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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia di un'anima : memorie


AUTORE: Leopardi, Giacomo
TRADUTTORE:
CURATORE: Perilli, Plinio
NOTE: Si ringrazia la Carlo Mancuso Editore
(http://www.mancosueditore.it/) per avere concesso
il testo e l'autorizzazione a pubblicarlo.
CODICE ISBN E-BOOK: 9788828102182

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

COPERTINA: [elaborazione da] "A Philosopher in a


Moonlit Churchyard (1790)" di Philip James de Lou-
therbourg (1740–1812). - Yale Center for British
Art, New Haven, Connecticut. - https://commons.wiki-
media.org/wiki/File:Philippe-Jacques_de_Louther-
bourg_-_A_Philosopher_in_a_Moonlit_Churchyard.jpg. -
Pubblico dominio.

TRATTO DA: Storia di un'anima : memorie. - di Giaco-


mo Leopardi; a cura di Plinio Perilli; collezione

2
"Lo scrigno", 13; Carlo Mancosu Editore; Roma, 1993

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 3 aprile 2006


2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 24 giugno 2020

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
FIC041000 FICTION / Biografica
BIO000000 BIOGRAFIA E AUTOBIOGRAFIA / Generale
FIC027000 FICTION / Romantico / Generale

DIGITALIZZAZIONE:
Carlo Mancuso Editore, mancosueditore@mancosuedito-
re.it

REVISIONE:
Antonio Di Giorgio, hippolito@interfree.it
Ugo Santamaria

IMPAGINAZIONE:
Antonio Di Giorgio, hippolito@interfree.it
Leonardo Pesatori (ePub)
Ugo Santamaria (ePub, revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, catia_righi@tin.it

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Liber Liber

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4
INTRODUZIONE........................................................11
STORIA DI UN’ANIMA.............................................23
Proemio.....................................................................24
LIBRO PRIMO.............................................................26
FANCIULLEZZA DI UN’ANIMA..........................27
Capitolo primo......................................................27
ALLA VITA ABBOZZATA DI SILVIO SARNO
(DI RUGGIERO O RANUCCIO, VANNI DA
BELCOLLE)........................................................27
ALLA VITA DEL POGGIO.................................28
NOTIZIE SULLA SUA VITA*............................28
LE PRIME RICORDANZE.....................................31
RIMEMBRANZA................................................31
FANCIULLEZZA, TEMPO FAVOLOSO...........31
LA PRIMA RICORDANZA: LE PERE MOSCA-
DELLE.................................................................31
AMORE DELLE FAVOLE..................................32
“TU MI FARAI DA CAVALLO”.........................33
ABILITÀ DI MANO............................................34
L’OROLOGIO DELLA TORRE..........................34
IL CANE CARITATEVOLE................................34
SAPORE DELLE COSE LODATE.....................35
IL NOME E LA PERSONA.................................37
BELLEZZA E BRUTTEZZA..............................39

5
NON CI RIVEDREMO MAI PIÙ.......................40
ARIA DI VOLTO.................................................41
ADOLESCENZA.....................................................43
TIMOR PANICO..................................................43
LETTA LA VITA DI VITTORIO ALFIERI
SCRITTA DA ESSO.............................................44
MEMORIE DEL PRIMO AMORE......................45
ARGOMENTI DI POESIE AMOROSE..............64
APPUNTI DI POESIE.........................................67
ANNIVERSARIO DI UNA PASSIONE..............71
DIVINO STATO...................................................71
LETTURE NELLA PRIMA GIOVINEZZA........72
I CAPPUCCINI E I NOVIZI...............................72
LA CANNUCCIA DI PIETRINO........................74
CATTIVA MAMÀ................................................74
NEL CORSO DEL SESTO LUSTRO..................74
CANZONETTE RECANATESI..........................75
L’AMICO A PIETRO GIORDANI......................76
AMICIZIA TRA UN GIOVANE E UN ADULTO
..............................................................................99
COME CONSOLARE UNA PERSONA AFFLIT-
TA.......................................................................100
ULTIMI AVANZI DELLA FANCIULLEZZA...103
IRRESOLUZIONE E DISPERAZIONE...........105
DESIDERIO E TIMORE DELLA MORTE.......105
SULL’ORLO DELLA VASCA..........................106
IL SUICIDIO E IL DISPREZZO DI SE MEDESI-
MO......................................................................106
IMMAGINAZIONE DEL GIOVANE...............107
6
AUTORI FRANCESI.........................................108
EFFETTI DELLE LETTURE............................109
FACILITÀ AD ASSUEFARE L’INGEGNO.....110
PIACERE E NOIA NELLA LETTURA............111
TENTATIVO DI FUGA.....................................112
AMORE AL FRATELLO CARLO....................120
AMICIZIA TRA FRATELLI..............................120
PER USCIRE DA RECANATI..........................121
RICORDI D’INFANZIA E DI ADOLESCENZA3
............................................................................127
GIOVINEZZA........................................................144
LA TOMBA DEL TASSO..................................144
SVENTURE DEL TASSO.................................145
BELLEZZA DEL CORPO.................................146
LO SVENTURATO NON BELLO....................147
CARRIERA POETICA......................................147
DALL’ERUDIZIONE ALLA POESIA..............149
DIVERSITÀ DEI GUSTI...................................150
FELICITÀ NEL TEMPO DEL COMPORRE....151
COME COMPONEVA LE POESIE...................151
FRUTTI DELLA PROPRIA POESIA................152
VERITÀ SCOPERTE DA SOLO.......................152
INVIDIA.............................................................153
LE ILLUSIONI E LA SVENTURA...................154
IL RIPOSO DELLA MORTE.............................155
PAZIENZA EROICA DELLA NOIA.................156
DESIDERIO IMPAZIENTE..............................157
CONTENTO E MALINCONIA........................158
SOLITUDINE E LINGUAGGIO.......................158
7
LE ARMI DEL RIDICOLO...............................159
SENSAZIONI DELL’INDEFINITO..................160
MI STIMAVANO ENCICLOPEDICISSIMO....161
LA SIGNORA CHE NON AVEVA IMPARATO A
COMANDARE..................................................162
INETTO ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO...163
ERRORE DI UNA VITA TUTTA INTERNA....164
UNA DONNA VESTITA DA UOMO................165
RICUSARE DI AFFLIGGERSI.........................166
PAZIENZA.........................................................167
RELAZIONE CON UNA DONNA...................167
LE AMICIZIE....................................................168
LE DIMORE E LE RIMEMBRANZE...............169
DESIDERIO E SPERANZA..............................170
BENIGNITA DELLA NATURA!......................170
IMMAGINE DELLA VITA UMANA...............171
L MODO DI PASSARE LA GIOVENTÙ.........171
PRIMI ABBOCCAMENTI................................171
LE SESTINE BURLESCHE DEL GUADAGNO-
LI........................................................................173
APATIA..............................................................174
SENTIMENTI VERSO IL DESTINO...............175
L’ORA MENO TRISTA.....................................176
AGLI AMICI SUOI DI TOSCANA..................177

8
GIACOMO LEOPARDI

Storia di un'anima

9
INTRODUZIONE

di Plinio Perilli

Solo la feroce, shakespeariana e dolente invettiva di


Macbeth, gli sta alla pari: “...La vita non è che un’ombra che
cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si
agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne
parla più?”...
Ma Leopardi è ancora più implacabilmente,
posatamente pessimista: “Che cos’è la vita? Il viaggio di un
zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso,
per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi
e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore
del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte un spazio di
molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso e
quivi inevitabilmente cadere” (Bologna, 17 gennaio 1826)...
Queste Memorie della mia vita, ricavate
principalmente dallo Zibaldone, dai manoscritti della
Biblioteca Nazionale di Napoli e dall’Epistolario - risaltano
e inquietano come un’ideale autobiografia poetica, aggregata
secondo sue precise disposizioni. Ma è anche, e soprattutto,
la Storia di un’anima, titolo con cui lo stesso Leopardi
concepì e progettò un serrato, psicologico romanzo interiore,
nella persona di tal Giulio Rivalta: recitato, letterario e goffo
alter ego dell’autore de “L’infinito”. Nasce così un nuovo,
estroso volume, che però rispetta una precisa disposizione
leopardiana, e “consente il modo di raccogliere” - come

10
rileva Francesco Flora, suo primo, affettuoso curatore nel
1949 - “alcune tra le più calamitanti pagine del poeta”.
Un volume, lo ripetiamo, extravagante - eppure
rigorosamente, serratamente leopardiano, proprio nella più
nobile accezione e nella finalistica risonanza di quella lirica
della memoria, di quella sofferta ma illimpidita meditazione
andata che egli disse “essenziale e principale nel sentimento
poetico”: “la sensazione presente”, asseriva, “non deriva
immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli
oggetti, ma della immaginazione fanciullesca: una
ricordanza”.
Lo sappiamo: talento geniale e precocissimo,
Giacomo, già appena a dieci-undici anni, compone e
progetta i suoi primi testi poetici, acute ed eclettiche prose,
erudite traduzioni. “Credo non sia da sottovalutare” - scrive
Maria Corti, affascinata raccoglitrice, con Entro dipinta
gabbia, degli sminuzzati o profusi versi dell’infanzia e della
adolescenza (cfr. ora in Tutti gli scritti 1809-1810,
Bompiani, Milano,1993) - “l’acutissimo spirito di
osservazione, l’incipiente presenza della forza della
razionalità nella prima giovinezza del Leopardi, un inizio
anche doloroso (l’altra faccia del gioco) di riflessione sulle
cose degli uomini; e del resto è il Leopardi stesso a
denunciarlo quando in ‘Ricordi d’infanzia e di adolescenza’
(...) parla della sua infantile struggente delusione allorché, in
casa di qualcuno, i genitori a un certo momento
interrompevano il gioco dei bambini, perché la visita era
finita, e troncavano senza ragione la loro letizia. Era questo
già un modo di riflettere, lui bimbo, sulla sorte umana, alla
stessa maniera come mi sembra una germinale disposizione,
un parlare futuro, entro la prosa (...) dedicata alla prediletta

11
nonna, la frase: ‘ La verità mi sarà sempre cara egualmente
che a voi, né sarà mai che l’impugni...’; il volto della verità
muterà radicalmente nel Leopardi di dopo, ma non il senso
del personale proclama”...
Maria Corti parla di gioco - non meno intellettuale
che esistenziale (addentrato, immerso, nell’abrasiva,
acuminata verità). ...Quei suoi primi componimenti tra il
serio e il faceto, l’accademismo tralatizio e l’innovazione
sperimentale - dalle Canzonette sopra la campagna al Catone
in Affrica, al Diluvio Universale, dalle Notti puniche ai
Carmina varia, alle favole A favore del Gatto, e del Cane, o
Il Sole, e la Luna:

“...
La Luna allor credendosi Regina
Cominciò miserabile a sprezzare
Del Sol la luce vivida, e Divina.
...”
Cantiere intellettuale, gioco, diario minimo ed
essenziale d’un’annunciata, progressiva fioritura letteraria -
ahi lui, in parallelo a un’infausta, sciagurata fisicità, a uno
sviluppo estetico mortificato, frustrato. Cerebralmente lo
esaltavano, pur senza nella carne ripagarlo, saggi, commenti
ed epigrammi, autocritici, mordaci, sarcastici: un’ode Contro
la Minestra in versi martelliani; o magari il dotto e
progettato opuscolo sui vantaggi della solitudine, con
annesse esemplificazioni storiche, confutazioni, autorità pro
e contra... Lo avrebbe molto divertito, forse, qualche gioco
verbale d’Umberto Eco - lieta e complice contemporaneità a
posteriori! -: “Lodo la limpida luna, levandole lamento.
Litorale lontano, lirica lusinga...”, tutto costruito con

12
l’iniziale L; e più ancora, la fervida dedicatoria d’una poesia
anagrammatica:
GIACOMO LEOPARDI: Dio, ciel, pago amor / e
amari colpi godo. / Porgo lai... Comedia... / Io agapi d’ermo
col / al “pio!” di gramo eco / (l’odi, magico opera) / miro
pago ad cielo. / Già parco limo ode: / mira docil apogeo, /
magico odi parole. / Parole! Giaci domo, / c’è piaga. Mio
dolor / io pago dolce rima.
(U. Eco, Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano, ‘92)-.
Quasi un bizzarro, apocrifo e adolescenziale
scherzetto leopardiano. Non meno sintonizzato e godibile, in
fondo, di tanti vacui, sciroppati studi universitari...
“L’allegrezza”, fermerà e codificherà Giacomo nello
Zibaldone, “bene spesso è madre di benignità e
d’indulgenza, al contrario delle cure e dei mali umori... e
l’armonia della natura ha voluto che l’allegria fosse utile non
solo all’individuo, ma anche agli altri, e servisse alla società,
e rendesse l’uomo verso altrui, tale quale dev’essere”... E se
è vero che la Natura non fu - convenzionalmente -
magnanima con lui, la sua anima almeno si ripagava, si
consolava interiorizzando un trasparente, ideale Dizionario
dei Sentimenti: in cui la Fanciullezza e la Giovinezza erano
di certo i più beneamati compagni di scuola (e di gioco):
“... I diletti più veri che abbia la nostra vita, sono
quelli che nascono dalle immaginazioni false... i fanciulli
trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel
tutto” (Operette morali, Detti memorabili di F.Ottonieri);
... Ma l’entusiasmo de’ giovani oggidì, coll’uso del
mondo e dell’esperienza delle cose che quelli da principio
vedevano da lontano, si spegne non in altro modo né per
diversa cagione, che una facella per difetto di alimento,

13
anche durando la gioventù e la potenza naturale
dell’entusiasmo” (Zibaldone)”...
C’è un altro passo molto significativo dello Zibaldone
(165-172) dedicato all’immaginazione quale “primo fonte
della felicità umana”: “Quanto più questa regnerà
nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei
fanciulli”. Intuizione che però, subito dopo, svela e tradisce
lo scotto d’un doloroso esistenzialismo, gnoseologico e
cognitivo: “Ma questa non può regnare senza l’ignoranza,
almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La
cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose,
circoscrive l’immaginazione”... Di qui, due corollari
ineludibili e immutabili: “1 - che la speranza sia sempre
maggior del bene; 2 - che la felicità umana non possa
consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni”...
Una sorta di giostra immaginativa, valzer delle
illusioni e laica, seppur escatologica, Cognizione del Dolore
(Gadda) - accompagnò passeggiando a braccetto tutta la sua
Giovinezza.
Leopardi vagheggiava e soffriva (“Vagheggiare,
bellissimo verbo” - annotò; Zib.4287). Soffriva di finitezza:
“Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: almeno
tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi
rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto,
che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti
metafisici, io credo che l’analogia materialmente faccia
molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che
illusione naturale della fantasia” (Zib.4292). Ma insieme
tremava, e godeva, d’egualmente dolente, illusoria e
rispecchiata Infinità: “Il fanciullo e il selvaggio
giurerebbero, i primitivi avriano giurato, che la terra, che il

14
mare non hanno confini; e si sarebbono ingannati: essi
credevano ancora, e credono, che le stelle che noi veggiamo
non si potessero contare, cioè fossero infinite di numero”
(20 settembre 1827).
Gli occhi di ragazzo, la speranza oltre ogni scettica,
esperta “cognizione del vero” -: ecco la fonte intimamente,
più che otticamente decisiva, per la creazione dei suoi
meravigliosi Idilli, e in ispecie per La nascita dell’ ‘Infinito’
(cfr. il saggio omonimo di Alessandro Parronchi, Amadeus,
Treviso, 1989), per affermare, pretendere e instaurare “i
confini di una poetica più ampia” - recita Parronchi - “di
quella che il tempo gli offriva”. Irrilevanti o quasi, in realtà,
le ragioni scientifiche, le teorie dei colori, la vecchia
geometria distrutta da Berkeley (nel suo Saggio sopra una
nuova teoria della visione, nella sezione 145, leggiamo
infatti che “Le idee della vista entrano nello spirito,
parecchie in una volta, più distinte ed inconfuse, di quello
che si fa per ordinario negli altri sensi, oltre il Tatto. Li
suoni, per esempio, percepiti nel medesimo istante, possono
riunirsi, per così dire, in un solo. (...) Noi non potiamo aprire
gli occhi, che le idee di distanza, di corpi, di figure tangibili
non ci siano da loro suggerite. Così rapido, e pronto, e
impercettibile è il passaggio dalle visibili alle tangibili idee,
che noi potiamo appena impedirci dal crederle tutte
egualmente l’oggetto immediato della visione”)...
Poco o nulla, dunque, contano le percezioni o le
definizioni ottiche, tanto predominano le coordinate e le
istanze della fantasia, la legge irrazionale e dolcissima della
Poesia: “Poco importa” - ipotizza Parronchi - “che oltre la
siepe dell’Infinito non si veda la luna, ma si stenda
‘interminato spazio’ immaginario in una vaga luce senza

15
tempo. La sera che segue - o precede? - il giorno
dell’Infinito, è una sera di luna, la luna de La ricordanza...
Nella sua eclettica, comparatistica analisi su La parola
pittorica, Ferruccio Ulivi avanza inoltre una suggestiva
assimilazione iconografica tra Füssli, Leopardi e un qual
certo “manierismo romantico”, che lo spinge a sovrapporre
le Operette morali al “classicismo iperbolico, stralunato, tra
manierista e protoromantico di un grande pittore da poco
scomparso (1825): Füssli”... Qualcosa che, imagisticamente,
ben si accorda col sentimento unificante, il comun
denominatore emotivo, “la chiave stessa del cuore di
Leopardi”, a parere di Sainte-Beve: “questo sentimento
stoico della calma fondata sull’eccesso stesso della
disperazione”.
Ma tal suo breve, simulato Infinito, già urge d’essere
evaso, superato nella prova triste e cruda col Reale. Proprio
dal trauma controllato dell’immersione nell’agone consueto
del quotidiano, si distilla e prorompe l’approdo bello della
poesia - che è anche, insieme, naufragio dei sensi delusi,
disequilibrio sublimato del cuore. “Nessuno diventa uomo” -
annoterà - “innanzi di aver fatta una grande esperienza di sé,
la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando
l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche
modo la fortuna e lo stato suo nella vita”... Questa grande
esperienza di sé, è innanzitutto il malinconico, disamorante
viaggio e soggiorno a Roma (23 novembre 1822 - fine aprile
1823), incipit e insieme culmine d’un’autoeducazione
sentimentale che non poteva servirgli né a digerire né a
padroneggiare le vicissitudini che pure, liricamente, lo
decisero e lo guidavano. “Memorie della mia vita”, stila il 1°
dicembre 1828, assiso nell’estraniante intervallo d’un

16
ricordo: “Andato a Roma, la necessità di conviver cogli
uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere
esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente.
Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna,
senza perciò divenir più atto all’esterna”...
A questo punto, l’unica, omeopatica cura, non poteva
essere che la professione, oseremmo dire etica, di piena,
volitiva umanità: “La privazione di ogni speranza, succeduta
al mio primo ingresso nel mondo”, confesserà al suo diario
nello stesso 1828, “appoco appoco fu causa di spegnere in
me ogni quasi desiderio. Ora, per le circostanze mutate,
risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver
molta più speranza che desiderio”... E in un più sereno passo
dello Zibaldone (4244), Giacomo si vota e si affida al
voltairiano Tempo consolatore: “Quando l’animo è domato,
ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile”... Virile,
consumato stoicismo. E ne aveva, il giovane conte Leopardi,
di amarezze da vincere, di ugge e stizze da riscattare... De
Sanctis, insieme con devoto e offeso compatimento
intellettuale, prova a mettersi nei panni di questo genio
universale che “sospirò invano un piccolo posto a Roma per
intercessione del Niebhur, desiderò un tenue sussidio dallo
Stella in ristoro delle sue fatiche, e dové annoiarsi
fieramente con discepoli dappoco, non capaci
d’intenderlo”...
Paradossalmente, proprio questa frattura, questa
delusione assoluta (perfino dogmatica), gli facilita e gli detta
un ispirato, struggente riscatto poetico. “Nel Sogno di
Leopardi” - argomenta sempre Francesco De Sanctis, il
quale negli ultimi anni napoletani del poeta, ebbe l’onore
d’accompagnare sovente, per le strade di Portici, le sue

17
passeggiate e le sue conversazioni - “la base è capovolta. La
vita è tutta e sola in terra; la morte è separazione eterna da’
nostri cari; tutto l’altro è l’ignoto, è mistero. L’altro mondo è
sottratto a ogni contemplazione poetica. Fonte della poesia è
la vita terrena, anzi quella sola e breve parte della vita, che è
detta la giovinezza”...
Nostra vita a che val? solo a spregiarla... - canta in “A
un vincitore nel pallone”, pur festeggiando “la sudata
virtude” del “garzon bennato”, del “magnanimo campion”. E
forse il merito più grande di Leopardi pensatore, sulla soglia
dell’età moderna, è proprio quest’assennato, caparbio
tentativo di riconciliare e in fondo superare le sterili diatribe
della metafisica; nel suo “Dialogo tra A e D” su
Schopenhauer e Leopardi, De Sanctis ne divulga
un’accalorata sintesi: “... Leopardi, sotto nome di un filosofo
greco, dice: - La materia è ab aeterno -; e dal seno
della materia vede germinare l’appetito irrazionale, e quindi
l’ignoranza, l’errore, le passioni, in una parola il male.
Schopenhauer ha detto: - La materia non esiste, è un
concetto, un’astrazione; ciò solo che esiste è l’appetito, il
Wille. - Tutti e due dunque ammettono lo stesso principio,
ma l’uno lo profonda nella materia, e l’altro gli fa della
materia un semplice velo”...
Venuto anzi a meditare sull’anima, il Leopardi dello
Zibaldone quasi reagisce insieme contro i dogmi della fede,
o le colte, radicali teorizzazioni dei filosofi: “Ci assicuriamo
noi di dire che l’anima nostra è perfettamente semplice, e
indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l’ha detto? Noi
vogliamo l’anima immateriale, perché la materia non ci par
capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati
dall’anima. Sia. Ma qui finisce

18
ogni nostro raziocinio”... Dalla dolorosa, alterna e
magmatica materia spirituale del suo diario, del suo
brogliaccio geniale d’intuizioni, fervido di progetti estetici
esistenziali letterari, corrotto nei continui ripen-samenti,
pause dialettiche, immensi malumori, raddolcito dai piccoli
idilli sognati o rubati alla vita - nasce il miglior autoritratto,
la più aderente soffusa e incisiva Storia dell’Anima di
Giacomo. Vi troviamo - ha ragione De Sanctis - “quello che
lo scrittore dettò aver l’uomo pensato, sentito e fatto”...
Questa “qualità rara”, di “severa conformità del pensiero e
della vita”, avrebbe del resto portato il grande storico della
letteratura ad ammirare e privilegiare perfino nella poesia
dei Canti la “transizione laboriosa” del secolo XIX, mediata,
testimoniata da una “vita interiore sviluppatissima”: “Ciò
che ha importanza” - sottolinea il De Sanctis - “non è la
brillante esteriorità di quel secolo del progresso, e non senza
ironia vi si parla delle sorti progressive dell’umanità. Ciò
che ha importanza è l’esplorazione del proprio petto, il
mondo interno, virtù, libertà, amore, tutti gl’ideali della
religione, della scienza e della poesia, ombre e illusioni
innanzi alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore, e non
vogliono morire”...
Dirò del mio spirito il male e il bene
indifferentemente - è il precipuo intento estetico, più che
autobiografico, di Storia di un’anima. Giustamente il Flora
identifica “la magia di quegli appunti”, di quei “frammenti
di compiuta bellezza”, proprio in una sorta di nobile e
fluente e sincera (perfino spudorata, aggiungiamo noi)
“virtualità poetica leopardiana, che sembra aspettare soltanto
l’occasione di fissarsi nel canto come in un suo naturale rito:
una virtualità ch’è uno stato di preghiera verso una meta

19
poetica”. Questo ce lo rende eternamente moderno e
finanche provocatorio. Lo stesso Flora teme una lettura
errata di questi appunti: “possiamo correre il pericolo di
leggerli come il capitolo finale dell’Ulysses di Joyce, o
come parole in libertà di un uomo di genio”... È invece la
poesia della memoria, la chiave di volta di tutto l’edificio
lirico leopardiano. Ancora e sempre ricordanza, avviata e
istigata dalla primigenia, sorgiva immaginosità infantile, e
poi adolescente di timori o entusiasmi.
Davvero questa totale aderenza sensibile, emotiva,
alla sfera umana, questo idealismo concretato, umiliato e
sublime in terrestrità - costituisce l’eterno fascino della
poesia e dell’uomo Leopardi: oggi e ieri, da un secolo
all’altro, di generazione in generazione. Da Nietzsche, ai cui
occhi giganteggiava come filologo-poeta, e come “più
grande prosatore del secolo” - alla restaurazione classicista
della “Ronda”, che resta il più appassionato e lucido
apostolato per un leopardismo del ‘900. “Capire Leopardi” -
scrisse Cardarelli, che di quel vero manifesto che fu
l’edizione rondista del Testamento letterario (1921), fu il
principale animatore, oltreché rivalutatore della prosa delle
Operette e dello Zibaldone - significa capire la tradizione e
la modernità ad un tempo” . Annessa e connessa, la risentita,
aspra critica della nostra malintesa tradizione letteraria: “Ma
noi siamo egualmente lontani dall’una e dall’altra. Il nostro
europeismo è di second’ordine. La nostra classicità è così
generica”... E tre anni prima, nel 1918, commentando “Il
Leopardi moralista” per una riedizione Zanichelli, a cura di
Giovanni Gentile, delle Operette, anche Tozzi intonava un
felice panegirico, tanto etico che stilistico: “A rileggere
questa prosa, nella quale l’asciuttezza trecentesca è

20
agevolata da una grazia che resterà sempre eguale, anche se
la nostra sciatteria finisca con il corromperci ad uno ad uno,
sembra d’aver trovato finalmente un compenso per tutte le
nostre ipocrisie letterarie”...
Oziose, risibili, per la sua grandezza, tutte le etichette
con cui la Storia della Letteratura si prova a catalogare il
Cuore della Scrittura, la Mente dello Spirito: alla domanda
“È il Leopardi un Romantico, od è un Classico?”, Giuseppe
Ungaretti si rifiuta di rispondere in termini semplicistici:
“Era un filologo, un poeta che sperimentalmente, sul vivo
della carne delle Parole, delle parole che portavano nella
loro carne i segni d’una storia, d’una lunga età (...) cercherà
gli effetti desiderati”... Questa Storia di un’anima è la
cartella clinica e insieme il diario di bordo di un’oceanica
traversata sensibile. Si salpa dalle “Memorie del primo
amore” (“Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio
cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta,
scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e
desiderio non sapeva né so di che”...) - e dalla carne
mitizzata e inaccessibile della cugina maritata Gertrude
Cassi, fiorisce al conte diciannovenne e frustrato la fiera,
trasparente stimmata del verso; sangue raggrumato in albare
reliquia del Primo Amore:
“...
Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m’entrò bassa nel petto,
Ch’arsi di foco intaminato e puro.
...”

Plinio Perilli

21
STORIA DI UN’ANIMA

SCRITTA DA GIULIO RIVALTA


PUBBLICATA DAL CONTE
GIACOMO LEOPARDI

22
Proemio
Incomincio a scrivere la mia Vita innanzi di sapere se
io farò mai cosa alcuna per la quale debbano gli uomini
desiderare di aver notizia dell’essere, dei costumi e dei casi
miei. Anzi, al contrario di quello che io aveva creduto
sempre per lo passato, tengo oramai per fermo di non avere
a lasciar di me in sulla terra alcun vestigio durevole. E per
questo medesimo mi risolvo ora di por mano a descrivere la
mia vita, perché quantunque in età di ventisette anni, e però
giovane di corpo, mi avveggo nondimeno che l’animo mio,
consumata già, non solo la giovanezza, ma eziandio la
virilità, è scorso anche molto avanti nella vecchiaia, dalla
quale non essendo possibile tornare indietro, stimo che la
mia vita si possa ragionevolmente dire quasi compiuta, non
mancando altro a compierla che la morte, la quale, o vicina o
lontana che ella mi sia, certo, per quel che appartiene
all’animo, non mi troverà mutato in cosa alcuna da quello
che io sono al presente. Intitolo questo mio scritto, istoria di
un’anima, perché non intendo narrare se non se i casi del
mio spirito, e anche non ho al mio racconto altra materia,
perocché nella mia vita niun rivolgimento di fortuna ho
sperimentato fin qui, e niuno accidente estrinseco diverso
dall’ordinario né degno per sé di menzione. Né pure i casi
che narrerò del mio spirito, credo già che sieno né debbano
parere straordinari: ma pure con tutto questo mi persuado
che agli uomini non debba essere discara né forse anche
inutile questa mia storia, non essendo né senza piacere né
senza frutto l’intendere a parte a parte, descritte dal principio
alla fine per ordine, con accuratezza e fedeltà, le intime

23
vicende di un qualsivoglia animo umano. Non avendo in
questo mio scritto a seguitare altro che il vero, dirò del mio
spirito il male e il bene indifferentemente: ma perciocché
molti sono così delicati e teneri che si risentono per ogni
menoma parola che essi credano risultare in lode di chi la
scrisse; a questi tali ed a chiunque fosse per giudicare che io
avessi nella presente storia trasandati i termini della
modestia, voglio per loro soddisfazione e contento, e per
segno della opinione che io ho di me stesso, protestare in sul
bel principio che io, considerata già da gran tempo bene e
maturamente ogni cosa, stimerei fare un infinito guadagno
se potessi (e potendo, non mancherei di farlo in questo
medesimo punto) scambiare l’animo mio con qual si fosse
tra tutti il più freddo e più stupido animo di creatura umana.

24
LIBRO PRIMO

25
FANCIULLEZZA DI UN’ANIMA

Capitolo primo
Del mio nascimento dirò solo, perocché il dirlo rileva
per rispetto delle cose che seguiranno, che io nacqui di
famiglia nobile in una città ignobile della Italia.

ALLA VITA ABBOZZATA DI


SILVIO SARNO
(DI RUGGIERO O RANUCCIO,
VANNI DA BELCOLLE).
Suono delle campanelle del pagode udito di notte o di
sera dopo la cena stando in letto. Mio desiderio della vita, e
opinione che fosse o potesse essere una bella cosa nel
Gennaio del 17, quando credeva di doverla ben presto
perdere, e come allora mi sembrava bello e desiderabile
quello che ora nelle stesse circostanze quanto al rimanente,
mi par compassionevole.
La cosa più notabile e forse unica in lui è che in età
quasi fanciullesca avea già certezza e squisitezza di giudizio
sopra le grandi verità non insegnate agli altri se non
dall’esperienza, cognizione quasi intera del mondo, e di se
stesso in guisa che conosceva tutto il suo bene e il suo male,
e l’andamento della sua natura, e andava sempre au devant
de’ suoi progressi, e secondo queste cognizioni regolava
anche le sue azioni e il suo contegno nella conversazione,
dov’era sempre taciturno, e non curante di far mostra di sé,
cosa stranissima ne’ giovani istruiti sopra l’età e vivaci (V.

26
l’istoria di Corinna nel romanzo di questo nome) e tutta
propria degli uomini di molto senno e maturi. Cognomi o
nomi di città. Poggio Ferraguti Stellacroce Villamagna
Santavilla Verafede Montechiuso Ottonieri Rivalta Peschiera
Pescheria Borghiglione Guidotti Ermanni Borgonuovo.

