Sei sulla pagina 1di 286

Šostakovic

Continuità nella musica, responsabilità nella tirannide


NOVECENTO

Il libro nasce dal proposito di analizzare e spiegare il significato com-


plessivo della lunga vicenda esistenziale e creativa di Dmitrij Šosta-

øocòàêîâè÷
kovič, nato suddito dello zar in una famiglia di intellettuali di sinistra,
formatosi come musicista negli anni che seguono immediatamente la
Rivoluzione d’Ottobre e che vedono scoppiare la guerra civile, affer-
matosi come compositore nel momento di una battaglia ideologica fra
sostenitori di opposte visioni di quello che si doveva fare per creare la
nuova musica “sovietica”, tenuto poi a seguire l'interpretazione che di
questo problema veniva raggiunta non attraverso il libero dibattito ma
secondo le precise direttive del Partito Comunista, accusato di devia-
zionismo sulla Pravda, riabilitato, diventato durante la guerra il porta-

Šostakovic
voce musicale della nazione in armi, nuovamente accusato insieme con
molti colleghi e nuovamente riabilitato, insignito delle più alte ono-
rificenze di stato, iscritto tardivamente, a quarantaquattro anni, al
Partito Comunista, inserito come elemento di spicco nella ufficialità di
regime, morto a sessantanove anni dopo una lunga malattia ed esaltato
in morte come il più perfetto rappresentante nella musica dell'homo
novus sovietico. Difficile trovare una vita più turbinosa di questa, arduo
interpretarla. E le interpretazioni sono perciò tutt'altro che univoche.
Contrariamente a quanto si sostiene comunemente — e cioè che Šosta-
kovič conducesse in pratica una doppia vita, apparendo da un lato come
uomo dell’apparato e riservando dall’altro alla confidenza di pochi
amici i suoi veri sentimenti di radicale antistalinista e anticomunista,
ma manifestandoli invece in modo criptico nella sua musica — l’Autore
ritiene che Šostakovič riuscisse a mantenere integri la sua coscienza e i
valori fondamentali nei quali credeva e che lo guidavano, navigando Piero Rattalino
attraverso gli scogli della sua esistenza di uomo pubblico in un paese
totalitario e di musicista alle prese con una crisi del linguaggio che
sconvolgeva la storia dell'arte alla quale si era votato, e dando a se
stesso e a tutti le risposte sui cinque problemi fondamentali — Verità,
Amore, Creazione, Morte, Immortalità — che aveva affrontato in pro-
fondità negli ultimi anni di vita.
Piero Rattalino
Šostakovic
Continuità nella musica,
responsabilità nella tirannide
ISBN 978-88-6540-024-1

Zecchini Editore
Zecchini Editore

25,00 (IVA ASSOLTA DALL’EDITORE) 9 788865 400241

CYANMAGENTAYELLOWBLACK
PIERO RATTALINO

Šostakovič
Continuità nella musica,
responsabilità nella tirannide
È vietata la riproduzione sia pure parziale di testi, fotografie, tavole o altro materiale contenuto in questo
libro senza autorizzazione scritta dell’Editore. Per eventuali e non volute omissioni di fonti citate e per gli
aventi diritto l’editore dichiara la propria completa disponibilità. Le opinioni espresse nel presente libro
coinvolgono esclusivamente gli autori e il curatore.

In copertina: Dmitrij Šostakovič, foto Archivio Rivista Musica.

Collana: Novecento, 3

# 2013 Zecchini Editore


Zecchini Editore - Via Tonale, 60
21100 Varese (Italy)
Tel. 0332 335606 - 331041 - Fax 0332 331013
http://www.zecchini.com - e-mail: info@zecchini.com
1 Tutti i diritti riservati
Prima edizione: febbraio 2013

ISBN: 978-88-6540-024-1

Impaginazione, impianti pre-stampa:


Datacompos srl - Varese
Questo volume è stato stampato presso:
Tipografia Galli e C. - Varese
Stampato in Italia - Printed in Italy
NOVECENTO
3
iv Š O S T A K O V I Č

La collana ‘‘Novecento’’
‘‘Novecento’’ è la collana
dedicata al secolo scorso, tanto dibattuto
quanto non ancora accuratamente esplorato.
Documenti storici, analisi approfondite, attraverso la musica,
protagonista della storia prima, durante e dopo le due guerre mondiali.

1. 2. 3.
Misha Aster Audrey Roncigli Piero Rattalino
L’Orchestra del Reich Il caso Furtwängler Šostakovicˇ
2011 2013 2013
INDICE SOMMARIO v

INDICE SOMMARIO

Premessa: Il qui pro quo del dottor Faust ................... 3

Capitolo I. Una tranquilla famiglia di rivoluzionari borghesi . 6

Capitolo II. Studiare e comporre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

Capitolo III. Studiare e suonare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18

Capitolo IV. Sinfonia n. 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25

Capitolo V. Anni felici (I) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34

Capitolo VI. Nascita di un drammaturgo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40

Capitolo VII. Anni felici (II) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47

Capitolo VIII. Camminando verso il baratro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55

Capitolo IX. L’inquisizione batte un colpo .................... 66

Capitolo X. Riscatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75

Capitolo XI. Sinfonia di Leningrado . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84

Capitolo XII. Fine della guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94

Capitolo XIII. Come celebrare la vittoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103

Capitolo XIV. L’inquisizione all’opera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112

Capitolo XV. L’espiazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120

Capitolo XVI. Confrontarsi con Bach ............................ 129

Capitolo XVII. Ritorno alla sinfonia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135


vi Š O S T A K O V I Č

Capitolo XVIII. Il disgelo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143

Capitolo XIX. Sinfonia come poema sinfonico (I) ............. 152

Capitolo XX. Quartetto come autobiografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162

Capitolo XXI. Sinfonia come poema sinfonico (II) . . . . . . . . . . . . . 174

Capitolo XXII. Elogio del ribelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185

Capitolo XXIII. ‘‘Penso molto alla vita, alla morte e alla carriera’’ 196

Capitolo XXIV. ‘‘Tuttavia’’... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206

Capitolo XXV. ‘‘Der tod ist gross’’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217

Capitolo XXVI. Kurgan, il cammino della speranza . . . . . . . . . . . . . . 227

Capitolo XXVII. ‘‘Verità, amore, creazione, morte, immortalità’’ 238

Capitolo XXVIII. Congedo in compagnia di Beethoven . . . . . . . . . . 250

Nota bibliografica e discografica ....................................... 259

Appendice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263

Catalogo sommario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271


Per Luca Formenton, che pubblicando
trent’anni or sono la mia
Storia del pianoforte
diede un impulso decisivo
alla mia carriera di scrittore
1

Šostakovič
Continuità nella musica,
responsabilità nella tirannide
2 Š O S T A K O V I Č
PREMESSA 3

PREMESSA:
IL QUI PRO QUO DEL DOTTOR FAUST

Nel 1947 l’uscita del romanzo Doktor Faustus di Thomas


Mann trasformava in problema della cultura un problema tec-
nico che per vent’anni aveva messo in fibrillazione il mondo
musicale. Il protagonista del romanzo, il musicista Adrian Le-
verkühn, dopo un lungo colloquio con il diavolo metteva a
punto un metodo di composizione che gli permetteva di crea-
re musica in modo spontaneo, mentre in precedenza era riu-
scito soltanto a parodiare con genialità stili musicali del passa-
to. Non ci voleva molto acume, per capire che sotto le sem-
bianze di Adrian Leverkühn si nascondeva almeno in parte
Arnold Schönberg con il suo ‘‘metodo di composizione con
dodici suoni riferiti solo l’uno all’altro’’, meglio noto come
‘‘dodecafonia’’. La successiva pubblicazione della Genesi del
Doktor Faustus (1949) rivelò apertis verbis quello che tutti ave-
vano già immaginato, e cioè che mentre scriveva il romanzo
Mann avesse avuto suggerimenti e delucidazioni sul metodo
dodecafonico dal musicologo Theodor Wiesengrund Adorno
e da un saggio di questi ancora inedito, Schönberg e il Progresso,
che nel 1949 avrebbe formato, insieme con l’altro saggio, Stra-
vinskij e la Restaurazione, la Filosofia della nuova musica, testo de-
stinato a svolgere un ruolo determinante nella critica musicale
della seconda metà del secolo. Schönberg non gradı̀ affatto di
essere collocato per interposta persona in una vicenda in cui
lo spunto per la scoperta del suo metodo compositivo era
consistito in un suggerimento del diavolo, e polemizzò aspra-
mente con Mann. Il che, naturalmente, destò una viva curio-
sità in tutti i numerosissimi lettori del romanzo, romanzo di
4 Š O S T A K O V I Č

grande successo, facendo sı̀, come dicevo prima, che un pro-


blema squisitamente tecnico diventasse di punto in bianco uno
scottante problema culturale. Schönberg, naturalmente, aveva
tutto il diritto di inventarsi la tecnica che gli conveniva. Ador-
no, affidando a Schönberg la bandiera del progresso e ponen-
do la dodecafonia come pietra del paragone per tutti i compo-
sitori da prendere in considerazione, forzava invece la realtà in
modo aprioristico. Fra il progresso da una parte e la restaura-
zione dall’altra si collocava la continuità, e nella continuità si
erano inseriti compositori come Ravel, come Bartók, come
Prokof’ev, come Hindemith, come Šostakovič. Il primo gran-
de lavoro sinfonico di Schönberg composto con tecnica dode-
cafonica, le Variazioni op. 31, fu scritto fra il 1926 e il 1928.
Il Concerto n. 1 per pianoforte di Bartók è del 1926, la Kammer-
musik n. 5 per viola e orchestra da camera di Hindemith è del
1927, la Sinfonia n. 2 op. 14 di Šostakovič è del 1927, il Bolero
di Ravel è del 1928, la Sinfonia n. 3 op. 44 di Prokof’ev è del
1928. La dodecafonia, secondo Adorno, aveva messo la musica
al riparo dalla certificata consunzione della tonalità. Ma tutte
le composizioni or ora citate, che erano tonali, sono tranquil-
lamente sopravvissute al loro tempo. Né la dodecafonia era di-
ventata linguaggio comune nel 1947. Anzi. Nel 1948 un ot-
tantaquattrenne come Richard Strauss lasciava ai posteri, con i
Vier letzte Lieder, quello che oggi è comunemente considerato
uno fra i massimi traguardi creativi del Novecento. Discutere
accanitamente di dodecafonia e poi di serialità fu forse appas-
sionante, ma certamente non salutare per la critica musicale
del Novecento. Il recupero critico di Strauss seguı̀ perciò un
processo lentissimo, Bartók, Prokof’ev, Hindemith furono a
lungo guardati con sospetto e considerati in sostanza incapaci
di capire la svolta epocale di Schönberg, e di Šostakovič se ne
dissero di cotte e di crude.
La critica musicale procedette compatta per una strada, il
pubblico per un’altra. E fu proprio la frequenza con cui le
musiche di Bartók e sodali venivano eseguite nella seconda
metà del secolo a far sı̀ che si arrivasse alla fine a dover consta-
tare che Schönberg era stato uno fra i grandi compositori del
PREMESSA 5

Novecento, e non l’iniziatore di un’epoca linguisticamente


nuova nella storia della musica. Šostakovič non si era messo al
seguito di Schönberg. Ma siccome neppure il più sordo e pre-
venuto dei critici poteva ragionevolmente negargli una straor-
dinaria predisposizione per la musica, chi giurava sul verbo
schoenberghiano si chiedeva che ruolo avesse giocato, nel lun-
go cammino di Šostakovič, il fatto di vivere gran parte della
sua esistenza in un regime politico totalitario, che aveva una
sua linea da dettare agli artisti, e che la dettava e che ne sorve-
gliava severamente l’applicazione. E questo è il secondo tema
che si deve affrontare quando si discorre di Šostakovič, il tema
della assunzione della responsabilità personale pur in una situa-
zione di oggettiva costrizione.
Oggi, a più di trent’anni dalla sua morte, noi sappiamo
che Šostakovič ha lasciato una produzione musicale tale da
porlo al livello dei maggiori creatori di ogni tempo. E il riper-
correrne la vita e l’opera rappresenta una occasione per adden-
trarci in un cammino che suscita in noi ammirazione incondi-
zionata e gioia tumultuante. E riconoscenza.
6 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO I

UNA TRANQUILLA FAMIGLIA


DI RIVOLUZIONARI BORGHESI

Dmitrij Dmitrievič Šostakovič nasce a San Pietroburgo, al-


le cinque pomeridiane del 25 settembre 1906 (il 12 settembre
per il calendario giuliano allora adottato in Russia) e viene
battezzato con rito ortodosso il 10 ottobre (27 settembre). Se-
condo il racconto della sorella minore Zoja i genitori avrebbe-
ro voluto chiamarlo Jaroslav, ma il sacerdote officiante si op-
pose, ritenendo che l’aulico Jaroslav fosse un nome troppo ra-
ro e persino imbarazzante per un bambino, e suggerı̀ Dmitrij,
‘‘un bel nome russo’’. Dmitrij Dmitrievič non suona bene,
obbiettarono i genitori, Jaroslav Dmitrievič è molto meglio.
Ma il pope non mollò la presa, e il figlio ebbe cosı̀ lo stesso
nome del padre. Le ramificazioni della famiglia Šostakovič si
stendevano molto lontano dalla capitale dell’impero zarista in
cui il neonato veniva battezzato. Il bisnonno paterno, polacco,
era stato esiliato in una località del governatorato di Perm per
aver preso parte a quella rivolta del 1830-31 che per qualche
mese aveva cacciato i russi da Varsavia. Il nonno Boleslav, na-
to in Siberia, aveva studiato a Kazan’ e aveva abitato a Mosca.
Qui si era associato a un gruppuscolo di radicali e aveva orga-
nizzato la fuga di un rivoluzionario che era stato implicato
nell’altra insurrezione polacca, quella del 1863-64 in cui anda-
rono distrutti molti documenti e cimeli di Chopin. Arrestato
nel 1866 perché sospettato a torto di complicità nell’assassinio
dello zar Alessandro II, Boleslav Šostakovič era stato esiliato –
il destino di tutti i cospiratori o presunti tali – prima a Tomsk
e poi nella piccola città siberiana di Narym. Lı̀ era nato suo fi-
glio Dmitrij, nel 1875. Scaduto il periodo del domicilio coatto
CAPITOLO I 7

la famiglia Šostakovič si spostò a Irkutsk. Il padre del nostro


Dmitrij studiò a San Pietroburgo, si laureò in matematica e fi-
sica, ebbe un impiego nell’Istituto pesi e misure.
Nel 1903 Dmitrij sposò Sof’ja Vasil’evna Kokulina, nata
nel 1878 in Siberia, a Bodaibo, e figlia di un uomo di origini
modestissime che grazie al suo ingegno era diventato direttore
amministrativo delle miniere d’oro. Sof’ja era stata educata a
Irkutsk nella scuola per le fanciulle nobili. Questo tipo di isti-
tuto era sparso per tutto l’impero e preparava alla vita le futu-
re mogli dei burocrati e dei funzionari imperiali: fra le materie
di studio non mancavano la preparazione del tè, la danza, e il
pianoforte, insegnato secondo il metodo di Adolf Henselt, te-
desco trapiantato a San Pietroburgo e diventato non solo
Ispettore generale degli istituti suddetti ma consigliere di stato
e insignito dell’Ordine di Vladimiro. Quando il padre liquidò
i suoi affari per trasferirsi in Crimea, Sof’ja Kokulina e le sue
due sorelle andarono a vivere a San Pietroburgo. Una sorella,
con laurea in fisica, divenne membro del Partito socialdemo-
cratico bolscevico, l’altra sposò un socialista rivoluzionario che
stava scontando una condanna per motivi politici. Sof’ja si
iscrisse al conservatorio e vi studiò il pianoforte. Un siberiano
di ceppo polacco e una siberiana di ceppo siberiano si incon-
trarono casualmente in San Pietroburgo e misero su famiglia.
La prima figlia, Marja, nacque nel 1903, spaccando il minuto
dei nove mesi dopo il matrimonio, il secondogenito Dmitrij,
come detto, nacque nel 1906, la terzogenita e ultima, Zoja,
nel 1908.
Famiglia di sinistra. Ma papà Dmitrij, al contrario del pa-
dre e delle cognate, non faceva politica attiva. Nel 1910 di-
venne direttore di una tenuta agricola a Irinovka sul Lago La-
doga, dal 1916 diresse a Pietrogrado (nuova denominazione di
San Pietroburgo dopo la dichiarazione di guerra alla Germa-
nia) una fabbrica di munizioni. La situazione economica degli
Šostakovič era più che confortevole: sia a San Pietroburgo che
a Irinovka che a Pietrogrado vissero in appartamenti spaziosi e
belli, ricevettero molti amici, ebbero diversi domestici e di-
sposero – siamo agli inizi del Novecento! – di ben due auto-
8 Š O S T A K O V I Č

mobili. Dmitrij Šostakovič era un ragazzino gentile, calmo, ri-


flessivo. E distratto: la sorella minore racconta che quando an-
davano a raccogliere funghi nei boschi Dmitrij, detto Mitja,
poteva fermarsi a contemplare gli alberi senza vedere il boleto
che troneggiava a un passo da lui.
E la musica? ‘‘Prima di cominciare a studiare il pianofor-
te’’, dice Šostakovič in un breve schizzo autobiografico del
1927, ‘‘non desideravo impararlo, sebbene provasssi un certo
interesse per la musica. Quando i nostri vicini suonavano in
quartetto mi appiccicavo con l’orecchio al muro e ascoltavo’’.
Soltanto nell’estate del 1915 la madre avviò allo studio del
pianoforte il riluttante Mitja, che stava ormai per compiere
nove anni. Le cronache sono piene di giovani geni della musi-
ca che appena svezzati o poco più cercano laboriosamente di
riprodurre sui tasti del pianoforte le melodie che hanno impa-
rato a cantare o che hanno sentito cantare dalla tata. Nulla di
ciò in Šostakovič. Ma due giorni dopo avere iniziato il suo fi-
glioletto ai misteri della tastiera Sof’ja Kokulina disse al marito:
‘‘Abbiamo un ragazzo straordinariamente dotato’’. I progressi
di Mitja furono talmente rapidi che ben presto cominciò a
improvvisare e a comporre e, un po’ più tardi, a suonare bal-
labili per gli ospiti della famiglia, fra i quali si trovava talvolta
il direttore del conservatorio Aleksandr Glazunov. Già nel
1916 Sof’ja Kokulina... gettò la spugna come insegnante e af-
fidò il ragazzo a Ol’ga Gljasser e poi al marito di questa, Igna-
tij, nato nel 1850 e specialista nell’educazione dei bambini, e
quindi, nel 1918, alla sua ex-insegnante nel conservatorio
Aleksandra Rozanova, nata nel 1876, che era stata allieva di
Balakirev. Finalmente, dopo avere completato i corsi della
scuola secondaria inferiore, nel 1919 Šostakovič divenne allie-
vo di pianoforte e di composizione nel conservatorio. Fino al
1921 frequentò ancora il ginnasio. Ma in realtà già nel 1919 il
dado era stato tratto: il rampollo della tranquilla famiglia di ri-
voluzionari borghesi, compagno di studi nella scuola media
dei figli di Kerenskij, di Trockij e di Kamenskij, aveva scelto
la carriera del musicista.
CAPITOLO I 9

Il tredicenne Mitja che grazie al suo immenso talento en-


trava direttamente nei corsi superiori del conservatorio non era
però più il pupillo di una benestante famiglia borghese. C’era
stata – ragazzi, non dimentichiamolo! – c’era stata la Rivolu-
zione d’Ottobre, la struttura della società russa era stata scon-
volta dalle fondamenta, scarseggiava il vitto, scarseggiava il
combustibile, scarseggiavano le abitazioni, scarseggiava tutto.
Šostakovič studiò il pianoforte per un anno ancora con la Ro-
zanova e poi con un caposcuola, Leonid Nikolaev, nato nel
1878, che si era formato a Mosca con un mostro sacro del
pianoforte, Vasilij Safonov, e che dal 1909 insegnava a San
Pietroburgo. Nella classe di Nikolaev, Šostakovič trovò, un
po’ più anziani di lui, Vladimir Sofronickij e Marija Judina,
con la quale fece amicizia. L’insegnante di composizione era
Maksimilian Štejnberg, allievo e genero di Rimskij-Korsakov,
nato nel 1883, severissimo nell’istruire i suoi discepoli nella
tecnica accademica e perciò non troppo amato da Šostakovič,
ma che nei confronti del suo giovanissimo allievo si comportò
con paterna sollecitudine. Anche Glazunov, l’amico di fami-
glia, protesse Šostakovič, adoperandosi per fargli avere borse di
studio e persino tessere annonarie supplementari. Malgrado le
tessere ufficiali (quattro cucchiai di zucchero al mese, per Mit-
ja) e quelle supplementari procurate da Glazunov, l’approvi-
gionamento dei viveri si faceva sempre più difficile e precario.
Il padre di Šostakovič si recava spesso in campagna, in treno,
per acquistare cibo dai contadini: viaggiando nell’inverno del
1922 in un carro bestiame aperto ai quattro venti si buscò una
polmonite e spirò il 24 febbraio.
Sof’ja Kokulina, rimasta senza alcun aiuto perché nel 1919
era scomparso anche il suocero, fece la cassiera in un negozio,
poi ebbe un contratto nell’Istituto pesi e misure in cui era sta-
to occupato il marito. Non era però avvezza al lavoro impie-
gatizio e per giunta si prese la malaria. La figlia maggiore, che
studiava pianoforte in conservatorio, ebbe un ingaggio come
pianista in una scuola di coreografia: madre e figlia comincia-
rono a dare lezioni private di pianoforte. All’inizio del 1923
Dmitrij fu colpito da tubercolosi del sistema linfatico. Gli ven-
10 Š O S T A K O V I Č

nero asportate le ghiandole del collo e alla fine di giugno so-


stenne l’esame di diploma di pianoforte con una vistosa fascia-
tura. Subito dopo, avendo venduto un pianoforte e avendo
trovato aiuto da amici, Dmitrij e la sorella maggiore poterono
andare a passare l’estate nel convalescenziario di Koreiz in Cri-
mea. A Koreiz il sedicenne Mitja si innamorò della figlia di
un filologo moscovita, Tat’jana Glivenko (‘‘Penso che fosse
l’unico vero amore di mio fratello’’, dice Zoja Šostakovič). La
sorella Marja si affrettò a informare dell’accaduto la madre, la
madre, allarmatissima, chiese spiegazioni a Mitja, e Mitja cosı̀
le rispose il 3 agosto, esponendo concetti un po’ da nichilista
dell’Ottocento ai quali si sarebbe però mantenuto poi fedele
per tutta la vita:
[...] tu mi scrivi raccomandandomi di esser cauto e di non lanciarmi in un vor-
tice. A questo proposito voglio fare un po’ di filosofia. L’amore puramente
animale è una tale schifezza che non val neppure la pena di parlarne. [...]
Ma poniamo che una moglie non ami più suo marito e si dia a un altro, uno
che ama, ed essi, senza tenere in conto i pregiudizi della società, comincino a
vivere la propria relazione alla luce del sole. In ciò non vi è nulla di male. Al
contrario, è persino meglio che l’Amore sia davvero libero. Il patto stretto da-
vanti all’altare: questo è l’aspetto più tremendo della religione. L’amore non
può durare a lungo. Naturalmente, la cosa migliore che si possa immaginare è
la completa soppressione del matrimonio [...]. Ma naturalmente questa è un’u-
topia. Se non ci fosse il matrimonio, non ci sarebbe la famiglia, e questo sa-
rebbe veramente negativo. Ma che, in ogni caso, l’amore debba essere libero,
su questo non si discute.

Tornato a Pietrogrado dopo un ulteriore soggiorno in un


convalescenziario di Mosca, alla fine del 1923 Šostakovič si
trovò in una difficile situazione esistenziale. Non fu ammesso
al corso di perfezionamento di pianoforte per la sua ‘‘giovi-
nezza e immaturità’’ e, contro il parere di Glazunov, gli fu so-
spesa la borsa di studio per la composizione. La motivazione
ufficiale del provvedimento nascondeva probabilmente un’altra
e più subdola ragione. Il padre di Šostakovič aveva avuto un
funerale religioso, e ciò non era in quel momento, come di-
re?, politicamente corretto. Come che sia, Šostakovič – lo ve-
CAPITOLO I 11

dremo poi – pensò seriamente di trasferirsi a Mosca. Ma, ve-


nuto meno questo progetto, dovette mettersi a lavorare per
dare un aiuto alla famiglia in angustie: divenne pianista in un
cinematografo.
12 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO II

STUDIARE E COMPORRE

Non ci è pervenuto praticamente nulla delle composizioni


infantili di Šostakovič, e non ci sono pervenuti la Marcia fune-
bre per le vittime della Rivoluzione e l’Inno alla Libertà composti –
e suonati in casa, ma forse mai messi sulla carta – nel 1917. I
titoli delle due composizioni ci dicono tuttavia con quale ani-
mo Šostakovič guardasse i rivolgimenti politici che scuotevano
violentemente il suo paese. Si racconta, sebbene non sia affatto
certo, anzi, sebbene sia poco probabile, che nell’aprile del
1917 egli fosse presente nella Stazione di Finlandia ad attende-
re l’arrivo di Lenin. Questa circostanza, ripeto, non è affatto
certa, ma fu lo stesso Šostakovič a diffondere la diceria. Le pri-
me composizioni che ci sono pervenute sono lo Scherzo op. 1
per orchestra (1919-1921), dedicato a Štejnberg, e cinque de-
gli otto Preludi op. 2 per pianoforte, composti fra il 1919 e il
1921. Nel conservatorio Šostakovič studiò, oltre al pianoforte
e alla composizione, il contrappunto e la fuga, e più tardi il
violino e la direzione d’orchestra. Quando entrò nell’istituto
aveva tredici anni e, come ho detto, era stato ammesso al cor-
so superiore. Si trovò quindi a frequentare ragazzi maggiori di
lui di tre e più anni (ad esempio, la Judina era nata nel 1899,
Sofronickij nel 1902), e il suo aspetto – dinoccolato, mingher-
lino, naso affilato, spessi occhiali da miope, capelli lisci petti-
nati con la scriminatura, espressione sempre un po’ attonita –
lo faceva sembrare ancora più bambino di quanto non fosse in
realtà. Non sappiamo come i rapporti con ragazzi più grandi
influissero sulla crescita della personalità di Šostakovič, che
nello schizzo autobiografico mantiene su questo tema un
completo riserbo, mentre Prokof’ev, nella autobiografia, è
CAPITOLO II 13

prodigo di osservazioni e di ricordi dei suoi anni di conservato-


rio che esulano dalla musica. Sappiamo soltanto che Šostakovič
ebbe un ‘‘amico del cuore’’ nella persona del compositore Va-
lerian Bogdanov-Berezovskij, nato nel 1903, che a sua volta
era molto amico di un uomo sulla quarantina. ‘‘Questa diffe-
renza di età’’, scrive Zoja Šostakovič, ‘‘significò che [Mitja]
non fece esperienza delle abituali difficoltà nei complessi anni
teenager, ma la sua fanciullezza finı̀ quando entrò nel conserva-
torio e le circostanze vollero che i suoi amici fossero tutti adul-
ti ‘rispettabili’’’. Un po’ criptico, non è vero?
Quello che sappiamo è che Šostakovič, ricevendo una
educazione accademica senza dubbio molto soignée perché il
conservatorio di Pietrogrado era fra i migliori del mondo, si
fece una più ampia cultura musicale frequentando il più possi-
bile sia i concerti e il teatro (grande passione per il balletto,
che non escludeva una certa attrazione per le ballerine), sia i
circoli musicali d’avanguardia, e suonando una quantità enor-
me di musica in riduzione per pianoforte a quattro mani. Jurij
Tjulin, compositore e musicologo, dice di Šostakovič: ‘‘Non
solo possedeva una memoria incredibile e un orecchio perfet-
to, ma era un superbo lettore a prima vista’’. E dice Šostako-
vič, parlando di Marija Judina: ‘‘[...] talvolta suonavamo insie-
me musica a quattro mani. Il fatto era che il nostro professore
era molto spesso in ritardo. Fissava l’orario della lezione, ad
esempio, alle undici, e arrivava alle tre o anche alle quattro.
Molti studenti se ne andavano – i tempi erano duri e la gente
aveva abbastanza preoccupazioni e grattacapi. Ma Marija Judi-
na e io eravamo gli allievi più tenaci, andavamo a prendere
musica nella biblioteca e la leggevamo a prima vista mentre
aspettavamo Nikolaev... Io le facevo vedere le mie composi-
zioni e lei era molto incoraggiante nei miei riguardi! E lei, in
cambio, mi rendeva familiari opere di Hindemith, Bartók e
Krenek’’.
Lo Scherzo in fa diesis minore op. 1 è sorprendente per vari
aspetti, anche se, essendo stato composto sotto la guida di
Štejnberg, bisognerebbe sapere quale sia stata la parte del mae-
stro nella definizione della forma e soprattutto della strumen-
14 Š O S T A K O V I Č

tazione. Sembra che si tratti in realtà di un esercizio di orche-


strazione. Sono stati ritrovate alcune pagine di una Sonata in
si minore per pianoforte e alcuni studiosi ritengono che lo
Scherzo facesse parte di questa composizione, scritta nel 1919 o
nel 1920, e che venisse strumentato nel 1921 su indicazione
di Štejnberg. Štejnberg era stato allievo di Rimskij-Korsakov,
e Rimskij era uno dei più grandi strumentatori che fossero
mai esistiti. Fatto dunque salvo l’aiuto del maestro, il risultato
è comunque sorprendente: Šostakovič riesce a quindici anni a
maneggiare con disinvoltura un’orchestra formata da tre flauti,
due oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro corni, due trom-
be, tre tromboni, tuba, timpani, percussioni, archi. La forma è
tradizionale, lo stile risente della lezione di Čajkovskij, specie
dei balletti, e di Rimskij-Korsakov, ma il discorso è condotto
con impeccabile logica. Lavoro di scuola, si capisce. Tuttavia
la personalità di Šostakovič già emerge in modo tutt’altro che
pallido.
I Preludi op. 2 (ne abbiamo cinque degli otto composti; gli
otto dovevano far parte di un ciclo di ventiquattro, diviso fra
tre compagni di studi) oscillano fra Musorgskij, Čajkovskij e
Prokof’ev, ma già si incamminano verso la vena del grottesco
che giocherà un ruolo essenziale nella produzione di Šostako-
vič. Il Tema con variazioni op. 3 per orchestra (1921-22), altro
lavoro di scuola, è la conferma della sicurezza di Šostakovič
nella strumentazione, e le Due Favole di Krylov op. 4 per mez-
zosoprano e orchestra (1922) sono ciò che resta di altre, nu-
merose esercitazioni scolastiche. Le due favole, adattamento in
russo dagli originali di La Fontaine, sono intitolate rispettiva-
mente La Libellula e la Formica, L’Asino e l’Usignolo. La voce
scelta da Šostakovič, come ho appena detto, è quella di mez-
zosoprano, e non del mezzosoprano alla Rossini (Barbiere di
Siviglia, Italiana in Algeri, Cenerentola), cioè del mezzosoprano
di agilità che all’inizio degli anni venti non era ancora stato
estratto dalle polveri di cui lo aveva ricoperto la vocalità di fi-
ne Ottocento. L’effetto curioso di questa scelta è che il mez-
zosoprano non impersona l’usignolo, agile canterino: lo im-
persona il pianoforte, con trilli e volatine. Ma lo stile delle
CAPITOLO II 15

Due Favole è vistosamente operistico e tutt’altro che immemo-


re di Offenbach. E in questo senso la vocalità si trova in con-
trasto con la musica: mentre il testo della seconda favola ci fa
pensare a una canto come quello di Olympia nei Racconti di
Hoffmann, abbiamo tutt’al più una Preziosilla.
Le Tre Danze fantastiche op. 5 per pianoforte (1922), pur
durando in complesso meno di quattro minuti, sono invece
un capolavoro di arguzia e di ironia. Una marcetta, un valzeri-
no, una polchetta: ‘‘Umorismo e insolenza, seduzione melodi-
ca e armonica, bella scrittura pianistica, nulla manca a questi
cortissimi tre pezzi, che hanno di volta in volta qualcosa della
maniera di Prokof’ev e di quella... di Satie’’ (G. Sacre, La Mu-
sique de Piano, Parigi 1998). L’esecuzione di Šostakovič, regi-
strata nel 1946, ci dice che l’ironia non era acida, graffiante,
ma che il giovanissimo compositore guardava con affettuoso
distacco al mondo del salotto borghese che aveva rappresenta-
to per lui la prima esperienza musicale formativa. La Suite op.
6 per due pianoforti, composta nel 1922 in memoria del pa-
dre, è formata da quattro pezzi di tono grave che non pareg-
giano la felicità inventiva delle Danze fantastiche. E lo Scherzo
in mi bemolle maggiore per orchestra op. 7 (1923-24), detto in
origine Lo Scherzo dell’Ufficiale (si tratta forse della strumenta-
zione di un movimento di un Quintetto per archi che finora
non è stato rinvenuto) prepara soltanto il grande exploit della
Sinfonia n. 1.
Šostakovič si rivela invece tutto intero nel Trio in do mino-
re op. 8 (1923), in un solo movimento, dedicato a Tat’jana
Glivenko. Tat’jana, come ho ricordato, secondo la sorella Zo-
ja fu l’unico vero amore di Šostakovič. E ho ricordato che Šo-
stakovič trascorse a Mosca alcune settimane nell’autunno del
1923. L’amore per la moscovita Tat’jana, l’amicizia nata a
Mosca con Lev Oborin, Vissarion Šebalin e Michail Kvadri, e
il disagio provocato dall’insegnamento accademico del conser-
vatorio di Pietrogrado furono all’origine del progetto di trasfe-
rimento a Mosca. Nel 1924, in aprile, Šostakovič andò nella
vecchia capitale, fece una audizione privata come pianista con
Constantin Igumnov, che accettò di accoglierlo nella sua clas-
16 Š O S T A K O V I Č

se, e sostenne un esame per accedere ai corsi di composizione.


L’8 aprile scrisse alla madre:
Hanno considerato il mio Trio come una forma di sonata e subito mi hanno
accettato nella classe di composizione libera. [...] A Leningrado non mi avreb-
bero considerato il Trio come una forma di sonata. Stupidi formalisti! Visto
che ho scritto il Trio, senza frequentare la classe delle forme, non avrebbero po-
tuto calcolarlo come prova d’esame. [...] Entro pochi giorni mi faranno soste-
nere lo stesso tipo di esame in pianoforte. [...] dovrò dare l’esame di politica
generale e di sociologia. [...] Con un piede sono già nel Conservatorio di Mo-
sca, e ci metterò anche l’altro piede, che ho già a mezz’aria. Dal Conservato-
rio di Leningrado ho già alzato i tacchi.

Già! Pietrogrado aveva cambiato un’altra volta il nome,


dopo la morte di Lenin! Una frase di una lettera a Oborin del
27 settembre ci dice che Šostakovič covava probabilmente an-
che un altro progetto: ‘‘Potrei forse vantarmi che ora secondo
le leggi dell’urss ho pieno diritto di sposarmi? Il buffo è che
il 24 settembre non ne avevo diritto e il 25 ne ho avuto dirit-
to pieno’’. Come ho già detto, il sogno di spostarsi a Mosca, e
forse di sposare Tat’jana, abortı̀, e Šostakovič rientrò quieta-
mente nel conservatorio di Leningrado a preparare la Sinfonia
che avrebbe presentato all’esame di diploma. Ma Tat’jana ri-
maneva piantata nel suo cuore, come vedremo più avanti.
Il Trio op. 8, sottotitolato Poema, è in do minore ed è in
solo movimento. La tonalità di do minore non ha qui nulla
di... beethoveniano, il pezzo è una incantevole composizione
che meglio risponde al suo sottotitolo che al titolo. La forma
di primo movimento di sonata è in sostanza rispettata, ma
mancano le transizioni e i quattro episodi principali (esposizio-
ne, sviluppo, riesposizione, coda) sono separati da brevi frattu-
re, come se si trattasse di musica per una commedia. Poema.
Poema, direi, sull’Amore, con un primo gruppo tematico –
Dmitrij – che alterna due caratteri espressivi contrastanti, ma-
linconia nostalgica e gaiezza sfrenata, con un secondo tema –
Tat’jana – che richiama alla memoria le raffigurazioni teatrali
della donna angelicata, con uno sviluppo assai elaborato, sim-
bolo di contrasto e di lotta, con una riesposizione pacificata e
CAPITOLO II 17

una coda giubilante (con conclusione, ovviamente, in do


maggiore). Šostakovič compone un pezzo che rappresenta la
fine e l’inno alla sua adolescenza, il suo aprirsi al suo primo
grande amore (e unico, secondo Zoja e anche secondo... Ta-
t’jana). Le composizioni successive rappresenteranno il mo-
mento in cui l’adolescente che sta diventando uomo si inoltre-
rà nella vita e nella tragicità della vita.
18 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO III

STUDIARE E SUONARE

Šostakovič ci dice nello schizzo autobiografico prima cita-


to che sotto la ferula del burbero Gljasser studiò dapprima so-
nate di Haydn e di Mozart e quindi i Preludi e fuga del Clavi-
cembalo ben temperato di Bach. E poi: ‘‘Gljasser era molto scetti-
co sulle mie doti di compositore e non mi incoraggiò a prose-
guire. Tuttavia persistetti e in quel tempo composi molto’’. E
Leo Arnštam, compagno di studi in conservatorio, dice di Šo-
stakovič: ‘‘La sua apparenza e il suo comportamento non in-
ducevano nessuno a sospettare in lui l’artista. La gente parlava
di lui come di un dotato pianista, e il suo sorprendente orec-
chio e la sua fenomenale memoria musicale erano quasi una
leggenda nel conservatorio’’. Šostakovič era effettivamente un
pianista di grande valore. Un compagno di studi nella classe di
Gljasser, Boris Losskij, ricordava di avergli sentito eseguire la
Sonata op. 10 n. 1 di Beethoven: ‘‘Posso ancora sentire la mu-
sica suonare nelle mie orecchie come lui la eseguiva. Attraver-
so la sua riflessiva e introspettiva esecuzione egli dimostrava
una notevole qualità di concentrazione’’. E aggiunge, dell’ese-
cuzione dell’Appassionata: ‘‘Era notevole per la sua completa
padronanza dell’opera, più che per profondità di intima pas-
sione’’. Šostakovič, su consiglio della Judina, studiò anche la
Sonata op. 106: ‘‘La Judina mi consigliò di suonare la Ham-
merklavier. ‘Perché stai a suonare il Chiaro di luna e l’Appassio-
nata?’, mi rimproverò una volta, ‘Perché non provi con la
Hammerklavier?’. Nikolaev approvò e prima di farla sentire a
lui la suonai alcune volte per lei’’. Racconta la pianista Lidia
Žukova:
CAPITOLO III 19

Due settimane prima [dell’esame] egli non sapeva ancora che cosa avrebbe suo-
nato. Poi scelse la Hammerklavier di Beethoven. Disse che era inconcepibil-
mente difficile e che alcune delle none e delle decime erano ineseguibili. La sera
prima dell’esame mi trascinò verso le nove a casa sua in via Marat. Suonò per
me. Era un meraviglioso pianista, con mani forti e con un modo preciso e tal-
volta arido di suonare. Ma io sentii quasi un colpo al cuore. Era soltanto uno
schizzo di esecuzione. Come avrebbe potuto essere pronto per tempo? Ma nel-
l’esame del giorno dopo suonò con autorità e maturità, sviluppando una conce-
zione sinfonica di tutta quest’opera grandiosa.

Il bello è che questo beethoveniano incallito aveva una


singolare idea della scrittura pianistica di Beethoven: ‘‘Domani
nella Sala piccola della Filarmonica dà un concerto Feinberg.
[...] è un pianista splendido. Tutti i nostri musicisti ne dicono
peste e corna. Ha una grandissima qualità: fa suonare splendi-
damente il pianoforte. Rende sonoro persino Beethoven, seb-
bene non ci sia peggiore e più stomachevole scrittura pianisti-
ca di quella di Beethoven’’ (a Oborin, 17 marzo 1924). La
Žukova deve però riferirsi non a un esame ma a un saggio
della classe di Nikolaev della primavera del 1922, perché per
il diploma, conseguito nella sessione estiva del 1923, Šostako-
vič eseguı̀ questo programma:
Bach: Preludio e fuga in fa diesis minore dal primo libro del
Clavicembalo ben temperato
Beethoven: Sonata op. 53
Mozart: Variazioni in do maggiore [forse K 265]
Schumann: Umoresca op. 20
Chopin: Ballata op. 47
Liszt: Venezia e Napoli.
Il recital di diploma ottenne il plauso della giuria. Ma non
lo ottenne il Concerto op. 54 di Schumann, eseguito ventiquat-
tr’ore dopo, tanto che, contro ogni aspettativa, Šostakovič eb-
be un voto alto ma non la medaglia (che fu invece inopinata-
mente assegnata alla sorella Marja!). L’8 novembre 1923 ebbe
luogo l’esordio concertistico del neodiplomato Šostakovič, con
questo programma:
20 Š O S T A K O V I Č

Bach-Liszt: Preludio e fuga in la minore


Beethoven: Sonata op. 57 (Appassionata)
Šostakovič: Preludi op. 2, Tre Danze fantastiche op. 5, Tema
e variazioni op. 3.
Nella lettera a Oborin del 17 marzo 1924 Šostakovič parla
di due recital da tenere a Leningrado, uno dedicato a Schu-
mann e uno a Liszt, dei quali non abbiamo alcuna notizia. A
Leningrado ascoltò Horowitz che, sembra, non gli piacque per
niente. In una lettera a Oborin del 7 novembre 1924, dopo
aver parlato di un concerto diretto da Klemperer (‘‘Ecco un
direttore coi fiocchi. Secondo me, meglio di lui non dirige
nessuno’’) e delle difficoltà economiche della Filarmonica che
avevano fatto cancellare un concerto di Klemperer e uno di
Szigeti, Šostakovič dice: ‘‘Tuttavia Horowitz fa cassa. Non ti
immagini neanche quanto sia avvilente’’. Un pianista di Le-
ningrado, Michail Druskin, asserisce che ‘‘nella sua giovinezza
Šostakovič aspirava al doppio ruolo di pianista virtuoso e com-
positore, come Rachmaninov (detto per inciso, non gli piace-
va la musica di Rachmaninov)’’. In una lettera alla madre
dell’8 marzo 1925, da Mosca, Šostakovič dice di aver studiato
i Pezzi fantastici op. 12 di Schumann, in una lettera del 25
maggio dello stesso anno a un amico moscovita dice di aver
pronte le prime tre Ballate di Chopin e di stare studiando la
Quarta (‘‘Sono cose straordinariamente belle’’). Il 16 novem-
bre 1925 comunica a un altro amico la sua intenzione di ci-
mentarsi con le terribili Reminiscenze del ‘‘Don Giovanni’’ di
Liszt. Il 5 luglio 1926, invitato da Nikolaj Mal’ko che aveva
poco prima diretto a Leningrado la sua Sinfonia n. 1 op. 10,
Šostakovič suonò a Kharkov il Concerto n. 1 op. 23 di Čajkov-
skij e, sempre a Kharkov il 12 luglio, tenne un recital con il
Trio op. 8, i Preludi op. 2 e Venezia e Napoli di Liszt. Il Con-
certo di Čajkovskij è celebre fra i pianisti per i suoi difficili
passi d’ottave. Il pianista Natan Perel’man ci attesta che Šosta-
kovič ‘‘suonava il Primo Concerto di Čajkovskij in modo eccel-
lente, con brillanti passaggi d’ottave’’. Insomma, Šostakovič
era un pianista capace di competere con i gagliardi virgulti che
CAPITOLO III 21

uscivano dalle espertissime mani dei didatti russi. Cosı̀ stando


le cose, egli si preparò per il Concorso Chopin che nel 1927
si sarebbe svolto a Varsavia per la prima volta.
Somma agitazione della ansiosissima mammina. Quale abi-
to era di rito indossare, in un concorso all’estero? Il frac, forse?
Ma il povero Mitja, per carità, non poteva portare il colletto
duro, le cicatrici dell’operazione sul collo si sarebbero arrossate
e irritate! Come fare? Non sappiamo quale soluzione venisse
trovata, ma una soluzione fu trovata, e Mitja, scelto a rappre-
sentare il conservatorio di Leningrado, sostenne a Mosca, il 9
gennaio 1927, la prova pubblica di selezione dalla quale sareb-
be uscito lo ‘‘squadrone’’ dei russi da mandare a Varsavia. Il
suo programma, preparato molto rapidamente, comprendeva il
Concerto op. 11, la Ballata op. 47, la Polacca op. 44, i Preludi
op. 28 n. 13 e n. 16, gli Studi op. 10 n. 4 e op. 25 n. 1, i
Notturni op. 15 n. 2 e op. 27 n. 1 e due Mazurche, in si mi-
nore (forse op. 33 n. 4) e in do diesis minore (le mazurche in
do diesis minore di Chopin sono cinque, quattro delle quali
molto importanti: impossibile sapere quale venisse scelta da
Šostakovič). Šostakovič cosı̀ racconta alla madre, il 15 gennaio,
la sua prova:
Esco io. All’inizio avevo un po’ di fifa, poi ho dimenticato tutto e ho comin-
ciato a suonare. Subito dopo la Polacca, che ho suonato come primo pezzo, ci
sono stati applausi. Hanno applaudito dopo entrambi i Notturni, gli Studi e
le Mazurche. Nei Preludi ho steccato. Ho finito con la Ballata. Il successo ha
superato ogni aspettativa. Uscivo a ringraziare, andavo a fumare in camerino,
finivo di fumare e di nuovo a ringraziare, e cosı` via.

Il 23 gennaio si aprı̀ il Concorso a Varsavia. Il 27 Šostako-


vič scrisse a Boleslav Javorskij, musicologo e compositore di
Mosca con il quale aveva intrecciato una profonda amicizia:
Ho cominciato con la Polacca che qui suonano tutti in chiusura. Dopo di che
mi hanno applaudito assai. Mi è toccato inchinarmi. Hanno applaudito anche
dopo ogni Notturno. Hanno applaudito lungamente, tanto che ho dovuto al-
zarmi e inchinarmi. Dopo il Preludio in fa diesis maggiore hanno applaudito
tantissimo, dopo quello in si bemolle minore anche. Un mio conoscente mi ha
riferito che Szpinalski (che aveva suonato subito prima di me) ha suonato que-
22 Š O S T A K O V I Č

sto Preludio in cinquantuno secondi. Io l’ho suonato in quarantasette. Nello


Studio in la bemolle maggiore hanno applaudito dopo gli arpeggi e avevano ra-
gione. Mi pare di essere riuscito a dare la giusta impressione con questo Stu-
dio. Dopo quello in do diesis minore mi sono alzato e inchinato due volte.
Dopo la Ballata mi hanno applaudito moltissimo. [...] Sono contento di me
stesso. Ho suonato, dimenticando tutto il mondo in modo ispirato, come si usa
dire. Domani saprò se sono entrato nel numero degli otto [che suoneranno con
orchestra].

Osserviamo di passata che il cronometro del ‘‘conoscente’’


doveva correre come una spia: la durata del Preludio op. 28 n.
16 oscilla di solito sui sessanta-sessantacinque secondi, e una
durata di quarantasette secondi è fuori dalla portata di qualsiasi
pianista che non precipiti nel caos (a meno che, potrebbe
sempre darsi, il ‘‘conoscente’’ non avesse evitato di cronome-
trare la prima battuta, che è preparatoria del moto perpetuo).
I candidati erano ventisei. Šostakovič entrò nel numero degli
otto finalisti. Gli era stato detto (lettera alla madre dell’1 feb-
braio) che ‘‘per il primo premio c’erano due candidati: Obo-
rin e me’’. Ma l’esito fu deludente. Vinse Oborin, al secondo
e al terzo posto si classificarono i polacchi Szpinalski e Erkina,
al quarto il russo Ginzburg. Šostakovič ebbe un diploma di
merito. Alla madre, l’1 febbraio:
Io sono rimasto fuori. Non sono affatto amareggiato: quel che è stato, è stato.
Il programma l’ho eseguito egregiamente e con grande successo. Sono stato
iscritto nel novero degli otto che hanno suonato con orchestra. Al concerto ho
suonato in modo particolarmente soddisfacente e tra gli otto prescelti ho avuto
il successo maggiore, addirittura più che a Mosca.

Comunicando l’esito del concorso, il presidente della giu-


ria aveva dimenticato il nome di Šostakovič. Il pubblico aveva
gridato ‘‘Šostakovič’’, il presidente aveva corretto la gaffe e il
pubblico era ‘‘partito con un’ovazione entusiastica per me, al-
quanto provocatoria’’. Šostakovič approfittò della sua presenza
a Varsavia per andare a visitare Berlino, e da Berlino scrisse al-
la madre, l’8 febbraio:
CAPITOLO III 23

Quando sono andato al concorso, non contavo nemmeno di entrare nel numero
dei primi otto prescelti. Quando sono entrato fra i finalisti ho cominciato a
pensare al terzo premio. Vedi, come avevo fatto bene i conti. Un membro
della giuria, che provava per me molta simpatia, mi ha raccontato questo. I
premi dovevano essere determinati in base al punteggio ricevuto da ogni piani-
sta. Oborin aveva ottenuto 166 punti, Ginzburg 165 e io 163. In verità ciò
mi ha un po’ amareggiato, perché avevo suonato meglio di Ginzburg, ma va
bene anche cosı`. Il risultato assolutamente inatteso mi ha gettato dapprima
nello sconforto, ma, come ho saputo, hanno deciso [la giuria era tutta polacca]
che non era possibile dare tutti e tre i premi ai russi e hanno dato il secondo
premio al polacco Szpinalski (149 punti) e il terzo alla polacca Erkina (141
punti) e per evitare che la cosa fosse troppo indecente hanno istituito un quarto
premio e l’hanno dato a Ginzburg. [...] Sabato [5] io e Oborin abbiamo dato
un concerto. Ho suonato l’Appassionata, la mia Sonata, tre Studi e la Ballata
n. 3 di Chopin. Il successo è stato colossale. A proposito, hanno applaudito
un sacco dopo la mia Sonata. Il compenso era di 1000 zloty ovvero 111 dol-
lari. Dei soldi che avevo mi erano rimasti ancora 40 dollari, quindi ho deciso
di andare a Berlino.

Saremmo naturalmente molto curiosi di sapere come Šosta-


kovič interpretasse Chopin, ma non esistono dischi incisi duran-
te il concorso. Natan Perel’man, che ascoltò la prova di selezio-
ne a Mosca, ci dice che ‘‘il suo modo di eseguire Chopin non
assomigliava a nulla che io abbia udito prima o dopo’’. E poi:
‘‘Mi ricordava le esecuzioni delle sue musiche, molto dirette e
senza grande plasticità, e molto laconiche nell’espressione’’. Ma
le esecuzioni delle sue musiche che Šostakovič ci ha lasciato
non sono affatto laconiche nell’espressione. Chissà quale era il
metro di misura di Perel’man! Da Varsavia Šostakovič portò a
casa ‘‘1) un grande successo di pubblico, 2) un monte di recen-
sioni di ogni tipo’’ (lettera dell’8 febbraio). E da Berlino tornò
con il suo primo cappello e una gran voglia di lavorare alla
composizione. Ma il 6 marzo chiese a Javorskij di organizzargli
un concerto a Mosca, proponendo questo programma:
I parte
Beethoven: Sonata op. 57 (Appassionata)
Šostakovič: Sonata [op. 12]
Prokof’ev: Sonata n. 3 [op. 28]
24 Š O S T A K O V I Č

II parte
Liszt: Fantasia quasi Sonata ‘‘Dopo una lettura di Dante’’, Fu-
nérailles, Ronda di gnomi, Mormorio del bosco, Venezia e
Napoli (Gondoliera, Canzone, Tarantella).
L’amico Javorskij non poté accontentarlo. Šostakovič con-
tinuò a fare il pianista-interprete ancora per qualche tempo: il
21 e il 22 novembre 1927 eseguı̀ a Leningrado il Concerto per
due pianoforti di Mozart e il 27 novembre il Concerto op. 23 di
Čajkovskij. Il 16 febbraio 1930 eseguı̀ a Rostov sul Don il
Concerto n. 1 di Prokof’ev e poi si dedicò soltanto più alle sue
composizioni: la sua carriera di virtuoso, di pianista-interprete,
era finita prima che compisse i venticinque anni.
CAPITOLO IV 25

CAPITOLO IV

SINFONIA N. 1

Il taglio espositivo che ho scelto, che ho scelto perché mi


torna utile, mi ha portato a citare di passata la prima esecuzio-
ne della Sinfonia n. 1 senza aver ancora parlato della composi-
zione. Facciamo dunque un passo indietro e ritorniamo al
1923. Qualche studioso ritiene che lo Scherzo op. 7 fosse stato
pensato come terzo movimento di una sinfonia (altri, come
ho detto, ritengono che sia una trascrizione da un quintetto).
Šostakovič mostrò il pezzo al suo maestro Štejnberg e, si di-
rebbe, incassò con soddisfazione la sua disapprovazione: ‘‘‘Che
cos’è questa ossessione con il grottesco? Il Trio era in parte
grottesco. I Pezzi per violoncello [Tre Pezzi op. 9, perduti]
sono grotteschi, e pure questo Scherzo è grottesco’. L’inviola-
bile base del Gruppo dei Cinque, la sacra tradizione di Nikolaj
Andreevič [Rimskij-Korsakov], e altre frasi altrettanto pompo-
se. Sfortunatamente io non voglio più a lungo assecondarle
nella mia musica’’ (Lettera a Tat’jana Glivenko, 26 febbraio
1924). In autunno il conservatorio comunicò che ai diplo-
mandi in composizione era richiesta la presentazione di una
sinfonia. Šostakovič, sebbene il lavoro di pianista nei cinema
lo disturbasse molto, si mise al lavoro. All’inizio di dicembre
erano completati (non ancora strumentati) i primi due movi-
menti. Poi Šostakovič interruppe il lavoro per comporre il pri-
mo dei Due Pezzi op. 11 per ottetto d’archi, Preludio. In mar-
zo si recò a Mosca per due concerti con musiche sue e vi co-
nobbe il musicologo Javorskij, di cui ho già detto, e il mare-
sciallo Tuchačevskij, eroe della guerra civile e musicista dilet-
tante. La conoscenza di Javorskij gli aprı̀ nuovi orizzonti: ‘‘[...]
presto o tardi, mi trasferirò a Mosca. Adesso mi sono deciso e
26 Š O S T A K O V I Č

lo farò. [...] potessi andare a Mosca al più presto, da Javorskij,


che mi sgrida ma per cose importanti. Davvero, dopo aver co-
nosciuto Javorskij è radicalmente cambiata la mia conoscenza
del mondo musicale. In particolare, voglio liberarmi definiti-
vamente dalla routine, che è ancora presente in me’’ (Lettera
a Oborin, 17 aprile 1925). La Teoria del pensiero musicale di Ja-
vorskij ebbe poi molta importanza nella evoluzione del lin-
guaggio di Šostakovič. Ma per il momento egli riprese a lavo-
rare sulla Sinfonia, la terminò il 26 aprile e ai primi di luglio
ultimò l’orchestrazione. La versione per due pianoforti era sta-
ta eseguita, come prova d’esame, il 9 maggio:
Dopo l’esecuzione è venuto da me Gnesin e ha detto che gli era molto pia-
ciuto il primo movimento, il secondo un po’ meno e nel terzo aveva trovato il
primo tema artificioso, mentre del finale ha detto che era sovraccarico di
asprezze. A Žitomirskij la Sinfonia è molto piaciuta, mentre Kalafati e Strej-
cher non hanno detto nulla. In un modo o nell’altro la Sinfonia è andata.
[...] il finale l’ho composto in meno di una settimana. È riuscito bene, secondo
me, anche nella forma, benché alcuni non approvino che nell’esposizione il se-
condo tema cominci in la maggiore e poi passi in mi maggiore. Trovano lo svi-
luppo troppo corto ed eccessivamente lunghi l’esposizione e la coda. Non c’è
una vera e propria ripresa [...]. Lo sviluppo finisce con il tema principale am-
piamente variato, dopo di che viene il secondo tema in fa minore, composto in
modo molto cupo, interrotto da un breve motivo dei timpani, di tre note, e
dalla ripetizione di questo motivo con flauti e clarinetti. Tutto questo brano si
trasforma direttamente nella coda, molto maestoso e solenne.

Ottenuto il diploma e ultimato il secondo dei Due Pezzi


op. 11, Scherzo, Šostakovič si godette in Ucraina la sudata e
meritata vacanza. Al rientro a Leningrado dovette affrontare
due problemi, di diversa natura e di diversa importanza. Primo
problema: un temporaneo blocco creativo che avrebbe potuto
essere non temporaneo. La disperazione del giovane composi-
tore fu cosı̀ profonda da indurlo a bruciare tutti i suoi mano-
scritti giovanili (se ne è salvato solo qualcuno che non gli ca-
pitò allora fra le mani). A Javorskij, il 22 novembre 1925, cosı̀
scrisse:
CAPITOLO IV 27

Ora sono di umore molto triste, dovuto alla mia impotenza creativa. Non ho
modo di consolarmi. Visto che da quest’estate non ho composto nulla, significa
che è successo qualcosa per cui ho disimparato a comporre, forse temporanea-
mente, forse per sempre. In questo periodo mi sono aggrappato a molte cose e,
senza contare che non è affar mio giudicare se compongo bene oppure male
(dice Štejnberg), ho pianto di dispetto e di rabbia per il mio destino. Sento che
il cinematografo, con la sua quotidiana ‘‘improvvisazione’’, mi ammazza.
Che cosa terribile! Sono sicuro che molti dei miei amici musicisti mi voltereb-
bero le spalle sapendo che ho smesso di essere un compositore o, se non ho
smesso, che sono diventato uno dei peggiori.

Šostakovič lavorò in vari cinematografi, fra cui il Pellicola


Luminosa, il Piccadilly e lo Splendid Palace. Il commento
musicale era in genere assicurato da un’orchestra che suonava
musica scritta, non sufficiente per coprire tutta la durata del
film; a Šostakovič si chiedeva di improvvisare nei momenti nei
quali l’orchestra... incrociava le braccia. E spesso ne capitavano
di belle. Capitava che Šostakovič approfittasse dei suoi inter-
venti per provare con il violinista e il violoncellista il suo Trio,
con scandalo del pubblico. Una volta, dopo un’improvvisazio-
ne durante un documentario dedicato agli uccelli acquatici e
di palude, una inserviente venne a riferirgli che ‘‘la gente dice
che ‘con sta musica bisogna scappare’ ’’ (a Oborin, 28 ottobre
1925). Nel febbraio del 1926 Šostakovič andò a Mosca e fece
ascoltare, eseguendola al pianoforte, la sua Sinfonia. Al ritorno
a Leningrado, in marzo, sentendosi ormai sicuro di aver avvia-
to la sua carriera, abbandonò per sempre il pesante fardello del
cinematografo. Tuttavia – molti critici lo riconoscono – l’e-
sperienza cinematografica non fu senza conseguenze, positive,
nel suo modo di organizzare la drammaturgia di composizioni
di ampia portata. Nel momento in cui si liberò dalle incom-
benze nelle sale cinematografiche Šostakovič aveva però già ri-
cominciato a comporre con nuova lena e con idee che sboc-
ciavano come funghi dopo un temporale.
Il secondo problema era di far eseguire da un’orchestra la
Sinfonia. Štejnberg e Glazunov avevano assicurato il loro inte-
ressamento ma non avevano concluso nulla. Il direttore della
Filarmonica, Nicolai Mal’ko, era l’insegnante di direzione
28 Š O S T A K O V I Č

d’orchestra di Šostakovič. Tuttavia l’allievo Šostakovič faticò


molto prima di prendere il coraggio a due mani per, come si
dice nei romanzi sentimentali, aprirgli il suo cuore. Alla fine si
decise, rimanendo molto sorpreso: Javorskij, senza avvertirlo,
aveva già parlato con entusiasmo a Mal’ko, per lettera, della
Sinfonia dell’amico. Šostakovič suonò il pezzo per Mal’ko,
dovette suonarlo anche per Boris Asaf’ev, potentissimo critico
oltre che compositore. Vincendo la resistenza di alcuni mio-
pissimi professori del conservatorio, Mal’ko mise in produzio-
ne la Sinfonia e la diresse il 12 maggio 1926. ‘‘Enorme succes-
so della Sinfonia di Mitja’’, scrisse nel diario Maksimilian
Štejnberg, ‘‘lo Scherzo fu replicato. Dopo il concerto cenam-
mo in casa Šostakovič fino alle due, con commensali in preva-
lenza giovani. Ritornammo a casa con Mal’ko e sua moglie, a
piedi, fino alla via Sadovaja. Notte bianca, ma fredda (2 gra-
di)’’. Šostakovič, con il cuore in tumulto ma con la testa ra-
ziocinante, scrisse il 13 a Javorskij dicendo:
L’esecuzione è stata eccellente. Successo ernorme. Sono uscito cinque volte a
ringraziare. È riuscito tutto benissimo. Ha stonato un po’ il primo violino du-
rante l’assolo, ma è stato fedele nel carattere. Il violoncellista, al contrario, non
ha stonato, ma non ha imbroccato, come si suol dire, l’impostazione giusta.
Escludendo questo, tutto il resto è andato bene, alla grande. Sono contento da
non dirsi. Io stesso ho ricavato un gran piacere da questa esecuzione e ciò la
dice lunga. Sono un autore tremendamente esigente e incontentabile. Se qual-
cosa non è eseguito bene, mi fa lo stesso effetto di una puntura di spillo, tanto
mi risulta sgradevole. Ma ieri è andata straordinariamente bene. L’entusiasmo,
la bella esecuzione, il successo, la tremenda agitazione della vigilia mi hanno
completamente stremato e mi hanno fatto girare la testa. ‘‘Girare la testa’’
non lo intenda in senso cattivo. La testa mi gira, ma gira in senso buono.
Sono tremendamente felice.

Come ho già detto incidentalmente, Mal’ko diresse la Sin-


fonia a Kharkov in luglio, con esito artistico mediocre perché
mediocre era l’orchestra e perché l’esecuzione venne effettuata
all’aperto... con l’allegro accompagnamento di cani abbaianti
ma con vivo successo di pubblico (e con la replica dello Scher-
zo). ‘‘Al ritorno a casa’’, scrisse Šostakovič alla madre il 6 lu-
CAPITOLO IV 29

glio, ‘‘Mal’ko disse che comunque è un bene che abbiano suo-


nato la Sinfonia. Sarà anche un bene, ma non del tutto. Va be-
ne che mi paghino i diritti d’autore, e inoltre, il 12 suonerò [il
Concerto di] Čajkovskij nel concerto sinfonico. E quindi rie-
sco a guadagnare qualcosa. Ma il fatto che l’orchestra di qua
abbia infangato la mia Sinfonia non è bene’’. Nel 1927 Bruno
Walter diresse alcuni concerti a Leningrado e Šostakovič gli fe-
ce ascoltare la Sinfonia: il grande direttore tedesco la accettò e
la diresse con l’orchestra dei Filarmonici di Berlino il 6 feb-
braio 1928 e la riprese nel novembre del 1930 al Gewandhaus
di Lipsia. Robert Heger, Karl Böhm e Leopold Reichwein di-
ressero la Sinfonia in varie città tedesche. Nel 1928 la Sinfonia
apparve anche a New York sotto la direzione di Leopold Sto-
kowski e poco più tardi entrò nel repertorio di Otto Klempe-
rer e di Arturo Toscanini. Darius Milhaud e Alban Berg, che la
ascoltarono, espressero la loro positiva valutazione.
Non si era mai visto un ‘‘lancio’’ di tal fatta per un giova-
nissimo compositore, e in condizioni normali Šostakovič sa-
rebbe andato all’estero per assistere alle esecuzioni della sua
trionfante Sinfonia. Non si mosse invece dall’Unione Sovieti-
ca, nella quale, alcuni anni dopo la morte di Lenin e dopo
aver messo a tacere Kamenev, Zinov’ev e Trockij, Stalin stava
passando dall’internazionalismo al ‘‘socialismo in un solo pae-
se’’ e portava l’Unione Sovietica verso l’isolazionismo. Oltre
alla situazione politica entrava però in gioco anche la burocra-
zia conservatoriale. Nell’aprile del 1926 Šostakovič era stato fi-
nalmente ammesso al corso di perfezionamento di pianoforte,
e in giugno venne iscritto al corso di perfezionamento di
composizione (a patto di superare l’esame nelle materie politi-
che). Stava ottenendo un fenomenale successo internazionale,
ma era un allievo del conservatorio (lo sarebbe rimasto fino al
1929) e non se la sentiva di rinunciare alla borsa di studio.
Anzi, integrò i suoi magri proventi accettando di insegnare la
lettura della partitura nella Scuola professionale centrale. Il 24
dicembre superò l’esame di ‘‘metodologia marxista’’ ed ebbe
la conferma della iscrizione al corso di perfezionamento di
composizione. All’estero ci andò soltanto, come abbiamo già
30 Š O S T A K O V I Č

visto, come componente dello ‘‘squadrone’’ di pianisti che


prese parte gloriosamente al Concorso Chopin di Varsavia.
Il 12 maggio 1926 Šostakovič aveva sentito per la prima
volta una sua partitura sinfonica, e l’esecuzione gli dimostrò
che il suo ‘‘orecchio interiore’’ funzionava benissimo. Sentia-
mo Mal’ko: ‘‘Il primo suono emesso dall’orchestra confermò
la correttezza della sua immaginazione, ed egli non ebbe alcun
motivo di preoccuparsi. [...] Tecnicamente, tutto era eseguibi-
le e i musicisti dell’orchestra non poterono esprimere riserve
sulla qualità della musica’’. Ciò non significa che Šostakovič
evitasse le difficoltà di esecuzione. Mal’ko racconta che il pri-
mo violoncello brontolò per il suo assolo del finale (abbiamo
già saputo da Šostakovič che l’esecuzione fu precisa ma priva
di carattere) ed effettivamente quell’assolo preoccupa sempre
un po’ l’esecutore perché è di difficile intonazione (qualche
violoncellista, per sentirsi più sicuro, piazza sulla tastiera un
francobollo che gli indica il punto in cui deve rapidamente
portare il dito durante un certo passaggio). In altre parole, Šo-
stakovič, come del resto Ravel, non scrive in modo né sem-
plice né convenzionale, ma il suo sensibilissimo orecchio, eser-
citato dall’ascolto dei singoli strumenti e dell’orchestra, lo gui-
da nell’immaginare musica che risulta idiomatica per tutti.
Nella storia della composizione orchestrale Šostakovič è da
considerare come uno dei maggiori strumentatori, pari a Ber-
lioz, a Rimskij-Korsakov, a Mahler, a Strauss, a Ravel, a Stra-
vinskij. E il successo della sua prima Sinfonia fu tale e fu tal-
mente gratificante che egli celebrò poi sempre il 12 maggio
come la data della sua nascita di compositore.
Sinfonia in fa minore in quattro movimenti, formalmente
tradizionale, drammaturgicamente molto semplice. È d’uso, o di-
ciamo di tradizione, citare Stravinskij (lo Stravinskij ‘‘russo’’),
Prokof’ev e Mahler come i numi tutelari a cui Šostakovič guar-
da nella Sinfonia n. 1 op. 10. Ho fatto notare nella premessa
che Šostakovič si inserisce storicamente nel filone della conti-
nuità, non in quello, adornianamente, del progresso o della
restaurazione, e quindi qualche nume tutelare lo deve pur
avere, direi per definizione. Questo tipo di analisi può arrivare
CAPITOLO IV 31

a ritrovare nella Sinfonia persino gli echi del Concerto n. 1 di


Liszt e nel nucleo tematico del primo movimento una cellula
impiegata da Rachmaninov per simboleggiare le lacrime. Ma
la ricerca dei ‘‘referenti’’ rischia di far perdere di vista la perso-
nalità di Šostakovič, che non aveva aspettato di scrivere la Sin-
fonia per dimostrare il suo penchant per il grottesco, tanto da
far inalberare il suo maestro di composizione. Il grottesco era
del resto una componente fondamentale dell’arte negli anni
venti, ed è persino superfluo citare Grosz o Dix o Max Beck-
mann come corrispettivi nella pittura della poetica di Šostako-
vič. Il grottesco non è però l’unico registro espressivo di Šo-
stakovič perché i primi due movimenti della Sinfonia, grotte-
schi, sono seguiti da due movimenti eroico-macabri. Le pro-
porzioni, al contrario di quanto ci si aspetterebbe in una
sinfonia russa di quel periodo e con un grande organico or-
chestrale, non sono affatto monumentali: circa ventinove-tren-
ta minuti nella maggior parte delle esecuzioni. Ma Šostakovič,
dice Nikolaj Mal’ko, pensava che la durata dovesse essere an-
cora inferiore: ‘‘Secondo la sua stima la Sinfonia doveva dura-
re venticinque minuti. Toscanini la dirigeva abitualmente in
ventisei minuti e quarantacinque secondi. Altri direttori hanno
bisogno di trentadue-trentatre minuti. Tuttavia, se la Sinfonia
fosse eseguita nei tempi indicati [da Šostakovič con il metro-
nomo] sarebbe in molte sezioni fisicamente impossibile suo-
narla e occuperebbe in effetti meno di venti minuti’’. La dura-
ta, cioè lo stacco dei tempi, non è in verità indifferente rispet-
to al carattere della musica. Con i ventisette minuti circa di
Toscanini e i circa trenta della maggior parte delle esecuzioni
la cadenza oratoria è fluida e discorsivamente facile da seguire.
Se si andasse sui venticinque minuti o meno il carattere grot-
tesco del primo e del secondo movimento si accentuerebbe
nettamente e avremmo un ritmo oratorio esagitato e febbrile
da film di Charlot, ma effettivamente alcuni episodi richiede-
rebbero nell’orchestra un virtuosismo tecnico difficilmente
conseguibile.
Indipendentemente da questo problema il primo movi-
mento sembra comunque musica per una parata militare in cui
32 Š O S T A K O V I Č

si passa continuamente, come in un film, dalla visione del pas-


so cadenzato dei soldati ai commenti beffardi degli spettatori.
E la costruzione è tutta spezzettata, con continui interventi so-
listici di questo o quello strumento, a cominciare dall’inizio,
celebre, in dialogo fra la tromba con sordina e il fagotto, e
proseguendo con il clarinetto accompagnato dagli archi in piz-
zicato, e via via fino alla marcetta caricaturale e al secondo te-
ma in ritmo di valzer, affidato alle sinuose e ‘‘femminili’’ vo-
lute del flauto. La caleidoscopica discontinuità timbrica è tut-
tavia retta da un uso dei materiali tematici tanto sapiente
quanto veramente sbalorditivo in un compositore di dicianno-
ve anni. Il secondo movimento, indicato semplicemente come
Allegro, è in forma di scherzo con trio ma in metro binario,
non ternario. I due temi principali sono radicalmente contra-
stanti: demoniaco, più ancora che grottesco, il primo, pastorale
il secondo. Nel secondo movimento viene impiegato in inter-
venti solistici il pianoforte (perciò, credo, si parla spesso di
rapporto fra Šostakovič e lo Stravinskij del Petruška). La forma
non viene chiusa in modo secco ma la riesposizione è seguita
da una coda evanescente che introduce il terzo movimento. Il
terzo e il quarto movimento sono collegati e insieme formano
come un poema sinfonico in due parti, dolorosa e dolente la
prima, e ricca di squilli militari da marcia funebre, mentre
progressivamente liberatoria è la seconda, con un punto cul-
minante affidato a un impressionante assolo dei timpani e una
conclusione trionfale. La strumentazione è qui meno disconti-
nua, gli archi riacquistano la loro tradizionale funzione lirica
in seno all’orchestra, e il tono discorsivo cambia, come già di-
cevo, diventando più usuale, più consueto.
Se la Sinfonia n. 2, come vedremo poi, si richiama esplici-
tamente alla Rivoluzione d’Ottobre, la Sinfonia n. 1 sembra ri-
chiamarsi implicitamente alla Rivoluzione di Febbraio, all’in-
surrezione che aveva provocato 184 vittime, sepolte il 23 mar-
zo 1917 in una fossa comune nel Campo di Marte alla presen-
za d una folla sterminata. La famiglia Šostakovič aveva assistito
alla cerimonia dell’inumazione e Mitja aveva composto, come
abbiamo visto, la Marcia funebre e l’Inno alla Libertà. Non sareb-
CAPITOLO IV 33

be stato ‘‘politicamente corretto’’ rimemorare nel 1925 – e


poi durante tutta la vita di Šostakovič – la Rivoluzione di
Febbraio, di ispirazione democratica, che era stata cancellata
dalla Rivoluzione d’Ottobre, di ispirazione bolscevica. Ma
l’impressione che si ha è che i drammatici avvenimenti dell’in-
verno 1917, intensamente vissuti da Šostakovič, trovassero la
loro sublimazione nella Sinfonia n. 1.
34 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO V

ANNI FELICI (I)

Ho detto che dopo il diploma di composizione e prima di


partire per le vacanze del 1925 Šostakovič ultimò il secondo
dei Due Pezzi op. 11 per ottetto d’archi. In un primo mo-
mento aveva inteso comporre una suite con un preludio e fu-
ga all’inizio, poi aveva rinunciato alla fuga e poi alla suite, li-
mitandosi al Preludio e allo Scherzo. Le motivazioni che spinse-
ro Šostakovič a misurarsi con una formazione strumentale che
dopo l’Ottetto di Mendelssohn e i Doppi Quartetti di Spohr
non aveva più avuto altri esempi significativi restano oscure. E
il carattere delle due composizioni, totalmente diverso da
quello dei modelli luminosi di Spohr e di Mendelssohn, è sor-
prendente. Un Preludio cupo, frammentato, tempestoso, uno
Scherzo del tutto atipico, in realtà uno scherzo-marcia di carat-
tere grottesco-macabro. La scrittura è molto densa e più da
musica sinfonica che da musica da camera ma, come sempre
in Šostakovič, la strumentazione è un modello di chiarezza e
di efficacia. Il progetto di una Sonata per pianoforte e di una
seconda Sinfonia, di cui Šostakovič parla in una lettera a Ja-
vorskij del 27 giugno 1925, furono accantonati per il soprag-
giungere del blocco creativo di cui ho già detto. E ho già det-
to delle vicende che precedettero e seguirono la prima esecu-
zione della Sinfonia n. 1.
Dopo l’esecuzione a Karkhov della sua Sinfonia op. 10 e la
sua partecipazione al concerto sinfonico e al concerto solistico,
di cui il lettore si ricorderà, Šostakovič passò le vacanze ad
Anapa sul Mar Nero, località scelta non a caso perché vi sog-
giornava con i genitori la sua fiamma di sempre Tat’jana Gli-
venko (‘‘Sono persone splendide. Gli stavo tra i piedi per
CAPITOLO V 35

giorni interi, con loro mi sentivo come uno di casa. E ora ne


ho nostalgia’’; 7 agosto 1926, a Javorskij). Šostakovič tornò in
famiglia passando per Mosca, ospite di Javorskij, e dopo l’arri-
vo a Leningrado, rinunciando a scrivere un concerto per pia-
noforte che aveva vagheggiato, mise mano alla Sonata op. 12
per pianoforte solo progettata un anno prima, di cui parlò in
una lettera a Javorskij del 30 agosto. Pensava di ultimarla in
pochi giorni ma sorsero degli intoppi di cui dirò poi e per
mettere la parola ‘‘fine’’ dovette attendere fino al 20 ottobre.
La eseguı̀ per la prima volta il 2 dicembre a Leningrado e la
rieseguı̀, sempre a Leningrado, il 9, con un successo contrasta-
to: il suo insegnante di pianoforte Leonid Nikolaev disse che
non si trattava di una sonata per pianoforte ma di ‘‘un pezzo
per metronomo con accompagnamento di pianoforte...’’.
Delle vicende legate al Concorso Chopin di Varsavia il
lettore è già stato informato. Tornato a Leningrado da Varsa-
via e dopo essere passato per Berlino, Šostakovič fece una au-
dizione con Prokof’ev, rientrato nell’Unione Sovietica per un
giro di concerti, e gli presentò la Sonata. Nel diario di Pro-
kof’ev leggiamo:
Il secondo [ragazzo ascoltato] è un giovanottello, Šostakovicˇ, che non è sol-
tanto compositore ma anche pianista. Suona in un modo molto vivo, a memo-
ria – dopo avermi collocato la partitura sul divano. La sua Sonata comincia
con un canone a due voci pieno di slancio, un po’ influenzato da Bach; il se-
condo movimento della Sonata, che segue il primo senza interruzione, è com-
posto con armonie dolci con una melodia al centro. È gradevole, seppur discor-
sivo e un po’ lungo. Dall’Andante si passa a un finale rapido, sproporzionato
rispetto al resto, tanto è corto. Ma l’insieme è più vivo e più interessante di
Schillinger [l’altro ragazzo ascoltato, futuro autore di importanti trattati e mae-
stro di Gershwin], tanto che io mi lancio, tutto felice, in un elogio di Šostako-
vicˇ. Asaf’ev [il critico a cui Prokof’ev aveva dedicato la Sinfonia classica] si di-
verte e dice che Šostakovicˇ mi piace perché la prima parte della sua Sonata è
scritta sotto la mia influenza.

Vediamo invece la versione di Šostakovič: ‘‘[...] mi sono


fatto onore con la mia Sonata. Prokof’ev l’ha ascoltata fino al-
la fine e mi ha chiesto di suonare l’inizio più lentamente, per-
36 Š O S T A K O V I Č

ché – dice – non ha capito niente. Parlando con Nikolaev ho


saputo che a Sergej Sergeevič [Prokof’ev] la Sonata era piaciu-
ta. Soprattutto l’inizio. Il Lento l’ha trovato stiracchiato e il fi-
nale confuso’’ (a Javorskij, 25 febbraio). Šostakovič aveva an-
che ascoltato Prokof’ev nel suo Concerto n. 2 e nelle Sonate n.
2 e n. 4 (‘‘Ha suonato splendidamente. Il Concerto è bello
come raramente capita’’, lettera a Javorskij, 25 febbraio). L’os-
servazione di Asaf’ev coglieva nel segno: la Sonata op. 12 deve
qualcosa alla Sonata n. 3 di Prokof’ev, e noi abbiamo già visto
che il 6 marzo 1927, scrivendo a Javorskij, Šostakovič gli pro-
poneva un programma di recital con la Sonata n. 3 di Proko-
f’ev alla conclusione della prima parte, dopo la sua Sonata op.
12. Non possiamo sapere se Šostakovič studiasse la Sonata di
Prokof’ev prima e dopo l’audizione, ma certamente doveva
conoscerla da tempo. Si può condividere o meno l’osservazio-
ne di Prokof’ev a proposito della parte centrale, il Lento (non
Andante), mentre la critica rivolta alla parte finale sembra a
me fondata. Šostakovič si era in un primo momento arenato
perché intendeva comporre un pezzo ispirato alla Rivoluzione
d’Ottobre, di cui sarebbe ricorso nel 1927 il decennale, e ciò
avrebbe comportato necessariamente una coda trionfale. Aveva
poi rinunciato a questo progetto, che veniva spostato sulla Sin-
fonia n. 2, e aveva chiuso la Sonata in un modo che secondo
me non tiene conto dell’arcata architettonica complessiva, tan-
to che la conclusione del pezzo appare all’ascolto come tron-
cata.
Alla Sonata fecero seguito gli Aforismi op. 13, dieci brevi
pezzi per pianoforte composti fra il 27 febbraio e il 20 aprile
1927. Šostakovič dichiarò, molti anni più tardi: ‘‘Ho concepi-
to gli Aforismi mentre andavo a letto una notte all’inizio di
febbraio, a Berlino. In quel periodo pensavo spesso a una certa
legge di natura e ciò mi diede lo stimolo a comporre gli Afo-
rismi, che sono guidati da un’unica idea. Quale sia questa idea
non voglio rivelarlo adesso’’. Il lettore non si adonterà, spero,
se citerò qui il mio commento, tratto dalla Guida alla musica
pianistica (Zecchini Editore, Varese 2012):
CAPITOLO V 37

Senza pretendere di penetrare nei segreti della creazione possiamo dire che i
dieci pezzi sono da considerare come ciclo organico, non come semplice raccolta,
perché a unirli non c’è soltanto il tono espressivo cupo, ipocondriaco, ma so-
prattutto il senso della sofferta riconquista della continuità espositiva e della lo-
gica formale classica. Il discorso è tremendamente frammentato nei primi otto
pezzi, con contenuti formali che contraddicono i titoli perché Šostakovicˇ lavora
su schegge, sulle macerie di ciò che erano state tradizionalmente la serenata, il
notturno, l’elegia, la marcia funebre, montandole secondo una logica espressio-
nistica che rifiuta la forma classica e le sue simmetrie (e la sua retorica). Ma
dallo Studio in poi il discorso prende a strutturarsi secondo schemi razional-
mente verificabili e il pezzo conclusivo, Ninna nanna, è – sintatticamente,
non linguisticamente – un adagio barocco fiorito. Eric Roseberry ha giusta-
mente osservato che ‘‘questi pezzi sono ben lungi dall’essere esercizi accade-
mico/retorici di iconoclastia’’. Šostakovicˇ non è mosso affatto da furore distrut-
tivo ma da volontà di ricerca di un nuovo ordine. Si potrebbe dire, celiando
un po’ ma non troppo, che egli parta dall’Urschrei schoenberghiano per appro-
dare all’Adagietto della Sonata di Stravinskij. Certamente gli Aforismi rappre-
sentano il momento in cui Šostakovicˇ sperimenta, in un laboratorio qual era
stato per molti altri prima di lui il pianoforte, una scelta di campo che indi-
rizza tutto il suo successivo cammino di creatore.

