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TROMBETTISTA

A
CAVALLO

L’AUTOBIOGRAFIA
di Timofei Dokshizer

Versione italiana
Basata sull’edizione originale in Russo
e sulla traduzione inglese di Olga Braslavsky

Traduzione di
Antonella Laguardia

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L’autore della biografia offerta al lettore è Timofei Alexandrovich Dokshizer,
musicista di fama mondiale. Ha elevato la performance per tromba solista ai livelli dei
migliori violinisti, pianisti, violoncellisti russi: David Oistrakh, Svyatoslav Richter,
Ėmil Gilels, Mstislav Rostropovich...
In quest’epoca, il nome Timofei Dokshizer è noto come il nome dell’esecutore per il
quale compositori nazionali e internazionali hanno creato appositamente nuova
musica, che in seguito è diventata un classico della letteratura mondiale per tromba.

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Trombettista a Cavallo

In memoria di Mio Figlio, Sergey

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Ringraziamenti

Esprimo un profondo ringraziamento innanzitutto alla musica ed al mio strumento, la


tromba, della quale sono profondamente innamorata; ma il più importante
ringraziamento va al mio Maestro, Luigi Santo, che ha avuto il grande onore di
conoscere di persona il grande Timofei Dokshizer, e che gode di una menzione
all’interno di questo libro. Lui ha saputo trasmettermi questo profondo amore verso
tutto ciò che concerne il grande trombettista, diventato oggi la sua (e la mia) fonte di
ispirazione a livello personale e musicale. Lui, il mio Maestro, ha perciò deciso di
svelarmi un segreto: il segreto è quello che il lettore sta oggi tenendo tra le mani, in
quanto Dokshizer espresse a lui in un autografo il grande desiderio di avere una
versione in italiano della sua biografia.
Ringrazio i miei amici bielorussi e ucraini conosciuti a Vilnius durante il mio periodo
di studio all’Accademia Lituana di Musica e Teatro (LMTA): Kyrylo Kremenchuk,
Taras Buzdyhan, Ryhor Kharaneka e Nastassia Kuliashova, che hanno contribuito ad
aiutarmi con la traduzione della versione russa.
Spero che questa versione arrivi molto lontano, così da poter rendere partecipi ed
emozionare tutti: che siano in russo, inglese o italiano, queste parole emozionano il
cuore e riscaldano anche la più gelata anima.
A te, caro Maestro Dokshizer, ecco che un altro tuo sogno è diventato realtà.

Antonella Laguardia
22 Settembre 2023
Pomarico, Italia

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Al lettore

“Lentamente e spassionatamente ho raccolto


Ricordi e fatti...”
Alexander Blok

Le qualità della memoria di un musicista sono sorprendenti. Sembrerebbe che alcuni


fatti e persino eventi significativi vengano cancellati per sempre dalla nostra memoria,
ma allo stesso tempo, migliaia di melodie, mai eseguite o semplicemente ascoltate una
sola volta, rimangano saldamente ferme nella testa. Ma a volte, durante le ore di veglia
notturna, insieme alle melodie, ecco che risorgono nei minimi dettagli pagine e pagine
di anni passati. La cosa più difficile è il ricordare i nomi delle persone ma soprattutto
le date. Tuttavia l’essenza della mia narrazione non si basa nell’osservare
correttamente gli eventi nel loro ordine cronologico, ma nel descrivere francamente,
senza abbellimenti, il lavoro duro ma allo stesso tempo felice di un musicista per il
quale il percorso verso un ideale è il lavoro di tutta la vita.
Per molto tempo ho portato questi pensieri nella mia testa, ma i ricordi si sono
affollati, ossessionati, fino ad esplodere. Non appena uno di loro è stato messo su
carta, ne sono subito sorti di nuovi, come se si aprisse una diga nel flusso di ricordi
accumulati dalla vita. La mia esperienza è la fonte di tutto il materiale scritto in questo
libro. Ho imparato molto osservando i miei colleghi e studenti mentre lavoravano o
studiavano, osservando anche il loro comportamento in diverse situazioni di vita.
In una parola, Trombettista a Cavallo è il primo libro che è diventato una parte dei
miei pensieri. Attraversa le fasi di un viaggio di vita e la pratica della mia esperienza
esecutiva, a partire dai primi passi per imparare a suonare la tromba fino a migliorare
incessantemente le mie abilità per quasi 65 anni.
Il secondo libro, Il laboratorio del trombettista, è dedicato agli aspetti esecutivi,
pedagogici, metodologici, intellettuali e psicologici della pratica dei trombettisti.
Descrive le basi e i modi per costruire il mio metodo di studio.
Forse è un bene che abbia deciso di realizzare questo lavoro in età avanzata, quando la
mia esperienza di vita e la mia maturità possono aiutare altre persone a fare il proprio
percorso nel meraviglioso mondo della musica, simile a quello che ho fatto io.

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Sommario

Ringraziamenti ...................................................................... 4
Al lettore ................................................................................ 6

Capitolo 1 - Infanzia ............................................................ 10


Capitolo 2 - Un piccolo cavaliere ........................................ 17
Capitolo 3 - Il primo insegnante .......................................... 23
Capitolo 4 - La classe di Mikhail Innokentyevich Tabakov 28
Capitolo 5 - La Scuola di Musica Centrale .......................... 33
Capitolo 6 - Alla ricerca del repertorio ................................ 35
Capitolo 7 - Alla All-Union Competition ............................ 39
Capitolo 8 - La guerra .......................................................... 41
Capitolo 9 - La mia famiglia ................................................ 51
Capitolo 10 - Studiare all’Istituto Gnessin .......................... 55
Capitolo 11 - Trombettista sul podio ................................... 59
Capitolo 12 - L’Orchestra del Teatro Bolshoi ..................... 68
Capitolo 13 - S. A. Samosud ................................................ 72
Capitolo 14 - A proposito di Stalin ...................................... 75
Capitolo 15 - I Direttori
N. S. Golovanov ............................................. 78
A. S. Melik-Pashayev ..................................... 79
Y. F. Fayer...................................................... 81
Capitolo 16 - Trombettisti d’orchestra................................. 83
Capitolo 17 - Le relazioni tra l'orchestra e il direttore
d'orchestra....................................................... 86
Capitolo 18 - La vita dietro le quinte.................................... 90
Capitolo 19 - In vacanza....................................................... 94
Capitolo 20 - La pedagogia...................................................98
Capitolo 21 - La scuola pedagogica sovietica.....................102
Capitolo 22 - L'attività solistica.......................................... 104

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Capitolo 23 - La mia vita in tournée...................................108
Capitolo 24 - I miei "Funerali" ...........................................113
Capitolo 25 - L'influenza del KGB sul percorso di un
musicista.......................................................116
Capitolo 26 - In dialogo con i compositori.........................121
Capitolo 27 - Incontri ed impressioni negli Stati Uniti
Vincent Bach................................................. 131
Antonin Rulli................................................. 135
Louis Davidson e Renold Schilke..................136
Capitolo 28 - Incontri ed impressioni in Francia
Maurice André.............................................. 145
Altri trombettisti della scuola francese......... 148
Capitolo 29 - Incontri ed impressioni in Giappone
Alla ditta "Yamaha"...................................... 151
In tournée in Giappone..................................153
Capitolo 30 - Viaggio intorno al mondo.............................157
Capitolo 31 - Festival europei degli ottoni
Svizzera. Il Primo Congresso Internazionale
degli Ottoni................................... 163
Finlandia. Il Secondo Simposio Scandinavo
degli Ottoni................................ 165
Germania. Alla "Messe".............................. 168
Capitolo 32 - Trasferimento in Lituania............................. 171
Postscriptum....................................................................... 183
Il Concorso Internazionale di Tromba “Vassily Brandt” ... 189
Epilogo ............................................................................... 194
Il mio settantacinquesimo compleanno.............................. 195
Opere di Timofei Dokshizer............................................... 197

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Capitolo 1
Infanzia
“Sono propenso a pensare che la passione
per gli strumenti ad ottone sia ereditaria.”
George Bernard Shaw

Non mi sono mai posto la domanda su cosa avrei fatto e quale sarebbe stata la mia
professione. Mi sembrava di saperlo fermamente sin dalla mia nascita, o almeno dalla
prima infanzia: insomma, da prima che potessi realizzare me stesso.
Sono nato il 13 dicembre 1921 a Nizhyn, in Ucraina. (Sebbene il fatale numero 13
venga solitamente associato ai fallimenti nella vita, per me questo numero è fortunato.
Quasi vent’anni dopo, il 13 febbraio 1941, mi sono esibito riscuotendo un grande
successo alla All-Union Competition, dove sono stato sorteggiato sotto il numero 13).
Nei giochi per bambini, gli abitanti del nostro cortile mi hanno sempre assegnato il
ruolo di “orchestrale”. Iniziando con un sonoro “accordo” il corteo era composto da
due o tre ragazzi e una ragazza (mia sorella Zina, che mi aiutava battendo su una
vecchia pentola con un bastoncino di legno), io cantavo la melodia con il timbro
sonoro delle trombe e cornette, accompagnato dal suono soave dei baritoni con un
simultaneo accompagnamento del basso e delle percussioni. Probabilmente la mia
“orchestra” suonava in un modo così affascinante che nessuno nel nostro cortile poteva
sostituirmi.
Nella mia prima infanzia conoscevo tutte le melodie che sentivo in città perché le
ascoltavo nel parco dove mio padre suonava in orchestra; o al cinema, dove dirigeva
l’ensemble d’archi.
Mio padre, Alexander Tevelevich, non ebbe un’educazione musicale speciale, tranne
due lezioni impartitegli a Kiev dal famoso violinista dell’epoca, M. Erdenko, di cui
mio padre parlava con orgoglio. Ma a parte tutto era un musicista per vocazione,
altamente dotato. Suonava il violino, il corno, gli strumenti a percussione, componeva
lui stesso la musica che suonava e sapeva come arrangiarla. Era anche direttore di
molte orchestre.
Anche i tre fratelli di mio padre – Boris, Solomon e Samuel – erano musicisti e
insieme ai loro compatrioti, il flautista Protzenko e i fratelli Manilov, che in seguito
divennero musicisti a Kiev, costituirono le fondamenta dell’orchestra di Nizhyn. Nella
generazione successiva della famiglia Dokshizer (la mia), molti sono diventati
musicisti. Mio fratello Vladimir, trombettista, ha lavorato nella “Igor Moiseev Folk-
Dance Ensemble”, poi nell’Orchestra del Teatro Bolshoi ed ora insegna all’Istituto
Musicale “Gnessin”. Mio cugino Lev si è laureato alla Facoltà di Direttori Militari del
Conservatorio di Mosca ed ha lavorato per tutta la sua vita nelle orchestre navali
nell’Oceano Pacifico, nel Mar Nero e poi nel Baltico. Anche un altro cugino,
Alexander, non si è mai separato dalla sua tromba per tutta la sua vita ed ha suonato in
varie orchestre di Mosca.
Anche i nostri figli e nipoti hanno seguito le orme dei loro padri. Mio figlio, Sergey, è
cresciuto ed è diventato un musicista. Gli è stato però impedito di diventare un
trombettista a causa di un’ulcera sul labbro che si formò subito dopo una febbre e che

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non guariva, perciò fu costretto a passare al fagotto. Sergey si è diplomato al
Conservatorio di Mosca ed ha vinto il concorso per un posto nell’Orchestra del Teatro
Bolshoi. È vero, non era soddisfatto del suo lavoro a Teatro (principalmente a causa
dell’atmosfera malsana tra i fagottisti) e dopo undici anni ha iniziato a lavorare con
l’Orchestra Filarmonica di Mosca, dove si è realizzato pienamente come musicista.
Sergey è morto prematuramente all’età di quarantatré anni. È stato l’ultimo maschio
della dinastia Dokshizer: solo sua figlia Anna ora porta questo cognome. I miei nipoti
continuano ancora oggi a portare avanti la tradizione musicale della nostra famiglia.
Alexander Kuzin, il figlio di mia sorella, è violinista nella Grande Orchestra Sinfonica
della Radio e Televisione di Mosca, vincitore del diploma All-Union Competition.
Alexander Kharlamov, il figlio di mio fratello minore (ha il cognome di sua madre),
clarinettista, vincitore alla All-Union Competition, è stato il rappresentante della nostra
famiglia nell’Orchestra del Teatro Bolshoi ed ora lavora nell’Orchestra Sinfonica di
Stato. In una parola, l’esempio della famiglia Dokshizer illustra chiaramente le parole
di Bernard Shaw che sono incluse nell’epigrafe di questo capitolo...
La dinastia della famiglia Dokshizer affonda le radici nella città bielorussa di
Dokshitsy, ora centro della regione di Vitebsk. A quanto pare, la famiglia del mio
bisnonno si stabilì lì alla fine del XVIII o all’inizio del XIX secolo. A quel tempo,
forse, non era una città ma un piccolo villaggio, o una fattoria, ed il suo nome derivava
dal cognome del mio bisnonno, o viceversa. Ciò accadde intorno alla seconda metà del
XIX secolo perché tutti i suoi figli, cinque maschi e due femmine, nacquero a Nizhyn.
Il più piccolo dei figli era mio padre, nato nel 1885.
Ma tornando alla mia infanzia... La musica in casa nostra poteva essere ascoltata sin
dalle prime ore del giorno. Mio padre si alzava all’alba e, pizzicando piano le corde
del suo violino, componeva musica per film (perché a quel tempo erano muti) o per
qualche compagnia teatrale in tournée. Ascoltavo molto attentamente il suo lavoro,
memorizzando le melodie e ripetendole, poi uscivo e le cantavo o fischiettavo per
strada. Ovviamente questo ha contribuito allo sviluppo del mio orecchio e della mia
memoria musicale.
Mia madre, Lubov Naumovna (il suo cognome da nubile era Slezova), si dedicò
totalmente alla famiglia e all’educazione dei suoi cinque figli. Il salario di mio padre
era basso, vivevamo nella povertà. Mio padre lavorava part time come custode, poi
come giardiniere. Molto spesso mi portava con sé, essendo il figlio maggiore, per
aiutarlo a spalare la neve dai marciapiedi. Non potevamo uscire tutti insieme perché
era disponibile solamente un paio di vestiti pesanti per tutti noi. Mia madre ha dovuto
lavorare molto duramente per darci da mangiare e creare vestiti per tutti...
Fu un periodo difficile ma interessante. La Nuova Politica Economica (NEP) era
fiorente, ma la collettivizzazione era già in vista. Naturalmente all’età di cinque o sei
anni non riuscivo a capire le complesse vicende politiche e sociali che in quel periodo
si susseguivano nel nostro Paese. Percepivo la vita come un cambio di scena di un
film: se da una parte questo mi rendeva felice, dall’altra mi spaventava. Spesso, sia gli
eventi positivi che quelli tragici accadevano contemporaneamente.
La Nuova Politica Economica fu annunciata da Lenin nel 1921 e portò un rapidissimo
fiorire delle opportunità di lavoro contadino e lo sviluppo dell’iniziativa personale. Ciò
ebbe un profondo effetto sulla vita delle persone. Il sabato e la domenica tutte le strade
e gli angoli del nostro piccolo paese si trasformavano in una fiera continua. Nikolai

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Vasilievich Gogol, che dal 1821 studiò al Ginnasio delle Scienze Superiori di Nizhyn,
ovvero quindi cento anni prima della mia nascita, aveva forse descritto la famosa fiera
“Sorochinsky” secondo le impressioni del bazar di Nizhyn?
La vivacità dei colori dei costumi nazionali delle ragazze ucraine è ancora impressa
nella mia memoria. Ricordo anche i sorridenti uomini baffuti sui cavalli che
vendevano fascine di legna da ardere, galline, oche, angurie e meloni. L’abbondanza
dei beni primari sembrava essere una celebrazione della vita. Quando la fiera finiva, la
gente stanca trovava relax nel cantare. La sera quindi, canti polifonici tristi e allegri
risuonavano in tutti i villaggi circostanti... Con loro la giornata si concludeva.
All’epoca mi sembrava che non ci fosse niente di più bello del canto corale popolare,
specialmente delle canzoni ucraine: li ascoltavo con il fiato sospeso. Successivamente
questo influenzò la mia percezione della musica. A Nizhyn, una tranquilla cittadina di
provincia, tutti sembravano conoscersi. Aveva le sue persone illustri: eroi, invalidi, ma
anche idioti... Nel mio concetto di infanzia, la città non esisteva senza di loro. I suoi
punti importanti erano la Scuola di Scienze Superiori, Via Gogolevskaya, il Giardino
del Conte e un piccolo fiume chiamato Oster, nel quale nuotavamo e ci tuffavamo
senza paura nelle sue acque poco profonde.
Nizhyn aveva i suoi odori unici: cetrioli sottaceto e aringhe in piedi in botti di legno
per le strade, catrame attaccato agli stivali dei cittadini e alle ruote dei carri, polvere
delle strade non asfaltate... Ma i cetrioli di Nizhyn regnavano su tutto.
L’eroe, ma anche la minaccia di tutta la città era il capo dei vigili del fuoco, Sashko
Podolsky, un uomo forte e bello. Quando un barile d’acqua veniva trasportato da una
coppia di cavalli per spegnere un incendio, Sashko si trovava ai piedi del carro in
movimento con un elmo di bronzo-oro, mentre un trombettista in piedi dall’altra parte
suonava l’allarme. Era uno spettacolo con un forte effetto teatrale. I cittadini si
spostavano ai lati della strada salutando a bocca aperta gli eroi in ritirata.
Sashko Podolsky era anche un musicista, suonava il baritono nell’orchestra dei vigili
del fuoco, diretta da mio padre. Sashko era anche amico di mio padre, a volte lo
portava con sé quando andava al macello. Tutte le porte della città erano aperte a
Podolsky: lui era il guardiano e il proprietario. Quando mio padre tornava a casa dal
mattatoio, ci concedevamo carne e zuppa aromatica che mia madre preparava
deliziosamente. Una prelibatezza per noi era lo strutto, il prodotto principale degli
ucraini. Sebbene, secondo le tradizioni nazionali, agli ebrei fosse proibito mangiarlo,
noi siamo cresciuti con lo strutto, ancora oggi la mia prelibatezza.
Un altro eroe di Nizhyn era il paramedico Bobok. Quest’uomo di straordinaria
reattività, gentilezza e talento era il medico della città. Ha curato di tutto: ha fatto
nascere bambini, eseguito operazioni chirurgiche. Non accettava soldi dai poveri e
poteva venire in aiuto in qualsiasi momento della giornata. La sua altezza era inferiore
alla media, era un uomo leggermente in sovrappeso con una faccia tonda e sorridente e
baffi alla Zaporož’e con le punte rivolte verso il basso. Nelle sue mani aveva sempre
una borsa con gli strumenti necessari, un termometro e dei medicinali. È stato molte
volte a casa nostra. Ha curato anche malattie infantili: una volta salvò sua madre
aprendole un ascesso sulla gamba dalle dimensioni di un pugno, liberandola così dai
gravi dolori.
A Nizhyn visse un’altra persona notevole, Golda Pinus, un’amica di nostra madre.
Apparteneva all’intellighenzia cittadina ed era un’insegnante. La sua particolare

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caratteristica consisteva nel fatto che le sue braccia e le sue gambe erano rivolte verso
l’esterno, i suoi talloni erano davanti e le sue dita dietro. Anche le mani erano contorte.
Nonostante la sua disabilità, lavorava insegnando ai bambini, compresi noi; era sempre
pulita e ben vestita e nella manica del suo vestito era sempre visibile la punta di un
fazzoletto bianco come la neve. La sua andatura era lenta e difficile, il suo viso
amichevole era coperto da una sottile peluria. Golda era una persona volitiva, non si è
mai lamentata del suo destino ed ha persino cresciuto la sua figlia adottiva. Una tale
cittadina era simbolo di coraggio e bellezza umana. La sua disabilità non è stata notata,
perché era così bella nel cuore.
Tutti conoscevano un ragazzo ben nutrito ma gravemente malato dalla nascita, di circa
vent’anni: il suo sviluppo mentale si era fermato da qualche parte al livello di un
bambino di cinque anni. Era un ingenuo sciocco della nostra città, di nome Velka. Era
anche coinvolto negli affari e i cittadini avevano davvero bisogno del suo lavoro:
Velka portava l’acqua potabile in un secchio e la distribuiva agli assetati da una tazza
di metallo, perché allora non c’erano bibite rinfrescanti o dispositivi speciali per le
strade. Velka girava per la città con un secchio e gridava: “Chi ha bisogno di acqua
fredda-e-e?” Lanciavano monete per ringraziarlo dei suoi servizi e nessuno lo
derideva, perché quello era il suo lavoro. Quando però gli chiedevano: “Velka, dove
sono i tuoi soldi?” lui rispondeva: “Tutti se ne sono andati per il pagamento”, e
continuava: “Chi ha bisogno di acqua fredda-e-e?” Cantava l’ultima lettera “e”
enfatizzandola.
La popolazione di Nizhyn era internazionale: vi vivevano ucraini, russi, ebrei, zingari
e persino cinesi. In questi ultimi, notai una caratteristica insolita. Le donne cinesi
indossavano scarpe di legno ai piedi che ne limitavano la crescita. Questa tradizione
religiosa apparentemente antica, dal mio punto di vista era terribile, in quanto rendeva
l’andatura delle donne simile al movimento doloroso dei disabili.
Con l’inizio della collettivizzazione e l’abolizione della Nuova Politica Economica,
quei tempi fiorenti finirono nel caos e vennero sostituiti dalla violenza e dall’oscurità.
Ai contadini vennero sottratti la terra e il bestiame. Questo processo fu chiamato
espropriazione dei kulaki (i kulaki erano persone che possedevano qualcosa di valore).
La gente cercava solo di difendere i beni accumulati e guadagnati attraverso il sudore e
il duro lavoro. Ci fu spargimento di sangue. Si videro morti da entrambe le parti. Ci
veniva costantemente detto che vivevamo in povertà perché la colpa era dei kulaki che
non condividevano il raccolto ed il bestiame, ecco perché era necessario ucciderli. Ora
la nostra orchestra cittadina suonava più spesso ai funerali che nei parchi. Una volta
venni portato ad un funerale per suonare i piatti. Mio padre disse: “Figliolo, non è
affatto difficile: sbatti i piatti tre volte di fila sui primi tre passi e salta il quarto”. Capii
subito la spiegazione. I ragazzi mi guardavano con invidia mentre marciavo con i
grandi come membro dell’orchestra. Questa fu la prima volta che ricevetti una paga
nella mia vita. Non ricordo quanto fu il ricavato, forse uno o tre rubli.
Mia madre mi venne incontro una volta arrivato a casa, mi fece sedere a tavola e mi
servì una tazza di caffè a base di croste di pane tostato con il latte. Per me un tale
onore ed una tale delicatezza erano la ricompensa più alta: mi sentivo quasi il
capofamiglia. Da quel momento è nato in me un senso di responsabilità, di
preoccupazione per i miei cari, ed è rimasto tale per sempre.

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Per la nostra famiglia, gli anni della NEP non furono anni di abbondanza: per nutrire la
famiglia, mia madre doveva costantemente escogitare qualcosa. Spesso preparava
frittelle e le vendeva al mercato per procurarci pane e strutto per la colazione. Ma poi,
terminata l’espropriazione dei kulaki ucraini, iniziò la carestia.
Cercando di scappare, la nostra famiglia si trasferì a Mosca nel 1932. Questo fu
possibile solo grazie all’energia di mia madre. È incomprensibile come mia madre
riuscì a trasferire una famiglia di sei persone dalla provincia alla capitale (Vladimir, il
più piccolo dei miei fratelli, nacque a Mosca). A quel tempo anche i biglietti del treno
non si potevano acquistare senza passaporto con permesso di soggiorno a Mosca e il
timbro sul passaporto escludeva praticamente la possibilità di cambiare luogo di
residenza. Ma, a quanto pare, l’istinto materno di salvare i propri bambini si rivelò più
forte di qualsiasi legge schiavista del primo stato operaio e contadino del mondo, tanto
che la spinse, nonostante la sua debolezza, a compiere questo passo coraggioso, che in
seguito ebbe un ruolo decisivo sulla sorte dei suoi figli.
Il nostro trasferimento avvenne in due fasi. Per prima cosa, mia madre portò a Mosca i
primi due figli (mio fratello minore Abraham e me) insieme a nostro padre. Poi tornò a
Nizhyn per prendere mia sorella Zina e mio fratello Lev che, in una sola settimana in
sua assenza si gonfiarono per la fame tanto da non riuscire più a mangiare.
A Mosca ci sistemammo a casa della sorella di mio padre, zia Tanya. Suo marito, zio
Kopel, era un grande calzolaio-stilista e guadagnava meglio dei musicisti. Era la
famiglia più gentile. Vivevano a Zamoskvorechye, in Via Babiegorodsky. C’erano due
finestre nella stanza: vicino un davanzale c’era il banco da lavoro di zio Kopel (così
chiamava il suo posto di lavoro), l’altro serviva da tavolo da pranzo, e sopra c’erano
sempre pane e aringhe. Zia Tanya era una donna bassa e grassoccia con un bel viso,
mentre lo zio Kopel era alto, magro e completamente calvo. Amava filosofare,
riflettere e parlare della vita, della politica, della musica. Mentre lavorava, sotto i colpi
di martello spesso fischiettava qualche melodia. Ebbero due figli, Mosè e Tevel.
Entrambi sono morti prima dei genitori: il grande è morto in guerra, il piccolo è stato
investito da un’auto...
In questa famiglia ci sentivamo molto bene, un po’ distratti e quindi rafforzati. Essere
dei rifugiati senzatetto non fu semplice. Il senso dell’umorismo di mio padre, che lo
caratterizzava, però ci aiutò molto (penso che in una certa misura io abbia ereditato
questa caratteristica). Mio padre raccontava spesso diverse storie divertenti della vita,
o episodi di operette con un caratteristico accento ucraino. Ricordo come disse, a nome
di un contadino ucraino: “Se fossi ricco mangerei strutto con strutto e dormirei sulla
paglia”. Non eravamo ricchi, mangiavamo ciò che Dio avrebbe mandato (più
precisamente, quello che cucinava zia Tanya), dormivamo per terra senza paglia, ma
eravamo felici.
Dopo un po’ i miei genitori trovarono lavoro in una fabbrica di macchine utensili, e
così ci trasferimmo nel dormitorio della fabbrica. Ci venne assegnata una stanza per
due famiglie, divisa da un solo lenzuolo. Io, in qualità di figlio maggiore, fui assegnato
ad un’orchestra militare: allora avevo dieci anni. La mia mamma, che ha perso due
figli in guerra, ha poi vissuto una vita lunga e travagliata ed è vissuta fino a tarda età: è
morta nel 1987, all’età di novantuno anni. Ora, essendo nonno, ricordo di essermi
sentito sempre estremamente felice quando, rivolgendomi a lei, pronunciavo quella
parola, sacra ad ogni essere umano: “Mamma” ...

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Mio padre Mia madre
Alexander Tevelevich Dokshizer Lubov Naumovna Slezova

A Kubinka, all’età di 11 anni Io con la mia tromba a 13 anni

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L’orchestra della città di Nizhyn (1910-1913). Sopra: Boris Dokshizer
(3° da sinistra), Samuel (4° da sinistra) e mio padre Alexander Dokshizer
con il violino (l’ultimo a destra)

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Capitolo 2
Un piccolo cavaliere
Durante l’estate del 1932 fui assunto nella banda del Sessantaduesimo Reggimento di
Cavalleria. In quel periodo così difficile c’era una tradizione tra le unità militari di
nutrire e addestrare diversi ragazzini.
Oltre a me, l’altro “figlio del reggimento” era Arkady Nesterov, oggi famoso
compositore e rettore del Conservatorio di Nizhny Novgorod (è autore di un Concerto
per tromba e ai suoi tempi suonava molto bene questo strumento).
Lì, in quel reggimento dall’età di dieci anni, iniziai a suonare la tromba in modo più
metodico. Prima di allora, all’età di sette anni, emettevo solo dei suoni con il bocchino
che mi era stato regalato da mio padre, ma mi ci divertivo soltanto, come con un
giocattolo per bambini.
Nel reggimento ero circondato dall’attenzione degli adulti. Il medico del reggimento, il
cuoco, lo stalliere e persino il Capo di Stato Maggiore del reggimento, Artemyev, l’ex
ufficiale dell’esercito zarista, si presero cura di me in modo toccante. Al mattino
venivo nutrito da solo, prima di tutti gli altri, e mandato a scuola. Mi chiamavano
Timka invece di Tevka, e da allora questo divenne il mio nome. Il capobanda Anatoly
Ignatievich Chizhov ed i miei cugini Lev e Alexander, che anche loro prestarono
servizio in questa orchestra, furono direttamente coinvolti nella mia educazione. A
proposito, con Anatoly Ignatievich, quando sono cresciuto, siamo rimasti amici per
molti anni. Servire come allievo non era affatto un gioco da ragazzi. Venni addestrato
per svolgere i compiti del trombettista di reggimento. A quel tempo, quando ancora
non esisteva una radio, la routine di vita dell’unità di cavalleria e gli ordini dei
comandanti venivano trasmessi attraverso segnali di tromba. Ogni ordine aveva un
segnale speciale, li imparai velocemente e così iniziai a servire.
Dovevo suonare la tromba a cavallo. Ho dovuto imparare a farlo sia da fermo che al
galoppo leggero. Per evitare scosse e dondolii in quel momento, era necessario alzarsi
dalla sella e reggersi sulle ginocchia. Fortunatamente mi fu data una puledra calma. Mi
sembrava enorme, come una montagna: fu sellata e condotta fuori dalla stalla per me
da un cavaliere. Inizialmente c’era sempre qualcuno che mi aiutava a montare a
cavallo, ma molto presto imparai a farlo da solo. La cavalla mi trattava come una
madre con il suo bambino, annusandomi con il suo muso caldo e soffice, cercando di
toccarmi il viso.
Facevo il soldato quasi alla pari degli adulti: mi alzavo presto, ero in servizio tutti i
giorni, però di notte mi mettevano a letto; con il reggimento partecipavo ad
esercitazioni, sfilate, cortei funebri (i cavalli del nostro reggimento erano neri ed il
nastro rosso nella criniera creava un simbolo di lutto).
All’inizio del servizio nell’esercito mi sono successe cose belle e divertenti. Non
sapevo leggere l’orario sull’orologio. In effetti, non guardavo mai l’orologio, mio
padre lo portava nel panciotto ed io prima del servizio militare non ho avuto mai la
necessità di vedere l’ora. Ero infantilmente felice, c’era solo musica nella mia testa.
Poi un giorno questa mia lacuna portò ad uno spiacevole incidente. Accadde così che
l’ufficiale (prima era chiamato comandante) che era in servizio nel reggimento, mi
disse: “Trombettista, alle 7 suonerai l’alzata”, e se ne andò. Io risposi: “Sì” e continuai
a stare seduto in silenzio, ipnotizzato dal movimento del pendolo degli orologi appesi
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al muro. Era un passatempo senza senso ma per me era divertente... All’improvviso
sentii l’urlo di un ufficiale di turno che correva, il che mi colpì come una scossa
elettrica: ...ho svegliato il reggimento con un ritardo di oltre venti minuti! Il Capo di
Stato Maggiore Artemyev sorrise quando apprese la causa di quanto era accaduto.
Mi son saputo tenere sempre bene a cavallo ed ho imparato a suonare i segnali anche
in corsa, e per questo l’ispettore delle bande militari dell’Armata Rossa, il noto
capobanda Semyon Alexandrovich Chernetsky, mi premiò con dieci rubli. Con questi
soldi mi vennero comprati i primi veri pattini della mia vita. A Nizhyn, tutta la
famiglia aveva uno skate di legno, con un telaio metallico, fatto di filo spesso.
Ho sempre guardato con invidia le lezioni dei cavalieri adulti che saltavano le barriere.
Anche i musicisti partecipavano, ma a me non era permesso, anche se ero già più
grande, avevo dodici anni. Mentre gli adulti galoppavano, io cavalcavo intorno alla
boscaglia sulla mia puledra.
Un giorno il sergente maggiore Lashin, il nostro baritono (per qualche motivo ricordo
il suo cognome), si rivolse a me con un sorriso dolce e gentile: “Piccolo Dokshizer
(così mi chiamavano, perché c’erano altri due Dokshizer nell’orchestra, Lev e
Alexander), provaci anche tu!”
Guardando gli adulti, ho imparato che quando un cavallo salta, il cavaliere, aiutandolo,
si alza dalla sella, lascia andare il guinzaglio e rimbalza sulle ginocchia. Così ho fatto.
La barriera era bassa. Lashin fece entrare la mia vecchia signora, era ovviamente una
gioia ricordare il passato, così mi sono preparato con le ginocchia, pronto a saltare...
ma il cavallo si fermò improvvisamente davanti alla barriera, come un trincerato!
Dalla sorpresa, volai dalla sella al suo collo e, avendo perso di mano le redini, mi
afferrai convulsamente alla criniera con le mani. A causa dell’inerzia, anche lei non
resistette e, saltando la barriera, iniziò a correre per il campo, cercando di buttarmi giù
dal collo. Se gli adulti non l’avessero fermata, sarei potuto finire sotto gli zoccoli...
Il direttore d’orchestra (ora si dice così o capo d’orchestra) Anatoly Ignatievich
Chizhov, si prese cura dei miei studi presso le scuole di istruzione generale e di
musica. Durante il mio primo anno non mi fu permesso di prendere parte agli esercizi
quotidiani del campo estivo, dove al mattino, al suono dell’orchestra, si riunivano tutti
gli squadroni del reggimento. Venivo lasciato nelle tende del campo a studiare. Dato
che non sapevo come farlo correttamente né l’importanza di esercitarmi
metodicamente, ero costantemente distratto e trascorrevo più tempo sul campo
sportivo con una palla o facendo piroette appeso ad un trapezio, come una scimmietta.
Chizhov trascorse due anni nel nostro reggimento, poi fu trasferito. Come molti altri
ufficiali ai tempi di Stalin, non sfuggì ad accuse e punizioni per essere considerato un
“nemico del popolo”. Tuttavia, ero ancora destinato a prestare servizio durante gli anni
della guerra sotto la sua guida nell’Orchestra del Distretto Militare di Mosca.
Kogan prese il posto di Chizhov e diventò il nostro capo dell’orchestra. Era molto più
vecchio di Chizhov, riusciva a malapena a stare in piedi sul cavallo, ma mi trattava in
modo paterno. Dopo tre anni di servizio nell’orchestra del Sessantaduesimo
Reggimento di Cavalleria, su consiglio di mio fratello maggiore Lev, che già studiava
presso il dipartimento di Direzione Militare del Conservatorio di Mosca, decisi anch’io
di lasciare l’esercito per studiare, anche se Kogan voleva ancora tenermi
nell’orchestra. Sapeva che il mio sogno più grande era avere una copia tutta mia del
miglior libro, “The Complete Method” di Arban, che all’epoca non era ancora

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disponibile. Così, con il pretesto di comprarmelo, mi portò da Semyon Alexandrovich
Chernetsky, autore di marce militari, che per molti anni era stato responsabile di tutte
le sfilate sulla Piazza Rossa. Purtroppo anche lui non sfuggì alle accuse dell’epoca di
Stalin e presto venne etichettato come “nemico del popolo”. Fu accusato di attività
sovversive e antisovietiche, in particolare a causa di un episodio in cui, durante una
parata, la sua orchestra cominciò a suonare sotto il suo piede destro, rovinando così le
colonne dell’esercito in marcia. Chernetsky era un vero professionista, quindi
l’assurdità dell’accusa fu evidente a tutti.
Chernetsky ci ricevette nella sua “residenza”, un palazzo a due piani in Piazza Arbat,
dove ora è stato eretto un enorme edificio dello Stato Maggiore, che i moscoviti
chiamano il “Pentagono”. Mi ascoltò suonare, il che fu un vero onore per me. Si offrì
di farmi suonare nella neonata Orchestra Esemplare del Commissariato Popolare per la
Difesa (così venivano chiamati i grandi magazzini a Mosca - esemplari e dimostrativi).
“Sarai nutrito, vestito e riceverai 120 rubli al mese.” Questa offerta è per me, un
ragazzo di tredici anni?! Sì, in vita mia non ne ho mai tenuti più di una dozzina tra le
mani! ... Inoltre, Chernetsky mi regalò l’ambita “Scuola di Arban”. Era una buona
edizione pubblicata da Jurgenson con la scritta “Al talentuoso Timochka...”.
Comunque, su insistenza di mio fratello, lasciai l’esercito e venni presentato al
professor M. I. Tabakov. Da qui iniziò per me una nuova vita.
Tutta la mia giovinezza fu in qualche modo collegata a Chernetsky. Quando nella
Orchestra Balalaika dove prestai servizio da giovane (ne parleremo più avanti), fu
suonata la Ukranian March di Chernetsky, dove c’era una frase per tromba solista, e
all’autore della marcia venne mostrata una scena teatrale su questa musica, messa in
scena dal regista Felix Nikolaevich Danilovich, Chernetsky, quando mi notò che ero
seduto nell’orchestra ma non ero io a suonare il solo, gridò: “Lascia che lui suoni
questa frase!” E, puntandomi il dito contro, mi minacciò dicendomi: “E restituiscimi la
‘Scuola di Arban!” Per tutti i presenti sembrò un’accusa di un furto. Nessuno sapeva
che semplicemente non avevo accettato la sua proposta di lavorare nella sua orchestra.
Nella primavera del 1941 Chernetsky fu membro della giuria alla All-Union
Competition di Mosca. Quando venni proclamato vincitore, lui si congratulò con me
dicendo: “Farai parte della mia orchestra”.
Cinque mesi dopo, quando la guerra era già iniziata, lui mi vide nell’Orchestra
Esemplare del Quartier Generale del Distretto Militare di Mosca, guardandomi con il
suo unico occhio (l’altro era artificiale). Il nostro direttore, Sergey Alexandrovich
Panfilov, ispettore delle orchestre del Distretto Militare di Mosca, disse a Chernetsky:
“Questo è il nostro vincitore” (c’erano solo cinque trombettisti vincitori nell’Unione
Sovietica: N. Polonsky, S. Eremin, G. Orvyd, I. Volovnik ed io). “Un vincitore è un
vincitore, ma come è arrivato a te?” Chiese Chernetsky, che non mi aveva mai visto
nella sua orchestra.
Molte volte, durante il mio servizio militare, feci parte di un’orchestra di mille
strumentisti, che veniva addestrata con esercizi mensili per ogni parata perché tutto
doveva essere suonato a memoria. Come sempre il Generale Maggiore Chernetsky
dirigeva le prove. Una volta, durante una prova sull’argine del fiume Krymskaya
qualcuno nella sezione degli baritoni suonava sempre una nota sbagliata. Maestri di
decine di orchestre ascoltavano, correvano in mezzo a loro, cercando di localizzare
quel musicista. Chi sbagliava? Una volta la prova venne interrotta per ben due volte...

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Ad un certo punto persi la pazienza e gridai: “Dobbiamo suonare il La bemolle!”
Chernetsky disse: “Chi ha detto La bemolle?” e nel silenzio assoluto continuò: “Farò
di te un direttore d’orchestra!” In qualche modo suonava come una minaccia. Tuttavia,
in seguito diventai effettivamente un direttore d’orchestra. Ritornerò su questo
argomento più avanti. Consideravo l’atteggiamento di Chernetsky nei miei confronti
così gentile che in qualche modo osai chiamarlo a casa con una richiesta. Il risultato fu
per me inaspettato, ma allo stesso tempo normale in termini di disciplina militare. Il
Generale Maggiore inviò un ordine all’orchestra: “Per violazione dello statuto e per
aver agito fuori comando, il sergente maggiore T. Dokshizer sarà condannato a tre
giorni di reclusione. Il capo della mia orchestra a quel tempo era Anatoly Ignatievich
Chizhov, il mio primo insegnante che lesse, come era consuetudine, l’ordine del
generale prima della formazione e poco dopo mi disse personalmente: “Vai a casa, e
che nessuno ti veda per tre giorni”. Questa fu l’unica punizione che ricevetti per quasi
quindici anni di servizio nell’esercito.
Sono andato avanti, ho interrotto la sequenza del racconto, quindi tornerò alla
cavalleria, la mia Alma Mater, dove venni trattato con particolare attenzione da
Artemyev, il Capo di Stato Maggiore del reggimento. Si distingueva per la sua figura
snella, vestiti sempre puliti, teneva sempre tra le mani una corta frusta di cuoio. Non
aveva figli e, quando mi notava, a volte mi chiamava da lui. Ero abituato ad
avvicinarmi alle autorità secondo tutte le regole del servizio: “L’allievo Dokshizer è
apparso al Suo comando” e mettevo la mano sotto la visiera. Un giorno mi dette una
copia de Il viaggio di Robinson Crusoe in una vecchia edizione con meravigliose
illustrazioni a colori. Riuscii solo a guardare le foto e presto qualcuno mi rubò il libro.
Un’altra volta, il Capo di Stato Maggiore mi dette un ordine: “Vai da mia moglie (gli
appartamenti del comandante erano vicino al campo) e digli ...” Dopo la parola
“moglie” non capii più niente. Poi mi disse: “Ripeti l’ordine”. Rimasi in silenzio a
lungo, non sapendo cosa dire... Poi gli chiesi: “Cos’è una moglie?” Sorrise: “Dì a mia
moglie che sono un po’ in ritardo.”
La prima volta che salii sul palco del nostro club del reggimento avvenne a Mosca,
nella caserma situata lungo il Campo Hodinsky, accanto all’Ospedale Botkin. Era un
concerto di artisti dilettanti dell’esercito in cui i soldati cantavano e ballavano. Anch’io
volevo salire su quel palco, così Lev, mio fratello maggiore, approvò la mia richiesta
ed io corsi subito a prendere la mia tromba. Avevo imparato un pezzo antiquato e,
naturalmente, “primitivo” per tromba. Consisteva in cinque o sei brevi frasi
intervallati da lunghi intermezzi del pianoforte. Ad ogni modo, suonai senza
pianoforte. Dopo l’esecuzione della prima frase iniziai a contare le battute di pausa con
molta concentrazione, ma subito dal pubblico partì un applauso. Suonai la seconda
frase, ancora una volta applausi. Questo durò fin quando non finii di suonare tutto il
brano! Non ero imbarazzato ma non capivo il perché il pubblico applaudisse così
spesso. Questo “battesimo del fuoco” fu solo l’inizio. Dopo questa esibizione sfruttai
ogni opportunità per partecipare a questi concerti amatoriali, ma le volte successive
suonai sempre accompagnato dal pianoforte.
Iniziai così ad essere mandato a partecipare a diversi concerti e sfilate per bambini.
Indossavo un’uniforme militare della taglia più piccola possibile per uomo, ma
nonostante tutto mi ci perdevo dentro. I pantaloni mi scivolavano sempre perciò era
necessario stringerli sempre. A volte temevo di perdere anche gli stivali, anch’essi

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molto grandi per me. Grazie a quei concerti, il capo dell’esercito Artemyev fece
ordinare apposta per me una divisa speciale su misura per un ragazzino di dodici anni.
Venne realizzata su misura per me una camicia bianca che serviva a partecipare al
concerto finale degli artisti dilettanti dell’esercito. Questo si tenne nel Green Theatre
del Gorky Central Park of Culture and Leisure di Mosca, che poteva ospitare decine di
migliaia di spettatori. Andai a Kubinka per il concerto, dove si trovavano i nostri
accampamenti. Ci arrivai in treno, con una locomotiva a vapore. Nella carrozza non
c’era spazio, perciò passai tutto il tempo in piedi nel vestibolo. Prima del concerto
andai a trovare i miei genitori. Mia madre rimase inorridita quando vide che la mia
camicia era completamente ricoperta di fuliggine di locomotiva. Non riesco ancora a
capire come fece a lavarla, asciugarla e stirarla in così poco tempo. Al concerto suonai
la Melodia Accompagnata di M. Glinka (le parole originali di questa canzone parlano
di un treno che viaggia molto velocemente e dell’aria fresca che i passeggeri inalano
durante il viaggio). Insomma, grazie al servizio prestato nell’esercito da bambino,
acquisii molto presto le importanti abilità sceniche di base, per me molto importanti.

Con i miei fratelli.


Da sinistra a destra: Abraham, Lev e Timofei
In alto: V. A. Peskin (1937)

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Dokshizer nelle vesti di musicista dell’Orchestra Balalaika
del CBRA (Central Building of the Red Army) (1938)

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Capitolo 3
Il primo insegnante
Durante il primo anno di servizio militare fui mandato a studiare musica sotto Ivan
Antonovich Vasilevsky, nelle classi per bambini della Scuola di Musica intitolata a
Glazunov. Vasilevsky era un noto trombettista e insegnante all’epoca, solista del
Teatro Bolshoi. Ivan Antonovich fu il mio primo vero insegnante di tromba a livello
professionale. Le nostre lezioni iniziavano dividendo con me un panino avvolto in un
tovagliolo di lino, che portava da casa sua. La mia magrezza probabilmente gli fece
sorgere seri dubbi sul fatto che potessi essere capace di suonare la tromba perché
richiedeva della forza. Quel panino fatto in casa fu per me un vero onore e solo dopo
che io avessi finito di mangiare la mia metà, diceva: “Bene, ora iniziamo!”
Ivan Antonovich Vasilevsky dette la sua vita e la sua anima ai suoi studenti. La sua
stanza di 16 metri quadri si trovava in un appartamento condiviso a Neglinnaya, dove
vivevano altre tre famiglie. Quella stanza fungeva da camera da letto, sala da pranzo,
ufficio e studio. Ogni giorno uno degli studenti o dei giovani colleghi del Teatro
veniva qui per lezioni extra.
Poteva suonare tutto il giorno e questo non provocava mai lamentele da parte dei
vicini. Ivan Antonovich ispirò i residenti dell’appartamento, che lo adoravano, che
l’educazione dei trombettisti è una questione di importanza nazionale ed è associata al
fiorire dell’arte sovietica e, di conseguenza, al fiorire dello Stato Sovietico. Iniziava a
studiare alle sette del mattino, ma usava sempre una sordina. La sua infanzia è stata
difficile e povera di cibo, veniva da un ambiente contadino: all’epoca nel suo villaggio
faceva il pastore. Quando si trasferì a Mosca e si assicurò un posto al Bolshoi, credette
in modo sacro e ingenuo nella costruzione di un futuro più luminoso, e fu attivamente
coinvolto in attività sociali (sindacali).
Ai tempi di Stalin, ogni anno venivano emessi prestiti governativi per finanziare la
costruzione di piani quinquennali per lo sviluppo economico e la costruzione del
socialismo e del comunismo. Era una politica di tasse nascoste e prelievi statali su
salari già bassi per la popolazione. Di solito incoraggiavano le persone ad iscriversi per
l’importo di uno stipendio mensile. Ivan Antonovich firmava sempre per l’importo di
due stipendi e, come dirigente sindacale, convinceva gli altri a fare lo stesso. Lui
stesso non aveva risparmi e, per quanto ne so, non aveva nemmeno un libretto di
risparmio. Credeva con sincerità nel fatto che se più persone aiutano lo Stato, arriverà
prima il brillante futuro promesso. Era, come qualsiasi altro russo, molto generoso e
ospitale. Se qualcuno si trovava a casa sua all’ora di pranzo veniva fatto accomodare a
tavola. Sua moglie, Alexandra Ivanovna, una donna minutina e tranquilla, dedicò tutta
la sua vita a suo marito. Non avevano figli.
Tutte le donne in quell’appartamento si prendevano cura di lui: per lui cucinavano,
pulivano, facevano la spesa. Era adorato per la sua gentilezza, nobiltà, resilienza,
ottimismo e intelligenza. Era un sostegno per tutti, aiutava tutti, era responsabile per
tutti. Poteva rimproverare un amico con tagliente franchezza e baciare un nemico.
Ivan Antonovich soffriva di un disturbo allo stomaco e quindi doveva mangiare poco e
spesso. Per lui veniva preparato cibo dietetico e semplice, senza spezie e prelibatezze.
Il pasto che più adorava era il porridge di miglio, precedentemente avvolto in un
asciugamano e cotto al vapore nei cuscini del letto.
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Volgendo uno sguardo al passato, vorrei sottolineare che non sono mai riuscito ad
invitare Ivan Antonovich in un ristorante.
Quando lavoravamo insieme al Teatro Bolshoi ed avevo la mia retribuzione, volevo in
qualche modo ringraziarlo della sua attenzione e cura nei miei confronti, invitandolo a
sedersi in un ristorante. Rifiutava sempre! Una volta, in risposta alle mie domande
perplesse, improvvisamente disse: “Sai, Timochka, non mi piace quando le persone
ingannano...”
Naturalmente questa era una scusa da parte di una persona estremamente modesta che
non poteva nemmeno immaginare di dover gravare anche leggermente sull’altro:
preferiva dare via il suo, ma non condividere qualcosa di qualcun altro: questo era il
suo credo di vita.
Quando nel 1948 venne rilasciato un “permesso speciale” per costruire un edificio
residenziale cooperativo per gli artisti dell’orchestra del Teatro Bolshoi, io, per via del
fatto che ero giovane ed avevo poca esperienza lavorativa a Teatro, non potevo contare
di essere incluso nell’elenco dei futuri proprietari dell’appartamento. Ivan Antonovich,
essendo un veterano del Teatro Bolshoi, fu tra i primi ad avere questa opportunità.
Entrò a far parte di quella cooperativa, aspettò fino alla fine della costruzione della
casa e, non appena iniziai a prendere piede a Teatro, annunciò che avrebbe lasciato la
cooperativa se non mi venisse dato il suo appartamento. Sì, fu grazie ad Ivan
Antonovich che vissi per quarant’anni in un meraviglioso appartamento privato, dove
potevo finalmente suonare la tromba dalla mattina alla sera.
Dopo le esibizioni al Teatro Bolshoi, Ivan Antonovich di solito tornava a casa ed io
spesso lo accompagnavo. Salutava i conoscenti di passaggio togliendosi il berretto,
dopodiché mi spiegava chi era la persona che incontrava. Una volta, salutando in
questo modo una donna anziana e curva, disse: “Non puoi immaginare che cantante
fosse e che bellezza!”. Ivan Antonovich era anch’egli un bell’uomo, molto alto con bei
capelli, l’idolo delle donne. Per più di trent’anni eseguì i primi ruoli di tromba
nell’orchestra e, a differenza di altri trombettisti come M. Tabakov e S. Eremin, lui
aveva una tecnica virtuosistica, cedendo però, rispetto a loro, nella qualità del suono.
Le sue fenomenali capacità di insegnamento gli permisero di formare molti ottimi
artisti. Tra i suoi studenti ci furono trombettisti come N. Berdyev, I. Volovnik, Y.
Gandel, G. Domani, O. Usach, V. Traibman, V. Shlepakov, V. Yudin e l’intera
dinastia dei Dokshizer: Lev, Alexander, Vladimir e Timofei. Ivan Antonovich mi
disse: “Se in tutta la tua vita riesci a coltivare almeno un vero musicista-artista, allora
considerati un insegnante felice”.
Ivan Antonovich potrebbe considerarsi un insegnante molto felice: formò molti veri
musicisti che hanno conservato un grato ricordo del loro insegnante. Per molti anni, il
6 maggio, giorno del suo compleanno, i suoi studenti si recavano nel Cimitero di
Novodevichy a Mosca, dove Ivan Antonovich è sepolto ed eseguivano fanfare funebri
in sua memoria, composte da Vladimir Peskin.
Ora che io stesso mi occupo di pedagogia da più di quarant’anni, posso giudicare il
grande talento pedagogico di Ivan Antonovich Vasilevsky, un talentuoso formatore,
maestro dell’istruzione primaria, in grado di sviluppare competenze tecniche complete
negli studenti nel corso di soli tre-quattro anni. Lo faceva con eccezionale metodicità
secondo la “Scuola di Arban”. Impostava pagina dopo pagina, in parallelo da diverse
sezioni, con crescente difficoltà, sviluppando una tecnica dopo l’altra. Lui stesso aveva

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una brillante padronanza della tecnica (era uno studente del famoso cornettista
virtuoso Mikhail Prokofievich Adamov). Controllava pedantemente e pazientemente
ogni compito, ogni esercizio, poneva la sua firma sotto ogni esercizio appreso, ma se si
rendeva conto che lo studente non aveva raggiunto la libertà di padroneggiare quella
determinata abilità, gli chiedeva di ripetere lo stesso esercizio per un’altra settimana,
utile ad ottenere ulteriori risultati dal suo apprendimento. Quindi, passo dopo passo e
abbastanza rapidamente, i suoi studenti superavano le difficoltà tecniche acquisendo la
piena padronanza delle abilità.
Vasilevsky era un grande esperto della “Scuola di Arban”. Credeva che ogni
trombettista, indipendentemente dal suo livello professionale, dovesse usare questo
libro per sviluppare o migliorare le proprie capacità, oltre a ripristinarle
periodicamente. Nelle sezioni delle scale maggiori e cromatiche complicava gli
esercizi alternando le frasi legate con quelle staccate, ottenendo così il controllo
ritmico con il legato e allo stesso tempo una leggerezza virtuosistica nel movimento ed
una coordinazione della lingua e delle dita con lo staccato.
Da una lezione all’altra, i suoi studenti potevano notare il loro miglioramento e con
esso aumentava anche il loro entusiasmo, così da spingerli a comprendere sempre più
nuovi esercizi. Quando studiavano il doppio e triplo staccato, si sentivano già dei
virtuosi. Durante i tre anni e mezzo di studio con Vasilevsky, imparai a memoria la
“Scuola di Arban” e nel mio ulteriore lavoro non ebbi mai problemi tecnici, in quanto
ripristinavo sempre rapidamente le mie abilità perdute, sapendo quali pagine dovevo
rivedere per affrontare un particolare problema.
La “Scuola di Arban” diventò per me un libro di riferimento, che ancora oggi
periodicamente esamino ed insegno ai miei studenti come utilizzarlo. Ha più di
cent’anni, ma penso che il suo significato non diventerà obsoleto nemmeno per i
trombettisti del XXI secolo.
La mia relazione e amicizia con Ivan Antonovich Vasilevsky continuò durante il
nostro lavoro insieme al Teatro Bolshoi. Siamo stati amici fino alla sua ultima ora.
Ivan Antonovich Vasilevsky morì il 14 gennaio 1959.