ALLA VITA DEL POGGIO


Da fanciullo avendo veduto alcune figure di S.Luigi a
cavallo per Roma, che la gente diceva, ecco il Santo, disse,
ancor io, cresciuto che sarò, voglio farmi Santo, e la gente
vedendomi passare, dirà: ecco il Santo. Vedete l’entusiasmo
di gloria che l’accendeva. Ma i suoi devoti parenti lo
pigliavano per devozione e inclinazione eroica alla santità,
né più né meno di quello che facesse egli medesimo allora.
Ma egli era fanciullo, ed avea ragione d’ingannarsi così
grossamente, dando principio alla santità coll’ambizione.
Utilità e scopo degli studi rendutogli vicino e
immediato coll’uso di compor libretti, e coprirli bene, e farli
leggere.

NOTIZIE SULLA SUA VITA*


Caro Amico. Ti mando le notizie poco notabili della
mia vita...
“Nato dal conte Monaldo Leopardi di Recanati, città
della Marca di Ancona, e dalla marchesa Adelaide Antici
della stessa città, al 29 giugno del 1798, in Recanati.
“Vissuto sempre nella patria fino all’età di 24 anni.

* Inviate all’amico carlo Pepoli, da Bologna, nel 1826.

27
“Precettori non ebbe se non per li primi rudimenti che
apprese da pedagoghi, mantenuti espressamente in casa da
suo padre. Bensì ebbe l’uso di una ricca biblioteca raccolta
dal padre, uomo molto amante delle lettere.
“In questa biblioteca passò la maggior parte della sua
vita, finché e quanto gli fu permesso dalla salute, distrutta
da’ suoi studi; i quali incominciò indipendentemente dai
precettori in età di 10 anni, e continuò poi sempre senza
riposo, facendone la sua unica occupazione.
“Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede
seriamente agli studi filologici, e vi perseverò per sette anni;
finché, rovinatasi la vista, e obbligato a passare un anno
intero (1819) senza leggere, si volse a pensare, e si affezionò
naturalmente alla filosofia; alla quale, ed alla bella
letteratura che le è congiunta, ha poi quasi esclusivamente
atteso fino al presente.
“Di 24 anni passò in Roma, dove rifiutò la prelatura e
le speranze di un rapido avanzamento offertogli dal cardinal
Consalvi, per le vive istanze fatte in suo favore dal
consiglier Niebuhr, allora Inviato straordinario della corte di
Prussia in Roma.
“Tornato in patria, di là passò a Bologna, ec.
“Pubblicò, nel corso del 1816 e 1817, varie traduzioni
ed articoli originali nello Spettatore, giornale di Milano, ed
alcuni articoli filologici nelle Effemeridi Romane del 1822:
“1. Guerra dei topi e delle rane, traduzione dal greco;
Milano, 1816: ristampata quattro volte in diverse collezioni.
“2. Inno a Nettuno (supposto), tradotto dal greco,
nuovamente scoperto, con note e con appendice di due odi
anacreontiche in greco (supposte) nuovamente scoperte;
Milano, 1817.

28
“3. Libro secondo dell’Eneide, tradotto; Milano,
1817.
“4. Annotazioni sopra la Cronica di Eusebio,
pubblicata l’anno 1818 in Milano dai Dott. Angelo Mai e
Giovanni Zohrab; Roma, 1823.
“5. Canzoni sopra l’Italia, sopra il monumento di
Dante che si prepara in Firenze; Roma, 1818. Canzone ad
Angelo Mai, quand’ebbe scoperto i libri di Cicerone della
Republica; Bologna, 1820. Canzoni (cioè Odes et non pas
Chansons), Bologna, 1824.
“6. Martirio de’ SS. Padri del Monte Sinai, e
dell’Eremo di Raitù, composto da Ammonio Monaco,
volgarizzamento (in lingua italiana del XIV secolo,
supposto) fatto nel buon secolo della lingua italiana; Milano,
1826.
“7. Saggio di operette morali; nell’Antologia di
Firenze, nel nuovo Raccoglitore, giornale di Milano; e a
parte, Milano, 1826.
“8. Versi (poesie varie); Bologna, 1826”.

29
LE PRIME RICORDANZE

RIMEMBRANZA
...Del resto la rimembranza, quanto più è lontana e
meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora
dolcemente, diletta l’anima, e fa più viva, energica,
profonda, sensibile e fruttuosa impressione, perch’essendo
più lontana e più sottoposta all’illusione, e non essendo
abituale, né essa individualmente, né nel suo genere, va
esente dall’influenza dell’assuefazione che indebolisce ogni
sensazione... Certo è però che tali lontane rimembranze,
quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di
genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali,
ispirando della poesia ec. non ponno ispirare che poesia
malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è
perduto.

FANCIULLEZZA, TEMPO FAVOLOSO


Gli anni della fanciullezza sono, nella memoria di
ciascheduno, quasi i tempi favolosi della sua vita; come,
nella memoria delle nazioni, i tempi favolosi sono quelli
della fanciullezza delle medesime.

LA PRIMA RICORDANZA:
LE PERE MOSCADELLE
La poca memoria de’ bambini e de’ fanciulli, che si conosce
anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’ primi
avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente

30
e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran
parte) alla mancanza di linguaggio ne’ bambini, e alla
imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli? Essendo certo
che la memoria dell’uomo è impotentissima (come il
pensiero e l’intelletto) senza l’aiuto de’ segni che fissino le
sue idee, e reminiscenze.
Ed osservate che questa poca memoria non può
derivare da debolezza di organi, mentre tutti sanno che
l’uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai
delle impressioni della infanzia, ancorché abbia perduto la
memoria per le cose vicinissime e presenti. E le più antiche
reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli. Ma elle
cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già
acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime
idee, che noi concepiamo unitamente ai loro segni, e che noi
potemmo fissare con le parole. Come la prima mia
ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e
sentiva nominare al tempo stesso.

AMORE DELLE FAVOLE


Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni,
stava sempre dietro a questa o quella persona perché mi
raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco
maggior età, era innamorato dei racconti, e del maraviglioso
che si percepisce coll’udito, o colla lettura (giacché seppi
leggere, ed amai di leggere assai presto). Questi, secondo
me, sono indizi notabili d’ingegno non ordinario e
prematuro. Il bambino quando nasce, non è disposto ad altri
piaceri che di succhiare il latte, dormire, e simili. Appoco
appoco, mediante la sola assuefazione, si rende capace di

31
altri piaceri sensibili, e finalmente va per gradi
avvezzandosi, fino a provar piaceri meno dipendenti dai
sensi. Il piacere dei racconti, sebbene questi vertano sopra
cose sensibili e materiali, è però tutto intellettuale, o
appartenente alla immaginazione, e per nulla corporale né
spettante ai sensi. L’esser divenuto capace di questi piaceri
assai di buon’ora, indica manifestamente una felicissima
disposizione, pieghevolezza ec. degli organi intellettuali, o
mentali, una gran facoltà e vivezza d’immaginazione, una
gran facilità di assue-fazione, e pronto sviluppo delle facoltà
dell’ingegno ec.

“TU MI FARAI DA CAVALLO”


Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno
de’ miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una
cordicella, lo venìa conducendo come per la briglia e
toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con
diletto, e non per questo erano altro che miei fratelli. Io mi
ricordo spesso di questo fatto, quando io vedo un uomo
(sovente di nessun pregio) servito riverentemente da questo
o da quello in cento minuzie, ch’egli potrebbe farsi da se, o
fare ugualmente a quelli che lo servono, e forse n’hanno più
bisogno di lui, che alle volte sarà più sano e gagliardo di
quanti ha dintorno. E dico fra me, né i miei fratelli erano
cavalli, ma uomini quanto me, e questi servitori sono uomini
quanto il padrone e simili a lui in ogni cosa; e tuttavia quelli
si lasciavano guidare benché fossero tanto cavalli quant’era
io, e questi si lasciano comandare; e tra questi e quelli non
vedo nessun divario.

32
ABILITÀ DI MANO
Anche gli organi esteriori, perduta l’assuefazione
generale, divengono generalmente inabili, quando anche una
volta fossero stati abilissimi. Io aveva da fanciullo una
sufficiente abilità generale di mano, a causa dell’esercizio,
lasciato il quale dopo alcuni anni, non so più far nulla con
quest’organo, se non le cose ordinarie; ed ho quindi affatto
perduta la sua abilità, tanto per quello ch’io già sapeva fare,
quanto per qualunque nuova operazione che allora mi
sarebbe riuscito facile di apprendere. Ecco un’immagine
della natura del talento.

L’OROLOGIO DELLA TORRE


Sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della
torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo
fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole
persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale
orologio. O pure situazione trasportata alla profondità della
notte o al mattino ancora silenzioso e all’età consistente.

IL CANE CARITATEVOLE
La natura ha poste negli esseri diverse qualità che si
sviluppano o no, secondo le circostanze. Per esempio, la
facoltà di compatire, in natura è molto meno operosa. Ma
non è già propria del solo uomo. In casa mia v’era un cane
che da un balcone gittava del pane a un altro cane sulla
strada. Vedi quello che racconta il Magalotti di una cagna
nelle Lettere sull’ateismo. In natura si restringe a quegli

33
esseri che ci toccano più da vicino. Così gli uccelli coi loro
figliuolini, vedendoseli rapire ec. se vedranno un altro
uccello della specie loro travagliato o moribondo, non se ne
daranno pensiero. Secondo lo sviluppo delle diverse qualità
per le diverse circostanze, è nata la legge detta naturale. Il
rubare l’altrui non ripugna assolutamente alla natura.
Costume degli Spartani. Differenze dalle leggi antiche alle
moderne.

SAPORE DELLE COSE LODATE


Quanta sia l’influenza dell’opinione e
dell’assuefazione anche sui sensi, l’ho notato altrove
coll’esempio del gusto, che pur sembra uno de’ sensi più
difficili ad essere influiti da altro che dalle cose materiali.
Aggiungo una prova evidente. Io mi ricordo molto bene che
da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon
sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch’essi
s’avessero) m’era lodato per buono da chi mi dava a
mangiare. Moltissime delle quali cose, ch’effettivamente
secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi
piacciono, ma mi dispiacciono. Né per tanto il mio gusto
intorno ai detti cibi s’è mutato a un tratto, ma a poco a poco,
cioè di mano in mano che la mente mia s’è avvezzata a
giudicar da se, e s’è venuta rendendo indipendente dal
giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che
preoccupa la sensazione. La qual assuefazione, ch’è propria
dell’uomo, e ch’è generalissima, potrà essere ridicola, ma
pur è verissimo il dire che influisce anche in queste minuzie,
e determina il giudizio del palato sulle sensazioni che se gli
offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva

34
essere prima della detta assuefazione. In somma tutto
nell’uomo ha bisogno di formarsi; anche il palato: ed è cosa
facilissimamente osservabile che il giudizio de’ fanciulli sui
sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente al gusto, è
incertissimo, confusissimo e imperfettissimo: e ch’essi in
moltissimi, anzi nel più de’ casi non provano punto né il
piacere che gli uomini fatti provano nel gustare tale o tal
cibo, né il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio i
villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di
poche qualità di cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il
sentimento ch’essi ne provano) è poco meno imperfetto e
dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa
dell’inesercizio del palato.
Del resto quello ch’io ho detto di me stesso, avviene
indubitatamente a tutti, e ciascuno se ne potrà ricordare.
Perché sebbene non tutti, col crescere, si liberano
dall’influenza della prevenzione, e acquistano l’abito di
giudicare da se generalmente parlando, pure, in quanto alle
sensazioni materiali, difficilmente possono mancare di
acquistarlo, essendo cosa di cui tutti gli spiriti sono capaci.
Nondimeno anche questo va in proporzione degl’ingegni, e
della maggiore o minore conformabilità, ed io ho
espressamente veduto uomini di poco, o poco esercitato
talento, durar lunghissimo tempo a compiacersi di saporacci
e alimentacci ai quali erano stati inclinati nella fanciullezza.
E ho veduto pochi uomini il cui spirito dalla fanciullezza in
poi abbia fatto notabile progresso, pochi, dico, n’ho veduti,
che anche intorno ai cibi non fossero mutati quasi
interamente di gusto da quel ch’erano stati nella puerizia.
Ben potrebbono tuttavia esser poco conformabili i
sensi esteriori, o qualcuno de’ medesimi, in un uomo di

35
conformabilissimo ingegno. Ma si vede in realtà che questo
accade di rado, e per lo più la natura degli individui (come
quella della specie, e dei generi, e come la natura universale)
si corrisponde appresso a poco in ciascuna sua parte. E in
questo caso particolarmente ciò è ben naturale, poiché la
conformabilità non è altro che maggiore o minor delicatezza
di organi e di costruzione; e difficilmente si trovano affatto
rozzi, duri, non pieghevoli i tali o tali organi in un individuo
che sia dilicatamente formato nell’altre sue parti. Come
infatti è osservato da’ fisici che l’uomo (della cui suprema
conformabilità di mente diciamo altrove) è parimente di tutti
gli animali il più abituale, e il più conformabile nel fisico:
però il genere umano vive in tutti i climi e uno individuo
medesimo in vari climi a differenza degli altri animali,
piante ec. Così mi faceva osservare in Firenze il Conte Paoli.

IL NOME E LA PERSONA
Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea,
un certo tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo
tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi più cognite e
familiari persone che hanno portato quei tali nomi.
Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora
corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone
relativamente a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.)
sentendo dare lo stesso nome ad un’altra persona diversa da
quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo
subito di quella persona un’idea conforme al detto tipo. E il
nome può essere elegantissimo, e quella tal persona
bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato
sopra una persona odiosa o brutta; anche quell’altra

36
bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno
troviamo una contraddizione tra il nome e il soggetto; o
proviamo una ripugnanza a credere quel soggetto diverso da
quel tipo e da quell’idea ec. Così viceversa e relativamente
alle varie qualità dei nomi e delle persone. Ed anche da
grandi, e dopo che l’immaginazione ha perduto il suo
dominio, dura per lungo tempo e forse sempre questo tale
effetto, almeno riguardo ai primi momenti, e
proporzionalmente alla forza dell’impressione ricevuta da
fanciulli, e dell’immagine concepita. Io da fanciullo ho
conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che
mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son grande provo
una certa ripugnanza a persuadermi che il nome di Teresa
possa appartenere ad una giovane, o bella, o amabile: o che
quella che porta questo nome possa aver questa qualità: e
insomma, sentendo questo nome, provo sempre
un’impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che
lo porta. E ordinariamente l’idea che noi abbiamo
dell’eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non
deriva dal suono materiale di esso nome, né dalle sue qualità
proprie assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate
con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima età.
Anche però viceversa potrà accadere che noi da fanciulli
concepiamo idea della persona, dal nome che porta,
massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute
solamente per nome; e giudichiamo della persona, secondo
l’effetto che ci produce il nome, col suono materiale, o col
significato che può avere, o con certe relazioni con altre
idee.

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BELLEZZA E BRUTTEZZA
Dicevami taluno com’egli avea molto conosciuto e
trattato sin dalla prima fanciullezza una persona già matura,
delle più brutte che si possano vedere, ma di maniere, di
tratto, d’indole, sì verso lui che verso tutti gli altri,
amabilissime, politissime, franche, disinvolte, d’ottimo
garbo. E che sentendo una volta (mentr’egli era ancora
fanciullo, ma grandicello) notare da un forestiero l’estrema
bruttezza di quella persona, s’era grandemente maravigliato,
non vedendo com’ella potesse esser brutta, ed avendo
sempre stimato tutto l’opposto. Questa medesima persona
era già vecchia quando io nacqui, la conobbi da fanciullo, mi
parve bella quanto può essere un vecchio (giacché il
fanciullo distingue pur facilmente la beltà giovenile dalla
senile), e non seppi ch’ella fosse bruttissima, se non dopo
cresciuto, cioè dopo ch’ella fu morta. E l’idea ch’io ne
conservo è ancora di persona piuttosto bella benché
vecchia.1 Così m’è accaduto intorno ad altre persone
parimente bruttissime (V. Ferri). Della bruttezza di altre non
mi sono accorto, se non crescendo in età ed osservandole
coll’occhio più esercitato ad attendere, e quindi a
distinguere, e più assuefatto alle proporzioni ordinarie ec.
(G. Masi). Vedi il pensiero antecedente. Tale è l’idea del
bello e del brutto ne’ fanciulli. Spiegate questi effetti, e
deducetene le conseguenze opportune. Probabilmente mi
saranno anche parse bruttissime delle persone che poi
crescendo avrò saputo o conosciuto essere o essere state
belle. E anche bellissime.

1 Questi cognomi tra parentesi appartengono a persone frequentate da


Leopardi nella sua giovinezza a Recanati.

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NON CI RIVEDREMO MAI PIÙ
Non c’è forse persona tanto indifferente per te, la
quale, salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti
in qualsivoglia maniera, e dicendoti Non ci rivedremo mai
più, per poco d’anima che tu abbia, non ti commuova, non ti
produca una sensazione più o meno trista. L’orrore e il
timore che l’uomo ha, per una parte, del nulla, per l’altra,
dell’eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si
può udire senza un certo senso. Gli effetti naturali bisogna
ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o
quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi
l’unico soggetto dove si possano esplorare, notare, e
notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti
veramente naturali. Io dunque da fanciullo aveva questo
costume. Vedendo partire una persona, quantunque a me
indifferentissima, considerava se era possibile o probabile
ch’io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva
intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o
cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo
sempre fra me stesso, e addentrandomi nell’animo, e
sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l’ultima
volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più. E così la morte
di qualcuno ch’io conoscessi, e non mi avesse mai
interessato in vita; mi dava una certa pena, non tanto per lui,
o perch’egli m’interessasse allora dopo morte, ma per questa
considerazione ch’io ruminava profondamente: è partito per
sempre per sempre? Sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo
vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune
colla mia vita. E mi poneva a riandare, s’io poteva, l’ultima
volta ch’io l’aveva o veduto, o ascoltato ec. e mi doleva di

39
non avere allora saputo che fosse l’ultima volta, e di non
essermi regolato secondo questo pensiero.

ARIA DI VOLTO
La mia faccia aveva quando io era fanciulletto e
anche più tardi un so che di sospiroso e serio che essendo
senza nessuna affettazione di malinconia ec. le dava grazia
(e dura presentemente cangiata in serio malinconico) come
vedo in un mio ritratto fatto allora con verità, e mi dice di
ricordarsi molto bene un mio fratello minore di un anno,
(giacché io allora non mi specchiava) il che mostra che la
cosa durò abbastanza poich’egli essendo minore di me se ne
ricorda con idea chiara.
Quest’aria di volto colle maniere ingenue e non
corrotte né affettate dalla cognizione di quel ch’erano o dal
desiderio di piacere ec. ma semplici e naturali altrimenti che
in quei ragazzi ai quali si sta troppo attorno mi fecero amare
in quella età da quelle poche Signore che mi vedevano in
maniera così distinta dagli altri fratelli che questo amore
cresciuto ch’io fui durò poi sempre assolutamente parziale
fino al 21 anno nel quale io scrivo (11 Marzo 1819) quando
quest’amore per quella quindicina d’anni ch’essendo
cresciuta a me era cresciuta anche alle Signore già mature
fin dal principio non era punto pericoloso. E una di queste
Signore anzi sempre che capitava l’occasione, più e più
volte mi dicea formalmente che quantunque volesse bene
anche agli altri fratelli, non potea far che a me non ne
volesse uno molto particolare, e si prendeva effettivamente
gran pena d’ogni cosa sinistra che m’accadesse, anche delle
minime bagattelle, e questo senza ch’io le avessi dato un

40
minimo segno di particolar benevolenza né compiaciutala
notabilmente o precisamente in nessuna cosa, anzi
fuggendola il più che poteva quanto nessun’altra.
“Euedes euedeia ec., Bonitas bonus vir ec.,
bonhomme, bonhomie ec., dabben uomo, dabbenaggine
ec.”. Parole il cui significato ed uso provano in quanta stima
dagli antichi e dai moderni sia stata veramente e
popolarmente (giacché il popolo determina il senso delle
parole) tenuta la bontà. E in vero io mi ricordo che quando
io imparavo il greco, incontrandomi in quell’”euedes” ec.,
mi trovava sempre imbarazzato, parendomi che siffatte
parole suonassero lode, e non potendomi entrare in capo
ch’elle si prendessero in mala parte, come pur richiedeva il
testo. Avverto che io studiava il greco da fanciullo.

41
ADOLESCENZA

TIMOR PANICO
Superiorità della natura sulla ragione,
dell’assuefazione (ch’è seconda natura) sulla riflessione.
Mio timor panico d’ogni sorta di scoppi, non solo pericolosi
(come tuoni, ec.), ma senz’ombra di pericolo (come spari
festivi ec.); timore che stranamente e invincibilmente mi
possedette non pur nella puerizia, ma nell’adolescenza,
quando io era bene in grado di riflettere e di ragionare, e così
faceva io infatti, ma indarno per liberarmi da quel timore,
benché ogni ragione mi dimostrasse ch’egli era tutto
irragionevole. Io non credeva che vi fosse pericolo, e sapeva
che non v’era pericolo né che temere; ma io temeva niente
manco che se io avessi saputo e creduto e riflettuto il
contrario. Non poté né la ragione né la riflessione liberarmi
da quel timore irragionevolissimo, perch’esso m’era
cagionato dalla natura. Né io certo era de’ più stupidi e
irriflessivi, né di quelli che men vivono secondo ragione, e
meno ne sentono la forza, e son meno usi di ragionare, e
seguono più ciecamente l’istinto o le disposizioni naturali.
Or quello che non poté per niun modo la ragione né la
riflessione contro la natura, lo poté in me la natura stessa e
l’assuefazione; e il poté contro la ragione medesima e contro
la riflessione. Perocché coll’andar del tempo, anzi dentro un
breve spazio, essendo stato io forzato in certa occasione a
sentire assai da vicino e frequentemente di tali scoppi, perdei
quell’ostinatissimo e innato timore, in modo che non solo
trovava piacere in quello che per l’addietro m’era stato
sempre di grandissimo odio e spavento senza ragione, ma

42
lasciai pur di temere e presi anche ad amare nel genere
stesso quel che ragionevolmente sarebbe da esser temuto; né
la ragione o la riflessione che già non poterono liberarmi dal
timor naturale, poterono poscia, né possono tuttavia, farmi
temere o solamente non amare, quello che per natura o
assuefazione, irragionevolmente, io amo e non temo. Né io
son pur, come ho detto, de’ più irriflessivi, né manco di
riflettere ancora in questo proposito all’occasione, ma
indarno per concepire un timore che non mi è più naturale.
Questo ch’io dico di me, so certo essere accaduto e accadere
in mille altri tuttogiorno, o quanto all’una delle due parti
solamente, o quanto ad ambedue. Quello che non può in
niun modo la riflessione, può e fa l’irriflessione.

LETTA LA VITA DI VITTORIO ALFIERI


SCRITTA DA ESSO
In chiuder la tua storia, ansante il petto,
Vedrò, dissi, il tuo marmo, Alfieri mio,
Vedrò la parte aprica e il dolce tetto
Onde dicesti a questa terra addio.

Così dissi inaccorto. E forse ch’io


Pria sarò steso in sul funereo letto,
E de l’ossa nel flebile ricetto
Prima infinito adombrerammi obblio:

Misero quadrilustre. E tu nemica


La sorte avesti pur: ma ti rimbomba
Fama che cresce e un dì fia detta antica.

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Di me non suonerà l’eterna tromba;
Starommi ignoto e non avrò chi dica,
A piangere i’ verrò su la tua tomba.

Primo sonetto composto tutto la notte avanti il 27


Novembre 1817, stando in letto, prima di addormentarmi,
avendo poche ore avanti finito di leggere la vita dell’Alfieri,
e pochi minuti prima, stando pure in letto, biasimata la sua
facilità di rimare, e detto fra me che dalla mia penna non
uscirebbe mai sonetto; venutomi poi veramente prima il
desiderio e proponimento di visitare il sepolcro e la casa
dell’Alfieri, e dopo il pensiero che probabilmente non potrei.

Scritto ai 29 di novembre.

MEMORIE DEL PRIMO AMORE


Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da
più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti
fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo, per
rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa
stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e
questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato
vanissimo fin qui.
Ma la sera dell’ultimo Giovedì, arrivò in casa nostra,
aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta
capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una
Signora Pesarese nostra parente più tosto lontana,* 2 di
ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e

2 Gertrude Cassi in Lazzari.

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pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io
m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano,
lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi
nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me,
graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane
dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e
particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una
certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane.
Quella sera la vidi, e non mi dispiacque; ma le ebbi a
dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il
Venerdì le dissi freddamente due parole prima del pranzo:
pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole
sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di
mirare un volto più tosto bello, alquanto maggiore che se
avessi contemplato una bella pittura. Così avea fatto la sera
precedente, alla cena. La sera del Venerdì, i miei fratelli
giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui
costretto di giuocare agli scacchi con un altro: mi ci misi per
vincere, a fine di ottenere le lodi della Signora (e della
Signora sola, quantunque avessi dintorno molti altri) la quale
senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo
vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci badò,
poi lasciate le carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti
degli scacchi: lo feci ma insieme cogli altri, e però con poco
diletto, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità imparava, e
non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia
(come a me si sarebbero senza dubbio confusi), e ne
argomentai quello che ho poi inteso da altri, che fosse
Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo
giuocare coi fratelli, m’avea suscitato gran voglia di
giuocare io stesso con lei, e così ottenere quel desiderato

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parlare e conversare con donna avvenente: per la qual cosa
con vivo piacere sentii che sarebbe rimasta fino alla sera
dopo. Alla cena, la solita fredda contemplazione.
L’indomani nella mia votissima giornata aspettai il
giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna: o
credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non
mi passò per la mente ch’io ne potessi uscire malcontento.
Venuta l’ora, giuocai. N’uscii scontentissimo e inquieto.
Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con
dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea
trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto
ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e
parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde
cercando fra me perché fossi scontento, non lo sapea trovare.
Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto,
ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti
dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si
poteva e quanto io m’era potuto aspettare. Conosceva però
benissimo che quel piacere era stato più torbido e incerto,
ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne
incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il
cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i
discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono
sempre più; e insomma la Signora mi premeva molto: la
quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io
l’avrei riveduta.
Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio
cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta,
scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e
desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose
possibili vedo niente che mi possa appagare. Mi pasceva

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della memoria continua e vivissima della sera e dei giorni
avanti, e così vegliai sino al tardissimo, e addormentatomi,
sognai sempre come un febbricitante, le carte il giuo-co la
Signora; contuttoché vegliando avea pensato di sognarne, e
mi parea di aver potuto notare che io non avea mai sognato
di cosa della quale avessi pensato che ne sognerei: ma quegli
affetti erano in guisa padroni di tutto me e incorporati colla
mia mente, che in nessun modo né anche durante il sonno mi
poteano lasciare.
Svegliatomi prima del giorno (né più ho ridormito),
mi sono ricominciati, com’è naturale, o più veramente
continuati gli stessi pensieri, e dirò pure che io avea prima di
addormentarmi considerato che il sonno mi suole
grandemente infievolire e quasi ammorzare le idee del
giorno innanzi specialmente delle forme e degli atti di
persone nuove, temendo che questa volta non mi avvenisse
così. Ma quelle per lo contrario essendosi continuate anche
nel sonno mi si sono riaffacciate alla mente freschissime e
quasi rinvigorite. E perché la finestra della mia stanza
risponde in un cortile che dà lume all’androne di casa, io
sentendo passar gente così per tempo, subito mi sono
accorto che i forestieri si preparavano al partire, e con
grandissima pazienza e impazienza, sentendo prima passare
i cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giù, ho
aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso,
credendo a ogni momento che discendesse la Signora, per
sentirne la voce l’ultima volta; e l’ho sentita.
Non m’ha saputo dispiacere questa partenza, perché
io prevedeva che avrei dovuto passare una trista giornata se i
forestieri si fossero trattenuti. Ed ora la passo con quei moti
specificati di sopra, e aggiugnici un doloretto acerbo che mi

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prende ogni volta che mi ricordo dei dì passati, ricordanza
malinconica oltre a quanto io potrei dire, e quando il ritorno
delle stesse ore e circostanze della vita, mi richiama alla
memoria quelle di que’ giorni, vedendomi dintorno un gran
voto, e stringendomisi amaramente il cuore. Il quale
tenerissimo, teneramente e subitamente si apre, ma solo
solissimo per quel suo oggetto, ché per qualunque altro
questi pensieri m’hanno fatto e della mente e degli occhi
oltremodo schivo e modestissimo, tanto ch’io non soffro di
fissare lo sguardo nel viso sia deforme (che se più o manco
m’annoi, non lo so ben discernere) o sia bello a chicchessia,
né in figure o cose tali; parendomi che quella vista
contamini la purità di quei pensieri e di quella idea ed
immagine spirante e visibilissima che ho nella mente. E così
il sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta come
a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del corpo
addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come
veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa
disperare il sentir discorsi allegri, e in genere tacendo
sempre, sfuggo quanto più posso il sentir parlare, massime
negli accessi di quei pensieri. A petto ai quali ogni cosa mi
par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzava,
anche lo studio, al quale ho l’intelletto chiusissimo, e quasi
anche, benché forse non del tutto, la gloria. E sono
svogliatissimo al cibo, la qual cosa noto come non ordinaria
in me né anche nelle maggiori angosce, e però indizio di
vero turbamento.
Se questo è amore, che io non so, questa è la prima
volta che io lo provo in età da farci sopra qualche
considerazione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo,
innamorato.

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E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima,
e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne
sarò sempre schiavo. Benché questo presente (il quale, come
ieri sera quasi subito dopo il giuocare, pensai, probabilmente
è nato dall’inesperienza e dalla novità del diletto) son certo
che il tempo fra pochissimo lo guarirà: e questo non so bene
se mi piaccia o mi dispiaccia, salvo che la saviezza mi fa
dire a me stesso di sì.
Volendo pur dare qualche alleggiamento al mio cuore,
e non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere,
né potendo oggi scrivere altro, tentato il verso, e trovatolo
restio, ho scritto queste righe, anche ad oggetto di speculare
minutamente le viscere dell’amore, e di poter sempre
riandare appuntino la prima vera entrata nel mio cuore di
questa sovrana passione.