Sappiamo che durante l’autunno del 1926 Šostakovič ave-


va studiato composizioni di Schönberg e di Bartók, ma non
sappiamo quali. In ottobre aveva ascoltato in un concerto della
Filarmonica di Leningrado il Concerto per violino di Krenek e il
Concerto per orchestra op. 38 di Hindemith (‘‘Hindemith è un
autentico genio. Il suo Concerto è qualcosa di mirabile. Non
ho ancora rimesso i piedi sulla terra’’, a Javorskij, 21 ottobre
1926). Da una parte Prokof’ev, Bartók e Hindemith, dall’altra
Schönberg e Krenek (che non aveva ancora scritto l’opera Jon-
ny spielt auf). Al bivio fra il radicalismo e la continuità, fra la
dodecafonia e la tonalità, Šostakovič doveva aver meditato su-
gli indirizzi della musica nel dopoguerra e aveva scelto la con-
tinuità. Secondo me, questo è il significato degli Aforismi op.
13, composizione-chiave della produzione di Šostakovič, che
purtroppo rimane pressoché ignorata.
A Varsavia Šostakovič aveva avuto un attacco di appendi-
cite, e aveva preso parte al concorso stringendo i denti. Ma
dopo un nuovo attacco in aprile fu operato il 24. Val la pena
38 Š O S T A K O V I Č

di citare la lettera del 6 maggio a Javorskij, nella quale Šosta-


kovič annuncia di essersi rimesso dall’operazione, e che è for-
temente indicativa del suo vivace senso dell’umorismo:
Oborin mi ha riferito un vostro colloquio telefonico riguardante la mia salute.
Inoltre, mi ha riportato la Sua teoria riguardante l’estirpazione di un organo
dal suo proprietario. Non sono d’accordo. Preferisco perdere l’appendice piutto-
sto che gemere di dolore durante gli attacchi e vomitare ventidue volte in una
notte, cosa che mi è accaduta nella notte tra il sabato e la domenica di Pasqua
(se non erro). Anche se Skrjabin sosteneva che nel dolore si può scoprire il pia-
cere, questa teoria masochista non trova riscontro nel mio animo. Ho provato a
trarre ‘‘piacere’’ dal dolore in quella notte, ma ho ricavato soltanto tormento.
Si può anche cercare il piacere nei tormenti, ma secondo me è come cercare un
ago in un pagliaio. Non amo impegnarmi in imprese senza speranza. Ma se
ripenso a un fatto accaduto in Crimea nel 1923, anche questo non mi pare
poi cosı` senza speranza. Ecco il fatto. Facevo il bagno. E a un tratto... mi
venne addosso un’onda e mi portò via gli occhiali dal viso. Ma non mi persi
d’animo. Allungai una mano nella vastità dell’acqua... e ripescai gli occhiali.
Proverò a catturare il piacere nei tormenti. Magari ci riuscirò.

Alla fine di marzo gli era stato commissionato dalla Divi-


sione Propaganda della Sezione Musicale delle Edizioni di Sta-
to un lavoro sinfonico per il decimo anniversario della Rivo-
luzione d’Ottobre. Nacque cosı̀ fra aprile e giugno la Sinfonia
n. 2 in si bemolle maggiore op. 14 per orchestra e coro, sottoti-
tolata ‘‘All’Ottobre’’ (versi di Aleksandr Bezymenskij), che fu
eseguita per la prima volta a Leningrado il 6 novembre, per
inviti, sotto la direzione di Mal’ko, e per il normale pubblico
a Mosca il 4 dicembre, diretta da Konstantin Saradžev. Šosta-
kovič aveva incontrato qualche difficoltà nel lavorare sulla se-
zione finale con coro perché la poesia ‘‘patriottica’’, con la sua
inevitabile enfasi, urtava il suo senso dell’umorismo. Non si
tratta certamente di versi che facciano concorrenza a Goethe,
ma non si tratta neppure di cose dozzinali, non più di quanto
lo siano molti libretti d’opera. E Šostakovič riuscı̀ alla fine a
incorporarli nella Sinfonia senza cedere alla tentazione di mu-
sicarli in modo convenzionale. La Sinfonia, che è in un solo
movimento articolato in più parti e che dura circa diciotto
minuti, è in realtà un poema sinfonico al modo di Liszt. Il di-
CAPITOLO V 39

segno drammaturgico è chiarissimo: dall’oscurità e dal caos alla


luce, alla vittoria e all’aura profetica (‘‘Ecco il vessillo delle
genti future: Ottobre, Comune e Lenin’’). La struttura è coe-
rente ed equilibratissima, il linguaggio rappresenta simbolica-
mente il dramma passando progressivamente dalla atonalità e
dalla atematicità dell’inizio – caos – alla tonalità e alla costru-
zione tematica – luce. La circostanza celebrativa non impedi-
sce dunque a Šostakovič di comportarsi creativamente in mo-
do libero da condizionamenti. E anche l’inclusione della sirena
da fabbrica prima dell’entrata del coro, suggerita dal critico
Sulgin che lavorava alle Edizioni di Stato e che era stato no-
minato redattore per la pubblicazione della Sinfonia, non ap-
pare forzata.
La Sinfonia n. 2 venne compensata con 500 rubli, che a
Šostakovič facevano molto comodo. Intanto, alla fine di mag-
gio, il Nostro aveva conosciuto Ivan Sollertinskij, uomo dai
molti talenti, filologo ed esperto di lingua spagnola e di lingue
romanze, che sostituı̀ Javorskij come amico-guida e che, dive-
nuto consulente della Filarmonica di Leningrado, rappresentò
per Šostakovič un aggancio con una importantissima istituzio-
ne statale. La sorellina Zoja sostenne, e tutti i biografi riporta-
no la sua impressione, sostenne, dicevo, che l’amicizia fra Šo-
stakovič e Sollertinskij fosse ‘‘morbosa’’, affermazione che può
essere variamente intesa ma che non siamo in grado di verifi-
care nei suoi contenuti e sulla quale, quindi, non mi sofferme-
rò. Noterò soltanto che Sollertinskij, abitando a Leningrado,
poteva svolgere la funzione di confidente meglio di Javorskij,
che risiedeva a Mosca. Durante le vacanze a Detskoe Selo Šo-
stakovič fece però un altro incontro cruciale: conobbe Nina
Varzar, studentessa di fisica, molto bella, vivace, affascinante.
Dopo il ritorno a Leningrado prese a frequentare assiduamente
casa Varzar e, vincendo la perplessità dei genitori di lei, si fi-
danzò con la ragazza. Fidanzamento lunghissimo – il matrimo-
nio ebbe luogo soltanto nel 1932 – e non privo di periodici
ritorni verso Tat’jana, anche dopo che questa, nel 1929, si era
sposata. Ma di ciò parlerò più avanti.
40 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO VI

NASCITA DI UN DRAMMATURGO

Mentre componeva la Sinfonia n. 2 Šostakovič cominciò a


pensare a un’opera ricavata dal celebre racconto di Gogol’ Il
Naso. La vocazione drammaturgica di Šostakovič si era mani-
festata fin dal 1918, quando aveva composto l’opera Gli Zinga-
ri (da Puškin, lo stesso soggetto trattato da Rachmaninov in
Aleko) e il balletto Rusalocˇka. Entrambi questi tentativi giova-
nili furono distrutti nel 1926. La vita musicale di Leningrado,
attivissima negli anni venti, aveva fatto conoscere a Šostakovič
non solo il repertorio tradizionale, russo e non, ma alcune
opere contemporanee come la Salome di Strauss (rappresentata
per la prima volta in Russia nel 1924), Der ferne Klang di
Schreker (1925), L’Amore delle tre melarance di Prokof’ev
(1926), Mona Lisa di Schillings (1926), Der Sprung über den
Schatten di Krenek (1927), Wozzeck di Berg (1927), e nel
1928 l’altra opera di Krenek, Jonny spielt auf, che stava avendo
un travolgente successo internazionale. Oltre a queste veniva-
no inscenate a Leningrado varie opere di compositori sovietici,
tutti alla ricerca – ricerca affiancata da accesi dibattiti giornali-
stici – della ‘‘nuova opera sovietica’’. Qualche critico ritiene
che Der Sprung über den Schatten, opera di una paradossale co-
micità su libretto dello stesso Krenek, rappresentasse per Šosta-
kovič un modello o per lo meno uno stimolo. E per quanto
riguarda il Wozzeck, inscenato a Leningrado in giugno, quan-
do la composizione del Naso, op. 15, era già stata avviata, si
può notare che Šostakovič, rispondendo nel 1927 a un que-
stionario, dichiarò di considerare l’opera di Berg come l’unica,
fra le contemporanee, veramente degna di attenzione. Trovia-
mo il primo accenno al Naso in una lettera del 12 giugno
CAPITOLO VI 41

1927 a Javorskij (‘‘Il libretto lo scriverò io stesso. In caso di


complicazioni mi farò consigliare da Radlov. Ho già quasi
composto l’ouverture’’). Il lavoro fu condotto a termine nel
giro di poco più di un anno, in parte a Leningrado, in parte
durante un lungo soggiorno a Mosca di cui dirò più avanti. Il
libretto era di Šostakovič, che si era però avvalso di ben tre
collaboratori, Evgenij Zamjatin, Georgij Ion’in e Aleksandr
Prejs.
Già nell’estate del 1928 l’opera fu accettata dal Teatro
Bol’šoj di Mosca, che affidò la regia a Mejerchol’d. Ma la dif-
ficoltà musicale della partitura e i molti impegni del regista
provocarono continui rinvii. Anche il Teatro Malegot di Le-
ningrado accettò il Naso. Una suite dell’opera fu diretta da
Mal’ko a Mosca il 25 novembre 1928, a Leningrado ci fu il
16 luglio 1929 un’esecuzione in forma di concerto, fortemen-
te contrastata da Šostakovič (‘‘Il Naso per me perde qualsiasi
significato se lo si considera solo dal lato musicale’’, lettera a
Smolič, 7 giugno 1929). La prima rappresentazione scenica, al
Malegot, ebbe luogo il 18 gennaio 1930. Le reazioni della cri-
tica furono fortemente contrastanti e in gran parte provocate
da diverse motivazioni ideologiche: il Naso ebbe sedici rappre-
sentazioni nel 1930, restò in repertorio al Malegot soltanto fi-
no alla successiva stagione e non fu ripreso da alcun altro tea-
tro. Mosca dovette attendere di vederlo fino al 1974.
La vicenda del Naso è quella della notissima novella di
Gogol’. Un burocrate, svegliandosi al mattino, si accorge di
non avere più il naso. Esce di casa per cercarlo (!), lo vede
passare in uniforme (!), corre a denunciarlo alla polizia, ecc.
ecc., fino a che, un giorno, il naso è di nuovo al suo posto e
tutto finisce come se nulla fosse successo. L’opera, in tre atti, è
una girandola di piccoli episodi uno più grottesco dell’altro e
comprende più di sessanta ruoli: non più di sessanta cantanti
perché è previsto che alcuni interpreti possano ricoprire due o
anche tre ruoli, ma il cast è tuttavia imponente (un po’ come
quello del Trittico di Puccini) e quindi la messa in scena è di
costi elevati e di difficile montaggio. Le intenzioni di Šostako-
vič sono bene espresse in una lettera del 4 novembre 1928 a
42 Š O S T A K O V I Č

Gavriil Kolišer, violinista del Bol’šoj e membro della commis-


sione che selezionava le musiche da mettere in produzione. Le
spiegazioni di Šostakovič, esposte in terza persona, riguardano
la suite di sette pezzi che fu poi eseguita a Mosca, ma investo-
no evidentemente tutta la struttura dell’opera:
Il soggetto è stato preso dell’omonima novella di Gogol’. Il soggetto di questa
novella ha attirato il compositore per il suo contenuto fantastico, grottesco, reso
da Gogol’ con toni strettamente realistici. Il compositore non ha ritenuto neces-
sario rafforzare il testo satirico di Gogol’ con una musica con coloriture ‘‘ironi-
che’’ o ‘‘parodistiche’’, al contrario, lo ha accompagnato con una musica asso-
lutamente seria. Il contrasto tra la comicità della trama e il carattere serio della
musica sinfonica è destinato a sortire un effetto teatrale particolare; questo crite-
rio pare tanto più giustificato in quanto lo stesso Gogol’ narra peripezie comi-
che con un tono volutamente serio. Lo stesso testo del Naso è il di gran lunga
il più espressivo di tutti i Racconti pietroburghesi e il compositore è stato parti-
colarmente affascinato dal compito di rivestire di note la musicalità del linguag-
gio gogoliano: alla base della struttura delle parti vocali si trova proprio questo
principio. Scrivendo l’opera, il compositore non si è attenuto affatto al principio
secondo il quale un’opera sarebbe principalmente una produzione musicale.
Nel Naso gli elementi dell’azione scenica e della musica hanno lo stesso peso.
Né gli uni né gli altri occupano un posto privilegiato.
In questo modo il compositore si è sforzato di fare una sintesi di musica e
azione teatrale. La musica è stata scritta non a scene separate, ma come un
fluire sinfonico ininterrotto, solo che non ha leitmotiv [motivo conduttore].
Ogni atto è come un movimento di un’unica sinfonia musical-teatrale. Hanno
un grande ruolo il coro e i complessi vocali. La composizione dell’orchestra è
fortemente ridotta: un insolito organico di fiati costituito dalla sezione dei legni
e, come ottoni, da tromba, corno e trombone [più il quintetto d’archi e la bala-
laika]. In compenso ci sono molti strumenti a percussione.

Appare evidente l’intenzione di Šostakovič di comporre


un’opera nella tradizione di Dargomyžskij e di Musorgskij, e
quindi una musica che sia strettamente legata alla declamazio-
ne della parola. La caratterizzazione degli innumerevoli perso-
naggi è perseguita con estrema cura, e sebbene si possa dire
che non tutti sono sbalzati con la stessa plastica evidenza non
si può non riconoscere che si tratta, per un compositore non
ancora ventunenne, di una epica impresa. Il trattamento del-
CAPITOLO VI 43

l’orchestra ridotta crea macchie di colore variegate, e l’Inter-


mezzo del primo atto, per sole percussioni, è diventato giusta-
mente famoso come uno dei più riusciti esempi di organizza-
zione del rumore. Ma dicevo che Mosca dovette aspettare a
vedere il Naso fino al 1974. L’iniziativa di questa messa in sce-
na fu dovuta al regista Boris Pokrovskij e al direttore d’orche-
stra Vladimir Del’man, che nel 1971 montarono l’opera con i
loro studenti dell’Istituto Statale di Teatro e d’Arte e che do-
po alcune rappresentazioni in ambito scolastico a Mosca la
portarono alla chetichella in tournée nel Sud della Russia.
Pokrovskij propose quindi l’opera al Bol’šoj, senza alcun suc-
cesso. Fondò allora il Teatro dell’Opera da Camera di Mosca,
e insieme con Del’man prese in carico una compagnia d’opera
itinerante che batteva la provincia (‘‘una delle peggiori’’, mi
disse Del’man), affittò un ex-cinema sotterraneo divenuto ga-
rage e montò due opere in un atto di Tichon Chrennikov,
presidente, e di Rodion Ščedrin, segretario dell’Unione Com-
positori.
Guadagnatasi cosı̀ la benevolenza dei due potenti perso-
naggi, Pokrovskij e Del’man chiesero e ottennero il permesso
di mettere in produzione il Naso e ci lavorarono per mesi.
Quando ritennero che la preparazione fosse arrivata a buon
punto invitarono Šostakovič, che seguı̀ tutta l’opera cantando-
ne sottovoce – la sua fenomenale memoria! – ogni parte. Alla
fine Šostakovič ringraziò ma fece alcune osservazioni riguar-
danti modifiche di vario genere che erano state introdotte da
Del’man. La reazione di Del’man, artista fortemente indivi-
dualista e tutt’altro che disposto a rimettere in discussione le
sue idee, provocò un incidente e la conseguente sostituzione
del direttore. Elisabeth Wilson narra la vicenda in un modo
un po’ diverso, e cioè dice che nacquero dissapori fra il regista
e il direttore prima che Šostakovič assistesse alla prova. Io ho
riferito quello che mi fu raccontato da Del’man. Ma come sia-
no andate esattamente le cose, in fondo, non ha molta impor-
tanza. L’opera fu diretta da Gennadij Roždestvenskij e fu poi
portata in tournée in tutta Europa.
44 Š O S T A K O V I Č

Vidi la rappresentazione sia a Mosca che in Italia. La messa


in scena di Mosca, in un garage che era restato tale e quale,
salvo un piccolo palcoscenico e una zona riservata all’orche-
stra, con le pareti e le colonne vivacemente ridipinte a strisce
come d’uso nei parcheggi sotterranei, con i cantanti che sbu-
cavano vorticosamente fuori da tutte le parti e cantavano e re-
citavano con una precisione e una naturalezza degna degli
spettacoli di Felsenstein, non solo era entusiasmante ma dava
ragione della genialità del ventenne Šostakovič. Ripreso in al-
tri ambienti l’allestimento non raggiungeva invece lo stesso
grado di automatismo, di geometrica precisione, di – se cosı̀ si
può dire – realistico surrealismo. Purtroppo nessuna altra mes-
sa in scena successiva ha raggiunto questo grado di ‘‘verità’’, e
l’opera, a causa delle sue difficoltà di esecuzione, è stata ripresa
molto di rado, mentre è da vedere come uno dei più alti tra-
guardi raggiunti dal teatro musicale del Novecento.
Chiamato da Mejerchol’d, che lo voleva nel suo teatro
come pianista e arrangiatore, Šostakovič si recò a Mosca al-
l’inizio del 1928, ospite in casa del regista. Lavorò a Mosca per
due mesi, apparendo anche come pianista nella celeberrima
rappresentazione del Revisore di Gogol’ con la rivoluzionaria
regia di Mejerchol’d. Tornato a Leningrado, e finito il Naso,
fece richiesta di andare all’estero: richiesta respinta (‘‘Avevo
tanto sognato Parigi, l’Italia e mi ero perso nei sogni’’; a Ja-
vorskij, 10 ottobre 1928). Recatosi di nuovo a Mosca per l’e-
secuzione della Suite del Naso, Šostakovič ricevette da Mejer-
chol’d la commissione per la musica di scena, op. 19, della
commedia La Cimice di Majakovskij, che fu rappresentata a
partire dal 13 febbraio 1929. E tra gennaio e febbraio compo-
se la musica, op. 18, per il film muto La nuova Babilonia, che
gli fruttò 2000 rubli. La nuova Babilonia è Parigi e il film si
svolge al tempo della Comune. La partitura di Šostakovič –
quattordici pezzi – è un altro dei suoi capolavori giovanili, ed
è costruita sulle immagini (sebbene esistano alcuni problemi di
sincronizzazione è possibile oggi vedere la pellicola con la co-
lonna sonora inclusa). Il comitato che doveva dare il via alla
produzione approvò la musica di Šostakovič: ‘‘Questa musica
CAPITOLO VI 45

si distingue per il suo considerevole legame con lo stile e il


ritmo del film, per la sua grande forza emozionale ed espressi-
vità. L’effetto del film è grandemente aumentato. Inoltre, no-
nostante l’originalità e la freschezza della forma, la musica è
abbastanza semplice e può essere apprezzata dalla massa degli
spettatori’’. Purtroppo la mediocre esecuzione dell’orchestra e
molti errori di sincronizzazione causarono alla prima proiezio-
ne del 18 marzo un semi-disastro che affossò e la pellicola e la
musica.
Nel 1929 la direzione dell’ex-Teatro Mariinskij, ribattez-
zato come Teatro di Stato e più tardi come Kirov, bandı̀ un
concorso per un libretto di balletto, che fu vinto da Dinamiada
di Aleksandr Ivanovskij. La composizione della musica fu affi-
data a Šostakovič, con il titolo L’Età dell’oro, op. 22. Si tratta
di un, diciamo cosı̀, prototipo di ‘‘balletto sovietico’’ e rac-
conta ciò che capita prima e dopo una partita di football fra
una squadra sovietica e una squadra fascista che si incontrano,
in un paese capitalistico (in un primo momento si chiamava
Fachstlandia), durante l’esposizione industriale L’Età dell’oro.
Nel secondo atto ha luogo il vero e proprio match,... con un
pallone immaginario, e i sovietici, naturalmente, vincono, ma
nel terzo atto, introdotto da una parafrasi di Tea for Two di
Youmans e che si svolge nel salone principale della esposizio-
ne, capitano ancora varie avventure. La musica di Šostakovič
impiega danze e canti rivoluzionari russi e danze ‘‘capitalisti-
che’’ come il fox-trot, il tango, il cancan. La musica, non
esente da molteplici tratti stilistici che richiamano vagamente
Stravinskij, Hindemith, Kurt Weill e i Six parigini, è spiritosis-
sima, umoristica, beffarda. Ma la parte che più colpı̀ e che più
colpisce il pubblico anche oggi è quella ‘‘decadente’’ delle
danze occidentali (la Polca, trascritta da Šostakovič per piano-
forte, divenne in breve tempo celebre). L’Età dell’oro, rappre-
sentato per la prima volta a Leningrado il 26 ottobre 1930 con
una coreografia di Vasilij Vajnonen, Leonid Jacobson e Vladi-
mir Česnakov e con la regia di Emanuel Kaplan (la chiamata
di un regista per un balletto era una assoluta novità), ottenne
un clamoroso successo ma scatenò la critica perché la parte
46 Š O S T A K O V I Č

ideologicamente ‘‘negativa’’ non era delineata in modo abba-


stanza... negativo.
Un grandioso successo personale ottenne Ol’ga Iordan,
bellissima, elegantissima, serpentina danzatrice che nel ruolo di
Diva imitava a perfezione le mosse di Josephine Baker (Galina
Ulanova, ventenne, interpretava il ruolo positivo di una gin-
nasta, membro del Komsomol, dal cuore sovieticamente pu-
ro). Nella stagione 1930-31 l’Età dell’oro ebbe diciannove rap-
presentazioni e fu poi allestito anche a Kiev e a Odessa. Ma la
rimozione nel 1929 da Commissario della Cultura di Anatolij
Lunačarskij, intellettuale di vecchio stampo che nei primi tem-
pi del governo bolscevico aveva accordato a Prokof’ev il per-
messo di espatriare legalmente, era stata il segno tangibile di
un mutamento di clima, e il nuovo clima travolse e Il Naso e
L’Età dell’oro. A ventitre anni Šostakovič si era già misurato
con l’opera, con la musica di scena, con il balletto e con il
film, a venticinque si stava affermando come il più prometten-
te ed eclettico drammaturgo musicale del Novecento, quasi
una reincarnazione di Mozart. Ma le aspre riserve della critica
stavano già preparando le forche caudine che gli avrebbero
impedito di proseguire pacificamente cosı̀ come aveva comin-
ciato.
CAPITOLO VII 47

CAPITOLO VII

ANNI FELICI (II)

Come abbiamo visto, nel balletto L’Età dell’oro si trova


una versione shostakoviana di Tea for Two da No, no, Nanette
di Vincent Youmans. La trascrizione era stata effettuata da Šo-
stakovič nel 1928 e aveva ricevuto il numero d’opera 16 e il
titolo Tahiti Trot. Šostakovič ne parla in terza persona nella già
citata lettera a Kolišer del 4 novembre 1928:
In questo caso Šostakovicˇ si è divertito a fare del Tahiti Trot (uno dei migliori
fox-trot, musicalmente parlando, che siano comparsi negli ultimi tempi) un
brano lirico per orchestra. Questo arrangiamento non è per jazz-band, ma è
semplicemente l’interpretazione realizzata con i timbri che compongono l’orche-
stra. In qualche passaggio è cambiata anche l’abituale armonizzazione.

E insieme con il Tahiti Trot Šostakovič proponeva due So-


nate di Scarlatti, Pastorale e Capriccio (K 9 e K 20), notissime
perché che erano stati accoppiate e ‘‘modernizzate’’ nell’Otto-
cento da Carl Tausig, e alle quali aveva assegnato il numero
d’opera 17:
L’arrangiamento dei due pezzi per orchestra di fiati (1 flauto piccolo, 2 flauti
grandi, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 trombe, 2 corni e 1 trombone) non
sono elaborazioni tipo Pulcinella di Stravinskij ecc. In essi non c’è un simile
opulento rivestimento orchestrale. [...] Questi pezzi sono trasferiti all’orchestra
dall’originale e non dalle ricercate elaborazioni di Tausig. Šostakovicˇ ha perse-
guito lo scopo di conservare l’autentico stile di Scarlatti.

Il fruttuosissimo anno 1929 è anche quello della Sinfonia


n. 3 in mi bemolle maggiore ‘‘Il 1º Maggio’’ op. 20, commissio-
nata a Šostakovič per celebrare la festa dei lavoratori. Come la
Seconda, anche la Terza Sinfonia è in realtà un poema sinfonico
48 Š O S T A K O V I Č

al modo di Liszt con una parte affidata al coro su testo di Se-


mën Kirsanov. La prima esecuzione, diretta da Aleksandr
Gauk, ebbe luogo a Leningrado il 21 gennaio 1930, tre giorni
dopo la ‘‘prima’’ del Naso, e... subı̀ la stessa sorte dell’opera.
Šostakovič aveva lavorato alla Sinfonia nelle vacanze estive del
1929, lunghe vacanze durante le quali aveva avuto il battesi-
mo dell’aria (‘‘A riguardo dell’aeroplano, ti prego di non dir
nulla. Se lo viene a sapere la mamma, impazzirà dalla paura’’,
a Sollertinskij, 18 luglio) e non aveva mancato di divertirsi
(‘‘A Suchumi ho visitato un allevamento di scimmie’’, a Sol-
lertinskij, 8 luglio, ‘‘Ho avuto una interessante avventura nel
campo dell’erotismo’’, allo stesso, 18 luglio).
La Sinfonia, pressoché sconosciuta oggi, è una partitura fra
le più interessanti di Šostakovič. Il suo tono espressivo è festo-
so, lo schema architettonico segue in sostanza l’archetipo sin-
fonico, senza soluzione di continuità, con primo movimento,
adagio, scherzo e finale (il coro interviene soltanto negli ultimi
quattro dei circa ventisei minuti di durata), i temi sono grade-
voli e persino orecchiabili e comunque il più delle volte ‘‘po-
polari’’. La natura del discorso è però tale da rendere questa
Sinfonia un unicum che spesso è stato accusato di essere in
realtà musica da film perché vi mancano le grandi campate del
sinfonismo tradizionale (e anche, se non proprio della Seconda,
della Prima Sinfonia di Šostakovič). Discorso fratto, irruzioni di
episodi nuovi prima che gli episodi precedenti abbiano esauri-
to e sciolto la tensione dei punti culminanti, dissociazione dei
timbri, sovrapposizioni di fasce sonore distanziate e concomi-
tanti ma indipendenti. La singolarità della Sinfonia n. 3 è do-
vuta secondo me alla volontà di costruire un quadro sonoro di
musica per le strade, con la contemporaneità di eventi distinti
e separati che si ritrovano insieme per il semplice fatto di esse-
re presenti nello stesso momento in un grande spazio all’aper-
to. Le strade o, se vogliamo, la grande fiera o la grande festa
popolare, ma senza riferimenti al Petrusˇka di Stravinskij, dram-
matico, perché Šostakovič è seriamente intenzionato a celebra-
re una data simbolica nella storia del movimento operaio: la
Sinfonia n. 3 fa su di me l’impressione dei quadri ispirati al 14
CAPITOLO VII 49

luglio di Parigi. Le riserve che sono state espresse su di essa ri-


guardano a parer mio il tema – un topos della critica – della
sincerità di Šostakovič. Uomo di sinistra per tradizioni familia-
ri, in che modo egli accettò, o subı̀, la politica di Lenin e la
politica di Stalin e i condizionamenti che ne derivavano nel
campo artistico? Avremo occasione di riflettere su questo pun-
to quando parleremo della Sinfonia n. 5. Ma posso anticipare
qui che secondo me Šostakovič, come per altro verso Proko-
f’ev, aderı̀ al progetto, o utopia che dir si voglia, di costruzio-
ne di una società nuova, partecipando attivamente, in quanto
musicista, al destino del suo popolo.
Le altre composizioni del 1929 sono i Due Pezzi op. 23
per canto e orchestra, aggiunti all’opera comica Il Povero Co-
lombo di Erwin Dressel (1909-1972), rappresentata per la prima
volta in Germania nel 1928 e subito ripresa a Leningrado.
Avevo parlato prima, un po’ scherzosamente, di Mozart redi-
vivo. L’aggiunta di pezzi alle opere di altri compositori era
una pratica comune al tempo di Mozart: Šostakovič la ripren-
de, sia pure per una volta sola, nel clima di una società appena
uscita da una rivoluzione che fa saltare il principio della unità
e inviolabilità dell’opera d’arte, radicatosi nel costume nella se-
conda metà dell’Ottocento. L’op. 24 è la musica di scena, che
è andata perduta, per una commedia satirica di Bezymenskij,
Lo Sparo, rappresentata nel Teatro dei Giovani Lavoratori di
Leningrado il 14 dicembre 1929. Šostakovič era stato nomina-
to consulente musicale di questo teatro, e ciò lo mise un po’
al riparo dagli attacchi che gli erano stati portati dalla Associa-
zione Russa dei Musicisti Proletari. Anche in questo caso si è
discusso, e si discuterà ancora, se la sua collaborazione con una
istituzione semiufficiale fosse dovuta a convinzione o a conve-
nienza, per non dire a cinismo. Può anche darsi che Šostako-
vič valutasse l’utilità sul piano politico di una simile collabora-
zione, ma la mia convinzione è che egli fosse disposto ad ac-
cettare tutte le occasioni che gli capitavano per scrivere musi-
ca. La sua produttività era in quegli anni veramente frenetica,
come si capisce facilmente guardando il catalogo delle sue
composizioni. E bisogna anche tenere conto del fatto che fino
50 Š O S T A K O V I Č

al 1930, come abbiamo visto prima, egli continuò a tenere


concerti come pianista-interprete.
Per il Teatro dei Giovani Lavoratori Šostakovič scrisse
inoltre le musiche di scena, op. 25, per la commedia Terreno
dissodato, di Gorbenko e L’vov, che andò in scena il 9 maggio
1930. Anche queste musiche sono andate perdute, mentre è...
sopravvissuta la musica per Rule, Britannia! di Petrovskij, op.
28, composta nel 1931 e andata in scena nello stesso teatro in
maggio. Intensissimo, per Šostakovič, il 1931! Due film, Sola
op. 26 e Le Colline d’oro op. 30, il balletto Il Bullone op. 27, e
la prima incursione in un campo teatrale, la rivista, che ancora
mancava al suo palmarès, con Presumibilmente assassinato op.
31, in scena il 2 ottobre 1931 al Teatro Music Hall di Lenin-
grado. Il terzo atto di questa rivista si svolge in Paradiso, con
Dio, l’Arcangelo Gabriele, Mefistofele e altri angeli e demoni
che danzano in stile cabaret! Fra tutti questi, il lavoro più inte-
ressante è sicuramente il balletto. L’argomento era, come di
norma, di attualità. In una fabbrica lavorano sia dirigenti e
operai che si danno da fare intensamente per aumentare la
produttività, sia fannulloni ubriaconi che la sabotano: il bullo-
ne del titolo dovrebbe essere fatto scivolare in una macchina
per metterla fuori uso, ma l’operaio incaricato di ciò dai con-
giurati ha una crisi di coscienza e denuncia il complotto. Ar-
gomento attuale sı̀, forse, ma anche ingenuo quanto mai, e in
sostanza tutt’altro che privo di sinistre implicazioni propagan-
distiche perché i ritardi rispetto alla tabella di marcia con cui
veniva realizzato il Piano Quinquennale che Stalin aveva lan-
ciato nel 1928 aveva indotto le autorità a scaricare su capri
espiatori le difficoltà che inevitabilmente sorgevano nel mette-
re in moto un moderno sistema industriale in un arretrato
paese agricolo. Già nel 1928 si era capito quale clima si stesse
instaurando: alcuni ingegneri minerari erano stati processati e
fucilati. Stanare i sabotatori, metterli sotto accusa ed eliminarli
era diventato dunque un poderoso deterrente per tenere tutti
sotto pressione e per stimolare lo stakanovismo. Da cui, come
dicevo poc’anzi, le sinistre implicazioni propagandistiche del
balletto di Šostakovič.
CAPITOLO VII 51

Il balletto, coreografato da Fëdor Lopuchov, era basato su


un libretto perfettamente in regola con l’ottimismo di maniera
e con la propaganda, ma venne sviluppato sia dal musicista che
dal coreografo come commedia satirica e, grazie a una clamo-
rosa decisione della direzione del Teatro di Stato di Leningra-
do, non andò oltre la prima rappresentazione dell’8 aprile
1931 (sarebbe stato ripreso in Russia soltanto nel 2005!). Šo-
stakovič, per il momento, la passò liscia. Lopuchov dovette la-
sciare il Teatro di Stato e trasferirsi al Malegot. Se si pensa che
la raffigurazione della macchina, oggetto del vile sabotaggio,
era affidata a ventiquattro ballerine che si agitavano graziosa-
mente, simulando leve e ingranaggi, si ha un’idea di quanto
‘‘leggera’’, rispetto all’assunto del libretto, fosse la realizzazione
del coreografo. E altrettanto leggera era la musica di Šostako-
vič, leggera fino alla banalità, e perciò spesso esilarante, perché
riprendeva stilisticamente i modelli ballettistici non tanto di
Čajkovskij quanto di Drigo e di Minkus e di Delibes, con mi-
nime distorsioni sia melodiche che armoniche che di strumen-
tazione (ma non ritmiche al modo di Stravinskij) che bastava-
no a rendere l’insieme surreale. I guardiani della rivoluzione
non potevano accettare uno spettacolo che invece di suscitare
nel popolo pensieri politicamente in linea con il nuovo corso
staliniano mirava in concreto a divertire il pubblico. E se Il
Bullone non andò oltre la prima rappresentazione, una sorte
non di molto migliore venne riservata più tardi all’altro ballet-
to di Šostakovič e Lopuchov, Il Limpido ruscello op. 39, che del
Bullone ricalcava le orme e che, rappresentato a Leningrado e
a Mosca, rispettivamente, il 4 giugno e il 30 novembre 1935,
venne addirittura condannato ufficialmente nel 1936 da un ar-
ticolo uscito sulla Pravda.
Šostakovič componeva come se il Piano Quinquennale
l’avesse inventato lui, e viaggiava parecchio in Russia, sia per
lavoro, sia per vacanze, sia, last but not least, per la luna di
miele. Andò spesso a Mosca, nell’estate del 1929 girovagò per
sei settimana nel sud della Russia, nel febbraio del 1930 andò
a Rostov sul Don per ascoltare la sua Sinfonia op. 10 e per
suonare il Concerto n. 1 di Prokof’ev, durante l’estate andò a
52 Š O S T A K O V I Č

Odessa per lavorare alla musica del film Sola op. 26 e in di-
cembre a Kiev per la prima rappresentazione del balletto L’Età
dell’oro. Il quasi fidanzamento-non fidanzamento durato un lu-
stro giunse infine alla sua naturale conclusione, preceduto da
una di quelle classiche gag che sembravano riservate al cine-
matografo dei telefoni bianchi. Ho detto più volte che il gran-
de primo amore Tat’jana Glivenko non era mai uscita dal
cuore di Šostakovič. La ragazza convolò a giuste nozze nel
1929, ma Šostakovič, coerente con la professione di fede che
aveva esposto nella lettera alla madre del 1923, ancora nel
1931 propose a Tat’jana di lasciare il tetto coniugale e di an-
dare a vivere con lui. Tat’jana, pare, fu sul punto di cedere.
Ma intanto fervevano i preparativi per le nozze di Dmitrij con
Nina, che vennero fissate al dicembre dell’anno.
In settembre Šostakovič andò a Odessa, dov’era prevista la
messa in scena dell’Età dell’oro. Questo l’esito: ‘‘[...] Il balletto
fu rimosso, insieme con il direttore del teatro, dopo la prova
generale’’, a Sollertinskij, 27 settembre). E una rappresentante
di una organizzazione proletaria molto combattiva gli aveva
consigliato di passare al ‘‘canto di massa’’, censurando il ballet-
to (‘‘un tal decadentismo... Il Tahiti Trot... musica leggera...
modernismo’’). Da Odessa Šostakovič si recò a Gudanta, loca-
lità di villeggiatura che da anni gli era molto cara, e poi nel
Caucaso. La cerimonia delle nozze, fissata come detto alla fine
di dicembre, ebbe un singolare svolgimento: la sposa in ghin-
gheri e gli invitati attesero invano lo sposo che, in preda a una
crisi di angoscia, non si fece vedere e si rese uccel di bosco per
parecchi giorni. In marzo Šostakovič si recò a Mosca per con-
cordare con il regista Nikolaj Akimov la stesura delle musiche
di scena per l’Amleto, op. 32, che sarebbe stato rappresentato
con tagli e aggiunte e in un modo talmente bizzarro da pro-
vocare la sua prevedibile caduta. Da Mosca, il 25 marzo 1932,
scrisse a Sollertinskij dicendo: ‘‘Sono di pessimo umore, con
pensieri suicidi. Che poi non è cosı̀ terribile, dato che i pen-
sieri suicidi sono frequenti, per lo meno per me’’. Non sappia-
mo nulla della crisi che provocò la kafkiana vicenda del matri-
monio... a singhiozzo, ma che dovette essere tutt’altro che lie-
CAPITOLO VII 53

ve. Il lieto fine arrivò il 13 maggio, con le nozze celebrate in


forma strettamente privata, senza avvertire neppure i rispettivi
parenti. Gli sposi partirono subito per Mosca, dove il 19 ebbe
luogo la prima recita dell’Amleto, e proseguirono per Gaspra
in Crimea.
Šostakovič fece a Gaspra i bagni di mare, giocò a tennis e
a pallavolo... Insomma, si godette la vacanza e, per il momen-
to, non si pentı̀ d’essersi sposato (‘‘[...] c’è la mia consorte. [...]
Ogni sua parola, gesto o borbottio gastrico mi riempiono di
una beatitudine ineffabile’’, a Sollertinskij, 24 agosto). Le mu-
siche per l’Amleto, op. 32, non sembrano riflettere il tipo di
regia ‘‘dissacrante’’ che venne descritta da chi la vide. Sono
semplici e dirette, per nulla ironiche, e tanto meno grottesche,
e scorrono pacificamente sui binari della tonalità. La capacità
camaleontica di Šostakovič si manifesta qui come nelle altre
musiche di scena e nelle musiche per i film: Šostakovič sceglie
non solo lo stile, ma il linguaggio più adatto per un pubblico
che non è fatto di frequentatori del teatro musicale o dei con-
certi e che deve perciò essere messo a suo agio, che non deve
sentirsi escluso perché il linguaggio risulta per lui poco com-
prensibile. Se vogliamo, si tratta di una sopravvivenza del pro-
blema dei generi a cui guardavano attentamente i compositori
del Settecento e dell’Ottocento e che, suppongo, si ripresenta-
va in una società ‘‘nuova’’ come quella sovietica. Ciò appare
ancor più evidente nelle musiche per il film Il Contropiano (o Il
Passante), op. 33, composte nel 1932 per un soggetto evidente-
mente propagandistico. La Canzone del Contropiano, su versi di
Boris Kornilov, strofica e a modo di marcia, talmente simpati-
camente canzonetta che non ci stupiremmo se ci si dicesse che
uscı̀ dalla penna di Giovanni Danzi, divenne popolarissima nel
campo della musica leggera sovietica e sopravvisse di gran lun-
ga al film. Sempre nel 1932 Šostakovič ultimò le Sei Romanze
su versi di poeti giapponesi op. 21 per tenore (o soprano) e orche-
stra, iniziate nel 1928, che furono dedicate alla moglie.
Sono ardenti canzoni d’amore, ma... Amore è il titolo della
prima romanza, Prima del Suicidio è il titolo della seconda, la
penultima è intitolata Amore senza speranza, e l’ultima Morte.
54 Š O S T A K O V I Č

Occhiata maliziosa, che è la quarta romanza, e la quinta, La Pri-


ma e l’ultima volta, non provvedono a rischiarare un gran che il
panorama luttuoso. Poesie di raffinato erotismo, immerse in
atmosfere musicali di estrema sfaccettatura timbrica con, al so-
lito, uso dissociato dei timbri di un’orchestra comprendente
tre flauti, due oboi, quattro clarinetti, due fagotti, quattro cor-
ni, tre trombe, tre tromboni, tuba, timpani, percussione, due
arpe, archi: un organico gigantesco per meno di quindici mi-
nuti di musica. Le sei composizioni ci sorprendono sia per il
loro contenuto poetico che per lo stile del linguaggio, che ri-
specchia il contenuto. La vocalità è di tipo tendenzialmente
espressionistico, con sbalzi di registro e intervalli dissonanti di
difficile intonazione. Si tratta di una scelta, in fondo, transito-
ria, e che viene attenuata già nell’opera Una Lady Macbeth del
Distretto di Mcensk. Le liriche di Šostakovič puntano in genere
sulla melodia e/o sul declamato, rispettando sempre, nel canto,
l’antica massima che la voce non è uno strumento, mentre nel-
le Liriche Giapponesi la vocalità inclina invece verso la strumen-
talità. La agitprop di Odessa che trovava colpevole di decaden-
tismo l’Età dell’oro avrebbe dovuto tragicamente strapparsi le
vesti, se le fosse stato dato di ascoltare le romanze giapponesi...
Nel 1932 il Teatro Bol’šoj chiese a Šostakovič un’opera per ce-
lebrare il quindicesimo anniversario della Rivoluzione d’Otto-
bre. Aleksej Tolstoj e Aleksandr Starčakov prepararono un plot
di un’opera satirica in un prologo e tre atti e scrissero il libretto
del Prologo. Il titolo – che è tutto un programma – era L’Oran-
go. Šostakovič fece un abbozzo della musica utilizzando fram-
menti del balletto Il Bullone e della rivista Presumibilmente assas-
sinato. Ma si fermò lı̀. L’abbozzo, scoperto nel 2004, fu com-
pletato e strumentato da Gerard McBurney. Si tratta secondo
me di un’aggiunta del tutto marginale alla conoscenza che ab-
biamo dell’evoluzione artistica di Šostakovič.
In quel 1932 cosı̀ ricco di avvenimenti, uno spicca però
sopra tutti. Il 17 dicembre Šostakovič vergò l’ultima nota in
partitura della sua seconda opera, Una Lady Macbeth del Distret-
to di Mcensk op. 29, iniziata il 14 ottobre 1930, che fu dedicata
anch’essa alla moglie.
CAPITOLO VIII 55

CAPITOLO VIII

CAMMINANDO VERSO IL BARATRO

Per il suo esordio in teatro Šostakovič aveva scelto un te-


sto classico, da Gogol’. Per l’esordio nel campo del balletto
aveva scelto un argomento d’attualità, e su argomenti di attua-
lità si era soffermato componendo musiche di scena e musiche
da film. Per la sua seconda opera scelse di nuovo un testo clas-
sico, un racconto di Nikolaj Leskov scritto nel 1864. La prota-
gonista Katerina Izmajlova è una giovane donna, bella ma sen-
za dote, che ha sposato il figlio di un ricco mercante. Il suoce-
ro-padrone, autoritario, sospettoso, violento (e che sotto sotto
la desidera), sorveglia ogni suo passo, il marito la trascura, un
bel commesso assunto da poco, il rubacuori Sergej, ce la met-
te tutta per conquistarla. E la conquista durante un’assenza del
marito. Il suocero-detective scopre la tresca e fa fustigare Ser-
gej, ma chiede alla nuora di cucinargli dei funghi e... viene da
questa avvelenato senza che la sua morte desti sospetti. Il ma-
rito, ritornato improvvisamente di notte, quasi sorprende gli
amanti, picchia la moglie, e viene strangolato. Il suo cadavere
è occultato nella cantina, di cui la sola Katerina ha le chiavi.
Dichiarato disperso il marito, gli amanti possono sposarsi. Ma
proprio mentre si sta svolgendo la cerimonia nuziale il loro
delitto viene scoperto da un ubriacone che cercando il vino
forza la serratura della cantina e che denuncia alla polizia l’ac-
caduto: Katerina e Sergej sono arrestati. Nell’ultima scena ve-
diamo il convoglio dei condannati ai lavori forzati, in marcia
per la Siberia, che sosta in una fredda landa innevata. Sergej
ha messo gli occhi su una procace e sfacciata ragazza, la cor-
teggia, e per conquistarla le dona le preziose calze di lana che
con uno stratagemma sottrae a Katerina. Accortasi del tradi-
56 Š O S T A K O V I Č

mento dell’amante, Katerina, quando il convoglio, rimessosi


in marcia, attraversa un ponte, spinge la rivale nel gelido fiu-
me e vi si getta a sua volta. Il convoglio non si ferma.
Nel racconto di Leskov Katerina Izmajlova è una donna
depravata e crudele, una criminale fredda e spietata. Il libretto
di Šostakovič e Aleksandr Prejs si limita e trasformare il rac-
conto in una serie di quadri teatrali e a renderlo dialogico,
sopprimendo il terzo delitto di Katerina, l’uccisione del nipote
e co-erede, premeditato e dettato dalla cupidigia invece che
dall’amore. Šostakovič – il lettore ricordi di nuovo la lettera
alla madre del 1923 – prova però una forte simpatia per la sua
eroina che, tenuta dallo suocero e dalle convenzioni sociali in
una condizione di soggezione e di sudditanza, compie una
scelta di libertà ed elimina, con il delitto, ciò che ostacola per
lei il conseguimento della felicità. I crimini di Katerina Izmaj-
lova non destano affatto orrore nello spettatore, al punto che
lo sviluppo drammaturgico dell’opera potrebbe addirittura
concludersi, nel terzo atto, con il matrimonio. Se la vita è pe-
rò ricca di delitti che rimangono impuniti, l’arte non lo è. Ve-
ro è che mentre Šostakovič componeva la sua seconda opera
nascevano i racconti di Somerset Maugham in cui inappunta-
bili gentiluomini non alieni dal crimine seducono la moglie,
ammazzano il marito, sposano la vedova e vivono con lei felici
e contenti e impuniti. Šostakovič non segue lo scioglimento
del dramma che era lı̀ a portata di mano. Tuttavia conduce la
sua eroina verso un esito tragico ma senza catarsi. Con il pro-
cesso e la condanna vengono restaurati i diritti della morale
sociale, ma non quelli della morale individuale. Katerina non
si pente del suo delitto che, sia pure in un modo paradossale,
le ha permesso di vivere con l’amante. Il suo castigo non è la
deportazione, è il tradimento del bellimbusto Sergej, dell’a-
mante vagheggino, vanitoso, indegno. E Katerina lo punisce
sottraendogli la preda, e punisce nello stesso tempo se stessa.
L’argomento scelto da Šostakovič non aveva nulla a che
vedere, ovviamente, con l’ufficialità sovietica e con il ‘‘reali-
smo socialista’’ di cui si cominciava a parlare. Šostakovič non
rispettava le direttive che scaturivano implicitamente dal clima
CAPITOLO VIII 57

culturale postrivoluzionario e staliniano. Ma siccome... non


gliene era andata bene una, fino a che aveva creduto di con-
tribuire a edificare la nuova musica sovietica illustrando argo-
menti d’attualità, la vicenda di Leskov, ideologicamente capo-
volta, diventava... spendibile politicamente perché analizzava
la condizione della donna nella società borghese-patriarcale e
ne valutava in positivo la tensione verso la autoaffermazione e
la liberazione dai vincoli costrittivi che le erano stati brutal-
mente imposti. Šostakovič non conosceva, non poteva cono-
scere né Jenůfa (1904), né Kát’a Kabanová (1921) di Janáček,
non ancora rappresentate nell’Unione Sovietica. Ma la sua La-
dy Macbeth del Distretto di Mcensk, che della lady leskov-shake-
speariana aveva perduto i tratti di eroina del crimine e che era
diventata una creatura umana, si muoveva nella stessa temperie
ideologica, ‘‘moderna’’ in un modo tutt’affatto diverso da
quello del realismo socialista.
La musica di Šostakovič era, la musica di Šostakovič è di
una potenza terrificante e travolgente. La truce personalità
dello suocero, la passività del marito, la inconsistenza morale
di Sergej, l’erotismo fiammeggiante di Katerina, la stupidità
dei poliziotti sono tali da portare lo spettatore, come dicevo, a
sentirsi solidale con la protagonista. Ma il realismo sessuale di
certe scene era ancora del tutto al di fuori delle convenzioni
operistiche. Šostakovič se ne accorse quando si recò a Sverd-
lovsk in Siberia per proporre la sua opera ai dirigenti del tea-
tro locale. Scrivendo a Sollertinskij il 13 aprile 1932 egli di-
ceva:
Il 10 sera ho mostrato la Lady Macbeth. I dirigenti l’hanno accolta molto
bene. Successivamente ne ho suonato dei brani agli orchestrali. Anche loro
l’hanno accolta bene. Incidentalmente hanno espresso delle preziose considera-
zioni, sotto forma di domande di questo genere:
1) Dica, maestro, se un uomo e una donna giacciono nello stesso letto, non le
pare che ciò sia sconveniente?
2) Nel nostro tempo eroico, vale la pena di scrivere un’opera in cui per tutto il
tempo si pratica l’atto sessuale?
3) E consimili perle.
A tutte queste domande ha risposto Paszkovskij [direttore dell’orchestra] in
58 Š O S T A K O V I Č

modo intelligente. Alla fine mi hanno assicurato che cercheranno di imparare


bene quest’opera.

La pruderie filistea degli orchestrali di Sverdlovsk non fu


condivisa dal pubblico. L’opera fu prodotta contemporanea-
mente al Malegot di Leningrado, il 22 gennaio 1934, e al
Teatro Nemirovič-Dančenko di Mosca, il 24 gennaio, rispetti-
vamente con le regie di Nikolaj Smolič e di Vladimir Nemi-
rovič-Dančenko. I due registi avevano visioni opposte della
drammaturgia dell’opera: Smolič, regista a suo tempo del Na-
so, accentuava l’aspetto satirico, Nemirovič-Dančenko l’aspetto
tragico, e il secondo, con il consenso di Šostakovič, mutò il ti-
tolo in Katerina Izmajlova. Entrambe le produzioni trionfarono
e restarono in repertorio fino al 1936. Con i diritti d’autore,
già nel 1934, Šostakovič poté acquistare un appartamento e
trasferirvisi, dopo avere ancora abitato per due anni dopo il
matrimonio, con la moglie, in casa della madre. La produzio-
ne di Mosca fu trasmessa cinque volte dalla radio, una volta
quella di Leningrado, e anche questo nuovissimo mezzo di
diffusione contribuı̀ alla popolarità dell’opera, che fu in breve
tempo eseguita in Inghilterra, Svizzera, Svezia, Cecoslovac-
chia, Stati Uniti, Argentina, mentre non fu accettata nella
Germania nazista e nell’Italia fascista ma neppure, sorprenden-
temente, in Francia. La critica sovietica non mancò di fare le
sue riserve e sul libretto e sulla musica, e la bandiera della pru-
derie filistea passò dalle mani degli orchestrali di Sverdlorvsk,
come vedremo, nelle ben più potenti mani di Stalin.
Non appena ultimata l’opera, Šostakovič mise mano ai
Preludi op. 34 per pianoforte e al Concerto per tromba, pianoforte
e archi op. 35. Avendo rinunciato a eseguire le musiche di al-
tri, egli non aveva però rinunciato a sfruttare i suoi doni di
pianista concertista. Ma la sua produzione pianistica non era
sufficiente e doveva essere rimpolpata. I Preludi e il Concerto
rispondevano a questa finalità. Entrambi i lavori si muovono
nella scia dei balletti e delle musiche di scena e ne sfruttano gli
stilemi e, in qualche raro caso, anche i temi. I Preludi, ultimati
il 2 marzo 1933 ed eseguiti per la prima volta dall’Autore il
CAPITOLO VIII 59

24 maggio a Mosca, seguono lo schema di Chopin: alternanza


regolare di modo maggiore e di modo minore e ‘‘salita’’ pro-
gressiva per quinte (do maggiore, la minore, sol maggiore, mi
minore, re maggiore, ecc. ecc. fino a fa maggiore e re mino-
re). Nei ventiquattro pezzi troviamo come un campionario dei
generi più diffusi nella produzione per dilettanti, che nella
Russia prerivoluzionaria potevano vantare nomi illustri come
quelli di Anton Rubinštejn, di Čajkovskij, di Ljadov, di Aren-
skij, e nomi di abili e popolarissimi specialisti come Haberbier,
Nicolaj von Wilm, Alferaki, Ščerbačev, Antipov, Karganov.
La marcia (anche funebre), la pastorale, la ninna-nanna, il not-
turno, la serenata, le danze antiche e moderne (gavotta, valzer,
polca, mazurca, tarantella, can-can), lo scherzo, la fuga, lo stu-
dio, ma tutto miniaturizzato – marcetta, valzerino, studietto,
fughetta – e distorto per quel tanto che basta a mostrare il di-
stacco del compositore da un mondo tramontato, il distacco
che tuttavia non cela l’affetto insopprimibile di chi a quel
mondo era legato dalle memorie infantili perché lo aveva co-
nosciuto attraverso l’adorata madre, educata nell’istituto di Ir-
tusk in cui si formavano le spose delle classi alte.
Sollertinskij, dice Šostakovič nell’articolo del 1956 Pensieri
sul cammino percorso parafrasando una boutade di Zygmunt
Stojowski a proposito del Concerto n. 2 di Saint-Saëns, aveva
destato in lui l’interesse della musica ‘‘da Bach a Offenbach’’.
Nel Concerto op. 35, in do minore con finale in do maggiore,
eseguito per la prima volta da Šostakovič a Leningrado il 15
ottobre 1933, lo stile va da Beethoven al jazz e alla musica
delle bande nelle fiere popolari, quella musica che in Italia era
detta dello strapaese. L’inizio del primo movimento sembra
citare il primo tema della Appassionata di Beethoven. Sulla in-
tenzionalità della citazione si possono esprimere riserve e dub-
bi, ma il clima è senza dubbio serioso e persino drammatico.
Il secondo movimento, valzer lento, ritorna al clima delle
musiche da film e di scena, e potrebbe essere ricavato da un
vaudeville, e nel finale, come dicevo, siamo allo strapaese. Gli
archi svolgono funzioni per lo più melodiche, il pianoforte
per lo più percussive, la tromba è nel secondo movimento il
60 Š O S T A K O V I Č

veicolo, un po’ jazzistico, della nostalgia, e nel finale diventa


pettegola come se fosse suonata dal Dulcamara dell’Elisir
d’amore.
Dal Concerto op. 35 alla Suite n. 1 per Orchestra Jazz, senza
numero d’opera, composta all’inizio del 1934, il passo non è
lungo, anzi, come dirò fra poco, è brevissimo. Il jazz era stato
introdotto nell’Unione Sovietica da Sam Wooding, che aveva
effettuato nel 1926 una tournée di tre mesi, toccando anche
Leningrado. Šostakovič era rimasto molto impressionato dalla
musica dei neri, dalla sua prorompente vitalità e dalla forza
tensiva del suo ritmo. Nel 1932 era stata sciolta la Associazio-
ne Russa dei Musicisti Proletari, ferocemente nazionalista e
antimodernista, e il jazz aveva cominciato a dilagare, tanto che
nel 1934 si era tenuto a Leningrado un concorso per comples-
si jazz, con la presenza di Šostakovič nella giuria. La Suite n. 1
di Šostakovič, che comprende tre pezzi – Valzer, Polca, Foxtrot
–, fu eseguita per la prima volta il 24 marzo 1934. A parte
l’inserimento in orchestra dei saxofoni, nella Suite c’è però ben
poco di jazzistico. Tre deliziosi pezzi brevi che trovano la loro
perfetta ambientazione nelle stazioni di villeggiatura – Deau-
ville o Spa o Baden-Baden o Carlsbad, senza escludere, s’in-
tende, le cittadine del Caucaso che appaiono spesso nei ro-
manzi russi – e che rifanno il verso alla musica d’uso europea,
non a quella americana. Non dissimile sarà del resto la Suite n.
2 per Orchestra Jazz, composta nel 1938 ed eseguita il 28 no-
vembre dello stesso anno, formata anch’essa da tre pezzi
(Scherzo, Ninna-nanna, Serenata). La musica della Suite n. 2, an-
data perduta e ritrovata dopo molti anni, è anche in questo
caso deliziosamente ‘‘leggera’’ ma non jazzistica. Né nella pri-
ma, né nella seconda suite troviamo un blues o un ragtime, e
nemmeno un cake-walk. E di swing, neppure l’ombra. In-
somma, il jazz come lo intende Šostakovič non ha nulla a che
vedere non solo con Stravinskij ma nemmeno con Debussy e
con Ravel (avverto il mio lettore che la Suite per Orchestra di
Varietà, spesso confusa con la Suite n. 2 per Orchestra Jazz, è
un arrangiamento di musiche da film e di scena).
CAPITOLO VIII 61

Nel 1934, in maggio, si svolse a Leningrado un festival in-


ternazionale di musica contemporanea, durante il quale ven-
nero eseguite l’opera Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk,
la suite dall’Età dell’oro (diretta da Mitropoulos), il Concerto op.
35 (eseguito dall’Autore sotto la direzione di Aleksandr Gauk)
e la suite da Il Bullone, diretta da Gauk. Una ventenne studen-
tessa di lingue che svolgeva mansioni di interprete, Elena
Konstantinovskaja, fu notata da Šostakovič, che se ne innamo-
rò pazzamente. In giugno Šostakovič partı̀ per tre concerti a
Baku, poi passò a Batumi e alla fine del mese arrivò a Yalta,
dove lo raggiunse la moglie. Il compositore intratteneva una
fitta corrispondenza con la Konstantinovskaja, era inquieto, in-
soddisfatto, incapace di comporre. I rapporti con la moglie si
fecero molto tesi. Recatisi a Mosca, i coniugi Šostakovič tra-
scorsero le vacanze a Polenovo, dove il Teatro Bol’šoj aveva
una casa-albergo che metteva a disposizione dei musicisti. Il
26 luglio Šostakovič scrisse a Sollertinskij dicendo: ‘‘Ho scritto
due fughe. Una a quattro voci, l’altra a tre. Oggi le ho suona-
te al pianoforte. Sono brutte e senza pathos. Nonostante ciò
ne scriverò una terza, una quarta ecc. Non posso vivere senza
comporre. Dal punto di vista tecnico le fughe sono di livello
medio, anche un po’ meno. Ma possono benissimo esser prese
per mero formalismo. Scrivo per tenermi in allenamento, al
posto di fare esercizi al pianoforte o al trombone’’.
Le accuse di formalismo – per formalismo si intendeva più
o meno l’arte-non-pensata-per-il-popolo – cominciavano a
piovere sulla musica di Šostakovič con sempre maggiore fre-
quenza. Šostakovič godeva non solo di grande notorietà, ma
anche di una posizione di prestigio e di potere: nel 1932 era
diventato membro della direzione della Unione Compositori
di Leningrado, e nel novembre del 1933 era stato eletto depu-
tato del Distretto Sovietico della sua città. Tuttavia, nel feb-
braio del 1934 l’Unione Compositori di Leningrado aveva
messo in discussione la Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, e
Sollertinskij era stato accusato di aver indotto Šostakovič a se-
guire l’esempio esecrabile di Alban Berg. La polemica si stava
diffondendo sulle riviste musicali e Šostakovič, pur ironizzan-
62 Š O S T A K O V I Č

do sulle sparate degli avversari, non si sentiva affatto tranquil-


lo. Alla metà d’agosto, tornati a Leningrado, i coniugi Šosta-
kovič si accordarono per la separazione e Dmitrij fu messo
nella condizione di vivere senza impacci il suo romanzo d’a-
more con Elena Konstantinovskaja. La separazione coniugale
non restituı̀ però a Šostakovič la serenità di cui aveva bisogno
per lavorare. Nel 1934 egli accettò le commissioni che gli fa-
cevano guadagnare facilmente denaro: musica di scena per La
Commedia umana op. 37, musica per i film Amore e Odio op.
38, La Giovinezza di Maksim op. 41, Le Amiche op. 41a, La
Storia del prete e del suo servo Bulda op. 36. Per sé, per il piacere
di creare, compose soltanto la Sonata in re minore per violoncello
e pianoforte op. 40.
Quel mondo di sentimenti in retrospect di cui appena
odoravano i Preludi op. 34 diventa nella Sonata manifesto. L’i-
nizio ricorda persino un po’ l’avvio del Concerto per violino di
Mendelssohn e la calda cantabilità del violoncello richiama in
vita tempi lontani. E se nel finale ritorna lo Šostakovič ironico
che ben conosciamo non è men vero che il tono espressivo di
tutto il pezzo è in sostanza romantico. Come prima di lui era
accaduto con Chopin e con Rachmaninov, Šostakovič, che è
pianista, non strumentista d’arco, sfrutta di più il violoncello
nei movimenti lenti e il pianoforte nei movimenti mossi, co-
sicché abbiamo in pratica una sonata per violoncello con ac-
compagnamento di pianoforte nel primo e nel terzo movi-
mento, e una sonata per pianoforte con accompagnamento di
violoncello nel secondo movimento e nel finale, finale in cui
viene affidato al pianoforte un passo di agilità con le due mani
in ottava che mette i brividi addosso anche ai più scafati dei
pianisti. Il tono espressivo alterna quindi il lirismo delicato, nel
primo, e sofferto, nel terzo, del violoncello, con la coquetterie
nel secondo e l’umorismo vivace del pianoforte nel quarto
movimento. Si potrebbe dire che, mentre il Trio op. 8 riflette-
va l’innamoramento adolescenziale per Tat’jana Glivenko, la
Sonata op. 40 riflette l’innamoramento del ventottenne Šosta-
kovič per Elena Konstantinovskaja, innamoramento che nelle
lettere alla ragazza si manifesta con una intensità bruciante.
CAPITOLO VIII 63

Anticipando un poco i tempi dirò qui che dopo avere ottenu-


to il divorzio, Dmitrij e Nina, nell’autunno del 1935, si ricon-
ciliarono, si riconciliarono al punto che Nina rimase incinta: i
due contrassero nuove nozze. In una lettera a Sollertinskij del
novembre 1935, non datata, Šostakovič scrisse: ‘‘Di allontanar-
mi da Nina non se ne parla neanche. Soltanto ora ho compre-
so nel mio intimo che donna straordinaria ella sia e quanto mi
sia cara’’.
Ritorno alla Sonata per violoncello, che fu dedicata a Victor
Kubackij, violoncellista dell’orchestra del Bol’šoj, membro di
un quartetto, direttore d’orchestra e organizzatore di concerti.
Un musicista poliedrico, non un grande strumentista. La prima
esecuzione della Sonata, con Kubackij e Šostakovič, ebbe luo-
go a Mosca il 25 dicembre 1934. Forse a causa di una esecu-
zione non eccelsa, la Sonata a tutta prima non piacque. Šosta-
kovič la riprese con Kubackij in varie altre città, e poi con al-
tri violoncellisti, ottenendo un crescente successo. Dopo la
guerra la registrò in disco con Rostropovič.
Il 4 aprile 1935 andò in scena al Malegot di Leningrado il
balletto Il Limpido ruscello op. 39, ripreso subito a Mosca e che
ottenne un vivo successo in entrambe le città. Šostakovič,
confortato dal generale consenso della Lady Macbeth del Distret-
to di Mcensk che, come già ho detto, veniva rappresentata an-
che all’estero, decise di portare avanti il progetto di una trilo-
gia incentrata sulla condizione della donna in Russia, e in una
data non accertata, forse già nel 1934, iniziò a scrivere un’ope-
ra sulle attiviste rivoluzionarie del tardo Ottocento: smise do-
po aver composto soltanto 122 battute. Nella primavera del
1935 cominciò un movimento di sinfonia che lasciò cadere e
compose invece i Cinque Frammenti per orchestra op. 42, lavoro
preparatorio per la Sinfonia n. 4 che restò ineseguito addirittu-
ra fino al 1965. In settembre iniziò la Sinfonia n. 4 in do minore
op. 43, anch’essa destinata ad attendere a lungo la prima ese-
cuzione, che ebbe luogo soltanto il 30 dicembre 1961. Il
1935, insomma, fu un anno di transizione in cui le vicende
personali tennero occupato Šostakovič più della sua attività
creativa.
64 Š O S T A K O V I Č

In aprile Šostakovič si recò in Turchia con una delegazio-


ne di musicisti di cui facevano parte anche Lev Oborin e Da-
vid Ojstrach. Fu una bella occasione per conoscere e ammirare
nuovi luoghi (‘‘[...] la vista di Istambul dalla nave mi ha lette-
ralmente sconvolto per la sua bellezza. È assolutamente inim-
maginabile’’, a Sollertinskij, 14 aprile; ‘‘[Smirne] è una città
molto bella e interessante’’, a Atovmjan, 3 maggio; ‘‘Ieri c’è
stata una bellissima visita agli scavi dell’antica città di Pergamo,
che risale a ventuno secoli fa. Abbiamo passeggiato a lungo
per la città, molto bella e interessante’’, a Sollertinskij, 5 mag-
gio; ‘‘[...] a 40 chilometri da Canakkale si trova la non ignota
città di Troia. Là sono in corso degli scavi. Noi ci siamo anda-
ti e abbiamo visto molte cose interessanti’’, a Sollertinskij, 8
maggio). In autunno l’orizzonte politico stava diventando
sempre più scuro. Da Mosca, dove si trovava per la messa in
scena del Limpido ruscello, Šostakovič cosı̀ scrisse a Sollertinskij
il 17 novembre:
Al teatro Bol’sˇoj è successa anche un’altra cosa: è stato sollevato dall’incarico
l’artista benemerito della repubblica V.L. Kubackij. Destituito sia come diret-
tore dello Studio [del Bol’šoj] che come direttore d’orchestra. Ieri sono andato
a trovarlo e ho cercato di confortarlo.

Kubackij, come ho detto poc’anzi, era il dedicatario della


Sonata per violoncello op. 40. La lettera prosegue poi con un to-
no che con l’esibito entusiasmo per Stalin rivela forse la pre-
occupazione che la censura potesse aprire il plico:
Oggi ho avuto la fortuna di assistere alla riunione finale del congresso degli
stakanovisti. [...] Ho ascoltato i discorsi dei compagni Stalin, Vorosˇilov e
Švernik. Sono stato catturato dal discorso di Vorošilov, ma dopo aver ascoltato
Stalin ho perso qualsiasi senso della misura e ho gridato con tutta la sala
‘‘Urrà!’’ e ho applaudito a non finire. Il suo storico discorso lo leggerai sui
giornali, cosı` non mi metterò a riassumerlo. Naturalmente oggi è il più felice
giorno della mia vita: ho visto e ascoltato Stalin.

Il 16 dicembre 1935 andò in scena nella succursale del


Bol’šoj la Lady Macbeth del Distretto di Mcensk. Nella prima
quindicina di gennaio del 1936 il Malegot di Leningrado ef-
CAPITOLO VIII 65

fettuò una trasferta a Mosca, portandovi la stessa opera. E sic-


come la Katerina Izmajlova era ancora in repertorio nel Teatro
Nemirovič-Dančenko, la seconda opera di Šostakovič era pre-
sente nello stesso tempo a Mosca in ben tre versioni. Era il
cumine della ascesa di Šostakovič nella fama... ed era l’inizio
della sua caduta.
66 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO IX

L’INQUISIZIONE BATTE UN COLPO

Insieme con la Lady di Šostakovič il Malegot portava a


Mosca la prima opera di Ivan Dzeržinskij, Il Placido Don, tratta
dal romanzo di Solokhov. Dzeržinskij, nato nel 1909, era stato
un allievo non molto brillante del conservatorio di Leningrado
e per la sua prima opera aveva fruito in larga misura dell’aiuto
di Šostakovič per quanto riguardava la strumentazione. Il 17
gennaio Stalin e altri pezzi da novanta del partito andarono a
vedere il Placido Don. Durante l’ultimo intervallo il composi-
tore fu invitato nel palco di Stalin, ricevette i più caldi miral-
legri e seppe ufficialmente che la sua opera aveva un ‘‘consi-
derevole valore ideologico’’. Šostakovič, arrivato a Mosca il
26 gennaio, ricevette subito l’ordine di presenziare alla recita
della sua Lady. ‘‘Allo spettacolo’’, scrisse a Sollertinskij il 28
gennaio, ‘‘erano presenti il compagno Stalin e i compagni
Molotov, Mikojan e Ždanov. Lo spettacolo è andato bene.
Dopo la fine hanno chiamato l’autore in scena (è stato il pub-
blico a chiamare [non i cantanti]), sono uscito a ringraziare e
ho rimpianto di non averlo fatto dopo il terzo atto’’. Accla-
mato dal pubblico, ma non invitato nel palco di Stalin. C’era
ben di che stare sulle spine. E infatti il 28 gennaio, mentre
Šostakovič scriveva all’amico da Arcangelo dove si era recato
per eseguire il suo Concerto op. 35 sotto la direzione di Kubac-
kij, usciva sulla Pravda l’articolo Caos invece di musica che lo
metteva pesantissimamente sotto accusa.
Caos invece di musica iniziava con un tacitiano solenne
proemio:
Lo sviluppo culturale conosciuto dal nostro paese richiede una musica di qua-
lità.
CAPITOLO IX 67

Giammai prima, in alcun luogo, i compositori avevano avuto un pubblico cosı`


aperto. Le masse popolari vogliono buone canzoni ma anche buone composi-
zioni strumentali e buone opere.

A questo punto l’ignoto articolista entrava nel vivo:


Certi teatri ‘‘servono’’ come innovazione, come riuscita, l’opera di Šostakovicˇ
Lady Macbeth del Distretto di Mcensk a un pubblico sovietico culturalmente
educato. Certa critica musicale esalta compiacentemente quest’opera e la glori-
fica. Invece di una critica professionale, oggettiva e responsabile, che potrebbe
guidarlo nei suoi futuri lavori, il giovane compositore ascolta soltanto un eccesso
di complimenti.
Fin dalle prime battute il pubblico è assalito da un’ondata di sonorità voluta-
mente confuse e discordanti. Frammenti di melodia, embrioni di frasi musicali
vengono oscurate, fuggono e si perdono nel baccano, nei rumori, negli stridori.
È già difficile seguire una simile musica: è assolutamente impossibile ricordarla.

E via di questo passo. Non sarebbe stato però sensato ne-


gare un qualche talento all’autore della popolarissima Canzone
del Contropiano. E quindi:
Ciò non è dovuto alla mancanza di talento del compositore, né alla sua inetti-
tudine a esprimere attraverso la musica sentimenti veri e forti. Questa musica è
volontariamente scritta in maniera totalmente disordinata, di modo che non ri-
corda in nulla l’opera classica, le sonorità sinfoniche d’un discorso musicale
comprensibile per tutti. Questa musica è costruita come una negazione dell’o-
pera, allo stesso modo in cui l’arte ‘‘sinistroide’’ rifiuta in teatro la semplicità,
il realismo, l’intelligibilità, e nega il naturale potere della parola. È, moltipli-
cata per dieci, la trasposizione nell’opera delle caratteristiche più negative del
teatro ‘‘alla Mejerchol’d’’. C’è il caos ‘‘sinistroide’’ e non una musica natu-
rale, su una scala umana. Per creare una forzata originalità si è sacrificato il
talento di scrivere una buona musica, che saprebbe trasportare le masse, in fa-
vore di un formalismo laborioso e piccolo-borghese. Qui si gioca con l’ermeti-
smo, un gioco che potrebbe finir male.

Dopo aver sistemato di passata anche Mejerchol’d l’artico-


lista paventava che l’orientamento ‘‘sinistroide’’ invadesse ‘‘la
poesia, la pittura, la pedagogia, la scienza’’ e che lo ‘‘spirito di
innovazione piccolo-borghese causasse ‘‘una rottura con la ve-
ra arte, con la scienza e con la letteratura autentiche’’. A Šo-
68 Š O S T A K O V I Č

stakovič veniva rimproverata anche qualche concessione al jazz


e, soprattutto, l’aver messo da parte il realismo socialista per
cadere nel ‘‘naturalismo più volgare’’. E non solo: ‘‘La mer-
cantessa rapace, arricchitasi con il crimine, è presentata come
vittima della società borghese’’. ‘‘L’emancipazione della donna
può avvenire soltanto nel quadro del lavoro o del Partito’’, si-
bila l’articolista, e conclude sorprendentemente che, siccome
‘‘i valori patriarcali si affermano sempre di più’’, la ‘‘ferocia
della ‘tragedia-satira’ di Šostakovič appare subito come inac-
cettabile’’. Anche il successo ottenuto dall’opera al Metropoli-
tan di New York diventa motivo d’accusa e di indignazione:
‘‘Virgil Thompson, di solito meglio ispirato, intitola la sua cri-
tica ‘Il socialismo al Met’, come se l’amore sessuale fosse il
tratto distintivo del socialismo’’. E poi, ahinoi!, c’è il letto, e
per di più a due piazze, lo scandaloso letto che aveva messo
subito in sospetto gli accorti orchestrali di Sverdlovsk:
L’‘‘amore’’ è rappresentato in tutta l’opera nella sua forma più volgare. Il
letto a due piazze della moglie del mercante occupa una posizione di primo
piano nella messa in scena; tutti i ‘‘problemi’’ trovano laggiù la loro solu-
zione.

La chiusa dell’articolo picchia più duro che può, tirando


per la giacchetta, come è diventato d’uso dire oggi, il popolo:
È evidente che il compositore non ha per niente tenuto conto dell’attesa del
pubblico sovietico. Ha volutamente complicato la scrittura della sua musica di
modo che non possa essere decifrata che dagli esteti formalisti dal gusto discuti-
bile. Ha ignorato le esigenze della cultura sovietica, che consistono nel bandire
la volgarità e la trivialità dai costumi del nostro paese. Certi critici ci vedono
una satira della lubricità dei mercanti. Ma non si può in alcun modo parlare
di satira. L’autore cerca con tutti i mezzi d’espressione musicale e drammatur-
gica di fare condividere al pubblico le aspirazioni e gli abusi più volgari della
ricca mercantessa Katerina Izmajlova.

In parole povere, Šostakovič è un nemico della patria. Il


successo all’estero, si chiede l’articolista, ‘‘non è per l’appunto
la prova che quest’opera accarezza i gusti contro natura dei
borghesi?’’ E non solo: ‘‘Non è forse perché quest’opera è
CAPITOLO IX 69

confusa e apolitica che il pubblico borghese la fa trionfare?’’


