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di II livello in clarinetto
TUTTI QUANTI
VOGLION FARE JAZZ
Contaminazioni Jazz nel repertorio
clarinettistico del ’900
Matteo Spanio
Matteo Spanio
Matricola: 13122
Relatore: M. Luca Lucchetta
Tesi di Diploma Accademico
di II livello in clarinetto
Introduzione III
II
Introduzione
«Io stesso non amo follemente come Beethoven ha reso l’Inno alla gioia
di Schiller, ma anche se lo detestassi - cosa che non è - vorrei comunque
denunciare quella brutta persona che ha degradato se stesso e il brano
suonando la famosa melodia di Beethoven in un pezzo jazz chiamato I’m
so happy today in un programma radiofonico della BBC. Perché questi
demoni [...] della musica non possono tenere le mani lontane dai brani
che, alcuni membri di questa infelice generazione musicale ritengono sa-
cri? Il de-compositore in questione vede che la piena flagranza del suo
atto consiste nell’approfittare dell’enorme pubblicità del jazz per impedi-
re a migliaia di potenziali amanti della musica -ancora per lo più bambini-
di ascoltare per la prima volta una grande e famosa melodia nell’unico
luogo dove dovrebbe essere così sentita: in una sala da concerto?
Quando avevo quattordici anni scrissi la mia prima lettera alla stampa
per protestare contro l’introduzione di un tema della sinfonia Pathetique
in una pantomima di Drury Lane. Avendo io stesso, da bambino, avuto
modo di conoscere il trio della Marcia funebre di Chopin sotto forma di
una canzone comica su Li-Hung-Chang, sapevo di cosa stavo parlando e
che queste associazioni, una volta formate, non sarebbero mai state del
tutto rimosse. Mi sento così fortemente irrequieto come allora. Che tri-
buto sarà al mondo della radio quando, ascoltando la nona di Beethoven
per la prima volta, mio figlio esclamerà: “Perché, papà, stanno suonando
I’m so happy today!”»1
1
Robert Lorenz. «Jazz and the Classics». In: The Musical Times 72.1065 (1931), pp. 1024–
1024. issn: 00274666. url: http://www.jstor.org/stable/914929
III
Tutti quanti voglion fare Jazz
rifiorire (la third stream tra tutti è un esempio di questo connubio tra i generi), ma
anche quanto il jazz continui a guardare alla classica nel corso degli anni.
Nel complesso questo lavoro vuole essere un invito per i musicisti classici a ricon-
siderare la prevalenza di un genere su un altro: non solo Mozart, ma anche Benny
Goodman. La musica tradizionale non è musica meno seria di quella definita “colta”,
sono tutte espressioni di parti diverse della nostra società e possono esistere grandi
artisti tanto in un genere quanto nell’altro. Non solo è necessario rivalutare i propri
pregiudizi, ma è solo grazie a questo cambio di prospettiva che è possibile scoprire
quanto swing sia presente anche nella musica del passato: solo chi ha fatto tesoro di
esperienze classiche e jazz può utilizzare i modelli compositivi colti con il linguaggio
appropriato, troppo spesso, in entrambe le direzioni, si è assistito a esperimenti tut-
taltro che felici perché si partiva da presupposti incompleti. Ma in alcune occasioni
si può apprezzare come la conoscenza di più generi ponga le basi per i migliori suc-
cessi: si pensi al trombettista Wynton Marsalis che ha vinto contemporaneamente
un Grammy Award per la musica classica e per il jazz nel 1994.
III
Capitolo 1
«Il jazz è sinonimo di libertà. Deve essere la voce della libertà: vai là
fuori e improvvisi, e corri dei rischi, e non sei un perfezionista – lascia
che lo siano i musicisti classici.»
Dave Brubeck
All’alba del XX secolo il jazz stava nascendo come il prodotto del confronto tra
due mondi. Il popolo africano, trasportato in schiavitù, portò con sé in America
le sue tradizioni musicali native, che erano corporalmente ritmiche e vocalmente
modali; fu così che le novità musicali degli schiavi entrarono in contatto, e forse
anche in conflitto, con le convenzioni armoniche dell’Occidente. Da questa tensione
si è generato il blues, base tradizionale del jazz. Durante i primi due decenni del
ventesimo secolo l’uomo di colore in America creò una musica che esprimeva non
solo la sua potente protesta contro l’espropriazione, ma anche una nostalgia per
la bellezza dei suoi antenati; e, cosa più notevole, anche l’uomo bianco arrivò a
riconoscere nella musica dei nuovi arrivati una vitalità e una spontaneità che lui,
nella consapevolezza dell’uomo moderno, aveva perso.
1
Tutti quanti voglion fare Jazz
cisti creoli e afroamericani diventavano esperti nel suonare una varietà di strumenti,
emersero specialisti del clarinetto. Il clarinetto prediletto era quello con sistema
Albert in Do o Si♭, in quanto economico e facilmente reperibile1 .