La Domenica 14 di Decembre 1817

Ieri, avendo passata la seconda notte con sonno


interrotto e delirante, durarono molto più intensi ch’io non
credeva, e poco meno che il giorno innanzi, gli stessi affetti,
i quali avendo cominciato a descrivere in versi ieri notte
vegliando, continuai per tutto ieri, e ho terminato questa
mattina stando in letto.
Ieri sera e questa notte c’ho dormito men che
pochissimo, mi sono accorto che quella immagine per
l’addietro vivissima, specialmente del volto, mi s’andava a
poco a poco dileguando, con mio sommo cordoglio, e
richiamandola io con grandissimo sforzo, anche perché avrei
voluto finire quei versi de’ quali era molto contento, prima
d’uscire del caldo della malinconia. Avanti d’addormentarmi

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ho previsto con gran dispiacere che il sonno non sarebbe
stato così torbido come le notti passate, e così è successo, ed
ora tutti quegli difetti sono debolissimi, prima per la solita
forza del tempo, massimamente in me, poi perché il
comporre con grandissima avidità quei versi, oltre che m’ha
e riconciliato un poco colla gloria, e sfruttatomi il cuore,
l’avere poi con ogni industria ad ogni poco incitati e
richiamati quegli affetti e quelle immagini, ha fatto che
questi non essendo più così spontanei si sieno infievoliti. Ma
perché essi mi vadano abbandonando, non me ne scema il
voto del cuore, anzi più tosto mi cresce, ed io resto inclinato
alla malinconia, amico del silenzio e della meditazione, e
alieno dai piaceri che tutti mi paiono più vili assai di quello
c’ho perduto. E insomma io mi studio di rattenere quanto
posso quei moti cari e dolorosi che se ne fuggono: per li
quali mi pare che i pensieri mi si sieno più tosto ingranditi, e
l’animo fatto alquanto più alto e nobile dell’usato, e il cuore
più aperto alle passioni. Non però in nessun modo all’amore
(se non solamente verso il suo oggetto), che il fastidio
d’ogni altra bellezza umana è, posso dire, dei moti descritti
di sopra quello che più vivo e saldo mi si mantiene nella
mente. E una delle cagioni di ciò (oltre l’essere ora il mio
cuore troppo signoreggiato da un sembiante), come anche di
tutta questa mia crisi, è, come poi pensando m’è parso di
poter affermare, l’impero che, se non fallo, per natura mia,
hanno e debbono avere nella mia vita sopra di me due cose.
Prima i lineamenti forti (purché sieno misti col
delicato e grazioso e non virili), gli occhi e capelli neri, la
vivacità del volto, la persona grande: e però io aveva già
prima d’ora ma con molta incertezza osservato che le facce
languide e verginali e del tutto delicate, capelli o biondi o

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chiari, statura bassa, maniere smorte, e così discorrendo, mi
faceano molto poca forza, e forse forse qualche volta niuna,
quando queste qualità davano in eccesso, e per avventura in
altri facevano più gran presa.
Secondo, le maniere graziose e benigne ma niente
affettate, e soprattutto nessun torcimento notabile, nessun
moto troppo lezioso, nessunissima smorfia, insomma, come
di sopra ho detto, le maniere pesaresi, che hanno anche
quanto alla grazia e alla vivacità modesta un altro non so che
ch’io non posso esprimere; e per questo e per la disinvoltura
e la fuga dell’affettazione (almeno in quella di cui scrivo),
vantaggiano a cento doppi le marchegiane; le quali ora
conosco essere molto più affettate e smorfiose e meno
leggiadre.
Per queste due cagioni, il guardare o pensare ad altro
aspetto (poiché io non vedo né, posso dire, ho veduto altro
che marchegiane) mi par che m’intorbidi e imbruttisca la
vaghezza dell’idea che ho in mente, di maniera che lo schivo
a tutto potere.

Il Martedì 16 Decembre 1817

Ieri dopo liberatomi dal peso de’ versi, quegli affetti


non mi parvero né così deboli né così vicini a lasciarmi
come m’erano paruti la mattina, in ispecie quella dolorosa
ricordanza spesso accompagnata da quell’incerto scontento e
dispiacere o dubbio di non aver forse goduto bastantemente,
che fu il primo sintoma della mia malattia, e che ancor dura,
e quasi non so vedere come mi possa passare, eccetto che
per la natural forza del tempo non è così intenso come da

51
principio, ma né anche così indebolito come si potrebbe
credere e come io credeva che sarebbe stato.
Ieri sera la continua malinconia di tre giorni, la spessa
e lunga tensione del cervello, tre notti non dormite,
l’inquietudine, il mangiar meno del solito, m’aveano
alquanto indebolito, e istupiditami la testa; nondimeno io era
e sono contento di questo stato di malinconia uguale uguale,
e di meditazione, vedendomi anche l’animo più alto, e non
curante delle cose mondane e delle opinioni e dei disprezzi
altrui, e il cuore più sensitivo molle e poetico.
Questa notte per la prima volta son tornato al sonno
così lungo com’è l’ordinario, e ho sognato della solita
passione, ma per poco nel fine, e senza turbamento.
Oggi durano appresso a poco gl’istessi pensieri e
sentimenti di ieri e di ieri sera, la stessa svogliatezza al cibo
e ad ogni diletto, in particolare alla lettura, e massime di
cose d’amore, perché come io non posso vedere bellezze
umane reali, così né anche descritte, e mi fa stomaco il
racconto degli affetti altrui. In genere questa svogliatezza a
ogni cosa e specialmente allo studio, mi pare così radicata in
me, che io non so vedere come ne uscirò, non facendo con
piacere altra lettura che quella de’ miei versi su questo
argomento, e di queste righe. Alle ragioni del presente mio
stato addotte di sopra mi pare che vada aggiunta quella
dell’essermi riuscite nuove ed insolite le maniere della
Signora, cioè le pesaresi (vedute da me di raro), se bene non
conversando io punto mai con donne, parrebbe che anche le
maniere marchegiane dovessero riuscirmi pressoché nuove,
e però da questa parte non ci fosse ragione perché non
m’avessero a fare l’istesso effetto. Nondimeno credo che
bisogni fare qualche caso anche di questa osservazione,

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perché è naturale che la maggior novità mi dovesse riuscire
più grata, ed eccitarmi maggiormente all’attenzione: e mi
par poi che la sperienza la confermi.

Il Mercoledì 17 di Decembre 1817

La sera d’avanti ieri mi parve che il mio caro dolore


stesse veramente per licenziarsi, e così ieri mattina.
Tornavami l’appetito, passavami per la mente un pensiero
che avrei fatto bene a ripigliare lo studio, pareami d’esser
fatto meno restio al ridere e meno svogliato a certi dilettucci
della giornata, ricominciava a ragionare tra me stesso così di
questa come d’altre cose tranquillamente come soglio, di
maniera che io con molto dispiacere n’argomentava che
presto sarei tornato come prima. I sogni di ieri notte due o
tre volte mi mentovarono il solito oggetto, ma per
pochissimo e placidamente.
Ieri però quasi a un tratto, principalmente per avere
udito parlare della Signora, mi riprese l’usata malinconia, e
n’ebbi degli accessi così forti che quasi mi parea d’esser
tornato al principio della malattia. Lo stesso turbamento di
stomaco nel sentir parole allegre, lo stesso dolore, la stessa
profonda e continua meditazione, e quasi anche la stessa
smania e lo stesso affanno, le quali due cose in genere non
mi parea d’aver mai provate veramente fuori che la sera e
notte del Sabato, tutta la Domenica, e (ma già molto
rintuzzate) la prima parte del Lunedì.
E in verità in questi ultimi giorni non potendo più la
malinconia per cagione del tempo durare tuttavia così calda
ed intensa come ne’ primi, s’è risoluta in parecchi accessi,
ora più lunghi ed ora meno, ora più ora meno forti, e talvolta

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così gagliardi che la cedono a pochi di que’ primi. E in
particolare mi dura quello scontento, sul quale io riflettendo,
m’è paruto d’accorgermi ch’egli appartenga al tempo, cioè
che io avrei voluto giuocare più a lungo; non già che
propriamente mi paresse d’aver giuocato poco, o vero meno
ch’io non m’aspettava; né pure che mentre ch’io giuocava,
fossi contento, e non mi dolesse altro che il dover presto
lasciare; né manco finalmente che io giuocando più a lungo
e giuocando un mese e un anno, avessi potuto mai uscirne
pago, che m’accorgo bene ch’io non sarei stato mai altro che
scontentissimo; ma tuttavia mi pare che questo scontento mi
s’affacci alla mente con un colore d’avidità, come se venisse
da un desiderio di godere più a lungo, e da una cieca
ingordigia inconten-tabilissima, che nel tempo del giuoco
quanto maggior diletto ci provava tanto più m’affannava e
m’angosciava, quasi che mi facesse fretta di goder di quel
bene che presto e troppo presto avrei perduto.
Già la sera del Lunedì quella vagheggiatissima
immagine del volto, forse per lo averla troppo avidamente
contemplata, m’era pressoché del tutto svanita di mente; e
quindi in poi con gran cordoglio posso dire di non averla più
veduta, se non come un lampo alle volte di sfuggita e
sbiaditissima, e questo, mentre l’immagine del suo
compagno ch’io non ricerco per niente, mi si fa innanzi viva
freschissima e vegeta sempre ch’io me ne ricordo.
Ogni sera, stando in letto e vegliando a lungo, con
ogni possibile industria m’adopero di richiamarmi alla
mente la cara sembianza, la quale probabilmente per questo
appunto ch’io con tanto studio la cerco, mi sfugge, ed io non
arrivo a vederne altro che i contorni, e ci affatico tanto il
cervello che alla fine mi addormento per forza colla testa

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annebbiata infocata e dolente. Così m’accadde ieri sera, ma
questa mattina svegliatomi per tempissimo, in quel proprio
punto di svegliarmi, tra il sonno e la veglia spontaneamente
m’è passata innanzi alla fantasia la desiderata immagine
vera e viva, onde io immediatamente riscosso e spalancati
gli occhi, subito le son corso dietro colla mente, e se non
sono in tutto riuscito a farla tornare indietro, pure in quella
freschezza di mente mattutina, tanto ne ho veduto e
osservato e dell’aria del volto, e dei moti e dei gesti e del
tratto e dei discorsi e della pronunzia, che non che m’abbia
fatto maraviglia l’esserne stato una volta preso, ho anzi
considerato che se io avessi quelle cose tuttora presenti alla
fantasia, sarei ben più smanioso e torbido ch’io non sono.
Ora appresso a poco io duro come ne’ giorni innanzi,
parendomi che il solo mio vero passatempo sia lo scrivere
queste righe; coll’animo voto o più tosto pieno di tedio
(eccetto nel caldo di quei pensieri), perché non trovo cosa
che mi paia degna d’occuparmi la mente né il corpo, e
guardando come il solo veramente desiderabile e degno di
me quel diletto che ho perduto, o almeno come maggiore di
qualunque altro ch’io mi potrei procacciare, ogni cosa che a
quello non mi conduce, mi par vana; e però lo studio (al
quale pure di quando in quando ritorno svogliatissimamente
e per poco) non m’adesca più, e non mi sa riempiere il voto
dell’animo, perché il fine di questa fatica, che è la gloria,
non mi par più quella gran cosa che mi pareva una volta, o
certo io ne veggo un’altra maggiore, e così la gloria divenuto
un bene secondario non mi par da tanto ch’io ci abbia da
spender dietro tutta la giornata, distogliendomi dal pensare a
quest’altro bene: oltrech’ella per avventura mi pare una cosa
più lontana, e questo in certa guisa più vicino, forse perché

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nell’atto di leggere e di studiare non s’acquista gloria, ma
nell’atto di pensare a quest’altro bene s’acquista quel
doloroso piacere, che pure il cuor mio giudica il più vero e
sodo bene ch’io ora possa cercare.
Ed anche quando non penso a questo bene, non però
mi so risolvere di darmi allo studio, per questa ragione ch’io
ho detto, che mi par poco degno di me e poco importante, e
perché in somma ho in testa un oggetto che più mi preme, e
o ci pensi o non ci pensi, sempre m’impedisce ogni seria
applicazione di mente a cosa ch’esso non sia. E però non so
vedere come ripiglierò l’antico amore allo studio, perché mi
pare che anche passata questa infermità di mente, sempre mi
dovrà restare il pensiero che c’è una cosa più dilettosa che lo
studio non è, e che io n’ho fatto una volta lo sperimento.

Il Venerdì 19 Decembre 1817

Il tempo pigliò avanti ieri sera e tutto ieri gran


vantaggio sulla mia passione, la quale va adesso veramente
scadendo e mancando, né io ripugnava più tanto alla lettura,
anzi tra la passione e l’amore dello studio, parea che quella a
poco a poco scemando tuttavia di peso, questo cominciasse a
dare il crollo alla bilancia; e ammansato l’animo mio e fatto
men severo e nemico de’ piaceruzzi, e accostumatomi a que’
pensieri e però non mi facendo più quell’effetto, e
potendogli assaporare senza inquietudine e con meno diletto
e più tranquillo, e diradati e indeboliti gli accessi di
malinconia; l’appetito già dalla sera del Mercordì
cominciatosi a raggiustare, tornavami al suo sesto, ed io
quasi ripigliava le costumanze di prima, se ben sempre mi
pareva e mi pare che qualche cosa mi manchi, e ch’io potrei

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star meglio che non isto, e provare un certo diletto che non
provo.
Ieri mattina svegliatomi, e pensando al solito oggetto,
in sul riaddormentarmi m’apparve la desiderata e cercata
immagine più viva assai che il giorno prima, anzi così
spirante ch’io subito la sentii parlare appuntino come quella
persona suole, e come la memoria mia stanca e spremuta
non mi sapea né mi sa ricordare: che passati quei pochi
minuti ch’io vidi e contemplai e godetti palpitando quella
sembianza, con ogni immaginabile studio riconducendola
ne’ luoghi ne’ quali avea già veduto l’oggetto reale, e
particolarmente nel giuoco; quel fantasma secondo l’usato
sparì, né più mi s’è lasciato vedere se non dilavato e
smortissimo. E quando così smorto mi si presenta, per
l’essermici io avvezzato, come ho detto, non mi turba più
gran cosa: e in oltre anche quando è veramente chiaro e
spiccato, m’affanna alquanto meno che ne’ primi giorni, e
pare che la mente più tosto che di tenergli dietro, ami di
ricoverarsi in qualche altro suo pensiero gradito (per lo più
degli studi), tra perché ci s’affatica meno, e perché oramai
inclina meglio alla calma che alla tempesta.
A ogni modo io sento ancora e tutto ieri sentii
l’impero di quella dolorosa e scontenta ricordanza ch’è il
fondamento e l’anima delle mie malinconie, né par che per
ora mi voglia lasciare, contuttoché sia meno amara e meno
viva, e mi s’affacci alla mente più di rado, e ci resti meno a
lungo. E più debole è quando sorge spontaneamente,
imperocché piglia più forza, e mi s’interna maggiormente
nell’animo, e arriva anche a turbarmi quando è svegliata da
qualche oggetto di fuori, com’è il sentir parlare di quella
persona, e il giuocare che mi bisogna far tutte le sere: e in

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ispecie ieri sera giuocando e ricordandomi bene ch’era
l’ottava di quel fatal giorno, presemi gagliardamente quel
tristo pensiero, tanto ch’io n’alzai gli occhi verso quella
parte dov’era stata la Signora, per guardarla, com’avea fatto
in quel turbolento giuocare, quasi ch’ella ancora ci fosse. E
durando il cuor mio più sensitivo assai dell’ordinario, e
sempre sulle mosse, e voglioso di slanciarsi, non è dubbio
che la musica, s’io ne sentissi in questi giorni, mi farebbe
dare in ismanie e in furori, e ch’io n’impazzerei dagli affetti;
e l’argomento così dal consueto incredibile potere della
musica sopra di me, come dalle spinte che mi davano al
cuore certi vilissimi canterellacci uditi a caso in questo
tempo.
Nei sogni di questa notte ho veduto il doloroso
oggetto più a lungo che i giorni innanzi, e con qualche
inquietudine da vantaggio, ma così sformato e guasto che la
ricordanza del sogno non m’ha punto mosso dopo svegliato.

La Domenica 21 Decembre 1817

Chiudo oggi queste ciarle che ho fatte con me stesso


per isfogo del cuor mio e perché mi servissero a conoscere
me medesimo e le passioni; ma non voglio più farne, perché
non si sa quando io mi risolverei di finire, e oramai poco
potendo dire di nuovo, mi pare ch’io ci perderei il tempo, del
quale io soglio far caso, ed è bene che torni a servirmene
giacché la passione al tutto non me l’impedisce. La quale già
si va dileguando, in tanto che io nelle mie occupazioni
ricomincio ad amar l’ordine, quando ne’ giorni addietro non
lo curava e più tosto l’odiava, e m’adatto al ridere, e al
pensare di proposito ad altre cose, e allo studiare; eccetto

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che l’amor dello studio provo di racconciarlo colla passione,
proponendo così in aria di scrivere qualche cosa dov’io
possa ragionare con quella Signora, o introdurla a favellare;
e immaginandomi di potere forse una volta divenuto qualche
cosa di grande nelle lettere, farmele innanzi in maniera da
esserne accolto con piacere e stima. E di questi stessi
pensieri mi sono di quando in quando pasciuto anche ne’ dì
passati.
Io dunque ripiglio il consueto tenore di vita, perché la
passione languente non mi sa più riempire la giornata; e
langue la passione per difetto d’alimento, essendo stata
proprio in sul nascere immediatamente strozzata dalla
partenza del suo oggetto; laonde finora non s’è nutrita
d’altro che di ricordanza e d’immagini, delle quali
immagini, come ho detto, la fantasia mi s’è da più giorni
impoverita: che certo s’io fossi in luogo dove potessi a mio
talento praticare colla Signora, o anche solamente vederla di
quando in quando, la passione non che ora languisse,
menerebbe gran fiamma, e sarebbe veramente incominciata
per me una fila di giorni smaniosissimi e infelici, com’io me
ne posso avvedere considerando il tremito e l’inquietudine
che mi muove il rappresentarmi un po’ vivamente al
pensiero le forme e gli atti della Signora, il che oramai,
come ho notato, di rarissimo e per pochissimo mi vien fatto.
E così ora la passione sarebbe più vigorosa che non è, se
dopo nata avesse avuto spazio di crescere alquanto e di
pigliar piede nutrendosi d’altro che di rimembranza; ma di
ciò fare non ebbe, come ho raccontato, altro spazio che una
mezza sera. Contuttociò ella, nonostanteché langua come un
lume a cui l’olio vada mancando, pur tuttavia dura e durerà
fors’anche lungo tempo, sempre languendo e facendo vista

59
di spegnersi, e tratto tratto mandando qualche favilluzza,
come nelle ore di più ozio e soprattutto di malinconia, ch’io
credo che l’animo mio dovrà per molto spazio risentire a
ogni altra sua malattia questa piaghetta rimasa mezzo
saldata.
Ora di questo lungo solco che la passione partendo mi
lascerà nel cuore, e che principalmente consisterà in un certo
indistinto desiderio, e scontento delle cose presenti, e in
accessi più o meno lunghi e risentiti della solita lamentevole
e tenera ricordanza che in particolare mi sarà destata dagli
oggetti esterni (come quelli che ieri specificai), non intendo
di scriver più altro, bastandomi d’aver tenuto dietro agli
affetti miei sino al vederli languire, ed esser chiaro del modo
nel quale si spegneranno. E quando saranno spenti, caso che
io riveda (come penso che rivedrò, e al presente lo desidero)
quel fatale oggetto, mi rendo quasi certo che riarderanno
violentissimamente; e così non dubito che se una volta mi
sarà facile, purch’io voglia, di portarmi da me stesso a
rivederlo, e molto più se l’occasione me ne verrà, io
tremando e sudando freddo, e biasimando altamente me
stesso, e dandomi del pazzo, e compassionandomi, senza
però dubitare correrò a quel temuto diletto: salvo se la
lunghezza del tempo, e più l’aver conversato con altre
donne, e conceputo e provato altri affetti, e veduto più
mondo, e incontrato più casi non m’avessero affatto
sradicata dal cuore questa passione: la qual certo se finora
con tanto poco alimento s’è sostenuta, e se più oltre benché
debole si sosterrà, è forza che in gran parte lo riconosca
dall’oziosità e dall’eterna medesimezza del mio vivere senza
nessuno svagamento né diletto massimamente nuovo.

60
E così da quello che ne’ dì passati ho scritto, si fa
bastevolmente chiaro ch’ella è nata dall’aver io
inespertissimo giuocato e conversato alquanto
famigliarmente con una persona d’aspetto più tosto bello, e
di forme e di maniere fatte pel cuor mio; ancorché questa
seconda cagione è veramente secondaria, perch’io fo conto
che con questa mia inesperienza, un altro bel volto, parlando
e praticando nella stessa guisa con me, m’avrebbe
similmente preso, anche con tutt’altri atti e sembianze. E ho
detto ch’io mi riprenderei di qualunque azione che mi
dovesse o risuscitare o rinfrancare questa passione nel cuore,
non già perch’io di essa mi vergogni punto; che s’al mondo
ci fu mai affetto veramente puro e platonico, ed
eccessivamente e stranissimamente schivo d’ogni
menomissima ombra d’immondezza, il mio senz’altro è
stato tale ed è, e assolutamente per natura sua, non per cura
ch’io ci abbia messa, immantinente s’attrista e con
grandissimo orrore si rannicchia per qualunque sospetto di
bruttura; ma per la infelicità ch’ella partorisce; imperocché,
posto che una certa nebbietta di malinconia affettuosa, come
quella ch’io negli ultimi giorni ho provata, non sia discara, e
anche diletti senza turbarci più che tanto, non così altri può
dire di quella sollecitudine e di quel desiderio e di quello
scontentamento e di quella smania e di quell’angoscia che
vanno col forte della passione, e ci fanno s’alcuna cosa mai
tribolati, e miseri. Ed io di questa miseria ho avuto un saggio
nella prima sera e ne’ due primi giorni della mia malattia, ne’
quali al presente giudico di avere in fatti propriamente ed
intimamente sentito l’amore: e quali siano stati i sintomi e le
proprietà e in somma il carattere di questo primo amor mio,
si dichiara in quelle carte ch’io scrissi nel maggior caldo

61
degli affetti; se non che ci puoi aggiugnere un manifesto
desiderio di trovare nel mio volto qualcosa che potesse pur
piacere: ma questo desiderio non l’ebbi nel primo giorno,
nel quale anzi avvertentemente sfuggiva la vista e il pensiero
della immagine mia, non altrimenti che facessi delle facce
altrui.
Del resto tanto è lungi ch’io mi vergogni della mia
passione, che anzi sino dal punto ch’ella nacque, sempre me
ne sono compiaciuto meco stesso, e me ne compiaccio,
rallegrandomi di sentire qualcheduno di quegli affetti senza i
quali non si può esser grande, e di sapermi affliggere
vivamente per altro che per cose appartenenti al corpo, e
d’essermi per prova chiarito che il cuor mio è soprammodo
tenero e sensitivo, e forse una volta mi farà fare e scrivere
qualche cosa che la memoria n’abbia a durare, o almeno la
mia coscienza a goderne, molto più che l’animo mio era ne’
passati giorni, come ho detto, disdegnosissimo delle cose
basse, e vago di piaceri tra dilicatissimi e sublimi, ignoti ai
più degli uomini.
Non negherò dunque di avere in questo tempo con
ogni cura aiutati e coltivati gli affetti miei, né che una parte
del dispiacere ch’io provava vedendogli a infievolire non
venisse dal gusto e dal desiderio ch’io avea di sentire e di
amare. Ma sempre sincerissimamente detestando ogni ombra
di romanzeria, non credo d’aver sentito affetto né moto altro
che spontaneo, e non ho in queste carte scritta cosa che non
abbia effettivissimamente e spontaneamente sentita: né ho
pur mai voluto in questi giorni leggere niente d’amoroso,
perché, come ho notato, gli affetti altrui mi stomacavano,
ancorché non ci fosse punto d’affettazione; manco il
Petrarca, comeché credessi che ci avrei trovato sentimenti

62
somigliantissimi ai miei. Ed anche ora appena con grande
stento e ritrosia m’induco a lasciar cadere gli occhi sopra
qualche cosa di questo genere, quando me ne capita
l’occasione. Ed io so molto bene di parecchi altri effetti che
l’amore o talvolta o anche d’ordinario fa; ma perché in me
non gli ha fatti, né io gli ho descritti, nonostantechè forse
qualche volta n’abbia avuto qualche sentore, ma così dubbio
o piccolo che non n’ho voluto far caso.

Il Lunedì e il Martedì 22 e 23 Decembre 1817

Non avendo per l’addietro fatto parola né dato indizio


della mia passione a chicchessia, la manifestai a mio fratello
Carlo, fattigli leggere i versi e queste carte, ai 29 di
Decembre, durandomi nell’animo, come ancora mi durano
oggi 2 di Gennaio 1818, le vestigia evidentissime degli
affetti passati, ai quali non manca per ridar su altro che
l’occasione.

ARGOMENTI DI POESIE AMOROSE

1. A UNA FANCIULLA

Deh non sii tanto di tua bella faccia


Avara o fanciulla mia ec.
passo e ripasso avanti la porta della tua casa ove
solevi stare e non ti trovo mai ec. Oh perché? certo non sai
ch’io ti ci desidero ec. tu sei ancora innocente oh cara ec. Lo
sarai sempre? Ahi ahi ch’io non lo credo ec. Oimè tanta
beltà diverrà colpevole e trista per lo scellerato mondo

63
mentre ora nella giovinezza è così candida ec. Oh padre
padre, (a Dio) salvala ec. ch’è tua fattura ec. Ahimè! tu non
ti curi di me né sai niente, né io te ne dirò mai niente. Oh se
vedessi ec. che core è il mio. È’ un core raro, o mia cara,
ardente ec. Non temer di me. Oh se sapessi come ti rispetto
ec. Dimmi se sei virtuosa, benefica, compassionevole,
innocente. Ah se sei lasciami ch’io mi ti prostri, santa cosa,
a baciarti la punta de’ calzari. Esortazione alla virtù per
cagione della sua bellezza.

2. ARGOMENTO DI UN’ELEGIA

Io giuro al cielo ec. O donna ec. né tu per questo. ec.


io m’immagino quel momento. ec. Non ho mai provato che
soffra chi comparisce innanzi ec. essendo ec eromenos ec.
giacché io sinché la vidi non l’amai, io gelo e tremo solo in
pensarvi or che sarà ec. Che posso io fare per te? che soffrire
che ti sia utile. Benché io già eromen sou (che così si è detto
nella prima Elegia) non era ben deciso né conosceva
l’amore, quand’io ti compariva innanzi.

3. D’UN’ALTRA

Oggi finisco il ventesim’anno. Misero me che ho


fatto? Ancora nessun fatto grande. Torpido giaccio tra le
mura paterne. Ho amato te sola, O mio core ec. non ho
sentito passione, non mi sono agitato ec., fuorché per la
morte che mi minacciava, ec. Oh che fai? Pur sei grande ec.
ec. ec. Sento gli urti tuoi ec. Non so che vogli, che mi spingi
a cantare a fare né so che ec. Che aspetti? Passerà la

64
gioventù e il bollore ec. Misero ec. E come piacerò a te
senza grandi fatti? ec. ec. ec. O patria o patria mia ec. che
farò, non posso spargere il sangue per te che non esisti più
ec. ec. ec. che farò di grande? Come piacerò a te? in che
opera, per chi, per qual patria spanderò i sudori i dolori il
sangue mio?

4. D’UN’ALTRA

Non sai ch’io t’amo, ec. O campi o fiori ec. ec. Ma


non importa ec. Mi basta di soffrire per te. Non ti sognasti
mai, non desiderasti non pensasti d’essere amata, ec. Non
merito che tu m’ami, ec. Mi basta il mio dolore la purità de’
miei pensieri l’ardore la infelicità dell’amor mio. Non te lo
manifesto per non gittar sospetti in te che non crederesti
pienamente alla purità, ec. Nato al pianto mi contento anche
in questo amore d’essere infelicissimo.

5.

Io giuro al ciel che rivedrò la mia


Donna lontana, ond’il mio cor non tace
Ancor posando e palpitar desia.
Giuro che perderò questa mia pace
Un’altra volta poi ch’il pianger solo
Per lei tuttora e ‘l sospirar mi piace.

65
6.

Elegia di un innamorato in mezzo a una tempesta che


si getta in mezzo ai venti e prende piacere dei pericoli che
gli crea il temporale ed egli stesso errando per burroni ec. E
infine rimettendosi la calma e spuntando il sole e tornando
gli uccelli al canto (dove si potrebbero porre quelle terzine
ch’io ho segnate ne’ pensieri) si lagna che tutto si riposa e
calma fuorché il suo cuore. Anche si potranno intorno al
serenarsi del cielo usare le immagini del Canto secondo e
quarto della mia Cantica. Io vedo ec. Gli uccei girarsi basso
per la valle: Poco può star che s’alzi una tempesta. Donna
donna io non ispero che tu mi possa amar mai: povero me
non mi amare no, non lo merito, infelicissimo non ho altro
altro che questo povero cuore, non mi ami, non mi curi, non
ho speranza nessuna: Oh s’io potessi morire! oh turbini ec.
Ecco comincia a tonare: venite qua, spingetelo o venti il
temporale su di me. Voglio andare su quella montagna dove
vedo che le querce si movono e agitano assai. Poi giungendo
il nembo sguazzi fra l’acqua e i lampi e il vento ec. e
partendo lo richiami.

APPUNTI DI POESIE
1
Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del
viandante.
2
Era la luna nel cortile, un lato
Tutto ne illuminava, e discendea

66
Sopra il contiguo lato obliquo un raggio
Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro
Del passegger, che stritolando i sassi
Mandava un suon, cui precedea da lungi
Il tintinnìo de’ mobili sonagli.
3
Stridore notturno delle banderuole traendo il vento.
4
Galline che tornano spontaneamente la sera alla loro
stanza al coperto. Passero solitario. Campagna in gran
declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani che
scendendo per essa si perdono tosto di vista, altra immagine
dell’infinito.
5
Ombra delle tettoie. Pioggia mattutina del disegno di
mio padre. Iride alla levata del sole. Luna caduta secondo il
mio sogno. Luna che secondo i villani fa nere le carni, onde
io sentii una donna che consigliava per riso alla compagna
sedente alla luna di porsi le braccia sotto il zendale. Bachi da
seta de’ quali due donne discorrevano fra loro e l’una diceva,
chi sa quanto ti frutteranno, e l’altra, in tuono flebilissimo oh
taci, che ci ho speso tanto, e Dio voglia ec.
6
Vedendo meco viaggiar la luna.
7

67
Dolor mio nel sentir a tarda notte seguente al giorno
di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri.
Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai
Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti
ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella
profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del
quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
8
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror de l’avvenire.
9
Uomo colto in piena campagna da una grandine
micidiale e da essa ucciso o malmenato rifugiantesi sotto gli
alberi, difendentesi il capo con le mani ec. soggetto di una
similitudine.
10
Uomo o uccello o quadrupede ucciso in campagna
dalla grandine.
11
Si mise un paio di occhiali fatti della metà del
meridiano co’ due cerchi polari.
12
Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella.
13

68
Il suo divertimento era di passeggiare contando le
stelle (e simili).
14
Le genti per la città dai loro letti nelle lor case, in
mezzo al silenzio della notte si risvegliavano e udivano con
ispavento per le strade il suo orribil pianto ec.
15
Mi diedi tutto alla gioia barbara e fremebonda della
disperazione.
16
Se devi poetando fingere un sogno, dove tu o altri
veda un defunto amato, massime poco dopo la sua morte, fa
che il sognante si sforzi di mostrargli il dolore che ha
provato per la sua disgrazia. Così accade vegliando, che ci
tormenta il desiderio di far conoscere all’oggetto amato il
nostro dolore; la disperazione di non poterlo; e lo spasimo di
non averglielo mostrato abbastanza in vita. Così accade
sognando, che quell’oggetto ci par vivo bensì, ma come in
uno stato violento; e noi lo consideriamo come
sventuratissimo, degno dell’ultima compassione, e oppresso
da una somma sventura, cioè la morte; ma noi non lo
comprendiamo bene allora perché non sappiamo accordare
la sua morte con la sua presenza. Ma gli parliamo
piangendo, con dolore, e la sua vista e il suo colloquio ci
intenerisce, e impietosisce, come di persona che soffra, e
non sappiamo, se non confusamente, che cosa.

69
ANNIVERSARIO DI UNA PASSIONE
È pure una bella illusione quella degli anniversari per
cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col
passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi
accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui
tanto sconsolato, ec. e ci par veramente che quelle tali cose
che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia
rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola
infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e
annullamento che tanto ci ripugna, e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti
effettivamente, o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche
speciale circostanza; come chi va sul luogo ove sia accaduto
qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in
certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove, non
ostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel
ch’era allora ec. Così negli anniversari. Ed io mi ricordo di
aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come
sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell’anno
rispondente a quello dov’io provai per la prima volta un
tocco di una carissima passione. Ragionevolezza, benché
illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. civili ed
ecclesiatiche in questo riguardo.

