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IVAR EKELAND

A CASO
LA SORTE
LA SCIENZA E IL MONDO

BOLLATI BORINGHIERI
Saggi scientifici
IVAREKELAND

A caso
La sorte, la scienza e il mondo

BOLLATI BORINGHIERI
Prima edizione settembre 1992

© 1992 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86


I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale
o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche)
sono riservati
Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino
CL 61-9673-X ISBN 88-339-0714-7

Titolo originale Au hasard


© 1991 Éditions du Seui!, Paris

Traduzione di Libero Sosio

Schema grafico della copertina di Federico Luci

A caso : la sorte, la scienza e il mondo/ Ivar Ekeland. -Torino Bollati Boringhieri, 1992
156 p. ; 22 cm. -(Saggi scientifici)
l. EKELAND, Ivar
l. PROBABILITÀ. Teoria
CDD 519.2
(a cura di S. & T. - Torino)
INDICE

Prefazione 7

Alea 11
2 Destino 37
3 Anticipazione 61
4 Caos 78
5 Rischio 118
6 Statistica 135
Conclusione 153
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

Pagine II, 37 , 61, 78, u8, 13 5 , 1 53 : da Snorri Sturlasson, Kon gesa gaer,].M. Grenerssen
& C. Forlag, Christiania 1899· Pagine 96, 99 : da L'Art scandinave, I, coli. << La nuit cles
temps», Zodiaque, Saint-Léger-Vauban 1969.
PREFAZIONE

Mentre la Bibbia ebraica pone il tohu-bohu, il caos ongmario, al


principio dei tempi, l'Edda scandinava lo situa in un periodo interme­
dio. È il Ragnarok, il crepuscolo degli dèi, la distruzione del mondo,
interposto fra la storia dei figli di Odino e la nuova età dell'oro che sor­
gerà su quelle rovine. Ecco che cosa ne dice la Voluspa, il vaticinio della
veggente, testo grandioso che abbraccia l'insieme del ciclo in una
visione profeti ca: 1
Tempo di guerra tempo di spada
Vanno in pezzi gli scudi
Tempo di bufera tempo di lupo
Prima che il mondo rovini.

I giganti vanno all'assalto in una nave costruita con le unghie dei


morti. Il cane Garm, che abbaia alle porte dell'inferno, spezza la catena
che lo lega; il serpente Midgard emerge dal fondo dell'oceano e com­
batte il dio Thor; il lupo Fenrir uccide Odino, che viene vendicato dal
figlio Vi dar; il frassino Yggdrasil, all'ombra del quale le tre Nome fis­
sano i destini umani, si fende dall'alto in basso; il sole si oscura, la terra
si inabissa in mare, l'incendio divora tutto sino alle stelle.
Perché non dovremmo pensare che quei tempi siano i nostri, e che
nel caos in cui si svolge la nostra storia si trovino giustapposti fram­
menti del mondo antico e della futura età dell'oro, nello stesso modo in
cui la sabbia incolore di una spiaggia rivela al microscopio una moltitu­
dine di granelli cangianti e diversi? Ecco perché mi è parso possibile, e

1 Per una traduzione della Voluspa, vedi Il canzoniere eddico, a cura di P. Scardi­
gli, trad. P. S cardigli e M. Meli, Garzanti, Milano 1 98 2 , pp. 5-2 5 . La citazione è
a p. 1 2 .
8 PREFAZIONE

per certi aspetti necessario, accostare due testi separati da un millennio,


alcune pagine di un'antica saga e frammenti di un trattato moderno sul
caso. Se l'una parla di sorte, di magia o di destino, e il secondo di alea,
di caos o di rischio, è nondimeno la stessa storia che raccontano. Essa
comincia nei tempi antichi in cui uno stesso vocabolo greco, rvxrJ,
copriva tutti questi aspetti, esprimendo inoltre l'esistenza. Noi comin­
ciamo a scorrere questa storia, lettori in cerca di distrazione o di sape­
re, e veniamo progressivamente a scoprire che gli attori siamo noi .
Come Giano, il caso ha più volti, ed è la ricchezza di queste facce
molteplici che mi sono proposto di ritrarre. Non ho voluto imporre a
questa fioritura la forma artificiale di un albero ben potato, né costrin­
gere il pensiero nell'unità retorica di un'esposizione esattamente con­
catenata. E forse il caso potrebbe svolgere utilmente una parte anche
nel modo di leggere quest'opera. Lettore, questo libro ha sei capitoli.
Prendi un dado: sai che cosa devi fare.
A CASO
CAPITOLO l

Alea

Torstein Frode narra che a Hising c'era una città che aveva legato la sua sorte
ora alla Norvegia ora alla Svezia. I due re si accordarono allora di tirare a sorte
per decidere a chi dovesse toccare il possesso della città: essi avrebbero lanciato
i dadi e avrebbe vinto chi avesse conseguito il totale più elevato. Il re di Svezia
ottenne due sei, e disse che non era più il caso che il re Olav lanciasse i dadi a
sua volta. Ma questi rispose, scuotendo i dadi nel suo pugno: « In questi dadi
rimangono ancora due sei, e non è difficile a Dio, mio Signore, farli uscire ».
Lanciò i dadi, e ottenne un doppio sei. Fu poi di nuovo la volta del re di Svezia,
che ottenne un altro doppio sei. Poi lanciò il re Olav, e uno dei dadi diede
ancora sei, ma l'altro si ruppe in due pezzi, che diedero la somma di sette punti .
La città spettò dunque a re Olav. 1

Secondo una tradizione, minoritaria ma ben attestata, il re Olav


Haraldsson avrebbe in quest'occasione pilotato il caso. Alcuni gli attri­
buiscono, già all'inizio di una carriera che lo avrebbe condotto infine alla

1 Snorri Sturluson, Heimskrin gla, 6/dfs sa ga belga (Saga di sant'Oiao), cap. 94.
12 CAPITOLO PRIMO

canonizzazione, poteri miracolosi come quello di guarire malati e invali­


di, o di evocare in battaglia l'aiuto di potenze ultraterrene. Egli avrebbe
avuto fra l'altro il potere di fermare i dadi sulla faccia desiderata.
Secondo altre testimonianze, come certi combattenti, chiamati berserker,
erano investiti in occasioni importanti di una forza sovrumana che li
rendeva invulnerabili, così il re Olav Haraldsson avrebbe avuto una de­
strezza soprannaturale, che gli permetteva di lanciare i dadi con tanta
abilità da far loro terminare naturalmente la loro corsa sulla faccia da lui
scelta. Un antico cronista assicura persino che questa capacità non era
innata e narra come il re l'avesse acquisita, addestrandosi con dadi sem­
pre più piccoli. Altri, infine, accusano esplicitamente Olao il Santo di
frode. I dadi sarebbero stati truccati, cosa che spiega come mai uscissero
con tanta regolarità i sei, e uno dei due sarebbe stato incrinato abilmen­
te, in modo da non lasciare alcuna traccia visibile. Olav Haraldsson
avrebbe così preparato la scena in tutti i suoi particolari fino alla sor­
presa finale, che fu tale solo per il re di Svezia e per il suo seguito.
È ovvio che, in un gioco di dadi, si può sospettare di tutto, del dado
stesso, della forma e ruvidezza del tappeto, del lancio. Se si spinge a
fondo l'analisi, ci si può chiedere addirittura dove sia il caso. Esso
non è né nella corsa del dado né nei suoi rimbalzi, che sono governati
dal determinismo rigoroso della meccanica razionale. Il biliardo si
fonda sugli stessi princìpi, e tuttavia nessuno ha mai pensato di farne
un gioco d'azzardo. Il caso risiede dunque, in ultima analisi, nella man­
canza di abilità, nell'inesperienza o nell'ingenuità del lanciatore, o nel­
l'occhio dell'osservatore.
Non è d'altronde difficile immaginare una civiltà in cui il lancio dei
dadi fosse uno sport, e il biliardo un gioco d'azzardo. Le regole sareb­
bero certamente diverse. I dadi avrebbero le dimensioni e il peso delle
palle da biliardo, e le partite sarebbero in qualche misura simili a quelle
del gioco delle bocce. Il giocatore avrebbe diritto a compiere qualche
passo di slancio, e getterebbe il suo dado cercando di farlo avvicinare il
più possibile a un punto di riferimento; la cifra che appare sulla faccia
superiore del dado entrerebbe nel calcolo dei punti, e il lanciatore abile
o esperto regolerebbe il suo lancio in modo da ottenere il punteggio
migliore.
Quanto al biliardo, non c'è niente di più facile che trasformarlo in
un gioco d'azzardo. È sufficiente inclinare il piano del tavolo, munirlo di
ostacoli capaci di far rimbalzare e deviare la palla, e disporre sei buche
ALEA I3

nella parte bassa del piano, o in altre zone del biliardo, così che la palla
vada a cadere necessariamente in una di esse. Non dovendosi favorire
l'abilità, la palla sarà messa in movimento da un dispositivo meccanico
che la lancerà in salita per mezzo di una molla, la quale sarà caricata più
o meno dal giocatore. Questo biliardo meccanico non sarà meno aleato­
rio dei dadi tradizionali. Esso sarà certamente meno pratico, in quanto i
dadi si possono portare in tasca e sono facilmente disponibili in qualsiasi
circostanza, ma in linea di principio niente vieta di pensare che i due re
potessero decidere la sorte della città per mezzo di un dispositivo del
genere. Qualche secolo dopo, il progresso tecnologico avrebbe trasfor­
mato il biliardo meccanico nel biliardo elettrico, il flipper, e il gioco
d'azzardo si sarebbe riconvertito in gioco di abilità.

Io non condivido questo oscuro sospetto e voglio credere che in


questa circostanza, come in tante altre, il re Olav si sia mostrato degno
della sua fama di santo. Il ricorso alla sorte può essere allora inteso in
vari modi, particolarmente come un'ordalia, un giudizio di Dio, e in
questo modo lo intese senza dubbio il cronista. Un'intelligenza mo­
derna preferirà vedere in questo procedimento un modo di dividere in
due una cosa indivisibile. I due re, riconoscendosi uguali diritti sulla
città, e non avendo inoltre né princìpi da affermare né diritti da difen­
dere, videro in un condominio più inconvenienti che vantaggi, e trova­
rono questo modo per esercitare i loro diritti. Dare a qualcuno metà di
un oggetto, o accordargli una probabilità su due di poterlo avere per
intero, è press'a poco la stessa cosa, e solo la seconda soluzione è prati­
cabile quando l'oggetto è indivisibile. Questo procedimento è ben noto
oggi ai teorici dell'economia, che se ne servono per affermare che ogni
bene è indefinitamente divisibile.
Il procedimento è applicabile facilmente e si presta a numerose
generalizzazioni. Così, se i due re avessero voluto riconoscere a uno
di loro diritti doppi rispetto all'altro, sarebbe bastato far lanciare i
dadi da una terza persona: in questo caso la città sarebbe andata al pre­
tendente con diritti doppi se fosse uscito un totale di otto o meno, e
all'altro se fosse uscito un totale di nove o più. Il primo avrebbe avuto
così una probabilità di vittoria di due su tre, contro una probabilità di
solo uno su tre per il secondo, cosa che riflette bene la proporzione
convenuta di uno a due. Volendo rispettare la simmetria, e aver riguardo
alla suscettibilità dei due personaggi regali, si sarebbe anche potuto
14 CAPITOLO PRIMO

far lanciare un dado a ciascun re e considerare il totale dei due lanci.


Anche ammettendo che i due re siano in buona fede, e che l'equità
sia la loro unica preoccupazione, rimane comunque il fatto che hanno
un problema da risolvere: come realizzare un'estrazione a sorte del
tutto onesta, sottratta a ogni sospetto di frode? Ma una cosa del genere
è possibile? Il caso è solo un atteggiamento psicologico o una conven­
zione sociale, oppure esiste un caso genuino, sottratto a ogni manipola­
zione umana? Questo problema era discusso in modo notevolissimo in
un manoscritto che è purtroppo scomparso, ma di cui ]orge Luis.
Borges mi trasmise una copia fatta da lui negli archivi del Vaticano.
Secondo Borges il manoscritto risale agli anni 1 240-50, e faceva parte
senza dubbio dei documenti allegati alla pratica del processo di cano­
nizzazione di Olav Haraldss0n. L'autore sarebbe un certo frate Edvin,
del convento francescano di Tautra in Norvegia, che non ci è altri­
menti noto.
Leggendolo, non ci si può stupire molto. Le audacie di frate Edvin
ricordano troppo quelle del contemporaneo Ruggero Bacone perché la
condanna di quest'ultimo non ricadesse anche su di lui. Forse segui­
rono entrambi a Oxford gli insegnamenti di Roberto Grossatesta, e
anche Edvin come Ruggero finì i suoi giorni in carcere. Se frate Edvin
compose altri scritti, essi non sopravvissero certamente alla condanna
del 1 2 7 7, e solo l'oblio salvò dalla distruzione quello di cui ci occupia­
mo, a meno che esso non sia stato protetto dal suo ruolo di corpo del
reato.
Il manoscritto di frate Edvin comincia facendo giustizia delle accuse
di frode lanciate contro il re Olav. Le voci su questa frode si diffu­
sero solo più tardi, molto tempo dopo la scomparsa dell'ultimo testi­
mone oculare, mentre all'epoca della morte del re Olav si formò nella
popolazione cristiana una tradizione, ancor oggi viva e vigorosa,
secondo la quale egli si sarebbe comportato santamente in tutte le cir­
costanze della sua vita. Questa tradizione è corroborata da numerosi
segni miracolosi, e l'episodio citato non è quello meno significativo,
attestando il sostegno efficace concesso da Nostro Signore al suo disce­
polo. La rottura del dado non può essere interpretata in altro modo
che come un miracolo, che trasformò in tredici il punteggio massimo
di dodici: viene subito in mente la moltiplicazione dei pani, ma non
ricorderemo esempi così straordinari per una questione tanto banale
come la sorte di una città. Questa fu in ogni caso l'interpretazione dei
ALEA 15

testimoni, come attesta l'atteggiamento del r e d i Svezia e del suo segui­


to, di cui nessuno dice che abbiano contestato il risultato, come avreb­
bero sicuramente fatto se avessero avuto dubbi sul carattere miracoloso
dell'episodio.
Del resto, quand'anche Olav Haraldsscm, contro ogni verosimi­
glianza, avesse in quest'occasione manipolato la sorte, ciò non toglie­
rebbe nulla alla sua santità. A nessuno verrebbe mai in mente di conte­
stare la santità del patriarca Giacobbe. Eppure, come ci viene riferito
nel capitolo 30 della Genesi, in occasione del regolamento di un con­
tratto col suocero Labano, Giacobbe si comportò in un modo che, se
in un uomo di Dio si configura semplicemente come un aiuto al mani­
festarsi della volontà dell'Altissimo, in un uomo comune sarebbe defi­
nito un comportamento disonesto. Per la soddisfazione del copista e
per l'edificazione del lettore, ricordiamo il testo sacro: 2
«Che devo darti ? » [disse Labano]. E Giacobbe disse: <<Non devi darmi niente,
ma se farai quanto ti chiedo, io tornerò a pascere il tuo gregge e ad esserne il
custode. Passerò oggi in mezzo a tutto il tuo gregge, mettendo da parte tutto
quello che è chiazzato e macchiettato e ogni agnello nero fra le pecore e tutto
quello che è macchiettato e chiazzato fra le capre : tale sarà il mio salario. Così
in avvenire quando tu verrai a verificare il mio salario, la mia giustizia rispon­
derà per me: Tutto quello che troverai presso di me non chiazzato e macchiet­
tato fra le capre e di color nero fra le pecore, sarà come rubato >>. Labano rispo­
se: <<Va bene, sia pure come tu hai dettO>>.
E quel giorno stesso egli mise da parte i becchi chiazzati e macchiettati, tutte le
capre chiazzate e macchiettate, ogni capo che aveva deLbianco e tutto quello
che era di colore nero fra le pecore e li diede in mano ai suoi figli. Interpose poi
la distanza di tre giorni di cammino fra sé e Giacobbe, mentre Giacobbe pasco­
lava il resto del gregge di Labano. Ma Giacobbe prese dei rami freschi di piop­
po, di mandorlo e di platano, vi fece delle scorzaturc bianche, scoprendo l'al­
burno dei rami, quindi piantò i rami che aveva scortecciati davanti al gregge nei
truogoli e negli abbeveratoi dove il gregge veniva a bere e andava in calore
venendo a bere. Così il gregge andava in calore davanti a quei rami e il gregge
concepiva feti striati, chiazzati e macchiettati . Giacobbe poi separò le pecore e
fece volgere la faccia del gregge verso quello che era macchiettato e nero nel
gregge di Labano: così si formò dei greggi per conto proprio e non li unì al
gregge di Labano. Quando poi andava in calore il bestiame robusto, allora Gia­
cobbe metteva i rami negli abbeveratoi alla vista del bestiame, perché andasse in
calore alla vista di quei rami; quando invece il bestiame era debole, allora non li
metteva. Così i deboli erano per Labano e i robusti per Giacobbe.

2 Genesi 30, 3 1 -42 . [Per i passi biblici citati si riporta la versione a cura della
Società Biblica Italiana, La Bibbia concordata, Mondadori, Milano 1 968] .
16 CAPITOLO PRIMO

Quanto all'opportunità di giocarsi ai dadi il possesso di una città,


essa si fonda sulla massima autorità possibile, poiché fu tirata a sorte la
tunica stessa di Nostro Signore, come ci viene attestato dall'unanimità
dei quattro evangelisti, anche se il più esplicito su questo punto è san
Giovanni:3
I soldati intanto, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero
quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora, la tunica non era cucita,
ma tessuta tutta di un pezzo da cima a fondo. Dissero dunque gli uni agli altri:
«Non la tagliamo, ma sorteggiamo a chi essa debba toccare ». Mfinché si adem­
pisse la Scrittura: «Partiti sunt vestimenta mea sibi, et in vestem meam miserunt
sortem».4

Si deve notare che i vangeli non precisano chi abbia vinto la sacra
tunica e che, nella Scrittura come nella Tradizione, si perdono da quel
momento le tracce del prezioso oggetto. Si trattava dunque di affer­
mare un principio, più che di riferire su un destino particolare, e quel
principio era che le cose indivisibili non devono essere divise. La Tra­
dizione riconobbe molto presto nella tunica inconsutile di Cristo
un'immagine di Nostra Madre Chiesa, la cui unità dev'essere pre­
servata contro gli eretici, gli scismatici e altri seguaci del demonio.
Ma lo stesso principio si applica anche a cose di importanza minore,
come una città, indivisibile per natura, e il comportamento di Olav
Haraldsson è dunque pienamente giustificato.
Sullo stesso argomento si potrebbero invocare altre testimonianze
di importanza minore. « In grembo si getta la sorte, ma dal Signore
viene ogni decisione » (Proverbi, 1 6, 3 3). È la sorte a designare Mattia
per completare i dodici apostoli (Atti, 1 , 2 6), e a indicare in Zaccaria
colui che deve entrare nel tempio del Signore a offrire l'incenso (Luca,
l, 9). È col procedimento a sorte, «urim » o «tummim>>, che l'Onnipo­
tente indica i colpevoli, Gionata (l Samuele, 1 4, 37-43), Giona (Giona,
l, 1 - 1 0), Acan (Giosuè, 7, 1 0-2 3), e che designa Saul come re di Israele
(l Samuele, 1 0, 2 0-24). Secondo l'espressione di sant'Agostino (Enarra­
tiones Psalmos, ps. 3 0, 1 6, enarr. 2 , serm. 2), «sors non est aliquid mali, sed
res, in humana dubitatione, divinam indicans voluntatem >>.
Fin qui la dimostrazione di frate Edvin è irreprensibile, tanto dal
punto di vista del ragionamento quanto da quello dell'ortodossia. A
partire da questo momento, però, egli si lascia visibilmente trascinare

3 Vangelo secondo Giovanni, 1 9 , 2 3 -24.


4 «Si dividono fra loro le mie vesti, tirano a sorte la mia tunica» (Salmi, 22, 1 9) .
ALEA 17

dal suo argomento e s i discosta dal cammino che avrebbe suggerito la


prudenza.
Avendo in tal modo fermamente stabilito, nella prima parte del suo
manoscritto, che il risultato del procedimento di gettare le sorti non
può essere altro che la manifestazione della volontà divina, frate Edvin
pone poi il problema pratico di come preservarla dalle interferenze
umane, sempre possibili. La seconda parte del manoscritto passa allora
a lungo in rassegna i diversi giochi d'azzardo noti a quel tempo - le

carte, i dadi, la lotteria -, e mostra come un manipolatore abile e male


intenzionato possa controllarne l'esito, e impedire quindi il manife­
starsi della volontà divina. Edvin conclude che l'uso di strumenti mate­
riali lascerà sempre sorgere dubbi sulla regolarità delle operazioni, e
aprirà quindi la porta a ogni sorta di contestazione.
Edvin propone infine una soluzione molto originale. In occasioni
importanti, come quella che mise di fronte Olav Haraldssen e il re di
Svezia, quando il modo di tirare a sorte dev'essere incontestabile,
ognuno dei due avversari sceglie in segreto un numero e lo scrive su un
rotolo di pergamena che viene sigillato. Nel giorno stabilito, i due re o
i loro rappresentanti consegnano le pergamene a un arbitro, uomo
dotto e pio, assistito da chierici capaci di far di conto. L'arbitro rompe
i sigilli e legge i due numeri; i chierici li sommano, dividono la somma
per sei e annunciano il resto. Ci sono sei possibilità:
l, 2, 3, 4, 5 , o,
che corrispondono ai sei risultati possibili del lancio di un dado:
l, 2, 3, 4, 5, 6,
e quella che viene annunciata è considerata il risultato del tiro a sorte.
Così, se uno dei due antagonisti avrà scelto, per esempio, il 1 7 e l'altro
il 3 05 1 , la somma dei due numeri sarà 3 068, e divisa per sei darà come
resto 2 . Ora, questa è la cifra che annuncerà l'arbitro. Secondo la no­
stra tabella, questo risultato corrisponderà a un lancio di 2 con un
dado, ma il procedimento di frate Edvin offre il vantaggio di non poter
essere pilotato né dall'abilità né dalla frode. È un risultato casuale,
quale può essere realizzato da un chierico del secolo xm.
Frate Edvin si avventura allora in considerazioni matematiche
molto interessanti. Egli osserva che se, anziché sommare, si moltipli­
casse, il procedimento sarebbe vergognosamente manipolabile: baste-
/8 CAPITOLO PRIMO

rebbe infatti che uno dei due giocatori scegliesse un multiplo di 6, e il


risultato del procedimento sarebbe O qualunque fosse stata la scelta del
suo avversario. Si avrebbe infatti in questo caso il prodotto di due
numeri anziché la loro somma, e se uno dei fattori è divisibile per 6 lo
sarà anche il loro prodotto. La seconda osservazione di Edvin è che,
per il risultato finale, importa solo il resto della divisione per 6 dei due
numeri scelti. Si è visto che, se uno dei due antagonisti sceglie il l 7 e
l'altro il 305 1 , il risultato sarà 2 . Se si sostituisce il l 7 con 5 e il 3 051
con 3, che sono i relativi resti delle divisioni per 6, si trova 5 + 3 = 8, che
dà di nuovo il risultato 2 . Frate Edvin conclude che è inutile che i gio­
catori scelgano grandi numeri; il fatto di scegliere un numero com­
preso fra l e 6 non restringe infatti in alcun modo le loro possibilità di
vittoria. Egli osserva che la scelta di un numero da un ambito più vasto
dà però ai giocatori l'illusione di accrescere le loro possibilità, e che è
quindi bene lasciare loro una tale scelta.
L'ultima parte del manoscritto contiene una discussione dei vari
modi di migliorare il metodo. Viene preso in considerazione anche il
caso di tre giocatori o più, e frate Edvin fa notare che, pur lasciando a
due soli giocatori la possibilità di vincere, possono esserci dei vantaggi
a introdurne un terzo. Così, qualora fossero in gioco interessi impor­
tanti, come nel caso della sorte di una città, si potrebbe chiedere al
Santo Padre di mandare da Roma un terzo numero, che sarebbe dis­
suggellato assieme agli altri due. Si farebbe allora la somma e si pren­
derebbe come risultato il resto della divisione per 6. Così, se ai due
numeri 1 7 e 3 0 5 1 si somma 442 , la somma diventa 3 5 1 0 e il risultato O,
che corrisponde a un lancio di 6 con un dado. L'introduzione del terzo
giocatore e la sua indipendenza dagli altri due garantiranno ancor
meglio la totale imparzialità del procedimento.
Frate Edvin aggiunge infine che in certi casi può accadere di tirare a
sorte da soli, e si chiede allora come si possa consultare la sorte senza
l'intervento di un altro giocatore. Confessa di non essere riuscito a risol­
vere il problema in modo soddisfacente, ma propone in via provvisoria il
procedimento seguente. Il giocatore sceglie un numero di quattro cifre
e lo eleva al quadrato. Ottiene allora un numero di sette o otto cifre,
di cui sopprime le ultime due e la prima o le prime due, in modo da
ottenere di nuovo un numero di quattro cifre. Ripete quest'operazione
quattro volte e prende il resto della divisione per 6 dell'ultimo numero
in tal modo ottenuto. Così, partendo dal numero 865 3 , lo eleva al qua-
ALEA 19

drato, ottenendo 74 874 409, di cui conserva le quattro cifre centrali


(8744) . Ripetendo l'operazione, trova successivamente
865 3 , 8744, 45 7 5 , 93 06, 60 1 6,
e, dividendo l'ultimo numero per 6, ottiene un resto di 4, che equivale
a un lancio di 4.
Il vantaggio del metodo consiste nel fatto che, salvo particolari
eccezioni, è impossibile prevedere il risultato finale senza eseguire i cal­
coli, i quali, come sottolinea frate Edvin, non sono alla portata del primo
venuto, richiedendo sia una buona pratica dell'abaco sia la conoscenza
del « calcolo indiano >>, quale è esposto per esempio nel Liber abaci di
Leonardo Fibonacci. 5 Così, il resto della divisione per 6 del numero
scelto inizialmente (865 3 ) è l, e il risultato finale è 4, e sarebbe davvero
molto bravo chi fosse riuscito a prevederlo. Frate Edvin non tralascia di
indicare che si potrebbe rendere il procedimento ancora più sicuro au­
mentando il numero delle cifre conservate (per esempio sei invece di
quattro, partendo da un numero di sei cifre), con la condizione natural­
mente che il tutto venga fissato in partenza e che il giocatore non possa
decidere di cambiare le regole nel corso della partita.
Ma frate Edvin non è meno pronto a denunciare il difetto del suo
metodo, difetto che risiede proprio nell'esistenza di eccezioni. Non c'è
bisogno di essere un grande dotto per prevedere che, se si parte da 0000,
tutti i numeri successivi saranno 0000 e il risultato finale sarà dunque O.
L'apparizione di zeri può però disturbare il gioco anche in modi più
insidiosi. Se, per esempio, si prende l'avvio da 02 00, si ottiene successi­
vamente 0400, 1600, 5600, 3 600, 9600, 1600, e a partire da questo nu­
mero ricomincia il ciclo 1 600, 5600, 3 600, 9600, 1600, che si riproduce
indefinitamente. Diventa dunque perfettamente possibile prevedere il
risultato del quarto, diciassettesimo o milionesimo passo del procedi­
mento, e quindi barare con se stessi.
Frate Edvin propone qualche rimedio, fra cui in particolare l'ob­
bligo di scegliere per il primo numero quattro cifre differenti fra loro e
diverse da zero. È però troppo intelligente per non rendersi conto che,
oltre a queste eccezioni evidenti, possono esisterne altre più sottili.
Tali eccezioni potrebbero essere addirittura indizi di una regolarità più
profonda, che rimane celata ai nostri occhi inesperti, ma che potrebbe

5 La notazione numerica greca o romana mal si prestava alle operazioni, e il


minimo calcolo simbolico era una vera impresa.
20 CAPITOLO PRIMO

essere rivelata da un'analisi più penetrante. Come si potrebbe essere


certi che non ci sia una formula nascosta, capace di fornire i suoi risul­
tati in modo semplice e diretto, e non solo in casi particolari come
l 00 l ma per tutti i numeri? Il fatto che noi siamo incapaci di trovare
una tale formula non ci garantisce affatto che essa non esista. Se la for­
mula esistesse, il caso sarebbe estromesso dal nostro gioco. Chiunque
la trovasse potrebbe o tenerla per sé, e far fortuna scommettendo su
ogni partita, o rivelarla, e ridurre in polvere il risultato di tanti sforzi.
Su questa nota malinconica, che è forse un presentimento, si con­
clude il manoscritto. È facile immaginare quali noie esso può avere
creato al suo autore. Ecco frate Edvin che manipola i numeri come
cose, senza preoccuparsi del loro senso occulto. Che cosa poteva venire
di buono da un procedimento così riduttivo? È noto, per esempio, e
affermato esplicitamente da san Giovanni, che il numero della Bestia è
666 (Apocalisse, 1 3 , 1 8). Che cosa avverrebbe se questo numero appa­
risse nel corso dei calcoli? Non sarebbe forse il segno più esplicito del­
l'intervento del demonio? Come pensare che il risultato non ne fosse
alterato? Abbandonando le interpretazioni tradizionali, frate Edvin si
espone all'accusa di praticare la divinazione, e abbiamo ragione di
temere che tale accusa gli sia stata effettivamente rivolta.

Dopo un'eclisse di vari secoli, i problemi sollevati da frate Edvin e i


suoi scrupoli morali sono tornati d'attualità quando si è dovuto intro­
durre il caso nei computer. Non si trattava più di speculazioni disinte­
ressate né di processi di canonizzazione, ma di costruire un'arma ter­
monucleare, la bomba H, il cui primo prototipo fu fatto esplodere nel
1 952. Questo successo fu il punto d'arrivo di uno sforzo scientifico e
tecnologico senza precedenti - messo in atto dagli Stati Uniti dopo la
famosa lettera di Einstein al presidente Roosevelt - al quale vanno
ricondotte fra l'altro le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
I calcoli concernenti la bomba A erano stati eseguiti a mano, con
l'aiuto di regoli calcolatori e di calcolatrici meccaniche. L'ENIAC, il
primo calcolatore elettronico- un monumento di 30 metri di lunghez­
za, 3 metri di altezza, 90 centimetri di larghezza, 1 8 000 valvole elet­
troniche, più di 500 000 saldature - fu pronto a funzionare alla fine del
1 94 7. Durante il suo lungo periodo di gestazione era stata presa la
decisione di usarlo per simulare il comportamento dei neutroni in un
materiale fissile: un passo cruciale nello sviluppo di una bomba termo-
ALEA 21

nucleare. Gli esperti che avevano già costruito la bomba A, in partico­


lare Enrico Fermi e John von Neumann, si erano occupati del proble­
ma, giungendo alla conclusione che lo si sarebbe potuto affrontare solo
con metodi statistici. In ogni istante un neutrone ha una certa probabi­
lità di entrare in collisione, e ogni collisione ha una certa probabilità di
essere o una semplice diffusione del neutrone incidente o una fissione
che dà origine a vari nuovi neutroni. Ogni singola traiettoria è allora il
risultato di una partita giocata secondo regole complesse, ma con pro­
babilità note.
Si pensò di affidare alla macchina il compito di giocare un gran
numero di tali partite, tirando a sorte le decisioni secondo le probabi­
lità indicate, e di studiare statisticamente i risultati ottenuti. Era nato il
metodo di Montecarlo. In attesa di poter usare l'ENIAC, Fermi aveva
inventato un piccolo carrello, battezzato immediatamente FERMIAC,
che veniva spostato su un piano di sezione del reattore per rappresen­
tare una possibile traiettoria neutronica, tirando ogni volta a sorte la
direzione dello spostamento e la distanza dalla prossima collisione.
C'erano anche altre regolazioni, che venivano eseguite tenendo conto
del materiale attraversato dal neutrone. All'entrata in funzione del­
I'ENIAC questo piccolo dispositivo fu relegato nel magazzino dei fer­
rivecchi, ma l'ENIAC divenne a sua volta obsoleto nel 1 952, quando
entrò in servizio, a Los Alamos, il MANIAC. Su tutte queste macchine
il metodo di Montecarlo diede eccellenti risultati. Esso rimane oggi
uno dei principali strumenti di calcolo in fisica.
Il metodo di Montecarlo è semplice e versatile. Per riprendere un
esempio di Stanislaw Ulam, supponiamo che io voglia conoscere la
probabilità di riuscire a risolvere un solitario. Questa dipende, beninte­
so, solo dall'ordine iniziale delle carte nel mazzo. Ora, abbiamo
52! = 52 x 5 1 x 50 x 49 x 48 x . x 3 x 2 x l
. .

modi diversi di distribuire 52 carte. Questo numero (il fattoriale di 52:


è questo il significato del punto esclamativo) è un numero enorme, che
si scrive con una settantina di cifre, tanto grande da escludere un esame
sistematico di tutte le distribuzioni per contare le partite vincenti. La
probabilità cercata:
numero di solitari riusciti
numero di distribuzioni possibili
22 CAPITOLO PRIMO