Veramente i trionfi c’erano stati anche a Leningrado e a Mo-
sca, veramente le diverse messe in scena dell’opera avevano
avuto in quelle città vendite al botteghino intorno al 92% dei
posti disponibili... Ma non si trattava e non si tratta evidente-
mente di discutere le tesi dell’articolista e i suoi contorcimenti
dialettici in un articolo di ispirazione politica, non critica. Si
sospetta che l’autore fosse o il giornalista David Zaslavskij o
Platon Keržencev, capo del Comitato per gli Affari Artistici.
Però non ci voleva e non ci vuole l’acume di Sherlock Hol-
mes o del commissario Maigret per legare insieme due sempli-
ci dati. Stalin va a visionare la Lady il 26 gennaio, l’articolo
esce sulla Pravda il 28: impensabile credere che lo Zaslavskij o
chi per esso non fosse il ghost writer dell’uomo più potente
dell’Unione Sovietica. E quindi non si trattava, per Šostakovič
e per tutti, di discutere e magari di confutare, ma solo di non
lasciarsi cadere tramortiti dallo spavento.
Nella nobile arte del pugilato viene sempre esaltato l’uno-
due che mette definitivamente a terra l’avversario. E per Šo-
stakovič dopo l’uno arrivò puntualmente il due, il 6 febbraio,
con un altro articolo sulla Pravda intitolato Una falsificazione
del balletto. Oggetto dell’attacco, il balletto Il Limpido ruscello,
in scena sia a Leningrado che a Mosca con grande successo in
entrambe le città. Un gruppo di ballerini si reca a un festival
dei kolchoz, le fattorie collettivistiche, che si svolge nel Cau-
caso. Dall’incontro fra i ballerini, cittadini, e i kolchosiani,
campagnoli, nasce una commedia a intreccio, una sentimentale
situation comedy di solida ascendenza borghese. L’articolo
della Pravda tirò sul balletto dei poderosi terribili fendenti, de-
plorando che Šostakovič avesse utilizzato anche musiche del
vecchio Bullone invece di far ricorso al patrimonio di canti e
danze popolari della regione, attraversata dal fiume Kuban, in
cui era stata ambientata la vicenda. Si ammetteva che la musi-
ca del balletto fosse meno astrusa rispetto a quella della Lady.
Ma Il Limpido ruscello non aveva ‘‘assolutamente nulla in co-
mune sia con i kolchoz che con il Kuban’’. E il balletto scom-
70 Š O S T A K O V I Č

parve dal repertorio insieme con la derelitta Lady: sarebbe sta-


to ripreso in Russia soltanto nel 2003.
Le conseguenze materiali e morali dei due articoli furono
per Šostakovič devastanti. Era arrivato a incassare dai dieci ai
dodicimila rubli al mese: i suoi guadagni scesero di botto a
due-tremila rubli (lettera ad Atovmjan, 23 settembre 1936). E
quasi tutti i suoi amici, compresi i molti giornalisti che aveva-
no recensito favorevolmente la Lady, gli voltarono veloce-
mente le spalle. Il compositore Vissarion Šebalin a Mosca, Sol-
lertinskij a Leningrado, il georgiano Balančivadze, il marescial-
lo Tuchačevskij, il regista Mejerchol’d che avrebbe avuto di
che preoccuparsi per se stesso furono fra le poche mosche
bianche che si astennero dal ringraziare il Partito per aver
aperto gli occhi agli accecati e per aver provveduto a estirpare
i bubboni del formalismo. Šostakovič studiò e collezionò gli
articoli di giornale che parlavano del suo ‘‘caso’’. ‘‘Leggo at-
tentamente i ritagli di giornale, che ricevo in grande quanti-
tà’’, scrisse all’amico Atovmjan il 15 febbraio 1936. E aggiun-
se: ‘‘Di tutto ciò che ho letto, mi hanno addolorato particolar-
mente le affermazioni di Heinrich Neuhaus’’. Neuhaus, gran-
de didatta del pianoforte che aveva eseguito i Preludi op. 34
non appena erano stati pubblicati, durante la requisitoria svol-
tasi sulla Lady all’Unione Compositori di Mosca aveva detto
addirittura, in un delirio di piaggeria e di autoflagellazione,
che la censura della Pravda ‘‘non deve cadere solo sulla testa
di Šostakovič, ma su quella di tutta la comunità dei musicisti,
compresa la mia’’ (ricorderò di passata che quando, nel 1941,
Šostakovič vinse per la prima volta il Premio Stalin, Neuhaus
pubblicò sulla Pravda un articolo fortemente laudativo, senza
citare i... peccati formalistici del festeggiato).
Leggere i ritagli di giornale era una cosa ovvia. Meno ov-
vio era decidere il da farsi. Tornato da Arcangelo senza un
soldo, perché durante il viaggio in treno s’era pure giocato
tutto il cachet del concerto, Šostakovič aveva trovato ad aspet-
tarlo alla stazione di Mosca Levon Atovmjan, che gli aveva of-
ferto di organizzare subito una serata di musiche sue. Šostako-
vič aveva rifiutato la proposta. Chiese invece un incontro con
CAPITOLO IX 71

Platon Keržencev, gli disse di essere disposto ad accettare le


critiche e a tenerne conto per il futuro, chiese di poter parlare
con Stalin. Tornò a Mosca alla fine di febbraio, ma la auspica-
ta chiamata di Stalin non arrivò, malgrado un intervento di
Gor’kij. Non miglior esito ebbe una conferenza che Mejer-
chol’d tenne in difesa di Šostakovič a Leningrado il 14 marzo.
Anzi, l’appoggio di un artista che, come Mejerchol’d, era stato
a sua volta messo sotto tiro rischiava di diventare contropro-
ducente. Šostakovič non si umiliò fino al punto di chiedere
clemenza mandando ai giornali una lettera autoaccusatoria, ma
tutte le sue mosse... sotterranee non conseguirono alcun risul-
tato tangibile.
A me sembra in verità che il compositore non valutasse
realisticamente il guaio in cui si trovava. Ho l’impressione –
ma nessun documento me lo attesta – che egli attribuisse gli
attacchi devastanti della Pravda più ai soggetti della sua opera
e del suo balletto che alla musica. E dico ciò perché Šostako-
vič continuò a comporre la Sinfonia n. 4 in do minore op. 43,
iniziata il 13 novembre 1935 e che fu ultimata il 26 aprile
1936. In luglio Levon Atovmjan, che come detto aveva offer-
to a Šostakovič, mentre già infuriava la tempesta, di organizza-
re un concerto di musiche sue, fu destituito dalla carica di vi-
cedirettore del Teatro Zalavskij di Mosca e fu spedito come
un pacco postale in Turkmenistan. Šostakovič, in pessime
condizioni economiche, compose la musica di scena per il
dramma Salute, Spagna op. 44, e per i film Il Ritorno di Maksim
op. 45 e I Giorni di Volocˇaevka op. 48, e si recò perciò a Odes-
sa. ‘‘Ho preso soldi a prestito già da Trauberg, Kozincev e
molti altri’’, scrisse da Odessa a Sollertinskij il 10 settembre. E
poi: ‘‘Al ristorante mi fanno credito, ma le orecchie già s’in-
nervosiscono nell’attesa di sentir dire: ‘... il direttore del buffet
ha detto che questa è l’ultima volta’ ’’. Ricevette dei soldi,
ma...
Non sono soddisfatto del soggiorno a Odessa, non ho completato quanto avevo
pianificato. Avrei voluto andare fino a Batumi e ritorno via mare, ma la gag
non mi è riuscita per la causa più triviale. Le carte. Due volte mi sono seduto
72 Š O S T A K O V I Č

al tavolo da gioco e ho perso mille rubli. Una scalogna cosı` fenomenale non mi
era capitata mai in tutta la mia esperienza. Adesso sono rimasto di nuovo
senza soldi e di conseguenza ho deciso di tornare a casa (a Sollertinskij, 20
settembre).

Finire di comporre la Sinfonia n. 4 era stata certamente


una ineludibile esigenza del creatore. Cercare di farla eseguire
era un azzardo di chi, come dicevo prima, non valutava reali-
sticamente la situazione. Una sinfonia in tre movimenti, di
durata superiore a un’ora di musica, per un’orchestra formata
da sei flauti, quattro oboi, sei clarinetti, quattro fagotti, otto
corni, quattro trombe, tre tromboni, due tube, timpani, sei
percussionisti, celesta, due arpe, archi (ottantaquattro archi, in-
vece dei sessanta della normale grande orchestra sinfonica!). Il
gigantismo della Sinfonia n. 4 avrebbe potuto superare le for-
che caudine dei tiratori scelti solo nel caso che la drammatur-
gia dell’opera fosse stata celebrativa. Nella storia della musica
sinfonica la cupa tonalità del do minore è piuttosto rara, ma le
grandi sinfonie in do minore, dalla Quinta di Beethoven alla
Prima di Brahms alla Seconda di Mahler, finivano sempre in
gloria. Il do maggiore che risolve tutte le tensioni arriva anche
nel terzo movimento della Quarta di Šostakovič, ma è seguito
da una lunga coda in do minore che svanisce progressivamente
nel nulla e che contraddice radicalmente la conclusione positi-
va che era stata adombrata. La costruzione della nuova società
sovietica, tanto cara al realismo socialista, non poteva non
esprimere pieno ottimismo nel presente e fede incrollabile nel
futuro, e il catastrofismo della Sinfonia n. 4 avrebbe dunque
scatenato le ire dei censori. Per di più, il tono discorsivo della
Quarta era ben lontano dalle ‘‘sonorità sinfoniche d’un discor-
so comprensibile per tutti’’ che secondo l’articolo della Pravda
già mancavano colpevolmente nella Lady Macbeth del Distretto
di Mcensk.
Ho detto prima che la Seconda e la Terza Sinfonia, entram-
be in un unico movimento, sono drammaturgicamente poemi
sinfonici. La Quarta Sinfonia, in tre movimenti, è formata
drammaturgicamente da due poemi sinfonici collegati da un
CAPITOLO IX 73

intermezzo. Il ritmo di marcia che ritorna ossessivamente, i


ritmi di valze e di ländler, il carattere o beffardo o disperato
dei temi, l’uso simultaneo del registro estremo acuto e del re-
gistro estremo grave, i frequenti stralunati assoli di vari stru-
menti, i frazionamenti della gigantesca massa orchestrale, la
mancanza della tradizionale discorsività sinfonica per accumuli
di tensione, punti culminanti e distensioni, sostituita da una
oratoria che trascorre bruscamente ‘‘dal banale al sublime, dal
triviale al tragico’’ (L.E. Fay) esclude la catarsi e crea sgomento
nell’ascoltatore, che si trova di fronte alla raffigurazione di un
mondo non teleologicamente ordinato ma immerso nel caos.
Il capovolgimento idelologico rispetto alla Sinfonia n. 1 è indi-
ce di una evoluzione spirituale di cui non abbiamo testimo-
nianza né nelle lettere né nei ricordi delle persone che erano
vicine a Šostakovič in quel periodo. Ma è evidente che la Sin-
fonia n. 4 prolunga il pessimismo cosmico della Lady Macbeth,
ed è evidente che gli agganci fra la Sinfonia e Mahler, messi
in luce da tutti i critici, riguardano certi tratti di forma e di
strumentazione, non di poetica.
La sera del 29 maggio 1936 Sollertinskij condusse a casa
Šostakovič Klemperer, che si trovava a Leningrado per con-
certi. Parlarono – e bevvero – fino a dopo mezzanotte e si ac-
cordarono per una audizione della Sinfonia n. 4. Quando ri-
tornarono insieme con Gauk e con Stiedry, a mezzogiorno
del 30, scoprirono che la famiglia Šostakovič era cresciuta per-
ché nel primo mattino, in ospedale, era nata la primogenita
Galina. Telegramma a Nina, brindisi e congratulazioni al for-
tunato padre. Ma Šostakovič non annullò l’audizione e la sua
Sinfonia colpı̀ profondamente gli ascoltatori. Sia Fritz Stiedry,
direttore stabile della Filarmonica di Leningrado, sia Klempe-
rer dichiararono di voler dirigere il lavoro. In attesa dell’esecu-
zione, come ho già detto, Šostakovič scrisse musiche di scena
e filmiche, cercando di tenere in bilico un bilancio familiare
che dopo la nascita di Galina era stato aggravato dalla necessità
di avere una balia. La prima esecuzione della Sinfonia n. 4 fu
programmata alla Filarmonica di Leningrado per l’11 dicem-
bre. Si fecero regolarmente le prove, ma il mattino stesso della
74 Š O S T A K O V I Č

prima esecuzione apparve su un giornale questo annuncio: ‘‘Il


compositore Šostakovič ha chiesto alla Filarmonica di Lenin-
grado di cancellare l’esecuzione della sua Quarta Sinfonia in ra-
gione del fatto che essa non corrisponde in alcun modo alle
sue attuali convinzioni di creatore e rappresenta per lui una fa-
se da lungo superata’’. Si attribuı̀ poi la cancellazione a un non
sufficiente stato di preparazione di cui era responsabile Fritz
Stiedry che, scacciato dai nazisti dalla direzione dell’Opera
Municipale di Berlino nel 1933, si era rifugiato a Leningrado,
ma che nel 1937 scappò via dall’Unione Sovietica per andare
negli Stati Uniti. Con la sua fuga Stiedry diventava un como-
do capro espiatorio. Isaak Glikman, amico di Šostakovič che
gli faceva anche da segretario, racconta invece che furono Iaj
Renzin, direttore della Filarmonica, e Vladimir Iochelson, se-
gretario della Unione dei Compositori di Leningrado, a consi-
gliare caldamente a Šostakovič di non esporre se stesso, e indi-
rettamente anche loro, all’immancabile attacco che sarebbe
stato provocato dalla Sinfonia. Šostakovič ritirò dunque la par-
titura... e restituı̀ i tremila rubli dell’anticipo. Neppure Klem-
perer diresse la Sinfonia n. 4, che dovette cosı̀ aspettare la sua
prima esecuzione fino al 1961.
Šostakovič compose ancora nel 1936 le Quattro Romanze
da Pusˇkin per basso e pianoforte op. 46, probabilmente come
omaggio al poeta di cui sarebbe caduto nel 1937 il centenario
della morte, ma anche, mi sembra, come sublimazione del
conflitto in cui era stato trascinato dagli articoli della Pravda.
Il compositore tenne però nel cassetto le Quattro Romanze,
portò avanti le commissioni che aveva per i film e si preparò a
fare il suo rientro nella vita musicale da peccatore redento.
CAPITOLO X 75

CAPITOLO X

RISCATTO

Ottenere il perdono senza aver fatto pubblica confessione


e ammenda. Questo era il triplo salto mortale che Šostakovič
doveva avere in programma. E non c’era molto tempo, per
ottenere quanto desiderato. Anzi, la casa stava già bruciando.
Nell’agosto del 1936 aveva avuto luogo il processo contro i
bolscevichi della prima ora Kamenev e Zinov’ev, che erano
stati condannati e fucilati, in dicembre veniva promulgata la
nuova costituzione voluta da Stalin. Nel primo semestre del
1937 le epurazioni colpirono Šostakovič molto da vicino: il
cognato fu arrestato, la suocera fu arrestata, uno zio fu arresta-
to, la sua ex-fiamma Elena Konstantinovskaja fu arrestata, la
sorella Marja fu esiliata, Šostakovič fu chiamato a testimoniare
sui suoi rapporti con il maresciallo Tuchačevskij. Su quest’ulti-
mo episodio non abbiamo documenti d’archivio ma solo il
racconto che Šostakovič avrebbe fatto al suo allievo Efim Bra-
sner. Il compositore sarebbe stato convocato da un agente del-
la gpu, la polizia segreta, il quale gli chiedeva di testimoniare
che il maresciallo Tuchačevskij aveva vilmente complottato
per assassinare Stalin. Rilasciato alcune ore dopo essere stato
torchiato a dovere, ma richiesto di ripresentarsi dopo tre gior-
ni di attenta ‘‘riflessione’’, Šostakovič ritornò nell’ufficio della
gpu con la convinzione o di essere arrestato o di essere co-
stretto a testimoniare il falso. Con sua grande sorpresa – e sol-
lievo – scoprı̀ che era stato invece arrestato il suo inquisitore
(il maresciallo Tuchačevskij, eroe della guerra civile, fu con-
dannato e fucilato in giugno). Tra il 18 aprile e il 20 luglio
1937 Šostakovič giocò il tutto per tutto componendo la Sinfo-
nia n. 5 in re minore op. 47. Suonò il primo movimento, appe-
76 Š O S T A K O V I Č

na terminato, per Tichon Chrennikov, giovane ventitreenne


ma già orientato a rappresentare l’ortodossia del realismo so-
cialista, e ne ottenne l’approvazione. Poi si recò a Gaspra in
Crimea, dove finı̀ il lavoro. La prima esecuzione della Sinfonia
n. 5, affidata a Evgenij Mravinskij, ebbe luogo a Leningrado il
21 novembre, con un successo di pubblico quale non si era
più visto dopo la prima esecuzione della Patetica di Čajkovskij.
A riprova del successo, Mravinskij diresse la Sinfonia otto vol-
te nella stagione 1937-38 della Filarmonica di Leningrado,
Gauk la diresse cinque volte a Mosca fra il gennaio e il feb-
braio del 1938, altre esecuzioni ebbero luogo in molte città
dell’Unione Sovietica.
Il trionfo presso il pubblico non era ancora una garanzia
di riconquistata ortodossia, perché il gradimento che aveva ac-
compagnato il cammino della Lady e del Limpido ruscello non
era bastato a metterli al riparo dalle bordate della Pravda. Šo-
stakovič, che lo sapeva bene, scrivendo il 19 dicembre al di-
rettore d’orchestra Gavriil Judin diceva: ‘‘Il 21 dicembre la
Sinfonia sarà replicata a Leningrado. Il 20 sarà oggetto di un
dibattito all’Unione dei compositori. I musicisti, in generale,
l’hanno accolta bene. Ci sono anche dei detrattori, ma per lo
più è apprezzata’’. Il dibattito del 20 andò cosı̀ cosı̀ perché Šo-
stakovič non diede spiegazioni giudicate soddisfacenti. Ma il
29 Mravinskij lesse ai compositori una particolareggiata analisi
della Sinfonia, mentre Šostakovič faceva al pianoforte gli
esempi musicali. E quella volta arrivò il placet. Nel gennaio
del 1938 Šostakovič e la moglie si recarono a Mosca per la
prima esecuzione della Sinfonia n. 5, poi proseguirono per
Tbilisi, dove Šostakovič suonò il suo Concerto op. 35 e assistet-
te all’esecuzione della Sinfonia, diretta da Kubackij. Le recen-
sioni moscovite erano state tutte molto favorevoli, anche
quella di Neuhaus, ma la Pravda non s’era esposta. Il pericolo,
tuttavia, sembrava passato e la ‘‘riabilitazione’’ di Šostakovič
sembrava cosa fatta. A Mosca un giornalista scrisse che la Sin-
fonia era la ‘‘risposta di un artista sovietico a una giusta criti-
ca’’, e questa frase, tacitamente accettata da Šostakovič, diven-
CAPITOLO X 77

ne il sottotitolo della composizione e, in un certo senso, anche


il suo scudo protettore.
Non c’è dubbio che la Sinfonia sia la risposta a una critica:
l’ottimismo era negli anni trenta in Unione Sovietica, come
ho detto più volte, una parole d’ordine, e basta paragonare la
enigmatica conclusione in modo minore della Sinfonia n. 4
con la clamorosa conclusione in modo maggiore della Sinfonia
n. 5, che scatena la bellicosità degli ottoni e dei timpani, per
capire che la diversa drammaturgia della Quinta si pone in li-
nea con le direttive del regime. Risposta a una critica, dun-
que. Risposta a una critica ‘‘giusta’’? Per molto tempo si riten-
ne che Šostakovič avesse fatto di necessità virtù e che si fosse
piegato al diktat per salvare, se non proprio la pellaccia, per lo
meno la sua esistenza d’artista. Oggi si è più prudenti e non si
esclude che Šostakovič, al di là della rozza brutalità dell’attacco
che aveva subito, meditasse effettivamente sul da farsi da un
punto di vista squisitamente artistico e morale. Il problema è
in realtà molto complesso e coinvolge anche Prokof’ev, rien-
trato inopinatamente nell’Unione Sovietica pochi mesi dopo il
primo attacco della Pravda a Šostakovič. L’ambizioso pro-
gramma di alfabetizzazione della popolazione sovietica, perse-
guito con estrema durezza dal governo, riguardava anche la
musica, e Prokof’ev, in un articolo pubblicato nella Pravda il
16 novembre 1934, aveva scritto: ‘‘[...] il compositore avrà
presente che nell’Unione Sovietica la musica si indirizza a mi-
lioni di persone già prive o quasi di ogni contatto con essa: il
nuovo, immenso uditorio che il moderno compositore sovie-
tico dovrà sforzarsi di raggiungere’’. Non è affatto da escludere
che il pensiero di Šostakovič, dopo il ritiro della Sinfonia n. 4,
andasse nella stessa direzione e che egli riflettesse sulla sostanza
socioculturale, e morale, del problema. ‘‘La nascita della Sinfo-
nia [n. 5]’’, scrisse Šostakovič il 25 gennaio 1938 in un giorna-
le di Mosca, ‘‘fu preceduta da un lungo periodo di preparazio-
ne interiore’’. Non sappiamo con certezza se la preparazione
riguardasse il calcolo dei pericoli e delle contromisure da met-
tere in atto o un che, come io ritengo, di più profondamente
sentito. Ma non possiamo pregiudizialmente escludere la se-
78 Š O S T A K O V I Č

conda ipotesi. Due particolari, minimi e tuttavia significativi,


inducono a credere che il sostrato della Sinfonia sia in senso
lato autobiografico. Come è stato notato varie volte, nel finale
viene impiego un nucleo tematico tratto dalla prima delle
Quattro Romanze su testi di Pusˇkin, Rinascita (che nessuno pote-
va conoscere nel 1937-38 perché la prima esecuzione ebbe
luogo solo nel 1940). Non è stato invece notato che il ritmo
dell’inizio del primo movimento, il ritmo puntato alla france-
se, è per Bach il simbolo della flagellazione di Cristo. Dalla af-
flizione si va verso il riscatto e il superamento del conflitto, at-
traverso un cammino che segue tuttavia l’archetipo dramma-
turgico e formale tradizionale della sinfonia, con evidenti rife-
rimenti stilistici, specie nel secondo e nel terzo movimento, a
Mahler ma, in questo caso, anche con l’accettazione della
poetica mahleriana.
Il passaggio dalla Quarta alla Quinta Sinfonia è insieme stili-
stico e ideologico. Il linguaggio e la strumentazione della
Quinta non differiscono sostanzialmente da quelli della Quarta.
Ne differisce radicalmente il modello della retorica espositiva,
che nella Quinta rientra pienamente nei canoni della tradizio-
ne classico-romantica. Il primo e il terzo movimento sono co-
struiti con un lento accumulo di tensione che raggiunge il cli-
max a due terzi circa della durata e che si distende nell’ultimo
terzo. Il secondo movimento è un Ländler popolaresco e rude
(starei per dire ruspante), e il finale è organizzato su una prima
e una terza parte estroverse e trionfanti con, in mezzo, un
lungo episodio meditativo e lirico. In una nota autobiografica
del 1956 Šostakovič dice:
La musica di Beethoven, Schubert, Schumann, Liszt, Čajkovskij, Glinka,
Borodin, Musorgskij, Mahler e Brahms è riconoscibile per il profondo conte-
nuto etico, per la grande umanità e per l’aspirazione progressista. Quale
grande esempio costituisce l’opera di questi e di molti altri compositori classici!

E a proposito delle sue prime sinfonie:


La Prima Sinfonia, che venne eseguita il 12 maggio 1926 a Leningrado sotto
la direzione di Nikolaj Mal’ko, ebbe un ruolo determinante nella mia carriera
CAPITOLO X 79

compositiva. [...] Il suo successo rafforzò la mia persuasione di dovermi impe-


gnare seriamente nella composizione. Nella Sinfonia avevo tentato di concre-
tizzare contenuti profondi, e, malgrado l’opera fosse ancora immatura, essa ha
per me il valore di aspirare a una rappresentazione della vita e della realtà.
Lo stesso tentativo di una rappresentazione della realtà si può rilevare nella
mia Seconda (‘‘Dedicata alla Rivoluzione d’Ottobre’’) e Terza Sinfonia
(‘‘Al Primo Maggio’’). Queste opere non mi sono riuscite, anche se lavorarvi
mi è stato indubbiamente utile. Un’opera mancata è anche la mia Quarta
Sinfonia, che non è mai stata eseguita con l’orchestra [era stata pubblicata ed
eseguita nel 1946 in riduzione per due pianoforti]. Questo lavoro è piuttosto
imperfetto nella forma, troppo lungo e, direi, soffre di una certa ‘‘mania di
grandezza’’. Comunque, anche in questa partitura vi sono cose, qua e là, che
mi piacciono.

La Lady Macbeth del Distretto di Mcensk e la Quarta Sinfonia


testimoniano una visione pessimistica del mondo che non sap-
piamo se sia attribuibile a vicende personali o alle vicende po-
litiche dell’Unione Sovietica. Delle vicende personali ho det-
to. Le oscillazioni amorose tra Tat’jana Glivenko e Nina Var-
zar, la fuga prima del matrimonio, il matrimonio con Nina,
l’innamoramento per Elena, il divorzio, la riconciliazione, il...
rimatrimonio e la nascita della figlia sembrano il plot di una
brillante e sentimentale commedia hollywoodiana con lieto fi-
ne, ma testimoniano in realtà un travaglio psicologico tutt’al-
tro che venato di comici qui pro quo. Le vicende personali si
accompagnano a vicende politiche del tutto eccezionali. La
collettivizzazione forzata delle campagne con l’eliminazione
dei kulaki, il suicidio nel 1930 di Majakovskij, la carestia in
Ucraina nel 1932, l’indirizzo autoritario dello stato nei con-
fronti delle arti, l’inizio del Grande Terrore erano tutti avve-
nimenti che non potevano non scuotere le certezze di Šosta-
kovič, che essendo stato un intellettuale di sinistra ma non co-
munista aveva tuttavia accettato il nuovo assetto uscito dalla
Rivoluzione d’Ottobre e che per alcuni anni aveva combattu-
to le sue battaglie artistiche in una società pluralistica, avendo
degli avversari e dei detrattori fra i colleghi ma senza dover
subire le direttive imposte da chi, regolando le scritture e le
esecuzioni con la conseguente maturazione dei diritti d’autore,
80 Š O S T A K O V I Č

poteva disporre a suo piacere ed arbitrio della vita di chiunque


svolgesse attività professionale pubblica. Il Naso era una satira
della burocrazia zarista, ma la Lady, ‘‘satira-tragedia’’ come la
definisce Šostakovič, aveva probabilmente un sostrato autobio-
grafico che spiega secondo me la simpatia del compositore per
la protagonista assassina e che diventa una metafora della con-
dizione dell’artista nell’Unione Sovietica dopo che Stalin ave-
va liquidato gli oppositori e imposto la sua personale dittatura.
La Sinfonia n. 5 rappresenta il momento in cui Šostakovič vie-
ne consapevolmente a patti con il potere e riconquista su un
altro piano, che non è quello della innocua e indifesa protesta
ma della sofferta accettazione della realtà, la sua libertà di crea-
tore in una diversa dimensione etica.
Nel contesto di tutta l’opera creativa di Šostakovič la Sin-
fonia n. 5 ci appare oggi non come la ‘‘penitenza’’ di un accu-
sato ma come un punto di arrivo, come la risoluzione di una
crisi della poetica e del linguaggio che era iniziata alla fine de-
gli anni venti e di cui ho detto parlando degli Aforismi op. 13.
Nella Sinfonia n. 5 Šostakovič riprende con fiducia gli schemi
architettonici delle forme classiche e imposta le architetture su
grandi aree tonali: re minore nel primo movimento, la minore
nel secondo, fa diesis minore nel terzo, re minore-re maggiore
nel quarto. I temi sono fortemente delineati, plastici, imperiosi
come slogan, e non perdono la loro fisionomia nel corso degli
sviluppi. La strumentazione, di superba maestria, rende ‘‘audi-
bile’’ ogni particolare di una polifonia ricchissima. Il possesso
del mestiere è vertiginoso. Ma, come dicevo prima, oltre a
una strumentazione esemplata su quella di Mahler c’è anche
l’accettazione della poetica mahleriana. Il fatto che Šostakovič
scavalcasse all’indietro la generazione dei Berg e degli Stravin-
skij per riallacciarsi a Mahler è secondo me significativo. La
sinfonia come visione del mondo e come manifesto di umane-
simo ha per Šostakovič il suo punto terminale nella generazio-
ne che aveva ancora vissuto i miti ideologici dell’Ottocento,
poi dissoltisi. A essa Šostakovič si riallaccia per riconquistare la
fede nell’umanità. E in questo senso la ‘‘giusta critica’’ della
Pravda – formalismo e originalità artificiosa – diventa per Šo-
CAPITOLO X 81

stakovič lo spunto contingente per una ben più profonda


autocritica. La ‘‘risposta a una giusta critica’’ perde i suoi con-
notati propagandistici e diventa una verità, a patto che si
espunga da essa l’aggettivo ‘‘sovietico’’, troppo limitativo ri-
spetto a un processo di autocoscienza che nella Sinfonia si ri-
vela con la forza di un’esperienza paradigmatica.
Nell’anno scolastico 1937-38 Šostakovič cominciò a inse-
gnare strumentazione nel conservatorio di Leningrado, occu-
pando la cattedra che era stata di Rimskij-Korsakov. Il 10
maggio 1938 divenne padre per la seconda volta: era nato
Maksim, futuro pianista e direttore d’orchestra. La sua passione
per il calcio crebbe a dismisura ed egli non perdette più una
sola partita del suo team preferito, la Dinamo di Leningrado.
Ottenne persino il tesserino di arbitro! Esteriormente l’artista
individualista si stava trasformando in uomo d’ordine, interior-
mente si stava traformando in educatore. Poco dopo la nascita
del figlio cominciò a comporre il suo primo Quartetto per archi
in do maggiore op. 49, che fu ultimato il 17 luglio. Mentre la
Sinfonia n. 5 è post-mahleriana, il Quartetto n. 1 viene struttu-
rato secondo modi di organizzazione del discorso prebeetho-
veniani, e cioè haydniani e mozartiani. Quattro movimenti
tradizionali per una durata di meno di quindici minuti. Il lin-
guaggio, ovviamente, non è classico e le strutture, classiche,
vengono trattate in un modo inventivo che devia più volte
dagli schemi tradizionali. Ma Šostakovič intende in un certo
senso reinventare il quartetto come musica da camera che sod-
disfa i soli esecutori e i loro familiari invece del pubblico indi-
stinto dei concerti. Quartetto ‘‘primaverile’’, lo definı̀ Šostako-
vič. E certamente la riconquistata serenità dopo il successo
della Sinfonia n. 5, l’incarico in conservatorio, la nascita del se-
condo figlio creano i presupposti per un discorso piano, sem-
plice, elegante, affettuoso. Ma c’è anche, come dicevo, il desi-
derio di ritrovare lo spirito originario della musica da camera,
il suo tono intimo e privato. La prima esecuzione del Quartet-
to, a Leningrado il 10 ottobre 1938, fu affidata al Quartetto
Glazunov, formato da colleghi di Šostakovič nel conservato-
rio. Šostakovič fu maggiormente soddisfatto della prima esecu-
82 Š O S T A K O V I Č

zione a Mosca, il 16 novembre, affidata al Quartetto Beetho-


ven che, con l’eccezione del primo e dell’ultimo, avrebbe poi
avuto l’incarico delle prime esecuzioni assolute di tutti i Quar-
tetti. Il successo ottenuto a Mosca dal Quartetto n. 1, e dal
Quartetto Beethoven, fu tale che tutta la composizione venne
bissata.
Mentre componeva il Quartetto Šostakovič prese però
una strana iniziativa: scrisse a Boleslav Javorskij chiedendogli
delle lezioni di composizione (‘‘non mi gingillo con questa
parola, ma lo dico molto seriamente’’, 26 giugno). Tuttavia le
lezioni non ebbero luogo e Šostakovič riacquistò da solo la fi-
ducia in se stesso. Nel 1938 desiderò di ritornare all’opera e al
balletto, ma due progetti d’opera da Lermontov e un progetto
di balletto intitolato allo stesso poeta fallirono rapidamente.
Šostakovič compose invece le musiche per i film Il Distretto di
Viborg, op. 50, Gli Amici, op. 51, Un Grande cittadino (prima
serie), op. 52, e L’Uomo con il fucile, op. 53, oltre alla Suite n.
2 per Orchestra Jazz di cui ho già detto. Nel 1939 compose la
musica per la seconda serie di Un Grande cittadino, op. 55, per
il cartone animato Lo Sciocco piccolo topo op. 56 (questa musica
è andata perduta) e, soprattutto, la Sinfonia n. 6 in si bemolle
minore op. 54. Il progetto di una Sesta Sinfonia risaliva al set-
tembre del 1938: avrebbe dovuto essere con solisti e coro, e
con un testo di Majakovskij, intitolato Vladimir Il’icˇ Lenin, ma
dopo pochi schizzi questa soluzione venne abbandonata, e
quando, parlando alla radio alla fine di gennaio del 1939, Šo-
stakovič annunciò che stava per comporre la Sinfonia n. 6, di
Lenin non si faceva più parola. La ‘‘vera’’ Sinfonia n. 6, in tre
movimenti disposti insolitamente nell’ordine Largo, Allegro,
Presto, dura poco più di trenta minuti e, come Šostakovič di-
chiarò, differisce ‘‘dal modo e dal tono emotivo della Quinta
Sinfonia, nella quale c’erano caratteristici momenti di tragedia
e di tensione’’, mentre nella Sesta predominano la ‘‘musica di
un ordine contemplativo e lirico’’ e i ‘‘modi della primavera,
della gioia, della giovinezza’’. La prima esecuzione, diretta da
Mravinskij, ebbe luogo a Leningrado il 21 novembre 1939,
con un enorme successo e con la replica del finale. Eseguita a
CAPITOLO X 83

Mosca il 3 dicembre, direttore ancora Mravinskij, la Sinfonia


fu bene accolta dal pubblico ma non dai musicisti e dalla criti-
ca, che espresse molte riserve, pur non rispolverando le cano-
niche accuse di formalismo.
In verità non si capisce bene perché Šostakovič parlasse di
primavera, gioia e giovinezza, termini che possono valere solo
per il finale, in si bemolle maggiore, mentre il demoniaco se-
condo movimento sembra evocare una foresta primordiale e il
vastissimo primo movimento è triste, desolato. Del resto, la
tonalità di si bemolle minore mal si presta alla musica ‘‘di un
ordine contemplativo e lirico’’. Confesso dunque di non saper
intendere perché Šostakovič parlasse della sua Sinfonia nei ter-
mini che ho riferito. Quello che capisco è che, dopo l’adesio-
ne alle forme tradizionali, dopo aver composto con la Quinta
Sinfonia una specie di tesi di laurea fatta con una tale intelli-
genza, con una tale padronanza delle forme e con un cosı̀ per-
fetto arco drammaturgico dalla afflizione alla liberazione da
mettere a tacere ogni critica non prevenuta e pregiudiziale,
Šostakovič si riappropriasse dei suoi diritti di creatore e com-
ponesse una sinfonia il cui assetto era dettato dagli inconsci
impulsi della fantasia. E questo è uno dei tanti motivi per cui
non si può assolutamente parlare di supina adesione di Šosta-
kovič alle direttive ufficiali. Sonata quasi una fantasia era il tito-
lo che Beethoven aveva dato alla Sonata n. 2 op. 27, iniziante
con un adagio. La Sinfonia n. 6 di Šostakovič avrebbe potuto
essere intitolata Quasi una fantasia o Fantasia sinfonica. E nel
prosieguo della sua attività di sinfonista Šostakovič si sarebbe
costantemente riservato la scelta di mantenersi sui binari della
tradizione classico-romantica o di innovarla nei modi più sva-
riati.
84 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XI

SINFONIA DI LENINGRADO

Nel 1939 cadeva il centenario della nascita di Musorgskij.


Samuil Samosud, direttore d’orchestra del Malegot che aveva
portato in scena le prime esecuzioni sia del Naso che della La-
dy e che dal 1936 era stato assunto dal Bol’šoj di Mosca, chie-
se a Šostakovič una nuova strumentazione del Boris Godunov
che sostituisse la ormai annosa e contestata versione di Rim-
skij-Korsakov. Šostakovič accettò l’incarico e, basandosi sulla
strumentazione originale che era uscita nel 1936, completò il
lavoro, la sua op. 58, tra il novembre del 1939 e l’aprile del
1940. Ma Samosud incontrò poi tenaci resistenze nell’esta-
blishment del Bol’šoj e non riuscı̀ a mettere in produzione la
nuova strumentazione. Il Bol’šoj rifiutò del resto di cederla al
Malegot: non metterla in produzione era una cosa, regalare la
primizia a un concorrente era un’altra cosa. E cosı̀ la versione
Šostakovič del Boris Godunov restò a dormire fino al 1959,
quando finalmente poté vedere la luce... al Kirov di Leningra-
do, non al Bol’šoj. La strumentazione di Šostakovič non sosti-
tuı̀ negli anni sessanta e settanta quella di Rimskij-Korsakov, e
a partire dagli anni settanta divenne sempre più frequente il ri-
corso alla strumentazione originale di Musorgskij, di difficile e
talora problematica realizzazione ma di un colore timbrico
unico. La strumentazione di Šostakovič viene ripresa rarissima-
mente, e in pratica non ha rivestito alcuna importanza nella
storia della ricezione dell’opera. Tutt’altro discorso va fatto in-
vece – lo anticipo qui – per la strumentazione della Chovansˇˇci-
na, op. 106 (1959). Com’è ben noto, Musorgskij non solo
aveva lasciato incompleta la strumentazione (due soli pezzi in
partitura), ma non aveva neppure ultimato l’opera. La versione
CAPITOLO XI 85

di Šostakovič interviene dunque anche sulla drammaturgia


perché conclude la vicenda con la ripresa del Preludio sulla Mo-
scova, dimostrando il chiaro intento di suggerire allo spettatore
che tutto ciò che accade nello scorrere sempre uguale del
tempo – simboleggiato dal fiume – non modifica per il popo-
lo il sistema di potere ma lo consegna al nuovo venuto, lo zar
Pietro I. Si sarebbe potuto fare un paragone fra Pietro I e Sta-
lin... ma per fortuna nessuno ci pensò. Sulla soluzione dram-
maturgica escogitata da Šostakovič, e sulla strumentazione in
sé e per sé sono state avanzate molte riserve, che personal-
mente non condivido, ma l’opera cosı̀ completata ha effettiva-
mente sostituito quasi costantemente la versione di Rimskij-
Korsakov.
Nella prima metà del 1940 Šostakovič fece molti progetti
e non ne realizzò nessuno. Aveva sempre in mente una canta-
ta su Lenin, pensava a un’opera (da Resurrezione di Tolstoj), a
un’operetta, a un balletto... Compose anche Tre pezzi per violi-
no solo, op. 59-bis, che non volle pubblicare e che fino ad og-
gi non sono stati ritrovati. Solo in luglio, mentre si trovava in
vacanza in Crimea, si decise per un lavoro da camera, il Quin-
tetto in sol minore per pianoforte e archi op. 57. Una lettera del 16
luglio indirizzata a Vasilij Širinskij, secondo violino del Quar-
tetto Beethoven, è perfettamente indicativa del carattere timi-
do e schivo di Šostakovič:
Sono stato molto contento di leggere la Sua lettera. In primo luogo sono con-
tento perché si è ricordato di me e poi perché si è interessato ai miei progetti
riguardo la musica da camera. È curioso il fatto che tre giorni fa io abbia co-
minciato a scrivere un quintetto con pianoforte. Non mi pare necessario ag-
giungere che sarei tremendamente felice di poterlo suonare con voi. Ma ciò di-
pende in primo luogo dalla nascita di questa composizione (potrebbe riuscire
banale) e, in secondo luogo, anche se dal mio punto di vista fosse venuto
bene, potrebbe non piacere a Lei. Insomma, chi vivrà vedrà. In ogni caso,
temo di non poterlo finire tanto presto, perché sarà una composizione lunga,
in cinque movimenti (preludio, grande fuga, scherzo, adagio, finale). In ogni
caso, fra circa tre mesi sarà più o meno chiaro per quanto tempo dovrò lavo-
rare a questo opus.
86 Š O S T A K O V I Č

In realtà, alla metà di luglio il Quintetto era già molto be-


ne avviato, e il 14 settembre era pronto. La prima esecuzione
ebbe luogo a Mosca, il 23 novembre, con Šostakovič al pia-
noforte e il Quartetto Beethoven. Successo strepitoso. Il 16
marzo 1941 il Quintetto, malgrado le sotterranee e sorde op-
posizioni di qualcuno che non aveva digerito il successo della
Sinfonia n. 5, ottenne il Premio Stalin di prima classe. E con
ciò la ‘‘riabilitazione’’ di Šostakovič era veramente compiuta.
Il genere del quintetto per pianoforte e archi è una creazione
del periodo classico, e in particolare di Boccherini, ma trova la
sua piena espansione nel periodo romantico, quando si confi-
gura come una specie di concerto da camera per pianoforte,
di struttura piena e massiccia sia per il pianoforte che per gli
archi. Šostakovič concepisce il Quintetto op. 57 in un modo
diverso, e in realtà neoclassico: la scrittura del pianoforte è
leggera e molto spaziata, con frequente uso dei registri estre-
mi, acuto e grave, nel ‘‘territorio’’ che gli archi non raggiun-
gono, e a turno il pianoforte accompagna gli archi e gli archi
accompagnano il pianoforte. Succede un po’ quello che era
successo nella Sonata per violoncello, con un risultato singola-
re sia sul piano della concezione sonora che del risultato
espressivo. L’Europa – non ancora l’Unione Sovietica – era
già in guerra quando il Quintetto fu composto, e vari com-
mentatori cedettero e cedono alla tentazione di vedere nella
composizione di Šostakovič i riflessi del tragico momento sto-
rico che l’umanità stava attraversando. Il terzo movimento, in
particolare, viene visto come ‘‘danza macabra’’. Si tratta invece
di uno Scherzo, piuttosto breve e scanzonato e con carattere di
valzer, che risponde benissimo al suo titolo. Molto introspetti-
va la Fuga, affidata prevalentemente agli archi, introdotta da
un Preludio sereno e, oserei dire, persino arcadico. Introspetti-
vo ma dolcissimo l’Intermezzo, e scherzoso il Finale. Šostakovič
ritorna dopo alcuni anni al suo primo amore, il pianoforte,
con un grande pezzo, un capolavoro in cui, al contrario di ciò
che avviene con Prokof’ev in quegli anni, il clima di guerra
resta lontano e che si lega idealmente al Quartetto n. 1, espres-
CAPITOLO XI 87

sione, come detto, della riconquistata serenità dopo il successo


della Sinfonia n. 5.
Finito con soddisfazione il Quintetto, Šostakovič riprese i
lavori su commissione che gli garantivano introiti più sicuri e
compose le musiche di scena, op. 58 n. 2, per il Re Lear di
Shakespeare, e le musiche per il film Le Avventure di Korzinki-
na op. 59. Alle musiche per il Re Lear appartengono le Dieci
Canzoni del Buffone, nelle quali la vena per il grottesco di Šo-
stakovič trova una delle sue più felici espressioni. Per l’opera
dalla Resurrezione di Tolstoj, dal titolo Kat’juša Maslova, Šosta-
kovič fece degli schizzi e, nel marzo del 1941, firmò anche un
contratto con il Teatro Kirov. Ma l’agenzia di stato di Mosca
che esercitava la censura sulle produzioni teatrali non approvò
il libretto, e di Kat’juša Maslova non si parlò più. Il Quintetto
divenne subito popolare e fu eseguito da Šostakovič parecchie
volte, sia con il Quartetto Beethoven che con il Quartetto
Glazunov. Ma Šostakovič non aveva la mentalità del concerti-
sta che riproduce in serie le sue esecuzioni. A Širinskij, il 14
gennaio 1941, egli cosı̀ scrive,... scusandosi:
Per quanto riguarda la tournée per le città dell’urss , l’ho rifiutata. Le cause
del rifiuto sono queste. Mi sento molto male. La mia nevrastenia è seriamente
aggravata. Di conseguenza ho deciso di posporre tutti i miei impegni concerti-
stici per tre o quattro mesi. Inoltre, mi sono accorto che nella mia ultima esibi-
zione a Mosca e nelle ultime esibizioni a Leningrado [...] la mia esecuzione
era banalmente automatica, in quanto non sentivo alcuna ‘‘ispirazione’’.
Questo deriva esclusivamente dalla mancanza di esperienza del palcoscenico.
e, a essere sincero, ciò mi ha fatto male.
Ricordo la trepidazione e l’estasi con cui avevo suonato i miei primi concerti
moscoviti. E poi queste sensazioni sono scomparse. Evidentemente, ho suonato
il Quintetto troppe volte di seguito, e ciò ha portato una qualche ‘‘abitudine’’.
E l’abitudine è il nemico della creatività e della qualità di esecuzione.

Ispirazione, trepidazione, estasi, creatività. Ma chi parla


cosı̀ è un uomo della civiltà delle macchine, o è un romantico
della più bell’acqua? Šostakovič incise in disco due volte il
Quintetto, nel 1940 e nel 1953. Nelle due esecuzioni il Prelu-
dio dura rispettivamente 4’56 e 3’41, la Fuga 12’25 e 10’27, lo
88 Š O S T A K O V I Č

Scherzo 3’44 e 3’04, l’Intermezzo 8’12 e 6’25, il Finale 7’22 e


5’55, e la durata totale passa dai 36’39 del 1940 ai 26’32 del
1953. Sono differenze enormi, per la mentalità prevalente nel
Novecento che fu fortemente influenzata da Stravinskij. Evi-
dentemente, Šostakovič il Romantico era ben lungi dal consi-
derare il tempo una struttura indipendente, fissata una volta
per tutte e immutabile.
Nel giugno del 1941 il professor Šostakovič che nel 1939,
dopo i canonici due anni in prova, era stato confermato ‘‘in
ruolo’’ nel conservatorio di Leningrado, era impegnato con gli
esami... e con le partite di calcio. Il 22 giugno stava andando
tranquillamente allo stadio in compagnia di un amico, tifoso
quanto lui della Dinamo, quando sentı̀ gli altoparlanti annun-
ciare che l’esercito tedesco aveva varcato la frontiera russa.
L’attacco era talmente inatteso che i sovietici opposero una
debolissima resistenza: a fine luglio Leningrado era completa-
mente circondata. Cominciava l’assedio, e cominciava per Šo-
stakovič un periodo molto difficile e travagliato. Egli chiese
subito di essere arruolato, ma non fu accettato. Entrò come
volontario nelle squadre che scavavano trincee e poi fu inqua-
drato fra i pompieri che dovevano proteggere dalle bombe in-
cendiarie il conservatorio. La fotografia del compagno Dmitrij
Dmitrievič Šostakovič sul tetto del conservatorio, in divisa,
con elmetto, guanti ignifughi, cinturone e bandoliera, non
brillava in verità per eroismo – il viso tondo e i tondi occhiali
smentivano l’atteggiamento guerriero –, ma era propagandisti-
camente più utile del servizio che un musicista privo di espe-
rienza militare avrebbe potuto prestare nell’esercito. Il pom-
piere non cessava però di essere musicista, e in quanto tale si
metteva veramente al servizio della sua patria: in breve tempo
Šostakovič fece gli arrangiamenti di ventisette arie operistiche,
romanze, canzoni popolari, in massima parte ma non soltanto
russe, che vennero eseguite in concerti per i soldati, e compo-
se l’inno della Guardia Civile che divenne popolarissimo. Più
importante fu però la decisione di comporre un poema sinfo-
nico, che in breve divenne il primo movimento della nuova
CAPITOLO XI 89

Sinfonia, la n. 7 in do maggiore op. 60. Il primo movimento fu


ultimato il 3 settembre, il secondo il 17 e il terzo il 29.
Ma c’era la guerra, e che guerra! E c’era l’assedio. Il 4 set-
tembre erano cominciati i bombardamenti di Leningrado, e
nel corso del mese venne organizzata l’evacuazione dalla città
di una parte della popolazione civile. Šostakovič, la moglie e i
due figli partirono l’1 ottobre in aereo (Šostakovič, costretto a
limitare al minimo il bagaglio, portò con sé i primi tre movi-
menti della Sinfonia n. 7, lo spartito della Lady Macbeth del Di-
stretto di Mcensk e, curioso!, la partitura e la sua trascrizione per
pianoforte a quattro mani della Sinfonia di Salmi di Stravinskij).
Il piccolo aereo militare su cui gli Šostakovič viaggiarono at-
terrò nei pressi di Mosca. La sera del 15 ottobre Šostakovič e i
suoi ripartirono in treno per Sverdlovsk. Dopo sette giorni di
disagiatissimo viaggio arrivarono a Kujbyšev, alla confluenza
del Volga e del Samara (oggi la città si chiama Samara), dove
era stato sfollato il Teatro Bol’šoj di Mosca. E lı̀ si fermarono.
‘‘Abbiamo ottenuto una camera’’, scrisse Šostakovič all’amico
Glikman il 30 novembre. E aggiunse: ‘‘Di creazione artistica
non si parla neanche’’. Dopo qualche giorno gli Šostakovič
ebbero un appartamentino di due stanze e un pianoforte, e il
compositore, sebbene fosse molto in pensiero per la sorte della
madre, della sorella e del nipote, che erano ancora a Leningra-
do, riuscı̀ a riprendere il lavoro: il 27 dicembre ultimò il quar-
to movimento della Sinfonia.
Le solite audizioni al pianoforte provocarono impressioni
generalmente molto positive, anche se qualcuno pensava che
il finale non fosse abbastanza glorioso, e anche se Samosud ri-
teneva che fosse meglio inserirvi un testo, e quindi solisti di
canto e il coro. ‘‘C’è una sfilza di utili osservazioni sul quarto
movimento’’, scrisse Šostakovič a Glikman il 4 gennaio, ‘‘io le
prendo in considerazione, ma non le metto in pratica, in
quanto dal mio punto di vista coro e solisti non sono necessari
in questo movimento e di ottimismo ce n’è a iosa’’. In feb-
braio l’orchestra del Bol’šoj, diretta da Samosud, cominciò a
provare la Settima Sinfonia, e Šostakovič, che aveva manifestato
qualche dubbio sulla idoneità del direttore nel condurre in
90 Š O S T A K O V I Č

porto non un’opera ma una grande partitura sinfonica, si ricre-


dette. Il 5 marzo ebbe luogo la prima esecuzione, radiotra-
smessa e preceduta da una allocuzione di Šostakovič. Il succes-
so fu senza precedenti e molte stazioni radiofoniche straniere
ritrasmisero l’esecuzione di Kujbyšev. Il 19 marzo i parenti
stretti di Šostakovič e poco più tardi quelli della moglie arriva-
rono finalmente a Kujbyšev. Il 20 Šostakovič partı̀ in aereo
per Mosca insieme con una parte dell’orchestra del Bol’šoj.
L’esecuzione moscovita, diretta da Samosud con l’orchestra del
Bol’šoj e l’orchestra della Radio, ebbe luogo il 29 marzo.
L’11 aprile venne assegnato alla composizione il Premio Stalin
di prima classe. In luglio Mravinskij diresse la Sinfonia, con la
Filarmonica di Leningrado sfollata a Novosibirsk, alla presenza
di Šostakovič, che fin dal principio aveva desiderato ascoltare
l’interpretazione del suo direttore prediletto. Ma persino Le-
ningrado sotto assedio volle e potè ascoltare dal vivo la Sinfo-
nia, il 9 agosto, con l’orchestra della Radio diretta da Karl
Eliasberg, rinforzata da strumentisti che per l’occasione venne-
ro richiamati dalle trincee. Le autorità concessero ai professori
d’orchestra, stremati come tutti gli abitanti di Leningrado dalla
mancanza di cibo, razioni supplementari, l’esecuzione fu ra-
diotrasmessa e fu diffusa anche attraverso altoparlanti collocati
in modo che le note di Šostakovič raggiungessero le orecchie
degli assedianti. La Sinfonia divenne cosı̀ la musica della patria
in armi, della sua capacità di resistenza e della sua fede nella
vittoria: non si era mai vista una simile identificazione di tutto
un popolo in una composizione musicale, e non la si sarebbe
vista mai più.
Non solo l’intera Unione Sovietica voleva però ascoltare
la Sinfonia. La trasmissione radiofonica aveva svegliato l’inte-
resse di tutte le nazioni che combattevano il nazismo. Il mi-
crofilm della partitura venne portato in aereo a Teheran e di
lı̀ arrivò in Inghilterra e negli Stati Uniti. Già il 22 giugno Sir
Henry Wood diresse la Sinfonia alla radio inglese e il 29 nella
enorme Albert Hall di Londra. Il 19 luglio Arturo Toscanini,
che aveva addirittura scritto a Stokowski per chiedergli di ce-
dergli cavallerescamente l’onore di far conoscere la partitura in
CAPITOLO XI 91

America, diresse la prima esecuzione radiofonica negli Stati


Uniti, e il 14 agosto Kusevickij la prima esecuzione pubblica a
Lenox nel Massachusetts. Seguirono altre decine e decine di
esecuzioni, e la fotografia del pompiere Šostakovič sul tetto
del conservatorio di Leningrado fece il giro del mondo. Il fa-
natismo suscitato dalla Sinfonia negli Stati Uniti fu tale da in-
durre un uomo mite, e antifascista come Bartók, a parodiarne
sarcasticamente un tema del primo movimento nell’Intermezzo
interrotto del suo Concerto per orchestra.
La Sinfonia n. 7 è in quattro movimenti, dura più di set-
tanta minuti e impiega un organico orchestrale comprendente
tre flauti, tre oboi, quattro clarinetti, tre fagotti, otto corni, sei
trombe, sei tromboni, tuba, timpani percussioni, due arpe,
pianoforte, archi. I quattro movimenti portano soltanto le in-
dicazioni di tempo ma, sulla base di diverse dichiarazioni ge-
neriche di Šostakovič, e di una molto precisa del 1951 nell’ar-
ticolo Musica a programma reale e apparente, è invalso l’uso di
denominarli rispettivamente La Guerra, Memorie, Gli Spazi
sconfinati della Patria, La Vittoria. Questi titoli danno in verità
un’idea della Sinfonia troppo diretta, troppo naturalistica. Il
primo movimento, in tre parti molto estese, è ispirato alla vita
pacifica, all’irrompere della guerra, al compianto per le vitti-
me. ‘‘Non voglio costruire un episodio naturalistico con tin-
tinnare di armi, esplosioni di proiettili e cosı̀ via. Cerco di co-
municare l’impatto emotivo della guerra’’, scriveva Šostakovič,
a proposito della parte centrale, in un articolo del 9 ottobre
1941. L’irrompere della guerra viene infatti realizzato simboli-
camente da Šostakovič con un tema con variazioni su un osti-
nato ritmico degli strumenti a percussione, chiaramente ispira-
to alla struttura del Bolero di Ravel. Non si tratta però di una
avanzata di Panzer con la copertura di un bombardamento di
artiglieria e con gli Stukas rombanti in cielo. Ed è secondo
me significativo il fatto che Šostakovič, componendo in una
città assediata da mezzi corazzati e mentre scavava le buche
anticarro, parlasse del ‘‘tintinnare di armi’’, come se la guerra
fosse ancora quella combattuta da eserciti di fantaccini. È un’i-
dea ancestrale della guerra, la sua, e la marcia cadenzata dell’e-
92 Š O S T A K O V I Č

sercito, mi sembra, è vista dalla parte di chi avanza, con tran-


quillità e persino con la eccitazione gioiosa di chi pregusta vit-
toria e bottino, non dalla parte di chi subisce l’avanzata e la
vede progredire con crescente timore. Idea ancestrale, dicevo.
O forse l’idea della invasione napoleonica a cui Prokof’ev sta-
va dando il volto in Guerra e Pace. E gli interventi di vari stru-
menti nei diversi episodi delle variazioni sono un po’ come
flash cinematografici sugli individui, a cominciare dal cordiale
dialoghetto fra oboe e fagotto. Solo alla fine della marcia ab-
biamo l’impatto violento della guerra, senza i clamori della
battaglia. Šostakovič dice che la riesposizione, cioè la terza
parte, è ‘‘una marcia funebre, o piuttosto un requiem per le
vittime della guerra: la gente onora la memoria dei suoi mor-
ti’’. La correzione da ‘‘marcia funebre’’ a ‘‘requiem’’ è secon-
do me essenziale, e perciò parlavo prima di compianto. La ter-
za parte non è tragica ma commossa, e il requiem è seguito da
un episodio in cui Šostakovič vede ‘‘il dolore di una madre in
pianto o persino un dolore cosı̀ profondo da rimanere senza
lacrime’’. E la fine è ‘‘una apoteosi della vita e del sole’’, e
soltanto nelle ultime battute ‘‘si sente un rombo in distanza: la
guerra non è finita’’.
Non gli orrori della guerra, dunque, ma la guerra che ac-
compagna da sempre il cammino dell’umanità e che viene su-
bita con la dignità e con la forza morale che permettono di
superarla. Questo modo imprevedibile di strutturare dramma-
turgicamente il primo movimento fa sı̀ che il secondo movi-
mento, sereno e persino danzante (‘‘uno scherzo molto liri-
co’’), gli si leghi logicamente. Šostakovič dice che ‘‘il secondo
e il terzo movimento non hanno un programma definito: si
tratta di una musica lirica incaricata di ridurre la tensione’’. E
cita la scena dei becchini dell’Amleto, dicendo che ‘‘Shake-
speare sapeva bene che non si può tenere l’uditorio in tensio-
ne per tutto il tempo’’. In realtà, se Šostakovič avesse creato
un poema sinfonico o comunque un lavoro a programma
avrebbe dovuto limitarsi al primo e all’ultimo movimento, co-
me Beethoven nella Battaglia di Wellington, mentre proprio la
singolare impostazione del primo movimento, del tutto inatte-
CAPITOLO XI 93

sa, gli permette di comporre una vera sinfonia, cioè di seguire


lo schema archetipico e formale della sinfonia in quattro movi-
menti senza venir meno alla coerenza drammaturgica. Il terzo
movimento è una canzone tripartita con una parte centrale agi-
tata: drammaturgicamente, un ricalco del primo movimento. E
il finale, che dura circa sedici minuti, diventa trionfale solo ne-
gli ultimi tre minuti: il senso della vittoria è vissuto intimamen-
te, tanto che il riferimento alla città di Leningrado assediata,
dedicataria della Sinfonia, diventa del tutto indiretto. Il signifi-
cato della composizione è umanistico, e simbolico: è, secondo
me, la vittoria dell’uomo su se stesso. È assai strano il fatto che
molti commentatori censurassero il finale, giudicato vuotamen-
te trionfalistico. La chiusa è sı̀ trionfale, ma l’insieme non è af-
fatto trionfalistico. Se il clamore degli ottoni significa trionfali-
smo, allora le pagine finali della Quinta Sinfonia, della ouvertu-
re Egmont, della ouverture Leonora n. 3 di Beethoven sono assai
più trionfalistiche della Settima Sinfonia di Šostakovič.
94 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XII

FINE DELLA GUERRA

Dopo aver ultimato la Settima Sinfonia Šostakovič pensò


nuovamente a comporre un’opera. Questa fu del resto una sua
aspirazione ricorrente, dopo che il Naso e la Lady Macbeth del
Distretto di Mcensk erano state ignominiosamente cacciate dai
teatri sovietici. Tutti i progetti operistici di Šostakovič falliro-
no per una ragione o per l’altra. Ma quello del 1942 fu l’uni-
co che andò abbastanza vicino al suo naturale compimento. Si
trattava di un dramma di Gogol’, I Giocatori, a cui, sembra,
Šostakovič aveva pensato già nel 1938, quando nel testo go-
goliano aveva visto una metafora del Patto di Monaco, con
Mussolini, Chamberlain e Daladier che giocavano a carte con
Hitler. Nei Giocatori un baro, che ha da poco vinto una grossa
somma, giunge in una locanda e accalappia, cioè crede di ac-
calappiare tre polli, che in realtà sono bari quanto lui. Siccome
cane non mangia cane, i quattro furfanti si accordano per
spennare un pollo vero, ma chi alla fine resta spennato è pro-
prio il primo baro, che credeva di essere il più furbo. Nel
1942 il progetto prese corpo. Scrivendo a Šebalin il 10 giugno
Šostakovič aggiungeva in un poscritto: ‘‘Sto scrivendo un’ope-
ra, I Giocatori. Le parole sono di Gogol’ (sic!), integrali, senza
cambiamenti. Per ora non dirlo a nessuno’’. In novembre era
stata composta mezz’ora di musica, corrispondente a circa un
settimo dell’opera, e quindi il lavoro avrebbe raggiunto una
durata monumentale di circa tre ore e mezza. Šostakovič co-
minciò però ad avere dei dubbi sulla fattibilità della sua inizia-
tiva. Dovette interrompere la composizione perché nel gen-
naio del 1943 si ammalò di febbre tifoide. Rimessosi in salute
passò tre settimane in un convalescenziario nei dintorni di
CAPITOLO XII 95

Mosca. Da lı̀, il 15 marzo, scrisse a Sollertinskij dicendo ‘‘sto


facendo la riduzione per pianoforte dell’opera I Giocatori, che
è lungi dall’essere finita e che probabilmente è destinata a non
essere finita mai’’. Ed era buon profeta: dei Giocatori abbiamo
il solo primo atto in partitura (circa duecento pagine), che
venne eseguito in forma di concerto nel 1978. Il polacco
Krzysztof Meyer, autore di una biografia di Šostakovič, com-
pose nel 1980-81 i due atti mancanti, ma il suo lavoro viene
ricordato solo per dovere di cronaca. Peccato che Šostakovič
abbia abbandonato i Giocatori! Il primo atto promette molto,
moltissimo. Ma forse nemmeno lui sarebbe riuscito a tenere
viva un’operona senza personaggi femminili.
Degli avvenimenti del 1942 ho già detto, parlando della
Settima Sinfonia. La composizione più importante di quell’anno
è costituita dalle Sei Romanze su versi di poeti inglesi per barito-
no e pianoforte op. 62, trascritte poi per baritono e orchestra.
Per baritono, coro e pianoforte è un canto patriottico, Il Voto
al Commissario del Popolo, senza numero d’opera, per banda è
la Marcia Cerimoniale senza numero d’opera. La composizione
delle Sei Romanze fu piuttosto casuale. Il 7 maggio 1942 Šo-
stakovič, indaffaratissimo con varie incombenze, non volle la-
sciar passare senza un regalo il compleanno del figlio e com-
pose una lirica su testo di Sir Walter Raleigh, A Mio Figlio,
nella traduzione di Pasternak. In settembre, trovandosi a Mo-
sca, incontrò lo scrittore Samuil Maršak, che gli diede la tra-
duzione di tre poesie di Robert Burns: Šostakovič le musicò
subito. In novembre, a Kujbyšev, completò finalmente la rac-
colta con il Sonetto n. 66 di Shakespeare, tradotto da Paster-
nak, e con due versi di una canzone infantile inglese, tradotti
da Maršak. Il tema ideologico generale delle Sei Romanze ri-
guarda l’oppressione del potere e il disprezzo come unica pos-
sibile risposta. In questo senso Šostakovič doveva prediligere
in particolare la terza Romanza, L’addio di MacPherson prima
della sua esecuzione, che avrebbe citato nella Tredicesima Sinfo-
nia. Il tema è però sviluppato con leggerezza di tratto, non in
modo drammatico ma semmai ironico.
96 Š O S T A K O V I Č

Nel 1942 Šostakovič ritornava alla rivista con la suite La


Patria op. 63, inserita in uno spettacolo popolare che andò in
scena il 7 novembre a Mosca. E alla fine dell’anno nasceva l’i-
dea di scrivere una Sonata per pianoforte in memoria di Leo-
nid Nikolaev, l’insegnante di Šostakovič nel conservatorio,
spentosi a Taškent, dov’era sfollato, l’11 ottobre 1942. Il 12
gennaio 1943, raccontando a Sollertinskij l’andamento della
febbre tifoidea da cui era stato colpito, Šostakovič scriveva:
‘‘Quando gli spasimi mi hanno abbandonato ho cominciato a
pensare a una sonata per pianoforte. L’ho pensata e adesso
pian pianino la metto sulla carta’’. La Sonata n. 2 in si minore
op. 61 fu ultimata il 17 marzo e fu eseguita per la prima volta
il 6 giugno a Mosca, dove Šostakovič aveva preso residenza. A
Kujbyšev Šostakovič aveva cominciato a non sentirsi a suo
agio fin dall’estate del 1942. Gli mancavano molto gli amici
più cari,... e gli mancava il calcio, infelicemente sostituito da
partite di hockey su ghiaccio che non lo soddisfacevano. Do-
po aver pensato per un momento di spostarsi a Novosibirsk
egli accettò con gratitudine l’offerta di Šebalin, diventato di-
rettore del conservatorio di Mosca, che gli proponeva di oc-
cupare una cattedra di composizione, e in aprile si spostò con
la moglie nella capitale, facendosi poi raggiungere dal resto
della famiglia in giugno.
La Sonata n. 2, in tre movimenti, è in un certo senso para-
dossale perché la vastità del suo impianto architettonico (circa
ventotto minuti di durata) è contraddetta dalla leggerezza della
strumentazione. Già l’inizio, con l’esposizione di un semplicis-
simo primo tema al basso con un accompagnamento mormo-
rante di netta impronta settecetesca, sorprende l’ascoltatore. E
tutto il movimento, con un secondo tema in mi bemolle
maggiore a modo di marcia, con sviluppo e riesposizione nella
quale i due temi principali vengono sovrapposti, procede in
modo neoclassico, con assoluta chiarezza formale e, come di-
cevo, con una scrittura leggera, trasparente. Il secondo movi-
mento, in la bemolle maggiore, è un valzer in forma di canzo-
ne tripartita (primo tema, secondo tema, riesposizione del pri-
mo tema), non immemore del Preludio op. 34 n. 17, discorsi-
CAPITOLO XII 97

vamente frammentato e che dà l’impressione di un riaffiorare


nella memoria di cose lontane. Il terzo movimento è un tema
con variazioni senza soluzione di continuità. Tema a modo di
canto popolare senza armonizzazione, molto lungo, che sem-
bra a tutta prima un soggetto di fuga. Le variazioni sono orga-
nizzate secondo moduli del periodo barocco, con una sapienza
che viene celata dal tono discorsivo piano e colloquiale. La
Sonata non è in realtà un pezzo da concerto, ma un pezzo da
lettura privata al modo del Settecento. E siccome viene cro-
nologicamente dopo una composizione di grande impatto
emotivo come la Sinfonia n. 7 fa pensare a una scelta delibera-
ta di semplicità, da mettere in rapporto con la dedica alla me-
moria di Leonid Nikolaev. Sono stati industriosamente cercate
somiglianze fra i temi della Sonata e i temi dei due Quartetti
di Nikolaev. Si è anche supposto, e questa ipotesi pare a me
più convincente, che l’omaggio al pedagogo comportasse il ri-
pensamento del suo insegnamento, basato su nette distinzioni
di stili storici. In verità Šostakovič aveva già dimostrato, nel
Quartetto n. 1, di potersi applicare al ripensamento di stili del
passato, ma in quel caso aveva mantenuto, come Prokof’ev
nella Sinfonia classica, le dimensioni architettoniche haydniane.
Nella Sonata n. 2 l’ampiezza del finale, che occupa circa la
metà della durata complessiva, appare contradditoria e rende
difficoltoso l’ascolto in sede concertistica. Ciò non significa
che sia carente la qualità artistica della composizione che, anzi,
è altissima. Ma la Sonata viene eseguita in pubblico raramente
ed è conosciuta molto meno di quanto sarebbe giusto.
Il più impegnativo lavoro del 1943 è la Sinfonia n. 8 op.
65 in do minore, eseguita per la prima volta il 4 novembre a
Mosca sotto la direzione del dedicatario, Evgenij Mravinskij.
Chi si aspettava il seguito della Sinfonia n. 7 rimase deluso, co-
sı̀ com’era rimasto deluso chi s’era aspettato di trovare nella
Sinfonia n. 6 il seguito della n. 5. Il primo movimento è un
vastissimo Adagio che si sviluppa dinamicamente fino a un
culmine di apocalittica violenza, seguito da una lunga melopea
del corno inglese e da una conclusione desolata. Sembra evi-
dente che Šostakovič intenda riprendere qui il tema della
98 Š O S T A K O V I Č

guerra, ma nel senso degli orrori della guerra, con quel lungo
lamento del corno inglese che mette i brividi e che richiama
alla memoria il ‘‘dolore di una madre in pianto’’ di cui Šosta-
kovič parlava a proposito del primo movimento della Settima
Sinfonia. Qui non ritroviamo però la sorprendente ‘‘apoteosi
della vita e del sole’’ della Settima. Seguono due movimenti
che possiamo chiamare scherzo-marcia, lontanamente ricondu-
cibili agli scherzi di Mahler ma carichi di una travolgente forza
barbarica. Il terzo movimento è collegato direttamente con il
quarto, Largo, anch’esso con andamento di marcia e in forma
di passacaglia, e che sembra concludere la Sinfonia nello stesso
modo espressivo, tragico, del primo movimento. Invece il
quarto movimento sfocia direttamente nel quinto, Allegretto,
in do maggiore e di carattere pastorale e addirittura arcadico,
‘‘con vari elementi di danza e canti popolari’’ (cosı̀ Šostakovič
si espresse nella presentazione che fece del suo nuovo lavoro
in una intervista del 18 settembre 1943). E la conclusione ar-
cadico-pastorale, simbolo chiarissimo della vita pacifica, sembra
a me drammaturgicamente messa di proposito in linea, non
senza qualche forzatura, con le direttive di regime. ‘‘L’Ottava
Sinfonia’’, dice Šostakovič, ‘‘contiene molti conflitti interiori,
sia tragici che drammatici ma, nel suo insieme, è ottimistica,
un lavoro che afferma la vita. [...] Posso riassumere la conce-
zione filosofica del mio nuovo lavoro con tre parole: la vita è
bella. Tutto ciò che è oscuro e tetro passerà via, svanirà, e il
bello trionferà’’. Secondo il mio parere c’era in questa descri-
zione una preventiva captatio benevolentiae che non raggiun-
se lo scopo. La Sinfonia non ottenne né in patria né all’estero
il successo che aveva accompagnato la Settima, le recensioni
sovietiche, positive sı̀ ma non entusiastiche, non furono nu-
merose, le opinioni dei partecipanti al dibattito che ebbe luo-
go all’Unione Compositori non furono abbastanza favorevoli
(il giudizio di Prokof’ev fu che la Sinfonia era troppo lunga e
che il suo materiale melodico era debole). Conclusione ovvia:
sentito il parere del presidente del Comitato degli Affari Arti-
stici, Michail Chrapčenko, alla Ottava non fu assegnato il Pre-
mio Stalin e le sue esecuzioni cessarono ben presto.
CAPITOLO XII 99

Nel 1956, in un breve saggio autobiografico a cui ho già


fatto cenno, Šostakovič lamentò mitemente la sorte di questo
suo lavoro: ‘‘Mi spiace che da noi non si esegua ormai da
molti anni l’Ottava Sinfonia, nella quale ho riversato molto
pensiero e sentimento. Quest’opera rappresenta un tentativo
di esprimere le esperienze del popolo e rappresentare la spa-
ventosa tragedia della guerra. Scritta nell’estate del 1943, l’Ot-
tava Sinfonia è una somma degli avvenimenti di quell’epoca
difficile’’. Ma nel gennaio del ’43 i sovietici avevano rioccupa-
to Stalingrado, in luglio la battaglia di Kursk, la più grande
battaglia di mezzi corazzati che si fosse mai combattuta, aveva
visto la disfatta dei nazisti. E la rappresentazione di Šostakovič
non coglieva in realtà il diffuso sentimento popolare: ‘‘Nel
momento in cui il presentimento della prossima vittoria sui
Nazisti stava diventando palpabile nell’Unione Sovietica, il fal-
limento di Šostakovič nel dipingere il clima psicologico – di
stabilire un finale ottimistico, persino trionfante – era deluden-
te per coloro che erano inclini a leggere la Sinfonia, come
quella che l’aveva preceduta, come un autentico documento
di guerra’’ (Fay). La genialità di Šostakovič e la sua maturità di
creatore erano ormai tali che egli non mancava mai, musical-
mente, l’obiettivo. Ma, come dicevo e come penso, l’esito
drammaturgico del suo lavoro non era in questo caso del tutto
convincente.
Ivan Sollertinskij, l’amico che Šostakovič aveva più caro e
che lo aveva non solo sostenuto ma anche aiutato con il suo
acume di critico capace di dissentire da lui senza guastare il
rapporto affettivo, morı̀ per una malattia cardiaca l’11 febbraio
1944, a soli quarantun’anni. ‘‘Non ho parole per esprimere
tutto il dolore che strazia tutto il mio essere’’, scrisse Šostako-
vič a Glikman il 13 febbraio. E nella lettera di condoglianze
inviata alla vedova il 15 ricordò la promessa reciproca, fatta
con lo scomparso, di ‘‘aiutare con ogni mezzo i nostri cari ri-
masti soli’’. Šostakovič aveva iniziato da poco a scrivere il Trio
n. 2 in mi minore op. 67: decise di dedicarlo alla memoria del-
l’amico e lo ultimò il 13 agosto, mentre soggiornava con la fa-
miglia a Ivanovo, nella Casa di Riposo e di Creatività gestita
100 Š O S T A K O V I Č

dall’Unione Compositori, collocata in una ex-tenuta nobiliare


trasformata in kolchoz in cui si allevavano polli (la stanza asse-
gnata a Šostakovič era stata prima un pollaio). Si trattava in
pratica di un residence in una località molto tranquilla, dove –
avendo quotidiani contatti a mensa con i colleghi – si poteva
discutere di musica e anche fiutare da dove soffiava politica-
mente il vento. E il cibo, malgrado le ristrettezze del tempo
di guerra, era abbondante e squisito. Spinto dall’affetto, Šosta-
kovič non solo dedicò alla memoria dell’amico uno dei suoi
lavori più perfetti ma, a quanto dice la sorella del dedicatario,
si ispirò alla sua personalità estrosa e brillante nel secondo mo-
vimento in forma di scherzo e fece del terzo movimento, in
forma di passacaglia (accordi massicci del pianoforte, ossessiva-
mente ripetuti), una trenodia funebre.
Nel Trio confluisce però anche un’altra forte impressione.
L’Armata Rossa, avanzando vittoriosamente verso ovest, aveva
scoperto il lager di Treblinka, che era stato descritto da Vasilij
Grossmann in una corrispondenza giornalistica a forti tinte.
Nel Trio Šostakovič impiega per la prima volta temi ebraici: è
il suo modo, dicono giustamente tutti i commentatori, di con-
dannare l’antisemitismo. Nel quarto e ultimo movimento del
Trio, Allegretto, Šostakovič compone però un quadro forte-
mente ebraico-popolaresco, più umoristico che grottesco e
che ricorda, anziché i campi di concentramento nazisti, certi
finali schubertiani alla contadina. Prima di ultimare il Trio,
Šostakovič aveva composto le musiche per il film Zoja, op.
64. Dopo il Trio mise mano al Quartetto n. 2 in la maggiore
op. 68, ultimato il 20 settembre e dedicato a Šebalin come
omaggio ai vent’anni della loro amicizia, la cui prima esecu-
zione, il 14 novembre in una Leningrado da dieci mesi libera-
ta dall’assedio, coincise con la presentazione del Trio.
Il Quartetto segue uno schema che fa pensare a una suite
caratteristica al modo di Čajkovskij: Ouverture, Recitativo e Ro-
manza, Valzer, Tema con variazioni. La sua drammaturgia è sin-
golare: il primo movimento è gaio e vitalistico ma percorso da
qualche ombra, il secondo è fortemente introspettivo e serio-
so, il terzo è persino lugubre, sinistro, e il quarto, molto viva-
CAPITOLO XII 101

ce e popolaresco, è però in modo minore. Šostakovič impiega


anche qui stilemi del canto popolare ebraico che danno alla
composizione un particolare ‘‘colore’’ sia ritmico che armoni-
co. Ma l’elemento che più colpisce è quello drammaturgico:
è del tutto insolito che una composizione in più movimenti
inizi in modo maggiore e termini nella tonalità simigliante
minore. E io confesso di non sapermi spiegare perché Šosta-
kovič abbia operato in questa maniera, conseguendo tuttavia
un risultato che appare del tutto logico. La mia insistenza sul-
la drammaturgia potrebbe apparire al lettore, lo so, maniacale
o per lo meno gratuita: se la composizione è bella, se il Quar-
tetto n. 2 è esteticamente riuscitissimo, com’è in effetti, perché
affannarsi vanamente sulla drammaturgia? Mi riservo di af-
frontare più avanti questo argomento. Ma citerò qui una frase
di un articolo che Šostakovič scrisse nel 1951, Musica a pro-
gramma reale e apparente: ‘‘Il compositore di una sinfonia, di
una sonata o di un quartetto non ha bisogno di dichiarare un
programma, ma è obbligato ad averlo come base ideale del-
l’opera’’.
La scelta della tonalità del Quartetto n. 2, la maggiore, è
certamente dovuta a una precisa intenzionalità, non dramma-
turgica, che appare evidente quando si prende in considerazio-
ne l’insieme dei quindici Quartetti: Šostakovič, per il quale
ogni tonalità aveva un suo ethos, un suo ambito espressivo,
desiderava comporre ventiquattro quartetti nelle ventiquattro
tonalità. La morte in ancor giovane età gli impedı̀ di compiere
per intero questo disegno. Ma non possono sussistere dubbi
sulle sue intenzioni. Le tonalità dei primi sei Quartetti seguo-
no uno schema geometrico, la discesa per terze nella scala al-
ternando le terze minori e le terze maggiori: do maggiore (n.
1), la maggiore (n. 2), fa maggiore (n. 3), re maggiore (n. 4),
si bemolle maggiore (n. 5), sol maggiore (n. 6). Questo dise-
gno geometrico si interrompe nel Quartetto n. 7, in fa diesis
minore, ma riprende subito dopo,... con inversione delle posi-
zioni fra il n. 8 e il n. 9: mi bemolle maggiore (n. 9), do mi-
nore (n. 8), la bemolle maggiore (n. 10), fa minore (n. 11), re
bemolle maggiore (n. 12), si bemolle minore (n. 13), fa diesis
102 Š O S T A K O V I Č

maggiore (n. 14; il fa diesis dista enarmonicamente dal si be-


molle di una terza), mi bemolle minore (n. 15; anche qui la
distanza, enarmonicamente, è di una terza). Se avesse potuto
proseguire Šostakovič avrebbe scritto un Quartetto n. 16 in si
maggiore o in si minore, poi uno in sol minore, ecc. ecc., fi-
no a che avrebbe dovuto rimediare, non so come, all’‘‘errore’’
del rapporto sol-fa diesis tra il n. 6 e il n. 7. Nel Quartetto n. 2
Šostakovič segue dunque un disegno geometrico preciso per
quanto concerne la tonalità del primo movimento, ma l’idea
drammaturgica che sviluppa poi, a noi ignota, lo ‘‘obbliga’’ a
orientarsi per il Valzer sul mi bemolle minore e per il finale
sul la minore.
Del 1944 sono ancora gli Otto Canti Popolari Anglo-america-
ni senza numero d’opera per baritono e orchestra e una parte
delle musiche per un lavoro collettivo, la rivista Il Fiume Russo
op. 66. Tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 Šostakovič
compose per la figlia Galina, di otto anni, il Quaderno musicale
op. 69, formato da otto pezzi facili per pianoforte che si collo-
cano nel ‘‘comparto’’ più nobile della didattica, quello domi-
nato dall’Album per la gioventù di Schumann. Negli ultimi mesi
dell’anno, infine, Šostakovič portò a termine una iniziativa a
cui lavorava in modo intermittente dalla fine del 1943, il
completamento e la strumentazione di un’opera, Il Violino di
Rotschild, del suo allievo ebreo Veniamin Flejšman, caduto nel
1941 nelle prime settimane dell’assedio di Leningrado.
CAPITOLO XIII 103

CAPITOLO XIII

COME CELEBRARE LA VITTORIA

‘‘Io sogno che nel 1945 isseremo il vessillo della vittoria a


Berlino’’, scriveva Šostakovič a Glikman il 2 gennaio. E subito
aggiungeva: ‘‘I miei piani per il 1945 non sono chiari. Non
sto componendo niente, a causa delle condizioni molto nega-
tive in cui mi trovo a vivere’’. E lamentava la mancanza della
luce elettrica e dell’acqua durante la giornata, il nervosismo,
l’insonnia. Šostakovič sapeva benissimo che per amor di patria,
del resto sinceramente sentito, avrebbe dovuto celebrare la vit-
toria degli alleati sul Nazismo. Già nell’ottobre del 1943 aveva
dichiarato a un giornale di voler comporre la sua Nona Sinfo-
nia ‘‘sulla grandezza del popolo russo, sulla nostra Armata
Rossa che libera la nostra terra natia dal nemico’’. Un anno
dopo dichiarò: ‘‘Ora che la Grande Guerra Patriottica sta
giungendo alla fine, il suo significato storico appare sempre
più chiaramente. È stata una guerra della cultura e della luce
contro le tenebre e l’oscurantismo, una guerra della verità e
dell’umanesimo contro l’etica selvaggia degli assassini... Quali
sono oggi i miei sogni, mentre rifletto sul futuro della nostra
arte creativa?’’ E diceva che, ‘‘come ogni artista sovietico’’,
pensava a ‘‘un’opera su larga scala’’, e concludeva che ‘‘l’epi-
grafe di ogni nostro lavoro dei prossimi anni sarà la parola
‘Vittoria’’’.
Malgrado i disagi della luce e dell’acqua, dei nervi e del-
l’insonnia, già il 15 gennaio 1945, come Šostakovič confidò ai
suoi allievi del conservatorio, la composizione della nuova sin-
fonia si era messa in marcia. Il 13 febbraio il compositore di-
chiarò alla Pravda che ‘‘nell’approssimarsi della vittoria noi
dobbiamo onorare con devozione la memoria dei valorosi sol-
104 Š O S T A K O V I Č

dati caduti e glorificare per l’eternità gli eroi del nostro eserci-
to’’. In aprile Šostakovič suonò a Glikman una decina di mi-
nuti della nuova sinfonia, confessandogli che lo metteva in
imbarazzo la numerazione del pezzo: lo metteva in imbarazzo,
evidentemente, l’inevitabile confronto non tanto con Beetho-
ven, quanto con il mito della Nona Sinfonia beethoveniana che
si concludeva con l’Inno alla gioia. Dopo aver partecipato alla
festa popolare per la vittoria, il 9 maggio nella Piazza Rossa,
Šostakovič mise però da parte ciò che aveva già scritto e in lu-
glio cominciò a comporre la sua ‘‘vera’’ Nona Sinfonia, il cui
carattere bizzarro rendeva in apparenza improponibile ogni ac-
costamento a Beethoven. La ultimò il 30 agosto. All’inizio di
settembre la fece ascoltare ad alcuni amici a quattro mani al
pianoforte – il suo partner era Sviatoslav Richter! – e fu con-
fortato da pareri favorevoli,... ma con riserva. Glikman riferi-
sce infatti l’opinione di un critico, secondo il quale la nuova
Sinfonia era ‘‘una creativa deviazione dai grandi problemi eti-
co-filosofici che formavano il contenuto delle sue Sinfonie n. 7
e n. 8’’, che era insomma una... vacanza dopo le ‘‘due prece-
denti tragedie orchestrali’’ e non la ‘‘conclusiva Sinfonia della
Vittoria che il compositore aveva concepito lungo tempo ad-
dietro e che, senza dubbio, alla fine comporrà’’. Mi sembra
interessante anche la divertente, disincantata testimonianza di
Richter:
[...] lessi con lui a quattro mani a casa sua, sul manoscritto, la sua Nona Sin-
fonia. Suonare con lui era una tortura: cominciava con un certo tempo, poi si
metteva ad accelerare o a ritardare. Era lui che muoveva il pedale, perché lui
suonava la parte del basso, ma non vi prestava alcuna attenzione. E suonava
sempre fortissimo, anche i passaggi di accompagnamento, cosicché dovevo suo-
nare ancora più forte per mettere in evidenza i motivi principali; cercar di dare
un rilievo, senza il pedale, era una fatica sprecata, tanto più che lo sentivo
borbottare incessantemente: ‘‘Tun... tururu... tururu... turururum!’’.
Dopo la lettura, alla quale assistevano pochi amici, si arrivò al cognac e ai
brindisi. Fu terribile, perché le persone presenti dichiararono che non bevevano,
e Šostakovicˇ riempı` senza mai fermarsi il mio bicchiere. Vuotai più d’una bot-
tiglia per pura cortesia, stupido vizio a cui cedo troppo spesso. La serata si
prolungò, ed ecco che verso mezzanotte apparve nel vano della porta Nina
CAPITOLO XIII 105

Vasil’evna, la sua prima moglie, che rientrava da non so dove. Una vera bel-
lezza! [...] La prima moglie di Šostakovicˇ, dicevo, era bella, ma autoritaria.
Di musica non capiva nulla.