Le occasioni per suonare non mancavano: dalle bande sui battelli del Mississippi
alle parate da strada, dove le bands spesso mettevano in atto delle vere e proprie
sfide tra loro, alle cakewalks 2 , nelle sale da ballo, alle processioni funebri o nelle
case di piacere. I membri della famiglia Tio furono tra i primi clarinettisti creoli
attivi a New Orleans e diedero luogo a una tradizione esecutiva insegnando a quelli
che divennero i protagonisti musicali delle generazioni successive. Come creoli, la
loro musica nasceva da un connubio tra la scuola francese e la nascente cultra mu-
sicale afro-americana. Louis “Papa” Tio e suo fratello Lorenzo si guadagnarono da
vivere in tournée con gruppi come i Mastodan Minstrels, l’Excelsior Brass Band e i
Georgia Minstrels durante gli anni 1880. I loro studenti più noti, Achille Baquet, e
il talentuoso e itinerante Sidney Bechet, misero più volte alla prova la pazienza di
Papa Tio. ‘Anni dopo, Sidney, con gli occhi che gli brillavano, ricordava le grida di
dissenso di Papa Tio: "No! No! No! Non abbaiamo come un cane o miagoliamo
come gatti!"’3 . Lorenzo Tio insegnò a Louis ’Big Eye’ Nelsonn de Lisle i cui impegni
includevano l’Orchestra Imperiale e l’Orchestra Superiore a New Orleans. I clarinet-
tisti Alphonse Picou e Charles McCurdy erano allievi di Tio, così come i clarinettisti
creoli Barney Bigard, Albert Nicholas e Buddy Petit. Il famoso assolo di Picou in
“High Society” ha stabilito uno stile che è stato ampiamente emulato e la tecnica
fluida e spianata di Barney Bigard può essere apprezzata nelle registrazioni della
band di Duke Ellington (1928-1942) e All Stars di Louis Armstrong (1946-1955).
Albert Nicholas, dopo anni di esibizione con King Oliver e Luis Russell, seguì Be-
chet a Parigi e in seguito si trasferì in Svizzera dove la sua popolarità non tramontò
mai.
1
Eric Hoeprich. The Clarinet. Norfolk, England: Yale University Press, 2008, p. 306.
2
Il cakewalk o cake walk era una danza sviluppatasi dalle "passeggiate a premio" (concorsi
di ballo con una torta assegnata come premio) tenutosi a metà del XIX secolo, generalmente in
occasione di riunioni nelle piantagioni di schiavi neri prima e dopo l’emancipazione nel sud Stati
Uniti. I nomi alternativi per la forma originale della danza erano "passeggiata con il gesso" e
"camminata intorno". In origine era una danza processionale del partner ballata con formalità
comica, e potrebbe essersi sviluppata come una sottile presa in giro delle danze di maniera dei
proprietari di schiavi bianchi. Dopo un’esibizione del cakewalk alla Centennial Exposition del 1876
a Filadelfia, il cakewalk è stato adottato dagli artisti negli spettacoli di menestrelli, dove è stato
ballato esclusivamente da uomini fino al 1890. A quel punto, gli spettacoli di Broadway con le
donne iniziarono a includere i cakewalks e le danze grottesche divennero molto popolari in tutto
il paese. I passi fluidi e aggraziati della danza potrebbero aver dato origine al colloquialismo che
qualcosa realizzato con facilità è una "passeggiata". Questo genere ebbe un così grande successo
che venne adottato come vera e propria forma musicale da compositori europei come Debussy
(l’argomento è trattato più approfonditamente alla sezione 2).
3
John Clinton. Sidney Bechet: Wizard of Jazz. London: Macmillan, 1987, p. 7.
2
Tutti quanti voglion fare Jazz
4
Charles E. Kinzer. «The Tios of New Orleans and Their Pedagogical Influence on the Early
Jazz Clarinet Style». In: Black Music Research Journal 16 (1996), p. 287.
5
Barney Bigard. With Louis and the Duke: The Autobiography of a Jazz Clarinetist. A cura di
W. W. Norton & Co Inc. Mcmillan, 1985, p. 63
6
Kinzer, «The Tios of New Orleans and Their Pedagogical Influence on the Early Jazz Clarinet
Style», pp. 291–2.
7
Uno dei clarinettisti più noti al pubblico che oggi suona ancora il clarinetto con sistema Albert
è il famoso regista Woody Allen. Hoeprich, The Clarinet, p. 307
8
Johnny Dodds (12 aprile 1892 – 8 agosto 1940) è stato un clarinettista jazz e sassofonista
americano con sede a New Orleans, noto soprattutto per le sue registrazioni a suo nome e con
gruppi come quelli di Joe "King" Oliver, Jelly Roll Morton, Lovie Austin e Louis Armstrong.