è quindi inaccessibile a un calcolo esatto. Per contro, se ne può dare


una stima empirica giocando anche solo un piccolo numero di partite
- qualche centinaio, o qualche migliaio-, purché le carte siano mesco­
late con cura prima di ogni distribuzione. In altri termini, si stima la
probabilità incognita tirando a caso e indipendentemente un certo
numero di distribuzioni fra le 5 2 ! distribuzioni possibili, e prendendo
la frazione di solitari riusciti nel campione così realizzato. È facile pro­
grammare un computer per fare un solitario, e quindi per concludere
in qualche millisecondo se una certa distribuzione è o no vincente.
Occorre inoltre che il computer impari a mescolare le carte, ossia a
scegliere una distribuzione fra le 5 2 ! distribuzioni possibili, ognuna con
la stessa probabilità di 1 /52!, in modo indipendente rispetto alle scelte
precedenti. In pratica rappresenteremo le carte per mezzo di numeri, e
il calcolatore dovrà scegliere a caso un primo numero da l a 5 2 , poi un
secondo numero fra i 5 1 restanti, poi un terzo fra i 50 restanti, e così
via sino all'esaurimento. Come realizzare tutte queste estrazioni a sorte
in modo equiprobabile, e indipendentemente dalle estrazioni precedenti?
Al bridge si ottiene questo risultato rimescolando le carte prima di
ogni distribuzione. La cosa è meno semplice di quanto possa sembrare.
Il baro sa scozzare le carte in modo da servirsi la mano migliore, e il
prestigiatore sa ritrovare nel mazzo una carta infilatavi da un'altra per­
sona. Non basta neppure che chi fa le carte le rimescoli bene, ma
occorre che le rimescoli a lungo: almeno sette volte, secondo studi
recenti. Soddisfatte tutte queste condizioni, i giocatori non cerche­
ranno di ricordare l'ordine delle carte della distribuzione precedente
per trame informazioni sulla distribuzione in corso, ma considereranno
indipendenti le due distribuzioni. Ciò non impedisce loro, una volta
distribuite le carte, quando ognuno ha in mano le sue e prima ancora
che siano cominciate le dichiarazioni, di farsi un'idea della ripartizione
complessiva. Quest'idea si fonda non sui ricordi della distribuzione
precedente (l'asso di picche aveva preso il re, io avevo notato che il re
seguiva immediatamente all'asso nella presa e, ritrovandomi ora in
mano l'asso di picche, il re dovrebbe essere alla mia sinistra), ma sul­
l'ipotesi che le altre carte siano ripartite in modo uniforme (io ho quat­
tro picche, ne rimangono nove per tre giocatori, e quindi è probabile
che essi ne abbiano tre ciascuno). È questa l'idea che si esprime
dicendo che le distribuzioni casuali sono equiprobabili.
Si scozzino carte o si lancino dadi, il caso deriva solo dalla mancanza
ALEA 23

di abilità umana: noi siamo incapaci di controllarci quanto basta per


fermare un dado a nostro piacimento o per dirigere singolarmente le
carte del mazzo. Il confronto rimane nondimeno istruttivo ed evidenzia
bene i limiti di questo modo di creare il caso. Poco importa chi lanci i
dadi, ma non lasceremo che sia una persona qualsiasi a rimescolare le
carte. Una persona troppo incapace non riuscirà a scozzarle in modo
adeguato, mentre una troppo brava suscita la nostra diffidenza. Come
fare allora con un computer, che non potrà certo essere accusato di
incapacità, e il cui comportamento non lascia alcun margine all'incer­
tezza? In fondo, questo è il problema già sollevato da frate Edvin, e se
i nostri mezzi tecnici hanno compiuto enormi progressi, lo stesso non
si può dire della nostra riflessione.
Il metodo dei quadrati successivi fu il primo metodo usato (esso
porta oggi il nome di von Neumann), ma molto presto ci si rese conto
che, dopo un certo numero di estrazioni, usciva infallibilmente il
numero 2 1 00, seguito da 4 1 00, da 8 1 00, da 6 1 00 e poi di nuovo da
2 1 00, e che a partire da questo punto aveva inizio un ciclo che si ripe­
teva indefinitamente:
2 1 00, 4 1 00, 8 1 00, 6 1 00, 2 1 00;
le eccezioni erano quelle segnalate da frate Edvin, e il loro solo difetto
era quello di sfociare in un ciclo (d'altronde diverso dal precedente) più
rapidamente delle altre! Del resto, basta un istante di riflessione per
convincersene. Il computer prende un numero di quattro cifre, lo
eleva al quadrato un certo numero di volte conservando ogni volta
solo le quattro cifre centrali, e il risultato finale è un nuovo numero di
quattro cifre, che viene ritenuto casuale. Per « sorteggiare» vari numeri
si ripete la procedura, ossia si parte dall'ultimo numero uscito per otte­
nere il seguente. Ogni numero generato dipende così per intero ed
esclusivamente dal precedente. Se il primo numero ottenuto è 865 3, il
secondo 8 744 e il terzo 45 7 5 , si può affermare con sicurezza che, ogni
volta che uscirà 1'865 3 , lo seguiranno 1'8744 e il 45 7 5 . Nella simula­
zione scompare una delle caratteristiche fondamentali del caso, l'indi­
pendenza delle estrazioni successive, ed è per questa ragione che com­
paiono i cicli.
Immaginiamo un croupier senza immaginazione che comandi la sua
roulette con un pedale e che cerchi di dare l'idea di uscite casuali
facendo invece uscire i numeri in un ordine preciso. Egli si costruisce
24 CAPITOLO PRIMO

un elenco, il più possibile aleatorio, e vi si attiene. Dopo il 7 farà uscire


sempre il 3 5, dopo il 3 5 il 1 3 , dopo il 1 3 il 2 2 , e così di seguito, avendo
cura di far uscire ogni volta un numero sempre diverso, al fine di con­
trollare la sorpresa. Ma alla roulette ci sono solo 3 7 numeri, contando
anche lo zero, cosicché dopo un massimo di 3 7 uscite egli sarà costretto
a produrre un numero che è già uscito, per esempio il 7 . A partire da
questo punto egli ricalcherà le uscite precedenti, e farà quindi uscire
successivamente il 3 5, il 1 3 , il 22 e via di seguito, finché, a un certo
punto, uscirà di nuovo il 7, e poi il 3 5, il 1 3 , il 22 e così via indefinita­
mente. Quanto tempo impiegheranno i giocatori ad accorgersi del suo
controllo?
Come un croupier meccanico produrrà alla roulette un ciclo di non
più di 3 7 uscite, il metodo dei quadrati successivi o un qualsiasi altro
metodo deterministico produrrà un ciclo formato da un massimo di
l O 000 uscite, l O 000 essendo il numero totale dei numeri di quattro
cifre. Si può cercare di rimediare a questa situazione, per esempio ope­
rando con numeri di cinque cifre, cosa che potrebbe permetterei di
giungere fino a l 00 000 scelte, ma sussisterà sempre la limitazione di
fondo. Si potrà anche mascherare la realtà, alla maniera di frate Edvin,
dando del risultato finale solo il resto della divisione per 6. In tal modo
si potrà dar l'impressione di scegliere un numero da O a 5, mentre in
realtà si sceglie un numero da O a 9999. Così, le uscite successive
60 1 6, 1 92 2 , 6940, 1 6 3 6
s i leggeranno:
4, 2, 4, 4,

dando l'illusione del caso, poiché un 4 può essere seguito da un 2 o da


un 4, come se le uscite fossero indipendenti. Purtroppo il primo 4, che
rappresenta il numero 60 1 6, non è uguale al secondo, che rappresenta
il 6940. La macchina opera sul 60 1 6 e sul 6940 e mostra 4 e 4, come un
illusionista che inganni lo spettatore con un gioco di specchi.
Ai nostri tempi, nella generazione dei numeri casuali il metodo dei
quadrati successivi è praticamente abbandonato. Si preferisce utilizzare
generatori aritmetici, descritti da formule del tipo
X"= (aX"_, + c) modulo M,

le quali significano che la n-esima uscita xn viene ottenuta prendendo il


ALEA 2)

risultato della (n - l)-esima uscita x._ I' moltiplicandolo per a , som­


mando al prodotto così ottenuto c, e dividendo per M. Il resto di questa
divisione è il risultato della n-esima uscita. I numeri interi a, c ed M
caratterizzano il generatore e sono scelti una volta per tutte.
Questi generatori aritmetici soffrono degli stessi inconvenienti del
metodo dei quadrati. Ogni uscita è determinata per intero dalla prece­
dente, e si osserveranno quindi cicli la cui estensione massima è deter­
minata dal numero M. Nella pratica si sceglie volentieri M = 2 32, che
rende facilissima la divisione per M per le macchine che lavorano con
numeri binari, oppure M= 2 3 1 l, per il quale la divisione per M non è
-

molto più difficile e che presenta il vantaggio di essere un numero


primo. Per numeri così grandi, l'estensione dei cicli è tale che essi sono
inosservabili nella pratica: il numero 2 30 è dell'ordine di un miliardo. Si
può dunque sperare di avere imitato il caso in modo soddisfacente.
Purtroppo non è così. Il problema dei cicli è solo il primo scoglio, e
molti altri ce ne sono sulla nostra strada. La nozione di caso si decom­
pone in effetti in una moltitudine di proprietà, talmente diverse fra
loro da apparire a volte contraddittorie. Così, se abbiamo parlato del­
l'indipendenza delle uscite successive, non abbiamo detto nulla della
loro distribuzione. Ciò che desideriamo è che questa sia uniforme,
ossia, per esempio per il metodo dei quadrati, che tutti i numeri com­
presi fra O e 9999 escano con la stessa frequenza. Ora, è noto che ogni
successiOne di uscite finisce per stabilizzarsi in un ciclo, che sarà in
generale
2 1 00, 4 1 00, 8 1 00, 6 1 00, 2 1 00.
Questi quattro numeri escono dunque con una frequenza di 1 14, e gli
altri non escono più (frequenza 0). La distribuzione uniforme non può
dunque esistere se non in un periodo transitorio, in cui il computer
non ha ancora avuto il tempo di raggiungere il ciclo limite e in cui si
può sperare che le uscite successive si distribuiscano in maniera grosso
modo uniforme fra O e 9999.
Si possono regolare i parametri a e c dei generatori aritmetici in
modo che i loro cicli abbiano un periodo molto lungo. Si può addirit­
tura fare in modo che ci sia un solo ciclo, che passi a volta a volta per
ciascuno dei punti da O a M - l. La distribuzione sarebbe in questo caso
uniforme, nel senso che gli M numeri da O a M - l uscirebbero cia­
scuno una volta per ciclo, e avrebbero quindi tutti la stessa frequenza
26 CAPITOLO PRIMO

IlM. Ma, dopo tutto, ciò che il computer fa in questo caso non è altro
che produrre i primi M numeri in un ordine diverso dall'ordine natura­
le: è quindi giustificato parlare di caso per un'operazione di questo
genere? Anche qui il caso è nell'occhio dell'osservatore: è la nostra in­
capacità di abbracciare in un sol colpo d'occhio un miliardo di numeri
o più, unita alla nostra ignoranza della regola usata dal computer per
classificarli, a farci apparire casuale la loro successione. Un osservatore
più perspicace saprebbe senza dubbio scoprire nella loro distribuzione
regolarità nascoste, le quali sarebbero altrettanti indizi del fatto che qui
il caso non ha nulla a che fare.
Ecco un esempio semplice di una tale situazione. Supponiamo che si
voglia sorteggiare un punto dell'intervallo (0, 1), secondo una distribu­
zione uniforme. Decidiamo innanzitutto la precisione con cui operere­
mo, per esempio 32 bit. Ciò significa che il computer non prenderà in
considerazione se non numeri la cui rappresentazione binaria comporti
solo 3 2 segni, il che equivale a sostituire l'intervallo (0, l) con una rete
di M = 2 32 punti equidistanti compresi fra O e l. Ciò fatto, si sorteggerà
uno di di tali punti utilizzando un generatore aritmetico
X. +, = (aX. + c) modulo M.
Si potranno adattare le costanti a e c in modo che ci sia un solo
ciclo, di periodo M, così che gli M punti dell'intervallo (0, l) vengano
sorteggiati ognuno una volta per ciclo. Si può quindi ritenere che essi
abbiano tutti la stessa frequenza 1 /M e che si sia realizzato così un sor­
teggio uniforme sull'intervallo (0, 1 ) .
M a che cosa accade s e s i vuole estrarre a sorte u n punto in u n qua­
drato, sempre seguendo una distribuzione uniforme? Diciamo che il
quadrato ha lato l; ogni punto del quadrato è rappresentato allora da
due numeri, x e y, compresi entrambi fra O e l, che rappresentano uno
la sua proiezione orizzontale (ascissa) e l'altro la sua proiezione verti­
cale (ordinata). Se si sostituisce, come in precedenza, l'intervallo (0, l)
con M punti equidistanti, si ottengono M possibilità per la proiezione
orizzontale, x, e M possibilità per la proiezione verticale, y, cosa che
corrisponde a M x M= M2 possibilità per il punto (x,y). Si ottengono
infine M2 punti distribuiti uniformemente sul quadrato. Per tirare a
sorte uno di questi punti, basta sorteggiare successivamente le sue due
proiezioni x e y. Se queste due uscite sono indipendenti, e distribuite
uniformemente, si potrà ottenere qualsiasi punto del quadrato, ognuno
con la stessa frequenza 1 1M2•
ALEA 27

Occorre però che le due uscite siano indipendenti, ed è proprio


questa richiesta che ci permetterà di cogliere in fallo il generatore arit­
metico. Utilizziamolo per sorteggiare le due proiezioni del punto cer­
cato, innanzitutto quella orizzontale, x, e poi quella verticale, y . Queste
due uscite danno l'impressione di essere indipendenti, mentre in realtà
sappiamo che non lo sono, giacché il generatore deduce ogni uscita
dalla precedente, e quindi y da x, per mezzo della formula
y = (ax+c) modulo M.
Avendosi, per ogni x, M possibilità, ognuna delle quali determina
perfettamente y, per la coppia (x,y) ci saranno solo M possibilità, in
luogo delle M2 che avrebbe dato il caso. Il generatore aritmetico ha
accesso solo a M degli M2 punti del quadrato, ossia a una frazione
MIM1 = 1 1M. La grandissima maggioranza delle posizioni gli è quindi
inaccessibile. Inoltre, non c'è più alcuna garanzia che gli M punti possi­
bili siano distribuiti nel quadrato in modo uniforme. Si è costruito un
ciclo di M punti che serpeggia su un insieme di M2 punti, ed è possibi­
lissimo che questo ciclo si concentri in certe regioni del quadrato,
ignorandone del tutto altre (cfr. scheda 1 ) .
Abbiamo dunque u n modo per scoprire se uscite successive equidi­
stribuite in (0, l) siano o no indipendenti: raggrupparle a coppie per
ottenere punti nel quadrato, ed esaminare se questi sono o no equidi­
stribuiti. Se lo sono, non possiamo dire nulla; forse un raggruppamento
per gruppi di tre potrebbe mostrare una distribuzione irregolare di
punti nel cubo, rivelandoci così correlazioni che potrebbero esserci
sfuggite. Ma se non lo sono, si può affermare che le uscite conside­
rate sono collegate, ossia che ognuna di esse dipende dalle precedenti.
Questo è quello che si chiama un test d'indipendenza. Un genera­
tore aritmetico può benissimo superarlo con successo: è infatti possi­
bile scegliere il coefficiente a e l'intero M (il valore di c non ha molta
influenza) in modo tale che i punti ottenuti appaiano distribuiti unifor­
memente nel quadrato. Ma ci sono molti altri test d'indipendenza, e un
generatore che ne inganni uno può essere smascherato da un altro. In
effetti ogni test ha i suoi favoriti, nel senso che riconosce certi genera­
tori e non altri. Secondo un vecchio adagio, un generatore può ingan­
nare un test tutte le volte, e tutti i test qualche volta, ma non può
ingannare tutti i test tutte le volte.
Il problema, qui, è che un generatore aritmetico non ha la ricchezza
28 CAPITOLO PRIMO

SCHEDA I Un esempio di generatore aritmetico: X l=(X"+ 3) modulo IO


n+

È un modello rudimentale, che ci permette di «sorteggiare>> un numero intero


da O a 9. Prendendo l'avvio da X=O e iterando, si ottengono successivamente

X0=0 X6=8
X1=3 X7=l
X2=6 X8=4
X3=9 X9=7
X4 =2 X10=0=X0
X5=5 Xu=3=X�>

ossia un ciclo completo, che passa per tutti i numeri interi da O a 9. Ciò equivale
a scrivere questi numeri in un ordine diverso da quello naturale. Il computer
conserva in memoria l'ultimo numero fornito e, ogni volta che gli si chiede un
numero, dà quello successivo nell'elenco.
Questo generatore può essere utilizzato per «sorteggiare>> un punto apparte­
nente all'intervallo [0, 1]. A questo scopo si sostituisce l'intervallo con 10 punti
equidistanti:

O=Q ! I l � i Q 2 � 2=1
9' 9' 9' 9' 9' 9' 9' 9' 9' 9 '

che si possono così rappresentare geometricamente:

o 2 3 4 s 6 7 8 9

Ordinandoli come abbiamo ordinato gli interi, otteniamo una regola di succes­
sione che rappresentiamo simbolicamente in questo modo (ogni punto è con­
nesso da una freccia a quello che lo segue):

In dieci sorteggi si percorre tutto l'intervallo. Anche in questo caso il computer


conserva in memoria l'ultima posizione toccata, e ogni volta che gli si chiede di
tirare a sorte una nuova posizione fornisce il punto seguente sull'elenco. È evi­
dente che questo tipo di comportamento non è affatto casuale, anche se pre­
senta molte proprietà di una sequenza di sorteggi indipendenti ed equidistri­
buiti, tanto da poter ingannare un osservatore disattento.
ALEA 29

Le insufficienze di questo generatore aritmetico risulteranno però manifeste


qualora lo si voglia utilizzare per sorteggiare dei punti in un quadrato. Il qua­
drato [0, l] x [0, l] è sostituito da lO x lO=l00 punti:
1
8
9
7
9
6
9
5
:
9
3
9
2
9
l
9
o l � 1 4 � 6 ?.. !
9 9 9 9 9 9 9 9

e «sorteggiamo>> successivamente le due coordinate di ogni punto. Così, se la


coordinata orizzontale è O, la coordinata verticale dovrà essere il valore che
segue a 0/9 , ossia 3/9 . Questo procedimento fornisce, in totale, solo lO possibi­
lità per l 00 punti:

e, questa volta, nessuno potrà ingannarsi: questi punti non sono equidistribuiti.
I sorteggi non sono quindi indipendenti.
I generatori aritmetici d'uso corrente fanno intervenire suddivisioni molto più
fini e cicli molto più lunghi (M""' 2 32). I cicli, nondimeno, esistono, e possono
condurre a sorprese sgradevoli.
30 CAPITOLO PRIMO

inesauribile del caso. Se X�' X1, , X" sono uscite indipendenti equidi­
•••

stribuite, se ne può estrarre una su due, le si può raggruppare per cop­


pie, o invertirle, e si otterranno sempre uscite indipendenti equidistri­
buite, e trasformazioni più complicate, come x;,�' . . . , � (ogni risul­
tato è elevato al quadrato), daranno ancora uscite indipendenti, seguendo
una distribuzione che non è più uniforme ma che si può calcolare. Per
contro, se un generatore aritmetico costruisce una sequenza xl xl, . . . , x.
'
equidistribuita, non è detto che raggruppando i termini a coppie si
otterrà una sequenza equidistribuita nel piano, né che elevandoli al
quadrato essi si distribuiranno secondo la legge voluta. Si potrà certo
ideare un generatore con tale proprietà, ma che ne sarà dei raggruppa­
menti dei termini in gruppetti di tre o della sequenza dei cubi x:, x;,
. . . ,X!? E che accadrà se ci verrà la fantasia di cambiare l'ordine dei ter­
mini? La sequenza ottenuta saprà comportarsi come una sequenza
aleatoria? È possibile imporre al generatore questi vincoli supplemen­
tari, e anche altri, ma si corre sempre il rischio che, una volta entrato in
funzione, esso si imbatta in un test che non era stato previsto a priori e
che si tradisca. Il caso, invece, salta spontaneamente tutti gli ostacoli
che si possono frapporre sul suo cammino.
In questa fase della nostra riflessione, quando ci si rende conto che
i computer più potenti sono incapaci di riprodurre le proprietà che noi
attribuiamo spontaneamente al caso, si riaffaccia il sospetto. Il caso esi­
ste veramente, o siamo vittime di un'illusione? Esso potrebbe essere
una nozione essenzialmente matematica, un'idealizzazione della realtà,
nello stesso modo in cui la retta infinita e priva di spessore del geome­
tra è un'idealizzazione della linea tracciata sul quaderno di uno scolaro.
Lo scienziato pratico, dal canto suo, non si pone più il problema. Il
fisico che vuole calcolare un integrale col metodo di Montecarlo non si
propone di imitare il caso in generale. La serie di numeri che gli fornisce
il computer gli interessa solo nella misura in cui gli permette di ottenere
il più rapidamente possibile una buona approssimazione al valore cercato.
Egli lavorerà in generale in uno spazio di dimensione N grande, e sarà
cruciale per lui che, raggruppando le uscite in gruppi di N, si otten­
gano punti equidistribuiti in questo spazio. Per contro, poco gli
importa l'esito di test di indipendenza o di equidistribuzione, che non
hanno nulla a che fare col suo problema. In effetti l'utilizzatore conser­
verà, delle infinite proprietà di una serie di uscite indipendenti ottenute
con la stessa legge, solo quelle che gli interessano direttamente, e
ALEA 31

costruirà il suo generatore aritmetico in conseguenza; il risultato finale


avrà a volte perduto persino l'apparenza del caso.
È possibile un altro atteggiamento, consistente nel prendere atto
della nostra impotenza a costruire sequenze veramente aleatorie e nel­
l'andare a cercare il caso là dove si trova, ossia nella natura. Ecco perché
certi generatori di numeri « casuali >> combinano un procedimento
aritmetico, simile a quelli che abbiamo descritto, con un ricorso all'oro­
logio, strumento sempre presente nei computer. In certe fasi del cal­
colo è sufficiente far intervenire l'ora nella sequenza delle operazioni. Si
può, per esempio, prendere come punto di partenza X0 di un gene­
ratore aritmetico il tempo trascorso dalle ore 17 del 14 luglio 1 900,
espresso in secondi. Un'alea naturale viene così a rafforzare un'alea
artificiale. Questo ricorso a dati esterni può essere spinto molto più
avanti. Costruire un generatore aritmetico adattato ai propri bisogni è
un compito difficile, e utilizzare i software disponibili in commercio
comporta dei rischi. Si può quindi essere tentati di usare tavole di
numeri casuali, ottenute per mezzo di un montaggio sperimentale più
che per mezzo di un algoritmo matematico. Le prime tavole sono di
origine demografica, ma ci si volse abbastanza presto a dispositivi fisici.
Fu così che nel 195 5 la Rand Corporation pubblicò un elenco di un
milione di cifre, estratte da un rumore di fondo elettronico. Purtroppo
qualche anno dopo ci si accorse di errori di montaggio che inficiavano i
risultati e compromettevano l'indipendenza delle uscite successive.
Ciò mostra che non è poi tanto più facile conseguire il caso con un
meccanismo fisico che con un algoritmo matematico, soprattutto
quando si tratta di produrre serie molto lunghe di numeri casuali.

Ci troviamo dunque in un vicolo cieco, come i due re nella storia


narrata da Torstein Frode, quando per tre volte di seguito sono usciti
due sei e si determina una situazione di difficoltà. È allora che inter­
viene il caso, sconvolgendo l'immagine che ci siamo fatti della situazio­
ne, infrangendo il quadro ristretto delle nostre previsioni per creare
qualche cosa di veramente nuovo, come Alessandro tagliava il nodo gor­
diano. La realtà getta la maschera, l'elemento indivisibile si rompe in
due, e la cifra che non poteva essere se non uno o sei diventa sette. Bur­
lati dalla natura, ci troviamo respinti, estranei e ridicoli, al margine di un
mondo che si occulta al nostro sguardo.
32 CAPITOLO PRIMO

La stessa sensazione dovettero provare i fisici all'epoca della rivolu­


zione scientifica iniziata con la scoperta della radioattività, quando
tante precedenti certezze si rivelarono ingannevoli. Appena stabilito
come componente primario della materia, l'atomo - l'unità fondamen­
tale, il cui nome stesso significa indivisibile - si rivelò costituito da elet­
troni orbitanti attorno a un nucleo, che non avrebbe tardato a rivelarsi
a sua volta composto da neutroni e protoni. Ma ben presto ci si sarebbe
resi conto di non avere ancora toccato il fondo della realtà ultima. Per
mezzo di collisioni in acceleratori sempre più potenti si ruppero pro­
toni e neutroni facendone emergere altre particelle, ancor più « ele­
mentari >>: pioni, particelle lambda, sigma, rho, attualmente in numero
di più di quattrocento. Negli anni settanta fu fondata la cromodinamica
quantistica, la quale mostrò che, alla base di tutta questa profusione,
c'erano componenti ancora più elementari: i quark. Certe particelle (i
barioni) si decompongono in tre quark, altre (i mesoni) in un quark e
un antiquark. Mentre scrivo, si conoscono cinque quark diversi, e si
sospetta l'esistenza di un sesto quark, cosa che dà già spazio a una
grande fantasia. Ci sono poi altre sei particelle di spin 1 /2 (i leptoni)
- fra cui l'elettrone e i neutrini - che non si decompongono in quark.
Se si passa alle particelle di spin l , se ne trovano altre dodici: il fotone,
i gluoni (otto) e le particelle W e Z (tre). Ci troviamo così ad avere
ventiquattro componenti elementari, le cui diverse combinazioni
dovrebbero permettere di rendere conto di tutte le varietà di particelle
osservate, e per ora il quadro sembrerebbe completo. Fino al momento
in cui, ovviamente, verrà a sconvolgerlo una teoria più ambiziosa.
I fisici non hanno rinunciato al sogno della « grande unificazione >>, una
teoria capace di abbracciare in sé la meccanica quantistica e la relatività
generale, e ogni passo in questa direzione comporterà una modifica­
zione profonda del paesaggio.
Ogni volta che crediamo di aver trovato il componente ultimo della
realtà, il mattone elementare con cui è costruito l'universo, questo si
frammenta come il dado del re Olav. Per i platonici, questo fatto evoca
irresistibilmente l'ottava ipotesi del Parmenide. 6 Più prosaicamente, è

6 [Il riferimento è a Parmenide, 26, 1 64b- 1 65d. In particolare: « Quali sono le affe­
zioni conseguenti agli altri, se l'uno non è? » «Perché sempre quando si voglia afferrare
col pensiero qualcuno di essi ( ... ) avanti al principio sempre appare un altro principio e
dopo la fine sempre un'altra fine rimane e in mezzo sempre altre parti che sono più in
mezzo della parte intermedia e più piccole» (trad. A. Zadro, in Platone, Opere complete,
vol. 3 , Universale Laterza, Laterza, Bari 1 97 1 , pp. 64 sg., 1 64b, 165a-b)].
ALEA 33

una sorta di caccia in cui la selvaggina riesce sempre a sottrarsi alla cat­
tura, come in quei cartoni animati classici in cui si manifesta una vera
genialità nel mettere in ridicolo il cacciatore. Ben si comprende il ner­
vosismo di quest'ultimo, e la meticolosità con cui mette in atto trap­
pole sempre più elaborate per mettere infine le mani sul responsabile
delle sue sofferenze. Noi sappiamo bene che i suoi sforzi saranno vani
e che egli avrà di nuovo la peggio, ma egli ci crede a tal punto, e sem­
bra ogni volta così vicino a raggiungere il suo obiettivo, che la crudeltà
e l'ingegnosità con cui il cartoonist ritorce a suo danno le situazioni più
favorevoli ci lasciano palpitanti e ammirati. È dunque da conoscitori
che apprezzeremo l'abilità con cui la natura ci si sottrae, e particolar­
mente il modo in cui si serve del caso per celarsi al nostro sguardo.
A cominciare dalla scala della molecola, si entra nel regno della
meccanica quantistica. Certo, questa fa qualche incursione nel campo
macroscopico, e fenomeni come la superfluidità o la superconduttività
faranno parte d'ora in poi della nostra percezione. La teoria si presenta
come un dittico, la cui prima tavola è puramente deterministica. Essa
raffigura l'evoluzione dei sistemi fisici isolati. Ognuno di essi è rappre­
sentato da un vettore di stato preso in uno spazio di dimensione infini­
ta: lo spazio di Hilbert. È proprio della meccanica quantistica fare
appello a questo spazio per descrivere lo stato di un sistema fisico isola­
to, e i fisici hanno avuto una certa difficoltà ad abituarvisi. Questo disa­
gio si manifesta particolarmente nella terminologia, in cui il «vettore
di stato» stenta a imporsi sul suo sinonimo « funzione d'onda». Ma
l'evoluzione stessa è puramente deterministica, essendo governata da
un'equazione differenziale, l'equazione di Schrodinger, la quale si
svolge quindi in uno spazio di Hilbert in sostituzione degli spazi abi­
tuali di dimensione finita. Volendo essere perfettamente rigorosi, ci si
dovrebbe limitare a considerare una sola funzione d'onda, quella del­
l'universo nella sua interezza, ma, come nella fisica classica, ci si può
anche accontentare di approssimazioni, e considerare certi sottosistemi
come se fossero isolati, almeno momentaneamente, e avessero quindi
una funzione d'onda loro propria: particelle, atomi o molecole.
L'altra tavola del dittico è puramente probabilistica: essa descrive le
operazioni di misura. Misurare una grandezza fisica - posizione o velo­
cità, energia o tempo - equivale a trasferire il sistema dalla prima tavola
alla seconda. Il risultato della misurazione sarà quello di un sorteggio.
Più precisamente, il vettore di stato può essere analizzato come una
34 CAPITOLO PRIMO

somma di componenti, gli « stati propri >> della grandezza considerata,


corrispondenti ciascuno a un valore ben determinato di questa. L'ope­
razione di misura ha misteriosamente l'effetto di proiettare il sistema in
uno di questi stati propri: la decisione sarà conseguita in virtù di un
sorteggio, condotto seguendo regole ben precise. Lo stato proprio sor­
teggiato determinerà il valore che sarà registrato dallo strumento, che
sarà il valore del sistema dopo la misurazione.
La meccanica quantistica sarebbe dunque puramente deterministica
se non ci fossero osservatori. Siamo noi, chiedendo un'informazione,
eseguendo una misura, a perturbare l'evoluzione del sistema e a intro­
durre un elemento aleatorio. Il fatto è che è impossibile prevedere il
risultato di una sola misurazione. La teoria permette al massimo di cal­
colare a priori tutti i risultati possibili e la probabilità di ciascuno di
essi. Ciò non significa che la meccanica quantistica non sia precisa, o
che non permetta di fare certe previsioni. Semplicemente, queste pre­
visioni saranno di natura statistica, concernendo un gran numero di
misure o fenomeni macroscopici, cosa che non esclude una grande pre­
cisione. A titolo di esempio, il momento magnetico dell'elettrone ha un
valore sperimentale di 1 ,00 1 1 59 652 2 1 (con un'incertezza dell'ordine
di 4 nell'ultima cifra), per un valore teorico (e quindi calcolato a priori)
di 1 ,00 1 1 59 652 46 (con un'incertezza cinque volte maggiore). Ab­
biamo quindi conseguito uno scarto fra previsione teorica e risultato
sperimentale di 1 1(4 x l 09), dell'ordine cioè di un millimetro su quat­
tromila chilometri.
Quanto è strana, nondimeno, questa teoria! Esaminiamo, per esem­
pio, la propagazione del fotone. Il fotone viene emesso nel punto E
(sorgente) e ricevuto nel punto R (ricevitore); fra il punto di partenza e
il punto d'arrivo c'è uno schermo in cui sono stati praticati due forellini
in A e B. L'ottica geometrica ci dice che, perché si possa osservare della
luce nel punto R, occorre che esso sia allineato o con E e A o con E e
B. La meccanica quantistica, al contrario, ci insegna che, quali che
siano le posizioni dei fori, e particolarmente se non c'è allineamento,
un fotone emesso dal punto E ha sempre una certa probabilità di
andare a colpire il punto R. Questo è effettivamente ciò che si osserva
se i fori praticati in A e B sono abbastanza piccoli. Tale osservazione
contraddice beninteso l'intuizione grossolana secondo la quale il fotone
è un corpuscolo che si propaga in linea retta, ma questo non è ancora
l'aspetto più sorprendente della situazione. Sempre secondo la mecca-
ALEA 35

nica quantistica, il fotone che ritroviamo in R ha una certa probabilità


di essere passato per A, e una certa probabilità di essere passato per B,
senza che si possa mai determinare con certezza che percorso abbia
seguito effettivamente. Trattandosi di una particella elementare, indi­
visibile per essenza, la domanda sembra naturale. Essa risulta tuttavia
priva di senso, se si presta fede all'esperienza, in quanto nel punto R si
possono evidenziare frange di interferenza la cui unica interpretazione
possibile è che il fotone sia passato sia per A sia per B. Se si cerca di
forzare una risposta catturando il fotone, per esempio ponendo in A e
in B due rivelatori che ne registrino il passaggio, si constaterà che il
fotone passa per A o per B (uno solo dei due rivelatori viene attivato),
ma le frange d'interferenza scompaiono !
L'interposizione di uno strumento di misura supplementare modi­
fica quindi il fenomeno. Cercando di localizzare il fotone in A o in B, si
costringe il sistema in uno stato che è estraneo alla sua evoluzione
spontanea, e in questo modo si introduce un elemento aleatorio. Dicia­
mo, per esempio, che una misurazione richiede un'interazione tal­
mente complessa fra il sistema e l'osservatore, che in essa vengono a
svolgere un ruolo cruciale parametri estranei all'uno e all'altro - ma
rappresentati nella funzione d'onda dell'universo -, e che il risultato
non può essere appreso se non in modo statistico. Questa è soltanto
un'ipotesi, o forse addirittura una metafora. Una cosa sola è certa: nella
meccanica quantistica misurare è tirare a sorte.
La domanda che si pone subito è: «Va bene, ma chi è che tira a sor­
te? » Non l'osservatore, e probabilmente neppure la particella. C'è
una risposta possibile, ma non piacerebbe a tutti. Si può non porsi la
domanda, come Niels Bohr. Ma se ci si pone la domanda, come fece
Einstein, e si stabilisce che Dio non gioca a dadi, ci si trova in un vicolo
cieco, a meno che non si dimostri che questo stesso tirare a sorte è
anch'esso solo un'illusione.
Di qui i tentativi ostinati di Einstein e dei suoi discepoli di dimo­
strare l'esistenza di «variabili nascoste >> nella meccanica quantistica. La
tesi che Einstein sostenne fino alla sua morte è che noi abbiamo
accesso solo ad alcune delle variabili che determinano lo stato di un
sistema quantistico. Se potessimo osservarle tutte, potremmo predire
- almeno a breve scadenza - l'evoluzione del sistema e il risultato di
qualsiasi misurazione. Certe variabili, però, ci sono nascoste, ed è
quest'ignoranza a creare l'illusione del caso. La nostra situazione è
36 CAPITOLO PRIMO

simile a quella di un osservatore situato sotto un tavolo di vetro traspa­


rente su cui si svolga una partita a carte: egli vedrebbe solo il dorso
delle carte e non potrebbe quindi comprendere gli sviluppi del gioco.
Nonostante l'intima convinzione di Einstein, la teoria delle variabili
nascoste non ha mai trovato la minima conferma. Sul piano concet­
tuale, von Neumann e numerosi altri hanno tentato di dimostrarne
l'incompatibilità con i fondamenti della meccanica quantistica. Se non
sono pervenuti a un'impossibiltà assoluta, hanno nondimeno stabilito
che una tale teoria dovrebbe avere proprietà almeno altrettanto para­
dossali di quelle della meccanica quantistica. Sul piano sperimentale,
Einstein, Podol'skij e Rosen hanno indicato una linea di approccio che
nel corso degli anni - grazie soprattutto alla scoperta a opera di Beli di
certe disuguaglianze che sarebbero violate se esistessero effettivamente
delle variabili nascoste è sfociata in esperimenti realizzabili. Questi
-

hanno dato tutti esito negativo. Siamo dunque ridotti all'idea che il
caso che interviene nella meccanica quantistica non sia riducibile a un
sottostante determinismo. Lo stesso determinismo macroscopico che
regna alla nostra scala è riducibile al caso quantistico grazie alle leggi
della statistica, che si esercitano su numeri immensi di particelle. È
dunque il caso che sembra essere il dato fondamentale, il messaggio
ultimo della natura.
Eccoci quindi costretti a rimetterei a qualche macchina enorme, in
grado di spiare il comportamento delle particelle elementari. Forse in
futuro si perverrà ad addomesticare il caso quantistico, e a dispensarlo
in dispositivi miniaturizzati, che troveremo nelle calcolatrici per stu­
denti come pure nelle slot-machine. Tutti, matematici e giocatori,
avranno allora accesso alla fonte stessa del caso, puro e inalterabile. Ma
questo caso addomesticato non ci sorprende più; noi ci attendiamo una
scelta fra varie uscite che conosciamo in anticipo. L'emozione dinanzi
all'imprevisto, la gioia di vedere l'orizzonte recedere bruscamente e il
timore dei pericoli che si celano in nuove terre, tutti questi sentimenti
che ci turbano quando vediamo fendersi il dado e uscire il sette, dob­
biamo cercarli nella nostra storia, e non in nuove tecnologie.
CAPITOLO 2