Se quella esecuzione fosse stata registrata sarebbe oggi per


noi un sacro cimelio, malgrado i tuturum e la mancanza del
pedale... La prima esecuzione della Nona Sinfonia, a Leningra-
do il 3 novembre 1945 sotto la direzione di Mravinskij, otten-
ne un tale successo che il terzo, quarto e quinto movimento,
collegati fra di loro, furono replicati. Grande successo anche
alla prima esecuzione a Mosca il 20 novembre, ancora sotto la
direzione di Mravinskij, e recensioni ammirate. Molto contra-
stato fu però il dibattito che avvenne in dicembre all’Unione
Compositori, e la Nona Sinfonia, come l’Ottava, non ottenne il
Premio Stalin. Anzi, ben presto sarebbe diventata il primo ca-
po d’accusa nell’attacco contro Šostakovič di cui parleremo fra
poco.
La Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore op. 70 è in cinque
movimenti ma ha una durata di circa ventiquattro minuti sol-
tanto e prevede un organico di diciannove strumenti a fiato
invece dei venticinque della n. 8 e dei trentadue della n. 7.
Più che una sinfonia in senso tradizionale sembra una suite da
un balletto o da un’opera-fiaba come l’Amore delle tre melarance
di Prokof’ev. I due movimenti in tempo lento, secondo e
quarto, sono lirici, sognanti, notturni, i tre movimenti in tem-
po mosso sono gai, esuberanti, burleschi, persino chiassosi, e
non c’è musica di Šostakovič che più di questa ridesti l’imma-
gine del clown, dei suoi sberleffi e dei suoi sorrisi trasognati.
Šostakovič, venendo meno ai suoi onesti propositi di patriota
ma seguendo il suo istinto di individuo celebrava, invece della
Vittoria, la Liberazione, la liberazione da tutto ciò che aveva
ostacolato la pienezza della vita e la felicità, con la certezza
che una triste parentesi della storia si era chiusa per sempre. Il
sentimento che animava Šostakovič nell’estate del 1945 veniva
da lontano. Scrivendo a Glikman il 31 dicembre 1943 egli
aveva detto:
106 Š O S T A K O V I Č

Ora è l’ultimo giorno del 1943, sono le sedici. Fuori dalla finestra infuria
una bufera di neve. Arriva il 1944. Anno di felicità, anno di gioia, anno di
vittoria. Quest’anno ci porterà molta gioia.
I popoli amanti della libertà alla fine scuoteranno il giogo hitleriano e si diffon-
derà la pace in tutto il mondo, e torneremo a vivere una vita pacifica [...]. Ne
sono convinto e per questo provo una grandissima gioia.

La speranza nutrita per un anno e mezzo sembrava realiz-


zata nell’estate del radioso ’45 e il ‘‘torneremo a vivere una vi-
ta pacifica’’ pareva ormai conquistato. Ho però tagliato a metà
la frase. La riprendo per intero: ‘‘[...] torneremo a vivere una
vita pacifica sotto il sole della costituzione staliniana’’. E poi:
‘‘[...] vorrei festeggiare con te le gloriose vittorie della Armata
Rossa, guidata dal grande condottiero, il compagno Stalin’’.
Qui si pone evidentemente, e si è posto da sempre, un pro-
blema inquietante: era sincero, Šostakovič, o paventava la cen-
sura e cercava con candida astuzia di ciurlare nel manico? Sul-
l’antistalinismo di Šostakovič si sono versati fiumi di inchiostro
e a lui, senza fare ricorso a questo termine, si è applicato spes-
so il concetto di ‘‘emigrazione interna’’ con il quale si era
spiegato l’atteggiamento di quegli scrittori tedeschi che, senza
né aderire né fiancheggiare il nazismo, non avevano però la-
sciato la Germania hitleriana. Nell’epistolario di Šostakovič de-
gli anni posteriori alla morte di Stalin non trovo in verità nulla
che giustifichi questa ipotesi e non mi sembra che ci sia moti-
vo di sospettare che le dichiarazioni come quella che ho ripor-
tato, e altre simili, fossero dettate da prudenza o da timore.
Šostakovič ebbe personalmente a soffrire in modo crudele per
l’ostilità di Stalin nel 1936 e nel 1948, ma mi sembra di poter
dire che durante la guerra egli vedesse nel capo del governo
sovietico la figura che impersonava la resistenza popolare al-
l’attacco nazista e il vittorioso rovesciamento delle sorti della
guerra. Tuttavia, anche se le frasi di omaggio a Stalin fossero
insincere, resterebbe sempre secondo me, come sentimento
che informa di sé la Nona Sinfonia, il ‘‘provo una grandissima
gioia’’. Senza mettersi apertamente e solennemente in concor-
renza con Beethoven, Šostakovič si poneva in realtà sulla stessa
CAPITOLO XIII 107

lunghezza d’onda, diventando anche lui il profeta di una pa-


lingenesi del mondo che il mondo reale si sarebbe subito pre-
so la briga di allontanare negli spazi stellari.
Nel 1945 Šostakovič compose le musiche per il film Gente
semplice op. 71, e i Due Canti op. 72, Primavera Vittoriosa, per
uno spettacolo popolare di canti e danze. Nel 1946 egli ebbe
da sbrigare molte faccende che riguardavano l’esistenza sua e
della sua famiglia, e compose soltanto il Quartetto n. 3 in fa
maggiore op. 73. Il 12 gennaio, scrivendo a Glikman, diceva:
‘‘Lavoro molto, ma non compongo nulla. Spero che siano sol-
tanto temporanee disfunzioni del mio modesto e insignificante
talento. La modestia è il migliore ornamento’’. Il dilemma che
la famiglia Šostakovič doveva affrontare era semplice e insieme
complicato. La guerra era finita. Era il caso di tornare a vivere
a Leningrado? O di restare a Mosca? Šostakovič aveva una cat-
tedra nel conservatorio di Mosca, ma la aveva avuta anche nel
conservatorio di Leningrado. Ignoriamo la ragione che lo ave-
va indotto nel 1941 a fermarsi a Kujbyšev invece di sfollare,
come tutti i professori del conservatorio leningradese, a Ta-
škent. Grazie a Šebalin aveva potuto spostarsi da Kujbyšev a
Mosca, trovandovi un appartamento di due stanze, in realtà
troppo piccolo per tutta la famiglia. La madre e la sorella di
Šostakovič erano già tornate a Leningrado. Che fare, dunque?
Il 18 febbraio 1946 Šostakovič scrisse a un vecchio amico, il
direttore d’orchestra Fritz Stiedry che dagli Stati Uniti aveva
ripreso i contatti con lui, dicendo: ‘‘Mia madre vive a Lenin-
grado. La mia famiglia ora vive a Mosca, ma abbiamo nostal-
gia di Leningrado e pensiamo di ritornarci. L’orchestra della
filarmonica di Leningrado suona molto bene. È la migliore or-
chestra dell’urss’’. Ragioni familiari, ragioni artistiche, ragioni
affettive spingevano Šostakovič verso la sua città natale. Ma il
trasferimento non ebbe luogo. E non ebbe luogo grazie a La-
vrentij Berija, temutissimo e spietatissimo ministro degli inter-
ni, e a Stalin. Levon Atovmjan racconta che Berija, a cui Šo-
stakovič aveva scritto chiedendo aiuto, telefonò a Stalin, il
quale diede disposizioni per l’assegnazione al compositore di
un appartamento, di una dacia, di una auto e di una grossa
108 Š O S T A K O V I Č

somma di denaro. Šostakovič rifiutò l’auto – già ne possedeva


una – e a tutta prima rifiutò il denaro, dicendo che non ne
aveva bisogno (ma poi ne accettò una parte, che gli servı̀ per
ristrutturare la dacia). E il 27 maggio scrisse a Stalin, ringra-
ziando:
Tutti i miei problemi hanno trovato una splendida soluzione. Per giugno mi è
stato assegnato un alloggio di cinque vani. In luglio mi sarà assegnata una da-
cia a Kratovo, riceverò 60.000 rubli per la sistemazione. Tutto ciò mi ha reso
veramente felice.
La prego di accettare i sensi della mia gratitudine per la Sua attenzione e le
Sue cure. Le auguro felicità, salute e molti anni di vita per il bene della nostra
amata Patria e del nostro grande popolo.

Cosı̀ Šostakovič rimase a Mosca, e per tutta la vita, ritor-


nando a Leningrado per le esecuzioni delle sue composizioni
e passando spesso le vacanze estive in una dacia sull’istmo di
Carelia nel golfo di Finlandia. Qui ultimò il Quartetto n. 3,
che dedicò al Quartetto Beethoven. Da Leningrado, il 2 ago-
sto, scrisse al violoncellista del Quartetto dicendo: ‘‘[...] ho
terminato il mio nuovo Quartetto. Mi pare di non essere mai
stato cosı̀ soddisfatto di una mia composizione come di questo
Quartetto. Certamente mi sbaglio, ma per ora ho proprio
questa sensazione’’. E il 21 agosto: ‘‘Del mio Quartetto sono
soddisfatto’’. Il Quartetto n. 3 fu eseguito per la prima volta a
Mosca, dai dedicatari, il 26 dicembre. Cinque movimenti co-
me nel Quartetto n. 2, ma disposti in modo non simmetrico
perché il movimento lento non sta al centro: il primo movi-
mento, come nella Sinfonia n. 8, è infatti seguito da due
scherzi, e l’Adagio precede il finale, collegandovisi direttamen-
te. La gaiezza, la sfrenatezza della Sinfonia n. 9 è solo più un
ricordo, i due scherzi sono umoristici ma non amabili, l’Ada-
gio tocca i limiti della desolazione e il finale, a modo di pasto-
rale, non è affatto né arcadico né sereno. L’esposizione del
primo movimento presenta temi di carattere folclorico e dà
l’idea di una tranquilla passeggiata in campagna, ma lo svilup-
po, trattato come doppia fuga, introduce elementi di forte in-
quietudine, di ansia, che non vengono spazzati via nella rie-
CAPITOLO XIII 109

sposizione e che permangono nei movimenti successivi. Si di-


rebbe, col senno di poi, che Šostakovič presentisse quello che
stava per accadere.
Nel febbraio del ’45, mentre Šostakovič componeva la
Sinfonia della Vittoria che non avrebbe mai completato, si
svolgeva la Conferenza di Jalta che sanciva la divisione del-
l’Europa in zone di influenza. In luglio, mentre Šostakovič
componeva la Nona Sinfonia, la Conferenza di Potsdam divi-
deva Berlino in quattro zone e poneva le premesse per la
Guerra Fredda. Nell’autunno del ’46 anche il clima interno
dell’Unione Sovietica inclinava al peggio. Il 30 settembre usci-
va sul periodico Cultura e Vita un articolo di Izrail’ Nest’ev,
musicologo tutt’altro che mediocre ma molto attento a inter-
pretare i desiderata del potere e, probabilmente, attento anche
a mettere sull’avviso i compositori. L’articolo era intitolato
‘‘Osservazioni sull’opera di D. Šostakovič: qualche pensiero
suscitato dalla sua Nona Sinfonia’’. Il Nest’ev compiva su Šosta-
kovič un’operazione che su più larga scala stava compiendo
anche su Prokof’ev: dividere ciò che rifletteva la realtà rivolu-
zionaria sovietica da ciò che era infettato dallo spirito della
borghesia e dal formalismo. La Nona Sinfonia era per lui ‘‘un
leggero e divertente interludio fra le significative creazioni di
Šostakovič, un temporaneo rigetto dei grandi e seri problemi
per il piacere di divertenti, decorative inezie in filigrana. Ma è
questo il momento giusto, per un grande artista, di andare in
vacanza, di rompere con i problemi attuali?’’ Nest’ev lamenta-
va l’influenza su Šostakovič di Stravinskij, ‘‘artista senza patria,
senza fede in ideali elevati e progressisti e in profondi principi
etici’’, e concludeva con un blando avvertimento che non ce-
lava una minaccia: ‘‘Šostakovič è il compositore preferito, l’or-
goglio e la speranza di una intera generazione del popolo so-
vietico che è cresciuta negli ultimi vent’anni. Questa genera-
zione crede in Šostakovič e vede in lui l’espressione dei più
nobili ideali e delle più nobili battaglie, un cantore delle verità
della vita. E attende questa verità dalle future opere del com-
positore’’.
110 Š O S T A K O V I Č

L’assemblea generale dell’Unione Compositori si svolse a


Mosca dal 2 all’8 ottobre, e il relatore, Aram Chačaturjan, non
mancò di riprendere le argomentazioni di Nest’ev: ‘‘Eravamo
autorizzati ad attenderci una diversa Nona Sinfonia, più monu-
mentale, più legata a grandi immagini contemporanee. Per ora
la trilogia sinfonica promessa da Šostakovič rimane incompiuta
e l’attuale Nona Sinfonia evita il fine di completare questa tri-
logia’’. Chačaturjan e altri rintuzzarono l’offensiva di coloro
che accusavano Šostakovič di antipatriottismo ma non furono
in grado di difendere Vajnberg e Levitin, amico il primo, al-
lievo il secondo di Šostakovič, che vennero messi nel tritacar-
ne. Šostakovič, prendendo la parola, non difese se stesso ma
soltanto Vajnberg e Levitin. Per il momento non accadde nul-
la di grave. Anzi, Šostakovič, che con il Trio n. 2 aveva vinto
un altro Premio Stalin, in dicembre fu insignito dell’Ordine di
Lenin e alla morte del suo insegnante di composizione Maksi-
milian Štejnberg ebbe la cattedra nel conservatorio di Lenin-
grado, che occupò nel febbraio del 1947 pur mantenendo la
residenza e la cattedra a Mosca. Fu eletto presidente del-
l’Unione Compositori di Leningrado ed ebbe altri riconosci-
menti ufficiali (fu eletto alla camera dei deputati). L’avvisaglia,
tuttavia, c’era stata. E l’epurazione era del resto già cominciata
fra gli scrittori. Andrej Ždanov, chiamato da Leningrado a
Mosca con specifici compiti di inquisitore, nel settembre del
’46 aveva attaccato e fatto espellere dall’Unione Scrittori, ridu-
cendoli alla fame, l’umorista Mikhail Zošenko, amico di Šo-
stakovič e suo partner abituale al tavolo del poker, e la poetes-
sa Anna Achmatova. Nel 1947 sarebbe caduto il trentennale
della Rivoluzione d’Ottobre e Šostakovič capı̀ che, volente o
nolente, non avrebbe potuto non celebrare l’avvenimento nel
modo che tutti s’aspettavano da lui.
Nel gennaio del 1947 Šostakovič si ammalò di difterite
proprio quando l’appartamento assegnato da Stalin, che avreb-
be dovuto essere disponibile nel giugno dell’anno precedente,
gli era stato finalmente consegnato. Il 31 gennaio il composi-
tore scrisse a Stalin dicendo: ‘‘L’appartamento si è rivelato ot-
timo ed è veramente piacevole viverci. La ringrazio di tutto
CAPITOLO XIII 111

cuore per essersi preoccupato per me. La cosa che maggior-


mente desidero è essere degno, sia pure in piccola parte, del-
l’attenzione che Lei mi ha mostrato. In ciò mi impegnerò con
tutte le mie forze’’. Tutte le sue forze non lo portavano però
verso l’auspicato completamento della trilogia sinfonica eroica.
Anzi, per sei mesi Šostakovič non compose praticamente nul-
la. In agosto fece mettere nella programmazione sinfonica di
diverse orchestre una Ouverture festiva che rimase fantasma, e
solo il 14 ottobre poté annunciare di avere ultimato la cantata
Poema della Madrepatria op. 74 per soli, coro, orchestra e ban-
da, che includeva sei canti patriottici e/o rivoluzionari di vari
autori, fra cui la sua vecchia e popolarissima Canzone del Con-
tropiano. La cantata fu incisa su disco dai complessi del Teatro
Bol’šoj di Mosca diretti da Konstantin Ivanov e fu radiotra-
smessa, ma non si sa se venisse inserita – pare proprio di no –
nelle celebrazioni ufficiali pubbliche. Lo sforzo di accondi-
scendenza di Šostakovič mancò dunque l’obiettivo. Le musi-
che per i film La giovane guardia op. 75 e Pirogov op. 76 furono
le altre composizioni che entrarono nel 1947 nel catalogo di
Šostakovič, oltre a tre pezzi per orchestra rimasti inediti e di
cui non si è trovata fino ad ora traccia. Fu iniziato anche, per
David Ojstrach, il Concerto n. 1 in la minore per violino, tenuto
poi nel cassetto per anni a causa degli eventi drammatici che
sopravvennero nei primi mesi del ’48.
112 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XIV

L’INQUISIZIONE ALL’OPERA

Andrej Ždanov, nato nel 1896, era stato ufficiale dell’eser-


cito zarista ma nel 1917 aveva aderito al bolscevismo e nel pe-
riodo fra le due guerre aveva ricoperto incarichi politici viep-
più importanti. Durante l’assedio di Leningrado aveva coordi-
nato la difesa della città e nel 1946, come avevo detto, era sta-
to chiamato a Mosca. Era un militare diventato politico e non
era affatto un ideologo. Ma fu l’uomo che Stalin scelse per
mettere al passo gli artisti e gli scienziati. Il potere politico dit-
tatoriale tende sempre a ridurre al minimo l’indipendenza di
pensiero degli intellettuali se si sente minacciato dall’esterno.
Stalin, ritenendo che quando l’Unione Sovietica avesse posse-
duto anch’essa la bomba atomica sarebbe diventata inevitabile
la vera guerra, quella fra il comunismo e il capitalismo, non
esitò a mandare in frantumi l’alleanza che aveva sconfitto
Hitler e volle riprendere il controllo capillare della vita sovie-
tica. Ždanov, per cosı̀ dire, fin dall’autunno del ’46 si fece la
mano con gli scrittori, poi sistemò per le feste il cinema, quin-
di il teatro e le scienze, e infine la musica. Il 5 gennaio 1948
Stalin e il suo seguito assistettero a una recita al Bol’šoj dell’o-
pera La Grande Amicizia di Vano Muradeli. Il georgiano Mu-
radeli, nato nel 1908, nel 1946 aveva vinto il Premio Stalin e
con la sua prima opera teatrale aveva inteso contribuire alla
celebrazione del trentennale della Rivoluzione. Un’opera ce-
lebrativa di un compositore affermato e radicato nella ufficiali-
tà (Šostakovič aveva sfruttato una delle sue canzoni patriotti-
che nel Poema della Madrepatria). Ma... Andata in scena al Bol’-
šoj il 7 novembre 1947, la Grande Amicizia, che trattava il rap-
porto fra i bolscevichi e le popolazioni del Caucaso durante la
CAPITOLO XIV 113

Guerra Civile, era stata subito ripresa da una dozzina di altri


teatri. Il Comitato per gli Affari Artistici non aveva però capi-
to che l’opera era... inquinata da gravi errori storici. Lo capı̀
Stalin, georgiano con ascendenze nella Ossezia, e Ždanov
provvide.
Il 6 gennaio fu convocata una riunione nel Bol’šoj e di
fronte a tutto lo staff del teatro Ždanov pronunciò la sua re-
quisitoria contro il librettista e il compositore della malaugura-
ta Grande Amicizia. Muradeli, per parare il colpo, non trovò di
meglio che autoaccusarsi per essere rimasto troppo influenzato
da Šostakovič. Il 10 gennaio una settantina di compositori,
convocati da Ždanov al Cremlino, furono invitati a darsi una
bella regolata. Il dibattito, molto animato, durò tre giorni, e
Šostakovič divenne il principale accusato, specie per le sue
Sinfonie n. 8 e n. 9. Nessuno, e Šostakovič meno di tutti, po-
teva dimenticare la vicenda della Lady Macbeth del Distretto di
Mcensk e la ‘‘penitenza’’ della Sinfonia n. 5. Lui era il peccatore
recidivo, lui correva i maggiori pericoli. Perciò, credo, Šosta-
kovič, presa la parola, confessò che ‘‘nella mia opera ci sono
stati molti errori e gravi arretramenti’’, protestando però che
‘‘nell’intero corso della mia carriera di compositore ho pensato
al popolo, a quelli che ascoltano la mia musica, al popolo che
mi ha elevato, educato e cresciuto’’. Disse di aver sempre fatto
tesoro delle critiche, cercando di ‘‘lavorare più intensamente e
meglio’’, di aver fatto tesoro delle critiche attuali e di essere
intenzionato a far tesoro delle critiche future e ad accettare i
‘‘suggerimenti critici’’, chiedendo all’organizzazione dei com-
positori di perseguire ‘‘lo sviluppo più largo possibile della cri-
tica e della autocritica’’. La sua mossa, date le circostanze, era
la più opportuna. Ma dalla lunga riunione Ždanov uscı̀ con la
convinzione che la Grande Amicizia fosse solo la punta del-
l’iceberg. Il 10 febbraio venne pubblicata una risoluzione del
Comitato Centrale del Partito, una risoluzione che, partendo
da Muradeli, estendeva le accuse a macchia d’olio:
Nell’attività dell’Unione Compositori il ruolo dirigente è svolto oggi da un
gruppo limitato di compositori. Si tratta dei compagni Šostakovicˇ, Prokof’ev,
114 Š O S T A K O V I Č

Mjaskovskij, Chacˇaturjan, Kabalevskij, Šebalin. Ammettiamo che questi com-


pagni sono le principali figure dirigenti della tendenza formalista in musica. E
questa tendenza è totalmente falsa.

Se quelle erano le ‘‘principali figure dirigenti della tenden-


za formalista in musica’’ era evidente che di formalisti... mino-
ri ce n’erano ancora altri, e perciò tutti indistintamente dove-
vano sentirsi sotto tiro e dovevano fare l’esame di coscienza.
Non mancava neppure un accenno velenoso al fatto che i
componenti il supposto ‘‘gruppo dirigente’’, sfruttando la loro
posizione di preminenza, avevano lucrato esageratamente con
i proventi delle esecuzioni che si erano accaparrate. Quattro
giorni più tardi veniva pubblicato un elenco indicativo di
composizioni infette di formalismo, fra le quali le Sinfonie n.
6, n. 8 e n. 9 di Šostakovič (e persino i Due Pezzi op. 11 per
ottetto d’archi), la Sesta Sinfonia e le Sonate nn. 6, 7, 8 di Pro-
kof’ev, il Poema sinfonico di Chačaturjan, la Terza Sinfonia di
Popov, le Sonate pianistiche di Mjaskovskij e i Quartetti di Šeba-
lin (il nome di Kabalevskij, abile manovratore dietro le quinte,
non figurò nell’elenco, mentre vi figurò Gavriil Popov, che
aveva salutato con entusiasmo la Nona Sinfonia di Šostakovič).
Delle musiche comprese nell’elenco era vietata l’esecuzione.
L’Unione Compositori, spaventata a morte, convocò dal 19
al 25 aprile il Primo Congresso dei Compositori Sovietici e
ringraziò il Partito per avere ristabilito la santa verità.
I pericoli che Šostakovič e gli altri correvano erano di di-
versa natura e gravità: potevano essere espulsi dall’Unione
Compositori, perdendo di fatto il lavoro e le entrate economi-
che, potevano non essere espulsi ma essere emarginati e non
aver esecuzioni neppure delle musiche non entrate nell’elenco
delle proscrizioni, potevano essere esclusi dai soggiorni nelle
comode Case di Riposo e di Creatività, potevano essere man-
dati a riflettere sui loro peccati in qualche remota città della
sconfinata Unione Sovietica, potevano, nella peggiore delle
ipotesi, essere rinchiusi in un gulag. La moglie di Šostakovič
cercò di evitare al marito la vergogna della pubblica requisito-
ria e lo portò in un convalescenziario vicino a Mosca. Ma, se-
CAPITOLO XIV 115

guendo poi il consiglio degli amici, Šostakovič si presentò nel-


l’ultimo giorno al Congresso e, sviluppando i concetti esposti
di fronte a Ždanov in gennaio, fece l’autocritica, promettendo
solennemente di emendarsi. Per il momento venne soltanto
cancellato dalle programmazioni dei concerti (Mravinskij di-
resse il 7 dicembre a Mosca la Sinfonia n. 5, e fu perciò pub-
blicamente redarguito da Chrennikov) e inoltre – ovvio, es-
sendo il gran maestro del ‘‘formalismo’’ – dovette lasciare le
cariche che aveva nell’Unione Compositori e l’insegnamento
sia a Mosca che a Leningrado.
Il panorama internazionale era nel frattempo mutato pro-
fondamente. Nel settembre del 1947 Stalin aveva fondato il
Cominform che riuniva i movimenti comunisti di tutto il
mondo, nel gennaio del ’48 era cominciata nell’Unione So-
vietica la campagna antisemita, in febbraio c’era stato il colpo
di stato comunista in Cecoslovacchia, gli scienziati sovietici sta-
vano lavorando alacremente per costruire la bomba atomica (il
primo test positivo è dell’agosto 1949), nell’aprile del ’49 sa-
rebbe sorta la nato. L’assetto del mondo era totalmente diver-
so da quello che si era prospettato nel ’45 e la musica doveva
ritornare docilmente sotto l’ala del potere politico. La morte di
Ždanov nel 1948, a cinquantadue anni, allentò un po’ la pres-
sione. Tuttavia Šostakovič, dopo averne annunciato il comple-
tamento, non lasciò che venisse eseguito il Concerto n. 1 per vio-
lino, tenne per sé il bellissimo ciclo di liriche Dalla Poesia popo-
lare ebraica op. 79 e campò la vita con le musiche di due film,
Micˇurin op. 78 e Incontro all’Elba op. 80. Nel 1989 fu ritrovata
una cantata satirica con testo e musica di Šostakovič, Piccolo pa-
radiso antiformalista (Antiformalisticˇeskij Raëk, il Rayok era uno
spettacolo satirico popolare), di cui si era parlato più volte. La
datazione del lavoro rimane incerta: può darsi che sia stato
composto nel 1948, o negli anni cinquanta, o che sia stato ini-
ziato nel ’48 e rimaneggiato più volte. Lo spettacolo prevede
l’impiego del Padrone di casa, di tre Uomini e del coro, e dura
una ventina di minuti. Il testo, in verità, non brilla secondo me
per arguzia perché riflette il linguaggio ufficiale senza distorsio-
ni e senza giochi verbali, e la musica, di stile operettistico, di-
116 Š O S T A K O V I Č

venta a mano a mano sempre più monotona. Lo sconvolgi-


mento emotivo di Šostakovič, più che dall’ironia non graffiante
di questo bozzetto, risulta comunque molto chiaramente da ciò
che il 12 dicembre egli scrisse a Glikman:
Mentre mi rado ho la possibilità di osservare il mio viso. È gonfio, sotto gli
occhi ci sono delle borse enormi, le guance, gonfie, sono di color lillà. Nell’ul-
tima settimana, o poco più, sono molto invecchiato e questo processo di invec-
chiamento continua ad avanzare a velocità inaudita. L’invecchiamento fisico,
purtroppo, si riflette anche nella perdita della gioventù di spirito. Ma forse
tutto ciò è solo spossatezza. In quest’ultimo anno ne ho scritta, di musica da
film! Ciò mi dà i mezzi per vivere, ma mi affatica in modo estremo.

Farò grazia al mio lettore delle campagne giornalistiche


che furono provocate dalle iniziative di Ždanov e nelle quali
lo scatenamento dell’ignoranza e dell’opportunismo raggiunse
vertici mai visti. Ma devo accennare alla posizione di Tichon
Chrennikov, che come segretario dell’Unione Compositori
organizzò il Congresso di aprile e che non si tirò indietro nel-
la difesa ad oltranza dell’ortodossia. Si parla solitamente di
Chrennikov come del braccio secolare di Ždanov nel campo
della musica. Dalle conversazioni che ebbi in passato con tre
miei amici russi, ebrei anticomunisti ed emigrati prima del
1989, ho ricavato un quadro diverso. I miei interlocutori so-
stenevano che Chrennikov, a parte il fatto che le sue idee in
materia di linguaggio, di estetica e di poetica coincidevano
con le posizioni di Ždanov, aveva attaccato duramente i cosid-
detti formalisti non per distruggerli ma per convincerli della
necessità di fare una spietata autocritica al fine di salvarsi da
possibili provvedimenti di restrizione della libertà personale.
Riferisco semplicemente quello che mi fu detto, e non pos-
seggo gli strumenti atti a verificarlo. Noto però che Chrenni-
kov mantenne la sua carica dopo la morte di Stalin, che nel
1975 divenne presidente dell’Unione Compositori, che vinse
il Premio Lenin nel 1967 e nel 1974, che continuava a eserci-
tare con abilità e autorevolezza il potere quando lo conobbi
nel 1980 e che non uscı̀ di scena neppure dopo il 1989.
CAPITOLO XIV 117

Il Concerto n. 1 in la minore per violino e orchestra ebbe due


numeri d’opera: 77, riferito a quando fu composto, e 99, rife-
rito a quando fu pubblicato. Ma successivamente Šostakovič
‘‘recuperò’’ il n. 99 per assegnarlo alle musiche per il film Il
primo scaglione. Šostakovič aveva ascoltato David Ojstrach nel
1935, quando il violinista aveva vinto il Concorso Pansovieti-
co, e lo aveva conosciuto quando entrambi avevano fatto par-
te della delegazione mandata in Turchia. I due si erano fre-
quentati a Mosca durante gli ultimi anni della guerra e nell’a-
prile del 1947 avevano preso parte al Festival di Praga suonan-
do, insieme con il violoncellista ceko Miloš Sádlo, il Trio n. 2
(di questa esecuzione esiste l’incisione in disco). Durante l’e-
state del 1947 Šostakovič cominciò a comporre il Concerto e
il 5 febbraio, cinque giorni prima che uscisse la risoluzione del
Comitato Centrale, ne fece ascoltare i primi tre movimenti a
Gavriil Popov, che li giudicò ‘‘un po’ assomiglianti alla Sesta
Sinfonia nel loro spirito e nella loro tessitura orchestrale’’. Il fi-
nale fu composto mentre già infuriava la bufera ždanoviana e
nella sua ultima lezione agli studenti del conservatorio di Le-
ningrado, alla metà di marzo, Šostakovič fece ascoltare tutto il
Concerto. Dopo qualche ulteriore ritocco, il manoscritto fu
datato al 24 marzo 1948. In aprile, durante il Congresso, Šo-
stakovič diede notizia ai suoi colleghi della nuova composizio-
ne e disse che l’avrebbe sottoposta al loro giudizio. Ma poi ri-
tenne preferibile tenere tutto in sospeso, tanto che la prima
esecuzione ebbe luogo solo il 19 ottobre 1955, più d’un anno
e mezzo dopo la morte di Stalin.
Il Concerto op. 77 risponde pienamente alla ratio del gene-
re: sebbene la scrittura sia integrata e l’orchestra non si limiti a
funzioni di accompagnamento, il solista è posto costantemente
in primo piano, alternando il lirismo intensissimo del canto e
le capriole funambolesche del virtuosismo. Veniamin Basner,
allievo di Šostakovič a Leningrado, ricorda che durante le pro-
ve della prima esecuzione Ojstrach, dopo aver eseguito la Ca-
denza che precede il finale, disse al compositore: ‘‘Dmitrij
Dmitrievič, prenda per favore in considerazione la possibilità
che l’orchestra suoni da sola le prime otto battute del finale
118 Š O S T A K O V I Č

per darmi un momento di respiro, almeno perché io possa


tergermi il sudore dalla fronte’’. E Šostakovič rispose: ‘‘Certa-
mente, certamente, perché non ci ho pensato?’’ Il primo mo-
vimento, Notturno, anzi, Nocturne, è un vastissimo adagio
costruito su un lento aumento di tensione e successiva disten-
sione. Popov centrava bene il bersaglio quando trovava un pa-
rallelo con la Sinfonia n. 6, ma il primo movimento del Con-
certo è ancora più teso, è ancora più simile al tipo di costru-
zione wagneriana che era diventata frequente alla fine dell’Ot-
tocento. Lo Scherzo è frenetico, demoniaco, la Passacaglia ri-
prende l’ethos del primo movimento ma in modo più cupo,
con sonorità orchestrali dense e minacciose. La Passacaglia sfo-
cia nella Cadenza, non virtuosistica quanto ci si aspetterebbe,
ma lirica, sviluppata anch’essa con accumulo di tensione, e la
Cadenza sfocia a sua volta nella conclusiva Burlesca, con temi
ispirati a danze popolari. Nel Concerto n. 1 Šostakovič riesce a
compiere una miracolosa fusione fra la ratio del genere, l’ar-
chitettura sinfonica, la forma senza precedenti. Concerto sı̀,
ma anche poema, poema di cui, vista la poetica del composi-
tore, vorremmo tanto avere la chiave di lettura drammaturgi-
ca. Non abbiamo in proposito dichiarazioni di Šostakovič.
Posso dire, come impressione personale, che il Concerto mi fa
pensare a un eroe tragico, ad esempio al conte Egmont. Non
voglio con ciò condizionare il lettore ma soltanto dargli una
indicazione per una riflessione su questo pezzo, su questo ca-
polavoro che, ben più di una sinfonia della vittoria, testimonia
l’impegno etico di Šostakovič nel momento in cui l’umanità si
trovava inaspettatamente sull’orlo di una guerra devastante.
Scrivere romanze melodicamente accattivanti su testi po-
polari era cosa che si poneva in linea con le direttive di Žda-
nov. Scegliere la poesia popolare ebraica era di certo quanto
di più inopportuno si potesse fare mentre l’antisemitismo stava
riprendendo con vigore l’iniziativa e mentre vari intellettuali
ebrei venivano arrestati. Comporre melodie modellate sul fol-
clore ebraico era dunque un modo ulteriore di prendere posi-
zione contro l’attualità, non di celebrarla. Šostakovič – dando
una dimostrazione di grande coraggio? o di grande ingenuità?
CAPITOLO XIV 119

– scelse otto testi di canti popolari tradotti in russo dall’yiddish


e pubblicati da poco, nel 1947. Il ciclo, per soprano, contral-
to, tenore e pianoforte (trascritto poi per soli e orchestra nel
1963) fu composto nel mese di agosto del 1948 e fu eseguito
privatamente in settembre, in occasione del compleanno del
compositore. La ottava romanza, sulle parole ‘‘Gelo e vento
sono tornati. Non ho la forza di sopportare in silenzio. Grida-
te, piangete, bambini, perché l’inverno è di nuovo tornato’’,
acquistava un significato simbolico attuale che riguardava non
soltanto Šostakovič e i ‘‘formalisti’’ ma tutta la società sovieti-
ca. Šostakovič stesso, o gli amici ai quali fece conoscere il ci-
clo, dovettero capire che la implicita provocazione sarebbe
stata raccolta e che avrebbe avuto conseguenze nefaste. In ot-
tobre Šostakovič allargò dunque il primitivo disegno aggiun-
gendo altre tre romanze i cui testi magnificavano le condizioni
di vita degli ebrei nell’Unione Sovietica. Tuttavia il ciclo fu
tenuto per prudenza nel cassetto ed ebbe la prima esecuzione
pubblica solo nel 1955.
120 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XV

L’ESPIAZIONE

Nel dicembre del 1948, durante l’assemblea annuale del-


l’Unione Compositori, il segretario Chrennikov lodò la musi-
ca del film La giovane guardia ma aggiunse che si era in attesa
da Šostakovič di cose d’altro genere, ‘‘intrise dello spirito del
realismo, incarnanti le immagini vitali della nostra realtà’’. La
morte di Ždanov, immaturamente rapito ai vivi, aveva proba-
bilmente evitato, come dicevo prima, che la stretta di febbraio
fosse seguita da altri giri di vite. Tuttavia la risoluzione del
Comitato Centrale non era da prendere alla stregua di una
grida manzoniana e Chrennikov, che ci teneva a conservare la
posizione conquistata, non intendeva scivolare banalmente su
una buccia di banana. Il suo intervento all’assemblea dei com-
positori faceva sapere che Šostakovič era ancora sotto osserva-
zione. Però nei primi mesi del ’49 capitò qualcosa che permise
a Šostakovič di riprender fiato. Dal 25 al 28 marzo si sarebbe
svolto a New York il Congresso Culturale e Scientifico per la
Pace nel Mondo, a cui l’Unione Sovietica intendeva parteci-
pare con una delegazione altamente qualificata. In tutto l’Oc-
cidente, e in particolare negli Stati Uniti, non si era ancora
spenta l’eco dei trionfi della Sinfonia di Leningrado, quei trionfi
che nell’immaginario collettivo avevano fatto della città baltica
il fortino della civiltà contro la barbarie. Šostakovič era dun-
que il musicista più indicato per rappresentare di fronte al
mondo l’urss. Ma egli – sembra, non è certo – rifiutò la pro-
posta fattagli dal ministro degli esteri Molotov. In febbraio Šo-
stakovič venne chiamato al telefono da una segretaria che gli
raccomandò di restare in casa, in attesa. Dopo un po’ il telefo-
CAPITOLO XV 121

no squillò di nuovo e una voce disse a Šostakovič: ‘‘Le passo


il compagno Stalin’’.
Il tenore della famosa telefonata è diventato una favola
nella quale si fa molta fatica a districarsi. La mia ipotesi... da
detective, dopo aver letto e analizzato le diverse versioni, è
che ci fossero due telefonate, una in febbraio e una il 16 mar-
zo, oppure che ci fossero una telefonata e un incontro al
Cremlino. Ciò posto, fra tutti i reportage scelgo quello di Jurij
Levitin, allievo di Šostakovič, che assistette al, penso io, primo
colloquio:
[...] quello che ascoltai, naturalmente, furono tutte le risposte di Dmitrij Dmi-
trievicˇ, ma da esse potei agevolmente dedurre la natura della conversazione.
Stalin stava evidentemente chiedendo notizie della salute di Šostakovicˇ. Dmi-
trij Dmitrievicˇ rispose sconsolatamente: ‘‘Grazie, va tutto bene. Sto solo sof-
frendo un po’ di mal di stomaco’’.
Stalin gli chiese se aveva bisogno di un dottore o di medicine.
‘‘No, grazie, non ho bisogno di nulla. Ho tutto quello che mi serve’’.
Poi ci fu una lunga pausa mentre Stalin parlava. Si capiva che stava chie-
dendo a Šostakovicˇ di andare negli Stati Uniti per il Congresso della Pace e
della Cultura.
‘‘Certamente ci andrò, se è realmente necessario, ma sono in una posizione
abbastanza difficile. Prima, quasi tutte le mie Sinfonie venivano eseguite,
mentre adesso sono proibite. Come devo comportarmi, in questa situazione?’’
E allora, come è stato poi raccontato molte volte, Stalin disse, con il suo forte
accento georgiano: ‘‘Che vuol dire, proibite? Proibite da chi?’’
‘‘Dalla Commissione Statale per il Repertorio’’, rispose Dmitrij Dmitrievicˇ.
Stalin assicurò a Šostakovicˇ che questo era uno sbaglio e che sarebbe stato cor-
retto; nessuna delle opere di Dmitrij Dmitrievicˇ era stata proibita, esse pote-
vano essere liberamente eseguite.

Il 16 marzo, datata 16 febbraio, uscı̀ una ordinanza firmata


da Stalin che non solo dichiarava illegale l’‘‘Ordine n. 17, da-
tato 14 febbraio 1948’’, ma che rimproverava ufficialmente la
Commissione Statale per il Repertorio ‘‘per aver pubblicato
un ordine illegale’’. Era un clamoroso voltafaccia (e chissà
quale lavata di capo ricevette il funzionario, M. Dobrynin, che
aveva firmato l’ordine del 14 febbraio 1948!). Non si poteva
affermare che fosse stata vinta la guerra, ma per lo meno era
122 Š O S T A K O V I Č

stata vinta – è il caso di dirlo – la battaglia di Stalingrado. Il


16, secondo la mia ipotesi, Stalin annunciò a Šostakovič la
pubblicazione della ordinanza, e il 17, prima di partire per gli
Stati Uniti, il compositore scrisse al dittatore:
Caro Iosif Vissarionovicˇ,
per prima cosa La prego di accettare la mia sentita gratitudine per il colloquio
avvenuto ieri. Lei mi ha molto confortato, poiché il futuro viaggio in America
mi preoccupava moltissimo. Non posso che essere orgoglioso della fiducia in me
riposta. Compirò il mio dovere. Parlare a nome del popolo sovietico in difesa
della pace è per me un grande onore.
La mia indisposizione non sarà di intralcio all’adempimento di una missione
di cosı` alta responsabilità.
Ancora una volta La ringrazio per la fiducia e l’attenzione.
Il Suo
D. Šostakovicˇ

La permanenza di Šostakovič a New York per pochi gior-


ni bastò a guastare per anni i suoi rapporti con la critica musi-
cale occidentale. Alla sua conferenza-stampa al Waldorf-Asto-
ria del 26 marzo erano presenti ottocento persone. Chi si
aspettava qualcosa di sensazionale lo ebbe... ma alla rovescia.
Šostakovič dichiarò che la risoluzione del Comitato Centrale
gli aveva fatto solo del bene, criticò aspramente Stravinskij per
aver proclamato ‘‘l’insignificanza e l’assenza di contenuto nelle
sue creazioni’’ e condannò la musica occidentale borghese e
decadente (confessando di avere pure lui percorso questa stra-
da di perdizione). I presenti restarono basiti. Nel Madison
Square Garden gremito di diciottomila spettatori Šostakovič,
suonando al pianoforte lo Scherzo della sua Sinfonia n. 5, ot-
tenne invece un trionfo che non avrebbe potuto essere mag-
giore. Il pubblico, che badava alla sua musica, gli confermava
il suo affetto. I critici, che badavano alle sue idee, lo scaricaro-
no. Il problema che si pone qui un’altra volta riguarda di nuo-
vo la sincerità o insincerità di Šostakovič. Ma se lo si vede in
questi termini il dilemma, secondo me, è mal posto. Šostako-
vič, andando a New York, non avrebbe mai potuto ‘‘scegliere
la libertà’’: la sua famiglia era rimasta nell’Unione Sovietica e
CAPITOLO XV 123

le conseguenze di un gesto di ribellione sarebbero state per es-


sa gravissime. Non era libero, certamente. Ma nei ventidue
anni che rimase in vita dopo la morte di Stalin egli non smen-
tı̀ mai, e avrebbe potuto farlo facilmente, le dichiarazioni fatte
a New York del 1949. Io ritengo che, dopo aver accettato di
recarsi negli Stati Uniti a rappresentare il suo paese, non se
stesso, Šostakovič si assumesse con piena coscienza la responsa-
bilità di dire quello che doveva necessariamente dire, senza ac-
campare giustificazioni di fronte alla sua coscienza. Questa, ri-
tengo, fu la scelta etica di Šostakovič: la tirannide lo costringe-
va a prendere posizioni che forse intimamente condivideva o
forse no, ma Šostakovič, accettando la costrizione, non cercava
di sfuggire alla responsabilità e non la scaricava sulle circostan-
ze storiche. E più tardi, scrivendo a Denisov il 12 febbraio
1957, egli prese seccamente le distanze dagli opportunisti bol-
lando sarcasticamente e lapidariamente, senza citarne il nome,
Evgenij Dolmatovskij, il librettista del Canto sulle foreste di cui
parleremo fra poco, che per una esecuzione di questo lavoro
post mortem Stalinis aveva pensato bene di cambiare il verso
finale ‘‘Gloria al saggio Stalin, Gloria’’:
Un poeta, asservito all’onore, ha corretto il testo secondo lo spirito dei tempi.
A differenza del suo collega Pusˇkin (anch’egli asservito all’onore) non è morto
né intende morire.

Il Canto sulle foreste op. 81, oratorio in sette parti per teno-
re, basso, coro di voci bianche, coro misto, grande orchestra e
banda, è il corrispettivo della Sinfonia n. 5, è la seconda ‘‘ri-
sposta di un artista a una giusta critica’’. Viaggiando da Mosca
a Leningrado sul Krasnaja Strela, il famoso treno rapido Frec-
cia Rossa che in un giorno collegava le due grandi città, Šo-
stakovič si trovò casualmente a parlare con Evgenij Dolmatov-
skij, di cui aveva musicato due poesie per il film Incontro all’El-
ba, ed ebbe notizia del piano staliniano di rigenerazione delle
foreste, saccheggiate durante la guerra. Qualche tempo dopo
Šostakovič propose a Dolmatovskij di preparargli il libretto di
un oratorio, suggerendo l’argomento della forestazione. Ci la-
124 Š O S T A K O V I Č

vorò rapidamente, ultimandolo il 15 agosto 1949. Il 12 agosto


aveva cosı̀ scritto ad Atovmjan:
L’oratorio l’ho quasi finito. In generale è venuto piuttosto bene. Dura quaran-
tatre minuti, ma quelli a cui l’ho suonato non ci credevano. Significa che non
è noioso da ascoltare.

Non si può dire che il linguaggio dell’oratorio sia di avan-


guardia, ma neppure che sia di retroguardia. Il diatonismo, la
mancanza di oscillazione modale, l’armonia schematica, le me-
lodie per gradi congiunti o con intervalli facili da intonare, i
ritmi elementari non ci danno un insieme regressivo ma, sem-
mai, primitivistico. Lo Šostakovič del Canto sulle foreste è simile
allo Šostakovič delle musiche da film perché, come quelle, an-
che l’oratorio è destinato a un pubblico non specificatamente
‘‘consumatore’’ di musica colta. Amici e allievi di Šostakovič
fecero a gara nel dire che egli si vergognava di questo orato-
rio... di espiazione. Nell’epistolario non trovo nulla che smen-
tisca le brevi frasi della lettera ad Atovmjan del 12 agosto. E
nell’articolo Musica a programma reale e apparente che ho già ci-
tato, e che fu scritto nel 1951, trovo questa frase: ‘‘Mi ha fatto
grande piacere il fatto che le immagini concrete del mio Canto
sulle foreste si dimostrassero comprensibili e familiari, suscitando
vive reazioni negli ascoltatori’’. La composizione, sebbene
scritta rapidamente, non ha nulla che denunci la fretta o la
trascuratezza. La scrittura è lineare sı̀, ma non di routine, il
settimo pezzo contiene una fuga a cinque voci di esemplare
chiarezza. E l’enorme organico vocale e strumentale è maneg-
giato con quella scienza dell’orchestrazione che in Šostakovič
non viene mai meno. Molto vicino al Canto sulle foreste si col-
loca la musica per il film La Caduta di Berlino op. 82, compo-
sto poco dopo, di cui divenne popolarissimo il Vocalizzo, dol-
cissima melodia a bocca chiusa. E il Canto della Pace, sempre
dal film La Caduta di Berlino, è un bellissimo inno-marcia con
una melodia ‘‘popolare’’, popolare nel senso che più o meno
tutti, dopo averne udito la prima strofa, sono in grado di can-
tarne le altre. Šostakovič, con mezzi linguistici tradizionalissimi
CAPITOLO XV 125

e semplicissimi, crea un pezzo che dà a chi lo canta il senso


del collettivo, della appartenenza alla gens. Si tratta secondo
me di tre minuti di musica fra i più memorabili che Šostako-
vič abbia scritto.
Il Canto sulle foreste, diretto per la prima volta da Mravin-
skij a Leningrado il 15 novembre 1949 e subito ripreso a Mo-
sca durante l’assemblea annuale dell’Unione Compositori, ot-
tenne grande successo e un plebiscito di lodi dai colleghi e
dalla stampa. E nel 1950 gli furono puntualmente assegnati i
centomila rubli del Premio Stalin di prima classe, che rimisero
in sesto le esauste finanze di Šostakovič. Il rapporto personale
di Šostakovič con Stalin aveva raggiunto il livello della fami-
liarità. Non si spiegherebbe altrimenti il tenore di una lettera,
non datata ma sicuramente del 1950, che recita cosı̀:
Caro Iosif Vissarionovicˇ,
alcune questioni scottanti della vita musicale, che mi toccano personalmente, mi
costringono a disturbarla. La prego di ricevermi e ascoltarmi. Ho estremo biso-
gno del Suo aiuto e consiglio.
Il Suo
D. Šostakovicˇ

Non sappiamo nulla delle ‘‘questioni scottanti’’. Possiamo


solo supporre che si trattasse di perorare la causa del composi-
tore ebreo, e amico di Šostakovič, Aleksandr Veprik, con-
dannto a quattro anni di internamento. Sappiamo che per aiu-
tare Veprik, Šostakovič si rivolse a Stalin, ottenendo la cancel-
lazione della pena. Quale che ne fosse l’occasione è però evi-
dente che il fatto di poter prendere l’iniziativa di rivolgersi di-
rettamente a Stalin dimostra che da parte del dittatore c’era
molta benevolenza verso l’ormai ex-formalista. Sappiamo del
resto che a Stalin piacevano molto le musiche di Šostakovič
per i film. In ottobre Šostakovič fu eletto, insieme con Chren-
nikov e Kabalevskij, come rappresentante dei musicisti nel
Comitato Sovietico per la Difesa della Pace, nel novembre del
1950 e nel dicembre del 1952 prese parte, rispettivamente a
Varsavia e a Vienna, al Congresso Internazionale per la Pace.
126 Š O S T A K O V I Č

La composizione che Šostakovič scrisse per sé, nel 1949,


fu il Quartetto n. 4 in re maggiore op. 83. La struttura di questo
lavoro è molto originale perché nei quattro movimenti – Al-
legretto, Andantino, Allegretto, Allegretto – non troviamo né
un tempo lento né un tempo molto mosso ma solo tempi in-
termedi. Il carattere del Quartetto è quello di un diario fami-
liare di tono sereno, senza grandi gesti, un rifugiarsi nell’aurea
mediocritas isolandosi dal mondo. Il primo tema del primo
movimento, agreste, si presenta tuttavia nella riesposizione in
re minore invece che in re maggiore, e ciò introduce nel di-
scorso un’ombreggiatura di malinconia. E un corale che appa-
re nel primo movimento e che ricompare nei successivi fino
alla chiusa della composizione fa apparire inattesamente un cli-
ma di preghiera. Sarebbe il caso di aprire il discorso sulla reli-
giosità di Šostakovič, religiosità non confessionale, evidente-
mente, ma per cosı̀ dire umanistica. Non dispongo di docu-
menti sufficienti per affrontare questo tema. Noto soltanto che
il 5 aprile 1951, scrivendo a Glikman che si era appena rispo-
sato, Šostakovič gli disse ‘‘Che Dio ti conceda una vita felice’’.
E il 4 luglio, parlando a Glikman di una operazione alle ton-
sille che si apprestava ad affrontare e che lo preoccupava, disse
‘‘Che Dio mi aiuti a sopportare tutto’’.
Il secondo movimento del Quartetto n. 4 è una romanza
in fa minore, il terzo uno scherzo-marcia e il quarto una sere-
nata. Nel terzo e nel quarto movimento sono chiaramente av-
vertibili gli stilemi del canto popolare ebraico. Ma ciò non si-
gnifica secondo me che si manifesti qui simbolicamente la so-
lidarietà con gli ebrei nella campagna antisemita che era inizia-
ta nel gennaio del 1948 e che sarebbe durata fino alla morte
di Stalin (i medici ebrei che avevano curato Ždanov vennero
accusati di averne provocato la morte, e alcuni di essi furono
condannati). Mi sembra probabile, come ho detto a suo tem-
po, che l’interesse di Šostakovič per il canto popolare ebraico
nascesse durante la guerra quando fu scoperto il campo di
sterminio di Treblinka. In questo senso il Trio n. 2 può essere
legato a una profonda reazione emotiva che avvicinava Šosta-
kovič al popolo ebraico. Ma gli stilemi riconducibili alla musi-
CAPITOLO XV 127

ca ebraica vengono rapidamente assimilati ed entrano a far


parte costitutiva del linguaggio di Šostakovič. Cosı̀ come non
diciamo che Chopin affermasse perennemente ‘‘sono polacco’’
quando impiegava nella melodia o nell’armonia il modo ipoli-
dio cosı̀ frequente nel folclore della sua patria, e cosı̀ come
l’uso della scala zingaresca non è in Liszt legato perennemente
al suo sentimento patriottico magiaro, l’‘‘ebraismo’’ di Šosta-
kovič diventa un elemento costitutivo del linguaggio, tanto
che non è il caso di farlo notare ogniqualvolta appare. Non
l’ho fatto notare, ad esempio, nel Concerto n. 1 per violino e
non ne parlerò più se non quando vi vedrò o mi sembrerà di
vedervi una motivazione ideologica. In realtà, al di là degli sti-
lemi musicali e della solidarietà umana, l’ethos dell’ebraismo
russo, con il suo gusto per il paradossale e per il grottesco che
esorcizza la condizione esistenziale del popolo rinchiuso nel
ghetto e soggetto ai pogrom, si sposa secondo me con gli
aspetti della poetica di Šostakovič che emergono già nelle sue
prime musiche adolescenziali.
Šostakovič, presumo, non volle ripetere dopo il Canto sulle
foreste l’esperienza negativa che aveva fatto, con la Sinfonia n.
8, dopo la Sinfonia n. 7, e perciò non chiese immediatamente
al Quartetto Beethoven di mettere in programma il Quartetto
n. 4. Il Quartetto fu provato a partire dal 10 febbraio 1950. Il
15 maggio ebbero luogo due esecuzioni private per un grup-
po di amici, compreso il responsabile del Comitato per gli Af-
fari Artistici. Gli ascoltatori consigliarono di soprassedere. Il
Quartetto Borodin, formatosi nel 1946, eseguı̀ il Quartetto
per il Ministro della Cultura, che autorizzò il pagamento del-
l’onorario previsto per ogni composizione approvata. Ma la
prima esecuzione, con il Quartetto Beethoven, ebbe luogo
soltanto il 3 dicembre 1953. Anche i Due Canti su Testi di Ler-
montov op. 84 per voce maschile o femminile e pianoforte
vennero tenuti nascosti. Le due liriche – Mattino nel Caucaso e
Ballata – sono intimistiche e vengono musicate rivolgendo una
certa attenzione alle romanze da salotto del tardo Ottocento
russo, ma sono anche inquietanti e non certo... raggianti di
ottimismo perché la contrapposizione fra la relativa staticità del
128 Š O S T A K O V I Č

canto sillabico e l’accompagnamento prevalentemente a due


voci, ritmicamente mobile, è molto forte. E del resto il film
Belinskij, ispirato a un letterato dell’Ottocento che veniva uffi-
cialmente considerato prerivoluzionario, e per il quale Šosta-
kovič scrisse le musica, op. 85, non incontrò l’approvazione
delle autorità e fu distribuito nelle sale cinematografiche sol-
tanto nel 1953. Šostakovič aveva segnato a suo favore un pun-
to molto forte con il Canto sulle foreste, ma il clima politico
consigliava evidentemente prudenza, prudenza e ancora pru-
denza.
CAPITOLO XVI 129

CAPITOLO XVI

CONFRONTARSI CON BACH

Nel luglio del 1950 Šostakovič si recò a Lipsia per le cele-


brazioni del secondo centenario della nascita di Bach e fece
parte della giuria di un concorso di pianoforte che fu vinto da
Tat’jana Nikolaeva. Poco più tardi, a Berlino, egli sostituı̀ Ma-
rija Judina, indisposta, nel Concerto in re minore per tre pianoforti
di Bach, avendo come partner la Nikolaeva e Pavel Serebrja-
kov. Il 10 ottobre Šostakovič compose il Preludio in do maggio-
re, l’11 la Fuga in do maggiore, il 12 e il 13 portò a termine il
Preludio e la Fuga in la minore. Il seguito delle due tonalità non
era quello – do maggiore, do minore – del Clavicembalo ben
temperato di Bach, ma quello dei Preludi di Chopin... e di Šo-
stakovič. Il 14 e il 16 ottobre nascevano il Preludio e la Fuga in
sol maggiore, il 22 e il 23 ottobre il Preludio e la Fuga in mi mi-
nore. Lavorando sistematicamente e senza mai sgarrare dallo
schema tonale scelto, Šostakovič compose l’ultimo Preludio il
23 febbraio e l’ultima Fuga il 25. In quattro mesi e mezzo era
stato creato un monumento, 24 Preludi e fughe op. 87, di circa
due ore e mezza di musica in cui la pienezza creativa non co-
nosceva nessuna oscillazione.
I 24 Preludi e fughe op. 87 scontentarono gli esperti sia nel
blocco sovietico che in Occidente. Com’era di prammatica,
Šostakovič eseguı̀ il lavoro in due sedute, il 31 marzo e il 5
aprile 1951, per i suoi colleghi dell’Unione Compositori. Il 16
maggio si svolse la discussione: solo Marija Judina, che era
considerata matta come una lepre di marzo, e Tat’jana Niko-
laeva, troppo giovane perché la sua opinione avesse un peso,
si espressero a favore. Nest’ev e Chrennikov dissero che era
sbagliato occuparsi di composizioni ‘‘di cosı̀ scarso significato
130 Š O S T A K O V I Č

ideologico’’. Altri partecipanti si espressero in termini molto


più aspri. Kabalevskij, che in fondo non calcò troppo la mano,
disse: ‘‘Quest’opera è basata su un grave errore di calcolo.
Non vi sarebbe servita ad esempio, Dmitrij Dmitrievič, come
preparazione per il Canto sulle foreste’’. L’unica concessione fu
l’assenso per l’esecuzione... col contagocce e in provincia, e
alla fine dell’anno Gilels incluse tre Preludi e fughe nei pro-
grammi di una sua tournée in Finlandia, li risuonò a Minsk e
nel gennaio del ’52 a Mosca. Šostakovič ne eseguı̀ alcuni a
Baku il 28 febbraio 1952. Nel 1952 l’indomita Nikolaeva riu-
scı̀ però a strappare una seconda audizione per il Comitato per
gli Affari Artistici, che effettuò lei stessa senza la presenza di
Šostakovič. E quella volta arrivò il placet per l’esecuzione
completa e per la pubblicazione (e per il pagamento dell’ono-
rario). La Nikolaeva eseguı̀ l’intera op. 87 in due recital, il 23
e il 28 dicembre 1952, nella piccola Sala Glinka del conserva-
torio di Leningrado. Dalla parte opposta della Cortina di Fer-
ro, l’Occidente, che già conosceva la Sonata n. 2 di Boulez e
la Sonata di Barraqué, vide nell’op. 87 di Šostakovič il monu-
mento reazionario e antistorico dell’inutile... accanimento te-
rapeutico per la tonalità e per la modalità i cui tracciati cere-
brali erano ormai piatti.
Componendo ventiquattro Preludi e fughe nelle ventiquat-
tro tonalità Šostakovič si poneva evidentemente in concorren-
za con Bach. Il Preludio in do maggiore, che iniziava parafra-
sando il Preludio in do maggiore del primo libro del Clavicem-
balo ben temperato, era in questo senso una dichiarazione di in-
tenzioni. Ma non si trattava tanto di una sfida a Bach quanto
di una sfida con se stesso e con la storia. Oggi siamo in grado
di dire quello che nessuno poteva capire nel 1950: Šostakovič
vinse la rischiosissima partita. Il riferimento alla scrittura ba-
chiana è costante, ma Šostakovič non tiene soltanto presente,
in modo neoclassico, lo schematismo grafico dell’Urtext. Tie-
ne invece conto delle revisioni, da Czerny fino a Bartók, che
avevano rielaborato il testo di Bach con l’aggiunta di segni
d’espressione, e tiene conto delle trascrizioni dall’organo ba-
chiano, da Liszt a Tausig a d’Albert a Busoni. Non il linguag-
CAPITOLO XVI 131

gio, ovviamente, ma la scrittura dell’ultimo Preludio e fuga,


in re minore, è visivamente quella di una trascrizione di Bu-
soni da una composizione organistica di Bach. E in tutta l’o-
pera troviamo una sintesi di storia dell’interpretazione di Bach
che va dall’inizio dell’Ottocento fino alla svolta neoclassica
degli anni venti del Novecento. Nell’articolo Musica a pro-
gramma apparente e reale che ho già citato varie volte, Šostako-
vič dice:
Per me sono ricche di contenuti, e pertanto di programma, opere come le fughe
di Bach, le sinfonie di Haydn, Mozart, Beethoven, gli studi e le mazurche di
Chopin, la Kamarinskaja di Glinka, le sinfonie di Čajkovskij, Borodin,
Glazunov, alcune sinfonie di Mjaskovskij e molte altre. Per esempio, nel Pre-
ludio in do diesis minore e nella relativa Fuga della prima parte del Clavicem-
balo ben temperato di Bach vi sono chiare tracce di profondo e commovente do-
lore umano, al contrario intravedo nel Preludio e Fuga in do diesis maggiore
della stessa prima parte un’immagine infantile. Avrebbero guadagnato qualcosa
queste opere se Bach avesse assegnato loro un titolo? Certamente no; né il loro
contenuto sarebbe stato sminuito.

Bach non aveva dato ai suoi Preludi e fughe titoli caratteri-


stici, né li avevano dati i revisori. Ma già le sole indicazioni di
tempo aggiunte, che troviamo nelle varie revisioni, oltre alle
didascalie di carattere e alle dinamiche, sono per l’interprete
orientative, e nell’Ottocento generalmente univoche, verso
contenuti emotivi. Ad esempio, per il Preludio in do diesis mi-
nore citato da Šostakovič noi troviamo Andante nella revisione
di Hans Bischoff, Andante sostenuto non troppo ed espressivo
in quella di Busoni, Andante con moto in quella di Czerny,
Andante in quella di Reinecke, Andante con espressione in
quella di Riemann, Andante espressivo in quella di Röntgen,
Andante cantabile in quella di Tovey. Per la Fuga abbiamo ri-
spettivamente Molto moderato, Gravemente e sostenuto, Mo-
derato e maestoso, Moderato, Sostenuto ma non troppo, Mo-
derato, Maestoso alla breve. Ma nella revisione di Bartók tro-
viamo rispettivamente Sostenuto e Allegro moderato. Nell’op.
87 n. 10 di Šostakovič troviamo Allegro per il Preludio e Mo-
derato per la Fuga. Bartók si stacca evidentemente dalla con-
132 Š O S T A K O V I Č

cezione del ‘‘fosco gotico tedesco’’ di cui aveva parlato Wa-


gner a proposito del Preludio e fuga in do diesis minore e che ri-
spondeva al gusto dell’Ottocento, da Czerny a Busoni. Bartók
si era staccato da questa concezione. Šostakovič, componendo
il suo Preludio e fuga, pensa l’ethos della tonalità di do diesis
minore in modo ancora diverso.
Su questo punto, che secondo me è cruciale per definire
la posizione di storica di Šostakovič, si dovrebbero aprire una
analisi e una discussione che richederebbero però uno spazio e
un linguaggio specialistico che sarebbero fuor di luogo in que-
sta sede. Mi limiterò quindi a fare un accenno alle mie con-
clusioni. Ho già detto che il disegno di comporre ventiquattro
Quartetti nelle ventiquattro tonalità non risponde secondo me
a uno schema intellettualistico ma alla esplorazione delle po-
tenzialità di ventiquattro campi espressivi. Questa finalità regge
anche il ciclo – ciclo, non raccolta – dei ventiquattro Preludi e
fughe e ne rappresenta il carattere poetico profondo e unifican-
te. La estrema varietà dell’espressione non è dunque dovuta a
un semplice calcolo retorico di spettacolarità, ma di riflessione
e di ricerca su come riprogrammare in modo nuovo la musica
in quanto espressione dell’umano nell’insieme delle venerabili
ventiquattro tonalità mentre il loro tracciato cerebrale era dato
per piatto. Il problema dell’ethos delle tonalità aveva radici
lontane che risalivano addirittura fino alla Grecia classica, ma
era stato molto dibattuto alla fine del Settecento e nell’Otto-
cento. In un breve ma acutissimo articolo del 1835 Schumann
aveva scritto:
Come non si può dire che questa o quella sensazione debba essere tradotta,
per esprimerla in modo chiaro o inequivocabile, in questa o in quella tonalità
[...] cosı` non si può nemmeno essere d’accordo con Zelter quando afferma che
si può esprimere qualunque cosa in qualunque tonalità. [...] Che trasportando
la tonalità originale di una composizione in un’altra si ottenga un effetto di-
verso, e che da ciò si possa dedurre una differenza di carattere delle tonalità, è
fuor di dubbio. [...] Innanzitutto dobbiamo senz’altro ammettere che esiste
una differenza tra modo maggiore e minore. Quello è il principio attivo, ma-
schile, questo il passivo, femminile. I sentimenti semplici richiedono tonalità
semplici; quelli più complessi preferiscono muoversi in tonalità strane, quelle
CAPITOLO XVI 133

che l’orecchio sente più raramente. Si potrebbe perciò vedere esattamente il cre-
scere e il diminuire nel circolo delle quinte successive. Il cosiddetto tritono, la
metà da un’ottava all’altra, cioè il fa diesis, appare come il punto più alto, la
cima, da cui si ridiscende poi passando per le tonalità con i bemolli fino al
semplice e puro do maggiore (Gli Scritti Critici, trad. di G. Taglietti, Ri-
cordi/Unicopli, Milano 1991).

Sempre nel 1835, in una delle sue più vivaci e divertenti


recensioni di danze, intitolata Lo Psicometro e che sfruttava co-
micamente le supposte diagnosi di una macchina inventata
dallo scacchista Magister Portius, Schumann scriveva:
[...] nella prima delle opere in oggetto [...] non manca certo la gioia della gio-
ventù, il suo canto è spiegato, ma è come se egli avesse paura che il mondo
non riconoscesse ancora la pienezza della sua voce: ecco perché in certi pas-
saggi, che si avventurano in tonalità lontane, si percepisce una certa ansietà
[...]. [...] ci sono Valzer per la testa, per i piedi e per il cuore. I primi [...] di
solito sono in do o in fa maggiore. I secondi sono i Valzer di Strauss, [...] le
loro tonalità preferite sono re maggiore e la maggiore. L’ultima classe è costi-
tuita dai sognatori in re bemolle e la bemolle maggiore [...].

Schumann non seguiva chi, come Schubart, aveva cercato


di esaminare il problema, in senso fenomenologico astratto,
per scoprire il carattere assoluto o trascendente di ogni tonali-
tà, ma riconosceva la fondatezza della ricerca se svolta in senso
culturale. Leggo nel primo dei due articoli:
[...] ammesso che effettivamente nelle diverse epoche si siano sviluppati certi ca-
ratteri stereotipi delle tonalità, bisognerebbe mettere insieme tutti i capolavori
considerati classici scritti in una stessa tonalità e confrontarli tra loro; ma qui
manca chiaramente lo spazio per farlo.

Nel Clavicembalo ben temperato noi non abbiamo soltanto la


dimostrazione pratica della possibilità del ‘‘buon temperamen-
to’’ ma anche un repertorio di ambiti espressivi, sia pure intesi
in un senso né restrittivo né univoco, che ci guidano nel sim-
bolismo di Bach. Šostakovič ricerca un nuovo ordinamento
dell’ethos delle tonalità, non allineandosi con ciò affatto ai
contingenti voleri del regime sovietico, né perseguendo uno
134 Š O S T A K O V I Č

scopo, regressivo e reazionario, da letterato, ma operando da


artista in una ricerca nel senso della continuità storica della
musica che, in quanto tale, ne investe profeticamente il futu-
ro. E per questo motivo i Preludi e fughe sono un po’ il catalo-
go della visione che Šostakovič ha delle ventiquattro tonalità,
che impiega assegnando a ciascuna di loro un carattere.
CAPITOLO XVII 135

CAPITOLO XVII

RITORNO ALLA SINFONIA

Mentre lavorava ai ventiquattro Preludi e fughe, il 9 feb-


braio 1951, Šostakovič era stato eletto deputato al Soviet Su-
premo della Repubblica Russa. Eletto formalmente, concreta-
mente nominato. E quindi definitivamente riabilitato. La vi-
cenda tormentata dei Preludi e fughe non influı̀ sulle fortune
politiche di Šostakovič, che nel corso dell’anno, con i dolcissi-
mi, cullanti, melodiosissimi Quattro Canti su Testi di Dolmatov-
skij con pianoforte op. 86 e i Dieci Poemi su Testi Rivoluzionari
per coro a cappella op. 88, e con la musica del film L’Indimen-
ticabile Anno 1919 op. 89 riaffermava e ribadiva per l’establish-
ment la sua ortodossia. I centomila rubli del Premio Stalin
guadagnati con il Canto sulle foreste erano però svaniti come
neve al sole e nel luglio del 1951, dopo aver superato l’asporta-
zione delle tonsille, Šostakovič dovette chiedere un aiuto al
suo amico Atovmjan, che pure non se la passava gloriosamente
ma che riuscı̀ a fargli avere dei soldi. ‘‘Grazie che ti sei dato da
fare’’, scrisse Šostakovič a Atovmjan il 28 luglio, ‘‘Se ti riesce
di avere ancora dei soldi, prendili e mandameli’’ perché ‘‘Qui
c’è aria di catastrofe finanziaria’’, concludendo tuttavia con uno
speranzoso ‘‘Forse in qualche modo ne verrò fuori’’. Scrivendo
a Atmovjan Šostakovič sollecitò ancora l’invio di denaro il 4 e
l’11 agosto. Ma intanto, come sappiamo dalla lettera dell’11
agosto, si era fatto stampare la carta intestata con la dicitura
‘‘Deputato del Soviet Supremo della Repubblica Federale
Russa’’. E Tichon Chrennikov, essendo uomo d’apparato, e si-
curamente in quanto ambasciatore dell’apparato, si recò in pel-
legrinaggio a Leningrado, dove Šostakovič si trovava in vacan-
za, per discutere la sua entrata nella segreteria dell’Unione
136 Š O S T A K O V I Č

Compositori. Il colloquio non ebbe l’esito sperato, ma, proprio


perché Chrennikov era un semplice coscienzioso portaordini,
Šostakovič si rivolse il 16 agosto 1951 a Malenkov, delfino e
futuro, seppur provvisorio successore di Stalin, dicendo:
Stimatissimo Georgij Maksimilianovicˇ,
il 15 agosto il segretario generale dell’Unione dei compositori sovietici, T.N.
Chrennikov, ha parlato con me. Mi ha proposto di entrare nella Segreteria
dell’unione dei compositori sovietici.
Mi rivolgo a Lei pregandola, in coscienza, di tenere presente quanto segue.
Sono pronto a offrire i miei servigi all’Unione dei compositori, per quanto sono
in grado di fare. Tuttavia, assumere una responsabilità nella Segreteria è cosa
al di sopra delle mie capacità, in quanto non ho alcuna attitudine per l’espleta-
mento dei doveri connessi con l’autorità. Dirò di più, ciò richiederebbe una
grandissima quantità di tempo ed energia e mi distoglierebbe dal lavoro creativo
che, almeno per ora, considero la mia vocazione principale.
Distinti saluti
D.D. Šostakovicˇ

La riconquistata benevolenza di Stalin non bastava ancora


ai responsabili delle stagioni sinfoniche – i bruschi voltafaccia
del dittatore erano sempre possibili – per rimettere nei loro
programmi Šostakovič, il quale doveva sentire l’urgenza, emo-
tiva, di ascoltare il suo Concerto n. 1 per violino. Il 4 luglio il
compositore prese una singolare iniziativa. Scrisse a Ojstrach
in questi termini:
Mi piacerebbe molto registrare al magnetofono il mio Concerto per violino. Sto
facendo la trascrizione di tutta la musica per orchestra, ridotta per due piano-
forti, a quattro e a otto mani. Voglio farne una trascrizione tale che non si
perda nemmeno una nota. E in questo modo, insieme con il violino solista,
voglio registrarla. [...] Lei avrà già indovinato in che cosa consiste la mia ri-
chiesta. La prego di non rifiutarmi questo favore e di acconsentire a registrare il
mio Concerto. La registrazione, naturalmente, verrà fatta in autunno, quando
Le sarà comodo. A registrare ho già preso la mano. La cosa non prende troppo
tempo. Oltre al mio Concerto vorrei tanto registrare la Sonata di Prokof’ev
con Lei e Lëva Oborin.

Non abbiamo notizia della registrazione, ma è certo che


non avvenne perché Ojstrach studiò il Concerto solo in vista
CAPITOLO XVII 137

della prima esecuzione del 1955. La Sonata di Prokof’ev citata


era la Seconda, in origine per flauto e pianoforte, che era stata
trascritta per violino su sollecitazione di Ojstrach. A questo
proposito c’è da dire che i rapporti di Šostakovič con Proko-
f’ev furono dettati da una ammirazione calda seppur non priva
di riserve critiche da parte del primo e da una sostanziale in-
differenza, dopo il primo incontro, del secondo. Šostakovič
non apprezzò la cantata Aleksandr Nevskij e apprezzò invece
molto l’opera Guerra e pace, la Sonata n. 6 per pianoforte e la
Sinfonia n. 7, la sinfonia che aveva segnato la ‘‘riabilitazione’’
di Prokof’ev dopo i turbini ždanoviani del 1948. A Prokof’ev,
il 12 ottobre 1952, Šostakovič scriveva:
Caro Sergej Sergeevicˇ,
Le faccio i miei più vivi complimenti per la Sua nuova, stupenda sinfonia.
L’ho ascoltata ieri, con enorme interesse e con piacere dalla prima all’ultima
nota. La Settima Sinfonia si è rivelata un’opera di grande perfezione, di pro-
fondo sentimento, di enorme talento. È un autentico capolavoro. [...] Mi di-
spiace che come bis sia stato suonato soltanto il quarto movimento. Bisognava
suonarla tutta. [...] Le auguro di vivere e comporre ancora almeno cento anni.
Ascoltando opere come la Sua Sinfonia, vivere diventa molto più facile e piace-
vole.

Per il trentacinquesimo anniversario della Rivoluzione


d’Ottobre Šostakovič compose la cantata Il Sole splende sulla
nostra Madrepatria per coro di voci bianche, coro misto e grande orche-
stra op. 90 (i testi erano stati forniti dal solito Dolmatovskij,
che garantiva l’ortodossia). La cantata, eseguita per la prima
volta a Mosca il 6 novembre 1952, fu discussa all’Unione
Compositori nel gennaio del 1953, con reazioni molto diffe-
renziate. Chačaturjan – e non sappiamo se parlasse sincera-
mente o ironicamente – disse che la composizione era ‘‘l’apo-
teosi della triade maggiore’’. L’ultima stazione della via crucis
di Šostakovič dopo il 1948 fu il corso di aggiornamento sul
pensiero di Stalin, che nel 1950 aveva pubblicato Marxismo e
Questioni di Linguistica. L’Unione Compositori, come misura
di speciale considerazione, assegnò a Šostakovič un insegnante
che si recò a casa sua (e che, non vedendo nessun ritratto di
138 Š O S T A K O V I Č

Stalin nello studio di Šostakovič, si stupı̀ ed esortò l’allievo a


porre rapidamente rimedio alla dimenticanza). Glikman, più
ferrato dell’amico in quanto a pensiero politico, preparò per
Šostakovič dei riassunti. Nella lettera di ringraziamento, del 14
ottobre, troviamo un accenno un po’ misterioso: ‘‘Nina è tor-
nata a casa. Ma dopo le feste andrà via di nuovo. Può darsi
che io vada con lei a Tbilisi. [...] Ma può darsi che non vada.
Tutto dipenderà dalle circostanze’’.
La moglie di Šostakovič, forse in seguito ai problemi fi-
nanziari seguiti alle vicende del 1948, aveva ripreso il suo la-
voro di laureata in fisica ed era stata assunta da una spedizione
che studiava le radiazioni cosmiche sulle montagne dell’Arme-
nia. C’era stato un coinvolgimento sentimentale di Nina con
il capo della spedizione, e contemporaneamente c’era stato un
coinvolgimento sentimentale di Šostakovič con l’allieva Galina
Ustvol’skaja. Ma il matrimonio non andò in pezzi. Fra il 5 e
l’8 ottobre Šostakovič compose i Quattro Monologhi su versi di
Pusˇkin per basso e pianoforte op. 91, basati su poesie antizari-
ste che avevano certamente per il Nostro un valore simbolico
attuale: nell’ultimo di essi, Addio, si è visto, e probabilmente
non senza ragione, il segno della rottura della relazione con la
Ustvol’skaja. Un tema del Trio per violino, clarinetto e piano-
forte, composto dalla Ustvol’skaja nel 1949, viene citato ripe-
tutamente nel Quartetto n. 5 in si bemolle maggiore op. 92, ulti-
mato l’1 novembre ed eseguito per la prima volta il 13 no-
vembre 1953 a Mosca.
Il Quartetto n. 5 accentua il carattere di diario intimo del
Quartetto n. 4. Tre movimenti – Allegro non troppo, Andante,
Moderato – che non si spingono mai verso gli estremi del
tempo, un tono lirico e colloquiale, una costruzione che, spe-
cie nell’ultimo movimento, appare dettata da una drammatur-
gia non... comprimibile in nessuna delle forme tradizionali.
Un accenno che già si trovava nel Quartetto n. 4 al ‘‘motto’’
ricavabile dal nome di Šostakovič – dsch, re, mi bemolle, do,
si – ricompare in modo più palese nel Quartetto n. 5. E insie-
me con il tema della Ustvol’skaja vengono citati nel secondo
movimento frammenti di temi del Quartetto n. 3, del Concerto
CAPITOLO XVII 139

per violino e dell’aria di Katerina Izmajlova ‘‘Serëža, mio caro’’.