Dodds è una figura importante nella storia del jazz: è stato descritto come "un primo architetto
nella creazione dell’era del jazz".
3
Tutti quanti voglion fare Jazz
Armstrong negli Hot Five, hanno un suono ruvido, quasi fuori controllo messo a
confronto con i creoli come Jimmy Noone9 , dallo stile più raffinato.10
4
Tutti quanti voglion fare Jazz
1890. Il loro approccio prevedeva una forma musicale più strutturata con meno
assoli, rendendo la musica più accessibile al pubblico in generale. Ed è stato forse il
clarinettista bianco, Mezz Mezzrow, a riassumere in modo più appropriato la vitalità
contagiosa della scena di New Orleans:
«That was what New Orleans was really saying - it was a celebraion of
life, of breathing, of music-flexing, of eye-blinking, of licking-the-chops,
in spite of everything the world might do to you. It was a defiance of
the udertaker. It was a refusal to go under, a stubbon hanging on, a
shout of praise to the circulatory system, hosannas for the sweat-glands,
hymns to the guts that ache when they are hollow. Glory be, brother!
Hallelulah, the sun’s shining!»16
Il successo de l’Original Dixieland Jazz Band fu presto seguito dai New Orleans
Rhythm Kings, formati negli anni ’20 con il clarinettista Leon Rappolo. Entrambi i
gruppi hanno girato il paese e hanno influenzato lo stile del prossimo grande centro
del jazz: Chicago. A questo punto, i musicisti di New Orleans avevano iniziato
a migrare verso nord, a causa del proibizionismo e della chiusura di Storyville, il
quartiere a luci rosse di New Orleans. New Orleans Band di King Oliver, Red Hot
16
Hoeprich, The Clarinet, p. 308
5
Tutti quanti voglion fare Jazz
Peppers di Jelly Roll Morton eNew Orleans Wanderers di Johnny Dodds, sono stati
tutti successi a Chicago negli anni ’20.
Tre clarinettisti a Chicago furono particolarmente influenti all’inizio: Frank Te-
schemacher, Jimmy Dorsey e Pee Wee Russell, e fu Teschemacher che incoraggiò il
giovane Benny Goodman durante le jam session a tarda notte negli anni ’30. In
questo ambiente musicale Benny Goodman ha fatto il suo apprendistato, trovandosi
con la band a notte fonda, spesso improvvisando fino all’alba.
6
Capitolo 2
Igor Stravinskij
Visto lo straordinario successo del Jazz in America, il nuovo genere non tardò a
presentarsi nel vecchio continente: la Rag music e il suo predecessore, il cakewalk
(che durò solo per il primo decennio del ventesimo secolo), furono i primi esempi di
musica nera a raggiungere un’ampia popolarità internazionale e una distribuzione
commerciale.1
C’era un enorme fascino per il ragtime in Europa. Diversi fattori hanno contri-
buito a questo entusiasmo, uno dei quali è stata la grande diffusione degli spartiti
tra il 1895 e il 1915. Le opere ragtime, a volte incorporando la parola “cakewalk” nei
loro titoli, erano disponibili in spartiti pubblicati per pianoforte e numerosi adatta-
menti per ensemble strumentali. Nel 1901 apparve un resoconto di un compositore
tedesco-americano, il cui ultimo pezzo ragtime, Hunky-Dory (incorporando temi di
Dvorak), doveva essere "prodotto simultaneamente in Inghilterra, Francia e Ger-
mania entro il mese successivo".2 In un giornale tedesco del 1903 si parlava della
popolarità della cakewalk nelle sale da musica di Parigi e nei salotti più eleganti;
infatti si includeva la musica “Cakewalk, Americanischer Negertanz von Kerry Mills”
con illustrazioni3 .
Addirittura il cakewalk è stato, anche se per poco, il ballo di società più popolare
in Inghilterra, dove ha raggiunto Londra nel 1896 attraverso le prime pubblicazioni4 .
A volte c’erano persino articoli dettagliati, quasi accademici, che descrivevano non
1
Frank Tirro. Jazz: A History. New York, 1977, p. 88.
2
M. H. R. «A German Composer». In: New York Herald (Gennaio, 13, 1901), p. 3.
3
«Der Cakewalk». In: Illustrirte Zeitung Feb. 5 (1903), p. 204.
4
Rudi Blesh e Harriet Janis. They All Played Ragtime. New York, 1950, p. 76.