Destino

Il re Olav Trygvesson partì per Tunsberg, dove convocò il ting. Presavi la paro­
la, proclamò che chiunque si dedicasse apertamente alla magia o alla stregone­
ria, o praticasse il seid, 1 doveva lasciare il Paese. Poi ordinò di cercare tutti
coloro che, nella città o nei dintorni, si dedicavano a tali pratiche. Fra costoro
c'era un uomo di nome 0yvind Kjelda, che discendeva da Araldo Bella chioma e
che era molto esperto nel seid e nella magia. Il re Olav li fece riunire tutti in
una grande sala dove offrì loro un banchetto, avendo cura che non mancassero
di nulla e che bevessero molto. Quando furono ubriachi, fece appiccare il fuoco
alla casa, la quale arse con tutti i suoi occupanti, a eccezione di 0yvind Kjelda,

1 Il seid, o sejdr, era un insieme di riti magici destinati particolarmente alla divina­
zione; pare che, dopo essere stato una delle pratiche essenziali del paganesimo nordi­
co, sia scomparso con la cristianizzazione dei paesi scandinavi, spesso condotta con
metodi brutali.
38 CAPITOLO SECONDO

che fuggì dal tetto. Quando era ormai lontano dalla città, 0yvind incontrò
alcuni viaggiatori che andavano dal re . Chiese loro di annunciargli che 0yvind
Kjelda era sfuggito all'incendio, che non sarebbe mai più caduto nelle sue mani
e che avrebbe continuato a praticare la propria arte. Giunti in presenza del re, i
viaggiatori gli riferirono il messaggio di 0yvind, e il re disse che era un vero
peccato che 0yvind non fosse morto.
Tornata la primavera, il re Olav partì verso ovest e soggiornò nei suoi possedi­
menti del Vik. Fece annunciare in tutta la regione che nell'estate avrebbe
arruolato un esercito e sarebbe partito verso il nord del Paese. Poi risalì verso
Agder. Verso la fine della quaresima si mise in viaggio alla volta del Rogaland,
e trascorse la notte di Pasqua ad Àgvaldsnes, nell'isola di Karm, con trecento
uomini. La stessa notte nell'isola arrivò, a bordo di una nave lunga/ 0yvind
Kjelda. L'equipaggio della nave era composto di praticanti del seid e di stregoni
di ogni sorta. 0yvind e i suoi uomini sbarcarono sull'isola e cominciarono a
gettare il malocchio a destra e sinistra. Essi suscitarono una nebbia così densa
che il re e i suoi uomini non potessero vederli. Quando però arrivarono ad
Àgvaldsnes, si era fatto giorno, e le cose andarono diversamente da come aveva
previsto 0yvind. La magia si ritorse contro di loro, e la nebbia da loro suscitata
li colse, impedendo loro di vedere a un palmo dal naso, cosicché non facevano
altro che girare in cerchio. Le guardie li scorsero, anche se non riuscivano a
capire che cosa facessero. Fu avvertito il re, che si alzò e si vestì, come pure il
suo seguito. Quando il re vide 0yvind e i suoi compagni, ordinò ai suoi uomini
di armarsi e di andare a identificarli. Gli uomini del re riconobbero 0yvind e lo
fecero prigioniero, lui e gli altri. 0yvind fu condotto alla presenza del re e
dovette dirgli che cos'era accaduto. Il re Olav li fece legare tutti a una scogliera
che all'alta marea veniva ricoperta completamente dal mare. Così perirono 0y­
vind e i suoi compagni; da allora quella roccia si chiama Skratteskja:r, la Sco­
gliera dei Maghi. 3

Questa fosca storia è ben nota a tutti i norvegesi. Nell'edizione clas­


sica della Heimskringla (saga), quella che ho avuto da mio nonno, è
accompagnata da una splendida illustrazione di Eilif Peterssen. Vi si
vede il profilo di 0yvind dominare le onde, con tutta la sua vita con­
centrata nello sguardo, mentre attorno a lui i suoi compagni si abban­
donano in balia dei flutti, sullo sfondo di un orizzonte indistinto in cui
acqua, cielo e terra si confondono. Ancor oggi mi chiedo che cosa pen­
sasse in quel momento 0yvind, Prometeo legato alla sua roccia, in
attesa del mare, che sarebbe venuto per lui una volta sola. Sollevandosi
al di sopra del desiderio di vendetta e della pietà per i suoi compagni, il

2 Una nave da combattimento, un drakkar, in contrapposizione alla nave tonda,


che era un'imbarcazione mercantile.
3 6/rifs saga Tryggvasonar (Saga di Olav Trygvess0n), cap. 63 .
DESTINO 39

suo spirito si era innalzato da quella situazione elementare alle grandi


speculazioni metafisiche? 0yvind si pose gli interrogativi eterni? Per­
ché le cose sono così e non altrimenti? Perché c'è qualcosa piuttosto
che niente?
Secondo l'immortale definizione di Wittgenstein, « Die Welt ist alles,
was der Fall ist>>,4 « il mondo è tutto ciò che accade >>, tutto ciò di cui si
dà il caso, tutto ciò che si constata. La nostra prima esperienza è quella
della contingenza. Questa roccia è qui, ben concreta e reale, come que­
ste funi che mi immobilizzano, come l'acqua che sale. Tutto questo
costituisce ora il mio universo, ed è qui che io devo trovare il mio
posto. Il bambino, trascinato dal desiderio della scoperta, passa di per­
ché in perché; il vecchio, rinsavito, medita e risponde:
Die Ros ' ist ohn ' Warum; sie bliihet, w eil sie bliihet
Sie acht ' nicht ihrer selbst, fragt nicht, ob man sie siehet. 5

Ma questa contingenza è completa, o lascia qualche posto al senso?


Possiamo accontentarci di una constatazione di fatto, o dobbiamo cer­
care una ragione? Gli eventi si susseguono a caso o il mondo funziona
secondo certe regole che possiamo scoprire e utilizzare? Molto spesso
l'ordine delle cose non ci piace, e alcuni si spingono fino a dare la vita
per cambiarlo; la ricerca del senso fa dunque parte della vita umana.
Ma prima di portare la discussione a questo livello, chiniamoci sulle
origini, sull' apparizione della vita sulla terra e su quell'albero dell'evo­
luzione di cui l'Homo sapiens è un ramo forse effimero. Qui troviamo
una prima risposta: ogni nicchia ecologica è un'oasi di regolarità, in cui
le varie specie si giustappongono e contrappongono in una logica rigo­
rosa. Da quando il primo bipede riuscì ad accendere il fuoco, la specie
umana applica le risorse del suo cervello nel ricercare le regolarità del
mondo e nell'usarle a suo profitto per soppiantare le altre forme di vita.
La ricerca del senso si compie solo in vista di un'azione, in generale
aggressiva. Per la ragione umana sarà dunque un esercizio difficile sol­
levarsi al di sopra delle necessità immediate dell'azione, e non è nep­
pure chiaro se essa sia adattata a un tale sforzo.

4 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, l , in Tractatus logico-philoso­


phicus e Quaderni 1 9 1 4- 1 9 1 6, trad. A. G. Conte, Einaudi, Torino 1 974 ( l ' ed. 1 964),
P· 5 .
5 «La rosa è senza perché; fiorisce perché fiorisce, l non si cura di se stessa né si
chiede se alcuno la guardi>> (Angelus Silesius Oohann Scheffler, 1 624-77), Cherubini­
scher Wandersmann, 1 6 5 7).
40 CAPITOLO SECONDO

Facciamo tuttavia questo tentativo, e cerchiamo di rappresentarci la


situazione dell'Homo sapiens. I suoi organi di senso trasmettono al cer­
vello un flusso continuo di informazioni da elaborare. In un modo
che ignoriamo totalmente, il cervello analizza queste informazioni,
individua situazioni tipiche e le estrapola nel tempo. Così, nella savana
primitiva, la retina dell'Homo sap iens riceve un pacchetto di fotoni da
cui il suo cervello estrae un insieme di forme: fra queste egli riconosce
quella della pianta che gli fornisce il cibo. Dal cervello parte allora l'or­
dine di estrarre dal terreno la radice della pianta, e prende il via la
complessa procedura al termine della quale la radice, pestata, lavata e
cotta, diventerà infine un alimento consumabile.
Un'azione di questo tipo si fonda su un numero quasi infinito di
regole constatate nel passato e proiettate nel futuro, e sulla capacità di
riconoscere nel presente le situazioni in cui esse si applicano. Tutte
queste regole costituiscono il senso, almeno operazionistico, che noi
diamo al mondo. Dire che il mondo non ha un senso equivarrebbe a
dire che non vi discerniamo alcuna regola, che non comprendiamo il
passato e che non siamo in grado di predire il futuro; una tale afferma­
zione equivale alla contingenza totale, la quale sembra difficilmente
compatibile con l'esistenza, anche precaria, di una coscienza indivi­
duale. Dire che il mondo ha un senso significherebbe, se questo senso
fosse compreso perfettamente, che il passato e il futuro sono aperti
davanti a noi come un libro. La verità si colloca a metà strada fra questi
due estremi: noi discerniamo cioè del senso a livello locale, cosa che ci
permette di agire in certe direzioni, mentre in altri ambiti il senso ci
sfugge.
Illustriamo la situazione con un esempio semplicissimo. Immagi­
niamo che l'informazione sensoriale si presenti al cervello nella forma
di una sequenza continua di bit, ossia di O e di l :
o o l o l o o o l l o l l o ...,
e sostituiamo il cervello con un diavoletto preso a prestito da Maxwell.
Il nostro diavoletto non riceve altre informazioni oltre a quelle che gli
arrivano attraverso il canale dei sensi, aggiungendo ogni istante un
nuovo bit alla catena a lui già nota. Essendo un diavolo, egli è immor­
tale. Alla fine dei tempi avrà perciò accumulato una sequenza infinita di
O e di l , e noi gli chiediamo allora se questo mondo ha un senso.
Questo modo di porre il problema elude vari interrogativi impor-
DESTINO 41

tanti, fra cui in particolare quello della percezione (come fa il cervello a


classificare le informazioni che gli pervengono?) e quello dell'azione
(che si ripercuote a sua volta sulla percezione, in quanto il cervello non
riceve le informazioni passivamente, ma ordina azioni in conseguenza,
particolarmente per confermare le informazioni ricevute o per cercarne
di nuove). Questa impostazione ha però almeno il merito di permet­
terei di abbozzare una soluzione.
Beninteso, se la catena infinita che il nostro demone ha osservato
nel corso del tempo è uniforme, composta cioè esclusivamente di zeri:
o o o o o o o ...,
o esclusivamente di uno:
l l l l l l l ...,
il diavoletto risponderà immediatamente di sì.
Similmente, se la sequenza è periodica, con alternanza regolare dei
valori zero e uno:
o l o l o l o l ...,
o o l o o l o o l ...,
egli si trova dinanzi a un universo particolarmente semplice e traspa­
rente. Le leggi della fisica in quest'ultimo caso sono tre:
dopo l viene O
dopo ( l , O) viene O
dopo (0, O) viene l .
Se la sequenza non è né costante né periodica, il nostro diavoletto
cercherà di ricondurla a qualche regola semplice. Queste regole pos­
sono essere evidenti, come nel caso delle sequenze
0 1 0 0 1 1 0 0 0 1 1 1 0 0 0 0 1 1 1 1 0 0 0 0 0 ...
(uno zero seguito d a u n uno, poi due zeri seguiti d a due uno, poi tre
zeri seguiti da tre uno ecc.) e
o l 0 0 0 1 1 o 1 1 0 0 0 0 0 l o l 0 0 1 1 1 0 0 l o 1 ...
Quest'ultima sequenza è stata introdotta nella letteratura mate­
matica da D. G. Champernowne. 6 Si forma scrivendo una dopo l'altra

6 In <<]ournal of the London Mathematical Socie ty », VIII ( 1 93 3), pp. 2 5 4-60.


42 CAPITOLO SECONDO

tutte le combinazioni possibili di O e di l , prima quelle a una cifra (O e


l ), poi quelle a due cifre, poi quelle a tre, e così via. Tutte queste com­
binazioni sono scritte nell'ordine lessicografico: ossia, fra le combina­
zioni della stessa lunghezza si scrive dapprima quella che contiene solo
zeri, 00 . . . 0, poi si aggiungono gli uno a partire dal fondo, terminando
con 1 1 . . . l . Si prende quindi l'avvio da O, a cui succede l (combinazioni
a un termine), poi si scrivono nell'ordine 00, 0 1 , 1 0, 1 1 (combinazioni
a due cifre), prima di scrivere, ordinate secondo lo stesso criterio, le
combinazioni a tre cifre, poi quelle a quattro, cinque, sei cifre, e così di
seguito.
Una combinazione data di O e di l apparirà nella sequenza non una
volta, bensì un'infinità di volte. Così l O appare al suo posto giusto
come terza combinazione a due cifre, ma compare anche prima, come
incontro fra l e la prima cifra di 00, e dopo, ad esempio nelle combi­
nazioni a tre cifre O l O, l 00, l O l e 1 1 O. Esso apparirà anche nelle com­
binazioni a quattro, cinque, sei cifre e più, man mano che si procede
lungo la sequenza. Si può mostrare in effetti che, se si considerano
come un messaggio due bit consecutivi (in questo caso i messaggi pos­
sibili sono quattro: 00, O l , l O e 1 1 ), la frequenza del messaggio lO in
questa sequenza infinita è di 1 /4.
La sequenza di Champernowne presenta dunque tutte le caratteristi­
che classiche di una sequenza di lanci di monete nel gioco testa o croce:
ogni messaggio esce con una frequenza che dipende solo dalla sua lun­
ghezza. Così ci sono due messaggi di lunghezza uno, O e l , che appaiono
ciascuno con una frequenza 112 . Le opere complete di Victor Hugo, tra­
scritte in bit, formano un messaggio di lunghezza approssimativa 1 0", un
miliardo di bit, che, come tutti i messaggi di questa lunghezza, apparirà
con una frequenza 11(1 000 000 000 x 999 999 999 x . . . x 3 x 2). Questa
frequenza è così piccola che l'evento corrispondente non ha alcuna
possibilità di essere osservato fra due big bang, ma il nostro diavoletto
ha davanti a sé l'eternità, e potrà quindi leggersi e rileggersi a suo pia­
cimento Notre-Dame de Paris.
In breve, la sequenza di Champernowne imita così bene il caso che
potrebbe ingannare chiunque, se la sua regola di formazione non fosse
così evidente. È però sufficiente complicare questa regola per mettere
in imbarazzo l'osservatore. Prendiamo per esempio un meccanismo
semplice, che costruisca un numero X 1 a partire dal precedente X.
••
DESTINO 43

secondo la formula

xn+ l = l - � .
Diamo al parametro !l i l valore l , 5 , scegliamo per valore iniziale
X0 = O, e generiamo con l'aiuto della formula precedente la successione
infinita X� ' X2, X1 , I primi dodici termini della successione si scri­
• • •

vono nel modo seguente:


xl =
X2 = - o, 5
xl = o,62 5
X4 = 0,4 1 4 062 5
X5 = o,742 828 3 69 1
X6 = 0, 172 3 09 02 1
X7 = o,9 5 5 464 40 1 9
XH = - 0, 3 69 3 68 3 3 5
X9 = o,795 3 50 549 6
XIO = 0,05 1 1 2 6 2 54 79
X1 1 = o,996 079 1 59 1
X1 2 = - o,488 2 60. 5 3 6 79.
Sostituiamo allora X. con O se X,. < O, e con l se O < X Otteniamo
•.

allora una sequenza di O e di l che comincia con


l o l l l l l o l l l o,
e, se continuiamo quest'esercizio per ottenere qualche termine supple­
mentare, prosegue con
l l l l l o l l l o l o l l l l l o l l l o l o l l l l l o.
Questa volta la regola di formazione non è più manifesta, e un
osservatore umano sarebbe condotto a ipotizzare di trovarsi in pre­
senza di una serie di lanci o di estrazioni indipendenti. Facendo una
media sulle prime osservazioni, egli otterrebbe per le frequenze rispet­
tive di O e l i valori empirici da usare come base per i suoi calcoli stati­
stici : qui, per esempio, per i primi 42 termini si trovano frequenze
empiriche di 1 0/42 per lo zero e di 3 2 /42 per l'uno. Lo statistico, fon­
dandosi sull'ipotesi dell'indipendenza, può valutare le frequenze teori­
che di diversi messaggi, e confrontarle con le frequenze empiriche.
Così, se i lanci fossero indipendenti e le frequenze di 1 0/42 e di 3 2 /42
corrispondessero alla realtà, la coppia 0 1 dovrebbe avere una frequenza
44 CAPITOLO SECONDO

di 3 2 0/ 1 764 (circa 0, 1 8), come pure la coppia 1 0, mentre la coppia 00


dovrebbe avere una frequenza molto minore, di 1 00/ 1 764, ossia di
circa 0,06 ( 1 764 è il quadrato di 42).
Si trova che la nostra piccola macchina, come la sequenza di Cham­
pernowne, imita perfettamente una sequenza di estrazioni indipenden­
ti, così bene che le frequenze calcolate saranno vicine alle frequenze
osservate, e che il nostro statistico sarà confortato nell'idea - erronea -
di trovarsi di fronte a uscite casuali. Egli ha trovato un senso al mondo,
ma un senso probabilistico. Poiché il determinismo reale gli sfugge,
egli crede che alla scala microscopica i fenomeni siano retti dal caso, e
che le leggi fisiche non possano essere se non statistiche.
Il nostro diavoletto non ha però le limitazioni intellettuali dei fisici
umani, ma gli si può concedere addirittura di essere onnisciente, cosic­
ché egli saprà risalire dalla sequenza

lo l l l l lo l l lo l l l l lo l l lo lo l l l l lo l l lo
1 0 1 1 1 1 1 0

alla sua legge costitutiva X.+ 1 = l - �- Per lui il mondo è puramente


deterministico. L'intera evoluzione è determinata dai valori del para­
metro fl = l,5 e della condizione iniziale X0 = O. È questo l'ultimo rifu­
gio della contingenza, la sola domanda che ancora rimanga senza rispo­
sta: perché questo mondo piuttosto che un altro, ossia, in ultima anali­
si, perché questi valori piuttosto di altri? Una volta che questi valori
siano noti, l'universo non nasconde più in sé alcuna sorpresa. La diver­
sità dei termini della sequenza è solo apparente e la loro infinità non è
altro che un'illusione. Per conoscerli tutti è sufficiente conoscere due
numeri, fl e X0• Se, per esempio, il nostro diavoletto vuole trasmettere
a un collega i primi quarantadue termini della sequenza, sarà molto più
economico per lui inviargli il messaggio «fl = 1 , 5, X0 = 0» che non tra­
scrivere la sequenza sopra riportata, a condizione beninteso che il
destinatario conosca la formula x.+ l = l- �-
Cerchiamo ora, al contrario, di rappresentarci come sarebbe un
mondo privo di senso, e quindi del tutto contingente. Nel nostro
modello esso corrisponderebbe a una sequenza infinita di O e l dinanzi
alla quale persino il nostro diavoletto non avrebbe altra possibilità che
confessarsi vinto. È una sequenza che semplicemente esiste, senza
essere stata generata da alcun meccanismo deterministico. Di qui,
DESTINO 45

tanto per cominciare, l'impossibilità di trascriverla. Se infatti ne do i


primi trenta termini:
o o o l l o l l o l l l l l o o o l o l o l o o o l o o l l ...,
ho un bel mettere dei puntini di sospensione per indicare che la
sequenza continua: nessuno può sapere che il trentunesimo termine
sarà uno O. Per definizione, questo fatto può solo t!ssere constatato, e
non inferito dai valori dei termini precedenti . Il solo modo per comu­
nicare il trentaduesimo termine è quello di scriverlo: avrei quindi biso­
gno di un milione di O o l per comunicare il primo milione di termini
della sequenza, di un altro milione per il secondo milione di termini, e
la sequenza completa è incomunicabile, a meno di disporre del Libro de
arena, la famosa opera che Borges ha smarrito sugli scaffali della
Biblioteca Nazionale argentina e che aveva un numero infinito di pagi­
ne. Per fortuna il nostro diavoletto ha ritrovato il libro e va annotan­
dovi coscienziosamente tutti i termini della sequenza.
Ci approssimiamo così a una definizione della contingenza. Una
sequenza infinita si dirà contingente se non può essere definita in modo
più economico che trascrivendola per intero. Chiederemo anche che
alla nostra scala di miseri esseri umani essa rimanga contingente. Se io
prendo infatti una sequenza contingente e premetto ad essa lO 1 000 zeri/
essa resterà contingente, e lo sa bene il diavoletto che riesce ad abbrac­
ciarla tutta intera, ma io morirò prima di rendermente conto, e con me
tutta la specie umana. Noi chiederemo dunque che i primi messaggi
che ci pervengono, ossia i primi termini della sequenza, appaiano
anch'essi contingenti, ossia che non possano essere scritti in modo
economico.
A questo punto dobbiamo precisare in qualche modo il nostro pen­
siero. Immaginiamo delle caselle in ognuna delle quali scriviamo uno O
o un l. Dato un messaggio di lunghezza N (per esempio i primi N ter­
mini della sequenza), possiamo sempre comunicarlo ricopiandolo pura­
mente e semplicemente, cosa che richiede N caselle. Ma si può anche
essere più astuti. Si comincia con l'indicare al proprio corrispondente
quanti O e quanti l ci sono. Ognuno di questi numeri, trascritto in base
2, occupa al massimo logN caselle;8 in questa prima parte della tra-

7 Ossia un numero enorme, molto maggiore del numero di particelle dell'uni­


verso noto.
8 La notazione logN designa il logaritmo di N in base 2, ossia un numero che
compare su tutte le calcolatrici tascabili e che risulta crescere molto più lentamente di N.
46 CAPITOLO SECONDO

smissione si sono quindi utilizzate 2 logN caselle (ossia logN per indi­
care il numero di zeri e altrettante per indicare il numero di uno).
Come contropartita, si è ridotta considerevolmente l'incertezza, poi­
ché, con n 0 zeri ed n, uno, si possono costruire solo

(n o + n Y
n0! n , !
messaggi distinti. Nella seconda parte della trasmissione basterà indi­
care il numero d'ordine del messaggio voluto, cosa che occupa ancora,
in caselle, il logaritmo del numero precedente. Eseguito ogni calcolo,
si trova che, per N abbastanza grande, si può trasmettere qualsiasi mes­
saggio di lunghezza N utilizzando al massimo

caselle. Ricordo che n0 è il numero di zeri ed n 1 il numero di uno.


La quantità fra parentesi è famosa: è l'entropia del messaggio consi­
derato. Questa definizione è stata introdotta da Claude E. Shannon, il
fondatore della teoria dell'informazione.9 È un numero positivo (il
segno meno davanti alla formula corregge il segno dei logaritmi nega­
tivi), che rappresenta la quantità di informazione trasmessa da ogni
messaggio a un corrispondente che conosca n0 ed n , . La si può riscri­
vere facendo intervenire le frequenze empiriche p 0 = n/N e p , = n/N di
O e di l:
- (p 0 log P o + p , log pJ
Nel caso di frequenze uguali, P o = p , = 1 12 , l'entropia vale l e si vede
che la nostra astuzia richiede N caselle per codificare il messaggio. È
esattamente quanto richiedeva una semplice trascrizione, e non si è
quindi guadagnato nulla. Per contro, se le frequenze sono distinte, per

Grosso modo, è il numero di cifre necessarie per scrivere N in base 2. Per esempio,
il logaritmo di l è O, il logaritmo di 2 è l, il logaritmo di 1 12 è - l e il logaritmo di 2 "
è n. I l logaritmo d i u n numero inferiore a l è negativo, cosa che spiega l'apparizione
del segno meno nella formula dell'entropia.
9 C. E. Shannon, A Mathematical Theory of Communication, in << Beli System Tech­
nical Journal >>, XXVII ( 1 948), pp. 3 79-42 3 e 62 3 -56. Vedi anche il libro di A. I.
Khintchine, Mathematical Foundations of lnformation Theory, Dover, New York 1 9 5 7 .
[In italiano s i può vedere C. E. Shannon e W . Weaver, L a teoria matematica delle comu­
nicazioni, trad. P. Cappelli, Etas Kompass, Milano 1 9 7 1 ] .
DESTINO 47

esempio se P o = 1/3 e p 1 = 2/3 , l'entropia vale 0,9 1 8 295 8 3 4 3, e si può


quindi trasmettere il messaggio utilizzando solo O, 9 1 8 3 x N caselle
invece di N, con un guadagno superiore all'8 per cento. Nel caso limite
in cui il messaggio comporti solo degli zeri (o solo degli uno), l'entro­
pia è nulla. Esiste un solo messaggio composto solo da zeri, e se il cor­
rispondente sa che p 1 = O , è inutile dirgli di più: egli conosce il conte­
nuto del messaggio prima ancora di riceverlo. In questo senso, la quan­
tità di informazioni supplementari che gli apporterà questo particolare
messaggio è assolutamente nulla. Inversamente, se il corrispondente sa
che p 1 = 1 12 , gli rimane la scelta fra una quantità di messaggi possibili, e
sapere quale messaggio sarà effettivamente trasmesso rappresenta
un'informazione importante.
Eccoci dunque in grado di precisare quest'idea di un universo del
tutto contingente, senza alcuna regola che possa permettere una predi­
zione: occorre che i messaggi che esso ci indirizza non possano essere
condensati. In altri termini, che gli N primi termini della sequenza tra­
scritta dal nostro diavoletto non possano essere comunicati se non
utilizzando N bit. In termini matematici, l'entropia deve valere l, o più
esattamente deve avvicinarsi a l , quando il messaggio diventa abba­
stanza lungo.
A questo punto emerge una difficoltà. È inevitabile che un mondo
senza alcuna regola presenti qua e là grandi regolarità. Per esempio,
è certo che la nostra sequenza presenterà da qualche parte mille zeri
consecutivi. Se non li comportasse, avremmo individuato una legge
costitutiva, ossia che « non possono esserci mille O consecutivi », dalla
quale si trarrebbe una regola di predizione infallibile: « Dopo novecen­
tonovantanove O viene necessariamente un l». È certo addirittura che
queste sequenze di mille zeri si riprodurranno un'infinità di volte. Se
così non fosse, se per esempio quest'evento non potesse prodursi più di
settantasette volte, la stessa legge « Dopo novecentonovantanove O
viene necessariamente un l>> diventerebbe vera una volta passata la set­
tantasettesima sequenza di mille zeri, e si sarebbe trovata anche in que­
sto caso una regola di predizione.
Ma una sequenza così organizzata come mille zeri in fila può essere
comunicata in modo molto più economico che copiandoli uno dopo
l'altro. Basta dire: « Contare mille zeri a partire da tale posizione >>, e il
gioco è fatto. In conseguenza di regolarità di questo genere è inevita­
bile che si possano trasmettere i primi N termini della sequenza con
48 DESTINO

meno di N caselle, e quindi che l'entropia non sia esattamente uguale a


l , ma leggermente inferiore.
Per considerare un altro esempio, se invece di simboli matematici O
e l si allineano caratteri di stampa - per esempio se immaginiamo
la classica scimmia che batte a caso sui tasti di una macchina per scri­
vere -, il risultato sarà un testo scritto, un testo peraltro infinito se il
processo prosegue eternamente. Per lo più questo testo sarà privo di
senso, ma si può facilmente immaginare che ogni tanto, fra i
« gfwsavk» e gli «jmuuzxnmlkj », il caso faccia apparire una parola rico­
noscibile, molto spesso corta, come «una », e a volte più lunga, come
«unanime>>. Molto di rado si vedrà una frase completa, ma il nostro
diavoletto ha davanti a sé l'eternità : ha il tempo di aspettare la prima
frase di Notre-Dame de Paris, il tempo di aspettare il primo paragrafo, il
tempo di aspettare il primo capitolo, il tempo di aspettare l'opera com­
pleta, il tempo di aspettarla in due copie consecutive o in quattromila­
cinquecentonovantadue copie consecutive. Durante tutto questo tempo
verranno prendendo forma sotto i suoi occhi altre opere, fra cui in par­
ticolare anche questo libro, compresi i suoi capitoli futuri, che non
conosco ancora nel momento in cui scrivo questa frase, e i libri che
scriveranno altri. Supponendo che il diavoletto non conosca Guerra e
pace o Notre-Dame de Paris, avrà dunque occasione di leggerli una
prima volta, cosa che gli permetterà di riconoscerne le altre copie man
mano che appariranno. Egli potrà dunque accorciare considerevol­
mente il messaggio sostituendo il testo per esteso con la menzione: «A
questo punto va un altro esemplare di tale opera >>. Ogni inserimento di
questo genere diminuisce l'entropia, mentre ogni sequenza di simboli
incoerenti la fa avvicinare a l .
Ed ecco dunque la nostra definizione finale: una sequenza è contin­
gente se l'entropia dei primi N termini rimane permanentemente
vicina a l , al suo massimo, e si approssima tanto più a l quanto più N è
grande. In altre parole, la comunicazione dei primi N termini della
sequenza richiede un po' meno di N caselle o, nel linguaggio della
teoria dell'informazione, di N bit. Questa definizione è dovuta al
grande matematico russo Andrej N. Kolmogorov ( 1 903 -87), il fonda­
tore della teoria delle probabilità. Fra i suoi numerosi titoli di gloria
figura quello di avere introdotto l'uso dell'entropia come strumento di
analisi in questo genere di problemi. La definizione di contingenza
data in origine da Kolmogorov presentava tuttavia grandi difficoltà sul
DESTINO 49

piano strettamente logico, le quali furono infine eliminate dal matema­


tico svedese P. Martin-LOf.
Una sequenza contingente nel senso di Kolmogorov e di Martin­
Lof è dunque la formalizzazione di un mondo in cui la sola regola esi­
stente è che non ci sono regole. Osserviamo che questa è, per il mo­
mento, una costruzione puramente logica, in cui il caso, nel senso del
calcolo delle probabilità, non ha alcun posto. È per sottolineare questo
punto che ho preferito chiamare queste sequenze « contingenti >> piut­
tosto che « aleatorie>>, come Kolmogorov o Martin-Lof. Esse sono
senza dubbio aleatorie, nel senso che non può esserci un procedimento
per indovinare un termine della sequenza a partire dai precedenti, e
neppure per condensare l'informazione contenuta nei primi N termini,
ma non sono ottenute in conseguenza di estrazioni indipendenti
secondo una legge data, come vorrebbe il modello classico della teoria
delle probabilità.
Il miracolo è che i due punti di vista concordano. Secondo un'intui­
zione fondamentale di Kolmogorov, le sequenze contingenti che
abbiamo descritto sono aleatorie nel senso della teoria delle probabi­
lità. Di fatto si mostra che, se una sequenza è contingente nel senso di
Kolmogorov e di Martin-Lof, la frequenza degli O e degli l in qualsiasi
campione è sempre prossima a 1 12.
Misuriamo bene la portata di questa proprietà. Non diciamo solo
che nei primi N termini della sequenza ci sono press'a poco tanti
zeri quanti uno, e che le frazioni rispettive di O e l sono tanto più
vicine a 1 12 quanto più N è grande. Diciamo anche che, quale che sia il
procedimento di campionamento o di estrazione scelto, i campioni
estratti dalla sequenza devono presentare la stessa proprietà. Così, dalla
sequenza periodica O l O l O l O l ..., prendendo solo un termine su
due, si estrae il campione O O O 0 . . . , ossia una sequenza costante, in cui
la frequenza degli zeri è l e la frequenza degli uno è O. Una sequenza
periodica non può dunque essere contingente nel senso di Kolmo­
gorov. Per quanto concerne la sequenza di Champernowne, possiamo
costruire un campione osservando successivamente i termini di posizione
3 = 1 + 2 x l , 1 1 = 3 + 2 2 x 2 , 3 5 = 1 1 + 2 1 x 3 , ...
La regola è che, se la (n - l )-esima osservazione è stata fatta sul termine
di posizione r, la n-esima dovrà essere fatta sul termine di posizione
r+ 2 " x n. Il campione così estratto dalla sequenza di Champernowne è
50 CAPITOLO SECONDO

la sequenza costante O O 0 . . . Neppure la sequenza di Champernowne è


dunque contingente nel senso di Kolmogorov.
Si richiede, beninteso, che il procedimento adottato sia non antici­
pativo; ci dev'essere cioè l'obbligo di dichiarare, avanti di eseguire la
prima estrazione, se si conserverà o no il suo risultato. In altre parole,
si deve poter decidere, conoscendo la posizione di un termine della
sequenza ma non il suo valore, se esso sarà conservato o no nel cam­
pione. Evidentemente, non si possono prendere gli N primi termini e
rifiutare tutti gli l , pretendendo di aver estratto un campione com­
prendente solo degli O! Per le sequenze contingenti nel senso di Kolmo­
gorov, ogni campione estratto secondo un procedimento non anticipa­
rivo presenterà una frequenza empirica di O e di l prossima a 112 . Queste
sequenze supereranno con successo anche test statistici più sottili,
troppo tecnici per poter essere riferiti qui, fondati sull'ipotesi che esse
risultino da estrazioni successive indipendenti ed equiprobabili. In
effetti, dal punto di vista operazionistico, esse sono esattamente
sequenze di uscite indipendenti ed equiprobabili, in quanto appari­
ranno tali in tutte le prove a cui l'ingegnosità umana potrà sottoporle.
Ricapitoliamo. Siamo passati da un estremo all'altro. Da un lato
abbiamo le sequenze generate meccanicamente con una regola di itera­
zione: anche se possono sembrare aleatorie a un osservatore superfi­
ciale (è il fenomeno del caos deterministico), esse rappresentano un
mondo puramente deterministico, in cui il futuro è esattamente preve­
dibile a partire dal passato. Dall'altro abbiamo le sequenze contingenti,
le quali testimoniano un mondo del tutto privo di senso, in cui la sola
regola è l'assenza di ogni regola e l'impossibilità di strappare mai al
passato alcuna certezza sul futuro. Quale non è allora la nostra sorpresa
nel vedere scaturire da una situazione come questa un'altra razionalità!
Questo mondo che rifiuta tutte le regole deterministiche si piega docil­
mente al calcolo delle probabilità. Queste sequenze, costruite con tanta
cura perché non si possa mai prevedere il risultato di una singola usci­
ta, si rivelano accessibili alle previsioni statistiche. È dunque il modello
probabilistico ad apparire agli antipodi del modello deterministico.
Questi due modelli costituiscono i poli fra i quali oscilla la nostra com­
prensione del mondo: quanto più ci si allontana dall'uno, tanto più ci si
avvicina all'altro. Un mondo rigorosamente non deterministico dev'es­
sere perfettamente probabilistico.
DESTINO