Citazioni che non sembrano affatto casuali ma dettate invece
da motivazioni intime, e quindi di valenza simbolica. In assen-
za di dichiarazioni esplicite dell’Autore è arduo scoprire la
motivazione drammaturgica del Quartetto. Ma non si può
tuttavia fare a meno di notare che il tema della Ustvol’skaja,
dopo essere apparso per la prima volta nella parte centrale del
primo movimento in più che fortissimo con la didascalia
espressivo, ricompare alla fine dello stesso movimento in
un’atmosfera sonora rarefatta e nel registro acuto del primo
violino, il registro che tradizionalmente è riservato, nel melo-
dramma dell’Ottocento, alle figure di donna angelicata. Non
si può non notare il carattere di idillio amoroso del dolcissimo
secondo movimento, né il fatto che il tema della Ustvol’skaja
ricompare nel finale a... sedare il punto di spasmodica tensione
che era stato raggiunto nello sviluppo di temi con carattere di
danza, e in particolare di valzer: è ben noto il significato del
valzer, che per la prima volta nella storia della danza isolava la
coppia, allacciata con il braccio dell’uomo intorno alla vita
della donna e con i visi accostati, come simbolo di amore.
Sembra di parlare, più che di Šostakovič, di Schumann, del
suo pendant per le citazioni e per la criptografia. E io ribadi-
sco qui ciò che avevo detto in precedenza: la concezione che
Šostakovič ha della natura e della funzione della musica è net-
tamente romantica, ed è simile alla concezione di Bartók e di
Janáček, tanto che il Quartetto n. 5 può essere accostato al
Quartetto n. 1 del primo e al Quartetto n. 2 del secondo (inti-
tolato, quest’ultimo, Lettere intime), entrambi rapportabili a sof-
ferti amori impossibili.
La produzione di Šostakovič nel 1952 è completata da al-
cune delle Danze di Bambole senza numero d’opera per piano-
forte solo, che sarebbero state ultimate nel 1962, su temi tratti
da balletti e da musiche cinematografiche. Il 1953 è l’anno
della morte di Stalin e di Prokof’ev, scomparsi entrambi nello
stesso giorno, il 5 marzo. Ed è il momento in cui Šostakovič
riprende dopo otto anni di sosta il suo cammino di sinfonista,
superando il fatidico n. 9 a cui si erano fermati Beethoven,
140 Š O S T A K O V I Č

Dvořák, Bruckner, e che Mahler aveva invano tentato di esor-


cizzare intitolando Canto della terra quella che era in verità la
sua decima sinfonia. La Sinfonia n. 10 in mi minore op. 93 fu
composta nel corso dell’estate e dell’autunno del ’52 e venne
eseguita per la prima volta il 17 dicembre a Leningrado, diret-
ta come al solito dal fido Mravinskij. Poco dopo la morte di
Stalin, alla metà di aprile, Šostakovič si era recato nel Caucaso,
a Kislovodsk, per un mese di cura e riposo, e vi rimase fino al
10 maggio. Il 6 maggio descriveva all’amico Glikman il suo
stato di salute in questi termini:
Il fatto è che il mio stomaco ha smesso di tenere nel debito conto il suo dovere
di digerire bene il cibo. È particolarmente triste che mi siano proibite tantissime
cose buone: maiale, montone, cibi affumicati (pesce di lago, anguilla, salame,
pesce essicato). Vodka, vino e cognac sono controindicati. Ma berrò lo stesso.
Veramente, dopo aver travasato un po’ d’alcol in corpo, sto proprio male.
Però, l’ora o due che seguono il travaso riscattano le successive sofferenze.

In giugno Šostakovič fece parte di una delegazione cultu-


rale che andò a Vienna e a Graz, e a Vienna si divertı̀ come
un bambino scorrazzando al Prater su un carrello delle cosid-
dette montagne russe. A Komarovo, durante le vacanze, co-
minciò a lavorare alla Sinfonia. Tat’jana Nikolaeva riferı̀ mol-
to più tardi di ricordare una esecuzione al pianoforte del pri-
mo movimento, avvenuta nel 1951, ma questa notizia non
trova in genere credito presso i critici. E non trova credito
presso la maggior parte dei critici, oggi, la tesi che la Sinfonia
sia ispirata alla vita nell’Unione Sovietica durante lo stalinismo
e che il secondo movimento sia un vero e proprio ritratto del
dittatore. Si può piuttosto dire, secondo il mio parere, che la
Sinfonia riprenda a livello epico il contenuto intimo del Quar-
tetto n. 5. Il 28 agosto, scrivendo a Glikman da Mosca, Šosta-
kovič diceva:
Devo chiederti un favore: informati, per favore, dove si trova Galina Ust-
vol’skaja. È tornata a Leningrado e sta bene? Io ho un sacco di faccende da
sbrigare con lei. Le ho scritto e telegrafato molte volte. Sapendo quanto è pre-
cisa sono preoccupato dalla mancanza di notizie. Se non ti è troppo gravoso,
informati: dov’è? sta bene?
CAPITOLO XVII 141

Non sappiamo quale fosse il ‘‘sacco di faccende da sbriga-


re’’, ma il tenore della lettera non ci vieta di certo di sospetta-
re un... ritorno di fiamma che lasciava fredda la Ustvol’skaja.
Sappiamo invece che negli stessi giorni Šostakovič teneva una
fitta corrispondenza con la ex-allieva degli anni quaranta El-
mira Nazirova, nata nel 1928 a Baku, che aveva incontrato
nuovamente nel 1952. Šostakovič spiegò alla ragazza di aver
impiegato nel terzo movimento della Sinfonia un tema, tratto
dal Canto della terra di Mahler ma modificato ritmicamente e
privo dell’ultima nota, che incorporava le lettere del nome El-
mira (ne poteva incorporare, ovviamente, solo due, la prima e
l’ultima, mi per la e, e la per la a). Quel tema con carattere di
segnale, eseguito dal corno, arriva in modo assolutamente im-
provviso e imprevedibile a un terzo circa del terzo movimen-
to, viene subito ripetuto in eco e riappare poi molte volte.
Nella simbologia mahleriana, che Šostakovič conosceva benis-
simo e che spiegò alla Nazirova, quel tema era legato all’appa-
rizione di una scimmia, urlante in un cimitero, che rappresen-
tava un annuncio di morte. Quell’annuncio avveniva mentre
Mahler tentava di beffare il destino, superando surrettiziamen-
te lo scoglio della Sinfonia n. 9, come ho detto prima, con il
Canto della terra. Šostakovič intendeva forse far ricorso alla stes-
sa simbologia? E nella Nazirova vedeva il suo angelo della
morte? E che dire del passero, entrato nella veranda-studio di
Šostakovič che, spaventato, aveva depositato sulla partitura il
prodotto dei suoi visceri prima di volar via? Io ignoro il signi-
ficato simbolico del passero, ma non ignoro, e credo che nes-
suno ignori, che gli escrementi sono considerati di buon augu-
rio. E in tal senso Glikman intese l’accaduto. L’immaginazione
potrebbe a questo proposito correre la cavallina, ma l’impiego
del tema Mahler-Nazirova, e l’impiego del ‘‘motto’’ dsch,
che appare anch’esso nel terzo movimento della Sinfonia, per
la prima volta senza modificazioni, fanno certamente pensare a
un sostrato autobiografico. Quale che ne sia il contenuto, la
Sinfonia n. 10 è però un capolavoro assoluto, non solo di Šo-
stakovič ma di tutta la musica per orchestra.
142 Š O S T A K O V I Č

Dopo un vastissimo primo movimento, Moderato, che


inizia sommessamente con i violoncelli e i contrabbassi e che
si articola poi in una lussureggiante ma sempre dolorosa varie-
tà espressiva e in una caleidoscopica strumentazione con assoli
di vari strumenti, il brevissimo secondo movimento, Allegro,
è uno scherzo frenetico in cui io stento – anzi, non riesco
proprio – a trovare, tanto è baldanzoso e vittorioso, il ritratto
di un odiato tiranno. Al terzo movimento, Allegretto, ho già
accennato: inizia come danza, con il tema dsch, cambia d’a-
spetto con il tema-Elmira, ripetuto come una formula magica.
Il quarto movimento inizia con un tempo moderato, Andante,
che serve da introduzione al vero e proprio finale, Allegro. Il
tono espressivo si rischiara dopo l’Andante e diventa gioioso
nell’Allegro. La composizione termina in mi maggiore e nelle
ultime battute il tema dsch viene affidato ai martellanti colpi
dei timpani. Il significato drammaturgico di questa conclusione
è chiaro. Simboleggia una vittoria. La vittoria di Šostakovič su
Stalin? Che senso aveva, visto che Stalin era ancora vivo e ve-
geto? O rappresentava la vittoria di Šostakovič su se stesso?
Secondo me non possono sussistere dubbi sulla ragionevolezza
della seconda ipotesi, non della prima.
CAPITOLO XVIII 143

CAPITOLO XVIII

IL DISGELO

Il lettore che ha i miei anni ricorda certamente, il lettore


più giovane potrebbe non avere mai saputo, e perciò lo infor-
mo, che alla morte di Stalin il potere passò nelle mani di un
triumvirato – Molotov, Malenkov, Berija – con Malenkov co-
me primo ministro. In giugno Berija fu arrestato e giustiziato,
in settembre Nikita Chruščëv divenne primo segretario del
Partito Comunista. Nel maggio del 1954 veniva nominata la
Commissione per la Riabilitazione che aveva il compito di
riesaminare le accuse di deviazionismo e di restituire l’onore –
e anche la libertà, quando non erano state eseguite condanne
a morte – alle vittime. Šostakovič si adoperò per riscattare la
memoria di vari amici, fra i quali il regista Mejerchol’d, la cui
semtenza di riabilitazione arrivò il 26 novembre 1955. Fu in-
vece procastinata – ma ne parleremo poi – la... riabilitazione
della Lady Macbeth del Distretto di Mcensk. La Sinfonia n. 10, ac-
colta dal pubblico trionfalmente, suscitò reazioni contrastanti
nella stampa: Chačaturjan si espresse su di essa con entusiasmo,
una Akimova non meglio nota, nel n. 4 della rivista Musica
Sovietica, scrisse che ‘‘le tragiche domande e i dubbi che han-
no tormentato l’autore della sinfonia sono rimasti senza rispo-
sta’’ e che ‘‘il compositore non ha creato l’immagine dell’eroe
positivo, capace di battere e superare le cupe forze oscure’’. Il
dibattito all’Unione Compositori, il 29 e 30 marzo e il 5 apri-
le, dimostrò che molti musicisti non avevano ancora capito di
dover mettere nel congelatore gli ordini di Ždanov, tanto che
Šostakovič parò i colpi confessando di avere lavorato un po’
in fretta, di non aver rispettato la forma tradizionale nel primo
movimento, di essere stato troppo conciso nel secondo e poco
144 Š O S T A K O V I Č

equilibrato formalmente nel terzo. Quanto al programma, si


limitò ad assicurare che la sua intenzione era stata di rendere
non meglio precisati ‘‘sentimenti e passioni umane’’. Il 7 aprile
poté comunicare a Glikman che la discussione si era alla fine
conclusa in modo per lui favorevole. Negli stessi giorni si di-
scuteva però l’assegnazione del Premio Stalin, con la candida-
tura di tre lavori di Šostakovič, la Sinfonia n. 10, la cantata Il
Sole splende sulla nostra Madrepatria e i 24 Preludi e fughe op. 87.
Chrennikov bocciò la Sinfonia e propose di orientarsi sulla
cantata, Gol’denvejzer disse che si sarebbe vergognato di pas-
sare alla storia come un non-estimatore della Sinfonia, il co-
mitato salvò capra e cavoli rinviando la decisione all’anno do-
po. L’anno dopo si ripeté la stessa scena, e in conclusione la
Sinfonia non ebbe mai il Premio. Forse come compensazione
per il mancato Premio, Šostakovič aveva ricevuto nell’agosto
del 1954, insieme con Chačaturjan e Šaporin, il titolo di Arti-
sta del Popolo dell’urss e si era visto assegnare il Premio In-
ternazionale per la Pace.
Il 1954 non fu un anno fecondo per il compositore Šosta-
kovič. La Sinfonia n. 10 aveva rappresentato per lui un impe-
gno creativo gravoso e di grande responsabilità, un impegno
che richiedeva un momento di sosta e di riflessione per ri-
prendere le forze. Le vicende connesse con le esecuzioni della
Sinfonia n. 10 e con il relativo dibattito avevano tenuto occu-
pato e avevano preoccupato il compositore. E poi c’era da
pensare alla preparazione della diciottenne Galina – Šostakovič
era un padre ansioso – che doveva sostenere l’esame d’ammis-
sione all’università. Šostakovič temeva che la figlia non ce la
facesse. Invece tutto andò per il verso giusto e Galina divenne
studentessa di biologia. Ultima, e più grave preoccupazione, la
salute della moglie. Il coinvolgimento sentimentale di Nina
con lo scienziato che guidava la spedizione sui monti dell’Ar-
menia era noto a tutti, ma ‘‘come i periodici amori del com-
positore, non turbava la tranquillità domestica di casa Šostako-
vič’’ (Fay). Nina passò con il marito e i figli le vacanze estive
e in autunno riprese il suo lavoro. Il 3 dicembre Šostakovič fu
chiamato al telefono mentre assisteva a un concerto: la moglie
CAPITOLO XVIII 145

era stata ricoverata in ospedale a Erevan e operata per un bloc-


co intestinale, ma i chirurghi avevano scoperto e asportato un
cancro al colon. Šostakovič la raggiunse il giorno successivo:
era già in coma profondo e morı̀ poco dopo. Il funerale ebbe
luogo a Mosca il 10 dicembre. Šostakovič si sentı̀ perduto.
Durante l’estate Šostakovič aveva composto le Cinque Ro-
manze (Canti dei Nostri Giorni) per basso e pianoforte op. 98
su testi di Dolmatovskij. Come sempre, la lirica di Dolmatov-
skij stimolò Šostakovič a fare esercizi di stile: i cinque pezzi
sono tonalissimi e melodicamente piacevoli, ben radicati nella
tradizione della romanza russa di fine Ottocento influenzata da
Glinka, Mendelssohn e Schumann. La Ouverture festiva per or-
chestra op. 96 fu composta in novembre, in pochi giorni, anzi,
in poche ore, per onorare una commissione del Teatro Bol’šoj
che all’ultimo momento si era accorto di dover celebrare il
trentasettesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Ap-
pena Šostakovič terminava una pagina il teatro mandava un
fattorino che la ritirava per consegnarla ai copisti. La prima
esecuzione, il 6 novembre, ottenne un successo sensazionale
che si mantenne poi nel tempo. Si parla non di rado della Ou-
verture festiva come di un lavoro di cui Šostakovič si vergogna-
va un po’, e la si giudica severamente sia perché era una com-
missione di tipo politico, sia perché – e ci si dimentica che la
ouverture del Don Giovanni fu scritta da Mozart in una notte
– fu composta a tamburo battente. A me sembra che la Ouver-
ture festiva, come il Canto sulle foreste, sia calcolata esattamente
secondo la funzione che doveva svolgere e secondo il pubbli-
co a cui era destinata, e non mi pare affatto indegna di Šosta-
kovič. Bisogna dire piuttosto che sorprende un po’ il carattere
stilistico della Ouverture, che sembra scritta per un’operetta
più che per celebrare la Rivoluzione. I criteri utilitaristici, che
non penso debbano essere considerati spregevoli per definizio-
ne, reggono anche la composizione del Concertino per due pia-
noforti op. 94, scritto per l’esordio pianistico del figlio Maksim
e da questi eseguito a Mosca l’8 novembre 1954 insieme con
una compagna di classe. La composizione, in un solo movi-
mento articolato in più parti contrastanti, è un ‘‘pezzo per pia-
146 Š O S T A K O V I Č

nisti’’ che mira a far risaltare la bravura senza richiedere una


tecnica trascendentale. Il buon papà Šostakovič, a livello pro-
fessionistico, non amatoriale, fa in fondo quello che una trepi-
da madre inglese aveva chiesto a Moscheles per la figlia, un
qualcosa di ‘‘brillante ma non difficile’’. Fatte le debite pro-
porzioni perché, ripeto, Šostakovič deve mettere in luce le ca-
pacità di futuri professionisti, il Concertino è brillante ma non
difficile. Ultimo lavoro che entra nel catalogo di Šostakovič
nel 1954 è la musica per il film Il Canto dei grandi fiumi op.
95.
Nel 1955 Šostakovič compose la musica per il film Il Tafa-
no, op. 97, una delle sue più riuscite colonne sonore. Il film è
ambientato nell’Italia romantico-risorgimentale e tratta degli
amori di un giovane rivoluzionario e della sua ragazza, con-
dendo il racconto con una dose generosa di anticlericalismo e
di esaltazione dei ribelli. Šostakovič compose la musica tenen-
do conto di un certo ‘‘colore locale’’, ivi compresa una Taran-
tella che fu trascritta per due pianoforti. Lev Atovmjan ne tras-
se una suite di dodici pezzi, op. 97a, fra i quali spicca una Ro-
manza che divenne popolarissima in trascrizioni per vari stru-
menti, compreso il mandolino, sotto i titoli di Danza spagnola
o di Danza napoletana.
Šostakovič, dicevo prima, dopo la scomparsa della moglie
si sentı̀ perduto. Doveva badare a due adolescenti – Galina di
diciott’anni, Maksim di sedici –, due adolescenti focosi, piut-
tosto indisciplinati e un po’ arroganti, e non sapeva come
educarli. Anche nelle piccole incombenze quotidiane la mo-
glie gli era stata sempre di grande aiuto. ‘‘Tutto qui mi ricorda
Nina Vasil’evna’’, scriveva a Denisov il 31 luglio da Komaro-
vo vicino a Leningrado, dove passava come al solito le vacan-
ze. ‘‘Lei amava molto questo posto e si era data molto da fare
perché ci sistemassimo per bene. L’estate procede sterile e tri-
ste. Mia mamma è ammalata. Il papà di Nina si muove a mala
pena. Esserne testimone per tutto il tempo è molto duro’’.
Non componeva, Šostakovič, ma la musica lo sollevava dai
pensieri cupi. La lettera cosı̀ prosegue: ‘‘Qualche giorno fa so-
no andato a Leningrado e ho assistito alla prova generale del
CAPITOLO XVIII 147

Don Carlos di Verdi. Cantano mediocremente, ma cionono-


stante mi ha fatto una profonda impressione. Non ho mai
provato un’emozione simile per un’opera musicale’’. Alla fine
di agosto andò in Crimea e ascoltò alla radio la sua Nona Sin-
fonia diretta da Gauk. L’esecuzione non gli piacque e in una
lettera a Glikman del 28 agosto dette a Gauk del filibustiere.
Ma aggiunse: ‘‘La bella musica, comunque la si suoni, resta
bella. Ognuno dei Preludi e fuga di Bach può essere suonato
a qualunque tempo, con qualsiasi sfumatura dinamica o anche
senza nessuna: sarà comunque bellissimo. Ecco che musica bi-
sogna scrivere, perché nessun filibustiere possa rovinarla’’.
Nella situazione di vedovanza e di incertezza esistenziale
in cui era improvvisamente caduto Šostakovič pensò, com’era
ovvio, di risposarsi. E pensò a Galina Ustvol’skaja. Ne parlò
con i figli, scrisse a Galina, che però non accettò. Assunse allo-
ra un segretario, ma senza risolvere con ciò il problema di
fondo, l’educazione dei ragazzi. Nel 1955, mi sembra, Šosta-
kovič cercò di trovare un sollievo ai problemi domestici ri-
prendendo l’attività concertistica. Dopo la prima esecuzione
del ciclo liederistico Dalla Poesia popolare ebraica a Leningrado e
a Mosca fece in aprile una tournée nelle repubbliche baltiche.
Il 29 ottobre ebbe la gioia di assistere finalmente alla prima
esecuzione del Concerto n. 1 per violino, presentato da Ojstrach
e Mravinskij a Leningrado. E Ojstrach incluse in dicembre il
Concerto nei programmi della sua prima tournée negli Stati
Uniti. Le Sinfonie di Šostakovič venivano di nuovo eseguite e
i diritti d’autore lo liberavano dai problemi finanziari. Ma l’e-
laborazione del lutto era tutt’altro che conclusa, anzi, un nuo-
vo grave lutto lo aveva colpito perché in novembre era morta
la madre.
Nei primi mesi del 1955 Šostakovič aveva ripreso in mano
l’opera Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, che era stata
dedicata alla moglie scomparsa da poco. Cominciò a modifi-
carne alcuni particolari, sia di libretto che musicali, e a poco a
poco ne fece una nuova versione che intitolò Katerina Izmajlo-
va. Il Malegot di Leningrado era disposto a metterla in scena,
ma ciò non sarebbe stato possibile senza un pronunciamento
148 Š O S T A K O V I Č

ufficiale che rimuovesse la condanna del 1936. All’inizio del


1956 Šostakovič si decise a fare un passo per lui insolito. Ne
scrisse a Glikman il 28 gennaio:
[...] ho avuto un colloquio con V.M. Molotov, il quale ha ribadito il suo orien-
tamento di far esaminare la Lady Macbeth da una commissione autorevole.
Ieri ho visto i compagni Michajlov, Kafranov, Kamenov e altri dirigenti del mi-
nistero della Cultura, ma essi, conversando amabilmente con me, non hanno
toccato il tasto della Lady Macbeth. Non mi è parso opportuno sollevare io
stesso la questione.

Il triumvirato governativo formatosi nel 1953 dopo la


morte di Stalin aveva ben presto perduto per strada Berija, fu-
cilato, e aveva subito nel 1955 un rimescolamento: Malenkov,
inviso a Chruščëv, era diventato vicepresidente e Molotov
presidente del consiglio dei ministri. Non sarebbe durato a
lungo, Molotov, sarebbe stato sostituito da Bulganin e poi,
come Malenkov, sarebbe stato allontanato da Mosca. Ma all’i-
nizio del 1956 era politicamente potentissimo e Šostakovič, ri-
volgendosi a lui, aveva dunque mirato molto in alto. Molotov
nominò una commissione – Kabalevskij, Chubov, Čulaki –
che il 12 marzo si recò nell’appartamento di Šostakovič e
ascoltò l’esecuzione completa dell’opera al pianoforte. Il ver-
detto, unanime, fu negativo, e ci vollero ancora anni prima
che il veto venisse rimosso: la nuova versione della Katerina
Izmajlova, op. 114, andò in scena a Mosca l’8 gennaio 1963. Il
giudizio negativo dei tre soloni nominati da Molotov è tanto
più sorprendente, e tanto più indicativo di quanto si procedes-
se a rimuovere i fantasmi del passato, nell’Unione Sovietica,
con i piedi di piombo, perché il 25 febbraio 1956 Chruščëv,
parlando dalla tribuna del xx Congresso del Partito Comuni-
sta, aveva denunciato i crimini di Stalin. Chruščëv fu del resto
accusato l’anno dopo di aver leso con il suo intervento il pre-
stigio all’estero dell’Unione Sovietica, e il ‘‘disgelo’’, cosiddet-
to dal titolo di un romanzo di Il’ja Erenburg del 1954, fu più
o meno pari allo scioglimento in tempi remotissimi della ca-
lotta artica.
CAPITOLO XVIII 149

Dopo avere ultimato la musica per il film Il primo scaglione


op. 99, che non lo impegnò veramente sul piano creativo, Šo-
stakovič non riuscı̀ a comporre altro. I problemi della vita do-
mestica continuavano ad assillarlo. Pensò di poterli risolvere,
come aveva pensato nell’anno precedente, risposandosi. Ma
nel 1956 si risposò per davvero. La sposa, Margarita Kajnova,
era una donna sulla trentina, molto bella (un po’ somigliante a
Nina), che insegnava scienze sociali in una scuola di musica
ma che di musica si interessava solo per dovere d’ufficio. Šo-
stakovič l’aveva conosciuta in giugno durante un concorso per
il canto di massa. ‘‘Spero che sarà per me una buona moglie e
per i miei ragazzi una buona madre’’, scrisse il neosposo alla
biologa Flora Litvinova, conosciuta a Kujbyšev durante la
guerra e che era diventata molto amica di Nina. Ad Atovm-
jan, il 25 luglio, Šostakovič scrisse: ‘‘[...] ti rendo noto che ho
sposato Margarita Andreevna Kajnova. Non è un segreto. I ra-
gazzi l’hanno presa bene’’. Sembra che la Kajnova si impe-
gnasse fattivamente nel difficilissimo compito di dare ordine e
tranqullità alla vita di Šostakovič. Ma il matrimonio sarebbe
durato soltanto tre anni: nell’estate del 1959 fu pronunciato il
divorzio.
Durante la luna di miele a Komarovo – e non mi sembra
in verità che Šostakovič, decidendo di trascorrere con la se-
conda moglie le vacanze in un luogo che traboccava di ricordi
della prima, desse prova di somma finezza psicologica –, du-
rante la luna di miele, dicevo, la vena creativa del compositore
ricominciò a zampillare. Nacquero i Cinque Canti spagnoli op.
100 per soprano e pianoforte e il Quartetto n. 6 in sol maggiore
op. 101, terminato a Mosca il 31 agosto. I Cinque Canti spa-
gnoli (come gli elegantissimi Quattro Canti greci senza numero
d’opera del 1952-53) sono armonizzazioni di canzoni popolari,
molto ben riuscite ma non particolarmente originali, al con-
trario del ciclo Dalla Poesia popolare ebraica che aveva trovato
più profonde rispondenze nell’animo di Šostakovič. ‘‘Ho fini-
to il Sesto Quartetto e sono soddisfatto di questo opus’’, scrisse
Šostakovič a Glikman il 13 settembre. Soddisfatto del suo la-
voro e si direbbe, leggendo il Quartetto, soddisfatto di aver rin-
150 Š O S T A K O V I Č

novato la felicità domestica, perché è proprio questa che tra-


spare nella composizione. L’inizio è schubertiano, è immerso
nel clima che convenzionalmente viene chiamato schubertia-
de, scampagnata fuori porta con gli amici. La serenità intima-
mente goduta della schubertiade pervade il primo movimento,
Allegretto, il secondo, Moderato con moto, e il quarto, Lento
introduttivo e Allegretto, mentre il terzo movimento, Lento
in forma di passacaglia, è in apparenza serioso ma nella sezione
centrale, in fa diesis maggiore (il fa diesis maggiore, avremo
modo di vederlo ancora, è per Šostakovič la tonalità dell’amo-
re), si apre in un’oasi di felicità radiosa. Poco dopo l’inizio
troviamo il motto dsch a cui Šostakovič farà ricorso molte al-
tre volte ancora. Ma qui il motto dà origine a una vera e pro-
pria criptografia alla Schumann perché viene inserito, con i
quattro suoni sovrapposti, in una formula cadenzale che con-
clude tutti i quattro movimenti. Formula cadenzale di sol
maggiore. E se in sol maggiore sono il primo e il quarto mo-
vimento, il secondo è in mi bemolle maggiore e il terzo in si
bemolle minore. Ma entrambi chiudono in sol maggiore.
L’intenzione simbolica di Šostakovič è palese. Il suo significato
è un po’ incerto, ma si può ragionevolmente supporre che si
tratti di un riferimento al cinquantesimo compleanno di Šosta-
kovič, che cadeva il 25 settembre.
La ricorrenza fu celebrata alla grande. Il 24 settembre tre
direttori, Anosov, Gauk e Ivanov, diressero rispettivamente la
cantata Il Sole splende sulla nostra Madrepatria, il Concerto per vio-
lino (il solista era Michail Vajman) e la Sinfonia n. 5. Il 26 Šo-
stakovič invitò nel ristorante Aragvij ben centoquaranta ospiti
festeggianti. Discorsi a non finire, brindisi a non finire, vodka
e cognac a fiumi... Un coro di Giovani Pionieri eseguı̀ il Can-
to del Contropiano, fu annunciata ufficialmente l’assegnazione a
Šostakovič dell’Ordine di Lenin... Nel numero di settembre
della rivista Musica Sovietica era stato pubblicato un articolo di
Šostakovič, Pensieri sul cammino percorso, che mi è già capitato
di citare a proposito della Sinfonia n. 8. L’articolo, preziosissi-
mo per quanto riguarda l’autoanalisi di Šostakovič, contiene
anche elenchi di interpreti e di compositori sovietici per i
CAPITOLO XVIII 151

quali si esprime stima, nonché l’elenco dei preferiti fra i com-


positori contemporanei stranieri: Bartók, Kodály, Britten,
Gershwin, Bliss, Stravinskij (il russo ‘‘senza patria’’ che non
aveva mai avuto la cittadinanza sovietica), Honegger, il bulga-
ro Vladigerov, Hindemith. L’orientamento estetico e linguisti-
co di Šostakovič è chiaro ed evidente.
152 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XIX

SINFONIA COME POEMA SINFONICO (I)

Nell’articolo che ho appena citato troviamo un paragrafo


significativo: ‘‘Ora lavoro all’Undicesima Sinfonia, che sarà finita
presumibilmente per l’inverno. Soggetto di questa sinfonia è
la Rivoluzione del 1905. Amo in modo particolare questo pe-
riodo storico della nostra patria che si riflette in modo mirabile
nei canti rivoluzionari dei lavoratori. Non so se nella Sinfonia
citerò in gran numero le melodie di questi canti, ma presumo
che la sua lingua musicale mostrerà parentele con i caratteri
del canto rivoluzionario russo’’. In verità lo ‘‘sto lavorando’’
era più precisamente uno ‘‘sto progettando’’, perché prima di
impegnarsi veramente sulla Sinfonia Šostakovič compose per il
figlio Maksim il Concerto n. 2 in fa maggiore per pianoforte e or-
chestra op. 102, che il fortunato ragazzo eseguı̀ per la prima
volta il 10 maggio, giorno del suo diciannovesimo complean-
no. Il 12 febbraio, in un momento, credo, di malumore, Šo-
stakovič scrisse a Denisov: ‘‘Compongo male. Ho finito un
Concerto per pianoforte che non ha nessun pregio artistico.
Intendo iniziare a lavorare sulla Undicesima Sinfonia’’. Dico che
Šostakovič doveva essere di cattivo umore perché il Concerto
ottenne un grande successo e lo stesso Šostakovič lo incluse
nel suo repertorio, eseguendolo varie volte in patria e all’este-
ro e registrandolo per il disco a Parigi sotto la direzione di
André Cluytens. Più divertimento che concerto, questo sı̀, co-
me Prokof’ev aveva detto del Concerto in sol di Ravel dopo
averlo ascoltato a Parigi in prima esecuzione. Maksim Dmi-
trievič era un giovane pianista rispettabile ma non un fuori-
classe come, tanto per citare un suo coetaneo, Vladimir Aške-
nazi, e il buon papà Dmitrij Dmitrievič lo servı̀ a puntino con
CAPITOLO XIX 153

un primo movimento a modo di marcia grottesca, un secondo


movimento a modo di notturno (di sognante nocturne alla
John Field), e un terzo movimento, collegato con il secondo,
con un primo tema giovanile e strombettante e un secondo
tema a modo di danza caucasica, e con episodi burlescamente
basati sul secondo degli esercizi meccanici di Charles Hanon,
vademecum dei pianisti che vogliono dedicarsi al compito –
vano, secondo quel che ne pensa Chopin – di raggiungere
l’uguaglianza e l’indipendenza delle dita. Il Concerto, come
del resto il Concerto in sol di Ravel, non è meccanicamente di
difficoltà trascendentale, ma renderlo con spirito e brio, ed
esporre la melodia del secondo movimento con tutte le soavi
seduzioni del canto spianato è un’impresa che richiede una
raffinata scienza del tocco. Oggi, a più di cinquant’anni di di-
stanza, il Concerto rimane saldamente piantato nel repertorio
(il primo movimento è diventato anzi popolarissimo fra i
bambini perché è stato inserito nel film Fantasia 2000). E se
anche volessimo dar pienamente fede al suo Autore dovrem-
mo dire che qualche altro pregio, non artistico ma pregio, il
Concerto n. 2 deve pur avercelo.
Dopo aver ultimato il regalo di compleanno per il figlio
Šostakovič mise mano finalmente alla Undicesima Sinfonia, a cui
stava pensando per lo meno dall’aprile del 1955. Il lavoro
avanzò a rilento perché il cinquantenne Šostakovič, dopo la
scomparsa di Mjaskovskij e di Prokof’ev, stava diventando
un’icona della musica sovietica ed era per cosı̀ dire strattonato
da tutte le parti. ‘‘Io ho un sacco di faccende da brigare’’, scri-
veva a Glikman il 31 marzo 1957. ‘‘Perdo un sacco di tempo
e non posso assolutamente occuparmi della Undicesima Sinfonia.
In questi ultimi tempi partecipo al Congresso dei composito-
ri’’. Dal 28 marzo al 4 aprile si svolse a Mosca il Secondo
Congresso Pansovietico dei Compositori, a cui Šostakovič
prese parte attivamente (e non più, si capisce, in veste di im-
putato). Erano passati nove anni dal Primo Congresso e molte
cose erano cambiate nella società sovietica, per lo meno in su-
perficie se non nel profondo. Chrennikov manteneva la sua
posizione di guida dei musicisti e di garante in campo musica-
154 Š O S T A K O V I Č

le della ortodossia. E dalla ortodossia erano stati eliminati gli


eccessi, a cominciare dall’annullamento, voluto da Stalin, del-
l’elenco dei lavori vietati. Ma non era cambiata la ratio: il for-
malismo era sempre il nemico, il realismo socialista era sempre
la stella dei Re Magi, sebbene le due opposte posizioni risul-
tassero mitigate rispetto al radicalismo del passato.
Chrennikov, nel suo discorso di apertura, ‘‘impersonò’’ la
posizione ortodossa riveduta e corretta, il rappresentante del
Partito, Dmitrij Šepilov, applaudı̀ ed esortò i compositori a
calcare le orme di Glinka e Čajkovskij, Musorgskij e Rimskij-
Korsakov, Mozart e Beethoven, Chopin e Smetana. Aveva
fatto delle curiose misticanze di nomi, escludendo ad esempio
Bach e Brahms, Borodin e Glazunov, e da politico ignaro di
cose musicali – non solo in Italia i politici sono indifferenti al-
la musica – aveva pronunciato Rimskij-Korsàkov invece di
Rimskij-Kòrsakov, cosa che divertı̀ molto Šostakovič. Ma ave-
va dato il placet ufficiale alla impostazione di Chrennikov.
Un... vecchio credente, il musicologo Kremylov, che mise vo-
lonterosamente in evidenza il ‘‘formalismo’’ da cui era infetto
secondo lui il Concerto per violino di Šostakovič, fu la voce sto-
nata che cantò fuori dal coro. Šostakovič, nel suo articolato e
abile intervento, si allineò senza la minima piaggeria con il
nuovo corso e venne eletto segretario, uno dei tredici segretari
che con il ‘‘primo segretario’’ Chrennikov avrebbero governa-
to la musica sovietica. In parole povere, Šostakovič accettò dai
suoi colleghi una carica che aveva rifiutato sei anni prima,
quando gli era stata offerta da Chrennikov per conto di Ma-
lenkov. E avendola accettata, com’era nel suo carattere e nella
sua deontologia professionale, non la intese poi affatto in senso
puramente onorifico.
Questa sorprendente decisione di Šostakovič, come il suo
intervento a New York del 1949, si prestò e si presta alla di-
scussione. Ma siccome il problema si ripresenterà in forma an-
che più evidente quando parleremo della iscrizione del Nostro
al Partito Comunista non starò per ora a discuterne. Šostako-
vič mise la parola fine alla Sinfonia n. 11 in sol minore op. 103,
sottotitolata ‘‘L’Anno 1905’’, durante le vacanze estive del
CAPITOLO XIX 155

1957, e precisamente il 4 agosto, arrivando al traguardo in


tempo utile per la celebrazione del quarantesimo anniversario
della Rivoluzione d’Ottobre. Trascrisse subito la Sinfonia per
pianoforte a quattro mani e tastò il terreno presentandola pri-
vatamente, con il compositore Michail Meerovič, a Leningra-
do e a Mosca. La prima esecuzione ebbe luogo a Mosca il 30
ottobre, diretta da Natan Rachlin, non da Mravinskij, che es-
sendo titolare dell’orchestra di Leningrado non poteva conten-
dere al collega, direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica di
Stato dell’urss, il privilegio di far conoscere nella capitale fe-
derale un lavoro altamente celebrativo. Mravinskij diresse la
Sinfonia a Leningrado il 3 novembre. In Occidente la diresse-
ro Stokowski e Cluytens.
Scrivendo a Mravinskij il 24 agosto, Šostakovič diceva:
Lei sa già che la Sinfonia è musica a programma.
Ogni movimento ha il suo titolo:
1) La piazza Dvorcovaja
2) Il 9 gennaio
3) L’ultimo ricordo
4) L’allarme.
La durata è di 55 minuti. Tutti i movimenti vanno suonati senza intervallo.
Ho utilizzato qualcosa dei vecchi canti rivoluzionari. Ho utilizzato qualcosa
dei miei poemi [due dei Dieci Canti op. 88] e dell’operetta di Sviridov
Ogonki [Fiammelle].

La durata è in effetti ben superiore ai 55 minuti, superiore


di circa un 10%. I canti rivoluzionari erano ‘‘Ascolta’’, ‘‘Il
Carcerato’’, ‘‘Siete caduti vittime della lotta fatale’’, ‘‘Infuriate-
vi, tiranni’’, ‘‘Coraggio, marciamo, compagni’’, ‘‘Varšavianka’’.
Il modo della loro utilizzazione solleva un piccolo problema
critico. Come abbiamo visto poc’anzi, Šostakovič prevedeva
che il linguaggio della Sinfonia avrebbe ‘‘mostrato parentele
con i caratteri del canto rivoluzionario russo’’. Non si trattava
di citare i canti ma di renderli coerenti con il linguaggio di
Šostakovič. Il che significava o modificarli in parte o modifica-
re in parte il linguaggio. La soluzione scelta fu la seconda: i
canti sono sempre riconoscibili. Non si trattava però di canti
156 Š O S T A K O V I Č

omofoni, di folclore, ma di canti armonizzati, di un materiale,


secondo la definizione di Bartók, colto-popolaresco. Dei sei
canti utilizzati nel Poema della Madrepatria op. 74, uno solo era
anteriore al 1900, e per di più Šostakovič aveva mantenuto le
parole. Nella Sinfonia strumentale i canti rivoluzionari dove-
vano invece diventare materiale tematico. E Šostakovič ade-
guò il linguaggio armonico della Sinfonia a quello dei canti.
L’effetto è a tutta prima sorprendente: sembra di ascoltare una
composizione scritta alla fine dell’Ottocento o al principio del
Novecento. Ma l’intensità emotiva di tutti i movimenti è tale
da mettere ben presto in ombra questa impressione.
La genialità della soluzione linguistica al problema di uti-
lizzare in una sinfonia l’objet trouvé senza distorcelo non sa-
rebbe però cosı̀ efficace se mancasse un colore adeguato. La
strumentazione è invece il secondo elemento che fa della Sin-
fonia n. 11 un unicum: un colore scuro, cupo, musorgskiano.
L’inizio del primo movimento, specialmente, suona talmente
‘‘musorgskiano’’ che potrebbe essere il preludio della Chovan-
ˇsˇcina, dell’opera alla cui strumentazione Šostakovič avrebbe co-
minciato a lavorare all’inizio del 1958. C’è una specie di com-
penetrazione fra lo stile di Šostakovič e lo stile di Musorgskij
ristrumentato da Šostakovič (nella Chovansˇˇcina ancora di là da
venire e nel Boris Godunov di diciassette anni prima). Non si
tratta soltanto di musica, però, si tratta anche di ideologia:
Musorgskij evoca i tempi dello zar Boris e dello zar Pietro I,
Šostakovič i tempi dello zar Nicola II, entrambi evocano una
oppressione del popolo da parte del potere che rimane identi-
ca a se stessa nel tempo. E in tal senso il primo movimento è
la premessa, la prefazione a ciò che avverrà, la premessa a-sto-
rica di ciò che avverrà nella storia.
Il 24 febbraio, scrivendo a Glikman, Šostakovic aveva det-
to di aver ultimato la ‘‘introduzione per la nuova Sinfonia’’. Si
trattava in effetti del primo movimento, Adagio (La Piazza
Dvorcovaja, cioè la Piazza del Palazzo d’Inverno), che rappre-
senta per appunto, come dicevo, la premessa a-storica del
dramma storico. Il secondo movimento, 9 Gennaio, che alter-
na Allegro e Adagio, è riferito alla giornata in cui la cavalleria
CAPITOLO XIX 157

di Nicola II fece fuoco sulla folla che cercava di avvicinarsi alla


residenza dello zar, lasciando sul terreno centinaia di vittime
innocenti, il terzo movimento, Adagio (L’Ultimo Ricordo, di-
ventato poi Eterna memoria) è il compianto dei caduti, e il fi-
nale, L’Allarme, in più tempi senza soluzione di continuità,
rappresenta la rivolta, con una coclusione clamorosa, ma non
trionfante, con largo impiego di campane e percussioni. Il te-
ma ideologico della Sinfonia è oppressione-rivolta, il carattere
è quello dell’eroico-macabro, non dell’eroico, e il nucleo sen-
timentale che dà l’impronta a tutta la Sinfonia è il dolore, il
dolore immenso, il dolore universale dei popoli oppressi.
L’altissimo significato umanistico della Sinfonia n. 11 viene
sminuito e svilito quando si cerca di interpretarla non in senso
ideologico ma politico. Un musicologo amico di Šostakovič,
Lev Lebedinskij, parlando della prima esecuzione della Sinfo-
nia scrisse: ‘‘Ciò che udimmo in quella musica non era la poli-
zia che faceva fuoco sulla folla davanti al Palazzo d’Inverno,
ma i carri armati sovietici che ruggivano per le strade di Buda-
pest’’. Nell’ottobre del 1956 le truppe sovietiche avevano in-
vaso l’Ungheria, soffocando brutalmente i conati di indipen-
denza che erano seguiti (anche in Polonia) al discorso di
Chruščëv al xx Congresso del Partito. Ora, che gli intellettua-
li sovietici, ascoltando la Sinfonia, potessero pensare a un re-
cente fatto storico, mi sembra del tutto normale. Ma trarre da
questo la conclusione che Šostakovič avesse preso pretesto dal-
la fallita rivoluzione russa del 1905 per bollare i fatti d’Unghe-
ria è un sillogismo del tutto improprio. Šostakovič, come già
ho detto, pensava di comporre una sinfonia ispirata al 1905 fin
dal 1955. E la sua riflessione sulla storia, o anche sulla eternità
dell’oppressione, poteva ben comprendere l’invasione dell’Un-
gheria, ma non era suscitata da quella e a quella legata. E ciò
vale secondo me anche se non si tiene in conto, perché la si
considera dettata dalla prudenza, la esplicita dichiarazione fatta
da Šostakovič alla sua biografa Sof’ja Chentova nel 1974. Alla
domanda se la Sinfonia avesse a che vedere con l’invasione
dell’Ungheria, Šostakovič rispose: ‘‘No, è il 1905, la storia
russa’’.
158 Š O S T A K O V I Č

Šostakovič concluse l’anno 1957 con una tournée in


Ucraina, con questo programma: ‘‘Ouverture festiva, Secondo
Concerto per pianoforte e orchestra (il solista sono io) e l’Undicesi-
ma Sinfonia’’ (a Glikman, 18 dicembre). Al suo catalogo ven-
nero ancora aggiunti i Due Canti popolari russi op. 104 per co-
ro misto a cappella. Il 1958 e il 1959 furono anni prodighi per
Šostakovič di viaggi e di onori e un po’ avari di musica. L’u-
nica composizione importante del ’58, oltre alla strumentazio-
ne della Chovansˇˇcina di Musorgskij, è l’operetta Mosca, Čerëmu-
ˇski op 105. Può stupirci un po’ il fatto che l’autore di undici
sinfonie e di sei quartetti scrivesse un’operetta. In realtà, la
cultura e la didattica sovietiche non facevano distinzioni di so-
stanza, ma solo di grado, fra musica colta e musica popolare, e
i conservatori e le scuole d’arte educavano indifferentemente,
a seconda del talento, cantanti d’opera, d’operetta, di canzoni.
Ad esempio, Vladimir Del’man, grande interprete delle sinfo-
nie di Čajkovskij e di Šostakovič, mi parlò con sincera ammi-
razione delle musiche di Gorni Kramer, di cui aveva preparato
e diretto, quando insegnava nella Scuola d’Arte di Mosca, al-
cune commedie musicali. E Šostakovič accettò di scrivere
un’operetta (che chiamò nella edizione a stampa ‘‘commedia
musicale’’) su un argomento d’attualità. Čerëmuški era un di-
stretto di Mosca in cui si stavano costruendo nuove case po-
polari. Quando l’operetta andò in scena a Mosca, il 24 gen-
naio 1959, Šostakovič presentò alla stampa il suo nuovo lavo-
ro dicendo che in esso c’erano ‘‘liricismo, gags, svariati inter-
ludi, danze, e persino un’intera scena di balletto’’, aggiungen-
do che ‘‘nel disegno musicale sono introdotti talvolta elementi
di parodia e citazioni di motivi popolari da un passato non
troppo remoto e anche da alcune canzoni di autori sovietici’’
(Musica Sovietica, n. 1 del 1959). L’operetta ebbe molto succes-
so, fu entusiasticamente recensita dalla stampa, fu ripresa in va-
ri teatri nell’Unione Sovietica e all’estero, nel 1962 se ne fece
una riduzione cinematografica, ma scomparve ben presto dal
repertorio. I dialoghi parlati non erano all’altezza della musica,
e a ciò è secondo me da attribuire il brusco giudizio che Šo-
CAPITOLO XIX 159

stakovič espresse in una lettera a Glikman del 19 dicembre


1958:
Caro Isaak Davydovicˇ,
frequento diligentemente le prove della mia operetta. Avvampo di vergogna. Se
pensi di venire per la prima, ti consiglio di cambiare idea. Non merita perder
tempo per compiacersi della mia vergogna. È noiosa, mediocre, stupida. È
tutto quello che posso dirti in segreto.

Non sappiamo se Šostakovič cambiasse idea un mese più


tardi. Fatto sta dopo la prima rappresentazione festeggiò il suc-
cesso invitando per un party un bel po’ di collaboratori e di
amici. Nel 1959 ebbero luogo la prima rappresentazione del
Boris Godunov nella strumentazione di Šostakovič, op. 58, il 4
novembre al Kirov di Leningrado, a cui seguı̀ dopo un anno
nello stesso teatro, il 25 novembre 1960, la prima rappresenta-
zione della Chovansˇˇcina, op. 106. Il 1959 è anche l’anno di
composizione del Concerto n. 1 per violoncello op. 107. Ma pri-
ma di parlare del Concerto devo ritornare alle vicende perso-
nali di Šostakovič a partire dal 1958.
In maggio Šostakovič tenne dei concerti a Gorkij, poi, es-
sendo stato nominato membro onorario dell’Accademia di S.
Cecilia, venne a Roma con la moglie, poi ricevette a Parigi il
titolo di Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere.
In giugno ebbe la laurea honoris causa dalla Università di Ox-
ford e fu nominato membro onorario della Royal Academy
of Music di Londra, in ottobre gli fu assegnato a Helsinki il
Premio Sibelius. L’8 febbraio era stato ricevuto al Cremlino
con un foltissimo gruppo di intellettuali, artisti, scienziati. In-
caricato di fare il brindisi a nome dei musicisti, aveva parlato a
braccio in modo tranquillamente convenzionale e aveva alzato
il calice ‘‘al Partito Comunista dell’Unione Sovietica e al suo
Comitato Centrale Leninista, al Governo Sovietico, al grande
Popolo Sovietico’’ (il suo discorsetto fu pubblicato sulla Prav-
da). Chiunque abbia avuto una anche minima esperienza di ri-
cevimenti ufficiali nell’Unione Sovietica sa quanto fosse di
prammatica questa collana di voti augurali. Ma sta di fatto che
Šostakovič accettò di parlare a nome dei colleghi e che le pro-
160 Š O S T A K O V I Č

nunciò, quelle parole, e secondo me con convinzione. In


marzo Šostakovič aveva presieduto la giuria del primo Con-
corso Čajkovskij di pianoforte e di violino, e mentre la sezio-
ne violinistica era stata vinta da un russo, Valerij Klimov, nella
sezione pianistica era risultato vincitore (si dice dopo una tele-
fonata a Chruščëv per ottenerne il placet) l’americano Van
Cliburn.
La vittoria di Van Cliburn e i molti viaggi all’estero di Šo-
stakovič ci dicono che, chiusa la parentesi della invasione del-
l’Ungheria (politicamente senza gravi conseguenze sullo scac-
chiere internazionale, è bene ricordarlo, perché coincidente
con l’occupazione del Canale di Suez da parte della Francia e
dell’Inghilterra), il ‘‘disgelo’’ aveva ricominciato a sciogliere
qualche ghiacciolo. E intanto si sbriciolava anche un blocco
più grosso. Mentre Šostakovič raccoglieva omaggi in Occiden-
te, una risoluzione del Comitato Centrale del Partito Comu-
nista riconosceva il 28 maggio che con la decisione del 10
febbraio 1948 ‘‘dotati compositori, i compagni Prokof’ev, Šo-
stakovič, Chačaturjan. Šebalin, Popov, Mjaskovskij e altri, che
avevano mostrato talvolta errate tendenze in alcune delle loro
opere’’ erano stati ‘‘indiscriminatamente denunciati come rap-
presentanti della tendenza formalista antipopolare’’. Tradotto
senza alcuna ironia nel linguaggio ecclesiastico, che supera in
finezza e il linguaggio politico e il linguaggio diplomatico, nel
1948 si era fatto uno sbaglio nel confondere l’errante con l’er-
rore e nel condannarli sbrigativamente insieme. La ratio, come
dicevo prima, rimaneva invariata, ma gli accusati erano solle-
vati dalle indiscriminate imputazioni. L’intervento del Comita-
to Centrale era tuttavia necessario perché la risoluzione del
1948 era come una legge e per diventare inoffensiva doveva es-
sere riformata.
Scrivendo a Glikman da Gor’kij il 5 maggio, Šostakovič
aveva detto: ‘‘Io suono il Secondo Concerto. Suono male. Per
non so quale ragione, la mano destra ha perso agilità’’. I di-
sturbi alla mano si ripeterono a Parigi, quando Šostakovič suo-
nò e registrò i due Concerti con Cluytens. Si pensò che si
trattasse di tendinite, ma siccome il riposo durante le vaanze
CAPITOLO XIX 161

estive non portò a miglioramenti, alla fine di agosto Šostako-


vič entrò in ospedale e vi rimase in osservazione per sei setti-
mane. Il ricovero gli diede l’occasione per un commento iro-
nico sulla prosopopea delle direttive ufficiali:
Invidio V.Ja. Šebalin, che, avendo perso del tutto l’uso della mano destra, è
riuscito a esercitare la sinistra: scrive tranquillamente con la sinistra. C’è di
più: con la mano sinistra, rispondendo alle direttive storiche che l’arte deve es-
sere più vicina alla vita, più vicina al popolo, ha scritto un’opera sui nostri
contemporanei, che vittoriosamente marciano sotto la direzione del Partito verso
le fulgide vette del nostro futuro, verso il comunismo.

La nuova opera di Šebalin era intitolata Il Sole sulla steppa.


In una lettera a Lebedinskij del 7 settembre Šostakovič ironiz-
za vivacemente su Ždanov padre e su Ždanov figlio, autore,
quest’ultimo, della recensione di un romanzo ‘‘bellissimo e
battagliero, progressista, antireazionario, vivificante, votato alla
causa’’. Il linguaggio sciolto di queste due lettere ci dice che
Šostakovič non aveva nulla da temere, se parlava apertamente
della sua poca o nulla considerazione delle direttive prove-
nienti dall’alto, quando venivano applicate in modo passivo.
Proprio per questa ragione mi sembra significativo il fatto che
nelle lettere posteriori alla morte di Stalin non si trovino ac-
cenni al tiranno, da cui Šostakovič aveva ricevuto persecuzioni
sı̀, ma anche favori, favori che non dimenticava. Fare di Šosta-
kovič un antistalinista viscerale, come è stato dipinto da alcuni,
mi sembra dunque – l’ho già detto – una forzatura priva di
reale fondamento. Šostakovič uscı̀ dall’ospedale in ottobre.
‘‘La mano va meglio’’, aveva scritto a Glikman il 19 settem-
bre, ‘‘solo che per l’immediato futuro non credo che riuscirò
a fare concerti’’. Il malanno, infatti, non era stato debellato e i
problemi della mano destra non sarebbero mai più scomparsi.
162 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XX

QUARTETTO COME AUTOBIOGRAFIA

Nell’estate del 1959 Šostakovič andò in vacanza da solo:


aveva deciso di separarsi dalla seconda moglie e diede al figlio
Maksim l’incarico di provvedere alle pratiche per il divorzio
(garantı̀ poi alla ex-moglie un assegno mensile e le rimborsò
l’affitto di un piccolo appartamento). Questa svolta nella sua
vita, si direbbe, gli portò la serenità che andava cercando da
quando era scomparsa la prima moglie, anche perché i figli
non rappresentavano più per lui un problema: Galina, ormai
ventitreenne, era fidanzata e si sposò in autunno, Maksim,
ventunenne, cominciava a lavorare da professionista. Cosı̀, Šo-
stakovič pubblicò il 6 giugno su Cultura Sovietica un articolo
con cui annunciava grandiosi progetti: una sinfonia sulla figura
di Lenin, un quartetto, un concerto per violoncello di cui era
già pronto il primo movimento. Il Concerto n. 1 in mi bemolle
maggiore per violoncello op. 107 fu composto fra il giugno e il
luglio del 1959, fu dedicato a Rostropovič e fu da questi ese-
guito per la prima volta a Leningrado il 4 ottobre 1959. Nel
dicembre del 1945 Rostropovič aveva vinto nella sua categoria
il Concorso Pansovietico, la cui giuria era presieduta da Šosta-
kovič. Rostropovič aveva poi studiato strumentazione con Šo-
stakovič nel conservatorio di Mosca e aveva eseguito più volte
e registrato in disco la Sonata per violoncello insieme all’Autore.
Ovviamente, il giovane e geniale violoncellista desiderava con
tutte le sue forze che Šostakovič scrivesse qualcosa apposita-
mente per lui, ma Nina, la moglie del Maestro, gli aveva con-
sigliato, se voleva raggiungere lo scopo, di non chiedere nulla
e di aspettare. Rostropovič aspettò... e fu ricompensato.
CAPITOLO XX 163

Ultimata la partitura del Concerto il 20 luglio, a Komaro-


vo vicino a Leningrado, Šostakovič ne preparò la riduzione
per violoncello e pianoforte, chiamò Rostropovič, che si recò
a Leningrado con il suo accompagnatore pianista, e gli fece
avere la musica il 2 agosto. Il 6 agosto Rostropovič e il suo
pianista fecero ascoltare il Concerto a Šostakovič: l’esecuzione
era pressoché perfetta. Šostakovič, molto colpito, invitò i due
a pranzo e poi cominciò a discutere con loro certi particolari
dell’esecuzione. In settembre Šostakovič si recò a Varsavia per
il Festival di musica contemporanea, durante il quale erano
programmati due concerti di musiche sue, ed ebbe occasione
di ascoltare autori d’avanguardia che non venivano eseguiti
nell’Unione Sovietica; in una intervista dichiarò che ‘‘la dode-
cafonia non ha futuro, e in verità non ha neanche un presen-
te’’. Il 21 settembre ebbe luogo l’audizione del nuovo Con-
certo all’Unione Compositori e il 4 ottobre, come detto, ci fu
la prima esecuzione sotto la direzione di Mravinskij, seguita, il
9 ottobre, dalla prima esecuzione a Mosca, direttore Aleksandr
Gauk. Il 6 novembre Rostropovič eseguı̀ il Concerto a Fila-
delfia, sotto la direzione di Eugene Ormandy, e lo registrò
immediatamente per la pubblicazione in disco.
A Filadelfia era presente Šostakovič. Insieme con Chrenni-
kov e Kabalevskij, egli faceva parte di una delegazione ufficia-
le che nel quadro degli scambi culturali fra i due paesi visitò
sette città degli Stati Uniti (Washington, San Francisco, Los
Angeles, Louisville, Filadelfia, New York, Boston). Oltre al
suo Concerto per violoncello a Filadelfia, Šostakovič ascoltò la
Sinfonia n. 10 a Washington e il Concerto n. 1 per pianoforte a
Louisville. Con questo viaggio veniva almeno in parte... ricu-
cita la ferita che si era prodotta nel 1949, anche se le fortune
critiche di Šostakovič non presero ancora, per il momento, il
volo. Šostakovič, sottoposto al solito fuoco di fila di domande
dei giornalisti che volevano cavargli qualche dichiarazione po-
liticamente fuori dal seminato, apparve reticente e nervoso. E
ci fu anche un piccolo incidente. Šostakovič e Kabalevskij
avrebbero dovuto essere intervistati da una televisione a diffu-
sione nazionale, ma Chrennikov chiese che tutta la delegazio-
164 Š O S T A K O V I Č

ne venisse invitata e il network cancellò l’intervista. Ultimata


la visita negli Stati Uniti, Šostakovič e Kabalevskij andarono a
Città del Messico, dove venne eseguita sotto la direzione di
Gauk la Sinfonia n. 5 di Šostakovič. Il 12 dicembre il compo-
sitore rientrò in patria.
La struttura del Concerto n. 1 per violoncello, come quella
del Concerto n. 1 per violino, è caratterizzata dalla collocazione
della Cadenza, come movimento autonomo, fra il secondo e
il quarto movimento. In questo caso la Cadenza, che dura cir-
ca sei minuti, più di quanto duri il finale, media il passaggio
dal meditativo Moderato, secondo movimento, al frenetico
Allegro con moto, quarto movimento. Il tema principale del
primo movimento, Allegretto, formato da sole quattro note,
viene ripreso, trionfalmente annunciato dal corno, nell’ultima
parte del finale. Oltre a ciò è da segnalare il ruolo del corno,
che in alcuni momenti diventa co-solista, e della celesta, che
interviene soltanto nell’ultima parte del secondo movimento.
L’orchestra, con due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagot-
ti, un corno, timpani, celesta e archi, è ridotta sia rispetto al
Concerto n. 1 per violino che al Concerto n. 2 per pianoforte, la
parte solistica è importante e impegnativa ma non virtuosistica
quanto ci si potrebbe attendere, tanto più pensando alla de-
bordante personalità del dedicatario. Il primo movimento, bi-
tematico ma con un secondo tema che viene trattato come
sussidiario, non come altro protagonista, è tutto incentrato sul
tema, o ‘‘motto’’, di quattro suoni, ed è giocoso e burlesco,
tanto da ricordare il primo movimento della Sinfonia n. 9, in
mi bemolle maggiore anch’essa. Ho già detto che Šostakovič
sentiva, e aveva riorganizzato per i suoi fini l’ethos delle tona-
lità. Il mi bemolle maggiore non è per lui eroico, com’è inve-
ce in Beethoven, ma gioioso e persino sbarazzino. E il la mi-
nore, tonalità del secondo movimento, è triste, meditativo. Il
secondo movimento è organizzato, come il primo movimento
del Concerto n. 1 per violino, come grande adagio romantico
che si spegne dolcissimamente dopo avere lentamente rag-
giunto il punto culminante di una espressività introversa. Sem-
bra probabile che l’intervento della celesta nella chiusa abbia
CAPITOLO XX 165

un significato simbolico, un significato di catarsi, di stupefatta


beatitudine. La Cadenza, come dicevo, ha la funzione di me-
diare un passaggio al finale che, senza di essa, sarebbe troppo
brusco e contradditorio. Šostakovič si serve dunque di un ele-
mento tipico della tradizione, la cadenza del solista, non per
esaltare come di norma le virtù del protagonista ma per equili-
brare drammaturgicamente l’opera. E perciò la Cadenza si ani-
ma e risponde veramente al concetto tradizionale di cadenza
solo nella sua ultima, breve parte.
Il finale è basato su temi di carattere popolare. Il primo di
essi, secondo quanto Šostakovič avrebbe confidato a Rostro-
povič, è una versione grottesca di Suliko, canzone georgiana
prediletta da Stalin. Senza volere accusare Rostropovič di
mendacio si può osservare che ciò che egli dichiarò a Elisa-
beth Wilson risale ad anni posteriori alla morte di Šostakovič,
il quale non avrebbe potuto fare, se del caso, la precisazione
che fece invece, come abbiamo visto, a proposito della Sinfo-
nia n. 11. Si può dire piuttosto che tanto il ‘‘motto’’ del pri-
mo movimento quanto il nucleo del primo tema del finale so-
no versioni modificate del tema dsch (le trasmutazioni possi-
bili di queste quattro note sono ventiquattro, senza considera-
re le possibilità di cromatizzazione di una o più note e l’am-
pliamento degli intervalli). Pur non smentendo l’affermazione
di Rostropovič si potrebbe allora vedere, nella somiglianza fra
Suliko e dsch, un segno della fascinazione che la personalità di
Stalin avrebbe esercitato sulla psiche di Šostakovič. Ma questo
discorso ci porterebbe troppo lontano, e con il rischio di ca-
dere nella fantasticheria. Certo, ricordando l’affermazione di
Šostakovič che ho già riportato – ‘‘il compositore [...] non ha
bisogno di dichiarare un programma, ma è obbligato ad averlo
come base ideale dell’opera’’ – ci piacerebbe molto sapere
quale fosse il programma che il Nostro aveva nel cuore quan-
do decise di comporre il Concerto.
L’entusiasmo con cui Šostakovič aveva lavorato nella se-
conda metà del 1959 si mantenne vivo nel 1960, anno in cui
vide la luce il Quartetto n. 7 annunciato su Cultura Sovietica il
6 giugno 1959. E a questo breve ma molto significativo lavo-
166 Š O S T A K O V I Č

ro si aggiunsero un altro Quartetto e un ciclo liederistico. Ho


già fato notare che il Quartetto n. 7 op. 108, essendo in fa die-
sis minore, interrompe lo schema per terze discendenti che
Šostakovič aveva seguito nei primi sei Quartetti. Il Quartetto n.
7 è dedicato alla memoria di Nina, la prima moglie, che nel
1959 avrebbe compiuto cinquant’anni, e il fa diesis maggiore,
tonalità con la quale terminano sia il primo che il terzo movi-
mento, è nella Lady Macbeth del Distretto di Mcensk la tonalità
dell’amore di Katerina. Il rapporto fa diesis minore-fa diesis
maggiore acquista dunque un significato simbolico. Šostakovič
rinunciò secondo me a comporre il suo settimo quartetto in
mi bemolle maggiore, secondo lo schema che aveva seguito
fino a quel momento e che avrebbe ripreso più avanti, perché
soltanto il fa diesis poteva ‘‘contenere’’ l’espressione del suo
sentimento di rimpianto per la moglie scomparsa in ancor gio-
vane età. Si potrebbe dire che il Quartetto n. 7, con i suoi tre-
dici minuti scarsi di durata, è un quartettino, ma il suo conte-
nuto emotivo è intensissimo. Il primo movimento, Allegretto
(quanto volte abbiamo incontrato in Šostakovič, e incontrere-
mo ancora, il tempo Allegretto!) è bitematico senza sviluppo:
esposizione, riesposizione. I due temi vengono però variati
nella riesposizione, il tono espressivo è nello stesso tempo ma-
linconico e gaio, uno dei momenti più affascinanti, sentimen-
talmente, della musica di Šostakovič. Il secondo movimento,
Lento, è trasognato, ipnotico; il nucleo del primo tema del
primo movimento vi ricompare alla fine, modificato: si tratta
in entrambi i casi di quattro suoni che richiamano la ‘‘firma’’
dsch. Il finale, Allegro, inizia in modo tumultuoso e violento,
ma lascia emergere il motto di quattro suoni che diventa il
suggetto di una fuga. Dopo la fuga Šostakovič riprende il tema
del secondo movimento e poi quello principale del primo
movimento; l’epilogo presenta i temi appena uditi in forma di
due valzer, con ripresa, al termine, della conclusione del pri-
mo movimento. Come si vede, gli elementi simbolici, nella
struttura del Quartetto, sono talmente numerosi da far deside-
rare, ancora una volta, che Šostakovič ci avesse svelato il pro-
gramma da lui seguito. Resta, come unica chiave di lettura, la
CAPITOLO XX 167

dedica alla memoria della prima moglie, e su questa ciascun


ascoltatore può ricostruire una traccia. Mi astengo dal dire
quale traccia ci vedo io perché penso opportuno che ciascuno
si formi – o non si formi, se cosı̀ preferisce – la sua interpreta-
zione soggettiva. Il Quartetto Beethoven eseguı̀ il Quartetto n.
7 per la prima volta il 15 maggio 1960 a Leningrado.
Il 1960 fu per Šostakovič un anno esistenzialmente piutto-
sto movimentato. All’inizio di febbraio fu nuovamente ricove-
rato in ospedale per i dolori della mano destra e dovette rima-
nervi per parecchie settimane. In una lettera a Lebedinskij, del
17 febbraio, troviamo riflessioni che sono da mettere in rela-
zione con un importante avvenimento successivo. Šostakovič
parla di un romanzo di Sergej Semënov, Natal’ja Tarpova, che
gli era stato imprestato da un degente e leggendo il quale si
era trovato ‘‘testimone e partecipe della vita degli anni venti
del nostro secolo’’. Šostakovič cita due frasi di uno dei prota-
gonisti, candidamente convinto dei cambiamenti che con il
comunismo sarebbero immancabilmente arrivati nella vita dei
sovietici, e le commenta amaramente:
‘‘Tra un paio d’anni raggiungeremo il livello di vita prebellico e ancora due o
tre anni e raggiungeremo l’America. Ci si sente allargare il cuore dalla felicità
per la prospettiva della nostra crescita’’. Come si accordano bene queste parole
con il nostro tempo! Ma l’azione di Natal’ja Tarpova si svolge a Pietrogrado.
non a Leningrado, ma a Pietrogrado. E già allora si parlava di raggiungere
l’America! Che colpo demolitore ai revisionisti e agli altri opportunisti che so-
stengono che noi cambiamo politica. No, mille volte no! Noi stavamo per rag-
giungere l’America negli anni venti, e ancora negli anni sessanta stiamo rag-
giungendo l’America.

E più avanti, parlando di un articolo riguardante Evtu-


šenko:
[...] Evtusˇenko annuncia di voler essere un autentico militante del Partito,
non di quelli spinti da motivi personali o carrieristici, ma proprio un militante
autentico, che si batte con abnegazione per il trionfo dell’immortale dottrina di
Marx, Engels, Lenin e Stalin. Vuole essere proprio un comunista. Non un
fascista, non un socialista rivoluzionario, non un menscevico, ma proprio un
comunista. E questa, secondo me, è la cosa importante, a questo bisognava ri-
168 Š O S T A K O V I Č

volgere l’attenzione. Il poeta, parlando dell’immagine ideale del Partito, ha


esagerato, sostenendo che al Partito ci si iscriva spinti dal carrierismo. Certo, è
un errore, che sfocia nella calunnia. Ma l’idea del poeta di voler diventare un
vero comunista, che si batte con abnegazione per il trionfo dell’immortale dot-
trina di Marx, Engels, Lenin e Stalin, andava accolta con entusiasmo.

Si può presumere, come avviene spesso, che queste parole


siano intenzionalmente ironiche? Forse sı̀ e forse no. Ma solo
se le si interpretano come espressioni sincere, non come scher-
mi, si può capire secondo me il seguito degli avvenimenti.
Che è questo. Il 9 aprile 1960 Šostakovič fu eletto primo se-
gretario dell’Unione Compositori della Repubblica Russa.
Questa carica comportava quasi inevitabilmente l’iscrizione al
Partito Comunista. E Šostakovič fece in giugno la domanda di
iscrizione, in settembre fu accettato come ‘‘aspirante’’ del Par-
tito e un anno più tardi fu confermato. Il 30 aprile 1960, co-
me primo segretario dell’Unione Compositori, pubblicò sulla
Pravda il suo augurio per il Primo Maggio: ‘‘Stiamo raggiun-
gendo il comunismo. Inneggiare alla più giusta società umana
nella storia è una degna e impegnativa missione per i compo-
sitori. Nel Primo Maggio 1960 io già sento la musica del co-
munismo. E, guardando avanti, io voglio chiamare tutti i
compositori sovietici, mie cari amici, a un ancora più intenso
lavoro e a nuovi successi creativi. Avanti, amici, verso il co-
munismo’’. Certo, chi aveva da poco assunto una carica di vi-
tale importanza per i musicisti non avrebbe potuto parlare di-
versamente. Ma accettando l’elezione Šostakovič non poteva
non sapere che l’ufficialità gli imponeva certi obblighi, com-
presa l’iscrizione al Partito.
Sulle ragioni e sui modi di questa sua decisione si è molto
dibattuto e si continuerà a dibattere ancora. Il che mi sembra
in verità un po’ strano perché se nessuno rimprovera l’apparte-
nenza al Partito a Chačaturjan, a Ojstrach, a Gilels, a Kondra-
šin, nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di rimproverarla a Šo-
stakovič. Ma siccome i rimproveri non sono mancati, e non
sono mancate le appassionate difese, sono in dovere di parlar-
ne. L’epistolario non ci dice nulla in proposito. Le maggiori
CAPITOLO XX 169

informazioni le abbiamo da due amici di Šostakovič, Lebedin-


skij e Glikman, la cui versioni non collimano del tutto e che
per di più, essendo posteriori di parecchi anni alla morte di
Šostakovič, lasciano sospettare una loro dipendenza dalla agio-
grafia che costruiva l’immagine del Nostro, secondo me fanta-
siosa, come antistalinista intus et in cute. Sembra certo che
Šostakovič subisse forti pressioni – qualcuno dice dalle massi-
me autorità, qualcuno dice da solerti funzionari di basso rango
– e che lottasse a lungo con se stesso, ma mi sembra eccessivo
sostenere, come fa Lebedinskij, che per cavarsi dall’impaccio
pensasse addirittura al suicidio. Si disse anche che chi premeva
su di lui lo avesse fatto bere e gli avesse strappato la firma sul
modulo della domanda di iscrizione mentre era ubriaco. Cer-
to è che, dopo l’annuncio ufficiale della sua domanda, uscito
il 28 giugno, Šostakovič, in un certo senso, si eclissò recandosi
a Dresda insieme al regista cinematografico Leo Arnštam, che
aveva girato un film sul terribile bombardamento subito dalla
capitale della Sassonia durante la guerra, quel famoso bombar-
damento in cui le bombe al fosforo avevano causato perdite
umane gravissime e inenarrabili sofferenze ai superstiti. Šosta-
kovič scrisse poi le musiche per il film, Cinque giorni-cinque
notti, op. 111. Ma non subito. Mentre si trovava in Sassonia
compose invece il Quartetto n. 8 in do minore op. 110, che fu
dedicato alla ‘‘memoria delle vittime del fascismo e della
guerra’’.
Era sincera, questa dedica? O era uno schermo che la vit-
tima metteva fra sé e il Potere, a futura memoria? Šostakovič
aveva ricevuto una fortissima impressione, vedendo le rovine
di Dresda e parlando con alcune persone che avevano vissuto
i cinque giorni e le cinque spaventose notti del febbraio 1945.
Penso quindi che la dedica alle vittime non fosse tanto una
furbesca trovata quanto la testimonianza di un profondo senti-
mento di compassione che accomunava tutti gli uomini. E an-
che: la ‘‘fuga’’ a Dresda serviva forse a scansare momentanea-
mente le pressioni dei funzionari comunisti, o al contrario, e a
me sembra più probabile, a evitare i rimproveri e le eventuali
pressioni degli amici? Considerando il fatto che Šostakovič
170 Š O S T A K O V I Č

non si confidò con nessuno mi sembra che entrambe le ipotesi


siano plausibili, o che entrambe giocassero il loro ruolo. Certo
è che l’iscrizione al Partito Comunista, che schierava Šostako-
vič non solo più ideologicamente ma anche politicamente,
non fu ben vista da molti intellettuali. Io non limiterei dun-
que il travaglio spirituale di Šostakovič fra il giugno e il set-
tembre del 1960 alla sua disperazione nel non aver la forza di
resistere alle pressioni dei funzionari di partito, cioè, in parole
povere, alla sua personale codardia. Mi sembra invece che egli
valutasse fino in fondo, e in solitudine, la situazione che si sta-
va creando e che, secondo lo spirito della lettera citata più so-
pra, risolvesse alla fine il conflitto equilibrando gramsciana-
mente il pessimismo dell’intelletto con l’ottimismo della vo-
lontà. Il 17 luglio Šostakovič fu fra gli ospiti di Chruščëv in
un luogo ameno nelle vicinanze di Mosca e, naturalmente,
dovette fare il brindisi a nome dei musicisti. Due giorni più
tardi, il 19, scrisse a Glikman:
Sono tornato dal viaggio a Dresda. [...] La sistemazione che mi avevano tro-
vato là era ideale per dedicarsi al lavoro. [...] Le condizioni propizie alla crea-
zione hanno dato il loro frutto: ho composto là l’Ottavo Quartetto. Per
quanto mi sia sforzato di mettere giù qualche abbozzo per il lavoro del film,
per ora non ci sono riuscito. E invece ho scritto un quartetto che non serve a
nessuno ed è ideologicamente riprovevole. Ho riflettuto sul fatto che, se un
giorno o l’altro morirò, sarà difficile che qualcuno scriva una composizione de-
dicata alla mia memoria. Per questo ho deciso di scriverla io stesso. Sulla co-
pertina si potrebbe scrivere: ‘‘Questo quartetto è dedicato alla memoria del suo
autore’’. Il tema principale del Quartetto sono le note D.Es.C.H., cioè le
mie iniziali (D. Sch.). Nel Quartetto ricorrono temi delle mie composizioni e
la canzone rivoluzionaria Oppresso da duro servaggio. I miei temi sono i se-
guenti: dalla Prima Sinfonia, dall’Ottava Sinfonia, dal Trio [n. 2], dal Con-
certo per violoncello, dalla Lady Macbeth. Per accenni sono citati Wagner
(Marcia funebre dal Crepuscolo degli Dei) e Čajkovskij (secondo tema del
primo movimento della Sesta Sinfonia). Già, ho dimenticato la mia Decima
Sinfonia. Una bella insalata!
La pseudotragicità di questo Quartetto è tale che io, componendolo, ho sparso
tante lacrime, quanta orina si può spandere dopo aver bevuto una mezza doz-
zina di birre. Giunto a casa, un paio di volte ho cercato di suonarlo e di
nuovo ho pianto. Ma questa volta non solo per la pseudotragicità, ma anche
CAPITOLO XX 171

per la meraviglia della splendida compiutezza della forma. E forse entra in


gioco anche un certo compiacimento, ma credo che presto lo spirito di autocritica
mi farà smaltire questa ubriacatura.

Che vorrà mai dire, ‘‘pseudotragicità’’? Forse che ‘‘Op-


presso da duro servaggio’’ è autoironico? Non mi attarderò a
esporrre supposizioni, pensando che il lettore possa ormai farsi
una sua idea sullo stato d’animo con cui Šostakovič affrontò il
problema deontologico che il destino – a cui lui aveva dato
un certo aiuto – gli buttava fra i piedi. Il Quartetto n. 8 è in
cinque movimenti collegati fra di loro: Largo, Allegro molto,
Allegretto, Largo, Largo. L’architettura, come si vede, è del
tutto atipica, soprattutto a causa dei due movimenti lenti con-
secutivi, e risponde evidentemente a un’idea poetica che Šo-
stakovič non ci ha spiegato. Il Quartetto n. 8 è secondo me un
requiem, un requiem per se stesso – e per tutti – dopo il re-
quiem per la prima moglie. Tutti i temi ripresi da altre musi-
che di Šostakovič o di altri autori si infilano come ricami su
un tessuto che li amalgama, tanto che il più delle volte non
sono neppure riconoscibili al semplice ascolto. La scelta dei te-
mi, che non può essere casuale, è molto indicativa: temi che
cantano la tristezza (ricordo al lettore che la Sesta Sinfonia di
Čajkovskij è la Patetica), ma anche, nel quarto e nel quinto
movimento, un motto, ricavato dal nucleo dsch per moto
contrario, che ricorda il Muss es sein?, il Dev’essere?, del
Quartetto op. 135 di Beethoven. E la conclusione in do mag-
giore, che svanisce nel nulla, simboleggia secondo me l’accet-
tazione di ciò che, per quanto doloroso, ‘‘dev’essere’’.
Il Quartetto n. 8 ebbe la prima esecuzione a Leningrado il
2 ottobre, con il Quartetto Beethoven. L’esecuzione fu ripe-
tuta a Mosca il 3 ottobre per l’Unione Compositori e il 9 per
il pubblico, lasciando ogni volta una enorme impressione sugli
ascoltatori. In settembre Šostakovič aveva composto un breve,
suggestivo memoriale, Le Campane di Novorossijsk, per le vitti-
me di una battaglia della seconda guerra mondiale. E prima
ancora, in primavera, aveva composto le Cinque Satire op. 109
per soprano e pianoforte su testi di Saša Čërnyj, nato nel 1880
172 Š O S T A K O V I Č

ed emigrato a Parigi dopo la Rivoluzione. Le Satire furono


dedicate a Galina Višnevskaja, moglie di Rostropovič. La Vi-
šnevskaja racconta che la terza satira, I Nostri Discendenti, po-
tendo essere interpretata come allusione al tempo presente,
avrebbe messo in sospetto le autorità, e dice che fu lei a sug-
gerire a Šostakovič il titolo Quadri del Passato in luogo di Sati-
re. Cosı̀ fu ottenuto il permesso per l’esecuzione, che ebbe
luogo a Mosca il 22 febbraio 1961, con un tale successo da
costringere la Višnevskaja e il marito, che l’accompagnava al
pianoforte, a ripetere l’esecuzione altre due volte. L’esecuzio-
ne alla televisione, che era prevista, non poté invece avere
luogo perché i dirigenti chiesero, e i coniugi Rostropovič non
accettarono, di eliminare I Nostri Discendenti. Dove non era
intervenuta la censura ci pensò l’autocensura...
Il nucleo della poesia di Saša Čërnyj sembra la parafrasi di
ciò che Šostakovič dice nella lettera a Lebedinskij del 17 feb-
braio 1960: ‘‘Noi stavamo per raggiungere l’America negli an-
ni venti, e ancora negli anni sessanta stiamo raggiungendo l’A-
merica’’. Il testo poetico del 1910 dice all’inizio (parlano gli
antenati, che ‘‘strisciavano nelle gabbie’’): ‘‘Col tempo, ragaz-
zi... Sembra che i nostri figli vivranno meglio di noi’’. E la fi-
ne vede i discendenti che ‘‘battono la testa nel muro, maledi-
cendo l’oscurità in cui sono’’. Sembra evidente che un testo
come questo potesse mettere sul chivalà il Partito. Ma forse
bisognava avere l’età di Šostakovič, per capire quanto poco
fossero mutati i tempi. E Šostakovič musicò I Nostri Discenden-
ti a punta secca, con una brevissima, dura introduzione, segui-
ta da un movimento di valzer veloce, percussivo nell’accom-
pagnamento, sillabico come una filastrocca nel canto, un insie-
me che ricorda la quattordicesima Bagatella dell’op. 6 di Bar-
tók, ritratto della fedigrafa fidanzata che balla come un auto-
ma. L’ironia è effettivamente molto forte, nella terza Satira.
Lo è di meno nelle altre (A un critico, Il Risveglio della Primave-
ra, Confusione, Sonata a Kreutzer). L’ultima satira è un micidiale
quadretto della squallida scopata di un tenente e di una lavan-
daia su un sofà. ‘‘Tu sei il popolo, io sono un intellettuale’’,
dice il tenente, ‘‘Alla fine, qui e ora, soli, io ti capisco e tu mi
CAPITOLO XX 173

capisci’’. All’inizio viene citata la Sonata a Kreutzer di Beetho-


ven, che in quel contesto fa uno strano effetto o, meglio, un
effetto di straniamento che raramente compare nella ironia di
Šostakovič. Il successo della prima esecuzione si ripeté in mol-
te altre esecuzioni. La rivista Musica Sovietica scrisse però che si
trattava di una frivolezza: dal Primo Segretario della Unione
Compositori della Russia ci si aspettava altro. E Šostakovič lo
sapeva.
174 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XXI

SINFONIA COME POEMA SINFONICO (II)

Nel settembre del 1960 Šostakovič accompagnò l’Orche-


stra Filarmonica di Leningrado, in tournée a Parigi e a Londra.
A Londra fece la conoscenza di Britten, di cui sarebbe diven-
tato molto amico, e a Londra annunciò in un intervista, per la
prima volta, di aver composto il Quartetto n. 8 sotto l’impres-
sione ricevuta dai racconti dei superstiti del bombardamento
di Dresda, aggiungendo che dedicava il suo nuovo lavoro ‘‘alla
memoria delle vittime del fascismo e della guerra’’. Parlando
alla radio di Mosca il 29 ottobre 1960 disse di stare compo-
nendo la Dodicesima Sinfonia, già più volte annunciata, che sa-
rebbe stata ispirata alla Rivoluzione del 1917 e alla figura di
Lenin, e che avrebbe cosı̀ completato la Undicesima Sinfonia
ispirata alla Rivoluzione del 1905. Ed espose il programma:
‘‘Ho pensato il primo movimento come resoconto musicale
dell’arrivo di V.I. Lenin a Petrogrado nell’aprile del 1917 e del
suo incontro con le masse stremate, la classe lavoratrice di Pe-
trogrado. Il secondo movimento riflette gli eventi storici del 7
novembre. Il terzo movimento tratta della Guerra Civile, e il
quarto della vittoria della Grande Rivoluzione Socialista d’Ot-
tobre’’. Egli asserı̀ inoltre – di ciò, come ho già detto, è lecito
dubitare – di aver assistito all’arrivo di Lenin alla Stazione di
Finlandia. Šostakovič era intanto diventato nonno perché Ga-
lina aveva dato alla luce il suo primogenito, Andrej. E Mak-
sim, ventunenne, si sposava. Šostakovič fu presente al matri-
monio del figlio pochi giorni prima di parlare alla radio: im-
provvisamente, senza essere caduto né essere stato investito, la
sua gamba sinistra cedette: frattura. Il Nostro passò in ospedale
il resto dell’anno e il lavoro sulla Dodicesima Sinfonia dovette
CAPITOLO XXI 175

essere interrotto. La prima parte del 1961 trascorse senza even-


ti rilevanti, ma il 12 aprile Šostakovič ebbe una dimostrazione
della sua popolarità perché Jurij Gagarin, primo uomo che or-
bitò intorno alla terra su una navicella spaziale, fu sentito can-
ticchiare la prima delle Quattro Canzoni op. 86, La Madrepatria
ascolta.
In primavera, finalmente, Šostakovič ricominciò a lavorare
sulla Sinfonia n. 12. Il 12 agosto 1961, da Žukovka vicino a
Mosca, dove aveva acquistato una dacia, cosı̀ scriveva a Glik-
man:
La famiglia è aumentata. Maksim e Lena hanno felicemente avuto un figlio,
che hanno scelto di chiamare Dmitri. Su questo tema ho deciso di applicare il
principio del non intervento. Oggi Galina mi ha annunciato che tra cinque
mesi avrò un altro nipotino, o una nipotina. Tutto ciò è molto piacevole, ma
mi crea un sacco di problemi. In casa comincio a sentire la mancanza di spa-
zio. [...]
Probabilmente tra una settimana o due finirò la Dodicesima Sinfonia. Il primo
movimento è venuto nel complesso bene. Il secondo e il terzo quasi del tutto.
Il quarto, con ogni probabilità, non verrà bene. Faccio fatica a scriverlo.