7
Tutti quanti voglion fare Jazz
8
Tutti quanti voglion fare Jazz
(c) Poster del 1896 che invita alla partecipazione a una gara di cakewalk
Figura 2.1: Contesti vari in cui si presentano pubblicità legate alla cakewalk
9
Tutti quanti voglion fare Jazz
9
La faccenda viene discussa più nel dettaglio alla sezione 2.1.1
10
Tutti quanti voglion fare Jazz
[...]»10
Nello specifico: gli studi per pianoforte a rullo vennero scritti nel 1917, mentre
L’Histoire du Soldat, il primo dei lavori di Stravinskij che faccia uso di tecniche e
sonorità jazz venne scritto nel 1918. L’orchestrazione di questo pezzo si ispira alle
orchestrine Dixieland, anche se probabilmente Stravinskij non ne aveva mai sentita
una. Ad ogni modo il fatto di maggior interesse è che Stravinskij dia a quest’organico
un tono ironico e cinico, in contraddizione con lo spirito che sprigionano le jazz band;
ciò è dovuto nuovamente alla rappresentazione alla quale è legata questa musica, il
principio di negazione, che vede in gioco il Diavolo stesso che corrompe l’animo del
soldato impossessandosi del suo violino. Forse si potrebbe parlare di un uso anti-
jazzistico del jazz: in questo caso i ritmi ossessivi non animano i corpi per ballare
vivacemente, piuttosto sono legati a un senso di cinicità, ma allo stesso tempo la
musica è la chiave di tutto ed è proprio nella scena del Ragtime che il soldato guarisce
e sposa la principessa. La verve dei complessi di New Orleans è molto distante da ciò
che esprime Stravinskij, che esplora invece le capacità grottesche del jazz, ad ogni
modo Stravinskij era cosciente di questo fatto, in effetti si esprime così riguardo
l’autenticità del suo jazz:
I primi pezzi di musica pura legati al jazz sono il Ragtime per undici strumenti
e i Three Pieces for Clarinet Solo, in cui lo spirito grottesco viene mitigato da
un senso clownesco della faccenda, che con poco sforzo si potrebbe associare alle
situazioni surreali dei film di Chaplin. Il Piano Rag Music dell’anno successivo ha
un tono più positivo, le idee compositive maturano e Stravinskij tenta di creare (a
partire dalle stesse sonorità dei cluster del Tango de L’Histoire) un pezzo pianistico
che dia più respiro a una situazione improvvisativa: l’omissione della divisione in
battute incoraggia a eseguire con più libertà, con scompiglio, come se la musica
venisse improvvisata. Ovviamente il risultato sonoro è comunque molto distante dai
ragtime americani in quanto il ritmo swing caratteristico del jazz è completamente
assente.
Dopo gli anni della prima guerra Stravinskij abbandona un po’ alla volta la
scrittura jazzistica, fino al 1945 in cui scrive l’Ebony Concerto, dedicato all’orche-
stra di Woody Herman. Dal momento che sono passati più di vent’anni dai primi
10
Vera Stravisky e Robert Craft. Stravisnky in Pictures and Documents. A cura di Simon e
Schuster. 1978, p. 151
11
Igor Stravisnky e Robert Craft. Dialogues and a Diary. Garden City, N.Y.: Doubleday, 1963,
p. 87
11
Tutti quanti voglion fare Jazz
«my knowledge of jazz was derived exclusively from copies of sheet music,
and as I had never actually heard any of the music performed, I borrowed
its rhythmic style, not as played, but as written. I could imagine jazz
sound, however, or so I liked to think. Jazz meant, in any case, a wholly
new sound in my mind, and Histoire marks my final break with the
Russian orchestral school [...]»14
ma rivolgendosi a Edward Evans afferma che i Three Pieces sarebbero ispirati dal
Characteristic Blues di Sidney Bechet. Cosa che sappiamo non essere possibile in
quanto il primo viaggio in Europa di Bechet è avvenuto nel 1919 come musicista della
Will Marion Cook’s Southern Syncopated Orchestra15 , e non poteva neppure averne
sentito una registrazione, in quanto il Characteristic Blues non venne registrato
prima del 193716 . Ciò evidenzia che se già durante la vita dell’autore non vi fosse
chiarezza riguardo la motivazione della nascita di questi pezzi, tanto più oggi, ad
anni dalla morte di Stravinskij, il tentativo di ricondurre la scrittura di quest’opera
ad un significato particolare risulta quantomeno difficile, se non insensato.
12
Richard Taruskin. «Stravinsky and the Russian Traditions». In: 2 (1996)
13
Derek Emch. «But What is it Saying? Translating the Musical Language of Stravinsky’s
Three Pieces for Clarinet Solo». In: OpenSIUC, Graduate Student Work (2012). url: http :
//opensiuc.lib.siu.edu/music_gradworks/5
14
Igor Stravisnky e Robert Craft. Expositions and Developments. Garden City, N.Y.: Doubleday,
1962, p. 103
15
Heyman, «Stravinsky and Ragtime», p. 548
16
Sidney Bechet. Characteristic Blues. Variety, DCXLVIII. 1937, eseguito da Noble Sissel’s
Swingsters con Sidney Bechet
12
Tutti quanti voglion fare Jazz
Non rimane altro allora che guardare alla musica stessa per trovarvi il suo si-
gnificato: una testimonianza che ce ne dà conferma è quella di Rosario Mazzeo, ex
clarinettista alla Boston Symphony, il quale racconta sulla rivista The Clarinet che
lo stesso Stravinskij gli avrebbe detto: “qualunque cosa da cui [Stravinskij] fosse
stato influenzato mentre scriveva per il clarinetto era chiaramente indicato dai segni
presenti nel testo musicale”.17
2.1.2 Genesi
I Three Pieces for Clarinet di Stravinskij furono composti a Morges18 nel 1918,
eseguiti per la prima volta l’8 novembre 1919 da Edmond Allegra e pubblicati da J.