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Ivan Antonovich Vasilevsky

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Anatoly Ignatievich Chizhov

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Capitolo 4
La classe di Mikhail Innokentyevich Tabakov
Il mio secondo insegnante di tromba fu Mikhail Innokentyevich Tabakov, un
professore, un famoso trombettista russo dal suono divino. È stato il primo interprete
delle opere di Scriabin, in particolare del suo Poema dell’Estasi. Scriabin stesso disse:
“Se potessi, mi comprerei Tabakov in modo che eseguisse sempre le mie opere!”
Anche Mikhail Innokentyevich lavorò per molti anni al Teatro Bolshoi. Era un
personaggio pubblico attivo, uno dei fondatori del Persimfance, il primo Ensemble
Sinfonico senza direttore. Venne organizzato durante la totale infatuazione per le idee
rivoluzionarie, quando anche la professione di direttore d’orchestra veniva considerata
una delle forme di sfruttamento.
Il Persimfance, tuttavia, divenne famoso non per il fatto che i musicisti si esibivano
senza direttore, ma per il livello di cultura nell’esecuzione: comprendeva i musicisti
più importanti di Mosca. Gruppi di questo tipo sorsero allora in altri Paesi europei.
Penso di aver visto fotografie di orchestre senza direttore a Berlino o Parigi. Questa
moda fu però presto abbandonata: semplicemente perché non può esserci una buona
orchestra senza direttore. Nel Persimfance c’era però un direttore “nascosto” che
sedeva nell’ensemble ed era un musicista: era in genere il primo violino, il professor
Lev Moiseevich Tseitlin. Al suo cenno si iniziava a suonare, lui segnalava anche le
dinamiche, le chiusure e tutto il resto. Sebbene ogni membro dell’ensemble potesse
esprimere la sua opinione sull’interpretazione, l’ultima parola decisiva spettava al
primo violino, il direttore occulto.
Negli anni prerivoluzionari, Tabakov fu il fondatore e direttore della - un tempo
famosa - orchestra di Sergey Koussevitzky. Era molto severo ed esigente con i suoi
studenti, non ammetteva un tono informale. Gli studenti sentivano sempre una certa
distanza tra loro ed il professore. A volte diventava furioso ed era persino capace di
buttare fuori uno studente negligente mentre con i suoi studenti più grandi a volte si
concedeva un po’ di relax. Accettava gli inviti di andare al ristorante con loro, ma alla
sola condizione che ognuno pagava il proprio pasto: diceva “a spese della Germania”.
Mikhail Innokentyevich era un grande buongustaio. Conoscevamo il suo piatto
preferito - la bistecca alla tartara - dai suoi racconti, ma non abbiamo mai avuto
l’opportunità di assaggiarla nei nostri ristoranti.
Viveva a Yuzhinsky Lane, vicino alla Porta Nikitsky, al primo piano di una vecchia
casa. Non riuscì a procurarsi un appartamento cooperativo fino a quando non era già
anziano: in ogni caso non ebbe mai la possibilità di viverci... Una visita a casa di
Tabakov era sempre un evento straordinario e poteva accadere solo in occasione di una
questione particolarmente importante.
Una volta, io e Naum Emmanuilovich Polonsky, uno dei suoi primi e più famosi
studenti, fummo invitati a fargli visita, ma ci presentammo qualche minuto prima
dell’orario previsto. Mikhail Innokentyevich ci accolse con un’osservazione: “Questo
è scortese”. Sì, probabilmente aveva ragione. Non posso fare a meno di paragonare
l’etica di Tabakov con i modi dei giovani di oggi che possono chiamare al mio
telefono e dire: “Voglio parlare con Dokshizer”, come se non esistessero parole come
“ciao”, “posso chiedere” né “per favore”.

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Come insegnante, Tabakov non era interessato allo sviluppo della tecnica. Il fulcro del
suo metodo risiedeva nella formazione del suono, di cui lui stesso era un grande
esperto. Insegnò ai suoi studenti a produrre un suono costante, melodioso e
voluminoso, usando un respiro profondo. Il suono dinamico prodotto irradiava energia
in ogni dinamica.
Lavorare sul miglioramento della qualità del suono era una routine quotidiana ed era
connessa principalmente con la pratica dei suoni lunghi. Tabakov li chiamava “note
bianche” in contrapposizione a quelle “nere”.
Con tutte le convenzioni di questa terminologia (che non si è sviluppata fino ai giorni
d’oggi), ci era chiaro il significato delle “note bianche”, chiamate anche lunghe,
tenute, sostenute. Ogni esecuzione di successo, con una qualità sonora perfettamente
curata, con dinamiche e respiro ben calcolati, provocava un’emozione che poteva
essere paragonata all’esecuzione di una frase musicale con climax e declino di un’onda
sonora. Mikhail Innokentyevich dimostrò lui stesso questo processo con sorprendente
espressività. Produceva un suono raffinato nel registro acuto con un attacco nel
pianissimo e portava la nota, attraverso un crescendo, ad un vertiginoso fortissimo.
Allo stesso tempo, i suoi muscoli facciali, quelli di un uomo che aveva varcato la
soglia dei settant’anni, tremavano come i bicipiti di un atleta, ma il suono rimaneva
fermo. Andando nel diminuendo, gonfiava leggermente le guance e portava il suo
suono ad uno stadio di “libero volo”.
Sembrava che qui non fosse necessario né il respiro né l’energia delle labbra: il suono
viveva da solo, si muoveva, emanava energia e gradualmente scompariva in un
pianissimo così sottile che era impossibile cogliere il momento in cui terminava perché
si fondeva con il riverbero acustico della classe. Da qui hanno origine le inimitabili
frasi di Scriabin e Wagner per le quali Tabakov divenne famoso. La padronanza del
suo suono era fenomenale.
Ogni giorno spendevamo il nostro tempo migliore e le nuove energie per eseguire le
“note bianche” sviluppando la respirazione, la qualità del suono, la resistenza, l’udito.
Questo lavoro richiedeva dai quaranta minuti a un’ora. Poi eseguivamo studi per lo
sviluppo del suono o esercizi su intervalli legati ad un tempo lento. Dopo tali esercizi,
le labbra erano ben cariche, ma anche abbastanza stanche tanto che non c’era più forza
sufficiente per lavorare sul repertorio, in quanto era necessaria una pausa di molte ore.
Tuttavia, anche la pausa notturna per il riposo non era sempre sufficiente: arrivava di
nuovo il momento delle “note bianche” mattutine ma le labbra non avevano avuto
abbastanza tempo per riposare...
A quel tempo, con l’assoluta autorità del professore, era difficile per gli studenti stessi
capire che lavorare sui suoni raffinati per tanto tempo stancava le labbra e
generalmente comprometteva la pratica quotidiana delle lezioni e del lavoro. Il
permanente stato di stanchezza rendeva difficile determinare le reali capacità delle
nostre labbra. Ci siamo sempre lamentati della mancanza di resistenza, non pensando
al fatto che con un lavoro così pesante fosse semplicemente necessario far riposare
bene le labbra e, due o tre giorni prima di una esibizione ridurre l’intensità del carico
di lavoro. Anche se molto utili (soprattutto all’inizio della formazione
dell’impostazione labiale e dello sviluppo della respirazione) gli esercizi basati sul
perfezionamento del suono hanno il loro rovescio della medaglia: sono statici. Il fatto
di mantenere fermi i muscoli labiali per un tempo prolungato porta inevitabilmente

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all’interruzione della normale circolazione sanguigna. Questo porta all’affaticamento
e, in alcuni casi, all’intorpidimento delle labbra e dei muscoli facciali. Tale pratica
perciò richiede un riposo molto più lungo di quello che un qualsiasi musicista che
lavora quotidianamente può permettersi. Riprendere ad esercitarsi con labbra ancora
stanche può solo causare ulteriore affaticamento. In questo modo è possibile sbagliarsi
per anni nel considerare le proprie capacità, pensando solo al fatto di avere labbra
deboli, senza sospettare che, a quanto pare, sono sistematicamente stanche e non
vedono l’ora che l’adeguato riposo dimostri la loro vera forza e resistenza.
Tu, mio collega lettore, hai già capito quindi che nelle lezioni bisogna evitare una
lunga pratica statica. Come evitarla? Molto semplice: alterna esercizi statici a esercizi
dinamici; esercizi melodici con quelli tecnici. Dopo aver suonato cinque o sei note
lunghe e sostenute si può passare agli esercizi ad intervalli tecnicamente semplici, che
sono particolarmente efficaci a normalizzare la circolazione sanguigna e quindi a
ripristinare la forza e la resistenza delle labbra. Ora che lo sappiamo molto bene diamo
ai nostri studenti diversi consigli e raccomandazioni su come agire. Il suono, il respiro,
la resistenza dei muscoli labiali e l’udito, a quanto pare, possono essere sviluppati non
solo lavorando sulle “note bianche”, ma anche su intervalli di vocalizzi legati che
possono aiutare a sviluppare tutti gli aspetti del suonare ed ottenere risultati più
velocemente e con successo.
Mikhail Innokentyevich ci insegnò ad immaginare il carattere della musica eseguita ed
a sviluppare l’istinto dell’interprete, che richiedeva un suono vocale ed espressivo
nelle frasi melodiche e non permetteva di utilizzare un suono molto forte. Riusciva a
produrre suoni nel forte con morbidezza ma allo stesso tempo con brillantezza e,
quando necessario, con potenza. È stato da lui che sentii parlare per la prima volta di
articolazione del suono, in cui invece di una sillaba composta da due lettere “ta”, “tu”
e “ti”, devono essere pronunciate tre lettere: “tva”. Questo è un punto di fondamentale
importanza nell’estetica della pronuncia del suono, che distingue un maestro da un
dilettante. Lo adottai immediatamente e mi rimase impresso per sempre. Ogni volta
che incontro i miei colleghi cerco di trasmettere e spiegare loro la differenza tra queste
tecniche. Lavoravamo contemporaneamente su studi e brani da concerto. Alcuni
studenti li imparavano a memoria: per me questo non è mai stato un compito difficile.
Ho sempre suonato a memoria tutti gli studi pubblicati nel nostro Paese ed ancora oggi
li ricordo, anche se a volte li leggo dallo spartito.
Oggi c’è la tendenza a lavorare più sulla tecnica, lasciando da parte la musica vera e
propria. Mi dispiace per i giovani trombettisti che sono privati dello sviluppo del loro
lato musicale. Nessuno può essere incolpato: questo è il livello dei musicisti di ottoni.
Agli stessi insegnanti non è mai stato insegnato come integrare questo: è possibile dare
ai propri studenti solo ciò che un docente ha acquisito.

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Mikhail Innokentyevich Tabakov
(foto di cortesia di Leah Schuman)

A lezione con il Professor Mikhail Innokentyevich Tabakov


(1948-1949)

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Con mio figlio Sergey all’ingresso del Teatro Bolshoi (1981)

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Capitolo 5
La Scuola di Musica Centrale
Gli studenti di Tabakov si esibivano spesso in concerti, acquisendo capacità di
concentrazione, memoria e volontà sul palco. Iniziai a studiare con Tabakov all’età di
quattordici anni presso la Scuola di Musica Centrale (CMS) del Conservatorio di
Mosca. In quella scuola fui il primo allievo a studiare uno strumento a fiato e ciò
avvenne solo grazie a Tabakov. Mi portò in giro per gli uffici di alcune istituzioni e mi
fece suonare dimostrando loro che nel gruppo di bambini talentuosi (in precedenza la
CMS era chiamata Scuola Elementare Speciale per Allievi Talentuosi) non dovrebbero
esserci solo pianisti, violinisti e violoncellisti, ma anche musicisti di strumenti a fiato.
Poi, per la prima volta, anche il clarinettista Victor Petrov (un ex studente del
professor S. V. Rozanov, ora professore al Conservatorio di Mosca) venne ammesso
alla CMS.
I concerti degli studenti della CMS si tenevano più volte all’anno nella Sala Grande
del Conservatorio di Mosca. Erano spettacoli di giovani talenti. Tra i partecipanti al
concerto c’erano i pianisti Rosa Tamarkina, Arnold Kaplan e Tatyana Nikolayeva; i
violinisti Boris Goldstein, Leonid Kogan, Julian Sitkovetsky, Iosif Meister; i
violoncellisti Fedor Luzanov, Boris Reentovich, Yakov Slobodkin ed il giovane
Mstislav Rostropovich.
Tabakov mi includeva sempre in questi concerti. Sebbene fossi l’unico trombettista, il
mio nome veniva sempre inaspettatamente cancellato, con il pretesto di dover ridurre il
programma. Tabakov si scontrò violentemente con il direttore artistico della CMS, A.
B. Goldenweiser, in merito a questo argomento. Ben presto divenne chiaro il vero
motivo di quel conflitto: venivo escluso dai concerti a causa della scarsa qualità della
musica che stavo eseguendo. In quegli anni il repertorio concertistico per tromba si
limitava letteralmente ad una dozzina di titoli. In cinque anni di studio, gli studenti del
Conservatorio erano costretti ad eseguire sempre le stesse opere di Brandt, Bӧhme e
Merten e diversi arrangiamenti per tromba. Le Fantasie di Hoch, Fuchs, Tronier non
reggevano più a nessuna critica: tale musica non poteva essere usata nemmeno a scopo
didattico. Solo quando venne scritto il Concerto Studio di Goedicke ebbi la possibilità
di essere inserito più spesso nei programmi da concerto.
Molti anni dopo, quando ero già un’artista dell’Orchestra del Teatro Bolshoi e mi
esibivo in molti spettacoli, Alexander Borisovich Goldenweiser mi invitò a partecipare
alla registrazione del Settetto di Saint-Saёns. Oltre allo stesso Goldenweiser, gli altri
interpreti furono i musicisti del “Beethoven Quartet” (composto da D. Tsyganov, V.
Borisovsky, S. Shirinsky, V. Shirinsky) ed il contrabbassista I. Gertovich. Tutti loro
erano famosi musicisti e professori e per me, allora giovane, era un grande onore
suonare con loro. Qualche tempo dopo registrammo la Polka Italiana di Rachmaninov,
la sua seconda edizione scritta per due pianoforti e tromba. Il partner di Alexander
Borisovich era il suo allievo, il famoso pianista Grigory Romanovich Ginzburg.
Ricordo che durante quella sessione di registrazione ci fu un episodio alquanto
comico. Alexander Borisovich allora aveva già quasi ottant’anni e a volte la sua
memoria gli veniva a mancare. Sembrava dimenticare le cose, poi se le ricordava.
Durante la registrazione gli sfuggì qualche imprecisione dovuta alla memoria. Il

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tecnico del suono G. N. Dudkevich, cercando di non disturbare ancora una volta
Goldenweiser, si rivolse a Ginzburg:
“Grigory Romanovich, penso che nel tuo numero 3... ci sia qualcosa, in qualche
modo... sbagliata. Ricominciamo.” Ricominciammo e ci fermammo di nuovo, ed
ancora una volta Dudkevich si rivolse a Ginzburg, ma quando Goldenweiser commise
lo stesso errore per la terza volta e Dudkevich interruppe la registrazione dicendo:
“Stop!”, Alexander Goldenweiser disse a Ginzburg piuttosto alterato: “Grisha, perché
sei così distratto? Rimettiti in sesto! ...” Nonostante ciò, tutto finì con molto successo.
Quella registrazione della Polka Italiana di Rachmaninov fu inclusa nel “Fondo D’Oro
per le Trasmissioni Radiofoniche” e può essere ascoltata ancora oggi.
Tornando al rapporto tra il mio professore Tabakov e Goldenweiser, posso dire che
non c’era nulla di personale nella loro “guerra”. In effetti, attraverso il suo
atteggiamento critico, Goldenweiser fece riflettere i trombettisti sul loro repertorio e
considerare di andare oltre ed aggiornarlo. Anch’io la penso nello stesso modo: penso
che l’esecutore debba essere il “filtro” capace di mettere da parte la cattiva musica
coltivando quella buona. Quando M. I. Tabakov morì, vidi Alexander Borisovich
Goldenweiser alla sua cerimonia commemorativa nella Sala Piccola del Conservatorio
di Mosca. Era in piedi, davanti alla sua bara, con la testa china...
Esistono oggi dozzine di brani da concerto per tromba, scritti da compositori moderni
(russi e stranieri) che, nel loro contenuto artistico, non sono assolutamente da meno
rispetto alla musica scritta per pianoforte, violino o altri strumenti. Come ulteriore
prova basti citare i nomi dei nostri compositori come A. Goedicke, S. Vasilenko, A.
Arutiunian, A. Pakhmutova, M. Weinberg, E. Tamberg, N. Rakov, A. Nesterov, V.
Agafonnikov, V. Peskin, A. Krasotov, V. Schelokov, B. Trotsyuk e molti altri.

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Capitolo 6
Alla ricerca del repertorio
Sin da quando ero ancora giovane, iniziai a prendere contatti con numerosi
compositori. Mentre studiavo alla CMS, lavoravo anche nell’Orchestra Balalaika del
CBRA (successivamente venne chiamato Edificio Centrale dell’Esercito Sovietico).
Questo gruppo era un ensemble di canto e danza formato da cantanti solisti, un gruppo
di ballo e attori-narratori. La sua base non era un coro, come l’“Alexandrov
Ensemble”, ma strumenti popolari a fiato e percussioni. I suoi creatori furono il regista
Felix Nikolaevich Danilovich ed il famoso musicista populista e direttore d’orchestra
Pyotr Ivanovich Alekseev. Da giovane viaggiai molto in tutto il Paese con questa
orchestra. Facemmo spesso tournée in Bielorussia, Leningrado, nella regione del
Volga, Transcaucasia, Ucraina e persino in Mongolia, durante una grande battaglia
contro i Giapponesi sul Fiume Khalkhin-Gol.
In quell’orchestra incontrai il pianista Vladimir Ananyevich Peskin. Con il passare
degli anni quell’incontro ebbe un enorme impatto non solo sullo sviluppo delle mie
capacità esecutive, ma anche sulla stesura di una serie di opere significative per
tromba.
L’orchestra aveva l’abitudine di offrire concerti di patrocinio gratuito a singoli solisti.
Di solito si svolgevano in piccole sale, dove era impossibile trovare posto per tutti i
musicisti, pertanto solisti, cantanti, lettori e ballerini avevano brani di concerti
appositamente preparati per tali spettacoli. Tutti loro, me compreso, eravamo
accompagnati da Vladimir Ananyevich Peskin. Compose per me diversi arrangiamenti
di brani classici, inclusi romanzi: As Laura’s Spirit di Listz e Spring Waters di S.
Rachmaninov. Questi concerti diventarono per me una meravigliosa esperienza
concertistica e crearono un terreno eccellente per lo sviluppo della creatività
compositiva di Vladimir Peskin. Peskin studiò al Conservatorio di Mosca nella classe
del professor S. E. Fainberg, ma sforzò così tanto le mani che non riuscì a completare
gli studi. Tuttavia, la sua malattia professionale non gli impedì di proseguire con
successo la sua carriera concertistica di pianista accompagnatore ed insegnante. Ebbe
la necessità di lavorare: la sua famiglia venne distrutta, suo padre fu sottoposto a
repressione, sua madre fu esiliata nelle steppe del Kazakistan e suo fratello minore
frequentava ancora la scuola. Peskin era il capofamiglia.
Quando era ancora uno studente, Vladimir Ananyevich studiava composizione. Mi
piacquero molto i suoi dodici preludi per pianoforte. Compose principalmente musica
vocale, spesso basata sulle sue stesse opere. La sua prima interprete fu sua madre,
Vera Isaevna, un meraviglioso soprano leggero.
La prima composizione per tromba di Peskin fu il virtuosistico Scherzo. Fu scritto
senza alcuna considerazione per la natura dello strumento, ma fu proprio questo che gli
permise di creare musica di inaudita freschezza e complessità tecnica che, a quel
tempo, era del tutto inusuale per la tromba.
Quando Vladimir Ananyevich mi mostrò la sua musica rimasi perplesso. Era qualcosa
di spaventoso e allo stesso tempo attraente. Dapprima non osai intraprendere lo studio
dello Scherzo perché non lo immaginavo adatto alla tromba. Tuttavia, gradualmente,
provando a suonarlo, mi piacque sempre più: a questo punto mi resi conto che la mia
tecnica non era sufficientemente sviluppata. Così finalmente qualcosa cominciò a
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funzionare. Vladimir Ananyevich riscrisse solo alcuni passaggi che erano del tutto
irrealizzabili e non erano conformi alla natura dello strumento. Molto presto
iniziammo ad inserire lo Scherzo nei programmi dei concerti dei nostri mecenati. Ora
riuscivo a suonarlo liberamente e con piacere. Alla fine decidemmo di mostrare lo
Scherzo a Mikhail Innokentyevich Tabakov. Rimase sbalordito dal lavoro, il mio
lavoro, e disse letteralmente quanto segue: “Se questo fosse stato ascoltato cento anni
fa, allora tu, come Paganini, saresti stato dichiarato il diavolo”. Era l’anno 1937.
Quarantacinque anni dopo la stesura dello Scherzo di Peskin, lo registrai con
un’orchestra d’ottoni diretta da Nikolai Mikhailovich Mikhailov, il capo direttore
militare dell’Esercito Sovietico. Questo pezzo non perse mai la sua freschezza ed
anche adesso non tutti i virtuosi si impegnano ad eseguirlo.
Più tardi Peskin scrisse un’altra Poem, anch’essa in una chiave del tutto insolita per la
tromba, con arpeggi e passaggi quasi simili a quelli per flauto nella parte centrale. Ora
è possibile ascoltare Poem N. 1 nel programma del mio ultimo CD. Lo stesso brano
venne incluso nel secondo round della mia esibizione alla All-Union Competition nel
1941.
Venne poi il momento del Concerto in Tre Movimenti in Do minore, che inizia con il
La basso. Questo piccolo dettaglio dimostra che il compositore si interessava solo alla
musica e non a ciò che conveniva all’esecutore. Dal punto di vista musicale questa
nota non solo è giustificata, ma è il nucleo del tema principale, che si ripete tre volte
nel primo movimento. Quindi l’esecutore non ha altra scelta se non quella di ottenere
un buon registro grave (se ovviamente si ha voglia di eseguire il Concerto). Se la
musica, a sua volta, stimola anche lo sviluppo delle capacità, allora la sua importanza
aumenta. A proposito, anche la cadenza di questo Concerto è una parola nuova nella
nostra letteratura trombettistica.
Peskin scrisse anche alcuni pezzi brevi per tromba: Poem N. 2, Concerto Allegro, che
divenne molto popolare, Concerto N. 3, variazioni, così come Concerti per corno e
clarinetto ed una serie di altri piccoli brani. Lo stile compositivo di Peskin è molto
vicino alla musica dei romantici. A mio avviso, lui è un moderno Mendelssohn. Il suo
contributo al repertorio trombettistico è inestimabile, soprattutto per quei tempi
“affamati” in cui abbandonavamo la musica amatoriale dei trombettisti del passato che
scrivevano per loro stessi: il nuovo aveva appena iniziato ad affacciarsi. Solo
Alexander Fyodorovich Goedicke era davanti a Peskin, in quanto gettò le basi
classiche del repertorio moderno per tromba con il suo brillante Concerto, e
Vjacheslav Ivanovich Schelokov con il suo Concerto N. 1 e l’Etude N. 1. Mentre mi
esibivo con Vladimir Ananyevich, suonavo anche molta musica “non per tromba”,
soprattutto musica vocale. Suonavo, estrapolando la melodia dalla parte per
clavicembalo, le romanze di Čajkovskij, Rachmaninov, canzoni di Schubert,
Mendelssohn e preludi di Scriabin. Non solo suonavo romanze alla tromba, ma
provavo anche a cantare con la mia voce sbiadita e opaca che, durante il mio tentativo
fallito di entrare nel dipartimento di direzione corale del Conservatorio di Mosca,
venne professionalmente definita da secondo tenore (sono successe anche cose del
genere nella mia vita!).
Questi tipi di studi erano in qualche modo fuori dal programma di studi di un musicista
di strumento d’ottone, ma ero convinto dei benefici che apportavano alla mia

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esperienza per lo sviluppo dell’erudizione musicale e della formazione degli istinti
interpretativi.
Vladimir Ananyevich non fu il mio maestro, ma la nostra collaborazione ci arricchì
reciprocamente, ispirando nuove tecniche creative.
Dall’autunno del 1939, dopo essermi diplomato alla CMS, dovevo continuare i miei
studi al Conservatorio di Mosca ma non ebbi il tempo di iniziare l’anno accademico
perché ero in tournée in Mongolia con l’Orchestra Balalaika. Ogni giorno si tenevano
concerti. Ci fu la sanguinosa guerra contro i giapponesi. Una volta, mentre eravamo
nella nuda steppa, anche il nostro gruppo venne preso di mira dai loro aerei. Le
condizioni di lavoro erano molto difficili: soffrivamo molto per le zanzare. I
giapponesi si proteggevano con cilindri di rete, coprendosi dalla testa fino alle spalle,
ma noi non avevamo nulla. Eppure, le nostre truppe, sotto il comando di Georgy
Konstantinovich Zhukov, vinsero.
Quando tornai a casa, l’anno accademico al Conservatorio era già iniziato. Per non
perdere tempo, però, Tabakov mi ammise nella sua classe di tromba presso l’Istituto
“Gnessin”, dove studiai fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

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Nello studio di registrazione del Settetto Saint-Saёns (Mosca 1952).
Da sinistra a destra - sotto: il tecnico del suono G. Dudkevich,
il professor A. Goldenweiser, D. Tsyganov e I. Gertovich.
Sopra: V. Shirinsky, S. Shirinsky, V. Borisovsky e T. Dokshizer

Con la mia tromba (1962)

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Capitolo 7
Alla All-Union Competition
Nel febbraio del 1941 si tenne a Mosca la All-Union Competition per musicisti di
strumenti a fiato. Tabakov decise di presentare al concorso cinque dei suoi studenti: A.
Avgustenchik, V. Evseev, A. Mesnayan, G. Orvyd e me. Ero il partecipante più
giovane: all’epoca avevo diciannove anni.
Poiché il brano Poem di Peskin era incluso nel mio programma di concorso
(ovviamente con il consenso del mio professore), chiesi a Tabakov di permettermi di
suonarla al concorso con l’autore e non con la pianista accompagnatrice della nostra
classe, Maria Isaakovna Fishbein, un’ottima pianista. Mikhail Innokentyevich era
d’accordo, ma quando solo io ed Orvyd arrivammo alla seconda fase del concorso e
Orvyd, già docente al Conservatorio, suonò con il proprio accompagnatore, si scoprì
che il compito di Maria Isaakovna era ormai terminato. Maria Isaakovna espresse il
suo dispiacere e la sua irritazione che trasmise a Tabakov, ma ormai non c’era niente e
nessuno che poteva risolvere questa situazione. Nella seconda prova avrei dovuto
suonare Poem di Peskin e Maria Isaakovna non aveva nemmeno mai ascoltato quel
brano. E non era nell’interesse di Tabakov deludermi.
Nella fase finale del concorso, tuttavia, si verificò un conflitto che portò ad una
completa rottura dei rapporti tra Tabakov e Peskin. Questo è quello che successe: al
concerto dei vincitori che si svolse nella Sala “Čajkovskij” c’era un tempo limite di 4-
5 minuti per potersi esibire. Naturalmente, Poem di Peskin soddisfaceva tutti i
requisiti, sia in termini di durata che per il suo contenuto. Maria Isaakovna insistette
per esibirsi con me in quel concerto, il che significò scegliere un altro brano. Tabakov
mi consigliò di suonare la versione abbreviata del Concerto in Fa minore di Brandt.
Nessuno aveva mai suonato quel brano con le riduzioni. L’assurdità di questa idea
poteva ripercuotersi molto negativamente su di me, in quanto poteva essere
considerato un punto debole per il neo-vincitore, che al concerto finale suona una
versione abbreviata di una composizione ben nota. Non so come osai oppormi a
Tabakov (lo idolatravo, era il mio idolo e giudice supremo), ma quella volta mi rifiutai
di partecipare al concerto.
Seguirono tre giorni di silenzio. Non andai a trovare Tabakov e non lo chiamai
(eravamo autorizzati a chiamarlo solo in situazioni di emergenza). Non riuscivo a
trovare la forza di farlo. In quei tre giorni mi dissociai completamente dalla musica e
smisi di esercitarmi. Non riuscivo a trovare alcuna via d’uscita da quella situazione e
sapevo che non ci sarebbe stato alcun compromesso da parte di Tabakov.
All’improvviso, il giorno del concerto accadde qualcosa di inaudito: Tabakov mi
chiamò! Questa fu una concessione senza precedenti da parte di un professore al suo
allievo e di questo me ne vergogno ancora adesso. La dichiarazione di Mikhail
Innokentyevich fu breve: “Oggi puoi suonare quello che vuoi”. Ma era troppo tardi.
Non toccavo lo strumento da tre giorni e pensavo fosse impossibile salire sul palco in
uno stato simile.
Nonostante abbia riscosso successo al concorso, la mia gioia era stata offuscata. Il
concorso era stato molto difficile. Furono assegnati i premi ma non come si fa oggi,
dove vengono consegnati tre premi e due diplomi, ma venivano consegnati soltanto
due premi comuni a tutti i vincitori. Di conseguenza, i trombettisti non ricevettero né il
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primo né il secondo premio, ma tre terzi premi ex equo: Orvyd, Volovnik (di
Leningrado) ed io. Il diploma fu invece assegnato al trombettista di Kiev,
Samokhvalov.
A quel tempo c’erano solo due trombettisti vincitori di questo concorso nel nostro
Paese: N. Polonsky e S. Eremin. Questo titolo era molto apprezzato: implicava un
grande senso di responsabilità, ma allo stesso tempo forniva un’opportunità per
mettersi alla prova sul palco da concerto. Era un titolo di riconoscimento del più alto
grado di maestria e questo, acquisito nella prima fase della mia attività concertistica, fu
di fondamentale importanza, in quanto mi aiutò molto.

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Capitolo 8
La guerra
Erano passati solo sei mesi dalla fine del concorso e mi arruolai nell’esercito. Iniziò la
Seconda Guerra Mondiale e con essa iniziai il mio servizio militare presso l’Orchestra
Esemplare del Quartier Generale del Distretto Militare di Mosca. Questo era il mio
terzo servizio militare (il primo come allievo e il secondo come musicista civile
nell’Orchestra Balalaika del CBRA - Edificio Centrale dell’Armata Rossa, dal
novembre 1936 al novembre 1939).
L’Orchestra del Quartier Generale del Distretto Militare di Mosca era composta
principalmente da musicisti professionisti. I musicisti di quell’orchestra formarono
un’orchestra jazz, diretta dall’eccezionale musicista Viktor Nikolayevich
Knushevitsky, il fondatore della prima “State Variety Orchestra” nel nostro Paese.
Forse mai prima d’ora musicisti di così alto livello avevano suonato in orchestre
militari durante la guerra. Tutti gli artisti di orchestre professionali, dai giovani agli
uomini dai capelli grigi, prestarono servizio nell’esercito. E in inverno suonare uno
strumento a fiato è particolarmente difficile, soprattutto quando devi suonare per strada
con uno strumento ed un bocchino ghiacciati. Ma questo non importava durante la
guerra, la nostra giornata lavorativa durava ore. È chiaro che, oltre a suonare,
dovevamo pattugliare e sorvegliare la città principale, Mosca, divenuta tale a metà
ottobre del 1941 e che continuò ad esserlo ancora per qualche tempo. I tedeschi
bombardavano la città ogni notte. Noi, armati di fucili, eravamo in servizio sui tetti
delle case, in luoghi affollati, nei rifugi antiaerei e nelle stazioni della metropolitana.
Alcuni portavano con sé i propri strumenti musicali.
Il nostro lavoro professionale iniziava regolarmente la mattina presto. Fino a dicembre
fu piuttosto deprimente, fatta eccezione l’inaspettata parata del 7 novembre sulla
Piazza Rossa in occasione del 24° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Questa
parata venne organizzata senza preavviso. Venimmo svegliati alle cinque del mattino
con l’ordine di presentarci sulla Piazza Rossa alle sette. Oltre alla nostra orchestra, che
contava cinquanta persone, c’erano altre orchestre dei reggimenti del NKVD
(Commissariato Popolare per gli Affari Interni durante il periodo Sovietico): il numero
totale di musicisti era di circa centocinquanta. Il direttore di quella piccola orchestra
era V. Agapkin, il compositore della popolare marcia intitolata Addio degli Slavi.
Al corteo parteciparono diverse unità in fase di organizzazione. Non c’era niente di
cerimoniale nella loro marcia lungo la Piazza Rossa. Stanchi, non potevano sapere che
prima di dirigersi alle postazioni di combattimento della capitale assediata dai
tedeschi, avrebbero dovuto prima marciare lungo la Piazza Rossa. La sfilata iniziò alle
8:00 (le sfilate iniziavano di solito alle 10:00). La nebbia mattutina, le nuvole molto
basse, la bufera di neve ed il gelo resero il cielo inadatto al volo: grazie a questo ci
furono solo scarse possibilità di un raid aereo tedesco.
Dal podio del Mausoleo si udirono le parole del discorso di I. Stalin che risuonarono
come predizioni profetiche: “Un altro semestre, un anno al massimo e la Germania
fascista scoppierà sotto il peso dei suoi crimini”. Il vero significato di quelle parole
non sembrava reale in quel momento. Questo discorso aveva piuttosto l’aria di
risollevare lo spirito delle persone, ma un mese dopo le nostre truppe inflissero un

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duro colpo al nemico, il primo dall’inizio della guerra, così da allontanarlo da Mosca.
La gente, ispirata da quella vittoria, sentì il bisogno di un po’ di musica.
I suoni della nostra orchestra, l’unica orchestra militare esemplare rimasta a Mosca, si
potevano udire nelle stazioni ferroviarie della città e nei moli fluviali, da dove le unità
vennero inviate al fronte, luoghi dove sbarcarono anche profughi e sfollati delle
regioni occupate.
Molte persone, a volte anche gli stessi musicisti, non riconobbero il valore ed il ruolo
della musica durante la guerra, sia nelle sanguinose battaglie sui fronti che nelle
retrovie. Bisognava prestare attenzione ai volti di chi aveva lasciato tutto per andare
verso una destinazione sconosciuta: anziani, donne e bambini che avevano lasciato le
loro case, erano così sfiduciati che al suono dell’orchestra di ottoni sembrò che la loro
vita fosse finita. All’udire la musica la gente piangeva, si abbracciava e gridava:
“Musica! Questo significa vita, significa che non tutto è finito e che la vittoria è
vicina!” Era un’espressione di disperazione mista ad un senso di speranza, un ritorno
alla vita. Osservando questo, era impossibile suonare: stavamo soffocando dalle
lacrime e avevamo difficoltà a respirare... Quei momenti sono indimenticabili.
Tuttavia, per quanto strano possa sembrare, né le difficoltà e le punizioni del servizio
militare, né l’ansia e lo stress della vita militare quotidiana avvelenarono le nostre vite
come fece il nostro capo e direttore d’orchestra, Lev Georgievich Juryev (fratello
dell’eccezionale trombettista Leonid Georgievich Juryev). Non solo era un musicista e
direttore d’orchestra incompetente, il che era particolarmente evidente paragonato
all’alto livello della maggior parte dei membri dell’orchestra, ma era anche una
persona estremamente sgradevole. Non c’erano autorità superiori a lui: non tollerava
giudizi seppur competenti e non ascoltava l’opinione di nessuno. Le persone per lui
erano meccanismi, automi, progettati solo per eseguire silenziosamente qualsiasi
ordine. Questi ordini a volte erano ridicoli fino all’idiozia.
Ad esempio, durante una prova poteva comandare: “Alzati! Romeo e Giulietta... sul
posto, passo... marcia!” e noi suonavamo un episodio allegro dall’overture-fantasy di
Čajkovskij a ritmo di marcia. Quello fu il metodo “artistico” del nostro direttore e capo
nel lavorare con l’orchestra.
Si divertiva molto nell’abusare del proprio potere. Ad esempio, per aver notato che sul
mio leggio mancava uno spartito, annunciò: “Tre giorni di guardia se tra un attimo la
parte non è al suo posto!” I miei amici andarono a cercare la parte, anche se questa
doveva essere una preoccupazione del bibliotecario. Juryev ci parlava con ferocia: la
sua bocca era contorta e bavosa, come quella di un cane rabbioso.
Alcune delle sue buffonate rasentavano il sadismo. Dopo un bombardamento notturno
a Mosca, di solito i parenti si preoccupavano e chiamavano l’orchestra per chiedere dei
loro parenti e amici. Una volta dopo una notte così difficile, che spesso trascorrevamo
sui tetti, una donna chiamò per chiedere informazioni sulla salute di suo figlio. Juryev,
irritato dalle telefonate, le rispose: “È stato ucciso”.
Era il suo patetico “scherzo” ed ogni giorno si permetteva di insultare ed umiliare le
persone in vari modi. Il generale Chernetsky definì il lavoro di Juryev in orchestra un
“battaglione penale”.
Non solo: il nostro comandante era anche un codardo. Nell’ottobre del 1941, durante il
trasferimento dell’orchestra a Gorky, il nostro treno venne attaccato da aerei tedeschi.
Scattò l’allarme. Saltammo fuori dalle carrozze, armati di vecchi fucili (modello,

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credo, del 1897) e cominciammo a sparare agli aerei in picchiata. Per loro, il nostro
attacco fu come una pallottola su un elefante. Juryev intanto si nascose nella carrozza
gridando: “Copritemi!”
Certo, era difficile sopportare una situazione del genere: nell’orchestra cresceva
l’insoddisfazione per la tirannia del capo, ma in tempo di guerra una leggera
disobbedienza era considerata come ribellione, violazione dello statuto e del
giuramento. Infine, un gruppo di musicisti presentò un rapporto con la richiesta di
essere inviati all’esercito attivo.
Un generale dell’amministrazione politica del Quartier Generale del Distretto Militare
di Mosca fu inviato per capire la situazione. In una riunione di squadra dissero in
faccia a Juryev: “Se ci troveremo davanti, spareremo il primo proiettile a Juryev!”
Queste cose potevano essere dette solo da persone spinte alla disperazione. Sembrava
che dopo l’incontro non avremmo mai più rivisto Juryev nell’orchestra. Tuttavia, la
decisione fu esattamente l’opposto. Non ci permisero di offendere “il loro uomo” e la
maggior parte delle persone migliori e coraggiose dell’orchestra fu inviata al fronte.
Tra loro ci furono il già citato Victor Knushevitsky; l’oboista Konstantin Shvechkov
(dopo la guerra divenne impiegato responsabile di Vneshtorg); Kirill Nikonchuk,
anche lui oboista (dopo la guerra divenne professore al Conservatorio di Leningrado);
il tubista Vladimir Kalenda (dopo la guerra lavorò nell’Orchestra Filarmonica
Regionale di Mosca); e molti altri. Ahimè! Alcuni non tornarono più.
Fu così ristabilito “l’onore della divisa” e ripristinato “l’ordine” nell’orchestra. Juryev
fu presto rimosso dalla squadra. Al suo posto venne nominato G. Zaporozhets, una
persona esigente ma anche piuttosto normale. Krutov (al posto di Panfilov) venne
nominato ispettore dell’orchestra del Distretto Militare di Mosca, cioè il nostro
direttore artistico che in seguito morì tragicamente in un bizzarro incidente: aprì la
portiera dell’auto mentre guidava attraversando un tumulo di neve; la portiera si chiuse
di colpo... e lo uccise.
Ad ogni modo, la nostra squadra era molto amichevole: i giovani trattavano i più
grandi con molto rispetto. Padri e figli lavoravano uno accanto all’altro. Tra gli anziani
avevamo un virtuoso clarinettista, Alexey Tikhonovich Ignatenko. Indossava un pince-
nez. Prima della guerra lavorava nell’orchestra di V. Knushevitsky e si esibiva in
modo fantastico al clarinetto sulle Danze Moldave. Lo chiamavamo affettuosamente
Lyulya. Era sempre di buon umore, spiritoso e divertiva tutti.
Una volta mi rivolsi ai ragazzi con la richiesta di aiutare il compositore V. Peskin a
restituirgli il pianoforte che era stato portato fuori dal suo appartamento da un ex
studente, il cantante Sasha Konev, al quale Peskin, in partenza per l’evacuazione gli
affidò le chiavi. Fortunatamente Konev non regalò lo strumento a nessuno ma lo
nascose in casa. La mia richiesta venne prontamente accolta e Lyulya, con il suo
pince-nez, era con noi.
Una mattina, nelle prime ore del giorno, una decina di persone su un camion (non
ricordo dove prendemmo il camion) si prepararono per andare a prendere quel
pianoforte. Si unì a noi un’undicesima persona, Vladimir Antushevsky, cornista
bravissimo della Filarmonica di Dnepropetrovsk: stava tornando in caserma. Il
dodicesimo fu Alik Shvindlerman, il nostro flautista solista.
Alle 8 del mattino, un gruppo di uomini armati entrò energicamente nell’appartamento
di Konev. Il proprietario non ebbe nemmeno il tempo di vestirsi. “Siamo venuti per il

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pianoforte di Peskin.” Colto alla sprovvista disse solo: “Ecco lo strumento.” Senza dire
una parola, sollevammo il pianoforte con le mani, lo trascinammo giù per le scale e poi
issammo “Peskina” al secondo piano del famoso edificio moscovita dell’ex compagnia
russa di assicurazioni, in Sretensky Boulevard.
In realtà, avevamo avuto già esperienze di carica e scarica. Successe il 17 ottobre
1941, quando i tedeschi fecero irruzione a Mosca. Il Quartier Generale del Distretto
Militare di Mosca fu fatto evacuare con urgenza e noi fummo costretti a caricare le
casseforti non più leggere del gran coda di Peskin.
Il legame e l’amicizia instaurata nei tempi di guerra tra i musicisti dell’Orchestra del
Distretto Militare di Mosca vennero preservati per molti anni.
È interessante notare che, dopo la guerra, incontrammo molto spesso Juryev. Veniva
spesso alla Casa Centrale degli Artisti per partecipare alle riunioni dell’associazione
dei musicisti di strumenti a fiato, che organizzavo io. Si comportava in modo
abbastanza dignitoso, da pari tra pari, amichevole e sorridente. Dov’erano finite le sue
labbra malvagiamente contorte? Parlando con lui, ho pensato spesso a come le diverse
circostanze a volte possono trasformare una persona: persone come Juryev sono
caratterizzate dalla capacità di adattarsi all’ambiente che li circonda. E queste persone
hanno creato la nostra storia - come se, mentre si prendevano cura del bene, portassero
il male agli altri...
Con l’avvento del nuovo anno, il 1942, il lavoro diventò un po’ più divertente. I
tedeschi vennero cacciati da Mosca. Per questa occasione suonammo alle cerimonie
organizzate negli aeroporti, in onore dei nostri eroi-piloti ed anche nelle foreste e nelle
città liberate, dove ci fermammo per la riorganizzazione delle unità, per la cerimonia
di presentazione degli Stendardi delle Guardie. Andammo a suonare anche nella città
liberata, ma completamente distrutta, di Kalinin (oggi Tver) per risollevare lo spirito
della gente che tornava dalle foreste. Per noi musicisti invece ci fu il freddo gelido del
feroce inverno del 1941-1942, viaggiando sul retro di camion scoperti.
Certo, è difficile parlare della professionalità di un musicista o di una qualsiasi attività
da svolgere in modo serio durante il servizio militare. Andava bene se si aveva appena
il tempo di riscaldare il bocchino e lo strumento prima di suonare. Questo regime di
spreco delle nostre risorse performative, senza alcuna possibilità di ripristinarle, portò
ad un inevitabile abbassamento del livello prestazionale, ad una certa ruvidezza delle
labbra ed alla perdita della sensibilità dei muscoli labiali. Di conseguenza, la
leggerezza del suono andò persa, così come molte altre qualità.
Per ripristinarle, erano necessarie lezioni regolari e, naturalmente, un corpo riposato.
Non avevamo né l’uno né l’altro.
Ricercando un metodo salvavita per ripristinare le labbra, le persone si precipitarono
verso qualcosa di sensazionale. C’erano storie, nate nelle orchestre dell’esercito, che
“qualcuno una volta sapeva come farlo, grazie al sistema...”. Iniziò così qualcosa
simile ad un’epidemia. Tutti si “ammalarono” di un nuovo sistema. Ci imbattemmo
anche in questo.
Sentii parlare di un modo di suonare senza pressione e risi quando vidi come i
trombettisti cercavano di produrre note acute (fino al Do terza ottava) senza toccare lo
strumento, poggiato sul coperchio scivoloso di un pianoforte. Non c’è modo di suonare
senza pressione! C’è un modo leggero di suonare, ma per produrre qualsiasi suono,
acuto o grave, è necessario un certo grado di tensione muscolare di tutto il viso,

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soprattutto delle labbra, della lingua e dell’apparato respiratorio. Ancora oggi alcuni
studenti cercano di usare questo sistema, perdendo solo tempo, e soprattutto, non è
sempre possibile riportare la “vittima” ad un livello normale.
Non fui catturato da questo, ma da un altro sistema di pratica quotidiana di Scherbinin.
Vladimir Arnoldovich fu un musicista molto influente, che formò molti trombonisti
esperti. Aveva un sistema per esercitarsi e suonare il trombone chiamato “Standards”,
caratterizzato da “ruote” o “anelli” (non ricordo il nome esatto). Questo sistema
richiedeva molte ore di pratica quotidiana, progettato per irrobustire le labbra e
sviluppare i registri, ma non tutti i trombonisti potevano sopportarlo: molti ne
soffrivano. Si tentò quindi senza successo di insegnare gli “Standards” ai trombettisti,
ma io credevo nel potere salvifico di questo sistema.
Lo svolgimento di questo esercizio era il seguente: iniziare dalla nota più bassa (fa
diesis ottava bassa) e salire di una quinta attraverso la scala cromatica, lentamente, con
un legato e nel piano. Poi senza togliere il bocchino dalle labbra, bisognava scendere e
ricominciare a salire, aggiungendo un altro semitono o “anello” all’ultima nota acuta.
Con ogni nuovo “anello” bisognava quindi sforzarsi di ingrandire la “ruota” fino a due
ottave e mezzo/tre e poi tornare indietro usando la stessa tecnica.
Questo esercizio richiedeva ore di lavoro. Ora capisco che non si potevano
immaginare sciocchezze e barbarie più grandi di questo, ma in quel momento iniziai
anch’io a “ruotare”. Dopo una sola settimana non ero più in grado di produrre alcun
suono – acuto o grave o intermedio, nel forte o nel piano. Disperato, mi precipitai da
Vladimir Arnoldovich, con il quale ero amico da molti anni. Mi disse: “Vieni! Ti
aiuterò io. E smettila di suonare queste cose” (intendeva le sue “ruote”).
Non toccai lo strumento per circa un mese e ci volle più di un altro mese per
avvicinarmi gradualmente alla mia forma con il mio solito metodo. Oggi esistono
molti sistemi simili a questo che pubblicizzano lo sviluppo di superpoteri per suonare
la tromba. Riflettono principalmente le qualità soggettive dei loro autori e sono
destinati a coloro che cercano la via più semplice. Ma il fatto è che non esiste un modo
semplice per suonare la tromba. Basare i propri studi su questi sistemi è assolutamente
pericoloso ed irto di risultati negativi e inaspettati. Solo alcune pagine e pensieri tratti
da questi metodi potrebbero essere provati, ma solo individualmente.
Il mio terzo servizio militare durò fino a dopo la fine della guerra, fino alla “Parata
della Vittoria” il 24 luglio 1945. Durante gli anni del mio servizio, raggiunsi il grado
di sergente maggiore. Mentre ero ancora nell’esercito, vinsi l’audizione per l’Orchestra
del Teatro Bolshoi e nel dicembre 1945 iniziai a lavorare nell’illustre orchestra, ruolo
che mantenni per quasi quarant’anni.
La guerra produsse un tragico risultato per la mia famiglia: la morte dei miei due
fratelli minori, Lev e Abrasha (abbreviazione di Abraham). Lev, nato nel 1923, si
arruolò come volontario. Non aveva nemmeno diciott’anni. Tre mesi dopo, con il
grado di tenente, fu inviato al fronte in Bielorussia ed in qualche zona vicino
Smolensk: la loro unità venne circondata dai tedeschi. Fortunatamente mio fratello
riuscì ad uscirne lievemente ferito. Nel 1942, il loro esercito fu inviato a Orël, dove
presto ebbe luogo una feroce battaglia sull’Oryol-Kursk Bulge, dopo di che i tedeschi
si precipitarono a Stalingrado. Quando il treno su cui viaggiava il “leone” (Lev) si
fermò vicino Mosca, vicino la stazione di Butovo, riuscì a farmi sapere che potevamo
vederci. Mi precipitai subito ad andargli incontro per incontrarlo. Indossava l’uniforme

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da campo, il suo viso, ruvido per il gelo ed il vento, era completamente diverso: non
era più brillante, fanciullesco e sorridente come quando l’avevo visto solo sei mesi
prima. Ferito alla coscia, zoppicava, il suo volto era severo e preoccupato. Eravamo ai
margini della foresta, gli alberi e la ferrovia ci dividevano. Parlammo continuando a
guardare l’orologio. Non potevo permettergli di lasciarmi senza sapere il suo destino.
Ero pronto a nasconderlo, il mio bambino, il mio cuore.
Ma non poteva diventare nemmeno un disertore, anche se per legge doveva essere
arruolato nell’esercito l’anno successivo. Ci salutammo. Avevo il presentimento che
non l’avrei più rivisto, ma non gli feci notare le lacrime. Anche adesso piango,
descrivendo il nostro ultimo incontro. Durante la battaglia, Lev venne ucciso dal
proiettile di un cecchino che lo colpì dritto al cuore. Successe vicino a Orël. Il suo
amico dell’esercito ci inviò una tessera del Komsomol e le sue foto, trafitte da quel
proiettile diabolico. Lo seppellirono in una fossa comune anonima. Aveva solo
diciannove anni...
Mio fratello minore Abrasha, nato nel 1925, era un musicista di talento. Studiò anche
lui alla CMS con il professor M. I. Tabakov e si interessò alla composizione.
Frequentò le materie di educazione generale insieme a Leonid Kogan e Yuliy
Sitkovetsky. Nonostante la sua giovane età (aveva sedici anni), Abrasha iniziò a
suonare nell’Orchestra del Teatro Mossovet. Nell’autunno del 1941 fu fatto evacuare
nella regione dell’Asia Centrale con il suo insegnante (non ricordo precisamente dove,
se a Chimkent o Tashkent). Nel 1943, quando arrivò anche per lui il momento di
essere arruolato nell’esercito, chiesi al capo della nostra orchestra, G. Zaporozhets, di
portarlo da noi. Quando ricevetti il consenso, scrissi subito ad Abrasha e gli chiesi di
venire a Mosca. Ma cosa significa per un giovane in età militare percorrere mezzo
Paese da sud a nord durante la guerra? Mi inviò un telegramma da Chkalov (ora a
quanto pare Orenburg). Il telegramma diceva: “Devo scendere dal treno. Manda i
soldi”. Inviai tutti i soldi che avevo, ma non ricevetti nessuna risposta. Così chiesi al
mio amico violinista Samuil Keith, che era in viaggio d’affari a Chkalov, di informarsi
sulla sorte di mio fratello alla stazione, presso l’ufficio del comandante militare...
Poterono solo supporre che venne scambiato per un disertore che cercava di sfuggire al
servizio militare e che quindi venne mandato al fronte a prestare servizio in un
battaglione penale, come si faceva di solito, dove poi veniva ucciso immediatamente.
Abrasha non era idoneo al servizio militare: era miope e portava gli occhiali con lenti
molto particolari.
Tutti noi, specialmente mia madre, lo abbiamo aspettato per tutta la vita. Abbiamo
cercato e indagato negli archivi militari, ma ci veniva sempre detto: “È considerato
disperso”.
Abrasha suonava una tromba “Zimmerman”, di proprietà del Conservatorio. Dopo la
fine della guerra, quando il Conservatorio tornò da Saratov a Mosca, a mio padre, in
qualità di garante dello studente minorenne, fu chiesto di rimborsare il costo della
tromba del figlio perduto...

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Con i miei primi allievi dell’Istituto “Gnessin”.
Da sinistra: V. Stakhanov, V. Koptevsky, E. Nazarenko, T. Dokshizer, Y. Dunaev,
Y. Tamurov e la pianista accompagnatrice Ludmila Podshivaichenko

Trombettisti del Teatro Bolshoi (1946). Da sinistra a destra - 1° fila:


Yakov Gandel, Ivan Vasilevsky, Naum Polonsky, Vassily Ivanov;
2° fila - Alexander Balakhonov, Andrey Gandel, Timofei Dokshizer e
Konstantin Kurganov.