E il mondo in cui muore 0yvind Kjelda e in cui viviamo noi ? Non


sappiamo dove situarlo in questa scala che collega il caso alla necessità,
ma ciò - paradossalmente - non ha molta importanza. Se la realtà
ultima è descritta dal calcolo delle probabilità, il mondo sarà soggetto
alle leggi della statistica. Queste permettono di aggregare eventi indi­
pendenti affetti da incertezza alla scala microscopica per ottenere, alla
scala macroscopica, una certezza quasi assoluta. È per questo che il
determinismo è per noi un fatto di esperienza. 0yvind può predire con
certezza che morirà nel quarto d'ora seguente. È vero che la marea
montante si decompone in una moltitudine di molecole ciascuna delle
quali è governata dal calcolo delle probabilità, ma il loro numero è tale
che le alee individuali vengono a costruire una certezza ineluttabile.
Non c'è alcuna speranza di vedere il flusso fermarsi ai piedi dello sco­
glio, o al contrario sollevarsi fino a inghiottire i carnefici: due eventi
entrambi possibili, ma infinitamente improbabili . È questo il senso del
secondo principio della termodinamica. Anche se la situazione struttu­
rata che noi osserviamo oggi è estremamente improbabile rispetto al
brodo primordiale, essa esiste, e a partire da qui l'evoluzione deve aver
luogo secondo leggi statistiche, ossia in modo ordinato. Noi torneremo
certamente a tale brodo primordiale, ma non importa come. Se non
vogliamo pensare che si verificheranno di continuo miracoli, e che a
una situazione di partenza estremamente improbabile si unirà uno sce­
nario ancora più improbabile, dobbiamo prevedere che alla scala
macroscopica si affermerà l'evoluzione più probabile. In altri termini,
l'entropia del sistema, che prende l'avvio da un valore estremamente
piccolo, dovrà salire verso il suo valore massimo. Quest'intuizione è
stata formalizzata da Boltzmann nella sua teoria dei gas perfetti, e il
grande merito di questo fisico austriaco è quello di aver mostrato che la
crescita dell'entropia è una conseguenza alla scala macroscopica di
quella che egli ha chiamato l'ipotesi del « Caos molecolare ».
Non ci sottrarremo al determinismo. Se lo cacciamo dalla porta,
postulando un'incoerenza totale, esso rientrerà per la finestra, sotto la
copertura delle leggi statistiche. La sua natura, sia essa magica o mate­
matica, analogica o meccanica, ci sfugge, ma la sua presenza sembra
essere una necessità logica, stabilità in modo irrefutabile da Kol ino­
gorov e dai suoi discepoli . A qualche secolo di distanza, e sotto il
camuffamento di un diverso formalismo, ritroviamo la famosa dimo­
strazione dell'esistenza di Dio data da sant'Anselmo. Dio ha, per defi-
52 CAPITOLO SECONDO

nizione, tutte le perfezioni; ora, la prima di tutte le perfezioni è l'esi­


stenza; dunque Dio esiste. In linguaggio scolastico, la sua essenza im­
plica la sua esistenza. Similmente l'esistenza del determinismo, che è
una questione di fede, procederebbe direttamente dalla sua natura, che
è una questione matematica.
Se oggi l'argomento di sant'Anselmo non ci convince più, è perché
siamo abituati a distinguere le questioni di fatto dalle questioni di dirit­
to. L'uomo moderno è dualista, e separa nettamente l'universo mate­
riale, in cui si decidono le prime, da un universo intellettuale in cui si
discutono le seconde, e in cui si affrontano le teorie. La questione del
legame esistente fra questi due universi, pur essendo fondamentale se
vogliamo comprendere la nostra relazione al mondo, non gli interessa
molto; se dovesse scegliere, l'uomo moderno preferirebbe relativizzare
il secondo a vantaggio del primo. Per questo motivo siamo visceral­
mente convinti che non si possa dimostrare l'esistenza di qualche cosa.
Eccoci dunque ben motivati a cercare dove risieda l'errore di san­
t' Anselmo. Possiamo individuar! o nelle premesse del ragionamento,
ossia che Dio abbia tutte le perfezioni, o che una di queste sia l'esistenza.
Io preferisco affrontare più direttamente la questione dell'esistenza. In
matematica si ha una formalizzazione di questa nozione, da cui risulta
che oggetti che non esistono sono dotati di proprietà mirabolanti e
permettono di dimostrare qualsiasi cosa. È così per esempio che, se una
frazione irriducibile p/q ha per quadrato il numero 2 , il suo denomina­
tore q dev'essere al tempo stesso pari e dispari. Se ne conclude giusta­
mente che una tale frazione non potrebbe esistere, ossia che V'I non è un
numero razionale; questa è quella che si chiama una dimostrazione
per assurdo. Il cosiddetto argomento antologico di sant'Anselmo è la
prima metà di una dimostrazione per assurdo la cui conclusione non
potrebbe essere che l'inesistenza di Dio. Certo nessuno ha ancora for­
nito la seconda metà della dimostrazione, quella che dovrebbe permet­
tere di pervenire alla contraddizione decisiva; ma il dubbio sussiste e, se
un giorno sarà eliminato, non potrà esserlo se non negativamente.
Immaginiamo il primo matematico, greco o babilonese, che studiò la
\(2 nella forma di una frazione p/q. Dopo molti sforzi, egli dimostrò
forse che il denominatore doveva essere un numero pari; il suo teorema
rimase valido fino al giorno in cui un altro, suo rivale o successore,
dimostrò che quel denominatore doveva essere anche dispari. Simil­
mente, nulla ci garantisce che, partendo dalle stesse premesse, cioè che
DESTINO 53

Dio è dotato di tutte le perfezioni, non si possa giungere logicamente a


una conclusione opposta, ossia che Dio non esiste. In quel momento la
sola conclusione logicamente stringente sarebbe allora che effettiva­
mente Dio non può esistere.
Molti secoli sono passati dal tempo di sant'Anselmo d'Aosta, e la lo­
gka formale ha compiuto abbastanza progressi da permetterei di evi­
tare d'ora in poi questa sorta di trabocchetti. Anche l'analisi di Kolmo­
gorov, che sembra instaurare il determinismo come legge del mondo
attraverso la semplice forza logica di un ragionamento matematico, ci
opp o rrà una maggiore resistenza. Essa è certamente ben fondata sul
piano della logica pura. Eccoci dunque costretti ad accettare l'idea pla­
tonica che l'infinita varietà del mondo sia regolata da tutta
l'eternità da qualche teorema. Le cose sono, gli eventi si succedono, ma
tutto questo è necessariamente strutturato dalle matematiche. Queste
segnano dunque un limite alla contingenza, in quanto appartengono
chiaramente all'universo del diritto e non del fatto. Non si potrebbe
immaginare che le matematiche fossero diverse da come sono, e l'uni­
verso fisico stesso è vincolato dalle loro leggi.
Ci siamo dunque elevati al di sopra della contingenza del mondo, e
abbiamo creduto di trovare il nostro rifugio nelle matematiche. Il fisico
che scopre una legge insospettata, l'ingegnere che calcola una struttu­
ra, l'economista che cerca correlazioni, attestano la potenza delle mate­
matiche e dischiudono la speranza che l'universo sia un giorno del
tutto aperto ad esse. Quel giorno si potrà dire che l'uomo avrà domi­
nato la contingenza e che l'universo sarà infine diventato del tutto tra­
sparente per lui. I fisici avranno unificato la relatività generale e la
meccanica quantistica, gli psicoanalisti avranno formalizzato le leggi
dell'inconscio e gli uomini esclameranno: « Finalmente abbiamo capi­
to. Le cose sono così perché non potevano essere diversamente».
Allora comincia a prender forma, insidioso ma persistente, il sospet­
to. Perché mai si dovrebbe accordare questo status particolare alle atti­
vità cerebrali di una specie vivente prigioniera nel suo cantuccio di uni­
verso? Perché mai le matematiche dovrebbero sottrarsi all'imperio del
caso? Questa necessità alla quale esse si riferiscono, non è essa stessa
contingente? Le matematiche non avrebbero potuto essere diverse da
come sono oggi su questo pianeta?
A prima vista, nelle matematiche non c'è alcun posto per la contin­
genza. Tutto è vero per necessità; in esse non ci sono né constatazioni
54 CAPITOLO SECONDO

di fatto né argomenti d'autorità. Da Euclide in poi, tutti i matematici


recano in sé la stessa immagine della loro scienza: essa si fonda su
pochi assiomi semplici, le cui combinazioni secondo certe regole logi­
che permettono di dimostrare altre proposizioni. La verità si estende,
in qualche modo per contagio, dagli assiomi di base, riconosciuti come
tali, a tutto ciò che essi permettono di dimostrare, ossia, a quanto si
credeva, all'insieme delle matematiche, che si trovavano così fondate su
una pura necessità logica, con esclusione di ogni contingenza esteriore.
Eccole sottratte così al caso e alla storia.
Toccò a Kurt Godei, nel 1 93 0, dimostrare che quest'immagine era
sbagliata. In un teorema famoso, 1 0 pubblicato l'anno seguente, egli
dimostrò che, quale che sia il sistema di assiomi e di regole accettato
(purché tali assiomi c regole siano in numero finito), si potrà sempre
enunciare una proposizione concernente i numeri interi la quale non
possa essere né dimostrata né confutata in tale sistema. In altri termini,
ci sono proposizioni matematiche che sono vere ma che non possono
essere dimostrate; si può solo constatarle, purché si abbia una visione
abbastanza ampia. Il nostro diavoletto di Maxwell, che è in grado di
abbracciare in un sol colpo d'occhio l'infinità dei numeri interi, con­
stata immediatamente se una proprietà è vera o no, ma l'uomo non ha
questa capacità: egli non può constatare de visu una proprietà aritme­
tica se non nel caso che i numeri in gioco non siano troppo grandi. 1 1 Se
sono troppo grandi, la sua unica risorsa è quella di cercarne una dimo­
strazione; se non la trova, ciò non significa necessariamente che la pro­
prietà in questione sia falsa. Può darsi che gli sia semplicemente andata
male e che un altro, più intelligente o più fortunato di lui, riesca infine
a trovare il metodo giusto.
I matematici hanno una grande abbondanza di congetture, ossia di

1 0 Vedi K. Godei, E. Nagel, U. Newman, J . Y. Girard, Le théorème de Godei, Le


Seui!, Paris 1 989. [L'articolo classico di Godei è : Ober formai unentscheidbare Siitze
der Principia mathematica und verwandter Systeme, in «Monatshefte der Mathematik
und Physik», XXXVIII ( 1 9 3 1 ), pp. 1 7 3 -98 (trad. ingl. On Formally Undecidable Propo­
sitions, Basic Books, New York 1 962); in italiano si può vedere E. Nagel e }. R. New­
man, La prova di Godei, Boringhieri, Torino 1 96 1 ; nuova ed., Bollati Boringhieri,
Torino 1 992 ] .
1 1 A titolo d'esempio, il massimo numero primo oggi noto è 2 2 1 609 1 - 1 . [Esso fu
trovato nel 1 98 5 con l'aiuto del supercomputer Cray X-MP, acquistato dalla Chevron
Geosciences Company di Houston, che impiegò più di tre ore di lavoro, alla velocità
di 400 milioni di calcoli al secondo] .
DESTINO 55

questioni in sospeso che attendono di essere risolte, a volte da secoli. Il


teorema di Godei ci fa intravedere la possibilità che esse non vengano
mai risolte. Esso si spinge addirittura molto oltre, permettendo di
costruire esplicitamente una proposizione indecidibile nel sistema con­
siderato. Questa proposizione può allora essere presa come un nuovo
assioma, e aggiunta agli assiomi esistenti per costituire un nuovo siste­
ma, che a sua volta comporterà una proposizione indecidibile, la quale
potrà essere di nuovo aggiunta agli assiomi precedenti per costituire un
nuovo sistema, e così di seguito, indefinitamente. A ogni tappa, però, si
ha un'ambiguità: se una proposizione è indecidibile, lo è anche la sua
contraria, così che si ha da scegliere quale delle due prendere come
assioma. A seconda che si scelga una proposizione o la sua contraria, si
ottengono due matematiche diverse, dotate l'una e l'altra di una per­
fetta coerenza interna ma incompatibili fra loro. Il teorema di Godei
afferma in definitiva l'esistenza di un'infinità di matematiche distinte,
tutte figlie della stessa necessità.
Le matematiche non sono determinate unicamente dalla logica, ma
in esse ha un suo posto anche l'arbitrio. Sono perciò possibili due
atteggiamenti. Si può ritenere che gli oggetti matematici, come per
esempio i numeri interi, abbiano un'esistenza indipendente, così che
ogni proposizione che li concerne debba essere vera o falsa, indipen­
dentemente dal fatto che essa sia o no dimostrabile. Non esiste in tal
caso che una sola matematica legittima: quella che rende conto esatta­
mente di tutte le proprietà dei numeri interi. Questo è l'atteggiamento
platonico adottato d'altronde dallo stesso Godei - che nel suo articolo
del 1 93 1 fa notare che la proposizione da lui costruita è indecidibile ma
«vera » - e dalla maggior parte dei logici, i quali si riferiscono a un
« modello standard » dei numeri interi, ossia in ultima analisi all'intui­
zione che ne hanno. Oppure si può avere un atteggiamento pragmatico,
e ritenere che gli oggetti matematici esistano solo al livello operazioni­
stico. Una questione indecidibile è una domanda senza risposta, perché
non può essere risolta per mezzo dell'esperienza fisica. Quale che sia la
nostra inclinazione, non c'è un altrove in cui possiamo collocarci per
decidere che la risposta debba essere sì piuttosto che no. Questo è un
atteggiamento che fa il paio con quello di Nieis Bohr nella meccanica
quantistica: la domanda non sarà posta.
Se la maggior parte dei matematici sono platonici, ciò dipende dalla
56 CAPITOLO SECONDO

bellezza trascendente dell'edificio della matematica, che non sembra


essere stato costruito da mano umana. Ma dipende anche dalla nostra
esperienza di ricercatori, dominata dall'impressione di svelare i segreti
della natura, di liberare dalla loro matrice d'incomprensione delle
verità eterne, più che di plasmare umili oggetti domestici. Il momento
della scoperta è quello dell'illuminazione: vedo infine le cose come
sono; il mistero che le avvolgeva si è dissipato. In tale momento l'evi­
denza è così lampante che ci si impone il mito platonico della metem­
psicosi, nel quale le anime contemplano le verità eterne durante il loro
soggiorno agli inferi, prima di bere l'oblio nelle acque del Lete e risa­
lire sulla terra per ricominciare un nuovo ciclo.
Ma chiunque abbia mai riflettuto sulla storia delle matematiche non
può non essere pervaso dal dubbio. Certamente qualche grande crea­
tore ha svolto in tale storia un ruolo eminente. Che cosa sarebbero
l'analisi senza Newton o Leibniz, l'algebra senza Galois, la geometria
senza Gauss? Ma la storia delle matematiche non dipende solo da qual­
che intuizione geniale. Essa si inscrive nello sviluppo generale delle
scienze e delle tecniche: l'analisi nella sua fase nascente fu pilotata dalla
meccanica celeste, e il libro in cui Gauss getta i fondamenti della geo­
metria è anche un trattato di geodesia. Se le circostanze storiche fos­
sero state diverse, se i bisogni da soddisfare fossero stati altri, le mate­
matiche non sarebbero state diverse? Se la Terra fosse stata l'unico pia­
neta in orbita attorno al Sole, e se non avesse avuto un satellite, non si
sarebbero accumulate nel corso di tanti secoli le osservazioni planetarie
né si sarebbero architettati sistemi per spiegare le peregrinazioni degli
astri erranti sulla sfera delle stelle fisse, la meccanica celeste non esiste­
rebbe e noi non riconosceremmo le matematiche.
Noi crediamo di vedere un itinerario obbligato, uno sviluppo logico
tendente verso una meta, ma è l'illusione della teleonomia, quella di
consacrare lo stato attuale in un processo evolutivo e di interpretare il
passato in funzione del presente. Là dove noi vediamo un progresso
regolare lungo un cammino tracciato da tutta l'eternità, non c'è stato
forse altro che un cammino a caso, secondo il capriccio delle sollecita­
zioni esteriori. Scrive Antonio Machado, citato da David Ruelle in un
contesto simile: 1 2

12
Are Our Mathematics Natura/?, in «Bulletin of the American Mathematical
Society>>, XIX ( 1 988), pp. 2 5 9-68.
DESTINO S7

Caminante, son tus huellas


el camino y nada mas;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar. 1 3

Non ci rimane che meravigliarci della singolarità del nostro destino.


L'edificio della scienza, e così la storia umana, comprendono molto
arbitrio, cosicché ci si sorprende a sognare ciò che avrebbe potuto
essere ma non è stato. Noi siamo i superstiti di uno spietato processo di
selezione che sceglie, nell'infinita varietà dei futuri possibili, quello che
infine si realizzerà. Gli eventi rifiutati da questa divinità senza volto che
chiamiamo caso hanno altrettanto diritto all'esistenza di quelli che essa
finirà col conservare e che faranno parte d'ora in poi della nostra espe­
rienza. Il nostro solo merito è quello di esistere, senza alcuna ragione
apparente, e a spese di altre possibilità, certamente altrettanto ricche e
forse più seducenti. Perché proprio io? La domanda non ha risposta.
Non c'è quindi nulla di strano nel fatto che chi si lascia andare a questi
pensieri subisca una crisi d'identità: che cos'è questo mondo così con­
tingente, che cos'è questo io dinanzi a tante altre esistenze virtuali?
Lasciamo, per concludere, la parola al poeta: 14
Questa vita barocca
e inaudita:
Ecco che in mezzo a un gran numero di pretendenti
una cellula maschile perviene infine a una cellula femminile
e io accedo all'essere

Non sorprende che io dubiti


di essere me stesso

E poi, questa società


in cui tutti abbaiano gli uni contro gli altri
come in un canile
totalmente convinti di essere se stessi

Guerre, sacrifici umani


Io non credo di essere esistito più a lungo
che fino alla fecondazione,
macolata concezione

lo, spermatozoo, giro in cerchio a grandi colpi di flagello


alla ricerca dell'uovo del mondo
ma dove trovarlo?

13 [Viandante, son le tue impronte I la via e nulla più; l viandante, non c'è una via,
I la via si fa camminando] .
14 Gunnar Ekeliif, Detta oerhiirda, in Opus incertum, ! 959.
58 CAPITOLO SECONDO

Dinanzi all'assalto di questa contingenza multiforme, l'umanità si


sforza di identificare i determinismi sottostanti, ossia di dare un senso
al mondo. Come abbiamo visto, può trattarsi di concatenazioni neces­
sarie come di regolarità statistiche: si tratta solo di svelarle. Il senso
può essere una conquista personale dell'individuo, o il frutto di un'an­
tica tradizione. Può anche essere imposto con la forza. La violenza è
contingenza pura, ma il suo stadio ultimo è quello di imporre un senso.
Il tiranno non vuole solo essere obbedito, vuol essere amato. L'occu­
pante confisca il Paese ed esige l'adesione delle popolazioni depredate,
come il coro saluta la cacciata di Filemone e Bauci da parte di FaustY
Das alte Wort, das Wort erschallt:
Gehorche willig der Gewalt!
Und bist du kii h n und haltst du Stich,
So wage Haus und Hof und - dich!

Come ha mostrato Claude Lévi-Strauss, gli uomini hanno sempre


attribuito a certi simboli il potere d'interpretare il mondo o di trasfor­
marlo. È quella che chiamiamo una teoria: un insieme di elementi fon­
damentali e di regole formali che permettono di combinarli in elementi
nuovi, e un gioco di corrispondenze fra l'universo formale così creato e
il mondo che ci circonda. È in questa corrispondenza misteriosa che si
situa il determinismo, mentre i vari formalismi proposti e poi abbando­
nati sono innumerevoli come le civiltà cui si deve la loro creazione.
Noi abbiamo una predilezione culturale per lo schema che associa un
modello matematico a una verifica sperimentale, ma altri schemi sono
logicamente possibili e sono stati utilizzati: fra questi c'è la magia, con
tutte le scienze occulte che ci sono trasmesse dalla tradizione, e di cui il
seid degli antichi norvegesi non è altro che l'espressione locale, nel
tempo e nello spazio. Sono rari i documenti che ci informano in
proposito con una qualche precisione, e l'azione distruttrice dei re
cristianizzatori ha dato un contributo grandissimo a questo oblio
volontario.
Per fortuna ci nmane il ricordo di Egil Skalagrimsson, grande
vichingo e grande scaldo, maestro del seid, forse la personalità più

15 Goethe, Faust, parte II, atto V, Tiefe Nacht (Notte profonda). « La parola, l'antica
parola risuona: Ubbidisci volente alla violenza! Se sei ardito ed opponi resistenza, allora
arrischia casa e beni e te stesso! » [trad. G. V. Amoretti, Faust e Urfaust, testo tedesco
con traduzione a fronte, Utet, Torino 1 950, e Feltrinelli, Milano 1 965, pp. 6 1 6 sg.].
DESTINO 59

significativa dell'Antichità nordica. La saga di Egil, un capolavoro di


tale grandezza che si sospetta possa esserne autore Snorri Sturluson, ci
riferisce come Egil usò il seid contro il re Erik Asciasanguinosa e la
regina Gunnhild. Lasciando la Norvegia dopo aver saldato i suoi conti
con i nemici, Egil eresse un nidstang, un palo per il sortilegio, vi impalò
una testa di cavallo rivolta verso l'interno del Paese, e pronunciò questa
imprecazione Y « Erigo qui un palo d'infamia e lo rivolgo verso il re
Erik e la regina Gunnhild; lancio questo sortilegio sugli spiriti tutelari
che abitano questo Paese, affinché perdano tutte le loro vie e nessuno
trovi mai un'oasi di pace fino a quando non abbiano cacciato dal Paese
il re Erik e la regina Gunnhild ».
La maledizione fu incisa sul palo in caratteri runici, e qualche anno
dopo il re Erik e la regina Gunnhild furono cacciati dalla Norvegia e
costretti a vivere in esilio nelle isole Orcadi. Essi ebbero la loro rivin­
cita quando Egil, gettato da una tempesta sulla costa, cadde nelle loro
mani. Si voleva procedere immediatamente alla sua esecuzione, ma fra
i cortigiani c'erano amici di Egil che ne perorarono la causa, soste­
nendo che non si doveva mai uccidere nessuno fra il tramonto e il levar
del sole: «0 re, non è un assassinio uccidere un uomo di notte? >> Egil
ebbe dunque in dono una notte, che mise a profitto per comporre un
capolavoro della poesia nordica - la prima composizione poetica in
rime - un'ode alla gloria del suo nemico, che il giorno dopo declamò
dinanzi al re Erik e alla sua corte. Per uno scaldo in una situazione
disperata questo era un modo riconosciuto per salvare la testa, e la poe­
sia è nota oggi come Hofudlausn (Riscatto della testa).
In questa storia si concatenano vari determinismi : la pratica del seid, il
rispetto di un costume, l'arte poetica. Noi non riconosciamo più nessuna
di queste cose come nostra; con i vichinghi sono scomparsi il seid, la poe­
sia scaldica e quello strano riguardo che proibiva di uccidere il peggior
nemico quando fosse scesa la notte. Ma l'esigenza che tutte queste
cose esprimevano, di identificare e al bisogno costruire oasi di regola­
rità nel deserto della contingenza, rimane viva ancor oggi, anche se noi
l'appaghiamo con altri mezzi. Il formalismo e il rigore della poesia
scaldica non sono affatto inferiori a quelli delle matematiche moderne,
e chi sa adattare i kjenninger 1 7 rispettando le regole dell'allitterazione
1 6 Egilssaga (Saga di Egil Skalagrimsson), cap. 5 7 .
1 7 L e regole molto rigorose della poesia scaldica avevano condotto a sostituire nu­
merose parole usuali con metafore, i kjenninger, che meglio rispondevano alle esigenze
dell'allitterazione, e che divennero nel corso dei secoli sempre più raffinate.
60 CAPITOLO SECONDO

saprà anche concatenare i teoremi secondo le regole della logica. In un


caso come nell'altro, la creatività è qualcosa di più; è la creatività a dare
il senso e la bellezza e a distinguere gli artisti dagli abborracciatori.
Se la poesia scaldica è caduta in disuso, è per eccesso di formalismo.
Se il seid è scomparso, è perché è stato sconfitto da altre pratiche.
L'umanità genera di continuo sistemi che vivono per qualche tempo,
per poi morire di malattia o per incidente. Il seid era stato senza dub­
bio molto utile a 0yvind Kjelda in altre circostanze, ed ecco che lo
abbandona nel momento cruciale, senza che si comprenda veramente
che cosa sia accaduto. Un determinismo ne soppianta un altro, la mec­
canica celeste scaccia l'astrologia, ma continua a sussistere questa
misteriosa corrispondenza fra gli universi intellettuali da noi creati e il
mondo materiale in cui viviamo.
CAPITOLO 3

Anticipazione

Il ricordo del re Olav Trygvesson è inseparabile da quello del suo


drakkar, Ormen Lange (il Lungo drago). Egli lo aveva fatto costruire sul
modello di un drakkar che aveva portato da Halogaland, e che era già una
nave superba; ma, per la sua grandezza e bellezza, il nuovo drakkar doveva
superare di molto il suo modello, che fu chiamato ormai il Drago corto.
La fama del Lungo Drago aveva varcato i mari. All'epoca dell'ultima
spedizione del re Olav, i suoi nemici - i re di Svezia e di Danimarca, così
come lo jarl Eirik, con settantun navi - gli tesero un agguato nei pressi
dell'isola di Svolder, davanti alle coste meridionali del Baltico. La flotta
del re Olav, ignorando la presenza del nemico, s'apprestò a rientrare in
Norvegia. Le navi più piccole presero il mare per prime e, essendo anche
62 CAPITOLO TERZO

le più veloci, scomparvero ben presto alla vista. Olav Trygvesson rimase
con le sue undici navi più grandi, che un traditore, lo jarl Sigvalde, doveva
guidare verso il mare libero per un canale che assicurasse loro un pescag­
gio sufficiente. In realtà le guidò diritte nelle fauci del lupo.
Svein di Danimarca, Olav di Svezia e lo jarl Eirik erano presenti con mtto il loro
esercito. Il tempo era bello e il cielo chiaro; i capi salirono su un'almra, ognuno col
suo seguito, e videro una lunga fila di navi allontanarsi in mare . Poi videro una
nave grande e maestosa far vela verso di loro. I due re dissero allora: « Che nave
imponente, e com'è bella! Dev'essere il Lungo drago». Eirik replicò: « Non è il
Lungo drago», e aveva ragione, poiché quel drakkar apparteneva a Eindride di Gim­
san. Qualche istante dopo videro passare un altro drakkar, molto più grande del
primo. Il re Svein disse allora : «Olav Trygvesson ha paura; non osa inalberare
un'insegna sulla sua nave » . Ma Eirik ribatté: «Non è la nave ammiraglia. Io cono­
sco la nave e la sua vela, la quale ha delle righe. Quello che sta passando è Erling
Skjalgsson: !asciamolo andare. Per noi è meglio che il re Olav non possa contare su
questo drakkar; armato com'è, ci causerebbe molti danni ». Un po' dopo videro i
drakkar dello jarl Sigvalde, e li riconobbero; i drakkar si diressero proprio verso di
loro. Poi videro tre drakkar con le vele spiegate, il primo dei quali era di una gran­
dezza davvero eccezionale. Allora il re Svein ordinò di imbarcarsi, gridando che
stava arrivando il Lungo drago. Eirik disse: « Hanno molte altre navi grandi e impo­
nenti, oltre al Lungo drago, aspettiamo ancora un po' >>. Cominciò allora a spargersi
un mormorio: « Lo jarl Eirik non vuole battersi e vendicare suo padre. È una grave
onta, e se ne diffonderà la fama nel mondo intero : noi rimaniamo inattivi con la
nostra immensa flotta, e il re Olav prende il largo sotto il nostro naso >>.
Questa discussione stava ancora continuando quando essi videro quattro drakkar
che procedevano a vele spiegate, e uno di essi inalberava un' enorme testa di drago
ricoperta d'oro. Allora il re Svein si levò e disse: «Il Drago mi leverà in alto questa
sera; sarò io a pilotarlo>>. Gli altri esclamarono che il Drago era una nave gigante­
sca, e bellissima, e che era un uomo coraggioso colui che l' aveva fatta costruire. Ma
Eirik disse, in modo che in pochi lo sentissero: «Anche se il re Olav non avesse un
drakkar più grande di questo, il re Svein e i suoi danesi, da soli, non riuscirebbero
a prenderlo>>. Gli uomini scesero allora verso le navi e cominciarono a smontare le
tende. Ma mentre i capi aspettavano discutendo dei fatti che abbiamo appena rife­
rito, videro apparire tre possenti drakkar, e un quarto dietro di essi, ed era quello il
Lungo drago. Le altre due navi che avevano in precedenza scambiato per il Lungo
drago erano l'una il Tranen e l' altra l'Ormen Smtte, il Drago corto. Non appena eb­
bero visto il Lungo drago, lo riconobbero però rutti per quello che era, e non ci fu
alcuna discussione; era Olav Trygvesson che stava solcando il mare. Si imbarca­
rono e si prepararono alla battaglia . 1

I nemici di Olav Trygvesson affrontano qui un problema di deci­


sione del tutto tipico: essi non devono scoprirsi fino al momento in cui
non sarà in vista il drakkar del re. Se si mostreranno troppo presto

1 6/dfs saga Tryggvasonar (Saga di Olav Trygvesson), cap. 1 00.


ANTICIPAZIONE 63

verrà dato l'allarme e il re avrà il tempo di fuggire, ma se si imbarche­


ranno troppo tardi il re sarà passato e l'occasione non si ripresenterà
più. Essi devono quindi riconoscere il Lungo drago. Il problema è che
non lo hanno mai visto; o piuttosto lo ha visto solo uno di loro, a cui
essi non accordano però una grande fiducia. Ben presto accusato di vil­
tà, nel seguito della discussione egli si trova ridotto al silenzio.
I due re devono quindi farsi guidare dalla fama del Lungo drago. Essi
ne conoscono una descrizione generica: sanno che è molto grande, ric­
camente ornato e che è abbastanza fuori del comune da giustificare la
fierezza del suo possessore, Olav Trygvesson, il cui splendore era già
leggendario. Poiché peraltro l'architettura navale non offre una varietà
infinita, ed essi sono necessariamente conoscitori di drakkar, si fanno
infine un'idea abbastanza precisa del Lungo drago, molto più precisa,
per esempio, di quella che possiamo farcene noi oggi.
Ciò non impedisce che sbaglino cinque volte, ogni volta con eccel­
lenti ragioni. Ogni drakkar è più grande e più bello del precedente, e
ogni volta pare che si sia raggiunto il massimo; a ogni passaggio rie­
splode il dissenso, e gli uni son sempre più sicuri di sé, gli altri sempre
meno numerosi. Soltanto l'apparizione del vero Lungo drago mette fine
alle dispute. A quel punto tutto è chiaro, non c'è più bisogno di discu­
tere, e ci si precipita alle navi.
Retrospettivamente, cade il velo dagli occhi, e ci si chiede come sia
stato possibile lasciarsi ingannare da così pallide imitazioni. Ora pare che
la descrizione che era stata data, di un drakkar gigantesco e coperto
d'oro, non possa convenire che a questa nave fiabesca che avanza sotto il
sole. Ma non è affatto così . È l'illusione classica, forse inevitabile, di
coloro che scrivono la storia, di prestare ai personaggi storici gli occhi
dello spettatore che sa già come sono andate a finire le cose. È in effetti
molto difficile ritrovare a posteriori, nei nostri ricordi, la freschezza della
prima impressione. Finché non ha visto il Lungo drago, il re Svein può
essere ingannato dal Drago corto, e può anche convincere altri che il suo
punto di vista sia quello giusto. La finezza del ragionamento e l' espe­
rienza in materia di costruzioni navali non saranno d'alcun aiuto. Solo
l'apparizione di Olav Trygvesson sul suo Lungo drago potrà farlo ricredere.

L'incertezza è fra i dati fondamentali della storia umana, e della nostra


vita quotidiana. Dobbiamo prendere di continuo decisioni in un conte­
sto che valutiamo imperfettamente. Una giusta valutazione della situa­
zione è fondamentale per poter giudicare correttamente le conseguenze
64 CAPITOLO TERZO

delle nostre azioni. Possiamo contare, per le nostre valutazioni, sul­


l'esperienza passata, e su tutto un sapere accumulato da noi o da altri, e
tuttavia non siamo mai sicuri di aver formulato la giusta diagnosi. Dob­
biamo tuttavia agire, correndo il rischio di prendere una decisione che
in seguito, una volta a conoscenza del vero stato delle cose, potrà appa­
rirci non solo pericolosa, ma stupida.
Osserviamo che non si tratta di avventurarsi nell'ignoto. La situa­
zione che cerchiamo di analizzare rientra in un quadro noto. Sappiamo
che c'è un certo numero di situazioni tipo che rendono conto di ciò
che osserviamo, e cerchiamo semplicemente di sapere quale sia quella
buona. Questo drakkar, immenso e magnifico, appartiene alla flotta del
re Olav, ma è il Lungo drago?
Bisogna interrogare l'evento, come Giovanni il Battista che, dal carcere
in cui era rinchiuso, inviò i suoi discepoli a chiedere a Gesù: «Sei tu colui
che deve venire o ne dobbiamo aspettare un altro? >> La condizione umana
è quella di non poter ottenere a questa domanda se non risposte ambi­
gue: «Andate a riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi
vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i
morti risuscitano, i poveri sono evangelizzati ed è beato chi non si scan­
dalizza di me>> (Matteo, 1 1 , 2 -6; Luca, 7, 1 8-2 3). È un tema ricorrente
nel Nuovo Testamento: bisogna saper leggere i segni dei tempi. Questa
lettura non può essere puramente obiettiva, in quanto comporta una
decisione e un rischio personali. Chi vuole intendere, intenda.
Un secondo tema si mescola allora al primo: ed è che la fede porta
alla realizzazione. Per chi ha accettato di intendere, il Regno di Dio è
già arrivato. Per la comunità dei credenti, le promesse sono in parte già
realizzate:
Ed erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli, nella comunione frater­
na, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Il timore aveva preso ogni anima,
poiché molti prodigi e segni venivano compiuti per mano degli apostoli. E tutti
quelli che avevano creduto stavano insieme e avevano tutto in comune. Vende­
vano poi le proprietà e i beni e ne distribuivano il ricavato a tutti, secondo che
ognuno ne aveva bisogno (Atti, 2, 42 -45).