& W. Chester, Ltd. a Londra e Ginevra nel 1920.
L’opera venne composta per Werner Reinhart, un filantropo svizzero di Winter-
thur19 , anche clarinettista dilettante20 , che finanziò le spese per la realizzazione de
L’Histoire du Soldat. Nella sua autobiografia Stravinskij dice così riguardo l’Histoire:
13
Tutti quanti voglion fare Jazz
ruolo del clarinetto nel Ragtime è quello di arricchire, attraverso interventi motivici,
la linea del violino. Un inciso in particolare salta all’occhio perchè appare anche
nel secondo dei Three Pieces (figura 2.2a). Inoltre il frequente utilizzo del ritmo
sincopato nel Ragtime e il terzo pezzo evidenzia un altro punto in comune (figura
2.2b).
Figura 2.2
Non è un caso se Richard Taruskin si riferisce ai Three Pieces for Clarinet come
quell’affascinante appendice dell’Histoire du Soldat 25 .
14
Tutti quanti voglion fare Jazz
Figura 2.3: Incipit del terzo pezzo con individuazione del semitono che ascende
cromaticamente
Questi accordi (si veda figura 2.4a) rivelano un’insistenza sulla bimodalità: il
primo è semplicemente Re maggiore, ma gli altri alternano velocemente la terza
cambiando il modo dell’accordo, si ha quindi La minore/maggiore e poi subito Sol
minore/maggiore (battute 11-13). La stessa cosa avviene dopo, alle battute 25-29 e
50-51, dove occorrono simili punti strutturali.
A battuta 14 si assiste a una specie di ripresa dell’incipit su La♭/Si♭, questa volta,
dove prima c’era un Do♯, adesso è scritto Do♮. Così facendo Stravinskij evita di far
ripartire la progressione per semitoni descritta prima, non essendoci un’apertura
allora la frase si chiude in una battuta e mezza. Da qui si apre una specie di sezione
27
Ibid., p. 1484.
15
Tutti quanti voglion fare Jazz
Figura 2.4: Incisi in cui si alternano rapidamente entrambe le modalità sullo stesso
accordo
Figura 2.5: Gruppi di 3 sedicesimi in 2 quarti, stilema tipico della pronuncia jazz
16
Capitolo 3
Duke Ellington
1
si veda la sezione 4.2 per avere un’immagine più dettagliata
2
Eric Tishkoff. Sonatina for Clarinet and Piano by Bohuslav Martinu. 2001. url: http :
//www.tishkoff.com/articles/martinu.htm.
17
Tutti quanti voglion fare Jazz
cattura una qualità importante e costante sia del compositore che della sua musica:
che erano legati alla sua nativa Cecoslovacchia.
Nato nel 1890, Martinů trascorse i suoi primi 11 anni vivendo con la sua famiglia
in cima al campanile di trenta metri della cittadina. Questa separazione dalla città e
dalle sue attività, la vista dall’alto, sembrava dare il tono per il resto della sua vita.
Martinů apprezzava la solitudine e durante il suo tempo da solo leggeva voracemente
oltre a comporre. In effetti, spesso l’uno ispirava l’altro. Le idee musicali sia per
opere puramente strumentali che per quelle drammatiche sembravano scaturire dalla
sua lettura della filosofia orientale e occidentale, dalla fisica di Albert Einstein e da
uno qualsiasi dei numerosi altri argomenti eruditi.3
Martinů si trasferì a Praga all’età di 16 anni per studiare al Conservatorio. Era
tutt’altro che uno studente modello, e in seguito spiegò che il corso di studi era
troppo rigido. Il Conservatorio, tuttavia, gli ha fornito la sua prima esposizione
a Debussy, la cui musica ha avuto un impatto immediato su Martinů e il suo stile
compositivo in erba. Dopo aver trascorso gli anni della guerra a comporre e insegnare
a Policka, si trasferì a Parigi all’età di 23 anni.
Mentre Policka e Checkoslavakia erano sempre la sua vera casa, Parigi era un
luogo relativamente felice per Martinů. Continuò a studiare e comporre. A Parigi
conobbe la musica di Stravinsky e varie tendenze musicali moderniste, anche questi
successivamente incorporati nel suo stile. L’assalto dell’esercito tedesco gli fece
lasciare la Francia e l’Europa nel 1941.