DIVINO STATO
La somma felicità possibile dell’uomo in questo
mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una
speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, che
per esser certa, e lo stato in cui vive, buono, non lo inquieti e

70
non lo turbi coll’impazienza di goder di questo immaginato
bellissimo futuro. Questo divino stato l’ho provato io di
sedici e diciassette anni per alcuni mesi ad intervalli,
trovandomi quietamente occupato negli studi senz’altri
disturbi, e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo
avvenire. E non lo proverò mai più, perché questa tale
speranza che sola può render l’uomo contento del presente,
non può cadere se non in un giovane di quella tale età o
almeno, esperienza.

LETTURE NELLA PRIMA GIOVINEZZA


Gl’illetterati che leggono qualche celebrato autore,
non ne provano diletto, non solo perché mancano delle
qualità necessarie a gustar quel piacere ch’essi possono dare,
ma anche perché s’aspettano un piacere impossibile, una
bellezza, un’altezza di perfezione di cui le cose umane sono
incapaci. Non trovando questo, disprezzano l’autore, si
ridono della sua fama, e lo considerano come un uomo
ordinario, persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta
per la prima volta. Così accadeva a me nella prima
giovinezza leggendo Virgilio, Omero ec.

I CAPPUCCINI E I NOVIZI
Soleva considerar come una pazzia quello che dicono
i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il
che fanno con grande soddisfazione, e con intimo
sentimento di piacere, cioè che anch’essi sono stati trattati
così. Ora l’esperienza mi ha mostrato che questo è un
sentimento naturale, giacch’io giunto appena per l’età a

71
svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima
educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa paterna
con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch’egli
non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec.
siccome non per altro (giacché non era punto per
predilezione de’ genitori) se non perch’era mutato il genere
della vita nostra che convivevamo con lui, anch’egli
partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto
più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quell’età, e
molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi,
ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in
quell’età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima
invidia, cioè non di quei beni giacch’io gli avea allora, e pel
tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo
dispiacere ch’ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato
e tormentato come noi, ch’è la pura e legittima invidia del
pessimo genere, ed io la sentiva naturalmente e senza volerla
sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto
scrissi queste parole) che tale è la natura umana, onde mi
erano men cari quei beni ch’io aveva qualunque fossero,
perch’io li comunicava con lui, forse parendomi che non
fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non
costavano niente a un altro che si trovava nelle mie
circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai
Cappuccini i quali trovando la sorte dei fratelli minori che
sono i novizi dipendente da loro, seguono gl’impulsi di
questa inclinazione che ho detto, e non soffrono che si
possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son
giunti poiché altri gli acquista con assai meno travaglio di
loro, né che abbiano a provare il dispiacere che questi tali

72
non soffrano quegl’incomodi ch’essi in quelle circostanze
hanno sofferti.

LA CANNUCCIA DI PIETRINO
Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva
per una cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: Non
piangere, non piangere, ché a ogni modo ce l’avrei gittata io.
E quegli si consolava perché anche in altro caso l’avrebbe
perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo
negli uomini, e a quell’altro suo affine, cioè che noi ci
consoliamo e ci diamo pace quando ci persuadiamo che quel
bene non era in nostra balìa d’ottenerlo, né quel male di
schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non
potendo, siamo disperati, quantunque il male in tutti i modi
si rimanga lo stesso. Vedi a questo proposito il Manuale di
Epitteto.

CATTIVA MAMÀ
Un mio fratellino, quando la Mamma ricusava di fare
a suo modo, diceva: ah, capito, capito; cattiua Mamà. Gli
uomini discorrono e giudicano degli altri nella stessa guisa,
ma non esprimono il loro discorso così nettamente (aplos)
gr.

NEL CORSO DEL SESTO LUSTRO


Nel corso del sesto lustro l’uomo prova tra gli altri un
cangiamento doloroso e sensibile nella sua vita, il quale è
che laddove egli per lo passato era solito a trattare per lo più

73
con uomini d’età o maggiore o almeno uguale alla sua, e di
rado con uomini più giovani di sé, perché i più giovani di lui
non erano che fanciulli, allora spessissimo si trova a trattare
con uomini più giovani, perché egli ha già molti inferiori
d’età che non sono però fanciulli, di modo che egli si trova
quasi cangiato il mondo dattorno, e non senza sorpresa, se
egli vi pensa, si avvede di essere riguardato da una gran
parte dei suoi compagni come più provetto di loro, cosa
tanto contraria alla sua abitudine che spesso accade che per
un certo tempo egli non si avveda ancora di questa cosa e
seguiti a stimarsi generalmente o più giovane o coetaneo dei
suoi compagni come egli soleva, e con verità, per l’addietro.

CANZONETTE RECANATESI
Canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a
Recanati:

Fàcciate alla finestra, Luciola,


Decco che passa lo ragazzo tua,
E porta un canestrello pieno d’ova
Mantato colle pampane dell’uva.
I contadì fatica e mai non lenta,
E ‘l miglior pasto sua è la polenta
È già venuta l’ora di partire,
In santa pace vi voglio lasciare.
Nina, una goccia d’acqua se ce l’hai:
Se non me lo voi dà padrona sei.
(Aprile 1819)

Io benedico chi t’ha fatto l’occhi

74
Che te l’ha fatti tanto ‘nnamorati.
(Maggio 1819)

Una volta mi voglio arrisicare


Nella camera tua voglio venire.
(Maggio 1819)

L’AMICO
A PIETRO GIORDANI
Recanati 21 Marzo 1817

Stimatissimo e carissimo Signore. Che io veda e


legga i caratteri del Giordani, che egli scriva a me, che io
possa sperare d’averlo d’ora innanzi a maestro, son cose che
appena posso credere. Né Ella se ne meraviglierebbe se
sapesse per quanto tempo e con quanto amore io abbia
vagheggiata questa idea, perché le cose desideratissime
paiono impossibili quando sono presenti. Voglio che a tutto
quanto le scriverò ora e poi Ella presti intiera fede, anche
alle piccolissime frasi, perché tutte, e le lo prometto,
verranno dal cuore. Questo voglio: di tutto l’altro la
pregherò. La mia prima lettera fu opera più del rispetto che
dell’affetto, perché questo, grato ed onorevole cogli eguali,
spesso è ingiurioso co’ superiori. Ora che Ella con due
carissime lettere me ne dà licenza, sia certa che con tutto
l’affetto le parlerò. Del quale Ella ben s’appone che sia stata
causa la sua eccellenza negli studi amati da me. Di Lei non
mi ha parlato altri che i suoi scritti, perché qui dove sono io,
non è anima viva che parli di Letterati. Ma io non so come si
possa ammirare le virtù di uno, singolarmente quando sono

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grandi ed insigni, senza pigliare affetto alla persona. Quando
leggo Virgilio, m’innamoro di lui; e quando i grandi viventi,
anche più caldamente. I quali Ella ottimamente dice che
sono pochissimi, e però tanto più intenso è l’affetto diviso
fra tre o quattro solo. Ella che sa quanta sia la rarità e il
prezzo di un uomo grande, non si meraviglierà di quello che
scrivo al Monti e al Mai, né penserà che io non senta quello
che scrivo, né che volessi umiliarmi e annientarmi innanzi a
loro, se fermamente non credessi di doverlo fare: e certo in
farlo provo quel piacere che l’uomo naturalmente prova in
fare il suo debito. Non so dirle con quanta necessità,
stomacato e scoraggiato dalla mediocrità che n’assedia, e
n’affoga, dopo la lettura de’ Giornali e d’altri scrittacci
moderni (ché i vecchi non leggo, facendomi avvisato della
piccolezza loro il silenzio della fama) credendo quasi che le
lettere non diano più cosa bella, mi rivolga ai Classici tra i
morti, e a Lei e a’ suoi grandi amici tra i vivi, co’ quali
principalmente mi consolo e mi rinforzo vedendo ch’è pur
viva la vera letteratura. Quando scrivendo o rileggendo cose
che abbia in animo di pubblicare m’avvengo a qualche passo
che mi dia nel genio (e qui le ricordo la promessa fattale di
parlarle sinceramente) mi domando come naturalmente, che
ne diranno il Monti, il Giordani ? perché al giudizio de’ non
sommi io non so stare, né mi curerei che altri lodasse quello
che a Lei dispiacesse, anzi lo reputerei cattivo. E quando
qualche cosa che a me piace non va a gusto ai pochi ai quali
la fo leggere, appello alla sentenza di Lei e dell’amico suo, e
per vero dire sono ostinato; né quasi mai è accaduto che
alcuno in fatto di scritture abbia cangiato il parer mio.
Spesso m’è avvenuto di compatire all’Alfieri, il cui stile
tragico, in quei tempi di universale corruzione, parea

76
intollerabile, né so cosa sentisse quel sommo italiano,
vedendo il suo stile condannarsi da tutti, i letterati più
famosi disapprovarlo, il Cesarotti allora tanto lodato, pregar
lui pubblicamente che lo dovesse cangiare; né come potesse
tenersi saldo nel buon proposito, e rimettersi nel giudizio
della posterità, che ora è pronunciato, e le sue tragedie dice
immortali. Certo quel trovarsi solo in una sentenza vera fa
paura, e a noi medesimi spesso la costanza par caponaggine,
la noncuranza degli sciocchi giudizi, superbia, il credere
d’intenderla meglio degli altri, presunzione. Buon per
l’Alfieri che tenne duro, se non l’avesse fatto, ora sarebbe di
lui quel ch’è de’ suoi giudici.
Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente
desiderio di gloria, ma non posso soffrire che le cose mie
che a me non piacciono, siano lodate, né so perché si
ristampino con più danno mio, che utile di chi senza mia
saputa le ridà fuori. Le quali cose Ella leggendo, avrà riso,
ma quel riso certo non fu maligno, e di ciò son contento. E
perché mi perdoni la pazzia d’averle messe in luce, le dico
che quasi tutto il pubblicato da me, non si rivedrà mai più,
consentendo io, e che altre due veramente grosse (non
grandi) opere già preparate e mandate alla stampa ho
condannato alle tenebre.
Del secondo dell’Eneide che ancora non ho
sentenziato, non ha da me avuto esemplare altro Letterato
che i tre a Lei noti. A questi soli e con effusione di cuore ho
scritto, soddisfacendo. benché con alquanto palpito, a un
vecchio e vivo desiderio. Che il mio libro avesse molti
difetti lo credea prima, ora lo giurerei perché me lo ha detto
il Monti; carissimo e desideratissimo detto. A lui non iscrivo
perché temo d’increscergli, ma Lei prego che ne lo ringrazi

77
in mio nome caldamente. Ma ad un cieco è poca cosa dire
Tu esci di strada; se non se gli aggiunge Piega a questa
banda. Niente m’è tanto caro quanto l’intendere i difetti di
una cosa mia, perché ne conosco l’immensa utilità, e mi pare
che visto una volta e notato un vizio, abbia poi sempre in
mente di schivarlo. Ma a niuno ardisco chiedere che me li
mostri, perché so esser cosa molestissima il ripescare i
difetti di un’opera, singolarmente quando il cattivo è più del
buono. Intanto Ella sappia che una copia del mio libro è già
tutta carica di correzioni e cangiamenti. Vorrei qualche volta
essermi apposto e aver levato via quello che a Lei e al Monti
dispiace, ma non lo spero. Ella dice da Maestro che il
tradurre è utilissimo nella età mia, cosa certa e che la pratica
a me rende manifestissima. Perché quando ho letto qualche
Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora
prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità
esaminate e rimenate a una a una, piglian posto nella mia
mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace. Il suo
giudizio m’inanimisce e mi conforta a proseguire.
Di Recanati non mi parli. M’è tanto cara che mi
somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’Odio della
patria, per la quale se Codro non fu timidus mori, io sarei
timidissimus vivere. Ma mia patria è l’Italia per la quale
ardo d’amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto Italiano
perché alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata, è
la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche, ne
certo Ella vorrebbe che la fortuna l’avesse costretto a farsi
grande col Francese o col Tedesco, e internandosi ne’ misteri
della nostra lingua compatirà alle altre e agli scrittori a’ quali
bisogna usarle; come spessissimo è avvenuto a me, che tanto
meno di lei conosco la mia lingua, la quale se mi si vietasse

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di adoperare con darmisi pieno possedimento di una
straniera, io credo che porrei la speranza di divenir qualche
cosa nella vera letteratura, e lascerei gli studi.
Quello ch’Ella dice del bene che i nobili potrebbon
fare alle lettere, è verissimo, e desidero ardentemente che il
fatto lo mostri una volta. Il suo dire m’infiamma e mi
lusinga: ma io non credo di poter vincere la mia natura e
l’altrui. Nondimeno Ella può esser certa che se io vivrò,
vivrò alle Lettere, perché ad altro non voglio né potrei
vivere.
Ma per le lettere mi dà grandissima speranza il suo
Libro, dono grato a me quanto sarebbe stato una nuova
opera del Boccaccio o del Casa, e tanto più che de’ suoi
scritti con niun danno suo e moltissimo nostro Ella è sempre
stata avara col pubblico. Ho già cominciato a leggerlo, né
posso credere che con questi esempi innanzi agli occhi la
gioventù Italiana voglia seguitare a scriver male. A ogni
modo s’è guadagnato assai, e niuno ora vorrebbe tornare alla
metà o al fine del settecento. Dagli altri suoi scritti avea
argomentato la dilicatezza del suo cuore e la finezza
rarissima della sua tempera: ma in questi e nelle sue
carissime lettere ne veggo leggiadrissime dipinture. Niente
dico dell’avvenenza dello scrivere, perché queste cose mi
paion sacre e da non profanarsi col parlarne a sproposito.
Tanto ho ciarlato che le avrò fatto venir sonno. Le sue
Lettere m’han dato animo. Ho veduto ch’Ella è un signore
da sopportarmi, e da acconciarsi anche ad istruirmi. E perché
vedesse quanto io confidi nella bontà sua, ho scritto allo
Stella che le mandi un mio manoscritto. Vorrei che lo
esaminasse, e prima di tutto mi dicesse se le par buono per le
fiamme alle quali io lo consegnerei di buon cuore

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immantinente. È brevissimo, ma non voglio che s’affanni a
leggerlo e molto meno a rispondermi. Mi brillerà il cuore
ogni volta che mi giungerà una sua lettera, ma l’aspettazione
e il sapere ch’Ella ha scritto a suo bell’agio m’accresceranno
il piacere. Con tutta l’anima la prego che mi creda e mi
porga occasione di mostrarmele vero e affettuosissimo servo
Giacomo Leopardi.

Recanati 30 Aprile 1817.

Oh quante volte, carissimo e desideratissimo Signor


Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trovare
un uomo di cuore d’ingegno e di dottrina straordinario, il
quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi
l’amicizia sua. E in verità credeva che non sarei stato
esaudito, perché queste tre cose, tanto rare a trovarsi
ciascuna da sé, appena stimava possibile che fossero tutte
insieme. O sia benedetto Iddio (e con pieno spargimento di
cuore lo dico) che mi ha conceduto quello che domandava, e
fatto conoscere l’error mio. E però sia stretta, la prego, fin
da ora tra noi interissima confidenza, rispettosa per altro in
me come si conviene a minore, e liberissima in Lei. Ella mi
raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore e
come cosa che le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare
il cuor mio perché vedesse gli affetti che v’ha destati la
lettura delle sue parole, i quali se ‘l cuore non muta forma e
materia, non periranno mai, certo non mai. E per rispondere
come posso a tanta amorevolezza, dirolle che veramente la
mia complessione non è debole ma debolissima, e non istarò
a negarle che ella si sia un po’ risentita delle fatiche che le
ho fatto portare per sei anni. Ora però le ho moderate

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assaissimo; non istudio più di sei ore il giorno, spessissimo
meno, non iscrivo quasi niente, fo la mia lettura regolata dei
Classici delle tre lingue in volumi di piccola forma, che si
portano in mano agevolmente, sì che studio quasi sempre
all’uso de’ Peripatetici, e, quod maximum dictu est, sopporto
spesso per molte e molte ore l’orribile supplizio di stare
colle mani alla cintola. O chi avrebbe mai pensato che il
Giordani dovesse pigliar le difese di Recanati? O carissimo
Sig. Giordani mio, questo mi fa ricordare il si Pergama
dextrâ. La causa è tanto disperata che non le basta il buon
avvocato né le ne basterebbero cento. È un bel dire:
Plutarco, l’Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Le amavano e
non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria
quando ne sarò lontano; or dico di odiarla perché vi son
dentro, ché finalmente questa povera città non è rea d’altro
che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia
famiglia in fuori. Del luogo dove s’è passata l’infanzia è
bellissima e dolcissima cosa il ricordarsi. È un bellissimo
dire, qui sei nato, qui ti vuole la provvidenza; dite a un
malato: se tu cerchi di guarire, la pigli colla provvidenza;
dite a un povero: se tu cerchi d’avvantaggiarti, fai testa alla
provvidenza; dite a un Turco: non ti salti in capo di pigliare
il battesimo, ché la provvidenza t’ha fatto Turco. Questa
massima è sorella carnale del Fatalismo. Ma qui tu sei dei
primi, in città più grande saresti dei quarti e dei quinti.
Questa mi par superbia vilissima e indegnissima d’animo
grande. Colla virtù e coll’ingegno si vuol primeggiare, e
questi chi negherà che nelle città grandi risplendano
infinitamente più che nelle piccole? Voler primeggiare colle
fortune, e contentarsi di far senza infiniti piaceri, non dirò
del corpo del quale non mi preme, ma dell’animo, per amore

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di comando e per non istare a manca, questa mi par cosa da
tempi barbari e da farmi ruggire e inferocire. Ma qui puoi
esser utile più che altrove. La prima cosa, a me non va di dar
la vita per questi pochissimi, né di rinunziare a tutto per
vivere e morire a pro loro in una tana. Non credo che la
natura m’abbia fatto per questo, né che la virtù voglia da me
un sacrifizio tanto spaventoso. In secondo luogo, ma che
crede Ella mai? Che la Marca e ‘l mezzogiorno dello Stato
Romano sia come la Romagna e ‘l settentrione d’Italia?
Costì il nome di letteratura si sente spessissimo: costì
giornali accademie conversazioni librai in grandissimo
numero. I Signori leggono un poco. L’ignoranza è nel volgo,
il quale se no, non sarebbe più volgo: ma moltissimi
s’ingegnano di studiare, moltissimi si credono poeti filosofi
che so io. Sono tutt’altro, ma pure vorrebbero esserlo Quasi
tutti si tengono buoni a dar giudizio sopra le cose di
letteratura. Le matte sentenze che profferiscono svegliano
l’emulazione, fanno disputare parlare ridere sopra gli studi.
Un grand’ingegno si fa largo: v’è chi l’ammira e lo stima,
v’è chi l’invidia e vorrebbe deprimerlo, v’è una turba che dà
loco e conosce di darlo. Così il promuovere la letteratura è
opera utile, il regnare coll’ingegno è scopo di bella
ambizione. Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte,
tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri
di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è
vocabolo inudito. I nomi del Parini dell’Alfieri del Monti, e
del Tasso, e dell`Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di
commento. Non c’è uno che si curi d’essere qualche cosa,
non c’è uno a cui il nome d’ignorante paia strano. Se lo
danno da loro sinceramente e sanno di dire il vero. Crede
Ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato ? Come

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la gemma nel letamaio. Ella ha detto benissimo (e saprà ben
dove) che gli studi come più sono rari meno si stimano,
perché meno se ne conosce il valore. Così appuntino accade
in Recanati e in queste provincie dove l’ingegno non si
conta fra i doni della natura. Io non sono certo una gran
cosa: ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i
Giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa: tutto
questo non ha fatto mai altro recanatese a Recineto condito.
Parrebbe che molti dovessero essermi intorno, domandarmi i
giornali, voler leggere le mie coserelle, chiedermi notizia dei
letterati della età nostra. Per appunto. I Giornali come sono
stati letti nella mia famiglia, vanno a dormire nelle scansie.
Delle mie cose nessuno si cura e questo va bene; degli altri
libri molto meno: anzi le dirò senza superbia che la libreria
nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori.
Sulla porta ci sta scritto ch’ella è fatta anche per li cittadini e
sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella che la
frequentino? Nessuno mai. Oh veda Ella se questo è terreno
da seminarci. Ma e gli studi, le pare che qui si possano far
bene? Non dirò che con tutta la libreria io manco
spessissimo di libri, non pure che mi piacerebbe di leggere,
ma che mi sarebbero necessari; e però Ella non si meravigli
se talvolta si accorgerà che io sia senza qualche Classico. Se
si vuol leggere un libro che non si ha, se si vuol vederlo
anche per un solo momento bisogna procacciarselo col suo
danaro, farlo venire di lontano, senza potere scegliere né
conoscere prima di comperare, con mille difficoltà per via.
Qui niun altro fa venir libri, non si può torre in prestito, non
si può andare da un libraio, pigliare un libro, vedere quello
che fa al caso e posarlo: sì che la spesa non è divisa, ma è
tutta sopra noi soli. Si spende continuamente in libri, ma la

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spesa è infinita, l’impresa di procacciarsi tutto è disperata.
Ma quel non avere un letterato con cui trattenersi, quel
serbarsi tutti i pensieri per sé, quel non potere sventolare e
dibattere le proprie opinioni, far pompa innocente de’ propri
studi, chiedere aiuto e consiglio, pigliar coraggio in tante ore
e giorni di sfinimento e svogliatezza, le par che sia un bel
sollazzo? Io da principio avea pieno il capo delle massime
moderne, disprezzava, anzi calpestava, lo studio della lingua
nostra, tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal
Francese, disprezzava Omero Dante tutti i Classici, non
volea leggerli, mi diguazzava nella lettura che ora detesto:
chi mi ha fatto mutar tuono? la grazia di Dio ma niun uomo
certamente. Chi m’ha fatto strada a imparare le lingue che
m’erano necessarie? la grazia di Dio. Chi m’assicura ch’io
non ci pigli un granchio a ogni tratto? Nessuno. Ma
pognamo che tutto questo sia nulla. Che cosa è in Recanati
di bello? che l’uomo si curi di vedere o d’imparare? niente.
Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante
cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono che
chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è
piena di meraviglie, ed io di dieciott’anni potrò dire, in
questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che
questi desideri si possano frenare? che siano ingiusti
soverchi sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non
veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L’aria di questa
città l’è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima,
umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza
niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga
l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi
divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce.
So ben io qual è, e l’ho provata, ma ora non la provo più,

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quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più
dolce dell’allegria, la quale, se m’è permesso di dir così, è
come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile,
è veleno, come Ella dice, che distrugge le forze del corpo e
dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che
pensare e vivendo di pensieri senza una distrazione al
mondo? e come far che cessi l’effetto se dura la causa ? Che
parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è
lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto
il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la
fatica, e però spesso mi piglio la noia, ma questa mi cresce
com’è naturale, la malinconia, e quando io ho avuto la
disgrazia di conversare con questa gente, che succede di
raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi
vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia.
Non m’è possibile rimediare a questo né fare che la mia
salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo
che ha dato origine al male e lo fomenta e l’accresce ogni dì
più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo
ben io che per poter continuare gli studi bisogna
interromperli tratto tratto e darsi un poco a quelle cose che
chiamano mondane, ma per far questo io voglio un mondo
che m’alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di
luce falsa) ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per
qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore, non
un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi
sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m’attristi e mi
forzi di ricorrere per consolarmi a quello da cui volea
fuggire. Ma già Ella sa benissimo che io ho ragione, e me lo
mostra la sua seconda lettera nella quale di proprio moto mi
esortava a fare un giro per l’Italia, benché poi (e so ben io

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perché) con lodevolissima intenzione della quale le sono
sinceramente grato, abbia voluto parlarmi in altra guisa.
Laonde ho cianciato tanto per mostrarle che io ho per
certissimo quello che Ella ha per certissimo. Le dirò
sinceramente, poiché mel chiede, in qual maniera il cielo
(che per questo ringrazio di cuore) m’abbia fatto conoscere
Lei e desiderare ch’Ella lo sapesse. Il povero Marchese
Benedetto Mosca (il quale so che ella amava) Cugino
carnale di mio padre, venne un giorno a fare una visita di
sfuggita ai suoi parenti, e quell’unica volta noi due
parlammo insieme, dico parlammo, perché quando io era
piccino ed egli fanciullo avevamo bamboleggiato insieme
qui in Recanati per molto tempo ed allora io gli avrò
cinguettato. Dopo non l’ho veduto più, ma so che m’amava
e volea rivedermi, e forse presto ci saremmo riveduti, per
lettere certamente, perché io appunto ne preparava una per
lui che sarebbe stata la prima, quando seppi la sua morte, e
di questa morte che ha troncato tanto non posso pensare
senza spasimo e convulsione dell’animo mio. Mi disse
dunque di Lei questo solo: che conosceva e, se non fallo,
avea avuto maestro il Giordani il quale, soggiunse (ed io
ripeto le sue stesse parole, e la sua modestia sel soffra per
questa volta), è adesso il primo scrittore d’Italia. O pensi
Ella se i primi scrittori d’Italia si conoscevano in Recanati.
Io avea allora 15 anni, e stava dietro a studi grossi,
Grammatiche, Dizionari greci ebraici e cose simili tediose,
ma necessarie. Non vi badai proprio niente. Ma nel
cominciare dell’anno passato, visto il suo nome appiè del
manifesto della Biblioteca Italiana, mi ricordai di quelle
parole, e avuti i volumetti della Biblioteca, seppi quali
fossero gli articoli suoi prima per conghiettura e poi con

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certezza quanto a uno o due e questo mi bastò per ravvisarli
poi tutti. Ora che vuole che le dica io? Se le dirò che essi
diedero stabilità e forza alla mia conversione che era
appunto sul cominciare, che gustato quel cibo, le altre cose
moderne che prima mi pareano squisite, mi parvero
schifissime, che attendea la Biblioteca con infinito desiderio
e ricevutala la leggea con avidità da affamato, che avrò letti
e riletti i suoi articoli una diecina di volte, che ora che non ci
son più mi vien voglia di gittar via i quaderni di quel
giornale, ogni volta che ricevendoli non vi trovo niente che
faccia per me, la sua modestia s’irriterà. Le confesserò
candidamente che non so se non i titoli e di due sole delle
sue opere, voglio dire della versione di Giovenale e del
Panegirico, e colla stessa schiettezza le dirò che io pensava
di procacciarmi qualche sua cosa quando ricevetti da Lei
veramente graditissime le sue prose tutte d’oro, sulle quali
ho certe cose da dirle, ma perché poco vagliono certamente,
e la lettera è già lunga assai e m’ha cera di voler esser
lunghissima, le serberò a un’altra volta.
Vedo con esultazione che Ella nella soavissima sua
dei 15 Aprile discende a parlarmi degli studi. Risponderò a
quanto Ella mi scrive, dicendole sinceramente quando le sue
opinioni si siano scontrate nella mia mente con opinioni
diverse, acciocché Ella veda quanto io abbia bisogno ch’Ella
mi faccia veramente da maestro, e compatendo alla
debolezza e piccolezza de’ pensieri miei si voglia impacciare
di provvederci. Che la proprietà de’concetti e delle
espressioni sia appunto quella cosa che discerne lo scrittor
Classico dal dozzinale, e tanto più sia difficile a conservare
nell’espressioni, quanto la lingua è più ricca, è verità tanto
evidente che fu la prima di cui io m’accorsi quando

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cominciai a riflettere seriamente sulla letteratura: e dopo
questo facilmente vidi che il mezzo più spedito e sicuro di
ottenere questa proprietà era il trasportare d’una in altra
lingua i buoni scrittori. Ma che quando l’intelletto è giunto a
certa sodezza e maturità e a poter conoscere con qualche
sicurezza a qual parte la natura lo chiami, si debba di
necessità comporre prima in prosa che in verso, questo le
dirò schiettamente che a me non parea. Parlando di me posso
ingannarmi, ma io le racconterò, come a me sembra che sia,
quello che m’è avvenuto e m’avviene. Da che ho cominciato
a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel
desiderio ardentissimo di tradurre e far mio quello che
leggo, non han dato altri che i poeti, e quella smania
violentissima di comporre, non altri che la natura e le
passioni ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi
ingigantire l’anima in tutte le sue parti, e dire, fra me: questa
è poesia, e per esprimere quello che io sento ci voglion versi
e non prosa, e darmi a far versi. Non mi concede Ella di
leggere ora Omero Virgilio Dante e gli altri sommi? Io non
so se potrei astenermene perché leggendoli provo un diletto
da non esprimere con parole, e spessissimo mi succede di
starmene tranquillo e pensando a tutt’altro, sentire qualche
verso di autor classico che qualcuno della mia famiglia mi
recita a caso, palpitare immantinente e vedermi forzato di
tener dietro a quella poesia. E m’è pure avvenuto di trovarmi
solo nel mio gabinetto colla mente placida e libera, in ora
amicissima alle muse, pigliare in mano Cicerone, e
leggendolo sentire la mia mente far tali sforzi per sollevarsi,
ed esser tormentato dalla lentezza e gravità di quella prosa
per modo che volendo seguitare, non potei, e diedi di mano a
Orazio. E se Ella mi concede quella lettura, come vuole che

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io conosca quei grandi e ne assaggi e ne assapori e ne
consideri a parte a parte le bellezze, e poi mi tenga di non
lanciarmi dietro a loro? Quando io vedo la natura in questi
luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che
abbia la mia patria) e in questi tempi spezialmente, mi sento
così trasportare fuor di me stesso, che mi parrebbe di far
peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo
ardore di gioventù, e a voler divenire buon prosatore, e
aspettare una ventina d’anni per darmi alla poesia, dopo i
quali, primo, non vivrò, secondo, questi pensieri saranno iti;
e la mente sarà più fredda o certo meno calda che non è ora.
Non voglio già dire che secondo me, se la natura ti chiama
alla poesia, tu abbi a seguitarla senza curarti d’altro, anzi ho
per certissimo ed evidentissimo che la poesia vuole infinito
studio e fatica, e che l’arte poetica è tanto profonda che
come più vi si va innanzi più si conosce che la perfezione sta
in un luogo al quale da principio né pure si pensava. Solo mi
pare che l’arte non debba affogare la natura e quell’andare
per gradi e voler prima essere buon prosatore e poi poeta, mi
par che sia contro la natura la quale anzi prima ti fa poeta e
poi col raffreddarsi dell’età ti concede la maturità e
posatezza necessaria alla prosa. Non dona Ella niente niente
a quella mens divinior di Orazio? Se sì, come vuole ch’ella
stia nascosta e che chi l’ha non se n’accorga nel fervor degli
anni alla vista della natura, alla lettura dei poeti? e
accortosene com’è possibile che dubiti e metta tempo in
mezzo e voglia prima divenire buon prosatore, e poi tentare
com’Ella dice, quasi con incertezza e paura, la poesia ? O
vuol Ella che quella mente divina sia una favola o se ne sia
perduta la razza ? e quale è dunque il vero poeta? Chi ha
studiato più? E perché non tutti che hanno studiato ed hanno