La Sinfonia fu ultimata il 22 agosto e la riduzione per pia-


noforte a quattro mani il 25. Il 28, scrivendo a Lebedinskij,
Šostakovič diceva:
La Sinfonia è musica a programma, ma non so come chiamare i vari movi-
menti (ce ne sono quattro). Quando ci vedremo gliela mostrerò e Le chiederò
un consiglio, se Lei pensa che sia possibile. Allora Le esporrò anche il pro-
gramma. Non scriverò altre sinfonie. Sono diventato vecchio. Scriverò musica
leggera per strumenti a fiato.

Presentata l’8 settembre all’Unione Compositori dai piani-


sti (e compositori) Moisej Vajnberg e Boris Čajkovskij, e ap-
provata, la Sinfonia n. 12 fu eseguita l’1 ottobre a Leningrado
sotto la direzione di Mravinskij e, nello stesso giorno, a Kuj-
byšev sotto la direzione di Abram Stasevič. Il 14, 15 e 16 ot-
tobre fu eseguita a Mosca nell’ambito del XXII Congresso
del Partito. I titoli erano in parte diversi da quelli della con-
versazione radiofonica dell’anno precedente: Pietrogrado Rivolu-
176 Š O S T A K O V I Č

zionaria, Razliv, Aurora, L’Alba dell’Umanità. Grandioso succes-


so a ogni esecuzione, e ce ne furono moltissime in tutta
l’Unione Sovietica. Ma la Sinfonia non si guadagnò il Premio
Lenin e gli intellettuali la trovarono indigesta. Richter, evi-
dentemente male informato, scrisse nella autobiografia che
‘‘Šostakovič si sentı̀ ferito quando Mravinskij si rifiutò di di-
rigere la Dodicesima Sinfonia, opera, in effetti, piuttosto me-
diocre’’.
C’era davvero qualcosa che non funzionava a dovere, nel-
la Sinfonia n. 12 in re minore op. 112, sottotitolata 1917 e dedi-
cata alla memoria di Lenin? Alla nomenklatura, secondo me,
la Sinfonia non sembrava abbastanza monumentale per la cele-
brazione in pompa magna di un evento-chiave nella recente
storia della Russia: la Sinfonia n. 11 durava circa un’ora, la Sin-
fonia n. 12 durava circa trentasette minuti. E il suo finale, che
finiva ovviamente in re maggiore, era veramente trionfale solo
negli ultimi due dei suoi circa dieci minuti di durata. Per gli
intellettuali il programma doveva sembrare troppo ideologica-
mente orientato, e troppo convenzionale, specie perché il ti-
tolo del quarto movimento era preso pari pari da uno slogan
ormai trito e ritrito. In realtà, secondo me, la Sinfonia n. 12, i
cui quattro movimenti sono collegati, va vista come un poema
sinfonico in quattro parti, non dissimile da certi poemi sinfo-
nici di Strauss articolati in più sezioni contrastanti (ad esempio,
Don Chisciotte e Una vita d’eroe, che durano ciascuno sui qua-
ranta minuti). La musica bordeggia spesso vicino alla illustra-
zione musicale, ma non mi pare che questo sia un difetto, al-
trimenti che cosa dovremmo dire del Temporale nella Pastorale
di Beethoven? In fondo in fondo aveva però ragione Šostako-
vič: il primo movimento è fuso in un solo blocco marziale
senza che l’eroico diventi bombastico, il secondo movimento,
misterioso, notturno, descrive bene il quartiere generale di Le-
nin a Razliv, a una sessantina di chilometri da Petrogrado, il
terzo, ispirato all’incrociatore Aurora che per primo aprı̀ il
fuoco contro il Palazzo d’Inverno, contiene anche le cannona-
te dei timpani e gli squilli della fanfara, ma essendo piuttosto
breve (circa cinque minuti) non diventa ripetitivo. Meno feli-
CAPITOLO XXI 177

ce nella invenzione tematica è secondo me il finale, che tutta-


via non cade nel manierismo del trionfalistico. E gli elementi
‘‘russi’’ del linguaggio, con evidenti riferimenti a Musorgskij e
alla Sinfonia n. 2 di Borodin, accentuano il carattere patriottico
del lavoro.
La Sinfonia n. 12 è tuttavia considerata quasi unanime-
mente la più debole di Šostakovič: ‘‘[...] il suo ordito ideolo-
gicamente ‘allineato’ danneggiò’’, dice Elisabeth Wilson, ‘‘la
reputazione di Šostakovič tra i musicisti e gli intellettuali. E a
peggiorare le cose, l’entusiastica accoglienza ricevuta dalla
Quarta Sinfonia, che era stata attesa cosı̀ a lungo (il permesso di
eseguirla era stato negato per venticinque anni), pareva sottoli-
neare una perdita di vitalità artistica, come se Šostakovič avesse
esaurito il suo possente talento’’. La Quarta Sinfonia fu diretta
per la prima volta da Kondrašin il 30 dicembre 1961 a Mosca,
con grande successo e grande soddisfazione di Šostakovič che,
richiesto se voleva ritoccare la sua vecchia partitura, disse che
pensava di non doverne cambiare una sola nota (se il lettore
ha buona memoria, e ce l’ha di sicuro, ricorderà che Šostako-
vič aveva detto nel 1956 di trovare nella Quarta Sinfonia dei
difetti: aveva evidentemente cambiato idea). L’esecuzione della
Quarta e della Dodicesima Sinfonia al Festival di Edinburgo del
1962 fece pendere la bilancia verso la Quarta e confermò l’im-
pressione che la creatività di Šostakovič stesse declinando. Ma
questa valutazione era secondo me dovuta alla sorpresa, e al
piacere di scoprire la vitalità e la freschezza di una partitura
vecchia di trent’anni. Io penso che Gennadij Roždestvenskij
abbia visto giusto quanto alla premessa del suo ragionamento,
non quanto alla conclusione: ‘‘Soltanto molti anni dopo aver
diretto la Dodicesima Sinfonia e dopo averla registrata, ho com-
preso che non era peggiore della Quarta ma soltanto diversa.
Non è un ritratto di Lenin e degli avvenimenti della Rivolu-
zione che lo riguardavano, piuttosto è un ritratto della ‘propa-
ganda di Lenin’, sul ‘dio Lenin’, il mostruoso idolo creato per
volere di Stalin’’. Mi sembra che qui la vis polemica antico-
munista, per quanto comprensibile negli anni che seguono di
178 Š O S T A K O V I Č

poco il 1989, prevalga sull’accertamento delle intenzioni di


Šostakovič.
C’è un punto che sembra rimanere oscuro e di cui devo
dare notizia, anche se penso che si tratti di una invenzione ri-
conducibile al clima del post-1989. Lev Lebedinskij affermò
che l’intenzione di Šostakovič era di comporre un ritratto ca-
ricaturale di Lenin; dopo averlo composto aveva temuto di at-
tirarsi le ire dell’establishment e in tre giorni aveva cambiato
tutto, scrivendo in pratica un’altra sinfonia. Il racconto ha tut-
ta l’aria di essere romanzesco, e solo il ritrovamento del mano-
scritto della versione ripudiata potrebbe portare elementi di
giudizio nuovi. Lebedinskij mette prudentemente le mani
avanti: ‘‘Credo che una parte del manoscritto originale sia sta-
ta distrutta e che Šostakovič abbia conservato il resto per riuti-
lizzarne in futuro il materiale. La sua vedova, Irina Antonov-
na, potrebbe avere ciò che rimase della partitura originale’’.
Finora, nulla è stato ritrovato, e credo che nulla verrà ritrova-
to per la semplice ragione che nulla, probabilmente, è mai esi-
stito. Io penso che Šostakovič, neoiscritto al Partito Comuni-
sta, intendesse sinceramente onorare la memoria di Lenin ed
esaltare la Rivoluzione, e non mi sembra che si possa trovare
nella Sinfonia n. 12 la minima intenzione contraria a questo fi-
ne. E mi sembra anche che tutte le contorsioni dialettiche che
cercano di ‘‘discolparlo’’ dal peccato di avere dedicato una sin-
fonia a Lenin (e di essersi iscritto al Partito), viste le sue ripe-
tute dichiarazioni pubbliche di piena adesione all’ortodossia,
conseguano soltanto il risultato di affermare e di enfatizzare in
lui una doppiezza d’animo che non vedo confermata da ciò
che di lui sappiamo con certezza.
Nei primi mesi del 1962 Šostakovič fu completamente as-
sorbito dai suoi incarichi ufficiali. A metà gennaio si occupò
del Terzo Congresso dell’Unione Compositori della Russia, in
marzo fu eletto deputato al Consiglio Supremo delle Naziona-
lità dell’urss in rappresentanza di Leningrado, in marzo prese
parte al Terzo Congresso Pansovietico dell’Unione Composi-
tori, e l’1 aprile, come Presidente del Comitato Organizzatore,
aprı̀ il Secondo Concorso Čajkovskij. I suoi impegni di do-
CAPITOLO XXI 179

cente erano aumentati perché nel 1961 aveva ripreso a inse-


gnare nel conservatorio di Leningrado. Ed erano aumentati i
suoi impegni di nonno, perché Galina partoriva un secondo
maschio, Nikolaj. Lo ‘‘spazio abitativo’’ della famiglia divenne
angusto a tal punto che Šostakovič traslocò in un appartamen-
to nel centro di Mosca in cui poteva starsene in pace da so-
lo,... ma per poco tempo, perché ben presto andò a vivere
con lui Irina Antonovna Supinskaja, di ventinove anni più
giovane. E in novembre, quando Irina ottenne il divorzio dal
primo marito, Šostakovič si sposò per la terza volta.
Lev Lebedinskij racconta di avere presentato lui Irina An-
tonovna a Dmitrij Dmitrievič, condendo il racconto con un
dialogo fra lui e Šostakovič in cui il compositore diventa una
figura da scolaretto innamorato e timido che non sembra cor-
rispondere alla realtà. In una lettera a Glikman del 24 giugno
1962 Šostakovič dice semplicemente: ‘‘La conosco da più di
due anni’’. Irina, che lavorava per una casa editrice, aveva cor-
retto le bozze dell’unica operetta di Šostakovič. La convivenza
era iniziata in maggio, dopo che Šostakovič aveva preso pos-
sesso del nuovo appartamento, ma era stata interrotta in giu-
gno da un nuovo ricovero in ospedale, sempre a causa della
mano dolorante. Nella lettera del 24 giugno or ora citata Šo-
stakovič dice:
Mi trovo in ospedale. Ancora una volta stanno facendo dei tentativi per gua-
rire la mia mano. Il ricovero in ospedale non mi rallegra. Soprattutto durante
la luna di miele. Mia moglie si chiama Irina Antonovna. La conosco da più
di due anni. Ha soltanto un difetto: ha ventisette anni. Per tutto il resto è
perfetta. È intelligente, allegra, semplice e simpatica. Viene a trovarmi ogni
giorno e questo mi fa tanto piacere. Mi tratta molto bene. C’è da pensare che
staremo bene insieme.

Il matrimonio fu felice, molto felice, e anche i figli di Šo-


stakovič apprezzarono e amarono la... matrigna, di pochissimi
anni maggiore di loro. ‘‘[Irina]’’, dice Maksim Šostakovič, ‘‘lo
accompagnava ovunque: in tutti i suoi viaggi, all’ospedale e
nei convalescenziari, era la sua segretaria, il suo autista, la sua
infermiera’’. In una lettera a Glikman del 2 luglio Šostakovič,
180 Š O S T A K O V I Č

annunciando l’intenzione di recarsi a Rjazan per conoscere i


‘‘parenti di Irina’’, fece un più ampio ritratto della ragazza:
Irina è molto imbarazzata quando incontra i miei amici. È molto giovane e ti-
mida. Lavora come redattore letterario alla casa editrice Sovetskij Kompozitor.
Dalle nove alle diciassette se ne sta al lavoro. È miope. Non pronuncia la R
e la L. Suo padre era polacco, sua madre ebrea. Entrambi non sono più. Il
padre ha subito le conseguenze del culto della personalità e delle trasgressioni
della legalità rivoluzionaria. La madre è morta. È stata allevata da una zia
materna, quella che ci ha invitato a Rjazan. Come si chiama il villaggio vi-
cino a Rjazan me lo sono dimenticato. È nata a Leningrado. Ecco in breve la
sua descrizione. È stata in orfanotrofio e anche in un orfanotrofio speciale [per
i figli di condannati per motivi politici]. Insomma, una ragazza con un pas-
sato.

Mentre si godeva il tepore di una rinnovata intimità co-


niugale, Šostakovič smentiva il se stesso che aveva affermato di
non voler più scrivere sinfonie. Il 19 novembre 1961 aveva
detto a Glikman di aver composto il Nono Quartetto e di aver-
lo ‘‘bruciato nella caldaia’’ perché non ne era rimasto soddi-
sfatto. Nella primavera del ’62 avvertı̀ il Quartetto Beethoven
che presto sarebbe stato pronto un nuovo quartetto. Il deside-
rio di musicare Babij Jar di Evtušenko, pubblicato nel settem-
bre del 1961, ricacciò indietro ogni altro progetto. Babij Jar
era una cittadina vicino a Kiev nella quale i nazisti, nel 1941,
avevano massacrato tutta la comunità ebraica. Šostakovič com-
pose una cantata per basso, coro di bassi e orchestra sui versi
di Evtušenko, la ultimò il 21 aprile 1962 e la fece sentire al
poeta. Evtušenko disse, dopo la prima esecuzione della Tredice-
sima Sinfonia, che Šostakovič aveva ‘‘tratto fuori la melodia dal
mio intimo, come per magia telepatica, per fissarla con le no-
te’’. Ma la cantata non era più sufficiente, per l’empito dei
sentimenti che scuotevano Šostakovič. A Glikman, il 31 mag-
gio:
[...] mi è venuta in testa l’idea di comporre ancora qualcosa del genere, su
versi di Evtusˇenko. Il suo libro di poesie mi ha fatto venir voglia di scrivere
una sinfonia di cui Babij Jar sia il primo o il secondo movimento. Quando ci
vedremo, ti mostrerò i versi che ho scelto per due movimenti e spero che Evtu-
CAPITOLO XXI 181

ˇsenko adesso componga la poesia che gli ho chiesto. Ecco come si profila la
Tredicesima Sinfonia. Vedrà la luce? Chi vivrà vedrà.

Il disegno architettonico della sinfonia non era tuttavia an-


cora definito. A Glikman, il 24 giugno:
Sto scrivendo una composizione su versi di Evtusˇenko. Si intitola Jumor. È
difficile dire se diventerà il secondo movimento della sinfonia o un altro poema
sinfonico.
Ho iniziato a scrivere anche il terzo movimento (o il terzo poema sinfonico),
Nel Negozio. Evtušenko mi aveva promesso di scrivere la quarta parte, ma è
scomparso chissà dove. Gli telefono ogni giorno, ma non risponde. Insomma,
ci saranno quattro parti. Se ne nascerà una sinfonia o una suite vocale-sinfo-
nica si vedrà in futuro.

E sempre a Glikman, il 2 luglio:


Ho già scritto il secondo e il terzo movimento della Tredicesima Sinfonia. Il
secondo movimento è Jumor e il terzo Nel Negozio. Non mi illudo che questa
composizione possa essere pienamente accettata ma non posso non scriverla.

Il 9 luglio, sempre a Glikman:


Il poeta mi ha mandato, perché scegliessi, cinque poesie. Forse nessuna di esse
mi calza proprio a pennello. Ma lui è andato a Batumi, io sono qui in ospe-
dale e il ‘‘potenziale creativo’’ per ora funziona. E cosı` ho scelto una poesia
che si intitola Paure. È una poesia lunga, un po’ verbosa. Ma la prima metà
mi va quasi del tutto bene. C’è molto di bello anche nella seconda metà. In-
somma, tutti questi discorsi sono senza senso. Ci incontreremo già il 20 luglio
e allora ti mostrerò l’opus completo. Probabilmente lo intitolerò Tredicesima
Sinfonia.

E Tredicesima Sinfonia fu, in si bemolle minore op. 113 per


basso, coro di bassi e grande orchestra. Il timore di Šostakovič
che la Sinfonia potesse destare opposizioni era tutt’altro che
infondato. Il tema dell’antisemitismo era infatti ancora molto
scottante, nell’Unione Sovietica, dopo la campagna scatenata
da Stalin nel 1948. E infatti Šostakovič, tornato in settembre
da Edimburgo dove il Festival gli aveva dedicato una serie di
concerti, seppe che al basso ucraino Boris Gmirja, da lui volu-
182 Š O S T A K O V I Č

to come solista e interpellato a questo proposito, era stato vie-


tato dal Partito locale di prender parte all’esecuzione. Anche
Mravinskij si tirò indietro, giustificandosi col dire che non
aveva mai diretto opere sinfonico-corali – non era vero – ma
soltanto sinfoniche (Richter – il lettore ricorda il suo giudizio
sulla Sinfonia n. 12 – aveva fatto un po’ di confusione). Alla fi-
ne la Sinfonia n. 13 fu diretta da Kirill Kondrašin, a Mosca il
18 dicembre 1962, in barba alle pressioni di zelanti funzionari,
compreso il ministro della cultura della Repubblica russa. Ma
la stampa passò sotto silenzio l’avvenimento.
Il tema di fondo della Sinfonia n. 13 non riguarda soltanto
l’antisemitismo. Scrivendo a Evtušenko l’8 luglio, Šostakovič
diceva.
Mi pare che sia il caso di dedicare qualche parola alla coscienza. Di lei ci
siamo dimenticati, ma ricordarcene è indispensabile. Bisogna riabilitare la co-
scienza, ridarle diritti civili, offrirle una decorosa superficie abitativa nell’anima
umana. Quando avrò terminato la Tredicesima Sinfonia, mi inchinerò ai Suoi
piedi perché Lei mi ha aiutato a rappresentare in musica il problema della co-
scienza.

Šostakovič, similmente a quel che aveva fatto con i ‘‘qua-


dri’’ delle Sinfonie n. 11 e n. 12, scelse cinque poesie che gli
permettevano di mantenere lo schema architettonico tradizio-
nale della sinfonia, allargandolo a cinque movimenti come
nella Sinfonia n. 8. Il primo movimento, Babij Jar, Adagio, è
musica funebre in ritmo di marcia e con campane di morte,
che rievoca le lunghe sofferenze storiche del popolo ebreo e il
luogo del terribile massacro. Il secondo movimento, L’Umore,
Allegretto, che riprende un tema della lirica L’addio di Mac-
Pherson op. 62 n. 3, celebra l’umorismo che si prende gioco
della Autorità, portando a misura collettiva lo spirito del buf-
fone di corte. Il terzo movimento, Nel Negozio, Adagio, è un
inno, grave e solenne e austero, alle donne sovietiche e al loro
lavoro quotidiano, fra cui le lunghe code per l’acquisto di ge-
neri di prima necessità. Il quarto movimento, Paure, che inizia
con un terrificante assolo di tuba, quasi la voce cavernosa di
uno spaventoso drago, è dedicato al terrore di parlare aperta-
CAPITOLO XXI 183

mente con chiunque, anche con la propria moglie. Il riferi-


mento della poesia agli anni delle grandi purghe staliniane è
palese, e Šostakovič ne fu particolarmente colpito: ‘‘Questa
cosa’’, scrisse a Evtušenko l’8 luglio 1962, ‘‘mi fa paura come
se si parlasse a nome mio. Ma io sono stato felice e assoluta-
mente leale con mia moglie buonanima. È come se questo
verso suonasse a offesa della sua limpida memoria. E adesso ho
un’ottima moglie, con cui non potrei essere sleale. Ma in fon-
do, adesso, come Lei afferma, sono altri tempi’’. Il quinto mo-
vimento, La Carriera, Allegretto, ricorda coloro, e prende di
mira Galileo, che pronunciarono una abiura. Il movimento
svanisce nel nulla, come spesso avviene in Šostakovič, con i
suoni della celesta e della campana che assumono qui un signi-
ficato simbolico.
È evidente che c’era di che fare più che il solletico a chi,
pure nella atmosfera della destalinizzazione, intendeva sedare e
sopire tutto ciò che odorasse di polemica e con il passato e
con il presente. La sorda lotta di potere che avrebbe portato
nell’ottobre del 1964 alla sostituzione di Chruščëv con Brež-
nev era del resto già in atto, e i venti di una parziale controri-
forma, dopo la parziale riforma, già si facevano sentire. Per la
seconda esecuzione della Sinfonia, a Mosca il 10 e l’11 feb-
braio 1963, Evtušenko modificò otto versi, che cambiavano
sostanzialmente il tema ideologico di Babij Jar perché ricorda-
vano, accanto agli ebrei, i russi e gli ucraini trucidati dai nazi-
sti. Tuttavia il numero delle esecuzioni della Sinfonia n. 13 fu
limitato. Chi ritiene che la Sinfonia n. 12 sia la più debole ve-
de nella Sinfonia n. 13 la rinascita, la ripresa delle forze creatri-
ci di Šostakovič. Questo può essere vero ideologicamente: la
critica all’antisemitismo, alle purghe, alle condizioni di vita
della popolazione sono più nobili dell’omaggio a chi era stato
la causa indiretta dei mali che avevano afflitto e affliggevano la
società sovietica. Quell’accenno alla coscienza ci fa pensare del
resto – e chissà se questa riflessione non sia stata originata dal
racconto di ciò che era accaduto a Irina e alla sua famiglia! –
ci fa pensare, dicevo, che Šostakovič, dopo essersi con l’iscri-
zione al Partito schierato politicamente, intendesse riprendere
184 Š O S T A K O V I Č

la sua libertà di giudizio sulla storia. Ma per quanto riguarda il


linguaggio musicale la Sinfonia n. 13 prosegue e conclude l’e-
sperienza avviata con la Sinfonia n. 11. Musorgskij è sempre il
Virgilio che indirizza e guida, la Sinfonia, per usare la locuzio-
ne dei Quadri di una esposizione, è ‘‘in modo russico’’, la rivo-
luzione del 1905 e la rivoluzione del 1917 si saldano con il
loro seguito, e il tema, come Šostakovič diceva della Sinfonia
n. 11, è sempre ‘‘la storia russa’’. Il primo movimento della
Sinfonia n. 13, se non fosse stato scritto per primo come canta-
ta indipendente, avrebbe potuto drammaturgicamente essere il
terzo, e il quarto avrebbe potuto essere il primo. Uno sposta-
mento di questa fatta avrebbe distrutto la rete dei rapporti to-
nali e modali fra i cinque movimenti, ma avrebbe reso ancora
più evidente il disegno drammaturgico. Il blocco delle Sinfonie
nn. 11-13 è in realtà una trilogia sulla storia russa nel Nove-
cento, e in quanto tale rappresenta nel suo complesso uno fra
i più alti traguardi creativi di Šostakovič. A questo Šostakovič
epico succederà, nelle ultime due sinfonie, lo Šostakovič lirico
che si interroga sul suo destino.
CAPITOLO XXII 185

CAPITOLO XXII

ELOGIO DEL RIBELLE

Ho accennato di sfuggita al Festival di Edimburgo, duran-


te il quale furono eseguti, di Šostakovič, gli otto Quartetti, il
Concerto per violino e il Concerto per violoncello, i Due Pezzi op.
11, frammenti della Lady Macbeth, le Satire, le Sinfonie nn. 4,
6, 8, 9, 10 e 12: una vera e propria retrospettiva, che diede
modo a Šostakovič di rivalutare, anche criticamente, il suo or-
mai lungo cammino di creatore. Da Edinburgo Šostakovič
passò a Londra per altri due concerti di musiche sue. E rientrò
a Mosca giusto in tempo per incontrarvi Stravinskij, che ritor-
nava in patria per un giro di tre settimane dopo più di qua-
rant’anni di assenza. Šostakovič aveva tenuto in alta considera-
zione le musiche ‘‘russe’’ di Stravinskij e aveva ammirato mol-
to la Sinfonia di Salmi, mentre si era espresso in modo assai
aspro sulla poetica stravinskiana (il 9 settembre 1971, scrivendo
a Glikman, Šostakovič avrebbe detto, di Stravinskij: ‘‘Come
compositore lo venero. Come pensatore lo disprezzo’’). Stra-
vinskij, da parte sua, aveva giudicato ‘‘provinciale’’ la Lady
Macbeth quando, negli anni trenta, era stata rappresentata negli
Stati Uniti. I due artisti si incontrarono al ricevimento ufficiale
che venne offerto a Stravinskij l’1 ottobre dal ministro della
cultura Ekaterina Furceva e poi il 10 durante una cena,... sem-
pre ufficiale. Non risulta che ci fossero incontri privati fra i
due. Šostakovič assistette a un concerto diretto da Stravinskij,
notoriamente debole direttore, e sembra che vedendo il colle-
ga agitare la bachetta si sentisse incoraggiato a salire a sua volta
sul podio.
Il lavoro di Šostakovič sulla Chovansˇˇcina di Musorgskij e la
prima esecuzione del Boris Godunov nella strumentazione di
186 Š O S T A K O V I Č

Šostakovič, come ho già detto, risalgono al periodo in cui


vengono composte le Sinfonie n. 11 e n. 12. Contemporanea
della Sinfonia n. 13 è la strumentazione per orchestra dei Canti
e danze della morte, completata il 31 luglio 1962 per Galina Vi-
šnevskaja. La cantante e il marito pensarono di riservare la pri-
ma esecuzione a un neonato festival nella città di Gorkij. Il
concerto ebbe luogo il 12 novembre 1962 e vide l’esordio –
che non ebbe nessun seguito – di Šostakovič come direttore
d’orchestra: nella prima parte l’Autore diresse la Ouverture festi-
va e il Concerto n. 1 per violoncello con Rostropovič solista, nella
seconda parte Rostropovič, anche lui al suo esordio, diresse i
Canti e canze della morte e gli Interludi della Lady Macbeth del
Distretto di Mcensk. La Lady era stata ritoccata da Šostakovič,
era diventata Katerina Izmajlova, op. 114, e stava per essere
rappresentata. Come il lettore ricorderà, Šostakovič aveva la-
vorato a ‘‘riformare’’ la sua vecchia opera già nel 1955-56, ma
la nuova versione, sottoposta al giudizio di tre esperti nomina-
ti dal primo ministro Molotov, era stata bocciata. Solo nel
1962, dopo vari tentativi andati a vuoto e dopo un ulteriore
esame presso l’Unione Compositori che ebbe luogo nel 1961,
si aprı̀ con il Teatro Stanislavskij di Mosca una concreta pro-
spettiva di mettere in scena la Katerina Izmajlova. Il regista Lev
Michajlov fece però una singolare proposta, di cui Šostakovič
parla in una lettera a Glikman del 27 gennaio:
[...] L.D. Michajlov si è appartato con me in ufficio e con ispirato calore e
spruzzando saliva e gesticolando, mi ha messo a parte delle sue concezioni
creative per l’allestimento della Lady Macbeth. Per quanto ci abbia già fatto
l’abitudine, non ho potuto fare a meno di meravigliarmi per l’originalità delle
concezioni creative del regista.
‘‘Per riscaldare il personaggio di Katerina L’vovna, bisogna giocare sulla gravi-
danza. Il suo sogno di un bambino (di lei con Sergej). Che lo sogni, che ne
canti. Per dare spazio ai suoi sogni bisogna riscrivere le parole delle arie che
già ci sono e assolutamente comporne ancora due o tre’’. Parlava di queste cose
con ispirato calore.

A dire il vero, a me non sembra che Michajlov avesse poi


tutti i torti, perché nel racconto di Leskov Katerina, sterile
CAPITOLO XXII 187

durante il matrimonio e perciò rimproverata dal suocero, met-


te al mondo un figlio quando diventa l’amante di Sergej (e ri-
fiuta di portare con sé il bambino in Siberia). Comunque, Šo-
stakovič non seguı̀ affatto i suggerimenti di Michajlov. L’opera
andò in scena alla chetichella a Mosca il 26 dicembre 1962,
sostituendo il Barbiere di Siviglia che era annunciato nel cartel-
lone. Il 6 gennaio 1963 seguı̀ la prima rappresentazione uffi-
ciale. Molti teatri sovietici e stranieri (fra cui Londra e Vienna)
misero in produzione l’opera fra il 1963 e il 1965, e Šostako-
vič viaggiò incessantemente per controllare che le esecuzioni
rispettassero le sue prescrizioni, fra cui quella di non fare nes-
sun taglio. Evtušenko scrisse una poesia intitolata La Seconda
Nascita. E Šostakovič, apprezzando i versi, si risentı̀ un po’ per
il titolo:
Non mi piace il titolo La Seconda Nascita. La mia musica non è mai morta e
quindi non aveva bisogno di nascere una seconda volta (a Glikman, 7 gen-
naio 1962).

Šostakovič dimostrò comunque di preferire la nuova ver-


sione alla vecchia, anche se non tutti i suoi amici, a comincia-
re da Galina Višnevskaja, furono d’accordo con lui. In realtà
ci sono ragioni per dare la preferenza sia alla prima che alla se-
conda versione. Nella seconda versione vengono modificati al-
cuni versi che rispecchiavano crudamente il carattere di sen-
sualità animalesca della protagonista, e vengono attenuati molti
‘‘eccessi’’ di violenza linguistica della musica, comprese le urla
dei tromboni che sottolineavano il primo amplesso di Katerina
e Sergej e che erano stati definiti ‘‘pornofonia’’: in questi casi,
secondo me, è preferibile la prima versione. Di grande qualità
musicale sono invece l’Intermezzo fra il primo e il secondo
quadro e l’Interludio del terzo atto fra la scena della polizia e
la scena del matrimonio, completamente rifatti nella seconda
versione e che sembrano a me più efficaci drammaturgicamen-
te. ‘‘Sono stato in grado di realizzare molte correzioni e mi-
gliorie nella nuova versione’’, scrisse Šostakovič allo scenogra-
fo Nicola Benois il 5 maggio 1964, quando seppe che la Scala
188 Š O S T A K O V I Č

intendeva mettere in scena la Lady Macbeth invece che la Kate-


rina Izmajlova. E in sostanza era vero. La scelta dell’una o del-
l’altra versione dipende dunque innanzitutto da ragioni di gu-
sto e di concezione drammaturgica di chi mette in scena l’o-
pera. Tuttavia si può dire che in genere viene preferita la spa-
smodica tensione della prima versione.
Come ho detto, Šostakovič viaggiò molto nel 1963 per
assistere a varie produzioni della Katerina Izmajlova e per ese-
cuzioni di altre sue musiche, con accompagnamento di ricevi-
menti, incontri, brindisi, banchetti, ecc. ecc. In maggio fu di
nuovo ricoverato in ospedale per curare la mano destra, e du-
rante tutto l’anno compose poco, ma non soltanto perché pas-
sava da un impegno mondano all’altro: dopo il grande, febbri-
le sforzo creativo sulla Sinfonia n. 13 si sentiva svuotato di for-
ze (‘‘Ho la testa vuota. Progetti artistici non ne ho. O meglio,
ne ho, ma senza forza, senza ‘ispirazione’. È naturale. Sono
vecchio’’, a Glikman, 6 maggio 1963). Per accontentare Ro-
stropovič fece una nuova strumentazione del Concerto per vio-
loncello di Schumann, pubblicata più tardi con il numero d’o-
pera 125, orchestrò i Due Cori dell’ex-iscritto alla Associazione
Russa dei Musicisti Proletari Alexandr Davidenko, op. 124,
compose la Ouverture su temi popolari russi e chirghisi op. 115
dopo un soggiorno nella repubbica centroasiatica che festeg-
giava il centenario della incorporazione nell’impero russo. Due
temi chirghisi e un tema russo (siberiano, in verità) per una
pagina celebrativa perfettamente adatta alla circostanza e, come
sempre, superbamente orchestrata dal chi era stato allievo del
genero di Rimskij-Korsakov.
Ultimo impegno del 1963 furono le musiche per il film
Amleto, op. 116. Šostakovič non riprese le musiche di scena
per l’Amleto, di trent’anni prima, che come il lettore ricorderà
erano state pensate per una ‘‘rivisitazione’’ in chiave grottesca
del dramma shakespeariano, e non riprese neppure le poche
pagine originali per un’altra messa in scena del 1954, per la
quale aveva utilizato molta della musica di scena per il Re
Lear. L’Amleto filmico era aderente all’originale teatrale e per
esso Šostakovič compose una musica che contribuı̀ non margi-
CAPITOLO XXII 189

nalmente al successo internazionale della pellicola. Tanto per


orientare il lettore, che potrebbe trovarsi spaesato di fronte a
diverse registrazioni discografiche, dirò che delle varie musiche
per l’Amleto si può oggi ascoltare la suite sinfonica di tredici
pezzi, preparata dall’Autore dalla versione del 1932, o la suite
di otto pezzi, curata da Lev Atovmjan dalla versione del 1963.
Michail Pletnëv ha invece curato una suite di undici pezzi,
con una parte delle musiche di scena del 1932 e con quelle
del 1954.
Nel 1964 Šostakovič continuò a fare diligentemente il co-
lombo viaggiatore, ma riprese a comporre con una certa in-
tensità. A febbraio fu a Gorkij per un grosso festival – quaran-
ta concerti in nove giorni – dedicato a lui e ai suoi allievi. E
durante il festival annunciò la sua intenzione di comporre nel
giro di un paio d’anni un’opera tratta dal romanzo Il Placido
Don di Šolochov. L’opera fu messa in cartellone sia dal Bol’šoj
di Mosca che dal Kirov di Leningrado nella stagione 1966-
1967, ma sembra che Šostakovič non ne scrisse neppure una
nota. Il 28 maggio 1964 fu invece ultimato il Quartetto n. 9 in
mi bemolle maggiore op. 117, dedicato alla terza moglie, e il 21
luglio il n. 10 in la bemolle maggiore op. 118, dedicato all’amico
Moisej Vajnberg. La prima esecuzione di entrambi i Quartetti
ebbe luogo a Mosca il 21 novembre con il Quartetto Beetho-
ven. Non sarà sfuggito al lettore il fatto che dopo aver ‘‘anti-
cipato’’ nel Quartetto n. 8 la tonalità di do minore, Šostakovič
completava con il mi bemolle maggiore del n. 9 lo schema
per terze discendenti, e proseguiva poi coerentemente con il
la bemolle maggiore del n. 10. La dedica alla giovane moglie
e il carattere del Quartetto n. 9 fanno pensare a un sostrato
autobiografico, una specie di ‘‘ritorno alla vita’’ dopo il dram-
ma del Quartetto n. 8. Il mi bemolle maggiore, come sappia-
mo, è del resto per Šostakovič una tonalità gioiosa, non una
tonalità beethovenianamente eroica. I cinque movimenti, di-
sposti simmetricamente con due Adagio in seconda e in quarta
posizione, vengono eseguiti senza interruzioni. La simmetria è
però più apparente che reale perché mentre i primi quattro
movimenti oscillano fra i tre minuti e mezzo e i quattro mi-
190 Š O S T A K O V I Č

nuti e mezzo ciascuno, il quinto movimento sfiora i dieci mi-


nuti. Il quinto movimento riassume i primi quattro ed è mol-
to più vario perché trascorre dalla marcia al valzer al recitativo
al fugato. Un tema del primo movimento che ricorda il tema
della Ustvol’skaja citato nel Quartetto n. 5, e un tema, nel
quarto movimento, chiaramente derivato dal tema della morte
di Ofelia nelle recenti musiche per il film Amleto appaiono
enigmatici, nel contesto di un pezzo dedicato alla moglie e
per gran parte sereno e scherzoso. Sappiamo – l’ho già detto
più e più volte – che Šostakovič partiva sempre da un ‘‘pro-
gramma’’, e ci spiace di non avere le sue spiegazioni delle in-
tenzioni seguite nel Quartetto n. 9. Ma forse, in questo caso,
neppure lui avrebbe saputo dire perché questa sua creazione
presentava particolari cosı̀ sorprendenti.
La struttura del Quartetto n. 10 è più tradizionale: quattro
movimenti, con il terzo e il quarto collegati. Anche qui, però,
il finale acquista una insolita rilevanza, sia perché è il più lun-
go dei movimenti, sia perché riprende alcuni temi dei movi-
menti precedenti, con una vera e propria citazione, alla fine,
dell’inizio del primo movimento. L’Andante iniziale, sereno,
arcadico, è in forma-sonata, con inversione nella riesposizione
dei due temi principali. Il secondo movimento, Allegretto fu-
rioso, è in sostanza uno scherzo, rude e bizzarro, molto ‘‘šo-
stakoviciano’’; il terzo movimento, Adagio, grave e meditati-
vo, è in forma di passacaglia, e il finale, Allegretto, è una mar-
cia con trio, ampiamente sviluppata. Dopo la citazione del pri-
mo movimento, Andante, riappare un fantasma della marcia,
che chiude il Quartetto come se la musica si allontanasse e
sparisse. La dedica a Moisej Vajnberg nasconde uno scherzosa
allusione. Vajnberg, polacco di origine ed ebreo, era amico di
Šostakovič da lunga data ed era molto stimato da lui come
compositore. Sebbene fosse di tredici anni più giovane di Šo-
stakovič, il fecondissimo Vajnberg aveva scritto nel 1963 il suo
Quartetto n. 9. Con il suo Quartetto n. 9 Šostakovič... pareggia-
va dunque il conto, e con il n. 10 sopravanzava l’amico, che
peraltro gli avrebbe reso subito la pariglia e che al... termine
CAPITOLO XXII 191

della corsa lo avrebbe superato con diciassette quartetti contro


quindici.
Il Quartetto n. 10 fu composto a Dilizan, in una casa-va-
canze dell’Unione Compositori dell’Armenia. Šostakovič vi
aveva trascorso le vacanze già nel 1963:
Immersi in una stupenda natura selvaggia, sono stati costruiti dodici cottage
dotati di tutti i conforti, compreso il gas. [...] Aria di montagna, boschi fittis-
simi. Camminare è difficile, perché il terreno circostante non è piano. O ti ar-
rampichi su, o scendi giù. Ciò nondimeno passeggiamo molto, anche se è
molto faticoso, per colpa della gamba fratturata. Ma cammino nella ferma spe-
ranza di far calare la pancetta, che mi cresce senza sosta (a Glikman, 7 lu-
glio 1963).

Dopo il periodo trascorso a Dilizan nel 1964 Šostakovič e


la moglie fecero un’altra vacanza in Ungheria, sulle rive del
Lago Balaton. Vacanza sı̀, ma laboriosa: in Ungheria Šostako-
vič cominciò a lavorare al poema sinfonico L’Esecuzione di
Sten’ka Razin op. 119 per basso, coro misto e grande orche-
stra, su versi di Evtušenko. Il 15 settembre Šostakovič scrisse a
Glikman dicendo:
Recentemente sono stato poco bene. Mi sono intossicato con qualcosa, poi ho
preso il raffreddore.
Ma la diarrea creativa continua: ieri ho finito un grande poema sinfonico, un
poema del tipo Babij Jar, per basso, coro misto e orchestra. Si chiama L’Ese-
cuzione di Sten’ka Razin. Il poeta è lo stesso: E. Evtusˇenko. La lunghezza
di questo opus è di trentotto minuti. Non ci sarà una continuazione, benché
dapprincipio pensassi di fare qualcosa del genere della Tredicesima Sinfonia.
[...]
Il poema l’ho scritto in stile russo. C’è materiale per i critici di animo buono
e per quelli severi. Per esempio: spesso cado nel crudo naturalismo. In modo
naturalista è descritto il prurito alle cosce di ragazze di malaffare. In modo na-
turalista sono descritte le pulci che saltano dai pastrani sui pelliccioni ecc. Non
parlo nemmeno della trama, che è totalmente depravata.

Šostakovič prevedeva, impippandosene alla grande, quello


che avrebbero potuto dire i critici che erano rimasti ligi all’or-
todossia del realismo socialista. Ma per una volta tanto non fu
buon profeta. Del resto un altro cosacco, Taras Bul’ba, era di-
192 Š O S T A K O V I Č

ventato un eroe nazionale russo, e Leóš Janáček, nella sua ra-


psodia sinfonica del 1915-1918 ispirata al racconto di Gogol’,
aveva voluto glorificare l’eroismo e la forza del popolo russo,
non l’autonomismo delle tribù cosacche. Stepan (Sten’ka) Ra-
zin, nato verso il 1630, era un eroe popolare, una specie di
Spartaco. Aveva capeggiato una rivolta di cosacchi (servi della
gleba, disertori, battellieri, diseredati), aveva conquistato diver-
se città e aveva fondato la Repubblica Cosacca, abolendo tutti
i privilegi di classe. Era stato infine catturato dai russi e giusti-
ziato nel 1671. La figura di Razin, divenuta leggendaria, aveva
ispirato molte canzoni popolari delle regioni che erano state
percorse dalle sue bande di ribelli, e Glazunov aveva compo-
sto nel 1885 il poema sinfonico Sten’ka Razin, utilizzandovi
come tema principale il famoso Canto dei battelieri del Volga.
Alla figura di Sten’ka Razin era ispirata la Sinfonia n. 8 di Mja-
skovskij (1923-24) e nel 1949 l’allieva di Šostakovič, Galina
Ustvol’skaja, aveva composto la cantata per basso e orchestra
Il Sogno di Sten’ka Razin. La poesia di Evtušenko, da cui Šo-
stakovič eliminò alcuni versi che non lo convincevano, ripren-
de la leggenda ed esalta il ribelle, facendone un rivoluzionario
con un progetto politico. Non abbiamo dichiarazioni in pro-
posito di Šostakovič, ma sembra a me molto probabile che ad
attirare il compositore fossero i ricordi di quegli amici, special-
mente Mejerchol’d e il maresciallo Tuchačevskij, che erano
stati vittime di Stalin. Questa potrebbe essere stata la molla
che aveva mosso qualcosa nell’animo di Šostakovič, ma il ri-
sultato è di una grandiosità e drammaticità epica che va ben
oltre qualsiasi stimolo autobiografico.
Il primo movimento della Sinfonia n. 13 era stato pensato
dapprima come poema sinfonico, L’Esecuzione di Sten’ka Ra-
zin – lo abbiamo appena visto – era stato pensato dapprima
come movimento iniziale di una sinfonia. Credo che, pragma-
ticamente, i circa diciotto minuti del poema sinfonico Babij Jar
avessero indotto Šostakovič ad allargare il primitivo progetto e
a comporre una sinfonia, e che i circa quaranta minuti della
Esecuzione di Sten’ka Razin gli avessero consigliato di non pro-
seguire oltre. È comunque evidente che il poema sinfonico è
CAPITOLO XXII 193

una specie di appendice della sinfonia – potremmo aulicamen-


te parlare di paralipomeni del suo secondo movimento, Umore.
Poema sinfonico, nominalmente, ma in realtà una vera e pro-
pria scena d’opera, un finale d’opera, che si apre con l’accorre-
re tumultuoso della folla moscovita (con i ‘‘pruriti’’ e le pulci
di cui parla Šostakovič) che si affretta a recarsi sulla piazza in
cui si svolgerà lo ‘‘spettacolo’’, il supplizio del ribelle cosacco.
Il condannato, condotto su un carro, parla dei suoi ideali e
rimpiange soltanto di non aver maggiormente dato addosso ai
boiardi. Egli vede la folla anonima trasformarsi in una massa
umana e capisce che la sua morte non sarà vana. Una musica
di danza incita la folla a dimostrare la sua esultanza per la pu-
nizione del bandito, ma nulla accade. Campane di morte. E
Sten’ka Razin viene decapitato, ma la sua testa staccata dal bu-
sto irride lo zar, terrorizzandolo. Šostakovič definisce benissi-
mo la sua musica: naturalismo, nessuna sublimazione di una
vicenda di orrore, un quadro di barbarica crudezza che provo-
ca un forte shock nell’ascoltatore. La censura non intervenne
e la prima esecuzione ebbe luogo, direttore Kondrašin, il 28
dicembre 1964 a Mosca. Tuttavia – fosse o no un caso – il
basso solista non si presentò alla prova generale e fu sostituito
da un altro cantante che l’accorto Kondrašin aveva tenuto di
riserva, quello stesso Vitalij Gromadskij che aveva cantato alla
prima della Tredicesima Sinfonia. Il 5 gennaio 1965 ebbe luogo
la seconda esecuzione, con gli stessi interpreti. Seguirono ese-
cuzioni in varie città sovietiche, senza che si verificassero at-
tacchi ‘‘ideologici’’. Tuttavia solo nel novembre del 1968 L’E-
secuzione di Sten’ka Razin fu insignita di un Premio di Stato.
Il 1965 fu un altro anno di viaggi e di impegni mondani,
con poca musica. Il trasferimento in film della Katerina Izmaj-
lova tenne occupato Šostakovič per più mesi, e la musica per il
film Un anno è come una vita op. 120, dedicato alla vita di
Marx, lo fece tribolare non poco (‘‘Ho praticamente finito il
mio faticoso lavoro alle musiche per Karl Marx. Il 21 giugno
ci sarà l’ultima registrazione. Questo lavoro aggiungerà pochis-
sime foglie al mio serto d’alloro’’, a Glikman, 16 giugno
1965). Per le vacanze fu scelta una località della Bielorussia
194 Š O S T A K O V I Č

orientale (‘‘Ho visto degli uri. Sono molto imponenti, fanno


persino paura. È molto piacevole aver a che fare con animali
non spaventati: cervi, montoni (tipo cavalli), cinghiali ecc.’’, a
Glikman, 16 agosto). Il 30 agosto Šostakovič lesse sul giornale
satirico Krokodil ‘‘alcune sciocchezzuole divertenti’’. Ne mu-
sicò cinque, Cinque Romanze per basso e pianoforte op. 121, e
spiegò le sue intenzioni scrivendo a Glikman il 4 settembre:
Nel linguaggio musicale di questo opus si usa l’arte popolare (la canzone po-
polare russa In Giardino oppure nell’orto) e il nostro patrimonio classico (l’o-
pera La Dama di picche di Čajkovskij). Inoltre si utilizza il Dies irae. Com-
ponendo queste romanze mi sono valso dei metodi del realismo socialista.

I testi, scelti fra le lettere inviate alla rivista, sono involon-


tariamente comici, ma la musica, tranne quella della seconda
Romanza, è seriosa e persino tragica (il Dies irae della terza
Romanza). Il senso del grottesco, come sempre molto vivo in
Šostakovič, nasce proprio dal contrasto fra la leziosità del testo
e la gravità della musica, e la voce di basso, spinta spesso verso
gli estremi della sua estensione, contribuisce ulteriormente a
conferire alle Cinque Romanze un’espressione stralunata. La
prima esecuzione ebbe luogo a Leningrado il 28 maggio
1966, con Evgenij Nesterenko accompagnato al pianoforte
dall’Autore. Nei restanti mesi del 1965 Šostakovič aveva potu-
to assistere – con sua grande gioia – alle esecuzioni della Tredi-
cesima Sinfonia a Mosca e a Gorkij. Stava intanto per scoccare
il 1966, il sessantesimo anno di vita di Šostakovič, diventato
ormai un’icona delle musica sovietica, ed era in preparazione
un documentario. Doveroso, il documentario, sicuramente.
Ma anche ricco di trappole. Nell’autunno del 1964 Chruščëv
era stato sostituito da Brežnev e, come ho già detto, si stava
avviando la controriforma dopo lo scossone del xx Congresso.
Nel febbraio del 1966 sarebbe cominciato il processo agli
scrittori Sinjavskij e Daniel’, preludio di una svolta politica che
avrebbe portato Brežnev a ordinare nel 1968 l’invasione della
Cecoslovacchia. Come si sarebbe dovuto parlare, nel docu-
mentario su Šostakovič, degli episodi del 1936 e del 1948? E
CAPITOLO XXII 195

si poteva parlarne? La sceneggiatura fu mostrata per una con-


sulenza ad Aram Chačaturjan, il quale ritenne, e sicuramente a
ragione, che non fosse stato messo abbastanza in evidenza il
danno provocato dal decreto del 1948 e che si fosse glissato
troppo sul fatto che Šostakovič aveva ritenuto di dover tenere
nel cassetto il Concerto n. 1 per violino e il ciclo Dalla Poesia po-
polare ebraica. Insomma, il giubileo di Šostakovič capitava in un
momento politicamente piuttosto inopportuno. E il docu-
mentario, alla fine, non vide la luce, e fu sostituito da un film
con spezzoni delle prove e delle esecuzioni di musiche di Šo-
stakovič, delle sue apparizioni in veste ufficiale e delle sue visi-
te all’estero.
196 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XXIII

‘‘PENSO MOLTO ALLA VITA, ALLA MORTE


E ALLA CARRIERA’’

Nel 1966 cadeva il sessantesimo compleanno di Šostako-


vič, ma cadeva anche una ricorrenza per lui ancora più impor-
tante, il quarantesimo della prima esecuzione della Sinfonia n.
1 op. 10. Le celebrazioni ci furono, come vedremo, ma furo-
no in complesso limitate, e nessuno prese l’iniziativa di una
solenne nuova retrospettiva dell’importanza di quella che si era
svolta a Gorkij nel febbraio del 1964. Nel gennaio del 1966
Šostakovič compose il Quartetto n. 11 in fa minore op. 122, che
venne eseguito per la prima volta il 28 maggio a Leningrado
(nello stesso concerto in cui ebbero la loro prima eecuzione le
Cinque Romanze op. 121), con un successo tale da essere repli-
cato per intero. Il Quartetto è dedicato alla memoria di Vasilij
Širinskij, secondo violino del Quartetto Beethoven, scomparso
nell’estate del 1965. Si è voluto vedere nella scrittura del se-
condo violino, nel Quartetto n. 11, un segno simbolico della
sostituzione dello strumentista: la parte del secondo violino,
inizialmente molto semplice, si integra progressivamente nel-
l’insieme e ridiventa ‘‘normale’’ solo nel finale. Può anche
darsi, ed è anzi probabile che questa fosse l’intenzione, affet-
tuosa, di Šostakovič. Ma sta di fatto che Vasilij Širinskij e il
violista Vadim Borisovskij, componenti del Quartetto Beetho-
ven fin dalla fondazione nel 1923, erano stati sostituiti già nel
1960, rispettivamente da Nikolaj Zabavnikov e da Fëdor Dru-
žinin, ragion per cui la scomparsa di Širinskij nel 1965 non
creò drammi per la sua sostituzione. Detto per inciso, il Quar-
tetto Beethoven è il dedicatario dei Quartetti n. 3 e n. 5, Vasi-
lij Širinskij del n. 11, il primo violino Cyganov del n. 12, Bo-
CAPITOLO XXIII 197

risovskij del n. 13 e il violoncellista Sergej Širinskij del n. 14.


Nessun altro solista o complesso ebbe cosı̀ numerose attesta-
zioni di stima da Šostakovič.
Il Quartetto n. 11 è in sette brevi movimenti collegati,
con titoli caratteristici, e ha una durata di soli sedici minuti
circa. In realtà, più una suite che un quartetto: Introduzione -
Scherzo - Recitativo - Studio - Umoresca - Elegia - Conclusione.
La costruzione dei temi si basa su una cellula, o ‘‘motto’’ di
pochi suoni che viene esposto poco dopo l’inizio dal violon-
cello. Oltre al ‘‘motto’’ l’Introduzione presenta due temi, il se-
condo dei quali diventa il soggetto dello Scherzo, che è scher-
zoso di carattere ma che formalmente è una fuga, con una
entrata ‘‘sbagliata’’ del secondo violino di comico effetto. Po-
trebbe effettivamente trattarsi di un omaggio al dedicatario
Širinskij, che praticava volentieri la composizione e che scri-
veva spesso fughe o fugati. Sul ‘‘motto’’ sono costruiti anche
il Recitativo, drammatico, lo Studio in cui il primo violino
svolazza in registro acuto come un calabrone, e l’Umoresca,
ma nella Umoresca il secondo violino ripete ossessivamente
l’intervallo sol-mi, intervallo di terza minore che corrisponde
al canto del cuculo. E secondo la tradizione popolare russa il
cuculo è annunciatore della morte. Centro emotivo del
Quartetto è l’Elegia, doloroso e commosso ma austero com-
pianto, con ritmo di marcia funebre che ricompare a inter-
mittenza, come un segnale. E la Conclusione riprende e riassu-
me, a modo di ninna-nanna, ciò che è stato detto prima. Il
tono elegiaco del Quartetto n. 11 e il suo colore prevalente-
mente opaco – potremmo definirlo metaforicamente uno stu-
dio sui grigi – portano Šostakovič a riconsiderare la natura
degli intervalli. Per il Quartetto n. 12 si parla spesso – lo ve-
dremo fra poco – di cauto accostamento alla dodecafonia. La
dodecafonia è, secondo la definizione del suo inventore, un
metodo di composizione, metodo a cui Šostakovič restò sem-
pre estraneo. Mi sembra invece che nel tardo stile di Šostako-
vič si possa notare l’influenza di un assioma di Schönberg, il
quale aveva negato, nel Trattato d’Armonia del 1911, la tradi-
zionale distinzione fra intervalli consonanti e intervalli disso-
198 Š O S T A K O V I Č

nanti e aveva invece parlato di gradi diversi di consonanza,


via via più complessi, aprendo in tal modo il campo alla pari-
ficazione di dodici suoni, senza distinzione di suoni naturali e
di suoni alterati. Il primo tema del Quartetto n. 11, esposto in
piano dal primo violino, è una melodia in fa minore, in due
sezioni, ciascuna delle quali comprende otto suoni diversi:
l’ottavo suono della prima sezione e l’ottavo suono della se-
conda non sono suoni alterati, e gli intervalli di seconda mag-
giore e minore non suonano dissonanti. Qualcosa di simile
poteva essere notato già nei Quartetti nn. 9 e 10, e diventerà
sempre più evidente nello sviluppo successivo del linguaggio
di Šostakovič.
Dopo aver ultimato il Quartetto, il 16 febbraio, Šostako-
vič annunciò a Glikman di aver ‘‘cominciato a comporre la
Quattordicesima Sinfonia’’. Non si trattava in realtà di una sin-
fonia ma del Concerto n. 2 per violoncello (in settembre Šosta-
kovič avrebbe parlato nuovamente di ‘‘Quattordicesima Sinfonia
con una parte di violoncello solista’’). In attesa delle celebra-
zioni per il sessantesimo compleanno – e l’iniziativa ci fa ca-
pire come egli guardasse con animo distaccato e disincantato
alla ricorrenza – Šostakovič scrisse una lirica satirica per basso
e pianoforte, su testo suo, op. 123. Ne parlò a Glikman il 20
marzo:
Ho composto una Prefazione alla collezione completa della mia opera e brevi
riflessioni in proposito. Parole e musica sono mie. Il testo di questo opus va
preso al rovescio.
Scarabocchio una pagina
d’un fiato.
Sento un fischio con timpano
abituato.
Dopo tormento la gente
con un crash.
Poi mi stampano e nel Lete
faccio splash.
[...] Ed ecco la firma: Dmitrij Šostakovicˇ, artista del popolo sovietico. E un
sacco di altri titoli onorifici: primo segretario dell’Unione Compositori della
Repubblica Russa, segretario semplice dell’Unione Compositori dell’urss e
ancora un sacco di altri incarichi e posti di altissima responsabilità.
CAPITOLO XXIII 199

Il testo di Šostakovič ricalca un epigramma di Puškin, l’e-


lenco dei titoli non è affatto esaustivo e la lirica sfiora appena
i tre minuti di durata: tre minuti di autoironia, sillabati dal
basso su un accompagnamento del pianoforte secco, meccani-
co. Pur nella sua estrema brevità, un gioiello, e insieme, come
dicevo, un segno tangibile di quanto poco interessasse a Šosta-
kovič essere diventato un’icona.
Il Concerto n. 2 in sol maggiore per violoncello e orchestra op.
126 fu completato il 27 aprile durante un soggiorno a Jalta. A
Glikman, il 27 aprile:
Ho appena terminato il Secondo Concerto per violoncello e orchestra. Visto
che in questa composizione non ci sono né testi letterari né programmi, mi do
da fare per scriverti qualcosa di questo opus.
Come durata è lungo. È composto di tre movimenti. Il secondo e il terzo mo-
vimento si susseguono senza interruzione. Nel secondo movimento e nel cul-
mine del terzo c’è un tema molto simile alla canzone odessita Comprate,
Comprate le ciambelle. Non riesco in alcun modo a spiegare da dove sia pio-
vuto. Ma è molto simile. Quando componevo, pensavo al meraviglioso M.
Rostropovicˇ. Conto di averlo come interprete.

Festeggiando il capodanno con alcuni amici, fra cui Ro-


stropovič e la moglie, Šostakovič e i suoi ospiti avevano fatto
un gioco di società: ciascuno doveva suonare il motivo che in
quel momento gli veniva in mente. Mentre gli altri avevano
suonato brani di Mozart, Beethoven, Čajkovskij, Šostakovič si
era per cosı̀ dire trovato sotto le dita la canzone popolare di
Odessa che avrebbe poi dato origine al tema del secondo mo-
vimento del Concerto n. 2. Tre movimenti, il primo e il terzo
molto vasti, il secondo breve e collegato con il terzo: la tradi-
zione dell’Ottocento presenta molti esempi di questo tipo di
struttura. Ma Šostakovič ci sorprende con un primo movi-
mento, Largo, introspettivo e meditativo, come un triste rac-
conto del violoncello inframmezzato da un episodio a modo
di carillon da orologio meccanico che appare inaspettatamente
ma che viene troncato da un intervento della grancassa prima
di essersi affermato come elemento contrastante che bilancia
emotivamente la struttura. Il colore orchestrale è singolare
200 Š O S T A K O V I Č

perché l’organico è quello dell’orchestra classica, non dell’or-


chestra romantica, è cioè senza trombe, tromboni e tuba e con
l’aggiunta invece di due arpe e di una ricca sezione di percus-
sione. La scrittura del solista non è virtuosistica, e sebbene egli
sia quasi costantemente impegnato si capisce perché Šostakovič
pensasse dapprima a una sinfonia e parlasse poi non di sinfonia
concertante ma di sinfonia con violoncello solista. Il secondo
movimento è uno scherzo in cui il violoncello, che nel primo
movimento parlava come un eremita che riflette sui destini
del mondo, diventa salottiero, piccante, persino civettuolo,
con quel tema derivato da una canzone popolare-ebraica di
Odessa in ritmo di polca e con frequente uso di burleschi glis-
sando. Il terzo movimento si apre con una clamorosa fanfara
di caccia dei due corni con sullo sfondo il rullo del tamburo,
seguita da una cadenza del violoncello. Il seguito è rapsodico,
con continui cambiamenti di clima espressivo, dallo scherzoso
al burlesco al lirico (una breve, commovente, romantica melo-
dia che riappare più volte), fino a che si ritorna al tono medita-
tivo dell’inizio del Concerto e a una bizzarrissima chiusa con
pizzicati del violoncello accompagnati dalle nacchere e poi dal-
lo silofono. Šostakovič dice che il Concerto non ha program-
ma, ma dice anche di non capire come gli sia saltato fuori il te-
ma che parafrasa la canzone popolare. Si può dunque azzardare
l’ipotesi che egli avesse un programma inconscio. L’insieme è
teatrale, direi ballettistico, e un coreografo non avrebbe nessu-
na difficoltà, credo, a costruirlo come storia. Rispetto al Concer-
to n. 1, cosı̀ diretto e chiaro, il Concerto n. 2 sconcertò i primi
ascoltatori sia nell’Unione Sovietica che in Occidente, e ci vol-
le parecchio tempo prima che se ne comprendesse la genialità
e lo si ponesse al più alto livello del genere.
Il 1966 fu l’anno in cui la salute di Šostakovič cominciò a
diventare sempre più precaria. Già il 20 marzo egli scriveva a
Glikman dicendo di aver avuto problemi di cuore: ‘‘Sono già
diventato un invalido di settima classe. Presto diventerò un in-
valido di prima classe extralusso. Ciò nondimeno, non piagnu-
colo’’. Il 12 maggio, quarantennale della prima esecuzione
della Sinfonia n. 1, passò senza celebrazioni. Il 28 ebbe luogo a
CAPITOLO XXIII 201

Leningrado un concerto di musiche di Šostakovič: il program-


ma comprendeva varie liriche, cantate dalla Višnevskaja e da
Nesterenko, e i Quartetti n. 1 e n. 11. Šostakovič, molto inti-
morito e molto nervoso perché non poteva più fidarsi della
sua mano destra, accompagnò i cantanti. Fu la sua ultima ap-
parizione in pubblico in veste di pianista. Rientrato in albergo
ebbe problemi con il cuore e fu portato in ospedale ma venne
dimesso dopo gli esami. L’attacco più grave si verificò il matti-
no successivo: ricoverato in rianimazione, Šostakovič passò in
ospedale due mesi e restò per un altro mese di convalescenza
in una clinica vicino a Leningrado, perdendo cosı̀ l’occasione
di ascoltare molte sue musiche che vennero eseguite durante il
festival annuale che si svolgeva nella città baltica.
Dopo la convalescenza Šostakovič si trasferı̀ nella Casa dei
Compositori a Repino. Ma le sue condizioni di salute non
avevano subito un decisivo miglioramento e i medici gli vieta-
rono di prender parte alla celebrazione del suo compleanno.
Violando il divieto egli comparve brevemente il 25 settembre
nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca, dove Maksim
Šostakovič dirigeva la Sinfonia n. 1 e Rostropovič eseguiva per
la prima volta, sotto la direzione di Svetlanov, il Concerto n. 2.
Al mattino era stato annunciato che, con decisione del Comi-
tato Centrale, era stata assegnata a Šostakovič la più alta onori-
ficenza sovietica, Eroe del Lavoro Socialista, e in aggiunta
l’Ordine di Lenin e la medaglia Falce e Martello. Il Concerto
n. 2 avrebbe dovuto inaugurare in ottobre, diretto da Mravin-
skij, la stagione della Filarmonica di Leningrado. Rostropovič
arrivò a Leningrado per le prove ma subito si accorse che nei
manifesti non figurava il Concerto. Si infuriò e si informò. La
storia non è chiara e io riferisco una delle diverse vesioni, cioè
quella che mi sembra la meno assurda. Mravinskij non aveva
avuto il tempo di studiare la partitura e aveva deciso di po-
sporre a novembre l’esecuzione, ma il suo staff si era dimenti-
cato di avvertire Rostropovič. Questi, che già aveva digerito
molto male l’affronto fatto da Mravinskij a Šostakovič con il
rifiuto di dirigere la Tredicesima Sinfonia, se ne andò indignato
e dichiarò che non avrebbe mai più suonato né con Mravin-
202 Š O S T A K O V I Č

skij, né con la Filarmonica. Non si poteva tuttavia passare sot-


to silenzio nella città natale di Šostakovič, proprio nell’anno
del suo sessantesimo compleanno, una sua nuova e impegnati-
va composizione. Su suggerimento di Glikman fu combinata
un’esecuzione con l’orchestra degli allievi del conservatorio (e
con Rostropovič, ovviamente). Ma Šostakovič non poté pre-
senziare: in ottobre era stato di nuovo ricoverato in ospedale e
ne era uscito dopo diciotto giorni di degenza senza che le sue
condizioni generali fossero migliorate. Il 10 novembre egli
scrisse a Glikman, descrivendo umoristicamente il suo stato di
salute:
Durante il ricovero mi hanno visitato i professori Michelson (chirurgo) e
Schmidt (neuropatologo). Entrambi erano eccezionalmente soddisfatti delle mie
mani e delle mie gambe. In fin dei conti, il fatto che non possa suonare il pia-
noforte e faccia una fatica colossale per salire le scale non è significativo. Il pia-
noforte si può anche non suonarlo e salire le scale non si deve: bisogna stare a
casa, non bighellonare per le scale né per i marciapiedi sdrucciolevoli. È giusto:
infatti, ieri sono andato a spasso, sono caduto e mi sono ammaccato un ginoc-
chio. Invece, se fossi stato a casa, non sarebbe capitato niente di simile. In ge-
nerale va tutto molto bene. Non bevo e non fumo. Tentazioni ne ho avute.
Ma la fifa è stata più forte delle tentazioni. Di fumare non ne ho voglia e
non mi sento tentato dal tabacco. Ma di bere ogni tanto mi viene proprio vo-
glia, ma... (vedi sopra alla voce fifa).
Altri sforzi fisici, evidentemente, non mi sono più permessi. Penso che, a
causa della debolezza, non potrò venire a Leningrado alla prima del Concerto
per violoncello. Ci sono scale dappertutto, perfino nella Sala grande del Con-
servatorio.
Certo, questo mi addolora molto. [...]
Se mi sentirò meglio, verrò a Leningrado, sebbene non sia molto probabile.

A Leningrado, come ho già detto, non poté andare, e ol-


tre a dover rinunciare alla sigaretta e alla bottiglia e agli ‘‘altri
sforzi fisici’’ lasciò nel giro di qualche mese l’insegnamento e
le cariche presso l’Unione Compositori. Il 25 dicembre poté
tuttavia recarsi al concerto tenuto da Peter Pears e Benjamin
Britten nella Sala grande del Conservatorio di Mosca (‘‘Que-
sto concerto mi ha dato tanta gioia’’, a Glikman, 26 dicem-
bre). E con Pears e Britten, insieme con Rostropovič e la Vi-
CAPITOLO XXIII 203

šnevskaja, festeggiò il capodanno. Ma le condizioni di salute


facevano sı̀ che Šostakovič si sentisse ormai veramente come
un ‘‘invalido della prima classe extralusso’’, e il suo morale era
più che a terra. Una lettera a Glikman del 3 febbraio 1967 ci
dà un quadro desolante e angosciante della crisi profonda che
Šostakovič stava attraversando:
Caro Isaak Davydovicˇ,
penso molto alla vita, alla morte e alla carriera. Cosı`, ricordando la vita di al-
cune persone famose (intendo i grandi), sono giunto alla conclusione che non
tutti sono morti al momento giusto. Per esempio: Musorgskij morı` prematura-
mente. Lo stesso si può dire di Pusˇkin, Lermontov e alcuni altri. E invece P.
Čajkovskij avrebbe dovuto morire prima. È vissuto un po’ troppo a lungo e
per questo la morte, o meglio gli ultimi giorni di vita, sono stati terribili.
La stessa cosa si può dire per Gogol’, forse per Rossini, per Beethoven, che,
come molti altri, sia famosi (grandi), sia sconosciuti, hanno superato quella
frontiera della vita oltre la quale la vita non porta più felicità, ma soltanto de-
lusioni e avvvenimenti terribili.
Tu leggi queste righe e magari pensi: perché mai scrive queste cose? Perché an-
ch’io, senza dubbio, ho vissuto troppo a lungo. Ho avuto tante delusioni e mi
aspetto avvenimenti terribili.
Sono stato deluso anche da me stesso. O piuttosto dal fatto di essere un com-
positore grigio e mediocre. Guardando dall’alto dei miei sessant’anni al ‘‘cam-
mino percorso’’, dirò che due volte mi è stata fatta una bella réclame (Una
Lady Macbeth del Distretto di Mcensk e la Tredicesima Sinfonia). Una ré-
clame molto efficace. Tuttavia, quando tutto si calma e torna al proprio posto,
si scopre che sia la Lady Macbeth sia la Tredicesima Sinfonia sono ‘‘Pfu’’
come si dice nel Naso.
Su questo tema, forse, mi riuscirà di cianciare un po’ con te. Però il pensiero
che ho appena finito di esporre è un pensiero spaventoso. Visto che mi riman-
gono da vivere dieci anni, trascinare questo pensiero spaventoso per tutti questi
anni... No! Non vorrei essere al mio posto.

Questa aperta confessione, questa specie di vanitas vanita-


tum ci permette di cogliere i dubbi angosciosi che, al di là
della autoironia, percorrono il testo della Prefazione alla colle-
zione completa delle mie opere, specialmente l’ultimo verso. ‘‘Poi
mi stampano e nel Lete faccio splash’’. Nel Lete, nel fiume
dell’oblio: il terrore di essere dimenticato, di non vivere, attra-
verso le proprie opere, oltre la morte. Questo sentimento
204 Š O S T A K O V I Č

autodistruttivo non poteva certamente essere dettato dagli esiti


della carriera. Tutti i grandi interpreti sovietici eseguivano le
musiche di Šostakovič e il suo palmarès internazionale dei di-
rettori, dopo Walter, Klemperer, Toscanini, Stokowski, Mon-
teux, Mitropoulos, Wood, Reiner, e dopo i russi, ma attivi al-
l’estero Kusevickij, Markevič, Horenštejn, comprendeva quasi
tutto il Gotha, da Karajan, Bernstein, Celibidache a Cluytens,
Ormandy, Rodzinski, Kertész, Ozawa, Ančerl, Haitink, Prê-
tre, Matačić, Davis. Ciò che feriva Šostakovič e che lo faceva
dubitare di se stesso era secondo me il sostanziale disinteresse
della critica. Nell’Unione Sovietica non erano mancate le
pubblicazioni concernenti la sua opera, sia saggistiche che in
volume, dedicate soprattutto all’analisi del suo linguaggio e in
particolare della sua armonia, ma, dopo la morte di Sollertin-
skij, nessuno era più stato in grado di valutare la poetica di
Šostakovič senza il velo degli schermi ideologici o dei pregiu-
dizi estetici. E nell’Occidente, tutto preso dalla Nuova Musi-
ca, i critici che facevano opinione erano compattamente schie-
rati sulle posizioni di Boulez, il quale, scrivendo di Webern
nel 1961 per l’Enciclopedia Fasquelle, aveva affermato: ‘‘Tutti
i compositori che non hanno profondamente sentito e com-
preso l’ineluttabile necessità di Webern sono completamente
inutili’’.
Nel 1978 fu pubblicata in traduzione francese la Concise
History of Modern Music di Paul Griffiths, nella cui quarta di
copertina si trova una dichiarazione di Boulez: ‘‘Il libro di
Paul Griffiths [...] potrà essere utile al gran pubblico non spe-
cializzato a cui mancano quasi completamente informazioni e
punti di riferimento sulla evoluzione musicale negli ultimi
venticinque anni’’. Un’opera largamente divulgativa, dunque.
Ebbene, di Šostakovič, collocato nel capitolo sul neoclassici-
smo, si dice: ‘‘Prokof’ev e Šostakovič avevano entrambi la
tendenza tipicamente neoclassica per l’eclettismo, ma la politi-
ca ufficiale dissuase Šostakovič dal lanciare troppo lontano la
sua lenza. Per rispondere alla pressione ideologica che veniva
esercitata su di lui egli abbandonò le saporose fantasie dell’o-
pera Il Naso per la miscela di Čajkovskij e di Mahler della sua
CAPITOLO XXIII 205

Quinta Sinfonia (1937)’’. Che cosa poteva pensare, dopo questa


sentenza, il ‘‘gran pubblico non specializzato’’? Che Šostakovič
era, storicamente, un relitto di una nave miseramente naufra-
gata. Šostakovič poteva contare sı̀ sulla calda amicizia e sulla
incondizionata ammirazione, ricambiate, di Britten. Ma Brit-
ten era a sua volta un relitto. Dice Paul Griffiths: ‘‘[...] la scelta
di una armatura di chiave diventa un gesto anacronistico dopo
che Schönberg ha rivelato l’esistenza dell’universo atonale. La
maggior parte delle grandi opere diatoniche scritte dopo gli
anni venti – ivi comprese le sinfonie di Šostakovič e le opere
di Britten – sono quelle che accettano la corruzione’’. Né la
stima dei grandi direttori faceva testo per i critici: non lo ave-
va fatto quando si era trattato di Richard Strauss, e tanto me-
no lo faceva per Šostakovič. Šostakovič era onusto di onori ed
era popolare, ma la cittadella della critica era rimasta chiusa
per lui: popolare sı̀, non immortale. Che un sessantenne la cui
salute declina faccia dei bilanci e pensi alla vita e alla morte è
più che naturale. Che un sessantenne osannato nel suo paese e
famoso in tutto il mondo pensi alla carriera non è naturale: si-
gnifica che considera vanitas vanitatum ciò che ha conquistato.
E questo è un sentimento lacerante, terrificante, che rende pe-
noso il vivere stesso.
206 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XXIV

‘‘TUTTAVIA’’...