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Professionisti, insegnanti e concertisti del Dipartimento di Ottoni dell’Istituto Musico-Pedagogico “Gnessin” (1980)
I trombettisti del Teatro Bolshoi (1976):
A. Maksimenko, A. Balakhonov, A. Gandel, Y. Gandel,
I. Granitsky, T. Dokshizer e N. Polonsky

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Musicisti del Teatro Bolshoi: Sergey, Timofei e
(mio fratello) Vladimir Dokshizer

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Capitolo 9
La mia famiglia
Prima di entrare al Teatro Bolshoi, ho sposato una ragazza che conobbi un anno prima
dell’inizio della guerra. Anche Faina Semyonovna Khavkina era una studentessa
dell’istituto “Gnessin”. Aveva una meravigliosa voce da soprano leggero e prese parte
a diversi concerti amatoriali nella città di Kolchugino, nella regione dell’Ivanov. Da lì,
come promettente cantante, fu raccomandata alla scuola. Sin dall’inizio dei suoi studi,
gli insegnanti cercarono di “impostare” la sua voce e di cambiare la sua tecnica di
respirazione, a tal punto che perse tutta la fiducia in sé stessa, tanto da aver paura di
salire sul palco.
Con lo scoppio della guerra le lezioni vennero interrotte. Faina fu fatta rifugiare a
Gorky, mentre io rimasi a Mosca per continuare il mio servizio.
Ci separammo per più di tre anni, ma ci scrivevamo lettere quasi ogni giorno.
All’inizio del 1945, non appena Faina tornò a Mosca, diventammo marito e moglie.
Non avevamo però un alloggio, quindi vivevamo dai miei amici o con i miei genitori e
per un po’ affittammo un angolo in un appartamento condiviso. Quando la mia
posizione al Teatro Bolshoi divenne più stabile, ci fu assegnata una piccola stanza
nella Casa Teatro in Via Shchepkinsky, dietro al Teatro. Eravamo felici.
Il 4 settembre 1948 nacque nostro figlio Sergey, Fu il nostro unico figlio. Faina mi fu
sempre fedele, ma anche insolitamente ansiosa. Si laureò all’Istituto di lingue straniere
di Mosca, conosceva molto bene l’inglese. Lavorò in una scuola con molto successo,
ma la sua insicurezza continuò a dominarla: pensava sempre di essere un’insegnante
non qualificata. Si ammalò spesso a causa di due aborti spontanei e per questo dovette
lasciare il suo lavoro a scuola.
La famiglia di Faina sembrò maledetta, come se tutta la loro discendenza fosse
destinata all’estinzione. Suo padre morì giovane, suo fratello Yakov morì prima di
compiere cinquantanove anni. Suo figlio Boris morì all’età di quarant’anni. Faina morì
a quarantanove anni. La maledizione continuò a falciare la famiglia... Seppellimmo
l’urna con le ceneri di Faina nel Cimitero Crematorio di Mosca. Su una pietra di
granito di due metri venne realizzato un bassorilievo di un’immagine femminile con la
testa chinata. La scultrice che creò questa immagine fu la famosa artista ceramista
moscovita, Monna Yanovna Rachgus. Le preoccupazioni reciproche ed il lavoro svolto
insieme sulla lapide ci avvicinarono. Trascorremmo molti giorni presso la tomba
finché la scultura non fu terminata ed eretta la lapide. La conoscenza con questa artista
di talento si trasformò gradualmente in un legame sempre più intimo. Due anni dopo io
e Monna ci sposammo.
La mia famiglia continuò ad essere il mio principale sostegno e supporto. Mio figlio
Sergey ebbe una vita familiare molto felice. Sua moglie Irina diede alla luce una figlia,
di nome Anna. Genitori felici crebbero la loro amata figlia. Sergey adorava sua figlia,
e insieme trascorrevamo i mesi estivi a Portnovskaya, in una dacia in stile baltico
vicino Mosca, progettata da Monna Yanovna. Il nonno e la nonna passeggiavano e
coccolavano la loro nipote, che all’età di undici anni fu inaspettatamente destinata a
diventare orfana, e sua madre vedova... Successivamente Irina ed Annushka partirono
per l’America, dove ancora oggi vivono insieme a New York.

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La mia seconda moglie, Monna Yanovna, sebben di origini lituane, nacque e studiò in
Russia. Come me, fu educata ad essere un’artista secondo la cultura russa. Si laureò
all’Istituto di Arti Decorative e Applicate di Mosca e si specializzò nella ceramica.
Prima di allora sognava di diventare un’attrice, tanto che studiò per un anno nello
studio di Yura Zavadsky.
Mia moglie ed io diventammo legati anche nel campo artistico: le nostre professioni in
qualche modo influenzarono reciprocamente le nostre arti. Nelle ceramiche di Monna
apparivano soggetti musicali (si occupava di ceramiche artistiche, non domestiche):
Polifonia di Bach raffigurante elementi dell’organo, Violino Volante, temi per orologi
da camino e da parete creati sulle trame di La Dama di Picche, Carmen, Maria Stuart,
il Ritratto di Gogol, il trittico Ecologia in difesa della natura e molto altro ancora.
Nella mia musica le idee sulle immagini artistiche si espansero. Mi ispirai ai dipinti di
artisti dall’antichità al modernismo. Monna aveva un’ottima biblioteca di libri e album
d’arte, che ho studiato e nutrito spiritualmente nei venticinque anni della nostra vita
insieme.
Le mostre personali di ceramica di Monna Rachgus, membro dell’Unione degli Artisti
della Russia, conservate a Mosca e Vilnius, venivano accompagnate dal suono delle
mie registrazioni di musiche di Bach, Liszt, Chopin, Richard Strauss, Ravel, Debussy,
Čajkovskij e Rachmaninov... Monna è una persona molto erudita. Inoltre conosce bene
l’aspetto sociale della vita, della politica e dell’ecologia in Russia. Anche il destino del
“nemico del popolo” toccato a suo padre durante gli anni delle repressioni staliniste,
lasciò un’impronta nella sua percezione della nostra realtà.
Ormai sono molti anni che vivo con Monna tutti i momenti tristi e gioiosi della nostra
vita. Viaggiamo sempre insieme nei Paesi in cui ultimamente ho tenuto soprattutto
corsi di perfezionamento. Monna era con me a Rotterdam quando subii un complicato
intervento al cuore. E sei anni dopo, io ero con lei quando dovette subire un intervento
chirurgico. Tornai dall’America quattro giorni prima per riportarla a casa, dopo aver
suonato al Summit Brass. Purtroppo pochi giorni dopo ebbi un collasso improvviso e
mi ritrovai di nuovo nel reparto di cardiologia. Monna, seppur ancora molto debole, si
prese nuovamente cura di me.
Quindi, lontani dalla patria Russa, da soli, ci sostenemmo a vicenda e non perdemmo
un solo giorno della nostra vita. Siamo impegnati nel nostro lavoro artistico secondo le
nostre capacità. Ancora oggi trascorriamo la maggior parte nostro del tempo alla
scrivania e immersi nella natura: io scrivo o suono; Monna scrive, disegna o scolpisce.

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Mia sorella Zinaida

Mia moglie Faina Semyonovna

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Con mio figlio Sergey (1958)

I Dokshizer, padri e figli – dinastia di musicisti al Teatro Bolshoi.


Mio figlio Sergey, Timofei, il figlio di mio fratello Alexander e mio fratello

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Capitolo 10
Studiare all’Istituto Gnessin
Quando suonai il Concerto Allegro di Peskin alle audizioni del Teatro Bolshoi,
Tabakov non conosceva questo lavoro. Uno dei suoi colleghi (credo fosse Yan
Frantsevich Schubert, il fagottista del Teatro Bolshoi e insegnante presso l’Istituto
“Gnessin”, creato da Tabakov) si congratulò con Mikhail Innokentyevich per il
successo del suo allievo che al concorso al Teatro Bolshoi aveva suonato una nuova e
interessante composizione del compositore Peskin. Mikhail Innokentyevich,
ovviamente, apprezzò il mio successo, ma disse che si sentiva un po’ a disagio
(letteralmente suonava come “sono stato costretto solo a sbattere le palpebre”), non
sapendo di quale lavoro stesse parlando. Poi gli chiesi se avesse voglia di ascoltare il
Concerto Allegro. Esitò, ma rispose: “Va bene, vieni”.
Convinsi Vladimir Ananyevich ad andare in Conservatorio (Tabakov allora insegnava
al Conservatorio e all’Istituto) per accompagnarmi su quel brano che Tabakov non
conosceva. Aspettammo a lungo vicino la porta della stanza n. 26, dove insegnava
Tabakov, ma non ci ricevette. Questa volta mi sentii in forte imbarazzo di fronte a
Peskin e, insieme a lui mi sentii offeso. A quanto pare, l’incidente avvenuto al
concerto finale della All-Union Competition non era stato ancora dimenticato dal mio
professore. Dopo quest’evento e per quasi un anno non andai da Tabakov.
Fu difficile. Entrambi soffrimmo. Poi, ricordo, prese l’iniziativa il mio compagno Ilya
Granitsky. Nel 1944, con il primo ciclo di ammissioni, Ilya fu ammesso al nuovo
Istituto “Gnessin”, nella classe di Mikhail Innokentyevich Tabakov. Ilya sapeva di
questa situazione e, rendendosi conto che avevo bisogno di Tabakov e che potevo
essergli utile (durante la guerra, Tabakov fu fatto evacuare a Saratov. Su richiesta di
Elena Fabianovna Gnessina, insegnai ai suoi studenti che non lasciarono Mosca),
preparò gradualmente Tabakov per il mio arrivo. Nel giorno concordato, entrai
umilmente nella classe e mi sedetti vicino alla porta. Mikhail Innokentyevich si rivolse
a me come se nulla fosse successo e fissò un orario per le lezioni. In seguito
ricominciai a studiare nella sua classe, aiutandolo in ogni modo possibile per poi
diventare il suo successore presso l’Istituto, dove lavorai per trentacinque anni.
Nient’altro oscurò la mia relazione con Mikhail Innokentyevich fino alla sua morte.
Ancora una volta riuscii a combinare i miei studi con il lavoro. È stato sempre così, a
cominciare dal mio servizio di allievo in cavalleria. Nonostante il mio lavoro al Teatro
Bolshoi, non rimasi indietro nei miei studi, anzi, lavorai in anticipo rispetto al
programma. Come partecipante alla guerra ed impiegato del Teatro Bolshoi, mi venne
offerta l’opportunità di studiare nell’ambito di un programma individuale,
diplomandomi all’Istituto in quattro anni anziché cinque (1946-1950) ricevendo
persino un diploma con lode.
Mentre ero ancora studente all’Istituto, partecipai al Concorso Internazionale per
strumenti a fiato. Questo evento ebbe luogo nel 1947 a Praga durante il “Primo
Festival Internazionale della Gioventù”. Vi parteciparono clarinettisti e trombettisti.
Per la prima volta i nostri trombettisti rappresentarono la Scuola dello Spettacolo
Sovietico all’estero, confrontando il nostro livello di maestria con quello di altri Paesi.
Due clarinettisti, V. Petrov e I. Roginsky, e due trombettisti I. Pavlov ed io,
rappresentammo l’Unione Sovietica. The First Shallow ebbe molto successo: tutti e
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quattro vincemmo questo Concorso Internazionale, conquistando il primo ed il
secondo posto.

Ballerini e musicisti del Teatro Bolshoi - partecipanti al


“Festival della Gioventù” del 1949 a Budapest

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Elena Fabianovna Gnessina
(ritratto con la sua firma)

Dokshizer ed E. F. Gnessina (1966)

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Riva del Garda, Italia (1996)

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Capitolo 11
Trombettista sul podio
Terminati gli studi di tromba ed essendomi diplomato all’Istituto, sentivo di non essere
ancora soddisfatto della quantità di conoscenze acquisite. Mi sembrava di essere sceso
dal treno quando non ero nemmeno a metà strada dalla mia destinazione. Non mi fu
permesso di proseguire gli studi alla scuola di specializzazione, dove superai anche gli
esami, con il pretesto dell’illegalità di combinare il lavoro al Teatro Bolshoi con gli studi
universitari, anch’essi considerati lavoro. Questo era uno dei paradossi del nostro
sistema. Fortunatamente, una situazione simile non venne impedita al mio collega
clarinettista del Bolshoi, Viktor Petrov, che nello stesso anno per ordine del Vice
Ministro della Cultura Kaloshin poté iscriversi agli studi universitari. L’anno 1951 fu
un periodo molto duro nel nostro Paese: l’apice della lotta contro il cosmopolitismo, il
formalismo nella linguistica e nella scienza biologica. L’anno successivo fu segnato dal
vile “caso dei medici”. L’eroina di questo caso fu un’infermiera ordinaria, Lydia
Timashuk, che “smascherò” un gruppo di “assassini a pagamento”, personaggi che erano
figure di spicco della medicina. Lydia ricevette un “Ordine di Lenin” per la sua “grande
impresa” (dopo la morte di Stalin, morì a causa di un incidente “organizzato”).
Così decisi di entrare nel dipartimento di direzione d’orchestra del Conservatorio di
Mosca. Fui accettato solo la seconda volta che feci domanda, dopo un primo tentativo
fallito in cui trascorsi un anno a studiare armonia musicale, lettura della partitura e a
migliorare il modo di suonare il pianoforte.
Le conoscenze acquisite presso questo dipartimento giocarono un ruolo importante nella
mia attività di trombettista. Durante gli anni di studio al Conservatorio, mi immersi nei
meandri delle scienze musicali e questo contribuì ad ampliare l’orizzonte delle mie
conoscenze e del mio pensiero musicale. Ricordo con gratitudine i miei insegnanti: Leo
Moritsevich Ginzburg, Kirill Petrovich Kondrashin, Nikolai Petrovich Rakov
(insegnava strumentazione), Ilya Romanovich Klyachko (insegnante di pianoforte),
Sergey Vasilyevich Evseev (teneva lezioni di polifonia).
Dedicai più di dieci anni della mia vita alla direzione d’orchestra, tre di questi li trascorsi
al Teatro Bolshoi lavorando con musicisti come Alexander Shamilievich Melik-
Pashayev, Yuri Fyodorovich Fayer e Boris Emmanuilovich Khaykin. Fui il loro
assistente e diressi La Traviata, Werther, Faust, Bank Ban ed anche il balletto
Laurencia.
Ora, volgendo uno sguardo al passato, ricordando con quanta passione e tenacia ho
combattuto per avere il diritto di proseguire gli studi presso il dipartimento di direzione
d’orchestra, posso comprendere in maniera più chiara se si trattava di un errore o di una
scelta saggia che feci in quel momento.
Il mio primo insegnante e ispiratore in questo campo fu Kirill Petrovich Kondrashin.
Tutto iniziò l’anno in cui il Conservatorio mi chiuse le porte, ma la porta della classe di
Kondrashin, che allora iniziò a lavorare al Conservatorio, si aprì. Frequentavo le lezioni
guardando, ascoltando, acquisendo conoscenza attraverso piccoli incarichi e intanto mi
preparavo per ripetere l’esame. Collaborai con Kirill Petrovich dal giorno in cui iniziai
la mia carriera al Teatro Bolshoi. Suonai con lui in molte esibizioni e partecipai anche
come membro dell’orchestra giovanile dal lui creata. Facemmo molte tournée all’estero

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con l’Orchestra Filarmonica di Mosca (diventò direttore dopo aver lasciato il Teatro
Bolshoi).
Quando entrai in Conservatorio, fui assegnato alla classe del professor Leo Moritsevich
Ginzburg. Allo stesso tempo, Algis Juraitis divenne uno studente di A. V. Gauk. Evgeny
Svetlanov era già al suo secondo anno e Gennady Rozhdestvensky stava finendo gli
studi nella classe di suo padre, Nikolai Pavlovich Anosov. Una volta, prima di allora,
incontrai Leo Moritsevich quando dirigeva un programma con l’orchestra giovanile.
Quell’orchestra fu creata nel 1949 appositamente per partecipare al Festival della
Gioventù e degli Studenti a Budapest. L’orchestra era composta principalmente da
giovani musicisti del Teatro Bolshoi. Eseguimmo programmi sinfonici e spettacoli di
balletto tratti dal repertorio del Teatro Bolshoi. L’orchestra esistette per diversi anni e
partecipò a concerti in abbonamento della Filarmonica di Mosca, effettuando anche
registrazioni alla radio. Svyatoslav Richter debuttò come direttore con quell’orchestra.
Diresse il Concerto Sinfonico per Violoncello e Orchestra di S. Prokofiev: il solista fu
Mstislav Rostropovich. Altri direttori che lavorarono con quell’orchestra furono David
Fyodorovich Oistrakh e Gennady Rozhdestvensky.
Tornando al programma che Leo Moritsevich preparò con l’orchestra giovanile, vorrei
sottolineare il suo lavoro intelligente, scrupoloso, dettagliato sulla Sinfonia N. 4 di
Brahms. Conoscevo questa musica e la consideravo, come ancora oggi, molto difficile
per un direttore d’orchestra, soprattutto nel costruire l’integrità dei rapporti forma-
tempo.
Le lezioni nella classe di L. M. Ginzburg erano insolite: non solo erano difficili, ma,
direi, anche “aggravanti”. Dovevamo dirigere le opere a memoria e senza alcuna forma
di accompagnamento (era anche proibito cantare); insomma in totale silenzio,
immaginando il suono dentro di noi e dimostrandolo solo con i gesti. Questo metodo,
molto popolare in Germania dove Leo Moritsevich studiò negli anni ’20, richiedeva
un’enorme concentrazione ed una profonda conoscenza della materia.
Alle lezioni, in silenzio tombale, si sentiva solo l’acuta ed irritata voce di Leo
Moritsevich: “Sbagliato! Hai mancato la terzina dell’oboe e questo confonderà tutta
l’orchestra. Ripetiamo…”.
Ero seriamente perplesso da questo metodo e, a dire il vero, non ero l’unico a pensarlo.
Anche A. Dzhumakhmatov, entrato in Conservatorio nello stesso anno mio, ora uno dei
principali direttori d’orchestra del Kirghizistan, era perplesso. Disse: “Quanti anni ci
vorranno per padroneggiare il repertorio usando questo metodo? Una vita intera non
basta!” Fortunatamente, questa fu solo la fase iniziale del sistema pedagogico di Leo
Moritsevich, il cui compito principale era quello di “sintonizzare” la memoria, l’udito e
la volontà, per prepararsi alla complessa professione di direttore d’orchestra. Poi fu tutto
più semplice: a lezione dirigevamo con la partitura e l’orchestra veniva sostituita da due
pianisti.
Il mio primo debutto avvenne già durante il primo anno di studi. Diressi la scena finale
di Eugenio Onegin con l’orchestra e i cantanti d’opera. Successivamente la Sinfonia N.
21 di Ovsianiko-Kulikovsky, recentemente pubblicata e ancora oggi non molto
conosciuta. Prestando particolare attenzione notai una certa discrepanza nella parte delle
trombe: nel secondo movimento della Sinfonia le trombe suonavano un terzo tema
basato sulla scala cromatica. Questo mi interessò perché nel 1810, anno di composizione
di questa Sinfonia, non esistevano le trombe cromatiche. Entrarono in uso solo negli

60
anni ’30 del secolo scorso. Tornerò più tardi sulla storia “poliziesca” del lavoro di
Ovsianiko-Kulikovsky.
Successivamente studiai le sinfonie classiche. Ricordo come il brillante recitativo del
finale della Sinfonia N. 1 di Beethoven mi sbalordì con la sua semplicità, soprattutto
quando la ascoltai eseguita dal direttore austriaco I. Krips e dal direttore tedesco G.
Abendroth, in tournée a Mosca. Potrei ancora dire che il genio di Beethoven può essere
identificato da questo dettaglio, in cui lui costruisce le melodie solo sui suoni della scala
di Do Maggiore in una sola ottava. Forse la mia reazione fu ingenua, perché non avevo
mai visto nulla di simile in tutta la letteratura per tromba che io avevo a mia disposizione,
ma questa particolarità mi entusiasma ancora oggi.
Leo Moritsevich era un erudito. Conosceva molto bene la letteratura musicale e vari
concetti di direzione. Molto spesso diceva qualcosa del tipo: “Toscanini (o Stokowski,
o Mravinsky) eseguì questo episodio così e così…” Il suo metodo pedagogico era ben
formato e raffinato, ma non cercò mai di spiegarlo ai suoi studenti per non “masticare”
ogni sorta di dettaglio. Alle lezioni a volte sembrava che non dicesse niente, che
nascondeva qualcosa, e questo preoccupava gli studenti. Ma altre volte Ginzburg era
capace, con parsimonia, con una sola parola, di condurre uno studente a qualche
pensiero, aiutandolo quindi a scoprire un intero strato di concetti. Con il tempo mi sono
reso conto della saggezza di questo metodo. Leo Moritsevich credeva che un pensiero,
una verità, nata o scoperta dallo studente stesso, fosse mille volte più preziosa e profonda
di quando un pensiero veniva dall’esterno. In questo modo la scoperta rimaneva ben
impressa nella memoria dello studente a differenza di quando un concetto già scoperto
da qualcun altro veniva ripetuto molte volte nel processo pedagogico, e quindi
l’attenzione veniva a mancare: un obiettivo tanto facile da raggiungere, quanto facile
che sparisca immediatamente dalla memoria.
Prima del mio concerto di laurea, ebbi già qualche esperienza di esibizione con
un’orchestra a Mosca e in altre città. Costruii il mio programma in modo tale da poter
suonare alcuni brani accompagnato dall’orchestra e dirigerne altri. Nonostante
l’aumento della mia attività di direzione, la mia routine quotidiana era sempre quella di
suonare la tromba prima di aprire una partitura orchestrale. Questa era un’esigenza
fisiologica, senza contare il fatto che, essendo trombettista dovevo mantenere una certa
forma esecutiva. L’anomalia di questa situazione mi portò ad un conflitto interiore che
mi spinse a chiedermi: “Chi sono io? A quale professione dovrei dedicarmi
completamente?”
Il mio concerto di diploma si svolse nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca.
Suonava l’Orchestra del Teatro Bolshoi. Fu un grande onore per me vedere i miei
colleghi suonare per il mio diploma. Il programma comprendeva la Sinfonia N. 6 di
Čajkovskij, il Concerto per Voce e Orchestra di R. Glier (interpretato dalla straordinaria
soprano di coloratura Galina Oleinichenko) e l’Overture “Oberon” di Weber. L’aula
magna era gremita, nonostante si trattasse di un concerto diurno. L’esame fu un
successo, ma quella domanda interiore rimase dentro di me anche dopo il diploma: “Chi
sono io?!”
A quel tempo fu annunciata un’audizione per il posto vacante di assistente al direttore
d’orchestra del Teatro Bolshoi. L’ultima cosa a cui pensai fu quella di intraprendere
questo tipo di carriera, o meglio, non mi permisi mai di pensare di diventare un direttore
al Teatro Bolshoi senza avere nessuna esperienza. Ma cosa dovevo fare? Quasi dieci

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anni di lavoro… lasciare tutto, andare in qualche città di provincia e ricominciare tutto
da capo?
Leo Moritsevich mi disse dopo un’audizione di successo: “Ora non ho dubbi sulla tua
carriera di direttore d’orchestra”. Ma qui il mio professore si sbagliava! Io non sono nato
per fare il direttore d’orchestra. Sì, sento la musica, la capisco e posso renderla tale
attraverso il mio strumento, ma personalmente (questa parola veniva spesso pronunciata
da Leo Moritsevich), non emoziono altre persone. Forse non ero destinato a
comprendere il mistero dell’arte del dirigere e cioè il trasmettere energia, mente e cuore
ad altre persone, avere la capacità di influenzarli con i miei pensieri, sentimenti e stati
d’animo.
Forse la verità è che la personalità del direttore d’orchestra nasconde in sé certi poteri
magici e ipnotici che distinguono un vero direttore d’orchestra da un musicista che
gesticola solo magnificamente e correttamente. Se musicisti bravi e persino eccezionali
possono dimostrare la loro incapacità nel dirigere, allora esistono anche direttori che
sono musicisti scadenti.
Mi esercitai con passione nella direzione, nello stesso modo in cui mi esercitavo con lo
strumento. Preparavo ogni spettacolo al Teatro Bolshoi (diressi spettacoli d’opera presso
la sede distaccata del Teatro, prove di coro con i solisti, presentazioni di nuovi artisti,
ecc.), tuttavia, durante le esibizioni, solo raramente sentivo la vera risposta artistica dagli
artisti sul palco. Ci provavo, mi sforzavo, soffrivo, ma non riuscivo a trasmettere e
ottenere quel che provavo io. Forse la ragione di ciò era la mia inesperienza e la mia
giovinezza, ma credo fosse qualcosa di più: anche la ripetizione delle stesse opere era
da biasimare. Gli spettacoli vennero ripetuti per anni e quasi mai ci fu una vera e propria
prova. C’erano molti cliché: tutti conoscevano tutto, perciò cantavano per inerzia.
Una volta, dopo la rappresentazione de La Traviata, dissi ad un giovane maestro di coro
di venire da me. Gli chiesi: “Nel primo atto, perché i coristi non guardano le mie mani
e non rallentano il movimento della danza?”
Mi rispose: “I riflettori della rampa sono accecanti, interferiscono con lo sguardo” e il
regista disse: “Non sanno nemmeno chi sta dirigendo”. Però saprebbero chi sta dirigendo
se ci fossero Golovanov o Melik-Pashayev!
C’era un’altra cosa che mi dava fastidio. Parlo del compromesso artistico insito nella
professione del direttore d’orchestra, uno dei suoi aspetti negativi: il direttore
d’orchestra non solo non ha mai abbastanza tempo per fare tutto ciò che vuole, ma non
riesce a fare neanche il necessario. Molto spesso si spera nel famigerato “vediamo
stasera”. Di questo mi avvertì Kirill Petrovich Kondrashin, che, spesso insoddisfatto,
annunciava la fine di una prova per mancanza di tempo.
Questo è esattamente ciò che è incompatibile con il lavoro di un musicista strumentista,
soprattutto se si tratta di un artista solista, per il quale non ci sono barriere fisiche o
temporali nel processo di preparazione del concerto. Cosa si può ottenere se si dirige
uno spettacolo d’opera messo in scena da qualcun altro più e più volte? Anche se fosse
stato fatto un buon lavoro, le prove dovrebbero essere fatte sempre.
Dopo venti o trenta esecuzioni, sentivo che il mio lavoro di direttore iniziava a gravarmi.
Una volta Yuri Fyodorovich Fayer si ammalò ed io dovetti sostituirlo (ero il suo
assistente) in una performance del balletto Laurencia di Alexander Krein: un conto era
correggere le partiture e provare con l’orchestra, un altro era dirigere in un’esecuzione
vera e propria. Non importa quanto avessi studiato la coreografia al corso di danza

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classica, durante lo spettacolo non riuscivo mai a capire dove, quando e chi aveva quello
sfortunato “uno”. Alcuni lo facevano su, cioè in salto, altri proprio nel momento del
salto. Di conseguenza, feci il minor danno possibile alle mie amate ballerine e ragazzi,
un’arte che ho ammirato per tutti gli anni in cui ho lavorato a Teatro.
La rappresentazione andò bene, come si suol dire: “abbiamo finito tutti insieme”. Ma la
tensione dei miei colleghi artisti dell’orchestra, così come la mia, era enorme. In un
punto, aspettando che la ballerina si muovesse, tenni a lungo la mano sospesa. In quel
momento Nikolai Georgievich Panyushkin, la spalla dei secondi violini, non sopportò
più il fatto di suonare con i nervi tesi e, un quarto prima dell’ingresso di tutta l’orchestra,
come si suol dire “tirò” un accordo sul violino. Non so come feci a non cadere dal podio.
A concerto finito ci scusammo l’un l’altro.
Sergey Vladimirovich Shashkin, all’epoca vicedirettore artistico del Teatro, mi offrì di
dirigere di nuovo quello spettacolo. Ringraziai ma rifiutai risolutamente, abbastanza
“soddisfatto” del debutto. In quegli anni a Teatro furono introdotti i cosiddetti “libretti
di controllo”. Qui il direttore scriveva la sua opinione sulla performance e, viceversa, il
primo violino dell’orchestra esprimeva la sua opinione su come il direttore aveva diretto
la performance. Naturalmente “l’ispirazione del maestro” aveva sempre una visibilità
maggiore, perciò il regista principale prendeva appunti nella parte riservata alla
produzione. Sapevo che i direttori d’orchestra non sempre scrivevano la loro
valutazione, limitandosi solo ad una firma. In genere facevo anche io così, senza pensare
che potesse esserci una possibilità nascosta di ferire involontariamente l’orgoglio di
qualcuno. È una cosa molto delicata: uno può anche non rendersi conto di aver offeso
una persona.
E così un giorno accadde proprio questo. Nelle mie esibizioni d’opera, la parte di
Violetta veniva spesso cantata da Glafira Demidova, una cantante meravigliosa, una
persona dolce e sorridente. Glasha era instancabile, spesso sostituiva i malati e provava
anche al loro posto. Quella volta successe che arrivò già stanca e con la voce sorda.
Decisi di difenderla. Iniziai perciò la mia annotazione sul libretto con le seguenti parole:
“Demidova non ha cantato nel migliore dei modi…” e ancora: “Chiedo alla direzione di
non inserire Demidova nelle prove per il giorno in cui interpreterà il ruolo principale
nell’opera La Traviata.”
Così facendo, io che pensavo di aiutarla e proteggerla, la offesi con la frase formulata
con noncuranza e “non nel migliore dei modi...”. Ci furono lacrime, spiegazioni, scuse
e abbracci...
Gli anni di formazione come direttore d’orchestra al Teatro Bolshoi stavano volgendo
al termine. Dovevo decidere cosa fare dopo. Mi era chiaro il fatto che non mi sarei
separato dalla tromba. Il mio amico Yakov Gandel, un uomo saggio, discuteva con me
dei miei affari e diceva: “È meglio essere un trombettista stellare che un mediocre
direttore d’orchestra”. E Melik-Pashayev: “Come possiamo fare a meno di Dokshizer,
il trombettista?” Bisognava davvero convincermi di questo? Non mi sono mai
considerato un vero direttore d’orchestra, stavo semplicemente facendo questo lavoro,
stavo semplicemente dirigendo. La mia “crisi” inaspettatamente si risolse da sola. Nel
1971, il Teatro Bolshoi venne chiuso, licenziarono un centinaio di musicisti e due
direttori: G. Zhemchuzhin e me. Iniziai così a sentire come se la vita stesse tornando alla
normalità, ma non mi sono mai pentito di aver dedicato così tanto tempo alla direzione.
Ho tratto grandi benefici da questi studi, perché ho ottenuto esattamente ciò che mi

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mancava nella mia attività performativa. Il mio modo di pensare oggi è ancora quello di
un direttore d’orchestra. Il mio professore, Leo Moritsevich aveva ragione! Non potevo
limitarmi a studiare solo la parte di tromba nell’approccio ad una nuova musica, ma
avevo bisogno di guardare l’intera partitura per vedere tutto ciò che succede, giudicare
la musica ed eseguirla. Percepisco la musica in nessun altro modo se non nel colore degli
strumenti orchestrali, a me ben noti. Riesco anche a notare l’abilità del direttore
d’orchestra e le sue debolezze. Di riflesso, io stesso mi irrigidisco quando un direttore
perde il controllo dell’orchestra o la segue solamente.
Sebbene non sia più impegnato nella direzione, mi sento più direttore adesso che durante
i miei anni di tirocinio a Teatro. Il principio del direttore d’orchestra domina nella mia
mente come esecutore orchestrale, concertista, insegnante e arrangiatore. Questo mi
aiutò a sviluppare ulteriormente il lato esecutivo della mia attività di trombettista.
Quindi, dopo venticinque anni di studio, raggiunsi la piena maturità musicale. Non fu
più un problema per me comprendere la musica da uno spartito o da una parte per
clavicembalo e realizzare la strumentazione fino a fare una trascrizione. Iniziai a
guardare la letteratura per tromba con occhi diversi ed ero rattristato dalla sua miseria,
ma poiché la cosa principale nella mia vita era suonare la tromba, iniziai attivamente ad
aggiornare il mio repertorio. Allo stesso tempo ebbe inizio un nuovo periodo della mia
vita: il periodo di realizzazione e condivisione di tutta la conoscenza accumulata.

“Per il meraviglioso suono della sua tromba, Nelle vesti di


la punizione fu che Traviata si innamorò di lui. direttore d’orchestra
È da allora che, ne ‘La Traviata’,
Tim è il direttore d’orchestra sul podio.”
Distico di Y. Nikolaev, vignetta di A. Radunsky

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Membri attivi della CBWA: T. Dokshizer, H. Paniotov, S. Eremin,
I. Pushechnikov, G. Orvyd, R. Terekhin e P. Romanovsky

Durante il meeting al CBWA (Comitato Centrale degli Artisti), marzo 1963.


Da sinistra - Sotto: S. Eremin, P. Ryazantsev, G. Orvyd, P. Mayorov.
Sopra: H. Nazarov, T. Dokshizer, Y. Usov e L. Izrailevich.

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Con i ballerini del Lago dei Cigni la sera del mio 60esimo compleanno (1981)
Alla postazione del direttore d’orchestra nella
Sala Grande del Conservatorio di Mosca (1959)

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Capitolo 12
L’Orchestra del Teatro Bolshoi
Prima di entrare a far parte dell’Orchestra del Teatro Bolshoi, ebbi già qualche
esperienza orchestrale, principalmente durante il mio lavoro con una banda jazz di ottoni
ed anche nell’orchestra del “Drama Theatre” di Vachtangov. Il mio sogno segreto era
quello di diventare un artista dell’Orchestra del Teatro Bolshoi, ma non l’ho mai detto
a nessuno. Era una mia superstizione quella di non far parola sui miei sogni. Non so da
dove provenga ma ho ancora quest’abitudine...
Nel dicembre 1945, quando entrai per la prima volta al Teatro Bolshoi, la sua enorme
orchestra contava duecentotrenta membri ed era composta da due cast e mezzo. I
musicisti lavoravano contemporaneamente nel Teatro Bolshoi e nella sua succursale e
c’era anche una riserva sostitutiva, un gruppo pari a quasi la metà del personale.
L’età media dei musicisti superava i cinquant’anni e molti di loro avevano i capelli grigi.
Nelle conversazioni venivano menzionati i nomi di Rachmaninov, Suk e Avranek. I
nomi di questi eccezionali direttori d’orchestra del passato mi suonavano come una
storia dell’antichità.
A quel tempo nell’orchestra sedevano solo pochi giovani musicisti, tra cui i vincitori del
primo premio alla All-Union Competition del 1941: il cornista Valery Polekh, il suo
collega Alexander Ryabinin, l’oboista Ivan Pushechnikov, il clarinettista Viktor Petrov,
il percussionista Alexey Ogorodnikov, i violoncellisti Fedor Luzanov e Boris
Reentovich, il violinista Leon Zaks e molti atri.
Lavoravamo sotto la supervisione attenta e critica dei musicisti più anziani. Loro ci
aiutarono a padroneggiare il repertorio, a crescere professionalmente e, soprattutto, ad
assorbire le tradizioni esecutive per le quali l’orchestra del Teatro Bolshoi è così famosa.
Le tradizioni consistevano non tanto nel conservatorismo del pensiero e
dell’interpretazione musicale (anche se nelle osservazioni fatte dagli anziani si potevano
spesso sentire frasi come “Mikhail Prokofievich Adamov eseguì questa frase così…”)
ma nel suono in generale, nell’ispirazione del fraseggio. La novità interpretativa attirava
sempre una particolare attenzione e veniva accettata dal gruppo solo se raggiungeva il
suono ideale, ma molto spesso l’insolito veniva percepito in modo critico. Ivan
Antonovich Vasilevsky che lavorò con me alla “Danza Napoletana” tratta dall’opera-
balletto Il Lago dei Cigni di Čajkovskij, insistette nel modificare l’articolazione di
Adamov a cui si era così tanto abituato nel corso degli anni che non riusciva ad
immaginare nessun altro modo di esecuzione.
I primi che conoscevano un assolo eseguito erano i musicisti seduti nelle vicinanze. Le
loro opinioni venivano espresse con esclamazioni di approvazione appena udibili o con
un silenzio tombale. È vero, in caso di un incidente, un errore evidente, pari ad una
catastrofe, picchiettavano con le dita sul leggio con simpatia o sulla campana dello
strumento, in segno di solidarietà professionale.
Ma il direttore rimaneva il giudice supremo, in cui la sua reazione era decisiva per la
valutazione di tutti. Maestri come S. A. Samosud, A. M. Pazovsky, N. S. Golovanov, A.
S. Melik-Pashayev, Y. F. Fayer, V. V. Nebolsin, K. P. Kondrashin e successivamente
B. E. Khaikin, M. N. Zhukov e O. A. Dimitriadi entrarono a far parte del Teatro Bolshoi.
La nuova generazione di direttori era costituita da miei coetanei e compagni di studi
della classe di direzione d’orchestra al Conservatorio, quali E. F. Svetlanov, G. N.

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Rozhdestvensky, A. M. Zhuraitis e M. F. Ermler (solo Ermler era di Leningrado), con i
quali insieme superammo l’esame per diventare tirocinanti in direzione d’orchestra al
Teatro Bolshoi. Ebbi anche l’opportunità di lavorare per dieci anni con la generazione
più giovane di direttori tra cui F. S. Mansurov, A. N. Lazarev e Y. I. Simonov, suonando
in concerti e registrando insieme a loro. In questo modo ebbi la possibilità di incontrare
e lavorare con direttori di tre o quattro generazioni osservando e partecipando al loro
lavoro.
La creatività di un orchestrale è strettamente correlata all’abilità ed alle esigenze
artistiche del direttore d’orchestra. Ogni direttore voleva che l’orchestra suonasse
sempre e solo bene! Avevano questo in comune, ma ognuno aveva qualcosa di proprio,
di unico. Golovanov richiedeva fuoco, intensità emotiva, suono esagerato di dinamiche;
Melik-Pashayev la raffinatezza, profondità, massima espressività; Fayer emotività,
attivismo, volume esagerato ma sempre melodioso e ricco; Nebolsin richiedeva
professionalità, precisione secondo il gesto della mano senza indebita iniziativa;
Kondrashin anch’egli professionalità, attivismo e maestria; Svetlanov la passione,
attivismo, suono succoso, rabbia; Rozhdestvensky la leggerezza, improvvisazione,
abilità artistica; Zhuraitis chiedeva timbri trasparenti, accademici; Ermler la precisione,
professionalità e libera espressione musicale.
Una volta Mstislav Leopoldovich Rostropovich, mio amico degli anni della CMS, un
musicista grandioso ed un violoncellista fenomenale, apparve a Teatro alla postazione
del direttore d’orchestra. Successe che si infatuò della direzione d’orchestra. Diresse e
mise in scena l’Eugenio Onegin al Teatro Bolshoi, con il quale il Teatro andò in tournée
a Parigi e Berlino con grande successo. In seguito, insieme al regista B. A. Pokrovsky
realizzò una nuova edizione dell’opera Guerra e Pace di S. Prokofiev.

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Nina Semizorova e Timofei Dokshizer
Sul palcoscenico del Teatro Bolshoi (1981)

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Con l’ensemble di violini del Teatro Bolshoi (1981)

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Capitolo 13
S. A. Samosud
Samuil Abramovich Samosud (1884-1964) fu una figura di spicco nella storia dell’opera
lirica sovietica. A Leningrado divenne famoso come regista innovativo di nuove opere,
tra cui Guerra e Pace di S. Prokofiev e fu invitato al Teatro Bolshoi dove mise in scena
due opere di I. Dzerzhinsky, Quiet Flows The Don e Virgin Soil Upturned, così come
l’opera Ivan Susanin di M. Glinka.
Il suo amico, il violinista L. A. Avtzon, che idolatrava Samosud e trascorreva molto
tempo conversando con lui, si trasferì a Mosca con lui. Avtzon mi disse che Samosud
godeva dei favori di Stalin, il quale, a sua volta, era interessato delle sue opinioni. Ad
esempio, quando nel 1940 venne celebrato il centenario della nascita di P. I. Čajkovskij,
Stalin chiese a Samosud se pensava fosse una buona idea dare al Teatro il nome di
Čajkovskij. Samosud ci pensò e disse: “Il Teatro Bolshoi è il Teatro Bolshoi, il nome di
Čajkovskij può essere assegnato al Conservatorio di Mosca”.
Un altro esempio. Nel 1942, al Teatro Bolshoi, di sera, ebbe luogo un evento politico
molto importante. Vennero ascoltate e selezionate le versioni migliori dell’Inno
dell’Unione Sovietica, invece dell’Internazionale. Vi parteciparono centinaia di
persone. Molti compositori crearono le proprie versioni: cori e bande di ottoni si
susseguirono uno dopo l’altro. Solo l’Orchestra del Teatro Bolshoi sedeva nella buca
senza mai alzarsi, rimanendo lì dall’inizio alla fine e sopra di questa vi era il palco del
governo. Le varie versioni dell’inno dell’URSS vennero ascoltate e selezionate da
centinaia di persone. Nella parte destinata al governo, posizionata sopra la buca
dell’orchestra, Stalin disse a Samosud: “I musicisti del Teatro Bolshoi lavorano duro”.
“Sì, compagno Stalin” rispose Samosud, “lavorano molto ma guadagnano poco” (va
notato che Samosud richiedeva fino ad un centinaio di prove per le sue produzioni).
Pochi giorni dopo arrivò al Teatro Bolshoi un dispaccio governativo: affermava che
l’amministrazione del Teatro Bolshoi poteva disporre di una somma molto significativa
per aumentare gli stipendi dei musicisti. La somma pietrificò l’amministrazione del
Teatro. Gli stipendi furono aumentati dal triplo al quadruplo ed il resto del denaro fu
restituito.
Successivamente, i rapporti tra orchestra, opera e balletto caddero in rovina. I solisti di
balletto e d’opera sono sempre stati una categoria più pagata rispetto agli artisti
d’orchestra. Pertanto ad un primo passo ne seguirono altri, alzando la posta in gioco sia
nell’opera che nel balletto. Così facendo anche gli stipendi del Teatro Kirov di
Leningrado, del Teatro dell’Opera di Kiev, dell’Orchestra di Mravinsky, dell’Orchestra
Sinfonica di Stato diretta da Gauk e della Grande Orchestra della Radio diretta da
Golovanov furono aumentati ai livelli del Teatro Bolshoi. E così, per sola volontà
dell’autocrate e grazie a quella tempestiva osservazione di Samosud, le condizioni di
vita di migliaia di artisti professionisti furono migliorate.
Samosud fu il direttore principale dal 1936 al 1943. Dopo di lui questa carica venne
ricoperta per i successivi cinque anni da A. M. Pazovsky e dal 1949 N. S. Golovanov
divenne nuovamente il direttore principale. Con Samosud presi parte alla prima
esecuzione della Sinfonia N. 7 di Shostakovich a Mosca, alla fine del 1941. Ricordo che
il ruolo di prima tromba era ricoperto da S. N. Eremin che guidava le prime tre trombe
e la seconda sezione di tre trombe, in cui c’ero io, era guidata da G. A. Orvyd. Dopo la

72
guerra, quando Samosud era il direttore principale della Seconda Orchestra della Radio
(il suo assistente e primo violino era Yuri Silantiev, che all’epoca aveva appena iniziato
la sua carriera di direttore), registrai con lui un brano scoperto di recente per tromba, di
A. Glazunov: Albumblatt. Presto fu stabilito che questi “reperti” erano stati trascritti dal
violinista Mikhail Goldstein. Tra le opere “promulgate” da Goldstein ci furono la Sonata
per Violoncello di A. Borodin, registrato su disco dal famoso violoncellista Yakov
Slobodkin ed il Walzer da Concerto per Tromba e Pianoforte di A. Arensky.
Tra questi c’era anche la Sinfonia N. 21 di Ovsianiko-Kulikovsky, di cui ho già parlato
nel capitolo precedente e che fu eseguita al mio debutto da direttore d’orchestra.
Presumibilmente scritta nel 1810 per l’apertura del Teatro dell’Opera di Odessa, aveva
lo scopo di dimostrare che il genere della sinfonia è nata in Russia ed il suo creatore è
stato Ovsianiko-Kulikovsky e non i classici viennesi Haydn, Mozart e Beethoven (era
una moda del dopoguerra dare priorità a tutto ciò che era russo). Le opere di Mikhail
Goldstein erano così ricche di abilità che era difficile mettere in discussione qualcosa su
di esse. Lo stesso Goldenweiser, che pubblicò una recensione della Sonata di Borodin,
esclamò: “Ma questa è la musica di Alexander Porfirievich! ...” Ma la particolarità della
situazione con la sinfonia di Ovsianiko-Kulikovsky era che un tale compositore non
esisteva affatto! Il suo nome non è menzionato in nessun dizionario musicale pubblicato
negli ultimi anni, nemmeno nel dizionario enciclopedico sovietico! C’era però un
musicista minore di Odessa che aveva lo stesso cognome.
Quando registrai di nuovo Albumblatt, ma con Gennady Rozhdestvensky, la casa
discografica Melodiya iniziò ad avere il dubbio sotto quale opera l’autore pubblicò
questa composizione e se Goldstein, che viveva già all’estero, aveva rivendicato il
copyright di questa musica di Glazunov. Alla fine si trovò una soluzione: Albumblatt fu
inserito nel catalogo delle opere di Glazunov e fu sancito nel nuovo Dizionario
Enciclopedico Musicale, pubblicato nel 1973.

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Con i miei allievi-studenti e laureati degli anni ‘70

Con gli studenti degli anni ‘80

74
Capitolo 14
A proposito di Stalin
Durante gli anni di lavoro al Teatro Bolshoi, mi capitò spesso di vedere Stalin sul palco,
e non per breve tempo. Ebbi quindi la possibilità di osservare il suo comportamento ed
il modo in cui comunicava con i suoi compagni d’armi. Riuscivo persino ad osservare
le sue reazioni a qualsiasi cosa che succedeva sul palco. Era impossibile determinare il
suo umore dall’espressione del suo viso: normalmente era di pietra. La distanza che mi
separava dalla sua postazione non superava i 15-16 metri. Il palco era situato sopra la
buca dell’orchestra, alla sinistra del direttore d’orchestra, alle spalle dei violinisti.
Quando la sezione degli ottoni guardava il direttore d’orchestra aveva di fronte anche il
palco del governo.
Il posto di Stalin era a sinistra (il punto più lontano dal palco). Era drappeggiato con un
sipario di broccato in modo che non fosse visibile dall’auditorium. Si diceva che sotto
quella tenda decorata in broccato con bordo d’oro ci fosse una parete antiproiettile che
lo separava dalla sala.
Prima che Stalin apparisse a Teatro, nell’orchestra erano già presenti i “ragazzi” della
sicurezza. Si trovavano in ogni fila dell’orchestra, alla barriera, di fronte al palco e, come
se fossero interessati all’esibizione, osservavano ogni nostro movimento. Prestavano
particolare attenzione quando i cornisti, trombettisti e trombonisti si chinavano a
prendere le sordine perché le loro forme somigliavano a granate. Ovviamente entrambi
gli ingressi erano sorvegliati ed era impossibile entrare o uscire senza il permesso delle
“guardie”.
A volte Stalin andava a Teatro da solo e sedeva in un angolo del suo palco riservato con
le tende abbassate. Appariva solo quando le luci dell’ingresso erano basse e lasciava il
palco prima che le luci venivano riaccese. Se i membri del comitato politico salivano su
quel palco, lui mostrava a ciascuno di loro dove sedersi e nessuno doveva osare alzarsi
per lasciare il palco mentre Stalin era ancora lì.
Secondo le mie osservazioni, Stalin era interessato alle opere russe su temi storici, con
personaggi come Ivan il Terribile, Boris Godunov, Pietro il Grande. Lo vidi alle
esibizioni di The Pskovite (con il prologo Vera Sheloga), La sposa dello Zar, Boris
Godunov, Khovanshchina, ma non lo vidi mai presente alle rappresentazioni fiabesche
di Rimsky-Korsakov (La Fiaba dello Zar Saltan e Il Gallo D’oro) in cui l’immagine
dello Zar è mostrata sotto forma di parodia/fumetto. Stalin “patrocinava” il Teatro ma
allo stesso tempo pretendeva che la creatività dovesse essere al servizio dell’ideologia
dominante. Il repertorio e le produzioni in programma venivano sempre rigorosamente
controllate. Ogni nuova produzione doveva essere approvata da una commissione
speciale del Comitato Centrale (CC) e dal Ministero della Cultura e, se c’erano dubbi
sull’aspetto ideologico o sull’accuratezza nel seguire la “verità storica”, la performance
veniva a quel punto osservata dallo stesso Stalin. Ci fu uno scandalo nella messa in scena
dell’opera La Grande Amicizia di V. Muradeli, in cui il personaggio principale era
Sergei Ordzhonikidze, e non Stalin. La sua esecuzione al Teatro Bolshoi non solo fu
proibita, ma portò il CC a decretare, nel 1948, che tutti i compositori russi, inclusi S.
Prokofiev e D. Shostakovich venissero sottoposti a critiche devastanti: un vero shock
per tutta la nostra cultura musicale. Questa vergognosa decisione fu annullata da
Krusciov solo dopo la morte di Stalin.

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Tutte le celebrazioni dedicate alle festività statali si svolgevano al Teatro Bolshoi (il
Palazzo dei Congressi del Cremlino fu costruito solo nel 1961) e l’orchestra doveva
partecipare a tutte queste cerimonie solenni. Per l’occasione veniva stabilito un regime
speciale e l’orchestra doveva restare a Teatro dalla mattina alla sera. Una volta le prove
si prolungarono fino a sera, in cui una commissione speciale valutò il programma in
quanto molti artisti provenivano da diverse repubbliche. Alcune opere furono approvate,
altre respinte, principalmente per motivi ideologici. Allo stesso tempo produttori, registi,
direttori di scena e tecnici delle luci lavorarono in silenzio e inosservati.
Solo la sera ci venne dato il permesso di fare una passeggiata per un’ora. Feci il giro
della Piazza del Teatro e ritornai costeggiando l’Hotel Metropol. Mi fermai all’incrocio
di Marx Avenue. Da Piazza Dzerzhinsky, dall’edificio del KGB, arrivavano macchine
con fari abbaglianti puntati: i capi di Stato stavano arrivando a Teatro. Al semaforo persi
una possibilità di attraversare col verde: a quei tempi non esistevano i sottopassaggi. In
quel momento passarono tre macchine, non capii chi ci fosse dentro. Attraversai la strada
al semaforo verde successivo e vicino al Teatro Maly, al monumento di Ostrovskij,
qualcuno mi toccò la spalla. Mi voltai e vidi un poliziotto alto due metri: “Documenti”
mi disse. Ero molto sicuro di me, lo elogiai persino per la sua vigilanza. I miei documenti
ed il pass speciale per entrare quella sera al Teatro Bolshoi non destarono alcun sospetto,
perciò mi lasciò proseguire per la mia strada. Chi mi aveva “avvistato”? Chi si era
accorto che io, a differenza di tutti i passanti, non avevo attraversato la strada al primo
semaforo verde, rimanendo lì fermo? Dopodiché, iniziai a notare che tra la folla si
trovavano delle persone speciali in servizio, indossavano scarpe foderate di pelliccia,
vestiti caldi e portavano trasmettitori radio. Stavano controllando la folla, “catturando”
chiunque destasse sospetto.
A Teatro lavorava il violinista Yakov Shukhman, un tipo allegro e amante della vita. La
sera gli piaceva giocare a carte. Una volta, nella Old Arbat, una stradina lungo la quale
di notte passava un corteo di macchine che scortava Stalin sulla sua Dacia, Yakov uscì
dall’ingresso: la strada era deserta. Quando iniziò a vedere le luci delle auto in
avvicinamento, alzò la mano ma in quello stesso momento qualcuno lo trascinò di nuovo
dentro... Fu fortunato. Sopravvisse e continuò persino a lavorare a Teatro, ma non gli fu
mai dato il permesso di frequentare i concerti governativi, oltre a non ricevere mai più
il pass speciale per il Teatro. Non gli fu nemmeno permesso di partecipare alla cerimonia
funebre di Stalin che non ebbe luogo nemmeno a Teatro, ma nella Sala delle Colonne
nella Casa dei Sindacati.
Negli anni ’30, e soprattutto dopo il 1937, in tutte le istituzioni venivano periodicamente
catturati i “nemici del popolo”. Il Teatro Bolshoi non fu esonerato. Nel 1939 venne
“smascherato” un gruppo terroristico di musicisti presenti nell’orchestra, i cui piani
includevano l’esplosione del Teatro Bolshoi e l’uccisione di Stalin. Tra i musicisti che
facevano parte del gruppo terroristico c’erano i miei colleghi Boris Bulgakov, Valentin
Kartsev, Sergey Gosachinsky, Boris Goldstein ed altri. Rischiarono la pena di morte,
ma un miracolo li salvò. Il boia Yezhov venne sostituito dal boia Berija che, nel periodo
iniziale della sua attività, volendo mostrare la sua lealtà e l’ingiustizia delle azioni del
suo predecessore, annullò diversi casi che non erano stati ancora completati da Yezhov.
Così, i miei colleghi e futuri amici furono molto fortunati: vennero rilasciati e
continuarono a lavorare nell’orchestra fino alla fine dei loro giorni.

