 112-115.
609
15 Si vedano i lavori di Cosmacini, G. Medicina e sanità in Italia nel ventesimo secolo, Roma-Bari,
Laterza, 1989; Id. Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza,
1994; Id. Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Raffaello Cortina, 1998; Id. La
religiosità della medicina. Dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007; Freidson, E. La dominanza
medica. Le basi sociali della malattia e delle istituzioni sanitarie, a cura di Vicarelli, G., Milano, Franco
Angeli, 2002.
16 FNOMCeO (a cura di) Cento anni di professione a servizio del paese, Roma, FNOMCeO, 2010;
Soresina, M. “Dall’ordine al sindacato. L’organizzazione professionale dei medici dal liberalismo al
fascismo”, in Cultura e società negli anni del fascismo, Milano, Cordani, 1987; Id. “I medici italiani
nel XIX secolo fino alla costituzione degli Ordini”, in Varni, A. (a cura di) Storia delle professioni in
Italia tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 61-76; Lonni, A. I professionisti della
salute. Monopolio professionale e nascita dell’ordine dei medici XIX e XX secolo, Milano, Angeli, 1994;
Frascani, P. “I medici dall’Unità al fascismo”, in Storia d’Italia. Annali 10: I professionisti, a cura di
Malatesta, M., Torino, Einaudi, 1996.
17 Vicarelli, G. Alle radici della politica sanitaria in Italia: società e salute da Crispi al fascismo, Bo-
logna, Il Mulino, 1997; Ead. Gli eredi di Esculapio: medici e politiche sanitarie nell’Italia unita, Roma,
Carocci, 2010; Soresina, M. I medici tra stato e società. Studi su professione medica e sanità pubblica
nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1998; Cosmacini, G. I medici nella storia d’Italia,
Roma-Bari, Laterza, 1996.
610
fisiologiche che psico-sociali. D’altro canto, negli ultimi decenni del Novecento,
la nuova rivoluzione scientifica, legata alle grandi scoperte della medicina moleco-
lare, continua a tracciare un solco evidente tra un approccio sofisticato sul piano
clinico e scientifico e un intervento socio-sanitario di base reso necessario dalla
crescita delle patologie croniche e invalidanti.
A queste diverse configurazioni della medicina fanno riscontro un’organiz-
zazione e una professionalizzazione sanitaria che, almeno in Italia, risentono for-
temente delle contraddizioni e delle difficoltà connesse al dualismo della cura e
delle cure. Mentre, infatti, a fatica si impone nel paese una modalità di protezione
sanitaria più ampia e tendenzialmente universalistica (con il passaggio da un siste-
ma di welfare residuale e meritocratico a uno istituzionale), il modello biomedico
dominante privilegia i percorsi terapeutici interni all’ospedale, con personale spe-
cializzato che condivide la logica di professionalizzazione medica. Le professio-
ni sanitarie, ad esempio, fanno proprio il concetto bio-medico rivendicando un
ruolo sempre meno connotato dalla cura e sempre più rivolto alle cure. A questo
sistema ospedalocentrico, altamente professionalizzante e con costi economici in-
crementali, la crisi dei sistemi di welfare degli anni Novanta tenta di opporre una
modalità di intervento decentrata sul territorio e in grado di recuperare, per i
problemi cronici o ricorrenti di malattia e salute, le competenze di personale meno
specializzato: dagli OSS (operatori socio-sanitari) ai volontari, dai care giver fami-
liari alle badanti. Si tratta, in ogni caso, di una inversione di percorso assai difficile
da realizzare alla quale non giovano le politiche di welfare neoliberali di fine secolo,
né i crescenti tagli alla spesa sanitaria.
È in questo quadro, mutevole e contraddittorio, che va posta la femmini-
lizzazione della professione medica la quale procede in modo assai lento e diffi-
coltoso per tutto il primo Novecento per crescere notevolmente a partire dagli
anni Settanta e Ottanta del secolo. Peraltro, le donne medico, nelle diverse fasi di
costruzione e trasformazione del sistema di welfare italiano, debbono confrontarsi
con il dualismo della cura e delle cure, vivendo all’interno della propria categoria
e nella propria identità professionale le molteplici incongruenze a esso correlate.
In un primo periodo, che corrisponde all’epoca delle pioniere, che dalla fine
dell’Ottocento fino ai primi due decenni del Novecento decidono di rivolgersi alla
medicina come professione, le medichesse tentano di proporre un’immagine di sé
che le distolga da un modello di cura e di cure rivolto solo al mondo femminile o
dell’infanzia, rivendicando ruoli e specializzazioni assai più ampi18. Tuttavia, la stra-
da della non separazione di genere nei percorsi educativi e professionali che l’Italia
18 Vicarelli, G. Donne di medicina. Il percorso professionale delle donne medico in Italia, Bologna,
Il Mulino, 2008; Borsarelli, F. Storia della Associazione Italiana Donne Medico – AIDM, Torino,
Minerva Medica, 1977.
611
intende seguire dopo l’Unità, viene di fatto smentita dalla consuetudine e dalla pra-
tica. Nel 1910, quando si istituisce l’Ordine dei medici non vengono messi ostacoli
giuridici all’iscrizione e alla partecipazione delle laureate in medicina alla pratica
professionale. Nei fatti, tuttavia, questa viene negata anche nei casi più eclatanti di
personalità della scienza e della cultura del tempo (come per Maria Montessori) o
di fronte alla forza dei legami politici dell’epoca (come per la Kuliscioff esponente
del partito socialista a Milano). D’altro canto, nelle Opere pie ospedaliere e nelle
strutture di pubblica beneficenza il ruolo femminile predominante resta all’inizio del
secolo quello delle religiose o delle poche inservienti che si occupano delle attività
più marginali dell’assistenza. Né la medicina libero professionale può offrire alle
pioniere sbocchi professionali in ambienti di media o alta borghesia, ostili al nuovo
ruolo femminile in sanità. Le uniche aree di assistenza pubblica risultano essere le
condotte mediche, dipendenti dalle municipalità; queste, tuttavia, hanno un carat-
tere così impegnativo sul piano professionale che anche quando le donne chiedono
di accedervi, i funzionari e i politici che debbono concedere l’incarico, sono molto
restii a farlo. Non meraviglia, allora, che le medichesse del tempo finiscano per rivol-
gersi alla cura sanitaria delle donne e dei bambini, all’interno del crescente sistema di
tutela garantito dall’auto mutuo aiuto o dall’associazionismo privato e laico.
Nel ventennio fascista, l’impulso alla crescita professionale delle donne medi-
co trova ostacoli nella politica restrittiva del regime verso il lavoro femminile, tan-
to che anche la creazione dell’Opera nazionale maternità e infanzia (ONMI) non
lascia spazi occupazionali alle dottoresse, essendo le sedi periferiche dell’ONMI
generalmente dirette da medici pediatri e igienisti ed essendo in esse presenti so-
prattutto ostetriche e puericultrici. Né lo sviluppo del mutualismo è tale da acco-
gliere le laureate in medicina in un settore libero-professionale, con poche garanzie
e tutele pubbliche. Le donne medico, di conseguenza, assumono in questi anni
tratti ambigui e contraddittori, di chi pur svolgendo un’attività apparentemente
cruciale per lo Stato deve guardarsi dal manifestarla per evitare ritorsioni o limi-
tazioni di genere. Nel caso italiano, peraltro, le donne medico non svolgono quel
ruolo centrale nella politica eugenetica della razza che contraddistingue la Germa-
nia19. Il loro intervento resta marginale, così come marginale è l’impegno fascista
su questo tema, essendo l’intenzione del regime volta al sostegno della famiglia e
alle politiche per la natalità in una fase in cui la fecondità dimostra, per la prima
volta, tendenze negative20.
19 Kopetsch, T.H. “The medical profession in Germany: past trends, current state and future pro-
spects”, in Cahiers de Démographie Médicales, vol. 44, n. 1, 2004, pp. 43-70; Kuhlmann, H. “Gender
differences, gender hierarchies and professions: an embedded approach to the German dental profes-
sion”, in International Journal of Sociology and Social Policy, n. 4/5, 2003, pp. 80-96.
20 Giulianelli, R. “Dottoresse d’Italia e stato fascista”, in Vicarelli, G. Donne di medicina cit., pp. 58-97.
612
21 Vicarelli, G. Alle radici della politica sanitaria in Italia cit.; Ead. “La politica sanitaria tra conti-
nuità e innovazione”, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, “L’Italia nella crisi mondiale: l’ultimo
ventennio”, Torino, Einaudi, 1997; Ead. “Gli eredi di Esculapio cit.; Mapelli, V. Il sistema sanitario
italiano, Bologna, Il Mulino, 1999.
22 Vicarelli, G.; Bronzini, M. “Il ruolo delle donne nella medicina generale”, in Economia & Lavoro,
vol. 42, n. 2, 2008, pp. 15-30.
613
23 Vicarelli, G. “Le medichesse”, in Malatesta, M. (a cura di) Atlante delle professioni, Bologna,
Bononia University Press, 2009.
24 Bronzini, M.; Spina, E. “Le professioniste del duemila”, in Vicarelli, G. Donne di medicina cit.,
pp. 115-140.
614
25 Reale, E. Prima della depressione. Manuale di prevenzione dedicato alle donne, Milano, Angeli,
2007.
615
Jacqueline Lalouette26
Premessa
Nella Francia dell’Ottocento furono create centinaia di congregazioni religiose
femminili. Erano numerose le congregazioni miste (insegnanti e personale ospe-
daliero) o solo ospedaliere; a queste si aggiungevano le congregazioni di infermie-
re. Il loro ruolo fu importante durante le epidemie, in Francia ma anche nei ter-
ritori francesi d’oltremare, nei paesi dove vi erano le missioni e talvolta nei luoghi
dove la Francia era impegnata in operazioni militari, come per esempio in Crimea.
Le notizie riguardanti l’azione di queste religiose sono state attinte dagli ar-
chivi delle congregazioni, dalle storie di congregazioni, dalle biografie o opere
riguardanti la pratica della carità. Il carattere apologetico di queste fonti non deve
invalidare le notizie che esse contengono, notizie che alcuni documenti ufficiali e
lavori storici come quelli di Patrice Bourdelais e Jean-Yves Raulot confermano27.
Possiamo anche far riferimento a monografie di città, di dipartimenti, di colonie,
a monografie sugli ospedali.
2. L’azione spirituale
Le religiose avevano preoccupazioni di ordine spirituale per se stesse e per i loro
ammalati. La preoccupazione della loro salvezza personale era talvolta espressa
apertamente, tanto che il primo scopo dell’ordine delle Augustines de Meaux era
«la santificazione dei suoi membri»30. In generale, però, viene data la precedenza al
conforto spirituale degli ammalati e degli agonizzanti. Le costituzioni e le regole
della congregazione di Notre-Dame di Fourvière stabilivano che le suore che visi-
28 Il bacillo responsabile del colera (vibrio choléræ o bacillo virgola) fu scoperto nel 1883 dal tedesco
Robert Koch.
29 Vaudon, J. Histoire générale de la Communauté des Filles de Saint-Paul de Chartres, enseignantes,
hospitalières, missionnaires [d’ora in avanti H.C.G.F.], Paris, P. Téqui, t. 3, De 1840 à nos jours, 1927,
p. 38.
30 Les sœurs augustines de Meaux, Lyon, 1952, senza numero di pagine.
618
tano gli ammalati «dovranno soprattutto badare al bene spirituale degli ammalati
[…]. Quando vi sarà pericolo di morte, le suore prepareranno gli ammalati a
ricevere gli ultimi sacramenti con molta fiducia e rassegnazione, cercando di per-
suaderli che con la guarigione dell’anima, essi potranno ricevere anche quella del
corpo se Dio lo giudicherà utile alla loro salvezza»31.
Secondo L’Ami de la religion del 1832, le Filles de la Charité ricevevano pochi
rifiuti quando volevano chiamare un prete32. Durante il colera del 1849, nella dio-
cesi di Parigi, gli ammalati accoglievano volentieri i suggerimenti delle religiose:
«Lungi dal respingere il ministero dei preti – così scriveva una di loro – lo solle-
citano espressamente»33. Registravano una grande vittoria quando degli ammalati
non cattolici si convertivano, ma indipendentemente dalle vittorie spirituali che
le suore della carità potevano riportare, il loro atteggiamento con gli agonizzanti
era considerato come la fonte di un grande conforto affettivo per questi ultimi.
Secondo Émile Mignot, quando il medico era impotente, la suora della carità ac-
correva per aiutare l’agonizzante a «varcare senza terrore […] il temibile passaggio
da questo mondo a quell’altro misterioso»34.
619
37 Ivi, t. 2, p. 371.
38 Ivi, t. 3, p. 564-565.
39 Ivi, t. 3, p. 565.
40 de Croze, F. Foi et Patrie. Les Frères des Écoles chrétiennes et les sœurs de charité sur le champ de
bataille et à l’hôpital, Limoges, Marc Barbou et Cie, 1898, p. 85 e de Lyden, E.M. Les sœurs de cha-
rité… cit., p. 141.
41 Les Sœurs de Saint-Charles de Lyon. Annales de la Congrégation. 1680-1874, Lyon, Imprimerie
Emmanuel Vitte, 1915, p. 349.
42 Vaudon, J. H.C.G.F cit., t. 3, p. 100.
43 de Croze, Foi et Patrie. Les Frères des Écoles chrétiennes… cit., p. 86; de Lyden, E.M. Les sœurs de
charité…cit., p. 142. Blandeau, E.H.R. Patriotisme du clergé catholique et des ordres religieux pendant
la guerre de 1870-1871, Paris, 1873, p. 245.
620
colera44. Questa gratitudine trovò talvolta un’espressione artistica. Nella hall della
Casa madre delle Filles de la Sagesse si trova il quadro Hommage de la Commune de
Voulême aux Filles de la Sagesse de Civray. Questo rappresenta alcune suore mentre
curano dei colerosi durante l’epidemia che colpì il Poitou a partire dal 183345.
Le municipalità
I consigli municipali si dimostravano spesso riconoscenti. Così, dopo l’epidemia del
colera del 1832, la città di Argenteuil votò dei ringraziamenti solenni alle religiose
di Saint-Paul de Chartres, che gestivano l’ospizio46. Ma i periodi di epidemia per-
mettono anche di misurare l’anticlericalismo di alcune municipalità. A Sens, mentre
l’arcivescovo aveva chiamato le suore della comunità di Ligny che passavano le loro
notti a vegliare i colerosi, il consiglio municipale iniziò un procedimento contro di
loro per via del fatto che avevano aperto un’istituzione religiosa senza autorizzazione.
“L’Amico della religione” fece questo commento: «Il processo viene istruito; sarà
strano vedere delle buone ragazze comparire davanti alla polizia correzionale per
aver curato degli ammalati senza autorizzazione, e per aver illegalmente reso la vita
migliore a dei poveri giovani che perivano per mancanza di soccorso»47.
I medici
In alcuni casi le relazioni tra i medici degli ospedali (civili e militari) e le religiose
erano eccellenti. Nel 1866, il dottore Seux, primario degli ospedali di Marsiglia,
vantava così i meriti «delle nostre eccellenti e così degne suore ospedaliere» che
non avevano mai smesso «di contribuire, con i loro incoraggiamenti e le loro cure,
al sollievo dei nostri ammalati»48. Ma alcuni medici rimproveravano alle suore di
non rispettare le loro prescrizioni e di spaventare gli ammalati con i loro discorsi
sulla morte e l’aldilà. Nel 1864, il dottore Cornilliac ricordò che solo il medico
poteva decidere se occorreva annunciare “la fine funesta” della malattia, che «l’u-
manità e la religione vietano formalmente di spaventare quelli le cui possibilità di
guarigione siano legate alla propria tranquillità d’animo, facendo loro intravedere
la fine prossima»49.
621
Sentiamo qui tutta l’importanza della posta in gioco che rappresentava per gli
uni la serenità dello spirito, condizione della guarigione del corpo, per le altre la
salvezza dell’anima che si pensava avrebbe potuto essere compromessa lasciando
l’ammalato nell’ignoranza di una eventuale fine fatale.