Una volta condivisa, l'attesa comune del Giudizio induce comporta­


menti che confermano la scelta iniziale. La profezia si realizza se c'è un
numero sufficiente di persone che ci credono, un po' come se l'arrivo
di Olav Trygvessr<m fosse dipeso dal numero di coloro che riconosce­
vano il suo drakkar.
ANTICIPAZIONE 6S

La capacità che certe predizioni hanno di realizzarsi da sé purché


abbiano abbastanza fautori, è una delle costanti della vita sociale. Se io
sono convinto che un tale mi è ostile, prenderò misure per premunirmi
contro le sue azioni, e in questo modo mi assicurerò a colpo sicuro la
sua inimicizia, ammesso che egli non mi fosse già ostile fin dal princi­
pio. Se un partito sostiene che la perfidia dei nostri vicini rende la
guerra ineluttabile, il futuro ha diversi modi di dargli ragione. Il
successo di tale opinione potrebbe infatti dare origine a una corsa agli
armamenti dall'esito incerto, o favorire addirittura un attacco pre­
ventivo; se infatti dovrà proprio esserci la guerra, preferiremo prendere
l'iniziativa, senza aspettare che il presunto nemico abbia portato i suoi
preparativi al livello delle sue intenzioni. Ma quand'anche il partito
bellicista non abbia un grande seguito nel Paese, il semplice rischio che
la sua opinione possa imporsi può preoccupare abbastanza i nostri
vicini da indurii a prendere misure militari, le quali saranno immedia­
tamente denunciate come la confessione implicita di intenzioni ostili e
verranno ad accreditare le tesi belliciste, mettendo così in moto un
meccanismo inarrestabile.
Questo genere di situazione è stato analizzato nel modo migliore nel
campo economico. I ricercatori si sono occupati da molto tempo del
ruolo che le previsioni degli operatori economici svolgono nel funziona­
mento dell'economia, e hanno introdotto il concetto di anticipazione
razionale. Si tratta di previsioni che vengono a essere confermate dalla
realtà, e che confortano quindi gli operatori economici nel loro modo di
vedere le cose. Così, si può credere o non credere che i cicli economici
siano legati ai cicli solari: in altri termini, che le macchie solari scatenino
le crisi economiche; ma tutti coloro che ci credono prenderanno le loro
disposizioni in conseguenza, e se si trovano a essere abbastanza numerosi
o abbastanza influenti, le loro azioni collegate finiranno col determinare

una crisi che darà loro ragione. Gli increduli non potranno far altro che
convertirsi a quella che sarà ormai una costante dell'economia, fino a
quando non prenderà il sopravvento un'altra opinione.
Il dato di base della vita economica è l'incertezza. Incertezza sul
futuro, certo. Chi può sapere oggi quale frutto darà da qui a trent'anni
un investimento? Il problema dipende da una quantità tanto grande di
parametri diversi - alcuni dei quali, come l'evoluzione politica o il pro­
gresso tecnologico, esorbitano dal quadro propriamente economico -,
che il nostro sguardo si confonde e noi rinunciamo a ogni previsione
CAPITOLO TERZO

seria. Ma esiste anche un'incertezza sul presente. Nonostante gli indi­


catori statistici regolarmente pubblicati e commentati, nessuno sa quale
sia lo stato reale dell'economia. Le recessioni si susseguono e si asso­
migliano, ma è sempre difficile riconoscerne l'arrivo e salutarne la par­
tenza. « S iamo finalmente usciti dalla crisi? » La domanda ridiventa
periodicamente d'attualità, in alternativa a un'altra: « Siamo già nella
crisi? >>
Il fatto è che gli indicatori economici - come il livello dei prezzi, il
tasso di disoccupazione o la bilancia del commercio con l'estero - pur
essendo obiettivamente misurabili, richiedono comunque di essere
interpretati. Di per sé sono ambigui, nello stesso modo in cui uno
stesso sintomo può appartenere a varie malattie. Mettiamoci per esem­
pio nei panni di un produttore che vede aumentare i prezzi nel suo set­
tore. Egli deve stabilire se si tratta di un'illusione monetaria (nel qual
caso si limiterà ad adeguare i suoi prezzi al livello generale dell'infla­
zione), di un aumento temporaneo della domanda (in questo caso do­
vrà farvi fronte con i mezzi di produzione esistenti) o di un movimento
di fondo (in quest'evenienza dovrà cercare di investire, e il più rapida­
mente possibile, per scongiurare il pericolo che di queste nuove parti di
mercato emergenti si appropri la concorrenza). Un errore di valuta­
zione può condurre al disastro, sia che egli abbia investito nel mo­
mento sbagliato, ritrovandosi ad avere una capacità produttiva supe­
riore al fabbisogno e un forte indebitamento, sia che non abbia perce­
pito le nuove tendenze e non sia quindi il grado di mantenere il suo
posto in un mercato in espansione.
Anche il consumatore si trova di fronte a questo genere di proble­
ma: a volte può essere utile cercare di ritardare un forte investimento,
per esempio l'acquisto di una casa o di un'automobile, in attesa di un
calo dei prezzi o dei tassi d'interesse. Il risultato di tutto ciò è che tutti
gli operatori dell'economia sono intenti di continuo a chiedersi che
cosa stia accadendo. Non occorre essere grandi esperti per constatare che
si è in un periodo di crisi o di espansione. Ciò che è difficile, e che è
anche l'informazione più preziosa, è percepire i mutamenti di tendenza.
Chi avrà previsto correttamente la fine della crisi avrà un vantaggio deci­
sivo sui suoi concorrenti, ancora paralizzati dalla preoccupazione.
Il punto più notevole di quest'analisi è che le valutazioni degli ope­
ratori economici fanno parte integrante della situazione che essi cer­
cano di analizzare. Se tutti giudicano che la crisi durerà ancora, non si
ANTICIPAZIONE 67

faranno investimenti, i consumi saranno ritardati e la crisi si prolun­


gherà. Se, per contro, tutti stimano che la crisi sia ormai terminata,
diventeranno disponibili liquidità per gli investimenti, la domanda avrà
una brusca impennata e si avrà il tanto atteso rilancio dell'economia.
Nella realtà, beninteso, le opinioni saranno divise, fino al momento in
cui una di esse non avrà la meglio e la situazione non si volgerà decisa­
mente in una direzione, come l'apparizione del Lungo drago metteva
infine tutti d'accordo.
Presentire le opinioni altrui, anticipare le reazioni degli operatori
economici prima che essi stessi ne abbiano coscienza, è quindi un eser­
cizio che riveste un'estrema importanza in materia economica. La cosa
peggiore è questo stato di attesa generale in cui ognuno si rinchiude
nel proprio guscio in attesa di giorni migliori, mentre la situazione
ideale è quel clima di fiducia che tutti i governi ricercano e che per­
mette agli operatori economici, produttori o consumatori, di non
vedere i rischi che si assumono.
Questi sono gli stessi meccanismi che operano in borsa, e che
determinano in gran parte i prezzi delle azioni. Certo le considerazioni
economiche vengono prima di tutto, e non c'è nulla come i cattivi
risultati per far cadere il corso delle azioni, ma nelle grandi borse,
come Wall Street, e sui titoli più importanti, la gran massa delle tran­
sazioni sono acquisti e rivendite nell'arco della giornata. È chiaro che a
un operatore di borsa che conservi il suo portafoglio di titoli meno di
ventiquattr'ore non interessa molto sapere che profitto apporteranno le
azioni in cinque anni. Ciò che determina il prezzo è il mercato, ossia le
anticipazioni che migliaia di operatori in tutto il mondo fanno sulle
reazioni dei loro simili .
Quest'osservazione era già stata fatta da Keynes: 2
(. . .) l'investimento professionale può venir paragonato a quei concorsi dei gior­
nali, nei quali i concorrenti d evono scegliere le sei facce più graziose fra u n cen­
tinaio d i fotografie, e nei quali il premio viene concesso al concorrente che si sia
più avvicinato, con la sua scelta, alla media fra tutte l e risposte ; cosicché ciascun
concorrente d eve scegliere, non quelle facce che egli ritenga più graziose, ma
quelle che ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti, i quali a
loro volta affrontano tutti quanti il problema dallo stesso punto di vista. Non si
tratta di scegliere quelle che, giudicate obiettivamente, sono realmente le più

2 ] . M. Keynes, The Genera/ Theory of Employment lnterest and Money, Harcourt


Brace, New York 1 93 6 , cap. 1 2 , sez. V [trad. A. Campolongo, Occupazione, interesse e
moneta. Teoria generale, Utet, Torino 1 968, pp. 1 3 6 sg. ] .
68 CAPITOLO TERZO

graziose, e nemmeno quelle che una genuina opinione media ritenga le più gra­
ziose. Abbiamo raggiunto il terzo grado, nel quale la nostra intelligenza è
rivolta ad indovinare come l'opinione media immagina che sia fatta l'opinione
media medesima. E credo che ci siano alcuni i quali praticano il quarto, il
quinto grado e oltre.

Ci si può fare un'idea per quanto vaga di queste sottigliezze parteci­


pando a giochi come la morra, in cui i due giocatori calano simultanea­
mente una mano e vince quello che, al tempo stesso, dice la somma delle
dita presentate, o come la morra giapponese (o cinese), nella quale a un
segnale i giocatori presentano o la mano aperta, che significa «carta», o
l'indice e il medio distesi, che significano «forbici», o il pugno chiuso,
che significa «pietra»: la carta vince sulla pietra, la pietra sulle forbici e le
forbici sulla carta. Lo scopo, in questo gioco, è quello di essere in anti­
cipo di un passo sull'avversario. Se il mio avversario ha vinto al colpo
precedente giocando «carta >>, mentre io ho giocato «pietra>>, potrà
essere tentato di rifare il gioco che gli è già riuscito: questo è un modo di
procedere ingenuo, quello che si potrebbe chiamare il livello zero del­
l'astuzia. Ma ciò presuppone che anch'io rigiochi «pietra>>, ossia che non
modifichi una strategia perdente. È invece più probabile che io anticipi la
sua reazione e che giochi «forbici >>, sventando in questo modo la strate­
gia ingenua. Se il mio avversario è capace di un minimo di riflessione,
riterrà probabile che io cerchi di modificare una strategia perdente, e
riprodurrà il mio ragionamento. Anticipando a sua volta la mia conclu­
sione, cercherà di battere la mia scelta «forbici >>, cosa che lo condurrà a
giocare «pietra>>: questo è il primo livello dell'astuzia. Nulla m'impedisce
di seguirlo su questo terreno, e quindi di giocare «carta>>, e se egli pensa
che io adotterò questa strategia giocherà «forbici >>. Il secondo livello del­
l'astuzia corrisponderà in questo modo al livello zero: in altri termini, la
stessa strategia può essere adottata per ingenuità come per sottigliezza. E
che dire dei livelli terzo, quarto o più?
Ricordiamo anche l'angoscia del portiere di calcio prima del calcio
di rigore. Il regolamento gli proibisce di muoversi prima che la palla sia
stata colpita, e il suo scatto dev'essere praticamente simultaneo al tiro
perché egli possa avere qualche probabilità di fermarlo. Poiché, una
volta fatta la sua scelta, non avrà il tempo se non di apportarvi corre­
zioni minime, dovrà nei limiti del possibile anticipare il rigorista, deci­
dendo per esempio da che parte buttarsi. Certi portieri cercano effetti­
vamente di indovinare, sulla base delle abitudini del tiratore, del suo
stato di affaticamento e dei rigori da lui tirati in precedenza, da che
ANTICIPAZIONE 69

parte batterà il rigore. Ma l'avversario non è necessariamente meno


astuto di lui, e il tiratore potrà cercare di anticipare il portiere. Ecco
perché alcuni rinunciano a impegnarsi nel gioco senza fine delle antici­
pazioni reciproche e si rimettono al caso, o all'impressione del momento.
Il portiere cerca di indovinare in quale angolo l'altro tirerà, dice Bloch. Se il por­
tiere conosce il centravanti, sa quale angolo sceglie in generale. Ma il centravanti
può benissimo prevenire il ragi onamento del portiere. Il portiere continua quindi
a riflettere e si dice che questa volta la palla non sarà tirata nello stesso angolo. Sì,
ma se il centravanti segue sempre il ragi onamento del portiere e si prepara a tirare
verso il solito angolo? E così via, e così via. l

Quel che risulta nel modo più chiaro da tutte queste situazioni è che
non può esistere un metodo che garantisca il successo a uno dei gioca­
tori. Occorre infatti partire dal principio che essi sono entrambi razio­
nali, che dispongono della stessa informazione, e che ognuno di loro è
quindi in grado di riprodurre i ragionamenti dell'avversario. Se esi­
stesse un argomento invincibile che convincesse per esempio il portiere
a buttarsi a destra, questo argomento sarebbe in possesso anche del suo
avversario, che, giudicandolo perfettamente convincente, anticiperebbe
non meno perfettamente la reazione del portiere e tirerebbe dall'altra
parte.
Ecco perché il meglio che la teoria dei giochi abbia potuto fare nel­
l'analisi di questo genere di situazioni è stato di introdurre nella deci­
sione un elemento di caso. Se il portiere tira a testa o croce da quale
parte buttarsi, si immunizza per sempre contro la sottigliezza mentale
dei suoi avversari e, se la sua carriera è abbastanza lunga, alla fine avrà
avuto ragione una volta su due. Egli deve però resistere alla tentazione
di affidarsi alla propria sottigliezza mentale, la quale metterebbe imme­
diatamente in moto il meccanismo delle anticipazioni. Se egli constata,
per esempio, che i rigori vengono tirati sistematicamente alla sua
destra, non deve perciò buttarsi meno spesso alla sua sinistra. Ogni
mutamento di strategia da parte sua sarebbe infatti osservato rapida­
mente dall'avversario, che ne approfitterebbe per piazzare qualche tiro
alla sua sinistra. In effetti, quei tiri sistematici da una sola parte potreb­
bero avere lo scopo di convincere il portiere ad abbandonare la sua
strategia di testa o croce e a tornare a una gara di anticipazioni, dove
l'avversario si sente più a suo agio.

l P. Handke, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter [trad. B. Bianchi, Prima del cal­
cio di rigore, Feltrinelli, Milano 1 97 1 ] .
70 CAPITOLO TERZO

Quando, nel 1 93 0, il matematico Émile Borel propose di introdurre


un elemento di caso nelle strategie dei giocatori, vi vide all'inizio un
principio di economia che permetteva di eliminare l'astuzia e di uscire
dal ciclo infernale delle anticipazioni reciproche. Ai nostri tempi si pre­
ferisce insistere piuttosto sugli effetti informativi di queste strategie
aleatorie. Il portiere lascia definitivamente i suoi avversari in una situa­
zione d'incertezza: i loro ragionamenti più fini, le loro strategie più
sottili non potranno impedirgli di avere ragione una volta su due. Nep­
pure il tradimento potrà aiutare il rigorista: se il portiere confida all'a­
mante la propria intenzione di tirare a testa o croce da quale parte
buttarsi, e se l'amante confida questa informazione agli avversari,
questi non potranno servirsene per migliorare le loro probabilità di
successo. Il portiere potrà anche gridare ai quattro venti che, non solo
per una partita, ma per tutta la sua carriera, si rimetterà al caso, senza
che i suoi avversari possano trame alcun vantaggio. C'è ovviamente
una contropartita, ed è che egli rinuncia a migliorare la sua percentuale
di successi, sfruttando per esempio le tendenze statistiche che potrebbe
osservare nei suoi avversari: in questo modo egli introdurrebbe infatti
nella propria strategia una tendenza statistica (ossia quella di buttarsi
più spesso da un lato che dall'altro), da cui un avversario astuto
potrebbe trarre vantaggio. In altri termini, il portiere deve saper rinun­
ciare a vantaggi facili a breve termine per non fornire informazioni che
potrebbero essere sfruttate contro di lui a lungo termine.
Prenderemo ora in considerazione tutta quest'analisi in un quadro
più adatto, quello del poker. Può sembrare paradossale che si consigli a
un giocatore di poker di tirare a sorte la sua decisione, e soprattutto
che questo modo di procedere sia quello ottimale in certe circostanze.
È tuttavia ciò che faremo, se non per il poker, almeno per una versione
molto semplificata di questo gioco. I risultati che otterremo resteranno
qualitativamente validi per il poker stesso, ma i calcoli effettivi sono
troppo complicati per poterli tentare qui.
Si gioca da soli contro il mazziere. Per cominciare, fai una puntata
iniziale, e il mazziere dovrà mettere nel piatto una somma uguale.
Fatto questo, egli prende un mazzo di carte nuovo, lo sfascia e ne trae
i sette, che mette davanti a sé. Poi rimescola le carte restanti e ti invita
ad alzare, dopo di che ti dà la prima carta, prendendola con una lunga
spatola e facendola scivolare verso di te con la faccia nascosta. Non si
prenderanno più altre carte.
ANTICIPAZIONE 71

Si tratta di far meglio del sette del mazziere. L'asso vale uno; nel
mazzo ci sono quindi ventiquattro carte inferiori al sette e ventiquattro
superiori. C'è dunque una possibilità su due che la tua carta sia vincen­
te, e una su due che sia perdente.
Dopo aver dato un'occhiata discreta alla tua carta, hai due possibilità:
passare o rilanciare . Se passi, il mazziere raccoglie le puntate e la partita
è terminata. Se rilanci devi puntare di nuovo, sempre la stessa somma. Il
mazziere può allora passare o vedere. Se passa, sei ru a raccogliere le
puntate. Se ti chiede di vedere, deve puntare di nuovo, sempre la stessa
somma. Tu volti la tua carta, il mazziere tiene sempre il suo sette, e la
carta più alta vince. In ogni caso il gioco termina a questo punto.
Una prima analisi mostra che ci sono esattamente quattro strategie
possibili:
l ) rilanciare su una buona carta e passare su una cattiva;
2) rilanciare sempre;
3) passare su una buona carta e rilanciare su una cattiva;
4) passare sempre.
Quest'ultima strategia è chiaramente da evitare, perché conduce a
perdere con certezza la puntata iniziale. Del resto, non si capirebbe
perché il giocatore debba pagare il diritto di partecipare al gioco (è
questo il senso della puntata iniziale) se decide di passare sempre.
La terza strategia - passare su una buona carta e rilanciare su una
cattiva - sembra paradossale. Essa offre tuttavia una possibilità di gua­
dagno, qualora il mazziere si ritirasse dopo il rilancio. Se però il maz­
ziere chiede sistematicamente di vedere, la perdita è massima, in
quanto si perde una puntata ogni volta che si ha una carta buona e due
puntate ogni volta che se ne ha una cattiva, cosa che si traduce nella
perdita media di una puntata e mezza.
Le altre due strategie sono più redditizie. La prima - rilanciare su
una buona carta e passare su una cattiva - fa perdere una puntata se la
carta è cattiva e guadagnare una puntata se la carta è buona, a meno
che il mazziere non rilanci, nel qual caso si guadagnano due puntate.
Se il mazziere passa sistematicamente, la speranza di guadagno è nulla.
Quanto alla seconda strategia - rilanciare sempre - il risultato dipende
dalla strategia del mazziere:
l ) se egli passa sistematicamente, il suo avversario guadagna una pun­
tata in ogni caso;
2) se egli chiede sempre di vedere, il suo avvversario perde due pun-
72 CAPITOLO TERZO

tate su una carta cattiva e guadagna due puntate su una carta buona:
anche in questo caso, dunque, si ha una speranza di guadagno nulla.
Mettiamoci ora nei panni di un giocatore inveterato, un habitué del
casinò che va a giocare tutte le sere. Qualunque strategia egli adotti, il
mazziere riuscirà infine a scoprirla e metterà in atto la difesa corrispon­
dente. Se il giocatore rilancia sistematicamente, il mazziere chiederà
sistematicamente di vedere, e se il giocatore passa sempre su una cat­
tiva carta, il mazziere non chiederà mai di vedere. Pare dunque che il
mazziere possa sempre ridurre a zero la speranza di guadagno del gio­
catore.
Considerando le cose in quest'ottica, è chiaro che tutte queste stra­
tegie presentano lo stesso difetto: il loro uso sistematico le smaschera.
È questa informazione che il mazziere, una volta che l'abbia raccolta,
può utilizzare contro il giocatore e che gli permette di ridurne a zero la
speranza di guadagno. Se il giocatore vuole aumentare la sua speranza
di guadagno, deve trovare un modo di nascondere l'informazione, di
celare la strategia che utilizza.
Tale modo esiste, ed è quello di utilizzare una strategia aleatoria.
Se il giocatore decide che, avendo una carta cattiva, passerà due volte
su tre ma rilancerà una volta su tre, il calcolo mostra che la sua spe­
ranza di guadagno sale a 1/3 di puntata, il che significa che in media, su
tre partite, vincerà una puntata, che è un risultato tutt'altro che
disprezzabile. Giocando in questo modo, egli ottiene il risultato di
togliere al mazziere la possibilità di ricavare dallo svolgimento delle
partite un'informazione utilizzabile. Qualunque strategia adotti il maz­
ziere, sia che passi sistematicamente, sia che veda sistematicamente, sia
che adotti anche lui una strategia mista, l'andamento medio del gioco
non ne risentirà e il suo avversario continuerà a intascare una puntata
ogni tre partite: ciò beninteso a condizione che il giocatore rimanga
fedele alla strategia fissata in partenza, ossia che, quando ha una carta
cattiva, rilanci una volta su tre. Il calcolo stesso dimostra che questo è
il modo di giocare ottimale, ossia che nessun'altra strategia permette di
far meglio contro qualsiasi difesa.
Rilanciare avendo una cattiva carta si chiama bluffare. Un bluff riu­
scito permette di vincere la partita con carte che normalmente non lo
permetterebbero. Il principiante è confuso da questa possibilità, e bluffa
a tutto spiano o, al contrario, è così paralizzato dal timore che non osa
rischiare. Quanto al giocatore esperto, egli sa che bisogna saper per-
ANTICIPAZIONE 73

dere un bluff, in modo che l'avversario che lo sorprende flagranti cri­


mine sappia che egli è dedito al bluff e ne sia indotto a rispondere la
prossima volta che egli rilancia, poiché si vuole che al secondo giro il
mazziere passi su una carta cattiva e stia al gioco su una buona. Il bluff
persegue due obiettivi contraddittori, poiché si vuole che al secondo
giro il mazziere passi su una carta buona e stia al gioco su una cattiva.
Per conseguire tali obiettivi si dovrà coltivare una situazione di incer­
tezza nell'avversario, e quindi adottare una strategia imprevedibile. Per
essere imprevedibile, essa dev'essere aleatoria. Non val la pena di bluf­
fare sistematicamente, neppure rispettando il rapporto ideale di una
volta su tre, per esempio decidendo di bluffare sempre alla terza occa­
sione (su tre carte cattive, passare le prime due volte e rilanciare la ter­
za). Alla lunga il mazziere scoprirebbe la strategia, e potrebbe sfruttare
questa informazione. Egli saprebbe per esempio che, se ti ha sorpreso
in flagrante delitto di bluff (tu hai rilanciato, e lui ha chiesto di vedere),
sarà d'ora in poi al sicuro finché non avrai passato due volte, e che fino
a quel momento potrà permettersi di passare sistematicamente ogni

volta che tu rilanci. Questa nuova strategia diminuirebbe le tue spe­


ranze di guadagno.
Si vede così che il mazziere ha interesse a esplorare di continuo le
nostre reazioni per individuare le pecche nella nostra decisione, o le
tendenze involontarie che lasceremo trasparire nel nostro modo di gio­
care. Anche per lui la migliore strategia è aleatoria. Il calcolo mostra
che, se il giocatore ha rilanciato, il mazziere deve passare una volta su
tre e chiedere di vedere due volte su tre.
Perché una strategia sia veramente impenetrabile, e rimanga impre­
vedibile da una partita all'altra, la cosa migliore è che sia imprevedibile
per colui che la applica, e che sia quindi aleatoria. Se il giocatore decide
un bluff in funzione dello svolgimento della partita o dell'impressione
del momento, il suo ragionamento rischia di essere capito dall'avversa­
rio, e la sua impressione di essere condivisa. Se egli lancia un dado,
decidendo che punterà se esce uno o due, e che passerà se esce un
numero più alto, sarà al riparo da ogni anticipazione, a condizione di
nascondere il suo procedimento all'avversario. L'obbedienza a questa
regola, però, dev'essere cieca: non si deve cercare di influenzare la
sorte o di capire, come il giudice Bridoye (Briglialoca), il quale emet­
teva le sue sentenze ai processi fondandosi sul tiro dei dadi.
74 CAPITOLO TERZO

( . ..) procedo come voi fate, Signori, e secondo la consuetudine dei giudizi, alla
quale le nostre Leggi comandano di attenerci sempre: ut no. extra. de consuet., c.
ex literis, et ibi lnnoc. E cioè, avendo visto ben bene e rivisto, letto e riletto, squa­
dernato e sfogliato, protestazioni, aggiornamenti, comparizioni, nomi del rela­
tore, istruttorie prima del processo, e dichiarazioni, allegazioni, richieste di pro­
va, contraddittorie, inchieste, repliche, dupliche, tripliche, processi verbali,
ricuse di testimoni, riserve opposte alle ricuse, deposizioni, confronti, impugna­
zioni, depignatorie, anticipatorie, evocazioni, invii, rinvii, conclusioni, dichiara­
zioni di non luogo a procedere, dilatorie, rilievi, confessioni, transazioni, ordini
esecutori, e simili confetti e spezierie, da una parte e dall'altra, come deve sem­
pre fare il buon giudice, secondo quanto si trova nello Speculum, De ordinario §
3, et tit. de offi. omn. ju. § fi. et de rescriptis praesenta. § l .
I o metto poi d a una parte del tavolo, nel mio gabinetto, tutte l e scartoffie del
convenuto, e concedo a lui per primo gli eventuali favori della sorte, appunto
come fate voi, Signori; e come si trova in /. Favorabiliores, ff. De reg. jur., et in c.
cum sunt eod. tit. lib. VI, dove è detto: Cum sunt partium jura obscura, reo faven­
dum est potius quam actori. Dopo di che, colloco tutte le scartoffie del querelante,
come fate voi, Signori, dall'altra parte del tavolo, visum visu. Perché, com'è
noto, opposita juxta se posita magis elucescunt, come è detto in l. I, § videamus, ff.
De bis qui sunt sui ve/ alie. jur. et in l. munerum. /. mixta, ff. De muner. et honor. E
così, ammetto anche lui agli eventuali favori della sorte.
- Ma, - domandò Trincamella, - ditemi, caro, come vi rendete conto dell'in­
certezza delle ragioni allegate dalle due parti in causa?
- Come fate voi, Signori, - rispose Briglialoca: - e cioè quando vedo una gran
quantità di pratiche da una parte e dall'altra . E allora, tiro fuori bellamente i
miei dadi, quelli piccoli: come fate voi, Signori, in virtù della legge Semper in
stipulationibus, ff. De reg. jur. e della legge versale versificata la quale, eod. tit.,
dichiara :
Semper in obscuris quod minimum est sequimur,

canonizzata in c. in obscuris eod. tit. lib. VI.


E posseggo anche altri dadi grossi, assai belli e armoniosi, dei quali faccio uso,
come fate voi, Signori, quando la materia è più liquida, vale a dire quando c'è
un minor numero di incartamenti.
- E fatto tutto ciò, - domandò Trincamella, - come date poi la sentenza, caro?
- Come fate voi, Signori, - rispose Briglialoca. - Io dò sentenza favorevole a
colui che primo arriva al numero di punti richiesto dalla sorte giudiziaria, tribu­
niana, pretoriale, dei dadi. Come comanda il nostro diritto, ff. Qui po. in pig., l.
potior leg. creditor. C. de consul., l. I. Et de reg. jur. in VI, Qui prior est tempore
potior est in jure.4

4 François Rabelais, Gargantua et Pantagruel, !b. III, cap. 39 [trad. M. Bonfantini,


Gargantua e Pantagruele, Einaudi, Torino 1 9 5 3 , vol. l , pp. 452 sg. ] .
ANTICIPAZIONE 75

Non facciamoci beffe di Bridoye-Briglialoca, che d'altronde Rabe­


lais tratta con molta indulgenza. Giacché in definitiva, nel corso dei
secoli, giudici e preti, generali e dittatori, re e imperatori, hanno deciso
gli affari più gravi con un lancio di dadi, un volo di uccelli, una caduta
da cavallo, l'appetito dei polli sacri, le viscere degli animali sacrificati,
la nascita di un mostro, il passaggio di una cometa, i fondi del caffè, le
farneticazioni della Pizia, le braci del focolare, una nube di fumo, le
linee della mano, uno starnuto, un grido, un sogno. In questa frenesia
che l'umanità ha sempre manifestato di consultare la sorte e d'inter­
pretare i segni, non c'è il desiderio di penetrare le intenzioni di un
Altro? Siamo forse impegnati in una partita contro un Giocatore la cui
abilità suprema è quella di dissimulare, non solo la sua strategia, ma
anche la sua esistenza e ciò che egli si attende da noi?
Oppure abbiamo tutti semplicemente paura del rischio, e cerchiamo
disperatamente di liberarci della responsabilità che grava sulle nostre
spalle? Certo, quando si tratta di decidere in questioni di routine, per
le quali non mancheranno le occasioni di rifarsi, ci si può permettere di
sbagliare a cuor leggero e si possono apprezzare i successi statistici
delle strategie aleatorie. Le perdite di oggi saranno compensate do­
mani da altri guadagni. Ma chi può dire il senso di angoscia degli ate­
niesi prima della battaglia navale di Salamina nel 480 a. C.? Molte
altre città greche si erano assoggettate ai persiani senza troppo combat­
tere. Gli ateniesi, non essendo in grado di difendere la loro città contro
le forze preponderanti di Serse, abbandonarono Atene affidandosi al
mare nonostante la loro inesperienza e trasportando donne e bambini
in altri luoghi, fra cui l'isola di Salamina. La flotta greca, composta
principalmente da navi di Atene, Egina e Megara, si preparò ad affron­
tare nel canale fra Salamina e l'Attica un esercito e una flotta dieci volte
superiori in numero. Se fosse stata presa una decisione sbagliata non ci
sarebbe stata una seconda possibilità; gli uomini sarebbero stati passati
a fil di spada, le donne e i bambini sarebbero stati ridotti in schiavitù e
la Storia avrebbe dimenticato gli ateniesi e la loro città.
Anche se esempi così estremi sono rari, ci accade di continuo di
prendere decisioni talvolta gravi, in circostanze che non si ripresente­
ranno più. Un matrimonio, la scelta di un mestiere ci impegnano per
tutta la vita; un investimento, l'acquisto di una casa presentano gravi
rischi finanziari. Ognuna di queste decisioni è unica nel suo genere e
avvolta da incertezza; prendendola, sappiamo che non potremo più tor-
76 CAPITOLO TERZO

nare indietro, ma sappiamo anche che non possediamo tutti gli ele­
menti del problema. Non possiamo dunque far altro che tentare di rac­
cogliere tutte le informazioni disponibili, quand'anche non abbiano
che un lontano rapporto col problema, come l'appetito dei polli sacri o
l'aspetto delle macchie solari. E si può sempre beneficiare di un effetto
di autorealizzazione: se gli sposi sono convinti che il loro matrimonio
comincia sotto buoni auspici, la vita coniugale può esserne facilitata. Se
tutti gli investitori sono persuasi che le macchie solari provochino crisi
economiche, quando le macchie diventeranno numerose prenderanno
le loro contromisure, provocando in tal modo la crisi che avevano pre­
visto. Gli oracoli e tutte le forme di mantica svolgono visibilmente un
ruolo sociale importante, orientando le previsioni individuali verso un
esito favorevole alla collettività e aumentando in tal modo le probabi­
lità della loro realizzazione. Quando i caldei assediano Gerusalemme, i
profeti percorrono la città in lungo e in largo, predicendo l'arrivo degli
egizi e la levata dell'assedio; essi svolgono il loro ruolo sociale. Occorre
chiamarsi Geremia per avere il coraggio di predicare il disfattismo:
« Chi rimane in questa città morrà di spada, di fame e di peste, mentre
chi passerà ai Caldei vivrà, la sua vita salva sarà il suo bottino e vivrà »
(Geremia, 3 8, 2). Si comprende la reazione violenta dei capi del posto e
del re Sedecia, che lo gettano in una cisterna. Ma proprio il suo non­
conformismo era il segno migliore della sua elezione da parte del
Signore.
È questo d'altronde il senso ultimo dell'apologo di Bridoye-Briglia­
loca, che si conclude con la storia del Conciliatore di processi (cap. 4 1 ) .
Quando l a lite, dopo una bella e lunga vita, h a perso ogni vigore, e
le parti si sono rovinate in processi e in appelli, dando fondo alle
risorse della loro famiglia e dei loro amici, e la collera ha
lasciato posto da molto tempo alla stanchezza, arriva il momento della
conciliazione. Le parti non aspirano più se non alla pace. Una cosa sola
le trattiene: l'ignominia di dover fare il primo passo. A questo punto è
loro sufficiente un segnale esteriore, il giudizio che langue, un concilia­
tore che interviene, perché i due avversari si rappacifichino e tutta la
lite venga sepolta. Poco importa allora quale sarà la decisione finale,
purché ce ne sia una. Bridoye-Briglialoca può gettare i suoi dadi, pic­
coli o grossi, nel suo studio, davanti ai sacchi di scartoffie. Il processo è
arrivato alla sua perfezione, le lagnanze iniziali sono dimenticate da
molto tempo. L'oracolo di Briglialoca crea le condizioni formali che
ANTICIPAZIONE 77

permettono alle parti di riconciliarsi e di riparare lo strappo del tessuto


sociale. Rimettersi alla sorte sarebbe assurdo se si trattasse di applicare
criteri logici o morali. La cosa diventa invece perfettamente ragione­
vole se si tratta di dare un segnale sociale, come due automobilisti che
arrivano simultaneamente a un incrocio accettano che sia il semaforo a
decidere chi deve passare per primo.