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Ebbi la possibilità di vedere Stalin anche ai lussuosi banchetti alla George’s Hall nel
Cremlino (questo prima di lavorare al Teatro Bolshoi). L’Orchestra Balalaika del
CBRA, dove allora prestavo servizio, eseguiva concerti in occasione di questi banchetti
dove partecipavano molte persone. Fummo anche abbastanza fortunati da ricevere
dolcetti dalla “tavola del padrone”: ricevemmo qualcosa da bere e da mangiare.
Decine di volte, in piedi sulla Piazza Rossa come parte di un’orchestra militare durante
le parate, assistetti all’ingresso di Stalin sul podio del Mausoleo, che raggiungeva
attraverso uno speciale passaggio sotterraneo collegato al Cremlino. La messa in scena
di questo spettacolo era immortale, come una normale regia d’opera, soprattutto i modi
di esprimere “l’amore del popolo” per i membri del Comitato Politico, dove i bambini
regalavano mazzi di fiori ai leader... L’ultima messa in scena dei “registi” di Stalin durò
fino ai tempi di Gorbaciov.
La personalità di Stalin a quei tempi era divinizzata. Tutti gli eventi della nostra vita
erano collegati a lui. Veniva elogiato e ringraziato, la Stampa e la radio trasmettevano
continuamente notizie sul “maestro saggio”, il “padre di tutte le nazioni”, ecc. Eravamo
in una condizione di psicosi generale e questo costituiva la nostra quotidianità. Era
consuetudine concludere qualsiasi discorso, anche su un argomento di produzione, con
un brindisi in onore a Stalin. Qualsiasi saggio studentesco doveva elogiare Stalin ed il
partito. Il popolo sovietico era così abituato a questo che non si accorgeva nemmeno che
la frase conclusiva del discorso fatto da lui stesso in una riunione cerimoniale in
occasione del suo settantesimo compleanno fu: “Lunga vita al compagno Stalin” (!)
Io, come tutti, ero soggetto a questa psicosi generale e, come tutti, gridavo e lodavo il
grande leader. Eppure, fin dalla giovane età, avevo capito cosa portava il diavolo Stalin
alla gente. Era possibile pensarci, ma impossibile condividerlo con qualcuno. Ai giorni
d’oggi, nel periodo dell’emergente democrazia, i pensieri su Stalin e la sua “mano di
ferro” spesso vagano nella mente delle persone della vecchia generazione, in cui metà
della popolazione dovrebbe essere fucilata, l’altra metà esiliata... Abbiamo vissuto tutto
questo ma spero che quei tempi siano finiti per sempre.
Tutti questi ricordi sono scaturiti dal ricordo della frase pronunciata da Samosud al
“grande leader” sugli stipendi dei musicisti. Comunque, continuerò il racconto sui
direttori del Teatro Bolshoi con cui ho avuto l’opportunità di lavorare.

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Capitolo 15
I Direttori
N. S. Golovanov
Nikolai Semyonovich Golovanov fu un gigante dell’opera e della musica sinfonica. Si
distingueva per l’eccezionale rigore, severità, persino ferocia durante le prove, quanto
per la infantile vulnerabilità nella vita. Quando accadeva qualcosa durante lo spettacolo
(cosa che spesso non dipendeva dal direttore d’orchestra), tornava a casa depresso. Me
lo disse S. L. Rogachevsky, il capo del policlinico del Teatro, che la depressione da cui
era affetto era causata dalla costante insoddisfazione e che la sua cura dovevano essere
le recensioni entusiastiche e le impressioni fenomenali della sua performance che
dovevano essere espresse dal pubblico. Questo metodo di psicoterapia non
contraddiceva la verità.
Golovanov tendeva a drammatizzare i dettagli. Chiedeva che il livello di performance
di tutti gli artisti, sia di quelli sul palco che nell’orchestra corrispondesse al suo. Quando,
mentre lavorava, si rivolgeva ad un gruppo di musicisti e non riscontrava in loro uno
sguardo ardente si arrabbiava, considerando l’atteggiamento una negligenza nel suo
lavoro. Sapendo questo, i trombettisti alzavano le campane verso l’alto, e una volta un
violoncellista lasciò cadere l’arco ma continuò a “suonare” attivamente senza arco, per
non turbare Nikolai Semyonovich e non provocare la sua rabbia.
Golovanov era un maestro di produzioni monumentali e su larga scala. I suoi Boris
Godunov e Sadko, messi in scena nel 1951-1952, sono ancora oggi presenti nel
repertorio del Teatro Bolshoi. Khovanshchina è esistita fino al 1995, fino a quando B.
Pokrovsky e M. Rostropovich collaborarono alla stesura di una nuova produzione.
Suonare con Golovanov richiedeva massima attenzione, soprattutto considerando la sua
interpretazione del tempo alquanto unica. Dirigeva in un modo assolutamente libero e
se c’era un musicista leggermente impreparato si imbatteva immediatamente in qualche
errore. La sua battuta di quattro quarti poteva essere divisa in cinque o sei: questo perché
faceva dei ritenuti sui singoli quarti. Quando l’orchestra non eseguiva correttamente
quello che lui dirigeva, si indignava: “Non sei capace di suonare quattro quarti, due, tre
e quattro - è una vergogna!” (Questa era la sua parola preferita).
Arrivava alle prove con mezz’ora di anticipo e molto spesso iniziava prima dell’orario
previsto, ma nonostante questo nessuno era mai in ritardo. A giudicare dalle parti
orchestrali, segnate con una matita cremisi (tutti conoscevano la matita di Golovanov),
le prove erano sempre precedute da un suo intenso lavoro a casa. Tutto ciò che lui
richiedeva era già stato scritto in ogni parte.
L’attività e la belligeranza di Golovanov non si manifestarono solo nel suo lavoro
artistico. Era anche in grado di organizzare un rimprovero al Ministero, al Comitato
Distrettuale o a qualsiasi altra autorità. Dopo la guerra lavorò a Teatro un eccezionale
cornista, Alexander Alexandrovich Ryabinin, ma in contemporanea era anche Ufficiale
dell’esercito e quindi spesso non gli veniva dato il permesso di lasciare il reggimento
per suonare agli spettacoli. Non so esattamente a quale autorità si rivolse Golovanov, se
allo Stato Maggiore o direttamente al Ministro della Difesa, ma la sua frase provocò uno
scandalo: “Ci sono migliaia di Maggiori nell’esercito, ma il Teatro Bolshoi ha bisogno
dell’unico Ryabinin!” Questo commento produsse l’effetto desiderato. Nikolai

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Semyonovich era un uomo religioso, frequentava le funzioni nella Chiesa della
Resurrezione del Glorioso in Via Nezhdanova, l’ex Bryusovsky Lane. La casa in cui
viveva era la prima casa cooperativa di Mosca e si chiamava “Golanovsky”. Ora il suo
appartamento è diventato un museo e si chiama “Casa-Museo di Golovanov”. Vi si
riuniscono spesso musicisti ed ebbi anche occasione di assistere a concerti da camera
svolti lì.

A. S. Melik-Pashayev
L’opposto di Golovanov era Alexander Shamilievich Melik-Pashayev, un raffinato
musicista esteta. Veniva alle prove con un concetto di performance attentamente
elaborato e verificato ed una partitura ricca di sfumature. Tutto era pensato, fino al
comportamento esterno e agli spettacolari effetti teatrali. Poteva anche concedersi di
smettere improvvisamente di dirigere e ascoltare l’orchestra come si gestiva da sola,
oppure si fermava per asciugarsi pittorescamente il viso con un fazzoletto bianco come
la neve. Sembrava che ogni esecuzione si ripetesse come se fosse stata incisa su
pellicola, così come tutti i comportamenti esterni venivano eseguiti e ripetuti nello stesso
modo accurato: tutte le rappresentazioni erano identiche, sia che si trattasse della prima
rappresentazione, della trentesima o della cinquantesima.
Ma questo era solo ciò che appariva dall’esterno. In realtà ogni esibizione veniva
investita di una nuova energia che contagiava gli artisti ed il pubblico. La saggezza di
Alexander Shamilievich risiedeva in questo metodo di lavoro che svolgeva con il gruppo
d’opera. Presentava a tutti il piano delle esecuzioni, che era monolitico e indistruttibile,
e chiedeva a tutti il suo rigoroso modo esecutivo, ma ad ogni nuova rappresentazione
quel guscio si riempiva di nuova vita. Questo rese le esibizioni di Melik-Pashayev salde
ma allo stesso tempo vivaci. Questo è il motivo per cui ad Alexander Shamilievich non
piaceva avere nuovi artisti nelle sue esibizioni: era quindi impossibile per un giovane
entrare a far parte del suo cast se non aveva completato il “corso di formazione”.
Sono stato l’assistente di Melik-Pashayev durante i miei anni da direttore d’orchestra al
Teatro Bolshoi, nella produzione dell’opera Bank Ban di F. Erkel. I miei compiti
includevano la direzione delle prove con i cantanti e la correzione delle bozze con
l’orchestra, il controllo del testo, i dettagli, le dinamiche e la correzione degli errori.
Quando Alexander Shamilievich saliva sul podio, io ero dietro di lui, alla barriera della
buca dell’orchestra. Tutto stava andando bene, finché all’improvviso ci fu uno stop: un
errore negli spartiti. Alexander Shamilievich aveva un orecchio delicato. Anch’io stavo
ascoltando attentamente ma quell’errore me lo persi. Solo quando quella parte venne
ripetuta percepii una specie di suono tremolante: non sembrava sbagliato, ma c’era
comunque qualcosa che non andava nell’accordo. Questo incidente mi aprì un mondo
di nuove idee sul controllo uditivo. Seduti in orchestra, imparammo a notare i suoni
errati degli strumenti mono-timbrici, soprattutto dai musicisti al nostro fianco.
A volte si potevano ascoltare errori a distanza nel suono di strumenti con una
colorazione timbrica caratteristica, tipo quella di un clarinetto o di un oboe. Dopo questo
episodio accaduto durante le prove di Bank-Ban, la mia reazione all’intonazione dei
suoni nelle successive prove fu diversa.
La percezione uditiva di un ottonista, così come quella di un cantante, ha una natura
speciale. A causa del fatto che l’origine della produzione del suono e del suo controllo
(labbra e orecchie) sono molto vicini, non possiamo percepire il suono come se venisse
79
ascoltato a distanza perciò, senza la percezione dello spazio, il suono è più difficile da
controllare e correggere. Per questo motivo il trombettista non sempre riesce ad
accordare perfettamente il suo strumento. È ancora più difficile correggerlo durante
l’esecuzione in quanto lo strumento, riscaldandosi, inizia a diventare crescente.
Sono sempre stato felice di suonare con Melik-Pashayev. I capolavori insuperabili del
suo repertorio erano Carmen, La Dama di Picche, Aida ed altre opere di Verdi e Puccini.
Alexander Shamilievich aveva una sensibilità molto acuta per la natura esecutiva dei
membri dell’orchestra. Quando qualcosa non funzionava nell’insieme diceva: “Penserò
ad un modo migliore per dimostrarlo”.
Ricordo come le sue mani diventavano sempre tese in un modo convulso nella scena
della morte della contessa ne La Dama di Picche, prima di dirigere gli ultimi due brevi
accordi delle trombe e tromboni, che coronavano l’ultimo respiro della vecchia morente.
Riusciva a trasmetterci questa tensione: sembrava paralizzarci, quasi da soffocarci in
attesa del gesto del direttore. Spesso, ciascuno secondo il proprio sentimento,
suonavamo questi accordi separatamente, dopodiché, insieme ad Alexander
Shamilievich, sorridevamo di tali sciocchezze, perché infondo era un dettaglio che non
presentava alcuna difficoltà. Inoltre, nel primo atto de La Dama di Picche c’è un
passaggio per tromba sola, dopo le parole di Tomsky: “Ma il Conte non era un
codardo”. Il passaggio in sé non è molto difficile, ma nei fatti c’erano molti problemi
nell’eseguirlo! Il fatto è che questa frase, completamente scomoda, va suonata dopo una
lunga pausa di 12-15 minuti. Qui il trombettista suona completamente da solo, senza il
supporto di altre voci e con un’area tonale incerta: solo la fine della frase afferma la
tonalità di Do Maggiore. Tutto questo crea, oltre a disagi, anche incertezza. Ilya
Mineevich Granitzky, che interpretò meravigliosamente questo passaggio, mi disse
ripetutamente che questa frase era molto complicata. Nell’esibizione del solo eseguito
da Naum Emmanuilovich Polonsky avvertii un tremore nel suono, del tutto insolito per
lui, e pensare che Polonsky era il leader dei trombettisti sovietici, la star degli anni ’30
e ’40.
Ora toccava a me eseguire quel solo. Alexander Shamilievich mi fermò nel corridoio e
disse: “Timochka (si rivolgeva con tutti sempre in modo gentile), voglio chiederti di
dare un’occhiata più da vicino a La Dama di Picche.”
Ma eseguii il solo senza provarlo, pensando che sarebbe stato facile. Prestai attenzione
semplicemente alla musica senza prestare attenzione all’avvertimento di Granitzky.
Durante lo spettacolo mi stavo chiedendo perché mai quella frase venisse considerata
difficile. E poco prima delle fatali parole “Ma il Conte non era un codardo” persi
completamente il punto di riferimento tonale: adesso non avevo più nulla che mi potesse
sostenere... Nel totale silenzio, dopo la frase del cantante, non ho suonato ma, come si
suol dire, l’ho beccato e nel posto sbagliato. Questa fu la punizione per l’arroganza. Ma
su questo argomento ci tornerò più tardi: a me, allora giovane musicista, quella lezione
non fu abbastanza.
Tornai di nuovo ad interfacciarmi con La Dama di Picche dopo molto tempo. Seguendo
il consiglio del direttore d’orchestra Mark Fridrikhovich Ermler, con il quale effettuai
molte registrazioni, decisi di risuonare quella sfortunata frase adesso sulla tromba in Do.
Quello fu un consiglio intelligente da parte di un uomo saggio. Continuai a suonare per
molti anni La Dama di Picche sempre con successo, ma quel passaggio richiese sempre
una concentrazione speciale.

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Y. F. Fayer
Yuri Fyodorovich Fayer (il direttore del balletto) era un musicista di grande talento,
ispirato da Dio, emotivo e brillante, con un dono speciale nel percepire il suono. Un
direttore d’orchestra possiede un suono? Dopotutto, ogni musicista ha le proprie qualità
sonore. Sembra che anche un direttore d’orchestra abbia un suono, ovvero quello che
riesce a far esprimere all’orchestra: ecco perché ogni orchestra suona in modo diverso
sotto diversi direttori.
Ciò fu particolarmente evidente al concerto tenutosi nella Sala Grande del Conservatorio
nel 1951, dedicato al 175° anniversario del Teatro Bolshoi. Tutti i direttori del Teatro,
eccetto N. S. Golovanov seppur era ancora il direttore principale a Teatro, quella sera si
alternarono alla direzione dell’orchestra. Fu possibile confrontare il suono della stessa
orchestra “nelle mani” di diversi direttori, con i loro differenti stili esecutivi. Il
programma comprendeva piccole composizioni, ouverture, frammenti orchestrali di
opere e danze tratte da opere-balletto.
Quando l’orchestra iniziò a suonare l’intermezzo Tertz (la parte del duo di clarinetti)
tratto dal balletto Raymonda di Glazunov, era ovvio che nessuno poteva far suonare
l’orchestra così bene come faceva Fayer.
Per circa due anni Yuri Fyodorovich, con vari pretesti, non mi lasciò suonare nelle sue
esibizioni. Un primo pretesto fu il fatto che chiedeva che le parti di cornetta fossero
suonate sulla cornetta ed io non ce l’avevo.
Presto mi procurai una cornetta della compagnia “Alexander”, arrivata dalla Germania
subito dopo la guerra. La mia prima esibizione con la cornetta nel balletto Il Lago dei
Cigni predeterminò il mio futuro. Dopo il mio debutto, Fayer si assicurò che Dokshizer
suonasse a tutte le sue esibizioni. E adesso non faceva più nessuna differenza se suonavo
la tromba o la cornetta. Continuai perciò a suonare la tromba, mettendo da parte la
cornetta: aveva un bellissimo suono ma il suo registro acuto era difficile. Su quella
cornetta realizzai il mio primo disco, nel quale eseguii per la prima volta Il volo del
calabrone dall’opera La Fiaba dello Zar Saltan di Rimsky-Korsakov.
Quarantacinque anni dopo restituii alla sua patria questo strumento a me caro. Ora è
presente nella mostra del famoso Museo delle Trombe di Bad Säckingen.
La partecipazione alla produzione dell’opera-balletto di S. Prokofiev Romeo e Giulietta
finalmente rafforzò la mia posizione di solista d’orchestra. Adesso suonavo le parti di
tromba e cornetta solista con tutti i direttori. Fu interessante lavorare anche con i direttori
più giovani, quali Gennady Rozhdestvensky, Evgeny Svetlanov, Algis Zhuraitis, Mark
Ermler ed altri. Oggi i loro nomi sono conosciuti in tutto il mondo.

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Con il leggendario P. Y. Lyamin, trombettista e direttore
d’orchestra del Teatro Bolshoi

Alexander Shamilievich Melik-Pashayev

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Capitolo 16
Trombettisti d’orchestra
La sezione delle trombe nell’orchestra principale del Teatro Bolshoi era composta da
undici persone, lo stesso numero di trombettisti della banda di ottoni di scena. A capo
del gruppo c’era Ivan Antonovich Vasilevsky, che suonava magistralmente,
brillantemente, con un suono delicato e leggermente vibrato. Oltre a lui le prime trombe
erano: S. N. Eremin, che aveva un suono voluminoso, potente, simile alla lava vulcanica,
ma inattivo tecnicamente; P. Sadovsky, un gigante di due metri ma con un suono
brillante e leggero; N. E. Polonsky, un magnifico musicista che sapeva unire la potenza
di un trombettista ed il virtuosismo di un cornettista. Quest’uomo, oltre ad essere un
musicista dotato, aveva un’altra dote: quella di lavorare il legno. Iniziò con alcuni
oggetti per la casa per poi passare agli strumenti a percussione (nacchere, xilofoni), fino
a diventare liutaio, ottenendo anche un diploma in un Concorso Internazionale per
questo settore.
L’assistente della prima tromba e della prima cornetta era V. I. Ivanov. Suonava
magnificamente, in modo molto professionale, anche se non aveva brillanti
caratteristiche. A. Augustenchik, che era l’assistente della prima e terza tromba aveva
un suono molto bello, fatto di “briciole d’oro”, una buona estensione ed un registro acuto
brillante. Gli assistenti della seconda e terza tromba erano i fratelli Andrei e Yakov
Gandel, entrambi bravi musicisti intellettuali. Andrei però, a causa delle sue condizioni
di salute, suonò per poco tempo, ma ciò non gli impedì di suonare bene. Yakov, amante
della vita, era l’anima della società e quindi del nostro gruppo: era sempre impelagato
in storie amorose. Le due seconde trombe A. Balakhonov e K. Kurganov avevano
entrambi un bel suono. Erano accaniti pescatori. Balakhonov era una persona
eccezionalmente professionale e organizzata. Kurganov invece era una persona
spensierata e allegra. Bisogna notare che quasi tutti i trombettisti del gruppo erano allievi
della classe di Mikhail Innokentyevich Tabakov.
La formazione del gruppo veniva aggiornata periodicamente. Comprendeva I. Pavlov,
I. Granitzky, I. Volovnik e i fratelli moldavi Orest e Mikhail Usach. Poi ci furono A.
Maksimenko e V. Novikov. Un tempo nell’orchestra lavorava L. Volodin, solista
dell’Orchestra di Stato e quando I. Vasilevsky, S. Eremin, P. Sadovsky, A.
Augustenchik e V. Ivanov lasciarono il gruppo, N. Polonsky divenne il leader.
Ai nostri tempi l’atmosfera nel gruppo era caratterizzata da buona volontà e attenzione
reciproca durante l’esecuzione. Questo importante fattore di contatto artistico ebbe un
effetto benefico sul lavoro: insieme lavorammo in maniera semplice e allegra. Negli
intervalli durante le esibizioni potevamo fare altro o anche distrarci, scrivere qualcosa,
disegnare o guardare il palco. Non eravamo affatto dei “cracker”, preoccupati solo della
nostra professione. Ogni cast aveva un “suggeritore” che teneva d’occhio tutte le pause
che avevamo in partitura, così da avvertirci quando dovevamo suonare: “Lettera ‘E’,
mancano sedici battute per l’entrata... due, tre, quattro...” intanto tutti iniziavano a
prendere in mano lo strumento, riscaldavano il bocchino e puntavano gli occhi sulla
parte. “Quattordici, quindici, sedici...” E, come un unico strumento, tutti entravano! I
83
“suggeritori” più affidabili furono Alexander Grigorievich Balakhonov, Ilya Mineevich
Granitzky e Ivan Illarionovich Pavlov.
Quest’ultimo si distinse nel gruppo non perché era il miglior interprete, ma perché era
un uomo orgoglioso. Questa qualità del suo carattere, ad eccezione di alcuni periodi,
non si rifletteva nel lavoro: i nostri rapporti erano solo di tipo professionale, a volte
anche confidenziale, ma a volte questo lo “deviava” in una direzione o nell’altra. La
cosa più spiacevole in lui era la sua naturale tendenza antisemita e sciovinista.
Nella sfera sociale e professionale ero una persona attiva e in qualche modo si scoprì
che tutti gli anniversari e gli incontri tra trombettisti di solito non si svolgevano senza la
mia presenza. Per questo Pavlov si offese e un giorno, incapace di trattenersi, disse:
“Dokshizer ha trasformato il Teatro in una sinagoga”. Inoltre disse: “Dokshizer è a capo
dell’organizzazione sionista a Mosca”. Sebbene ciò accadde negli anni ’70, durante il
periodo di massimo splendore dell’antisemitismo nel nostro Paese, fortunatamente la
mia autorità ed il mio nome erano al di sopra delle calunnie nazionaliste.
In tempi diversi in Russia, le persone che incitarono alle contraddizioni nazionaliste si
impegnarono a farlo sporcandosi le mani, classificando le persone in base al loro
“sangue” per sbarazzarsi di coloro che non volevano. Quando ai donatori veniva chiesto
di aiutare le persone con una sacca di sangue, questi non si interessavano alla nazionalità
del ricevente, ma al gruppo sanguigno: perciò come il sangue ebraico può salvare un
russo, un russo può salvare un americano. Se le persone parlano la stessa lingua,
lavorano nella stessa squadra, questo è abbastanza per la comprensione e la
comunicazione. Funziona così nel mondo civilizzato. Se non parlano la stessa lingua,
trovano altre forme di comunicazione. Lo posso attestare con la mia esperienza
personale, perché spesso tengo seminari e corsi di perfezionamento in diversi Paesi,
senza conoscere molte lingue straniere.
In Olanda, nell’ospedale dove fui operato al cuore, la barista era spagnola, la cameriera
era afro-americana, il capo reparto arabo, l’anestesista giapponese, ma questo non
cambiava niente. C’era unità tra di noi ed io facevo parte di questo. Le relazioni si basano
solo sul rispetto verso il prossimo. Lì, nel sanatorio riabilitativo, quando noi, i quattro
pazienti del reparto, ci sedevamo a tavola, nessuno prendeva la forchetta in mano finché
uno di noi, un olandese credente, non pregava prima del pasto...
Mentre qui, a casa mia, nella mia terra natale, dove vivevano i miei antenati, stanno
cercando di rendermi uno straniero! La mia cultura, la mia lingua è il russo. La musica
russa fa parte di me, io sono il suo predicatore e nessuno potrà togliermi ciò che mi è
stato dato con il latte materno.
Purtroppo gli incidenti “Pavloviani” furono solo i fiori: i frutti comparvero più tardi.
Ancora una volta, nella mia Russia, in tempi difficili, il nazionalismo e l’antisemitismo
stavano rifiorendo...
Dopo che il leggendario Naum Polonsky si ritirò, mi capitò di essere a capo di un gruppo
di trombettisti. Assistetti ancora una volta al cambio di generazione: V. Prokopov, F.
Rigin, A. Maksimenko (morto prematuramente), P. Vedenyapin, M. Khanin, Mikhail
Granitzky, V. Yankov (morto tragicamente nel Mar Nero) entrarono a far parte
dell’orchestra. Invece A. Orekhov, V. Istomin, Y. Tokin, A. Korolkov, S. Zverkin, Y.

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Goncharenko, S. Yusupov e V. Dokshizer si unirono all’orchestra di scena. Dopo la mia
uscita dal Teatro entrarono a farne parte I. Shkolnik e I. Sazonov, morti anch’essi
prematuramente.
Così, nel corso di trentotto anni di lavoro in orchestra si susseguirono ben tre generazioni
di trombettisti.

Al banchetto della festa del mio compleanno dopo l’esibizione,


con mia moglie Monna (a sinistra)
e mia madre Lubov Naumovna (a destra)

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Capitolo 17
Le relazioni tra l’orchestra e il direttore d’orchestra
Per tutti noi artisti nell’orchestra era una vera delizia quando tutto andava bene, una
maledizione, una sofferenza quando qualcosa andava storto, come i fastidiosi
“incidenti”, particolarmente evidenti se commessi dai trombettisti. A questo proposito
mi permetto di fare alcune riflessioni sulla professione di musicista e direttore
d’orchestra.
Il musicista è il creatore diretto del suono, è responsabile della qualità del suono,
dell’intonazione, del fraseggio, dell’insieme. Nel processo esecutivo pensa attivamente,
controlla, ascolta, confronta, determina il suo ruolo nei singoli accordi e frasi musicali.
Lui, in quanto partecipante alla creatività collettiva, dà il suo contributo personale al
suono generale. Il direttore d’orchestra invece è responsabile di tutto e di tutti. Lui non
riproduce direttamente i suoni, ma dirige e unisce l’energia di tutto il gruppo. Gli
incidenti e gli errori che possono verificarsi durante l’esecuzione sembrano non avere
nulla a che fare con questo ma non è sempre così: gli errori del direttore d’orchestra,
soprattutto legati all’incertezza del gesto, si riversano sui musicisti, infondono
incertezza, creano disagi durante l’esecuzione e paralizzano la loro volontà.
Durante le prove con l’orchestra di Mosca, il famoso direttore d’orchestra virtuoso,
l’italiano Willy Ferrero, dimostrò l’introduzione della Quinta Sinfonia di Beethoven con
un gesto lento (questo, come è noto, è oggetto di paragone per un direttore d’orchestra).
Quando ci furono esclamazioni di insoddisfazione da parte dei musicisti del tipo:
“Maestro, non ci sei riuscito”, Ferrero dimostrò l’introduzione in modo tale che nessuno
poteva suonare secondo il suo gesto, anche se volesse cimentarsi.
Quando un musicista commette un errore, tutti possono notarlo. Quando invece un
direttore commette un errore è impercettibile e pochi se ne accorgono, tranne,
ovviamente, i musicisti stessi. Ogni musicista serio si preoccupa del suo errore e ne è
responsabile. Il direttore d’orchestra invece agisce spesso secondo l’aforisma di B.
Khaikin: “Quando il direttore commette un errore, deve subito trovare il colpevole”.
Nella pratica dei direttori d’orchestra, questa è una tecnica standard: è necessario che il
colpevole mantenga l’impeccabilità della sua autorità, ma sono proprio questi eventi che
non aggiungono autorità al leader. Allo stesso tempo, i musicisti tendono a sostenere
l’alone di infallibilità del loro direttore e a perdonandogli alcune piccole debolezze.
Questo atteggiamento è bello solo quando è reciproco. Dopotutto siamo umani e, come
amano dire nel nostro settore: “Se succede a noi, può succedere anche a te”.
Pertanto, se nell’ambito artistico c’è rispetto reciproco tra il direttore e l’orchestra, si
sviluppa una buona comprensione reciproca e, di conseguenza, si ottengono buoni
risultati artistici. Ma se un musicista suona in modo inespressivo, stonato, la colpa è solo
sua, non del direttore. Quando l’orchestra non suona insieme, in modo fiacco, noioso,
poco interessante, aspro, il direttore ne è fortemente responsabile. Allo stesso tempo le
sue esclamazioni sono del tutto infondate: “Non suonate insieme ...”, “... suonate
insieme al gesto della mia mano!” È possibile ascoltare anche risposte del tipo:
“Abbiamo suonato come ci è stato mostrato!” E questa è la verità. Il musicista suona, il
direttore d’orchestra mostra; ma entrambe le parti sono coinvolte nel processo esecutivo.
Pertanto, responsabilità e mobilitazione devono essere reciproche.

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Un direttore che si considera sempre nel giusto perde il rispetto e la fiducia dei musicisti
e questo a volte porta alla fine della collaborazione. La personalità del direttore è sempre
sotto lo sguardo critico di centinaia di occhi: come si pone, come è vestito, cosa dirà, da
dove inizierà... Anche i musicisti tendono ad essere critici nei confronti del direttore. A
tutti può sembrare che il direttore non stia facendo la cosa giusta, che quella cosa
dovrebbe essere fatta diversamente. Come diceva Shota Rustaveli: “Tutti pensano di
essere uno stratega, che osserva una battaglia dall’esterno”. I musicisti in particolare non
accettano ripetizioni troppo frequenti, interruzioni durante le prove per delle
sciocchezze, l’insistenza del direttore nell’eseguire sottigliezze e dettagli vari. In una
parola, criticano l’essenza del metodo volto a migliorare l’esecuzione. Ma il metodo
della ripetizione non è parte della pratica di un musicista che lavora su un brano
strumentale solista? Il guaio è se non entra, se, essendosi perso una o due volte,
l’esecutore non sa cosa fare dopo.
Sfortunatamente è diventata una moda anche nella pratica del direttore d’orchestra
eseguire opere monumentali dopo due o tre prove. Penso che il metodo delle prove
frettolose ed il suonare materiale senza fissare obiettivi artistici, sia tanto negativo
quanto il dirigere un centinaio di prove per una produzione con infinite rifiniture dei
dettagli che ogni musicista è poi obbligato a risolvere da solo senza essere sollecitato.
Ho notato che in orchestra a lamentarsi del lavoro certosino del direttore sono soprattutto
quei musicisti che, nello studio individuale, non si distinguono per il desiderio di
migliorare le loro capacità.
Suonare in un’orchestra è sempre una scuola per qualsiasi professionista. In diverse parti
del mondo mi veniva spesso posta la stessa domanda: “Perché tu, un concertista, suoni
in un’orchestra?” La mia risposta era semplice: nell’orchestra posso mettere alla prova
il mio udito, il mio ritmo, il mio suono e la mia capacità d’insieme. E così, dopo ogni
tournée di concerti da solista, cercavo di unirmi all’orchestra per seguire un altro corso
di “prevenzione professionale”.
Sono un musicista orchestrale, il mio strumento è orchestrale. Osservavo concertisti
solisti che non suonano in un’orchestra: pianisti, violoncellisti, violinisti. Quanto
impegno ci mettono per realizzare il loro concetto di performance, superare la
sensazione soggettiva di tempo e ritmo ed essere parte di un ensemble! Si, ho sempre
studiato in orchestra con i migliori musicisti, direttori, cantanti, registi e con essi ho
imparato a suonare e pensare.
Lavorando in Teatro, seguivo rigorosamente il regime di un solista d’orchestra. Ciò si
esprimeva nel fatto che la pratica mattutina del giorno di un’importante concerto era
leggera e di breve durata, circa mezz’ora, perché tutta la preparazione in vista del
concerto l’avevo già fatta due o tre giorni prima. Il giorno dello spettacolo facevo una
breve passeggiata, un pranzo tardivo senza piccante né sale e ovviamente senza alcool,
con un riposo pomeridiano obbligatorio e preferibilmente con un breve pisolino. Questa
semplice routine mi permetteva di essere attento e concentrato durante la performance.
Gli anni di lavoro a Teatro furono per me anni di studio, “la mia università”, la
formazione della maturità, il perfezionamento artistico. Arrivai a Teatro come vincitore:
questo titolo era la prova della più alta categoria di musicista, quando improvvisamente
dalle labbra di Ivan Antonovich Vasilevsky sentii le parole: “Ora devi studiare”. Pensai
tra me: cos’altro devo studiare? Dopotutto, sono un vincitore, sono stato accettato dai
musicisti e partecipo attivamente al lavoro dell’Orchestra del Teatro Bolshoi. Ma

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accettai comunque in pieno il consiglio del mio insegnante: mentre lavoravo a Teatro,
mi laureai in due università, assorbendo avidamente tutto ciò che vedevo e sentivo
intorno a me.
Il Teatro Bolshoi diventò per me un’accademia per la comprensione di una conoscenza
profonda e superiore. Studiai con gli eccezionali solisti dell’orchestra: i violinisti S.
Kalinovsky, I. Zhuk; i violoncellisti S. Knushevitsky, I. Buravsky e V. Matkovsky; i
flautisti I. Yutson e G. Ignatenko; gli oboisti M. Ivanov e N. Soloduev; i clarinettisti A.
Volodin ed I. Zuckerman; i fagottisti M. Khali Leev e Y. Schubert; i trombettisti N.
Polonsky ed S. Eremin. Studiai anche con cantanti e direttori d’orchestra. Dal
talentuosissimo regista Boris Alexandrovich Pokrovsky, una persona molto interessante,
trassi molte idee importanti per me e per la mia musica. Essendo nel vivo della vita
teatrale e vedendo il lato negativo di un processo complesso e talvolta doloroso, noi
artisti non potevamo sempre valutare oggettivamente i risultati del duro lavoro di
centinaia di persone e talvolta sottoponevamo i nostri lunghi mesi di lavoro a critiche
devastanti. Tale costante insoddisfazione dei partecipanti stessi mobilitò tutti, sebbene
questo si rivelasse essere un comportamento offensivo nei confronti dei leader delle
nuove produzioni. Solo la reazione entusiasta del pubblico, che apprezzava molto la
nostra esibizione o il nostro concerto, fece cambiare gradualmente il nostro giudizio sui
risultati del nostro lavoro. D’altra parte, i partecipanti alle rappresentazioni
conservarono con zelo e sacralità tutto ciò che originariamente era stato posto in loro
dal regista, direttore d’orchestra, artista, e la minima deviazione venne considerata una
catastrofe. Fu nota la reazione del veterano del Teatro, il suggeritore Alexey
Stepanovich Tyurin all’errore del suo collega, che durante il corteo nello spettacolo Aida
entrò nel backstage sbagliato e “fallì la performance...”.
Non ci furono persone indifferenti nel Teatro. La maggior parte di coloro che partirono
per un altro lavoro rimasero “Bolshoista” nell’anima, ovvero orgogliosi della loro
appartenenza al Teatro e non persero mai l’occasione di dire con dignità: “Ho lavorato
al Teatro Bolshoi”.
Molti anni fa, durante l’intervallo di una prova generale, l’operaio più anziano del
Teatro, un ex trombettista e poi direttore d’orchestra di scena, Pyotr Yakovlevich
Lyamin (in quel periodo era già in pensione), si avvicinò alla transenna dell’orchestra e
gli orchestrali cominciarono a lamentarsi con lui dicendo: “Dicono che suoniamo male,
che non è interessante, ma Dio sa cosa c’è sul palco...” Lyamin, guardando giù nella
“fossa”, rispose: “Da qui è tutto di alto livello, tutto è professionale e meraviglioso.
Apprezzate questi anni felici di lavoro a Teatro”.
In tutta onestà, va notato che non sempre tutto riusciva a Teatro. L’intera squadra
sperimentò anche i fallimenti. Ma quanti Boris Godunov, Aida, Tosca, Dama di Picche,
Eugenio Onegin, Khovanshchina, Carmen, Zar Saltan, La Traviata, Werther, Lago dei
Cigni vennero eseguiti durante i miei anni a Teatro, e quanti Spartak, Legend of Love,
Stone Flowers, Iolanta, Sogno di una notte di mezza estate suscitarono costante
eccitazione e gioia tra il pubblico e gli artisti stessi!
Al Teatro Bolshoi ero felice, sperimentai un genuino rispetto per me stesso ed ebbi
riconoscimenti per il mio lavoro dai miei colleghi e dai management. Una
manifestazione di attenzione nei miei confronti, senza precedenti, fu la celebrazione del
mio sessantesimo compleanno in cui mi esibii sul palco principale. Questo fu l’unico
caso nella storia del Bolshoi in cui venne assegnata una sala teatrale ad un musicista

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orchestrale per un’esibizione. Il programma, diviso in due parti, prevedeva l’esecuzione
della Rhapsody in Blue di Gershwin nella mia trascrizione per tromba, il Concerto di
Hummel con un’orchestra da camera (diretta da Yuri Simonov) e diversi brani con
l’ensemble di violini di Yuli Reentovich. Nella seconda parte ci fu l’esecuzione del terzo
atto del balletto Il Lago dei Cigni. Qui lasciai il palco cedendolo al balletto. Eseguii la
Danza Napoletana stando in piedi nell’orchestra, illuminato da un riflettore, tra gli
applausi del pubblico...
Per il mio compleanno ricevetti molte congratulazioni sotto forma di messaggi
generalmente ricevuti tramite posta, lettere e telegrammi in poesia e prosa. Condivido
qui un frammento della poesia del trombettista di Leningrado V. S. Margolin:

Il tuo suono magico della tromba,


Affascina il mondo per decenni.
Nell’era di totale noia del pop,
I trilli accarezzano l’etere.

Lo staccato è un placer di diamanti


Il suono è un flusso d’argento,
Quando Timofei suona il legato
È come se stesse intrecciando merletti.

E tutta la tua forma è ispirata,


Un tutt’uno con la musica, tanto che
La corona reale di capelli grigi brilla
Di eterna giovinezza...

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Capitolo 18
La vita dietro le quinte
La vita dietro le quinte del Teatro Bolshoi, ovviamente, non entrò sul palco e non venne
notata dal comune spettatore. È sempre stata e rimane diversa, particolare e in qualche
modo scandalosa, in modo piccolo o grande, che colpisce gli interessi delle singole
persone o della squadra nel suo insieme. In certe situazioni, la vita dietro le quinte ebbe
una cattiva influenza sull’atmosfera artistica del Teatro.
Cominciai ad accorgermene quando, dopo la “storica” rivoluzione del Comitato
Centrale del PCUS nel 1948 sull’opera La grande amicizia di V. Muradeli, i direttori
del Teatro iniziarono ad essere rapidamente sostituiti: Solodovnikov, Anisimov,
Pakhomov, Chulaki, Orvyd, Muromtsev, Lushin ed altri si alternarono a vicenda per
circa 10-15 anni. Inoltre, Chulaki fu nominato direttore due volte, con un intervallo di
diversi anni tra un mandato e l’altro. Nella suddetta rivoluzione, i lavori del Teatro
Bolshoi vennero demoliti e i nostri principali compositori furono sottoposti a critiche
devastanti coinvolgendo, ovviamente, le “opinioni” dei rappresentanti della classe
operaia e dei contadini, come era consuetudine fare allora. Questo decreto ci obbligò a
studiare e criticare l’opera dei “compositori formalisti”.
Dopo che N. S. Golovanov lasciò il Teatro al quale, come si suol dire, il guardiano di
turno per la prima volta in molti anni chiese il suo lasciapassare e poi lo portò via, non
lasciando entrare Nikolai Semyonovich nel Teatro, A. S. Melik-Pashayev divenne il
direttore d’orchestra ad interim. In questo status, guidò la vita musicale del Teatro per
più di dieci anni, un periodo senza precedenti.
Alexander Shamilievich si occupò di problemi puramente artistici, senza approfondire
questioni amministrative e senza toccare gli intrighi, che però toccarono lui. Durante il
periodo in cui Melik-Pashayev era il direttore principale del Teatro Bolshoi, E.
Svetlanov fu nominato direttore principale del Palazzo dei Congressi del Cremlino, che
era la seconda sede del nostro Teatro. E poiché il Teatro Bolshoi e il KDS avevano in
precedenza una direzione amministrativa e artistica comune, si creò una situazione
anomala di doppio potere musicale. Nel corso degli anni, le esibizioni di Melik-
Pashayev iniziarono ad essergli sottratte. Alexander Shamilievich una volta mi disse:
“Timochka, sono diventato scomodo al Teatro”. Si sentì molto offeso.
A quel tempo apparve la rivista “Musica Sovietica”, un editoriale sul Teatro Bolshoi
con aspre critiche ad A. S. Melik-Pashayev e al direttore generale B. A. Pokrovsky.
Durante la discussione sull’articolo, avvenuta a Teatro, Alexander Shamilievich e Boris
Alexandrovich dichiararono ufficialmente che, a loro avviso, il Teatro Bolshoi non
dovrebbe avere lo status di “principale” (il “principale” è colui che prepara la prima) e
le questioni artistiche dovrebbero essere risolte congiuntamente dal regista e dal
direttore artistico. Le opinioni di Melik-Pashayev e Pokrovsky furono “ascoltate”. La
discussione ebbe luogo nel novembre 1962 e il 2 gennaio 1963 Melik-Pashayev fu
sollevato dall’incarico di direttore principale del Teatro Bolshoi. E. F. Svetlanov prese
il suo posto, diventando il direttore principale del Teatro Bolshoi e del Palazzo dei
Congressi del Cremlino.
Con la morte prematura di A. S. Melik-Pashayev all’età di cinquantanove anni nel 1964,
terminò un periodo luminoso e, forse, uno dei migliori nella storia del Teatro Bolshoi.

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Con la nomina di ogni nuovo direttore principale, così come avveniva con il cambio
dello zar, “i ciuffi dei servi si spezzavano” e si verificava un riorientamento nel team
artistico. Spesso “chi non era nessuno diventava tutto” (così recita un verso dell’inno
dell’ex Unione Sovietica). Si formarono nuove squadre di compiacenti, adulatori e spie
e nuove caste in base alle loro denunce. Queste persone non permettevano ai direttori di
risolvere le questioni artistiche e del personale. Alcuni di loro potevano anche
influenzare e pilotare qualsiasi direttore d’orchestra. I direttori, a loro volta, si
avvalevano (nonostante la loro debolezza professionale) dei servizi di questi adulatori,
preoccupandosi solo della loro professione. Queste figure svolgevano tenacemente gli
incarichi pubblici nel Partito Comunista e nei Sindacati, partecipando anche all’annuale
campagna per mandare in pensione anticipatamente coloro che non erano d’accordo con
il loro pensiero. Questa pratica si consolidò in Teatro da quando vennero introdotte le
nuove paghe per gli artisti. A fine stagione vennero stilate le graduatorie ed il Ministero
della Cultura, “allo scopo di rinnovare lo staff artistico”, approvò automaticamente
l’ordinanza di pensionamento di persone ancora perfettamente in grado di lavorare e di
mantenere la loro forma professionale.
Il primo a fermare questo oltraggio e a restituire le liste fu il Ministro della Cultura
Panteleimon Kondratyevich Ponomarenko, nominato nel 1953, ex leader del movimento
partigiano in Bielorussia. Dopo che E. F. Svetlanov si trasferì per cinque anni (1965-
1970) nell’Orchestra Sinfonica di Stato dell’URSS, il direttore generale del Teatro fu G.
N. Rozhdestvensky - un uomo di sani principi, diretto, che aveva una posizione artistica
indipendente e non voleva essere preso in considerazione nei litigi dietro le quinte.
Durante il periodo del lavoro di Gennady Nikolaevich, un giovane sconosciuto, il
direttore d’orchestra Y. I. Simonov, iniziò ad apparire a Teatro. Dopo aver diretto Aida,
l’allora Ministro della Cultura Ekaterina Alekseevna Furtseva lo trasferì da Kislovodsk
- dove Simonov aveva da poco iniziato a dirigere l’orchestra filarmonica locale, appena
diplomatosi al Conservatorio di Leningrado - al Teatro Bolshoi come direttore
principale.
Le capacità organizzative di Simonov superarono il suo talento musicale. Divise
immediatamente l’orchestra, creando la sua squadra di investigatori. Ciò incusse paura
non solo ai musicisti, ai cantanti e alla direzione dei gruppi, ma anche alla direzione del
Teatro. Sembrava che il giovane di ventinove anni non capisse il suo ruolo e non
apprezzasse il suo importante incarico.
E. A. Furtseva sostenne a lungo Simonov non solo difendendo l’onore della sua
uniforme, ma anche tenendo conto del fatto che il giovane direttore d’orchestra era
patrocinato da un mecenate, membro del Politburo, capo dell’organizzazione del Partito
Comunista di Mosca: V. V. Grishin. Pertanto, probabilmente, fu questa la ragione del
suo comportamento così spudorato.
Nonostante il suo talento musicale incondizionato, durante i cinque anni della sua carica
di direttore principale fallì completamente il suo lavoro. E solo nel 1985 fu finalmente
rilasciato ma, non trovando un impiego nelle orchestre di Mosca, venne creato
appositamente per lui un nuovo gruppo ordinato dal suo mecenate Grishin, la Piccola
Orchestra Sinfonica del Ministero della Cultura dell’URSS, che ben presto distrusse. Il
gruppo si rifiutò di suonare con lui e di andare in tournée all’estero perché Simonov, di
sua spontanea volontà, dichiarò che alcuni dei musicisti “non erano affidabili per

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viaggiare all’estero” (una tale categoria di sovietici, grazie a Dio, non esisteva a quel
tempo).
Per diversi anni feci parte del Consiglio Artistico del Teatro. Questo era il più alto
organo consultivo nella vita artistica del Teatro in quanto dava le sue raccomandazioni
sul repertorio, discuteva dei gruppi di produzione e di nuove rappresentazioni, sosteneva
la nomina di artisti per incentivi statali, ecc.
E. A. Furtseva partecipò alle riunioni del Consiglio Artistico. In qualche modo, dopo
l’ennesima critica della Stampa sull’operato del Teatro (e all’epoca ciò poteva avvenire
solo su ordine del superiore), venne da noi sul tardi e, ovviamente, dopo una bella
bevuta. Era mattina presto. Il Consiglio ebbe inizio con una discussione sul piano a
lungo termine. Ad un certo punto Ekaterina Alekseevna interruppe tutti ed iniziò a
divagare su argomenti “femminili”. A Simonov fu assolutamente proibito di aprire la
bocca: “Tu siediti e rimani in silenzio.”.
In effetti, ad Ekaterina Alekseevna non si poteva negare il fascino femminile e non era
affatto una persona stupida, a modo suo amava gli artisti e aiutava il Teatro. Ma cosa
potrebbe esserci di più disgustoso di una donna nel grado di Ministro che è ubriaca?!
Quando il capo coreografo Yuri Nikolaevich Grigorovich iniziò a parlare, Furtseva,
senza lasciargli finire la prima frase, lo interruppe e parlò per quasi trenta minuti di
tutt’altro: dei compiti generali, della responsabilità verso il partito ed il popolo, di calze
e moda... E quando il suo sguardo cadde accidentalmente su Grigorovich e gli chiese di
continuare, Yuri Nikolaevich reagì argutamente con una breve frase: “Bene, compagni,
in realtà questo è tutto ciò che volevo dire”.
Anche questi singoli episodi sono la storia del Teatro Bolshoi.
Nel nostro Paese si credeva che per guidare la cultura o qualsiasi altro settore fosse
sufficiente l’appartenenza al partito e non la competenza professionale... Dopo Furtseva,
fu nominato Ministro della Cultura Pyotr Nilovich Demichev, candidato membro del
Politburo, chimico di formazione. Lui, come Furtseva, fu “esiliato dalla cultura”: questo
causò una retrocessione nella linea gerarchica del partito. Demichev non comunicava
con noi come Furtseva. Le sue apparizioni in Teatro furono rare ed accompagnate
dall’instaurazione di un regime speciale. I superiori cominciarono a correre, a dare
ordini, gli operai non potevano entrare in tutti i locali, era necessario parlare a bassa
voce, come disse lo stesso Demichev.
Al primo incontro con la squadra, il nuovo Ministro lesse una noiosa conferenza
musicologica che i referenti gli prepararono in modo piuttosto primitivo. Con “brillante”
erudizione, spiegò perché il Teatro Bolshoi dovrebbe mettere in scena opere russe che
la gente stava aspettando, confondendo i nomi di Glinka e Mussorgsky (usando Mikhail
e Modest).
L’incompetenza di ciascuno di questi leader causò un danno irreparabile all’arte.
Demichev collezionò molte gesta “gloriose” al suo nome: basti ricordare l’epopea della
persecuzione e dell’espulsione dal Paese di Mstislav Rostropovich, che a quel tempo
lavorava attivamente al Teatro Bolshoi. La partenza di Rostropovich e Vishnevskaya fu
un duro colpo per la nostra squadra.
La storia del Teatro Bolshoi ha riflesso e continua a riflettere la storia del nostro Paese.
E, naturalmente, non furono Furtseva o Demichev a determinare il volto artistico del
Teatro anche durante il loro regno, anche se l’ombra nera della loro volontà malvagia e

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incompetente gravò su molti degli affari del Bolshoi. La vita reale del Teatro fu
determinata dalle personalità creative per le quali il gruppo è sempre stato famoso.
Il Teatro Bolshoi era, è e deve rimanere il centro della cultura musicale e teatrale del
nostro Paese. E fortunato deve ritenersi chi è stato coinvolto nella sua grande arte.

Con lo studente e successore Vyacheslav Prokopov (1981)

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Capitolo 19
In vacanza
Noi, dipendenti del Teatro Bolshoi, trascorrevamo insieme il tempo libero.
Trascorrevamo l’estate nella casa vacanza “Polenovo” sul fiume Oka tra pesca, giochi
sportivi, raccolta e preparazione di funghi. Trascorrevo ore sul campo da pallavolo.
Alexander Ivanovich Radunsky, ballerino e coreografo, caricaturista di talento e uomo
affascinante, organizzò qui “I giorni della risata”. Si trattava di spettacoli teatrali in
maschera con una sceneggiatura ed un programma appositamente organizzati. I giovani
ballerini aiutarono Radunsky e ricordo ancora l’attività di Lesha Varlamov, Vladimir
Levashov e Alexander Shvachkin. Tutti i presenti venivano coinvolti in questo momento
all’insegna delle risate e del divertimento.
Tutto ebbe inizio subito dopo esserci svegliati la mattina, quando il Dio del vino Bacco
percorse tutto il territorio della casa vacanza su di un cavallo che trainava un carro con
un’enorme botte d’acqua all’interno. Il ruolo di Bacco era tradizionalmente interpretato
da Pavel Sadovsky, grasso ed alto: ci svegliava tutti con il suo squillo di tromba.
Granitsky, Andrei Gandel ed io partecipammo ad un “concorso di bellezza”. Gli uomini
vennero vestiti con abiti da donna e truccati dalle ballerine. Ai vincitori vennero garantiti
tè e dolci. Kirill Petrovich Kondrashin fu il vincitore della gara per mangiare il porridge
di semola caldo e liquido senza cucchiaio, versato su un piatto piano. Il programma
prevedeva anche un bagno turco, un’orchestra gitana guidata dal trombonista Yakov
Maksimovich Shteiman e molto altro ancora.
Un episodio in particolare caratterizzò Alexander Ivanovich Radunsky. Di ritorno da
Polenovo con la sua macchina, investì e uccise accidentalmente una mucca sulla strada.
Il proprietario della mucca naturalmente si arrabbiò, allora Alexander Ivanovich lo
calmò, pagò il costo dell’animale morto e poi bevvero insieme per tre giorni, celebrando
questo triste evento.
Dopo l’inizio della stagione, la cooperativa della dacia “Aprelevka” organizzò “Le feste
del raccolto”, il più delle volte sulla trama modello Balakhonov. Il famoso comico
Andrei Gandel respinse gli ospiti con il pretesto di essere il proprietario solo del secondo
piano della casa perché il proprietario del primo piano vendette la sua metà come
rottame...
A Polenovo ci andavamo d’estate, durante le vacanze, e in inverno, autunno e primavera,
- la stagione attiva - amavamo molto andare nella casa vacanze “Serebryany Bor” vicino
Mosca. In questa accogliente dacia di legno a due piani sulle rive del fiume Moscova
trascorrevamo i fine settimana e talvolta due o tre giorni liberi da prove e spettacoli: a
volte in estate le nostre famiglie trascorrevano qui una settimana o due.
Non eravamo gravati dal fatto che tutti si conoscevano. Nella sala da pranzo lo “scambio
di opinioni” e gli scherzi volavano da un capo all’altro della sala, da un tavolo all’altro;
qui non si rispettavano i ranghi e i ruoli: musicista e direttore d’orchestra, regista e
suggeritore fraternizzavano liberamente.
Il compositore Mikhail Ivanovich Chulaki, che fu a lungo direttore del Teatro e
appassionato di astronomia, veniva spesso a “Serebryany Bor” con un telescopio e
osservava il cielo stellato dal balcone del secondo piano; il mattino dopo, durante una
passeggiata, parlava di ciò a cui aveva assistito.