622
no in bella mostra sul suo catafalco55. Nel 1857, l’autorità pubblica della Guyana,
gli alti funzionari, gli ufficiali dello Stato maggiore, i distaccamenti dell’artiglieria,
della fanteria da sbarco si unirono al prefetto apostolico, alle religiose di Saint-
Joseph de Cluny e ai fratelli delle Scuole cristiane per seppellire suora Félix, madre
superiora dell’ospedale militare di Cayenne, deceduta il 3 luglio; i cordoni del
drappo funebre erano retti da quattro ufficiali della marina, dell’amministrazione
e del corpo sanitario56.
Ma queste buone disposizioni scomparirono durante il periodo di laicizza-
zione aperta con il trionfo della “Repubblica ai repubblicani”, dopo la crisi del 6
maggio 1877. Un’aspra lotta contro le congregazioni si accese anche sul piano fi-
nanziario: la legge del 29 dicembre 1884 precisò che a ogni decesso di un religioso,
le congregazioni dovevano pagare l’11,25% della quota dei beni che il defunto o la
defunta si supponeva possedesse. La rivista cattolica Le Correspondant commentò
in maniera sarcastica questa imposta: «Durante la guerra di Crimea, trenta suore
di carità sono morte lavorando nelle nostre ambulanze d’Oriente; se la Repubblica
fosse esistita allora, che buona fortuna questi trenta decessi, uno dopo l’altro, le
sarebbero valsi! […] La Prima Repubblica stessa non aveva avuto questa ingegnosa
idea di percepire soldi sulle bare delle religiose»57. Tuttavia, persino durante quegli
anni difficili per le congregazioni, fra le poche donne decorate della Légion d’hon-
neur, le suore continuarono a figurare in ottime posizioni58.
Per tutto quel che riguarda la religione e il desiderio di assicurare la loro sal-
vezza, quelle religiose sono rappresentative della società e dei tempi in cui vissero.
Invece, lo svolgimento della loro vita le distingue abbastanza radicalmente delle
loro contemporanee, perché in una società ampiamente dominata dagli uomini,
esse esercitarono delle responsabilità che differivano molto da quelle che conosce-
vano la maggior parte delle altre donne.
623
Lorenza Maluccelli
Premessa
Da almeno due decenni le politiche pubbliche del welfare sono attraversate da
alcune sostanziali riforme orientate all’espansione dei servizi domiciliari. Quei ser-
vizi che si svolgono, cioè, nella casa della persona che necessita di cure sia sanitarie
che di supporto alla vita quotidiana. Questa tendenza, come viene rilevato da
più parti, non è esente da sfide sulle quali tali politiche sono obbligate a misu-
rarsi. Nonostante, infatti, sia ampiamente sostenuto che le trasformazioni della
società abbiano condotto a una riduzione delle possibilità di assistenza da parte
dei network sociali, il recente orientamento si rivolge proprio verso il sistema di
cura informale, di cui la famiglia è considerata una risorsa cruciale, ma che può
coinvolgere anche le reti cosiddette «comunitarie» (amici, vicini di casa, ecc). Tale
riconfigurazione del sistema di cura è guidata in Italia da un modello informale in
cui la re-familiarizzazione delle cure sociali59, da un lato, e la crescita del mercato
delle donne migranti impiegate per attività di assistenza nelle famiglie, dall’altro,
sarebbero i nuovi cardini60.
59 Pavolini, E.; Ranci, C. “Restructuring the welfare state: reforms in long-term care in Western
European countries” in Journal of European Social Policy, 2008, vol.18 (3), pp. 246-259. Pavolini,
E. Regioni e politiche sociali per gli anziani. Le sfide della non autosufficienza. Roma, Carocci, 2004.
60 Tra gli altri: Bettio, F.; Simonazzi, A.; Villa, P. “Change in Care Regimes and Female Migration:
The ‘Care Drain’ in the Mediterranean” in Journal of European Social Policy, 2006, 16 (3), pp. 271-
85.
626
70 Colombo, G.; Cocever, E.; Bianchi, L. Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, Roma,
Carocci, 2004.
71 Ivi, p. 4.
72 Ivi, p. 18.
73 Ivi, p. 20.
74 Ivi, p. 23.
75 Bianchi 2004
76 Colombo, G.; Cocever, E.; Bianchi, L. Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna cit.
77 Ivi, p. 99.
627
78 Ivi, p. 20.
79 Ingrosso 2008
80 Si fa riferimento alla ricerca Ingrosso, M.; Malucelli, L. (a cura di) Pratiche di Cura Familiari
e Qualità del Servizio di Assistenza Domiciliare Integrata nella Provincia di Ferrara, Università di
Ferrara, (rapporto dattiloscritto), aprile 2009.
81 Bianchi 2004
82 Bulmer, M. The social basis of community care, London, Allen & Unwin, 1987, trad. it. Le basi del
community care. Sociologia delle relazioni informali di cura, Trento, Erickson, 1992, p. 63.
83 Lyon D., Glucksmann M., 2008
628
L’unità di analisi scelta per la serie di casi che sono diventati gli «oggetti» della
ricerca, è la persona dipendente e tutti gli attori formali e informali che rispon-
dono attivamente ai suoi bisogni, ossia il suo sistema di cura84. Il team di ricerca è
andato per case a incontrare le persone che a causa di un trauma o di una malattia
o della vecchiaia, hanno perso alcune capacità per occuparsi autonomamente della
cura di sé e delle attività della vita quotidiana. Da luogo privilegiato dell’identità
personale e/o familiare, la casa diventa nel tempo anche luogo di lavoro e di in-
contro. Un crocevia tra diverse figure di cura che cambiano lungo le fasi della ma-
lattia o della disabilità: da quelle formali e professionali, le operatrici e infermiere
domiciliari, a quelle della vita quotidiana e informali, le mogli, le figlie, le nipoti,
le donne che nelle famiglie assolvono ai carichi e alle responsabilità maggiori, ma
anche le amiche, gli amici, le vicine di casa e, ovviamente, le «assistenti familiari»
immigrate. Dall’attività di ricerca emerge come lungo il confine tra le cure formali
e quelle informali85 ci sia una sorta di «zona d’ombra» in cui diverse caratteristiche
dei due campi si intersecano e sovrappongono86.
84 Ingrosso 2008
85 La distinzione di natura concettuale tra cure informali e formali, si riferisce alle cure che hanno
origine nei legami personali e a quelle che vengono erogate per ragioni strumentali (come l’esecu-
zione di un lavoro).
86 Bulmer, M. The social basis of community care cit.
87 Pasquinelli (2004).
88 Heidegger cit. in Carla Pasquinelli (2004).
89 Rampazi, M. “I mutevoli confini della domesticità nello spazio-tempo contemporaneo”, rela-
zione al seminario: La costruzione quotidiana della domesticità. Trasformazioni e continuità, Padova,
26 gennaio 2007, in http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/rampazi/.
629
90 Come spiega Rampazi, M. “I mutevoli confini della domesticità nello spazio-tempo contempo-
raneo cit. nel suo bel saggio sulla domesticità, si tratta dei confini tradizionalmente stabiliti dall’or-
dine domestico tra le zone della casa aperte al mondo esterno e quelle celate agli occhi dei visitatori
(proprio per nascondere l’impurità del corpo e «l’indecorosità della degenerazione fisica»).
630
problemi pratici. La capacità dei professionisti di lavorare «nella zona grigia» con-
siste anche nel saper ridurre le distanze sociali, nel farsi «mediatori di linguaggi»,
nel sapersi comportare anche come una «buona vicina di casa».
Le differenze tra i professionisti e chi si prende cura su base personale riemer-
gono, però, non solo per la diversa cornice temporale in cui i diversi soggetti ope-
rano – intervento puntuale e periodico, gli uni, impegno costante e quotidiano,
gli altri – ma anche per il tipo di conoscenze sulla cura che ognuno porta con sé. Se
le pratiche degli operatori professionali sono guidate dal paradigma medico (il cui
rischio è quello di colonizzare non solo la sfera dei servizi sociali, ma anche quella
informale), il lavoro al domicilio dell’utente apre una relazione con la matrice
domestica, quotidiana, familiare, informale, qualcuno dice, «materna», della cura.
Un altro paradigma, da cui ottengono visibilità le pratiche di cura (tra cui quelle
domiciliari e a lungo termine), in cui non è la guarigione, ma il benessere della
persona a costituire la finalità dell’azione.
631
sone, sia della famiglia sia della rete amicale, che possono rispondere a tali
bisogni. Al fattore “età” si accompagnano problemi di salute di diversa gravità
che inevitabilmente emergono in un percorso di assistenza che si protrae per
anni, decenni, una vita intera. Il gruppo delle donne anziane nel contesto
studiato, in maggior parte di derivazione sociale contadina, oggi in pensione,
si mostrano ancora restie a cercare un aiuto formale, ma, secondo l’opinione
espressa dalle operatrici professionali, «ne hanno assoluto bisogno». In assenza
di figli adulti nelle vicinanze, molte di loro non attivano le risorse del servizio
pubblico se non quando sono gratuite, e spesso nemmeno le opportunità
offerte dalle donne immigrate, se non per il minimo necessario;
• il gruppo delle donne adulte, invece, ci pone di fronte alla sfida della sostenibi-
lità del sistema informale. Il lavoro di cura può costituire una vera e propria
trappola, il cui rigido meccanismo scatta quando l’evoluzione della malattia
o disabilità costringe le donne di riferimento a uscire dal mercato del lavoro
per farsene carico. Conoscere le conseguenze personali (in termini di spazi
di libertà, di stile di vita), sociali (relazioni, perdita di ruolo sociale) ed eco-
nomiche (mancato reddito presente e futuro – la pensione –) di quella che
può talvolta apparire come una “non-scelta”, data la mancanza di alternative,
ci dà l’idea delle ingiustizie sociali che ancora si strutturano su questa que-
stione. Tra quelle che continuano a lavorare, più istruite della generazione
precedente, la “strategia di conciliazione” che viene delineata nei nostri casi
studio (e che è confermata dagli studi di settore) è quella di delegare il lavo-
ro di cura più “duro” (le attività di accudimento fisico e i lavori domestici)
e di mantenere in prima persona, le attività di contatto con l’esterno e di
accompagnamento ai servizi sanitari e sociali del territorio, nonché svolgere
un ruolo di coordinamento e controllo delle attività fatte da altri. Questa
strategia si è resa possibile essenzialmente per due fattori: l’offerta di lavoro di
cura a basso costo da parte di donne immigrate, l’offerta di assegni di cura da
parte del welfare pubblico che hanno sostenuto economicamente le famiglie
in questa scelta. La situazione delle donne adulte con un lavoro retribuito e
una forte motivazione professionale è molto più simile che non nelle passate
generazioni a quella degli uomini adulti e del loro ruolo nella cura. È questo il
caso di alcune figlie e figli con genitori anziani, come raccontano le operatrici
professionali sulla base della loro vasta esperienza con le famiglie.
Ma cosa viene richiesto a un familiare che deve assumere il ruolo del principa-
le caregiver? Benché non sia possibile ricostruire qui i processi graduali e dinamici
632
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91 Robles-Silva, L. “The Caregiving Trajectory Among Poor and Chronically Ill People”, Qualitative
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634
Elvira Reale
636
92 World Health Organnization, The World Health Report: Making a difference, Geneva 1999.
93 Reale, E. Prima della depressione. Manuale di prevenzione dedicato alle donne, Milano, Franco
Angeli, 2007.
637
638
639
Ciò detto vale come esempio concreto di come nella donna ogni suo pro-
blema di salute sia orientato, argomentato, spiegato solo mettendo al centro la
condizione biologica della maternità; ovvero la sua attività riproduttiva: futura,
attuale o passata.
Da tutto ciò, si può quindi valutare come nelle donne il sistema riprodut-
tivo non abbia solo la funzione propria specifica di riprodurre altri individui e
soddisfare le esigenze della continuità della specie; ma essa conta molto di più e
in campi molto più estesi. Il ciclo mestruale orienta la donna nella vita sociale e
di relazione; gli ormoni riproduttivi, rappresentati come fattori di rischio per la
salute, costituiscono la supposta base eziologica di molte patologie.
640
641
642
94 Il gruppo ministeriale (Ministero Pari Opportunità) coordinato da Elvira Reale ha svolto il suo
lavoro dal 1999 al 2003. Reale, E. coordina a tutt’oggi, il progetto “Una salute a misura di donna”
per la Regione Campania. AAVV, “Una salute a forma di donna”, in Reale, E. (a cura di) Atti del
gruppo di lavoro “ Medicina Donne Salute”, Dipartimento Pari Opportunità, Roma 2001 http://www.
salutementaledonna.it/updated.htm.
95 AAVV La mente, il cuore, le braccia e… Guida alla salute delle donne (a cura di) Reale, E.,
Commissione Nazionale Pari Opportunità, Roma 2003. http://www.pariopportunita.gov.it/index.
php?option=com_content&view=article&id=292:guida-alla-salute-delle-donne&catid=81:pubblica
zioni&Itemid=223
643
salute e malattia secondo il genere. Anche infatti quando i dati sulle donne sono
raccolti e sono disponibili, non sempre promuovono valutazioni adeguate.
Esistono molti dati sull’emergenza sanitaria “al femminile” (sulla depressione,
una vera epidemia femminile; sulle violenze e le loro conseguenze sulla salute;
sulle morti da HIV; sulle morti da patologie cardiovascolari e da tumore, ecc.).
Questi dati però in molti casi sono sottovalutati, non vengono presi in ade-
guata considerazione e non vengono trattati come emergenze.
Il senso di tutto ciò sembra riferirsi alla percezione del fenomeno patologico
nelle donne che, associato alla eziopatogenesi di tipo prevalentemente biologico,
viene considerato un evento naturale e perciò stesso poco modificabile e poco
rispondente ai presidi della prevenzione primaria.
La disparità di trattamento si individua allora nel pregiudizio scientifico che
attribuisce alla donna una prevalenza di fattori biologici nella valutazione eziologi-
ca e nella individuazione dei fattori di rischio, e all’uomo una prevalenza di fattori
eziologici e di rischio di tipo ambientale, sociale e lavorativo.
Le ricerche nel campo dello stress, delle malattie cardiovascolari, del cancro,
della depressione, delle malattie professionali indicano tutte un forte bias di genere
più difficilmente evidenziabile; esso si riferisce non tanto e non solo alle procedure
di misurazione e quantificazione dei fenomeni, quanto alle impostazioni generali
e alle ipotesi assunte nell’allestimento del campo di ricerca.
È stato osservato dal gruppo di lavoro (medicina, donne e salute) come vi sia
una precisa linea di demarcazione che divide il campo della ricerca: da un lato lo
studio sulle patologie a prevalenza maschile con i rischi connessi di tipo ambienta-
le, sociale e lavorativo; dall’altro lato le patologie a prevalenza femminile con i ri-
schi prevalentemente e in maggior misura attribuiti a fattori biologico-ormonali96.
E così vediamo che nelle patologie ad alto impatto tra la popolazione femminile
l’eziologia prevalente è quella biologica-ormonale: ciò vale per i tumori al femminile,
per la depressione, e anche ultimamente per le patologie cardiovascolari.
Mentre sono sottotaciute e/sottovalutate ipotesi e ricerche su fattori di rischio
psico-sociale e socio ambientale, e tra questi due fattori oggi emergenti: il lavoro
(comprensivo del lavoro per il mercato e il lavoro di cura/familiare) e la violenza
(con particolare riferimento a quella violenza familiare che è riconosciuta come la
più lesiva per la integrità psico-fisica delle donne).
Alla luce di queste osservazioni critiche del gruppo italiano sulla medicina
gender blind, si possono individuare i nuovi criteri attraverso cui leggere i processi
96 Si tratta del fenomeno della segregazione di genere delle eziologie. Cfr.: Reale, E. Prima della
depressione cit; Reale, E.; Carbone, U. Il genere nel lavoro. Valutare e prevenire i rischi lavorativi nella
donna, Milano, Franco Angeli, 2009.