In una famosa conferenza sulle Mille e una notte, Borges riferisce un


racconto che non ho trovato nella mia edizione. Un abitante del Cairo
riceve in sogno l'ordine di recarsi a Ispahan, dove, in una certa mo­
schea, lo attende un tesoro. Il sogno si ripete varie volte, così che il
nostro uomo decide infine di intraprendere il viaggio. Non è una cosa
tanto semplice: egli passa di carovana in carovana, trovandosi alla
mercé di furfanti di ogni sorta, e arriva infine a Ispahan sfinito e deru­
bato di tutto. Trascorre la notte nella moschea del suo sogno, che si
rivela essere un covo di ladri. Proprio quella notte la polizia fa una re­
tata. Dopo una solenne bastonatura, il cairota viene condotto davanti al
cadì, che gli ingiunge di spiegare le ragioni della sua presenza. Egli rac­
conta allora il suo sogno, al che il magistrato scoppia in una risata ome­
rica, tanto da cadere a terra. Dopo essersi rialzato e asciugato gli occhi,
pieni di lacrime per il riso incontenibile, gli si rivolge in questi termini:
«Straniero ingenuo e credulone, sono tre volte che sogno che devo
andare al Cairo, in una certa strada: ivi troverò una casa, nella casa un
giardino, nel giardino una vasca, un quadrante solare e un vecchio fico,
e sotto il fico un tesoro. lo non vi ho mai prestato fede, e oggi vedo che
ho fatto bene. Eccoti del denaro, prendilo, tornatene a casa, e guardati
d'ora in poi dal credere ai sogni che ti manda il Maligno». Il cairota lo
ringrazia, se ne torna a casa, va nel suo giardino, scava sotto il fico, tra
la vasca e il quadrante solare, e trova il tesoro.
La bellezza di questa storia consiste nel fatto che tanto il cadì
quanto il viaggiatore possono felicitarsi dell'eccellenza del loro giudi­
zio. Le loro analisi, diametralmente opposte, sono entrambe piena­
mente confermate dai fatti. Il cadì morirà a lspahan facendosi beffe
degli ingenui che affrontano un viaggio così lungo alla ricerca di un
tesoro che non esiste. E il cairota si rallegrerà per tutta la vita d'aver
creduto al suo sogno. Essi hanno usato perfettamente l'anticipazione,
ognuno a modo suo.
CAPITOLO 4

Caos

Einar Tambarskjelve era in piedi sul Lungo drago, al piede dell'albero. Nessuno
era potente come lui nel tiro con l'arco. Einar scagliò la sua freccia contro lo
jarl Eirik; la freccia si piantò nel timone, appena sopra la testa dello jarl, e la
punta penetrò fino alle legature. Lo jarl la vide, e chiese se qualcuno avesse
individuato l'arciere, ma un'altra freccia era già su di lui; lo sfiorò, passando fra
il suo braccio e il suo corpo, e si piantò dietro di lui su una tavola che trapassò
da parte a parte. Lo jarl disse allora a uno dei suoi uomini, di cui alcuni dicono
che si chiamasse Finn e altri che fosse di origine finlandese, anche lui grande
tiratore con l'arco: «Mira a quel pezzo d'uomo al piede dell'albero ». Finn tirò,
e la sua freccia colse l'arco di Einar nel centro, proprio nel momento in cui que­
sti lo tendeva per la terza volta. L'arco si spaccò in due. Il re Olav chiese allora:
<< Che cos'è stato questo grande rumore? >> Einar gli rispose: « È la Norvegia,
CAOS 79

sire, che ti sta cadendo di mano ». «Non ha poi fatto tanto rumore - disse il re -,
prendi il mio arco e tira con questo ». Einar lo prese, e tendendolo subito oltre­
passò la punta della freccia. Esclamò: «Troppo molle, è troppo molle l'arco del
re »; prese una spada e uno scudo e si gettò nella mischia. 1

La battaglia di Svolder si concluse con una sconfitta per il re di


Norvegia. Al termine di una lotta accanita, i difensori del Lungo drago
dovettero soccombere al numero. Coloro che non morirono con le
armi in pugno si gettarono in mare per non cadere in mano ai nemici.
Fra questi ci fu il re Olav Trygvesson, il cui corpo non fu mai ritro­
vato, e la cui scomparsa rimane avvolta nel mistero. Quanto a Einar
Tambarskjelve, sopravvisse al massacro. Egli aveva allora solo diciotto
anni, e se la saga si dà la pena di indicarne l'età è perché era un onore
eccezionale essere scelto così giovane a far parte della guardia perso­
nale del re. Personaggio di grande spicco, sarà uno dei compagni più
fidi di Olav il Santo, e morirà solo molti anni dopo, assassinato col
figlio in un'imboscata tesagli dal re Araldo lo Spietato.
La Norvegia fu divisa fra i tre alleati vittoriosi, i re di Svezia e di
Danimarca, e lo jarl Eirik. Questi lasciarono trionfalmente il luogo
della battaglia a bordo delle splendide navi di Olav Trygvessem, lo jarl
Eirik in testa sul Lungo drago .
Sarebbe bastato poco perché l'esito della battaglia fosse del tutto
diverso. Le frecce di Einar Tambarskjelve passarono a due riprese a
pochi centimetri dalla testa, e poi dal petto, dello jarl Eirik: dato il vi­
gore con cui erano state scoccate, non avrebbero perdonato. Per con­
tro, la freccia di Finn colpì l'arco dì Einar nel momento stesso in cui
questi lo tendeva per la terza volta: un miracolo di precisione nello spa­
zio e nel tempo. Quale colpo di fortuna per l'uno e quale malasorte per
l'altro! Se lo jarl Eirik fosse stato ucciso, il Lungo drago si sarebbe sgan­
ciato e la vittoria sarebbe toccata all'altro campo. Olav Trygvesson
avrebbe recuperato il suo regno, e la Norvegia avrebbe evitato il lungo
periodo di disordini che si concluse con l'ascesa al trono di Olav Ha­
raldsson. Senza dubbio questo personaggio sarebbe rimasto nell'om­
bra, e noi oggi non avremmo quel capolavoro che è la 6/afs saga belga,
la saga di Olav il santo.
Ci si può meravigliare che pochi centimetri di differenza nella
traiettoria di una freccia possano cambiare i destini umani e decidere la

1 0/dft saga Tryggvasonar (Saga di Olav Trygvesson), cap. 1 08 .


80 CAPITOLO QUARTO

sorte di un regno. In ultima analisi, ciò si traduce in qualche decimo di


millimetro a sinistra o a destra nella posizione del tiratore, e in qualche
decimo di secondo in più o in meno nel momento di scoccare la frec­
cia. Da questa grande sensibilità il buon tiratore sa trarre partito. È
proprio perché uno spostamento minimo della mano induce una
modificazione sensibile nella traiettoria che il tiro con l'arco è possibile
e interessante. Esso richiede una precisione di gesti e una finezza di
valutazione che sono ben lontane da ciò che può fare un principiante in
virtù delle sue doti naturali, ma che si possono acquisire col tempo,
mediante un addestramento metodico e ostinato. È come una seconda
natura che possiamo costruirci con una pratica rigorosa e che ci di­
schiude nuove percezioni. Non c'è bisogno di un'ascesi del genere per
scagliare una pietra; ma i lanciatori di pietre sono meno efficaci degli
arcieri, a meno che non si servano di una fionda, arma che certamente
non è neppur essa alla portata del primo venuto!
Già Pasca} aveva notato che cose di grandissima importanza sono
decise a volte da imponderabili : «11 naso di Cleopatra: se fosse stato più
corto, tutta la faccia del mondo sarebbe cambiata >>. 2 Effettivamente, se
la flotta di Antonio si disperse nella battaglia di Azio - in cui si affron­
tarono la flotta di Ottaviano, agli ordini di Marco Vipsanio Agrippa, e
quella di Antonio e Cleopatra - mentre la vittoria era ancora alla sua
portata, è perché si vide la nave ammiraglia abbandonare il campo di
battaglia, al seguito della galera di Cleopatra che si sottraeva a una bat­
taglia troppo aspra. Un mondo romano in cui avesse regnato Antonio
anziché Augusto, sarebbe stato molto diverso? È lecito dubitarne, ma si
può anche ritenere che la fioritura intellettuale che contrassegnò il
secolo di Augusto sia stata molto legata alla personalità di quest'ultimo
e del suo amico Mecenate e che, senza l'episodio della fuga di Antonio,
non avremmo avuto né Virgilio né Orazio né tanti altri creatori che
hanno contrassegnato profondamente la nostra civiltà.
Ricordo di aver letto, molto tempo fa, un racconto di fantascienza
di cui ho dimenticato il titolo e l'autore. Se lo riferisco qui è in parte
per curiosità, per sapere se qualcun altro l'ha letto e può aiutarmi a
ritrovarlo. La storia comincia col ritratto di un professore di fisica che

2 Blaise Pascal, Pensées, in ffiuvres complètes, a cura di J. Chevalier, coli. « La Pléia­


de», Gallimard, Paris 1 9 5 4, frammento 1 80 [trad. P. Serini, Pensieri, Einaudi, Torino
1 962 , frammento 2 8 7 ] .
CA OS 81

vegeta in un laboratorio di second'ordine. Scontento della sua sorte, si


reca all'insaputa dei suoi colleghi, e quasi di se stesso, a consultare una
sorta di marabut, che lo sottopone a uno stringente interrogatorio, al
termine del quale gli annuncia che tutti i suoi fastidi finiranno se egli è
disposto a cambiare una lettera al suo cognome. Il professore ha un
cognome polacco - con una grande prevalenza delle consonanti sulle
vocali - che è assolutamente impronunciabile senza uno speciale adde­
stramento (la storia si svolge negli Stati Uniti). Vergognandosi un po'
della sua credulità, il professore ubbidisce, intraprende i passi necessari
e qualche mese dopo apprende di essere stato nominato a una cattedra
importante in un'università prestigiosa.
Il risvolto negativo della sua richiesta di modifica del cognome è che
proprio la lieve entità del mutamento richiama su di lui l'attenzione
della polizia. Sarebbe stato comprensibile che, afflitto da un cognome
simile, ne avesse scelto un altro, o vi avesse apportato qualche modifica
drastica. Ma cambiare una sola lettera, per passare da un nome impro­
nunciabile a uno che non lo era di meno, era una cosa tale da richia­
mare l'attenzione delle autorità competenti. La sua pratica viene infine
sottoposta al controspionaggio; qualcuno ha l'idea di andare a cercare i
suoi omonimi nell'Est e scopre negli schedari dell'organizzazione uno
specialista sovietico in un campo un po' ignorato della ricerca nucleare.
Si intraprendono allora ricerche sistematiche, dalle quali risulta che
tutti gli specialisti noti in quel campo sono scomparsi dalla circolazione
nel corso dell'anno, per essere senza dubbio avviati a lavorare in un
laboratorio clandestino. Un passo dopo l'altro viene messo in luce un
vasto sforzo militare dell'Vnione Sovietica, viene evitata una terza
guerra mondiale e infine, non sapendo che cosa fare del modesto ricer­
catore la cui richiesta di cambiamento di cognome ha messo in moto
tutto questo meccanismo, lo si estromette dal circuito militare propo­
nendogli un posto prestigioso in un laboratorio civile.
Il punto centrale della storia è la sua conclusione. Il marabut è in
realtà un extraterrestre. Egli ha vinto una scommessa con un suo simile:
ottenere un effetto di primaria importanza (come quello di evitare la
distruzione di un pianeta) attraverso un impulso di decimo ordine (il
cambiamento di una lettera nel cognome di un personaggio oscuro). Il
perdente prende atto con disappunto della sua sconfitta e propone al
suo avversario un « lascia o raddoppia»: saresti in grado di mettere in
atto il procedimento inverso e ottenere la distruzione del pianeta con
82 CAPITOLO QUARTO

un impulso di decimo ordine? La scommessa viene accettata, e la storia


finisce a questo punto.

Ciò che mostra questo apologo, e che è sottolineato dalla medita­


zione di Pasca!, è che modificazioni infime nello svolgimento normale
di un processo temporale possono avere conseguenze di grande impor­
tanza. Il fenomeno è ben noto in matematica, sotto il nome di instabi­
lità esponenziale. Si sa, per esempio, che in meteorologia l'ampiezza di
una perturbazione si raddoppia ogni tre giorni se niente viene a contra­
starne lo sviluppo. In linguaggio matematico, le equazioni che gover­
nano la circolazione atmosferica, e dalle quali dipende il tempo che fa,
hanno la proprietà dell'instabilità esponenziale. A una condizione ini­
ziale data, ossia a un certo st ato dell'atmosfera (pressione, temperatura,
umidità) alla superficie del globo, corrisponde un'evoluzione futura
perfettamente determinata, risultato di un calcolo che può essere
impossibile, ma in cui il caso non interviene affatto. Se ora si modifica
lievemente questa condizione iniziale, se per esempio una farfalla batte
le ali o se qualcuno accende una candela, questo mutamento infimo
avrà solo poche conseguenze nei primi istanti o nei primi giorni, tanto
che non si distinguerà gran che lo stato di prima dallo stato modificato
dell'atmosfera. Il mutamento ha però la vocazione ad amplificarsi col
tempo, a un ritmo esponenziale; se esso presenta un raddoppiamento
ogni tre giorni, si avrà in un mese una moltiplicazione per oltre mille,
in due mesi una moltiplicazione per più di un milione, e in un anno
una moltiplicazione per più di 2 x 1 0 16• È un valore enorme, il quale ci
dice che il battito d'ali di una farfalla o la fiamma di una candela pos­
sono effettivamente esser causa di un ciclone entro un anno, nel senso
che, come potrebbe testimoniare un'atmosfera in cui tutte le altre con­
dizioni fossero state eguali, se questa farfalla o questa candela non fos­
sero esistite, non ci sarebbe stato quel ciclone.
Ciò non significa beninteso che non ci si deve fidare delle farfalle, o
che le candele nuocciono all'ambiente. Il normale futuro di una pertur­
bazione è quello di essere compensata da altre. È molto probabile che
il lieve soffio creato dalle ali di una farfalla o dalla fiamma di una can­
dela finisca col diluirsi fra la miriade di altri lievi spostamenti d'aria che
agitano in ogni istante l'atmosfera. Ma le perturbazioni possono a volte
combinarsi e, se si trovano riunite le circostanze favorevoli, il minimo
alito d'aria sarà sufficiente a innescare nell'atmosfera un processo evo-
CAOS 83

lutivo complesso il cui termine lontano sarà un ciclone o qualche altra


grande catastrofe, nello stesso modo in cui una roccia in equilibrio
instabile può esser fatta precipitare con una minima spinta. Ciò signi­
fica che, se si vuoi prevedere ciò che accadrà, se si vuoi predire che
tempo farà l'anno prossimo lo stesso giorno a Parigi, si deve davvero
tener conto di tutto, persino delle farfalle che volano nelle foreste
amazzoniche, persino dei ceri che ardono nelle chiese. La conseguenza
pratica è che ciò non è possibile: come raccogliere, e come trattare, una
tale quantità di osservazioni? Ecco perché la scienza della meteorolo­
gia, pur disponendo dei computer più potenti che si sappiano costruire,
è incapace di predire il tempo a lunghissima scadenza.
Tutte queste idee sono oggi molto di moda, ma le si può far risalire,
come molte altre, a John von Neumann. Importante consigliere scien­
tifico del governo americano durante la seconda guerra mondiale,
aveva molto riflettuto sulle possibilità dei calcolatori elettronici, i cui
primi esemplari furono costruiti a Los Alamos sotto la sua direzione.
Uno dei principali problemi strategici è quello di prevedere corretta­
mente il tempo - si sa quanto sia stato cruciale questo problema in
relazione al lancio dell'operazione Overlord -, e ben presto si fece
ricorso alle nuove possibilità del calcolo automatico. Von Neumann si
rese rapidamente conto dei limiti di questo approccio, e comprese che
la sensibilità delle equazioni rispetto alle condizioni iniziali avrebbe
impedito ogni previsione esatta a lungo termine. Ma la sua genialità gli
permise di trame anche un'altra conclusione, molto più originale: ossia
che questa stessa instabilità avrebbe forse permesso di guidare il tempo.
Dopo tutto, se un battito d'ali di una farfalla o una fiamma di candela
possono avere ripercussioni così grandi, perché non provocare tali
ripercussioni a ragion veduta? Forse è più facile pilotare il tempo che
preveder! o.
Quando si guida un'automobile, si può mettere in evidenza un'in­
stabilità analoga. Perché appaia è sufficiente lasciare il volante: si vede
allora la traiettoria della macchina incurvarsi, dapprima leggermente,
poi in modo sempre più deciso, finché la vettura non esce di strada o
non fa un testa-coda. È proprio per tale motivo che basta un dito per
guidare una vettura di una tonnellata e più. Purtroppo, per l'atmosfera
non c'è un meccanismo che permetta di controllarne l'instabilità in
modo così diretto. L'effetto di una piccola perturbazione si fa sentire
solo dopo parecchio tempo, un anno se si scende alla scala del battito
84 CAPITOLO Q UARTO

d'ali di una farfalla. Se si vogliono ottenere effetti più direttamente


osservabili, e quindi meglio controllabili, si devono infliggere all'atmo­
sfera perturbazioni molto maggiori, dell'ordine di un'esplosione ter­
monucleare. Rinviamo il lettore alle avventure di Blake e Mortimer in
S OS Météores, perché ritrovi attraverso i meravigliosi disegni di Edgar
P. Jacobs l'antica linea di Sceaux e i suoi dintorni sommersi dalla piog­
gia e perché veda quali energie colossali il professor Miloch avesse
dovuto padroneggiare per controllare il tempo. Noi siamo ancora ben
lontani da una tale tecnologia.
Notiamo, per concludere, che tutti questi fenomeni dipendono dalla
scala a cui ci si colloca. Alla scala di un anno, l'instabilità esponenziale
si traduce nell'impossibilità di predire il tempo. Nessùn calcolo sarà
mai abbastanza preciso per dirci se l'anno prossimo, lo stesso giorno,
pioverà o no a Parigi. Se ci si pone a una scala più modesta non si ha
più questo problema, e si può predire con un discreto successo che
tempo farà domani, né c'è bisogno di essere grandi esperti per indovi­
nare che tempo farà tra un minuto o addirittura tra un'ora. Per contro,
se ci si colloca a una scala maggiore, quella del millennio, il tempo cede
il posto al clima, e l'instabilità esponenziale ci appare sotto un'altra
luce. A questa scala, in effetti, non si tratta più di predire il tempo, bensì
di rilevare certe regolarità che i geografi classificano e studiano sotto il
nome di clima. Clima oceanico o continentale, temperato o tropicale,
equatoriale o polare: questi termini ci sono familiari e noi non abbiamo
mai pensato di mettere in discussione l'esistenza di queste grandi regola­
rità, che riconducono grosso modo le stesse condizioni alle stesse epo­
che. Quando il tempo sembra discostarsi dalla norma, quando si succe­
dono vari anni più caldi e più secchi del solito, è il clima che si è modifi­
cato, e le cause di queste variazioni devono essere ricercate in qualche
agente esterno, come l'inquinamento atmosferico o la bomba atomica.
E tuttavia, perché mai dovremmo attenderci alla scala di qualche
millennio una regolarità che non si osserva alla scala del giorno o del­
l'anno? Nel corso di una stessa stagione si succedono giorni sereni e
nuvolosi, secchi e piovosi. Non è ragionevole pensare che dovrebbe
essere la stessa cosa a tutte le scale, e che a periodi freddi dovrebbero
succedere naturalmente periodi caldi, senza che ci sia bisogno di far
ricorso a qualche agente esterno per spiegarli? Si devono davvero invo­
care i cicli solari per spiegare le epoche glaciali, oppure queste possono
essere semplicemente il risultato dell'evoluzione interna di un sistema
CAOS 85

esponenzialmente instabile? La nozione stessa di clima ha un senso


oltre la durata di qualche secolo? Perché ostinarsi a vedere una regola­
rità là dove manifestamente non c'è, e cercare sempre di spiegare
deviazioni rispetto a una norma che esiste solo nella nostra mente?
Ecco dunque questo pianeta così singolare, come lo vedono gli
astronauti, ossia come un gioiello azzurro sospeso in un cielo d'ebano.
Alla sua superficie si osserva il bianco gioco delle nubi, portatrici di
pioggia e testimoni delle correnti atmosferiche. Questa Terra è unica
sotto più di un aspetto, e particolarmente perché noi non possiamo far
altro che seguire questo perpetuo balletto, senza poterne predire con
molto anticipo le figure. Alla scala geologica, vediamo variare il livello
degli oceani e spostarsi in modo aleatorio la fronte dei ghiacciai. E tut­
tavia, paradossalmente, questa imprevedibilità quasi completa si ac­
compagna a una grande stabilità strutturale. Un anno dopo l'altro,
anche se qualche volta si fa attendere, il monsone torna a bagnare le
coste dell'Asia, dall'India alla Cina. L'anticiclone delle Azzorre si spo­
sta a seconda delle stagioni e degli anni, ma non scompare mai: noi
sappiamo che in ogni momento troveremo un grande anticiclone al
largo di Gibilterra.
Se il Creatore offrisse al nostro sguardo un'altra Terra, costruita
secondo le stesse regole di questa, vedremmo svolgersi uno spettacolo
del tutto simile a quello che osserviamo quaggiù. Certo, su di essa il
tempo non sarebbe più prevedibile che sul nostro pianeta, e la succes­
sione dei climi non vi sarebbe meno irregolare, ma lo spettacolo osser­
vabile ci sarebbe in ogni istante familiare. Una bella giornata su tale
pianeta assomiglierebbe in tutto e per tutto a una bella giornata sulla
Terra. Ritroveremmo anche su di esso la successione delle stagioni, col
loro corteggio di eventi atmosferici, il monsone in Asia e l'anticiclone
delle Azzorre nell'Atlantico, a condizione ovviamente che la distribu­
zione dei continenti fosse press'a poco la stessa. In altri termini, condi­
zioni geografiche simili produrranno effetti climatici simili, mentre
non è vero che condizioni geografiche simili a un dato istante produr­
ranno condizioni atmosferiche simili un anno dopo. L'instabilità espo­
nenziale impedisce ogni previsione quantitativa a lungo termine, ma
non esclude previsioni di ordine qualitativo, anche a scadenze molto
remote.

Il lettore giudicherà forse che io mi stia estasiando per ben poco.


86 CAPITOLO QUARTO

Non occorre certo essere grandi scienziati per rendersi conto che l'at­
mosfera è un sistema di estrema complessità, in cui regioni molto lon­
tane fra loro o di altitudine molto diversa finiscono con l'influenzarsi
reciprocamente. A ciò si aggiunge l'influenza della superficie terrestre e
del vuoto interplanetario, con i quali l'atmosfera è in contatto perma­
nente. Che cosa c'è di sorprendente nel fatto che un sistema così com­
plicato abbia un comportamento complesso? Il carattere aleatorio di
ogni previsione deriverebbe semplicemente dall'impossibilità di padro­
neggiare tutti i parametri significativi.
Ma non è affatto così. Non è la complicazione del sistema la causa
dell'imprevedibilità del suo comportamento: esistono sistemi molto
semplici il cui comportamento è altrettanto complesso. Il grande
merito del meteorologo Edward Lorenz è stato in effetti quello di aver
ricondotto la moltitudine delle equazioni che governano l'evoluzione
dell'atmosfera a tre sole, e di aver mostrato che il modello ridotto con­
servava la complessità quasi infinita dell'originale.
L'instabilità esponenziale e la difficoltà di predire quale ne sarà la
conseguenza sono dunque fenomeni correnti, che si manifestano in
situazioni molto varie, nelle più semplici come nelle più complesse. Per
comprendere bene tale instabilità, è meglio tuttavia studiarla su un esem­
pio semplice. Abbandoneremo temporaneamente la meteorologia, con le
sue migliaia di variabili legate da equazioni differenziali, per occuparci di
sistemi descritti da una sola variabile x. Basterà dunque, per definire
completamente lo stato del sistema, un solo numero: il valore assunto
dalla variabile di stato nell'istante considerato.
Per continuare il nostro sforzo di semplificazione, supporremo che
il tempo sia discreto, ossia che la variabile tempo non possa assumere
che valori interi n = l , 2 , 3 , . . . , indicando il valore n = O l'istante iniziale,
e i valori -negativi n = - l , - 2, - 3 , . . . istanti passati più o meno lontani.
L'evoluzione del sistema nel corso del tempo è dunque completamente
descritta dalla sequenza x. dei valori che la variabile di stato x assume
in tutti gli istanti n del passato (n < O) e del futuro (n > 0), sequenza che
è dunque doppiamente infinita in quanto l'indice n assume tutti i valori
interi positivi e negativi. Un sistema è deterministico se lo stato x . all'i­
stante n è legato allo stato precedente x . _ , da una relazione del tipo
x =
.
f(x . _ ).
La funzione f è la legge del sistema. La sua sola presenza garantisce
CAOS 87

che tutta la storia del sistema e tutto il suo futuro sono inscritti nello
stato iniziale x 0 • In effetti, una semplice applicazione della formula
precedente dà successivamente x 1 =f(x 0), e poi

"
e così via, secondo la formula generale x. =f (x0). Si dice che x. è
l'n -esimo iterato di x 0 •
Questi modelli a una sola variabile di stato e a tempo discreto, per
semplicistici che possano apparire, non riproducono tuttavia meno
bene fenomeni che si sarebbero potuti credere propri dei modelli a più
variabili di stato e a tempo continuo. Fra tali fenomeni c'è l'instabilità
esponenziale. Confrontiamo per esempio i due sistemi
x. = x._ , + 1 0,
x. = l O x x._ , .
Essi conducono alle due formule esplicite

x. = x 0 + n x l 0
"
x. = x0 x l 0 ,
che danno lo stato nell'istante n in funzione dello stato iniziale e che
manifestano due comportamenti molto diversi per due sistemi entrambi
perfettamente deterministici.
Nel primo caso si passa da uno stato al seguente aggiungendo una
quantità fissa alla variabile descrittiva. Un tale sistema perpetua indefi­
nitamente la precisione delle osservazioni. Se, per esempio, è stato
compiuto un errore di 0,00 1 nella determinazione dello stato iniziale,
sarà questo stesso errore a incidere sugli stati successivi, per quanto
lontano ci si spinga nel futuro o si risalga nel passato. La formula espli­
cita x. = x 0 + l On mostra che l'errore compiuto nella misurazione di x 0 si
ripercuote su x. senza riduzione né amplificazione. Per contro, nel se­
"
condo caso, la formula esplicita x. = l 0 x 0 mostra che a ogni iterazione
gli errori si moltiplicano per 1 0, e vengono quindi amplificati molto ra­
pidamente nel corso del tempo. Un errore di 0,00 1 nel valore iniziale
x 0 diventa un errore di l già alla terza iterazione, di l 000 alla sesta, di
wn-l all'n-esima.
Un modo per farsi un'idea visiva di questa situazione consiste nel­
l'immaginare che la variabile di stato x rappresenti la posizione di un
punto su una circonferenza, misurata in numero di giri a partire da una
88 CAPITOLO Q UARTO

posizione di riferimento A . Così il valore x = O della variabile di stato


significa che il punto rappresentativo M si trova in A. Il valore x = 1 14
significa che si trova M compiendo un quarto di giro in senso positivo
(ossia in senso antiorario) a partire da A, x = 1 12 rappresenta il punto
diametralmente opposto ad A sulla circonferenza, e x = l dà nuova­
mente il punto A. È importante notare che due valori di x che differi­
scono di l corrispondono a posizioni separate da un giro completo,
ossia rappresentano di fatto lo stesso punto sulla circonferenza.
Le due leggi deterministiche che abbiamo presentato si manifestano
quindi per mezzo di comportamenti assai diversi. Con la prima,
x " = x " _ , + 1 0, il punto rappresentativo M rimane fisso: lo si sposta di
dieci giri completi a ogni iterazione, cosicché lo si ritrova perpetua­
mente nella stessa posizione. Questa legge non è dunque altro che un
modo complicato di descrivere l'immobilità: il punto rappresentativo
del sistema rimane dove si trovava all'inizio. È ovvio che un errore di
localizzazione, o un piccolo spostamento rispetto al punto iniziale, si
ritrovano immutati in ogni istante.
Non vale la stessa cosa per il secondo sistema. La legge adottata si
traduce ora in uno spostamento effettivo del punto rappresentativo:
spostamento che dipende a un tempo dalla posizione iniziale e dal­
l'istante considerato. Un punto situato all'inizio in A (x0 = O) vi rimarrà
indefinitamente (x " = 0). Se, al contrario, si prende l'avvio dal punto B,
diametralmente opposto ad A sulla circonferenza (x 0 = l /2), ci si ritro­
verà in A già alla prima iterazione, e vi si resterà (x " = 1 0 "/2 è un
numero intero, dato che n > l). In generale, se il valore x 0 ha uno svi­
luppo decimale finito, ossia se si scrive x0 = a 0 ,a 1a 1a 3 a N OOO . . . , tutte le
•••

cifre dopo a N essendo zeri, allora il punto rappresentativo M si ritro­


verà in A dopo l'N-esima iterazione, per non spostarsene più.
Per contro, se il valore iniziale x 0 richiede uno sviluppo decimale
infinito, il movimento sarà molto più complicato. Per l'esattezza, se la
posizione iniziale è data da x 0 = a 0 ,a 1 a 1a 3 , con un numero infinito di
• • •

cifre dopo la virgola, la posizione nell'istante n sarà ottenuta spostando


la virgola di n posti verso destra. Così, alla prima iterazione si ottiene
x 1 = a� "a 1a 3a4 ; si possono, beninteso, ignorare le due cifre davanti
•••

alla virgola, che corrispondono a un numero intero di giri e non influi­


scono quindi sulla posizione. Questa è determinata dalle cifre restanti,
cioè dal numero O,a 1a 3 a4 Similmente, la posizione nell'istante n sarà
• • •

data da x " = O,a " . 'a " .2 ; l'indicazione più importante è data da a " . " che
• • •
CAOS 89

determina la poslZlone sulla circonferenza con l'approssimazione di


1 / 1 0. Da questo punto di vista, il nostro sistema funziona come una
lente, o piuttosto come un microscopio, che, a ingrandimenti diversi,
rivela particolari sempre più minuti.
Ogni osservazione supplementare rivela un decimale in più. La
posizione iniziale è data essenzialmente da a " la prima cifra dopo la
virgola; ma con l'osservazione seguente questa cifra non ha più alcuna
importanza e diventa preponderante a r A ogni tappa, per avere un'idea
della posizione del punto rappresentativo, si devono andare a cercare
cifre sempre più lontane dalla virgola in x0: per conoscere lo stato del
sistema nell'istante n occorre conoscere lo stato iniziale x0 fino a (n + l )
cifre dopo la virgola.
La conseguenza immediata è che, se si vuoi essere in grado di pre­
dire tutta l'evoluzione futura del sistema, si devono conoscere tutte le
cifre dopo la virgola : una prospettiva decisamente irrealistica. Il mate­
matico non ha alcuna difficoltà a scrivere di porre un punto di ascissa
112, o 2, o Jt; è un'operazione puramente intellettuale, un'astrazione
geometrica, nella quale si manipolano punti immateriali, senza forma
né spessore. Nella realtà la precisione delle osservazioni non può però
essere illimitata. Un modello matematico come quello che abbiamo
proposto non ha dunque più significato fisico al di sotto di una certa
scala o al di là di una certa durata; il comportamento a lungo termine è
determinato allora da fluttuazioni che si situano al di fuori del modello
considerato.
Peggio ancora, pur potendo seguire per qualche tempo il sistema,
si osserva una progressiva perdita di precisione. Se nell'istante iniziale
t = O si conosce lo stato del sistema fino a N decimali, non se ne cono­
sceranno più di N- 1 nell'istante seguente t = l , e di N - n nell'istante
t = n, fino a perdere ogni informazione nell'istante t = N. In altri termi­
ni, a ogni tappa gli errori si moltiplicano per 1 0, fino ad annullare l'in­
tera informazione di cui si è provvisti inizialmente. È questa l'instabi­
lità esponenziale. Per un sistema che abbia questa proprietà, sia esso
unidimensionale e semplice come quello che abbiamo descritto, o mul­
tidimensionale e complesso come l'atmosfera, la dinamica agisce come
un rivelatore: essa svela man mano tutta l'informazione che è conte­
nuta nelle condizioni iniziali e che è inaccessibile a un'osservazione
diretta in conseguenza della precisione inevitabilmente limitata delle
nostre misurazioni. Nel caso elementare da noi trattato, l'n-esima osser-
90 CAPITOLO QUARTO

vazione rivela l'(n + I )-esimo decimale della posizione iniziale. Nel caso
della meteorologia, il tempo che osserveremo fra un anno rivelerà
informazioni sullo stato dell'atmosfera oggi, informazioni che si si­
tuano a una scala troppo fine perché possiamo osservarle direttamente.
Si può adottare anche un altro punto di vista, e ritenere che ogni
informazione sia necessariamente finita, e che sia vano per esempio
cercare di conoscere con più di dodici cifre significative quale sia il
limite attuale di precisione delle costanti fisiche. A quel punto non
si ha più rivelazione, bensì in verità creazione d'informazione. Se si
possono conoscere soltanto i primi dodici decimali dello stato iniziale,
x 0 = O,a 1 a r .. a 12 , la dodicesima osservazione x 1 2 = O,a 1 3 a 24 apporta un'in­
• • •

formazione realmente nuova. Similmente, sarebbe molto difficile, se


non addirittura impossibile, e assai poco interessante, estrarre dalle
condizioni meteorologiche che prevarranno fra un anno le informa­
zioni che ci mancano sullo stato dell'atmosfera oggi. È meglio pensare
che si abbia creazione d'informazione col passare del tempo.
A seconda del punto di vista in cui ci si colloca, si ha dunque rivela­
zione o creazione di informazione. Nell'uno come nell'altro caso,
manca un'informazione essenziale riguardo all'evoluzione futura del
sistema. Si può ritenere che questa mancanza sia dovuta a una nostra
insufficienza - nel qual caso si avrebbe rivelazione di un'informazione
latente -, o al contrario che essa sia nella natura delle cose: in questo
caso il dodicesimo decimale che emerge in ogni nuova osservazione
sarebbe una creazione ex nihilo. Si può opportunamente esprimere que­
sto stato di cose dicendo che l'evoluzione futura del sistema dipende
dal suo stato, quale lo constatiamo oggi, e dal caso.
Noi gettiamo così il velo del caso sulle informazioni che rinunciamo
a conoscere. Nella prima interpretazione si tratta di un caso relativo,
umano, come per il giocatore che non può controllare sufficientemente
i suoi dadi per far uscire il totale che desidera. Nella seconda si tratta di
un caso essenziale, naturale, come quello che riconosciamo nella mec­
canica quantistica. Ma si abbia creazione o semplice rivelazione d'in­
formazione, si pone sempre lo stesso interrogativo: a quale ritmo? È
questo ritmo che misura l'entropia del sistema.
Il concetto di entropia ha conosciuto molte vicissitudini. Mi riferirò
qui alle idee di Shannon e di Kolmogorov, ossia adotterò il punto di
vista della teoria dell'informazione e dei sistemi dinamici e non mi
lascerò andare ad alcuna interpretazione in termini di ordine o di
CA OS 91