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Le battaglie tra direttori d’orchestra si svolgevano nella sala da biliardo, dove si
sfidavano K. P. Kondrashin, E. F. Svetlanov e M. F. Ermler. Zurab Ivanovich
Andzhaparidze, un meraviglioso tenore ed una persona meravigliosa, ci offrì i suoi
famosi kebab. Durante le ore di festa si riunivano qui anche il direttore d’orchestra
principale e musicista della band Mikhail Isaakovich Lakhman, storico direttore del
botteghino del Teatro e uomo dall’umorismo inesauribile, Vladimir Atlantov che aveva
appena iniziato la sua brillante carriera, la meravigliosa cantante Larisa Ivanovna
Avdeeva e la bravissima ballerina di carattere Milyusha Bebeziqi di origine albanese,
morta prematuramente, Asaf Mikhailovich Messerer e Aleksey Nikolayevich
Yermolayev, Galina Sergeevna Ulanova, Sergei Yakovlevich Lemeshev... È
impossibile citarli tutti, venivano qui per qualche giorno per prendere una boccata d’aria
fresca.
Ai colleghi “stranieri” piaceva rilassarsi nel nostro “Serebryany Bor” e qui si potevano
incontrare Aleksandra Aleksandrovna Yablochkina, Ksenia Aleksandrovna Erdely,
Yuri Aleksandrovich Zavadsky, Yakov Vladimirovich Flier, Arkady Isaakovich Raikin,
Ruben Nikolayevich Simonov, Mark Isaakovich Prudkin...
Elizaveta Pavlovna Gerdt trascorse qui le sue vacanze per molti anni. Era molto più
vecchia di tutti gli altri, iniziò la sua carriera di ballerina a San Pietroburgo ancor prima
della rivoluzione e lo raccontava a Felix Yusupov o ai granduchi come se avesse bevuto
il tè con loro il giorno prima. Bellissima, di una squisita bellezza di porcellana, è sempre
stata un modello di eleganza. I ballerini andavano da lei anche d’estate, per non
interrompere a lungo le lezioni che Elizaveta Pavlovna teneva a Teatro.
Non lontano dalla dacia, in una pineta o sulle rive del fiume, i musicisti suonavano e i
cantanti cantavano. Tenevo anche la mia “lezione” vicino un boschetto di betulle, dove
mi permettevo di esercitarmi a pieno suono: riposo alternato a lavoro leggero. Lasciando
il Teatro per due o tre giorni cercavamo quindi di non perdere la nostra forma
professionale, sapendo che il giorno dopo o due giorni dopo avremmo avuto uno
spettacolo.

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Plov kazako sul percorso ad Alma-Ata

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In vacanza.
Pavel Sadovsky e Timofei Dokshizer nel “Giorno della risata”
nella casa vacanza del Teatro Bolshoi: “Polenovo”

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Capitolo 20
La pedagogia
Sono interessato al lavoro pedagogico da molto tempo, ho sempre avuto una sorta di
desiderio inconscio per la pedagogia.
Forse ero un insegnante per natura. La mia testa, come un computer calcolava e valutava
tutto ciò che suonava in me e intorno a me. Guardavo chi si esercitava prima dello
spettacolo, qual era la sua condizione e come avrebbe suonato. Il mio aforisma a questo
argomento è: “Dimmi come lavori e ti dirò come suonerai”.
Sono sempre stato critico nei confronti della mia personale formazione professionale,
calcolavo ogni minuto di studio prima di un’esibizione o di un concerto importante, ma
questo non sempre mi ha salvato dagli errori che invece osservavo negli altri. Non è
facile capire le tue sensazioni, anche con molti anni di esperienza. Il livello di
padronanza, anche il più alto, non sempre coincide con il livello di controllo, di calcolo
della propria energia, soprattutto dell’energia dei muscoli labiali. In poche parole,
pedagogia e performance sono interconnessi. La loro connessione sta nella ricerca
sconfinata di un ideale che non potremo mai raggiungere. Come si dice: non c’è limite
alla perfezione.
Quando ero ancora studente all’Istituto, iniziai ad aiutare il mio professore Tabakov nel
suo lavoro. È noto quanto sia stressante per uno studente non recepire e comprendere le
idee espresse dall’insegnante. Dallo studente “i nervi ritornano all’insegnante” come un
boomerang. Questi erano gli studenti “incomprensibili” che Tabakov mi assegnò.
Molto più tardi, con decenni di insegnamento alle spalle, io feci la stessa cosa. Mi aiutò
il mio ex studente Vyacheslav Prokopov, una persona eccezionalmente organizzata, un
buon musicista ed un insegnante intelligente. Sapeva come influenzare gli studenti ad
essere esigenti, rimproverati, guidati, costretti a lavorare sodo. Gli stessi insegnamenti
detti ai miei studenti: Ilya Shkolnik, Igor Sazonov, Vasily Istomin, che anche lui poi
lavorò all’Istituto “Gnessin”.
L’inizio del mio lavoro di insegnante professionale fu preceduto da alcune esperienze
di studio con gli studenti della classe di Tabakov e, durante la guerra, quando Tabakov
evacuò a Saratov ed io prestai servizio come soldato a Mosca, insegnai su richiesta di
Elena Fabianovna Gnessina agli studenti della classe del mio professore.
Con molta fiducia in me stesso, iniziai a spaziare facilmente nella musica e seppi sempre
cosa consigliare e come indirizzare il pensiero di uno studente. Ma oltre al lavoro diretto
sul materiale musicale, c’è un altro lato nella pedagogia non meno importante, associato
allo sviluppo delle capacità fisiche, mentali e volitive individuali, con lo sviluppo di
abilità sonore, tecniche, sviluppo dei registri e molto altro ancora. In queste faccende
non mi ritenevo sufficientemente preparato: questo mi venne in mente dopo, non subito.
Mentre il mio metodo pedagogico prendeva forma, mantenevo i miei studenti interessati
solo all’aspetto musicale, mentre a quel tempo io stesso pensavo con insistenza solo
all’aspetto tecnico e metodico, in base all’individualità di ciascun esecutore. Durante i
miei anni di studio non esisteva un sistema coerente in questo importante ambito della
pedagogia, tanto che non ricordo un approccio specifico alla risoluzione dei problemi di
esecuzione. Tutte le raccomandazioni si riducevano ad una cosa: “Suona più note
bianche, gli studi... Esercitati!” E quanto bisogna suonare? Quando? Che cosa? Qual è
il momento migliore per farlo? Quali risultati ci si può aspettare dalle lezioni? Qual è

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l’importanza del riposo in classe? Ho dovuto affrontare tutto questo da solo, sviluppando
il mio sistema di studio basato sulle sensazioni individuali e sulle caratteristiche naturali
di ogni persona. Sviluppai anche un sistema per eseguire le dinamiche ma non ne parlerò
in dettaglio qui. Questo lavoro è stato pubblicato in versione audio dalla casa
discografica “Melodiya” e in varie collane, tra cui la rivista “Brass-bulletin”.
Sulla base delle conoscenze accumulate e testate nello studio, imparai a spiegare ad ogni
studente i suoi problemi ed i modi per risolverli. La guida in questa ricerca pedagogica
fu solo ed esclusivamente la pratica. Sottoposi ogni idea come un test sullo strumento:
se la pratica di studio non la confermava la scartavo risolutamente, considerandola
errata. Forse è per questo che le mie opinioni non sempre coincidevano con i lavori
teorici di altri autori, anche quelli che difendevano con successo le loro tesi.
L’atmosfera dell’Istituto statale musicale e pedagogico “Gnessin” (ora Accademia di
Musica Russa), la seconda Istituzione di istruzione musicale superiore a Mosca dopo il
Conservatorio, era piuttosto favorevole al lavoro artistico. Le tradizioni stabilite da
Elena Fabianovna, vicina alle tradizioni familiari, sopravvissero per molti anni. Il
Dipartimento degli strumenti a fiato fu creato da Tabakov su richiesta di Elena
Fabianovna. Invitò i più importanti insegnanti di Mosca a lavorare lì. Tabakov, capo di
dipartimento, venne sostituito da A. I. Shtark, un meraviglioso clarinettista e solista
dell’Orchestra Sinfonica di Stato. Per qualche tempo il dipartimento venne diretto da B.
P. Grigoriev, trombonista dell’Orchestra del Teatro Bolshoi, e poi, per molti anni fino
ad oggi, da Ivan Fedorovich Pushechnikov, una persona instancabile, intraprendente,
creativa, ex oboista del Teatro Bolshoi.
L’Istituto era diretto da varie figure musicali. Durante la vita di Elena Fabianovna, il suo
seguace e studente Yuri Vladimirovich Muromtsev, un eccellente musicista, un
organizzatore di talento ed una persona molto saggia, divenne il rettore. Fece di tutto
per evitare la dispersione del corpo docente creato da Elena Fabianovna negli anni ‘50-
‘70. Tuttavia, dopo che Muromtsev fu nominato direttore del Teatro Bolshoi,
l’atmosfera artistica dell’Istituto, basata sull’autorità dei professori e sul senso di
responsabilità personale, cominciò gradualmente a scomparire. Maestri famosi
iniziarono a lasciare l’Istituto, opponendosi al voler insegnare musica in condizioni di
caserma, mentre altri, che semplicemente non erano d’accordo, furono tagliati fuori e
licenziati senza il loro consenso.
Gli studenti non furono esonerati dalla sofferenza. Ai più talentuosi venne vietato di
partecipare ai concorsi se non mostravano buoni risultati accademici nelle discipline
socio-politiche. Chi otteneva una “C” in Economia Politica, quindi, poteva essere un
ostacolo per la futura carriera artistica di un qualsiasi musicista.
L’atmosfera di rigida amministrazione, instaurata nell’Istituto a causa del continuo
cambiamento dei rettori dopo la partenza di Y. V. Muromtsev, ebbe un effetto dannoso
sull’intero spirito di questa meravigliosa istituzione educativa. E in qualche modo,
impercettibilmente e silenziosamente, senza azioni rumorose, Sergei Mikhailovich
Kolobkov, ex studente dell’Istituto “Gnessin”, fisarmonicista e direttore d’orchestra di
strumenti popolari, iniziò il suo rettorato presso l’Istituto. All’inizio a molti sembrava
che si trattasse solo di un’altra persona “di passaggio”, un’altra figura temporanea.
Nominò delle donne come sue assistenti con la carica di vice-rettori, cosa che suscitò
sorrisi ironici in alcuni. Kolobkov affrontò la situazione con molta attenzione ma non
suscitò emozioni inutili né si creò ego personali “gonfiati”. A poco a poco, la tensione

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cominciò a placarsi, i sorrisi iniziarono ad apparire sui volti delle persone... Ora l’Istituto
viveva una vita accademica e artistica del tutto normale.
Nell’estate del 1993, durante le vacanze, andai a visitare il mio Istituto natale. I miei
amici stavano girando un film su di me. Un dettaglio caratteristico: alla troupe
cinematografica non era permesso entrare al Teatro Bolshoi, ma la segretaria del rettore,
Tamara Georgievna, ordinò di aprire la porta chiusa a chiave della Sala da Concerto ed
offrì a tutti noi una tazza di tè... Queste erano tutte le tradizioni dell’Istituto sin dai tempi
di Elena Fabianovna, così come quando, durante l’epidemia di influenza, nell’edificio
venne appeso un poster con la scritta “Il bacio è cancellato a causa dell’epidemia”.
Solo così l’Istituto “Gnessin”, come la Juilliard Music School di New York, famosa in
tutto il mondo per i suoi eccezionali interpreti, continua ancora oggi a vivere e
funzionare. Non solo è sopravvissuta ai tempi difficili, quando l’uomo comune pensava
che in quel momento non c’era più tempo per l’arte, ma è addirittura salita di livello,
diventando la principale istituzione educativa russa sul campo: l’Accademia di Musica...
Durante il mio lavoro all’Istituto, circa un centinaio di persone si laurearono nella mia
classe. Alcuni, per vari motivi, rimasero senza diploma, non potendo più sostenere il
corso di studi quinquennale, oppure andarono a lavorare prima della laurea. La maggior
parte dei miei studenti oggi sono artisti, una piccola parte lavora come insegnanti.
Oltre al carico accademico, l’Istituto (come in tutte le università sovietiche) assegnava
ore extra destinate al lavoro scientifico. Tutti gli insegnanti, i professori e i dottori
dovevano scrivere articoli. Dal flusso annuale di articoli scientifici, i più interessanti
vennero selezionati e pubblicati in raccolte denominate Atti dell’Istituto Statale
Musicale e Pedagogico Gnessin. Riuscii a pubblicare una serie di articoli su questo
periodico. Uno di questi era Trumpeter’s Strokes, un manuale che forniva dei modi per
aiutare a migliorare il suono, oltre a diversi studi dedicati ai trombettisti con questioni
sull’interpretazione musicale ed un sistema integrato di lezioni.
Il mio lavoro scientifico si basava sulla pratica concreta e palpabile. Nessuno cercò mai
di confutare i miei articoli, poterono solo prenderli in prestito e, in alcuni casi, riscrivere
le idee in essi contenute senza fare riferimento alla fonte (di cui ero più volte coinvolto).
Il lavoro dell’insegnante è difficile e a volte assorbe più energie del suonare. Ed è così
che, negli ultimi anni, il mio cuore iniziò a farsi sentire. Per qualche ragione si
comportava in modo irrequieto, come se ne avesse bisogno più di me. Sì, lavoriamo
insieme per tutta la vita, senza di lui non potrei vivere nemmeno un’ora. Pertanto, non
posso fare a meno di dire che dopo tre attacchi di cuore, colleghi trombettisti di molti
Paesi del mondo mi donarono un cuore nuovo organizzando e pagando un’operazione
miracolosa a Rotterdam, in Olanda, nel 1989. Venne avviata da un giovane trombettista
olandese, Arto Hoornweg. Sarò per sempre grato a lui e a tutti coloro che in quei giorni
presero parte al mio destino. Noto che con il passare degli anni il lavoro dell’insegnante
diventa sempre più difficile e consuma sempre più energie emotive, intellettuali e
nervose. Molta viene spesa nelle innumerevoli ripetizioni delle nozioni base, che mi
sono ben note e quindi penso siano conosciute da tutti...
Fermarsi! È qui che sta la verità. Dopotutto, capisco che davanti a me c’è una persona
nuova che non può sapere quello che sa l’insegnante, motivo per cui è venuto ad
imparare! Se è così, devo spiegare con calma e pazienza sempre la stessa cosa anche per
la millesima volta e risparmiare le mie energie ed anche i nervi dello studente. Finché ci

100
riesci, sei un insegnante ma se non ce la fai, faresti meglio a smettere. Ed è quello che
ho fatto io dopo quasi quarant’anni d’insegnamento.
È vero, ho ancora una riserva di resistenza e autocontrollo, ma sono sufficienti solo per
condurre brevi corsi di perfezionamento. Eccomi qui, proprio come quando ero giovane,
di nuovo a cavallo: nei corsi do così tante informazioni tanto che i partecipanti dicono
che faccio venire il capogiro!

Quest’uomo mi ha prolungato la vita.


Arto Hoornweg con sua moglie Femke, Olanda (1991)

101
Capitolo 21
La scuola pedagogica sovietica
La scuola pedagogica sovietica non è caratterizzata da legami professionali orizzontali.
Come nel sistema sociale, qui vige una forma piuttosto “verticale”, costruita sul
principio della subordinazione dall’alto verso il basso.
Questo sistema verticale è costruito in modo piramidale: l’università ha il proprio “asso”
per ogni strumento, ovvero il professore, dopo (sotto) ci sono le istituzioni scolastiche
subordinate, di livello secondario e primario, ovvero gli istituti di musica e le scuole di
musica. Questo sistema, secondo la nostra terminologia, viene chiamato “cespuglio”.
Ad esempio, ci sono le scuole e le università nel “cespuglio” di Novosibirsk o in quello
della Gnessin. Dal punto di vista organizzativo questo è logico, ogni università attinge
personale dal proprio “bosco”. Il problema è un altro: ogni “cespuglio” vive isolato dagli
altri. Inoltre, qui sono gelosi a morte e distinguono gli “amici” dagli “estranei”. Nelle
scuole occidentali c’è probabilmente anche lì della gelosia, ma è considerato del tutto
normale frequentare lezioni di una materia specifica con un altro insegnante o studiare
con insegnanti diversi: “Hai imparato da me, ora impara da un altro”. Nei questionari
delle competizioni internazionali, alla colonna “Insegnante” compare sempre più di un
nome. Ciò non offende nessuno, al contrario, ispira fiducia e suscita interesse nei
membri della giuria. Nella scuola sovietica invece lo studente è, per così dire, di
“proprietà” dell’insegnante. Frequentare il corso di un altro professore è considerato un
tradimento. Puoi informarti su un altro metodo o cercare tu stesso qualcosa che vuoi
capire solo se lo fai all’oscuro del tuo insegnante. Questo è uno dei motivi che hanno
ostacolato lo sviluppo dei musicisti nella scuola sovietica.
Un altro problema, ancor più dannoso, era il sistema di formazione dei docenti
specialisti. Dagli anni ’50 il Paese vietò lo svolgimento di più lavori in modo che
nessuno “diventi ricco” o guadagni più del salario mensile di un lavoratore medio. Di
conseguenza, agli artisti qualificati ed ai maestri che potevano insegnare ad altri, era
vietato impegnarsi nell’insegnamento anche a tempo parziale. E quale artista serio, che
ha dedicato dieci o quindici anni della sua vita a padroneggiare la sua professione,
smetterà di suonare e si concentrerà esclusivamente sull’insegnamento? Per questa
formale ragione finanziaria, artisti qualificati iniziarono ad essere esentati dal loro
lavoro di insegnante. Ed io, insieme al cornista A. A. Ryabinin, al flautista M. I.
Kashirsky e ad altri dipendenti del Teatro Bolshoi non potemmo quindi più lavorare
nemmeno a tempo parziale presso l’Istituto. Se volevamo farlo, dovevamo lavorare per
mesi senza paga e questo significava quindi prendere la triste decisione di lasciare gli
studenti a cui avevamo insegnato per anni! Io non lasciai l’insegnamento e c’erano
poche persone che la pensavano come me: la maggior parte dei musicisti fu costretta a
lasciare l’insegnamento. I posti vacanti cominciarono ad essere occupati da chi aveva il
diploma ma non riusciva a trovare lavoro nelle orchestre. Persone del genere, che non
avevano raggiunto le vette della maestria, potevano insegnare agli altri?
Quel che era ancora peggio era il fatto che cominciarono a nominare per l’incarico di
insegnante coloro che avevano meriti pubblici o di altro tipo presso le autorità. E questo
era un problema comune non solo musicale, ma di tutta la società, che la condusse in un
vicolo cieco. Il nuovo personale docente, non molto esperto nel metodo pedagogico,
iniziò a sviluppare attivamente la “scienza” della pratica del suonare, preparando e

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difendendo delle tesi a riguardo. Questa attività si rivelò redditizia: candidati e dottori
vennero pagati profumatamente. I lavori scientifici sulla storia e sui metodi di
esecuzione iniziavano con citazioni prese da Un breve corso sulla storia del Partito
Comunista e contenevano “idee scientifiche” tanto quanto hanno senso le frasi
stereotipate come “bisogna notare” e “bisognerebbe dire”.
Nel nostro Paese la sfera artistica dell’esecuzione musicale era considerata una zona
fuori da ogni critica. Dietro l’elemento di autoelogio: “La scuola musicale sovietica è la
più avanzata, la migliore al mondo” ecc., non notammo però il nostro ritardo
nell’educazione della cultura dell’ensemble, nell’esecuzione della musica di
compositori moderni e persino nello sviluppo delle abilità. Era consuetudine sostenere i
nostri successi basandoci sulle statistiche espresse in base al numero di vincitori ai
concorsi (soprattutto repubblicani), sul numero di laureati, sul fatto di essere considerata
la più grande rete mondiale di istituzioni educative, compreso il numero di scuole di
musica per bambini, ecc. Tutto questo è vero: l’arte sovietica dell’esecuzione artistica
effettivamente produce risultati positivi e in molti casi riceve riconoscimenti a livello
mondiale, ma se giudichiamo il livello della scuola nazionale dai suoi leader, personalità
eccezionali, non possiamo sfuggire al fatto che l’arte musicale degli strumenti in ottone
sta attraversando proprio in questo periodo, in cui sto scrivendo queste righe, un
momento di stagnazione, e per risolvere i problemi richiede un approccio nuovo e
ripensato. Il declino del livello esecutivo dell’ancora giovane e appena avviata scuola
sovietica iniziò negli anni ’60. Rendendosi conto della pericolosità della situazione, un
gruppo intraprendente di musicisti cercò di influenzarla congiuntamente. A Mosca,
presso la Casa Centrale degli Artisti, venne creata la Società Volontaria dei Trombettisti
che, nel 1961, venne trasformata nell’Associazione Artistica dei Musicisti di Ottoni. Ciò
segnò l’inizio della comunicazione artistica tra musicisti. Per più di vent’anni si tennero,
a cadenza mensile, incontri artistici di musicisti di ottoni presso la Casa Centrale degli
Artisti.
Il passo successivo fu l’unificazione di questi musicisti sulla base della Società Musicale
dell’Unione (ora Unione dei Musicisti) creata nel 1988. Con questo avemmo
l’opportunità di organizzare rassegne e concorsi dell’Unione Sovietica e Repubblicana.
Abbiamo già tenuto due concorsi e rassegne di formazioni da camera oltre a diversi
seminari. I partecipanti a questo movimento furono i principali musicisti del Paese e ad
oggi, nel 1995, il Festival Internazionale della Tromba si tiene a Mosca mentre i concorsi
internazionali si svolgono a Nizhny Novgorod e Saratov. Questo argomento potrebbe
essere trattato in modo più dettagliato dai testimoni oculari e dai numerosi attivisti che
ancora oggi continuano il loro lavoro.

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Capitolo 22
L’attività solistica
Iniziai ad abituarmi al palco sin da bambino. Mentre ero ancora nell’esercito partecipavo
ai concerti amatoriali. Durante gli anni di studio presso la CMS, ebbi la possibilità di
mettere alla prova il mio livello artistico nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca.
In uno dei concerti di segnalazione della Scuola “Gnessin” nella Sala Piccola del
Conservatorio, dopo la mia esibizione (suonai il romanzo di Liszt As Laura Spirit e
qualcos’altro) gli applausi durarono così tanto che Elena Fabianovna Gnessina si alzò e
si rivolse al pubblico con queste parole: “È ancora giovane, gli applausi gli fanno girare
la testa!”
Alla All-Union Competition del febbraio 1941, io ero tra i partecipanti più giovani,
avevo solo diciannove anni. Alla terza prova il pubblico fremeva per la mia esibizione.
Interessanti lavori radiofonici iniziarono gradualmente ad insinuarsi nella mia vita
concertistica, all’epoca ancora non molto attiva. Mi venne chiesto di registrare il
Concerto di Goedicke con un’orchestra. Il direttore era Viktor Sergeevich Smirnov, un
uomo affascinante ed un musicista meraviglioso (tra l’altro, lui era il nipote del magnate
Smirnov, che produceva la famosa “Vodka Smirnoff” nella Russia prerivoluzionaria),
con il quale ci eravamo già conosciuti e avevamo già suonato insieme più volte. La
registrazione ebbe luogo nella sala della “Casa degli Scienziati” in Via Kropotkinskaya
e fu giudicata accettabile da una commissione guidata dal famoso direttore d’orchestra
Alexander Ivanovich Orlov. Come mi dissero più tardi, lui chiese di inserire a protocollo
la richiesta che tutta la letteratura concertistica per tromba venisse registrata alla radio
“dal giovane trombettista Dokshizer”.
Le sue parole profetiche quasi si avverarono. Ci fu una piccola eccezione: registrai quasi
tutte le opere significative scritte per tromba dai compositori sovietici. Vennero
immortalate nei dischi per grammofono, pubblicati dallo studio di registrazione
“Melodiya” e successivamente duplicati su CD (SD) da molte case discografiche
straniere. Il mio primo disco di “Melodiya” fu un mini-album con un programma che
includeva la Canzone Persiana di Rubinstein e Il Volo del Calabrone di Rimskij-
Korsakov. Mi misi alla prova. Fui testato sulla qualità e sulla durata. Il tecnico del suono
che curò questa registrazione fu sempre lui, Gregory Nikolaevich Dudkevich, uno dei
fondatori della registrazione del suono nel nostro Paese. Dopo diverse ripetizioni de Il
Volo del Calabrone, sentii una voce dolce, amplificata dai potenti altoparlanti dello
studio, dire: “Smettila di torturarlo, va bene”.
Fu una “voce dal cielo” e apparteneva ad una persona meravigliosa, il creatore e direttore
dello studio di registrazione “Melodiya” a Mosca, Boris Davidovich Vladimirsky, che
investì un enorme lavoro nella produzione di dischi sovietici per grammofono. Il nome
di Vladimirsky veniva sempre pronunciato con grande rispetto. In occasione della sua
festa di compleanno nella “Kirck”, dove si trova lo studio “Melodiya”, tra tanti saluti e
congratulazioni ricordo in particolare l’esibizione del famoso attore drammatico
Rostislav Plyatt. Rivolgendosi al festeggiato disse: “Hai creato una tale ‘Melodiya’ che
nessun altro compositore è stato in grado di creare”. Negli anni a venire diventai un
artista molto desiderato alla radio, alla televisione e presso le case discografiche, dove
oggi sono conservate più di un centinaio delle mie registrazioni e riprese.

104
Presto mi abituai al processo di registrazione del suono ed in esso riscontrai
l’opportunità senza precedenti per un artista, di esprimersi con pienezza e libertà, di
suonare senza timore di incidenti, soprattutto su uno strumento così “scroccante” come
la tromba. Durante la registrazione era possibile ripetere un frammento venuto male,
cosa impossibile da fare in una sala da concerto. Era anche possibile intonarsi durante
la registrazione, ascoltare cosa era stato appena registrato, prendersi del tempo per
pensare e dopo, magari, registrare nuovamente l’intero pezzo o una singola parte o frasi
separate. Questo sì che è un miracolo della nostra epoca! ...
Ma allo stesso tempo la registrazione del suono è un atto di grande stress emotivo e
fisico. Da un lato, è un atto di intima creazione, si svolge a porte chiuse, senza pubblico,
in un’atmosfera di particolare silenzio, piena di rivelazioni, di magia. Dall’altro lato è
un lavoro collettivo perché l’atmosfera che si crea nello studio o nella sala di regia, dove
si trovano gli altri collaboratori, può influenzare la riuscita del lavoro.
In questo processo artistico collettivo, oltre agli interpreti, il ruolo principale spetta al
tecnico del suono. Secondo le mie osservazioni, quella del tecnico del suono non è una
professione ma una vocazione. Si può essere un musicista istruito, avere una grande
conoscenza di tastiere e spartiti, conoscere le apparecchiature di registrazione del suono
più complesse, ma non è possibile essere un tecnico del suono per natura se non capisci
i particolari, la psicologia, le interconnessioni di tutti i partecipanti al processo di
registrazione del suono.
Lo stress di un solista durante la registrazione della musica non è affatto inferiore, forse
è addirittura superiore di quella che ha durante un’esibizione in una sala da concerto.
Ho collaborato con quasi tutti i tecnici del suono della radio e dello studio “Melodiya”.
Di solito si trattava di professionisti di alta classe ma a volte durante l’esecuzione era
possibile sentire: “Fermati, questo punto non va bene”. Ciò significa che questo
specialista non capisce che l’esecutore è il primo ad essere a conoscenza del presunto
errore prima di chiunque altro! Un altro esempio comune di fraintendimento della natura
dell’esecutore è: “Ricominciamo! Non eravamo pronti”. E si potrebbe sentirsi dire quel
“ricominciamo” per cinque o sei volte, ma alla settima volta l’esecutore non riesce più
a raccogliere la volontà e le forze per continuare a concentrarsi. Iniziai a registrare una
seconda volta il programma del mio famoso disco già pubblicato da “Melodiya” con un
giovane tecnico del suono e dopo cinque tentativi di esecuzione del Vocalise di
Rachmaninov abbandonai questa idea. In generale ritengo sia una pratica errata
registrare nuovamente ciò che è stato registrato decenni prima. Anche la registrazione
appartiene al suo tempo.
Il difficile lavoro di un tecnico del suono continua anche dopo la registrazione, con il
montaggio del video. Qui bisogna avere una pazienza e un’attenzione assolutamente
disumane per ascoltare tutto ciò che è stato registrato, selezionando e modificando tutto
il meglio che l’esecutore è riuscito a produrre. In questa fase del lavoro, nessuno degli
interpreti sopporta il fatto di assistere al montaggio e trova ogni tipo di pretesto per
evitare di essere presente.
Sono sinceramente solidale con il lavoro dei tecnici del suono ed ammiro sempre la loro
pazienza. Sono profondamente grato a tutti coloro con cui ho lavorato, ma ricordo con
particolare gratitudine Lydia Filippovna Bobova: è solo grazie al suo aiuto se ho
registrato gran parte del mio repertorio. Lydia Filippovna aveva un fine senso nel
percepire lo stato dell’esecutore. A volte, dopo numerosi tentativi falliti nel cercare di

105
completare una frase, improvvisamente annunciava dalla sala di regia: “Fermati,
abbiamo tutto!” Ciò significa che lavorerà sodo nella sala di regia e monterà i pezzi
come un mosaico.
Nel 1980 avrei dovuto fare una tournée in Giappone e realizzare lì un programma di
canzoni giapponesi per la compagnia “Victor”. All’ultimo momento, con un falso
pretesto, non mi venne permesso di entrare in Giappone ed il tour venne cancellato.
Tornerò più tardi su questa storia. Ma i giapponesi sono persone tenaci: un anno dopo
vennero a Mosca con la loro attrezzatura digitale, allora a noi sconosciuta, e fecero
questa registrazione in Russia. Il tecnico del suono di questa registrazione fu Lydia
Filippovna. Nel giro di pochi giorni imparò una nuova tecnica di registrazione e
montaggio digitale che, a mio avviso, non tutti i tecnici del suono conoscono ancora.
La registrazione si rivelò molto interessante. Secondo le recensioni, questa venne
considerata la migliore registrazione di musica giapponese eseguita da uno straniero.
Nella vita succede che vedi gli errori degli altri, ma non noti i tuoi. Discutendo della
mancanza di tatto nel lavoro di un tecnico del suono, mi sono ricordato di un caso simile
quando ero direttore d’orchestra al Teatro Bolshoi. Successe durante l’esecuzione del
Werther: il ruolo del protagonista, molto difficile per i tenori, venne interpretato dal
famoso Sergei Yakovlevich Lemeshev. Durante l’esecuzione dell’aria ansimò
leggermente sulla nota più acuta. Lui si infastidì ma anche io ne fui infastidito: forse fu
colpa mia se dimostrai quella nota in modo più articolato, distraendo quindi la sua
attenzione?
Durante l’intervallo volevo vedere Sergei Yakovlevich per consolarlo, per dirgli che
tutto sembrava fantastico e che ciò che era successo non era niente, una piccola cosa che
nessuno aveva notato... In risposta lanciò contro di me parole di rabbia. Mi resi conto
della mia mancanza di tatto e del mio senso di colpa. La delicatezza da avere in questi
casi è il far finta di niente, che non sia successo nulla e nel non affondare il dito in una
ferita fresca.
In generale, Sergei Yakovlevich mi trattò bene. Molte volte ne La Traviata interpretò la
parte di Alfredo con costante successo. Lo studio “Melodiya” pubblicò un disco con la
registrazione di quest’opera, realizzata in diretta molti anni fa. La parte di Alfredo venne
interpretata da S. Y. Lemeshev, la parte di Violetta da G. Demidova e Germont da P. G.
Lisitsian. Sono orgoglioso di questo disco, che testimonia il lavoro artistico con cantanti
di questo calibro.

106
Sul palco

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Capitolo 23
La mia vita in tournée
Il mio lavoro in tournée iniziò alla fine degli anni ’50. A quel tempo venivo spesso
invitato nell’Orchestra Sinfonica di Stato dell’URSS perché Leonid Georgievich
Yuryev, la loro prima tromba, era passato alla direzione, mentre due giovani
trombettisti, Lev Volodin e Valentin Yudin, stavano facendo esperienza in orchestra. Il
gruppo di trombettisti dell’Orchestra di Stato comprendeva anche artisti straordinari
come Alexander Georgievich Boryakov, Boris Fedorovich Ivanov, Vasily Alekseevich
Evseev.
Tutto iniziò con un viaggio in Cina nel 1959. È vero, prima ci fu un breve viaggio a
Bruxelles per l’Expo N. 58, dove Polonsky, anch’egli invitato a questo viaggio, ed io
suonammo da solisti nell’Undicesima Sinfonia di Shostakovich, dedicata agli eventi del
1905. In Cina, oltre alle parti orchestrali, suonai diversi brani solistici con l’orchestra,
diretti da Konstantin Konstantinovich Ivanov e Nikolai Pavlovich Anosov.
Poi ricevetti un invito per dei concerti in Bulgaria, dove venni ascoltato dal
rappresentante del “InterConcert” della DDR (Repubblica Democratica Tedesca), il
signor Watzinger. A questo seguirono inviti annuali. Con la DDR suonai in quasi tutte
le città dove c’erano orchestre.
Il mio primo concerto fu a Berlino con l’orchestra della Komische Oper. Il direttore
d’orchestra era Kurt Masur, un musicista eccezionale ed una persona affascinante, con
il quale sono ancora in rapporti amichevoli e mantengo un contatto artistico.
Successivamente suonammo molte volte insieme a Dresda e Lipsia dove lui era il
“direttore musicale generale” cioè... il direttore d’orchestra principale.
Nella Filarmonica di Dresda i programmi dei concerti venivano solitamente ripetuti per
tre sere consecutive. Da allora non mi è mai più capitato di ripetere per tre sere
consecutive lo stesso programma sullo stesso palco. Ma lì, ogni sera la sala si riempiva
di un pubblico nuovo. A Dresda eseguii per la prima volta la Rhapsody in Blue di
Gershwin nella mia trascrizione ed i concerti di Weinberg, Hummel, Haydn e
Arutiunian.
Suonai anche in Germania con l’Orchestra Sinfonica di Berlino diretta da Kurt
Sanderling, che lavorò per molti anni come secondo direttore di E. A. Mravinsky
nell’Orchestra Filarmonica di Leningrado.
I percorsi dei miei tour di concerti includevano per la maggior parte Paesi Europei, Paesi
del Nord America e del Giappone. Sono stato molte volte negli Stati Uniti, in Svezia,
Finlandia, Bulgaria, Polonia, Jugoslavia, Svizzera e Belgio. Ad Amsterdam mi esibii
nella famosa sala da concerto “Concertgebouw”, a Montreal in una nuova sala da
concerto, in Francia e Lussemburgo in antichi castelli medievali con un’acustica
straordinaria, in Ungheria, Olanda, Danimarca in seminari e corsi di perfezionamento.
Nel 1979 viaggiai in tutto il mondo. Tutto iniziò su un volo da Mosca a Tokyo con
l’orchestra del Teatro Bolshoi, diretta da Yuri Simonov. Poi proseguii per conto mio il
viaggio per andare negli Stati Uniti e tornai a casa passando per l’Inghilterra (in cui feci
scalo a Londra).
Il culmine della mia attività fu negli anni ’60 -’80. Tenni concerti e conferenze presso
istituti scolastici e società musicali, presso università negli Stati Uniti, in Giappone
presso la società “Yamaha” e nel centro commerciale musicale di Ginza.

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Le tournée in tutta l’Unione Sovietica divennero sempre più numerose. Si svolsero
principalmente nelle città filarmoniche di Leningrado, Mosca, Minsk, Kiev, Odessa,
Kharkiv, Lvov, Tashkent, Alma-Ata, Riga, Vilnius, Tallinn, in centri musicali come
Gorky, Saratov, Orël, Voronezh... I programmi dei concerti con orchestre sinfoniche o
per tromba e pianoforte includevano di solito brani di compositori sovietici e occidentali.
Ora le mie trascrizioni di opere classiche occupavano un posto significativo nei
programmi da concerto.
Era molto importante creare programmi di concerti tenendo conto del tipo di ascoltatori
nel pubblico. Di solito, nei concerti della filarmonica cittadina, non venivano accettate
opere basate solo sulla dimostrazione del virtuosismo, mentre negli auditorium
universitari e nei concerti per studenti dei dipartimenti di musica si preferiva il genere
virtuosistico. Nei programmi dei concerti con l’orchestra inserivo una o due opere di
grande forma, mentre i concerti con il pianoforte erano costituiti da due sezioni con
inserti di brani per pianoforte solo: il mio repertorio comprendeva musica per tutti i
gusti.
Il mio accompagnatore in molti viaggi e registrazioni fu Sergey Yakovlevich
Solodovnik, un musicista di grande talento; aveva il “tocco di Dio” e suonava tutto a
memoria. A proposito, anche io non ho mai letto lo spartito durante i miei concerti,
nemmeno alla prima esecuzione di un lavoro da solista. Ho l’abitudine di esibirmi solo
quando la musica si fissa nel profondo della mia mente. Spesso mi viene chiesto come
ottengo questo risultato: come mi preparo? Di solito è nel processo di padronanza del
materiale musicale che le note vengono memorizzate, ma se ciò non accade vuol dire
che il periodo di memorizzazione della musica non è ancora terminato, perciò continuo
a studiarlo fissando i singoli episodi. Questa è la mia pratica.
Il mio orecchio musicale si sviluppò sin dalla mia infanzia, quando cantavo tutto ciò che
sentivo. In quei primissimi anni non avevo un’educazione musicale. Il solfeggio era la
mia materia preferita durante gli anni di studio: scrivevo le melodie come se fossero
semplici parole dettate. Queste abilità si sono rivelate molto utili nella mia vita. Grazie
allo sviluppo dell’orecchio musicale e armonico potevo studiarmi la musica anche senza
strumento, leggendola solo con gli occhi ma immaginandone il suono e ricordandolo a
lungo. Usai questa abilità anche all’inizio della mia carriera. Quando andai in Mongolia
con l’Orchestra Balalaika, mi venne detto di registrare melodie popolari eseguite su
alcuni strumenti popolari che utilizzavano quarti di tono e strutture metriche alquanto
inconcepibili.
Mi piaceva il musical Fiddler on the Roof di Jerry Bock. Volevo riprodurre queste
meravigliose melodie alla tromba ma di questo pezzo in Russia non esisteva alcuna
partitura: non riuscii a trovarla nemmeno in biblioteca. Il mio amico Joseph Zlatkin, un
famoso trombettista e insegnante originario di Minsk che ora vive in Israele, mi inviò
una registrazione audio semi consumata di alcune parti di questo musical. Iniziai a
lavorarci su e in tre settimane riuscii a trascrivere su carta la musica (in alcune parti la
musica risultava particolarmente soffocata dalle parole degli attori). Laddove non
riuscivo a sentire la completa armonia dell’orchestra, ne riscrissi una mia versione.
Scrissi quindi una composizione strumentale basata su questa musica e registrai la “mia”
composizione con l’Orchestra da Camera Lituana diretta da Saulius Sondeckis: si rivelò
una miniatura meravigliosa e virtuosa. Con la sua freschezza e novità è nel mio nuovo

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disco di musica ebraica. Spero che un giorno mi metterò in contatto con Jerry Bock e
mi scuserò per i piccoli cambiamenti rispetto alla partitura originale.
In materia di autostima, non mi sono mai elogiato da solo: consideravo come “buono”
la valutazione più alta da attribuire alla mia prestazione. Questo è quello che mi
permettevo di dire ad alta voce. Potevo pensare tra me e me: “è stata fortuna”, oppure
“è andata proprio come volevo”, ecc., ma sentivo che gli altri avevano una valutazione
della mia esecuzione migliore della mia, e questo era importante per me: era motivo di
stimolazione e mobilitazione. La mia modesta autostima non era una pretesa, piuttosto
era un espediente, una difesa contro le vertigini. Quando sento i miei studenti dire: “Ho
suonato benissimo, anche tutti i ragazzi mi hanno elogiato”, penso che anche questa sia
legittima difesa. Ma da cosa? È il desiderio di dimostrarsi migliore di quello che si è, o
una protezione dalle critiche?

Con i colleghi cinesi (1959)

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Concerto a Lipsia.
Diretto da Kurt Masur (1963)

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Ad un concerto alla Filarmonica di Kharkiv
Direttore Vakhtang Jordania

Con l’Orchestra Filarmonica diretta da Kurt Masur. Dresda (1967)

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Capitolo 24
I miei “Funerali”
Nella vita in tournée, spesso bisogna fare i conti con i repentini cambi dovuti ai fusi
orari, adattarsi alle peculiarità del territorio, ai cambiamenti nella composizione
dell’acqua e del cibo, e tutti questi fattori possono influenzare il benessere e le
condizioni della mucosa delle labbra del trombettista. Non sorprende che, sullo sfondo
di un lavoro concertistico generalmente di successo, si siano verificati incidenti e
fallimenti, di cui voglio parlare apertamente, come si suol dire “per l’edificazione dei
posteri” e, forse, anche con una certa esagerazione.
Nella professione di trombettista, i pericoli ci attendono in ogni angolo della scena:
scarso sonno, cattiva alimentazione, insicurezza nella parte, labbra sovraccariche,
malattie e molto altro. Tutto ciò può impedire ad un artista, che appare sul palco o che
anche suona in un’orchestra, di mantenere il controllo e di svolgere con sicurezza il
proprio lavoro. Sebbene gli artisti di solito seguano il regime e le regole per la
preparazione di un concerto, non esistono regole senza eccezioni e, nella nostra vita in
particolare, a volte ci sono più eccezioni che regole...
Durante uno degli ultimi concerti con la DDR, l’11 marzo 1972 si tenne a Lipsia un
concerto di gala per celebrare l’apertura della tradizionale fiera primaverile. Suonai il
Concerto di Arutiunian con la “Gewandhaus Orchestra”, diretta da Kurt Masur. Tutto
era, secondo la mia migliore valutazione, “al sicuro”. Ma la mattina dopo la mia
temperatura corporea salì a 39°C. Cosa fare? Dovevo andare a Zwickau per le prove in
vista del concerto successivo. In qualche modo ci andai con il mio traduttore. Il direttore
d’orchestra Hans Storck era in preda al panico. Chiamarono un dottore. Il medico, una
giovane donna molto affascinante, mi prescrisse una forte dose di antibiotici. La mattina
dopo la febbre era scesa, ma ero così debole che, mentre stavo per lasciare il ristorante
dell’hotel dopo pranzo, caddi a terra fino a quasi perdere conoscenza. Come in un sogno,
sentii la mia condanna: “Russische schweine” (“maiale russo”). Il direttore non mi lasciò
per un attimo. Mancava ancora un giorno di prove prima del concerto. Il programma
prevedeva l’esecuzione di due composizioni: Haydn e Arutiunian. Storck mi chiese di
eseguire almeno Haydn ed io, mostrando debolezza di carattere, accettai di suonare ma
senza prove, semplicemente perché non avevo forze.
La sera del 15 marzo salii sul palco come sotto anestesia. La luce intensa dei riflettori
mi provocava cerchi negli occhi, sentivo l’orchestra come se stesse suonando dietro il
muro di una casa vicina: ero completamente estraniato dal suono. A metà del primo
movimento iniziai ad avvertire la bocca secca (con un sapore di penicillina), un segnale
allarmante di problemi. Al momento della cadenza le labbra mi si incollarono, la lingua
diventò immobile e non riuscivo più a trovare la posizione del bocchino sulle labbra.
L’orchestra tacque ed io rimasi solo con il pubblico. Era lì come un monumento, quasi
insensibile, mezzo sordo. Provai a suonare qualcosa della cadenza ma invece di suoni
emettevo una specie di ringhio e sibilo. Ad un certo punto l’auditorium iniziò a prendere
il posto del lampadario... davanti ai miei occhi c’era solo nebbia, tutto fluttuava, girava...
Non ricordo come andò a finire... Ricordo solo che durante l’intervallo ero tra gli altri
musicisti dietro le quinte, ma con un bicchiere in mano. Intorno a me era in atto
un’accesa conversazione ed avevo la sensazione di essere il protagonista, come se stessi
partecipando al mio funerale. I miei colleghi però si comportarono con me come se nulla

113
fosse successo (questo è esattamente lo stesso gesto di cui ho parlato prima). Comunque,
la tournée venne interrotta, tornai a casa e questo malessere mi durò per un bel po’ di
tempo. Dopo la ripresa delle esibizioni, con dei concerti in Canada, sentivo ancora le
conseguenze di quel trauma e gli strascichi negativi del trattamento antibiotico.
Non venni più invitato dalla DDR, tranne una volta, quando nel 1981 suonai ad un
concerto del compositore tedesco Siegfried Kurz con il direttore d’orchestra V.
Kozhukhar. Suonai (cosa interessante) nella stessa sala, la “Komische Oper”, dove
iniziai la mia prima tournée in questo Paese...
È opportuno ricordare qui un altro episodio che mi servì per capire nuove cose, questa
volta legato ad una cattiva alimentazione. Successe in autunno, quando l’uva stava
maturando, in occasione della prima rappresentazione del Concerto di A. Nesterov a
Gorky.
Mi sentivo completamente bene, ero pronto per il concerto e banchettai moderatamente
con i doni della natura. All’epoca non ero a conoscenza del fatto che l’uva fresca, con
la sua naturale acidità, irrita la mucosa della bocca e ammorbidisce il tessuto muscolare
rendendolo come la plastilina. Dopo i miei soliti esercizi sentivo che le mie labbra non
avevano ancora acquisito forza e su di esse erano addirittura rimasti i segni dei denti.
Alla fine successe che le labbra si ammorbidirono così tanto che smisero di resistere al
punto che, mentre suonavo, sentivo il bocchino poggiarsi non su di esse ma sui denti.
Nei casi di stanchezza o infortunio di solito mi prendo una pausa dal suonare, ma questa
volta la pausa non risolse nulla. Più mangiavo uva e più la condizione delle labbra
peggiorava. Ero arrivato al punto che potevo emettere solo singoli suoni nel registro
medio.
Fu in questo stato che mi presentai al concerto a Gorky, in cui l’ansia non mi abbandonò
un istante. Tutta la notte rimasi affacciato al finestrino del treno, alle prese con l’ansia
da panico: dove sto andando, perché sto andando, non posso suonare... Ed è impossibile
spiegarlo, non capirebbero, lo interpreterebbero come nervosismo, come perdita di
forma: in una parola, ancora una volta mostrai debolezza di carattere.
Così andai alle prove. Il direttore d’orchestra I. Guzman, notando il mio nervoso, lo
considerò come il tipico stato di un artista prima di un concerto importante e, da persona
intelligente che aveva visto tanti casi nella sua carriera di direttore, fece finta che non
stesse accadendo nulla. Di questo gli fui molto grato. Questo fu per me di enorme
supporto.
Durante le prove non suonai quasi nulla, continuai ad aspettare e sperare che questa
sensazione sparisse e al momento del concerto le mie labbra tornassero al loro stato
normale. Ma ciò non avvenne: il concerto fu per me molto difficile da sostenere ma
risultai comunque “orecchiabile”. Mancai alcune note, ma per fortuna pochi se ne
accorsero perché fu la prima esecuzione assoluta di una nuova composizione.
In definitiva, eventi come questo nella mia carriera concertistica mi hanno insegnato ad
essere attento e deciso quando si tratta di salire sul palco. Quindi, ad esempio dei tre
concerti programmati a Praga con l’Orchestra Filarmonica Ceca, diretta da Václav
Neumann, ne suonai solo uno. La ragione fu un raffreddore con febbre. Successe dopo
una degustazione di vini in inverno nelle cantine dei musicisti del villaggio di Milotice,
in Moravia, dove mi ci portarono per visitarlo. Il medico della Filarmonica contribuì ad
appoggiare il mio rifiuto di suonare in stato di malattia, e non successe nulla: “il globo
terrestre non si è fermato”, come amava dire il mio primo insegnante Ivan Antonovich

114
Vasilevsky. Venni sostituito dal giovane trombettista V. Reilek, che eseguì
brillantemente il Concerto di Hummel. Un incidente simile accadde a Mosca e lì non
osai salire sul palco della Sala Grande del Conservatorio. Tuttavia, qui ci fu un’altra
ragione, ma non meno importante. Si trattava della prima esecuzione del Concerto
Sinfonico di Bogdan Trotsyuk al Festival di Musica Sovietica nel 1984. Questo lavoro
è estremamente difficile sia per il solista che per l’orchestra e ciò che venne fatto nelle
prove fu del tutto insufficiente. La prova principale venne annullata a causa di una
cerimonia commemorativa nella stessa sala; rimase solo la prova generale che volevano
eseguire in un momento non opportuno, ovvero prima del concerto: fui costretto a
rifiutare. Il direttore d’orchestra era Gennady Provatorov, un musicista meraviglioso ma
molto disorganizzato nel lavoro. Praticamente non riuscimmo a metterci d’accordo su
cosa e come avremmo suonato. Arrivai alla Sala Grande del Conservatorio, come
previsto, in smoking, ma non ebbi il coraggio di scendere dall’auto...
La composizione di Trotsyuk venne successivamente registrata con il direttore
d’orchestra Mark Ermler e il disco venne pubblicato dalla casa discografica “Melodiya”.
Ho descritto nel dettaglio alcuni casi difficili della mia vita da concertista, ma in generale
sono sempre riuscito a determinare con precisione il mio grado di preparazione per ogni
esibizione. L’esperienza di osservazione mi ha aiutato a capire quale doveva essere la
giusta modalità di preparazione, di riposo e alimentazione. E sebbene i rari fallimenti
non rappresentassero nemmeno l’1% di tutta la mia attività concertistica, hanno avuto
comunque un impatto pressante sulla mia psiche e sono rimasti depositati sulla mia
coscienza per molto tempo.

A Gorky (Nizhny Novgorod), ottobre 1972


A. Nesterov, I. Guzman, T. Dokshizer

115
Capitolo 25
L’influenza del KGB* sul percorso di un musicista
Nella mia attività di tournée per concerti ci furono diversi casi in cui mi venne negato il
permesso di viaggiare all’estero e questo mi veniva puntualmente annunciato alla vigilia
della partenza: quando tutti i preparativi erano terminati e le cose tutte imballate, ecco
che il passaporto straniero non mi veniva rilasciato.
La mia assenza al seminario dell’International Trumpet Guild, tenutosi negli Stati Uniti
dal 3 all’8 giugno 1984, fu accolta dai musicisti con una certa indignazione. In segno di
protesta, scrissero una lettera collettiva al presidente degli Stati Uniti R. Reagan e
all’allora capo dell’URSS K. Chernenko. Questo appello venne pubblicato negli Stati
Uniti. Ecco il testo con i commenti di Anatoly Selianin, pubblicato sul giornale del
Teatro Bolshoi il 13 dicembre 1991, il giorno del mio settantesimo compleanno:
“Giugno 1984, Indiana University, Bloomington. Il Secondo Congresso
Mondiale è iniziato ed un migliaio e mezzo di musicisti stanno aspettando
l’annunciata esibizione di Timofei Alexandrovich. La notizia che T. Dokshizer
non ha avuto il permesso dal nostro Paese per essere qui per il Congresso,
all’improvviso, come un colpo, ha stupito tutti coloro che sono venuti qui proprio
per ascoltare la leggenda vivente, il grande virtuoso russo Timofei Dokshizer... E
quelli qui riuniti hanno accettato di scrivere una lettera indirizzata al presidente
degli Stati Uniti R. Reagan, al segretario generale del Comitato Centrale
dell’URSS K. Chernenko, ai capi di governo stranieri e della Stampa di più di 60
Paesi del mondo, dichiarando: Qui, al 2° Congresso Internazionale degli Ottoni,
siamo rattristati del permesso non concesso al nostro collega Timofei Dokshizer,
un virtuoso russo della tromba molto rispettato, che oggi doveva essere qui con
noi. Come artisti, ci viene dato il dono di far emergere lo stato emotivo ed estetico
dei nostri popoli. Nella storia, i musicisti spesso sono stati compagni di guerra
ma ora sono ambasciatori di pace. Le nostre vite sono dedicate alla padronanza
del linguaggio universale, la Musica. Imploriamo i governi degli Stati Uniti e
dell’URSS a riconoscere e sostenere la fratellanza che può unire tutte le nazioni
con la sua musica. Lo diciamo a tutte le persone del mondo e ci crediamo.
Il presidente R. Reagan ha inviato un messaggio di risposta. Non c’è stata alcuna
risposta da K. Chernenko”.
E questo è ciò che scrisse Morris Seccon in un articolo dal titolo Chi siede sulla sedia
vuota:
“...Oggi abbiamo scoperto chi doveva essere seduto sulla sedia vuota: erano le 7
di sera, lunedì 4 giugno. Quasi 1500 musicisti di ottoni provenienti da tutto il
mondo sedevano in attesa di una serata sensazionale: il Festival della Tromba al
II Congresso Internazionale degli Ottoni presso l’Indiana University a
Bloomington è iniziato...
All’improvviso, un uomo dai capelli grigi è salito sul palco. No, il prossimo a
suonare non era Timofei Dokshizer. Si trattava di Louis Davidson, professore

*
KGB - Comitato di Sicurezza dello Stato, un’agenzia governativa estremamente influente che controllava l’intero
Paese
116
emerito di tromba dell’Indiana University, ora in pensione, ex illustre
trombettista solista della Cleveland Simphony Orchestra. Ha iniziato a parlare a
bassa voce ma con passione. Ha parlato brevemente della situazione politica e
poi ha letto un estratto di una lettera del suo caro amico Dokshizer, il quale
afferma che gli Stati Uniti non hanno firmato un accordo intergovernativo sulle
relazioni culturali tra i due Paesi. La notizia che il signor Dokshizer non avrebbe
suonato è stato per noi un duro colpo. Un’altra parte della lettera diceva che gli
dispiaceva di non poter partecipare, ma aveva inviato una registrazione della sua
esecuzione che poteva essere trasmessa.
All’improvviso il palco si è svuotato, lasciando spazio solo ad un leggio, una
sedia ed un bicchiere d’acqua su un tavolino. È caduto un silenzio che ha catturato
l’attenzione di tutti: è stato sorprendente e soprannaturale. I colleghi,
agghiacciati, ascoltavano innalzarsi il suono e lo spirito di questo meraviglioso
artista. Il suo suono insolitamente vibrante ha catturato le anime di tutti noi.
Chi è Timofei Dokshizer? Semplicemente una leggenda vivente, il più importante
virtuoso della tromba dell’Unione Sovietica, insegnante, solista di concerti,
artista discografico, solista di orchestre teatrali e sinfoniche. Ha eseguito una sua
trascrizione del Concerto per Voce di Glière, adattandolo alla tromba. Quando il
brano è terminato, l’ovazione è stata indescrivibile...
Sono corso al piano di sotto dove era seduto Louis Davidson e gli ho suggerito
alcune idee che all’improvviso mi erano venute in mente. Mi ha subito riportato
sul palco e si è offerto di condividere i miei pensieri con il pubblico sbalordito.
La mia proposta è stata quella di usare il buon senso e di inviare la nostra
dichiarazione ai capi di governo degli Stati Uniti e dell’URSS, nonché alla
Stampa di tutti i Paesi presenti a questo Congresso.”
Questo non fu tutto. Ricevetti il più grande rifiuto nel 1980, prima di partire per il
Giappone, dove avrei dovuto tenere quindici concerti. Quello fu un anno difficile. C’era
una guerra in Afghanistan e allo stesso tempo (i contrasti erano caratteristici nella nostra
politica) erano in atto i preparativi per lo svolgimento della cerimonia di apertura dei
Giochi Olimpici a Mosca. I Paesi occidentali, come sapete, si rifiutarono di partecipare
ai giochi, per protestare contro la guerra scatenata dall’Unione Sovietica.
Tutte le questioni relative alla mia partenza per il Giappone vennero concordate, i
preparativi completati. E all’improvviso... una chiamata dal Gosconcert (Associazione
dei Concerti di Stato, attraverso il quale vengono stipulati i contratti): il direttore
artistico V. Kokonin chiese di vedermi.
La conversazione si svolse alla presenza di un dipendente del Dipartimento delle
Relazioni Estere, ovvero il dipartimento del KGB del Ministero della Cultura. Kokonin
iniziò da lontano ad espletare il difficile compito affidatogli. Con molto rispetto e
rammarico, mi parlò del mio primo concerto che dovevo tenere con l’orchestra del
giornale “Yomiuri”. Questo è un grande giornale che ha un proprio quartiere a Tokyo,
con una linea ferroviaria e un’orchestra sinfonica. Disse quindi che questo giornale
aveva pubblicato un articolo criticando la politica del governo sovietico. Di
conseguenza, avevano deciso di punirlo annullando il mio concerto.
Comprendendo la situazione, concordai con la decisione indubbiamente “saggia” e dissi
che mi sarebbero bastati quattordici concerti. A questo, Kokonin mi rispose: “No, no,
per decisione della direzione l’intero tour è stato annullato”.