644
645
Rita Biancheri
1. Il quadro teorico
Nell’ultimo decennio la sociologia ha mostrato, sottolineandone la problematici-
tà, un divario tra entità e profondità dei cambiamenti e la propria “cassetta degli
attrezzi” in grado di interpretarli; richiamando anche la necessità di superare gli
steccati teorici e metodologici, che limitano le contaminazioni nelle diverse bran-
che del sapere, per aprire un dialogo necessario nel campo della ricerca al fine di
migliorarne gli esiti conoscitivi.
Per quanto riguarda l’ambito che studia la salute e l’organizzazione dei sistemi
sanitari, i diversi approcci hanno registrato un ritardo nell’affrontare tematiche
che, sia al proprio interno o in altri settori, avevano dimostrato un inconfutabile
valore euristico; fra questi, senza dubbio, la dimensione di genere ha tardato a di-
ventare un campo affermato di indagine nella scienza medica ma anche negli studi
appartenenti più propriamente al terreno della sociologia della salute.
Proprio in questo ramo applicativo, che ha avuto un’affermazione lenta e tar-
diva nel nostro paese resa evidente da una scarsa letteratura e da un dibattito quasi
del tutto assente, faticosamente si sta colmando il vuoto teorico, anche in seguito
a una più attiva collaborazione fra sociologi e medici e al confluire, pur da diverse
strade, di percorsi che riconoscono alle differenze un loro proprio statuto, confu-
tando l’assunzione – data per scontata – della neutralità del soggetto.
È ormai da più di cinquant’anni, come dimostrano gli studi in questo settore,
che tale branca del sapere si è costruita una maggiore autonomia disciplinare,
modificando e integrando il suo oggetto di studio, attraverso un progressivo spo-
stamento del proprio interesse verso una dimensione più ampia della “salute”. Ne
97 Da questo interesse è nata la Commissione “ Donne e salute”, di cui ho fatto parte, promossa dalla
Ministra Livia Turco che aveva come obiettivo, fra gli altri, quello di promuovere nella Facoltà di
Medicina e Chirurgia insegnamenti, corsi di specializzazione e master che tenessero presente la diffe-
renza di genere nell’insorgenza delle malattie, nella cura, nella risposta ai farmaci e nella prevenzione.
Questa Commissione però è decaduta con la fine del Governo Prodi e una nuova è stata istituita con
D.M. 23 ottobre 2008 composta da 9 membri (8 uomini e 1 donna), presso il Dipartimento delle
Pari Opportunità. Tra gli obiettivi individuati si leggono: indicare azioni positive per la promozione
delle pari opportunità delle donne immigrate; formulare proposte per l’attuazione di un programma
diretto a proteggere l’infanzia e la donna, anche attraverso il contenimento dei tagli cesarei; proporre
misure per garantire agli anziani gli stessi diritti offerti ai più giovani; indicare azioni positive volte
a offrire pari opportunità ai pazienti affetti da malattie neoplastiche, allo scopo di implementare sul
territorio strutture dedicate, profilassi adeguate e tempestività nella diagnosi e nella cura; valutare
misure per incrementare i trapianti d’organo attraverso una corretta e capillare informazione sulle
donazioni e per garantire un equilibrio più certo di genere, di anagrafe e di territorio tra i destina-
tari delle donazioni; formulare proposte al Ministro delle Pari Opportunità in tema di iniziative da
adottare per la programmazione dei fondi strutturali europei; su richiesta del Ministro delle Pari
Opportunità, esprimere pareri su materie inerenti le competenze della Commissione; proporre cam-
pagne promozionali e informative. Risulta evidente che la dimensione di genere nella salute non è
fra le finalità della nuova Commissione e pertanto anche l’azione di promozione, in questa direzione,
risulta significativamente rallentata, rispetto all’impulso dato dal gruppo di lavoro precedente.
648
649
99 Peretti, A. Storie di donne non comuni. Le prime laureate in Medicina dell’Università di Pisa, Pisa,
Plus, University Press, 2010.
100 Biancheri, R.; Dell’Osso, L. (a cura di) Da Esculapio a Igea. La dimensione di genere nella salute. Pisa,
Plus university press, 2007 . Biancheri, R “Introduzione” in Peretti, A. Storie di donne non comuni. Le
prime laureate in Medicina dell’Università di Pisa, Pisa, Plus, University Press, 2010.
650
101 È in programmazione un numero monografico della rivista Salute e Società, da me curato, dal
titolo Genere e salute.
651
Bibliografia di riferimento
Biancheri, R.; Dell’Osso, L. (a cura di) Da Esculapio a Igea. La dimensione di genere
nella salute. Pisa, Plus niversità press, 2007 .
Biancheri, R “Introduzione” in Peretti, A. Storie di donne non comuni. Le prime
laureate in Medicina dell’Università di Pisa, Pisa, Plus, University Press, 2010.
Peretti, A. Storie di donne non comuni. Le prime laureate in Medicina dell’Università
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Italia, Bologna, Il Mulino, 2008,
652
Maria Conforti
4 Su questi temi gli importanti contributi di Pancino, C. Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assi-
stenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 1984; Filippini,
N.M. “The Church, the State, and Childbirth: the midwife in Italy during the Eighteenth Century”,
in Marland, H. (eds.) The Art of Midwifery: early modern midwifes in Europe, London, Routledge,
1993, pp. 153-175. Mi permetto di rinviare anche a Conforti, M.; Gazzaniga, V. “Lunga durata e
innovazione nella formazione dell’ostetrica: testi classici e tradizione moderna”, in Ferrari, M.; Maz-
zarello, P. (a cura di) Formare alle professioni. Figure della sanità, Milano, Angeli, 2010, pp. 147-170.
656
vare e ricostruire lo sguardo dei medici e della medicina teorica e pratica riguar-
do a malattie “femminili”, gravidanza e parto non esaurisce certo la questione
della medicalizzazione e della “patologizzazione” del corpo femminile, ma può
costituire un utile punto di partenza per indagarne ulteriormente alcuni snodi
e momenti. Dagli interventi qui presentati, pur molto diversi, emergono alcuni
temi comuni, che a nostro parere giustificano l’adozione di una periodizzazione
“lunga”: tra questi spicca per la sua persistenza quello del rapporto complesso tra
il sapere femminile sulla gravidanza e sul parto, e la sua assunzione all’interno
della medicina colta. Anche se questo rapporto non può essere descritto in ter-
mini strettamente ideologici – di una polarizzazione di genere che si trasforma
ipso facto in polarizzazione valoriale, di una contrapposizione tra sapere “positivo”
perché subordinato e pratico, e negativo perché dominante e teorico – esso appare
un dato non superato neanche dalle ricerche recenti, e segnala, indirettamente, il
valore di acquisizioni storiografiche e politiche di cui tutte noi, in un certo senso,
e ancor più oggi, siamo figlie.
657
Valentina Gazzaniga
5 Per una discussione sulla costituzione e datazione del nucleo “ginecologico” di testi in CH, cfr.
Grensemann, H. Hippokratische Gynäkologie: die gynäkologischen Texte des Autors C nach den pseu-
dohippokratischen Schriften De Muliebribus I, II und De Sterilibus, Herausgegeben und übersetzt von
Hermann Grensemann, Imprint Wiesbaden, F. Steiner Verlag, 1982. Id. “Kennzeichnet der erste Teil
von De natura muliebri eine selbständige Stufe der griechischen Medizin?”. in Medizinhistorische
Journal 1989; 24: 3-24. Jouanna, J. Hippocrate, Paris, Fayard, 1992.
6 Lonie, I.M. The Hippocratic Treatise ‘On generation’, ‘On the nature of the Child’, ‘Disease IV’.
Berlin and New York, de Gruyter, 1981; Campese, S.; Sissa, G.; Manuli, P. (eds.) Madre materia.
Sociologia e biologia della donna greca, Torino, Boringhieri, 1983; Girard, M.C. “La femme dans
le Corpus Hippocratique”, in Cahiers des Études Anciennes, 1983, pp. 69-80; Hanson, A.E. “The
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Woman. Reading the Female Body in Ancient Greece, London and New York, Routledge, 1998.
7 Angeletti, L.R. “Figure geometriche del corpo”, in Dionigi, I. (a cura di) I classici e la scienza,
Milano, BUR, 2007.
8 CH, Reg. I, 27; CH, Morb. Mul. 1.1.
9 CH, Nat. Mul. 2, 8, 35.
10 CH, Morb. Mul. I 17, VIII 56; I 8, VIII 34.
660
mortalità femminile in fase gravidica registrati nel primo libro delle Epidemiae e
studiati da Grmek11, e quelle invece che con la gravidanza hanno una connessione
strettissima, che in genere sono il prodotto dell’alterazione del frutto del processo
riproduttivo, in grado di influire sul corpo della madre.
L’alterazione del tempo della gravidanza è uno dei topoi che ritornano con
maggior frequenza sia nei testi ginecologici del Corpus sia in Epidemiae12. Tra que-
ste, il caso più eclatante è quello della mola, una patologia abbondantemente de-
scritta tanto in Morbis Mulierum quanto nella Generazione degli animali13. Nelle
descrizioni ippocratiche è riportata con le caratteristiche della lunga durata e della
sostanziale inguaribilità, sotto l’apparenza di una gravidanza pretermessa fino a
sfiorare la durata di anni, due, talvolta tre. Le donne che ne sono affette sono
riconoscibili all’indagine medica perché il loro ventre si ingrossa come a seguire il
regolare svolgimento di una gravidanza, mentre il seno, turgido come stesse pro-
ducendo alimento per la lattazione, è in realtà sterile; al termine dei tre-quattro
mesi che costituiscono il limen entro cui il feto inizia a muoversi nell’utero ma-
terno la madre non percepisce alcun tipo di sensazione legata al movimento del
figlio, che rimane immobile e muto nel corpo della madre.
L’autore ippocratico parla, dunque, di ciò che somiglia a una gravidanza:
una “gravidanza orribile”, che invece di sviluppare un bambino, sviluppa una
o più masse informi, “carni”, determinando la morte della madre o una con-
clusione che, pur non essendo un parto, del parto replica l’esito finale, il “ver-
samento di sangue”; sangue non puro, non fluido, ma abbondante e pieno di
caruncole (sarkôdes), di solito inarrestabile e mortale. La causa ippocratica di
questa gravidanza irregolare è in mestruazioni abbondanti che si uniscono a un
seme (gonèn) scarso e “ammalato”, ciò che causa un concepimento “non regola-
re”. La descrizione della medesima malattia in GA (Generazione degli animali)
assume caratteri solo apparentemente simili riguardo all’eziologia del male, che
risponde negli scritti aristotelici a una più generale teoria della “fisiologia man-
cante e difettosa” enunciata, seppure non con assoluta coerenza, nell’aristotelico
“corpo delle donne”14. L’eziologia del male è qui del tutto differente da quella
11 Grmek, M.D. Le malattie all’alba della civiltà occidentale, Bologna, Il Mulino, 1983.
12 Hanson, A.E. “The eight months’ child and the etiquette of birth: obsit omen!” in Bullettin of
History of Medicine 1987, pp. 589-602; Angeletti, L.R. “De octimestri partu: Is the eighth-month
disease of Hippocratic medicine related to pregnancy-induced hypertension?”, in Actas del XXXIII
Congreso Internacional de Historia de la Medicine, Granada-Sevilla, 1-6 septiembre, 1992, pp. 921-
938.
13 CH, Morb. Mul. I 71; VIII, 149, 71 e 447, 223; GA 775b25-776b14.
14 GA 775 b25-776b14; Manuli, P. “Donne mascoline, femmine sterili, vergini perpetue. La gineco-
logia greca tra Ippocrate e Sorano”, in Madre materia cit., pp. 162 ss.
661
15 GA 772a 35-b1.
16 GA 771b28-772b 25.
662
17 Si rimanda qui alla discussione del tema in Manuli, P. op. cit., pp. 167 ss.
18 CH, Vict. 1.27, Li. VI 500, 10-22; CH, Artic., 53.
19 Manuli, P. op. cit., p. 164.
20 Kerenyi, K. “Zeus and Hera. Archetypal Image of Father, Husband and Wife”, in Id. Archetypal
Images in Greek Religion, Princeton, Princeton University Press, 1975.
663
divergenza di nomi circa questi dei. La stessa dea, infatti, alcuni la chiamano Iside,
altri Demetra, altri Thesmophoros, altri Selene, altri Hera, altri Neith»21. Il tema
della dea olimpica in cui sopravvivono i caratteri remoti di una divinità ctonia e
pre-ellenica è ben segnalato da un interessante lavoro di Joan V. O’Brien sull’im-
magine della divinità nei testi omerici22.
Era conserva traccia evidente di questa sua origine pre-olimpica nei testi ome-
rici, nell’Inno ad Apollo e nella stessa opera esiodea; anche nella sua funzione
olimpica, essa è connessa a genealogie mostruose e titaniche. Le fonti sono ab-
bastanza concordi, inoltre, nel segnalarla come colei che genera al di fuori della
contribuzione maschile; lo stesso Ares, che dovrebbe essere figlio di Zeus, con la
sua gemella Eris, in Iliade IV, 441, nei Fasti di Ovidio e nel primo Mitografo Va-
ticano sarebbero stati da lei concepiti per partenogenesi, toccando «certi fiori», o
una lattuga23. Due figli li ha certamente generati in sé sola e da sé sola: offesa con
Zeus che ha prodotto Atena, Era chiede alla «terra e al cielo e agli dei Titani che
stanno sotto la terra attorno al grande Tartaro…di garantire a me un figlio nosphi
Dios (senza Zeus), in nessun modo a lui inferiore per forza». Alla richiesta segue
il gesto, ripetuto, di coprire con le mani la terra e la nascita di Tifone, la creatura
dissimile («una creatura non simile agli dei né ai mortali»), che viene immediata-
mente condotta dalla madre presso il serpente Pitone «come si porta un male ad
un altro male»24. Con Tifone Era inizia a configurarsi come oppositrice dell’ordine
olimpico e antagonista di Zeus; urlare, toccare la Terra, chiedere il contributo di
Titani e Arimoi difficilmente appaiono come gesti tipici di una dea della fertilità
positiva, e il frutto dei poteri occulti della terra è lì e si vede, un teras, qualcosa più
simile all’eidos dell’animale che a quello dell’uomo, in grado di scatenare le forze
segrete della natura e di convogliarle, come strumento di offesa, nelle mani della
madre divina.
L’altro figlio di Era è Efesto; “fatto”, di nuovo, da sola, secondo la Teogonia
esiodea e il frammento 28 di Crisippo, gettato dalle cime del monte Olimpo per-
ché debole e mal fabbricato, come i bambini amorphoi di Gen./Natura pueri25. Efe-
sto è il contraltare di Tifone, la forza buona e civilizzata del fuoco contro i poteri
oscuri che vengono dall’interno della Terra, la capacità di forgiare i metalli, non
solo per creare strumenti di offesa, ma anche per creare bellissimi gioielli e suppel-
664
lettili divine. Figli di sola madre: nella mitologia, ricorda Dean Jones, altri casi di
partenogenesi in Athena e Dioniso sembrano pertinenti a Zeus. Ma perfino il pa-
terno assoluto ha bisogno di un corpo femminile in cui generare; Metis e Semele
sono assolutamente necessarie per avviare il processo gravidico. Era ha un potere
infinitamente più vasto; Tifone, Pitone ed Efesto sono creazioni solo sue, tutte del
materno. L’apporto del padre non esiste; è il trionfo della partenogenesi. Ma una
partenogenesi imperfetta: quando le donne generano da sole, nascono creature
mostruose o difettose, che incarnano poteri reconditi, il possesso del fuoco, la ri-
volta contro l’ordine, il pericolo assoluto del sovvertimento, l’abbandono del lógos.