‘‘No! Non vorrei essere al mio posto. Tuttavia comporre


musica è una passione, una sorta di malattia, che mi persegui-
ta. Oggi ho terminato sette romanze su versi di A. Blok’’. Si
tratta delle Sette Romanze, suite vocale-strumentale per sopra-
no, violino, violoncello e pianoforte op. 127, dedicate a Gali-
na Višnevskaja. Šostakovič diceva anche di aver scritto la parte
del pianoforte ‘‘tenendo conto delle mie modestissime possibi-
lità’’, e in giugno provò il suo nuovo lavoro con la dedicata-
ria, Ojstrach e Rostropovič, ma non poté prender parte, per-
ché malato, alla prima esecuzione del 23 ottobre 1967 a Mo-
sca e fu sostituito da Vajnberg. La composizione nasceva da
una richiesta di Rostropovič, che desiderava avere qualcosa da
eseguire con la moglie. Šostakovič capı̀ però subito che il duo
canto-violoncello non gli offriva una ventaglio di possibilità
sufficienti per un ciclo e aggiunse il violino e il pianoforte.
Veniamin Basner, compositore che non era stato allievo ma
che aveva frequentato come uditore la classe di composizione
di Šostakovič a Leningrado negli anni quaranta, racconta un
aneddoto che può essere vero o che può essere inventato ma
che è comunque divertente. Šostakovič, egli dice, gli raccontò
di aver scoperto, nascosta dalla moglie in uno stipo, una botti-
glia di brandy, di non aver resistito alla tentazione di ingollar-
ne una bella sorsata e di essersi sentito rinascere come compo-
sitore, tanto da poter ultimare in tre giorni le Sette Romanze
dopo mesi e mesi di sterilità creativa.
La richiesta di Rostropovič dà l’avvio, il brandy gustato di
nascosto dopo lunga astinenza fa zampillare l’ispirazione... Sa-
rà! Ma la scelta dei testi e la loro disposizione ci dice che Šo-
CAPITOLO XXIV 207

stakovič, nel momento stesso in cui descriveva a Glikman una


condizione esistenziale senza speranza, stava in realtà cercando
una via d’uscita. La Canzone di Ofelia che apre il ciclo è il la-
mento della donna abbandonata dal suo amato, Gamayum,
l’uccello profeta, che segue, predice il ‘‘giogo dei tartari feroci’’
e le ‘‘innumerevoli sanguinose esecuzioni, terremoti, carestie e
incendi, la forza dei malvagi, la rovina dei giusti’’. Nella terza
lirica un uomo ricorda il tempo in cui la sua amata era con
lui, e ‘‘il bacio si posava sulle labbra e il violino cantava nei
nostri cuori’’. Poi si parla della città addormentata alle prime
luci dell’alba, le luci nelle quali ‘‘si nasconde il risveglio dei
miei giorni d’angoscia’’, quindi della tempesta che ‘‘muggisce
feroce e rabbiosa dietro la mia finestra’’ e dell’uomo che esce
per ‘‘lottare contro la pioggia e le tenebre, e condividere la
sorte degli afflitti’’. Nella penultima lirica il poeta dormiente
intuisce che la sua ‘‘fine predestinata è vicina’’ e che davanti a
lui ci sono ‘‘incendio e guerra’’. Ma nella settima lirica ‘‘quan-
do l’angoscia si placa e la città sparisce nelle tenebre’’ il poeta
sente ‘‘quanta musica divina’’ e ‘‘quali suoni’’ risuonano sulla
terra. ‘‘Che importa la tempesta della vita, se per me fiorisco-
no e bruciano la tue rose’’, dice; e la Musica, la Regina del-
l’Universo, accetterà dal suo ‘‘indegno schiavo’’ l’offerta del
‘‘sangue’’, del ‘‘supplizio’’ e del ‘‘sepolcro’’. Il profondo signi-
ficato autobiografico e simbolico di questi testi, scelti e ordi-
nati da Šostakovič e che rispondono evidentemente al suo in-
timo sentire, non ha bisogno di commenti. La costruzione
musicale è tanto singolare quanto meticolosamente geometri-
ca. Tutte le possibili combinazioni dei tre strumenti vengono
esplorate: il canto è accompagnato dal violoncello solo (n. 1),
dal pianoforte solo (n. 2), dal violino solo (n. 3), da violoncel-
lo e pianoforte (n. 4), da violino e pianoforte (n. 6), da violi-
no e violoncello (n. 6), dal trio (n. 7). E il linguaggio è il più
vario possibile, dalla più semplice cantilena diatonica fino alla
serie di dodici suoni. I testi, la vocalità, la timbrica strumentale
si fondono in modo miracoloso in un insieme tanto originale
di struttura quanto esteticamente perfetto.
208 Š O S T A K O V I Č

Poco dopo aver ultimato le Sette Romanze Šostakovič


scrisse una lirica su testo di Puškin, Primavera, primavera op.
128 per basso e pianoforte, unica composta di un progettato
ciclo. Più che la musica colpisce qui la scelta del testo: il poeta
dichiara che l’arrivo della primavera, ‘‘la stagione dell’amore’’,
lo infastidisce, e che vorrebbe riavere ‘‘le lunghe notti scure
dell’inverno’’. C’è quanto basta per un’analisi psicologica, che
il mio lettore è in grado di fare benissimo da solo. Il brandy
miracoloso continuava comunque a produrre i suoi effetti: Šo-
stakovič componeva il Concerto n. 2 in do diesis minore per violi-
no e orchestra op. 129, da offrire al sommo Ojstrach come
omaggio per il suo sessantesimo compleanno. Stava di fatto
che Ojstrach compiva nel 1967 cinquantanove anni, non ses-
santa. Ma quel che conta è il pensiero... Scrivendo al violinista
il 20 maggio Šostakovič gli annunciò il completamento del
Concerto, dicendo umilmente di volerglielo dedicare ‘‘se Lei
non ha nulla in contrario’’. Il sommo Ojstrach di fronte al
quale il ‘‘grigio e mediocre’’ compositore Šostakovič si inchi-
nava non ebbe nulla in contrario... Ho già accennato alla pro-
va delle Sette Romanze op. 127 che ebbe luogo in giugno:
‘‘Questa prova’’, scrisse Šostakovič a Glikman il 14 giugno,
‘‘mi ha recato grande gioia e per qualche tempo ho smesso di
prendermela in modo grave e doloroso per avvenimenti gravi
e dolorosi’’. Quando compariva la Musica, Regina dell’Uni-
verso, il cielo si colorava di rosa...
Durante le vacanze, trascorse di nuovo nella località della
Bielorussia in cui ci si trovava in compagnia di ‘‘uri, cervi,
cinghiali’’, Šostakovič compose il Preludio funebre-trionfale op.
130 per grande orchestra e banda, su richiesta della città di
Volgograd e dedicato alla memoria degli eroi di Stalingrado, e
il poema sinfonico Ottobre op. 131 per il cinquantenario della
Rivoluzione, impiegandovi come secondo tema il Canto del
Partigiano che aveva scritto per un film del 1937. Non erano
di certo due adeguati sostituti dell’opera Il Placido Don annun-
ciata con fragori anni prima, ma con essi Šostakovič assolveva
i suoi doveri di compositore nazionale, e in modo, come sem-
pre, tanto brillante quanto efficace. Intanto, il 26 settembre,
CAPITOLO XXIV 209

era stato eseguito a Mosca da Ojstrach, sotto la direzione di


Kondrašin, il Concerto n. 2. Questa esecuzione aveva provoca-
to un piccolo inghippo familiare. Maksim Šostakovič si era di-
plomato in direzione d’orchestra nel 1966 e, come abbiamo
visto, aveva diretto la Sinfonia n. 1 del padre in occasione del
sessantesimo compleanno di questi. Sempre nel 1966 aveva
preso parte a un concorso classificandosi al quinto posto: quin-
to, secondo il presidente della giuria Kondrašin, perché il ra-
gazzo, che non era un gran che, era stato anzi trascinato nella
rosa dai premiati per rispetto al padre, quinto, secondo il di-
retto interessato, perché, avendo un genitore famoso, era stato
trattato in modo più severo del dovuto. Comunque, l’unico
figlio maschio di Šostakovič scalpitava in attesa di correre. Se
gli fosse stata affidata la prima esecuzione del Concerto n. 2
Maksim avrebbe goduto di una bella vetrina da sfruttare per la
sua carriera. Šostakovič era padre e da padre avrebbe voluto
agevolare il figlio. Ma era anche un grande ed espertissimo
musicista e in fondo al cuore era d’accordo con Kondrašin.
Salvò la capra e i cavoli facendo ricorso al gioco antico e sem-
pre attuale dello scaricabarile: chiese a Kondrašin di dirigere la
prima esecuzione e disse a Maksim che cosı̀ aveva voluto Oj-
strach. Maksim ebbe come compensazione la direzione del
poema sinfonico Ottobre, a Mosca il 16 settembre.
Con il Concerto n. 2 per violoncello Šostakovič aveva creato
nel 1966 uno dei suoi capolavori. Era difficile ripetersi a un
anno di distanza, nello stesso genere e di nuovo con uno stru-
mento ad arco. Ma il Concerto n. 2 per violino non è meno ge-
niale del suo cuginetto, sebbene sia molto diverso sia di strut-
tura che di impostazione. Il Concerto per violoncello era stato per
un po’ di tempo in bilico, alla Brahms, fra il genere del con-
certo e il genere della sinfonia. Il Concerto per violino esalta in-
vece, alla Čajkovskij, il solipsismo del solista: se consideriamo
la composizione dal punto di vista della oratoria forense, che è
connaturata al genere del concerto, possiamo dire che il solista
è qui maledettamente bravo sia nel tenere avvinto a sé il suo
pubblico, cioè l’orchestra, con lunghi monologhi patetici, sia
nello scatenare la vis polemica, con fulminei e vivacissimi
210 Š O S T A K O V I Č

scambi di battute, quando qualcuno dell’assemblea interviene


per dire la sua. Anche in questo caso mancano in orchestra le
trombe, i tromboni e la tuba (ci sono però quattro corni inve-
ce di due), ma Šostakovič rinuncia alle arpe e limita la sezione
della percussione a un tam-tam, sfruttando con sottigliezza
estrema le potenzialità timbriche e spettacolari dell’orchestra
sinfonica classica. Nei momenti, diciamo cosı̀, di dibattito,
l’orchestra viene frazionata in un modo che richiama Mahler,
anche perché i temi, specie nel primo movimento, hanno
l’impronta della musica popolare boema (qualche critico fa an-
che riferimento alla danze di reclutamento, al verbunkos tanto
caro a Bartók). I movimenti sono due soltanto: un Moderato
e un Allegro con Adagio introduttivo. Ci sono due Cadenze:
una, virtuosisticamente non troppo impegnativa, nel primo
movimento, e una, di difficoltà trascendentale, nel secondo.
Šostakovič, come abbiamo visto, aveva studiato un po’ il vio-
lino, ma non era violinista. Ed è veramente sorprendente il
fatto che mettesse nelle mani di Ojstrach il Concerto bell’e
pronto senza averlo prima consultato sulla eseguibilità della se-
conda Cadenza e dei passi più impervi, tanto più perché la to-
nalità di do diesis minore non è usuale per il violino. Ritorna
alla memoria la querelle del Concerto per violino di Čajkovskij,
giudicato da un grande violinista e grande didatta come Leo-
pold Auer antiviolinistico e praticamente ineseguibile. Ritorna
alla memoria l’atteggiamento prudente di Brahms, che consul-
tava umilmente l’amico Josef Joachim... Ojstrach si trovò sı̀ di
fronte a passi che gli sembrarono a tutta prima ineseguibili ma
non fece obiezioni, ci pensò sopra e scoprı̀ che la scrittura del
Concerto era del tutto idiomatica. Šostakovič ci era arrivato
non per virtù della mano ma per virtù dell’orecchio. E questo
è un altro segno della sua grandezza come strumentatore. Non
meno del Concerto n. 2 per violoncello, anche il Concerto n. 2 per
violino non trovò la pienezza dei consensi dopo le prime ese-
cuzioni nell’Unione Sovietica e all’estero (Ojstrach lo presentò
in Inghilterra in novembre e negli Stati Uniti nel gennaio del
1968). Ma un poco alla volta si capı̀ che Šostakovič, sfidando
CAPITOLO XXIV 211

in un certo senso se stesso, aveva prodotto due capolavori a


breve distanza l’uno dall’altro.
Contrariamente al suo solito, ma forzatamente, nell’autun-
no del 1967 Šostakovič non poté seguire le prove e le esecu-
zioni delle sue nuove composizioni: all’inizio di settembre si
era fratturato la gamba sinistra ed era entrato per l’ennesima
volta in ospedale, dove sarebbe rimasto sino alla fine dell’an-
no. Ojstrach e Kondrašin tennero una esecuzione di prova del
Concerto il 13 settembre in una sala di un sobborgo di Mo-
sca, la registrarono e la mandarono a Šostakovič, che fece loro
le sue osservazioni per telefono. Malato fisicamente e depresso
spiritualmente, Šostakovič si dedicò tuttavia alla composizione
delle musiche per il film Sof’ja Petrovskaja op. 132, lavorando
solo sulla sceneggiatura e sulle durate cronometriche delle se-
quenze, senza vedere la pellicola. Dimesso dall’ospedale alla fi-
ne dell’anno, e restando nella sua dacia vicino a Mosca, egli
cominciò a comporre il Quartetto n. 12 in re bemolle maggiore
op. 133. Non poteva uscire quanto avrebbe voluto, si annoia-
va e aveva per di più qualche preoccupazione economica
(‘‘penso a come tirare avanti, visto che le entrate – economi-
che – sono rapidamente diminuite’’, a Glikman, 25 gennaio).
Poté tuttavia recarsi a Leningrado per ascoltare finalmente dal
vivo il Concerto n. 2 per violino che aveva sentito soltanto alla
radio, e le Sette Romanze su testi di Blok eseguite da una can-
tante, Nadežda Jureneva, della quale gli piacevano molto la
voce e la dizione, mentre la dizione della Višnevskaja era se-
condo lui ‘‘zoppicante, sebbene lei sia una cantante stupefa-
cente’’ (a Glikman, 8 dicembre 1967). Il Quartetto n. 12 fu ul-
timato nel marzo del ’68 a Repino vicino a Leningrado, nella
Casa dell’Unione Compositori che Šostakovič conosceva da
lungo tempo. Come ho già detto, il Quartetto n. 12 fu dedica-
to a Dmitrij Cyganov, primo violino del Quartetto Beetho-
ven,... previa accettazione dell’interessato. Ne ho già accenna-
to a proposito del Concerto n. 2 per violino: Šostakovič si com-
portava spesso con i dedicatari delle sue composizioni come se
si vivesse ancora nel Settecento, quando il musicista-artigiano
si rivolgeva agli aristocratici per impetrare umilmente il loro
212 Š O S T A K O V I Č

grazioso consenso. ‘‘Ho appena finito il Quartetto e vorrei


chiederLe di accettarne la dedica’’, scrisse Šostakovič a Cyga-
nov l’11 marzo, senza evidentemente considerare il fatto che
il violinista sarebbe passato alla storia anche perché dedicatario
di un quartetto di un genio della musica. Ma Šostakovič era
fatto cosı̀.
In un certo senso la coppia Prokof’ev-Šostakovič sembra
un replay a distanza di un secolo della coppia Beethoven-
Schubert: Prokof’ev era, come Beethoven, duro e persino ar-
rogante, Šostakovič era, come Schubert, mite e gentile. In Šo-
stakovič non solo non troviamo mai l’atteggiamento di chi,
reputandosi superiore, tratta gli altri, diceva don Abbondio di
don Rodrigo, ‘‘come se si stesse al mondo per sua degnazio-
ne’’, ma non troviamo neppure la condiscendenza benevola di
chi sa di essere realmente superiore senza farlo tuttavia pesare.
E in fondo Šostakovič non faceva differenza fra chi la musica
la scriveva e chi la eseguiva: faceva semmai differenza di valore
artistico, ma anche con chi trasudava boria arrivava tutt’al più,
nelle lettere, all’ironia sottile, mai all’invettiva. Il Quartetto
Beethoven eseguı̀ il Quartetto n. 12 il 14 giugno a Mosca, du-
rante una riunione dell’Unione Compositori che vedeva l’in-
sediamento come primo segretario di Jurij Sviridov, ex-allievo
e ora successore di Šostakovič. La prima esecuzione pubblica
ebbe invece luogo, sempre a Mosca, il 14 settembre.
Come ho già accennato, per il Quartetto n. 12 si parla tra-
dizionalmente di cauto accostamento alla dodecafonia. Ma se-
condo il mio parere, che ho del resto in comune con tutti i
critici di oggi, non si tratta affatto di dodecafonia: si tratta inve-
ce – ho detto anche questo – di un uso integrato nella tonalità
di suoni estranei ai sette della scala tonale. Del resto, sarebbe
stato veramente paradossale che Šostakovič si servisse di tecni-
che autenticamente dodecafoniche nel momento in cui conti-
nuava il suo viaggio esplorativo fra le ventiquattro tonalità,
procedendo regolarmente per terze discendenti. I cinque be-
molli in chiave del Quartetto n. 12 non sono messi lı̀ per ma-
scherare l’eterodosso sotto l’aspetto dell’ortodosso. E del resto
già Viktor Bobrovskij, che recensı̀ favorevolmente il Quartetto
CAPITOLO XXIV 213

su Musica Sovietica nel numero di agosto, parlò soltanto inci-


dentalmente dei temi di dodici suoni. L’integrazione nella to-
nalità di re bemolle maggiore del disegno affidato al violon-
cello con cui il Quartetto inizia è infatti evidente. La prima
nota della prima battuta è un do, la prima nota della seconda
battuta è un re bemolle e la penultima nota della prima battu-
ta è un la bemolle: la sensibile, la tonica e la dominante di re
bemolle maggiore legano tonalmente gli altri nove suoni, nes-
suno dei quali diventa dissonante. E le battute dalla seconda
alla sesta potrebbero essere state scritte da Schumann. Cosı̀ Šo-
stakovič si comporta per tutta la composizione, nella quale
non si perde mai la percezione della tonalità. La struttura ar-
chitettonica del Quartetto è in apparenza paradossale: due mo-
vimenti, il primo di quasi sette minuti, il secondo di quasi
ventuno. Il secondo movimento è però un insieme di tre parti
ben differenziate: Allegretto (scherzo, in fa diesis minore),
Adagio (in sol minore), Moderato (recitativo e ricapitolazione,
in re bemolle maggiore). Anche in questo Quartetto, come
spesso avviene con Šostakovič, i mutamenti di clima espressivo
sono frequenti e il più delle volte inattesi. Rispetto alla retori-
ca espositiva classico-romantica si può dire persino che Šosta-
kovič salta di palo in frasca. Ma la sua discorsività non perde il
filo logico che appare evidente al termine dell’audizione, an-
che se i procedimenti di trasformazione del materiale possono
essere colti soltanto attraverso l’analisi. E i momenti di pura
invenzione coloristica, come l’episodio del secondo movimen-
to con il violento pizzicato del violino che dava al dedicatario
Cyganov l’impressione della ‘‘morte che cammina’’, sono nu-
merosi e sorprendenti. Alla fine, la discussione sul rapporto del
Quartetto n. 12 con la dodecafonia cade nel vuoto: c’è ben al-
tro della dodecafonia, c’è un dominio del linguaggio a fini di
espressione dell’umano che non ha molti paragoni nella storia.
Šostakovič e la moglie passarono le vacanze a Majori in
Lettonia, sul Baltico, e poi a Repino. Trascorsero il settembre
nella loro dacia a Žukovska vicino a Mosca. Il 24 settembre
Šostakovič scrisse a Glikman:
214 Š O S T A K O V I Č

Domani compirò sessantadue anni. La gente della mia età ama civettare, ri-
spondendo a domande come questa: ‘‘Se Lei nascesse una seconda volta, come
trascorrerebbe i suoi sessantadue anni? Come quelli che ha vissuto?’’ ‘‘Ma sı`,
certo, ci sono stati insuccessi, dolori, ma rivivrei questi anni tali e quali’’.
A questa domanda, se me la rivolgessero, risponderei: ‘‘No! Mille volte no!’’

Il ‘‘non vorrei essere al mio posto’’ ritornava dunque pe-


riodicamente. E ritornava il ‘‘tuttavia’’, che nell’estate del
1968 riappariva perché Ojstrach stava per davvero sul punto
di compiere sessant’anni. La Sonata per violino e pianoforte op.
134 fu mandata a Ojstrach il 22 novembre e, miracolo!, nella
lettera accompagnatoria il compositore si rivolge al dedicatario
dandogli del tu:
Ti faccio i migliori auguri. Attendo con impazienza il tuo ritorno. Ho proprio
voglia di sentire il tuo impareggiabile suono nella mia Sonata. Bacioni.

Šostakovič iniziò a comporre la Sonata nell’agosto del


1968, e tutti ricordano che proprio in quel mese i sovietici in-
vadevano la Cecoslovacchia, spegnendo la ‘‘Primavera di Pra-
ga’’. La tentazione di trovare nella composizione il riflesso di
quei tragici giorni era forte, tanto più per i critici russi del
post-1989 per i quali ogni occasione era buona per corrobora-
re la tesi secondo la quale Šostakovič era un convinto, seppur
silente oppositore del regime comunista. Questi critici zelanti
non s’accorsero di applicare in realtà ancora, a rovescio, i ca-
noni del realismo socialista: prima della dissoluzione dell’urss
non era lecito scrivere una composizione strumentale che non
fosse positivamente orientata verso l’esaltazione del presente e,
dopo, si cercava nella stessa musica la negazione della esalta-
zione. Senza affatto trascurare il valore umanistico della pro-
duzione strumentale del Nostro, che è del resto evidente, sa-
rebbe bene ammettere che Šostakovič scriveva anche per met-
terli in parentesi, anziché sublimarli in musica, i momenti tra-
gici della sua vita e della vita del suo popolo. Questo è secon-
do me il senso del ‘‘tuttavia’’ sul quale ho insistito in questo
capitolo. Il tono espressivo della Sonata per violino non è di
certo amabile e cordiale, anzi, è amaro, ipocondriaco, ma non
CAPITOLO XXIV 215

mi sembra che si possano cogliere in essa i riflessi di ciò che la


brutale aggressione alla Cecoslovacchia, paese che lo aveva
spesso onorato, abbiano potuto avere sull’animo di Šostakovič.
In passato si faceva un gran caso al fatto che all’inizio del
primo movimento, Moderato, il pianoforte esponga un tema
con i dodici suoni della scala cromatica, più quattro suoni ri-
petuti, tema che viene subito riesposto per moto contrario. La
serie per moto contrario è tipica della dodecafonia, ma il pro-
cedimento, in sé e per sé, era molto antico e non era stato
mai abbandonato. Il primo tema, ripetuto subito dopo, viene
contrappuntato dal violino con una melodia cromatica non
integrata dodecafonicamente con il tema. Il secondo tema, che
contiene anch’esso i dodici suoni, è armonizzato ed è riferibile
al verbunkos ungherese di cui ho detto a proposito del Concer-
to n. 2 per violino. Il secondo movimento, Allegretto, è uno
scherzo demoniaco a cui conveniva di più la prima indicazio-
ne di tempo, Allegro furioso, poi cancellata. Lo scherzo è in
mi bemolle minore ed è basato su un tema che non compren-
de tutti i dodici suoni. Il finale, Largo, introdotto da otto bat-
tute baroccheggianti, è una passacaglia su basso ostinato che
viene usato anche come melodia e che viene condotto in mo-
do nettamente concertistico fino al punto culminante rappre-
sentato da due Cadenze, la prima per il solo pianoforte, la se-
conda per il solo violino (mi sembra chiaro che Šostakovič,
desiderando che la prima esecuzione venisse tenuta da Oj-
strach e Richter, cercò il modo di valorizzare anche il piani-
sta). Non si può parlare né di adesione mascherata né di cari-
catura di Šostakovič nei confronti della dodecafonia e delle
tecniche seriali ma – e ribadisco quello che ho detto a propo-
sito del Quartetto n. 12 – di sperimentazione e di conquista di
uno spazio tonale allargato che arricchisce la tecnica composi-
tiva di Šostakovič. Ojstrach eseguı̀ la Sonata per l’Unione
Compositori a Mosca l’8 gennaio 1969, e con Richter, per il
pubblico, a Mosca il 3 e il 4 maggio e a Leningrado il 23 e il
24 settembre (il programma comprendeva anche la Sonata op.
30 n. 1 di Beethoven e la Sonata di Franck). Richter, risenten-
do nel 1972 la registrazione, cosı̀ la commentò:
216 Š O S T A K O V I Č

È un documento: la prima esecuzione di questo notevole lavoro che tuttavia,


devo confessarlo, non è particolarmente vicino al mio cuore e che, per conse-
guenza, non mi era riuscito facilmente durante le prove. Tuttavia, la première
ebbe luogo. Il successo fu enorme, e Šostakovicˇ, venuto a salutare sulla scena,
ci mormorava, perché aveva paura di cadere camminando: ‘‘Temo lo scan-
dalo... Voi capite? Lo scandalo...’’.

Gambe malferme, paura di cadere. E il peggio, come ve-


dremo fra poco, non era ancora arrivato.
CAPITOLO XXV 217

CAPITOLO XXV

‘‘DER TOD IST GROSS’’

Nel gennaio del 1969 Šostakovič dovette passare altre set-


timane in ospedale. Le visite ai ricoverati erano state limitate
al minimo perché a Mosca imperversava una epidemia di in-
fluenza, e Šostakovič, che leggeva sempre molto quando si
trovava isolato, cominciò a riordinare e a scegliere fra la miria-
de di testi poetici che conosceva per mettere insieme una spe-
cie di libretto di oratorio. Di ‘‘oratorio’’ egli parlò in una let-
tera a Glikman dell’1 febbraio. Il 17 febbraio annunciò all’a-
mico di aver completato la stesura canto-pianoforte della sua
‘‘nuova opera’’. E disse: ‘‘Non può essere chiamata oratorio,
visto che si suppone che un oratorio debba avere il coro, e la
mia opera non lo ha. Ha però dei solisti – un soprano e un
basso’’. Dopo altri tentennamenti Šostakovič decise di chiama-
re sinfonia ciò che aveva scritto: la Sinfonia n. 14 op. 135 per
soprano, basso, archi e percussione, dedicata a Benjamin Brit-
ten, che a Šostakovič aveva dedicato nel 1968 Il Figliol Prodigo.
Nella Sinfonia n. 14 non c’è una tonalità di base e prevalente
e perciò non si danno per essa le indicazioni di tonalità e mo-
dalità.
Senza voler fare una astratta questione nominalistica si può
osservare che la Sinfonia n. 14 è in realtà un Liederkreis, un ci-
clo di undici romanze su testi di vari poeti: Garcı́a Lorca (nn.
1 e 2), Apollinaire (nn. 3, 4, 5, 6, 7, 8), Küchelbecker (n. 9),
Rilke (nn. 10 e 11). Šostakovič poté essere forse indotto ad
adottare il termine sinfonia seguendo l’esempio della Sinfonia
di Primavera op. 44 di Britten, che impiega tre solisti di canto,
coro e coro di voci bianche e orchestra. Ma la sua Sinfonia n.
14 è un po’, come il Canto della Terra di Mahler che Šostako-
218 Š O S T A K O V I Č

vič prediligeva, una ‘‘sinfonia di Lieder’’. Il tema ideologico


che nella Quattordicesima Sinfonia determina la scelta dei testi e
che dà unità alla composizione è la morte nel suo aspetto più
crudo e disperato. Il supplizio di Sten’ka Razin era atroce, ma
la sua morte non era vana. Presentando il suo nuovo lavoro a
un pubblico di invitati a una prova, il 21 giugno 1969, Šosta-
kovič dichiarò invece di non poter consentire con i lavori dei
‘‘grandi classici’’ – e citò il Boris Godunov, l’Otello, l’Aida, il
War Requiem di Britten – nei quali la morte pacificata dei pro-
tagonisti provoca in noi ‘‘una beatifica serenità’’. E aggiunse:
[...] mi sembra di aver seguito almeno in parte le orme del grande compositore
russo Musorgskij. Il suo ciclo Canti e Danze della Morte – può darsi non
tutto, ma per lo meno Il Maresciallo di campo – è una grande protesta contro
la morte e una ammonizione a vivere la nostra vita onestamente, nobilmente,
dignitosamente, senza commettere mai cattive azioni. [La Morte] attende tutti
noi. Non vedo nulla di buono in una tale fine delle nostre vite, ed è questo,
ciò che tento di comunicare in quest’opera.

La Sinfonia n. 14 esprime desolazione e angoscia esistenzia-


li in una tragica misura e non corrisponde minimamente, sia
detto per inciso, all’ottimismo di maniera che ancora negli an-
ni sessanta informava l’indirizzo ufficiale della cultura sovietica.
L’organico strumentale prevede un ristretto numero di archi
(dieci violini, quattro viole, tre violoncelli, due contrabbassi),
alcuni strumenti a percussione (castagnette, tamburo di legno,
tre tom-tom di diversa altezza, frusta, campane, vibrafono, si-
lofono) e la celesta. Nella prima versione venne adottata per
tutti i testi la traduzione russa, ma Šostakovič autorizzò poi
l’esecuzione con tutti i testi in traduzione tedesca, e infine con
tutti i testi nelle lingue originali; sia la versione in tedesco che
la versione nelle lingue originali richiedono alcuni, e talvolta
non marginali adattamenti delle linee vocali. La prima lirica,
De Profundis, per basso, inizia con un tema che tornerà nella
penultima lirica, costruito sulla cellula tematica di base dell’In-
termezzo op. 118 n. 6 di Brahms. L’identità delle due cellule
potrebbe anche essere casuale, ma sembra a me più probabile
che Šostakovič abbia volutamente ripreso l’inizio di uno dei
CAPITOLO XXV 219

più tragici pezzi di Brahms, scritto pochi anni prima della


morte. La strumentazione prevede soltanto gli archi, con
esclusione dei violoncelli, il tessuto sonoro è lievissimo, miste-
rioso, e su di esso si staglia il testo di Garcı́a Lorca, intonato
sillabicamente dal basso. Il De Profundis è dedicato dal poeta ai
‘‘cento innamorati’’ che ‘‘dormono per sempre sotto la terra
secca’’ in Andalusia. Il pezzo seguente, Malagueña, per sopra-
no, è strumentato per archi con un breve intervento, alla fine,
delle castagnette. Ritmi tipici, temi ricalcati sui caratteri del
folclore spagnolo, colpi d’arco che danno l’idea del complesso
di chitarre scandiscono gli interventi distanziati del soprano
che intona, nei modi del cante hondo andaluso, il breve testo
di Garcı́a Lorca che inizia e termina con i versi ‘‘La morte /
entra ed esce / dalla taverna’’. Loreley è una ballata drammatica
che Guillaume Apollinaire riprese da Clemens Brentano (e
che nella terza versione della Sinfonia non viene cantata in
francese ma in tedesco). La ballata narra la storia della bionda
Loreley, accusata di stregoneria e citata davanti al tribunale ve-
scovile. Abbandonata dal suo amato e disperata, Loreley si
confessa strega e chiede di morire, ma il vescovo, innamorato
di lei come tutti gli uomini, la condanna a prendere il velo in
un convento in cui la fa condurre da tre cavalieri. Loreley im-
plora i cavalieri che la lascino salire sulla roccia alta sul Reno
per vedere ancora una volta il castello dei suoi amori e per
specchiarsi di lassù nelle acque del fiume. Dall’alto della roccia
crede di scorgere una navicella con il suo amato che la chia-
ma: si getta e perisce nel Reno. Šostakovič impiega in Loreley
gli archi e gran parte degli strumenti a percussione, dividendo
il testo fra il soprano e il basso: il soprano impersona Loreley,
il basso il Vescovo e il narratore, per un insieme che è una
vera e propria scena d’opera. La forma è ternaria, con esposi-
zione, sviluppo, riesposizione. Ma all’audizione si coglie so-
prattutto l’organizzazione plastica del discorso, che alterna zo-
ne di densità massima e di sonorità compatta del tessuto e zo-
ne di densità rarefatta e di sonorità pungente.
Il contrasto che si crea fra la agitata drammaticità di Loreley
e l’allucinata atmosfera del quarto Lied, La Suicida, è violentis-
220 Š O S T A K O V I Č

sima, e i due pezzi costituiscono, nell’economia architettonica


generale della composizione, il primo punto culminante. La
Suicida è strumentato per soprano, campane, silofono, celesta,
archi con un violoncello e un contrabbasso solisti. Più volte la
voce di soprano è sostenuta soltanto dal violoncello solista, in
una dinamica sottile e cupa; alla fine il violoncello è sostituito
dal contrabbasso, che conclude la composizione da solo, insie-
me con due rintocchi di campana. L’atmosfera macabra della
musica riflette esattamente un testo di tremenda e persino ri-
buttante forza emotiva: ‘‘Tre grandi gigli sulla mia tomba sen-
za croce’’, dice la suicida; ‘‘uno esce dalla mia ferita’’, ‘‘l’altro
esce dal mio cuore [...] mangiato dai vermi’’, ‘‘l’altro dalla mia
bocca’’. Tre gigli ‘‘solitari e maledetti, credo, come me’’. I
due Lieder che seguono, intitolati Le Donne in Attesa I e II,
molto più brevi dei due precedenti, fungono architettonica-
mente da intermezzo. Il primo, per soprano, è caratterizzato
da un tema militaresco di marcia grottesca, di dodici suoni,
esposto dallo silofono, e da un ampio uso della percussione, il
secondo, per soprano e basso, è breve, lentissimo, misterioso.
Nel primo la voce di soprano racconta di un soldatino, ‘‘mio
fratello e mio amante’’, che morirà in trincea la sera: ‘‘È l’ora
dell’Amore dalle ardenti nevrosi. È l’ora della Morte e dell’ul-
timo giuramento’’. Il secondo pezzo inizia con un’osservazio-
ne casuale, come quella di un passante cortese: ‘‘Signora,
ascoltatemi; state perdendo qualcosa’’. ‘‘Il mio cuore non è
gran cosa’’, risponde la donna, ‘‘Raccoglietelo: l’ho dato e
l’ho ripreso’’. La banalità del dialoghetto, dopo la tensione
lancinante del precedente Lied, fa irrompere una dimensione
surreale vertiginosa; e la linea del canto, rotta come un sin-
ghiozzo, esprime splendidamente questo momento, trasfor-
mando l’intermezzo in un punto culminante negativo.
In Nella Prigione della Santé, per basso, Šostakovič impiega
soltanto gli archi e il tamburo di legno. La densità della scrit-
tura degli archi viene giocata con una superba maestria, sia
nella compressione o rarefazione lineare, sia nella ampiezza
dello spettro sonoro. Verso la metà della composizione un fu-
gato fantomatico viene condotto sommando due modi di at-
CAPITOLO XXV 221

tacco (pizzicato e col legno, cioè con la corda battuta dall’asta


dell’arco) che trasforma completamente la timbrica degli archi,
assimilandola alla percussione. Il testo di Apollinaire è il solilo-
quio allucinato di un carcerato che si sente un ‘‘Lazzaro che
entra nella tomba invece di uscirne, come fece’’. Ridotto a
numero – ‘‘il quindici dell’undicesimo [braccio]’’ – il prigio-
niero chiede pietà per la sua ‘‘debole ragione’’ e per la ‘‘dispe-
razione che l’afferra’’. Ma: ‘‘A sera ecco che brucia / Una
lampada nella prigione / Siamo soli nella mia cella / Bel chia-
rore, cara ragione’’. Dopo Nella Prigione, con la Risposta dei
Cosacchi di Zaporog al Sultano di Costantinopoli, tocchiamo il se-
condo punto culminante. Non è tanto una ‘‘risposta’’ quanto
una invettiva di atroci insulti, quella rivolta dai cosacchi di Za-
porog al sultano. Il pezzo è per basso e archi, con una scrittura
aspra che si raggruma alla fine, nella conclusione puramente
strumentale, in una specie di violenta, cosmica risata che
schernisce tutti i tiranni.
O Del’vig, Del’vig! è l’unico testo scelto da Šostakovič di
un poeta dell’Ottocento, contemporaneo e amico di Puškin.
Wilhelm Küchelbecker, decabrista incarcerato per vent’anni,
si rivolge all’amico Anton Del’vig per chiedere ‘‘dov’è la ri-
compensa delle belle azioni e della poesia’’, e risponde che
‘‘l’immortalità è il premio per le nobili e valenti azioni, per la
dolcezza dei canti poetici’’. ‘‘Cosı̀’’, conclude, ‘‘la nostra
unione non perirà, [...] ferma è l’unione degli amanti della
musa eterna’’. Il Lied è per basso e archi, ma Šostakovič im-
piega quasi esclusivamente i violoncelli divisi e i contrabbassi
divisi, creando una larga fascia di suoni gravi in lenta evolu-
zione. La Stimmung elegiaca di O Del’vig, Del’vig! rappresen-
ta secondo me il secondo punto culminante negativo e apre
la parte conclusiva del lavoro, La Morte del Poeta. La Morte del
Poeta è scritto per soprano, vibrafono e archi. Il tema princi-
pale è quello dell’iniziale De Profundis, esposto all’inizio dai
primi violini ma in posizione più acuta (un’ottava sopra). La
densità del tessuto è tenue, i suoni degli archi e i pochi suoni
del vibrafono hanno la consistenza lattiginosa di una nebbia, e
la voce del soprano si muove nel registro del mezzosoprano;
222 Š O S T A K O V I Č

frammenti del tema esposti dalle viole, al limite della audibili-


tà, concludono la Morte del Poeta. A dare la sensazione – illu-
soria – della fine del ciclo contribuisce, naturalmente, il testo
di Rilke, testo in cui la morte è vista come ritorno alla natura
(‘‘Il suo viso, spaventato ora dalla morte, è tenero e aperto
come l’interno di un frutto che imputridisce all’aria’’). Šosta-
kovič aggiunge però la Conclusione, su brevissimo testo (sei
versi) di Rilke. Vengono impiegati i due solisti in coppia, gli
archi e tre strumenti a percussione (tamburo di legno, casta-
gnette, il tom-tom più grave) e vengono ripresi modi di scrit-
tura degli archi (come il pizzicato e il col legno sovrapposti)
già usati in precedenza. L’espressione è tutt’altro che consola-
toria. Partendo da un tessuto molto frazionato, Šostakovič
raggiunge progressivamente la massima densità e la massima
forza, creando un ultimo punto culminante in quello che è
un vero e proprio, atterrito riconoscimento del potere della
morte: ‘‘La Morte è grande. / Noi siamo suoi, / bocche ri-
denti. / Quando crediamo di essere nel seno della vita /Lei
osa piangere / nel nostro seno’’.
Riprendendo a scrivere sinfonie dopo sette anni Šostako-
vič spostava i suoi interessi poetici dalla storia russa a se stesso,
a se stesso come scheggia dell’umanità e del suo ineluttabile
destino di morte. L’attacco di cuore che lo aveva colpito nel
’67, le lunghe degenze in ospedale, gli insoddisfacenti risultati
delle cure mediche lo portavano a meditare sulla morte e a
scoprirsi completamente disarmato contro di essa. ‘‘Der Tod
ist gross’’, La Morte è grande, noi siamo soggetti alla sua im-
placabile tirannia. Nella lettera-confessione a Glikman che ho
prima citato Šostakovič aveva detto di pensare di esser vissuto
troppo a lungo e di essere sgomento di fronte alla prospettiva
di vivere, di dover vivere ancora per dieci anni. In realtà, egli
cercava tenacemente di protrarre la vita e temeva la morte in
un modo persino infantile: mentre componeva aveva paura di
perire senza aver finito l’opera incominciata, e quando l’aveva
finita aveva paura di perire prima di averla ascoltata. Mentre
era ricoverato in ospedale nei primi mesi del 1969 sentı̀ parla-
re di un chirurgo ortopedico siberiano che aveva rimesso in
CAPITOLO XXV 223

piedi il primatista di salto in alto Valerij Brumel’, costretto al


ritiro in seguito a un incidente motociclistico. Ne parlò a
Glikman il 2 gennaio e poi l’1 febbraio, in un modo che fa
tenerezza e che ci colpisce per la sua francescana mansuetu-
dine:
Uscirò di qua dopo il 15. Brumel’ (l’atleta) l’hanno guarito anche se cammi-
nava con le stampelle da due anni e mezzo. Dopo le cure presso Ilizarov ha
cominciato l’allenamento e già ottiene eccellenti risultati.
Io non voglio saltare. Voglio poter prendere un autobus, un filobus, un tram.
Voglio mettere piede sulle scale mobili del metrò senza morire di paura. Voglio
salire e scendere le scale senza fatica. Sono desideri modesti. Qui mi hanno
promesso di rinforzare le gambe e la mano destra. Chi vivrà, vedrà.

Šostakovič aveva preso contatto con il chirurgo siberiano


e voleva sottoporsi alle sue cure. Ma per il momento soprasse-
dette e, appena uscito dall’ospedale, si mise al lavoro, genero-
samente, non per sé ma per un allievo. In maggio strumentò,
per grande orchestra, il Concerto per violoncello che Boris Ti-
ščenko aveva scritto, stravinskianamente, per orchestra di fiati
e percussioni. Tipico di Šostakovič, della sua, ripeto, france-
scana mansuetudine e della sua delicatezza d’animo è il tono
della lettera che mandò a Tiščenko il 15 maggio:
Caro Boris,
con trepidazione Le invio la partitura. Mi creda, ho orchestrato il suo Con-
certo con estremo rispetto e con molta ammirazione per la partitura.
Al nostro prossimo incontro Le darò spiegazioni più dettagliate.
Adesso cercherò di giustificarmi rispetto a una questione basilare: probabilmente
mi si è rovinato l’orecchio, visto che mi indispone ascoltare troppo a lungo gli
strumenti a fiato. Per questo non ho utilizzato troppo il suono dei fiati e ho
tolto completamente dalla partitura gli ottoni. In questo modo ho risolto due
problemi: il suono non mi verrà a noia e il violoncello solista sarà udito co-
munque. [...]
Non ho inserito altre invenzioni di particolare importanza. Ma a tutte le Sue
domande risponderò al primo incontro. E spero che le mie ragioni La convince-
ranno.

Per la prima esecuzione della Quattordicesima Sinfonia, che


gli stava molto a cuore, Šostakovič aveva pensato all’Orchestra
224 Š O S T A K O V I Č

da camera di Mosca, fondata e diretta da Rudolf Baršaj. E il


21 giugno ebbe luogo nella Sala piccola del conservatorio di
Mosca l’esecuzione di prova di cui ho già detto, con il sopra-
no Margarita Mirošnikova e il basso Evgenij Vladimirov, di-
rettore Baršaj. Fra gli invitati c’era Pavel Apostolov, specialista
di musiche militari che nel ’48 era stato uno fra i più coriacei
accusatori di Šostakovič. Durante il quinto Lied Apostolov,
che sedeva in prima fila, uscı̀ rumorosamente dalla sala, e tutti
credettero che lo facesse in segno di protesta. Ma quando l’e-
secuzione fu terminata e la valanga degli applausi si fu acque-
tata, il pubblico che sfollava vide Apostolov sdraiato nel foyer
e circondato da medici e infermieri. Aveva avuto un infarto,
morı̀ il 19 luglio. Passate le vacanze in Romania, Šostakovič e
la moglie si spostarono in agosto a Irkutsk (il lettore ricorda
ancora che la madre di Šostakovič era stata allieva in quella
città dell’istituto scolastico che educava le fanciulle della buona
società?), riposando in una pensione sul Lago Bajkal, e poi a
Ulan-Ude, dove piovve sul capo del compositore la ennesima
nomina onorifica, Artista del Popolo della Repubblica di Bur-
jatija. Ritornato a Mosca, Šostakovič dovette destreggiarsi in
un piccolo intrigo che accompagnò la prima esecuzione pub-
blica della Quattordicesima Sinfonia. Galina Višnevskaja era stata
l’interprete designata già in giugno ma non aveva fatto in
tempo a imparare il ruolo. In settembre chiedeva che la Miro-
šnikova, più giovane e meno famosa, si facesse rispettosamente
da parte dopo averle tenuto in caldo il posto. Sfoggiando tutta
la loro diplomazia, Šostakovič e Baršaj misero d’accordo le
due dive proponendo di cambiare il cast vocale nella seconda
esecuzione prevista a Leningrado. Alla fine la Mirošnikova re-
stò a secco, ma si consolò perché, essendo indisponibile la ri-
vale, toccò a lei l’onore di fare il disco. Šostakovič si recò a
Leningrado e ascoltò la Sonata per violino eseguita da Ojstrach
e Richter e, il 28 e il 29 nella Capella, non nella sala della
Filarmonica, la Sinfonia. Cantarono entrambe le volte la Vi-
šnevskaja e Vladimirov. Il 6 ottobre la Sinfonia ebbe la sua
prima moscovita nella Sala grande del conservatorio, ancora
con la Višnevskaja ma con un altro basso, Mark Rešetin. La
CAPITOLO XXV 225

Višnevskaja e Rešetin cantarono anche nella prima esecuzione


all’estero, che ebbe luogo il 14 giugno 1970 durante il Festival
di Aldeburgh, direttore Benjamin Britten.
La Quattordicesima Sinfonia era travolgente per la sua im-
mane forza creativa, e ottenne il trionfo ovunque fu eseguita,
ma la sua filosofia che appariva radicalmente pessimistica, per
non dire nichilistica, provocò anche reazioni negative. Pur
con tutta la comprensione umana che il personaggio merita
non si può dare troppo peso a ciò che disse Solženicyn, se-
condo il quale la lirica di Apollinaire, Nella prigione della Santé,
nata da una banale incarcerazione di pochi giorni del poeta,
era inadeguata per far capire le sofferenze di milioni di vittime
dei gulag sovietici. Stupisce invece il comportamento di Lebe-
dinskij. I suoi rapporti con Šostakovič si erano allentati già do-
po il matrimonio con Irina. Dopo aver ascoltato la Sinfonia
Lebedinskij scrisse a Šostakovič una lettera, di cui abbiamo
soltanto notizia indiretta, dicendo che il suo affetto rimaneva
immutato ma che la loro amicizia era rotta per sempre. A
quanto riferisce Irina, Šostakovič avrebbe cosı̀ commentato:
‘‘Disgraziatamente, Lebedinskij è diventato vecchio e stupi-
do’’. Non abbiamo elementi sufficienti per discutere veramen-
te a fondo il sostrato emotivo, e filosofico, della Sinfonia. Ci
sarebbe un piccolo spiraglio, se potessimo fidarci interamente
di Lebedinskij. Ma possiamo fidarci? In verità, io ne dubito.
Tuttavia riferirò la sua testimonianza. Nel 1993 Lebedinskij,
pubblicando un breve scritto su un rivista russa, raccontò che
Šostakovič, rispondendo alla domanda se credeva in Dio, ave-
va risposto: ‘‘No, ma mi spiace molto’’. Ho già accennato al
tema della latente religiosità di Šostakovič, dicendo di non po-
terne veramente parlare con conoscenza di causa. Senza alcun
dubbio egli sentiva con forza l’imperativo categorico kantiano.
Se il suo personale sentimento della dignità della vita e del
retto operare avesse anche riflessi di trascendenza è però una
domanda senza risposta. Ma, per ritornare alla Quattordicesima
Sinfonia e al suo ‘‘messaggio’’, ci si può chiedere che ci stia a
fare in questo medievale trionfo della morte, secondo una lo-
gica drammaturgica, la Risposta dei Cosacchi di Zaporog al Sulta-
226 Š O S T A K O V I Č

no di Costantinopoli. Se è vero, come dice Šostakovič, che la


Sinfonia nasce da una ‘‘grande protesta contro la morte’’, la
Risposta dei Cosacchi diventa però simbolica e si pone al centro
dell’opera. E la risposta alla protesta, positiva, è contenuta nel-
la lirica che segue: ‘‘L’immortalità è il compenso per le nobili
e valenti azioni e per i dolci canti poetici’’. Der Tod ist gross,
ma la Regina dell’Universo è la Poesia che qui, rispetto al ci-
clo su testi di Blok, subentra alla Musica. Resterebbe natural-
mente da capire perché, dopo O Del’vig, Del’vig!, Šostakovič
collocasse le due poesie di Rilke. Confesso di non aver trova-
to una risposta. Tuttavia credo che l’intreccio delle tematiche
che formano l’ordito emotivo, filosofico, e infine drammatur-
gico della Quattordicesima Sinfonia, capolavoro assoluto della
musica del Novecento, siano assai più intricate di quanto non
appaiano se ci si ferma a vedere nell’ultima lirica la ‘‘morale’’
dell’opera.
CAPITOLO XXVI 227

CAPITOLO XXVI

KURGAN, IL CAMMINO DELLA SPERANZA

Dopo l’esecuzione a Mosca della Quattordicesima Sinfonia


Šostakovič passò nuovamente un lungo periodo in un ospeda-
le della capitale. Ma quella volta, dopo anni e anni durante i
quali avevano brancolato nel buio, i medici riuscirono final-
mente a diagnosticare la sua malattia. A Glikman, il 23 no-
vembre:
Ora si è fatta una certa chiarezza sul motivo del cattivo funzionamento delle
mie estremità. È, per quanto possa sembrare strano, poliomielite. Questa ma-
lattia di solito viene durante l’infanzia. E molto raramente anche in età se-
nile.
Di conseguenza non andrò a Kurgan dal dottor Ilizarov. La chirurgia in que-
sto caso non ha senso.

Non si trattava in realtà di poliomielite ma, probabilmen-


te, di sclerosi laterale amiotrofica o morbo di Charcot, meglio
nota come morbo di Lou Gehrig dal nome di un famoso gio-
catore di baseball che ne fu colpito. Una malattia rarissima per
la quale non esisteva, e non esiste a tutt’oggi una terapia ma i
cui effetti devastanti possono essere ritardati mediante una co-
stante somministrazione di farmaci e con la riabilitazione (mas-
saggi, ginnastica, passeggiate). Dimesso dall’ospedale il 23 di-
cembre, in gennaio Šostakovič si recò a Leningrado per vede-
re il film Re Lear, per il quale avrebbe scritto la musica. Ma in
febbraio si recò a Kurgan e vi rimase fino alla metà di giugno.
‘‘Non sono costretto a stare a letto, ma a dire il vero più che
camminare, striscio’’, scrisse il 15 marzo al regista del Re Lear,
Kozincev. Il 17 aprile poteva però dire a Tiščenko: ‘‘Le cure
qui vanno bene. Ho già fatto grandi progressi. Cammino mol-
228 Š O S T A K O V I Č

to meglio, suono il pianoforte, supero gli ostacoli. Fisicamente


sono diventato più forte’’. E l’11 maggio – e ciò che dice ren-
de l’idea di quanto drammatica dovesse essere stata la sua con-
dizione fisica prima del ricovero e ci riempie di ammirazione
per la abnegazione della moglie Irina, che gli fu sempre devo-
tamente al fianco – Šostakovič disse a Glikman: ‘‘Ho fatto
molti progressi: riesco a suonare il pianoforte, salire e scendere
le scale, prendere l’autobus (veramente, con un po’ di fatica).
G.A. Ilizarov mi ha restituito le forze. Ora bisogna ripristinare
la tecnica. Ho ricominciato a fare molte cose. Con la destra
mi faccio la barba, mi abbottono, riesco a infilarmi il cucchiaio
in bocca e cosı̀ via’’. Studiava il pianoforte due o tre ore al
giorno, fantasticando di ritornare a suonare in pubblico. E
componeva. A Kurgan vennero composti per intero le otto
ballate Lealtà op. 136 per coro maschile a cappella e quasi per
intero la colonna sonora del Re Lear, op. 137, e il Quartetto n.
13 in si bemolle minore op. 138. Šostakovič ritornò a Mosca alla
metà di giugno ma non poté andare ad Aldeburgh per la pri-
ma esecuzione della Quattordicesima Sinfonia in Occidente
(‘‘Ho persino pianto dal dispiacere’’, a Britten, 16 giugno
1970). In luglio soggiornò a Repino e lavorò a Leningrado al-
la registrazione del Re Lear. Il Quartetto n. 13 fu ultimato il 10
agosto. Šostakovič andò di nuovo a Kurgan alla fine del mese
e vi rimase fino alla fine di ottobre. Aveva presentato a un
concorso la breve Marcia della Milizia Sovietica per banda op.
139: seppe in novembre di averlo vinto. Il 5 dicembre fu a
Tallinn per la prima esecuzione di Lealtà, dedicato al direttore
del Coro di Stato Estone, Gustav Ernesaks, il 13 fu a Lenin-
grado per la prima esecuzione del Quartetto n. 13, che fu ripe-
tuta a Mosca il 20. Il 21 riapparı̀ in pubblico a Mosca in
un’occasione ufficiale: come presidente del Comitato per le
celebrazioni del secondo centenario della nascita di Beethoven
pronunciò il discorso di apertura, prima che venisse eseguita la
Nona Sinfonia.
Ma nel 1970 era caduto un altro centenario, quello della
nascita di Lenin, e le ballate Lealtà erano il contributo di Šo-
stakovič all’anniversario. Molti critici ritengono che mandare
CAPITOLO XXVI 229

un segnale della sua convinta partecipazione alle celebrazioni


per Lenin fosse per il Nostro un obbligo imprescindibile. Può
anche darsi che cosı̀ sia. Non mi sembra però di poter notare
nulla di forzato nella decisione di Šostakovič. Il problema che
si ripropone qui è lo stesso del quale ho parlato a proposito
della Sinfonia n. 12 ‘‘Anno 1917’’, e io non penso che Šosta-
kovič fosse insincero quando addirittura, invece di scegliere
testi di Lenin o testi già esistenti su Lenin, prese l’iniziativa di
invitare a casa sua Dolmatovskij, tipico poeta di regime, per
chiedergli di scrivere otto poesie che riflettessero il succo di ri-
petute conversazioni su Lenin e sulla sua opera di rivoluziona-
rio e di statista. Nei versi di Dolmatovskij Lenin diventa più
che il padre dell’Unione Sovietica, diventa una figura messia-
nica, una figura-cardine nella storia dell’umanità, maggiore di
Dio, Confucio, Budda, Allah. Il tono scopertamente ed estati-
camente agiografico assume, ovviamente, riflessi religiosi, e
l’insieme diventa per noi intellettualmente imbarazzante. Ma
la musica è radiosa a un punto tale da far dimenticare le paro-
le. Šostakovič, in una intervista televisiva in coincidenza con
la prima esecuzione a Mosca del 25 febbraio 1971, disse: ‘‘Mi
sembra che le parole di Dolmatovskij su cui sono basate le
mie ballate contengano riflessioni liriche serie e molto sincere
su Lenin, sulla Madrepatria, sul Partito’’. Ora, se Šostakovič
non fosse stato sincero il suo cinismo, la sua doppiezza sareb-
bero state gesuitiche in un grado infamante, o sarebbero l’in-
dice di una dissociazione psichica che non risulta dall’insieme
dei suoi atti negli ultimi anni di vita. La esecuzione di Lealtà –
titolo simbolico? e autobiografico? – avvenne quasi in coinci-
denza con gli attacchi che il regime stava portando a Solženi-
cyn dopo l’attribuzione, in ottobre, del Premio Nobel. Šosta-
kovič non fu solidale con Rostropovič, che aveva protestato
pubblicamente contro le accuse mosse allo scrittore. E io cre-
do di dover ribadire ciò che dicevo a proposito della Dodicesi-
ma Sinfonia e della iscrizione al Partito: Šostakovič, avendo ac-
cettato di vivere nella Unione Sovietica e di operarvi da artista
secondo il progetto politico che ne costituiva la ragion d’esse-
230 Š O S T A K O V I Č

re, affrontava responsabilmente tutto ciò che questa decisione


comportava. Ma su questo argomento dovrò ancora ritornare.
Il Quartetto n. 13 op. 138 è in un solo movimento, un
Adagio articolato in cinque sezioni, per una durata di circa
venti minuti. L’uso delle dodici note è subito evidente: la vio-
la, protagonista del Quartetto che, come il lettore sa, è dedicato
all’ex-violista del Quartetto Beethoven, espone un tema fram-
mentato in quattro sezioni, ciascuna di quattordici suoni con
gli ultimi due uguali al primo. La natura non dodecafonica ma
tonale di questo tema è molto chiara. Il tema sviluppa melodi-
camente tre funzioni dell’armonia tonale: i primi quattro suoni
danno l’accordo sulla tonica di si bemolle minore con una ap-
poggiatura che risolve regolarmente, i secondi quattro suoni
danno l’accordo di quinta diminuita sulla sensibile di si bemol-
le minore, con una appoggiatura che risolve, e il terzo gruppo
di quattro suoni dà, sempre con una appoggiatura, l’accordo
di tonica di sol maggiore con il ritorno – ultimi due suoni –
al si bemolle. La tonica di sol maggiore dopo la terza minore
e quinta diminuita sul settimo grado di si bemolle minore è
una delle possibili risoluzioni di questo accordo molto instabi-
le: il tema, armonicamente, è dunque una cadenza ad inganno
il cui sviluppo melodico maschera ma non distrugge la sensa-
zione della tonalità. Qualcosa di simile, senza scomodare
Schönberg, può essere trovato già in Liszt. La tecnica compo-
sitiva, nel modo di sfruttare questo tema ricco di potenzialità,
non è dodecafonica ma si richiama semmai a Bartók, cosı̀ co-
me a Bartók si richiama la forma simmetrica ad arco, A-B-C-
B-A. E la tecnica strumentale sfrutta a sua volta anche gli ef-
fetti percussivi della Quattordicesima Sinfonia, di lontana origine
bartókiana. La Stimmung è simile a quella della Sinfonia ma
ricorda anche il Lamento delle musiche per il film Re Lear. Il
Quartetto n. 13 è come un poema notturno, un sonno della
ragione che, goyescamente, genera mostri paurosi, ivi compre-
sa come episodio centrale una danza, una specie di fox-trot in
cui sembra fare la sua apparizione la Morte. L’accostamento
del lirico-introspettivo e del banale-grottesco non è affatto in-
frequente nei Quartetti di Šostakovič, anzi, possiamo dire che
CAPITOLO XXVI 231

ne è un topos. In questo caso, però, grazie alla timbrica, que-


sto procedimento acquista una forza rappresentativa straordi-
naria.
Archiviato il 1970 con il discorso di apertura delle cele-
brazioni beethoveniane, Šostakovič dovette ritornare in ospe-
dale, a Mosca, per esami clinici. In febbraio assistette a un
concerto dell’Unione Compositori, restando colpito dall’Ottet-
to di Galina Ustvol’skaja a un punto tale da dover uscire:
‘‘L’Ottetto mi ha dato sensazioni cosı̀ forti che non sono riu-
scito a rimanere per assistere alla seconda parte [...]. L’Ottetto
mi ha snervato e privato della forza per ascoltare oltre. È una
musica sorprendentemente bella e possente’’ (a Tiščenko, 9
febbraio). In aprile Šostakovič incontrò più volte Britten,
giunto a Mosca per un festival di musica britannica. Passò il
mese di giugno a Kurgan, dove trascrisse per orchestra le Sei
Romanze su versi di poeti inglesi op. 62 a cui assegnò il nume-
ro d’opera 140, e dove cominciò a lavorare sulla Sinfonia n.
15 in la maggiore op. 141. La finı̀ a Repino il 29 luglio. La
Quindicesima Sinfonia, in quattro movimenti, senza testi o
programmi e apparentemente ‘‘classica’’, è in realtà un enig-
ma, non tanto per le varie citazioni, fra cui le più importanti
sono il tema dell’ultima sezione della ouverture del Guglielmo
Tell e i temi ‘‘del destino’’ della Valchiria e della morte di
Sigfrido, di per sé sorprendenti ma perfettamente integrate
nel linguaggio di Šostakovič, quanto per il contrasto fra il
primo movimento e gli altri tre. La Sinfonia si annuncia
gioiosa e fanciullesca nel primo movimento, diventa tragica
nel secondo movimento, che è una marcia funebre, e non
si... risolleva nel terzo, con andamento di scherzo ma non
scherzoso di carattere. Nella Eroica di Beethoven la Marcia fu-
nebre del secondo movimento non influisce sulla Stimmung
dello Scherzo e del finale. Nella Quindicesima di Šostakovič si
va oltre il contrasto fra i movimenti, si va alla negazione, alla
distruzione della positività del primo movimento. Si è persino
tentati di supporre che ci siano state motivazioni psicologiche
legate alle speranze di completa guarigione che accompagna-
vano i soggiorni a Kurgan, dove fu composto il primo movi-
232 Š O S T A K O V I Č

mento, e i malesseri che cominciarono a manifestarsi a Repi-


no. E una lettera a Glikman, che citerò fra poco, ce ne offre
la testimonianza.
Il significato simbolico del tema di Rossini, il tema della
insurrezione vittoriosa contro il tiranno Gessler, e dei temi del
Ring wagneriano è lampante. Fra il primo movimento e gli al-
tri tre c’è però una frattura, una inconciliabilità che secondo
me denuncia una crisi. Il primo movimento è musica all’aria
aperta, con momenti persino bandistici, gli altri tre sono musi-
ca da antro oscuro e minaccioso. Particolarmente impressio-
nante – mette veramente i brividi addosso – è l’ultima sezione
del quarto movimento, con un recitativo degli archi più volte
interrotto da stridenti accordi dei fiati, un assolo della celesta
che accenna al primo tema della Prima Sinfonia, un assolo del
flauto piccolo che beffardamente riprende l’inizio del primo
movimento, e lo svanire della musica su spettrali rintocchi del
wood-block. La Quattordicesima Sinfonia nascondeva, dietro l’e-
videnza di un tema generale perfettamente riconoscibile, una
grande complessità. La Quindicesima Sinfonia è un labirinto in
cui si perde ben presto il filo l’Arianna. E il fatto che tre dei
suoi movimenti siano stati composti a Repino ci priva anche
delle spiegazioni sia pur rapide che Šostakovič dava sempre a
Glikman, per la semplice ragione che Glikman abitava a Le-
ningrado e Šostakovič faceva la spola fra Repino e Lenin-
grado.
Verso la metà di settembre del 1971 Šostakovič, che era
tornato a Mosca, subı̀ il secondo infarto: restò bloccato in
ospedale fino alla metà di novembre e passò poi un mese in
un convalescenziario vicino a Mosca. Il 28 novembre scrisse a
Glikman dicendo:
Il cuore è stato curato bene, ma gambe e braccia si sono molto indebolite.
Quanto si erano rinforzate prima della malattia, tanto adesso vanno di nuovo
male. Evidentemente si dovrà ricominciare tutto da capo.
Può darsi che occorra andare di nuovo a Kurgan.
Mi hanno prescritto di evitare del tutto alcol, nicotina, tè e caffè forti. Che tri-
stezza.
Abbi cura della salute. È tremendo perderla. Gli infarti di quasiasi tipo so-
CAPITOLO XXVI 233

praggiungono in punta di piedi, senza preavviso. Tuttavia, se ti accorgi di


non provare piacere per i primi bicchierini di vodka, vuol dire che la faccenda
si fa seria. Lo avevo notato quando ero ancora a Repino, che la vodka non mi
dava alcun piacere. Questo significa che l’infarto stava arrivando.

La prima esecuzione della Quindicesima Sinfonia sarebbe


stata diretta da Maksim Šostakovič. Dmitrij ne parla a Glik-
man il 30 dicembre:
Dopo un mese di permanenza nel convalescenziario mi sono insediato alla da-
cia. Vado in città per assistere alle prove della Quindicesima Sinfonia, che
Maksim sta portando avanti molto bene. L’8 gennaio ci sarà la prima. Se
Maksim sarà in forma la Sinfonia verrà proprio come si deve. [...]
Io sto bene, però gambe e braccia dopo la malattia si sono indebolite enorme-
mente. Le scale mi sono praticamente inaccessibili. In piano cammino benis-
simo. Forse dovrò di nuovo andare a Kurgan, da Ilizarov.

Ma a Kurgan non andò più. L’8 gennaio 1972 la Quindice-


sima Sinfonia ebbe il suo battesimo a Mosca sotto la bacchetta
di Maksim. Il successo fu completo, e Šostakovič ebbe la gioia
di presentarsi a ricevere gli applausi insieme con il figlio, di cui
era molto orgoglioso. La critica, di fronte a una sinfonia che
essendo senza testi e senza sottotitoli non implicava pericoli di
eterodossia, si lasciò andare a commenti entusiastici. E Chren-
nikov, quel vecchio credente che aveva sempre saputo galleg-
giare come un sughero sulle acque più tempestose, quel volpi-
no Talleyrand del Novecento, decise che la Quindicesima era
‘‘una delle più profonde opere di Šostakovič, piena di ottimi-
smo, l’affermazione della vita, la fede nella inesauribile forza
dell’uomo’’: quei lugubri rintocchi di wood-block dovevano
essere stati interpretati da Chrennikov come i colpi di bastone
che annunciavano l’arrivo della Fortuna, notoriamente benda-
ta. Šostakovič si godette il trionfo e per tutto l’anno non
compose nulla. In maggio andò a Leningrado e a Berlino, a
giugno passò un periodo di vacanza a Gohrisch nella cosiddet-
ta ‘‘Svizzera sassone’’, a luglio andò a Londra, a Dublino (lau-
rea honoris causa) e a Aldeburgh, in ottobre fu a Baku per ri-
cevere il titolo di Artista del Popolo della Repubblica del-
234 Š O S T A K O V I Č

l’Azerbaigian (nel settembre dell’anno prima, avevo dimentica-


to di dirlo, aveva ricevuto l’Ordine della Rivoluzione d’Otto-
bre), in novembre andò di nuovo a Londra e fece una capati-
na a York. Sembra incredibile, date le sue condizioni di salute
(‘‘la mia salute è distrutta’’, aveva scritto a Glikman il 3 aprile),
ma Šostakovič, con la sua forza d’animo e con l’assistenza di
Irina, fece di nuovo il piccione viaggiatore.
La scappata a Leningrado gli diede l’occasione per riconci-
liarsi con Mravinskij dopo gli ‘‘sgarri’’ della Dodicesima Sinfonia
e del Secondo Concerto per violoncello. Mravinskij aveva deciso di
dirigere la Quindicesima Sinfonia senza nulla dire a Šostakovič,
e questi si inquietò, perché voleva andare a Leningrado e te-
meva che il direttore si comportasse un’altra volta ‘‘da filibu-
stiere’’. Invece Mravinskij diresse la Sinfonia, e la diresse da
par suo. A Berlino la Sinfonia fu diretta da Svetlanov con
l’Orchestra Sinfonica di Stato dell’urss in tournée nella Re-
pubblica Democratica Tedesca, ma Šostakovič varcò anche il
Muro per ascoltare Hymnen di Stockhausen. Accettò la presi-
denza del comitato per le celebrazioni del centenario della na-
scita di Skrjabin e la presidenza del comitato per le onoranze a
Gavriil Popov, suo compagno di sventura nel 1948, che era
morto a Repino il 17 febbraio (e l’anno dopo Šostakovič ac-
cettò la presidenza per l’analogo comitato nel centenario della
nascita di Rachmaninov). Fra l’andata a Baku e la seconda an-
data a Londra passò circa un mese in un convalescenziario, e
in dicembre fu ricoverato per l’ennesima volta. Il 16 gennaio
1973 scrisse a Glikman:
Caro Isaak Davydovicˇ,
ho quasi dimenticato che cosa significhi essere a casa. O faccio lunghi viaggi, o
sto all’ospedale. Anche adesso sono in ospedale dal 3 dicembre 1972. Ho co-
minciato con i calcoli renali. Pare che i calcoli che mi avevano causato dolori
molto forti siano usciti. Stavano già per dimettermi, ma ‘‘a ogni buon conto’’
hanno deciso di farmi delle analisi ‘‘complete’’. Come risultato di queste ana-
lisi hanno trovato una cisti nel polmone sinistro, che ora stanno trattando con i
raggi. La cisti diminuisce poco per volta e fra tre o quattro settimane avrò pol-
moni pulitissimi, senza traccia di cisti. Però, purtroppo, braccia e gambe si in-
deboliscono, visto che tutte le attenzioni sono rivolte al polmone. [...]
CAPITOLO XXVI 235

Tieni da conto la salute. Io l’ho persa e mi dispiace tanto. Sono quasi inca-
pace di sbrigare le faccende quotidiane: da solo non riesco a vestirmi, lavarmi
ecc. Nel cervello mi si è guastata non si sa quale molla. Dopo la Quindice-
sima Sinfonia non ho composto nemmeno una nota: per me è una situazione
terribile.

La cisti era cancerosa, e Šostakovič lo sapeva. Dopo essere


stato dimesso dall’ospedale andò a Berlino per ascoltare la Ka-
terina Izmajlova e Il Naso, ritornò per esami in ospedale e in
marzo si trasferı̀ a Repino. Mravinskij venne a fargli visita. Per
festeggiare adeguatamente l’amico ritrovato Šostakovič decise
di infrangere il divieto dei medici e brindò con un bicchierino
di vodka. Era il 23 marzo 1973: il 23 aprile venne ultimato il
Quartetto n. 14 in fa diesis maggiore op. 142. Il liquore aveva
fatto il suo solito effetto e Šostakovič, ottenuto l’assenso dei
medici, che conoscevano le sue condizioni di malato termina-
le, non se ne astenne più. Orientandosi verso la composizione
di un Quartetto, ed essendo un uomo metodico, Šostakovič
sapeva di dover tenere conto di due ‘‘obblighi’’. Il violoncelli-
sta Sergej Širinskij era l’unico dei quattro fondatori del Quar-
tetto Beethoven a non avere ancora ricevuto una dedica e,
dopo il Quartetto n. 13 in si bemolle minore, il circolo delle terze
discendenti, alternando la terza minore e la terza maggiore, li-
mitava la scelta alla sola tonalità di fa diesis maggiore (o di sol
bemolle maggiore, che nel sistema temperato è identica al fa
diesis). Il fa diesis maggiore era stato sempre, per Šostakovič,
la tonalità dell’amore. Quali che fossero le sue condizioni di
spirito, egli si applicò dunque a realizzare al meglio i due ‘‘ob-
blighi’’. Il Quartetto riserva al violoncello un ruolo di speciale
rilevanza, di solista, e per di più il violoncello dialoga spesso
con il primo violino: il primo violino Dmitrij Cyganov era
l’altro superstite della formazione originale del Quartetto Bee-
thoven. Non solo: giocando ingegnosamente sul nome Serëža,
diminutivo di Sergej, Šostakovič costruı̀ il primo tema del fi-
nale con re diesis (cioè mi bemolle pronunciato alla tedesca,
es), mi (e), re (pronuncia della r in russo = nota nella denomi-
nazione latina), mi (lettera cirillica ë, che si pronuncia io in
236 Š O S T A K O V I Č

russo), sol (la lettera russa che si traslittera con ž è pronuncia-


ta con la j francese), la (a). Ulteriore omaggio a Sergej Širin-
skij: citazione dell’aria ‘‘Sergej, mio caro’’ della Lady Macbeth
del Distretto di Mcensk, già citata nel quarto movimento del-
l’Ottavo Quartetto. Schumann era stato un maestro, in questi
giochi criptografici. Šostakovič non è da meno. E rispetta in
pieno l’ambito espressivo che assegna al fa diesis maggiore:
canti e danze primaverili nel primo movimento, Allegretto,
canti e danze nel terzo e ultimo movimento, Allegretto, con
riferimenti ai temi degli altri due movimenti. Nel secondo
movimento, Adagio a modo di passacaglia con un probabile
accenno alla Canzona di Ringraziamento offerta alla Divinità da
un Guarito del Quartetto op. 132 di Beethoven, la tonalità di
mi minore dà modo a Šostakovič di sviluppare una Stim-
mung seriosa. Ma anche nel secondo movimento ritroviamo
il fa diesis maggiore in un episodio sorprendentemente amo-
roso.
Nella parte centrale dell’Adagio appare un tema che sem-
bra derivare, anzi, che deriva dalla Leggenda Valacca per canto
e pianoforte con violoncello obbligato di Gaetano Braga. Più
che un tema, una melodia accompagnata da pizzicati (e ac-
compagnata da pizzicati anche quando viene ripresa nel fina-
le). Šostakovič conosceva il racconto di Čechov Il Monaco ne-
ro, nel quale viene citato due volte il pezzo di Braga, e aveva
cercato la composizione, popolarissima negli ultimi decenni
dell’Ottocento ma a lui ignota. ‘‘Soltanto ieri mi è capitato di
ascoltare questa somma composizione’’, aveva scritto a Ti-
schemko il 22 settembre 1972. Sembrerebbe una battuta iro-
nica. Ma Šostakovič, che progettava di scrivere un’opera tratta
dal racconto di Čechov, trascrisse il pezzo di Braga per sopra-
no, mezzosoprano, violino e pianoforte, e il violista del
Quartetto Beethoven, Fëdor Družinin, racconta che durante
una prova del Quartetto n. 14 Šostakovič parlò della ‘‘italiani-
tà’’ del tema in questione. Quel ‘‘somma composizione’’ è
dunque da prendere... in parola. E, naturalmente, la parafrasi
di un tema di un famoso violoncellista, nel Quartetto dedica-
to a un violoncellista, è un altro segno della inventiva cripto-
CAPITOLO XXVI 237

grafica di Šostakovič. Fatto sta però che qui, come nella Sinfo-
nia n. 15, non si tratta di citazioni ma di assunzioni di temi o
parafrasi di temi che entrano senza alcun sforzo nel linguaggio
di Šostakovič.
238 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XXVII

‘ ‘ V E R I T À , A M O R E , C R E A Z I O N E ,
M O R T E , I M M O R T A L I T À ’ ’

Visto che abbiamo parlato di criptografia e di simbolismo


non posso non far notare – del tutto en passant, si capisce –
che Šostakovič scrisse quindici sinfonie e quindici quartetti.
Quindici è il numero segreto del cinque (cioè la somma dello
stesso cinque e dei numeri che lo precedono), e il cinque è
un numero magico che simboleggia l’uomo fra la terra (1-4) e
il cielo (6-9), a parte il fatto che simboleggia anche la musica
(il pentagramma). Šostakovič non ebbe il tempo per comporre
ventiquattro Quartetti, come avrebbe voluto. Si arrestò a
quindici, lo stesso numero, come dicevo, delle sue sinfonie. E
anche Bach, prima di arrivare ai ventiquattro Preludi e fughe del
Clavicembalo ben temperato, aveva composto quindici Invenzioni
e quindici Symphoniae. Gli esperti della cabbala possono farci
sopra qualche ghirigoro...
Prima di comporre il Quartetto n. 15 Šostakovič scrisse pe-
rò nell’estate del 1973, a Pjarnu (oggi Pärnu) in Estonia dove
passava le vacanze, la Suite op. 143 per contralto e pianoforte
(trascritta poi per contralto e piccola orchestra) su versi di Ma-
rina Cvetaeva. E prima ancora di scrivere la Suite, in maggio e
giugno, aveva fatto addirittura un viaggio in Danimarca e ne-
gli Stati Uniti. A Copenaghen gli era stato conferito il Premio
Sonning, che comportava una forte somma di danaro: Šosta-
kovič, su richiesta specifica, la versò senza fiatare al Fondo So-
vietico per la Pace (e ricevette una medaglia in più). A Evan-
ston nell’Illinois ricevette un’altra laurea honoris causa, e a
New York, dove prese parte a un banchetto in cui era presen-
te Boulez, si trovò... spiazzato – l’episodio ci viene riferito sol-
CAPITOLO XXVII 239

tanto da Glikman – quando il direttore francese gli baciò del


tutto inaspettatamente la mano. Ma a Bethesda nel Maryland,
dopo un ricovero in ospedale di due giorni, Šostakovič seppe
che la diagnosi dei medici moscoviti era esatta e che il cancro
era incurabile: ‘‘Mani e gambe funzionano malissimo’’, scrisse
a Glikman il 17 luglio, ‘‘Non ho speranze di guarigione’’. Il
lettore pensi per un attimo a quello che ciò significa: Šostako-
vič stava per compiere i sessantasei anni, e sapeva che gli resta-
va poco tempo da vivere.
L’interesse per la poesia della Cvetaeva, nata nel 1892,
emigrata con regolare permesso nel 1922, rientrata nell’Urss
nel 1939 e morta suicida nel 1941, era stato suscitato in Šo-
stakovič da un lavoro di Tiščenko, Tre Romanze su versi di
Marina Cvetaeva op. 48, delle quali aveva ricevuto una copia
manoscritta all’inizio del 1971. Šostakovič trasse sei poesie
della Cvetaeva dalla raccolta pubblicata nell’Unione Sovietica
nel 1965. La scelta dei testi si presta, come al solito, all’analisi
delle motivazioni profonde che guidano il compositore. Ma
dopo tutto quello che ho detto e discusso sulla evoluzione di
Šostakovič negli ultimi anni di vita mi pare che siano suffi-
cienti poche osservazioni. Questi i titoli: I Miei Poemi, Da do-
ve viene questa tenerezza?, Dialogo di Amleto e della sua coscienza,
Poeta e Zar, No, il suono del tamburo, Ad Anna Achmatova. Il
tema ideologico, esposto come un indomito slogan nella pri-
ma lirica, è quello della immortalità della poesia: la poetessa –
nel 1913, a ventun’anni – dedica i suoi versi ai suoi ‘‘poemi
senza lettori!, che si trascinano nella polvere dei negozi (dove
nessuno li compra e li comprerà), ai miei poemi la cui ora
verrà, come quella dei vini pregiati’’. E nell’ultima lirica la
Cvetaeva, ventiquattrenne, si rivolge a una grande poetessa:
‘‘Nella mia città che canta, le cupole sono in fiamme, e il va-
gabondo cieco glorifica il Santo Salvatore... E io ti dono la
mia città di campanili, Achmatova!, e il mio cuore’’. Questo
tema non è nuovo nella poetica di Šostakovič, e non sono
nuovi quelli del mistero dell’amore della seconda lirica (scritta
per Osip Mandel’štam) e della superiorità del poeta di fronte
ai potenti (la quarta e la quinta lirica, collegate, rievocano il
240 Š O S T A K O V I Č

destino di Puškin, perseguitato dallo zar Nicola I), mentre è


nuovo il tema del rimorso che compare nel Dialogo di Amleto
dopo la morte di Ofelia e che è espresso con la fissità del rit-
mo ostinato combinata con la variabilità del metro. Ma i
mezzi stilistici impiegati nella Suite op. 143 sono del tutto se-
condari rispetto alla concentrazione e alla forza della rappre-
sentazione, che non è spiegabile attraverso l’analisi. E secondo
me questa forza risulta più icasticamente nella versione con
pianoforte che nella versione con piccola orchestra, nella qua-
le il realismo del tamburo e delle campane diventa più illu-
strativo che espressivo, sebbene il suono degli strumenti ad
arco nel registro grave, nel Dialogo di Amleto, renda in modo
palpabile l’angoscia del personaggio.
Tornato a Mosca in settembre, Šostakovič preparò in ot-
tobre con il contralto Irina Bogacëva e con la pianista Sof’ja
Vakman la prima esecuzione della Suite su versi della Cvetae-
va, ma non poté assistere al concerto, il 30 ottobre, perché era
stato di nuovo ricoverato in ospedale. Fu invece presente alla
prima esecuzione del Quartetto n. 14, tenuta dal Quartetto
Beethoven a Leningrado il 12 novembre. Tutte le prime ese-
cuzioni ottennero un incondizionato successo. Ma Šostakovič
si trovò invischiato in una questione che gli alienò le residue
simpatie degli intellettuali e sulla quale non è stata finora fatta
chiarezza in modo inequivocabile. Verso la metà di agosto si
era scatenata una campagna di stampa contro un esponente
della dissidenza, il grande fisico atomico Andrej Sacharov, a
cui fu poi assegnato nel 1975 il Premio Nobel, non per la fisi-
ca ma per la pace, e che in conseguenza di ciò fu costretto al
soggiorno coatto a Gorkij fino a che non arrivò per lui, da
Gorbačëv, la riabilitazione. Gli attacchi contro Sacharov furo-
no appoggiati da una lettera firmata da dodici musicisti, fra i
quali Šostakovič, pubblicata il 3 settembre. E il 7 settembre la
scrittrice Lidija Čukovskaja fece uscire sui giornali occidentali
una lettera aperta di difesa di Sacharov e di riprovazione dei
musicisti che avevano voluto appoggiare l’attacco. La Čukov-
skaja fu espulsa nel 1974 dall’Unione Scrittori, a riprova del
CAPITOLO XXVII 241

fatto che il regime, se ‘‘provocato’’, non aveva esitazioni nel-


l’usare senza tante cerimonie il pugno di ferro.
Il problema che fu e che viene ancora dibattuto da chi si
occupa di Šostakovič riguarda diversi aspetti della vicenda, e
cioè: perché Šostakovič firmò? e firmò per davvero? e se sı̀, fu
costretto o no a firmare? Le risposte sono molteplici e la que-
stione, che è stata sollevata ancora di recente, non potrà essere
discussa su una base almeno minimamente oggettiva fino a che
non si troverà l’originale della lettera con le firme. In un pri-
mo momento, e ancora per parecchi anni, gli intellettuali con-
dannarono senza appello Šostakovič (la Čukovskaja, nel 1990,
scrisse che ‘‘la firma di Šostakovič sulla protesta dei musicisti
contro Sacharov dimostra irrefutabilmente che la questione
puškiniana è stata risolta una volta per tutte: genio e codardia
sono compatibili’’). In un secondo momento si cominciò a di-
re che la firma gli era stata imposta e che Šostakovič si era
vergognato e pentito amaramente del suo gesto. La testimo-
nianza di Irina Antonovna è più articolata, e purtroppo si pre-
senta in modo diverso in due conversazioni con due persone
che ne riferiscono. Secondo una versione della moglie, Šosta-
kovič avrebbe fatto dire, al funzionario del Partito che si era
presentato in casa sua, di trovarsi nella dacia. Il funzionario si
sarebbe recato nella dacia e Šostakovič si sarebbe reso irreperi-
bile andando a vedere uno dietro all’altro due film, in modo
da rientrare in casa a tarda ora. Ma il giorno dopo avrebbe
trovato sulla Pravda la lettera con la sua firma. L’altra versione
dice che dopo il rientro a tarda ora Šostakovič avrebbe trovato
ad attenderlo il funzionario e che avrebbe firmato. Pur con
tutto il rispetto e con tutta l’ammirazione che sono dovute a
una donna coraggiosa e capace di grandi sacrifici come fu la
terza moglie di Šostakovič, non si può non osservare che que-
ste due versioni sembrano romanzesche e che neppure la pri-
ma di esse è tale da ‘‘scagionare’’ Šostakovič. Ben difficilmente
il musicista poteva essere in grado di sapere che cosa volesse il
funzionario che si presentava in casa sua. E se lo sapeva o lo
sospettava, la sua ‘‘fuga’’ derivava dal fatto che egli prevedeva
di essere incapace di resistere. Secondo la prima versione egli
242 Š O S T A K O V I Č

cedette, secondo l’altra fu turlupinato e non reagı̀. Ma non


poteva comunque pensare che, se anche la lettera fosse uscita
in un primo momento senza la sua firma, il Partito non sareb-
be tornato all’attacco il giorno dopo.
In realtà, secondo me, non è corretto metodologicamente,
per chi vuole operare da storico, non da inquisitore o da agio-
grafo, mischiare e confondere il piano politico e il piano mo-
rale. Forse ci farebbe romanticamente piacere sapere che un
uomo tanto malandato in salute da avere già un piede nella
fossa si fosse battuto in articulo mortis in difesa di un dissiden-
te e magari lo avesse preceduto nel domicilio coatto a Gorkij.
Ma la rivolta morale, se non nasce da un moto impetuoso e
irresistibile dell’animo, è la conseguenza di un giudizio politi-
co. E noi non sappiamo affatto come Šostakovič giudicasse le
iniziative di Sacharov sotto il profilo politico e se vedesse o
non vedesse in lui, eventualmente, la manifestazione di uno
spirito di protesta velleitario. Nel 1963, quando il poeta Iosif
Brodskij era stato condannato a cinque anni di detenzione,
Šostakovič era intervuto, senza proclami, per fargli commutare
la pena in diciotto mesi di confino. Nel 1944, e quindi in
tempi ben più pericolosi, aveva firmato insieme con altri una
petizione, che era stata accolta, perché venisse permesso a
Heinrich Neuhaus, condannato a rimanere in domicilio coatto
a Svendlovsk fino al 1947, di stabilirsi di nuovo a Mosca. E
ancora in altre occasioni era intervenuto in favore di qualcu-
no. Non spese invece una parola per Solženicyn e aderı̀ alla
iniziativa di riprovazione delle azioni di Sacharov. E secondo
me aveva almeno in ipotesi tutto il diritto di agire cosı̀ se non
condivideva le loro posizioni politiche (a parte il fatto che pri-
ma di emettere sentenze morali di condanna bisognerebbe co-
noscere a fondo tutte le circostanze e lasciare in disparte l’in-
dignazione).
Il 4 gennaio 1974 Šostakovič arrivava a Repino. Ritornò
a Mosca in marzo, fu ricoverato in maggio in ospedale per
due settimane, e in giugno andò di nuovo a Repino. Il 9
giugno ricevette la visita di Glikman, al quale annunciò di
avere pronto il Quartetto n. 15 in mi bemolle minore op. 144. Il
CAPITOLO XXVII 243

Quartetto n. 15 è in pratica una suite, come il Quartetto n. 11.