disordine. L'entropia di un sistema dinamico è per noi un numero che


misura la velocità con la quale esso crea (o rivela) informazione.
Per un sistema unidimensionale su una circonferenza, come i due
precedenti, la conoscenza di un decimale supplementare permette di
localizzare il punto in questione con una precisione dieci volte maggio­
re, nel senso che, fra tutti i punti il cui sviluppo decimale comincia con
O,a 1 a 2 aN, solo una parte pari a 1 1 1 0 ammette come (N+ 1 )-esimo
•••

decimale una cifra data, per esempio 3 . In altri termini, i numeri il cui
sviluppo decimale comincia con O,a 1 a r .. aN occupano un piccolo inter­
vallo, diviso in dieci sottointervalli uguali corrispondenti alle dieci pos­
sibilità per aN+ l; dire che !'(N+ 1 )-esimo decimale è un 3 elimina nove
di questi dieci sottointervalli . Così la rivelazione dei decimali successivi
divide ogni volta per l O il campo delle possibilità. Si converrà che que­
sto guadagno di un fattore l O corrisponda a un'entropia di l . La rivela­
zione di due decimali supplementari corrisponde a un guadagno di un
fattore 1 00 = 1 02, e quindi a un'entropia di 2. Per contro lo status quo,
ossia il fattore di guadagno l = 1 0°, corrisponde a un'entropia O.
L'entropia di un sistema misura il guadagno medio di precisione
apportato da ogni nuova osservazione. Così, per il nostro primo siste­
ma, x. = x._ , + 1 0, per il quale abbiamo già osservato che corrisponde al­
l'immobilità pura e semplice, l'entropia è O, cosa che significa che una
nuova osservazione non apporta alcuna informazione supplementare.
Ma per il secondo sistema, x. = 1 0 x x • - " ogni nuova osservazione
apporta un decimale supplementare: l'entropia di questo sistema vale
dunque l .
Per sistemi pluridimensionali, la situazione è complicata dal fatto
che essi possono presentare simultaneamente fenomeni di stabilità e di
instabilità esponenziale. Spieghiamoci meglio.
Vediamo innanzitutto come sarebbe un sistema unidimensionale
descritto dalla legge x. = x. _/ 1 0 sulla circonferenza. A ogni tappa, la
variabile di stato (numero di giri a partire da A) è divisa per l O, cosa
che la fa tendere rapidamente a zero, cosicché si finisce col ritrovarsi
sempre al punto A, corrispondente allo stato x = O. Questo punto è
quello che si chiama un attrattore. Quale che sia la posizione di par­
tenza M0 scelta, al passare del tempo il punto rappresentativo M.
all'istante n tende ineluttabilmente verso A. È un fenomeno di stabilità
(e non più d'instabilità) esponenziale, che corrisponde a una perdita (e
non più a un guadagno) d'informazione: poco importa da dove si sia
92 CAPITOLO QUARTO

partiti, si finirà sempre per ritrovarsi al punto A. Ogni informazione


sulla posizione iniziale si rivela a lungo termine ridondante.
Si può facilmente mettere in evidenza questo fenomeno in un
sistema pluridimensionale. Immaginiamo, per esempio, che l'insieme
rappresentativo sia un cerchio. In altri termini, a ogni punto M del cer­
chio corrisponde uno stato del sistema: si ha dunque a che fare con un
sistema di dimensione 2 . Come nel caso unidimensionale, si specifica
poi la legge che definisce la successione degli stati. Qui converremo
che, se nell'istante n !o stato è nel punto M" , nell'istante (n + l) esso sarà
nel punto di mezzo M" + ' del segmento OM" , essendo O il centro del cer­
chio. Formalmente, la legge del sistema si scriverà OMn+ l = OM/2 , che è
l'analogo bidimensionale delle leggi che abbiamo scritto finora. Il com­
portamento del sistema è facile da descrivere: quale che sia il punto di
partenza M0 , al passare del tempo, ossia al crescere di n, il punto rap­
presentativo M" si approssima indefinitamente al centro O . Si esprime
questo fatto dicendo che O è un attrattore per il sistema.
È facile costruire in modo analogo un attrattore per un sistema di
dimensione 3 : basta prendere quello che i geometri chiamano un toro,
ossia un solido in forma di camera d'aria per pneumatici, un anello cir­
colare pieno, e comprimerlo attorno alla sua « anima ». Più precisamen­
te, il toro ha un asse di simmetria (il mozzo della ruota), e le sezioni
con piani che passano per quest'asse sono cerchi. I centri di questi cer­
chi descrivono una circonferenza, simmetrica rispetto all'asse: è quella
che chiamiamo l'anima del toro. Contraendo, come illustrato nella
scheda 2, ognuno di questi cerchi attorno al suo centro, si definisce una
legge deterministica per l'intero toro, che si trova così a essere com­
presso attorno alla sua anima. Questa viene dunque a essere un attrat­
tore per il sistema tridimensionale così costruito: il punto rappresenta­
tivo M" converge verso la proiezione del punto iniziale M0 sull'anima
del toro. L'attrattore è un po' più complesso che nel caso precedente,
essendo una curva anziché un punto, e questa complessità si ritrova nel
movimento, poiché lo stato finale verso cui tende il sistema dipende
dallo stato iniziale: a due punti di partenza diversi corrispondono due
proiezioni diverse sull'anima del toro.
Abbiamo quindi visto esempi di sistemi instabili e di sistemi stabili,
con proprietà assai diverse. Ma uno fra gli aspetti più affascinanti dei
sistemi pluridimensionali è che essi possono presentare simultanea­
mente queste due proprietà, per quanto contraddittorie. In effetti,
CAOS 93

SCHEDA 2 Un attrattore semplice nel toro

Anima
Sezione

Il toro è un solido pieno costruito attorno a una circonferenza (l'anima del toro)
e le cui sezioni trasversali sono cerchi .
Contrazione di u n a sezione d e l toro:

Prima iterazione Seconda iterazione Attrattore

essendo disponibili varie dimensioni, si possono immaginare leggi


deterministiche che conducano a una dilatazione in certe direzioni e a
una contrazione in altre. Si può pervenire in questo modo a costruzioni
geometriche spettacolari, di cui è stato l'iniziatore Stephen Smale. Gli
siamo particolarmente debitori dell'esempio che descriverò qui di
seguito, e che ci aprirà la porta del regno misterioso degli attrattori
strani.
94 CAPITOLO Q UARTO

Riprendiamo il toro di poco fa e contraiamolo attorno alla sua ani­


ma, come abbiamo appena fatto. Questa volta gli faremo però subire
una trasformazione supplementare: lo stireremo e lo avvolgeremo su se
stesso. Ne risulterà non più un toro bensì un anello tortile, che si
avvolge due volte attorno all'anima del toro originale, e che occupa un
volume più ridotto di questo.
I punti del toro rappresentano sempre gli stati del sistema. Se M è
uno di tali stati, scriveremo f(M) il punto che gli corrisponde nella tra­
sformazione che abbiamo ora indicato; si tratta di un punto del doppio
anello, e quindi di un punto del toro giacché l'uno è contenuto nell'altro.
L'evoluzione del sistema è governata dalla successione M.+ 1 = g(M.),
che è l'esatto analogo delle leggi in cui ci siamo imbattuti finora. Que­
sta volta, però, il comportamento del sistema è molto più complicato.
A ogni tappa l'insieme degli stati è stirato nella direzione longitudinale
(quella dell'anima del toro) e contratto nelle due direzioni trasversali
(quelle delle sezioni) . Una prima conseguenza è che il punto rappre­
sentativo M. non si accontenterà più di restarsene in una stessa sezione
trasversale, ma girerà attorno al toro. Soprattutto, però, i due effetti si
combinano per imporre un attrattore che non è più né un punto né una
curva, ma qualcosa di molto più complicato, che seguendo la termino­
logia di Benoit Mandelbrot chiameremo un frattale.
Per vedere quest'attrattore cerchiamo di seguire non più un punto,
bensì il toro tutto intero (cfr. scheda 3). La prima manifestazione del­
l'attrattore, ottenuta nella prima tappa, è il doppio anello torrile. Nella
tappa seguente, ciascuno dei suoi anelli si sdoppia e si ottiene un qua­
druplo anello tortile contenuto nel doppio anello, che è a sua volta
incluso nel toro iniziale (l'anello semplice). Di tappa in tappa si passa a
otto, sedici, trentadue giri, passando successivamente per tutte le po­
tenze del 2 . Si ottiene così una sequenza infinita di anelli tortili inclusi
l'uno nell'altro e sempre più fini, i quali ricordano la meticolosità con
cui uno scultore lavora un blocco di marmo per ricavarne i particolari
più minuti di una statua. Al termine di tutto questo procedimento non
troveremo un qualche soggetto maestoso o tormentato, bensì un
oggetto abbastanza complicato da aver meritato il nome di attrattore
strano.
Per farcene un'idea possiamo ovviamente rappresentarci un anello
intrecciato, composto da un'infinità di anelli avvolti nel toro iniziale.
Questa è senza dubbio un'immagine esatta, la quale però non esaurisce
CAOS 95

SCHEDA 3 L 'attrattore di Smale nel toro

La legge deterministica che è all'origine dell'attrattore di Smale è la seguente:

Stiramento, restringimento
con perdita di volume

Doppia ripiegatura

Ritorno nel toro iniziale

Si costruiscono così successivamente tori sempre più sottili, che si avvolgono


due, quattro, otto, sedici, 2 " volte nel toro iniziale. Ognuno di essi è un'appros­
simazione dell'attrattore di Smale. L'approssimazione è tanto migliore quanto
più n è grande, ossia quanto più il nostro potere di risoluzione è elevato. L'at­
trattore è un limite, corrispondente a una risoluzione infinita.
96 CAPITOLO QUARTO

Il collare d'oro di Àl leberg, formato a prima vista da tre tori giustapposti, pre­
senta a un esame più minuzioso un intreccio di tori più fini e tutta una fauna
esuberante. La tecnica prodigiosa manifestata dall'artista - filigrana, granulazio­
ne, sbalzo, stampaggio - gli consente di realizzare solo un'approssimazione,
preziosa ma imperfetta, del vero oggetto che ha in mente e che, per la finezza e
la varietà dei suoi dettagli, non è realizzabile da mano umana.
CAOS 97

tutta la ricchezza della struttura di un attrattore strano. Ciò che impor­


ta, qui, è il ritmo binario. È facile rappresentare l'attrattore a un livello
di precisione dato, per esempio facendo calcolare a un computer i tra­
sformati successivi di un punto qualsiasi. La scelta del punto iniziale
non ha molta importanza; dopo una fase transitoria, i suoi trasformati
si ritroveranno sull'attrattore. Portando su un grafico le loro posizioni
successive, si vede prender forma una nube i cui contorni, precisandosi
gradualmente, disegnano una rete di tubi capillari che vanno avvolgen­
dosi attorno al toro. Se però si passa a un ingrandimento maggiore,
aumentando per esempio la precisione dei calcoli, si avrà la sorpresa di
vedere ognuno di questi capillari sdoppiarsi in due tubi più fini, che
solo l'imprecisione delle osservazioni aveva potuto far credere costi­
tuissero un tubo solo. È in questa rete complessa che circolano i punti
M, rappresentativi dello stato del sistema.
Cerchiamo di capire bene questo paradosso. Tutti i punti del toro
rappresentano stati potenziali del sistema, e ognuno di essi può essere
scelto come punto iniziale. L'evoluzione naturale del sistema, però, fa
sì che dopo una breve fase transitoria esso si confini in una regione
molto più piccola, come al centro della tela di un ragno, e che quindi la
maggior parte di questi stati potenziali non siano mai osservati.
Ecco dunque l'attrattore di Smale, che potrà forse sembrare al let­
tore una costruzione un po' artificiale. Ma anche le equazioni della
meteorologia contengono il loro attrattore strano, come ha mostrato in
un articolo famoso Edward Lorenz.1 L'attrattore di Lorenz non ha
esattamente la stessa struttura dell'attrattore di Smale; quest'ultimo era
un oggetto intermedio fra una curva e una superficie, mentre l'attrattore
di Lorenz è intermedio fra una superficie e un volume (cfr. scheda 4).
Per darne un'idea, immaginiamo un libro i cui fogli siano numerati
su una faccia sola, come ai primordi dell'arte della stampa. Immagi­
niamo inoltre che a questo libro vengano strappati tutti i fogli tranne
quelli il cui numero contenga solo le cifre 2, 3 , 4, 6, 7 e 8 (dopo que­
st'operazione, il libro non conterrà più fogli nella cui numerazione
compaiano le cifre O, l , 5 e 9) . Per un libro di dieci fogli (numerazione
a una sola cifra), si salvano i fogli 2 , 3 , 4, 6, 7 e 8 (ossia sei fogli su die­
ci). Per il caso di un libro di cento fogli (numerazione a due cifre: sup-

3 [Cfr. E. N. Lorenz, Deterministic Nonperiodic Flow, ]. Atmos. Sci., vol. 20, 1 3 0-4 1
( 1 963)] .
98 CAPITOLO QUARTO

scHEDA 4 L 'attrattore di Lorenz

Questo disegno rappresenta una traiettoria tipica, in tre dimensioni, del sistema
di Lorenz:
dx dz - cz + .xy.
dt
= - ax + ay _Qy = bx - y - xz dt=
dt

La traiettoria, uscita dal punto O, descrive curve divergenti attorno al punto A,


lo abbandona per andare a ruotare attorno al punto B, torna poi attorno ad A,
quindi di nuovo attorno a B, e così via indefinitamente. Si osserva dunque una
successione infinita di oscillazioni la cui alternanza sembra aleatoria,
essendo il numero di tori descritti ogni volta estremamente variabile. Se si lascia
proseguire il movimento, la traiettoria, accumulandosi, finisce col disegnare un
oggetto stratificato, intermedio fra una superficie e un volume: l'attrattore di
Lorenz.
Troviamo una rappresentazione molto semplificata di questo movimento
sulla pietra incisa di Vallstenarum, nell'isola di Gotland. Essa rappresenta una
sorta di labirinto, la cui pianta generale ricorda un quadrifoglio: le quattro
foglie vengono esplorate una dopo l'altra. Il sistema di Lorenz comprende
invece un'infinità di foglie, unite tutte allo stesso stelo. Esse sono raccolte in
mazzolini, ognuno dei quali dà l'impressione di costituire una sola foglia, ma la
complessità della struttura sottostante è rivelata dal comportamento caotico
delle traiettorie, costrette a seguire una dopo l'altra ogni foglia, e quindi a oscil­
lare in modo imprevedibile da un mazzolino all'altro.
CAOS 99

poniamo che i numeri fino a 9 siano preceduti da uno zero) restereb­


bero due gruppi distinti, formati dai fogli da 2 2 a 48 e da 62 a 88.
Ognuno di questi due gruppi comprende in verità non ventisette
fogli bensì diciotto, giacché se ne devono ancora togliere i fogli conte­
nenti le cifre «proibite >>; dal primo gruppo, per esempio, si devono
infatti ancora togliere i fogli 2 5 , 29, 3 0, 3 1 , 3 5, 39, 40, 41 e 45 . Per un
libro di mille fogli (numerazione a tre cifre), ottenuto per esempio sud­
dividendo ogni foglio del libro precedente in dieci fogli più sottili, si
vedono apparire delle lacune in questi gruppi omogenei. Al posto del
foglio 22 dovremmo avere dieci fogli numerati da 2 2 0 a 2 2 9, ma
100 CAPITOLO QUARTO

ne mancano quattro: i fogli 2 2 0, 2 2 1 , 2 2 5 e 229. In effetti, tra i fogli


2 2 2 e 2 48 si vedrà riformarsi un nuovo gruppo di diciotto fogli, del
tutto analogo a quello che abbiamo osservato alla scala superiore.
Si osserverà che la frazione di fogli restanti viene moltiplicata per
6/ 1 0 a ogni tappa; dal 60 per cento per un libro di dieci fogli si passa al
3 6 per cento per un libro di cento fogli e al 2 1 ,6 per cento per un libro
di mille fogli, ossia il libro si dirada sempre più. Al limite, ci si deve
rappresentare un libro avente un'infinità di fogli infinitamente sottili,
sempre contenuto nella rilegatura iniziale. La grandissima maggioranza
dei fogli sono stati strappati, poiché la frazione di fogli intatti tende a
zero, ma ne rimangono ancora un'infinità, che continuano a presentarsi
in gruppi di diciotto. Più esattamente, ogni foglio del libro è esso
stesso un libro, riproduzione fedele dell'originale. E ogni foglio di
ognuno di questi volumi che appaiono in numero incalcolabile è esso
stesso un libro costruito sullo stesso modello.4
L'attrattore di Lorenz si presenta come una superficie ripiegata su
se stessa nel comune spazio a tre dimensioni. Ma se si considera questa
superficie al microscopio, si vede apparire una struttura stratificata
come quella che abbiamo appena descritto. In altri termini, il nostro
strumento d'osservazione, non potendo abbracciare l'insieme del­
l'attrattore, stacca artificialmente dei fogli in quello che in realtà è
un solo e grande foglio. Così, se concentriamo la nostra attenzione sul
movimento che esce da un punto preciso M0, solo al termine di un
tempo abbastanza lungo vedremo apparire nel campo visivo del nostro
strumento il punto rappresentativo M., e quanto maggiore sarà l'in­
grandimento impiegato tanto più ristretto sarà questo campo visivo, e
tanto più a lungo dovremo aspettare. Se proseguiamo l'esperimento,

4 [Questa strana immagine di un libro i cui fogli si moltiplicano diventando sem­


pre più sottili, richiama alla mente il racconto di Borges La biblioteca di Babele. La nota
a piè di pagina con cui Borges conclude il racconto dice: << Letizia AJvarez de Toledo
ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe un solo volume, di for­
mato comune, stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d'un numero infi­
nito di fogli infinitamente sotti li. (Cavalieri , al principio del secolo xvn, affermò che
ogni corpo solido è la sovrapposizione d'un numero infinito di piani). Il maneggio di
questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe
in altri simili; l'inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio>> (J. L. Borges, Fin ­
zioni (La biblioteca di Babele) , trad. F. Lucentini, Mondadori, Milano 1 980, p. 68; edi­
zione su licenza di Giulio Einaudi Editore, con apparati nuovi). Il riferimento a Bona­
ventura Cavalieri è alle idee contenute nella Geometria indivisibilibus continuorum nova
quadam ratione promota ( 1 63 5 ), nella quale si tende a vedere una tappa verso l'introdu­
zione del calcolo infinitesimale, e particolarmente del calcolo integrale] .
CAOS 101

dovremo di nuovo attendere a lungo prima che il punto rappresenta­


tivo M" si ripresenti nel nostro campo visivo, e noi possiamo quindi
rivederlo. Lo osserveremo allora su un altro foglio del libro: questi
fogli comunicano, e lo spostamento è avvenuto, fuori del nostro campo
visivo, necessariamente molto limitato.
L'attrattore di Smale e l'attrattore di Lorenz hanno in comune la
proprietà che, esaminati con ingrandimenti sempre maggiori, presen­
tano sempre la stessa struttura identicamente ordinata. Si esprime que­
sta nozione dicendo che sono « frattali ». Se si collocano gli oggetti
classici della geometria su una scala a quattro gradini - i punti (dimen­
sione zero) sul primo, le curve (dimensione uno) sul secondo, le super­
fici (dimensione due) sul terzo e i solidi (dimensione tre) sul quarto -, i
frattali si situano naturalmente in posizioni intermedie. La dimensione
frattale dell'attrattore di Smale è compresa fra l e 2, e quella dell'attrat­
tore di Lorenz è compresa fra 2 e 3 . Queste dimensioni intermedie mani­
festano il fatto che il sistema non occupa tutto lo spazio che gli è assegna­
to, o piuttosto che solo certi stati sono interessanti dal punto di vista della
dinamica. È un uso classico, in meccanica o in fisica, introdurre il cosid­
detto numero di gradi di libertà: è questo il numero dei parametri neces­
sari per specificare completamente lo stato del sistema considerato. Que­
sto numero è dunque 2 per il sistema di Smale e 3 per il sistema di
Lorenz. Il fatto che la dimensione dell'attrattore sia inferiore significa
che il sistema non sfrutterà tutte queste possibilità, e non esplorerà tutti
gli stati teoricamente possibili (al di fuori di una breve fase transitoria).
Queste idee hanno conseguito il massimo successo in idrodinamica.
Uno tra i fenomeni fisici più importanti e meno ben compresi è in effetti la
turbolenza. Le equazioni di Navier-Stokes, che governano il moto di un
fluido, sono note e studiate da molto tempo. Esse permettono di calcolare
il comportamento del fluido se le forze attive sono deboli o se la viscosità
del fluido è grande. Ma non appena si entra nel regime turbolento, cioè
non appena appaiono vortici, diventa impossibile predire il movimento.
Oggi si ammette che questa situazione sia dovuta alla presenza di un at­
trattore strano che si manifesta al superamento di certa una soglia critica.
Quest'ipotesi, che fu formulata per la prima volta da David Ruelle e
da Floris Takens in un famoso articolo pubblicato nel l 97 l / è !ungi dal-

5 [D. Ruelle e F. Takens, On the Nature of Turbulence, Commun. Math. Phys.,


vol. 20, 1 67-92 ( 1 97 1 ); vol. 23, 343 sg. ( 1 9 7 1 ) . Su questo argomento riferisce diffusa­
mente David Ruelle in Caso e caos, trad. L. Sosio, Bollati Boringhieri, Torino 1 992, parti­
colarmente nel capitolo I O] .
102 CAPITOLO QUARTO

l'essere puramente teorica. Essa ricollega direttamente l'instabilità fisi­


ca, osservata sperimentalmente, a un'instabilità matematica sottostante
alle equazioni del movimento. Soprattutto, essa postula che, benché il
sistema sia di dimensione infinita (per descrivere un solo stato del
fluido occorre un'infinità di variabili; in effetti si devono indicare la sua
posizione e la sua velocità in ogni punto del volume che esso occupa),
il fenomeno della turbolenza si svolga in dimensione finita. L'attrattore
ha infatti una dimensione finita, che si può calcolare in funzione delle
condizioni imposte al fluido; è su quest'attrattore che si svolge l'evolu­
zione del fluido non appena terminata la fase transitoria, e sarà dunque
esso il teatro della turbolenza.
Ritroviamo qui ancora una volta un'intuizione geniale di Andrej
Nikolaevic Kolmogorov, che, negli anni trenta, aveva espresso l'idea
che per descrivere lo stato di un fluido turbolento bastasse un numero
finito di gradi di libertà. Quest'idea gli era venuta studiando la degra­
dazione dell'energia nel corso del movimento, dando origine i grandi
vortici a vortici più piccoli, fino a raggiungere una scala in cui la visco­
sità del fluido arresta questa caduta attraverso le dimensioni. Kolmogo­
rov aveva calcolato addirittura quante variabili sarebbero bastate per
descrivere lo stato di un fluido turbolento; in altri termini, aveva sti­
mato la dimensione dell'attrattore. Occorre dire che la sua valutazione
è stata confermata dalla teoria attuale?

Dopo questa lunga divagazione, possiamo tornare a parlare di


entropia. Per un sistema pluridimensionale si può avere, al passare del
tempo, simultaneamente perdita e guadagno d'informazione, cosa che
corrisponde alla compresenza di direzioni contraenti e dilatanti. La
perdita d'informazione si manifesta col fatto che un sistema va a
situarsi molto rapidamente su un attrattore, la cui dimensione può
essere molto più ristretta di quella dello spazio degli stati, e sul quale si
svolgerà l'essenziale dell'evoluzione. Il guadagno d'informazione viene
misurato dall'entropia, come abbiamo già indicato nel caso dei sistemi
unidimensionali. Questa volta misureremo però l'entropia sull'attratto­
re. In altri termini, cominciamo con l'eliminare tutta l'informazione
ridondante, abbandonando la maggior parte dello spazio degli stati per
concentrarci sull'attrattore. Per il sistema così ristretto, l'informazione
restante è significativa, e cresce - o si manifesta - in modo esponen­
ziale al passare del tempo. Così, se due punti dell'attrattore non pos-
CAOS 103

sono essere distinti a causa della limitata precisione dei nostri strumen­
ti, un'osservazione supplementare ci permetterà di separarli. Un'entro­
pia di l significa che a ogni tappa il numero di punti separabili, a un
livello di precisione dato, si moltiplica per l O.
Questa definizione è evidentemente imprecisa: non si dovrebbe par­
lare di « numero di punti »; per quanto piccola sia la parte dell'attrat­
tore considerata, essa contiene infatti un'infinità di punti. Sarebbe
meglio parlare di « area» o di «volume >>, intendendo ovviamente che le
nozioni di area o di volume qui invocate siano adattate all'attrattore, e
particolarmente alla sua dimensione (che può essere frazionaria). Par­
lando di area ci si situa nella dimensione due, e parlando di volume
nella dimensione tre, cosicché i matematici preferiscono parlare di
«misura >>, ed evitano in tal modo di pronunciarsi sulla dimensione del­
l'attrattore. Lo sviluppo di una nozione soddisfacente di misura nell'at­
trattore, la quale possa essere adattata alla struttura particolarissima di
un attrattore strano, fa parte dei problemi principali della teoria. Que­
sto problema è oggi in gran parte risolto, grazie particolarmente ai
lavori di Yasha Sinai, di David Ruelle e di Rufus Bowen, i quali hanno
mostrato l'esistenza di una «misura ergodica >> dotata di proprietà note­
voli. Essa ci permetterà di reinterpretare tutta la dinamica in termini
statistici, e ci fornirà un modello probabilistico del sistema, che verrà a
supplire alla sua legge deterministica se questa non si rivelerà all'altezza.
Spieghiamoci su questo punto. Finora abbiamo descritto il sistema
dall'interno; abbiamo tenuto conto del numero di gradi di libertà e
abbiamo fatto uso della legge deterministica per costruire un attrattore
nello spazio degli stati. Ma questa è una visione davvero realistica?
Fuori da situazioni accademiche, questi dati non ci sono molto accessi­
bili. In idrodinamica, per esempio, si è ben !ungi dal poter misurare la
direzione e la velocità di scorrimento in ogni punto del fluido; ma pro­
prio questo si richiederebbe per definire compiutamente uno stato.
Conoscere una realtà fisica significa piuttosto darsi una variabile consi­
derata significativa e cercare di misurarla con tutta la precisione possi­
bile. In altri termini, lo stato interno M non viene mai osservato diret­
tamente, ma solo attraverso la mediazione di una funzione X(M). Se il
sistema prende l'avvio da uno stato iniziale M0 , la successione degli
stati M0 , M, M2 , , M" determina una sequenza di valori X(M0),
• • •

X(M), X(M), ... , X(M.) per la variabile X scelta, e sono questi i valori
che si osservano e di cui si tratta di render conto. Potrà essere la velocità
1 04 CAPITOLO QUARTO

di scorrimento, misurata in un punto particolare del fluido, o qualsiasi


altra grandezza pertinente, come la pressione. È inteso che si potranno
osservare più variabili simultaneamente, come la velocità e la pressione
in un punto dato, cosa che equivale a fare di X(M) un vettore a due
componenti anziché un numero.
Quel che ci dicono i risultati di Sinai, di Ruelle e di Bowen, è che
una spiegazione probabilistica delle osservazioni X(M0), X(M,), X(M),
. . . , X(M) è non solo possibile bensì legittima. La misura ergodica sul­
l'attrattore è associata a una probabilità su questo, e la sequenza X(M0),
X(M), X(M), ... , X(M.) ha tutte le proprietà statistiche di un campione
di n valori tirati a sorte sull'attrattore secondo la probabilità ergodica.
Si dispone, per esempio, della legge dei grandi numeri: aggiungendo
osservazioni (n aumenta indefinitamente), la media empirica
X(M0) + X(M) + X(M) + . . . + X(M,)
n

tende verso il valore medio calcolato secondo la misura ergodica di


Sinal, Ruelle e Bowen, con una probabilità l . Da un punto di vista sta­
tistico si può dunque ritenere che questa sequenza di valori sia aleato­
ria, e che consegua da estrazioni indipendenti sull'attrattore, eseguite
secondo la probabilità ergodica. Quest'ultima potrà dunque essere
messa in evidenza sperimentalmente per mezzo della legge dei grandi
numen.
Il vantaggio di questa interpretazione probabilistica è la sua solidità;
essa non abbisogna di alcuna conoscenza approfondita del sistema, dei
suoi stati possibili o delle leggi che ne governano l'evoluzione. È una
spiegazione versatile, che va bene in una grande varietà di circostanze,
persino se, come qui, il sistema è fondamentalmente deterministico. In
altri termini, poco importa se il caso si trovi nella natura o nell'occhio
dell'osservatore: l'interpretazione probabilistica non ne verrà modifica­
ta. Osserviamo che non si tratta solo di dire che questa sequenza di os­
servazioni potrebbe essere il risultato di un'estrazione a sorte. Questo
vale per qualsiasi sequenza di valori: l'essenza del caso è che tutto è
possibile, persino l'improbabile. L'interpretazione probabilistica va
oltre: essa afferma che il campione osservato è non solo possibile ma
probabile, cosa da cui segue che i valori medi, calcolati su lunghi perio­
di, finiranno con lo stabilizzarsi attorno ai valori teorici.
Questa conclusione è abbastanza generale per rimanere valida anche
CAOS 105

quando non si sa quasi nulla sul sistema. Per una conoscenza più pre­
cisa occorrerebbe sapere, non più che si estrarrà un campione secondo
una certa legge di probabilità - con tutti i rischi che ciò comporta,
compreso quello di vedere le nostre previsioni statistiche infirmate
dalla sorte -, ma quale sarà esattamente il risultato dell'estrazione,
come un baro abile, che sa ingannare quanti lo circondano. E, come un
gi ocatore che voglia premunirsi contro l'imbroglio, l'osservatore non
deve far ricorso alla cieca a metodi statistici. Ci si può permettere di far
ricorso a un modello probabilistico solo come ultima risorsa, quando si
è rinunciato a capire il sistema dall'interno e si è disposti ad acconten­
tarsi di una descrizione fenomenologica e di previsioni statistiche.
Oggi esistono metodi che permettono di analizzare una sequenza di
osservazioni x 0 , x P . . . , x . alla ricerca di un modello deterministico sot­
tostante. Essi consistono essenzialmente nell'interpretare ogni sequenza
di m valori come le coordinate di un punto in dimensione m, e nel
vedere come si distribuiscano i punti in tal modo ottenuti . Così, con
m = 2 si sarà condotti a costruire i punti

M0 = (x 0 , X 1 ) , M1 = (x p x ) , . . . , M._ 1 = (x .- P x .),
e a studiare la loro distribuzione nel piano. Se essi si raggruppano visibil­
mente su oggetti di dimensione inferiore, disegnando curve o frattali,
abbiamo un indizio che ci troviamo di fronte a un sistema deterministico;
quella che disegnano i punti è l'immagine dell'attrattore. Se, al contrario,
i punti si distribuiscono in modo pressoché regolare per vaste estensioni,
disegnando nubi uniformemente grigie, è inutile cercare un modello
deterministico che abbia un attrattore di dimensione inferiore a 2 .
Occorre allora fare lo stesso lavoro i n tre dimensioni, con i punti

A seconda del modo in cui i punti si distribuiscono nello spazio, si sco­


prirà o no la presenza di un attrattore di dimensione inferiore a tre.
Disponendo di un computer abbastanza potente, e di un numero suffi­
ciente di osservazioni, si può proseguire questo lavoro fino a m = l O,
cosa che ha permesso di rivelare la presenza di attrattori in moti turbo­
lenti e persino nel corso delle azioni a Wall Street.
Insistiamo un'ultima volta sul fatto che, se questi metodi facilitano il
riconoscimento di un modello deterministico (quando esiste) sotto­
stante al fenomeno osservato, e se permettono quindi di eliminare una
1 06 CAPITOLO QUARTO

forma di caso che sarebbe dovuta unicamente all'ignoranza dell'osser­


vatore, resterà comunque un caso intrinseco, che è misurato dall'entro­
pia. Anche l'osservatore meglio informato dispone solo di strumenti di
precisione limitata. Quand'anche avesse una conoscenza perfetta della
legge del sistema, non conoscerebbe le costanti fisiche e lo stato ini­
ziale oltre il dodicesimo decimale, e quel tredicesimo decimale il cui
valore gli rimane ignoto, amplificandosi gradualmente verrà a pertur­
bare le previsioni che egli avrà potuto fare, fino a togliere loro ogni
validità a lungo termine. Certo, per sistemi deterministici, lo stato
finale è determinato dallo stato iniziale. A causa dell'instabilità espo­
nenziale, però, è impossibile dedurre da una conoscenza approssimata
dello stato iniziale una conoscenza approssimata dello stato finale. Se
l'entropia non è nulla, la precisione delle previsioni si degrada col pas­
sare del tempo, così che, per seguire l'evoluzione del sistema, sono
necessarie osservazioni periodiche. L'assenza di osservazioni ci lascia
da qualche parte sull'attrattore, nell'incertezza più completa.
Delle difficoltà che l'instabilità esponenziale crea in materia di predi­
zione ci si è resi conto da tempo, anche se sarebbe auspicabile una più
larga diffusione di questa consapevolezza. James Clerk Maxwell e Henri
Poincaré, il massimo fisico e il massimo matematico dell'Ottocento,
hanno scritto sull'argomento pagine definitive. Maxwell ricorda che, se è
indubitabile che le stesse cause producono gli stessi effetti, la sensibilità
alle condizioni iniziali · farà sì che cause simili non abbiano necessaria­
mente effetti simili. Così si esprime Poincaré, in Science et méthode:
Una causa così piccola da sfuggire alla nostra attenzione può determinare un
effetto considerevole, che non possiamo non vedere, e allora diciamo che è un
effetto dovuto al caso.

Sviluppando quest'idea, egli scrive:


Perché i meteorologi si danno tanta pena per prevedere il tempo con la massima
certezza possibile? Perché le piogge, le tempeste stesse ci sembrano arrivare a
caso, così che molte persone trovano del tutto naturale pregare per avere la piog­
gia o il bel tempo, mentre troverebbero ridicolo chiedere con la preghiera un'e­
clisse? Noi vediamo le grandi perturbazioni prodursi in generale nelle regioni in
cui l'atmosfera è in equilibrio instabile. I meteorologi sanno bene che quest'equili­
brio è instabile, che da qualche parte si produrrà un ciclone; ma dove? Essi non
sono in grado di dirlo; basta un decimo di grado in più o in meno in un punto
qualsiasi perché il ciclone si scateni qui e non là, perché estenda le sue devasta­
zioni su regi oni che avrebbe altrimenti risparmiato. Se si fosse avuta nozione di
questo decimo di grado, si sarebbe potuto conoscere in anticipo la sua evoluzione,
CAOS 107

ma le osservazioni non erano né abbastanza numerose né abbastanza precise, ed


è per questo motivo che tutto sembra dovuto all'intervento del caso.