La riflessione aristotelica, come, d’altro canto, la medicina e la farmacologia
ginecologica ippocratica, una delle creazione più antiche del CH, nella teorizza-
zione di una fisiologia imperfetta e di un corpo mancante, attingerebbero ancora
ad una forma di sapere «rifiutato e rimosso»26, provenga esso da un mondo tradi-
zionale e da una cultura teurgica o da epoche più alte e da una dimensione mitica;
in modo da confermare che anche una “scienza” del corpo femminile non nasce
se non a cavallo dell’antinomia tra dimensione magica e razionale, tra visione
teurgica e visione razionale del mondo, confermando «il profondo radicamento
dell’arte della guarigione nel mondo greco nelle fibre più nascoste del tessuto cul-
turale, tanto che la medicina vi appare come uno dei tanti ambiti in cui si articola
il rapporto dell’individuo con il più ampio macrocosmo»27.
26 (a cura di) Ippocrate. Natura della donna. Milano, BUR, 2000, p. 60. Si cfr. anche Angeletti, L.R.;
Gazzaniga, V. “Theos tyka agatha. Iscrizioni cliniche ed apologia nella medicina teurgico templare”,
in Medicina nei secoli 2002, pp. 337-357.
27 Andò, V. op. cit., p. 61. Cfr. Lloyd, G.E.R. Magic, reason, and experience: studies in the origin and
development of Greek science, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1979.
665
Michela Fazzari
Nel corso del XVII secolo si avviato il processo che ha trasformato il momento
del parto anche in un tempo di ‘sperimentazione scientifica’ e in cui si è definita
professionalmente la figura del chirurgo ostetrico. Philippe Mauriceau, ostetri-
co di corte del Re Sole, è considerato generalmente il primo chirurgo a essersi
specializzato e a esercitare solo nella pratica ostetrica. Egli pubblicò nel 1668 un
famosissimo trattato di ostetricia dove descriveva e illustrava tra i ferri del mestiere
indispensabili della nuova professione sanitaria un ‘arnese’ molto particolare28. Al-
lineata in bell’ordine tra gli uncini, i bisturi, i cucchiai e lo speculum matricis della
tradizione ginecologica figurava infatti la «siringa battesimale», meglio conosciu-
ta come siringa di Mauriceau, dal nome del suo inventore. Oggetto in sé molto
semplice e ‘ovvio’, era una siringa metallica con una cannula ricurva per adattarsi
alla forma dell’utero, terminante con un bottone a forma di oliva su cui erano
praticati diversi forellini per spruzzare l’acqua battesimale direttamente nell’utero
delle partorienti.
La cosa più interessante di questo insolito “oggetto di scienza” – destinato al
battesimo intrauterino nei parti a rischio per la vita della madre e del bambino
– è proprio la sua collocazione iconografica: la siringa battesimale si mimetizza
perfettamente, e molto probabilmente volutamente, tra gli altri ferri chirurgici.
All’epoca del Traité le siringhe metalliche venivano comunemente usate per il cli-
28 Mauriceau, F. Les Maladies des Femmes grosses et accouchées. Avec la bonne et véritable Méthode de
les bien aider en leurs accouchemens naturels, & les moyens de remédier à tous ceux qui sont contre-nature,
& aux indispositions des enfans nouveau-nés, Henault, d’Houry, de Ninville, Coignard, Paris,1668.
29 Un esame delle istruzioni per battezzare presenti nei manuali ostetrici si trova in Pancino, C. Il
bambino e l’acqua sporca cit., pp. 76-81, ove si legge che Giuseppe Montagna includeva tra gli stru-
menti ostetrici «la sciringa uterina per battezzare l’infante se occorresse», come pure Joseph Plenck
nel 1796. Nel 1791 Orazio Valota si riferisce invece a uno «schizzetto» per battesimo, mentre An-
tonio Bigeschi nel 1819 raccomanda di preparare l’acqua pura per il sacramento. In appendice al
libro è pubblicato, inoltre, l’indice delle lezioni di Antonio Piccoli, insegnante di ostetricia a Verona
tra il 1765 e il 1767: la XX lezione esamina «in quali casi può la levatrice battezzare. Istruzione
secondo la dottrina di s. Carlo Borromeo, e di Benedetto XIV, sommo pontefice». Benedetto XIV
aveva infatti legittimato il battesimo in utero. Si veda anche Betta, E. “Il corpo dell’anima. Chiesa e
terapie della gravidanza nell’Ottocento”, in Storia delle donne, 2005, 1, pp. 169-185.
30 Tra i filosofi della scienza è diventato d’uso comune indicare quelle teorie/ enunciati non empi-
rici che risultano fattori determinanti per lo sviluppo della conoscenza scientifica con il termine di
“metafisiche influenti” (ad esempio l’atomismo, il meccanicismo e lo storicismo), ma la casistica ab-
braccia un campo ben più vasto ed articolato. Per un’analisi introduttiva si veda Boniolo, G.; Vidali,
P.; De Anna, G. Introduzione alla filosofia della scienza, Pearson Paravia, Bruno Mondadori, 2003.
668
problema extrascientifico che gravava fortemente sulla scena del parto era allora il
destino spirituale del feto in pericolo di vita; poiché, in genere, questo problema si
poneva quando anche la madre rischiava di morire di parto, la prassi che il chirurgo
o la levatrice dovevano seguire in questi drammatici momenti era molto rilevante e
venne a essere oggetto di un acceso dibattito tra Mauriceau e un altro noto ostetrico
della corporazione parigina di S. Cosma, Philippe Peu. In breve, nel suo Traité,
pubblicato in più edizioni fino alla metà del Settecento, Mauriceau rifiuta catego-
ricamente di considerare il taglio cesareo su madre viva una soluzione legittima per
portare alla luce un bambino a rischio di morte per garantire un battesimo valido e
quindi la sua vita spirituale. Questa era infatti una delle motivazioni spesso accam-
pate dai fautori della sperimentazione del taglio cesareo da vivo.
Per sostenere la compatibilità della sua posizione anticesarista, fondata sulla
convinzione dell’impossibilità della sopravvivenza della madre, Mauriceau mise
a punto invece la sua siringa e la pose nella tavola a stampa del Traité tra i ferri
ostetrici. Questo ‘pseudo-strumento’ viene presentato così come un elemento im-
prescindibile tra gli strumenti necessari all’operatore di parti. L’ostetrico francese
se ne serve per dare delle precise indicazioni deontologiche ai suoi colleghi: non
praticare mai il cesareo su donna viva. Di conseguenza, con una siringa battesi-
male nella borsa dei ferri, ogni chirurgo od ostetrica poteva risolvere qualunque
dubbio etico e salvare la vita terrena della madre, anche a scapito della vita terrena
del figlio. Questo generalmente significava, purtroppo, ricorrere alla terribile pra-
tica della craniotomia, per facilitare la quale Mauriceau inventò successivamente
anche un apposito tire-tête. La siringa diventava quindi, di fatto, un deterrente alla
sperimentazione del cesareo da vivo.
Mauriceau rimase fedele alla medicina ippocratico-galenica e ritenne delle
fantasticherie le scoperte di De Graaf e la teoria ovista. Nel suo caso, la siringa bat-
tesimale non si accompagna all’uso del microscopio e alle ‘metafisiche dell’embrio-
ne’ che ne sono state influenzate, anche se erano già ampiamente circolanti ai suoi
tempi, come invece succederà a metà del Settecento con Emanuele Cangiamila. Il
nesso tra i due autori è in ogni caso preciso: fino a metà Settecento il manuale di
Mauriceau era uno dei soli tre testi di ostetricia circolanti in Italia, e Cangiamila
lo conosceva bene e lo citava espressamente per la siringa battesimale. Il teologo
siciliano, autore di una famosa Embriologia Sacra, fa convergere nella sua opera
un’aggiornata conoscenza delle principali opere di medicina e ginecologia con una
sicura padronanza dei testi di medicina legale, teologia morale e sacramentale e
diritto canonico, costruendo su questa impalcatura ‘pluridisciplinare’ una serrata
opera di propaganda del taglio cesareo per il battesimo dei feti abortivi e non nati,
cioè non partoriti naturalmente.
L’importanza dell’opera di Cangiamila, tradotta in più lingue e pubblicata
anche in compendio, non è sfuggita agli storici, che ne hanno sottolineato la stra-
669
670
le immagini dei diversi stadi embrionali di Bianchi, ma non la tavola nella sua
disposizione originaria. Il teologo siciliano crea al contrario una serie ordinata
dei diversi stadi della vita fetale a partire dall’uovo a tre giorni dalla fecondazio-
ne, in cui sembra addirittura aver lievemente accentuato, rispetto all’originale,
il segno dell’embrione al centro dell’uovo. Così organizzate e disposte in fila, le
immagini ben comunicano il continuum dello vita fetale e rafforzano nel letto-
re la convinzione di uno sviluppo preformistico dell’embrione, idea centrale su
cui Cangiamila fondava la necessità ‘scientifica’ che imponeva la diffusione del
taglio cesareo anche su donna viva. Il feto va progressivamente umanizzandosi e
ingrandendosi fino a diventare un piccolo putto, ma c’è sempre stato, visibile agli
occhi di tutti col microscopio. Si tratta di un dato scientifico irrefutabile. Tuttavia,
maliziosamente, Cangiamila dimentica di dire che Bianchi non aveva mai visto
personalmente un embrione preformato di tre giorni, e lascia cadere la possibilità
che la ‘testimonianza iconografica’ sia in realtà un artefatto. In fondo, se si vede un
embrione umano a tre giorni è molto probabile che sia animato; e questo è quel
che serve per sostenere la necessità del taglio cesareo su donna viva, se c’è pur solo
una remota possibilità che vi sia un «bambolino» da guadagnare alla vita eterna.
La centralità della tavola embriologica nell’opera di Cangiamila e il suo ruolo
di ‘oggettivazione’ scientifica di una posizione etica sono facilmente riconoscibili,
anche se il teologo siciliano, significativamente quanto erroneamente spesso defi-
nito medico e gesuita, ammette che l’animazione del feto è un fatto spirituale che
nessun microscopio più rivelare. La siringa di Mauriceau, continua Cangiamila,
potrebbe essere un antidoto alla necessità del taglio cesareo, ma solo se il feto è
a uno stadio avanzato della gravidanza. Un feto animato dal concepimento esige
però una tutela giuridica e spirituale sin dal primo istante di vita, e quindi l’unica
soluzione nei parti a rischio rimane l’intervento di estrazione chirurgica. Viste
le resistenze della Chiesa al battesimo dei non nati e degli aborti, e la condanna
delle tesi di Fiorentini, Cangiamila consiglia prudentemente il cesareo solo dopo
il quarantesimo giorno dal concepimento, termine post quem il feto era certamente
animato sia per la teologia tomista che per la Penitenzieria romana.
In conclusione, tra i fattori che hanno contribuito all’importante trasforma-
zione della concezione della nascita sfociata nella sperimentazione del taglio cesa-
reo su donna viva si trova certamente anche la diffusa sensibilità sociale nell’Europa
cristiana per la questione della salvezza eterna dei bambini e, conseguentemente,
per la questione del battesimo, come testimonia la diffusione nell’arco alpino dei
santuari delle resurrezioni studiati da Jacques Gélis. Sul versante della professione
medica e paramedica quest’ultimo problema si è reificato quando Mauriceau ha
inventato la siringa, un ‘oggetto’ dallo statuto ‘intermedio’ tra quello di strumento
scientifico e quello di utensile. Banale sussidio pratico per una operazione spiri-
tuale, la siringa servì indirettamente anche a orientare le scelte professionali e la
671
34 Su questo aspetto si veda Ratcliff, M. Free thoughts on Instruments and Society, in Science for and
against Enlightenment. Studies prompted by the career of Jean-André Deluc (1727-1817), Genève et
Coppet, 16-avril 2008. Si possono vedere anche Van Helden, A. “The Birth of the Modern Scientific
Instrument”, in Burke, J. (eds.) The Uses of Science in the Age of Newton, 1983, pp. 49-84; Heilbron,
J.L. “Introductory Essay”, in Frängsmyr, T.; Heilbron, J.L.; Rider, R.E. (eds.) The Quantifying Spirit
in the 18th Century, 1990, pp. 1-23; Warner, D.J. “What Is a Scientific Instrument, When Did
It Become One, and Why?”, in British Journal for the History of Science, XXIII (1990), pp. 83-93;
Bennett, J. “Knowing and doing in the sixteenth century: What were instruments for?”, in British
Journal for the History of Science, XXXVI (2003), pp. 129-50.
672
Clotilde Cicatiello
Premessa
L’Ottocento è un secolo decisivo nel processo di trasformazione che vede la socie-
tà italiana passare da una realtà in cui donne e uomini svolgevano ruoli diversi,
disuguali ma complementari, a un’organizzazione sociale nella quale comincia-
va a venire messa in discussione la separazione rigida tra ruolo maschile e ruolo
femminile. Profondi mutamenti si hanno anche nel mondo del lavoro e nella sua
apertura all’universo femminile. Facendo un passo indietro va detto che nel Sette-
cento si guardava alla donna con occhi diversi. Si partiva dalla convinzione della
‘inferiorità femminile’ per cui le donne costituivano «esemplari minori e sfocati
di un modello che si realizzava nella sua pienezza soltanto nel sesso maschile»35.
Da qui l’emarginazione graduale delle donne dal lavoro. Esse vengono delegate
a un ruolo di subalternità fondato su quella che Angela Groppi definisce una
tautologia, secondo la quale le donne fanno ‘lavori da donna’ e ottengono ‘salari
da donna’. È solo a Ottocento inoltrato che questa situazione subisce un cambia-
mento con l’affermarsi di una nuova concezione fondata sulla differenza e sulla
complementarietà fra i sessi sul terreno della riproduzione. Corpi femminili e
maschili si caratterizzano ormai per le diversità piuttosto che per le somiglianze.
Si tratta del passaggio da una visione del corpo e della mente femminile basata
sull’immagine della ‘minorità’ a una nuova costruzione fondata invece sull’idea
35 Pescarolo, A. “Il lavoro e le risorse delle donne in età contemporanea”, in Groppi, A. (a cura di)
Il lavoro delle donne, Roma, Laterza, 1996, pp. 299-344.
della ‘differenza’. Problema centrale diventa quello della protezione del corpo della
donna dagli sforzi eccessivi che potrebbero minare la sua capacità riproduttiva.
Passaggio questo che viene a definire nuovi criteri di inclusione e di esclusione del-
le donne dal mondo del lavoro. La nuova idea della differenza, infatti, apre nuovi
canali occupazionali che proiettano oltre i confini della famiglia i caratteri della
figura materna. Il nuovo criterio di divisione del lavoro esclude le donne dai lavori
manuali più faticosi incompatibili con il ruolo di madri, ma le orienta verso nuovi
impieghi subalterni, non manuali e rispettabili, oppure verso nuove professioni
di educazione e di cura. Nel mondo delle professioni vengono conquistati spazi
soprattutto nei campi della medicina e dell’insegnamento. Secondo la storiografia
anglosassone è la professione di ostetrica il canale attraverso il quale le donne sono
entrate nel mondo della medicina.
Il parto per secoli è stato considerato dagli uomini un affare di donne, legato
alla natura e oggetto di una cultura sviluppata e trasmessa solo fra donne. Un
sapere, quindi, di cui la medicina ufficiale per lungo tempo si è disinteressata,
considerando l’ostetricia una scienza ‘impura’ perché impuro era il corpo della
donna. Questa situazione tra il Settecento e l’Ottocento conosce profondi cambia-
menti36. È questo il momento in cui l’ostetricia comincia a definirsi come scienza
e a ritagliare il proprio spazio nel più vasto campo della ginecologia medica. In
Francia segnali di mutamento si possono registrare già all’inizio del XVIII secolo.
In Italia, invece, l’ostetricia si sviluppò nella seconda metà del secolo, e nel Regno
di Napoli i primi segni di interesse al parto si verificarono a partire dai primi anni
dell’Ottocento37.