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un grande ingegno sono poeti ? Non credo che si possa
citare esempio di vero poeta il quale non abbia cominciato a
poetare da giovanetto; né che molti poeti si possano addurre
i quali siano giunti all’eccellenza, anche nella prosa, e in
questi pochissimi, mi par di vedere che prima sono stati
poeti e poi prosatori. E in fatti a me parea che quanto alle
parole e alla lingua, fosse più difficile assai il conservare
quella proprietà senza affettazione e con piena scioltezza e
disinvoltura nella prosa che nel verso, perché nella prosa
l’affettazione e lo stento si vedono (dirò alla fiorentina)
come un bufalo nella neve, e nella poesia non così
facilmente, primo, perché moltissime cose sono affettazioni
e stiracchiature nella prosa, e nella poesia no, e pochissime
che nella prosa nol sono, lo sono in poesia, secondo, perché
anche quelle che in poesia sono veramente affettazioni,
dall’armonia e dal linguaggio poetico son celate facilmente,
tanto che appena si travedono. Io certo quando traduco versi,
facilmente riesco (facendo anche quanto posso per
conservare all’espressione la forza che hanno nel testo) a
dare alla traduzione un’aria d’originale, e a velare lo studio;
ma traducendo in prosa, per ottener questo, sudo
infinitamente più, e alla fine probabilmente non l’ottengo.
Però io avea conchiuso tra me che per tradur poesia vi vuole
un’anima grande e poetica e mille e mille altre cose, ma per
tradurre in prosa un più lungo esercizio ed assai più lettura, e
forse anche (che a me pare necessarissimo) qualche anno di
dimora in paese dove si parli la buona lingua, qualche anno
di dimora in Firenze. E similmente componendo, se io vorrò
seguir Dante, forse mi riuscirà di farmi proprio quel
linguaggio e vestirne i pensieri miei e far versi de’ quali non
si possa dire, almeno non così subito, questa è imitazione,

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ma se vorrò mettermi a emulare una lettera del Caro, non
sarà così. Per carità, Sig. Giordani mio, non mi voglia
credere un temerario, perché le ho detto sì francamente e con
tanto poco riguardo alla piccolezza mia, quello che sentiva.
Non isdegni di persuadermi. Questa sarà opera piccola per
sé, ma sarà opera di misericordia. e degna del suo bel cuore.
Della mia Cantica, e dell’affinità del Greco
coll’Italiano, e dell’utilissimo consiglio ch’Ella mi dà ed io
presto metterò in pratica di leggere e tradurre Erodoto e gli
altri tre, avrei mille cose da dirle, ma vedendo con affanno
che questa lettera è eterna, e vergognandomi fieramente
della mia sterminata indiscretezza, le lascio per un’altra
volta, m’affretto di dirle che la ringrazierei se trovassi
parole, dell’esame che ha fatto della mia Cantica, e il
manoscritto non occorre che lo renda allo Stella, il quale non
ne ha da far niente, ma se Ella crede che sia costì qualche
suo amico il quale non isdegnerebbe di esaminarlo, Ella
potrà darglielo o no secondo che giudicherà opportuno: che
del Terenzio del Cesari non ho veduto altro che il titolo, e
che vorrei sapere, se Ella crede che l’opera del Cicognara mi
possa esser utile, perché io oramai non mi curo di leggere né
di vedere se non quello che mi può esser utile veramente,
perché il tempo è corto e la messe vastissima.
Quanto al Belcari io mi struggo di proccurarle
associati e di mostrarle il desiderio ardentissimo che ho di
servirla come posso. Scrivo e fo scrivere a Macerata, a
Tolentino a Roma e ad altri luoghi, raccomandando
caldamente la cosa. Intendo però che molti domandano del
prezzo, il quale vorrei che Ella a un di presso mi potesse
dire. Farò il possibile, ma con gran dolore le dico, che ci
spero poco perché quanto agli amatori della buona lingua, se

91
di questa io parlassi ad alcuno qui, crederebbero che
s’intendesse di qualche brava lingua di porco; e quanto ai
devoti i quali Ella dice che vorranno piuttosto leggere una
cosa bene che male scritta, questo m’arrischio a dirle che
non è vero. Io con tutta la poca età, ho molta pratica di
devoti, e so che anzi amano molto singolarmente i libri che a
noi fanno stomaco, prima per un loro gusto particolare, del
quale la sperienza m’ha chiarito che c’è veramente e non è
favola; poi perché a certi concetti non già alti ma che non
vanno proprio terra terra, non arrivano i poveretti, in fine (e
questa è ragione onnipotente) perché se la lingua ha punto
punto del non triviale, è come se ‘l libro fosse in Ebraico,
non s’intendendo nessun devoto di Dantesco, perché bisogna
sapere che qui tutto quello che non è brodo o se è brodo non
è tanto lungo, si chiama Dantesco; sì che il Salvini, per
esempio, è Dantesco; il Segneri, il Bartoli, e tutti i non
cattivi sono Danteschi, ed oltre i non cattivi, fino la mia
traduzione di Virgilio. E queste opinioni non sono già della
plebe ma dei dottissimi e letteratissimi, tanto che nella
capitale della molto excellentissima et magnifica provintia
nostra, è un cotal letteratone che ne’ suoi scritti per tutto
toscanesimo ha l’e’, che quando ci capita il mi pare
immancabilmente gli fa da lacchè, e tutti hanno che dire sul
suo stile che ha troppo dell’esquisito, al che egli risponde
modestamente che lo stile del cinquecento è un bello stile. O
qui sì che le raccomando di tenersi bene i fianchi, se non
vuol far la morte di Margutte. Ma come credono che Belcari
e Scaramelli e Ligorio sieno cose simili, così finattantoché il
libro non si vede e’ se la berranno. Basta: farò quanto potrò,
e lo stesso pel suo Palcani, il quale con vero piacere ho letto
come cosa piaciuta a Lei e che viene da Lei, e di eleganza

92
certo rarissima in materie scientifiche, le quali trattate così,
sarebbero veramente piacevoli, dove ora sono ispide e
orribili.
Mio Padre la ringrazia de’ saluti suoi, e caramente la
risaluta. Io poi che le dirò, caro Sig. Giordani mio, per
consolarla della disgrazia che l’affligge? se non che questa a
me pure passa l’anima, e che prego Dio acciocchè il più ch’è
possibile in questo mondo la faccia lieta? Consolazione non
le posso dar io con questa mia eloquenza d’accattone. Gliela
daran certo e copiosa il suo gran sapere e la sua vera
filosofia. A scrivere a me (se vuol continuarmi questo
favore) non pensi se non nei momenti di ozio, e in questi
pure solo quando le torni comodo. In somma non se ne pigli
pensiero più che delle cose minime, perché se vedrò ch’Ella
faccia altrimenti, mi terrò dallo scriverle io, e così sarò privo
anche di questo piacere. In verità mi dorrebbe assai ch’Ella
volesse stare sul puntuale, primieramente con me, di poi in
cosa che non lo merita, anzi non lo comporta.
Come farò, signor Giordani mio, a domandarle
perdono dell’averle scritto un tomo in vece di una lettera?
Veramente ne arrossisco e non so che mi dire, e contuttociò
gliene domando perdono. La sua terza lettera m’avea destato
in mente un tumulto di pensieri, la quarta me lo ha
raddoppiato. Mi sono indugiato di rispondere per non
infastidirla tanto spesso, ma pigliata in mano la penna non
ho potuto tenermi più. Ho risposto a un foglietto de’ suoi con
un foglione de’ miei. Questa è la prima volta che le apro il
mio cuore: come reprimere la piena de’ pensieri? Un’altra
volta sarò più breve, ma più breve assaissimo. Non vorrei
ch’Ella s’irritasse per tanta mia indiscretezza: certo l’ira
sarebbe giustissima, ma confido nella bontà del suo cuore.

93
Mi perdoni di nuovo, caro Signor mio, e sappia che sempre
pensa di Lei il suo desiderantissimo servo Giacomo
Leopardi.

Recanati 8 Agosto (1817)

Quando un giovane, Carissimo mio, dice d’essere


infelice, d’ordinario s’immaginano certe cose che io non
vorrei che s’immaginassero di me, singolarissimamente dal
mio Giordani, per il quale solo io vorrei essere virtuoso
quando bene non ci avesse altro Spettatore né alcun premio
della virtù. Però vi voglio dire che benché io desideri molte
cose, e anche ardentemente, come è naturale ai giovani,
nessun desiderio mi ha fatto mai né mi può fare infelice, né
anche quello della gloria, perché credo che certissimamente
io mi riderei dell’infamia, quando non l’avessi meritata,
come già da qualche tempo ho cominciato a disprezzare il
disprezzo altrui, il quale non crediate che mi possa mancare.
Ma mi fa infelice primieramente l’assenza della salute,
perché, oltreché io non sono quel filosofo che non mi curi
della vita, mi vedo forzato a star lontano dall’amor mio che
è lo studio. Ahi, mio caro Giordani, che credete voi che io
faccia ora? Alzarmi la mattina e tardi, perché ora, cosa
diabolica! amo più il dormire che il vegliare. Poi mettermi
immediatamente a passeggiare, e passeggiar sempre senza
mai aprir bocca né veder libro sino al desinare. Desinato,
passeggiar sempre nello stesso modo sino alla cena: se non
che fo, e spesso sforzandomi e spesso interrompendomi e
talvolta abbandonandola, una lettura di un’ora. Così vivo e
son vissuto con pochissimi intervalli per sei mesi. L’altra
cosa che mi fa infelice è il pensiero. Io credo che voi

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sappiate, ma spero che non abbiate provato, in che modo il
pensiero possa cruciare e martirizzare una persona che pensi
alquanto diversamente dagli altri, quando l’ha in balia,
voglio dire quando la persona non ha alcuno svagamento e
distrazione, o solamente lo studio, il quale perché fissa la
mente e la ritiene immobile, più nuoce di quello che giovi. A
me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo e dà tali
martirii, per questo solo che m’ha avuto sempre e m’ha
intieramente in balia (e vi ripeto, senza alcun desiderio) che
m’ha pregiudicato evidentemente, e m’ucciderà se io prima
non muterò condizione. Abbiate per certissimo che io stando
come sto, non mi posso divertire più di quello che fo, che
non mi diverto niente. In somma la solitudine non è fatta per
quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi. In
questi giorni passati sono stato molto meglio (di maniera
però che chiunque sta bene, cadendo in questo meglio, si
terrebbe morto) ma è la solita tregua che dopo una lunga
assenza è tornata, e già pare che si licenzi, e così sarà
sempre che io durerò in questo stato, e n’ho l’esperienza
continuata di sei mesi e interrotta di due anni. Nondimeno
questa tregua m’avea data qualche speranza di potermi rifare
mutando vita. Ma la vita non si muta, e la tregua parte, e io
torno o più veramente resto qual era.

Recanati 2 Marzo 1818.

Non guardate, o mio Carissimo, a quello che la


malinconia e molto più l’amore immenso m’ha potuto far
dire, e per l’avanti scrivetemi a vostro agio e brevemente e
come vi piace: non voglio che l’amicizia mia v’accresca le
brighe e le molestie che vi dovrebbe scemare se potesse. Il

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piego arrivò in Ancona il 17 di Febbraio: n’ebbi subito
avviso, ma mio padre, mandandola d’oggi in domani, ancora
non l’ha fatto venire: venuto che sarà ne scriverò a voi e al
Mai che probabilmente infastidirò; pure non mi voglio
mostrare ingrato. Dei Belcari, se non sono col Senofonte,
che non credo perché voi non me n’avvertiste, non ho
notizia. Se consegnerete allo Stella la lettera sul Dionigi,
vorrei che me n’avvisaste, se non crederete più bene di
consegnargliela, per qualunque cagione sia, non accade che
me ne parliate, e fate come vi pare. Mi domandate del
soggetto di quell’altra lettera lunga ch’io diceva di volervi
scrivere. Ma sapete che siete un curiosaccio? Nondimeno
perché l’incertezza produce o accresce l’aspettazione, e io
temo sempre il Parturient montes, ve lo dirò: è il Frontone.
Della salute sic habeto. Io per lunghissimo tempo ho creduto
fermamente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni.
Ma di qua ad otto mesi addietro, cioè presso a poco da quel
giorno ch’io misi piede nel mio ventesimo anno ina ti kai
daimonion endo to pragmati, ho potuto accorgermi e
persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi,
che il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo m’è impossibile.
che in me veramente non è cagione necessaria di morir
presto, e purchè m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì
strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso
appena la metà di quello che facciano gli altri uomini, e
sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo
sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io
mi sono rovinato con sette anni di studio matto e
disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi
si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato
infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi

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l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran
parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più; e coi più
bisogna conversare in questo mondo: e non solamente i più,
ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia
senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda
affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza
può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in
cui niente è bello fuorché l’anima. Questa ed altre misere
circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita,
dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi
chiaramente, e m’accorgessi di quello che sono, e dl cuore
perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e
quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per
compagna eterna e inseparabile. Io so dunque e vedo che la
mia vita non può essere altro che infelice: tuttavia non mi
spavento, e così potesse ella esser utile a qualche cosa, come
io proccurerò di sostenerla senza viltà. Ho passato anni così
acerbi, che peggio non par che mi possa sopravvenire:
contuttociò non dispero di soffrire anche di più: non ho
ancora veduto il mondo, e come prima lo vedrò, e
sperimenterò gli uomini, certo mi dovrò rannicchiare
amaramente in me stesso, non già per le disgrazie che
potranno accadere a me, per le quali mi pare d’essere armato
di una pertinace e gagliarda noncuranza, né anche per quelle
infinite cose che mi offenderanno l’amor proprio, perché io
sono risolutissimo e quasi certo che non m’inchinerò mai a
persona del mondo e che la mia vita sarà un continuo
disprezzo di disprezzi e derisione di derisioni; ma per quelle
cose che mi offenderanno il cuore: e massimamente soffrirò
quando con tutte quelle mie circostanze che ho dette, mi
succederà, come necessarissimamente mi deve succedere, e

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già in parte m’è succeduta una cosa più fiera di tutte della
quale adesso non vi parlo. Quanto alla necessità d’uscire di
qua; con quel medesimo studio che m’ha voluto uccidere,
con quello tenermi chiuso a solo a solo, vedete come sia
prudenza, e lasciarmi alla malinconia, e lasciarmi a me
stesso che sono il mio spietatissimo carnefice. Ma
sopporterò, poiché sono nato per sopportare e sopporterò,
poiché ho perduto il vigore particolare del corpo, di perdere
anche il comune della gioventù: e mi consolerò con voi e col
pensiero d aver trovato un vero amico a questo mondo, cosa
che ho prima conseguita che sperata. L’ultima vostra ha in
data quello stesso giorno ch’io l’anno addietro vi scrissi la
prima mia. È finito dunque un anno della nostra amicizia,
che se noi non mutiamo natura affatto, non potrà essere
sciolta fuorché da quello che tutto scioglie. Conservatemi la
mia consolazione in voi, e pensate che non essendo voi più
vostro che mio, non v’è lecito, se m’amate, d’avervi poca
cura. Starò aspettando la vostra visita, la quale giacché non
può più essere in Maggio, pazienza: ma spero che mi
compenserete il ritardo con una maggior durata. E visto che
v’avrò, potrò dire che non tutti quei desiderii più focosi
ch’io ho sentiti in mia vita, sono stati vani. Addio.

AMICIZIA TRA UN GIOVANE


E UN ADULTO
Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo, e invece v’è
entrato l’universale egoismo, amicizia vera e capace di far
sacrificare l’uno amico all’altro, in persone che ancora
abbiano interessi e desideri, è ben difficilissima. E perciò
quantunque si sia sempre detto che l’uguaglianza è l’una

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delle più certe fautrici dell’amicizia, io trovo oggidì meno
verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane, e un
uomo di sentimento già disingannato del mondo, e disperato
della sua propria felicità. Questo non avendo più desideri
forti è capace assai più di un giovane d’unirsi ad uno che
ancora ne abbia, e concepire vivo ed efficace interesse per
lui, formando così un’amicizia reale e solida quando l’altro
abbia anima da corrispondergli. E questa circostanza mi pare
anche più favorevole all’amicizia, che quella di due persone
egualmente disingannate, perché non restando desideri né
interessi in veruno, non resterebbe materia all’amicizia e
questa rimarrebbe limitata alle parole e ai sentimenti, ed
esclusa dall’azione. Applicate questa osservazione al caso
mio col mio degno e singolare amico, e al non averne
trovato altro tale, quantunque conoscessi ed amassi e fossi
amato da uomini d’ingegno e di ottimo cuore.

COME CONSOLARE UNA


PERSONA AFFLITTA
Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo
affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi
disperava per non poter morire, mi giunge una lettera di quel
mio amico, che m’avea sempre confortato a sperare, e
pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma
intelligenza e gran fama, ch’io diverrei grande, e glorioso
all’Italia, nella qual lettera mi diceva di concepir troppo
bene le mie sventure, (Piacenza, 18 giugno) che se Dio mi
mandava la morte l’accettassi come un bene, e ch’egli
l’augurava pronta a se ed a me per l’amore che mi portava.
Credereste che questa lettera invece di staccarmi

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maggiormente dalla vita, mi riaffezionò a quello ch’io aveva
già abbandonato? e ch’io pensando alle speranze passate, e
ai conforti e presagi fattimi già dal mio amico, che ora
pareva non si curasse più di vederli verificati, né di quella
grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie
carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i
pensieri e i desideri e le belle viste e le occupazioni
dell’adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch’io non
sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi
spaventava? non già come morte, ma come annullatrice di
tutta la bella aspettativa passata. E pure quella lettera non mi
avea detto nulla ch’io non mi dicessi già tutto il giorno, e
conveniva né più né meno colla mia opinione. Io trovo le
seguenti ragioni di questo effetto: 1. Che le cose che da
lontano paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella
lettera e quell’augurio mi metteva come in una specie di
superstizione, come se le cose si stringessero e la morte
veramente si avvicinasse, e quella che da lontano m’era
parsa facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile,
da vicino mi pareva dolorosissima e formidablle. 2. Io
considerava quel desiderio della morte come eroico. Sapeva
bene che in fatti non mi restava altro, ma pure mi
compiaceva nel pensiero della morte come in
un’immaginazione. Credeva certo che i miei pochissimi
amici, ma pur questi pochi, e nominativamente quel tale, mi
volessero pure in vita, e non consentissero alla mia
disperazione e s’io morissi, ne sarebbero rimasti sorpresi e
abbattuti, e avrebbero detto: “Dunque, tutto è finito? Oh
Dio, tante speranze, tanta grandezza d’animo, tanto ingegno
senza frutto nessuno! Non gloria, non piaceri, tutto è
passato, come non fosse mai stato”. Ma il pensar che

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dovessero dire: “Lode a Dio, ha finito di penare, ne godo per
lui, che non gli restava altro bene: riposi in pace”; questo
chiudersi come spontaneo della tomba sovra di me, questa
subita e intiera consolazione della mia morte ne’ miei cari,
quantunque ragionevole, mi affogava, col sentimento di un
mio intiero annullarmi. La previdenza della tua morte ne’
tuoi amici, che li consola antici-patamente, è la cosa più
spaventosa che tu possa immaginare. 3. Lo stato non della
mia ragione la quale vedeva il vero, ma della mia
immaginazione era questo. La neces-sità e il vantaggio della
morte ch’era reale faceva in me l’effetto di un’illusione a cui
l’immaginazione si affeziona, e il vantaggio e le speranze
della vita ch’erano illusorie, stavano nel fondo del cuor mio
come la realtà. Quella lettera di un tale amico, mise queste
cose viceversa. Insomma questa vita è una carnificina senza
l’immaginazione e la sventura più estrema diventa anche
peggiore e somiglia a un vero inferno quando sei spogliato
di quell’ombra d’illusione che la natura ci suol sempre
lasciare. Se ti sopravviene una calamità senza rimedio, e in
qualunque affar doloroso, il communicarti con un amico, e il
sentir che questo ti conferma intieramente quello che già la
tua ragione vedeva troppo chiaro, ti toglie ogni residuo di
speranza, e parendoti di accertarti allora della totalità e
irreparabilità del tuo male, cadi nella piena disperazione.
Da queste considerazioni impara come tu debba
regolarti nel consolare una persona afflitta. Non ti mostrare
incredulo al suo male, se è vero. Non la persuaderesti, e
l’abbatteresti davantaggio, privandola della compassione.
Ella conosce bene il suo male, e tu confessandolo converrai
con lei. Ma nel fondo ultimo del suo cuore le resta una
goccia d’illusione. I più disperati credi certo che la

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conservano, per benefizio costante della natura. Guarda di
non seccargliela, e vogli piuttosto peccare nell’attenuare il
suo male e mostrarti poco compassionevole, che
nell’accertarlo di quel lo in cui la sua immaginazione
contraddice ancora alla sua ragione. Se anche egli ti esagera
la sua calamità, sii certo che nell’intimo del suo cuore fa
tutto l’opposto, dico nell’intimo, cioè in un fondo nascosto
anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma col
suo cuore, e come secondando il suo cuore tu darai una certa
realtà a quell’ombra d’illusione che gli resta, così nel caso
contrario tu gli porterai un colpo estremo e mortale. La
solitudine e il deserto l’avrebbero consolato meglio di te,
perché avrebbe avuto con se la natura sempre intenta a
felicitare o a consolare. Parlo delle calamità gravissime e
reali che riducono alla disperazione della vita, e non delle
leggere, nelle quali anzi si desidera di esser creduto
esagerando, né di quelle provenienti da grandi illusioni e
passioni, dove l’uomo forse cerca e vuole la disperazione e
fugge il conforto.

ULTIMI AVANZI DELLA FANCIULLEZZA


(a Pietro Giordani)

Recanati 17 Decembre 1819

Credeva che la facoltà di amare come quella di odiare


fosse spenta nell’animo mio. Ora mi accorgo per la tua
lettera ch’ella ancor vive ed opera. Bisogna pure che il
mondo sia qualche cosa, e ch’io non sia del tutto morto,
poiché mi sento infervorato d’affetto verso cotesto bel cuore.

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Dimmi, dove troverò uno che ti somigli? dimmi, dove
troverò un altro ch’io possa amare a par di te? O cara anima,
o sola infandos miserata labores di questo sventurato, credi
forse ch’io sia commosso della pietà che mi dimostri
perch’ella è rivolta sopra di me? Or io ne son tocco perché
non vedo altra vita che le lagrime e la pietà; e se qualche
volta io mi trovo alquanto più confortato, allora ho forza di
piangere, e piango perché son più lieto, e piango la miseria
degli uomini e la nullità delle cose. Era un tempo che la
malvagità umana e le sciagure della virtù mi movevano a
sdegno, e il mio dolore nasceva dalla considerazione della
scelleraggine. Ma ora io piango l’infelicità degli schiavi e
de’ tiranni, degli oppressi e degli oppressori, de’ buoni e de’
cattivi, e nella mia tristezza non è più scintilla d’ira, e questa
vita non mi par più degna d’esser contesa. E molto meno ho
forza di conservar mal animo contro gli sciocchi e
gl’ignoranti coi quali anzi proccuro di confondermi; e
perché l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi
di questa mia vita sono ancora infantili, io tengo afferrati
con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di
quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la
felicità, e sperando e sognando la godeva, ed è passato né
tornerà mai più, certo mai più; vedendo con eccessivo
terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la
vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicché
non vivono fino alla morte se non quei molti che restano
fanciulli tutta la vita. Mio caro amico, sola persona ch’io
veda in questo formidabile deserto del mondo, io già sento
d’esser morto, e quantunque mi sia sempre stimato buono a
qualche cosa non ordinaria, non ho mai creduto che la
fortuna mi avrebbe lasciato esser nulla. Sicché non ti

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affannare per me, ché dove manca la speranza non resta più
luogo all’inquietudine, ma piuttosto amami tranquillamente
come non destinato a veruna cosa, anzi certo d’esser già
vissuto. Ed io ti amero con tutto quel calore che avanza a
quest’anima assiderata e abbrividita.

IRRESOLUZIONE E DISPERAZIONE
L’irresoluzione è peggio della disperazione. Questa
massima mi venne profferita nettamente e letteralmente in
sogno l’altro ieri a notte, in occasione che mio fratello mi
pareva deliberato per disperazione di farsi Cappuccino, e io
ricusava di allegargli quelle ragioni che gli avrebbero
sospeso l’animo, adducendo la detta massima.

DESIDERIO E TIMORE DELLA MORTE


Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in
grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale
indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io
desiderava di morire: e immediatamente mi posi in
apprensione e ansietà per quel timore. Non ho mai con più
forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de’ quali
è formata la presente condizione umana, forzata a temere per
la sua vita e a proccurare in tutti i modi di conservarla,
proprio allora che l’è più grave, e che facilmente si
risolverebbe a privarsene di sua volontà (ma non per forza
d’altre cagioni). E vidi come sia vero ed evidente che (se
non vogliamo supporre la natura tanto savia e coerente in
tutto il resto, ché l’analogia è uno de’ fondamenti della
filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e

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discorso, affatto pazza e contradditoria nella sua principale
opera) l’uomo non doveva per nessun conto accorgersi della
sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita. ma
solamente delle accidentali (come i fanciulli e le bestie): e
l’essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii
costituenti comuni anche a tutti gli altri esseri (come dire
l’amor della vita), e turba l’ordine delle cose (poiché spinge
infatti al suicidio, la cosa più contro natura che si possa
immaginare).

SULL’ORLO DELLA VASCA


Io era oltremodo annoiato della vita, sull’orlo della
vasca del mio giardino, e guardando l’acqua e curvandomici
sopra con un certo fremito, pensava: S’io mi gittassi qui
dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei
sopra quest’orlo, e sforzatomi di uscir fuori dopo aver
temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei
qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a
questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe
più pregevole. La tradizione intorno al salto di Leucade
poteva avere per fondamento un’osservazione simile a
questa.

IL SUICIDIO E IL DISPREZZO
DI SE MEDESIMO
Non v’ha forse cosa tanto conducente al suicidio
quanto il disprezzo di se medesimo. Esempio di quel mio
amico che andò a Roma deliberato di gittarsi nel Tevere
perché sentiva dirsi ch’era un da nulla. Esempio mio

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stimolatissimo ad espormi a quanti pericoli potessi e anche
uccidermi, la prima volta che mi venni in disprezzo. Effetto
dell’amor proprio che preferisce la morte alla cognizione del
proprio niente, ec. onde quanto più uno sarà egoista tanto
più fortemente e costantemente sarà spinto in questo caso ad
uccidersi. E infatti l’amor della vita è l’amore del proprio
bene; ora essa non parendo più un bene, ec. ec.

IMMAGINAZIONE DEL GIOVANE


Il giovane istruito da’ libri o dagli uomini e dai
discorsi, prima della propria esperienza, non solo si lusinga
sempre e inevitabilmente che il mondo e la vita per esso lui
debbano esser composti d’eccezioni di regola, cioè la vita di
felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, di
entusiasmo; ma più veramente egli si persuade, se non altro,
implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso, che quel
che gli è detto e predicato, cioè l’infelicità, le disgrazie della
vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scellerataggine, la
freddezza, l’egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli
altri, l’odio e invidia de’ pregi e virtù altrui, disprezzo delle
passioni grandi e de’ sentimenti vivi, nobili, teneri ec. sieno
tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l’opposto, cioè
quell’idea ch’egli si forma della vita e degli uomini
naturalmente, e indipendentemente dall’istruzione, quella
che forma il suo proprio carattere, ed è l’oggetto delle sue
inclinazioni e desiderii, e speranze, l’opera e il pascolo della
sua immaginazione.

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AUTORI FRANCESI
Non solo l’uomo è opera delle circostanze, in quanto
queste lo determinano a tale o tal professione ec. ec. ma
anche in quanto al genere, al modo, al gusto di quella tal
professione a cui l’assuefazion sola e le circostanze l’hanno
determinato. Per esempio, io finché non lessi se non autori
francesi, l’assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio
stile naturale fosse quello solo, e che là mi conducesse
l’inclinazione. Me ne disingannai, passando a diverse
letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il
gusto degli autori ch’io leggeva, variava l’opinione ch’io mi
formava circa la mia propria inclinazione naturale. E questo
anche in menome e deter-minatissime cose, appartenenti o
alla lingua, o allo stile, o al modo e genere di letteratura.
Come, avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che
dovendo scriver cose liriche, la natura non mi potesse
portare a scrivere in altro stile ec. che simile a quello del
Petrarca. Tali infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in
quel genere di poesia. I secondi meno simili, perché da
qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili
affatto, per essermi formato ad altri modelli, o aver contratta,
a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella
specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità
(originalità quella che si contrae? e che infatti non si
possiede mai se non s’è acquistata? Anche Madama di Staël
dice che bisogna leggere più che si possa per divenire
originale. Che cosa è dunque l’originalità? facoltà acquisita,
come tutte le altre, benché questo aggiunto di acquisita
ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome).

107
EFFETTI DELLE LETTURE
Molti sono che dalla lettura de’ romanzi libri
sentimentali ec. o acquistano una falsa sensibilità non
avendone, o corrompono quella vera che avevano. Io sempre
nemico mortalissimo dell’affettazione massimamente in
tutto quello che spetta agli affetti dell’animo e del cuore mi
sono ben guardato dal contrarre questa sorta d’infermità, e
ho sempre cercato di lasciar la natura al tutto libera e
spontanea operatrice, ec. A ogni modo mi sono avveduto che
la lettura de’ libri non ha veramente prodotto in me né affetti
o sentimenti che non avessi, né anche verun effetto di questi,
che senza esse letture non avesse dovuto nascer da sé: ma
pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma
sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io
provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi
intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada
come aperta, correvo per quella più speditamente.
Per esempio nell’amore la disperazione mi portava
più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe
portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio
veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in
prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi
sorgea così tosto perché dalla lettura recente del Werther,
sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in somma la
disperazione mi portava là, ma s’io fossi stato nuovo in
queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio
così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non
ostante ch’io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione
ec.) me lo trovava già inventato.

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FACILITÀ AD ASSUEFARE L’INGEGNO
La facilità di contrarre abitudine, qualità ed effetto
essenziale de’ grandi ingegni, porta seco per naturale
conseguenza ed effetto la facilità di disfare le abitudini già
contratte, mediante nuove abitudini opposte che facilmente
si contraggono; e quindi la potenza sì della durevolezza,
come della brevità delle abitudini.
Osservate quegli abiti o discipline che hanno bisogno
di un esercizio materiale, per esempio di mano, per essere
imparate. Chi vi ha gli organi meglio disposti, o
generalmente più facili ad assuefarsi, riesce ad acquistare
quell’abilita in più breve tempo degli altri. Ecco tutto
l’ingegno. Organi facili ad assuefarsi, cioè pieghevoli, e
adattabili ec. o generalmente e per ogni verso, e questa è la
universalità di un ingegno; o solamente ovvero
principalmente in un certo modo, e questa è la disposizione
dell’ingegno a una tal cosa, o la sua capacità di riuscire
principalmente in quella.
Ma siccome altri sono gli organi interiori, altri gli
esteriori, così un uomo di grande ingegno, sarà bene spesso
inettissimo ad acquistare abilità meccaniche, cioè
assuefazioni materiali; e viceversa.
Io nel povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra
differenza dall’ingegni volgari, che una facilità di assuefarlo
a quello ch’io volessi, e quando io volessi, e di fargli
contrarre abitudine forte e radicata, in poco tempo.
Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico,
logico; un pensatore, acquistar subito l’abito di pensare nella
giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.;
una maniera di tratto che mi paresse conveniente, contrarne

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l’abitudine in poco d’ora ec. ec. E divenir maturo pratico, ec.
per esempio in uno stile, con una sola lettura, cioè con
pochissimo esercizio ec. La qual facilità di assuefazione,
segno ed effetto del talento, io la notava in me anche nelle
minuzie, come nell’assuefarmi ai diversi metodi di vita, e
nel dissuefarmene agevolmente mediante una nuova
assuefazione ec. ec. In somma io mi dava presto per
esercitato in qualunque cosa a me più nuova.
Il volgo che spesso indovina, e nelle sue metafore
esprime, senza saperlo, delle grandi verità, e dei sensi
piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell’intenzione,
chiama fra noi, (e s’usa dire familiarmente anche fra i colti,
ed anche scrivendo) testa o cervello duro (cioè organi non
pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile
ad imparare. L’imparare non è altro che assuefarsi.