Martinů sbarcò negli Stati Uniti dove rimase per i successivi 12 anni. Fu allora,
all’età di 51 anni, che si avvicinò per la prima volta al genere della sinfonia. Il
suo tempo negli Stati Uniti è stato dedicato alla composizione, alla lettura e all’in-
segnamento. A Martinů non piaceva vivere negli Stati Uniti, trovandolo un posto
piuttosto disumano rispetto alle città affettuose che amava in Europa.4 Un grave
incidente nel 1946 smorzò temporaneamente la sua composizione e i suoi piani di
tornare in Europa. Nonostante l’incidente e il suo desiderio di andarsene, il suo
tempo negli Stati Uniti è stato molto produttivo e ha visto la genesi di molte delle
sue opere più grandi e più apprezzate.
Quando le condizioni in Europa finalmente lo permisero, nel 1953, Martinů si
trasferì di nuovo in Francia. Tornò negli Stati Uniti nel 1955 per prendere un lavoro
a Filadelfia, ma si ricordò rapidamente quanto non gli piacesse vivere negli Stati
Uniti. Nel 1956 si trasferì a Roma, e nel 1958 a Basilea, dove morì di cancro allo
stomaco nell’agosto del 1959.
Miloš Šafránek. «Bohuslav Martinů». In: The Musical Quarterly 29.3 (1943), pp. 329–354.
3
18
Tutti quanti voglion fare Jazz
3.1.1 Sonatina
Martinů scrisse la Sonatina per clarinetto e pianoforte nel 1956 durante un soggior-
no a New York. Il pezzo è raramente citato al di fuori del mondo del clarinetto e
apparentemente non occupa un posto speciale tra la prolifica produzione del com-
positore. Le sei sinfonie e altre opere orchestrali, operistiche e corali su larga scala
come Gilgamesh sono le opere per le quali Martinů ha ricevuto i maggiori e du-
raturi riconoscimenti, eppure si possono riconoscere diversi tratti interessanti tipici
dell’autore nella sonatina.
La Sonatina rivela l’influenza del neoclassicismo di Francis Poulenc e Igor Stra-
vinsky e la "ricca tavolozza di toni-colori" di Claude Debussy. È pieno di danze
(polka) e ritmi di marcia e corse virtuosistiche. Passaggi di natura allegra conte-
nenti sincopi inaspettate si alternano a momenti lirici più dal tono meno allegro.
In questa musica si può vedere la nostalgia del compositore per il tempo più felice
e produttivo che aveva trascorso a Parigi (1923-1940), anni pieni di vivaci intera-
zioni con il gruppo di "Les Six". Nonostante la sua eleganza e finitura, la musica
abbraccia anche la forza appassionata delle sue radici ceche.5
Il pezzo è scritto come un movimento continuo composto da sezioni contrastan-
ti. Nella Sonatina, come del resto in gran parte della produzione del compositore,
Martinů evita le forme musicali standard. Questa era una caratteristica della sua
musica all’inizio, che è in gran parte ciò che lo ha messo nei guai con i suoi professori
mentre era studente al Conservatorio di Praga. Di conseguenza, le sue opere, a volte,
sono in qualche modo flussi di coscienza, con le relazioni tra una sezione e l’altra
difficili da cogliere per gli ascoltatori, o, forse, genuinamente tenui.6 La Sonatina
conferma le abitudini del compositore e si può notare nella struttura formale non
divisa in movimenti (anche se comunque ternaria) e il contenuto: per esempio quello
che potrebbe essere individuato come il pimo movimento presenta una ripresa come
da prassi della forma sonata in cui però il materiale è ripetuto pedissequamente,
senza alcuna variazione melodica o armonica fino all’inciso conclusivo.
19
Tutti quanti voglion fare Jazz
Figura 3.1: Momento di passaggio da una fase di ritmi concitati alla melodia per
valori lunghi
20
Tutti quanti voglion fare Jazz
Quali sono quindi gli elementi jazzistici di questa sonatina dal sapore neoclassico?
Chiaramente l’aspetto ritmico del sincopato e la frequente irregolarità degli accenti
sono un forte rimando ai ritmi che l’autore deve aver sentito nel soggiorno americano,
inoltre la sezione intermedia in cui primeggiano le volatine del clarinetto sul tappeto
sonoro del trillo eseguito al pianoforte lasciano spazio a un sentore improvvisativo,
che non è esclusivo del jazz, ma ne coglie in pieno la libertà espressiva.
21
Tutti quanti voglion fare Jazz
3.2.1 Sonatina
La Sonatina (1981) è una delle numerose opere scritte come risultato di una continua
amicizia tra Horovitz e il clarinettista Gervase De Peyer. I due si conobbero al RCM
quando erano studenti (De Peyer ha studiato clarinetto con Frederick Thurston), e
poi a Parigi (dove De Peyer studiò con Louis Cahuzac). L’opera è dedicata alla
moglie di Horovitz, Anna.