L’Ottocento sarà per Napoli un secolo determinante in quanto quello del-
la levatrice passerà da mestiere esclusivamente al femminile a centro di interesse
del mondo medico. Sul corpo femminile, sulla sua cura e la sua tutela, si verrà
a fondare la scissione tra teoria e pratica medica in un binomio contrapposto e
caratterizzato per generi: alle donne l’esperienza del corpo, agli uomini la sua co-
noscenza astratta e la sua manipolazione mediata da strumenti. L’intento è quello
di ridefinire le tecniche e i personaggi della scena del parto con l’insinuarsi della
figura del chirurgo.
Gli studi già compiuti da Claudia Pancino e da Alessandra Gissi hanno trac-
ciato un quadro del cammino compiuto dalle levatrici in Italia nel corso dell’Ot-
36 Cfr. Pizzini, F. (a cura di) Sulla scena del parto: luoghi, figure, pratiche, Milano, Franco Angeli,
1981; Ead. Le culture del parto, Milano, Feltrinelli, 1985; Filippini, N.M. “Levatrici e ostetricanti a
Venezia tra Sette e Ottocento”, in Quaderni storici, 58, 1985, pp. 149-180.
37 Guidi, L. “Levatrici ed ostetrici a Napoli: storia di un conflitto tra 18 e 19 secolo”, in Frascani, P.
(a cura di) Sanità e Società. Abruzzi. Campania. Puglia. Basilicata. Calabria. Secoli XVII-XX, Udine,
Casamassima, 1990, pp. 103-130.
674
38 Pancino, C. Il bambino e l’acqua sporca: storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche
(sec. 16-19), Milano, Angeli, 1984.
675
diplomate, le quali comprendono che un’aperta opposizione non può che nuocere
loro. A questo scopo accettano un ruolo di subalternità che, però, non deve essere
indice di dequalificazione.
Questo percorso a Napoli sarà caratterizzato da conflitti e tensioni. Emblema-
tiche sono le vicende legate all’apertura di una Casa di Maternità e di una scuola di
levatrici nella Real Casa Santa dell’Annunziata. Nel 1872 il governatore dell’Isti-
tuto, Nicola De Crescenzio, avanzò la proposta di creare un reparto di Maternità
per tutelare la donna che doveva partorire e una scuola per levatrici cui destinare
un certo numero di alunne della casa. Dopo varie esitazioni la proposta fu in parte
attuata nel 1888. Si procedette, infatti, all’apertura di una Casa di Maternità,
mentre la scuola di levatrici non fu mai aperta per mancanza di mezzi e locali.
È chiaro che gli equilibri e gli interessi in gioco furono altri. Alla base dell’op-
posizione vi fu il timore della concorrenza che la nuova scuola avrebbe potuto fare
a quella degli Incurabili e dell’Ospedale clinico. Si temeva che gli equilibri di pote-
re già consolidati potessero essere alterati dalla nuova istituzione. Ecco perché nel
1896 la Giunta Provinciale Amministrativa, preoccupata dalla eccessiva mortalità
dei bambini nel brefotrofio, avviò un’inchiesta per conoscere l’entità e le cause
di tale fenomeno. A conclusione dell’inchiesta venne proposto lo scioglimento
dell’Amministrazione, che ebbe luogo con R.D. 31 maggio 1897. Fu nominato
un Regio Commissario che dispose la sospensione della Maternità e ne propose la
soppressione. Gli interessi in gioco, però, come già detto, erano altri. Tra le mo-
tivazioni addotte per la soppressione si sottolineava il fatto che nella città di Na-
poli esistevano già due Case di Maternità, che provvedevano ai bisogni dell’intera
Provincia, per cui mai era stata sentita la necessità di aprirne una terza. È evidente
che la Casa dell’Annunziata si ritrovava suo malgrado a fare concorrenza ad altri
Luoghi Pii dove «a solo scopo scientifico e non sociale erano operanti case di sgra-
vo per partorienti»39. Per questo motivo l’amministrazione propose una riforma
allo Statuto dell’Annunziata nella quale si sottolineava la diversa funzione della
Maternità rispetto a quelle già esistenti. Le maternità annesse ai Brefotrofi, infatti,
avevano un fine sociale che era quello di agevolare i riconoscimenti dei figli da
parte delle madri. E che fosse così lo comprovava «il breve esperimento avuto nei
sette anni di esistenza della Maternità dell’Annunziata in cui si ebbero 66 bambini
riconosciuti, e cioè il 10% sul totale delle ricoverate»40. Sottolineando la diversità
di funzione dell’Annunziata si lasciava trasparire anche la volontà di non voler
39 Archivio Storico Municipale di Napoli (d’ora in poi ASMUN), Fondo ex Real Casa Santa dell’An-
nunziata, Divisione IV (Affari generali), Sezione I (Segreteria), Categoria 4 Deliberazioni e appunta-
menti del governo, INC. 135, del. 1.
40 ASMUN, Fondo ex Real Casa Santa dell’Annunziata, Divisione IV (Affari generali), Sezione I
(Segreteria), Categoria 4 Deliberazioni e appuntamenti del governo, INC. 137, del. 2.
676
41 ASMUN, Fondo ex Real Casa Santa dell’Annunziata, Divisione IV (Affari generali), Sezione I
(Segreteria), Categoria 4 Deliberazioni e appuntamenti del governo, INC.133, del. 3
677
678
sei mesi e poi chiese di essere esonerata dall’incarico. Ancora una volta è l’autono-
mia delle levatrici a essere il bersaglio degli attacchi dei medici. La scelta di non
nominare una levatrice che potesse affiancare la Ietto nella Casa era un modo per
riuscire indirettamente a impedirle di prestare assistenza a domicilio. La decisione
dell’amministrazione, infatti, da un lato costringeva la Ietto a soddisfare da sola
le esigenze dell’intero reparto, e dall’altro la costringeva a rinunciare a eventuali
chiamate dei privati per non incorrere in situazioni spiacevoli.
Alla fine dell’Ottocento, quindi, all’interno della Casa, diversamente da quan-
to accadeva altrove, non si era riuscito a creare ancora un clima di collaborazione
e di rispetto tra le due parti. Nella Casa di maternità aperta nel 1815 all’interno
dell’Ospedale del’Innocenti di Firenze la situazione era completamente diversa.
Il direttore della scuola, infatti, nel 1817 lodava l’operato delle proprie levatici
ritenendole capaci di portare a buon esito anche parti difficili. A Napoli, invece, il
passaggio dalla levatrice al medico fu lento, e caratterizzato dalla poca disponibili-
tà delle levatrici a perdere quella complessità e ricchezza di sfumature che le carat-
terizzavano da sempre e che la nuova scienza medica stava cercando di eliminare.
Quello che il mondo medico voleva colpire non era solo un sapere tradizionale e
popolare, ma il ruolo sociale delle levatrici presso le donne e le comunità.
679
Emilia D’Antuono
1 Cfr. de Gouges, O. “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, in Duhet, P.M. (a cura
di) Cahiers de doléances. Donne e rivoluzione francese, Palermo, La Luna/des femmes 1989 (ora anche
in appendice a Gabriella Bonacchi e Angela Groppi, Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri
delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 243 sgg.
2 Cfr. Fraisse, G. “Dalla destinazione al destino. Storia filosofica della differenza fra i sessi”, in
Fraisse, G.; Perrot, M. (a cura di) Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, tr.it. di Cataldi Villani,
F., Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 89.
684
3 La letteratura in merito è ormai molto estesa, per i temi «filosofici» e l’attenzione alle questioni
di genere cfr. almeno Battaglia, L. Dimensioni della bioetica. La filosofia morale dinanzi alle sfide delle
scienze della vita, Genova, Name, 1999.
685
discusso, del rapporto tra cultura di genere e formazione delle nuove generazione,
assumendo come strategiche le questioni concernenti il nesso libertà-corpo, che in
realtà rappresentano il nucleo profondo della bioetica e un nodo fondamentale da
dipanare per la costruzione di una cittadinanza all’altezza delle istanze del nostro
presente.
Nella loro diversità gli interventi convergono su di una convinzione tanto
condivisa da essere la trama di fondo della riflessione comune proposta attra-
verso la selezione dei singoli temi: per la dimensione pubblica del dibattito che
ha aperto, per la riflessione specifica, femminile o femminista che ha suscitato,
ma anche – o forse soprattutto – in funzione del retaggio culturale consegnato
alla civiltà dall’insieme del pensiero e dell’azione delle donne, la bioetica si rivela
davvero come un banco di prova del mutamento quantitativo e qualitativo della
cittadinanza, dunque sia della sua estensione via via inclusiva di nuovi soggetti e
di nuovi diritti e obblighi sia della trasformazione resa ineludibile da una diversa
interpretazione dell’umano e del suo destino intraterreno.
686
Emilia D’Antuono
4 Franz Rosenzweig, lettera a G. Oppenheim del 30-5-1917, in Id. Briefe und Tagebücher, M.
Nijhoff, Haag/Dortrecht 1979, 2 voll., I, p. 413.
5 Idem, Il nuovo pensiero, tr.it. di G. Bonola, Venezia, Arsenale, 1983, p. 63.
6 Idem, La Stella della Redenzione, tr.it. di G. Bonola, Casale Monferrato, Marietti, 1985, p. 201.
7 Koselleck, R. Il vocabolario della modernità, tr.it. di Sandrelli, C., Bologna, Il Mulino, 2009, p.
75.
8 Tra i tanti lavori ricordo il fondamentale volume a cura di Gabriella Bonacchi e Angela Groppi,
Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993. Per il nesso
questioni di cittadinanza - problematiche bioetiche cfr. Mancina, C. Oltre il femminismo. Le donne
nella società pluralista, Bologna, Il Mulino, 2002; Ead. La laicità al tempo della bioetica, Bologna, Il
Mulino, 2009.
9 Kant, I. Critica della ragion pura, tr.it. di Giorgio Colli, Milano, Adelphi,1976, p. 589.
10 Arendt, H. Sulla Rivoluzione, tr.it. di Magrini, M., Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp.
28 ss.
11 Koselleck, R. op. cit.
688
Appartiene al novero delle grandi svolte nella storia del mondo l’affermazione
di un principio di uguaglianza che non rimanda alla comune dimensione di crea-
ture di un Dio, né alla condizione umana di perenni morituri, ma alla edificanda
civitas terrena di uguali di fronte a leggi e istituzioni.
Al pari dell’uguaglianza la fraternità non è giustificata prioritariamente
dall’antropologia di derivazione religiosa, non scaturisce dalla dimensione di «cre-
ature» di Dio, dunque figli che hanno tra loro il legame della comune derivazione
da un padre, ma rimanda a una solidarietà scaturente dalla consapevolezza di una
comune identità intraterrena, di una comune collocazione e destinazione stori-
ca. Siamo di fronte alla fonte da cui sgorga quella corrente laica della nozione
rivoluzionaria di fraternità che sarà ereditata dai movimenti operai e che toglierà
definitivamente la nozione di fraternità dalla «patria» del cuore per collocarla nella
storia come dovere e diritto di solidarietà.
E tuttavia l’uguaglianza rinvia a una soggettività astratta che è quella deline-
atasi storicamente con la figura del soggetto dei diritti a partire dalla moderni-
tà. Lungo la strada aperta da questa nozione di soggettività, orientata dal metron
apanton dell’astratto soggetto giuridico, l’uguaglianza procede nella forma di una
esigente richiesta di omologazione, diviene produttiva di emancipazione da vinco-
li, ma lascia aperto ai molti un’unica soluzione: la conformazione di sé al modello
astratto, l’assimilazione praticabile attraverso la cancellazione di parti consistenti
della propria identità e storia.
Via via la libertà si limita a vivere nel mondo umano come liberazione, in
definitiva nella sua dimensione «negativa», e la cittadinanza si configura come cit-
tadinanza passiva12, che diviene realtà come cittadinanza selettiva e di fatto esclu-
dente. L’oscurarsi della libertà come capacità di azione, come potenza che presiede
all’agire etico (produttivo di valori e beni, ascrivibili all’individualità umana «in-
carnata» e plurale) e all’agire politico, diviene retaggio storico. La morale (valori e
beni prodotti, «virtù» peculiari e molteplici), l’ethos (realizzazioni storiche in cui
l’agire morale plurimo ha avuto parte costruttiva) non sono problematizzati per
essere metabolizzati nella sfera del politico e tradursi in nuove dimensioni della
cittadinanza.
12 Cfr. Costa, P. Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll, Roma-Bari, Laterza, 1999; sulla
trasformazione della cittadinanza in cittadinanza passiva, «cornice» entro cui collocare un vivere
da cui è quasi del tutto assente la dimensione dell’agire politico, cfr. Walzer, M. “Citizenship”, in
Democrazia e diritto, n. 2-3, 1988, pp. 49 ss.
689
13 Cfr. Fraisse, G. “Dalla destinazione al destino. Storia filosofica della differenza fra i sessi”, in
Fraisse, G.; Perrot, M. (a cura di) Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, tr.it. di Cataldi Villani,
F., Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 89.
690
691
tanto di agire morale – in tutte le sfere della vita storica, privato e pubblico, con
la problematizzazione dell’osmosi da realizzare in questi ambiti storicamente se-
parati – quanto di agire politico, ossia costruttivo di un possibile ordine umano
del mondo.
15 Cfr. Rodotà, S. La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, Feltrinelli, 2009.
692
16 Gilligan, C. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr.it di Bottini, A., Milano,
Feltrinelli, 1991.
693
Mariangela Caporale
1.
Le tecniche di fecondazione assistita mostrano inequivocabilmente il carattere eu-
ristico proprio delle tecnologie applicate alla vita, ma, se l’ordine dell’inventio e
dell’inventio morale è l’ordine specifico entro il quale collocare queste tecniche,
esse, proprio perché hanno come fine la procreazione, rinnovano in primo luogo
ed essenzialmente lo spazio della libertà femminile, come già era accaduto con
la contraccezione, primo gesto – sebbene giustificato da ragioni opposte – della
separazione della sessualità dalla procreazione.
In un primo tempo, ossia negli anni Settanta, soprattutto dopo la pubbli-
cazione del libro di Firestone La dialettica dei sessi, l’innovazione tecnologica fu
considerata come lo strumento grazie al quale la differenza sessuale poteva essere
superata, poteva essere superata, cioè, la dinamica naturale dell’atto procreativo,
considerato ragione dell’oppressione delle donne, oppressione considerata struttu-
rale di ogni istituzione sociale17. Il libro di Firestone, ispirato alle tesi de Il secondo
sesso di De Beauvoir, sottolinea il potenziale liberatorio delle tecnologie riprodutti-
ve rispetto alla disuguaglianza e all’asservimento che sono propri della condizione
esistenziale della donna, la quale, a causa della sua anatomia riproduttiva, sarebbe
costretta a vivere il proprio corpo come ragione permanente di schiavitù, un cor-
po, dunque, che ha reso possibile costruire ogni forma di relazione secondo la
passività recettiva della sua sessualità, un corpo che ha reso possibile definire ogni
relazione come relazione di assoggettamento, fissando così come imprescindibile
il modello patriarcale e maschilista. Va da sé che la sofferenza che l’applicazione
delle tecniche riproduttive comporta, rivela da subito il suo carattere per così dire
redentivo: il corpo della donna è liberato dalla subordinazione sessuale e da ogni
forma di fissazione – e dunque di controllo – dei modi in cui la sua corporeità si
esprime. L’identità della donna non è decisa dalla sua fisicità, non è più possibile
costringerla nello spazio dello stereotipo dell’essenzialità della maternità, della pri-
vatezza intimistica e della cura. Entro questo spazio l’identità femminile, se è ri-
tenuta consistere nell’attualità del dato fisico, non è considerata, come accade per
il maschio, come un’identità storica, costruita, cioè, attraverso intelletto e libertà.
Identità di “cosa”, identità identica: una, uguale per tutte, uguale per sempre.
Non è un caso che questo orientamento del primo femminismo, per il quale la
maternità naturale promuove e consolida dinamiche di reificazione, le tecnologie
riproduttive siano state interpretate come una “vittoria sulla natura”. Tant’è che
ci si augurò che il futuro di queste tecniche portasse alla gestazione extracorporea,
ossia alla completa separazione del femminile dalla riproduzione.