117
Allora provai a contattare l’impresario, il Signor Takazawa, ma lui stesso era spaventato
da quel che era successo. In ogni caso, un anno di lavoro preparatorio andò perso ed il
Gosconcert non compensò di certo le perdite subite dall’organizzatore.
Ho avuto un buon rapporto con V. Kokonin. È un ex strumentista a fiato, suonava il
clarinetto e in seguito divenne il direttore generale del Teatro Bolshoi. Ma cosa poteva
fare in questa situazione? Questo era ciò che gli veniva ordinato, le arti erano sotto il
comando del KGB ed ogni direttore era tale solo nominalmente (l’URSS aveva la
necessità di intitolare figurativamente posizioni governative di alto livello) anche se,
realisticamente, ogni lavoratore doveva obbedire agli ordini.
Il vero motivo del divieto di andare in Giappone divenne presto chiaro. In una lettera
anonima (una tecnica sovietica molto popolare) io e mio figlio eravamo tra le persone
che “non vogliono lasciare il Paese” (c’era una categoria speciale di persone nell’ex
Unione Sovietica a cui non era permesso andare all’estero). Quell’estate quindi, invece
di trascorrerla in Giappone, io e mia moglie andammo in macchina negli Stati baltici, a
Druskininkai. Questo permesso di andare all’estero mi venne negato per molto tempo.
Nel frattempo, la direzione del Ministero della Cultura era perplessa: il viceministro
della Cultura Vasily Feodosievich Kukharsky, che mi conosceva bene e mi aveva
nominato personalmente per concerti importanti, non poteva fare nulla con la sua
autorità e, a quanto pare, non aveva nemmeno il diritto di interferire con le decisioni
degli organi di sicurezza dello Stato. Alla fine, Kukharsky, insieme al direttore del
Teatro Bolshoi Georgy Alexandrovich Ivanov (in gioventù era un attore al Teatro
Vachtangov, dove una volta lavoravo nell’orchestra) decise di garantire per me alla
commissione ospite. Nessuno sapeva cosa fosse questo tipo di commissione e chi ne
facesse parte: era vietato candidarsi ed era anche un segreto di Stato. Solo dopo questo
appello e dopo anni di “disgrazia”, ebbe luogo il mio primo viaggio di prova in
Finlandia, supervisionato da un dipendente responsabile del Ministero della Cultura.
Un altro caso strano. Recentemente, durante gli anni della Perestrojka, ricevetti un invito
a partecipare alla conferenza londinese dell’ITG. Diciamo che mi venne dato il “via
libera”. Ma poi ecco che ricominciarono: puoi andare, poi non puoi andare... Alla fine
mi venne rifiutato. Furioso, scrissi una lettera con l’intenzione di consegnarla
personalmente al dipartimento di Cultura del Comitato Centrale del PCUS. Sapevo che
era impossibile arrivarci. C’era molta gente alla reception, seduta con i bambini per terra
come in una stazione ferroviaria. Chiamai con il telefono della reception ma nessuno
rispondeva. Lasciai quindi la lettera nella cassetta della posta: non potevo arrivare da
loro, quindi almeno dovevano leggere la mia lettera. Non volevo però andarmene senza
aver concluso nulla. Aspettai facendo una passeggiata per circa mezz’ora, quindi
richiamai. Questa volta rispose al telefono Yuri Konstantinovich Kurpekov, anche lui
ex musicista (un tempo suonavamo insieme nell’Orchestra da Camera Barshai). Mi
presentai e gli chiesi di ricevermi. La sua risposta fu molto gentile: “Prego, Timofei
Alexandrovich, vieni, ti ordinerò un lasciapassare”.
Per la prima volta mi ritrovai in un nuovo edificio sulla Piazza Vecchia. Ad ogni svolta
del corridoio c’erano persone in uniforme militare che controllavano il mio
lasciapassare, lo confrontavano con il passaporto, mi guardavano negli occhi... Yuri
Konstantinovich mi ascoltò, poi prese il telefono e dalla sua conversazione capii che il
Dipartimento per le Relazioni Estere del Ministero della Cultura, che mi aveva negato
il diritto di andare all’estero, era un’istanza molto inferiore rispetto all’istituzione in cui

118
mi trovavo in quel momento: non accettavano assolutamente ordini dal capo del
dipartimento di musica del Comitato Centrale del PCUS. Kurpekov mi assicurò che tutto
si sarebbe risolto, ma aggiunse: “Abbiamo perso tempo”.
Prima di questo incontro riuscii comunque ad inviare un telegramma a Londra dove
dichiarai in maniera esplicita che il mio arrivo era impossibile a causa della burocrazia
dei dipendenti del Ministero della Cultura.
Circa un mese dopo ricevetti una chiamata dal Ministero. Era il vice capo del
Dipartimento delle Relazioni Estere che chiedeva gentilmente di incontrarmi per un
colloquio. Ebbene, credo abbiano letto il mio telegramma in quanto attendevano una
mia spiegazione in merito. Ad essere sincero mi allarmai un po’ da questo invito. Sapevo
dove ero stato invitato: sebbene fossero tempi diversi, il potere era lo stesso.
Entro nell’ufficio: “Buon pomeriggio, Timofei Alexandrovich. Per favore, siediti. Non
ti farà troppo freddo? ...” (la finestra era aperta) ricordo esattamente le sue parole
subdole!
Non mi fu permesso di entrare a Londra. Il motivo dell’invito al Ministero fu che la mia
lettera, depositata nella cassetta della posta speciale, aveva funzionato. Il sistema era
questo: i reclami inviati al Comitato Centrale venivano inoltrati proprio alle autorità
contro le quali veniva scritto il reclamo. Questi, a loro volta, dovevano riferire che il
caso era stato risolto e chiuso.
Durante la nostra conversazione, il vicedirettore degli Affari Interni si spiegò a lungo e
mi promise che in futuro avrei potuto contare sul loro sostegno. Ma, fortunatamente, il
futuro non dipese più da queste persone. Altre istituzioni iniziarono ad organizzare
viaggi all’estero, inclusa la All-Union Musical Society. Lo stesso Yuri Konstantinovich
Kurpekov divenne il vicepresidente. Non furono più necessari certificati sanitari,
raccomandazioni di partito e altre sciocchezze simili. Noi però ci trovammo del tutto
impreparati a negoziare i termini dei contratti. Del resto il Gosconcert fece sempre tutto
per noi, compresa la risposta agli inviti, di cui venivamo a conoscenza solo quando
eravamo lì sul posto, quando ci chiedevano: “Avete ricevuto il nostro invito un anno
fa?”
La vita cambia e a questo proposito, per quanto difficile possa essere, va sempre tutto
per il meglio.

119
Nella città svizzera di Montreux. Al Congresso degli Ottoni del 1976.
A sinistra: il presidente del Congresso Lloyd Geisler (USA)
A destra: Knud Howald (Danimarca)

New York, presso la tomba di S. V. Rachmaninov.


Da sinistra: T. Dokshizer, Van Cliburn, A. Ryabinin

120
Capitolo 26
In dialogo con i compositori
Una parte significativa della mia vita la dedicai alla comunicazione con i compositori.
Il semplice fatto che iniziai ad apparire sul palco come solista, attirò su di me la loro
attenzione. Ciò venne facilitato dalla situazione che si era sviluppata nel repertorio per
tromba, quando la vecchia musica creata dagli esecutori stessi era diventata obsoleta e
quella nuova non era stata ancora composta. Si scoprì che molti di loro una volta
avevano scritto qualcosa per tromba. Alcuni, sfruttando la nostra fame di repertorio,
tentarono di spacciare la loro “merce stantia” per un prodotto nuovo e originale.
Fortunatamente lo capii presto e non la accettai. Dalla mia cerchia ristretta, gli artisti
dell’Orchestra del Teatro Bolshoi, che venivano scherzosamente chiamati “Il Gruppo
dei Cinque”, iniziarono a scrivere musica per me. La cerchia comprendeva Boris
Antyufeyev, Mikhail Krein, Abram Zhak, Abram Kaplun e, a quanto pare, Evgeny
Plugalov. Solo la Northern Song di Antyufeyev e lo Scherzo di Krein sopravvissero nel
repertorio per tromba.
Il primo lavoro scritto per me venne composto nel lontano 1939 da Vladimir Peskin. Era
lo Scherzo, di cui ho già parlato. Anche fuori dal Teatro Bolshoi cominciò a crescere il
flusso della nuova musica per tromba. Apparvero opere di Mikhail Rauchwerger,
Nikolai Rakov, quelle del compositore rumeno Vieru e molti altri. Alexander Arutiunian
venne a mostrarmi il suo Concerto. Ora questo lavoro è un best-seller, battendo tutti i
record di popolarità. Dopo l’esecuzione del Concerto Allegro di Peskin, da me eseguito
nella Sala “Čajkovskij”, Vladimir Kryukov, allora direttore della Filarmonica di Mosca,
iniziò a scrivere la sua Poesia-Concerto. E poi apparvero i concerti di Mieczysław
Weinberg, Eino Tamberg, Aleksandra Pachmutova. Il lavoro più interessante di questo
genere venne scritto dal compositore polacco Krzysztof Meyer: lo eseguii solo una volta
al concerto autunnale di Poznan con un direttore d’orchestra polacco di nome
Čajkovskij. Poi Andrei Eshpai mi mostrò la sua nuova opera, che invece di essere un
Concerto per tromba, si rivelò essere un Concerto per orchestra e quattro strumenti
solisti. Lo eseguimmo a Leningrado sotto la direzione di Gennady Rozhdestvensky.
Sotto l’influenza di questa composizione, Anatoly Zatin, di Leningrado, creò un
Concerto per corno, tromba, pianoforte e orchestra. Venne registrato a Tallinn con il
direttore Eri Klas: i solisti furono l’autore stesso, il cornista Vitaly Buyanovsky ed io.
Il compositore inglese Timothy Moore si presentò a Mosca con un nuovo interessante
Concerto per tromba e orchestra da camera. Venne eseguito nella Sala Grande del
Conservatorio di Mosca con un ensemble di solisti dell’Orchestra Filarmonica guidata
da Valentin Zhuk. A proposito, Timothy Moore scrisse poi un’altra Sonata per tromba
e quintetto d’ottoni. Tutto questo venne eseguito a Mosca. E poi, come da una
cornucopia, apparvero: il Concerto Russo di Arkady Nesterov (che ora è disponibile su
CD e suona in un modo nuovo e fresco), una nuova edizione del Concerto di Alexandra
Pachmutova, i Concerti Sinfonici del compositore di Odessa Alexander Krasotov e di
Bogdan Trashok, il Secondo Concerto di Krasotov, le Variazioni di Mikhail Gottlieb, il
Concerto In Un Movimento di Nikolai Rakov (la sua opera postuma, su cui lavorammo
insieme, compresa la strumentazione, ma che non suonammo mai a causa della morte
dell’autore e del mio trasferimento a Vilnius)...

121
Ho elencato, seppur in modo incompleto, solo le opere principali e fondamentali, senza
toccare le tante composizioni minori. L’intero periodo descritto va dal secondo
dopoguerra, dal 1946, fino al 1991. Ancora oggi continuo a ricevere manoscritti di
nuova musica da Ufa, Odessa, Finlandia e Mosca. Ebbi una connessione molto intima
con questi compositori, partecipando al processo della loro creazione e, ovviamente, fui
il primo a presentare la nuova musica al pubblico. Ma nella mia attività c’è stato anche
dell’altro: ho dato nuova vita a composizioni già scritte e non eseguite da me per la
prima volta. Di questo ne parlerò più approfonditamente.
Per prepararmi ad eseguire una registrazione del Concerto di A. Goedicke del 1950 o
1951, brano già suonato da Sergey Nikolayevich Eremin in mia presenza ed in presenza
di molti altri trombettisti, mi rivolsi all’autore con la proposta di discutere di un
problema nella cadenza del Concerto. L’idea mia era di voler realizzare degli intermezzi
orchestrali per avere qui una breve pausa per il solista, dato che è molto difficile da
eseguirsi in termini di complessità e volume del materiale. Alexander Fedorovich capì
subito le mie intenzioni e trasferì i due corali dalla parte solista all’orchestra
(pubblicherò un facsimile della sua calligrafia nel mio secondo libro). Tuttavia, non
utilizzai mai questa versione semplificata né ai miei concerti dal vivo né nelle
registrazioni. Secondo le mie osservazioni, questa variante è sconosciuta agli studenti
che studiano il Concerto di Goedicke: ognuno risolve il problema a modo proprio e di
solito lo fa male, facendo anche soldi.
Alexander Fedorovich Goedicke era un musicista eccezionale e profondo, un esperto
conoscitore della musica di Bach, in particolare della sua musica per organo. Teneva
regolarmente concerti di musica per organo nella Sala Grande del Conservatorio.
Abitava nell’ala destra dell’Istituto, dove un tempo si trovavano gli appartamenti dei
professori e al primo piano della facciata anteriore c’era un noto negozio di musica: ora,
per qualche motivo, è stato chiuso. Alexander Fedorovich era un grande amante degli
uccelli e ogni giorno portava con sé un sacchetto di stoffa con del mangime. Per andare
a lavoro attraversava tutto il cortile del Conservatorio e, non appena ci entrava, veniva
accolto da nuvole di uccelli che si posavano sulle sue spalle, sulle braccia e sulla testa.
Questa scena si ripeteva tutti i giorni.
La storia della prima del Concerto di Vasilenko è alquanto drammatica. Sergey
Nikolaevich Eremin, il primo interprete di questa composizione, si sentì male durante il
concerto nella Sala Grande del Conservatorio. Quasi prima della cadenza del primo
movimento si fermò. Il direttore d’orchestra Nikolai Pavlovich Anosov provò ad
allargare un po’ di più il tempo, ma la cadenza era arrivata. Sergey Nikolaevich rimase
per un po’ sul palco e poi, in un silenzio mortale, se ne andò (ho già descritto un episodio
simile che mi accadde molti anni dopo in Germania).
Dicono che il giorno dopo un musicologo pubblicò una recensione elogiativa della
“prima di successo di una nuova composizione per tromba”, quando invece il
musicologo stesso non era stato nemmeno presente al concerto: la recensione venne
infatti inviata da Leningrado!
Successivamente, il Concerto di S. Vasilenko sopravvisse per diversi anni, poi venne
dimenticato. Nessuno si è mai più interessato.
Contattai Sergey Nikiforovich Vasilenko e mi offrii di eseguire il Concerto. Veniva
molto bene con l’Orchestra della Radio ma non mi permisero di registrarlo. Poi, con il
consenso dell’autore, la registrazione venne effettuata con Sergey Petrovich Popov, un

122
fantastico trombettista solista dell’orchestra radiofonica. Lo registrò molto bene come
solista d’orchestra, ma non come solista da concerto. Questo mi ferì nel profondo perché
dopotutto, per risollevare questo concerto dalla polvere, io e l’autore lavorammo molto
alla correzione di molti dettagli. Le correzioni principali riguardavano l’agogica, ma il
Concerto era comunque impossibile da eseguirsi a causa dei numerosi meno mosso,
ritenuto, allargando ed altre varie indicazioni di tempo. Dopo aver cancellato dozzine
di queste designazioni, riuscimmo a rimettere insieme ciò che rimase dagli “scarti” del
Concerto. Tuttavia nella pubblicazione della mia edizione del Concerto sono ancora
presenti molti di questi segni “extra”.
Ero così offeso da quel che successe che trovai il coraggio di chiamare “l’onorevole
uomo” ed esprimere la mia indignazione. Sentendosi in colpa, Sergey Nikiforovich,
senza che io glielo chiedessi, mi rispose che aveva proposto alla radio di far eseguire il
Concerto ad un altro artista. Ma lui stesso aveva già diretto l’orchestra sia con me che
con Popov! ...
Molto più tardi registrai il Concerto di Vasilenko presso lo studio “Melodiya” con
l’orchestra del Teatro Bolshoi, diretta da Algis Zhuraitis. Fu grazie alla pubblicazione
della nuova versione della partitura che quest’opera continua a vivere e ad essere
eseguita ancora oggi.
Anche il Concerto di A. Pachmutova non venne scritto per me. Il suo primo interprete
fu il mio collega Ivan Pavlov. In questo Concerto, a mio avviso, sono presenti due errori
che l’autrice non tenne conto: il registro grave nella parte introduttiva e le note lunghe
nel finale; il tema principale è esteso e prevalentemente nel registro acuto. Il Concerto
inizia con un Do nella prima ottava e nella dinamica del ppp. Questa dinamica
incatenava psicologicamente l’esecutore. Suonai il Concerto più volte e puntualmente
riscontravo difficoltà nell’eseguire la prima nota. Anche gli studenti che lo suonavano
non riuscivano a realizzare ciò che c’era scritto. E sebbene io consigliassi di eseguirlo
nel mp invece del ppp, non fu ancora sufficiente a rimuovere la rigidità ed ottenere un
suono melodioso e libero.
Convinsi allora Aleksandra Nikolaevna Pachmutova a riscrivere l’introduzione una
quinta sopra e il tema dell’Apoteosi-Finale due volte più velocemente: c’era un Do acuto
che durava 8 quarti! Inoltre, le chiesi di inserire una base ritmico-armonica
nell’Apoteosi, per aiutare così il solista ad andare a tempo senza fare delle corone sulle
note lunghe. Tutti questi cambiamenti migliorarono il Concerto. Presto venne
pubblicato in una nuova edizione dell’autrice e registrato da me su disco.
Anche il Concerto di A. Arutiunian non venne scritto per me, ma per il mio amico
Haykaz Mesiayan, con il quale studiammo insieme nella classe di Tabakov ed insieme
iniziammo anche il servizio militare durante la guerra. Mesiayan fu il primo interprete
del Concerto, ma io modificai la parte della tromba, scrivendo una cadenza approvata
dall’autore ed eseguii questo Concerto in diversi continenti più di duecento volte.
Una situazione simile si verificò con un’altra composizione di A. Arutiunian, Theme
and Variations, registrata nella mia versione a Praga con l’Orchestra Filarmonica Ceca
e pubblicata dalla casa discografica “Melodiya”.
Comunicando con i compositori, feci interessanti osservazioni sui loro personaggi e
sulla loro calligrafia. Alcuni scrivevano una frase e chiedevano all’interprete di suonarla
per ascoltare e apprezzarne il suono della tromba. Altri non mostravano lo spartito finché
non veniva inserito anche l’ultimo punto. Mieczysław Samuilovich Weinberg era uno

123
di questi. Mentre scriveva il Concerto io non riuscivo a vivere in pace, ero sopraffatto
dall’impazienza di vedere cosa stava scrivendo e come. Per telefono gli chiesi un
incontro, convincendolo che avevo un “buon occhio” - e così si convinse.
Ciò che suonai era del tutto insolito ma molto interessante. Interpretai un po’ la prima
parte, che l’autore chiamò Etudes, senza fare domande. Iniziata la seconda parte, la
eseguii una prima volta: Mieczysław Samuilovich chiese di ripeterla. Per me era chiaro
che questa musica era stata scritta più per un flauto che per una tromba, ma non dissi
nulla per non “sfidarlo”. L’autore, dopo che mi chiese di suonarla di nuovo, senza alcuna
discussione, all’improvviso disse: “Va bene, scriverò qualcos’altro per questa parte...”
Quindi capì tutto e prese la giusta decisione, come se avesse dialogato con me. Nel
lavoro dei compositori osservai anche un fenomeno interessante, una sorta di reazione a
catena. V. Kryukov creò il suo Poema-Concerto sotto l’influenza della musica di V.
Peskin. Ad Eino Tamberg, eccezionale compositore estone, inviai le parti del Concerto
di M. Weinberg ed il risultato fu uno splendido Concerto con all’interno citazioni
autentiche di melodie popolari estoni ed esigenze tecniche originali. Lo suonai molte
volte a Tallinn, Mosca, Leningrado e Finlandia: la mia registrazione su disco è molto
nota. È quindi molto interessante il modo in cui E. Tamberg formulò il tema del suo
Concerto dopo aver conosciuto il Concerto di Weinberg: in sostanza, le parti principali
si rivelarono simili.
A. Krasotov intitolò la sua composizione Concerto Sinfonico. Anche la composizione
di B. Trotsyuk porta lo stesso nome. David Krivitsky compose una serie di Concerti per
tromba, corno e trombone. Insomma, iniziai il mio lavoro concertistico senza repertorio
e durante la mia vita si arricchì con diverse dozzine di Concerti e fino ad un centinaio di
composizioni più piccole, senza contare gli arrangiamenti e le trascrizioni che ho fatto,
comprese opere come la Rhapsody in Blue di Gershwin, il Concerto per Voce di Glière,
il Concerto N. 1 per pianoforte di Shostakovich, il Concerto in Mib Maggiore di Neruda
ed il Musical Fiddler on the Roof di Jerry Bock. Alcune delle nuove composizioni
sopravvissero solo fino alla prima esecuzione, ma molte di queste si affermarono
saldamente nel repertorio per tromba.
Se nel repertorio trombettistico non è presente un Concerto per tromba scritto da
Shostakovich è colpa mia e di questo mi punirò a vita per non aver mai scelto il momento
giusto per un incontro con il compositore, rimandando sempre tutto al futuro. Incontrai
Dmitry Dmitrievich più volte ma sempre in situazioni adatte solo a conversazioni fugaci
ovvero durante concerti, riunioni, persino feste di compleanno. Ovunque fosse, era
sempre circondato da persone: spesso schiacciato contro il muro da uno dei funzionari
o da coloro che cercavano di mostrarsi “amici” di un grande. Salutava le persone che
passeggiavano lungo l’atrio sempre con uno sguardo di sfuggita o con un cenno del
capo. Tutto iniziò dopo che ne parlammo per due volte alle mie esibizioni. Shostakovich
era interessato alla nuova musica e spesso frequentava concerti in cui venivano eseguiti
nuovi programmi. Dopo la prima esecuzione del Poema Concerto di V. Kryukov, scrisse
anche una recensione per il quotidiano “Cultura Sovietica” sottolineando i meriti della
composizione ed il successo del solista. E dopo la prima esecuzione del Concerto per
Tromba e Orchestra di M. Weinberg (diretto da K. P. Kondrashin), Dmitry Dmitrievich
tornando nel backstage affermò che quest’opera meritava di essere definita Piccola
Sinfonia. Più volte in situazioni simili, catturando il mio sguardo, diceva velocemente
come se lo dicesse a se stesso: “Lo scriverò, lo scriverò sicuramente” e per due volte,

124
congratulandosi con me per il mio successo, mi disse che stava pensando ad una nuova
composizione da dedicarmi.
Vidi Shostakovich anche nella Sala Grande del Conservatorio alla prima esecuzione a
Mosca del Concertino del compositore francese A. Jolivet con l’Orchestra da Camera
“Rudolf Barshai”, un ensemble allora ancora all’apice della sua fama, con la pianista
Tatyana Nikolayeva, mia compagna di classe alla CMS. A Mosca, la musica francese
contemporanea non veniva eseguita spesso. Anche mettere insieme un cast di artisti così
complesso non fu facile. Tuttavia, il Concerto non venne né trasmesso né registrato, non
rimase alcuna traccia e non fu più possibile riunirsi nuovamente per tentare di riprovarci.
Adoravo Shostakovich, lo idolatravo. Conoscendo la sua natura così sottile e delicata,
non mi permisi mai di fargli nemmeno una telefonata, pensando al fatto che forse stava
preparando il suo nuovo Concerto per tromba. Ora che Dmitry Dmitrievich non c’è più,
capisco che in questa situazione tutta la mia scrupolosità non era necessaria. Ciò che era
necessario era un incontro di lavoro per provare alcune parti suonate alla tromba (il tipo
di incontro che funge da catalizzatore per il lavoro del compositore). Secondo me, la
tromba era uno degli strumenti preferiti di Shostakovich. Questo può essere visto
osservando le sue Sinfonie: il tema della Prima Sinfonia inizia con i suoni di una tromba
solista, e così come in tutte le altre Sinfonie - la Quinta (Beethoven), la Settima
(Militare), la Nona, l’Undicesima (Rivoluzionaria), la Tredicesima (basata sui versi di
E. Yevtushenko) e la Quindicesima - in cui la tromba ha un importante materiale
tematico.
Il destino del Concerto N. 1 per Pianoforte di Shostakovich non fu semplice. Dopo la
prima esecuzione a Leningrado il 15 ottobre 1933, venne dimenticato per molti anni. Il
primo trombettista (a Mosca) ad eseguire questo lavoro fu Leonid Georgievich Yuryev.
Trombettista originale, inimitabile e dal suono divino, purtroppo suonava pochissimo la
tromba a causa della sua passione per la direzione d’orchestra. Di conseguenza, io ebbi
l’opportunità di partecipare alla rinascita di quest’opera di Shostakovich.
La parte della tromba nel Concerto per Pianoforte ha un suono particolarmente delicato.
Affinché possa fondersi con gli archi e il pianoforte non può essere eseguito con un
suono orchestrale aperto. È perciò molto difficile per un trombettista trovare un suono
confortevole in questo pezzo. Mentre lo si suona, il solista avverte di essere sempre solo
e privo di supporto. Ho dovuto suonare questo Concerto con diversi pianisti solisti. Lo
suonai più volte con Tatyana Nikolayeva in Germania, con l’Orchestra da Camera
Lituana di Saulius Sondeckis, con l’Orchestra di Berlino in Svizzera. La registrazione
venne effettuata nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca con Viktoria Postnikova
ed il direttore Gennady Rozhdestvensky.
Il mio repertorio concertistico include anche altre composizioni di Shostakovich. Ad
esempio nei miei programmi inserisco le sue Fantastic Dances op. 1, originali per
pianoforte, ma alla tromba suonano davvero fantastiche.
Penso che l’eredità di Shostakovich includerà altri brani scritti per tromba solista in
diverse formazioni, soprattutto nelle sue prime musiche da film. Dopotutto, anche nel
genere sinfonico esiste una composizione che rimase nel dimenticatoio per decenni e fu
eseguita per la prima volta dall’Orchestra Filarmonica di Mosca con il direttore K.
Kondrashin: si tratta della Quarta Sinfonia. E proprio di recente il Quartetto Borodin di
Mosca mi invitò ad eseguire con loro la musica ritrovata di D. Shostakovich per
quartetto d’archi e tromba. Per rendere omaggio al grande compositore, ammirandolo e

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forse cercando di rimediare a ciò che era andato perso, arrangiai un suo Concerto per
pianoforte, trasformandolo in un Concerto per tromba. Il materiale scritto dall’autore si
fonde perfettamente con il suono della tromba e credo che col tempo il mio
arrangiamento del Concerto diventerà popolare quanto l’originale o forse il suono della
tromba rivelerà qualcosa di nuovo, di inaspettato e nascosto nella musica di questa
composizione. Ma questo dipende principalmente da noi, gli artisti, da come
presentiamo questa musica agli ascoltatori. Per quanto riguarda il lato etico, non vedo
alcun problema: gli strumentisti molto spesso prendono in prestito musica “straniera”
gli uni dagli altri. Lo facevano anche i pianisti, anche se avevano un vasto repertorio,
così Dio ha spinto anche noi trombettisti a farlo.
Molto più importante invece è un’altra questione: l’estetica. Come suonare la musica di
“altri” senza rovinarla con performance immature, di cattivo gusto o in modo non
educato? In effetti, nella nostra pratica si può spesso osservare come gli artisti si
impegnano a suonare musica sulla quale le loro abilità ed il loro pensiero non sono
ancora maturati senza nemmeno sentirsi responsabili di screditarla. Rhapsody in Blue di
Gershwin è uno di questi ed è una prelibatezza per molti studenti e persino per artisti
famosi. Ho ascoltato esecuzioni di questo brano che mi hanno fatto rimpiangere di aver
creato questa trascrizione. Per qualche ragione, alcune persone pensano che quando si
esegue una melodia jazz bisogna fare smorfie, dimostrare banalità, falsità, volgarità,
sentendosi eroi pensando di dover esaltare il genere. Il jazz è già un classico ed è
inammissibile rovinarlo con una performance scadente. Musicisti di questo genere
vogliono essere sgridati anziché applauditi, dicendo loro: “Vai a suonare con
competenza i Concerti di Albinoni o Vivaldi. Per suonare la Rhapsody di Gershwin devi
crescere!
Ed è proprio per questo che mi preoccupa il destino del Concerto di Shostakovich. Come
lo suoneranno i futuri trombettisti? Cosa aggiungeranno all’interpretazione già
consolidata? Non rimarranno sbalorditi dalla “novità”? Non causeranno alcun danno? ...
Inoltre, l’idea stessa di una trascrizione per tromba di una musica originale per
pianoforte perseguiva un altro obiettivo: dimostrare le capacità espressive della tromba,
che è soggetta a qualsiasi modifica esecutiva che non sia inferiore al “Re” di tutti gli
strumenti: il pianoforte. Scrivendo questa trascrizione, in un certo senso ho voluto
confutare la famosa espressione di Heinrich Neuhaus: “Soffiano nella tromba, fischiano
con il flauto, scricchiolano con il violino e suonano con il pianoforte”.
Riflettendo sul destino della musica moderna, mi pongo una domanda: dove sta
andando, dov’è finita? La mia ampia comunicazione con i compositori non sempre portò
i risultati desiderati. Alcuni autori semplicemente li evitai. Non capisco e non accetto la
musica costruita su melodie frammentarie, accordi convulsi o suoni singoli. A mio
parere, le spiegazioni secondo cui tale musica riflette presumibilmente la realtà moderna
non sono convincenti. Sì, la nostra realtà a volte è terribile e brutta. Ma oltre ai problemi
sociali, politici, economici ed ambientali, la vita è caratterizzata dalla fioritura
armoniosa della natura, della gioia, della creazione e dell’essere e quindi non è sempre
terribile e cupa in tutto. Se una persona nasce per fare del bene e migliorare il mondo,
la musica dovrebbe aiutarla a fare proprio questo: a questo serve la musica.
Mi preoccupa anche il calo di professionalità che recentemente si è diffuso anche nelle
professioni artistiche come la mia. La composizione musicale è diventata un fenomeno
di massa e spesso è scritta da coloro che non sono in grado di creare nulla di

126
significativo. Questo tipo di musica non ha futuro e allontana le persone dai classici.
Sempre più ascoltatori abbandonano la musica seria per accontentarsi di spettacoli
economici pop e rock. Non è questa una minaccia di morte per il patrimonio musicale
classico?
A volte nella musica per tromba creata per scopi istruttivi e tecnici si incontra un tale
desiderio di originalità che è della peggior specie possibile. Scrivono una nota corta per
battuta su un metro ritmico impostato sul 7/8 come per dire: ti faccio vedere io! Questi
non sono i classici con le parrucche che scrivevano tutto in due e in tre quarti...
Un compositore di mio rispetto, professionista, mi inviò il suo Secondo Concerto per
Tromba. Nella seconda parte scrisse questi tempi: 15/8, 18/8, 21/8 ed anche 24/8, mentre
la musica di questo episodio è semplicemente riducibile ad un 3/8! Naturalmente,
qualsiasi esecutore in grado di elaborare la musica, cancellerebbe il 24 e aggiungerebbe
otto stanghette senza dover prendere in mano la calcolatrice mentre suona. Ma alla fine,
che siano 24 o anche 37, ci dovrebbe essere musica ed una linea melodica, non una
“scheda perforata”.
La stravaganza non rende la musica più moderna. Innanzitutto dovrebbe avere armonia
e melodia e cioè l’orizzontale e il verticale; poi la forma, come la rima nella poesia o i
colori nella pittura. Se davanti a noi c’è solo un insieme di note musicali, questo è solo
un gioco musicale e non musica vera e propria. La cosa peggiore è che queste tecniche
a volte permettono di mascherare il dilettantismo e spacciare un falso per un prodotto di
qualità o, peggio ancora, per un prodotto del tutto nuovo. Inoltre, le persone che non
accettano tale arte vengono subito accusate di essere retrograde, conservatrici da parte
di coloro che vogliono essere riconosciuti come “modernisti” avanzati...
In questa situazione sono sorpreso dalla posizione presa dagli artisti, in quanto
promuovono tale musica “moderna” (suonata, di regola, in sale vuote) invece di
bloccarne la diffusione con una rigorosa critica professionale, considerando valide solo
le esecuzioni di opere di vero talento.
Naturalmente, il tempo è il miglior giudice e rimetterà ogni cosa al suo posto. Ma questo
processo è possibile solo con la nostra diretta partecipazione. Dopotutto, senza esecutori,
qualsiasi musica è solo un segno su un foglio pentagrammato...

Caricatura. Il compositore Alexander Arutiunian

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A Tallinn con il compositore estone Eino Tamberg

Ad Alma-Ata.
Da destra a sinistra: Dusen Kasseinov, rettore del Conservatorio.
Timofei Dokshizer ed il professore Yuri Klushkin (trombettista)

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Con Phillip Johnson. Londra (1994)

129
Prima esecuzione assoluta del Concerto Trio di A. Zatin, dicembre 1979.
V. Buyanovsky (corno), T. Dokshizer (tromba), A. Zatin (pianoforte)

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Capitolo 27
Incontri ed impressioni negli Stati Uniti
Vincent Bach
I miei viaggi negli Stati Uniti iniziarono nel 1961. Per la prima volta ci andai per una
tournée come membro parte dell’Orchestra Sinfonica di Stato dell’URSS, ma
inaspettatamente scoprii interesse per i musicisti locali.
A New York, Vincent Bach, un uomo leggendario, l’inventore di fama mondiale della
moderna tromba Stradivari, un ex trombettista divenuto industriale e proprietario
dell’azienda, venne alla prima prova dell’orchestra. Dopo una breve introduzione, invitò
i trombettisti e i trombonisti dell’orchestra a visitare la sua fabbrica che produceva solo
trombe e tromboni. Avevamo a disposizione tutto il fine settimana, un po’ di tempo per
il riposo e Bach a questo proposito disse che se avessimo accettato di andare da lui
sabato, avrebbe chiesto ai suoi operai di lavorare per quel giorno. Il nostro supervisore
era Vladimir Timofeevich Stepanov, un uomo progressista, coraggioso per quei tempi,
realistico e abbastanza indipendente. Riuscimmo facilmente a raggiungere un accordo
con lui.
Il sabato, in due macchine, ci dirigemmo alla periferia di New York, nella città di
Vernon, dove si trovava la fabbrica. Vedemmo una solida casa in mattoni a un piano,
con un ufficio all’ingresso. Il personale amministrativo era composto da un segretario,
un caposquadra e dallo stesso capo dell’azienda, Vincent Bach. C’erano quaranta operai.
Il laboratorio era spazioso, luminoso, con aria condizionata, speciali divisori per lo
stoccaggio e per i lavori speciali, un’area per la laccatura degli strumenti e tante altre
cose che potrebbero non essere notate subito. Bach ci portò in giro per il laboratorio,
mostrandoci i singoli processi di produzione. Dedicò particolare attenzione alla
spiegazione di un nuovo macchinario da lui progettato per trafilare le pompe del
trombone e ad una macchina semiautonoma per la produzione di bocchini.
Bach può essere considerato l’inventore della tromba con meccanismo a pistoni ed è
anche il produttore di un nuovo sistema di bocchini, che conta più di ottanta modelli.
Ogni bocchino ha la propria tabella e tutti i bocchini differiscono in modo significativo
per dimensione e larghezza del bordo, per la dimensione, la profondità della tazza e per
la struttura della penna. Per ogni tipo di bocchino, Bach ha una fustella speciale. Il
bocchino viene inserito in un tornio e, indipendentemente da quanto l’artigiano sia abile
e disposto a realizzarlo, il tornio realizza automaticamente la tazza, mentre, in un’azione
secondaria produce la penna. Tutti gli strumenti per la lavorazione sono stati realizzati
da lui stesso e periodicamente raggiungevano un certo stato di usura.
Bach si offrì di lasciarmi realizzare il mio bocchino. Dopo avermi chiesto che misura
stessi usando, posizionò nel tornio il taglierino “7C”, mi indicò quale leva toccare e,
senza capirci nulla, tirai fuori dalla macchina il bocchino finito. Subito il maestro vi
incise sopra le mie iniziali, e un’ora dopo, già argentato, mi venne regalato un bocchino
realizzato dalle “mie” stesse mani.
Alexander Georgievich Boryakov ed io chiedemmo al maestro di realizzare delle copie
“fatte in casa” dei nostri bocchini, sui quali credemmo ciecamente nelle loro qualità
eccezionali per poi utilizzarli. Purtroppo le copie non uscirono bene. Il maestro ci spiegò

131
che se fosse riuscito a realizzare delle copie esatte dei bocchini senza fustellatrice, oggi
sarebbe probabilmente un uomo ricco.
Esaminammo molti altri processi di produzione. Vedemmo come venivano rettificate
manualmente le valvole, come veniva verificata la tenuta dello strumento immergendolo
nell’acqua e come veniva controllata l’intonazione attraverso un dispositivo elettronico
speciale, a noi ormai già noto. Osservammo anche il complesso processo di laccatura,
molto dannoso per la salute dei lavoratori. Dopo questo processo, gli strumenti venivano
messi in un macchinario per l’essiccazione a caldo.
Bach si rivolgeva agli operai chiamandoli per nome, come è di consuetudine negli Stati
Uniti. La loro relazione era caratterizzata da disinvoltura e semplicità, e nessuno cercò
mai di ingraziare il capo. Bach aveva anche l’abitudine di invitare i suoi dipendenti e le
loro famiglie nei ristoranti per i festeggiamenti del Capodanno, ecc. Quel giorno fummo
sorpresi nell’apprendere che gli operai vennero a lavoro per noi nel loro giorno libero.
Attirai l’attenzione di Bach riflettendo sull’umanità dei suoi rapporti con i lavoratori, al
che mi rispose: “Ebbene sì, un capitalista non è un commissario”.
Il giorno in cui conobbi Vincent Bach rimase vividamente impresso nella mia memoria
e segnò l’inizio dei nostri legami futuri. La sua idea dell’Unione Sovietica si formò non
solo attraverso la Stampa americana di quel periodo, ma anche dall’esperienza
personale. Nel 1935 venne a Mosca per una breve visita, vagò per la città con una
macchina fotografica e quando si fermò a fotografare il Teatro Bolshoi venne fermato e
la macchinetta gli venne sottratta e portata via. Successivamente fu costretto a lasciare
Mosca in anticipo.
A Mosca incontrò anche M. I. Tabakov e gli regalò un bocchino prodotto dalla sua ditta.
A quel tempo quello era l’unico bocchino presente nell’Unione Sovietica, di cui
Tabakov ne era molto fiero. I nostri artigiani provarono a copiarlo, ma sappiamo già
cosa significa copiare un bocchino. È vero, ora c’è un maestro artigiano di Minsk, Oleg
Parfimovich che produce bocchini della stessa qualità di quelli di Bach.
Quando l’Orchestra di Stato tornò a Mosca, venne finalmente presa in seria
considerazione la questione di dotare le principali orchestre di strumenti moderni.
Arrivarono i tempi del “disgelo di Khrushchev”* e il governo stanziò per questo scopo
una grossa somma: 100.000 dollari. Due esperti furono incaricati di selezionare gli
strumenti: io per gli ottoni e il flautista dell’Orchestra di Stato, Georgy Saakjan, per i
legni.
La nostra delegazione era guidata dal direttore dell’Orchestra di Stato, Avenir
Andreevsky, un uomo intelligente, ligio, professionale e molto perbene. Si avvicinava
un nuovo incontro con Bach: si decise di acquistare le trombe da lui. Iniziai direttamente
con lui una corrispondenza attiva, concordando questioni professionali puramente
specifiche. Gli scrissi riguardo i modelli di strumenti che avrebbe dovuto preparare e di
alcuni accorgimenti particolari per le pompe, come ad esempio una chiave al posto
dell’anello per la regolazione della pompa del primo pistone.
Suggerii di dotare ogni strumento di un bocchino con incise le iniziali del futuro
proprietario, senza preoccuparmi minimamente di quanto ciò avrebbe influito sul valore
di ciascuno strumento.

*
Dopo la morte di Stalin nel 1953, Nikita Sergeevich Khrushchev divenne il primo segretario del Comitato
Centrale del PCUS. Fu un periodo chiamato il “disgelo” perché permise alla cultura di fiorire e molte persone
furono riammesse al lavoro. Khrushchev fu destituito nel 1964.
132
Rivolsi questi interrogativi direttamente a Bach e lui, come si scoprì in seguito, le
coordinò con il nostro rappresentante di vendita, la AMTORG Trading Corporation. La
gente lì non capiva chi stava conducendo trattative alle loro spalle, relative ad accordi
commerciali e transazioni finanziarie direttamente con l’industriale americano e, a
quanto pare, espressero a Bach la loro opinione sull’illegalità di queste azioni. Solo più
tardi capii da dove provenivano le note allarmanti delle lettere di Bach, in quanto lui mi
raccomandava sempre più insistentemente di rivolgere le mie proposte alla AMTORG...
Quando il nostro trio arrivò a New York ci presentammo alla AMTORG e venimmo
ricevuti da un rappresentante commerciale. A quel punto capii che la questione
dell’acquisto degli strumenti era stata preparata con cura. Bastava solo andare in città
per selezionare gli strumenti direttamente dalle aziende. Quindi, il rappresentante delle
vendite si rivolse a me personalmente dicendomi: “Lei è Dokshizer? Avrei potuto
causarle grossi problemi. Siamo noi che ci occupiamo del commercio e prendiamo
accordi sulle condizioni e sui termini e lei, aggirandoci, contatta le aziende, negozia con
loro, abbattendo i termini concordati...”
Mi scusai per la mia ignoranza in materia commerciale, spiegando il mio
comportamento unicamente finalizzato al grande desiderio di ottenere quegli strumenti
migliorati dagli ultimi progressi. Quando più tardi incontrai Bach, mi chiese prima se
fossi stato alla AMTORG e tirò un sospiro di sollievo quando sentì che era tutto a posto.
Dodici anni dopo, quando ci incontrammo di nuovo, Bach mi disse che sarebbe andato
in Austria, nella sua terra natale, e che avrebbe voluto visitare di nuovo l’Unione
Sovietica. Ricordando il suo precedente soggiorno a Mosca, mi chiese di ottenere dal
comune il permesso di scattare fotografie. Gli garantii che i tempi erano cambiati. Bach
non andò a Vienna a mani vuote. Portò lì i nuovi modelli delle sue trombe, realizzati
appositamente per i Conservatori europei che preferivano le trombe a cilindri della
“Getzen” o “Zimmermann”. Provai questi strumenti: suonavano meravigliosamente
quanto quelli a pistoni. Ma a Vienna Bach si ammalò gravemente e non poté più
continuare il suo viaggio e, sfortunatamente, non venne a Mosca.
Poco dopo seppi che Bach era diventato completamente sordo ed aveva venduto la sua
fabbrica alla società “Selmer”, che si trova nella città di Elkhart. Questo accordo con
Bach per un importo di 850.000 dollari, venne concluso e formalizzato dal direttore della
società “Selmer”, Antonin Rulli.
Bach lavorò duramente alla sua produzione più di chiunque altro lavoratore. Non era
povero, ma non era nemmeno milionario, come spesso immaginiamo che un produttore
sia, in quanto investe il suo capitale in affari che, crescendo, porta profitto.
Gli strumenti di Bach personalmente non mi andavano bene. È stato difficile per me
suonarli a causa della distanza insolitamente ampia tra le note della scala. Bach allora
creò per me un modello speciale, ma non riuscii a lavorare nemmeno su quello: da qui
si capisce che bisogna anche scegliere uno strumento adatto a te. Quando poi non c’era
scelta si suonava su qualsiasi strumento disponibile, ma quando si presentava
l’opportunità di effettuare un confronto e si poteva testare la resistenza, il registro acuto,
l’uso dell’aria, ecc., queste caratteristiche possono dipendere dallo strumento.
Dopo che Bach vendette la sua azienda, i nostri contatti continuarono per molti anni. Ci
corrispondevamo e ci scambiavamo messaggi. Bach fu l’autore di alcune composizioni
per tromba: danze, csardas con variazioni e cadenze, che suonò lui stesso. Di tutto questo
mi mandò gli spartiti.

133
Una volta ricevetti un suo pacco. Potreste non credermi su cosa c’era dentro: una torta!
Sì, una torta! Aveva la forma di un anello con un buco al centro. Era alle noci, frutta
candita e bacche, avvolta in un foglio di alluminio e confezionata in una scatola di latta
ben chiusa, dipinta come i prodotti “Palekh”. La torta era a lunga conservazione. Questo
pacco mi venne consegnato all’ufficio postale con molto ritardo, dopo un accurato
controllo da parte del “servizio speciale”: venne addirittura perforato in più punti con
delle bacchette. Risposi al suo regalo così insolito con un barattolo di caviale. Ci
scambiammo quindi dei souvenir, principalmente per il nuovo anno.
L’ultima volta che vidi Bach fu circa sei mesi prima della sua morte. Antonin Rulli mi
portò da lui. La loro amicizia dopo l’accordo diventò ancor più consolidata. Come
sempre andammo in un ristorante, dove Bach bevve anche del whisky. Era diventato
sordo, ma anche completamente solo. Solo sua nipote si prendeva cura di lui, mentre
sua moglie venne ricoverata in una pensione per malati di mente. Ci separammo
salutandoci calorosamente.
Ben presto mi giunse la notizia della morte di Vincent Bach, avvenuta il 6 gennaio
1976...
All’incontro dei musicisti di ottoni nella Casa Centrale degli Artisti, rendemmo omaggio
alla memoria della sua figura eccezionale nel panorama internazionale dell’arte degli
ottoni. Un mese dopo ricevetti l’ultima torta mandatami da Bach quando era ancora in
vita, come al solito, per il Capodanno...

Con Vincent Bach, New York, fine anni ‘60

134
Antonin Rulli
In quella prima visita negli Stati Uniti nel 1961, oltre all’incontro con Bach, ebbero
luogo molte altre conoscenze interessanti. In un hotel di Chicago squillò il telefono. Una
voce sconosciuta disse in buon russo: “Signor Dokshizer? Un rappresentante della ditta
‘Selmer’ vuole parlarle. Potremmo venire da lei?”
Non c’era motivo di rifiutare. Chiamai subito il direttore d’orchestra, Avenir
Andreevskij, e gli chiesi di venire a trovarmi, giusto in caso... A quei tempi i gruppi
venivano sempre accompagnati da un agente speciale del KGB, che noi chiamavamo “Il
101esimo” (di solito c’erano circa un centinaio di persone nel gruppo). Entrarono due
persone.
“Sono il traduttore e fotoreporter della società ‘Conn’, il mio cognome è Chumakov
(ricordo il suo cognome perché il primo trombonista dell’Orchestra di Stato era Pavel
Chumakov). Le nostre due società (‘Selmer’ e ‘Conn’) si trovano nelle vicinanze della
città di Elkhart e Antonin Rulli mi ha chiesto di aiutarlo a spiegarle”.
Tony Rulli - così si presentò - era un bell’uomo, di mezza età, con morbidi baffi ed uno
sguardo gentile che ispirava fiducia. “Sono il direttore della ditta ‘Selmer” disse,
“Sappiamo che lei suona gli strumenti della nostra fabbrica”.
Infatti, prima di recarci negli Stati Uniti, ricevemmo trombe “Selmer” prodotte in
Francia. Negli Stati Uniti questi modelli venivano duplicati presso la filiale “Selmer”
presente nella città di Elkhart.
“Saremmo interessati a sapere, Signor Dokshizer...” continuò Rulli “...la sua opinione
sulla loro qualità.”
Descrissi gli aspetti positivi e negativi dello strumento. Sottolineai l’ottimo suono,
l’ottima resa tecnica ma feci anche notare lo stato sfavorevole dell’impianto.
“Conosciamo i difetti dei nostri modelli precedenti, li abbiamo già eliminati e adesso vi
chiediamo di accettare in regalo la nostra nuova tromba ‘Selmer”.
Ringraziai ma ovviamente rifiutai il costoso regalo. Rulli mi chiese di suonarla.
Nonostante gli evidenti vantaggi rispetto al vecchio modello, scoprii però che
l’intonazione lasciava molto a desiderare e naturalmente espressi la mia opinione al
signor Rulli con molta correttezza, ma questo lo ferì: prese lo strumento e disse che ci
saremmo incontrati nella città di Detroit durante il percorso della nostra tournée.
Nell’hotel di Detroit dove alloggiavamo, Antonin Rulli affittò due grandi stanze e vi
allestì un’esposizione di strumenti che non avevo mai visto prima. Nella mostra erano
presenti tutti gli strumenti della famiglia dei legni, compresi i sassofoni (fiore
all’occhiello dell’azienda), la famiglia degli ottoni, percussioni e molti accessori: ance,
bocchini, sordine, molle, custodie, oli lubrificanti... sembrava una mostra all’Expo tanto
che ci impressionò.
Rulli mi suggerì di scegliere la tromba migliore tra un gran numero di esemplari. Optai
per il modello N. 19, la “Madified” e, dopo una breve resistenza, accettai comunque con
gratitudine il regalo dell’azienda: una custodia tipo valigia. Mi servì anche come borsa
da viaggio tanto che scherzosamente la chiamai il mio “ufficio”. Con questo
meraviglioso strumento effettuai numerose registrazioni e concerti in molti Paesi.
La nostra amicizia con Tony dura da più di venticinque anni. Ricevo periodicamente
delle lettere da lui, fotografie e cartoline di Capodanno.

135
Con Antonin Rulli, il rappresentante della ditta “Selmer”. A Detroit.

Louis Davidson e Renold Schilke


Anche l’incontro con Louis Davidson fu per me significativo e fatidico. Fu il
trombettista della Cleveland Orchestra e professore alla Bloomington University.
Ciò accadde nel 1965, durante una tournée dell’Orchestra Filarmonica di Mosca negli
Stati Uniti, guidata da Kirill Petrovich Kondrashin. Durante il tour nelle città d’America,
l’orchestra andò alla Bloomington University per un concerto. Questo concerto fu
diretto da David Fedorovich Oistrakh. Durante le prove, sottolineò che il dipartimento
di musica della Bloomington University era uno dei principali negli Stati Uniti, con
professori di fama mondiale che lavoravano lì. Nominò il violinista Zef Gingold, il
cornista Philip Farkas ed il trombettista Louis Davidson.
Il programma del nostro concerto comprendeva in particolare la Settima Sinfonia di
Prokofiev in cui sono presenti distinte frasi soliste nella parte della tromba, che eseguii
io. Dopo il concerto venni fermato da un uomo snello, dai capelli grigi, sulla
cinquantina: era Louis Davidson. Nonostante l’ora tarda, mi invitò a casa sua. Non c’era
altro momento per riprogrammare quell’incontro: al mattino l’orchestra doveva ripartire
per la tournée. Mi resi conto che per comunicare con una persona simile bisognava
sacrificare una notte di sonno.
Insieme al mio amico Isaac Abramovich Sesinsky, un violinista dell’orchestra con il
quale abbiamo prestato servizio insieme nell’esercito durante gli anni della guerra (a
proposito, era anche un grafico e fumettista di talento), entrammo nella casa dove Louis
viveva con sua moglie Melba. Le città universitarie sono come “L’America ad un sol
piano” descritte da Il'f e Petrov. Oltre agli edifici scolastici, ci sono solidi cottage. La
sua casa era in stile ranch americano.