Nel n. 15 troviamo sei pezzi con titoli caratteristici: Elegia,
Serenata, Intermezzo, Notturno, Marcia funebre, Epilogo. Quel
che ci fa però strabuzzare gli occhi non è tanto il seguito dei
pezzi quanto il seguito dei tempi: cinque Adagio e (nella
Marcia funebre) un Adagio molto, tutti collegati fra di loro,
tutti in mi bemolle minore. Il pensiero va immediatamente
alla Musica instrumentale sopra le 7 ultime parole del nostro Reden-
tore in Croce di Haydn, che comprende sette pezzi consecutivi
per quartetto, non collegati, in tempi lenti o lentissimi. Il
Quartetto n. 15 di Šostakovič, senza programma, è dunque
prima di tutto un tour de force compositivo che poteva esse-
re retto soltanto da una visione cosmica della morte, maturata
da un genio della musica al termine di un lungo cammino. Il
seguito di sei adagi non esclude tuttavia una estrema varietà
di atteggiamenti espressivi. L’Elegia è una fuga su un soggetto
che è stato variamente interpretato come derivato dal tema
della Morte e la Fanciulla di Schubert o, cosa che a me sembra
meno probabile, da un canto della chiesa ortodossa: una
enorme fuga (più di dodici minuti) in mi bemolle minore
con carattere prevalente di corale, nella quale compare però
anche un intermezzo in do maggiore, come un raggio di vi-
vida luce nelle tenebre più profonde. La Serenata mantiene i
modi della serenata classica (pizzicati quasi chitarre, sviolinate),
inquadrandoli nella esposizione di un tema di dodici suoni in
cui ogni suono è attaccato molto piano e portato rapidamen-
te fino al massimo della intensità, come se si spezzasse. L’In-
termezzo è un intenso recitativo accompagnato del violino,
concluso dal violoncello che introduce cosı̀ il Notturno (anzi,
Nocturne, secondo la terminologia di John Field, primo com-
positore di notturni per pianoforte). Il Notturno, basato su un
tema con sordina della viola, strumento e suono evocativi
quant’altri mai, è mormorante, dolce, quasi una ninna-nanna,
mentre nella Marcia funebre il ritmo della marcia è continua-
mente interrotto da assoli, secondo una tecnica da reportage
che sposta l’attenzione dal corteo alle reazioni di alcuni parte-
cipanti al corteo stesso. L’Epilogo riprende riassuntivamente i
244 Š O S T A K O V I Č

temi dei pezzi precedenti e finisce, ‘‘morendo’’, con il tema


della Marcia funebre.
Alcuni dizionari portano la dedica del Quartetto n. 15 alla
memoria di Sergej Širinskij. Ma il Quartetto è senza dedica.
Ciò ha fatto pensare che Šostakovič intendesse riprendere la
prima intenzione del Quartetto n. 8 (un requiem per se stesso)
e per questo motivo si è cercato di trovarvi, ma senza succes-
so, il motto dsch. Una nota del diario di Glikman fa pensare
a un requiem per Mejerchol’d, di cui cadeva nel 1974 il cen-
tenario della nascita. Potrebbe darsi. Ma non credo che Šosta-
kovič componesse secondo una precisa intenzione, quanto
piuttosto secondo una riflessione sulla morte che coinvolgeva,
insieme con lui, tutti i suoi affetti. ‘‘La Morte si dà da fare con
la falce’’, aveva scritto a Glikman il 17 luglio 1973. ‘‘Cinque
giorni fa è mancato il compositore A.V. Mosolov. Forse te lo
ricordi’’. Non era morto soltanto Mosolov, erano scomparsi a
mano a mano la segretaria di Šostakovič, Zinaida Gajanova, il
compositore Gavriil Popov, il direttore d’orchestra Nikolaj
Rabinovič, il violista Vadim Borisovskij, il vecchio amico Lev
Atovmjan, il regista cinematografico Gregory Kozincev, il pia-
nista Oborin, la sorella maggiore Marja. E la Morte avrebbe
continuato a falciare altri, prima di raggiungere con la sua la-
ma ricurva Šostakovič: il 24 ottobre 1974 morı̀ Ojstrach, il
violoncellista Sergej Širinskij, dedicatario del Quartetto n. 14,
morı̀ il 18 ottobre, mentre si stava provando il Quartetto n. 15.
Il pensiero della morte annunciata pervade tutte le com-
posizioni degli ultimi anni di vita di Šostakovič, anni ricchi di
supreme creazioni musicali che sono come isole nel dolore e
nella angoscia della malattia, con la salute che ‘‘peggiora di
mese in mese’’ (a Irina Molostovaja, 23 settembre 1974). E
una grande riflessione sui molteplici temi ideologici che si agi-
tano nell’animo di Šostakovič la troviamo nella Suite op. 145
per basso e pianoforte su testi di Michelangelo Buonarroti, de-
dicata alla moglie e della quale fu fatta anche la versione con
orchestra. Šostakovič ne dava notizia a Glikman il 23 agosto
1974:
CAPITOLO XXVII 245

Dopo il Quindicesimo Quartetto ho scritto undici sonetti su versi di Michelan-


gelo. [...] Sfogliando e guardando le riproduzioni della grande arte michelan-
giolesca ho trovato alcune sue opere poetiche. [...]
Ho difficoltà a giudicare il ciclo di Michelangelo, ma mi pare che siano venute
bene almeno le poesie più importanti, cioè le seguenti: Verità, Amore, Crea-
zione, Morte, Immortalità.
Le traduzioni di A.M. Efros non sono sempre ben riuscite. Tuttavia la
somma arte di Michelangelo risplende anche attraverso traduzioni scadenti.

I cinque sonetti indicati sono rispettivamente il primo, il


terzo, l’ottavo, il decimo e l’undicesimo (l’undicesimo non è
in verità un sonetto: sono due quartine). Gli altri sette sono
intitolati Mattino (n. 2), Separazione (n. 4, che non è un sonet-
to), Collera (n. 5), Dante (n. 6), All’esiliato (n. 7), Notte (n. 9,
anche questa poesia non è un sonetto: due quartine, la secon-
da delle quali famosissima). Le Rime di Michelangelo non
hanno titoli e io non so, non avendo avuto agio di consultare
il volume contenente la traduzione usata da Šostakovič, se i ti-
toli che si trovano nella Suite siano dovuti al traduttore o al
compositore. Ma i titoli, come vedremo fra poco, rientrano
comunque in una interpretazione del pensiero di Michelange-
lo che pone vari problemi. Le sette poesie di cui Šostakovič
non cita i titoli nella lettera a Glikman appartengono alle tre
tematiche ‘‘centrali’’ del ciclo: Mattino e Separazione hanno per
oggeto l’amore, Collera, A Dante, All’Esiliato (che ovviamente
è sempre Dante), che precedono Creatività, affrontano il tema
del rapporto fra la creazione artistica e il potere, e Notte prece-
de e introduce Morte, mentre Immortalità è il corrispettivo di
Verità.
Il sonetto che in Šostakovič è intitolato Verità è in realtà
uno sfogo, una protesta di Michelangelo contro un ‘‘Signor’’
che non è stato possibile identificare con certezza. Gli studiosi
propendono per un pontefice, ma non sono riusciti a mettersi
d’accordo su Giulio II, Clemente VII, Leone X. Sembra co-
munque assodato che si tratti di una questione riguardante una
promessa di commissione non mantenuta. ‘‘I’ sono e fui già
tuo buon servo antico’’, dice Michelangelo, e lamenta di non
246 Š O S T A K O V I Č

veder ricambiata la sua dedizione, tanto che ‘‘e men ti piaccio


se più m’afatico’’. Il ‘‘cielo’’ non si cura di trovare nel mondo
un posto alla virtù e pretende che si vada ‘‘a prender fructo
d’un arbor ch’è seco’’ (per alcuni commentatori l’albero secco
richiama simbolicamente Giulio II, che era un Della Rovere).
Šostakovič interpreta questo sfogo querulo e stizzoso facendo-
lo diventare una metafora della vita, nel senso che è inutile e
sbagliato aspettarsi un premio alla onestà. Vado un po’ a ten-
toni, si capisce, ma non posso pensare che Šostakovič non col-
locasse in una sua visione del mondo la poesia che chiamava
(o che il traduttore aveva chiamato) Verità.
In Verità, secondo me, Šostakovič aveva ritenuto di trova-
re in un grande spirito del passato l’eco di una lettera che ave-
va inviato a Tiščenko il 26 ottobre 1965 e che rivela la sua
concezione della vita. Tiščenko aveva criticato duramente il
moralismo che vedeva nella poesia di Evtušenko, concludendo
che ‘‘Cristo ha detto tutte queste cose in modo migliore’’. Šo-
stakovič risponde:
Può darsi che Cristo lo abbia detto meglio e, probabilmente, meglio di tutti gli
altri. Questo, tuttavia, non toglie a Pusˇkin, L. Tolstoj, Dostoevskij, Čechov,
J.S. Bach, Mahler, Musorgskij e molti altri il diritto di parlarne. Per di più,
ritengo che fosse loro dovere parlarne, come è dovere di Evtusˇenko.
È superfluo parlare ancora di questo sacro dovere dell’uomo. [...]
La morale è sorella germana della coscienza. E per il fatto che Evtusˇenko
scrive a proposito della coscienza, che Dio gliene renda merito.
Ogni mattina, invece delle preghiere del mattino, leggo, o meglio recito a me-
moria due poesie di Evtusˇenko, Stivali, e Carriera. Stivali è la coscienza.
Carriera la morale. Non bisogna rinunciare alla coscienza. Persa la coscienza
si è perso tutto.
E la coscienza bisogna nutrirla fin dalla prima infanzia.
‘‘Non desiderare il bue, l’asino, la moglie del tuo vicino’’, ‘‘non uccidere’’,
‘‘non rubare’’, non soltanto perché sarai punito, ma perché comportarsi cosı` è
vergognoso (a proposito, anche questo bisogna ricordarlo e insegnarlo). [...]
Il bene, l’amore, la coscienza: ecco che cosa c’è di più prezioso nell’uomo. E
l’assenza di queste cose nella musica, nella letteratura, nella pittura non sarà
compensata né dall’originalità delle associazioni sonore, né dall’eleganza del
verso, né dal brillante colorismo. [...] Sono orgoglioso per l’umanità, perché i
suoi grandi figli hanno generato tali grandi pensieri.
CAPITOLO XXVII 247

Il corrispettivo di Verità, dicevo, è Immortalità. Šostakovič


scelse due delle quarantotto quartine scritte da Michelangelo
in morte del quindicenne Cecchino Bracci, mancato improv-
visamente l’8 gennaio 1544 per cause che non furono accerta-
te. Michelangelo inviava i suoi versi allo zio del ragazzo, che
in segno di riconoscenza gli faceva avere in dono cibi preliba-
ti. Le due quartine scelte da Šostakovič dicono:
Qui vuol mia sorte ch’anzi tempo i’ dorma,
né già son morto, e ben ch’albergo cangi,
resto in te vivo, ch’or mi vedi e piangi,
se l’un nell’altro amante si trasforma.
Qui son morto creduto; e per conforto
del mondo vissi, e con mille alme in seno
di veri amanti; adunche a venir meno,
per tormen’ una sola non son morto.

Mandando allo zio di Cecchino il primo delle due epitaffi,


Michelangelo scriveva: ‘‘Io non ve lo volevo mandare, perché
è cosa molto goffa, ma le trote è tartufi sforzerebono il cielo.
A voi mi raccomando’’. E quindi chiedeva senza alcun imba-
razzo il... riscontro in natura delle sue fatiche poetiche. Šosta-
kovič interpreta anche in questo caso un testo senza nessuna
pretesa filosofica inserendolo in una visione del mondo: l’a-
more vince la morte, l’immortalità consiste nel ricordo dolo-
roso di coloro che hanno amato lo scomparso. E questo è un
tema nuovo nella poetica di Šostakovič, è una sua conquista.
Non si può tuttavia non rimanere colpiti dal fatto che questo
esito ultimo venisse raggiunto attraverso tre cicli liederistici per
i quali furono scelti tre poeti che, pur essendo molto distanti
fra di loro nel tempo, avevano un tratto in comune: nel pen-
siero e nella poesia di Blok, della Cvetaeva e di Michelangelo
si trovano forti venature neoplatoniche, derivate da Marsilio
Ficino nel caso di Michelangelo, da Vladimir Solov’ëv nel ca-
so dei due russi. Non è affatto una novità, questa, anzi, parec-
chi commentatori ne hanno parlato con dovizia, ma è bene ri-
tornarci sopra e farci un ragionamento. Il neoplatonismo fu
per molto tempo una costante nella critica che si occupava di
248 Š O S T A K O V I Č

Michelangelo, ed era certamente noto a Šostakovič, ma fu poi


drasticamente ridimensionato, tanto che Eugenio Garin intito-
lò polemicamente La pretesa iniziazione platonica di Michelangelo
un capitolo di un suo ampio saggio (Il Pensiero, in Michelangelo.
Artista - Pensatore - Scrittore, vol. II, Novara 1965). Per noi non
è però importante sapere se l’interpretazione di Šostakovič fos-
se corretta o meno. Non era corretta. Ma proprio di qui nasce
la domanda, alla quale non è possibile dare risposta, della ra-
gione che lo indusse a interpretare il pensiero di Michelangelo
in ambito neoplatonico. Se Šostakovič fosse rimasto spiritual-
mente fermo all’ultima lirica della Quattordicesima Sinfonia, Der
Tod ist gross, avrebbe potuto trovarne l’equivalente negli splen-
didi versi di Michelangelo che dicono ‘‘Cosa mobil non è che
sotto il sole / non vinca morte e cangi la fortuna’’. O avrebbe
potuto trovare nel verso di Pico della Mirandola ‘‘felice è chi
di vita è spento in cuna’’ una visione della vita ancor più radi-
calmente pessimistica. A chiusura del suo grande ciclo Šosta-
kovič mise invece due quartine intitolate Immortalità. E basò la
musica di Immortalità, a modo di infantile carillon, come di-
chiarò egli stesso, su un tema che aveva composto all’età di
nove anni (la composizione non ci è pervenuta: ricordo al let-
tore che Šostakovič bruciò quasi tutto ciò che aveva scritto
nell’adolescenza).
Ora, noi sappiamo che durante i ricoveri in ospedale Šo-
stakovič leggeva molto ma non abbiamo l’elenco completo
delle sue letture. Parecchi studiosi hanno parlato in particolare
della concezione neoplatonica, della Cvetaeva, di un mondo
atemporale in cui i poeti comunicano per sempre fra di loro.
E la scelta della Cvetaeva acquista dunque, in Šostakovič, un
particolare significato. Non possiamo dire che a Šostakovič in-
teressasse il neoplatonismo in quanto dottrina filosofica, ma mi
sembra che egli trovasse progressivamente nel neoplatonismo
di Blok e della Cvetaeva, e nel supposto neoplatonismo di
Michelangelo, una risposta alla sua domanda sul senso della vi-
ta, della morte, della carriera, la domanda che si era trovato a
dover affrontare quando la malattia lo aveva reso consapevole
in modo bruciante della caducità sia dell’esistenza che della fa-
CAPITOLO XXVII 249

ma. La realizzazione musicale delle undici poesie di Michelan-


gelo è scabra, essenziale, scolpita, e per questo motivo io pre-
ferisco anche qui la versione con pianoforte, più asciutta, alla
versione con orchestra. Credo in definitiva che proprio alcuni
versi di Michelangelo esprimano perfettamente quel che si
prova ascoltando l’op. 145 di Šostakovič e quel che si ricava
studiandola:
Negli anni molti e nelle molte pruove,
cercando, il saggio al buon concetto arriva
d’un immagine viva,
vicino a morte, in pietra alpestra e dura;
c’all’alte cose nuove
tardi si viene, e poco poi si dura.
250 Š O S T A K O V I Č

CAPITOLO XXVIII

CONGEDO IN COMPAGNIA DI BEETHOVEN

Nella lettera a Glikman che annuncia la composizione


della Suite sui versi di Michelangelo, Šostakovič dice di avere an-
che composto i Quattro Versi del Capitano Lebjadkin per basso e
pianoforte op. 146, su testi di Dostoevskij tratti dal romanzo I
Demoni. E aggiunge: ‘‘Nel ruolo del capitano Lebjadkin ci so-
no molti scherzi buffoneschi, ma ci sono ancor più cose infau-
ste. Ne è venuta fuori una composizione assai torva’’. Alterna-
re la profondità del pensiero e il grottesco-banale (per non di-
re il buffonesco) non è un tratto caratteristico del solo Šosta-
kovič. Se avesse voluto, Šostakovič avrebbe trovato materia di
disimpegno ancora più surreale in Michelangelo, ad esempio
nella terrificante freddura dell’epitaffio per la morte di Faustina
Mancini Attavanti, in cui si parte dal concetto neoplatonico
dell’amore che rende immortali e si finisce nel gioco di parole
idiota Mancini-mancina:
In noi vive e qui giace la divina
beltà da morte anz’il suo tempo offesa.
Se con la dritta man face’ difesa,
campava. Onde non fe’? Ch’era mancina.

E non è solitario, questo... scherzo da prete. Uno degli


epitaffi per Cecchino Bracci dice che ‘‘meglio era esser de’
piedi per fuggire / che de’ Bracci e non far da lei [la morte]
difesa’’. Le poesie del Capitano Lebjadkin sono grottesche sı̀,
ma non quanto certe quartine di Michelangelo. Lebjadkin è
un militare in pensione, irascibile, manesco, ubriacone e illet-
terato, a cui piace scrivere o improvvisare claudicanti versi
modellati sui classici russi del Settecento, ovviamente storpiati.
CAPITOLO XXVIII 251

L’Amore del Capitano Lebjadkin, prima lirica, è una strampalata


proposta di matrimonio, formata da una poesia e una lettera.
Lo Scarafaggio è una favoletta con la sua morale filosofica
(‘‘C’era una volta uno scarafaggio, /uno scarafaggio fin dalla
sua infanzia, / che un giorno si trovò in un bicchiere / pieno
fino all’orlo di mosche che pasteggiavano’’; le mosche prote-
stano per la presenza dell’intruso, arriva un certo Niceforo che
butta tutto nella spazzatura; e Niceforo – questa la morale fi-
losofica – è l’allegoria della natura). In Al Ballo di beneficenza
delle governanti, il ballo serve di copertura ad assassini (ma Šo-
stakovič si limita alla esaltazione pomposa del ballo, cioè alla
poesia del Capitano). L’ultima lirica, Una Luminosa Personalità,
è la parodia – il Capitano non c’entra – di una poesia di Ni-
kolaj Ogarëv in onore di un anarchico che si batte per ‘‘finirla
coi boiari e con lo zar’’, ‘‘espropriare le tenute signorili’’ e
abolire i ‘‘mali e le piaghe purulente dell’antico regime’’, cioè
‘‘chiese, nozze e matrimoni’’; la collocazione di questo inno
nichilista nel contesto di quadri grotteschi non è secondo me
senza significato per capire che cosa Šostakovič pensasse del-
l’insurrezionalismo. Šostakovič non impiega stilemi settecente-
schi che riflettano lo stile arcaicizzante delle poesie ma bada a
realizzarne nel modo più crudo e icastico il contenuto, con
appena due fuggevoli accenni al Rigoletto (al personaggio di
Monterone) e alla Dama di picche. Dice bene Franco Pulcini:
‘‘La musica è volutamente povera di melodia e di armonia: è
fatta di scorie, di stupidità, di mancanza di gusto, di incapacità
paga di sé’’. Ma solo una mano come quella di Šostakovič al
termine della vita poteva rappresentare in questo modo, senza
esserne contaminata, la stupidiità umana impersonata dal capi-
tano Lebjadkin.
Il 12 settembre 1974 Šostakovič assistette alla rappresenta-
zione del Naso, data dalla compagnia dell’Opera da camera di
Mosca, di cui ho già parlato. Il 15 novembre ebbe luogo a
Leningrado la prima esecuzione del Quindicesimo Quartetto, af-
fidata, dopo la morte di Sergej Širinskij, al Quartetto Taneev:
Šostakovič era presente. In dicembre, sempre attivissimo mal-
grado la malattia, Šostakovič si recò a Kiev per assistere alla ri-
252 Š O S T A K O V I Č

presa della Katerina Izmajlova, e il 23 assistette a Leningrado al-


la prima esecuzione della Suite da Michelangelo. Evgenij Neste-
renko, interprete insieme al pianista Evgenij Senderov della
Suite, chiese a Šostakovič di trascrivere per orchestra il Canto
della mosca di Beethoven, e Šostakovič lo accontentò prima di
recarsi ancora una volta, in febbraio, a Repino. Ritornò a
Mosca per assistere alla prima esecuzione, che ebbe luogo il
10 maggio, dei Quattro Versi del Capitano Lebjadkin, e rientrò
subito a Repino, dove stava facendo delle inutili sedute di cu-
ra con guaritrici. A Repino incontrò più volte lo scrittore
Aleksandr Medvedev, che aveva ricevuto da lui l’incarico di
preparargli due libretti, uno dei quali tratto dal Monaco nero di
Čechov. Entrambi i progetti non ebbero un seguito, ma è
evidente che Šostakovič non intendeva affatto... deporre le ar-
mi. Glikman riferisce del resto che, parlando della morte di
Ojstrach, Šostakovič gli disse: ‘‘Ha fatto la cosa giusta, conti-
nuando a lavorare – viaggiando, suonando, dirigendo – fino
all’ultimo minuto’’. E Glikman pensò che cosı̀ voleva com-
portarsi anche il suo grande amico.
La Sonata per viola e pianoforte op. 147, iniziata in aprile e
ultimata nel luglio del 1975, è l’ultima composizione di Šosta-
kovič. Il dedicatario del pezzo, il violista Fëdor Družinin, rac-
conta di aver ricevuto l’1 luglio 1975 una telefonata del com-
positore che gli comunicava di avere ‘‘l’idea di scrivere una
sonata per viola’’ e che desiderava acquisire la sua opinione su
‘‘alcuni punti tecnici’’. La composizione era in realtà già molto
avanti, ma Šostakovič aveva spesso la civetteria di non... sco-
prire subito le sue carte. Il 5 luglio Šostakovič parlò al violista,
sempre per telefono, del ‘‘programma della Sonata’’: ‘‘Il primo
movimento è un racconto, il secondo uno scherzo, il terzo un
adagio in memoria di Beethoven; ma ciò non deve rappresen-
tare per Lei una inibizione. La musica è brillante, brillante e
luminosa’’. Šostakovič doveva essere ricoverato in ospedale per
problemi di cuore e di polmoni (non sapeva ancora che le
metastasi avevano attaccato anche il fegato e i reni). Ci sareb-
be rimasto, pensava, per un paio di settimane. Venne infatti
dimesso l’1 agosto, ma il 3 dovette ritornare nel nosocomio. Il
CAPITOLO XXVIII 253

6 agosto Družinin ricevette la Sonata, chiamò il suo pianista,


Miša Muntjan, con il quale lesse e rilesse il pezzo. Družinin
scrisse nella notte a Šostakovič, ringraziandolo per la dedica e
proponendo che la prima esecuzione avesse luogo il 25 set-
tembre, nel sessantanovesimo compleanno dell’Autore. La let-
tera rimase senza risposta: Šostakovič morı̀ il 9 agosto alle
16:30, dopo una calma giornata durante la quale la moglie gli
aveva letto un racconto di Čechov e il pianista Jakov Flier,
degente in ospedale, aveva conversato a lungo con lui. La pri-
ma esecuzione della Sonata, in forma privata nell’appartamen-
to moscovita di Šostakovič, ebbe luogo il 25 settembre; la pri-
ma esecuzione pubblica fu effettuata l’1 ottobre nella Sala
Glinka del conservatorio di Leningrado.
‘‘Musica brillante’’, diceva Šostakovič. I commentatori ri-
tengono giustamente, lo abbiamo visto, che tutti gli ultimi la-
vori di Šostakovič siano dominati dal tema della morte. Ma la
Sonata per viola inizia veramente come musica dal tenue e sere-
no contenuto emotivo. Anzi, tutto il primo movimento, Mo-
derato, con i frequenti pizzicati della viola, sembra quasi una
serenata, e il secondo movimento, Allegretto, che sfrutta ma-
teriale dell’opera incompiuta I Giocatori, è effettivamente una
marcia scherzosa, una marcia veloce, una specie – la matrice
profonda della musica di consumo dei dilettanti è ancora pre-
sente – di trot de cavalerie, con una finale, sorprendente cita-
zione del serioso soggetto della Fuga in re minore n. 24 op. 87.
Si può parlare di presenza della morte, forse, nel finale, che in
omaggio a Beethoven impiega un tema che parafrasa il primo
movimento della Sonata op. 27 n. 2. Ma più che di morte si
deve parlare di congedo, a causa di un caleidoscopico episodio
di collage in cui vengono citati, dalla viola, frammenti tematici
dei primi movimenti delle Sinfonie dalla n. 1 alla n. 12, e dal
pianoforte dalla n. 13 alla n. 15. Il tono espressivo non è affat-
to tragico o cupo, e il riferimento alla n. 2 op. 27 e al suo ti-
tolo apocrifo, Chiaro di luna, può essere inteso nel senso sim-
bolico che la luna aveva nelle incantate marine di David Ka-
spar Friedrich, contemporaneo di Beethoven: l’acqua rappre-
senta l’eternità, le barche le anime dei trapassati, la luna lo
254 Š O S T A K O V I Č

sguardo di Cristo che rende dolce la morte. Non con fede re-
ligiosa, ma con animo sereno e pacificato, se dobbiamo crede-
re all’ultima musica da lui scritta, Šostakovič si avviò verso la
morte che lo attendeva mentre stava spulciando gli errori di
disattenzione che potevano essere scivolati nella Sonata per vio-
loncello.
Il funerale di Šostakovič fu solenne ma molto formale.
Egli aveva chiesto per il suo sessantanovesimo compleanno l’e-
secuzione della prediletta Quattordicesima Sinfonia. E la Sinfonia
comparve nei vari concerti commemorativi che ebbero luogo
il 25 settembre, ma non fu eseguita in occasione del servizio
funebre. Dopo l’annuncio ufficiale della scomparsa, segnato
dalle firme di ottantacinque personaggi, con in testa Brežnev,
che esaltava il ‘‘figlio leale del Partito Comunista’’, l’‘‘artista-
cittadino’’ che aveva ‘‘dedicato la vita intera allo sviluppo della
musica sovietica, alla affermazione dell’umanesimo socialista e
dell’internazionalismo, alla lotta per la pace e alla amicizia fra
le nazioni’’, il funerale fu procrastinato fino al 14, anche per
permettere a Maksim Šostakovič, che si trovava in Australia,
di rientrare a Mosca. Siccome si era in agosto e le orchestre
erano in ferie, durante l’esposizione del feretro nella Sala
Grande del conservatorio, dalle 10 alle 13 del 14 agosto, furo-
no ascoltate musiche registrate e qualche lavoro di musica da
camera eseguito da vari artisti. Ci furono i discorsi commemo-
rativi ufficiali, a cominciare da quello di Chrennikov, poi il
corteo si mosse accompagnato dalla Marcia funebre di Chopin e
dall’Inno Nazionale Sovietico suonati da una banda militare.
La salma fu tumulata nel cimitero del monastero delle Nuove
Vergini. Fin dalla primavera del 1975 era stato dato il nome
di Šostakovič a una penisola di una isoletta antartica, dopo la
morte fu pubblicato un volume di saggi, fu emesso un franco-
bollo commemorativo, furono istituite borse di studio nei
conservatori di Mosca e di Leningrado. Difficilmente si sareb-
be potuto fare di più, e tutto fu fatto secondo gli usi e le re-
gole. Ma fra i colleghi suoi coetanei ancora in vita Šostakovič
aveva un solo amico che avrebbe saputo uscire dalla ritualità
ingessata, Chačaturjan, il quale fu presente alla tumulazione
CAPITOLO XXVIII 255

ma che non prese la parola. E i giovani compositori sovietici


non vedevano in Šostakovič un maestro.
Al’fred Šnitke notò che alla prima esecuzione dei Quattro
Versi del Capitano Lebjadkin la sala era piena soltanto a metà e
interpretò questo fatto come un simbolo della mancanza di in-
teresse per la musica di Šostakovič da parte dei compositori
della sua generazione. Molti giovani, primo fra tutti il suo ex-
protetto Edison Denisov, rimproveravano a Šostakovič la sua
appartenenza alla ufficialità e il suo appiattirsi sulle posizioni
conservatrici di Chrennikov. In Occidente, come ho già detto
ripetutamente, la popolarità della sua musica non era accom-
pagnata dalla considerazione della critica. Nella percezione che
si aveva della sua figura, Šostakovič, per diverse ragioni, era
dunque diventato un inattuale. La pubblicazione nel 1979 a
Londra e a New York di un libro di Solomon Volkov, Testi-
monianza. Le Memorie di Dmitrij Šostakovicˇ, fece peggiorare an-
ziché migliorare la situazione sia al di qua che al di là della
Cortina di Ferro. Volkov asseriva di aver semplicemente tra-
scritto i colloquii avuti con Šostakovič, registrati su nastro. Ma
non mostrò mai i nastri. Era già allora, ed è ancora molto dif-
ficile oggi distinguere fra ciò che nel suo libro c’è di autenti-
co, di forzato, di inautentico. La figura di Šostakovič costruita
da Volkov era quella di un fiero antistalinista e anticomunista
costretto dalle circostanze e dalla ferocia del tiranno e del suo
regime ad allinearsi e a condurre una doppia esistenza. Questa
tesi portava copiosamente acqua alla polemica anticomunista e
antisovietica ancora molto viva in Occidente, ma in fondo in
fondo faceva anche di Šostakovič, come sentii dire da un ami-
co russo, un ‘‘fifone che aveva paura della sua ombra’’. È cer-
tamente possibile ritenere che in certe occasioni, ad esempio
nell’episodio della lettera di censura a Sacharov, Šostakovič
avrebbe potuto comportarsi diversamente senza subire gravi
conseguenze personali. Le sue singole decisioni possono ovvia-
mente essere discusse e chi si ritiene in grado di scagliare la
prima pietra può benissimo deplorarle. Ma il dato di fondo
che secondo me dà il significato alla vita e all’opera di Šosta-
kovič riguarda la continuità nella creazione di musica legata
256 Š O S T A K O V I Č

alla tradizione e la assunzione della responsabilità personale pur


nei lacci della tirannide. In Šostakovič i due elementi si legano
e si condizionano reciprocamente.
Šostakovič aveva già definito in modo autonomo, e ben
prima di essere attaccato nel 1936 sulla Pravda, la sua posizio-
ne nel contesto del dramma epocale che il linguaggio della
musica stava vivendo dopo la prima guerra mondiale. E questa
sua posizione si trovava in linea con il progetto di accultura-
zione di massa che improntava l’azione politica della neonata
Unione Sovietica. Progetto, in verità, lungimirante. Negli an-
ni venti gli iscritti alla Associazione Russa dei Musicisti Prole-
tari interpretavano la Rivoluzione, in pratica, nel senso che la
musica di massa dovesse essere quella che già era la musica di
massa: in sostanza, marce, inni, canzoni, ballabili, riuniti poi in
eventi teatrali misti di musica e prosa. La musica aristocratica e
borghese – le sinfonie, i quartetti, le sonate – doveva scompa-
rire. L’indirizzo assunto dal governo sovietico, che portò nel
1932 allo scioglimento delle varie associazioni di musicisti e
che creò l’Unione Compositori, faceva invece della musica
colta non un prodotto di classe ma un prodotto dell’umanesi-
mo che doveva essere recepito da tutti. Il compito storico di
un artista di genio come Šostakovič era dunque di accompa-
gnare e di indirizzare la formazione culturale del popolo so-
vietico. Era un alto e arduo compito di educatore, ed egli se
lo assunse e lo portò a termine senza esitazioni e senza ripen-
samenti. Le pesanti lavate di capo che aveva ricevuto nel 1936
e nel 1948 non gli impedirono nel 1962 di affrontare a viso
aperto il pericolo di incorrere con la Tredicesima Sinfonia nella
censura. In questa circostanza la sua coscienza gli imponeva di
portare l’attenzione sui crimini dell’antisemitismo nel momen-
to in cui l’antisemitismo allignava ancora nella società sovieti-
ca. In altre circostanze egli ritenne di non dover separare la
sua posizione da quella del regime. Credo che Šostakovič ve-
desse nelle intromissioni del potere politico nel campo dell’ar-
te non tanto la pressione di un progetto culturale, che condi-
videva, quanto piuttosto lo zelo fondamentalista di gente dai
gusti filistei e dalla vista corta. Ed egli fece in modo di schiva-
CAPITOLO XXVIII 257

re gli ostacoli senza venir meno alla sua missione, creando


musica che, nata nel contesto di una società e di un momento
storico ben definiti, ha il respiro della universalità. Di ciò, co-
me ho detto all’inizio, non possiamo che essergli grati, pro-
fondamente grati.
258 Š O S T A K O V I Č
NOTA BIBLIOGRAFICA E DISCOGRAFICA 259

NOTA BIBLIOGRAFICA E DISCOGRAFICA

La bibliografia su Šostakovič è molto nutrita. L’ho consul-


tata in parte ma mi sono servito veramente soltanto di poche
pubblicazioni. Di Elisabeth Wilson sono stati per me preziosi
due magnifici volumi: Shostakovich. A life remembered (Prince-
ton University Press, Princeton 1994), nutritissima raccolta di
articoli e interviste con commenti, e Dmitri Šostakovicˇ. Trascri-
vere la vita intera. Lettere 1923-1975 (Il Saggiatore, Milano
2006). Devo alla cortesia dell’Editore, che ringrazio di cuore,
l’autorizzazione a utilizzare, evitando i riassunti che ne avreb-
bero limitato la freschezza e l’immediatezza, ampi squarci delle
lettere contenute nel volume. La biografia che mi ha offerto i
maggiori spunti è stata quella di Laurel E. Fay, Shostakovich. A
life (Oxford University Press, New York 2000). Le lettere a
Isaak Glikman, Story of a Friendship (trad. di A. Phillips, Cor-
nell University Press, Itaca 2001; edizione originale russa, Mo-
sca 1993) sono in buona parte contenute in traduzione italiana
nel volume della Wilson, ma la consultazione dell’edizione
americana mi ha permesso di trovare altri particolari interes-
santi. Mi è tornato utile, soprattutto nella parte riguardante
l’analisi delle opere, lo Šostakovicˇ di Franco Pulcini (Edt/Musi-
ca, Torino 1988), che contiene anche una succinta ma signifi-
cativa scelta degli scritti di Šostakovič e un ottimo catalogo
delle opere (citado gli scritti di Šostakovič mi sono servito del-
le traduzioni contenute in questo volume). Il volume di saggi
che mi ha più interessato è il The Cambridge Companion to Sho-
stakovich a cura di Pauline Fairclough e David Fanning (Cam-
bridge University Press, New York 2008). Per le Rime di
260 Š O S T A K O V I Č

Michelangelo mi sono servito del testo e dei commenti di


Paola Mastrocola, Rime e lettere (Utet, Torino 1992).
La discografia di Šostakovič è ormai sterminata e com-
prende anche interpretazioni dello stesso Šostakovič e di molti
artisti che tennero le prime esecuzioni. Il ‘‘lascito’’ discografico
di Šostakovič pianista è tutt’altro che ristretto: abbiamo i due
Concerti, il Quintetto (due esecuzioni), il Trio n. 2 (due esecu-
zioni), la Sonata per violino, la Sonata per violoncello (due esecu-
zioni), il Concertino per due pianoforti, il ciclo Dalla Poesia popo-
lare ebraica, dodici dei 24 Preludi op. 34, diciassette dei 24 Pre-
ludi e fughe op. 87, le Tre Danze fantastiche, il Quaderno per l’in-
fanzia, un pezzo dal film Il Tafano e la Sinfonia n. 10 nella tra-
scrizione per pianoforte a quattro mani (il partner è Vajnberg).
Il lettore può facilmente avere di tutto ciò notizie precise ‘‘na-
vigando’’ in internet. Le esecuzioni di Šostakovič non corri-
spondono spesso a ciò che è scritto e, nel caso di più esecu-
zioni dello stesso pezzo, presentano varianti molto cospicue
nelle scelte di tempo. Nel Cambridge Companion prima citato si
trova a questo proposito un eccellente studio, Šostakovicˇ on re-
cord, di David Fanning. La discografia di Šostakovič è comun-
que troppo vasta perché io possa parlarne qui in modo non
superficiale. Segnalo soltanto al lettore una pubblicazione che
consente con una spesa non elevata di avere una panoramica
quasi completa della produzione di Šostakovič. La Brilliant
aveva pubblicato a suo tempo un box di ventisette cd e un
dvd, Shostakovich Edition, comprendente tutte le Sinfonie, le
Sinfonie da camera, i Concerti, i Quartetti e la musica da camera
con pianoforte, alcune pagine sinfoniche e alcune suite da bal-
letti, da musiche di scena e da musiche cinematografiche,
un’intervista con Rudolf Baršaj e una con Bernd Feuchtner:
fra gli interpreti figuravano Ojstrach e Baršaj, oltre ad altri
meno noti. Questo box è stato ripubblicato nel 2012 con l’ag-
giunta di tutte le liriche per canto e pianoforte, contenute in
precedenza in cinque dischi Delos, di tutte le pagine per pia-
noforte solo, di molte altre musiche da film (fra le quali, parti-
colarmente importanti, quelle per la Nuova Babilonia e per il
Re Lear), dei Poemi op. 88 per coro a cappella, dei Dieci Canti
NOTA BIBLIOGRAFICA E DISCOGRAFICA 261

popolari russi e degli Otto canti popolari anglo-americani senza nu-


mero d’opera, del primo atto dell’opera I Giocatori, del com-
pletamento dell’opera Il Violino di Rotschild di Flejšman. Sono
state inoltre aggiunte esecuzioni di particolare importanza sto-
rica: una parte di quelle di Šostakovič (i due Concerti, le Tre
Danze fantastiche, cinque Preludi e fuga, la Sonata per violoncello
con Daniel Shafran), la Suite su testi di Michelangelo Buonarroti
nella versione con orchestra e cantata da Nesterenko, la Sinfo-
nia n. 5 con Mravinskij, il Concerto n. 1 per violino con Kogan,
il Concerto n. 1 per violoncello con Rostropovič, la Lady Macbeth
del Distretto di Mcensk diretta nel 1978 da Rostropovič, con
Galina Višnevskaja e Nicolai Gedda nei ruoli principali. Il box
cosı̀ ampliato conta cinquantuno dischi. Non conosco una
pubblicazione che riunisca tutte le opere teatrali, singolarmen-
te reperibili, tranne I Giocatori, con relativa facilità. E non esi-
ste – è l’unica grave lacuna – una pubblicazione completa del-
le opere sinfonico-corali, che non sono tutte presenti oggi sul
mercato. Il Prologo dell’opera L’Orango è uscito in un disco
Deutsche Grammophon sotto la direzione di Esa-Pekka Salo-
nen.
Devo ringraziare come sempre mia moglie, Ilia Kim, con
la quale ho discusso il libro a mano a mano che lo scrivevo e
che con le sue osservazionii e le sue idee ha contribuito alla
sua nascita.
262 Š O S T A K O V I Č
APPENDICE 263

APPENDICE

CATALOGO SOMMARIO

A) Composizioni con numero d’opera:


1919-1929
1 – Scherzo in fa diesis minore per orchestra: 12-14
2 – Cinque Preludi per pianoforte solo: 12, 14, 20
3 – Tema e variazioni in si bemolle maggiore per orchestra o pianoforte
solo: 14, 20
4 – Due Favole di Krylov per mezzosoprano e pianoforte o orche-
stra: 14-15
5 – Tre Danze fantastiche per pianoforte solo: 15, 20, 259
6 – Suite per 2 pianoforti in fa diesis minore: 15
7 – Scherzo in mi bemolle maggiore per orchestra: 15, 25-26, 28
8 – Trio n. 1 in do minore per violino, violoncello e pianoforte: 15-
16, 20, 25, 27, 62
9 – Tre Pezzi per violoncello e pianoforte (perduti)
10 – Sinfonia n. 1 in fa minore per orchestra: 15, 20, 25-34, 48, 51,
73, 78, 170, 196, 200-201, 209, 232
11 – Due Pezzi per ottetto d’archi: 25-26, 34, 114, 185
12 – Sonata n. 1 per pianoforte solo: 35-36
13 – Aforismi per pianoforte solo: 36-37, 80
14 – Sinfonia n. 2 in si bemolle maggiore ‘‘All’Ottobre’’ per orchestra:
4, 32, 36, 38-40, 47-48, 72, 79
15 – Il Naso, opera in 3 atti: 40-44, 46, 48, 58, 80, 84, 94, 203,
235, 251
15a – Suite da ‘‘Il Naso’’: 41, 44, 204
16 – Tahiti Trot, orchestrazione da Vincent Youmans: 47, 52
17 – Pastorale e Capriccio, orchestrazione da Domenico Scarlatti: 47
18 – La nuova Babilonia, film: 44
19 – La Cimice, musiche di scena: 44
264 Š O S T A K O V I Č

20 – Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore ‘‘Il 1º Maggio’’ per orchestra


e coro: 47-48, 72, 79
21 – Sei Romanze su testi di poeti giapponesi per canto e pianoforte o
orchestra: 53-54
22 – L’età dell’oro, balletto in 3 atti: 45-47, 52, 54
22a – Suite dal balletto ‘‘L’età dell’oro’’: 61
23 – Due Pezzi (Intermezzo, Finale) per l’opera Armer Columbus di E.
Dressel: 49
24 – Lo Sparo, musiche di scena (perdute): 49
1930-1939
25 – Terreno dissodato, musiche di scena (perdute): 50
26 – Sola, film: 50, 52
27 – Il Bullone, balletto in 3 atti: 50-51, 54, 69
27a – Suite dal balletto ‘‘Il Bullone’’: 61
28 – Rule, Britannia!, musiche di scena: 50
29 – Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, opera in 4 atti: 54-57,
61, 63-64, 66-67, 69-70, 72-73, 76, 79-80, 84, 89, 94, 113,
143, 147-148, 166, 170, 185-186, 188, 203, 236
30 – Le Colline d’oro, film: 50
30a – Suite dal film ‘‘Le Colline d’oro’’
31 – Presumibilmente assassinato, rivista: 50, 54
32 – Amleto, musiche di scena: 52-53, 67, 150, 188-189
32a – Suite dalle musiche di scena per ‘‘Amleto’’’: 189
33 – Il Passante, film: 53, 111
34 – 24 Preludi per pianoforte solo: 58, 62, 70, 96, 259
35 – Concerto n. 1 in do minore per pianoforte, tromba e archi: 58-61,
66, 76, 163, 259
36 – La Storia del prete e del suo servo Bulda, film: 62
37 – La Commedia umana, musiche di scena: 62
38 – Amore e odio, film: 62
39 – Il Limpido ruscello, balletto in tre atti: 51, 63-64, 69, 76
40 – Sonata in re minore per violoncello e pianoforte: 62-64, 260
41 – La Giovinezza di Maksim, film: 62
41a – Le Amiche, film: 62
42 – Cinque Frammenti per orchestra: 63
43 – Sinfonia n. 4 in do minore: 63, 71-74, 77-79, 177, 185
44 – Salute, Spagna, musiche di scena: 71
45 – Il Ritorno di Maksim, film: 71
APPENDICE 265

46 – Quattro Romanze su testi di Pusˇkin per basso e pianoforte: 74, 78


47 – Sinfonia n. 5 in re minore: 49, 75-78, 80-83, 86-87, 93, 97, 113,
115, 122-123, 150, 164, 204
48 – I Giorni di Volocˇaevka, film: 71
49 – Quartetto n. 1 in do maggiore: 81-82, 86, 97, 101, 139
49a – Sinfonia da camera n. 1 dal Quartetto n. 1 (trascrizione di Rudol’f
Baršaj)
50 – Il Distretto di Viborg, film: 82
50a – Suite dalle musiche per i film ‘‘Maksim’’ (redazione di L. Atovmjan)
51 – Gli Amici, film: 82
52 – Un Grande cittadino, film (I serie): 82
53 – L’Uomo con il fucile, film: 82
54 – Sinfonia n. 6 in si bemolle minore: 82-83, 97, 114, 117-118, 185
55 – Un Grande cittadino, film (II serie): 82
56 – Lo Sciocco piccolo topo, film (perduto): 82
57 – Quintetto in sol minore per pianoforte e archi: 85-87, 259
58 – Orchestrazione del Boris Godunov di Musorgskij: 84, 156, 159,
185
1940-1949
58a – Re Lear, musiche di scena: 87, 188
59 – Le avventure di Korzinkina, film (perduto): 87
59-bis – Tre Pezzi per violino solo (perduti): 85
60 – Sinfonia n. 7 in do maggiore ‘‘Leningrado’’ per orchestra: 89-91,
93-95, 97-98, 104-105, 127
61 – Sonata n. 2 in si minore per pianoforte solo: 96-97
62 – Sei Romanze su testi di poeti inglesi per basso e pianoforte: 95,
231
63 – La Patria, rivista (in collaborazione con altri autori): 96
64 – Zoja, film: 100
65 – Sinfonia n. 8 in do minore: 97-99, 104-105, 108, 113-114, 127,
150, 170, 182, 185
66 – Il Fiume Russo, rivista (in collaborazione con altri autori): 102
67 – Trio n. 2 in mi minore per violino, violoncello e pianoforte: 99-
100, 110, 117, 126, 259
68 – Quartetto n. 2 in la minore: 100-102, 108, 139
69 – Quaderno per l’infanzia per pianoforte solo: 102
70 – Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore: 259: 104-106, 108-110,
113-114, 147, 164, 185, 228
266 Š O S T A K O V I Č

71 – Gente semplice, film: 107


72 – Due Canti per canto e pianoforte: 107
73 – Quartetto n. 3 in fa maggiore: 101, 107-108, 138-139, 196
73a – Sinfonia da camera n. 2 (trascrizione di R. Baršaj del Quartetto
op. 73)
74 – Poema della Madrepatria per soli, coro e orchestra: 111-112, 156
75 – La giovane guardia, film: 111, 120
75a – Suite dalle musiche per il film ‘‘La giovane guardia’’ (redazione di
L. Atovmjan)
76 – Pirogov, film: 111
76a – Suite dalle musiche per il film ‘‘Pirogov’’ (redazione di L. Atovmjan)
77 – Concerto n. 1 in la minore per violino e orchestra: 111, 115, 117-
118, 127, 136, 139, 147, 150, 154, 164, 185, 195
78 – Micˇurin, film: 115
78a – Suite dalle musiche per il film ‘‘Micˇurin’’ (redazione di L. Atovmjan)
79 – Dalla Poesia popolare ebraica per canto e pianoforte o orchestra:
115, 147, 149, 195, 259
80 – Incontro all’Elba, film: 115, 123
80a – Suite dalle musiche per il film ‘‘Incontro all’Elba’’
81 – Il Canto sulle foreste per soli, coro e orchestra: 123-125, 127-
128, 130, 135, 145
82 – La Caduta di Berlino, film: 124
82a – Suite dalle musiche per il film ‘‘La Caduta di Berlino’’ (redazione
di L. Atovmjan)
83 – Quartetto n. 4 in re maggiore: 101, 126-127, 138
83a – Sinfonia da camera n. 3 (trascrizione di R. Baršaj del Quartetto
op. 83)
1950-1959
84 – Due Romanze su testi di Lermontov per canto e pianoforte: 127
85 – Belinskij, film: 128
85a – Suite dalle musiche per il film ‘‘Belinskij’’ (redazione di L. Atov-
mjan)
86 – Quattro Canti su testi di Dolmatovskij per canto e pianoforte:
135, 175
87 – 24 Preludi e fughe per pianoforte solo: 129-132, 134-135, 144,
253, 259
88 – Dieci Poemi su testi di poeti della Rivoluzione per coro a cappella:
135, 155
APPENDICE 267

89 – L’Indimenticabile anno 1919, film: 135


89a – Suite della musiche per ‘‘L’Indimenticabile anno 1919’’ (redazione
di L. Atovmjan)
90 – Il Sole splende sulla nostra Madrepatria per coro e orchestra: 137,
144, 150
91 – Quattro Monologhi su testi di Pusˇkin per basso e pianoforte: 138
92 – Quartetto n. 5 in si bemolle maggiore: 101, 138-140, 190, 196
93 – Sinfonia n. 10 in mi minore: 140-141, 143-144, 163, 170, 185,
259
94 – Concertino in la minore per due pianoforti: 145-146, 259
95 – Il Canto dei grandi fiumi, film: 146
96 – Ouverture festiva: 111, 145, 158, 186
97 – Il Tafano, film: 146, 259
97a – Suite dalle musiche per il film ‘‘Il Tafano’’ (redazione di L.
Atovmjan): 146
98 – Cinque Romanze (Canto dei nostri giorni) su testi di Dolmatovskij
per basso e pianoforte: 145
99 – Il primo scaglione, film: 117, 149
99a – Suite dalle musiche del film ‘‘Il primo scaglione’’
100 – Cinque Canti spagnoli per soprano e pianoforte: 149
101 – Quartetto n. 6 in sol maggiore: 101-102, 149
102 – Concerto n. 2 in fa maggiore per pianoforte e orchestra: 152-153,
158, 160, 164, 209, 259
103 – Sinfonia n. 11 in sol minore ‘‘L’anno 1905’’: 153-158, 165, 174,
176, 182, 184, 186
104 – Due Canti popolari russi per coro a cappella: 158
105 – Mosca, quartiere Čerëmusˇki, operetta in 3 atti: 158
106 – Orchestrazione della Chovansˇˇcina di Musorgskij: 84, 156, 158-
159, 185
107 – Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore per violoncello e orchestra: 159,
162-164, 186, 200
1960-1969
108 – Quartetto n. 7 in fa diesis minore: 101-102, 165-167
109 – Satire (Quadri del passato) su testi di Čërnyj per soprano e piano-
forte: : 171, 185
110 – Quartetto n. 8 in do minore: 101, 169-171, 174, 189, 244
110a – Sinfonia da camera n. 4 (trascrizione di R. Baršaj del Quartetto
op. 110)
268 Š O S T A K O V I Č

111 – Cinque giorni-cinque notti, film: 169


111a – Suite dal film ‘‘Cinque giorni-cinque notti’’ (redazione di L.
Atovmjan)
112 – Sinfonia n. 12 in re minore ‘‘L’anno 1917’’: 174-178, 182-186,
229, 234
113 – Sinfonia n. 13 in si bemolle minore ‘‘Babij Jar’’: : 95, 180-184,
186, 188, 191-194, 201, 203, 256
114 – Katerina Izmajlova, opera in 4 atti dall’op. 29: 58, 65, 139, 147-
148, 186, 188, 235, 252
115 – Ouverture su temi popolari russi e chirghisi: 188
116 – Amleto, film: 188, 190
116a – Suite dalle musiche per il film ‘‘Amleto’’ (redazione di L. Atovmjan)
117 – Quartetto n. 9 in mi bemolle maggiore: 101, 180, 189-190, 198
118 – Quartetto n. 10 in la bemolle maggiore: 101, 189-191, 198
118a – Sinfonia da camera n. 5 (trascrizione di R. Baršaj del Quartetto
op. 118)
119 – L’esecuzione di Sten’ka Razin per basso, coro e orchestra: 191-
193
120 – Un anno è come una vita, film: 193
121 – Cinque Romanze su testi della rivista Krokodil per basso e piano-
forte: 194, 196
122 – Quartetto n. 11 in fa minore: 101, 196-198, 201, 243
123 – Prefazione alla collezione completa delle mie opere e una breve rifles-
sione su questa premessa per basso e pianoforte: 198, 203
124 – Orchestrazione di Due Cori di Davidenko: 188
125 – Orchestrazione del Concerto per violoncello di Schumann: 188
126 – Concerto n. 2 in sol maggiore per violoncello e orchestra: 198-201,
206, 209-210, 234
127 – Sette romanze su testi di Blok per soprano, violino, violoncello e
pianoforte: 206-208, 211
128 – Primavera, primavera su testo di Pusˇkin per basso e pianoforte:
208
129 – Concerto n. 2 in do diesis minore per violino e orchestra: 208-211, 215
130 – Preludio funebre-trionfale per orchestra e banda: 208
131 – Ottobre, poema sinfonico: 208-209
132 – Sof’ja Petrovskaja, film: 211
133 – Quartetto n. 12 in re bemolle maggiore: 101, 196-197, 211-213, 215
134 – Sonata per violino e pianoforte: 214, 260
135 – Sinfonia n. 14: 198, 217-218, 223-228, 230, 232, 248, 254
APPENDICE 269

1970-1975
136 – Lealtà, otto ballate per coro a cappella: 228-229
137 – Re Lear, film: 227-228, 230
138 – Quartetto n. 13 in si bemolle minore: 101, 197, 228, 230, 235
139 – Marcia della milizia sovietica per banda: 228
140 – Sei Romanze su testi di poeti inglesi per basso e orchestra (dall’op.
62): 231
141 – Sinfonia n. 15 in la maggiore: 231-235, 237
142 – Quartetto n. 14 in fa diesis maggiore: 102, 197, 235-236, 240, 244
143 – Suite su testi di Marina Cvetaeva per contralto e pianoforte o or-
chestra: 238, 240
144 – Quartetto n. 15 in mi bemolle minore: 102, 238, 242-244, 251
145 – Suite su testi di Michelangelo Buonarroti per basso e pianoforte o
orchestra: 244-245, 249
146 – Quattro Versi del capitano Lebjadkin su testi di Dostoievskij per bas-
so e pianoforte: 250, 252, 255
147 – Sonata per viola e pianoforte: 252-253

B) Composizioni senza numero d’opera:


Gli Zingari, opera in un atto, libretto di Puškin (1915-1918, distrutto,
ritrovati solo Duetto, Arietta, Trio): 40
Ti ho atteso nella grotta, trascrizione per soprano e orchestra dall’op. 40
n. 4 di Rimskij-Korsakov (1921)
Due Pezzi per quartetto d’archi (1931)
Prologo dall’opera in un prologo e tre atti L’Orango (1932): 54
Suite n. 1 per orchestra jazz (1934): 60
Suite n. 2 per orchestra jazz (1938): 60, 82
I Giocatori, I atto dell’opera in 3 atti incompiuta (1941): 94-95, 253,
259
Il Voto al Commissario del Popolo, canto per Basso, coro e pianoforte o
orchestra (1941): 95
Il Violino di Rotschild, strumentazione dell’opera in un atto di V. Flej-
šman (1942-44): 102
Marcia cerimoniale per banda (1942): 95
Otto Canti popolari anglo-americani per basso e orchestra (1944): 102
Tre Pezzi per orchestra (1947, perduti)
Marcia allegra per due pianoforti (1949)
Suite di balletto n. 1 (1949)
270 Š O S T A K O V I Č

Suite di balletto n. 2 (1951)


Dieci canti popolari russi per soli, coro e pianoforte (1951)
Suite di balletto n. 3 (1952)
Quattro Canti greci (1952-1953): 149
Danze di bambole per pianoforte solo (1952-62): 139
Suite di balletto n. 4 (1953)
Suite per Orchestra di Varietà (1956?): 60
Tre Variazioni su un tema di Glinka per pianoforte solo (per un lavoro
collettivo, 1957)
Le Campane di Novorossijsk per orchestra (1960): 171
Polka da ‘‘L’Età dell’oro’’ per pianoforte e pianoforte a quattro mani (1962)
Orchestrazione dei Canti e danze della morte di Musorgskij (1962): 186,
218
Il Placido Don, progetto (1965-1970): 208
I messaggeri dell’eternità, film incompiuto (1971)
I Giorni di Pietroburgo, film incompiuto (1973)
Il Canto della mosca, trascrizione per basso e orchestra dall’op. 75 n. 3 di
Beethoven (1975)
I Sognatori, balletto in 4 atti dalle op. 22 e 27 (1975)
Piccolo paradiso antiformalista per basso, coro e pianoforte (datazione in-
certa): 115
Suite da ‘‘Katerina Izmajlova’’ (datazione incerta)
Tarantella da ‘‘Il Tafano’’ per due pianoforti (datazione incerta)
INDICE DEI NOMI 271

INDICE DEI NOMI

Achmatova Anna Andreevna (Gorenko 139, 154, 164, 171, 173, 176, 199,
Anna Andreevna): 110, 239 203, 212, 215, 228, 231, 236, 252-
Adorno Theodor Ludwig Wiesengrund: 253
3-4 Benois Nicola: 187
Akimov Nikolaj Pavlovič: 52 Berg Alban: 29, 61, 80
Akimova Ellina: 143 Berija Lavrentij Pavlovič: 107, 143, 148
Alessandro II, zar: 6 Berlioz Hector: 30
Alferaki Achilles Nikolaevič: 59 Bernstein Leonard: 204
Ančerl Karel: 204 Bezymenskij Aleksandr Ilič: 38, 49
Andreev Leonid Nikolaevič: 149 Bischoff Hans: 131
Anosov Nikolaj Pavlovič: 150 Blok Aleksandr Aleksandrovič: 206,
Antipov Konstantin Afanas’evič: 59 211, 226, 247-248
Apollinaire Guillaume: 217, 219, 221, Bobrovskij Viktor Petrovič: 212
225 Boccherini Luigi: 86
Apostolov Pavel Ivanovič: 224 Bogacëva Irina Petrovna: 240
Arenskij Anton Stepanovič: 59 Bogdanov-Berezovskij Valerian Michaj-
Arnštam Leo Oskarovič: 18, 169 lovič: 13
Asaf’ev Boris Vladimirovič: 28, 35-36 Borisovskij Vadim Vasil’evič: 196-197,
Aškenazi Vladimir Davydovič: 152 244
Atovmjan Levon Tadevosovič: 64, 70- Borodin Aleksandr Porfir’evič: 78, 131,
71, 107, 124, 135, 146, 149, 189, 154, 177
244 Boulez Pierre: 130, 204, 238
Bach Johann Sebastian: 18-20, 35, 59, 78, Bracci Cecchino: 247, 250
129-131, 133, 147, 154, 238, 246 Braga Gaetano: 236
Baker Josephine: 46 Brahms Johannes: 72, 78, 154, 209-210,
Balakirev Milij Alekseevič: 8 218-219
Balančivadze Georgij Melitonovič: 70 Brasner Efim: 75
Baršaj Rudol’f Borisovič: 224, 259 Brentano Clemens: 219
Bartók Béla: 4, 13, 37, 91, 130-132, Brežnev Leonid Il’ič: 183, 194, 254
139, 151, 156, 172, 210, 230 Britten Benjamin: 151, 174, 202, 205,
Basner Veniamin Efimovič: 117, 206 217-218, 225, 228, 231
Beckmann Max: 31 Brodskij Iosif Aleksandrovič: 242
Beethoven Ludwig van: 18-20, 23, 59, Bruckner Anton: 140
72, 78, 83, 92-93, 104, 106, 131, Brumel’ Valerij Nikolaevič: 223
272 Š O S T A K O V I Č

Buff Lotte (Charlotte Sophie Hen- Daladier Édouard: 94


riette): 87 Daniel’ Julij Markovič: 194
Burns Robert: 95 Danzi Giovanni: 53
Busoni Ferruccio Benvenuto: 130-132 Dargomyžskij Aleksandr Sergeevič: 42
Davidenko Aleksandr Aleksandrovič:
Čajkovskij Boris Aleksandrovič: 175 188
Čajkovskij Pëtr Il’ič: 14, 20, 24, 29, 51, Davis Colin: 204
59, 76, 78, 100, 131, 154, 158, 160, Debussy Claude: 60
170-171, 178, 194, 199, 203-204, Del’man Vladimir Isaakovič: 43, 158
209-210 Del’vig Anton Antonovič: 221, 226
Čechov Anton Pavlovič: 236, 246, 252- Delibes Léo: 51
253 Denisov Edison Vasil’evič: 123, 146,
Celibidache Sergiu: 204 152, 255
Celinovskij: 148 Dix Otto: 31
Česnakov Vladimir: 45 Dolmatovskij Evgenij Aronovič: 123,
Chačaturjan Aram Il’ič: 110, 114, 137, 135, 137, 145, 229
143-144, 160, 168, 195, 254 Dostoevskij Fëdor Michajlovič: 246,
Chamberlain Neville: 94 250
Chentova Sof’ja Michajlovna: 157 Dressel Erwin: 49
Chopin Fryderyk: 6, 19-21, 23, 30, 35, Drigo Riccardo: 51
59, 62, 127, 129, 131, 153-154, 254 Druskin Michail Semënovič: 20
Chrapčenko Michail Borisovič: 98 Družinin Fëdor Serafimovič: 196, 236,
Chrennikov Tichon Nikolaevič: 43, 76, 252-253
115-116, 120, 125, 129, 135-136, Dzeržinskij Ivan Ivanovič: 66
144, 153-154, 163, 233, 254-255
Chruščëv Nikita Sergeevič: 143, 148, Efros Abram Markovič: 245
157, 160, 170, 183, 194 Elias Rosalind: 90
Chubov Georgij: 148 Eliasberg Karl Il’ič: 90
Ciulaki: 148 Engels Friedrich: 167-168
Clemente VII (De’ Medici Giulio), Erenburg Il’ja Grigor’evič: 148
papa: 245 Ernesaks Gustav: 228
Cluytens André: 152, 155, 160, 204 Evtušenko Evgenij Aleksandrovič: 167,
Constant Benjamin: 15 180-183, 187, 191-192, 246
Čukovskaja Lidija Korneevna: 240-241 Faccio Franco: 175
Čukovskij Andrej Evgenevič: 174 Fairclough Pauline: 258
Čukovskij Nikolaj Evgenevič: 179 Fanning David: 258-259
Čulaki Michail: 148 Fay Laurel E.: 73, 99, 144, 258
Cvetaeva Marina Ivanovna: 238-240, Feinberg Samuel: 19
247-248 Felsenstein Walter: 44
Cyganov Dmitrij Michajlovič: 196, Feuchtner Bernd: 259
211-213, 235 Ficino Marsilio: 247
Czerny Carl: 130-132 Field John: 153, 243
Čërnyj Saša: 171-172 Flejšman Veniamin Iosifovic: 102
Flier Jakov Vladimirovič: 253
D’Albert Eugène: 130 Franck César: 215
INDICE DEI NOMI 273

Friedrich David Kaspar: 253 Haitink Bernard Johan Herman: 204


Furceva Ekaterina Alekseevna: 185 Hanon Charles: 153
Haydn Franz Joseph: 18, 131, 243
Gagarin Jurij Alekseevič: 175 Henselt Adolf von: 7
Gajanova Zinaida: 244 Hindemith Paul: 4, 13, 37, 45, 151
Garcı́a Lorca Federico: 217, 219 Hitler Adolf: 94, 112
Garin Eugenio: 248 Hoffmann Ernst Theodor Amadeus: 15
Gauk Aleksandr Vasil’evič: 48, 61, 73, Holmes William C.: 69
76, 147, 150, 163-164 Honegger Arthur: 151
Gehrig Louis Henry: 227 Horenštejn Jaša: 204
Gershwin George: 35, 151 Horowitz Vladimir: 20
Gilels Emil: 130, 168
Giulio II (Della Rovere Giuliano), papa: Igumnov Konstantin Nikolaevič: 15
245-246 Ilizarov Gavriil Abramovič: 228
Glazunov Aleksandr Konstantinovič: 8- Iochelson Vladimir Il’ič: 74
10, 27, 81, 87, 131, 154, 192 Ion’in Georgij: 41
Glikman Isaak Davydovič: 74, 89, 99, Iordan Ol’ga Enrichovna: 46
103-105, 107, 116, 126, 138, 140- Ivanov Konstantin Konstantinovič: 111,
141, 144, 147-149, 153, 156, 158- 150
161, 169-170, 175, 179-181, 185- Ivanovskij Aleksandr Viktorovič: 45
188, 191, 193-194, 198-200, 202- Jacobs René: 45
203, 207-208, 211, 213, 217, 222- Jacobson Leonid: 45
223, 227-228, 232-234, 239, 242, Javorskij Boleslav Leopol’dovič: 21, 23-
244-245, 250, 252, 258 26, 28, 34-39, 41, 44, 82
Glinka Michail Ivanovič: 78, 130-131, Judin Gavriil Jakovlevič: 76
145, 154, 253 Judina Marija Veniaminovna: 9, 12-13,
Glivenko Tat’jana: 10, 15-17, 25, 34, 18, 129
39, 52, 62, 79 Jureneva Nadežda: 211
Gljasser Ignat Al’bertovič: 18
Gljasser Ol’ga: 8 Kabalevskij Dmitrij Borisovič: 114, 125,
Gmirja Boris Romanovič: 181 130, 148, 163-164
Gnesin Michail Fabianovič: 26 Kafranov: 148
Goethe Johann Wolfgang von: 38 Kajnova Margarita Andreevna: 149
Gogol’ Nikolaj Vasil’evič: 40-42, 44, Kalafati Vasilij Pavlovič: 26
55, 94, 192, 203 Kamenev Lev Borisovič: 29, 75
Gol’denvejzer Aleksandr Borisovič: 144 Kamenov: 148
Gor’kij Maksim: 71, 160 Kamenskij Anatolij: 8
Gorbačëv Michail Sergeevič: 240 Kaplan Emanuel: 45
Gorbenko A.N.: 50 Karajan Herbert von: 204
Griffiths Paul: 204-205 Karganov Genari Ossipovič: 59
Gromadskij Vitalij: 193 Kazan Elia: 6
Grossman Vasilij Semënovič: 100 Kerenskij Aleksandr Fëdorovič: 8
Grosz George: 31 Kertész István: 204
Keržencev Platon Michajlovič: 69, 71
Haberbier Ernst: 59 Kirsanov Semën Isaakovič: 48
274 Š O S T A K O V I Č

Klemperer Otto: 20, 29, 73-74, 204 Mahler Gustav: 30, 72-73, 78, 80, 98,
Klimov Valerij Aleksandrovič: 160 140-141, 204, 210, 217, 246
Kokulina Sof’ja Vasil’evna: 7-8 Majakovskij Vladimir Vladimirovič: 44,
Kokulinas Sof’ja Vasil’evna: 9 79, 82
Kolišer Gavriil B.: 42, 47 Mal’ko Nikolaj Andreevič: 20, 27-31,
Kondrašin Kirill Petrovič: 177, 182, 38, 41, 78
193, 209, 211 Malenkov Georgij Maksimilianovič:
Konstantinovskaja Elena: 61-62, 75 136, 143, 148, 154
Kornilov Boris Petrovič: 53 Mancini Attavanti Faustina: 250
Kozincev Grigorij Michajlovič: 71, 227, Mandel’štam Osip Emil’evič: 239
244 Mann Thomas: 3
Kramer Gorni Francesco: 158 Markevič Igor: 204
Kremylov Julij Anatol’evič: 154 Maršak Samuil Jakovlevič: 95
Krenek Ernst: 13, 37, 40 Marx Karl Heinrich: 167-168, 193
Kreutzer Rodolphe: 172 Mastrocola Paola: 258
Krylov Ivan Andreevič: 14 Matačić Lovro von: 204
Kubackij Viktor: 63-64, 66, 76 Maugham William Somerset: 56
Kusevickij Sergej Aleksandrovič: 91, McBurney Gerard: 54
204 Meerovic Michail Aleksandrovič: 155
Kvadri Michail Vladimirovič: 15 Mejerchol’d Vsevolod Emil’evič: 41,
Küchelbecker Wilhelm: 217, 221 44, 67, 70-71, 143, 192, 244
Mendelssohn-Bartholdy Felix: 34, 62,
La Fontaine Jean de: 14 145
Lebedinskij Lev Nikolaevič: 157, 161, Medvedev Aleksandr: 252
167, 169, 172, 175, 178-179, 225 Meyer Krzysztof: 95
Lenin (Ul’janov Vladimir Il’ič): 12, 16, Michajlov Lev Dmitrievič: 148, 186-
29, 39, 49, 82, 85, 110, 116, 150, 187
159, 162, 167-168, 174, 176-178, Michelangelo Buonarroti: 244-245,
201, 228-229 247-250, 252, 258
Leone X (De’ Medici Giovanni), papa: Michelson, chirurgo: 202
Mikojan Anastas Ivanovič: 66
245
Milhaud Darius: 29
Lermontov Michail Jur’evič: 82, 127,
Minkus Aloisius Ludwig: 51
203
Mirošnikova Margarita: 224
Leskov Nikolaj Semënovič: 55-57, 186
Mitropoulos Dimitri: 61, 204
Leverkühn Adrian: 3
Mjaskovskij Nikolaj Jakovlevič: 114,
Levitin Jurij Abramovič: 110, 121
131, 153, 160, 192
Liszt Franz: 19-20, 24, 31, 38, 48, 78,
Molostovaja Irina: 244
127, 130, 230
Molotov Vjačeslav Michajlovič: 66,
Litvinova Flora: 149
120, 143, 148, 186
Ljadov Anatolij Konstantinovič: 59
Monteux Pierre: 204
Lopuchov Fëdor Vasil’evič: 51
Moscheles Ignaz: 146
Losskij Boris: 18
Mosolov Aleksandr Vasil’evič: 244
Lunacarskij Anatolij Vasil’evič: 46
Mozart Wolfgang Amadeus: 18-19, 24,
L’vov N.F.: 50
46, 49, 131, 145, 154, 199
INDICE DEI NOMI 275

Mravinskij Evgenij Aleksandrovič: 76, Pletnëv Michail Vasil’evič: 189


82-83, 90, 97, 105, 115, 125, 140, Pokrovskij Boris Aleksandrovič: 43
147, 155, 163, 175-176, 182, 201- Popov Gavriil Nikolajevič: 114, 117-
202, 234-235 118, 160, 234, 244
Muntjan Miša: 253 Prejs Aleksandr: 41, 56
Muradeli Vano Il’ič: 112-113 Prokof’ev Sergej Sergeevič: 4, 12, 14-
Musorgskij Modest Petrovič: 14, 42, 78, 15, 23-24, 30, 35-37, 40, 46, 49, 51,
84, 154, 156, 158, 177, 184-185, 77, 86, 92, 97-98, 105, 109, 113-
203, 218, 246 114, 136-137, 139, 152-153, 160,
Mussolini Benito: 94 204, 212
Prêtre Georges: 204
Nazirova Elmira: 141 Puccini Giacomo: 41
Nemirovič-Dančenko Vladimir Ivano- Pulcini Franco: 251, 258
vič: 58 Puškin Aleksandr Sergeevič: 40, 74, 78,
Nest’ev Izrail’ Vladimirovič: 109-110, 123, 138, 199, 203, 208, 221, 240,
129 246
Nesterenko Evgenij Evgenevič: 194,
201, 252 Rabinovič Nikolaj Semënovič: 244
Neuhaus Heinrich (Nejgauz Henrich Rachlin Natan Grigor’evič: 155
Gustavovič): 70, 76, 242 Rachmaninov Sergej Vasil’evic: 20, 31,
Nicola I di Russia: 156-157, 240 40, 62, 234
Nicola II, zar: 156-157 Radlov Sergej Ernestovič: 41
Nikolaev Leonid Vasilevič: 9, 13, 18- Raleigh Sir Walter: 95
Ravel Maurice: 4, 30, 60, 91, 152-153
19, 35-36, 96-97
Reinecke Carl: 131
Nikolaeva Tat’jana Petrovna: 129-130,
Reiner Fritz: 204
140
Renzi Anna: 74
Nono Luigi: 61
Renzin Iaj: 74
Oborin Lev Nikolaevič: 15-16, 19-20, Rešetin Mark Stepanovič: 225
22-23, 26-27, 38, 64, 136, 244 Richter Svjatoslav Teofilovič: 104, 176,
Offenbach Jacques: 15, 59 182, 215, 224
Ogarëv Nikolaj Platonovič: 251 Riemann Hugo: 131
Ojstrach David Fëdorovič: 64, 111, Rilke Rainer Maria: 217, 222, 226
117, 136-137, 147, 168, 206, 208- Rimskij-Korsakov Nikolaj Andreevič:
211, 214-215, 224, 244, 252, 259 9, 14, 25, 30, 81, 84-85, 154, 188
Ormandy Eugene: 163, 204 Roseberry Eric: 37
Ozawa Seiji: 204 Rossini Gioachino: 14, 203, 232
Rostropovič Mstislav Grigorevič: 63,
Pasternak Boris Leonidovič: 95 162-163, 165, 172, 186, 188, 199,
Paszkovskij, direttore d’orchestra: 57 201-202, 206, 229
Pears Peter: 202 Rozanova Aleksandra: 8-9
Perel’man Natan Efimovič: 23 Roždestvenskij Gennadij Nikolaevič:
Petrovskij: 50 43, 177
Petrušanskij Boris: 259 Rubinštejn Anton: 59
Pietro I, zar: 85, 156 Röntgen Julius: 131
276 Š O S T A K O V I Č

Sacharov Andrej Dmitrievič: 240-242, Šolochov̌ Michail Aleksandrovič: 189


255 Solov’ëv Vladimir Sergeevič: 247
Sacre Guy, 15 Solženicyn Aleksandr Isaevič: 225, 229,
Safonov Vasilij Il’ič: 9 242
Samosud Samuil Abramovič: 84, 89-90 Somma Antonio: 21
Šaporin Jurij Aleksandrovič: 144 Šostakovič Boleslav: 6
Saradžev Konstantin Solomonovič: 38 Šostakovič Dmitrij Boleslavovič: 6-7
Satie Erik: 15 Šostakovič Galina Dmitrievna: 73, 102,
Sádlo Miloš: 117 144, 146, 162, 174-175, 179
Scarlatti Domenico: 47 Šostakovič Irina Antonovna: 178-180,
Ščedrin Rodion Konstantinovič: 43 183, 225, 228, 234, 241
Ščerbačev Nikolaj Vladimirovič, 59 Šostakovič Maksim Dmitrievič: 81,
Schillinger Joseph: 35 145-146, 152, 162, 174-175, 179,
Schillings Max von: 40 201, 209, 233, 254
Schmidt, neuropatologo: 202 Šostakovič Marja Dmitrievna: 7, 10, 19,
Schreker Franz: 40 75, 244
Schubart Christian Friedrich Daniel: Šostakovič Zoja Dmitrievna: 6-7, 10,
133 13, 15, 17, 39
Schubert Franz: 78, 212, 243 Spohr Louis: 34
Schumann Robert: 19-20, 78, 102, Stalin Iosif Vissarionovič: 29, 49-50, 58,
132-133, 139, 145, 150, 188, 213, 64, 66, 69, 71, 75, 80, 85-86, 90,
236 98-99, 105-108, 110, 112-113, 115-
Schönberg Arnold: 3-5, 37, 197, 205, 117, 121-123, 125-126, 135-140,
230 142-144, 148, 154, 161, 165, 167-
Šebalin Vissarion Jakovlevič: 15, 70, 94, 168, 177, 181, 192
96, 100, 107, 114, 160-161 Starčakov Aleksandr Osipovič: 54
Semënov Sergej: 167 Stasevič Abram L.: 175
Senderov Evgeniǰ: 252 Štejnberg Maksimilian Oseevič: 9, 12-
Šepilov Dmitrij Trofimovič: 154 14, 25, 27-28, 110
Serebrjakov Pavel Alekseevič: 129 Stiedry Fritz: 73-74, 107
Shakespeare William: 87, 92, 95 Stockhausen Karlheinz: 234
Sibelius Jean: 159 Stojowski Zygmunt Denis Antoni Jor-
Širinskij Sergej Petrovič: 197, 235-236, dan de: 59
244, 251 Stokowski Leopold: 29, 90, 155, 204
Širinskij Vasilij Petrovič: 85, 87, 196- Strauss Richard: 4, 30, 40, 133, 176,
197 205
Skrjabin Aleksandr Nikolaevič: 38, 234 Stravinskij Igor’ Fëdorovič: 3, 30, 32,
Smetana Bedřich: 154 37, 45, 47-48, 51, 60, 80, 88-89,
Smolič Nikolaj Vasilevič: 41, 58 109, 122, 151, 185
Šnitke Al’fred Garrievič: 255 Streicher Teodor: 26
Sofronickij Vladimir Vladimirovič: 9, Švernik Nikolaj Michajlovič: 64
12 Svetlanov Evgenij Fëdorovič: 234
Sollertinskij Ivan Ivanovič: 39, 48, 52- Sviridov Georgij Vasil’evič (detto Jurij):
53, 57, 59, 61, 63-64, 66, 70-73, 95- 155, 212
96, 99, 204 Sinjavskij Andrej Donatovič: 194
INDICE DEI NOMI 277

Talli Virgilio: 228 Virgilio Publio Marone: 184


Taneev Sergej: 251 Višnevskaja Galina Pavlovna: 172, 186-
Tarpova Natal’ja: 167 187, 201, 203, 206, 211, 224-225
Tausig Carl: 47, 130 Vladigerov Pančo Charalanov: 151
Tiščenko Boris Ivanovič: 223, 227, 231, Vladimirov Evgenij: 224
239, 246 Volkov Solomon Moiseevič: 255
Tjulin Jurij Nikolaevič: 13 Vorošilov Kliment Efremovič: 64
Tolstoj Aleksej Nikolaevič: 54
Tolstoj Lev Nikolaevič: 85, 87, 246 Wagner Richard: 132, 170
Toscanini Arturo: 29, 31, 90, 204 Walter Bruno: 29, 204
Tovey Donald Francis: 131 Webern Anton: 204
Trauberg Leonid: 71 Weill Kurt: 45
Trockij Lev (Bronštejn Lev Davydovič): Wilm Nicolai von: 59
8, 29 Wilson Elisabeth: 43, 165, 177, 258
Tuchačevskij Michail Nikolaevič: 25, Wood Henry: 90, 204
70, 75, 192 Wooding Sam: 60
Ulanova Galina Sergeevna: 46
Ustvol’skaja Galina Ivanovna: 138-141, Youmans Vincent: 45, 47
147, 192, 231 Zabavnikov Nikolaj Nikolaevič: 196
Zamjatin Evgenij Ivanovič: 41
Vajman Michail Izrailevič: 150 Zaslavskij David Iosifovič: 69
Vajnberg Moisej Samuilovič: 110, 175, Ždanov Andrej Aleksandrovič: 66, 110,
189-190, 206, 259 112-113, 115-116, 118, 120, 126,
Vajnonen Vasilij Ivanovič: 45 143, 161
Vakman Sof’ja: 240 Zecchi Carlo: 36
Van Cliburn, Jr. Harvey Lavan: 160 Zelter Karl Friedrich: 132
Varzar Nina Vasil’evna: 39, 52, 63, 73, Zinov’ev Grigorij Evseevič: 29, 75
79, 105, 138, 146, 149, 162, 166 Žitomirskij Daniel’ Vladimirovič: 26
Veprik Aleksandr Moiseevič: 125 Zošenko Mikhail Mikhailovič: 110
Verdi Giuseppe: 147 Žukova Lidia: 19

Potrebbero piacerti anche