PIACERE E NOIA NELLA LETTURA


Chi legge un libro sia il più piacevole e il più bello
del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia,
anzi se ne disgusta, alla seconda pagina... Io stesso, che pur
non ho maggior piacere che il leggere, anzi non ne ho altri,
ed in cui il piacer della lettura è tanto più grande, quanto che
dalla primissima fanciullezza sono sempre vissuto in questa
abitudine (e l’abitudine è quella che fa i piaceri). quando
talvolta per ozio, mi son posto a leggere qualche libro per
semplice passatempo, ed a fine solo ed espresso di trovar
piacere e dilettarmi; non senza maraviglia e rammarico ho
trovato sempre che non solo io non provava diletto alcuno,
ma sentiva noia e disgusto fin dalle prime pagine. E però io
andava cangiando subito libri, senza però niun frutto; finché

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disperato, lasciava la lettura, con timore che ella mi fosse
divenuta insipida e dispiacevole per sempre, e di non aver
più a trovarci diletto: il quale mi tornava però subito che io
la ripigliava per occupazione, e per modo di studio, e con fin
d’imparare qualche cosa, o di avanzarmi generalmente nelle
cognizioni senza alcuna mira particolare al diletto. Onde i
libri che mi hanno dilettato meno, e che perciò da qualche
tempo io non soglio più leggere, sono stati sempre quelli che
si chiamano come per proprio nome, dilettevoli e di
passatempo.

TENTATIVO DI FUGA
I. A CARLO LEOPARDI
(Recanati: senza data, ma fine di Luglio 1819).

Mio caro. Parto di qua senz’avertene detto niente,


prima perché tu non sia responsabile della mia partenza
presso veruno; poi perché il consiglio giova all’uomo
irresoluto, ma al risoluto non può altro che nuocere: ed io
sapeva che tu avresti disapprovata la mia risoluzione, e
postomi in nuove angustie col cercare di distormene. Sono
stanco della prudenza, che non ci poteva condurre se non a
perdere la nostra gioventù, ch’è un bene che più non si
racquista. Mi rivolgo all’ardire, e vedrò se da lui potrò
cavare maggior vantaggio. Tuttavia questa deliberazione non
è repentina; benché fatta nel calore, ho lasciato passare molti
giorni per maturarla; e non ho avuto mai motivo di
pentirmene. Però la eseguisco. Era troppo evidente che se
non volevamo durar sempre in quello stato che abborrivamo,
ci conveniva prendere questo partito; e tutto il tempo ch’è

111
scorso non è stato altro che mero indugio. Altro mezzo che
questo non c’era: convenia scegliere, e la scelta ben sapete
che non poteva esser dubbiosa. Ora che la legge mi fa
padrone di me stesso, non ho voluto più differire quello
ch’era indispensabile secondo i nostri principii. Due cagioni
m’hanno determinato immediatamente, la noia orribile
derivata dall’impossibilità della studio, sola occupazione che
mi potesse trattenere in questo paese; ed un altro motivo che
non voglio esprimere, ma tu potrai facilmente indovinare. E
questo secondo, che per le mie qualità sì mentali come
fisiche, era capace di condurmi alle ultime disperazioni, e mi
facea compiacere sovranamente nell’idea del suicidio, pensa
tu se non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi
chiusi nelle mani della fortuna. Sta bene, mio caro, e a
riguardo mio sta’ lieto, ch’io fo quello che doveva fare da
molto tempo, e che solo mi può condurre ad una vita se non
contenta, almeno più riposata. Laonde se m’ami, ti devi
rallegrare: e quando io non guadagnassi altro che d’esser
pienamente infelice, sarei soddisfatto, perché sai che la
mediocrità non è per noi. Porto con me le mie carte, ma
potendo avvenire che fossero esaminate, non voglio
comprometter me, e molto meno le persone che mi hanno
scritto col portarne qualcuna che sia sospetta. Ho separate
tutte quelle di questo genere, sì mie, che altrui (cioè lettere
scrittemi) e postele tutte insieme sul comò della nostra
stanza. Ve ne sono anche di quelle che non ho voluto portare
perché non mi servivano. Te le raccomando: abbine cura e
difendile: sai che non ho cosa più preziosa che i parti della
mia mente e del mio cuore, unico bene che la natura m’abbia
concesso. Se verranno lettere del mio Giordani per me,
aprile e rispondi, e salutalo per mio nome, e informalo della

112
mia risoluzione. Al Brighenti si debbono paoli 8 per la
Cronica del Compagni, paoli 3 per le Prose del Giordani, e
baiocchi 16 di errore nella spedizione del danaro per
l’Eusebio. In tutto 1 e 36. Proccura che sia soddisfatto e,
domanda perdono a Paolina se i 3 paoli che mi diede pel
Giordani, e i baiocchi 16 per l’uso detto di sopra, gli ho
portati con me, sperando ch’Ella non avrebbe negato
quest’ultimo dono al suo fratello se glielo avesse chiesto. Oh
quanto avrei caro che il mio esempio servisse a illuminare
nostri genitori intorno a te ed agli altri nostri fratelli!
Certissimamente ho spcranza che tu sarai meno infelice di
me. Addio, salutami Paolina e gli altri. Poco mi curo
dell’opinione degli uomini, ma se ti si darà occasione,
discolpami. Voglimi eternamente bene, che di me puoi esser
sicuro sino alla morte mia. Quando mi trovi in luogo
adattato a darti mie nuove, ti scriverò. Addio. Abbraccia
questo sventurato. Non dubitare, non sarai tu così. Oh
quanto meriti più di me! Che sono io? Un uomo proprio da
nulla. Lo vedo e sento vivissimamente, e questo pure m’ha
determinato a far qucllo che son per fare, affine di fuggire la
considerazione di me stesso, che mi fa nausea. Finattantoché
mi sono stimato, sono stato più cauto; ora che mi disprezzo,
non trovo altro conforto che di gittarmi alla ventura e cercar
pericoli, come cosa di niun valore. Consegna l’inclusa a mio
padre. Domanda perdono a lui, domanda perdono a mia
madre in mio nome. Fallo di cuore, che te ne prego, e così fo
io collo spirito. Era meglio (umanamente parlando) per loro
e per me, ch’io non fossi nato, o fossi morto assai prima
d’ora. Così ha voluto la nostra disgrazia. Addio, caro, addio.

113
II. A MONALDO LEOPARDI
(Recanati senza data, ma fine di Luglio 1819)

Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver saputo quello


ch’io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di
esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non
vorrà ricusare di sentir le prime e ultime voci di un figlio che
l’ha sempre amata e l’ama, e si duole infinitamente di
doverle dispiacere. Ella conosce me, e conosce la condotta
ch’io ho tenuta fino ad ora, e forse, quando voglia spogliarsi
d’ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l’Italia, e sto
per dire in tutta l’Europa, non si troverà altro giovane, che
nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche
con doni intellettuali competentemente inferiori ai miei,
abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni
piacer giovanile, ubbidienza e sommessione ai suoi genitori,
ch’ho usata io. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di
quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà
negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi
mi hanno conosciuto ed hanno portato di me quel giudizio
ch’Ella sa, e ch’io non debbo ripetere. Ella non ignora che
quanti hanno avuto notizia di me, ancor quelli che
combinano perfettamente colle sue massime, hanno
giudicato ch’io dovessi riuscir qualche cosa non affatto
ordinaria, se mi si fossero dati quei mezzi che nella presente
costituzione del mondo e in tutti gli altri tempi, sono stati
indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche
mediocri speranze di se. Era cosa mirabile come ognuno che
avesse avuto anche momentanea cognizione di me,
immancabilmente si maravigliasse ch’io vivessi tuttavia in

114
questa città, e com’Ella sola fra tutti, fosse di contraria
opinione, e persistesse in quella irremovibilmente.
Certamente non l’è ignoto che non solo in qualunque
città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi
giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di
mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene:
e taccio poi della libertà ch’essi tutti hanno in quell’età nella
mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella
che mi s’accordava ai 21 anni. Ma lasciando questo, benché
io avessi dato saggi di me, s’io non m’inganno, abbastanza
rari e precoci, nondimeno solamente molto dopo l’età
consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio che Ella
provvedesse al mio destino, e al bene della mia vita futura
nel modo che le indicava la voce di tutti. Io vedeva
parecchie famiglie di questa medesima città molto, anzi
senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi
d’infinite altre straniere, che per qualche leggero barlume
d’ingegno veduto in qualche giovane loro individuo, non
esitavano a far gravissimi sacrifici affine di collocarlo in
maniera atta a farlo profittare de suoi talenti. Contuttoché si
credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più
che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un
padre dovesse far sacrifizi per me, né le parve che il bene
della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione
al suo piano di famiglia. Io vedeva i miei parenti scherzare
cogl’impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che
avrebbero potuto impegnarsi con effetto anche per me,
domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo
di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che
perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle
risa, ed Ella non credè che le sue relazioni, in somma le sue

115
cure si dovessero neppur esse impiegare per uno
stabilimento competente di questo suo figlio. Io sapeva bene
i progetti ch’Ella formava su di noi, e come per assicurare la
felicità di una cosa ch’io non conosco, ma sento chiamar
casa e famiglia, Ella esigeva da noi due il sacrificio, non di
roba ne di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù,
e di tutta la nostra vita. Il quale essendo io certo ch’Ella né
da Carlo né da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi
restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e
non potea prenderli per mia norma in verun modo. Ella
conosceva ancora la miserabilissima vita ch’io menava per
le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi
proccurava la mia strana immaginazione, e non poteva
ignorare quello ch’era più ch’evidente, cioè che a questo, ed
alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne
sofferse sino da quando mi si formò questa misera
complessione, non v’era assolutamente altro rimedio che
distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si
poteva mai ritrovare. Contuttociò Ella lasciava per tanti anni
un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi
micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia, e per
conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria
solitudine, e dalla vita affatto disoccupata, come
massimamente negli ultimi mesi. Non tardai molto ad
avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione
era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la
fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una
costantissima dissimulazione, e apparenza di cedere, era tale
da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo, e
le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero,
ch’io benché sprovveduto di tutto, non dovea confidare se

116
non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone
di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia
sorte. Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser
contento, e però più facilmente potrò esser felice
mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa
godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci
agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione,
riducendoci come animali che attendono tranquillamente
alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero.
So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli
uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la
carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla
disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci
così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire
piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me
di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio
del corpo. I padri sogliono giudicare dei loro figli più
favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne
giudica più sfavorevolmente d’ogni altra persona, e quindi
non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande:
forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si
misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma quanto a
ciò molti sono d’altra opinione; quanto a noi, siccome il
disperare di se stessi non può altro che nuocere, così non mi
sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei
antenati.
Avendole reso quelle ragioni che ho saputo della mia
risoluzione, resta ch’io le domandi perdono del disturbo che
le vengo a recare con questa medesima e con quello ch’io
porto meco. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei
voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che

117
toccare una spilla del suo. Ma essendo così debole come io
sono, e non potendo sperar più nulla da Lei, per
l’espressione ch’Ella si è lasciato a bella`posta più volte
uscire disinvoltamente di bocca in questo proposito, mi son
veduto obbligato, per non espormi alla certezza di morire di
disagio in mezzo al sentiero il secondo giorno, di portarmi
nel modo che ho fatto. Me ne duole sovra-namente, e questa
è la sola cosa che mi turba nella mia deliberazione, pensando
di far dispiacere a Lei, di cui conosco la somma bontà di
cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella
nostra situazione. Alle quali io sono grato sino all’estremo
dell’anima, e mi pesa infinitamente di parere infetto di quel
vizio che abborro quasi sopra tutti, cioè l’ingratitudine. La
sola differenza di principii, che non era in verun modo
appianabile, e che dovea necessariamente condurmi o a
morir qui di disperazione, o a questo passo ch’io fo, è stata
cagione della mia disavventura. È piaciuto al cielo per
nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero
pensieri alquanto più che Recanatesi, toccassero a Lei per
esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse
questi figli come una disgrazia, toccasse a noi. Quello che
mi consola è il pensare che questa è l’ultima molestia ch’io
le reco, e che serve a liberarla dal continuo fastidio della mia
presenza, e dai tanti altri disturbi che la mia persona le ha
recati, e molto più le recherebbe per l’avvenire. Mio caro
Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome,
io m’inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice
per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità
fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e
così spero che sarà d’ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai
padrone di nulla, il mio primo pensiero sarà di rendere

118
quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi.
L’ultimo favore ch’io le domando, è che se mai le si desterà
la ricordanza di questo figlio che l’ha sempre venerata ed
amata, non la rigetti come odiosa, né la maledica; e se la
sorte non ha voluto ch’Ella si possa lodare di lui, non ricusi
di concedergli quella compassione che non si nega neanche
ai malfattori.

AMORE AL FRATELLO CARLO


Non saprei come esprimere l’amore che io ho sempre
portato a mio fratello Carlo, se non chiamandolo amor di
sogno.

AMICIZIA TRA FRATELLI


L’amicizia, non che la piena ed intima confidenza tra
fratelli, rade volte si conserva all’entrar che questi fanno nel
mondo, ancorché siano stati allevati insieme, ed abbiano
esercitato l’estremo grado di questa confidenza sino a quel
momento; e di più seguano ancora a convivere. E pure se
l’uomo è capace di piena ed intima confidenza, e s’egli
dovrebbe conservarla perpetuamente verso qualcuno, questo
dovrebb’essere verso i fratelli coetanei, ed allevati con lui
nella fanciullezza: e dico dovrebb’essere, non per forza
naturale della congiunzione di sangue, la qual forza è nulla e
immaginaria, e niente ha che fare nel produr quella
confidenza o nel conservarla, ma per forza naturale
dell’abitudine e dell’abitudine contratta nel primo principio
delle idee e delle abitudini dell’individuo e nella prima
capacità di contrarle, e conservata tutto quel tempo che dura

119
la maggiore intensità e disposizione ed ampiezza, e il
maggior esercizio di questa capacità. Nondimeno questa
confidenza così fortemente stabilita e radicata si perde per la
varietà che s’introduce nel carattere dei fratelli mediante il
commercio con gli altri individui della società. Ma se questo
commercio non avesse avuto luogo, quella confidenza
sarebbe stata perpetua; com’ella non è mai cessata fino a
quell’ora. Che vuol dir ciò, se non che nei caratteri degli
uomini, novantanove parti son opera delle circostanze? e che
per diversissimi ch’essi appariscano, come spesso accade
anche tra fratelli, in questa diversità non è opera della natura
se non una parte così menoma che saria stata impercettibile?
È quasi impossibile il caso che tutte le minute circostanze e
avvenimenti che incontrano a l’un dei fratelli nell’uso della
società, incontrino all’altro, o sieno uguali a quelle che
incontrano all’altro, ancorché postogli da vicino. Questa
diversità diversifica due caratteri che parevano affatto, ed
erano quasi affatto, compagni, e com’ella è inevitabile, così
la diversificazione di questi caratteri nella società non può
mancare. E ho detto le minute circostanze contentandomi di
queste, perché anche la somma di cose minutissime basta a
produrre grandissimi e visibilissimi effetti sull’indole degli
uomini, massime allora ch’eglino sono principianti del
mondo, e che in essi la capacità delle attitudini e delle
opinioni, ossia la formabilità dell’indole è ancor molta e
grande e in buon essere.

PER USCIRE DA RECANATI


AD ANGELO MAI
Recanati 30 Marzo 1821

120
Monsignore Veneratissimo. È sempre grave il
domandare, tanto a chi domanda, quanto soprattutto al
domandato. Ma molto più se chi domanda non ha diritto
nessuno al benefizio, ed è primo a domandare; qual è ora il
caso mio. Perché da quando ebbi la fortuna di conoscere V.
S. non ho avuto mai né l’occasione né la forza di servirla,
eccetto col desiderio. Bensì da V.S. sono stato sempre e
sommamente favorito. Ed ora in luogo di poterla ricambiare,
mi vedo anzi costretto ad implorare da Lei nuovo favore. Ma
così accade agli oscuri e piccoli, rispetto agli eminenti ed
insigni, coi quali non possiamo comunicare se non colla
venerazione o colla gratitudine.
È stato domandato per me alla Eminenza del
Segretario di Stato, il posto di professore di lingua latina, ora
vacante in cotesta Biblioteca. Ma Sua Eminenza non mi
conosce se non per quell’uomo oscurissimo e
sconosciutissimo ch’io sono effettivamente. M’hanno
assicurato che se V.S. si degnasse di fare spontaneamente a
Sua Eminenza una parola in mio favore, il negozio
senz’altro riuscirebbe. Ed io lo credo indubitatamente,
considerando la fama e gloria, possiamo dire, unica, della
quale V.S. gode, tanto costì, come da per tutto.
Io non mi sarei mai potuto indurre a molestare V.S.
con questa preghiera, e a cimentare la sua benignità con
questa forse temeraria e presuntuosa confidenza, se da una
parte, non avessi conosciuto per mille prove la bontà squisita
del suo cuore, dall’altra, la infelicità della mia vita, non mi
ci avesse violentemente strascinato. V. S. che ha più volte
avuto la cordialità d’interessarsi alle cose mie; saprà com’io
sino dai dieci anni mi sia dato spontaneamente agli studi in

121
maniera, che in questa età d’anni ventidue, quando la
gioventù dovrebbe incominciare, ella è già terminata e
passata per me. Giacché a forza di ostinatissime e
indiscretissime applicazioni, ho rovinata la mia
complessione crescente, indebolita la salute, e vista
sopraggiungere la vecchiaia, quando era tempo di
raccogliere, mediante la giovinezza, il frutto delle fatiche
passate. Oltre a questo, i miei genitori sono stati sempre, e
sono tuttavia fermamente determinati, di non lasciarmi
uscire di qua, s’io non mi trovo un impiego da mantenermi
del mio. Questo impiego non può esser altro per me, che
letterario. Io vissuto sempre in un piccolo paesuccio, non ho
conoscenze, non amicizie, non appoggi di sorta alcuna. Così
che dopo avere perduto ogni altro vantaggio della vita, mi
vedo ridotto a perdere intieramente anche quell’ultimo frutto
degli studi, che è la conversazione degli uomini insigni, e
quel poco di fama, che ogni piccolo uomo si lusinga e
desidera di acquistare. Ma chi vive sepolto in un paese come
questo, non può mai sperare di farsi, non dico famoso, ma
neppur noto in nessuna parte della terra. Tutte le fatiche, tutti
i dolori, tutte le perdite che ho sostenute sono vane per me.
Io mi vedo qui disprezzato e calpestato da chicchessia; tutte
le speranze della mia fanciullezza sono svanite; ed io piango
quasi il tempo che ho consumato negli studi, vedendomi
confuso colla feccia più vile degli scioperati e
degl’ignoranti. Queste ragioni mi hanno fatto forza ad
implorare la misericordia di V.S. Non dissimulerò che io le
parlo col cuore sulle labbra, e con tutta l’ingenuità di una
tenera e rispettosa confidenza. Io sarò debitore a V.S. di
molto più che della vita, perché la vita non è un bene per se
medesima; bensì l’infelicità e disperazione totale della vita,

122
è un sommo male quaggiù; e chi ci libera da questa, ci libera
da peggio assai che dalla morte.
M’inchino con tutta l’anima a V. S. per supplicarla di
perdonarmi tanta importunità. Finalmente io son uomo da
nulla, e s’io perdo tutto il frutto della mia vita; se son
destinato a non provar mai, come non ho mai provata, una
goccia di bene quaggiù; questo non rileva; e confesso che
non disconviene per nessun conto al merito mio. Ma noi
siamo naturalmente inclinati a dare grande importanza alle
cose nostre: e massimamente quando si tratta di quasi tutta
l’esistenza, non abbiamo riguardo d’infastidire, e anche
mostrarci temerari con chicchessia. V. S. mi perdoni, ch’io
ne la supplico ardentemente; e se mi pongo nelle sue mani,
Ella mi accetti per servitore, o infelicissimo o no ch’io debba
essere, certo e invariabilmente devotissimo e attaccatissimo
alla sua persona, e alle sue virtù singolari.

A GIULIO PERTICARI
Recanati 30 Marzo 1821

Signor Conte Stimatissimo e Carissimo. È dura cosa


il dimandare e peggio a chi niente ci deve, anzi di molto ci è
creditore. Ma dall’una parte la vostra squisita benignità,
dall’altra la disperazione della mia vita mi fanno forza ch’io
vi domandi e vi preghi, anzi vi supplichi. E prima di tutto vi
chiedo perdono della rozzezza di questo mio scrivere, perché
la tristezza dell’animo, e l’angustia delle cose non mi
lasciano tempo né spazio alla considerazione delle parole.
Io credo che voi sappiate (per la bontà che avete usata
d’informarvi delle cose mie) che dall’età di dieci anni,
senz’altro aiuto che l’ignoranza di chiunque ha mai

123
conversato meco, il contrario esempio de’ miei cittadini, e la
noncuranza di tutti, io mi diedi furiosamente agli studi, e in
questi ho consumata la miglior parte dèlla vita umana. Ma
forse non sapete che degli studi non ho raccolto finora altro
frutto che il dolore. La debolezza del corpo; la malinconia
profondissima e perpetua dell’animo; il dispregio e gli
scherni di tutti i miei cittadini; e per ultimo, il solo conforto
che mi restasse, dico l’immaginazione, e le facoltà del cuore,
anch’esse poco meno che spente col vigore del corpo e colla
speranza di qualunque felicità; questi sono i premi che ho
conseguiti colle mie sventuratissime fatiche. La fortuna ha
condannato la mia vita a mancare di gioventù: perché dalla
fanciullezza io sono passato alla vecchiezza di salto, anzi
alla decrepitezza sì del corpo come dell’animo. Non ho
provato mai da che nacqui un diletto solo; la speranza alcuni
anni; da molto in qua neppur questa. E la mia vita esteriore
ed interiore è tale, che sognandola solamente,
agghiaccerebbe gli uomini di paura. I miei genitori i quali
vedono ch’io mi consumo e distruggo in questa prigione, e
che vivendo sempre sepolto in un paese, dove non è
conosciuto neanche il nome delle lettere, se avessi l’ingegno
di Dante, e la dottrina di Salomone, non potrei conseguire
una menoma parte di quella fama che ottengono i più
scioperati e da poco; sono immutabilissimamente deliberati
di non lasciarmi partire di qua, s’io non trovo una
provvisione da potermi sostenere a mie spese. E de’ miei
portamenti, che son tali, quali non si raccontano o non si
credono, in questa età mia, di persona che fosse al mondo,
mi ricompensano con ricusare ostinatamente di aiutarmi a
conseguire quello medesimo che mi dimostrano e
prescrivono per necessario. Solamente mi lasciano la misera

124
facoltà ch’io procuri con quasi nessuna conoscenza, e di
lontano, quello ch’è difficile ad ottenere con moltissimi aiuti
e patrocini, e colla presenza.
S’è domandato per me al Segretario di Stato il luogo
ora vacante di professore di lingua latina nella Biblioteca
Vaticana. Ma S. Em. non mi conosce se non per quell’uomo
oscurissimo e sconosciutissimo ch’io sono effettivamente.
Mi accertano che se Mons. Mai facesse un motto in mio
favore al Segretariato di Stato, il negozio succederebbe. Io
scrivo a Mons. Mai che da qualche tempo conosco per
lettere. Ma parimente mi dicono (e m’era parso già di
vederlo) ch’egli è persona d’animo freddo, e bisognoso di
forti stimoli a prendersi briga per chi si voglia. Ora io posso
ben chiedere il benefizio, ma non meritarlo, né generalmente
parlando, né (in questa mia condizione) con veruno in
particolare.
Conte mio, non monta, e niuno si deve curare ch’io
viva; non desidero, anzi per nessuna cosa del mondo non
vorrei vivere: ma poiché non posso morire (che se potessi, vi
giuro che non finirei questa lettera, anzi che sarei morto da
lungo tempo), io domando misericordia alla natura che m’ha
dato l’essere appostatamente per vedermi a soffrire,
domando misericordia ai pochissimi amici miei, perché
m’aiutino a sopportare, non più la vita, ma gli anni. Io non
so se voi tenghiate con Mons. Mai nessuna familiarità: ma
sapendo che siete famoso e riverito, come per tutta Italia e
fuori, così massimamente in Roma, ho creduto che forse
potreste favorirmi in quel modo che vi piacesse, e preso
ardire di supplicarvi. Ma perdonate s’io vi fo partecipare
della miseria mia con queste odiose querele. Volendo tentare
di vincere la mia nera fortuna ho rotto la legge ch’io m’ero

125
imposta da gran tempo, che nessuno, fuori di me, dovesse
venire a parte della infelicità mia. Perdonate; e non potendo
altro, e in qualunque caso conservatemi la vostra
benevolenza; perché se la natura mi condanna al dispregio
ch’io merito, e la fortuna all’odio di molti che non merito,
mi resti per ultima consolazione l’amore di pochissimi. Il
vostro Giacomo Leopardi.

RICORDI D’INFANZIA
E DI ADOLESCENZA3
Canto dopo le feste, Agnelli sul cielo della stanza,
Suono delle navi, Gentiloni (otium est pater ec.), Spezioli
(chierico), dettomi da mio padre ch’io dovea essere un
Dottore, Paure disciplinazione notturna dei missionari,
Compassione per tutti quelli ch’io vedeva non
avrebbono avuto fama,
Pianto e malinconia per essere uomo, tenuto e
proposto da mia madre per matto, compassione destata in
Pietruccio sulle mie ginocchia, desiderio concepito
studiando la geografia di viaggiare,
Sogni amorosi ed efficacia singolare de’ sogni teneri
notata, amore per la balia, per la Millesi, per Ercole,
Scena dopo il pranzo affacciandomi alla finestra,
coll’ombra delle tettoie il cane sul pratello i fanciulli la porta
del cocchiere socchiusa le botteghe ec., effetti della musica
in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera E
prima di partire ec.,

3 Tante allusioni sono incomprensibili in quanto, appunti presi solo per sé.
Carlo e Pietruccio sono i fratelli; Paolina la sorella. D.Vincenzo (Diotallevi) il
precettore. Teresa (Fattorini, la figlia del Cocchiere, gli ispirò forse A Silvia.

126
Compiacente e lezioso da piccolo ma terribile nell’ira
e per la rabbia ito in proverbio tra’ fratelli più cattivi assai
nel resto,
prima lettura di Omero e primo sonetto,
Amore amore cantato dai fanciulli (leggendo io
l’Ariosto) come in Luciano ec., principio del mondo (ch’io
avrei voluto porre in musica non potendo la poesia
esprimere queste cose ec. ec.) immaginato in udir il canto di
quel muratore mentr’io componeva ec. e si può dire di Rea
ec. senza indicar l’inno a Nettuno,
Gennaio del 1817 e lettura dell’Alamanni e del Monti
nell’aspettazione della morte e nella vista di un bellissimo
tempo da primavera passeggiando, nel finire di un di quei
passeggi grida delle figlie del cocchiere per la madre sul
mettermi a tavola, composizione notturna fra il dolore ec.
della Cantica,
lettura notturna di Cicerone e voglia di slanciarmi
quindi preso Orazio, descrizione della veduta che si vede
dalla mia casa le montagne la marina di S. Stefano e gli
alberi da quella parte con quegli stradelli ec., mie
meditazioni dolorose nell’orto o giardino al lume della luna
in vista del monistero deserto della caduta di Napoleone
sopra un mucchio di sassi per gli operai che ec. aspettando la
morte, desiderio d’uccidere il tiranno
fanciulli nella domenica delle palme e falsa amicizia
dell’uno più grandicello, Educande mia cugina ed orazione
mia a loro (Signorine mie) consolatoria (ma fate piangere
anche me) con buon esito di un sorriso come il sole tra una
pioggetta perciò scritta da me allora che me ne tenni
eloquente. testa battuta nel muro all’Assunta, faccia

127
dignitosa ma serena e di un ideale simile a quel cammeo di
Giove Egioco avute le debite proporzioni ec.
S. Cecilia considerata più volte dopo il pranzo
desiderando e non potendo contemplar la bellezza, baci dati
alla figlia e sospiri per la vicina partenza che senza nessuna
mia invidia pur mi turbavano in quel giuoco a cagione ec.
prevedo ch’io mi guasterei coi cattivi compagni
coll’esempio massimamente ec. e perciò che nessun uomo
non milenso non è capace di guastarsi,
mal d’occhi e vicinanza al suicidio, pensieri
romanzeschi alla vista delle figure del Kempis e di quelle
della piccola storia sacra ec., del libro dei santi mio di Carlo
e Paolina del Goldoni della Storia santa francese dei santi in
rami dell’occhio di Dio in quella miniatura, mio disprezzo
degli uomini massime nel tempo dell’amore e dopo la lettura
dell’Alfieri ma già anche prima come apparisce da una mia
lettera a Giordani,
mio desiderio di vedere il mondo non ostante che ne
conosca perfettamente il vuoto e qualche volta l’abbia quasi
veduto e concepito tutto intiero, accidia e freddezza e
secchezza del gennaio ec. insomma del carnevale del 19
dove quasi neppur la vista delle donne più mi moveva e mio
piacere allora della pace e vita casalinga e inclinazione al
fratesco,
scontentezza nel provar le sensazioni destatemi dalla
vista della campagna ec. come per non poter andar più
addentro e gustar più non parendomi mai quello il fondo
oltre al non saperle esprimere ec.
tenerezza di alcuni miei sogni singolare movendomi
affatto al pianto (quanto non mai maissimo m’è successo
vegliando) e vaghissimi concetti come quando sognai di

128
Maria Antonietta e di una canzone da mettergli in bocca
nella tragedia che allora ne concepii la qual canzone per
esprimere quegli affetti ch’io aveva sentiti non si sarebbe
potuta fare se non in musica senza parole, mio spasimo letto
il Cimitero della Maddalena, 4 carattere e passione infelice
della mia cugina di cui di sopra,
Lettura di Virgilio e suoi effetti, notato quel passo del
canto di Circe come pregno di fanciullesco mirabile e da me
amato, già da scolare, così notato quel far tornar Enea
indietro nel secondo libro,
lettura di Senofonte e considerazioni sulla sua
politica, notato quel luogo delle fanciulle persiane che
cavavano acqua comparato cogl’inni a Cerere di Callimaco e
Omero ec. e Verter lett. 3. Mie considerazioni sulla pluralità
dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla
grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi
torrenti ec. che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla
nel mondo e risvegliato da una voce chiamantemi a cena
onde allora mi parve un niente la vita nostra e il tempo e i
nomi celebri e tutta la storia ec., sulle fabbriche più grandi e
mirabili che non fanno altro che inasprire la superficie di
questo globetto asprezze che non si vedono da poco in su e
da poco lontano ma da poco in su il nostro globo par liscio
liscio ed ecco le grandi imprese degli uomini della cui forza
ci maravigliamo in mirar quei massi ec. né può sollevarsi più
su ec.,
mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla
luna annuvolata e caliginosa allo stridore delle ventarole
consolato dall’orologio della torre ec.,