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Come al solito, un incontro tra trombettisti si basò sulla conoscenza professionale. Lui
suonò, io pure. Parlammo di strumenti, spartiti, repertorio. Mi chiese se conoscessi gli
strumenti “Schilke”, risposi di no. A questa mia risposta Louis fu sinceramente sorpreso
e chiamò immediatamente proprio Renold Schilke a Chicago. Era già mezzanotte, ero
imbarazzato, mi sentivo a disagio per il fatto che stavo disturbando qualcuno a quell’ora.
Ma le mie preoccupazioni ed il mio imbarazzo furono vani. Assistetti alla vita notturna
dei musicisti americani. Anche se immersi nell’oscurità dietro la cortina di case sparse
sulle colline, il nostro incontro durò fino all’alba.
La conversazione telefonica con Renold Schilke fu breve: “Renold, ho conosciuto un
trombettista di Mosca, Timofei Dokshizer (sottolineando la prima sillaba del cognome).
Non conosce i tuoi strumenti.” “Va bene, Louis. Gliene manderò una.”
Questo venne detto con molta semplicità, come se Schilke stesse per mandarmi una
lettera. Più tardi, diversi anni dopo, quando incontrai Schilke di persona e vidi la sua
grandezza ed il suo fascino, mi ricordai di quella conversazione telefonica e non fui più
sorpreso della decisione così immediata che aveva preso, di inviare costosi strumenti ad
un perfetto sconosciuto.
Questo fu l’inizio della mia conoscenza con due figure di spicco delle arti musicali degli
Stati Uniti d’America. Louis voleva mostrarmi degli spartiti, ma non li aveva a casa e lì
assistetti ad un altro miracolo notturno: mi invitò ad andare con lui nella sua classe
all’università. Rimasi estremamente stupito: all’università di notte? ... Sì, ci siamo
andati. Non solo, durante il tragitto andammo a trovare il suo amico arpista. Lui, di
nazionalità italiana, ci venne incontro vestito da barista. Era in piedi dietro il bancone
del bar di casa sua e ci offrì un cocktail di sua creazione. Poi ci dimostrò come suonava
una scala cromatica sul suo strumento.
Avvicinandoci all’edificio universitario, vidi che c’erano luci accese su tutti i piani.
Louis aprì la porta d’ingresso con la chiave. Prendemmo l’ascensore. Nel corridoio
incontrammo un giovane che, come se nulla fosse, ci salutò.
La classe del professor Davidson sembrava uno studio-biblioteca con apparecchiature
hi-fi, scaffali, custodie per bocchini, molle, bottigliette d’olio per pistoni e, soprattutto,
una collezione di trombe di diverse tonalità. Ancora una volta suonammo della musica,
conobbi nuovi lavori, sfogliai spartiti...
Quella straordinaria notte segnò l’inizio della nostra lunga amicizia che, fortunatamente,
dura ancora oggi. Ci scriviamo regolarmente e ci siamo visti molte volte. Quando visitai
Bloomington, fui ospite a casa sua. Davidson venne anche a Montreal durante la mia
tournée in Canada. La nostra conoscenza è anche segnata da un suo gesto per me molto
importante. Louis Davidson si rivolse alla leadership sovietica con una lettera in cui
scriveva che l’opportunità di ascoltare la musica di Dokshizer non può essere un
privilegio solo per i residenti del suo Paese, ma dovrebbe estendersi a tutti i Paesi.
Successivamente, lui stesso iniziò a promuovermi. Denominai Louis il mio “Colombo”,
l’uomo che mi fece conoscere il mondo.
Insieme ai musicisti di Chicago, in particolare con il famoso cornista e uomo molto
ricco, James Stigliano, Louis pubblicò il mio disco contenente brani strumentali popolari
e li distribuì in tutto il mondo. Lo verificai andando in Paesi come il Giappone o
l’Australia, dove mi portarono questo disco per farci un autografo. Grazie a ciò, la mia
fama aumentò, i dischi iniziarono ad essere pubblicati da aziende di molti Paesi. Solo la
compagnia giapponese “Victor” pubblicò undici dischi ed i primi CD.

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Una delle riviste pubblicò alcune recensioni di musicisti famosi in merito al mio primo
disco. In particolare, il violinista di fama mondiale Jascha Heifetz disse che suono Hora-
Staccato troppo velocemente...
Louis Davidson è l’autore di due lavori metodologici attuali sulla tromba e di
arrangiamenti e trascrizioni di musica classica per ensemble di trombe. Ancora oggi,
Louis mantiene a casa sua una routine giornaliera di studio sullo strumento. Scrive in
piedi, come un oratore sul podio: quella è la sua “scrivania”.
Incontrai Louis molte volte negli Stati Uniti ed anche una volta a Ginevra, nella giuria
del Concorso Internazionale di Tromba del 1987. Lo raccomandai a Frank Fish, una
figura musicale di spicco, direttore di concorsi internazionali svizzeri, organizzatore di
tournée di musicisti sovietici in Svizzera (me compreso) e membro della giuria del
Concorso “Čajkovskij” per violinisti.
Davidson sembrava, come sempre, giovane e in forma. Solo che era un po’ pigro nel
camminare, a differenza mia, in quanto è una mia passione. Lo tenevo sempre in
movimento facendolo camminare con me. In America le persone non hanno tempo per
camminare: viaggiano maggiormente in macchina.
Una volta Louis ed io eravamo nel sobborgo di New York, nel New Jersey, in visita da
suo fratello Milton Davidson. Lì si riunivano di solito trombettisti con le loro mogli. Ero
con Leon Sachs, originario del Canada, mio amico, primo violino del Teatro Bolshoi,
che poi morì tragicamente sulle montagne della Grecia.
Tra gli ospiti c’era uno “specialista” nello sviluppo dei suoni sovracuti sulla tromba.
Cominciò ad impormi il suo metodo, allora gli chiesi di suonare e di mostrarmi come
raggiungeva la quarta ottava. Quando vidi come torceva le labbra e come suonava
(anche se qui la parola “suonare” è inappropriata), capii quanto valeva il suo metodo.
Mi invitò con insistenza ad andare nel suo studio e mi dette anche un suo biglietto da
visita, che non usai mai. Dopo un po’ mi mostrarono un annuncio pubblicitario sul
giornale dove c’era scritto che Maurice André e Timofei Dokshizer erano interessati al
suo metodo. Nel 1988, al Congresso dei Paesi Scandinavi ad Helsinki, apparve in una
nuova veste, come produttore di un nuovo modello di tromba... credo che il suo cognome
era Calle.
Quel giorno, da Milton, mangiammo un pasto delizioso bevendo qualcosa ed io suggerii
a Louis di camminare un po’. Camminando lungo le strade pianeggianti del New Jersey,
attirammo i sospetti di un agente della polizia. L’agente fermò la macchina e ci chiese
chi eravamo e perché stavamo camminando. Louis gli spiegò scherzosamente che stava
facendo una passeggiata con un uomo con dipendenza da passeggio venuto dalla Russia.
Durante i giorni del concorso di Ginevra, venni a conoscenza del fatto che mio figlio
Sergey era gravemente malato, che aveva girato l’Europa come membro dell’Orchestra
Filarmonica di Mosca ed ora era stato ricoverato in un ospedale di una piccola città.
Allora il mio amico svizzero, Marcel Hollenstein, mi aiutò a trasportare Sergey a casa
sua, nella città di Will. Insieme anche a Louis Davidson ci aiutarono a raggiungere
l’aeroporto di Zurigo, da dove io e mio figlio tornammo a casa. Louis fu attivamente
coinvolto nell’organizzazione del mio intervento in Olanda. La nostra corrispondenza
non si è mai fermata, i nostri contatti arricchiscono sempre entrambi ed io spero ancora
di rivedere Louis anche se è dieci anni più grande di me.
Renold Schilke mi inviò due trombe, una in Sib e una in Do. Allora gli consigliai di
mandarmele tramite l’amministratore del Teatro Bolshoi, che in quel periodo era in

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tournée negli Stati Uniti. Scrissi a Schilke di contattare Mikhail Lakhman, il nostro
amministratore, e di dargli i miei strumenti. Schilke lo fece, ma Lakhman non ricevette
nessuna tromba. A quanto pare qualcuno che finse di essere Lakhman le rubò, così gli
strumenti scomparvero misteriosamente. Solo dopo un secondo tentativo, quando
l’orchestra si recò a Montreal per l’Expo del 1968, ricevetti finalmente i miei strumenti.
Si rivelarono magnifici: non ho mai avuto strumenti con un’accordatura così perfetta.
La tromba in Sib era un po’ troppo larga per me, perciò suonai maggiormente la Do. Mi
fu utile nelle interpretazioni di Sogno di una notte di mezza estate di Britten e La Dama
di Picche di Čajkovskij.
Durante uno dei miei concerti negli Stati Uniti (negli anni ’70 viaggiavo da solo)
trascorsi la notte a Montreal. Nei documenti di viaggio era tutto scritto in maniera
dettagliata: dove si trovava il trasferimento, qual era il motel, l’orario e il numero di ogni
volo (e ce n’erano più di venti!) ... Erano scritti anche i pasti da fare sull’aereo o se
semplicemente dovevo prendere un caffè durante il volo. Era indicato tutto.
Quando arrivai a Montreal, non lessi che dovevo uscire dall’aeroporto attraverso una
specifica uscita, dove mi avrebbe aspettato un minibus con il nome del motel. Mi stavo
già preparando al fatto che, come al solito, qualcuno dovesse alzare il braccio per
richiamarmi. Rimasi lì a lungo e alla fine, come un passeggero in transito, mi rivolsi ad
un dipendente dell’aeroporto con la richiesta di aiutarmi a cercare il motel. Guardò i
miei documenti di viaggio, chiamò da qualche parte e mi indicò l’uscita giusta, dove si
trovava l’autobus.
Ancor prima di entrare nella lussuosa stanza del motel, sentii il telefono squillare. Pensai
che non era per me, bloccato com’ero lì da qualche parte tra cielo e terra. Pochi minuti
dopo di nuovo la telefonata. Sollevai meccanicamente la cornetta del telefono e
all’improvviso sentii l’esclamazione: “Tima!”. Rimasi freddo dalla sorpresa: era Louis
che mi stava cercando...
Qui sarebbe opportuno ricordare un altro avvenimento simile e divagare un po’
dall’argomento della storia. Ero in volo per la Svezia, nella città di Helsingfors, situata
a sud, non lontano dalle coste settentrionali della Danimarca, separate da uno stretto.
Arrivai a Copenaghen. Una situazione simile: non vedevo nessuno che mi salutava.
Chiamai al numero di telefono (per fortuna era scritto sul modulo del contratto) e detti
il mio cognome. Una voce femminile rispose confusa che, secondo il telegramma inviato
da Mosca dall’Organizzazione dei Concerti di Stato, l’incontro era previsto per il 15, e
quel giorno era il 13. Evidentemente avevano confuso le date... la mia interlocutrice mi
disse che il quartier generale dell’orchestra era partito per Stoccolma, poi mi chiese se
avessi dei soldi. Risposi di sì. Allora disse: “Prenda un taxi per il porto, io la aspetterò
dall’altra parte dello stretto. Ci vediamo al traghetto”.
A questo punto pensai: “Quanto è importante che un sovietico all’estero, nonostante tutti
i severi divieti, abbia con sé dei soldi per potersi salvaguardare”. Ho sempre violato
questo divieto per non perdere la dignità umana in situazioni impreviste. Grazie a questo
riuscii a pagare 80 dollari per il taxi ed avevo ancora abbastanza soldi sia per il traghetto
che per una tazza di caffè.
Tornando in America, la mattina dopo avevo un volo per Chicago con un altro
trasferimento. Per evitare che mi perdessi di nuovo, Louis chiese a Schilke, che viveva
a Chicago, di incontrarmi. L’aeroporto di Chicago è davvero difficile da percorrere: ci
sono più di settanta gate di accesso agli aerei, le distanze tra questi sono talmente grandi

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che i dipendenti girano per l’aeroporto su scooter e biciclette. Schilke si presentò con un
giovane serbo per fare da traduttore (era un impiegato della sua azienda). Quando
provammo a spiegarci con il suo aiuto, praticamente il ragazzo non capiva una parola
del russo, così come io, naturalmente, non capivo il serbo. Tuttavia, in qualche modo
riuscimmo a capirci. Schilke mi aiutò e ci lasciammo per rincontrarci di nuovo due
settimane dopo.
Anche Schilke è un ex trombettista. Lavorò con la Chicago Philharmonic. Fin da
giovane si interessò alla progettazione di trombe e lavorò per qualche tempo come
maestro artigiano presso un’azienda produttrice di strumenti musicali. È interessante
notare che i creatori dei moderni modelli di trombe erano trombettisti: Bach, Schilke,
Benge. Dopo aver completato la sua carriera da artista, Schilke iniziò a costruire trombe.
Il primo modello non era funzionante: Louis Davidson acquistò questo esemplare di
prova da Schilke. A poco a poco le capacità di Schilke migliorarono, la produzione
crebbe e i suoi figli, un maschio e una femmina, lo aiutarono. Gli strumenti Schilke
iniziarono a guadagnare fama e competitività a livello internazionale. Stabilì in
Giappone la produzione dei modelli delle sue trombe, presso l’azienda “Yamaha”,
gettando le basi per l’avvio di questa azienda sul mercato mondiale.
Schilke svolse un ruolo pubblico importante nel sostenere e finanziare l’International
Trumpet Guild, di cui era membro onorario a vita del Consiglio di Amministrazione. È
l’organizzatore della pubblicazione dell’originale “Scuola di Arban”. Consegnai una
copia di questa pubblicazione - inviatami da lui - al dipartimento di musica della
Biblioteca “Lenin”. Renold Schilke morì nel 1982, ma la sua compagnia è ancora attiva
ed è gestita dai suoi due figli: suo figlio Renold Jr. e sua figlia Joan.

Emil Davidson, Louis Davidson e Timofei Dokshizer.


Stati Uniti, Los Angeles (1993)

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Ritratto di Louis Davidson

141
Con Louis Davidson

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Con Renold Schilke (al centro) e Vincent Cichowicz, presso la ditta
“Schilke”. 525 S. Wabash, Chicago

Ad un concerto a Los Angeles (1993)

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Con il trombettista cubano Arturo Sandoval
Stati Uniti, Bloomington (1995)

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Capitolo 28
Incontri ed impressioni in Francia
Maurice André
Conobbi Maurice André a Parigi, presso la compagnia “Selmer”. Era il 1970, durante
una tournée del Teatro Bolshoi in Francia. La compagnia fu fondata da due fratelli: una
sede a Parigi nel 1885, l’altra, pare, più tardi, nella città di Elkhart in Indiana, il centro
dell’industria musicale statunitense. Queste due aziende, situate in Paesi diversi,
producevano strumenti degli stessi modelli e, a quanto abbia capito, fu così fino agli
anni ’60.
Con il susseguirsi delle due generazioni di titolari ereditari della ditta “Selmer”, i
modelli di strumenti prodotti iniziarono a differire. Maurice André consultò nuovi
modelli di trombe presso la ditta di Parigi. Jacques Selmer, uno dei tre fratelli all’epoca
titolari dell’azienda, venne a conoscenza del mio desiderio di incontrare il mio illustre
collega francese, così organizzò il nostro incontro in azienda.
Al nostro primo incontro, io e Maurice ci abbracciammo a lungo come vecchi amici.
André è un uomo tarchiato, di statura media, dieci o dodici anni più giovane di me, ex
minatore. In qualche modo mi ricordava Naum Polonsky, un famoso trombettista, mio
collega al Teatro Bolshoi. Il nostro primo incontro con Maurice André, che ebbe il
carattere di una prima conoscenza professionale, avvenne senza interprete, nel semplice
linguaggio della musica. Lui suonava, io ripetevo: lui al trombino, io alla tromba in Sib.
Non conosceva i temi dei nostri concerti sovietici ma per quanto riguardava me, la
musica occidentale, inclusa quella francese, era nelle mie corde. Ci soffermammo un
po’ sul contrappunto del Notturno del Concerto di Tomasi, forse una delle migliori
pagine a livello mondiale della letteratura per tromba. Suonai questa frase e Maurice
prese la tromba in Do e la ripeté. Chiunque conosca la musica del Concerto di Tomasi
concorderà che da questa frase si può determinare “chi è chi”.
L’incontro terminò. Ci abbracciammo di nuovo! ... Selmer portò il trombino, lo dette a
Maurice e lui lo dette a me come regalo da parte della compagnia e da parte sua (suonai
questo meraviglioso e caro strumento per molti anni a Teatro nelle esecuzioni di Sogno
di una notte di mezza estate ed effettuai diverse registrazioni su dischi. Dopo aver
lasciato il Teatro Bolshoi, regalai lo strumento come reliquia al mio studente Vyacheslav
Prokopov, un rappresentante della nuova generazione di trombettisti, così il trombino
“Maurice André” continua ad essere ascoltato al Teatro Bolshoi). In risposta, regalai a
Maurice André una copia unica della partitura del Concerto di Arutiunian, che un anno
dopo eseguì in America.
Maurice André mi invitò al Conservatorio a visitare la sua classe. Con me vennero i
miei colleghi Ivan Pavlov, Alexander Balakhonov ed Ilya Granitsky. André ci venne
incontro, circondato da giornalisti che premevano gli otturatori delle loro macchinette
fotografiche. Erano presenti anche rappresentanti di case discografiche, case editrici
musicali ed alcuni esponenti della Stampa.
Al Conservatorio di Parigi, le classi portano i nomi di musicisti famosi: Fauré, Bizet,
Gounod... la classe di André era piccola ma aveva un palco con un pianoforte. Tra gli
studenti presenti c’erano quelli che stavano ancora studiando e quelli che si erano già
laureati. Ricordo di aver visto lì i giovani Guy Touvron e Bernard Soustrot, ormai artisti

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e professori di fama mondiale. Il nostro incontro iniziò con gli interventi degli studenti.
Suonarono studi, brani da concerto ed ensemble. In conclusione, Maurice André e i suoi
studenti eseguirono un trio da una cantata di Bach che avrebbero dovuto eseguire il
giorno dopo in concerto.
Ero presente a questo concerto. Si svolse in una sala enorme che somigliava ad una
palestra. Il pubblico era numerosissimo ed anche il palco era gremito: coro, orchestra e
solisti. André apparve sul palco dopo tutti gli altri e da solo. Il pubblico gemette, come
se un torero stesse entrando in una corrida. Tutti applaudirono il loro idolo. Dopo il
concerto si udì lo stesso rumore entusiasta e il direttore invitò solo Maurice André ad
alzarsi.
Successivamente André ottenne una popolarità ancor più grande. Abbandonò così
l’attività di insegnante e si dedicò interamente all’attività concertistica. Dopo quel primo
incontro invitai Maurice ad uno spettacolo di balletto al Teatro Bolshoi. Per qualche
motivo arrivò molto provato. Non riuscivo a capire il motivo della sua preoccupazione.
Il traduttore mi chiese se avessi letto la Stampa del giorno prima: in pratica André era
indignato a causa di una pubblicazione su un giornale parigino in cui c’era scritto che il
trombettista moscovita Timofei Dokshizer era venuto nella classe di Maurice André per
studiare. Cercai di calmarlo, assicurandogli che non avevo letto il giornale e che questo
non mi umiliava affatto, tanto meno mi offendeva, poiché non era poi così male imparare
da qualcun altro, soprattutto da Maurice André. Ma nonostante questo non riusciva a
calmarsi. Disse: “No, sono degli stupidi, non li faccio più entrare in classe...”
Poi Balakhonov ed io visitammo André nella sua casa vicino Parigi. Una parte della sua
casa fu costruita con le sue stesse mani. Jacques Selmer, anche se non conosceva la
strada, ci guidò ad una velocità pazzesca con la sua Volvo. Lungo la strada chiese più
volte alla gente dove fosse la casa di André e questi, sentendo il suo nome, indicavano
subito la direzione. In Francia tutti conoscono il nome André.
La casa sorgeva su una collinetta, circondata da un bellissimo giardino. La vegetazione
che la decorava era ancora troppo giovane e, secondo Balakhonov, esperto giardiniere,
era di una tipologia sbagliata. Offrì quindi ad André la sua varietà di caprifoglio perenne,
una pianta rampicante con fiori profumati e successivamente gli inviò le radici da
Mosca.
Il contributo di Maurice André alla divulgazione dell’esecuzione solista alla tromba è
enorme. Ha immortalato la sua arte unica su centinaia di dischi. È considerato “Il
Creatore” della letteratura di massa per trombettisti che parte dalle opere di vecchi
compositori, tutte inserite nella “Collezione Maurice André”. Jean Thilde, arrangiatore
e compositore, contribuì alla realizzazione di questa idea.
I nostri trombettisti utilizzano parte di questa collezione, che ho arrangiato per la tromba
in Sib. Anatoly Dmitrievich Selyanin, uno dei musicisti più eruditi, un artista e
insegnante di talento e professore al Conservatorio di Saratov, mi fu di grande aiuto per
la realizzazione di questo lavoro. La casa editrice “Muzyka” pubblicò concerti e sonate
antiche, arricchendo così la nostra scarsa conoscenza della musica classica e dello stile
barocco.
Maurice André suonava principalmente il trombino, lui è il Re di questo strumento. Il
suo trombino ha un suono grande e luminoso e lo maneggia magistralmente. Attraverso
la musica classica, creò il suo stile di esecuzione che diventò lo stile “André”, uno
standard mondiale. Ciò è particolarmente utile per l’interpretazione di melismi, che però

146
non sempre accetto. Per esempio, quando suona abbellimenti eccessivamente lunghi,
trasforma le note in ottavi o addirittura quarti.
Nel 1979, a Parigi venne indetto il Concorso Internazionale “Maurice André”. Venni
invitato a far parte della giuria ma questo evento coincise con la mia tournée in
Giappone. Pertanto, il nostro primo incontro a Parigi fu, in sostanza, l’unico, senza
contare la mia presenza al suo concerto a Stoccarda nel 1988, dove tenni anche un corso
di perfezionamento. Subito dopo il concerto sentii una voce familiare che pronunciò il
mio nome: “Tii-mo-fei”.
Ricordo Maurice con molto affetto: anche lui contribuì a pagare il mio intervento al
cuore, eseguito presso la Clinica Universitaria di Rotterdam in Olanda, il 18 aprile 1989.
A tutti i miei colleghi americani, olandesi, svizzeri, francesi che contribuirono a darmi
un cuore nuovo, li ringraziai con una registrazione di un nuovo disco che dedicai alla
loro beneficienza. Mentre ero ancora in ospedale, in uno stato di euforia, scrissi una
lettera ad André proponendogli di suonare un duetto con lui e di fare insieme una
registrazione. Ma a quanto pare, la mia lettera non gli è mai arrivata...

Con Maurice André al Conservatorio di Parigi

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Altri trombettisti della scuola francese
Ho instaurato ottimi legami con i trombettisti francesi. Penso che ci sia qualcosa di
genetico-professionale in questo, che va da Arban e Sabarich ai trombettisti russi Wurm
e Tabakov. Dopotutto, la tecnica trombettistica arrivò in Russia dalla Francia e
successivamente dalla Germania e dalla Repubblica Ceca.
Nel novembre 1990 incontrai in Germania, nella giuria di un concorso tenutosi a Bad
Säckingen, Pierre Thibaud (la nostra prima conoscenza avvenne negli anni ’70).
Thibaud è un professore d’orchestra, un trombettista dal suono brillante e
dall’estensione colossale. Nella sua pratica concertistica come solista, fu il primo
esecutore di molte composizioni moderne e sembrò selezionare appositamente per sé le
più difficili. Come insegnante e professore al Conservatorio di Parigi, formò numerosi
trombettisti che venivano da lui da tutto il mondo. È anche autore di numerosi lavori
metodologici. Thibaud è una persona socievole e generosa (nello stile russo). Visitò
Mosca diverse volte. Durante la mia ultima visita in Francia, ascoltai la sua meravigliosa
interpretazione della musica di O. Messiaen, e questa volta scelse la più difficile di tutte
le parti mai scritte per tromba.
Fui felice di apprendere che il mio lavoro Sistema di esercizi complessi per il
trombettista, pubblicato dalla casa editrice francese “Leduc”, fu curato da Pierre
Thibaud, la cui sua competenza è fuori dubbio. Inoltre, entrambi ci accorgemmo di una
inesattezza nella tabella “Pratica secondo i giorni della settimana”, inserita nella parte
metodologica del libro che, per colpa mia, non venne corretta nella versione francese.
Tra i trombettisti più giovani vorrei citare Thierry Caens, l’organizzatore del corso di
perfezionamento a Digione con la mia partecipazione; Pierre Dutot, un’artista di
prim’ordine, insegnante ed organizzatore dei seminari a Lione e del Festival del 1990 in
tutta la Francia; i professori Roger Delmotte e Antoine Kuret; Alain Parisot, un mio
ammiratore, che intitolò la sua classe di tromba nella scuola della città di Saint-Claude
con il mio nome, oltre alla sua casa, che la intitolò “Villa Dokshizer” ed ancora, insieme
ai suoi colleghi, creò in Francia l’ “Associazione Dokshizer”... Potrei citare ancora molti
altri trombettisti francesi con i quali ho stabilito rapporti professionali e amichevoli.

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Con trombettisti ed insegnanti nel Sud della Francia.
Dietro: Daniel Rebichon, Christian Breillet, Christian Brunel, Henri Paul
Baujar, Pierre Dutot, Timofei Dokshizer e Alain Parisot.
Davanti: Romain Chabberat, Mike Metifiot, Daniel Camus.

Jean Leduc - Editore francese del mio libro

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Saluto dei trombettisti alla stazione ferroviaria di Digione (Francia).
Il primo da sinistra è Thierry Caens (1995)

Con Pierre Thibaud (Francia) e Allen Vizzuti (USA).


Germania (1993)

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Capitolo 29
Incontri ed impressioni in Giappone
Alla ditta “Yamaha”
A Tokyo, in uno dei quartieri centrali della città chiamato Ginza, c’è il centro
commerciale della “Yamaha”. Ogni volta che venivo a Tokyo, passavo da Ginza. Nel
reparto degli ottoni, le ragazze accoglievano i visitatori con un bicchiere di tè freddo
aromatizzato. Il negozio dispone di diversi studi per testare strumenti e per esercitarsi.
Gli studi contengono batterie, sintetizzatori e organi elettrici di varie capacità, per i quali
l’azienda è particolarmente famosa. C’è uno studio di amplificatori destinati ai piccoli
gruppi jazz ed un altro con un set di strumenti elettrici. Il negozio organizza anche
consulenze per studenti e per chiunque fosse interessato. Fui sorpreso di scoprire che
nell’atrio del negozio c’era appeso un mio ritratto, grande quanto metà parete.
Quest’azienda produttrice di strumenti musicali si sviluppò sulla base di una grande
impresa che produceva elettrodomestici, macchine automatiche, biciclette e
motociclette. Oggi il marchio “Yamaha” adorna anche apparecchiature radioelettriche
costose e di alta qualità: è presente sui famosi pianoforti a coda (in particolare quello
suonato da Svyatoslav Richter) e su molti altri strumenti musicali, inclusi gli ottoni.
Inizialmente, la produzione delle trombe “Yamaha”, come già accennato, fu fondata da
Schilke. Grazie a lui, poi si formò un gruppo di artigiani giapponesi che ora sono a capo
della produzione. Tra loro c’era il Signor Kazi, il capo ingegnere. Inizialmente venivano
prodotte trombe per professionisti ed alcuni modelli per studenti, disegnati dallo stesso
Schilke. Ma presto i giovani e talentuosi designer giapponesi crearono i loro nuovi
modelli, riempiendo il mercato internazionale con prodotti competitivi che facevano
fuori altre aziende famose superandole sia in quantità che in qualità.
Oggi sono sempre più gli ammiratori degli strumenti “Yamaha”. Vengono promossi da
musicisti di fama mondiale, ad esempio il famoso quintetto di ottoni canadese, i
“Canadian Brass”, suona strumenti “Yamaha”.
Nel 1973, durante la tournée in Giappone del Teatro Bolshoi, venni invitato a visitare lo
stabilimento della “Yamaha”. Questo luogo si trovava in un lontano sobborgo, a due ore
di macchina da Tokyo. Dipendenti, ingegneri ed operai si riunirono in una spaziosa sala
conferenze. Io ero insieme ad Ilya Granitsky. I proprietari furono interessati alla nostra
opinione sulle trombe e, rispondendo alle loro domande, dimostrammo le qualità dei
diversi modelli. La maggior parte dei dipendenti dell’azienda suonava gli strumenti della
loro stessa produzione perché non erano interessati solo all’aspetto teorico, ma anche
alla parte pratica.
Nella conferenza tenni conto della curiosità degli specialisti che assorbirono con
attenzione tutto ciò che poteva essere messo in pratica nel loro lavoro e condivisi con
loro il mio criterio di verifica di qualsiasi idea con lo strumento tra le mani: se l’idea
espressa si riesce ad illustrare con un esempio musicale, allora è corretta. A seguito della
dimostrazione sullo strumento, l’idea diventa estremamente chiara e completamente
comprensibile. Se un’idea, un pensiero metodologico, non può essere confermato da un
esempio pratico, allora è errato.

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La nostra conversazione durò fino alla pausa pranzo. Lasciammo l’azienda quando gli
operai in tuta blu si riversarono dalle officine alla strada: centinaia e centinaia di persone
sparse in strada come uccelli blu.
Il reparto di produzione di strumenti a fiato “Yamaha” è ormai diventato un colosso
mondiale. Vi lavorano un migliaio di artigiani. Producono circa duecento trombe e
trecento flauti al giorno. Questa informazione mi giunse dall’attuale direttore della
produzione, il signor Kazi, una mia vecchia conoscenza, con il quale ci incontrammo ad
Helsinki, al Simposio Scandinavo degli Ottoni. Chiesi al signor Kazi dove mettevano
così tanti strumenti perché la “Yamaha” è una delle aziende più giovani al mondo. Lui
rispose in tedesco: “Alles verkauft” (“Tutto è in vendita”).
Dopo questa conversazione non potei fare a meno di chiedermi: quanti musicisti di
strumenti ad ottone ci sono nel mondo? ...

Presso l’azienda giapponese “Yamaha” (1979)

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In tournée in Giappone
La mia prima tournée da solista ebbe luogo in Giappone, nel 1978. Prima di allora ero
stato più volte in questo “paese delle meraviglie” con diversi gruppi. Il mio nome come
solista da concerto non era poi così noto al grande pubblico, anche se, a quel tempo, la
società “Victor” aveva già pubblicato molti dei miei dischi.
L’impresario della compagnia “Muzyka”, il signor Takazawa, che mi invitò, intraprese
un’insolita campagna pubblicitaria. Il programma radiofonico centrale del Giappone
annunciò, tra le notizie mattutine, il primo concerto a Tokyo del trombettista di Mosca,
e nei tre minuti a mia disposizione suonai due brani virtuosistici: Hora Staccato di
Dinicu e Il volo del Calabrone di Rimskij-Korsakov.
Il calcolo fatto era accurato. Questa pubblicità assicurò la partecipazione ed il successo
dell’intera tournée giapponese. Suonai programmi per tromba e orchestra e per tromba
e pianoforte, accompagnato dal mio pianista Sergey Solodovnik. Oltre ai concerti,
partecipai a vari incontri con i rappresentanti di società musicali di quasi tutte le città
che curarono l’organizzazione e lo svolgimento dei concerti.
A Tokyo, il “Ginza Music Trade Center” organizzò il mio workshop con i musicisti
della città. Fu memorabile in quanto incontrai molti musicisti di spicco. Ebbi una
conversazione professionale molto interessante con colleghi che avevano la tipica
caratteristica della curiosità giapponese. Questa conversazione continuò nel ristorante
russo “Balalaika”, dove i camerieri giapponesi, vestiti con abiti in stile russo antico, ci
servirono frittelle con caviale ed altre prelibatezze.
L’interno delle case giapponesi è curioso. Ero già stato nell’appartamento della famosa
famiglia di musicisti Shinagawa. Lui è un professore di canto, lei una pianista. Le case
giapponesi sembrano anguste, ma solo giudicandole dall’esterno. All’interno sono così
spaziose che riescono ad ospitare uno studio con pianoforti di lusso, varie attrezzature e
persino una stanza che ricorda una piccola sala da concerto. A proposito, gli Shinagawa
organizzarono un ricevimento a casa loro, nel quale Sergey Solodovnik ed io tenemmo
un concerto per il pubblico aristocratico invitato.
Nell’isola di Hokkaido venni ospitato in un’altra casa. Il proprietario era trombettista,
sua moglie pianista. Avevano una sala da concerto in miniatura con un anfiteatro ed un
balcone. L’anfiteatro consisteva in una scalinata che conduceva ad un secondo piano
aperto senza pareti né porte. Tra i concerti sull’isola di Hokkaido, ne ricorderò uno in
particolare per il resto della mia vita. Il concerto venne organizzato dalla società
musicale cittadina, la cui direzione mi contattò con la richiesta di consentire ai bambini
malati ricoverati in un collegio locale di assistere al concerto. Naturalmente accettai,
non potevano esserci obiezioni!
Davanti alla prima fila della platea, posizionati su delle stuoie, sedevano bambini dagli
otto ai quindici anni e accanto a ciascuno di loro era seduta una donna che li sorreggeva.
I bambini erano disabili, avevano difficoltà a mantenere l’equilibrio, e i movimenti delle
braccia e della testa erano innaturali. Tuttavia furono deliziati dalla musica! Non
potevano esprimere le loro reazioni con gli applausi, ma in qualche modo agitavano
goffamente una mano, perdendo di conseguenza l’equilibrio e talvolta cadevano su un
fianco.
Durante l’intero concerto, la mia attenzione si concentrò su questi ragazzi. Mentre
suonavo pensavo a loro: condannati, ovviamente... ma i loro volti felici e i loro occhi
entusiasti non mi trasmisero uno stato d’animo cupo. Dopo aver terminato il programma
153
continuai a suonare. A loro piaceva la Danza Napoletana di Čajkovskij e volevano
ascoltare anche la canzone più popolare del Giappone: Sakura e la Serenata di
Schubert... Ero pronto a suonare all’infinito, solo per prolungare i minuti della loro
infantile felicità.
In Giappone è consuetudine ricevere autografi su cartoline appositamente stampate. Di
solito viene fatto nel backstage, dopo il concerto. Ma qui la richiesta mi giunse proprio
dai bambini malati che volevano che gli facessi un autografo. Per fare questo mi son
dovuto avvicinare a loro. Erano ancora tutti seduti ai loro posti. Tirarono fuori le loro
penne con le cartoline. Mi chinai verso ciascuno di loro e su di un bambino cercai di
appoggiarmi sul suo ginocchio o sulla sua spalla. Non si sentiva né il ginocchio né la
spalla: si avvertiva solo una struttura rigida e irregolare. Una delle tate mi suggerì di
posizionare la cartolina sulla schiena del bambino: lì si avvertiva una superficie piatta e
liscia. Mi attraversò un brivido. I ragazzi letteralmente si attaccarono a me allungando
la mano, tenendomi per il frac. Abbracciai e baciai tutti, trattenendo a stento il nodo che
avevo in gola...
Non ricordo il nome della terribile malattia. Era qualcosa di simile ad una
malformazione dovuta alle conseguenze delle radiazioni nucleari che ne causava la
distruzione dello scheletro umano. Ma rimasi anche sbalordito da quanta attenzione e
cura erano circondati quei bambini, che non solo venivano curati, ma anche portati ai
concerti per infondere loro speranza e non essere privati delle gioie umane universali.
La mia tournée si concluse con uno spettacolo in televisione. La sceneggiatura venne
organizzata con cura e scritta in un canovaccio speciale, che era nelle mani di tutti i
partecipanti: tecnici delle luci, addetti alle attrezzature, squadra di produzione... L’unica
prova durò meno di un’ora, ma tutti sapevano cosa dovevano fare e quando, e come
sarebbe stato tutto. Sempre in quest’ora a disposizione suonai anche con l’orchestra,
diretta da un giovane direttore giapponese a me sconosciuto, in cui eseguimmo cinque
piccole composizioni, orchestrate appositamente per questa trasmissione e trascritte
senza nessun errore.
La trasmissione includeva la proiezione di immagini della vita giapponese con una
dimostrazione di un’esibizione di kimono ed il mio incontro con le ragazze che
partecipavano ad un concorso nazionale di bellezza. Includeva anche un duetto con un
famoso artista che suonava uno strumento popolare: lo shamisen. Suonammo
all’unisono una melodia popolare giapponese a me familiare, tratta dall’opera Madama
Butterfly: CioCio-san. La presentatrice di questo programma fu la famosa attrice e
compositrice giapponese Akitagawa.
Questo programma venne registrato dai miei amici, la coppia Shinagawa, che poi me ne
inviarono una copia. Alla fine della tournée la gente per strada adesso mi riconosceva.

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In tournée in Giappone.
Al centro: B. Pokrovsky, G. Vishnevskaya, M. Rostropovich

155
A casa dei famosi musicisti giapponesi.
Minori (tenore) e Hiroko (pianista) Shinagawa (1979)

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Capitolo 30
Viaggio intorno al mondo
Nel 1979 l’Orchestra del Teatro Bolshoi si recò in Giappone per una serie di concerti
sinfonici. Questa volta mi venne offerto di suonare come solista. La ragione di ciò fu la
condizione posta dall’impresario Nishioko prima del concerto di Stato che “per garantire
il successo” disse che Dokshizer avrebbe dovuto partecipare ai concerti dell’orchestra
come solista. La mia tournée di successo in Giappone l’anno prima fu comunque
memorabile per gli ascoltatori locali.
La nostra orchestra, diretta da Yuri Simonov, dovette competere con l’Orchestra
Filarmonica di Berlino diretta da Herbert von Karajan, i cui concerti erano programmati
per lo stesso periodo da una compagnia giapponese concorrente.
I concerti ebbero un discreto successo. In sei di essi suonai la Rhapsody di Gershwin.
Successivamente dovetti andare negli Stati Uniti, dove la mia tournée era stata già
organizzata. Il volo di andata attraversò l’Oceano Pacifico, il ritorno attraversò
l’Atlantico, con uno scalo a Londra. E fu così che feci il giro del mondo.
Lasciai Tokyo il giorno di un violento tifone. Era pericoloso uscire. La pioggia ed il
forte vento potevano spazzare via persone e ribaltare gli ombrelli. Il trasporto via terra
si muoveva ad una velocità non superiore ai 20-30 km/h, mentre i ponti costruiti per
migliorare l’organizzazione del traffico, all’altezza dei tetti di edifici bassi, vennero
chiusi come era di consueto fare in caso di catastrofi naturali. Ci volle il doppio del
tempo solito per raggiungere l’aeroporto. Perdere un volo transatlantico significava
quindi un’attesa indefinita in aeroporto. Naturalmente si sarebbero presi cura di me
come passeggero in transito, ma quelli che mi avrebbero incontrato a New York
dovevano arrivare da Cleveland, dove avrei dovuto tenere il mio primo concerto.
Tuttavia la mia preoccupazione fu vana. A causa del tifone tutti i voli subirono ritardi,
ed il Boeing 747 arrivò a New York solo con un po’ di ritardo rispetto al loro.
Prima di arrivare a Cleveland, a New York fu organizzato un ricevimento in mio onore
presso la ditta “Giardinelli”, una nota azienda che vende strumenti musicali, di cui
conoscevo già il capo, il signor Robert Giardinelli. All’incontro c’erano persone a me
già familiari, in particolare il trombettista dell’Orchestra di Philadelphia, Frank
Kaderabek. Avemmo una conversazione davanti ad un tè, una prova degli strumenti e,
naturalmente, una mia esibizione. Quest’accoglienza non fu solo un segno di rispetto,
ma anche una pubblicità per gli acquirenti. In America viene generalmente attribuita una
grande importanza alla pubblicità perché il loro obiettivo, a differenza del nostro Paese,
non è produrre ma vendere.
Come sapete, l’educazione musicale negli Stati Uniti viene impartita nei dipartimenti
universitari di musica, presenti nella maggior parte degli Stati. I miei concerti tenuti in
nove università (avrebbero potuto essere quindici se avessi potuto fare a modo mio),
vennero organizzati dalla ditta “King”, che aveva recentemente acquisito il marchio
“Benge”. Suonai lo strumento “Benge” regalatomi dall’azienda. I concerti vennero
utilizzati per pubblicizzare queste trombe e, durante questi, l’azienda ne organizzò la
vendita. Venni accompagnato dal direttore commerciale dell’azienda, Robert Fraser.
Di solito tenevo conferenze nelle università sul sistema di insegnamento musicale
nell’Unione Sovietica o sul mio personale metodo d’insegnamento, illustrando il mio
messaggio suonando. Ma a Cleveland quest’incontro venne inaspettatamente interrotto.

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La stanza dove doveva tenersi l’incontro venne bloccata da giovani che urlavano e
sventolavano volantini e cartelloni antisovietici. Questi erano gli echi della campagna
contro i Giochi Olimpici di Mosca del 1980 a causa della guerra in Afghanistan.
Gli americani erano indignati per quello che successe, anche se erano abituati a vedere
cose del genere. Venni scortato nell’edificio. Centinaia di persone riempirono
l’auditorium. La lezione iniziò, ma dopo 25-30 minuti qualcuno entrò ed un rumore
echeggiò nella sala. Mi fermai e chiesi ai presenti cosa stesse succedendo. Si scusarono
e mi invitarono a trasferirmi in un’altra stanza per continuare la conferenza dove ci
sarebbe stato un altro evento imminente. Senza esprimere particolare gioia, insieme ad
un pubblico scontento, mi spostai verso il pubblico indicato. Si scoprì che qualcuno
aveva chiamato l’università ed aveva riferito che era stata piazzata una bomba nella
stanza dove doveva svolgersi l’incontro con il musicista sovietico. Fortunatamente non
ci fu nessuna esplosione, ma questa era l’America del 1979 fatta di volantini
antisovietici e antisemiti, oltre a tentativi di bombardamento che mi lanciavano contro.
Quando fummo di nuovo di passaggio a New York, andammo a pranzo in un piccolo
ristorante cinese e lasciammo l’auto con le nostre cose in un parcheggio all’aperto vicino
l’appartamento. In questo caso ci venne chiesto di portare le nostre cose con noi. Questa
fu la prima volta che vidi una cosa del genere in America. Sì, ci dissero che questa
situazione si era sviluppata solo nelle grandi città, dove ci sono i senzatetto e i
disoccupati; nelle piccole città universitarie le auto non sempre erano chiuse.
Ci furono anche altri tipi di manifestazioni di attenzione al musicista sovietico (i miei
amici sapevano che mi piaceva stare nei motel piuttosto che negli hotel. I motel erano
solitamente situati in periferie verdeggianti dove si poteva uscire ed esercitarsi all’aria
aperta). Un giorno, mentre guidavo verso un motel nella cittadina di Cookeville, lì
vicino, sul cartello di una stazione di servizio, vidi una scritta in inglese: “Dokshizer,
benvenuto negli Stati Uniti!”
L’incontro con i musicisti in Texas, a casa del mio collega trombettista, mi lasciò un
ricordo indimenticabile. Dalla strada mi venne offerto di fare una nuotata nella piscina
del cortile di casa sua. Poi, dopo il ricevimento, ci recammo all’università, dove si
svolsero le prove della banda di ottoni, composta da trecento persone. Nelle università
questo è il numero solito di un’orchestra, nonostante il fatto che il dipartimento di
musica non abbia un tale numero di artisti. In America gli studenti di diverse facoltà,
non solo di musica, suonano strumenti a fiato. Molti di loro hanno i propri strumenti e
sono anche abbastanza preparati. Queste orchestre si esibiscono la domenica negli stadi,
elegantemente vestiti con costumi dorati ed eseguono un medley di melodie mentre
marciano in formazione cerimoniale. Questo spettacolo era possibile da vedere durante
i periodi di riposo e dopo gli eventi sportivi, in particolare durante le partite di football
americano.
I quintetti di ottoni dimostravano le loro abilità. Provarono ad “offrirmi” la nostra
musica russa, ma quando mi dissero il nome del compositore russo “Ivolt”, io risposi
che non esisteva un compositore con un nome del genere. Dopo aver ascoltato la musica,
capii che quella che mi avevano detto era la pronuncia americana del nome Ewald,
autore di tre quintetti popolari, membro del circolo “Belyaev” di San Pietroburgo.
Tra le altre cose che mi rimasero impresse, ricordo la cerimonia per il conferimento del
diploma di cittadino onorario d’America negli Stati della Georgia e dell’Illinois. Quando
chiesi cosa significassero queste cortesie mi risposero: “Rispetto da parte del pubblico

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e dell’organizzazione”. Conservo questi gesti di attenzione verso di me come cari ricordi
degli Stati Uniti.

Alla ditta “Giardinelli”, New York (1979)


All’estrema destra il rappresentante della “King”: Robert Fraser

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Alla ditta “Giardinelli”, New York (1979).
A destra: il rappresentante della “King” Robert Fraser e Robert Giardinelli.
(Foto di Bill Spilka)

Con i trombettisti dell’Orchestra Sinfonica di Stato dell’URSS, in tournée in America.


V. Udin, B. Ivanov, V. Evseev, T. Dokshizer, L. Volodin (1966)

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Con Dizzy Gillespie, Francia (1990)

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A Londra (1994)

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Capitolo 31
Festival europei degli ottoni
Svizzera. Il primo Congresso Internazionale degli Ottoni
Nel 1976, dal 13 al 19 giugno, in Svizzera, nella città di Montreux, in un antico castello
sulle rive del Lago di Ginevra, si tenne il primo Congresso Internazionale degli Ottoni.
Questo evento storico segnò l’inizio della cooperazione tra musicisti di tutto il mondo.
Uno dei risultati più importanti del Congresso fu la creazione di associazioni
internazionali di strumenti: la “Union of Horn Players”, la “Trumpet Player Guild”, la
“Trombonists Association” e la “Tuba Brotherhood”. Ogni associazione aveva un
presidente, un vicepresidente e un tesoriere che venivano rieletti ogni due anni. Esisteva
anche una direzione, composta da rappresentanti onorari e da diversi soci a vita, di cui
ne ero membro. Le associazioni disponevano di un servizio informazioni, riviste e
pubblicazioni musicali. L’ufficio organizzatore delle associazioni pianificava e
conduceva simposi regolari (di solito annuali) in diversi Paesi. Il Congresso di Montreux
venne organizzato molto bene. Si svolse ai livelli di un Simposio Internazionale di
scienziati o diplomatici e coinvolse un migliaio di partecipanti. Il programma prevedeva
concerti, conferenze, relazioni e seminari che si svolsero contemporaneamente in
quattro sale, tra cui in una cattedrale con l’organo.
Dall’Unione Sovietica fummo invitati Vitaly Mikhailovich Buyanovsky ed io. Ognuno
di noi tenne un concerto, una relazione, partecipò a seminari e dibattiti e conobbe artisti
e metodi di altre scuole. Tutto questo si svolgeva dalla mattina alla sera.
A Montreux si svolsero anche numerosi incontri con personaggi di fama mondiale ma
anche con personaggi sconosciuti dell’arte musicale del nostro Paese. Particolarmente
importante fu la conoscenza e la comunicazione con Jean-Pierre Mathez, l’editore
dell’allora giovanissima rivista “Brass-Bulletin”, attraverso il quale fu possibile
conoscere molte figure musicali ed esecutori di spicco e che permise di ottenere enormi
informazioni sul movimento musicale internazionale degli ottoni.
È impossibile descrivere tutti gli incontri a Montreux, ma non posso fare a meno di
menzionare i concerti dell’eccezionale trombettista francese Pierre Thibaud, che eseguì
superbamente diversi programmi con le opere più difficili dei compositori francesi
contemporanei; il trombettista americano Thomas Stevens, che inventò un approccio
interessante alla struttura metro-ritmica della musica moderna e molti altri grandi artisti.
Le parole satiriche e le caricature dei trombonisti virtuosi sui loro colleghi lasciarono un
ricordo indimenticabile. Si trattò di una dimostrazione di un nuovo genere, chiamato
“teatro strumentale”. Ciò fu particolarmente evidente nelle esibizioni dei quintetti di
ottoni, in particolare dei famosi Canadian Brass, il cui programma comprendeva anche
brani con balletti, eseguiti dagli stessi musicisti. Il trombonista jugoslavo Branimir
Slokar dimostrò qualcosa di simile nella sua esibizione, posizionando gli spartiti della
sua composizione su quattro leggii.
Anche adesso è possibile sentire il respiro del Congresso degli Ottoni di Montreux, il
suo cuore continua a battere. La vita della confraternita degli ottoni differisce dalla vita
di tutti gli altri musicisti per una speciale attrazione magnetica verso la comunicazione
professionale, verso i contatti umani. Ora si è formata l’Euro Gilda dei Trombettisti con
sedi filiali nei Paesi europei, inclusa la Russia. Nell’estate del 1993, partecipai al

163
prestigioso e ben organizzato “Simposio dell’Euro Gilda dei Trombettisti” a Göteborg
(Svezia), organizzato dal Maestro Bengt Eklund.
Anche in Russia finalmente ottenemmo la nostra rivista degli ottoni. Così come esiste il
“Brass-Bulletin”, noi abbiamo il “Russian Brass Vestnik”, pubblicato dalla State Brass
Art di Mosca dal 1992. L’importanza di questa rivista difficilmente può essere
contraddetta perché grazie ad essa gli ottoni russi ebbero l’opportunità di conoscere gli
ultimi eventi e le novità della vita musicale professionale. L’editore della rivista ed il
suo redattore capo fu Rem Murtazovich Gekht, direttore della Brass Art College che, tra
l’altro, fondò. Fu una persona straordinaria. La sua energia e dedizione alla musica per
ottoni basterebbero per decine di persone. E, cosa più importante, mentre gli altri
parlavano, discutevano, facevano progetti e immaginavano come aumentare il livello di
prestazione della sezione degli ottoni nel nostro Paese, sognando anche una propria
rivista, lui non parlava, ma agiva, concretizzava. Ed ottenne i risultati. Le azioni di
questa persona meritano tutto il nostro rispetto e sostegno. Possa Dio concedere al
“Russian Brass Vestnik” di sopravvivere anche nelle condizioni più difficili della vita
moderna Russa!