Se la sofferenza dell’applicazione di tali tecniche esprime per le femministe
degli anni Settanta la condizione necessaria per ottenere quella vittoria, prima di
allora insperata, sulla coercizione del dato biologico e naturale, negli anni Ottanta
il giudizio su queste tecniche muta di segno e si capovolge. Mi riferisco soprattutto
all’impostazione e ai contenuti del gruppo FINRRAGE (Feminist International
Network of Resistence to Reproductive and Genetic Engineering), che ha assunto po-
sizioni radicali rispetto alla medicalizzazione dell’infertilità e che si è dimostrato
il più influente nel condizionare la percezione pubblica del punto di vista femmi-
nista su tali questioni. Le femministe che hanno condiviso questo orientamento
hanno sottolineato come le tecniche di fecondazione assistita mantengano intatto
ed enfatizzino il modello ideologico patriarcale e vengono considerate come vet-
tori utilizzati per rafforzare il predominio maschile. Più ancora: la fecondazione
assistita non favorisce la realizzazione dell’uguaglianza tra i sessi e non la favorisce
non solo sul piano della cultura e della consapevolezza politica e sociale, ma so-
prattutto entro la stessa relazione riproduttiva: le tecnologie per la procreazione
assistita rafforzano l’idea che questa relazione sia una relazione di potere, potere
da sempre esercitato dall’uomo sulla donna, ma che, grazie alle tecniche di pro-
creazione assistita, amplia il suo ventaglio di espressione, perché queste tecniche
offrono all’uomo, che ne controlla l’applicazione, la possibilità di gestire da sè tale
dinamica, avendo come fine praticabile lo svincolamento della generazione dalla
dipendenza dalle donne.
Certo anche questa prospettiva ribadisce che il desiderio biologico di mater-
nità e dunque il consenso intorno alle tecniche scientifiche e alle politiche che ne
696
18 Vedi Corea, G. The Mother Machine: Reproductive Technologies from Artificial Insemination to
Artificial Wombs, New York, Harper and Row, 1985, p. 228.
697
donne, a esse sottratta non solo dai maschi, ma proprio da quelle femministe che
hanno ritenuto di considerare le donne oggetto di facile addomesticamento cul-
turale, destinate all’impotenza in quanto tali, ossia perché considerate e descritte
come classe, secondo la dicotomia elementare del sic et non, secondo il modello di
opposizione senza storia, che è quella del bianco e del nero.
Non meno debole mostra di essere la scelta teorica di quelle femministe che
cedono diversamente alla tentazione di interpretare la realtà delle donne, consi-
derandole ancora una volta come classe e come classe che è tale perché capace di
“cura”. Esisterebbe un’etica specifica per questa classe, etica che esprime in questo
caso proprio il dato biologico femminile, per cui, piuttosto che costruire relazioni
significative sul modello ritenuto astratto della giustizia distributiva, tipico dell’u-
niverso maschile, l’etica che risponde dello specifico di questa “classe” darà forma
dell’attitudine femminile alla relazionalità solidale e responsabile. Carol Gilligan,
autrice di Con voce di donna, libro che introduce e tematizza per primo la questio-
ne della cura come dimensione specifica dell’eticità femminile, ritiene necessario
che questi due modelli – quello della giustizia e della cura – si intersechino, affin-
ché sia possibile esercitare una moralità compiuta. L’analisi di Gilligan e di coloro
che al modello da lei proposto si rifanno, intende rivalutare la centralità, per la
riflessione etica e bioetica, della relazionalità e dell’esercizio della cura responsabi-
le, esercizio che, per inevitabile conseguenza, comporta l’attenzione alla concre-
tezza specifica di ciascuno: se questa è l’intenzione, va da sé che questo modello
teorico favorisca l’approfondimento ulteriore degli stereotipi femminili classici,
il che vuol dire da un lato che il dato biologico vale ancora a motivare le ragioni
dell’identità femminile, dall’altro che l’astrazione apodittica, ritenuta propria del
pensiero maschile e dell’etica dei diritti, è propria anche di una riflessione che
imponga l’idea del femminile come categoria, anche se la categoria scelta – ossia
quella della cura – è riempita di contenuti che provano a valere come riabilitativi
della situazionalità esistenziale e a essere critici della razionalità atomistica, rite-
nuta equivalente e diafana dell’identità di una classe, quella dei maschi patriarchi.
I temi della corporeità e dell’autonomia morale su cui il femminismo ragiona
sono esaminati da un lato mettendo in discussione e sospendendo l’autorità dell’e-
tica dei diritti, intesa come etica individualistica e autoreferenziale, etica considerata
propriamente maschile, dall’altro, e di conseguenza, proponendo di correggere in
termini relazionali l’idea di autonomia morale ereditata dalla filosofia moderna.
Il processo decisionale non è mai svincolato dalle relazioni di potere, dai rap-
porti sociali e dai contesti nei quali esso prende forma, per cui il femminismo ra-
dicale degli anni Settanta e Ottanta, pur maturando giudizi differenti sulla bontà
della riproduzione medicalmente assistita, reputa fondamentale la comprensione
della natura politica e socialmente connotata di questa pratica medica, così come
il femminismo cosiddetto della cura, pur trascurando la critica al controllo sociale
698
2.
Ho avuto l’impressione di leggere pagine ispirate da una ingenua emotività ideo-
logica, e, come in alcuni passaggi ho provato a dimostrare, l’impianto della critica
femminista mostra la fragilità propria di una struttura ragionativa binaria, in re-
lazione alla quale ogni intenzione ermeneutica si svuota della sua vocazione alla
ricchezza complessa del vero, ed è immiserita dalla presunzione dicotomica, dalla
ottusità della logica assiomatica.
Oltre che inconsistente sul piano dei contenuti e delle ragioni, la critica di
molte femministe all’etica dei diritti è quanto mai pericolosa. Buona parte delle
femministe ne giustifica la necessità in forza del tratto individualistico o – per usa-
re il lessico di genere – del carattere esclusivamente atomistico che esse ritengono
sia proprio dell’etica dei diritti: vale la pena, a loro giudizio, contrapporre, appun-
to semplicemente contrapporre, a questo impianto teorico, un’etica relazionale
come quella della cura.
19 Sherwin, S. No Longer Patient: Feminist Ethics and Health Care, Philadelphia, Temple University
Press; Id. “Normalizing Reproductive Technologies and the Implications for Autonomy”, in Glo-
balizing Feminist Bioethics: Crosscultural Perspectives, a cura di Tong, R.; Anderson, A.; Santos, A.,
Boulder, Westview Press, 2001; Donchin, A. “Prospettive che convergono: le critiche femministe
alla riproduzione assisitita”, in Nuove Maternità. Riflessioni bioetiche al femminile, a cura diFaralli, C.;
Cortesi, C., Reggio Emilia, Diabasis, 2005.
699
20 Vedi D’Antuono, E. “La bioetica tra vita e norma”, in Nunziante Cesaro, A. (a cura di) Il bambino
che viene dal freddo. Riflessioni bioetiche sulla fecondazione artificiale, Milano, Franco Angeli, 2000,
pp. 205-213.
700
701
Linda De Feo
Autorevole voce accademica nel campo della filosofia della scienza, sensibile ai
mutamenti epocali, capace di interpretarne le dinamiche e di adombrarne gli ef-
fetti, Donna J. Haraway, analizzando, con lucida profondità, le trasformazioni del
complesso intreccio tra biotecnologie, mercato e politica, ha ispirato potentemen-
te il movimento cyberfemminista.
Nel riflettere sulle ragioni catastrofiche del conflitto, spesso efferato, tra natu-
ra e artificio, in cui si dibatte l’uomo, con quella che un tempo era l’irriducibilità
del suo corpo, la Haraway avverte l’irresistibile potenza delle risorse trainanti della
tecnica, che lascia affiorare identità transgeniche e transessuali, tracciando nuove
mappe di geografia biopolitica.
I processi di fusione cibernetica tra l’umano e il macchinico, sottolineando la
continuità ontologica tra le due dimensioni, dimostrano che la tendenza a coniu-
garsi con l’altro da sé è un tratto caratterizzante dell’umanità, naturalmente incline
a stabilire un commercio con l’eteroreferenza e ad abitare le proprie estensioni e
incorporazioni tecnologiche: «l’intenso piacere della tecnica, la tecnica delle mac-
chine [è] un aspetto dello stare nel corpo. La macchina non è un quid da animare,
adorare e dominare; la macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della
nostra incarnazione»21. La vasta gamma di componenti artificiali, installati nell’or-
ganismo umano, ne fluidifica la struttura, producendo trasformazioni molecolari,
21 Haraway, D.J. Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, New York, Routledge,
1991, tr.it. di Borghi, L. Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano,
Feltrinelli, 1999, p. 82.
22 Cfr. Fox Keller, E. Refiguring Life, New York, Columbia University Press, 1995, tr.it. di Coyaud,
S. Vita, scienza e cyberscienza, Milano, Garzanti, 1996, pp. 91-95.
23 Cfr. Alfano Miglietti, F. Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni con-
temporanee, Genova, Costa & Nolan, 1997, p. 161.
24 Caronia, A. Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Milano, Shake Edizioni Underground, 2001
(1985), p. 106.
25 Haraway, D.J. Modest_Witness@FemaleMan©_Meets_OncoMouse™, New York, Routledge, 1997,
tr.it. di Morganti, M. rev. di Borghi, L. Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™,
Milano, Feltrinelli, 2000, p. 130.
26 Ivi, p. 138.
27 «Le controversie che hanno circondato la brevettazione e la commercializzazione del ‘topo di
Harvard’ sono state al centro dell’attenzione della stampa scientifica e popolare in Europa e negli
Stati Uniti. […] Il 12 aprile 1988 l’ufficio federale dei marchi e brevetti concesse un brevetto a due
ricercatori genetici, Philip Leder della Scuola di medicina di Harvard e Timothy Stewart di San
Francisco, che lo intestarono al presidente e agli amministratori dell’Harvard College. L’ulteriore
concessione del brevetto alla E. I. Du Pont de Nemours & Co. per lo sviluppo commerciale è diven-
tata il marchio della simbiosi tra industria e accademia nel campo della biotecnologia dalla fine degli
anni Settanta in poi. Con una concessione illimitata a Philip Leder per lo studio della genetica e del
cancro, la Du Pont è stata uno dei maggiori sponsor della ricerca. La Du Pont fece successivamente
degli accordi con i laboratori Charles River di Wilmington nel Massachussets, per commercializzare
OncoTopo™. Nel suo Listino Prezzi del 1994, Charles River pubblicava cinque versioni di questi
topi portatori di differenti oncogeni dei quali tre si traducevano in tumori al seno. Questi roditori
704
il cui destino evolutivo dipende dalle istituzioni normative che regolano il mercato
mondiale. Ridelineata come invenzione dallo status di brevetto, la cavia transgeni-
ca, capro espiatorio della storia secolarizzata della salvezza cristiana, è un prodotto
circolante nei circuiti di scambio del capitale transnazionale: macchina che genera
sapere tecnoscientifico, «motore immobile in senso aristotelico»28, ritratto in una
straziante immagine sacra, con le mammelle rigonfie e una corona di spine nel di-
pinto di Lynn Randolph, The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, il roditore
progettato promette guarigione regalando più vita, inserita quest’ultima «a pieno
titolo nel ciclo produttivo, laddove la specie diventa marchio di fabbrica e la figura
diventa prezzo»29. La teoria marxiana del feticismo della merce sembra trovare una
delle sue compiute applicazioni nel mercato dei geni, oggetti tecnico-naturali di
conoscenza e pratica, trasfigurati in feticci attraverso il disconoscimento di ciò che
li rende entità material-semiotiche, la rete di relazioni socio-tecniche tra umani e
non-umani30. La svolta epocale, segnata dal progresso tecnoscientifico, è costituita
dalla trasformazione del feticcio in una cosa senziente31 ma non viva, come il ratto
semivivo, icona del dolore rappresa in un coagulo di conoscenza, denaro e natura,
che, collocata nel «regno dei morti viventi»32, è costretta a covare una morte ino-
culata e a realizzare l’avvenire prima ancora che si attualizzi.
L’azione congiunta dei «sistemi storici di relazioni sociali» e delle «anatomie
storiche di corpi possibili»33 ingenera i cambiamenti di un corpo costituito dalle
strategie di potere, che non si configura come una semplice costruzione teori-
ca, ma come un’area di incrocio di cangianti codici di informazione, un sistema
complesso in cui autosviluppo e progettazione esterna si compenetrano recipro-
camente. Quest’oggetto di conoscenza dai mutevoli contorni, materializzati nei
rapporti interindividuali, appare ridelineato come concetto-limite, appartenente
a sistemi di significato prima incompatibili34: noi «possiamo essere i responsabili
delle macchine, loro non ci dominano, né ci minacciano; noi siamo i responsabili
possono contrarre molti tipi di cancro, ma quello al seno è stato quello semioticamente più potente
nella stampa come nel brevetto originale». Ivi, p. 20.
28 Ivi, p. 119.
29 Ivi, p. 40.
30 Cfr. ivi, pp. 199-202.
31 Cfr. Perniola, M. Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 1994, p. 68.
32 Haraway, D.J. Modest_Witness cit., p. 119.
33 Ead. Simians, Cyborgs cit., p. 59.
34 Cfr. Balsamo, A. “Forme di personificazione tecnologica: interpretazioni del corpo nella cul-
tura contemporanea”, in Featherstone-Roger Burrows, M. (eds.) Cyberspace/Cyberbodies/Cyberpunk,
London, Thousand Oaks and New Delhi, Sage, 1995, trad.it. di Ruggerone, L. Tecnologia e cultura
virtuale, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 172.
705
dei confini, noi siamo loro»35. Generato da «uteri tecnoscientifici»36, topos dove le
soglie si sfiorano, ambiguo foriero di narrazioni diverse della storia, il cyborg è una
creatura appartenente a un mondo post-genere, che aggira il consueto ciclo della
parabola fisiologica, svincola la fisicità dal radicamento biologico, disincaglia il
processo di replicazione dal piano riproduttivo naturale e si realizza in un mondo
«senza genesi», potenzialmente destinato a diventare un mondo «senza fine»37:
negando l’origine dal magma originario e l’annichilimento nella polvere finale,
e dimorando nel regime spazio-temporale del tecnobiopotere, il cyborg percorre
meno i territori della «“vita”, con i suoi ritmi evolutivi e organici, che la “vita
stessa”, i cui tempi sono intrinseci al potenziamento della comunicazione e alla
riconfigurazione del sistema»38.
L’organismo cibernetico è libero da ogni forma di dipendenza, è un uomo
nello spazio, capace di saltare «il gradino dell’unità originaria, dell’identificazione
della natura in senso occidentale: questa è la sua promessa illegittima, che potreb-
be portare al sovvertimento della sua teleologia da guerre stellari»39 e a un’inver-
sione del fatale ritorno alla polvere nucleare. L’ibrido chimerico da un lato incarna
«l’orrido telos apocalittico del crescente dominio dell’individuazione astratta»40,
ma d’altro lato costituisce ineludibilmente un’esperienza di apertura del soggetto
nei confronti di un ambiente in cui si dissolva la violenza caratterizzante la catego-
rica separazione tra natura e cultura.
I fenomeni coniugativi non si traducono nel mero innesto di dispositivi ar-
tificiali in tessuti naturali, ma, ridelineando la relazione tra il soggetto e la sua
dotazione biologica, potenziano la pluralità esperienziale, rielaborano i modelli
concettuali, estendono e ridisegnano le pertinenze di acquisizione e di interpreta-
zione della conoscenza. L’assimilazione di organico e inorganico non solo si impa-
dronisce della struttura del cosmo fino a innervarsi nella carne viva, ma è presente
nell’organizzazione simbolica delle forme di rappresentazione e si impossessa degli
ordini di significazione della comunità, dei suoi scambi di «segni e sogni»41. L’e-
teroreferenza realizzata dall’uomo, l’alterità, configurata internamente all’identi-
tà, rendendo più debole la proiezione antropomorfa sul mondo, diminuisce la
distanza tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, che invece appaiono
nettamente separati da una concezione autarchica della cultura e del sapere come
706
esercizio di potere sul mondo esterno. La convergenza del cammino culturale e dei
modelli naturali, ingenerando entità epistemiche ibride, promuove invece un’idea
partecipativa della conoscenza e mette fortemente in discussione l’antropocentri-
smo epistemologico.