Horovitz fornisce una descrizione della Sonatina prima della partitura:
Ernest Bradbury. «Joseph Horovitz: A Survey». In: The Musical Times 111.1526 (1970),
8
22
Capitolo 4
Virgil Thomson
23
Tutti quanti voglion fare Jazz
senso funge da specchio musicale, riflettendo chi e cosa erano gli americani nei vari
decenni. Gli anni ’20, ad esempio, rimandano a immagini di persone che ballano
sulla melodia "Charleston", composta dal pianista jazz James P. Johnson, e di gente
del centro che va al Cotton Club di Harlem per ascoltare Duke Ellington suonare
"It Don’ t Mean A Thing If It Ain’t Got That Swing." E i pensieri degli anni
’30 ci ricordano il modo in cui gli americani e altri ballavano sulla musica delle
grandi band swing. Non importa quando o dove viene composto o eseguito, dai "bei
vecchi tempi" al presente, il jazz, l’onnipresente musica americana parla a e per ogni
generazione, specialmente la generazione che la crea.
È infatti qui che ricade la nostra attenzione: cosa rende una musica americana?
Qual è il principale carattere che fa distinguere il terzo dei tre pezzi per clarinetto
di Stravinskij con le improvvisazioni di Sidney Bechet? La risposta è il ritmo e la
regolarità degli accenti. La musica jazz nasceva come musica per le gambe e per i
piedi, mentre nel vecchio continente la musica colta andava ascoltata con la testa.
Questo fa sì, come si è osservato in Stravinskij, che le “imitazioni” europee acquisis-
sero i nuovi stilemi compositivi riportando nella propria musica esclusivamente delle
variazioni ritmiche ma senza cambiare il proprio accento. Un po’ come quando si
sente parlare una persona straniera la propria lingua, nella maggior parte dei casi si
noterà una gran quantità di accenti sbagliati!
24
Tutti quanti voglion fare Jazz
1
Il primo concerto di musica jazz mai eseguito al Carnegie Hall, che contribuì a sdoganare il
genere anche nelle sale da concerto più prestigiose.
25
Tutti quanti voglion fare Jazz
minuti.
Goodman apprezzava anche il repertorio tradizionale, come le opere di Mozart
e Weber, così come molte delle principali opere solistiche del XX secolo: Milhaud,
Nielsen, Poulenc, Debussy e Stravinskij - che ha anche registrato. Ha commissionato
nuovi lavori a Béla Bartòk, Aaron Copland e Paul Hindemith. Contrasts di Bartòk
(1938) furono eseguiti per la prima volta da Goodman col violinista Joseph Szigeti
e il pianista Endre Petri nel 1939 alla Carniegie Hall. Assicurato da Szigeti, che ha
facilitato la commissione, che “qualunque cosa un clarinetto sia fisicamente in grado
di fare, Benny può tirarla fuori dallo strumento, e meravigliosamente...” Bartòk ha
colto l’occasione e ha scritto un pezzo il doppio della durata concordata, richiedeva
sia un clarinetto in si bemolle che in la. L’idioma non era familiare e Goodman ha
osservato della partitura "sembrava di vedere una nuvola di mosrche su delle len-
zuola", ma è un contributo superbo al repertorio. Altre due commissioni Goodman,
opere soliste di Aaron Copland e Paul Hindemith, furono completate nel 1947.2
I leader di jazz band e clarinettisti Artie Shaw
(1910-2004) e Woody Herman (1913-1987) si sono
mossi in direzioni contrastanti nel corso della loro
carriera. Shaw, irrequieto e progressista, cambiava
spesso il personale nelle sue band, sempre alla ricer-
ca di nuove sonoritá.3 Come Benny Goodman, Shaw
ha assunto musicisti afroamericani in un momento
in cui era considerato controverso. Billie Holiday, i
trombettisti Hot Lips Page e Roy Eldrige andarono
in tournée con Shaw negli anni ’30. La sua musi-
ca differiva da quella di Goodman e spesso il grande
pubblico si divideva in battaglie di preferenze degli
idoli, ma nel controllo e virtuosismo non vi era alcun
dubbio che Artie Shaw fosse il primo. Una serie di
Figura 4.2: Artie Shaw successi, Begin the Beguine, Frenesi e Stardust, ha
reso Shaw un nome familiare. L’altissimo do alla fi-
ne del suo Concerto per clarinetto è diventato leggendario, così come il suo senso
del tempo e la sua disinvoltura. Senza contare poi le relazioni con le grandi star di
Hollywood, come Lana Turner e Ava Gardner, che aggiungevano prestigio a Shaw.
Anche la sua rivalità con Benny Goodman era leggendaria. In un momento di slan-
cio critico, Shaw una volta osservò di Goodman: “Tu suoni il clarinetto. Io faccio
musica”.4 Le pressioni della celebrità e la difficoltà ad affrontare le vicissitudini del
2
Hoeprich, The Clarinet.