Colleghi russi al tavolo della giuria:


A. Sedrokjan, T. Dokshizer, Rem Gekht

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Finlandia. Il Secondo Simposio Scandinavo degli Ottoni
Ho già parlato del fatto che c’è qualcosa di genetico nella natura dei musicisti che
suonano strumenti d’ottone, distinguendo questo ambiente da tutte le altre professioni
dello spettacolo. In effetti, il fenomenale bisogno di comunicazione e cooperazione
professionale portò prima allo svolgimento del World Brass Congress in Svizzera e poi
all’organizzazione di incontri regionali in diversi Paesi. Incontri internazionali di
trombettisti si erano già svolti in Inghilterra, Germania, Finlandia e Olanda. Negli Stati
Uniti si svolgono ancora ogni anno.
Dal 10 al 15 ottobre 1987 si tenne ad Helsinki il Secondo Simposio Scandinavo degli
Ottoni. Si trattò di un raduno di musicisti provenienti da Norvegia, Svezia, Danimarca
e Finlandia. Ci vollero tre anni per preparare quel simposio e per la sua organizzazione
furono spesi più di un milione di marchi finlandesi. Vi presero parte quattrocento
visitatori e duecento musicisti finlandesi. Tutti e cinque i giorni, dalle 9:30 del mattino
fino a tarda notte (ogni giornata si concludeva con esibizioni di musicisti jazz), vennero
organizzati minuto per minuto. Per realizzare il simposio venne affittato un edificio
congressuale con tre sale da concerto e dozzine di studi e stanze in cui si svolsero, in
contemporanea, riunioni, seminari sui singoli strumenti e lezioni sia frontali che di
perfezionamento.
Ci furono anche mostre e vendite di spartiti, strumenti, dischi e tutti i tipi di attrezzature
orchestrali. Il motto del simposio fu: “Musica per la gente”. L’obiettivo fu quello di
sviluppare maggiore padronanza dello strumento, conoscere il livello moderno di
performance nel mondo, la nuova musica e le forme di sviluppo del nostro settore.
La musica per gli ottoni è ora riconsiderata come tipo di arte democratica,
comprensibile, assolutamente popolare, eseguita naturalmente senza amplificazione,
sopravvissuta agli sconvolgimenti durante gli anni di sviluppo del jazz e della musica
elettronica. Il simposio fu dedicato alla ricerca di forme indipendenti e uniche di
produrre musica per fiati.
Le orchestre di ottoni, piccoli gruppi formati da venti o trenta musicisti, divennero la
forma principale di produzione musicale d’insieme. Stupirono per la loro originalità,
pienezza e perfezione del suono, dimostrando il loro vantaggio rispetto alle
composizioni miste (per strumenti a fiato).
La popolarità delle orchestre di ottoni in molti Paesi del mondo crebbe così tanto che si
tennero concorsi internazionali per questo tipo di esecuzione. Vincitore del Concorso
Internazionale del 1987 fu l’Orchestra svedese di Göteborg sotto la direzione di Bengt
Eklund (il concorso si tenne in Australia). Nel 1979 questa formazione fece una tournée
che riscosse molto successo nel nostro Paese e colpì la finezza del suono degli ottoni.
Due anni prima del Simposio Scandinavo, durante una tournée in Svizzera, fui ospite ad
un concorso per orchestre nazionali. Lì, tali competizioni si svolgono ogni anno nella
capitale del Paese, Berna. Per ospitare gli orchestrali vennero affittati i locali di un
enorme casinò con al centro un’arena. In questa “azione” furono coinvolti anche gli
abitanti della città, piazzando scommesse per determinare il vincitore del concorso: le
orchestre arrivarono da tutto il Paese sugli autobus, con gli strumenti sistemati nel
bagagliaio.
Gli ensemble di ottoni divennero un’altra forma consolidata di musica da camera. Si
trattava di una formazione di doppi o tripli quintetti, simili al famoso ensemble inglese

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di ottoni di Philip Jones, conosciuto per il famoso arrangiamento di Quadri di
un’esposizione di Mussorgsky.
Ed infine, la terza formazione di musica da camera, nonché la più diffusa al mondo, fu
il quintetto di ottoni. L’esistenza di quintetti di ottoni fu particolarmente lodata nelle
piccole città dove un ensemble di ottoni o un’orchestra di ottoni non poteva riunirsi. Lì
i quintetti costituivano il nucleo culturale attorno al quale brillava la vita musicale.
Il programma del Simposio prestò molta attenzione alle esibizioni dei solisti. Maestri
eccezionali dimostrarono la loro massima abilità: la famosa cornista norvegese Frøydis
Ree Wekre, solista dell’Orchestra Filarmonica di Oslo, stupì gli ascoltatori con la
potenza del suo strumento, con la resistenza, la libertà nel registro acuto e, naturalmente,
il livello artistico. C’è un’opinione secondo cui suonare strumenti di ottone non è un
affare da donne. Questo è probabilmente vero. Tuttavia, nelle scuole occidentali, le
donne sfidano questo pregiudizio: molte, sia professioniste che dilettanti, suonano corni,
trombe, tromboni e persino tuba.
Giovani trombettisti, vincitori di concorsi internazionali negli ultimi anni, brillarono ai
concerti del Simposio: il norvegese Ole Edvard Antonsen, gli svedesi Håkan
Hardenberger, il finlandese Jouko Harjanne. Insieme ai giovani trombettisti, si esibì il
venerabile trombettista danese Knud Hovaldt, accompagnato da un quintetto.
Il trombettista inglese Crispian Steele-Perkins, un trombettista e collezionista di trombe,
dedicò la sua esibizione alla dimostrazione del suono di quasi venti strumenti, mostrando
l’evoluzione della tromba dal corno al trombino moderno.
Il gruppo di tromboni comprendeva maestri di fama mondiale: lo svedese Christian
Lindberg, l’americano Jeffrey Reynolds ed il francese Michel Becquet. Il modo di
suonare di quest’ultimo affascinò il pubblico con la sua abilità artistica e la sua fine
espressività. Questa fu una delle meraviglie del Simposio. Ed ancora, i due tubisti
Harvey Phillips (USA) e Michael Lind (Danimarca) dimostrarono a tutti i tubisti del
mondo il loro virtuosismo su uno strumento dal registro grave.
In un passato recente, l’arte degli strumenti a fiato nei Paesi Scandinavi fu influenzata
soprattutto dalle scuole europee e americane. Ci furono molti musicisti in visita nelle
orchestre scandinave e gli stessi scandinavi andarono a studiare in altri Paesi. Ora
l’immagine è cambiata. La Scandinavia formò la propria giovane scuola artistica con
leader di fama mondiale, istituzioni educative, un proprio corpo docenti ed una propria
letteratura musicale. Ciò venne dimostrato nel Secondo Simposio degli Ottoni.
I simposi scandinavi sono la punta dell’iceberg. Nelle città e nei paesi delle zone
scandinave si tengono sistematicamente tutti i tipi di corsi, seminari, concerti, e si
esibiscono ensemble e orchestre di ottoni.
Un chiaro esempio di tale lavoro sono i corsi e i workshop annuali nella città finlandese
di Lieksa. Coinvolgono la maggior parte dei musicisti del Paese e molti artisti in visita.
Il seminario, che nel 1990 ha festeggiato il suo decimo anniversario, si è trasformato in
un festival di musica per strumenti a fiato. Grazie al suo organizzatore - il direttore della
scuola di musica locale, Erkki Eskelinen - la piccola città di Lieksa, situata vicino al
Circolo Polare Artico, si è trasformata in un centro europeo della musica per ottoni,
proprio come la città ungherese di Barcs, che è diventata un centro europeo di musica
da camera per ensemble di ottoni.

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Con trombettisti provenienti da Francia, Olanda e Inghilterra

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Germania. Alla “Messe”
A Francoforte sul Meno, nel centro della Germania, c’è un enorme complesso
espositivo. Ogni anno, per una settimana, ospita una fiera musicale chiamata “Messe”.
Nel 1993 fui invitato alla “Messe” dalla società tedesca di strumenti a fiato
“Simphonic”, che esponeva il suo nuovo modello di tromba “Timofei Dokshizer”. Ciò
che vidi lì, avrebbe potuto sbalordire qualsiasi nuovo arrivato: gli enormi edifici
espositivi erano pieni di reperti di tutti gli strumenti musicali e dei loro relativi accessori,
spartiti e libri di centinaia di aziende di tutto il mondo. Per navigare in questo “oceano
di luci e suoni”, i locali, come gli aeroporti, erano divisi in settori-vie con designazioni
alfabetiche e numeriche indicate nella guida. Vennero esposti archi, fiati, percussioni,
attrezzature per l’elettronica, tastiere (pianoforti a coda, celeste, organi elettrici),
chitarre, amplificatori...
In questo trambusto dovevo dimostrare uno strumento con il mio nome. Da qualche
parte sull’altra linea, nel padiglione di un’azienda spagnola, ci fu un incontro con
Maurice André. Visitai l’azienda “Selmer” e suonai il loro nuovo modello di tromba.
Andai dai fondatori delle società “Conn” e “Schilke” ed ovunque incontrai volti
familiari. Stranamente incontrai anche compositori miei connazionali. Chiesi cosa li
avesse portati all’esposizione mondiale degli strumenti musicali, visto che non avevano
niente da mostrare. Dissero di aver portato spartiti di compositori russi (beh, sì, questo
poteva essere un prodotto adatto alla mostra) e che intendevano conoscere le meraviglie
del nostro secolo.
Ci furono molte meraviglie. Ogni visitatore poteva provare qualsiasi strumento e quindi
nei padiglioni c’era un trambusto inimmaginabile. Il luogo dell’esposizione era costoso
e ogni azienda cercava di arredarlo in modo confortevole, creando un’area tipo studio
per testare gli strumenti e con un indispensabile tavolino da caffè. L’ingresso in questo
mondo della musica era costoso, ma il pubblico era comunque molto numeroso. I
produttori cercarono di pubblicizzare i loro prodotti, artisti e uomini d’affari cercarono
di conoscere nuovi modelli. Stranamente, i giapponesi furono i primi ad acquistare un
lotto di trombe “Timofei Dokshizer” pur avendo la loro azienda “Yamaha”, la più
potente del mondo, che produceva strumenti per tutti i gusti.
La “Messe” di Francoforte sul Meno è la più importante fiera mondiale degli strumenti
musicali. In altri Paesi, fiere simili si tengono normalmente in diversi periodi dell’anno,
mentre noi in Russia per molti anni non siamo stati a conoscenza della loro esistenza.
Gli incontri con i musicisti, però, non si limitarono agli episodi descritti. Ebbi
l’opportunità di condurre seminari e master in molti Paesi del mondo oltre alle città
dell’Unione Sovietica. Di solito i loro organizzatori erano trombettisti leader locali e
musicisti famosi nel mondo degli ottoni. Nella pratica di condurre corsi di
perfezionamento della durata di una settimana, si formò la mia metodologia accelerata
per lo sviluppo dei trombettisti. In pochi giorni fu possibile padroneggiare e
comprendere il processo delle lezioni individuali con gli studenti, indirizzare la loro
attenzione alla formazione del suono, migliorare la tecnica ed anche espandere la loro
comprensione sulle tecniche di interpretazione della musica, dando impulso allo
sviluppo di autocontrollo ed intelligenza musicale. Grazie ad un lavoro intenso e
concentrato di breve durata, i giovani musicisti ricevettero uno stimolo ed un incentivo
per una crescita indipendente per un lungo periodo.

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Un corso più lungo su questa tecnica - durato diversi mesi, che tenni all’Accademia
“Sibelius” di Helsinki - permise di portare l’esecutore ad un livello di abilità
completamente diverso e più elevato.
Naturalmente, il fattore decisivo per il successo di questo lavoro rimane il grado di
talento dell’esecutore ed il suo contributo personale al processo di apprendimento.
Questa mia pratica contribuì alla formazione del mio metodo pedagogico, che delineai
nel mio libro successivo, Il laboratorio del trombettista.

In classe all’Accademia di musica “J. Sibelius” (1992)

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Helsinki. Nell’Accademia di Musica “J. Sibelius”, novembre 1991

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Capitolo 32
Trasferimento in Lituania
L’idea di trasferirmi a vivere in Lituania nacque nello stesso periodo in cui la situazione
politica in Russia e i problemi che ne conseguirono mi privarono completamente
dell’opportunità di lavorare normalmente e di dedicare l’intera vita al completamento
del lavoro artistico che avevo iniziato.
Lasciando Mosca nell’ottobre del 1990, espressi la mia personale protesta contro la
nuova ed offensiva ondata di antisemitismo, oltre al mio disaccordo su un sistema che
non era in mio potere né di accettare né di cambiare. Non cercavo luoghi paradisiaci ma
allo stesso tempo non potevo rompere completamente con la mia terra natale, la Russia,
che mi ha cresciuto. Ora ho finalmente capito che è stata proprio questa circostanza che
per molti anni mi ha impedito di lasciare la Russia per sempre. Dobbiamo tutti capire e
comprendere che l’ideologia e la Patria non sono affatto la stessa cosa. La Patria sono i
succhi della terra, sono le radici che ci nutrono, è la cultura nella quale siamo cresciuti.
La cultura è un tronco gigante e noi siamo i suoi rami. Essere strappati alla radice
significa morire. Puoi trovare pace e conforto nel mondo, ma allo stesso tempo il mondo
può prosciugarti creativamente, può farti perdere l’essenza spirituale e tutto ciò che
collega una persona con la sua lingua madre, cultura e natura.
Durante i lunghi e terribili tempi sovietici, i bambini russi si dispersero in tutto il mondo
per sopravvivere, per poi tornare alle loro radici native per nutrirsi. Se non possiamo
vivere senza la Russia, allora la Russia senza di noi, i suoi figli, non è la Russia.
Vivendo in Russia, non ho mai vissuto come un osservatore esterno: sono sempre stato
partecipe delle cose, degli eventi, di amicizie profonde e di connessioni artistiche.
Durante gli anni difficili della nostra storia, quando lo Stato iniziò a coltivare sfiducia,
sospetto e tradimento nei rapporti tra le persone; quando qualsiasi legame naturale, o il
semplice bisogno quotidiano, minacciarono di umiliare la dignità umana; quando le
persone iniziarono a lottare per l’elemosina, “dall’alto” cinicamente rimuovevano
coloro che ostacolavano il loro percorso; tutti noi (compresi i miei più cari e stretti
colleghi, amici ma anche nemici) stavamo “ribollendo nello stesso calderone”. Ma per
tutto questo tempo, la Musica mi ha sempre salvato ed io ho vissuto per lei e l’ho servita
fedelmente come meglio ho potuto. Di conseguenza ho ottenuto qualcosa ed è per questo
che sarò per sempre grato alla mia difficile ma meravigliosa Patria: la Russia.
Sono stato in Lituania diverse volte. Lì venni sempre accolto con onore. Un anno prima
di trasferirmi, tenni a Vilnius un corso di perfezionamento di un mese con musicisti di
bande di ottoni. Come prima, mi vennero mostrati attenzione e rispetto. Tuttavia, alla
fine del 1990, quando finalmente mi trasferii qui, la situazione era diventata
estremamente politicizzata ed il mio arrivo non venne notato né dal Conservatorio né
dal Ministero della Cultura. Sia la radio che la televisione tacevano (anche se
sinceramente volevo unirmi all’ambiente culturale e partecipare al rinnovamento della
vita musicale della Lituania).
Nella mia nuova residenza, dove venni letteralmente portato in braccio dai miei giovani
colleghi lituani (che trasportarono persino un pianoforte al terzo piano) iniziai subito a
lavorare sui miei manoscritti.
L’inizio della nostra vita in Lituania fu segnata da tragici eventi sia per la mia vita che
per la capitale: Vilnius. La Lituania, la prima delle repubbliche sovietiche a dichiarare

171
la propria indipendenza, fu soggetta alle sanzioni di Mosca. Iniziò così un blocco
economico: in primo luogo vennero interrotte le forniture di materie prime industriali e
di carburante; i trasporti si fermarono, fu come se Vilnius fosse stata rimandata indietro
di cent’anni; le auto non correvano più, le strade divennero deserte... Al loro posto
apparvero carri trainati da cavalli, adorabili cavalli che ripresero a fare il loro lavoro.
Nel nuovo anno, il 1991, l’atmosfera divenne ancor più tesa. Il riscaldamento (in tutte
le città russe c’è un sistema di riscaldamento centrale) e le forniture di gas vennero
barricate e l’aumento dei prezzi causò disordini tra la popolazione. Il Governo centrale
(Mosca) sfruttò questa situazione a suo vantaggio e il 13 gennaio 1991, truppe guidate
da “guardiani dell’ordine” vestiti in abiti civili e con fasce rosse al braccio, si
precipitarono ad assaltare il Parlamento, e forze speciali dispiegate dalla Russia (con il
pretesto di facilitare la coscrizione dei giovani lituani che eludevano il servizio militare
nell’esercito sovietico) si precipitarono ad assaltare la Torre della Televisione.
Assistemmo al mostruoso spettacolo di operazioni militari in tempo di pace con la
presenza di carri armati che portarono alla morte ed al ferimento di dozzine di abitanti
lituani. Dalle finestre dell’appartamento osservammo il volo dei proiettili, udimmo le
salve di cannoni, il clangore dei cingoli dei carri armati... E fu assolutamente pazzesco
sentire l’annuncio di un carro armato attraverso un megafono la mattina del 13 gennaio
che disse: “Andate a casa! In Lituania il potere è adesso nelle mani del Comitato di
Salvezza Nazionale”. Questo comitato, che rappresentava il PCUS in Lituania, fu presto
bandito ed in seguito il partito stesso cessò di esistere.
Dopo questi tristi eventi, mi sono recato in ospedale per un’operazione programmata.
Per coincidenza, lo stesso giorno, è stato ricoverato anche mio figlio Sergey, che due
anni prima aveva avuto una crisi vascolare e si era sentito male: lui era a Mosca, io a
Vilnius. Prima di partire per l’ospedale, ci siamo consolati telefonicamente, ci siamo
augurati la guarigione ed un pronto incontro. Il 24 gennaio sono stato operato e il 27
gennaio mio figlio è morto. L’ho scoperto solo due settimane dopo, quando sono stato
dimesso e mio fratello Vladimir è venuto a trovarmi a Vilnius con sua moglie Tatyana.
La notizia mi ha colpito profondamente, lo stress nervoso ha minato la mia salute. Dopo
una lunga degenza in ospedale ho ricominciato a camminare usando un bastone. In
questo momento difficile della mia vita sono stato sostenuto dalla sensibilità e
dall’attenzione dei miei amici. Marcel Hollenstein dalla Svizzera, Alain Parisot e Pierre
Dutot dalla Francia, Louis Davidson dagli Stati Uniti, Arto Hoornweg e Willem van der
Vliet dall’Olanda e Yuri Klushkin dal Kazakistan mi invitarono a fargli visita.
In Lituania io e mia moglie ci siamo ritrovati lontani dai nostri cari ma la sensibilità e
l’aiuto dei musicisti lituani Saulius Sondeckis e Algirdas Radzevičius si rivelarono per
noi ancor più preziosi. Ora, dopo due anni, posso dire quanto sono amichevoli ed ospitali
i lituani e quanto sono cordiali i nostri nuovi amici russi.
Il sostegno morale degli amici mi ha dato la forza per continuare a vivere e lottare in
circostanze difficili, incluso l’emergere della nostalgia, di cui avevo già sentito parlare
con indifferenza dai miei connazionali nei Paesi d’oltremare.
Ciò che mi salvò in questo momento fu l’invito a lavorare, durante l’anno accademico
1991-92, presso l’Accademia “Sibelius” di Helsinki, da parte del rettore
dell’Accademia, Erkki Rautio. Ho sempre avuto un profondo affetto per la Finlandia e
i suoi abitanti ed ho ammirato il coraggio della gente di un piccolo paese di soli cinque

172
milioni di abitanti che è riuscita a resistere all’aggressione di un potente vicino che un
tempo portava luce e cultura nel Paese.
Ero stato in Finlandia molte volte. Ho suonato in diverse città, tra cui più volte nella
“Finlandia Hall” di Helsinki, ho tenuto corsi di perfezionamento in varie istituzioni
educative ed anche presso l’Accademia “Sibelius”.
Un lungo soggiorno in Finlandia, la vita ad Helsinki ed il lavoro all’Accademia mi
rivelarono molte cose che prima non potevo notare, essendo stato centinaia di volte in
Paesi diversi ma solo per brevi visite. In Finlandia sentii un’atmosfera diversa della vita,
dei rapporti tra le persone, degli usi e costumi, delle regole e delle leggi imposte dalla
società. Per i finlandesi la normalità è vivere in uno stato di naturale relax, libertà
personale, fiducia e responsabilità in tutto ciò che riguarda l’attività in cui tutti sono
coinvolti.
Nell’Accademia nessuno controlla il lavoro dell’insegnante. Non esistono registri da
firmare o tabelle con l’orario di arrivo e di uscita (come è tipico nel nostro Paese), né
piani didattici individuali. Naturalmente, tutti tengono le lezioni secondo il programma
dello studente e il piano individuale di ognuno, ma il professore non è obbligato a
presentare niente a nessuno. Danno dimostrazione del lavoro svolto solo nei concerti
accademici, che qui si chiamano “matinée” (in tedesco una parola simile significa
semplicemente “concerto pomeridiano”).
Ogni settimana si tengono concerti gratuiti per gli studenti e i docenti dell’Accademia.
Viene pubblicato un abbonamento speciale. A questi concerti prendono parte artisti di
fama internazionale. Ebbi l’opportunità di ascoltare le esibizioni dei nostri connazionali
Mark Lubotsky, Dmitry Bashkirov, Liana Isakadze, il direttore d’orchestra estone Eri
Klas, così come molti artisti finlandesi.
La stagione concertistica dell’Accademia fu inaugurata dallo stesso rettore Erkki Rautio,
bravissimo violoncellista. Venne eletto rettore da un gruppo di insegnanti un anno prima
del mio arrivo. Conoscevo già l’abilità di Rautio: nella mia libreria musicale c’è un disco
con una registrazione del Concerto di Haydn da lui eseguito. Il programma del concerto
che Erkki Rautio eseguì all’Accademia comprendeva un’opera di Rodion Shchedrin a
me ben nota: La Quadriglia tratta dall’opera Not Only Love, arrangiata per violoncello
dall’esecutore stesso. Ebbi l’opportunità di suonare questo brano al Teatro Bolshoi.
Me ne sono ricordato perché a quel tempo io stesso stavo scrivendo l’arrangiamento per
pianoforte e tromba del Concerto di Shostakovich.
Questo lavoro fu il principale risultato del mio “Autunno ad Helsinki”. Gli insegnanti
qui usano festeggiare insieme l’inizio dell’anno scolastico, il secondo semestre ed il
Natale nella sala da concerto e poi anche a tavola. Il rettore, con il suo violoncello, prese
parte ad uno spettacolo comico di Capodanno. Al matinée dei miei studenti, il concerto
finale della prima metà dell’anno, Erkki aspettò la loro esibizione per conoscere che tipo
di musica e come suonassero i trombettisti.
Chiunque poteva entrare negli edifici dell’Accademia (nella città ce ne sono quattro ed
un quinto edificio è in costruzione). All’ingresso non c’è mai nessuno di guardia. Nella
mia classe è possibile trovare sempre strumenti, spartiti e ombrelli di qualcuno. Tutto
questo è normale qui. Qualche volta ho provato a fare lo stesso, uscendo per andare a
bere un caffè, ma ho portato sempre con me in tasca almeno il bocchino. Questa è
l’abitudine radicata di una persona sovietica. Comunque, anche gli aspetti positivi della
vita russa diventano più visibili quando si vive lontani dalla Patria. Le radici profonde

173
della cultura nazionale russa, della musica e della scuola artistica russa, nota per l’abilità
dei suoi leader, da lontano sono percepite in modo più acuto. In Finlandia i classici russi
vengono eseguiti proprio come a Mosca e l’educazione degli artisti finlandesi si basa in
gran parte su questo. Il programma del mio corso annuale era basato esclusivamente
sulla musica di compositori contemporanei russi e sovietici.
Noi, rappresentanti della scuola russa, tagliati fuori dalla vita occidentale per tre
generazioni, ora non sappiamo come orientarci. Solo di recente, quando la
comunicazione si è ampliata, stiamo gradualmente cominciando a capire cosa
intendiamo e quanto valiamo. Non siamo abituati a concludere contratti e qui senza di
questi non si fa nulla. Senza un contratto scritto, anche un amico del cuore, se si basasse
solo sulle parole, potrebbe decidere a suo favore e a discapito tuo. In Occidente questo
si chiama business, nel nostro Paese questa invece è truffa e inganno. Posso giudicarlo
dalla mia esperienza maturata in Finlandia, America e Francia. Sono finiti i giorni in cui
il Gosconcert faceva tutto per noi, concludeva i contratti e li vendeva a buon mercato,
mentre i rappresentanti occidentali, invece di un compenso non specificato nel contratto
infilavano nella tasca del musicista una banconota da cento dollari accartocciata.
Non siamo abituati al lusso. L’onore e la dignità umana sono sempre stati la nostra
ricchezza, nonostante tutta la nostra povertà. Ora che il destino di ogni russo è nelle
proprie mani, stiamo rapidamente iniziando a padroneggiare questa scienza della vita,
alla quale lo Stato prima non ci permetteva, detraendo valuta dalle nostre tasse per il
mantenimento dei “partiti comunisti fratelli”, membri del Comitato Centrale e delle loro
famiglie, usando i nostri soldi per la costruzione di dacie e palazzi di lusso.
Ad Helsinki, con un moderato carico didattico, il lavoro sui manoscritti divenne più
attivo. Ancor prima del nuovo anno, il 1992, era pronta una nuova edizione del mio libro
Trombettista a cavallo ed era stata completata un’enorme quantità di materiale per
l’arrangiamento del Concerto per Pianoforte di Shostakovich, inclusa la partitura, la
parte del pianoforte e le parti orchestrali, che ho dovuto scrivere io stesso.
La mia intenzione era anche quella di eseguire il Concerto e registrarlo su disco.
Tuttavia, con l’arrivo della primavera, il mio corpo reagisce in modo più sensibile ai
cambiamenti atmosferici, il mio benessere dipende spesso dal tempo e quindi le mie
prestazioni diminuiscono. Cosa puoi fare: così è la vita.
Al concerto annunciato per il 17 marzo ad Helsinki, dove avrebbero dovuto svolgersi
anche le riprese, tutto è andato come mi aspettavo. Il tempo era instabile, la pressione
oscillava, ma non ho ceduto alla debolezza. Una settimana prima mi ero esibito con una
banda di ottoni in un seminario di ottoni finlandesi. Il pubblico fece una standing ovation
al Concerto di Arutiunian e ad Hora-Staccato di Dinicu, eseguiti da me. Quel giorno
suonai senza problemi e coincise con una giornata di cielo sereno e soleggiato, nelle ore
diurne dell’8 marzo 1992.
Il 12 marzo ci fu la prima prova per il Concerto di Shostakovich. L’Orchestra da Camera
dell’Accademia “Sibelius” fu diretta da Paavo Pohjola. Controllammo gli spartiti: a
parte alcuni dettagli, tutto era corretto. La prova successiva con i solisti (la parte del
pianoforte venne eseguita dal famoso pianista finlandese Juhani Lagershpetz) si svolse
senza di me. Ne conseguì il fatto che il concerto, al quale mi preparavo con la mia
caratteristica ossessione come se venissi contagiato da una sorta di idea fissa, correva il
rischio di saltare.

174
La giornata del 13 marzo mi costò cara. Secondo il rapporto dell’ufficio meteorologico
dell’Accademia delle Scienze Mediche di Novosibirsk, pubblicato mensilmente su
“Izvestia”, quel giorno venne dichiarato critico, cioè il giorno di una “tempesta
magnetica”. Lo lessi mentre ero a letto, colpito dalla debolezza.
Mi rifiutai di partecipare al concerto e quindi mi causai un trauma psicologico.
Affrontare una cosa del genere non è mai semplice. Dopo quattro giorni di riposo a letto,
finalmente mi alzai, mi diressi in auto da un cardiologo in una clinica a pagamento e
solo quando seppi che l’elettrocardiogramma era nella norma, tornai a casa a piedi.
Il 17 marzo mi rimisi in forma in un giorno con un sistema di esercizi dilazionati (6-7
“micro dosi” da 10-15 minuti ciascuna) e mi presentai comunque all’appuntamento
previsto per il 18 e 19 marzo per la registrazione del Concerto di Shostakovich. Il sogno
divenne realtà, il programma venne completato.
Una settimana dopo, nel giorno di un’altra tempesta magnetica, mi ammalai di nuovo.
Ebbi la sensazione di un infarto, come se un ago mi fosse stato conficcato nel cuore e vi
fosse stato applicato un disco metallico freddo sul petto. Davanti agli occhi vedevo dei
cerchi, la mia testa sembrava un palloncino che oscillava da destra a sinistra. Ma
l’elettrocardiogramma mostrava ancora una volta tutto nella norma: e quella era un’altra
clinica, con un altro medico!
Il 31 marzo mi sembrò l’ultimo giorno della mia vita. Sentivo che stava arrivando la mia
ora... Stavo già per trasmettere il mio testamento orale a Monna Yanovna... Ma dopo i
sonniferi la notte trascorse tranquilla e la mattina dopo, quando aprii gli occhi, non
credevo di essere ancora vivo. Sono sopravvissuto...
Dopo aver registrato il Concerto di Shostakovich, decisi di non riprendere più in mano
lo strumento e di non salire più su un palco con esso in mano. E così, il 19 marzo 1992,
con l’ultimo Re nella seconda ottava, ho concluso la mia vita con la tromba, la mia amata
compagna alla quale ho dedicato quasi 60 dei miei 70 anni di vita. Non ho partecipato
ai successivi corsi di perfezionamento in Italia, America, Francia, Lussemburgo,
Finlandia perché senza lo strumento io sono muto. Riesco a sentire bene, ma non riesco
ad esprimermi chiaramente senza la tromba: non concepisco il fatto che la mia musica
venga compresa usando solo le parole.
Dopo lo stress vissuto, mi sono sentito come se fossi stato notato dai miei studenti
dell’Accademia che si chiedevano cosa mi stava succedendo: arrivavo alle lezioni senza
strumento, ero spesso in ritardo, infine fu anche necessario dare una spiegazione ai
musicisti delle orchestre radiofoniche e operistiche, che da tempo mi invitavano a
condurre seminari di tre giorni. Finalmente, dopo giorni difficili, la mia testa ricominciò
a lavorare attivamente, tutti i miei pensieri erano adesso rivolti agli affari futuri, che
sembravano non avere fine. Dopo l’operazione ho iniziato ad avere fretta: avevo bisogno
di tempo per portare a termine tutte le cose che erano già nella mia testa ed in parte su
carta. Un saggio proverbio russo dice: “Anche se sai che stai per morire, non dimenticare
di seminare la segale!”
Qual è stato il motivo che mi ha spinto a smettere di suonare la tromba proprio adesso,
e non prima o dopo? L’aumento della tensione durante la preparazione di un concerto è
un fenomeno comune e naturale per un artista: richiede energia, volontà e attenzione.
Quando la condizione di un artista sul palco non dipende dal lavoro effettivamente
svolto e nemmeno dalla volontà o dalla compostezza, ma da fattori e condizioni esterni,
dal tempo, non resta altro da fare che arrendersi e non contrastare la natura.

175
I paradossi del mio lavoro professionale sullo strumento, legati all’età, erano i seguenti:
da un lato aumentava la sensazione di facilità nel suonare, dall’altro apparivano sempre
più ostacoli esterni che interferivano con l’esecuzione, e questo è del tutto comprensibile
e naturale. Dopotutto, durante l’esecuzione tutto il corpo umano è coinvolto, non solo le
labbra, la lingua, la respirazione e le dita, che insieme chiamiamo “macchina
performante”. Questa macchina funziona grazie al lavoro attivo del cervello, del cuore,
dei vasi sanguigni e dell’intero sistema muscolare. Poi ci sono i problemi di aritmia
cardiaca, pressione sanguigna che reagiscono ai cambiamenti atmosferici e alle tempeste
magnetiche... Queste sono le leggi della vita. E in accordo con loro, devi prendere una
decisione difficile ed essere in grado di accettarla coraggiosamente.
Questo è ciò che ho fatto. E questa è stata la fine.
Ma le persone intorno a noi, tra le quali viviamo e lavoriamo, capaci di dare nuova forza
ai più deboli con sensibilità e attenzione, la pensavano diversamente! Gli americani non
accettarono il mio rifiuto: le mie argomentazioni sembravano non convincerli. Harvey
Phillips, capo del dipartimento di strumenti a fiato della Bloomington University, mi
ribadì l’invito scrivendo: “Ti conosciamo, ti amiamo e ti stiamo aspettando”. Koos van
der Hout, l’organizzatore del Congresso dell’International Trumpet Guild a Rotterdam,
mi inviò dei biglietti aerei in Finlandia affinché potessi venire in Olanda per un consulto
con il mio cardiologo, il Dottor R. Van Mechelen, lo stesso che mi preparò per un
intervento chirurgico tre anni prima. Ed ancora, così come dopo l’operazione, io e mia
moglie fummo ospiti di Kirill Dmitriev, un famoso musicista bulgaro, che viveva nella
periferia di Rotterdam, circondandoci con la sua attenzione.
Koos van der Hout, con il suo comportamento fine e delicato, mi dette una nuova
sferzata di energia. C’era il desiderio di essere suo complice nel difficile compito di
organizzare un Simposio e di andare a Rotterdam. Avevo un mese di tempo per
prepararmi. Ero già tornato a Vilnius da Helsinki, mi sentivo un po’ più in forze e, anche
se non potevo esercitarmi tutti i giorni, ero preparato “per la battaglia”. Al Congresso
eseguii per la prima volta il Concerto di Shostakovich con l’Orchestra Filarmonica di
Rotterdam, con il direttore d’orchestra bulgaro Jordan Dafov ed il pianista olandese Bob
Bruck. Ci fu un nuovo incontro con Maurice André, questa volta sul palco, insieme in
un concerto. Ero tormentato da questo, pensando ai possibili risultati. La cortesia nella
vita è una cosa, ma il palco è un’altra. Nei miei pensieri la rivalità non è mai esistita: per
me il nome André è al di sopra di ogni rivalità e prima del concerto, mi espresse proprio
un pensiero simile. I nostri camerini erano vicini, ognuno sentiva l’altro esercitarsi: lui
si librava sopra le nuvole con il suo trombino, mentre io ero negli spazi aperti della terra
con la tromba in Sib. Pensavo che io e lui stessimo facendo la stessa cosa e che i nostri
percorsi artistici andassero di pari passo, completandosi a vicenda. Questo esempio può
essere continuato con i nomi di altri trombettisti più giovani. Le nostre esecuzioni furono
accettate dal pubblico e molto apprezzate dalla Stampa.
Quindi, la vita va avanti. “Pah, pah, pah sopra la spalla sinistra”, o come si dice in
Occidente agli artisti prima di salire sul palco: “Toi toi toi!”
Non voglio portarmi sfortuna, dopotutto non mi piace esprimere ad alta voce ciò che
sogno e che desidero...

Marzo - giugno 1992

176
In fase di registrazione di concerti russi a Vilnius con il mio storico
pianista Sergey Solodovnik (1994)

Con M. Rostropovich alla Filarmonica Lituana, Vilnius (1995)

177
Sulla registrazione del Concerto di Shostakovich, Helsinki, 18-19 marzo 1992.
Direttore Paavo Pohjola, pianista Juhani Lagershpetz

Prima esecuzione del Concerto di D. Shostakovich. Pianista Bob Bruck.


Rotterdam, Olanda (1992)

178
179
Con i trombettisti lituani
Con mia moglie Monna Yanovna

180
Con Vasiliev a Vilnius (1994)

Con il direttore d’orchestra Saulius Sondeckis, febbraio 1995

181
Durante una sessione di registrazione con l’Orchestra da Camera Lituana, febbraio 1995

182
Postscriptum
Luglio 1995. Sono passati tre anni dal completamento di questo manoscritto. Durante
questo periodo avrebbe dovuto vedere la luce ed essere pubblicato in quattro lingue e
prima di tutto in russo, entro la fine del 1994, come da contratto. Ma questo contratto,
stipulato con una casa editrice svizzera, non è stato da loro rispettato e, a distanza di due
anni dalla firma, il libro non era stato ancora pubblicato in nessuna lingua. Quando ho
poi ricordato all’editore, tra l’atro un ex trombettista, che i termini del contratto
dovevano essere rispettati, invece di una spiegazione ho ricevuto un nuovo contratto in
cui, sotto forma di ultimatum, mi è stato chiesto di firmare di nuovo per avere le altre
versioni tradotte ma a condizione di rinunciare alla paternità del mio lavoro... e per di
più sotto la paternità della casa editrice svizzera senza indicare le date della sua
pubblicazione. Successivamente ha anche rifiutato la pubblicazione dell’edizione russa
con l’intenzione di restituirmi tutto il materiale, inoltre, il sedicente editore mi ha
minacciato di denuncia per aver divulgato segreti commerciali...
Come si dice, i commenti non sono necessari. Mi sono reso conto che non potevo più
comunicare con una persona simile ed ho fatto ricorso ad un avvocato. Ma poiché... “la
vita continua”, ho comunque avuto l’opportunità di divulgare la mia storia.
Ho già scritto che la mia vita senza lo strumento non avrebbe senso, anche se c’è molto
da fare alla scrivania. Successivamente, in un momento di debolezza, ho deciso di
abbandonare per sempre l’attività concertistica e di non prendere più in mano la tromba.
Tuttavia, suonare i miei esercizi mi dava forza, come una boccata d’aria fresca. Lo
facevo senza alcuna tensione: quando sentivo difficoltà smettevo di suonare per uno o
due giorni. È stato grazie al mio sistema di allenamento a “micro dosi” che riuscivo
sempre a ripristinare rapidamente e facilmente la mia forma esecutiva.
Dopo il concerto a Rotterdam gli inviti si sono fatti più frequenti e tutto è continuato
come prima. Ho accettato di andare anche in America, questa volta non a Bloomington,
ma a Los Angeles. Ho conosciuto persone interessanti, grandi maestri con cui ho
comunicato in modo professionale. Ho tenuto corsi di perfezionamento presso due
università con l’esecuzione di piccoli programmi. Sono stato ospite del mio amico Louis
Davidson ed ho conosciuto suo figlio Emil, un uomo assolutamente affascinante, che si
è preso cura di me in modo toccante. Emil ha organizzato le mie lezioni private a casa
sua. Questa forma di educazione non è accettata in Russia mentre è ampiamente
praticata in Occidente. Descriverò brevemente solo due incontri.
Il primo a venire da me è stato un uomo anziano, quasi della mia età. Si è scoperto che
era un trombettista jazz. Ho chiesto cosa lo avesse portato da me e lui mi ha risposto:
“Voglio suonare con te”. Nonostante l’evidente natura lusinghiera di una simile
affermazione, ho pensato che avrebbe dovuto prefiggersi un simile compito
cinquant’anni fa. Come mio solito, durante l’ora della nostra conversazione, gli ho
illustrato alcuni principi della mia metodologia di studio e così è andato via soddisfatto.
Il secondo è stato con l’unico solista delle orchestre di Hollywood, Malcolm McNab.
Questo fenomenale trombettista ha eseguito il Concerto per Violino di P. Čajkovskij
dalla partitura originale (!), suonando ogni singola nota, senza l’uso di arrangiamenti o
versioni semplificate. Mi ha dato una cassetta con questa registrazione. McNab è venuto
da me perché si era reso conto che gli mancava qualcosa nel suo modo di interpretare la
musica, e così ha suonato con me degli studi, dimostrando molto interesse: su di essi
abbiamo affrontato questioni interpretative.
183
Un ricordo indimenticabile è stato l’incontro con un uomo straordinariamente ottimista,
un disabile non deambulante, ma una persona socievole e attiva, il famoso jazzista Uan
Rasey con sua moglie Margareth, che si sono presi molta cura di me e di Monna.
Durante questo periodo in Europa, ho avuto l’opportunità di tenere numerosi corsi di
perfezionamento. Gino Santo ha organizzato una masterclass a Mendicino, un villaggio
montano che si trova nel Sud Italia. Odd Lund l’ha organizzata presso la Scuola
Superiore di Musica di Oslo, la capitale della Norvegia. Il famoso trombettista
britannico John Wallace, mi ha offerto la possibilità di lavorare non solo con i
trombettisti, ma con tutti gli ottoni della Royal Academy in Inghilterra. In questo caso
non mi son comunque discostato dalla mia pratica conducendo discorsi metodologici
esprimendoli alla tromba. Ho quindi ripetuto la musica ad orecchio lavorando con un
meraviglioso tubista ed un cornista e un trombonista molto abili.
In Germania, nella città di Krefeld, ho partecipato ad un corso di musica da camera.
Questa è stata la mia prima esperienza. Ho potuto notare quanto si sentono più sicuri e
rilassati i giovani artisti, non ancora del tutto maturi, nel suonare in ensemble e quanto
sono artistici quando salgono sul palco durante un matinée. Ho pensato che nelle
istituzioni educative russe fosse importante intraprendere la formazione d’insieme, per
non preparare tutti alla carriera solistica. Un simile desiderio potrebbe però rivelarsi un
errore metodologico e rovinare seriamente il destino di un trombettista professionista
pienamente degno di essere un musicista orchestrale.
A Monaco ho fatto parte della giuria di un concorso per tromba, forse il più prestigioso
al mondo. Basti ricordare che nella lunga storia di questo concorso, solo una volta venne
assegnato il primo premio: era Maurice André.
In Germania sono stato invitato a tenere un corso all’Accademia musicale di Brema. Ho
suonato in numerosi concerti con l’ensemble di trombettisti “Ten for Best” - “Ten Best”
e per qualche tempo ho lavorato presso l’Accademia di tromba, che esiste separatamente
dall’Accademia musicale di Brema. L’organizzatore di tutto questo era il giovane e
attivo trombettista Otto Sauter. Tuttavia, nella sua innovazione c’erano molte cose mal
concepite e non testate. C’erano cinque professori che tenevano lezioni di una settimana
ciascuno con un gruppo di studenti provenienti da diverse parti del mondo, e spesso si
contraddicevano a vicenda nei loro metodi didattici. Di conseguenza, non ho ritenuto
possibile partecipare a questo lavoro.
In Francia ho tenuto corsi a Digione (sempre organizzati da Thierry Caens). A Lieksa,
in Finlandia, ho eseguito per la prima volta il mio arrangiamento del Concerto di Neruda
con un’orchestra e le musiche di Jean Sibelius.
Nel 1992 ho festeggiato il mio settantunesimo compleanno registrando su CD le bozze
delle mie Romantic Pictures, composte in Finlandia. Ho realizzato numerosi
arrangiamenti per la “Collezione Timofei Dokshizer”, pubblicata in Svizzera da Mark
Reift. Nei negozi di musica di tutto il mondo è già possibile acquistare più di ottanta
opere. Ho donato i set di questa collezione al dipartimento di musica della Biblioteca di
Stato Russa, l’ex Biblioteca “Lenin”, e alla biblioteca dell’Accademia Russa di Musica
“Gnessin”.
Ho preparato quattro programmi per una registrazione su CD. Due di questi li ho
registrati tra gennaio e febbraio del 1995 a Vilnius e sono stati subito acquistati dalla
società “Sony” prima ancora di essere montati. Il primo programma comprendeva

184
cinque Concerti per pianoforte di autori sovietici: Peskin, Schelokov, Merten e Bӧhme.
Li ho registrati con il mio storico pianista Sergey Solodovnik.
Anche il secondo programma comprendeva cinque Concerti. Registrai, secondo il mio
arrangiamento, le musiche di Shostakovich, Neruda e Albinoni con l’Orchestra da
Camera Lituana, diretta da Saulius Sondeckis. Spero ancora di portare a termine
Fantastic Dances e brani di musica ebraica.
Concludo la mia postfazione con un recentissimo viaggio in America, partecipando
all’International Summit Brass Symposium, che ha avuto luogo dal 2 al 4 giugno 1995
a Bloomington. Ho fatto questo viaggio solo grazie al delicato e sottile invito di David
Hickman, al quale non ho promesso nulla, ma lui ha comunque accettato. Eppure ho
avuto la fortuna di eseguire un programma di concerti e di tenere una lezione magistrale
che delineava il mio metodo di interpretazione della musica.
Sulla strada per Bloomington, mi sono fermato a New York da mia nuora Irina e mia
nipote Anna. Al ritorno sono rimasto con loro. Loro si sono completamente adattate al
nuovo luogo di residenza: entrambe parlano fluentemente la lingua. Irina lavora, Anna
studia. In una parola, si sentono a casa.
Da quando mi sono trasferito a Vilnius, la comunicazione con il mondo si è ampliata in
modo significativo: è diventato possibile viaggiare in molti Paesi senza visto da parte
del Governo e i contatti con i musicisti sono aumentati notevolmente. I miei colleghi
lituani accanto ai quali vivo, oh... quanto hanno bisogno di aiuto e apertura mentale
invece dell’isolamento professionale! Sono rimasti recintati per anni come da un muro
di pietra. Solo sei anni dopo ho ricevuto un’offerta ufficiale, seppur tardiva, per
diventare professore presso l’Accademia Statale di Musica Lituana, cosa che dubito
adesso di poter dire di accettare.
Qui in Lituania le mie registrazioni vengono trasmesse alla radio. A volte ci sono
pubblicazioni sulla Stampa relative alle attività mie e di mia moglie. Monna Yanovna
ha tenuto una mostra delle sue ceramiche al Centro Culturale Russo, donando i soldi
della lotteria tenutasi alla fine della mostra al Fondo per la Protezione degli Animali.
Due miei libri, pubblicati in Russia, sono già apparsi nella casa editrice moscovita
“Russian Fanfare”: From A Trumpeter’s Notebook e Romantic Pictures.

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Uan Rasey, Los Angeles, giugno 1993

186
Con la famiglia di mio figlio: mia nuora Irina
e mia nipote Anna, New York (1995)

Vicino la mia casa in Via Blindžių, Vilnius

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Togliatti, Russia. Aprile 1997

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Il Concorso Internazionale di Tromba
“Vassily Brandt”
Ci sono diversi motivi per cui vorrei parlare di questo concorso separatamente dagli
altri. Non è solo una coincidenza che questo concorso del settembre 1995 abbia avuto
luogo a Saratov. Vassily (Willie) Brandt si trasferì in Russia dalla Germania intorno al
1880. Allora non sapeva che sarebbe stato il fondatore della scuola russa degli ottoni.
Nel 1912 lasciò l’incarico di professore al Conservatorio di Mosca e si trasferì a Saratov.
Iniziò ad insegnare tromba presso il Conservatorio appena aperto e ben presto i suoi
corsi di tromba iniziarono a produrre musicisti altamente qualificati. Questi musicisti si
affermarono in diverse orchestre russe tra cui quella del Teatro Bolshoi. Inoltre Brandt
compose numerosi studi e pezzi da concerto che vengono ancora oggi suonati da
trombettisti di tutto il mondo. Questa competizione si svolse a Saratov. Il nome “Brandt”
quindi non solo divenne sinonimo di concorsi internazionali di tromba, ma significò
anche l’unità del mondo musicale. Basti citare i nomi dei membri della giuria tra i quali
ci furono non solo famosi musicisti russi (Y. Bolshyanov e Y. Klushkin), ma anche il
presidente dell’ITG, professor Bengt Eklund (Svezia); il direttore del Museo della
Tromba, Dr. Edward H. Tarr ed il professor Max Sommerhalder (Germania); il Dott.
Leonard Candelaria ed il Dott. Kim Dunnick dagli Stati Uniti.
Il Concorso “Vassily Brandt” soddisfaceva tutti i requisiti di un concorso internazionale,
ma c’erano punti cruciali che lo differenziavano da tutti gli altri organizzati in Russia a
partire dagli anni ’30. In passato, tali concorsi erano un privilegio delle capitali e si
svolgevano sotto lo stretto controllo degli impiegati del Ministero, per cui coloro che
provenivano dalla periferia venivano banditi categoricamente.
A Saratov arrivarono molte persone dalle città della provincia russa, ma anche
dall’Uzbekistan, dal Kazakistan e dall’Ucraina. Un’altra particolarità del concorso di
Saratov fu che la seconda prova venne eseguita con l’orchestra sinfonica diretta da Fuat
Mansurov. I membri stranieri della giuria pensarono che questo fosse un lusso che non
tutti i concorsi potevano permettersi. C’erano due orchestre che suonavano alla
cerimonia di chiusura, questa e l’Orchestra da Concerto “Volga-Band”. Successe che
l’esibizione di molti musicisti provenienti dalle zone periferiche della Russia dimostrò
che il preconcetto esistente sui livelli di maestria “capitale” e “provinciale” non era
valido. Saratov quindi fu la prima città a mettere in pratica questo concetto e dimostrò
che anche le città di provincia hanno diritto di organizzare tali eventi e possono anche
essere realizzati con grande successo.
Questo concorso si trasformò poi in un festival. Le orchestre partecipanti divennero tre,
ci furono diversi ensemble, cori che si esibivano non solo su palchi da concerto ma anche
nelle piazze e nelle strade della città. Ci furono masterclass, lezioni dei docenti più
ambiti e molti contenuti interessanti certificati che attirarono l’attenzione dei membri
della giuria (compreso questo evento inedito!). Vennero conferiti molti premi
provenienti da diversi Paesi ed organizzazioni, incluso un premio sulla “migliore
prestazione eseguita sullo strumento peggiore”, che si concluse con la donazione di uno
strumento nuovo ad un ragazzo di tredici anni. Sfortunatamente-fortunatamente, molti
dei nostri musicisti russi suonano ancora su strumenti dove la qualità lascia molto a
desiderare!

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Il Concerto di Gala si svolse al Teatro dell’Opera e Balletto. Questo concerto fu l’unico
anche perché sul palco salirono insieme i partecipanti, i vincitori e i membri della giuria:
insegnanti e studenti, maestri e dilettanti. Quella sera il pubblico applaudì non solo i
vincitori, ma anche gli organizzatori e soprattutto l’uomo senza il quale questo sogno
non si sarebbe mai realizzato: il mio ex studente e amico, il professor Anatoly Selianin.
Speriamo che questo concorso sia stato solo il primo di una lunga serie e che ne
seguiranno altri.

Con Anatoly Selianin. Saratov (1996)

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Giudici del Concorso Internazionale per Tromba “Vassily Brandt”: Kim Dunnick,
Yuri Bolshyanov, Leonard Candelaria, Edward H. Tarr, Timofei Dokshizer, Bengt
Eklund, Yuri Klushkin, Max Sommerhalder e Vassily Pulatov.
Saratov, Russia. Settembre 1996
Con Olga Braslavsky, Anatoly Selianin e Kim Dunnick al Concorso
Internazionale per tromba “Vassily Brandt”. Saratov, Russia. Settembre 1996

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Con Olga Braslavsky (sinistra) e la Presidente dell’ITG Joyce Davis.
Togliatti, Russia. Aprile 1997

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Epilogo
La mia vita e la mia vasta esperienza musicale, descritte brevemente e con la massima
sincerità, possono essere utili a chi sta facendo o si appresta a fare un percorso simile
al mio. Vorrei ispirare gli appassionati con il mio esempio, vorrei aiutarli a
comprendere le situazioni della vita e le complessità professionali, metterli in guardia
da errori e malintesi, tenendo presente che nonostante tutte le difficoltà della nostra
attività, ogni successo, anche piccolo, è una grande ricompensa per il lavoro e la fatica
del lavoro artistico.
Ho vissuto una vita piena di duro lavoro, e mi sembra ancora priva di significato se non
prendo in mano uno strumento anche occasionalmente.
La musica è l’unico obiettivo principale su cui si è basato il mio lavoro. Ogni giorno,
dall’infanzia alla vecchiaia, lei è stata il senso della mia vita. Quando la meta si
allontanava - e la musica non è l’Olimpo, dove vivono costantemente gli Dei - ho
lavorato ancor più per non perdere la forma, per non perdere la mia stella.
Il perseguimento costante di un obiettivo mi ha salvato dalle tentazioni quotidiane,
dall’ozio e dalla vita facile, e il lavoro instancabile mi ha ricompensato con la felicità
di essere capito e ascoltato. Inoltre, il lavoro mi ha dato l’opportunità di comunicare
tantissimo con le persone, di acquisire amici e ammiratori, e mi ha aiutato a sopportare
con coraggio i colpi proibitivi del sistema in cui vivevo.
Ho dedicato la prima metà della mia vita al lavoro personale, che mi ha formato, mi ha
reso “necessario alla gente”. La seconda metà è stata dominata da tutto ciò che è
ritornato a me della mia conoscenza accumulata. Questa è una legge naturale, senza la
quale uno specialista cessa di svilupparsi: senza la nascita della propria specie, la
propria abilità decade.
Mi sono reso conto che la felicità e il significato della vita risiedono in due sostanze:
l’accumulo di conoscenza e la sua trasmissione ad una nuova generazione. E non c’è
gioia più grande dell’azione attiva, del duro lavoro, i cui frutti si possono trovare solo
dove tu stesso hai lavorato, creato, accumulato qualcosa.
Sono soddisfatto di questo risultato? Sì e no. Sono soddisfatto di aver lasciato alle
persone una musica che mi ha commosso e, spero, non lascerà gli altri indifferenti.
Non sono soddisfatto del fatto che ci sia stata poca musica veramente alta, purtroppo
non abbastanza nel repertorio trombettistico. Mi sembra che “l’età d’oro” della musica
sia irrimediabilmente sprofondata nell’oblio, e noi non siamo più destinati ad arricchire
il nostro repertorio con nuovi capolavori come la musica dei classici, dei romantici o
degli impressionisti.
Ma la vita non si ferma e non c’è posto per il mio pessimismo. La vita è eterna, quindi,
la musica è immortale, e quindi quel talento ispirato che sa assorbire tutto il suo
passato, il presente, e sa guardare con audacia al futuro non si perderà nella polifonia
dei suoni dell’Universo.

Agosto 1995

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Il mio settantacinquesimo compleanno
Il 13 dicembre 1996 dovevo festeggiare il mio settantacinquesimo compleanno. I miei
amici volevano che lo festeggiassi con loro e così mi hanno chiesto di venire a Mosca.
Ho accettato il loro invito. Nei tre giorni precedenti ho tenuto corsi di perfezionamento
per diversi giovani trombettisti russi di talento. Poi si è tenuta la cerimonia di apertura
del Terzo Concorso Annuale dei Giovani Trombettisti (l’avevano intitolato a nome mio)
svoltosi presso l’Edificio Centrale degli Artisti.
Non volevo discorsi elogiativi e regali. Ho apprezzato il gesto stesso dell’incontro con i
musicisti di Mosca che hanno voluto salutarmi con la musica! Un folto gruppo di
musicisti del Teatro Bolshoi, che attualmente lavorano lì e quelli che erano già in
pensione, si sono rivolti a me con parole e ricordi molto toccanti.
Il 15 dicembre, su suggerimento dell’attuale direttore del Teatro Bolshoi, l’eccezionale
ballerino Vladimir Vasiliev si è esibito in mio onore al Teatro Bolshoi, rappresentando
il balletto di Adam tratto dall’opera balletto Giselle. Quando io e la mia famiglia siamo
apparsi sul palchetto dello zar, tutto il cast del balletto è salito sul palco e l’intera
orchestra si è alzata insieme al pubblico. È stato indimenticabile! A volte mi è capitato
di pensare che la gente a Mosca avesse subito dimenticato il mio nome dopo il mio
trasferimento. In quel momento il mio cuore si è riempito di gratitudine per tutti coloro
che mi hanno salutato e si sono congratulati così sinceramente con me. Sono molto grato
a loro e a Mosca. Ho capito una volta per tutte che il mio cuore appartiene alla Russia!

Gennaio 1997

Celebrazione del mio 75esimo compleanno: mio fratello Vladimir,


mio nipote Alexander, io, mia moglie Monna e Anatoly Selianin

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Celebrazione del mio75esimo compleanno al Teatro Bolshoi
OPERE DI TIMOFEI DOKSHIZER
1. T. Dokshizer, The Trumpeter’s System of Complex Exercises. Francia, casa editrice
“Alphonse Leduc”. Versione francese - 1990, versione inglese - 1994.

2. Timofei Dokshizer’s Collection. 80 trascrizioni e arrangiamenti di opere di autori


russi, sovietici e stranieri. Svizzera, casa editrice “Mark Reift”, 1990-1995.

3. T. Dokshizer, From A Trumpeter’s Notebook. Mosca, casa editrice “Russian


Fanfares”, 1995.

4. T. Dokshizer, Romantic Pictures. Studi per tromba. Mosca, casa editrice “Russian
Fanfares”, 1994.

5. D. Shostakovich, Concerto per pianoforte N. 1, op.35. Arrangiamento per tromba e


orchestra di T. Dokshizer. Mosca, casa editrice “Russian Fanfares”.

6. T. Dokshizer, The Trumpeter’s Laboratory, in due volumi. Mosca, casa editrice


“Russian Fanfares”.

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