4 Opera di Ragnault-Warin sulla famiglia di Luigi XVI

129
veduta notturna colla luna a ciel sereno dall’alto della
mia casa tal quale alla similitudine di Omero ec.,
favole e mie immaginazioni in udirle vivissime come
quella mattina prato assolato ec.,
Giordani, apostrofe all’amico e all’amicizia, mio
desiderio della morte lontana timore della vicina per
malattia, quindi spiegato quel fenomeno dell’amor della vita
ne’ vecchi e non nei giovani del che nello Spettatore, 5 detto a
Carlo più volte quando faremo qualcosa di grande? canti e
arie quanto influiscano mirabilmente e dolcemente sulla mia
memoria mosco6 ec., allegrezze pazze massime nei tempi
delle maggiori angosce dove se non mi tenessi sarei capace
di gittar sedie in aria ec. saltare ec. e anche forse
danneggiarmi nella persona per allegria, malattia di 5 anni o
6 mortale, Ricotti, Donna Marianna e miei sforzi in
carrozza, prima gita in teatro miei pensieri alla vista di un
popolo tumultuante ec. maraviglia che gli scrittori non
s’infiammino ec. unico luogo rimasto al popolo ec. Persiani
d’Eschilo ec.
mie reverie sopra una giovine di piccola condizione
bella ma molto allegra veduta da me spesso ec. poi sognata
interessantemente ec. solita a salutarmi ec. mie apostrofi fra
me e lei dopo il sogno, vedutala il giorno e non salutato
quindi molestia, (eh pazzo, ell’aveva altri pensieri ec. e se
non ti piace, se non l’ho detto né le dirò mai sola una parola.
Eppure avrei voluto che mi salutasse),
primo tocco di musica al teatro e mio buttarmi ec. e
quindi domandato se avessi male,

5 Periodico che A.F.Stella stampava a Milano


6 Mosto, poeta siracusano del II sec., imitatore di Teocrito

130
pensiero che queste stesse membra questa mano con
ali scrivo ec. saranno fra poco ec. (nel fine),
desiderio di morire in un patibolo stesso in guerra ec.
ec. (nel fine), si discorrerà per due momenti in questa
piccola città della mia morte e poi ec.,
aprì la finestra ec. era l’alba ec. ec. non aveva pianto
nella sua malattia se non di rado ma allora il vedere ec. per
l’ultima volta ec. comparare la vita della natura e la sua
eterna giovinezza e rinnuovamento col suo morire senza
rinnuovamento appunto nella primavera della giovinezza ec.
pensare che mentre tutti riposavano egli solo, come disse,
vegliava per morire ec. tutti questi pensieri gli strinsero il
cuore in modo che tutto sfinito cadendo sopra una sedia si
lasciò correre qualche lagrima né più si rialzò ma entrati ec.
morì senza lagnarsi né rallegrarsi ma sospirando com’era
vissuto, non gli mancarono i conforti della religione ch’egli
chiamava (la Cristiana) l’unica riconciliatrice della natura e
del genio colla ragione per l’addietro e tuttavia (dove questa
mediatrice non entra) loro mortale nemica, (dove ho detto
qui sopra, come disse, bisogna notare ch’io allora lo fingo
solo) scrisse (o dettò) al suo amico quest’ultima lettera
(muoio innocente seguace ancora della santa natura ec. non
contaminato ec.), a Giordani nell’apostrofe (se queste mie
carte morendo io come spero prima di te, ti verranno
sott’occhio ec. ec.), timore di un accidente e mia
indifferenza allora, i veri infortuni sono nemici della
compassione della malinconia che ce ne finge dei falsi e di
quelle dolcezze che si provano dallo stesso fabbricarsi una
sventura ec. cacciano le sventure fatteci dalla nostra fantasia
fervore ec. ci disseccano ec. eccetto in qualche parte di
sensibilità ec., si può portare il mio primo sonetto,

131
S. Agostino (cioè benedizione in quel giorno di
primavera nel cortile solitario per la soppressione cantando
gli uccelli allora tornati ai nidi sotto quei tetti, del giorno,
sereno, sole, suono delle campane vicine quivi. e al primo
tocco mia commozione verso il Creatore), l’istesso giorno
passeggiando campana a morto e poi entrando in città Dati
accompagnato da’ seminaristi, buoi del sole quanto ben
fanciullesco nel princip. dell’Odissea come anche tutto il
poema in modo speciale, che gli antichi continuassero
veramente mercè la loro ignoranza a provare quei diletti che
noi proviamo solo fanciulli? oh sarebbero pur da invidiare, e
si vedrebbe bene che quello è lo stato naturale ec.,
mio rammarico in udire raccontare i gridi del popolo
contro mio padre per l’affare del papa (che si racconti con
riflessioni sopra l’aura popolare essendo stato sempre mio
padre così papalino) comparata al presente disprezzo forse
nato in parte allora,
odi anacreontiche composte da me alla ringhiera
sentendo i carri andanti al magazzino e cenare allegramente
dal cocchiere intanto che la figlia stava male, storia di Teresa
da me poco conosciuta e interesse ch’io ne prendeva come
di tutti i morti giovani in quello aspettar la morte per me,
mia avversione per la poesia modo onde ne ritornai e
palpabile operazione della natura nel dirigere ciascuno al
suo genio ec.,
filsero7 e riflessioni su quel carattere espresso con una
voce di mia invenzione ec.,
favole raccontate a Carlo la mattina delle feste in letto
ec.,

7 Personaggio inventato da Leopardi nell’infanzia.

132
mio fuggire facendosi qualche comando duro e
rimbrotto ec. alla servitù ec. e da che nato,
mia madre consolante una povera donna come male
facesse dicendole che se un momento prima ci avesse
pensato avrebbe ottenuto ec.,
si riportino d pezzi della Cantica, mio costume di
meletan meco stesso l’eloquenza e la facondia in tutto quello
che mi accadea poi trovato riferito da Plutarco di
Demostene, fu posto (sotterrato) nel sepolcro della famiglia,
e di lui non resta altra memoria nella città dove solamente fu
conosciuto (tra appresso quanti lo conobbero) che di
qualunque altro giovane morto senza fatti e senza fortuna,
Orazione contro Gioacchino8 sull’affare della libertà e
indipendenza italiana. Sergente tedesco che diceva voi siete
per l’indipendenza ec. a mio padre ch’era tutto il contrario
ma ec., mio spavento dell’obblivione e della morte totale ec.
v. Ortis 25 Maggio 1798 sul fine, Canto mattutino di donna
allo svegliarmi, canto delle figlie del cocchiere e in
particolare di Teresa mentre ch’io leggeva il Cimitero della
Maddalena, logge fuor della porta del duomo buttate giù
ch’io spesso vedeva uscendo ec. e tornando ec. alla luna o
alle stelle (vedendo tutti i lumi della città) dicendo la corona
in legno, in proposito della figura di Noè nella Storia sacra si
ricordi quella fenestrella sopra la scaletta ec. onde io dal
giardino mirava la luna o il sereno ec.,
mie occupaz. con Pietruccio, suonargli quand’era in
fasce, ammaestrarlo, farci sperienza circa le tenebre ec.,
sdraiato presso a un pagliaio a S. Leopardo sul
crepuscolo vedendo venire un contadino dall’orizzonte
avendo in faccia i lavoranti di altri pagliai ec.,
8 Gioacchino Murat

133
torre isolata in mezzo all’immenso sereno come mi
spaventasse con quella veduta della camerottica per
l’infinito ec.,
volea dire troverai altri in vece mia ma no: un cuore
come il mio non lo troverai ec. (nell’ultima lettera),
mio amore per la Broglio monacantesi,
perder per sempre la vista della bellezza e della natura
dei campi ec. perduti gli occhi ciò m’induceva al suicidio,
riflessioni sopra coloro che dopo aver veduto rimasti ciechi
pur desiderano la vita che a me parea ec. e forse anch’io ec.
come quel povero di Luciano il cui luogo (dell’ultimo
Dialogo de’ morti circa) si può portare chiudendo il capo con
quelle parole tradotte edu gar ec. - la vita è una bella cosa
ma la morte è bruttissima e fa paura, palazzo bello, luna nel
cortile, ho qui raccolte le mie rimembranze ec. (nel proemio)
Teresa si afflisse pel caso della sorella carcerata e
condannata di furto, non era avvezza al delitto né
all’obblobrio ec. ed era toccata dalla confusione della rea
cosa orrenda per un innocente, suo bagno cagione del male,
suo pianto ch’ella interrogata non sapea renderne ragione ec.
ma era chiaro che una giovanetta ec. morire ec., come alcuni
godono della loro fama ancora vivente così ella per la
lunghezza del suo male sperimentò la consolazione dei
genitori ec. circa la sua morte e la dimenticanza di se e
l’indifferenza ai suoi mali ec., non ebbe neppure il bene di
morire tranquillamente ma straziata da fieri dolori la
poverina,
circa la politica di Senofonte si può in buona
occasione mentovare quelle parole di Senofonte il giovine
spediz. d’Alessand. lib. 1, c. 7, sect. 2.,

134
Benedetto storia della sua morte ec., mio dolore in
veder morire i giovini come a veder bastonare una vite
carica d’uve immature ec. una messe ec. calpestare ec. (in
proposito di Benedetto), (nello stesso proposito) allora mi
parve la vita umana (in veder troncate tante speranze ec.)
come quando essendo fanciullo io era menato a casa di
qualcuno per visita ec. che coi ragazzini che v’erano
intavolava ec. cominciava ec. e quando i genitori sorgevano
e mi chiamavano ec. mi si stringeva il cuore ma bisognava
partire lasciando l’opera tal quale né più né meno a mezzo e
le sedie ec. sparpagliate e i ragazzini afflitti ec. come se non
ci avessi pensato mai, così che la nostra esistenza mi parve
veramente un nulla, a veder la facilità infinita di morire e i
tanti pericoli ec. ec. mi par da dirsi piuttosto caso il nostro
continuare a vivere che quegli accidenti che ci fanno morire
come una facella messa all’aria inquieta che ondeggia ec. e
sul cui lume nessuno farebbe un minimo fondamento ed è un
miracolo se non si spegne e ad ogni modo gli è destinato e
certo di spegnersi al suo finire, Ecco dunque il fine di tutte le
mie speranze de’ miei voti e degl’infiniti miei desideri (dice
Verter moribondo e ti può servire pel fine),
si suol dire che in natura non si fa niente per salto ec.
e nondimeno l’innamorarsi se non è per salto è almeno
rapidiss. e impercettib. voi avrete veduto quello stesso
oggetto per molto tempo forse con piacere ma
indifferentemente ec. all’improvviso vi diventa tenero e
sacro ec. non ci potete più pensare senza ec. come un
membro divenuto dolente all’improvviso per un colpo o
altro accidente che non vi si può più tastare ec.,
vedeva i suoi parenti ec. consolati anticipatamente
della sua morte e spento il dolore che da principio ec.

135
ministrarle indifferentem. e considerarla ec. freddamente fra
i dolori ec. parlarle ec.,
pittura del bel gennaio del 17 donne che spandono i
panni ec. e tutte le bellezze di un sereno invernale gratissimo
alla fantasia perché non assuefattaci ec.,
detti della mia donna quella sera circa la povertà della
famiglia ond’era uscita ec. e le sue malattie e la famiglia
ov’era ec.,
si potrà farlo morire in villa andatovi per l’aria onde
fargli vedere e riflettere sulla campagna ec.,
quel mio padre che mi volea dottore vedutomi poi ec.
disubbidiente ai pregiudizi ec. diceva in faccia mia in
proposito de’ miei fratelli minori che non si curava ec.
(nell’Orazione su Gioacchino) apostrofe a Gioacchino,
scelleratissimo sappi che se tu stesso non ti andasti ora a
procacciar la tua pena io ti avrei scannato con queste mani
ec. quando anche nessun altro l’avesse fatto ec. Giuro che
non voglio più tiranni ec. la mia provincia desolata da te e
da’ tuoi cani ec., mirabile e sfacciatissimo egoismo in un
quasi solitario e nondimeno viaggiatore ec. ec. veduta tutta
l’Italia ec. dimorato in capitali ec. del che gli esempi
sarebbero innumerabili ma si può portare quel delle legna,
del fare scansar gli altri e ristringerli ec. a tavola
senz’addurre altro se non ch’egli stava incomodo,
dell’offrire il formaggio ec. e forzare a prenderlo 1 per torne
il risecco, 2 per sapere se il giorno dopo fosse buono ec.
(questo 2 si può dire in genere di una vivanda), dello
sgridare apertamente stando pure in casa d’altri ec. la
padrona ec. per non aver messo in tavola qualche buon
piatto ec., del fare un delitto serio a D. Vincenzo per non
avergli mandato parte di una vivanda sua mentr’egli

136
mangiava in camera ec. tutto ciò scusandomi con dire che
solo in tavola egli conviveva ec. e però quindi son tratti
quasi tutti gli esempi ma anche altri ne potrò cercare e
discorrere del suo metodo e piccolezza di spirito e
d’interessi occupazioni ec.,
il fanciullesco del luogo di Virgilio su Circe non
consiste nel modo nello stile nei costumi ec. come per
l’ordinar. in omero ec. ma nella idea nell’immagine ec. come
pur quello degli altri luoghi che ho notati,
allora (nel pericolo di perder la vista) non mi
maravigliava più come altri avesse coraggio di uccidersi ma
come i più dopo tal disgrazia non si uccidessero, contadino
dicente le ave Maria e ‘l requiem aeternam sulla porta del
suo tugurio volto alla luna poco alta sugli alberi del suo
campo opposto all’orizzonte ad alta voce da se (il dì 9
Maggio 1819 tornando io da S. Leopardo lungo la via non
molto lontano dalla Città, a piedi con Carlo),
per l’orazione contro Gioacchino v. Ortis lett. 4
Dicembre 1798, io non saprei niente se non avessi allora
avuto il fine immediato di far dei libretti ec. necessità di
questo fine immediato nei fanciulli che non guardano troppo
lungi mirandoci anche gli uomini assai poco, così mi duole
veder morire un giovine come segare una messe verde verde
o sbatter giù da un albero i pomi bianchi ed acerbi;
giardino presso alla casa del guardiano, io era
malinconichissimo e mi posi a una finestra che metteva sulla
piazzetta ec. due giovanotti sulla gradinata della chiesa
abbandonata ec. erbosa ec. sedevano scherzando sotto al
lanternone ec. si sballottavano ec. comparisce la prima
lucciola ch’io vedessi in quell’anno ec. uno dei due s’alza gli
va addosso ec. io domandava fra me misericordia alla

137
poverella l’esortava ad alzarsi ec. ma la colpì e gittò a terra e
tornò all’altro ec. intanto la figlia del cocchiere ec. alzandosi
da cena e affacciatasi alla finestra per lavare un piattello nel
tornare dice a quei dentro=stanotte piove da vero. Se vedeste
che tempo. Nero come un cappello=e poco dopo sparisce il
lume di quella finestra ec. intanto la lucciola era risorta ec.
avrei voluto ec. ma quegli se n’accorse tornò=porca
buzzarona=un’altra botta la fa cadere già debole com’era ed
egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec. e poi
ec. finchè la cancella. Veniva un terzo giovanotto da una
stradella in faccia alla chiesa prendendo a calci i sassi e
borbottando ec. l’uccisore gli corre a dosso e ridendo lo
caccia a terra e poi lo porta ec. s’accresce il giuoco ma con
voce piana come pur prima ec. ma risi un po’ alti ec. sento
una dolce voce di donna che non conosceva né vedea ec.
Natalino andiamo ch’è tardi - Per amor di Dio che adesso
adesso non faccia giorno - risponde quegli ec. sentivo un
bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla
donna e suo figlio ciangottare con una voce di latte suoni
inarticolati e ridenti e tutto di tratto in tratto e da se senza
prender parte ec. cresce la baldoria ec. C’è più vino da
Girolamo? passava uno a cui ne domandarono ec. non c’era
ec. la donna venia ridendo dolcemente con qualche paroletta
ec. oh che matti!ec. (e pure quel vino non era per lei e quel
danaro sarebbe stato tolto alla famiglia dal marito) e di
quando in quando ripetea pazientemente e ridendo l’invito
d’andarsene e invano ec. finalmente una voce di loro oh
ecco che piove era una leggera pioggetta di primavera ec. e
tutti si ritirarono e s’udiva il suono delle porte e i catenacci
ec. e questa scena mi rallegrò (12 Maggio 1819), giuoco
degli scacchi e in essi mia filotimia da piccolo, facilità e

138
intensità delle antipatie e simpatie ordinaria ne’ fanciulli e a
me particolare ec. e ancora rimastine gli effetti sino nei nomi
di quelle persone o cose ec. e di questa antipatia o simpatia
per i nomi si potrà pur discorrere,
forse riportando il passo della Cantica sulla tirannia si
potrà dire che rappresenti la tirannia piuttosto dopo
riportatolo che prima ec. dico però, forse, mio desiderio
sommo di gloria da piccolo manifesto in ogni cosa ec. ne’
giuochi ec. come nel volante scacchi ec., battaglie che
facevamo fra noi a imitaz. delle Omeriche al giardino colle
coccole sassi ec. a S. Leopardo coi bastoni e dandoci i nomi
omerici ovvero quelli della storia romana della guerra civile
per la quale io era interessatissimo sino ad avermi fatto
obbliare Scipione che prima ec. (e se non erro ne aveva
anche sognato davvero e non da burla come Marcio che
diede ad intendere ai soldati d’aver veduto in sogno i due
vecchi Scipioni ec.) e mio discorso latino contro Cesare
recitato a babbo e riflessioni su questo mio odio pel tiranno e
amore ed entusiasmo in leggere la sua uccisione ec., altre
simili rappresentazioni che noi facevamo secondo quello che
venivamo leggendo, nota ch’io sceglieva d’esser Pompeo
quantunque soccombente dando a Carlo il nome di Cesare
ch’egli pure prendeva con ripugnanza,
fanciullo visto in chiesa il 20 Maggio dì
dell’ascensione passeggiare su e giù disinvoltamente in
mezzo alla gente e mie considerazioni sul perdere questo
stesso che fanno gli uomini e poi cercar con tutti i modi di
tornare là onde erano partiti e quello stesso che già avevano
per natura cioè la disinvoltura ec. osservazioni applicabili
anche alle arti ec.

139
palazzo bello contemplato il 21 Maggio sul vespro ec.
gallina nel cortile ec. voci di fanciulli ec. di dentro ec. porta
di casa socchiusa ec. da un lato una selvetta d’arbori bassi
bassi e di dietro a sfuggita essendo in pendio ec.,
vista già tanto desiderata della Brini ec. mio volermi
persuadere da principio che fosse la sorella quantunque io
credessi il contrario persuaso da Carlo ec. suo guardare
spesso indietro al padrone allora passato ec. correr via
frettolosamente con un bel fazzoletto in testa vestita di rosso
e qualche cosa involta in fazzoletto bianco in una mano ec.
nel suo voltarsi ci voltava la faccia ma per momenti ed era
istabile come un’ape: si fermava qua e là ec. diede un salto
per vedere il giuoco del pallone ma con faccia seria e
semplice, domandata da un uomo dove si va? a Boncio
luogo fuori del paese un pezzo per dimorarvi del tempo colla
padrona noi andarle dietro finchè fermatasi ancora con
alcune donne si tolse (non già per civetteria) il fazzoletto di
testa e gli passammo presso in una via strettissima; e subito
ci venne dietro ed entrò con quell’uomo nel palazzo del
padrone ec. miei pensieri la sera turbamento allora e vista
della campagna e sole tramontante e città indorata ec. e valle
sottoposta con case e filari ec. ec. mio innalzamento d’animo
elettrizzamento furore e cose notate ne’ pensieri in quei
giorni e come conobbi che l’amore mi avrebbe proprio
eroificato e fatto capace di tutto e anche di uccidermi,
Riveduta la Brini senza sapere ed avendomi anche
salutato dolcemente (o ch’io me lo figurai) ben mi parve un
bel viso e perciò come soglio domandai chi era (che m’era
passata alquanto lontano) e saputolo pensa com’io restassi e
più nel rivederla poco dopo a caso nello stesso passeggio:
dico a caso perché io stava sulle spine per lasciare quella

140
compagnia e Zio Ettore che poi mi trattenne affine di andare
in luogo dove potessi rincontrarla ma invano finchè
tornandomi lasciata troppo tardi la compagnia e senza
speranza la rividi pure all’improvviso, sogno di quella notte
e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e
ascoltato con viso ridente e poi domandarle la mano a
baciare ed ella torcendo non so di che filo porgermela
guardandomi con aria semplicissima e candidissima e io
baciarla senza ardire di toccarla con tale diletto ch’io allora
solo in sogno per la primissima volta provai che cosa sia
questa sorta di consolazioni con tal verità che svegliatomi
subito e riscosso pienamente vidi che il piacere era stato
appunto qual sarebbe reale e vivo e restai attonito e conobbi
come sia vero che tutta l’anima si possa trasfondere in un
bacio e perder di vista tutto il mondo come allora proprio mi
parve e svegliato errai un pezzo con questo pensiero e
sonnacchiando e risvegliandomi a ogni momento rivedevo
sempre l’istessa donna in mille forme ma sempre viva e vera
ec. in somma il sogno mio fu tale e con sì vero diletto ch’io
potea proprio dire col Petrarca. In tante parti e sì bella la
veggio Che se l’error durasse altro non chieggio,
a quello che ho detto della meschinità degli edifizi si
può aggiungere la meschina figura che fa per esempio una
torre ec. qualunque più alta fabbrica veduta di prospetto
sopra un monte e così una città che si veda di lontano stesa
sopra una montagna, che appunto le fa da corona e non altro:
tanto è imparagonabile quell’altezza a quella del monte che
tuttavia non è altro che un bruscolo sulla faccia della terra e
in pochissima distanza sollevandosi in alto si perderebbe di
vista (come certo la terra veduta dalla luna con occhi umani

141
parrebbe rotondissima e liscia affatto) e si perde infatti
allontanandosene sulla stessa superficie della terra.
pieghevolezza dell’ingegno facilità d’imitare,
occasione di parlarne sarà la Batrac imitata dal Casti.
molto entusiasmo temperato da ugual riflessione e
però incapace di splendide pazzie mi pare che formi in
genere uno dei più gran tratti del suo carattere.

142
GIOVINEZZA

LA TOMBA DEL TASSO


Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del
Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho
provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a
quel luogo se non per vedere questo sepolcro; ma non si
potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere
delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo che
le immense spese che qui vedo fare non per altro che per
proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate
all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che
noia. Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo
il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da
una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in
un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun
modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi
la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto
fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura. Ma
tu non puoi avere idea d’un altro contrasto, cioè di quello
che prova un occhio avvezzo all’infinita magnificenza e
vastità de’ monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza
e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda
consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente
ad interessare e animar la posterità laddove i superbissimi
mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta
indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale
o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come
nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro
del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope

143
magnos Torquati cineres, come dice l’iscrizione. Fece molto
male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena
soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare
le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso. Anche
la strada che conduce a quel lungo prepara lo spirito alle
impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case
destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e
d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai
occupati al lavoro.
In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come
sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della
vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche
le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per
quella via, hanno un non so che di più semplice e di più
umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il
carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul
falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo,
d’impostura e d’inganno, ccme la massima parte di questa
popolazione.

SVENTURE DEL TASSO


Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi,
Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo a visitiamo i sepolcri:
fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra
quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a
quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E
nondimeno non mancava in me, né manca negli altri,
un’altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante;
maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l’altro. Di più,
le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di

144
questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran
parte, immaginarie: tanta è la scarsezza e l’oscurità delle
notizie che abbiamo in questo particolare: tanto confuso, e
pieno continuamente di contraddizioni, il modo di scriverne
del medesimo Tasso. Ma noi veggiamo in Dante un uomo
d’animo forte, d’animo bastante a reggere e sostenere la
mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte
con essa, colla necessità, col fato. Tanto più ammirabile
certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso
veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente,
atterrato, che ha ceduto all’avversità, che soffre
continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora
immaginarie e vane del tutto le sue calamità, la infelicità sua
certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno
sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.

BELLEZZA DEL CORPO


L’uomo d’immaginazione di sentimento e di
entusiasmo privo della bellezza del corpo è verso la natura
presso a poco quello ch’è verso l’amata un amante arden-
tissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore. Egli si
slancia fervidamente verso la natura, ne sente
profondamente tutta la forza, tutto l’incanto, tutte le
attrattive, tutta la bellezza, l’ama con ogni trasporto, ma
quasi ch’egli non fosse punto corrisposto, sente ch’egli non
è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor
della sfera della bellezza, come l’amante escluso dal cuore,
dalle tenerezze, dalle compagnie dell’amata. Nella
considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il
ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito

145
e continuamente che quel bello, quella cosa ch’egli ammira
ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso
dolore che si prova nel considerare o nel vedere l’amata
nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto
noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura
non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più
acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi
del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e
di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo
dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi
dilicatamente, largamente e saporitamente, senza speranza
nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli in somma si
vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei
favori di quella divinità che...così presente così vicina,
ch’egli la sente come dentro se stesso, e vi s’immedesima,
dico la bellezza astratta, e la natura.

LO SVENTURATO NON BELLO


Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio,
potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle
tragedie, ne’ poemi, ne’ romanzi ec. come nella vita.

CARRIERA POETICA
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo
stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio
il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni
d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre
di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì
sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non

146
sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della
filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con
quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel
mondo e nella vita ci debba esser sempre un’eccezione a
favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie
sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano
perché mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una
saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità,
della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio
stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.
Ben è vero che anche allora quando le sventure mi
stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace
anche di certi affetti in poesia, come nell’ultimo canto della
Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato
antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel
1819 dove privato dell’uso della vista, e della continua
distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità
in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la
speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi
pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che
avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti
sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri
passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di
professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa
del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno
stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava
dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora
l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e
quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto
crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse,
verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra

147
poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far versi, le
immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era
quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella
contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch’io
ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano
di sentimento. Così si può ben dire che in rigor di termini,
poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i
fanciulli, o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome,
non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni
sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni
insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in
somma filosofo.

DALL’ERUDIZIONE ALLA POESIA


Le circostanze mi avevan dato allo studio delle
lingue, e della filologia antica. Ciò formava tutto il mio
gusto: io disprezzava quindi la poesia. Certo non mancava
d’immaginazione, ma non credetti d’esser poeta, se non
dopo letti parecchi poeti greci. (Il mio passaggio però
dall’erudizione al bello non fu subitaneo, ma gradato, cioè
cominciando a notar negli antichi e negli studi miei qualche
cosa più di prima ec. Così il passaggio dalla poesia alla
prosa, dalle lettere alla filosofia. Sempre assuefazione). Io
non mancava né d’entusiasmo, né di fecondità, né di forza
d’animo, né di passione; ma non credetti d’essere eloquente,
se non dopo letto Cicerone. Dedito tutto e con sommo gusto
alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la filosofia. I
pensieri di cui il nostro tempo è così vago, mi annoiavano.
Secondo i soliti pregiudizi, io credeva di esser nato per le
lettere, l’immaginazione, il sentimento, e che mi fosse al

148
tutto impossibile l’applicarmi alla facoltà tutta contraria a
queste, cioè alla ragione, alla filosofia, alla matematica delle
astrazioni, e il riuscirvi. Io non mancava delle capacità di
riflettere, di attendere, di paragonare, di ragionare, di
combinare, della profondità ec. ma non credetti di esser
filosofo se non dopo lette alcune opere di Madama di Staël.

DIVERSITÀ DEI GUSTI


Fu un tempo non breve in cui la poesia classica non
mi dava nessun piacere, e io non ci trovava nessuna
bellezza. Fu un tempo in cui io non trovava altro studio
piacevole che la pura e secca filologia, che ad altri par
noiosissima. Fu un tempo in cui le scienze mi parevano studi
intollerabili. E quanti nelle loro professioni trovano piaceri,
che agli altri parranno maravigliosi, non potendo
comprendere che diletto si trovi in quelle occupazioni! E
nominatamente in quello che appartiene alle lettere e belle
arti, chi non sa e non vede tutto giorno che il letterato e
l’artista trova piaceri incredibili e sempre nuovi nella lettura
o nella contemplazione di questa o di quell’opera, che letta o
contemplata dai volgari, non sanno comprendere che
diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto lo troveranno in
cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate
ancora la diversità de’ gusti ne’ diversi tempi, classi, nazioni,
climi, ec.

FELICITÀ NEL TEMPO DEL COMPORRE


Memorie della mia vita. Felicità da me provata nel
tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in

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mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo.
Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore
cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta
facilità di passarle. Piacere, entusiasmo ed emulazione che
mi cagionavano nella mia prima gioventù i giuochi e gli
spassi ch’io pigliava co’ miei fratelli dov’entrasse uso e
paragone di forze corporali. Quella specie di piccola gloria
ecclissava per qualche tempo a’ miei occhi quella di cui io
andava continuamente e sì cupidamente in cerca co’ miei
abituali studi.

COME COMPONEVA LE POESIE


Io non ho scritto in mia vita se non pochissime e brevi
poesie. Nello scriverle non ho mai seguìto altro che
un’ispirazione (o frenesia), sopraggiungendo la quale, in due
minuti io formava il disegno e la distribuzione di tutto il
componimento. Fatto questo, soglio sempre aspettare che mi
torni un altro momento, e tornandomi (che ordinariamente
non succede se non di là a qualche mese), mi pongo allora a
comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile di
terminare una poesia, benché brevissima, in meno di due o
tre settimane. Questo è il mio metodo, e se l’ispirazione non
mi nasce da sé, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco,
che un solo verso dal mio cervello. Gli altri possono poetare
sempre che vogliono, ma io non ho questa facoltà in nessun
modo, e per quanto mi pregaste, sarebbe inutile, non
perch’io non volessi compiacervi, ma perché non potrei.

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FRUTTI DELLA PROPRIA POESIA
Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero
da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col
calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e
provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa
quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi un
deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come
spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri:
oltre che la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui,
e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si
trova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare
da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una
cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da
altrui.

VERITÀ SCOPERTE DA SOLO


Io non avendo mai letto scrittori metafisici, e
occupandomi di tutt’altri studi, e null’avendo imparato di
queste materie alle scuole (che non ho mai vedute), aveva
già ritrovata la falsità delle idee innate, indovinato
l’ottimismo del Leibnizio, e scoperto il principio, che tutto il
progresso delle cognizioni consiste in concepire che un’idea
ne contiene un’altra; il quale è la somma della tutta nuova
scienza ideologica.
Or come ho potuto io povero ingegno, senza verun
soccorso, e con poche riflessioni, trovar da me solo queste
profondissime, e quasi ultime verità, che ignorate per
sessanta secoli, hanno poi mutato faccia alla metafisica, e

151
quasi al sapere umano? Com’è possibile che di tanti sommi
geni, in tutto il detto tempo, nessuno abbia saputo veder
quello, ch’io piccolo spirito, ho veduto da me, ed anche con
minori cognizioni in queste materie, di quelle che molti di
essi avranno avuto?
Non è dunque vero in se stesso, che lo spirito umano
progredisce graduatamente, e giovandosi principalmente dei
lumi proccuratigli dal tempo, e delle verità già scoperte da
altri, e deducendone nuove conseguenze, e seguitando la
fabbrica gia cominciata, e adoprando i materiali già
preparati.

INVIDIA
Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi
sono creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono
stato proclivissimo a lodare. L’ho provata posso dire per la
prima volta (e verso una persona a me prossimissima)
quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in
cui capiva d’esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda
giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta
e non al tutto e per tutto vile, e contraria al mio carattere.
Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di
quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa
la trattava da illusa ec.