Il cyborg è una «finzione cartografica della nostra realtà sociale e corporea,
[una] risorsa […] ispiratrice di accoppiamenti assai fecondi»42, una potente
espressione dell’inestricabile legame tra il fatto e la sua rappresentazione, e un’im-
magine condensata di scoperte immaginative e realizzazioni materiali, i due centri
congiunti che insieme strutturano le dinamiche del mutamento. L’inserimento di
dispositivi all’interno del corredo biologico degli organismi coscienti promuove
un processo di mutazione che trascende i dualismi con cui per secoli si è drastica-
mente spiegato il mondo, configurando la tecnoscienza, fondata sull’implosione
di informatica, biologia ed economia43, come luogo di collasso delle frontiere di-
sciplinari e delle categorie classiche della filosofia. Nella tradizione occidentale le
persistenti dicotomie, caratterizzate da una logica speculare, sono state funzionali
alle pratiche del dominio sulle donne, sui popoli di colore, sui lavoratori, vale a
dire sulle categorie sociali costruite come altre44, innescando una guerra di con-
fine, combattuta sui territori dei processi reali e dei modi di rappresentazione.
Interpretando una particolare versione del rapporto tra il corpo e la macchina,
il cyborg si colloca ai margini, vive la condizione di non definita appartenenza e
sposta continuamente le frontiere di un’identità non più unica ma molteplice,
non totale ma parziale, transitoria, processualmente fluida, costantemente mutan-
te. È appunto la parzialità il punto di vista dei saperi situati collocati nel corpo,
«sempre complesso, contraddittorio, strutturante e strutturato»45, la visione dal
basso, posizionata oltre l’antinomia tra la concezione totalizzante e la prospettiva
relativistica: nel cyborg «non c’è la pulsione a produrre una teoria totale, ma c’è
un’intima esperienza dei confini, della loro costruzione e decostruzione. C’è un
sistema di miti in attesa di diventare un linguaggio politico su cui basare un modo
di guardare la scienza e la tecnologia e di sfidare l’informatica del dominio per
un’azione potente»46. Solo una prospettiva parziale sembra prefigurare il raggiun-
gimento dell’oggettività, connessa a corpi particolari, a ubicazioni circoscritte e a
conoscenze radicate, localizzabili, critiche, atte a supportare la costruzione di reti
interattive, definite in politica solidarietà e in epistemologia discorsi condivisi,
nonché a contrapporsi a una visione che promette trascendenza di ogni limite e
707
Bibliografia
Alfano Miglietti, F. Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle
contaminazioni contemporanee, Genova, Costa & Nolan, 1997.
Balsamo, A. “Forme di personificazione tecnologica: interpretazioni del corpo nella
cultura contemporanea”, in Featherstone, M.; Burrows, R. (eds.) Cyberspace/
708
709
51 «L’equità della salute non equivale a uguali opportunità di cure ma riguarda una questione più
fondamentale: il grado di salute conseguito tenuto conto della diversità dei bisogni sanitari e della
diversa suscettibilità di ciascuno alla malattia». Sen, A. “‘Uguali e diversi’ davanti alla salute”, in
Kéiron, n. 1, 1999, p. 8.
52 «È solo nell’ambito di una comunità particolare che si impara se sia giusto o sbagliato, se valga o
no la pena di fare le cose che si ha il diritto morale laico di fare. […] Entro una comunità particolare,
si può anche imparare se sia meglio soffrire le pene di una lunga malattia mortale o evitarle con il
suicidio, se sia meglio allevare con amore un bambino handicappato o prevenire la sua nascita con la
diagnosi prenatale e l’aborto, se sia meglio accettare la sterilità o affittare una madre surrogata. Tali
scelte possono essere fatte solo sullo sfondo di una concezione concreta dei valori». Engelhardt, H.T.
The Foundations of Bioethics, New York, Oxford University Press, 1986, tr.it. Manuale di bioetica,
Milano, Saggiatore, 1991, p. 63.
712
53 Young, I.M. “Polity and Group Difference: A Critique of the Idea of Universal Citizenship”, in
Ethics, n. 99, 1989, p. 251.
54 Welsch, E. „Transculturalità“, in Paradigmi, n. 30, 1992, p. 674.
55 Nisbet, R.A. The Quest for Community, Oxford, Oxford University Press, 1953.
56 Cfr. Articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e Articoli 13 e 15 della
Convenzione Internazionale relativa ai diritti economici sociali e culturali.
713
go”, distinto dal semplice colloquio del vivere quotidiano e irriflesso, è connotato
strutturalmente da una discrepanza (Zwiespältiges) poiché il dia- allude a una divi-
sione dei linguaggi e a uno scontro possibile. Esso non esclude la possibilità di un
“raccogliere” che ha all’origine e come destinazione l’accordo57. Tuttavia il différend
di Lyotard58 e l’incommensurabilità delle culture evidenziata da Kuhn59 pongono
problemi irresolubili se si aspira a codificazioni di principio e all’individuazione
delle condizioni di validità dei criteri di scelta della cura per tutti. Sul piano della
comunicazione concreta (Verständigung), invece, il dialogo può non trasformarsi
in un monologo tra ordini incommensurabili e tra espressioni incompatibili e
contraddittorie, ma aprire una possibilità di integrazione60.
Ciò che qui si intende sostenere, perciò, è che, dinanzi alla difficoltà di una
ricerca di linee comuni di condotta, a un tempo necessaria, perché aspirazione
ineludibile, ma impossibile dinanzi al pluralismo dei valori, è forse utile distin-
guere il livello dei codici e dei sistemi morali, sui quali l’etica riflette in una ricerca
incessante e asintotica, e il livello delle decisioni concrete, che compete all’etica
applicata, e in particolare alla bioetica, la quale necessariamente deve pervenire a
intersezioni e mediazioni tra le differenti visioni del mondo. Ciò che si ottiene in
tal modo sono naturalmente “verità” e valori procedurali e continuamente nego-
ziati e rinegoziabili. Ma lo scambio interpersonale è sempre anche scambio inter-
culturale e quindi apertura di uno spazio intermedio, quello del riconoscimento
reciproco, e se ciascuno è se stesso e ha un’identità solo in quanto si rapporta ad
altro da sé, oggi non è possibile relegare nell’altrove molteplici alterità che muo-
vono un vocativo quotidiano particolarmente nell’ambito dell’assistenza sanitaria.
Sotteso all’approccio multiculturale è naturalmente il paradosso dell’intercul-
turalità, la quale non può pensarsi che a partire da una cultura, che pensa l’altra
secondo le proprie categorie. Le culture possono incontrarsi, ma hanno il diritto
di rimanere distinte, altrimenti si persevera nel tentativo di ridurre forzatamente
la distinzione tra i due termini del “fra” in un orizzonte solo teoricamente “terzo”,
che però in fin dei conti non può non esprimere una visione del mondo. Gli ul-
timi decenni hanno visto l’opposizione tra coloro che insistono che le differenze
etniche debbano divenire irrilevanti e coloro i quali ritengono che tali differenze
vadano al contrario valorizzate e tutelate; nel primo caso si pretende l’assimilazio-
ne e integrazione degli immigrati con i costumi e le usanze del paese ospitante; ciò
comporta la perdita dell’identità culturale ed etnica per l’acquisizione dei diritti
714
civili e di cittadinanza del paese nel quale si vive; nel secondo caso si presuppone
che essi debbano conservare le proprie abitudini di vita e costumi e, al limite, ci
si rende fautori di una sorta di separatismo, che potrebbe condurre alla legittima
richiesta di autonome strutture sanitarie (oltre che di istruzione, ecc.). Entrambi
questi estremi si sono rivelati impraticabili in concreto, oltre a mostrare l’inconsi-
stenza della contrapposizione astratta tra principio di uguaglianza e rispetto delle
differenza61. Come ha ampiamente illustrato Rorty, non ci si libera dei termini di
giudizio e valutazione prodotti dalla propria cultura62. L’auspicata solidarietà con
tutti gli esseri umani si scontra inevitabilmente col senso di appartenenza che ali-
menta la comunanza soprattutto con chi è percepito come “uno di noi”. Ma se la
solidarietà prelude anche a una ricerca delle somiglianze al di là delle differenze, ad
esempio nella capacità di provare dolore, non esclude una progressiva estensione
del “noi”63. Il multiculturalismo va dunque ripensato non come ideale persegui-
mento di una cultura comune, bensì come visione dinamica delle culture e delle
loro relazioni reciproche. Perciò occorre una progettazione dei sistemi sanitari per
cui si prevedano «non già cure uguali per tutti, cure estese ugualmente a tutti,
ma cure tali per cui tutti risultano avere uguali probabilità di godere di buona
salute»64. Molte donne straniere che vivono nei paesi occidentali hanno subito
interventi mutilanti, basati, com’è noto, non su presunti precetti religiosi, ma su
convinzioni e superstizioni ancestrali e certamente discriminatorie; tale condi-
zione non può risultare irrilevante nella programmazione dell’assistenza sanitaria
che alle donne può necessitare. Ma ciò vale anche per la gestione dell’assistenza
ordinaria, ad esempio per la gravidanza e il parto, sottratte alle usanze familiari e
medicalizzate.
Affrontare le questioni etiche sollevate dal progresso medico-scientifico da
una prospettiva multiculturale e nella consapevolezza che non è possibile imporre
modelli universali riguardo le condizioni che rendono una vita dignitosa significa
anche rispondere, a nostro avviso, all’allarme che la richiesta di un quadro etico
unitario e onnicomprensivo che possa rispondere alle nuove problematiche susci-
ta, in considerazione delle tentazioni paternalistiche che attualmente connotano
taluni tentativi di disciplinare questioni di rilevanza bioetica: mascherati da libera-
61 La Torre, M.A. “La questione dello straniero morale. Sulle condizioni di possibilità di un’etica
interculturale”, in Eticità del senso, Napoli, Luciano, 2003. Cfr. Ead. Bioetica e multiculturalismo:
verso una bioetnoetica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004.
62 Rorty, R. Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers, vol. I, Cambridge, Cambridge
University Press 1991, tr.it. Scritti filosofici, vol. I, Roma- Bari, Laterza, 1994.
63 Id. Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge, Cambridge University Press 1989, tr.it. La
filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari, Laterza 1989.
64 Sen, A. “‘Uguali e diversi’ davanti alla salute”, Kéiron, n. 1, 1999, p. 11.
715
lismo, sottintendono una sfiducia nelle capacità di scelta autonoma del cittadino,
il quale pare dover essere guidato al di là delle sue preferenze individuali anche nel-
le scelte più intime e personali. La bioetica elaborata o in corso di elaborazione nel
mondo occidentale esprime una visione particolare e non universale, poiché «la
bioetica è plurale»65. La legislazione non ha il compito di definire il bene morale,
non può, in altri termini, decidere astrattamente, in maniera generale e univoca,
che cosa sia “bene” per ciascun individuo, il quale ha invece preferenze e bisogni
peculiari. Naturalmente è necessario giustificare in maniera imparziale anche ogni
distribuzione ineguale finalizzata alla realizzazione dell’equità e rivenire ragioni
condivisibili per stabilire quanta parte della prassi terapeutica possa essere affidata
alla valutazione contingente dello stato di sofferenza e di bisogno, al cospetto del-
le questioni sollevate dalle incompatibilità culturali, della varietà delle posizioni
ideologico-religiose delle quali gli stessi operatori sanitari, oltre che gli ammalati,
sono portatori. L’autorità pubblica in una società multietnica deve però a nostro
avviso accettare delle restrizioni, disciplinando unicamente quanto coinvolge il
rispetto di alcuni principi essenziali e inderogabili.
Questa apparentemente semplice dichiarazione di principio, proprio in quan-
to prende atto dell’assenza di un modello etico univoco di riferimento e orienta-
mento e dell’ingiustificabilità della pretesa di imporne uno, può non rispondere
interamente alle richieste di regole operative rassicuranti nella pratica assistenziale.
Compito della riflessione bioetica è allora fornire strumenti per disciplinare pacifi-
camente le occasioni di confronto tra valori diversi e talvolta in conflitto, indican-
do le regole del dialogo, far incontrare le questioni morali suscitate dai progressi
biomedici con le diverse Weltanschauungen e indagare le condizioni di possibilità
di una prassi sanitaria eticamente giustificata nella quale l’altro non è più univo-
camente comprensibile e dunque non è possibile presupporre di conoscere ciò che
è meglio per lui. Mostrata l’inconsistenza della contrapposizione astratta tra prin-
cipio di uguaglianza e rispetto delle differenze, l’obiettivo della riflessione etica e
bioetica è individuare principi sufficientemente neutrali per la giustificazione delle
decisioni politiche rispetto alle diverse concezioni della vita buona: valori quali la
pace sociale e la tolleranza.
65 Engelhardt Jr., H.T. “La bioetica nel terzo millennio: alcune anticipazioni critiche”, Kéiron, n.
6, 2001, p. 42.
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Emilia Taglialatela
Queste brevi note riprendono alcuni fili del dialogo intrecciato nel panel che era
affidato alla cura di Emilia D’Antuono e tentano di operare una curvatura dell’a-
nalisi sul piano delle culture didattiche e delle relazioni educative. Ragionare in
un’ottica di “genere” su temi quali cittadinanza, diritti e “nuovi” diritti, rapporto
tra bioetica e legislazione, significa affrontare questioni di straordinaria rilevanza
teorica, pratica, giuridica e politica, che trovano nel caso della bioetica il luogo
emblematico di un conflitto reso ogni giorno più urgente e radicale, sul piano
ideologico, dall’avanzamento e dall’applicazione delle tecnoscienze biomediche.
Ma significa altresì porsi un’altra domanda cruciale: la scuola, oggi, offre alle gio-
vani generazioni l’opportunità di comprendere e valutare, in tutto il loro spessore
problematico, tali questioni? In altre parole si tratta di interrogare l’intenzionalità
che sostanzia i percorsi formativi per tentare di capire se e come le pratiche di-
dattiche, nel loro articolarsi sul duplice livello della selezione dei contenuti e delle
impostazioni metodologiche, siano in grado di accompagnare i ragazzi e le ragazze
verso la soglia di una cittadinanza attiva e criticamente responsabile. Ragazze e
ragazzi appunto, cioè soggetti consapevoli della propria identità sessuata, capaci
di problematizzare stereotipi e pregiudizi che ancora determinano discriminazioni
e asimmetrie nei diritti. Soggetti in grado di operare scelte eticamente motivate
nelle proprie esperienze di vita e di studio e proiettati verso una dimensione di
“ospitalità” nei confronti dell’altro/a.
66 Selvaggio, M.A. “Introduzione” in Ead. (a cura di) Strumenti per la programmazione didattica di
genere, cd-rom realizzato nell’ambito dell’Iniziativa Comunitaria Equal II fase – Progetto “Labora-
torio di pari opportunità, pratiche per il superamento degli stereotipi”, coordinato dall’Associazione
“Arcidonna”, Palermo, 2008.
67 Di particolare interesse è il Piano Nazionale per le Pari Opportunità fra gli uomini e le donne nel
sistema scolastico italiano 1993-1995, promosso dal Ministero della Pubblica Istruzione in attuazione
della legge 125/91. Cfr. Mapelli, B.; Severo, G. Una storia imprevista, Milano, Guerini, 2003.
68 Sul progetto europeo Polite, realizzato da numerosi soggetti (Dipartimento Pari Opportunità
della Presidenza del Consiglio, Associazione Italiana Editori, Cisem), cfr. Porzio Serravalle, E. (a cura
di) Saperi e libertà. Maschile e femminile nei libri, nella scuola e nella vita, Milano, AIE, 200.