3
Ibid.
4
Ibid.
26
Tutti quanti voglion fare Jazz
mondo della musica sono descritte in un candido resoconto delle sue esperienze, The
Trouble with Cinderella (1952). Shaw si ritirò dal palco nel 1955, passando a una
carriera di successo nella scrittura e produzione di film.
27
Tutti quanti voglion fare Jazz
del boogie-woogie è un dialogo solo tra batteria e clarinetto, dopo questo segue una
piccola conversazione tra tromboni e sassofoni tenore. In seguito a questo scambio
tra questi due strumenti, ricompare il clarinetto che esegue 5 volte lo stesso moti-
vo musicale e un glissando di un’intera ottava che conduce il concerto alla cadenza
finale.
Il concerto termina con una cadenza più lunga delle precedenti: inizia come
la prima, con gli accordi e il clarinetto che fanno una frase in risposta ad essi; ma
termina con una variazione di una scala cromatica per ottave. Questa variante inizia
con un Sol5 del registro acuto del clarinetto e termina con un Do6 del registro acuto
del clarinetto. Una fine considerata epica da molti interpreti di questo concerto.
Analisi musicale Come molte altre composizioni jazz, la maggior parte dei con-
certi di Artie Shaw segue una delle progressioni blues standard di 12 battute.
I7 I7 I7 I7
IV7 IV7 I7 I7
V7 V7 I7 I7
Ma Artie Shaw introduce alcune variazioni armoniche per contrastare e distin-
guersi da molti altri pezzi in stile Jazz Blues. Il brano inizia con quattro accordi
separati da una terza discendente minore che si risolve al V grado della tonalità
28
Tutti quanti voglion fare Jazz
29
Tutti quanti voglion fare Jazz
Riduzione per il film Swing Romance Nel 1940 uscì un musical con Paulette
Goddard e Fred Astaire intitolato Swing Romance. In ruoli secondari erano Artie
Shaw con Burgess Meredith e Charles Butterworth. In una delle scene, Artie Shaw
e la sua orchestra hanno eseguito il concerto per clarinetto. Ma poiché la versione
originale del concerto dura troppo, i produttori musicali di Swing Romance hanno
chiesto a Shaw se poteva abbreviare il pezzo. Artie Shaw ha accettato ed è riuscito a
farlo durare 3 minuti e mezzo mantenendo gli aspetti più importanti del suo concerto:
l’introduzione, le nette differenze tra cadenze e boogie e la cadenza finale.
Robert C. Ehle. «JAZZ CLASSICS or CLASSICAL JAZZ: The Story of Thrid Stream Jazz».
5
In: American Music Teacher 22.1 (1972), pp. 22–31. issn: 00030112. url: http://www.jstor.
org/stable/43533895, p. 22.
30
Tutti quanti voglion fare Jazz
È quindi con questi compositori che si confrontano Woody Herman e Benny Good-
man. Fu infatti Goodman a commissionare il concerto per clarinetto di Copland ed
ha ricevuto la dedica di Bernstein nel brano Prelude, Fugue & Riffs, mentre Woody
Herman commissionò il già citato Ebony Concerto a Stravinskij.
Figura 4.4: La prima pagina del manoscritto di Bernstein della sonata per clarinetto
31
Tutti quanti voglion fare Jazz
A C invece emerge la tecnica del glissando, che ricorda una sonorità “à la Ger-
shwin”. In questa sezione Bernstein spazia anche tra le possibilità dinamiche del
Lars Erik Helgert. Jazz Elements in Selected Works of Leonard Bernstein. 2009. url: https:
6
//books.google.com/books?id=fqCMGw0dfocC&printsec=frontcover#v=onepage&q&f=false.
32
Tutti quanti voglion fare Jazz
clarinetto accostando battute di forte e piano per sfruttare gli estremi solistici dello
strumento.
La sezione intermedia riprende il tema iniziale e lascia spazio alle possibilità più
liriche del clarinetto, infatti dalla lettera N alla O ci sono punti in cui il clarinetto
può raggiungere diversi toni di colore. Le dinamiche e l’indicazioneechotone creano
un effetto misterioso (che ricorda molto il primo movimento del concerto di Copland
per clarinetto del 1948).
Dopo questa sezione ritorna il ritmo incalzante del Vivace, il glissando à la Ger-
shwin e il basso irregolare. Il pezzo procede in 85 fino alla fine. Per avere successo
nell’esecuzione di questo pezzo, è necessario conservare un po’ di energia dinamica
e solistica fino alla fine del pezzo.
È da segnalare che tre scale utilizzate o implicate nell’opera si ritrovano scale
pentatoniche, blues e ottatoniche. I musicisti classici dovrebbero essere informati su
queste scale che fanno parte del linguaggio di un musicista jazz, e un altro modo in
cui la Sonata di Bernstein attraversa i confini musicali dalla classica al jazz.
33
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