LE ILLUSIONI E LA SVENTURA
Le illusioni per quanto sieno illanguidite e
smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel
mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E

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non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane.
E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti
una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a
rifiorire in dispetto di tutta l’esperienza, e certezza
acquistata. Io ho veduto persone savissime, espertissime,
piene di cognizioni di sapere e di filosofia, infelicissime,
perdere tutte le illusioni, e desiderar la morte come unico
bene, e augurarla ancora come tale, agli amici loro: poco
dopo, bensì svogliatamente, ma tuttavia riconciliarsi colla
vita, formare progetti sul futuro, impegnarsi per alcuni
vantaggi temporali di quegli stessi loro amici ec. Né poteva
più essere per ignoranza o non persuasione certa e
sperimentale della nullità delle cose. Ed a me pure è
avvenuto lo stesso cento volte, di disperarmi propriamente
per non poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e
castelli in aria intorno alla vita futura, e anche un poco di
allegria passeggera. E quella disperazione e quel ritorno, non
avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacché la
disperazione era prodotta da cause che duravano quasi
intieramente nel tempo ch’io riprendeva le mie illusioni.
Tuttavia qualche piccolo motivo di consolarmi, bastava
all’effetto, ed è cosa indubitata che le illusioni svaniscono
nel tempo della sventura, (e perciò è verissimo. e l’ho
provato anch’io, che chi non è stato mai sventurato, non sa
nulla Io sapeva, perché oggidì non si può non sapere, ma
quasl come non sapessi, e così mi sarei regolato nella vita) e
ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e
dall’assuefazione. Ritornano con più o meno forza secondo
le circostanze, il carattere, il temperamento corporale, e le
qualità spirituali tanto ingenite come acquisite. Quasi tutti
gli scrittori di vero e squisito sentimentale, dipingendo la

153
disperazione e lo scoraggiamento totale della vita, hanno
cavato i colori dal proprio cuore, e dipinto uno stato nel
quale essi stessi appresso a poco si sono trovati. Ebbene?
con tutta la loro disperazione passata, con tutto che
scrivendo sentissero vivamente la natura e la forza di quelle
acerbe verità e passioni che esprimevano, anzi dovessero
proccurarsene attualmente una intiera persuasione ec. per
potere rappresentare efficacemente quello stato dell’uomo, e
per conseguenza sentissero ed avessero quasi per le mani il
nulla delle cose, tuttavia si prevalevano del sentimento
stesso di questo nulla per mendicar gloria, e quanto più era
vivo in loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto
più si prefiggevano e speravano di conseguire un fine
illusorio, e col desiderio della morte vivamente sentito, e
vivamente espresso, non cercavano altro che di proccurarsi
alcuni piaceri della vita.

IL RIPOSO DELLA MORTE


Io bene spesso trovandomi in gravi travagli o
corporali o morali, ho desiderato non solamente il riposo, ma
la mia anima senza sforzo. e senza eroismo, si compiaceva
naturalmente nella idea di un’insensibilità illimitata e
perpetua, di un riposo, di una continua inazione dell’anima e
del corpo, la quale cosa desiderata in quei momenti dalla
mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome espresso
di morte, né mi spaventava punto. E moltissimi malati non
eroi, né coraggiosi anzi timidissimi, hanno desiderato e
desiderano la morte in mezzo ai grandi dolori, e sentono un
riposo in quell’idea, il quale sarebbe molto maggiore, se
l’idea della morte non fosse accompagnata dai timori del

154
futuro, e da cento altre cose estranee, e d’altro genere. Del
resto il riposo ch’io desiderava allora mi piaceva più che
dovesse esser perpetuo, acciò non avessi dovuto ripigliare
svegliandomi gli stessi travagli de’ quali era così stanco.

PAZIENZA EROICA DELLA NOIA


Anche la mancanza sola del presente è più dolorosa al
giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui sono più
vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l’ardor
giovanile non sopporta la mancanza intera di una vita
presente, non è soddisfatto del solo vivere nel futuro, ma ha
bisogno di un’energia attuale, e la monotonia e l’inattività
presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore
che in qualunque altra età, perché l’assuefazione
alleggerisce qualunque male, e l’uomo col lungo uso si può
assuefare anche all’intera e perfetta noia, e trovarla molto
meno insoffribile che da principio. L’ho provato io, che della
noia da principio mi disperava, poi questa crescendo in
luogo di scemare, tuttavia l’assuefazione me la rendeva
appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile di
pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne
finalmente affatto eroica. Esempio de’ carcerati, i quali
talvolta si sono anche affezionati a quella vita.
Si vedono bene spesso de’ carcerati ingrassare e
prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa
aspettazione di una sentenza che decida della loro vita. Dove
anzi l’imminenza del male, accresce il piacere del presente,
cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi
famosa tra loro, e provata da me, che non ho mai
sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di gioia

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maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch’io
aspettava un male imminente e diceva a me stesso; Ti resta
tanto a godere e non più, e mi rannicchiava in me stesso,
cacciando tutti gli altri pensieri, e soprattutto di quel male,
per pensare solamente a godere, non ostante la mia indole
malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima. Anzi
forse questa accresceva allora l’intensità del godimento, o
della risoluzione di godere.

DESIDERIO IMPAZIENTE
Sovente ho desiderato con impazienza di possedere e
gustare un bene già sicuro, non per avidità di esso bene, ma
per solo timore di concepirne troppa speranza, e guastarlo
coll’aspettativa. E questa tale impazielnza, ho osservato che
non veniva da rifiessione. ma naturalmente, nel tempo ch’io
andava fantasticando e congetturando sopra quel bene o
diletto. E così anche naturalmente proccurava di distrarmi da
quel pensiero. Se però l’abito generale di riflettere, o vero
l’esperienza e la riflessione che mi aveano già
precedentemente resa naturale la cognizione della vanità dei
piaceri, e la diffidenza dell’aspettativa, non operavano allora
in me senz’avve-dermene, e non mi parvero natura.

CONTENTO E MALINCONIA
Quelle rare volte ch’io ho incontrato qualche piccola
fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di rnostrarla al di
fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia quanto
all’esterno, sebbene l’interno fosse contento. Ma quel
contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo,

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guastarlo e perderlo col dargli vento. E dava il mio contento
in custodia alla malinconia.

SOLITUDINE E LINGUAGGIO
Alla inclinazione da me più volte notata e spiegata,
che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro godimenti
o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria,
si dee riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto
che s’attribuisce ragionevolmente alle donne e a’ fanciulli, e
ch’è propria altresì di qualunque altro è meno capace o per
natura o per assuefazione di contrastare e vincere e
reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur troppe
volte degli uomini prudenti ed esercitati a stare sopra se
stessi, i quali ancora provano, se non altro, qualche difficoltà
a tenere il segreto, e qualche voglia interna di manifestarlo
(anche con danno loro), quando sono sull’andare del
confidarsi con altrui, o semplicelncnte del conversare, o
discorrere, o chiacchierare. Dico lo stesso anche di quando il
segreto non è d’altrui ma nostro proprio, e quando noi
vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o
principalmente a noi, e come tale, ci eravamo proposti di
tacerlo, e poi lo confidiamo per isboccataggine.
Ma che anche questa inclinazione, non sia naturale né
primitiva (come pare), ma effetto delle assuefazioni, e
dell’abito di società contratto dagli uomini vivendo cogli
altri uomini, lo provo e lo sento io medesimo, che quanto era
prima inclinato a comunicare altrui ogni mia sensazione non
ordinaria (interiore o esteriore), così oggi fuggo ed odio non
solo il discorso, ma spesso anche la presenza altrui nel
tempo di queste sensazioni. Non per altro se non per l’abito

157
che ho contratto di dimorar quasi sempre meco stesso, e di
tacere quasi tutto il tempo, e di viver tra gli uomini come
isolatamente e in solitudine. Lo stesso si dee credere che
avvenga ai solitarii effettivi, ai selvaggi, a quelli che non
hanno società o poca, e rara, all’uomo naturale insomma,
privo del linguaggio, o con poco uso del medesimo, al muto,
a chi per qualche accidente ha dovuto per lungo tempo viver
lontano dal consorzio degli uomini, come naufragi,
pellegrini in luoghi di favella non conosciuta, carcerati, ec.
frati silenziosi ec.

LE ARMI DEL RIDICOLO


A volere che il ridicolo primieramente giovi,
secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la
sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di
serio, e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e
sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova,
poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del
ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più
dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne’ miei dialoghi io
cercherò di portar la commedia a quello che finora è stato
proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii
fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli
assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla
morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito
generale del secolo, la somma delle cose, della società, della
civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni
del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma
dell’uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del
ridicolo, massime in questo ridicolissimo e freddissimo

158
tempo, e anche per la loro natural forza, potranno giovare
più di quelle della passione, dell’affetto,
dell’immaginazione, dell’eloquenza; e anche più di quelle
del ragionamento, benché oggi assai forti. Così a scuotere la
mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le
armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e
dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie
ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della
filosofia ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del
ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo
preparando.

SENSAZIONI DELL’INDEFINITO
Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito
puoi vedere il mio idillio sull’Infinito, e richiamar l’idea di
una campagna arditamente declive in guisa che la vista in
certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare
d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del
filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una
fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi
sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un
contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e
l’indefinito ec. ec. ec.

Una voce o un suono lontano, o decrescente e


allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con
un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago
dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone,
e simili, udito in piena campagna, in una valle ec. il canto

159
degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle
medesime circostanze.

MI STIMAVANO ENCICLOPEDICISSIMO
Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di
un pregio, se ne formeranno un concetto molto più grande
che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente,
e contuttociò la stima che ne faranno sarà infinitamente
minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel
tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove
sapevano ch’io era dedito agli studi, credevano ch’io
possedessi tutte le lingue, e m’interrogavano
indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico,
teologo, ec. insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi
credevano una gran cosa, e per l’ignoranza, non sapendo che
cosa sia un letterato, non mi credevano paragonabile ai
letterati forestieri, malgrado la detta opinione che avevano di
me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi
disse: A voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in
una buona citta, perché quasi quasi possiamo dire che siate
un letterato. Ma s’io mostrava che le mie cognizioni fossero
un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima
scemava ancora, e non poco, e finalmente io passava per uno
del loro grado. È vero però che talvolta può succedere il
contrario. e per un’opinione simile, in tempi e luoghi
ignoranti, un uomo o un pregio piccolo conseguire una
somma stima.

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LA SIGNORA CHE NON AVEVA
IMPARATO A COMANDARE
La scienza non supplisce mai all’esperienza, cosa
generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica
non sa curar gli ammalati; il musico fornito della sola teoria
della sua professione, non sa né comporre né eseguire una
melodia; il letterato che non ha mai scritto non sa scrivere; il
filosofo che non ha veduto il mondo da presso, non lo
conosce. I principi pertanto non conosco-no mai gli uomini,
perché non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo
sempre il mondo sotto una forma ch’egli non ha. Lascio le
adulazioni, le menzogne, le finzioni ecc. de’ cortigiani; ma
prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri uomini
se non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora
le relazioni ch’egli ha con gli uomini, sono l’unico mezzo
ch’egli ha di acquistarne esperienza. Dunque egli non può
mai conoscer la vera natura di coloro a’ quali comanda, e de’
quali deve regolar la vita. Io ho molto conosciuto una
Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio
domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva
imparato mai a comandare, non aveva la menoma idea di
quest’arte, nutriva in questo proposito mille opinioni assurde
e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la carta del
navigare. Ell’era frattanto di molto spirito e talento,
sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si
figurava gli uomini affatto diversi da quel che sono: il
principe che ne vede e tratta assai più, benché li veda assai
più diversi da quelli che sono, tuttavia potrà conoscerli forse
alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando, e attesa
la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a

161
governare una nazione, di quella che a governare una
famiglia, io credo che un principe sappia tanto regnare
quanto quella dama comandare a’ figli e a’ domestici. Sotto
questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile
all’ereditario. Vero è però che niuno conosce gli uomini
interamente, come bisognerebbe per ben governarli.
Connaître un autre parfaitement serait l’étude d’une vie
entière; qu’est-ce donc qu’on entend par connaître les
hommes, les gouverner, cela se peut, mais les comprendre,
Dieu seul le fait. (Corinne, L. X. ch. I, t. II, p. 14).

INETTO ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO


Memorie della mia vita. Andato a Roma, la necessità
di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di
vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto
internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di
vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna. Io era
allora incapace di conciliar l’una vita coll’altra; tanto
incapace, che io giudicava questa riunione impossibile, e mi
credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti a vivere
esternamente, non provassero più vita interna di quella ch’io
provava allora, e che i più non l’avessero mai conosciuta. La
sola esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su
questo articolo. Ma quello stato fu forse il più penoso e il più
mortificante che io abbia passato nella mia vita; perch’io,
divenuto così inetto all’interno come all’esterno, perdetti
quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni
speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella
mia vita.

162
ERRORE DI UNA VITA TUTTA INTERNA
Pel manuale di filosofia pratica. A voler viver
tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente. Error mio
nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con
isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche
e da occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori fino dalla
necessità di parlare per chiedere il mio bisognevole (tanto
che io passava i giorni senza profferire una sillaba), tanto
meno io era quieto nell’animo. Ogni menomo accidente che
turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n’accadevano
ogni giorno, perché tali minuzie sono inevitabili) mi toglieva
la quiete. Continui timori e sollecitudini, per queste ed altre
simili baie. Continuo poi il travaglio della immaginazione, le
previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali
immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e
dalla occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla
inquietudine. Gran differenza dalla tranquillità all’ozio. Le
persone massimamente di una certa immaginazione, le quali
essendo per essa molto travagliati negli affari, nella vita
attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota
la Staël nella Corinna a proposito di Lord Nelvil); e le quali
perciò appunto tendono all’amor del metodo e alla fuga
dell’azione e della società, e alla solitudine; s’ingannano in
ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver
quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo
di distrazione e di occupazione esterna. Sia pur con noia. Si
annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con afflizioni e
con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun
fondamento reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la
propria immaginazione nella vita solitaria, interiore,

163
metodica. Chi tende per natura all’amor del metodo, della
solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o
attenda più a temperarle co’ lor contrarii; se vuol potere
veramente esser quieto. Al che lo aiuterà poi il giudicare e
pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani. Ma certo
un uom d’affari (senz’ombra di filosofia) ha l’animo più
tranquillo nella continua folla e nell’affanno delle cure e
delle faccende; e un uomo di mondo nel vortice e nel mar
tempestoso della società, di quello che l’abbia un filosofo
nella solitudine, nella vita uniforme e nell’ozio estrinseco.

UNA DONNA VESTITA DA UOMO


Vuoi tu vedere l’influenza dell’opinione e
dell’assuefazione sul giudizio e sul sentimento, per così dire,
fisico delle proporzioni; anzi come questo nasca totalmente
dalle dette cause, e ne sia interamente determinato? Osserva
una donna alta e grossa vicina ad un uomo di giusta
corporatura. Assolutamente tu giudichi e ti par di vedere che
le dimensioni di quella donna sieno maggiori di quelle
dell’uomo strettamente parlando. Ragguaglia le misure e le
troverai spessissimo uguali, o maggiori quelle dell’uomo.
Osserva una donna di giusta corporatura vicina ad un uomo
piccolo. Ti avverrà lo stesso effetto e lo stesso inganno.
Similmente in altri tali casi. Questi sono dunque inganni
dell’occhio: e da che prodotti? che cosa inganna lo stesso
senso? l’opinione e l’assuefazione. Alla Commedia in
Bologna vidi una donna vestita da uomo: pareva un
bambolo. In un altro atto ella uscì fuori da donna, facendo
un altro personaggio: mi parve, com’era, un gran pezzo di
persona.

164
RICUSARE DI AFFLIGGERSI
Spesse volte in occasione di miei dispiaceri, anche
grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non
affliggermi di questa cosa? E l’esperienza avutane già più
volte, mi sforzava a risponder di sì, che io poteva. Ma il non
affliggersene sarebbe contro ragione: non vedi tu il male
come è grave, come è serio e vero? Lasciamo star che
nessun male è vero per se, poiché se uno non lo conosce o
non se ne affligge, ei non è più male. Ma l’affliggertene può
forse rimediarvi o diminuirlo? - No. -Il non affliggertene può
forse nuocerti? - No certo. - E non è meglio assai per te il
non pensarne, il non pigliarne dolore, che il pigliarlo? -
Meglio assai. - Come dunque sarà contro ragione? Anzi sarà
ragionevolissimo. E se egli è ragionevole, se utile, se tu lo
puoi, perché non lo fai? che ti manca se non il volerlo? - Io
vi giuro che queste considerazioni mi giovavano veramente
ed avevano reale effetto, sicché io ricusando di affliggermi
di una mia sventura, per notabile ch’ella fosse, non me ne
affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai poco.

PAZIENZA
Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza quanto
giovi per mitigare e render più facile, più sopportabilc, ed
anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa
sperimentata e osservata da me in quell’assalto nervoso al
petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826 in Bologna; dove il
dolore si accresceva effettivamente colla impazienza, e colla
inquietezza. Consiste in una non resistenza, una
rassegnazione d’animo, una certa quiete dell’animo nel

165
patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si
voglia, e chiamata vile: ella è pur necessaria all’uomo, nato
e destinato inesorabilmente, inevitabilmente,
irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi
intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo,
naturalmente, coll’abitudine del sopportare un travaglio o
una noia. La pazienza e la quiete è in gran parte quella cosa
che a lungo andare rende così tollerabile, per esempio a un
carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far
nulla; tedio da principio asprissimo a tollerare, per la
resistenza che l’uomo fa a quella noia, e l’impazienza e
smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale passata
e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri. Ed in
ciò consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che
altrimenti.

RELAZIONE CON UNA DONNA


Sono entrato con una donna (Fiorentina di nascita)
maritata in una delle principali famiglie di qui, in una
relazione, che forma ora una gran parte della mia vita. Non è
giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che (credilo a
me, che finora l’avevo creduto impossibile) supplisce alla
gioventù, crea un’illusione maravigliosa. Nei primi giorni
che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre. Non
abbiamo mai parlato di amore se non per ischerzo, ma
viviamo insieme in un’amicizia tenera e sensibile, con un
interesse scambievole, e un abbandono, che è come un
amore senza inquietudine. Ha per me una stima altissima; se
le leggo qualche mia cosa, spesso piange di cuore
senz’affettazione; le lodi degli altri non hanno per me

166
nessuna sostanza, le sue mi si convertono tutte in sangue, e
mi restano tutte nell’anima. Ama ed intende molto le lettere
e la filosofia; non ci manca mai materia di discorso, e quasi
ogni sera io sono con lei dall’avemaria alla mezzanotte
passata, e mi pare un momento. Ci confidiamo tutti i nostri
secreti, ci riprendiamo, ci avvisiamo dei nostri difetti. In
somma questa conoscenza forma e formerà un’epoca ben
marcata della mia vita, perché mi ha disingannato del
disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo
dei piaceri che io credevo impossibili, e che io sono ancor
capace d’illusioni stabili, malgrado la cognizione e
l’assuefazione contraria così radicata, ed ha risuscitato il mio
cuore, dopo un sonno anzi una morte completa, durata per
tanti anni.

LE AMICIZIE
Pel manuale di filosofia pratica. A me è avvenuto di
conservare per lo più ogni amicizia contratta una volta,
eziandio con persone difficilissime, di cui tutti a poco andare
si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagione,
per quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai
di un amico per sue negligenze, e per nessuna sua azione che
mi sia o nocevole o dispiacevole; se non quando io veggo
chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un
animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e
offesa. Cosa che in verità è rarissima. Ma a vedere il
procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si direbbe
che gli uomini non le contraggono se non pcr avere il
piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui
mirano nell’amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto

167
cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi
coll’amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi
medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di
non discolpar l’amico, e di non conoscere che quella offesa
o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da
volontà determinata di offenderli.

LE DIMORE E LE RIMEMBRANZE
Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il
luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno
o mesi o anni, m’avvidi che io non mi trovava mai contento,
mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno,
comunque per altro ottimo, finattantoché io non aveva delle
rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove
io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali
rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui
fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal
cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma
la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva
importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e
copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non
poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non
mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque
luogo nei primi mesi, e coll’andar del tempo mi trovava
sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo.
Colla rimembranza egli mi diveniva quasi il luogo natio.

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DESIDERIO E SPERANZA
Memorie della mia vita. La privazione di ogni
speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo
appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni
desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza,
io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza
che desiderio, e più speranze che desideri, ec.

BENIGNITA DELLA NATURA!


Io abito nel bel mezzo d’Italia, nel clima il più
temperato del mondo; esco ogni giorno a passeggiare nelle
ore più tcmperate della giornata; scelgo i luoghi più riparati,
più acconci ed opportuni; e dopo tutto questo, appena
avverrà due o tre volte l’anno, che io possa dire di
passeggiare con tutto il mio comodo per rispetto al caldo, al
freddo, al vento, all’umido, al tempo e simili cose. E vedete
infatti, che la perfetta comodità dell’aria e del tempo è cosa
tanto rara, che quando si trova anche nelle migliori stagioni,
tutti, come naturalmente, sono portati a dire: che bel tempo!
che buon’aria dolce! ehe bel passeggiare! quasi esclamando,
e maravigliandosi come di una strana eccezione, di quello
che, secondo il mio corto vedere, dovrebbe pur esser la
regola, se non altro, nei nostri paesi. Gran benignità e
provvidenza della natura verso i viventi!

IMMAGINE DELLA VITA UMANA


Nelle mie passeggiate solitarie per le città, suol
destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la

169
vista dell’interno delle stanze che io guardo di sotto dalla
strada per le loro finestre aperte. Le quali stanze nulla mi
desterebbero se io le guardassi stando dentro. Non è questa
un’immagine della vita umana, de’ suoi stati, de’ beni e
diletti suoi?

IL MODO DI PASSARE LA GIOVENTÙ


Memorie della mia vita. Sempre mi desteranno dolore
quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi
riprendendomi del mio modo di passare i giorni della
gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che
maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva
intimamente e perfettamente anche allora tutta la
ragionevolezza di queste parole. Credo però nondimeno che
non vi sia giovane, qualunque maniera di vita egli meni, che
pensando al suo modo di passar quegli anni, non sia per dire
a se medesimo quelle stesse parole.

PRIMI ABBOCCAMENTI
Bisogna guardarsi dal giudicare dell’ingegno, dello
spirito, e soprattutto delle cognizioni di un forestiere, da’
discorsi che si udranno da lui ne’ primi abboccamenti. Ogni
uomo, per comune e mediocre che sia il suo spirito e il suo
intendimento, ha qualche cosa di proprio suo, e per
conseguenza di originale, ne’ suoi pensieri, nelle sue
maniere, nel modo di discorrere e di trattare. Massime poi
uno straniere, voglio dire uno d’altra nazione; ne’ cui
pensieri, nelle parole, nei modi, è impossibile che non si
trovi tanta novità che basti per fermar l’attenzione di chi

170
conversa seco le prime volte. Ogni uomo poi di qualche
cultura, ha un sufficiente numero di cognizioni per
somministrar lauta materia ad uno o due entretiens; ha i suoi
discorsi, le sue materie favorite, nelle quali, se non altro per
la lunga assuefazione ed esercizio, è atto a figurare ed anche
brillare; ha qualche suo motto, qualche tratto di spirito,
qualche osservazione piccante o notabile ec. familiari e
consueti. Per poca di abilità che egli abbia nel conversare,
per poca di perizia di società, di arte della parola,
facilissimamente egli tira e fa cadere il discorso, ne’ suoi
primi abboccamenti, sopra quelle materie dove consiste il
suo forte, dov’egli ha qualche bella buona, o passabile cosa
da dire; e facilissimamente trova modo di metter fuori e di
déployer tutta la ricchezza della sua erudizione e della sua
dottrina, di qualunque genere ella sia. Ad un letterato, di
professione massimamente, è difficile che manchi l’arte
necessaria per questo effetto. Quindi è che chi lo sente
parlare per la prima volta, resta sorpreso dell’abbondanza
delle sue cognizioni, de’ suoi motti, delle sue osservazioni;
lo piglia per un’arca di scienza e di erudizione, un mostro di
spirito, un ingegno vivacissimo, un pensatore consumato, un
intelletto, uno spirito originale. Ciò è ben naturale, perché si
crede che quel che egli mette fuori, sia solamente una
mostra, un saggio di se e del suo sapere; non sia già il tutto.
Così è avvenuto a me più volte: trovandomi con persone
nuove, specialmente con letterati, sono rimasto spaventato
dal gran numero degli aneddoti, delle novelle, delle
cognizioni d’ogni sorta, delle osservazioni, dei tratti, ch’esse
mettevano fuori. Paragonandomi a loro, io m’avviliva nel
mio animo, mi pareva impossibile di arrivarli, mi credeva un
nulla appetto a loro. Ciò avveniva non già perché la somma

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del mio sapere e del mio spirito non mi paresse bastante ad
uguagliar quella che tali persone mettevano fuori e
spendevano attualmente meco: se io avessi creduto che la
loro ricchezza non si stendesse più là, essa mi sarebbe paruta
ben piccola cosa, anche a lato alla mia; ma io credeva che
quello non fosse che un saggio del capitale, un argent de
poche, corrispondente ad una ricchezza proporzionata.
Ne’ miei pochi viaggi spesso ho avuto di tali
mortificazioni, specialmente con letterati stranieri. Ma poi
qualche volta ha voluto il caso che io m’abbattessi a sentire
qualche colloquio di alcuna di tali persone con altre a cui
esse erano parimente nuove. Ed ho notato che esse
ripetevano puntualmente o appresso a poco, gli stessi
pensieri, motti, aneddoti, novelle, che avevano dette ed usate
meco ec. L’effetto in quegli uditori era lo stesso che era stato
in me.

LE SESTINE BURLESCHE DEL GUADAGNOLI


Guadagnoli recitante in mia presenza all’Accademia
de’ Lunatici in Pisa, presso Madama Mason, le sue Sestine
burlesche sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo
dello stile e del soggetto con quello dei gesti e della
recitazione. Sentimento doloroso che io provo in casi simili,
vedendo un uomo giovane, ponendo in burla se stesso, la
propria gioventù, le proprie sventure, e dandosi come in
ispettacolo e in oggetto di riso, rinunziare ad ogni cara
speranza, al pensiero d’ispirar qualche cosa nell’animo delle
donne, pensiero sì naturale ai giovani, e abbracciare e quasi
scegliere in sua parte la vecchiezza spontaneamente e in sul
fiore degli anni: genere di disperazione de’ più tristi a

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vedersi, e tanto più tristo quanto è congiunto ad un riso
sincero, e ad una perfetta gaieté de coeur.

APATIA
Quando io mi sono trovato abitualmente disprezzato e
vilipeso dalle persone, sempre che mi si dava occasione di
qualche sentimento o slancio di entusiasmo, di fantasia, o di
compassione, appena cominciato in me qualche moto,
restava spento.
Analizzando quel ch’io provava in tali occorrenze, ho
trovato che quel che spegneva in me immancabilmente ogni
moto, era un’evitabile occhiata che io allora, confusamente e
senza neppure accorgermene, dava a me stesso. E che, pur
confusamente, io diceva: che fa, che importa a me questo (la
bella natura, una poesia ch’io leggessi, i mali altrui), che non
sono nulla, che non esisto al mondo? E ciò terminava tutto, e
mi rendeva così orribilmente apatico com’io sono stato per
tanto tempo. Quindi si vede chiaramente che il fondamento
essenziale e necessario della compassione, anche in
apparenza la più pura, la più rimota da ogni relazione al
proprio stato, passato o presente, e da ogni confronto con
esso, è sempre il se stesso. E certamente senza il sentimento
e la coscienza di un suo proprio essere e valere qualche cosa
al mondo, è impossibile provar mai compassione; anche
escluso affatto ogni pensiero o senso di alcuna propria
disgrazia speciale, nel qual caso la cosa è notata, ma è ben
distinta da ciò ch’io dico. E al detto sentimento e coscienza,
come a suo fondamento essenziale, la compassione si
riferisce dirittamente sempre: quantunque il compassionante
non se n’accorga, e sia necessaria una intima e difficile

173
osservazione per iscoprirlo. Quel che si dice dei deboli, che
non sono compassionevoli, cade sotto questa mia
osservazione, ma essa è più generale, e spiega la cosa
diversamente. Ciò che dico del sentimento di se stesso, e
della considerazione e stima propria, vale ancora per la
speranza: chi nulla spera, non sente, e non compatisce;
anch’egli dice: che importa a me la vita? Fate qualche atto di
considerazione a chi si trova spregiato, dategli una speranza,
una notizia lieta; poi porgetegli un’occasione di sentire, di
compatire: ecco ch’egli sentirà e compatirà. Io ho provato, e
provo queste alternative, e di cause e di effetti, sempre
rispondenti questi a quelle: alternative attuali, o
momentanee; ed alternative abituali e di più mesi, come da
città grande passando a stare in questa infelice patria, e
viceversa. Il mio carattere, e la mia potenza immaginativa e
sensitiva si cangiano affatto l’uno e l’altra in tali
trasmigrazioni.

SENTIMENTI VERSO IL DESTINO


Quels que soient mes malheurs, qu’on a jugé à propos
d’étaler et que peut-être on a un peu éxagérés dans ce
Journal, j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en
diminuer le poids ni par de frivoles espérances d’une
prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche
résignation. Mes sentimens envers la destinée ont été et sont
toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto minore. Ç’a été
par suite de ce meme courage, qu’étant amené par mes
rccherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité
a l’embrasser toute entière; tandis que de l’autre côté ce n’a
été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin

174
d’être persuadés du mérite de l’existencc, que l’on a voulu
considérer mes opinions philosophiques comme le résultat
de mes souffrances particulières, et que l’ons’obstine à
attribuer à mes circonstances matérielles ce qu’on ne doit
qu’a mon entendement. Avant de mourir, je vais protester
contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et
prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations
et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies.

L’ORA MENO TRISTA


Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col
riposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno,
parte per una certa rinnuovazione della vita, cagionata da
quella specie d’interrompimento datole, tu ti senti
ordinariamente o più lieto o meno tristo, di quando ti
coricasti. Nella mia vita infelicissima l’ora meno trista è
quella del levarmi. Le speranze e le illusioni ripigliano per
pochi mormenti Ull certo corpo, ed io chiamo quell’ora la
gioventù della giornata per questa similitudine che ha colla
gioventù della vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si
suol sempre sperare di passarla meglio della precedente. E la
sera che ti trovi fallito di questa speranza e disingannato, si
può chiamare la vecchiezza della giornata.

AGLI AMICI SUOI DI TOSCANA


Firenze 15 Dicembre 1830

Amici miei cari. Sia dedicato a voi questo libro, dove


io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare

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il mio dolore, e col quale al presente (né posso già dirlo
senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi.
Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia
vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di
tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere
acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna
sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent’anni,
quando da quella infermità di nervi e di viscere, che
privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte,
quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi,
due anni prima dei trenta mi è stato tolto del tutto, e credo
oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io
non ho potute leggere, e per emendarle m’è convenuto
servirmi degli occhi e della mano d’altri. Non mi so più
dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della
grandezza della mia infelicità, non comporta l’uso delle
querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena.
Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la
compagnia vostra, che m’è in luogo degli studi, e in luogo
d’ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i
miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di
goderla quant’io vorrei, e s’io non conoscessi che la mia
fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora,
costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano,
abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove
assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L’amor vostro mi
rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio
corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. Il
vostro Leopardi.

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