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69 Di Cori, P. “Atena uscita dalla testa di Giove. Insegnare ‘studi delle donne’ e ‘di genere’ in Italia”,
in Di Cori, P.; Barazzetti, D. (a cura di) Gli studi delle donne in Italia. Una guida critica, Roma,
Carocci, 2001, p. 30.
70 A questo proposito mi limito a rinviare a Irigaray, L. Speculum. L’altra donna, Milano Feltrinelli,
1975; Cavarero, A. Nonostante Platone, Roma, Editori Riuniti, 1990.
71 Cfr. Remoti, F. Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996.
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72 Interessanti sollecitazioni su tale tema sono contenute in Hooks, B. “Elogio del margine”, in Ead.
Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 62-73.
73 Cfr. Dominijanni, I. “Nella piega del presente”, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di
avvistamento sulla tradizione, Napoli, Liguori, 2002, pp. 187-212.
74 Costa, P. Cittadinanza, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 5.
75 Bonacchi, G. “Il contesto e i lineamenti”, in Bonacchi, G.; Groppi, A. (a cura di) Il dilemma della
cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 26.
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76 Groppi, A. “Le radici di un problema”, in Bonacchi, G.; Groppi, A. (a cura di) op. cit., p. 3.
77 Boccia, M.L. “La madre in ombra”, in Parolechiave, n. 17: biotecnologie, settembre 1998, pp.
135-136.
78 Certo non sono mancate in Italia alcune significative riflessioni sull’insegnamento della bioetica
nelle scuole, ma la loro diffusione è rimasta comunque limitata. A titolo esemplificativo ricordo i
seguenti testi: Funghi, P.; Senatore, R. Bioetica a scuola… a scuola di bioetica, Milano, Franco Angeli,
2002; Mori, M. Bioetica. 10 temi per capire e discutere, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Monda-
dori, 2002.
79 Molto utili per chiarire le coordinate del dibattito sulla didattica della filosofia risultano i saggi
apparsi nella rivista “Paradigmi” tra il 1990 e il 1993 (poi raccolti in Calcaterra, R.M. (a cura di)
L’insegnamento della filosofia oggi. Prospettive teoriche e questioni didattiche, Fasano, Schena editore,
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1994), nonché i contributi pubblicati in Firrao, F.P. (a cura di) La filosofia italiana in discussione,
Milano, Bruno Mondadori, 2001. Numerosi e aggiornati articoli sono poi reperibili nella rivista
Comunicazione filosofica, consultabile sul sito internet della Società Filosofica Italiana (www.sfi.it).
80 D’Antuono, E. Bioetica, Napoli, Guida, 2003, p. 38.
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Quaglioni, D. 1990; II, I processi alle donne (1475-1476), a cura di Esposito, A.;
Quaglioni, D., 2008.
Fabergé Alves Olga Sofia, olga@isaude.sp.gov.br, è scienziata sociale dell’In-
stituto de Saúde – Secretaria Estadual de Saúde di São Paulo (Brasile).
Fazzari Michela, michela.fazzari@poste.it, è Dottore di ricerca in filosofia;
ha lavorato sulle teorie biologiche aristoteliche di età moderna, e in particolare su
Filippo Buonanni, SJ, e sul dibattito italiano secentesco sulla generazione sponta-
nea. Attualmente svolge ricerche sulla microscopia e le scienze della vita in Italia
nel Seicento.
Ferrari, Monica, monica.ferrari@unipv.it, Dottore di ricerca in Pedagogia,
è professore ordinario di Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di
Studi Umanistici dell’Università di Pavia, ove insegna anche Storia della pedago-
gia. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Lo specchio, la pagina, le cose. Congegni
pedagogici tra ieri e oggi, 2011; nel 2010 ha curato il volume Costumi educativi
nelle corti europee (XIV-XVIII secolo); con M. Morandi e E. Platé ha pubblicato nel
2011: Lezioni di cose, lezioni di immagini. Studi di caso e percorsi di riflessione sulla
scuola italiana tra XIX e XXI secolo.
Ferruta Paola, paolaferruta@hotmail.com, ha pubblicato saggi sul Sansimo-
nismo in Francia e in Germania, Storia di Genere e Studi Ebraici. È associated
research assistant presso il Leopold-Zunz-Center for Studies in European Judaism,
Halle-Wittenberg e Marie Curie fellow presso il Centre Roland Mousnier, Univer-
sità Sorbonne di Parigi.
Forneris Chiara, chiara.forneris@gmail.com, laureata in Giurisprudenza
presso l’Università di Bologna è Ricercatrice in Diritto internazionale e diritti
umani presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco – Sezione Internazionale,
Roma.
Francesca Ersilia, efrancesca@unior.it, insegna Gender Politics in contesto
islamico e Storia contemporanea dell’economia del Medio Oriente e Nord Africa
all’Università di Napoli “L’Orientale”. Ha pubblicato, tra l’altro: Teoria e pratica
del commercio nell’Islam medievale. I contratti di vendita e di commenda nel diritto
ibadita, 2002, Il Principe e i Saggi. Potere e giustizia nel medioevo islamico (introdu-
zione, traduzione e note a cura di), 2005; Genere e cittadinanza nell’area MENA
(Middle East and North Africa, 2010.
Franco Susanne, susannefranco@alice.it, è ricercatore presso l’Università di Sa-
lerno. Ha pubblicato la monografia Martha Graham, 2003 e numerosi saggi sulla
danza moderna e contemporanea. Ha curato “Audruckstanz: il corpo, la danza e la
critica”, della rivista Biblioteca teatrale, 2006, n. 78, e con Marina Nordera I discorsi
della danza. Parole chiave per una metodologia della ricerca, 2005; ed.ingl. 2007 e
Ricordanze. Memoria in movimento e coreografie della storia, 2010. Dirige la collana
“Dance for Word/Dance Forward. Interviste sulla coreografia contemporanea”.
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del Mediterraneo” (XX ciclo) presso l’”Istituto Italiano di Scienze Umane” (SUM)
con una tesi su L’identità berbera in Nord-Africa: il caso della Cabilia nel 2009.
Guglielmotti Paola, paola.guglielmotti@lettere.unige.it, (Torino 1954) in-
segna Storia medievale all’Università di Genova e si è occupata soprattutto di
istituzioni e società nei secoli IX-XIII (con riferimento a Piemonte e Liguria) e di
storia della storiografia.
Guidi Alessandro, aguidi@uniroma3.it, Professore Ordinario di Paletnolo-
gia all’Università di Roma Tre, si è occupato soprattutto di protostoria della peni-
sola italiana, con particolare attenzione al problema della nascita della città e dello
Stato, di storia degli studi di preistoria, di archeologia teoretica e di metodologia.
Ha condotto scavi, ricognizioni e attività di ricerca in Italia, Ungheria e Russia, ha
partecipato a congressi e tenuto conferenze in Europa, India e Stati Uniti. Tra le
sue opere, Storia della Paletnologia, 1988, I metodi della ricerca archeologica, 1994,
2005, Preistoria della complessità sociale, 2000.
Guidi Laura, guidi@unina.it, insegna Storia Contemporanea e Storia di
Genere all’Università di Napoli “Federico II”. Ha pubblicato numerosi saggi e
volumi di storia sociale e culturale dell’età contemporanea, tra cui il recente Il
Risorgimento invisibile. Patriote del Mezzogiorno d’Italia, 2011 scritto in collabo-
razione con Angela Russo e Marcella Varriale. È socia fondatrice della Società
Italiana delle Storiche.
Houssi (El) Leila, elhoussileila@hotmail.com, assegnista di ricerca presso il Di-
partimento di Studi sullo Stato dell’Università di Firenze è Dottore di ricerca in Sto-
ria, Istituzioni e Relazioni Internazionali dei paesi extraeuropei presso l’Università
di Pisa. La sua tesi di dottorato è in fase di pubblicazione con il titolo L’antifascismo
italiano in Tunisia tra le due guerre. Ha inoltre conseguito il Master in Studi Intercul-
turali presso l’Università di Padova. Si occupa di storia e cultura del Mediterraneo e
dell’emigrazione politica italiana verso la riva sud del Mediterraneo.
Ibry Helen, helen.ibry@gmail.com, Dottoressa di ricerca in Scienze storiche
e antropologiche (Università di Verona), ha svolto ricerche etnografiche sulla co-
struzione dell’identità di genere e del lesbismo e sulle migrazioni femminili dal
Perù a Milano; si occupa inoltre di insegnamento delle lingue straniere. Collabora
con l’associazione ArciLesbica negli ambiti della cultura e delle relazioni interna-
zionali.
Imprenti Fiorella, fiore.imp@libero.it, Dottore di ricerca in Storia delle don-
ne e dell’identità di genere all’Università di Napoli “L’Orientale”, collabora con
l’Università Statale di Milano e con diversi enti di ricerca. È responsabile dell’ar-
chivio storico della Fondazione Aldo Aniasi e direttrice della società cooperativa
“Centro Lumina”. Ha pubblicato per Operaie e socialismo. Milano, le leghe fem-
minili, la Camera del Lavoro (1891-1918), 2007; ha curato il volume Nilde Iotti.
Presidente: dalla Cattolica a Montecitorio, 2010.
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mazioni di senso nell’islam, 2008 e Cenni sul dibattito teologico al femminile in Iran,
2011, e per “Le differenze” ha scritto Uomo/donna è una divina Creazione?, 2011.
Nordera Marina, marina.nordera@unice.fr, è Professore presso l’Università
Nice – Sophia Antipolis. Ha pubblicato numerosi studi sulla storia danza tra il XV
e il XVIII secolo, su danza e genere e sulla metodologia della ricerca. Con Susanne
Franco ha curato I dicorsi della danza, 2005 e 2007; tr.ingl. Dance Discourses, 2007
e Ricordanze. Memorie in movimento e coreografie della storia, 2001; con Roxane
Martin Les arts de la scène à l’épreuve de l’histoire, 2011.
Novi Chavarria Elisa, elisa.novichavarria@tin.it, è Professore associato di
Storia Moderna all’Università degli Studi del Molise. Si occupa di storia sociale
e socio-religiosa, e di storia delle istituzioni nell’area degli antichi Stati italiani.
Tra le sue pubblicazioni: Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e
identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII (2001); La città e il mo-
nastero. Comunità femminili cittadine nel Mezzogiorno moderno, 2005; Sulle tracce
degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli XV-XVIII, 2007 e Sacro,
pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, 2009.
Olivesi Vannina, volivesi@yahoo.fr, è dottoranda in Storia (Université de
Provence) con una tesi sulla costruzione del genere e la definizione dell’identità
di artista per danzatori e danzatrici dell’Opéra di Parigi (1770-1850). In corso
di pubblicazione: «L’iconographie comme source dans l’historiographie du ballet
de l’Opéra de Paris: l’exemple des «Galeries théâtrales» du premier dix-neuvième
siècle», in Les arts de la scène à l’épreuve de l’histoire, a cura di Roxane Martin.
Pacini Monica, monicapacini@libero.it, insegna storia contemporanea alla
Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Si è occupata di storia economi-
ca e sociale della Toscana, di storia della famiglia e di giornalismo femminile. Tra
le sue pubblicazioni recenti: Donne al lavoro nella Terza Italia: San Miniato dalla
ricostruzione alla società dei servizi, 2009.
Palazzi Maura, pzm@unife.it, storica, ha insegnato alle Università di Bolo-
gna e di Ferrara. È stata fra le fondatrici del Centro di documentazione, ricerca e
iniziativa delle donne di Bologna, e della SIS, di cui è stata la prima presidente. È
nel Comitato scientifico di Storia delle donne, La camera blu, Italia contemporanea.
Ha fatto parte della direzione di Genesis. Fra i suoi lavori: Donne sole. Storia dell’al-
tra faccia dell’Italia, 1997, ha curato con I. Porciani Storiche di ieri e di oggi. Dalle
autrici dell’Ottocento alle riviste di Storia delle donne, 2004.
Pancino Claudia, claudia.pancino@unibo.it, (Università di Bologna) è Pro-
fessore associato di Storia moderna, insegna Storia del corpo e Storia sociale. Negli
anni 2011 e 2012 è stata professeur invitée DEA presso la Fondation Maison des
Sciences de l’Homme di Parigi. Si interessa di storia del corpo femminile, storia
del parto e della professione medica, in particolare dell’ostetricia, di credenze e riti
della nascita, rappresentazioni del feto, nonché di questioni di storia sanitaria. Tra
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i suoi numerosi saggi, ha pubblicato di recente: (con Jean d’Yvoire) Formato nel
segreto. Nascituri e feti fra immagini e immaginario dal XVI al XXI secolo, Carocci,
2006.
Paoli, Maria Pia, mariapia.paoli@tin.it, è Ricercatrice di Storia moderna alla
Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue pubblicazioni recenti: “Di madre
in figlio. Per una storia dell’educazione alla corte dei Medici”, in Annali di storia
di Firenze, III, 2008; “Sante di famiglia: ‘notizie istoriche’ e agiografie femminili
nella Firenze dei secoli XVII-XVII”, in Zarri, G.; Baranda Leturio, N. (a cura
di-coordinado por) Memoria e comunità femminili. Spagna e Italia, secc. XV-XVII/
Memoria y comunidades femeninas. España e Italia, siglos XV-XVII, 2011; “A veglia
e in accademia. Le letterate senesi secoli XVI-XVIII”, in Savelli, A.; Vigni, L. (a
cura di) Una città al femminile. Protagonismo e impegno di donne senesi dal medio-
evo a oggi, 2012.
Pastorelli Stefania, pastore@tiscali.it, è Dottore di ricerca in Storia, Istituzio-
ni e Relazioni Internazionali dei Paesi Extraeuropei. I principali ambiti di studio
e di ricerca sono i settori popolari urbani peruviani e le trasformazioni politiche
avvenute in Perù a partire dalla seconda metà del XX secolo.
Pavan Ilaria, i.pavan@sns.it, è Ricercatrice di storia contemporanea presso la
Scuola Normale Superiore di Pisa. Si occupa prevalentemente di storia degli ebrei
in Italia dall’Emancipazione al fascismo. Tra le sue pubblicazioni: Tra indifferenza
e oblio. Le conseguenze delle leggi razziali in Italia, 2004, Il podestà ebreo. La storia
di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, 2006.
Pelizzari Maria Rosaria, m.pelizzari@unisa.it, insegna Storia contempora-
nea all’Università degli Studi di Salerno, dove è Delegata del Rettore per le Pari
Opportunità e direttrice dell’OGEPO (Osservatorio interdipartimentale per la
diffusione degli Studi di Genere e la cultura delle Pari Opportunità); dal 2009 è
nel Consiglio Direttivo della SIS (Società Italiana delle Storiche). Si interessa di
storia sociale e culturale, in particolare della storia della violenza sessuale, e del-
le rappresentazioni di genere nella satira politica. Tra le recenti pubblicazioni: (a
cura) Il corpo e il suo doppio. Storia e cultura, 2010.
Pellegrino Carmine, cpellegrino@unisa.it, ricercatore in Etruscologia e Anti-
chità Italiche presso l’Università degli Studi di Salerno, ha incentrato la sua attività
di ricerca sul centro etrusco di Pontecagnano, approfondendo lo studio dell’ideo-
logia funeraria e delle dinamiche di strutturazione urbana, nonché interessandosi
delle manifestazioni epigrafiche inquadrate nel più ampio contesto della Campa-
nia antica.
Pelosi Maria Letizia, pelosi@unina.it, è docente di Filosofia e Storia nei Li-
cei. Dottore di ricerca in Studi di Genere presso l’Università di Napoli “Federico
II”, ha vinto presso l’Università S. Orsola Benincasa di Napoli una borsa post-
dottorato su I saperi della politica. Ha scritto sul tema del sacro e della storia in Pier
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Italia e Francia nel XIX secolo, la sociabilità e i salon, la condizione delle donne
aristocratiche. Tra le sue pubblicazioni, Napoleona. L’avventurosa storia di una ni-
pote dell’Imperatore, 2008.
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