Questo testo è tanto più notevole per essere stato scritto nel 1 908,
più di mezzo secolo prima della scoperta dell'attrattore di Lorenz, in
un'epoca in cui non si disponeva ancora della potenza di calcolo che
oggi ci consente simulazioni numeriche del comportamento dei sistemi
più generali. Esso attesta dunque, da parte del suo autore, un'intui­
zione veramente geniale, che Poincaré si era formato attraverso la pra­
tica rigorosa delle scienze fisiche, in particolare della meccanica celeste,
nella quale aveva avuto occasione di studiare da presso i sistemi intc­
grabili e di interessarsi al calcolo delle perturbazioni.
Fino all'avvento dei computer, il solo modo di studiare il comporta­
mento di un sistema era quello di risolvere esplicitamente le equazioni
di evoluzione, cosa che non è possibile se non per una classe molto
ristretta di sistemi, detti integrabili. Anche per sistemi prossimi ai
sistemi integrabili esistono metodi che permettono di risolvere parzial­
mente le equazioni e di dedurne il comportamento del sistema su inter­
valli di tempo che possono essere grandi, ma per i quali non si può
garantire che si estendano all'infinito. È quindi possibile descriverne
l'evoluzione a breve termine (come per tutti i sistemi) e persino a me­
dio termine (per una durata che è molto difficile da stimare), ma non a
lungo termine (cosa che si può fare solo per i sistemi integrabili). È il
cosiddetto metodo delle perturbazioni, che è alla base di tutti i calcoli
astronomici; avremo occasione di tornare sull'argomento più avanti.
La nozione di sistema integrabile ha conosciuto qualche variazione
nel corso dei secoli. Essa è abbastanza chiara se ci si riferisce all'esem­
pio fondatore, il paradigma che ha ispirato tutta la scienza moderna: il
sistema di Keplero. Si tratta di descrivere la rivoluzione di un pianeta
attorno al Sole. Il moto è determinato per intero da tre leggi, scoperte
sperimentalmente da Keplero: il pianeta descrive un'ellisse di cui il
Sole occupa uno dei fuochi; il raggio vettore del pianeta descrive in
tempi uguali aree uguali (il pianeta si muove dunque più velocemente
in quei tratti della sua orbita in cui è più vicino al Sole); il periodo di
rivoluzione è proporzionale alla potenza 3/2 dell'asse maggiore dell'or­
bita (un pianeta cento volte più lontano avrà quindi una velocità di
rivoluzione mille volte minore).
La gloria immortale di Newton consiste nell'aver formulato le
1 08 CAPITOLO QUARTO

equazioni della gravitazione e nell'averle risolte nel caso molto partico­


lare in cui l'universo si riduce a due corpi celesti. Newton ritrovò così
il movimento kepleriano come una conseguenza logica e necessaria di
una legge di attrazione in l lr2 (per la quale cioè la forza sia inversa­
mente proporzionale al quadrato della distanza), e dimostrò che questo
movimento è perfettamente e indefinitamente prevedibile. Per quanto
lontano ci si spinga nel futuro o si risalga nel passato, si può calcolare
con precisione la posizione del pianeta. Non si percepisce alcuna trac­
cia di instabilità. Certo, se si è commesso qualche errore iniziale nel
determinare la posizione o la velocità del pianeta, l'errore si ripercuoterà
sul calcolo della traiettoria: l'ellisse risulterà deformata o situata male.
Ma il calcolo in sé è fatto una volta per tutte. D'ora in poi non si sposte­
ranno più né la traiettoria calcolata né la traiettoria reale, e la posizione
calcolata è quindi costretta a rimanere per sempre prossima alla posizione
reale. Gli errori non si amplificheranno col tempo, diversamente dal caso
dell'instabilità esponenziale, e l'entropia del sistema è nulla.
Ma il pianeta Terra non è l'unico corpo celeste che orbita attorno al
Sole. Si tratta di sapere se proprietà di stabilità così desiderabili si
estendano al sistema solare quale lo conosciamo, con i suoi grandi pia­
neti accompagnati dai loro satelliti, con le sue comete e i suoi asteroidi,
senza contare tutti gli oggetti di cui ignoriamo ancora l'esistenza.
Fin dagli inizi della meccanica celeste questo interrogativo si è
posto in modo molto concreto. L'orbita della Luna attorno alla Terra,
per esempio, a causa della considerevole influenza dell'attrazione sola­
re, è ben lontana dall'essere ellittica, o addirittura periodica; la precisa
descrizione del moto lunare ha impegnato i massimi nomi dell'astrono­
mia, da Newton a Poincaré. Quanto all'orbita della Terra attorno al
Sole, è molto più vicina all'ellisse kepleriana. La principale forza per­
turbatrice è dovuta all'influenza di Giove, ed è dell'ordine di 1120 000
dell'attrazione solare, mentre per la Luna il rapporto tra la principale
perturbazione (l'attrazione solare) e la forza centrale (l'attrazione terre­
stre) è di 1 /50. Inoltre anche la scala di tempo è diversa: un anno terre­
stre vale dodici mesi lunari . 6 Ne consegue che noi possiamo spingerei
6 [In un anno ci sono dodici mesi lunari se si considera il mese sinodico, quello delle
lunazioni, contraddistinto dal ritorno degli stessi allineamenti fra Terra, Sole e Luna. Il
vero periodo di rivoluzione della Luna attorno alla Terra, o mese siderale, dura solo
2 7 , 3 2 2 giorni, e quindi in un anno si avrebbero non dodici bensì 1 3 ,4 mesi lunari. Il
mese sinodico è più lungo di quello siderale perché, nel tempo che la Luna impiega a
compiere un circuito completo del cielo in riferimento alle stelle fisse, il Sole si sposta di
circa 27 gradi lungo l'eclittica, cosicché la Luna, che percorre in cielo circa 1 3 ° 1 1 ', ha
bisogno di altri due giorni per ritrovarsi nello stesso allineamento col Sole e con la Terra].
CAOS 1 09

molto più avanti nelle nostre predizioni per la Terra che per la Luna.
Ma anche per la Terra c'è un confine, d'altronde difficile da situare,
oltre il quale il calcolo delle perturbazioni perde la sua validità. Ciò che
avviene al di là di tale orizzonte sfugge del tutto al nostro sguardo.
Non siamo perciò in grado di rispondere a una domanda pure così fon­
damentale come questa: il sistema solare è stabile? La Terra rimarrà
indefinitamente su un'orbita prossima a quella che conosciamo oggi?
Oppure è condannata a evadere nel vuoto intersiderale o a precipitare
nel Sole?
Poincaré ha dedicato gran parte delle sua attività scientifica a questo
problema. Egli ha mostrato, in particolare, che il problema dei tre
corpi - ossia lo studio del movimento di tre masse in interazione gravi­
tazionale fra loro - non è integrabile. Così già una versione semplifi­
cata del sistema solare, ridotta al Sole, a Giove e alla Terra, sfugge alla
risoluzione esplicita, e nasce il sospetto che il sistema solare sia in
effetti caotico. Ovviamente Poincaré non aveva i mezzi per confutare o
confermare questo sospetto, anche se la sua opera sembra fornire molti
indizi a favore di una conferma. Ancor oggi il problema è !ungi dal­
l'essere risolto. Attualmente disponiamo però anche di altri indizi, for­
niti da simulazioni numeriche eseguite con l'aiuto dei supercomputer
usati per i calcoli astronomici.
Il più recente di questi calcoli simula l'evoluzione dell'insieme del
sistema solare su un periodo di 2 00 mi lioni di anni, e mette in evidenza
un'instabilità esponenziale: le perturbazioni si moltiplicano per l O 1 0
(dieci miliardi) in l 00 milioni di anni. Su una durata che, alla scala dei
tempi astronomici o addirittura geologici, è molto breve, una fluttua­
zione di un centimetro nella posizione iniziale può quindi tradursi
infine in uno spostamento di centomila chilometri. Sui primi dieci
milioni di anni, per contro, il computer mostra una grande stabilità del
movimento, che segue molto da presso le predizioni della teoria delle
perturbazioni . Non si deve credere che una simulazione teorica di que­
sto genere possa permetterei di estendere le nostre capacità di predi­
zione al di là di questa soglia di dieci milioni di anni. Se il sistema è
caotico, assumono importanza anche le minime perturbazioni, e in
particolare gli errori di arrotondamento che il computer è costretto a
fare a ogni passo. Esso tronca infatti tutti i risultati dei calcoli inter­
medi per ricondurli al numero di decimali voluto, e l'effetto cumula­
tivo di queste piccole inesattezze può snaturare completamente il risul-
IlO CAPITOLO QUARTO

tato finale. In questa zona il computer non è dunque uno strumento di


previsione quantitativa. Esso crea una forte presunzione a favore di un
risultato qualitativo, ossia che il sistema è caotico e che, su una durata
dell'ordine di qualche centinaio di milioni di anni, le orbite planetarie
possono subire fluttuazioni molto grandi.
Forse proprio in questa instabilità si deve vedere la ragione delle
grandi variazioni climatiche di cui la Terra è stata teatro nel corso della
sua storia. Già c'è chi attribuisce alle piccole oscillazioni dell'orbita ter­
restre, con un periodo dell'ordine di diecimila anni, la successione delle
epoche glaciali di cui si trova traccia negli strati geologici superiori. Ma
a scale di tempo molto maggiori gli effetti potenziali sono devastanti.
Forse anche Marte ha beneficiato un tempo di una posizione più favo­
revole, e forse Venere darà un giorno il cambio a un pianeta azzurro
devastato dai suoi abitanti. Alle grandi scale di tempo tutto è possibile.
Il corso dei pianeti, che alla scala umana è il simbolo stesso della stabi­
lità, come un orologio posto dal Creatore fra le stelle, non è più che un
movimento imprevedibile e disordinato al cospetto dell'eternità.
Quest'esempio è ricco di insegnamenti. lnnanzitutto ci mostra che i
sistemi integrabili, e quindi prevedibili, formano una classe straordina­
riamente ristretta; il sistema di Keplero è integrabile, ma basta modifi­
carlo di pochissimo per ottenere sistemi la cui entropia non è più nulla.
Il caos è la regola, e l'integrabilità l'eccezione. Lo studio della mecca­
nica celeste ci preserva anche da una malattia comune, che è la ten­
denza a ricercare le cause. In un sistema non integrabile non ha alcun
senso voler isolare una filiazione causale. Se oggi un demone spostasse
di qualche centimetro la Terra sulla sua orbita, a una scadenza abba­
stanza lontana ne risentirebbero tutte le orbite planetarie, e questo
effetto non potrebbe essere calcolato, e neppure esaminato, se non
considerando il sistema solare nel suo insieme. Innanzitutto sarebbe
ovviamente il moto della Terra a venir modificato, insieme con la sua
azione perturbatrice sul moto degli altri pianeti; questi ne risentirebbe­
ro, e in una seconda fase si assisterebbe a una lenta modificazione delle
loro traiettorie. In conseguenza di ciò si avrebbero mutamenti nelle
loro posizioni rispettive, come pure nella loro interazione gravitaziona­
le, e infine, su una scala da dieci a cento milioni di anni, ne verrebbero
modificati i moti dell'intero sistema solare.
Non si potrebbe quindi calcolare l'effetto di un semplice impulso
limitandosi alla considerazione dell'orbita terrestre; si dovrebbe senza
CA OS 111

dubbio tener conto dell'effetto primario s u quest'orbita, m a anche del­


l'effetto secondario costituito dai mutamenti delle perturbazioni gravi­
tazionali conseguenti alle modificazioni delle orbite planetarie, e poi
dell'effetto terziario che l'effetto secondario non mancherà di avere
quando · i mutamenti corrispondenti del moto della Terra si saranno
ripercossi sugli altri pianeti, e così via. In breve, una volta usciti dal­
l'ambito temporale del breve termine, non si può più trattare il sistema
se non nel suo insieme.
In un sistema deterministico, come regola generale, non si può iso­
lare un sottosistema, e non si può quindi attribuire un dato effetto a
una data causa. Se si introduce un urto iniziale, come il nostro demone
che devia la Terra dalla sua traiettoria, le conseguenze a lungo termine
di questo mutamento non potranno essere valutate se non ricostruendo
l'evoluzione completa del sistema con questi nuovi dati. In generale si
otterrà uno stato globale completamente diverso da quello che si
sarebbe avuto in assenza dell'urto, e sarebbe vano cercare di confron­
tare i due stati. Non si potrà dire che è cambiata una cosa ma non
un'altra, e pretendere di avere in tal modo identificato gli effetti del­
l'urto iniziale. Una modificazione locale può indurre un cambiamento
globale, come un colpo di bacchetta magica ci trasporta in un mondo
diverso. Non si può attribuire a questa causa altro effetto che la totalità
della nuova situazione, cosa che evidentemente apporta ben poche
informazioni.
I sistemi dinamici hanno la proprietà fondamentale di non poter
essere compresi se non in modo globale. Questa regola ammette una
sola eccezione : i sistemi integrabili, fra i quali si collocano in prima fila
i sistemi lineari. A parte queste situazioni particolarissime, la ricerca
delle cause o l'analisi delle conseguenze di un evento singolo ci trascina
molto presto in un labirinto non assoggettabile a calcolo di cui si
rimane prigionieri, se non ci si vuole rassegnare ad ammettere che nes­
suna influenza è così piccola da poter essere trascurata, e che il minimo
impulso rimette in discussione il corso dell'universo. Se questo modo
di pensare ci è così estraneo, è perché abbiamo la saggia abitudine di
limitare il nostro orizzonte a un futuro che l'esperienza ci indica preve­
dibile. Il nostro sapere è largamente sufficiente a datare le eclissi rife­
rite in antiche cronache e a prevedere il tempo che farà domani. Su
durate così brevi, i sistemi considerati sono approssimativamente linea­
ri, e quindi integrabili. Solo a scadenza più lunga vengono a compii-
1 12 CAPITOLO QUARTO

care il quadro le interazioni dovute alle non-linearità, fino a quando


il divenire della parte meglio isolata non si confonde con quello del­
l'intero sistema.
Per precisare ancor meglio le cose, vorrei ricordare che una defini­
zione corrente del caso consiste nel vedere in esso l'intersezione di
serie causali indipendenti. Una persona passa per strada nel momento
in cui una tegola si stacca dal tetto; la tegola non fallisce il bersaglio e
l'uomo muore sul colpo. Ora, egli attendeva tranquillamente alle sue
occupazioni, mentre la tegola era soggetta ai capricci del vento. Ci
sono qui due serie di eventi che hanno una logica propria; esse sono
così chiaramente distinte, e il loro risultato comune è così sproporzio­
nato, che si grida subito alla sfortuna, e quindi al caso.
Nell'universo non ci sono, né possono esserci, serie causali indipen­
denti. Il passante esercita dalla strada una forza di attrazione sulla
tegola che si trova sul tetto dell'edificio, e il colpo di vento che la fa
cadere è inseparabile da tutto un contesto meteorologico in cui l'atti­
vità passata della vittima ha avuto la sua parte. Parlare di indipendenza
non è altro che un'approssimazione comoda, una visione miope degli
eventi, che si deve necessariamente abbandonare se si ricerca un'analisi
più fine o un orizzonte più lontano. Un demone sposta un elettrone su
Sirio, fenomeno molto al di sotto della nostra soglia di percezione.
Così facendo, egli modifica tutte le forze di attrazione che quest'elet­
trone esercitava sulle altre particelle dell'universo, e in particolare sulle
molecole gassose che costituiscono l'atmosfera terrestre. Occorreranno
solo pochi secondi perché un impulso così piccolo, propagato e am­
plificato dalle collisioni fra molecole, si traduca in modificazioni per­
cettibili. S'innesca allora l'instabilità meteorologica, e il lieve soffio
d'aria apparso in questo modo nel mare dei Caraibi diventerà un
ciclone che devasterà la costa orientale degli Stati Uniti.
Cercare di isolare le cause di un evento che ci colpisce è un'attività
che non può essere se non limitata; a volerla spingere troppo lontano si
corre il rischio di vedersi alla mercé dei movimenti di elettroni su Sirio.
Dell'immenso universo noi non possiamo comprendere se non una
piccola parte per volta, e non sappiamo quando ciò che abbiamo
tralasciato avrà più importanza di ciò che vediamo. Siamo come un
viaggiatore sperduto nella nebbia; il suo sguardo delimita una piccola
sfera di familiarità rassicurante, ma al di là delle mura grigie che lo rac­
chiudono comincia il regno delle intelligenze.
CA OS 113

Nel mese d i agosto del 413 a. C. il corpo d i spedizione ateniese si


trovava davanti a Siracusa. Esso aveva subito una cocente sconfitta nel
tentativo di impadronirsi delle colline che dominano la città, e la sua
situazione adesso era critica. Per fortuna gli restava la flotta, e con essa
la possibilità di togliere l'assedio per far ritorno ad Atene o per trovare
una base di operazioni più favorevole. Due generali ateniesi, Demo­
stene ed Eurimedonte, consideravano urgente togliere l'assedio, ma la
partenza fu ritardata dall'indecisione del terzo, Nicia.
Il generale spartano Gilippo, che comandava le forze siracusane,
ebbe così il tempo di fare il giro della Sicilia per cercare rinforzi. A
Selinunte trovò gli opliti che il Peloponneso aveva inviato in suo aiuto
in primavera con una flotta di navi da carico, la quale stava raggiun­
gendo infine la sua destinazione dopo numerose peripezie. Gettati da
una tempesta sulla costa libica, i peloponnesiaci vi avevano trovato
colonie alleate, vi si erano fermati per qualche tempo per dar loro man
forte contro i libici e avevano poi costeggiato il litorale africano per
trasferirsi infine in Sicilia attraversando il braccio di mare più stretto.
La flotta aveva gettato infine le ancore a Selinunte, dove la trovò Gilippo,
che la condusse immediatamente a Siracusa assieme ad altri rinforzi.
Questo arrivo peggiorò ancor più la situazione degli ateniesi, che
rimpiansero di essersi lasciati sfuggire l'occasione di andarsene senza
grattacapi. Poiché Nicia non si opponeva più, ci si preparò alla par­
tenza in gran segreto. Si decise che le truppe avrebbero approfittato
della notte per imbarcarsi, che la flotta avrebbe lasciato infine l'insena­
tura nella quale era intrappolata e avrebbe guadagnato il largo, quando
sopravvenne inattesa l'eclisse di luna del 2 7 agosto. 41 3 a. C. Molto
impressionati da quel fenomeno, gli uomini chiesero che si rimandasse
la partenza, gli indovini dichiararono che si doveva aspettare tre volte
nove giorni, e Nicia, uomo molto pio, che aveva una fede assoluta
negli oracoli e nella divinazione, affermò che non si sarebbe neppure
parlato di partire prima della data indicata dagli indovini.
È il caso di dire che tutto ciò finì molto male? I rinforzi di uomini e
navi portati da Gilippo ebbero tutto il tempo di addestrarsi e di equi­
paggiarsi per la battaglia decisiva. La flotta di Atene, bloccata nel porto
di Siracusa e nell'impossibilità di manovrare, fu distrutta sotto gli occhi
dei soldati ateniesi. Questi furono costretti a tentare per via di terra
una ritirata che avrebbero dovuto fare per via di mare. La ritirata si
concluse in tre giorni con un disastro nel quale perirono i generali e
1 14 CAPITOLO QUARTO

quasi tutto l'esercito, sia in conseguenza degli assalti improvvisi dei


siracusani, che attaccavano e si ritiravano rapidamente evitando di
impegnarsi in una battaglia frontale, sia nelle latomie in cui i prigio­
nieri furono detenuti in condizioni disumane.
Le cause immediate di questa sconfitta, oltre all'indecisione di Nicia
che l'aveva resa possibile, furono due casi fortuiti: l'arrivo della flotta
peloponnesiaca e l'eclisse di luna. Questi due eventi ci forniscono un
esempio perfetto dell'intersecarsi di due serie causali indipendenti, e
quindi di una certa concezione del caso. Dal punto di vista dei pelo­
ponnesiaci, la flotta di soccorso e Gilippo facevano parte dello stesso
sistema, e la loro azione era coordinata verso un solo fine, la vittoria
sugli ateniesi. A partire da un certo momento, però, essi persero il con­
tatto: Gilippo in Sicilia e i rinforzi in Libia divennero due sottosistemi
isolati, che agivano l'uno indipendentemente dall'altro, ognuno se­
condo la propria logica e in reazione agli eventi che lo riguardavano.
Tanto Gilippo quanto la flotta dei rinforzi avevano una ragione eccel­
lente per trovarsi quel giorno a Selinunte: Gilippo perché aveva pia­
nificato razionalmente il suo viaggio attorno alla Sicilia, e la flotta per­
ché quello era il punto più vicino alla costa africana. Queste due
ragioni erano indipendenti, così come le peripezie, siciliane o africane,
che avevano ritmato il tempo di Gilippo e dei peloponnesiaci, e il caso
consistette semplicemente nell'unirsi di quelle due storie distinte lo
stesso giorno nello stesso luogo.
Il caso è ancor più evidente per l'eclisse di luna. Per noi, che cono­
sciamo la meccanica celeste e le leggi di Keplero, non c'è stato ovvia­
mente alcun intervento del caso nel fatto che un'eclisse di luna si sia
prodotta il 2 7 agosto dell'anno 4 1 3 a. C. La prova migliore è che è pro­
prio l'eclisse a permetterei oggi di datare gli eventi riferiti da Tucidide,
e non l'inverso. Le efemeridi ci forniscono le date delle eclissi per tutto
il periodo storico, ossia per tre millenni fino a oggi. Noi possiamo
anche calcolare le date delle eclissi per i prossimi tremila anni : i moti
rispettivi della Terra, della Luna e del Sole sono l'espressione di un
determinismo rigoroso, e sono perfettamente prevedibili, almeno alla
scala della storia umana. Questi movimenti non sono visibilmente
influenzati dal fatto che qualche migliaio di persone stanno battendosi
da qualche parte sul pianeta Terra. Inversamente, tenendo conto delle
conoscenze scientifiche dell'epoca, né gli ateniesi né i peloponnesiaci
potevano immaginare che le eclissi di luna fossero prevedibili, e stabili-
CAOS 1 15

rono le loro strategie senza che questa possibilità venisse presa in con­
siderazione. Si ha dunque un caso particolare in cui due sistemi si evol­
vono indipendentemente, l'uno seguendo un determinismo fisico e l'al­
tro un determinismo storico, fino al 27 agosto del 4 1 3 a. C., data alla
quale il primo produce un effetto importante sul secondo.
Per chiunque sia inserito nel determinismo storico, non c'è nulla di
più inquietante dell'irruzione di un fenomeno inspiegabile, di una con­
tingenza pura. Da quando il primo antropoide ha cominciato a cammi­
nare eretto sulla terra, l'uomo cerca di sopravvivere adattandosi al suo
ambiente, ossia traendo lezioni dall'esperienza per anticipare un po' sul
futuro. Accettare l'inspiegabile, rassegnarsi all'imprevisto, significa
lasciare una breccia aperta sul fronte su cui lottiamo perpetuamente
contro una natura ostile, e forse compromettere la sopravvivenza della
specie. Si deve dunque attribuire con grande urgenza un senso occulto
a eventi che non hanno un senso apparente, ossia che non s'inquadrano
immediatamente nel determinismo che noi riconosciamo al termine di
un'esperienza millenaria. In una circostanza del genere, l'uomo primi­
tivo invocherà gli dèi e cercherà di accattivarseli, mentre l'uomo
moderno invocherà il caso e farà calcoli statistici, ma solo la scoperta di
un determinismo nascosto potrà chiudere la questione. Come abbiamo
visto non è una cosa facile, neppure nel caso di sistemi semplicissimi,
ma finché non si sarà scoperto un vero determinismo, nessuno scien­
ziato potrà ritenersi veramente soddisfatto.
Compreso in questo modo, il caso non può essere che relativo a
un'esperienza umana in una situazione storica data. Ciò che è alea o
destino per Tucidide non lo è più per il suo lettore moderno. L'eclisse
che colmò l'esercito ateniese di un terrore superstizioso, non avrebbe
oggi altro che il successo di curiosità dovuto a un evento raro e spetta­
colare, e non susciterebbe altra preoccupazione che estetica. Abbiamo
modo così di toccare con mano che il caso è sempre una risposta a una
domanda che un uomo si pone. Che un evento passi inosservato, che
sia giudicato privo di interesse, o che abbia una spiegazione, e nessuno
penserà a far intervenire il caso. L'eclisse di luna pose un problema a
Nicia e ai suoi uomini, mentre non lo pone più a noi. Coincidenze
altrettanto notevoli dell'arrivo simultaneo a Selinunte di Gilippo e dei
rinforzi partiti mesi prima in suo aiuto si verificano tutti i giorni, e nes­
suno le nota o pensa a stupirsene.
116 CAPITOLO QUARTO

Immaginiamo che qualche mercante cartaginese fosse arrivato in


porto lo stesso giorno della flotta peloponnesiaca. È una cosa possibi­
lissima, e addirittura probabile vista l'intensità dei rapporti commer­
ciali che i cartaginesi intrattenevano con i belligeranti. La storia non ce
ne avrebbe comunque conservato il ricordo, perché l'evento, pur
essendo in teoria altrettanto notevole dell'arrivo di Gilippo, non
avrebbe ricevuto lo stesso significato. Delle tre coincidenze originate
da quest'arrivo simultaneo, Gilippo e il cartaginese, il cartaginese e i
peloponnesiaci, i peloponnesiaci e Gilippo, soltanto quest'ultima attrae
l'attenzione e suscita interrogativi. Esse sono però tutt'e tre ugual­
mente notevoli o ugualmente banali, a seconda del punto di vista da cui
ci si pone. Ugualmente banali perché non c'è niente di più comune
dell'arrivo di viaggiatori in un porto mercantile, e ci si deve quindi
attendere che alcuni di loro arrivino nello stesso giorno. Ugualmente
notevoli in quanto sono altrettanto improbabili; non manca loro, per
brillare dello stesso splendore, se non la buona volontà di un osserva­
tore che le tragga dall'oscurità, come il re Mida che trasformava in oro
tutto ciò che toccava. Se parlassimo latino, per significare « notevole »
diremmo egregium, e l'etimologia tradurrebbe immediatamente il
nostro pensiero: egregium da « e grege», « (tratto) dal gregge », scelto,
come si mette da parte, fra individui identici, un individuo che si trova
a essere singolarizzato dall'arbitrio di una scelta. Il cartaginese può
disinteressarsi completamente della guerra del Peloponneso e della
spedizione in Sicilia; egli ignorerà l'arrivo di Gilippo, ma si meravi­
glierà d'incontrare fra i nuovi arrivati un amico perso di vista da molto
tempo. È soprattutto questo fatto a colpirlo, e di questo fatto conser­
verà il ricordo e si meraviglierà per tutta la vita, mentre lo storico che
racconta la guerra si solleva al di sopra dei destini individuali. Per
Tucidide questa moltitudine di coincidenze accidentali costituisce il
rumore di fondo in cui è suo compito distinguere il vero segnale, il solo
degno di essere trasmesso alle generazioni future, ossia l'arrivo di
Gilippo.
Così la diversità dei punti di vista privilegia ora l'uno ora l'altro di
una moltitudine di eventi simultanei che un osservatore perfettamente
distaccato considererebbe con indulgente indifferenza, nello stesso
modo in cui il Buddha guarda con un sorriso immutabile alle nostre
vicende. La ruota della fortuna gira di continuo e distribuisce i destini.
Ognuno esamina la sua sorte con l'angoscia derivante dalla certezza di
CA OS 117

vivere una volta sola e dalla coscienza del proprio io. È l a miiyii, l'illu­
sione cosmica. Il Buddha vede girare la ruota, contempla il ciclo eterno
delle reincarnazioni, sa che la vita che oggi mi tocca non è altro che un
episodio di una storia infinita in cui io occuperò uno dopo l'altro tutti i
ruoli. Non c'è caso perché non ha senso, non ha fondamento, privile­
giare un momento particolare di questa storia, o questa storia rispetto a
un'altra. La rivendicazione dell'identità, che ci fa gridare: « Perché
questa cosa deve succedere proprio a me? >>, non può sfociare che nel
non-senso e nella sofferenza. Il caso si dissolve nella dolce indifferenza
del mondo.
CAPITOLO 5

Rischio

Dopo tante digressioni, esplorazioni e conversazioni, il lettore ci


perdonerà se lasciamo per un momento da parte la saga di Snorri
Sturluson per fare un'incursione nella saga di Nj:H il Bruciato. È la più
tarda, ma anche la più lunga e forse la più riuscita fra le grandi saghe
islandesi, ultima e splendida fioritura di un genere che poco dopo sa­
rebbe sprofondato nel romanzo cortese e nella chanson de geste. La saga
di Njal si fonda ancora su fatti rigorosamente storici, poiché l'episodio
centrale, l'incendio della villa di Bergthorshvall, in cui morirono Njal e
i suoi figli, è attestato da altre fonti, fra cui la Landnamabok (Storia della
RISCHIO 119

colonizzazione [dell'Islanda]), e lo stesso vale per la battaglia campale


che ebbe luogo all' althing del l O 1 1 durante il processo relativo all'in­
cendio. L'autore anonimo della saga ha conservato lo stile lapidario di
Snorri, e l'intera opera è un monumento a una civiltà sul punto di
scomparire. Njal vede arrivare gli eventi e la distruzione finale della sua
famiglia come Odino prevede il Ragnarok, la rivolta dei giganti e la
fine del mondo, ma è impotente a impedirla.
L'amicizia fra Njal di Bergthorshvall e Gunnar di Hlidarendi è una
delle chiavi dell'opera. Gunnar è un eroe, capace di saltare quanto è
alto equipaggiato da capo a piedi, e un arciere senza eguali. Egli si fida
in tutto di Njal e non desidera altro che vivere in pace, ma né i saggi
consigli dell'uno né le buone intenzioni dell'altro potranno impedire
che una concatenazione ineluttabile di provocazioni, di ritorsioni e di
vendette conduca Gunnar alla sua fine. Eccolo deferito ancora una
volta all'althing, l'assemblea suprema, che lo condanna a tre anni d'esi­
lio. Una tale condanna non aveva nulla di disonorevole; la posizione
sociale di Gunnar sarebbe stata addirittura consolidata dal supple­
mento di gloria e di beni che egli non avrebbe mancato di portare con
sé dalla sua spedizione. Per contro, se non fosse partito sarebbe stato
dichiarato fuori legge, e quindi sarebbe stato alla mercé dei suoi nemi­
ci, che avrebbero avuto il diritto di ucciderlo impunemente. Ecco il
racconto della partenza di Gunnar di Hlidarendi; lo accompagna il fra­
tello Kolskegg.
Gunnar fece trasportare alla nave le sue merci e quelle del fratello. Quando
tutte le sue cose furono arrivate e la nave fu pronta, Gunnar andò a Bergthorsh­
vall e nelle altre fattorie a far visita a varie persone e a ringraziare tutti coloro
che lo avevano aiutato.
Il giorno dopo, di buon'ora, si preparò a imbarcarsi e disse a tutta la sua fa­
miglia che era venuto davvero il momento di andare. Tutti ne furono afflitti,
ma speravano che sarebbe tornato. Quando fu pronto, Gunnar abbracciò i suoi,
e tutti uscirono per salutarlo. Piantò nel suolo la sua alabarda, saltò in sella, e lui
e Kolskegg si allontanarono. Cavalcarono fino al Markarflj6t, quando il cavallo
di Gunnar inciampò e lo sbalzò di sella. Gunnar alzò lo sguardo verso i pendii
e la fattoria di Hlidarendi, e disse: « Quant'è bella la collina! Mai mi è parsa così
bella . I campi dorati, il prato falciato . . . Me ne torno a casa e non parto più».
Kolskegg gli replicò: « Non dare ai tuoi nemici la gioia di rompere gli accordi.
Nessuno si aspetta da te una cosa del genere, e tu puoi dire a te stesso che tutto
accadrebbe come ha detto Njal>>. « Non me ne andrò>> disse Gunnar, «e vorrei
che restassi anche tu >>. « No >> ribatté Kolskegg, « io non agirò bassamente né in
questa né in alcun'altra circostanza in cui qualcuno mi abbia prestato la sua
fiducia. Ecco la sola cosa che poteva separarci. Dì ai miei parenti e a mia madre
120 CAPITOLO QUARTO

che non ho intenzione di rivedere l'Islanda, perché arrivando apprenderei della


tua morte, fratello, e questo non m'invoglierà a tornare ». Si lasciarono: Gunnar
tornò a Hlidarendi, mentre Kolskegg andò alla nave e partì per Paesi stranieri.
Hallgerd si rallegrò nel vedere Gunnar tornare a casa, ma sua madre non disse
molto.

« Hallgerd si rallegrò nel vedere Gunnar tornare a casa, ma sua


madre non disse molto >>. Raramente ci si è spinti più avanti nell'arte
della litote e nell'espressione della disapprovazione. Hallgerd era la
moglie di Gunnar, e i lettori della saga conoscono bene il suo carattere
vendicativo e l'animosità che essa manifesta verso il marito. Se si ralle­
gra del ritorno di Gunnar non è per amore, ma perché questo fatto le
fornisce l'occasione di vendicarsi di lui. Per contro la madre di Gunnar,
che aveva visto partire i suoi due figli senza essere sicura di rivederli
prima di morire, quando uno dei due ritorna si rinchiude nel silenzio.
Essa sa, come tutti, che è un suicidio. La gioia di Hallgerd è sconve­
niente, e lo sarebbero anche i rimproveri; sarebbero anzi inutili, in
quanto Gunnar conosce il pensiero della madre senza che essa abbia
bisogno di esprimerlo. La donna accudisce alle sue faccende nella casa,
muta come il dolore.
Il fatto è che la decisione di Gunnar ha la subitaneità e l'irrevo­
cabilità delle catastrofi naturali; non c'è nulla che la faccia presagire.
Gunnar è presente all'althing quando si discute la sua causa, assiste agli
sforzi di Nj:'H per arrivare a un arbitrato e non manifesta malcontento
per gli accordi conclusi. Al contrario, promette a Njal che li rispetterà
e fa i suoi preparativi per partire. Si congeda dai familiari e parte, e solo
un caso fortuito, una pietra o un'ombra che passa, che fa inciampare il
suo cavallo, gli offre l'occasione di modificare la decisione già presa.
Questo voltafaccia si verifica nel momento più inopportuno. La sua
decisione di rimanere determina il distacco dal fratello Kolskegg; era
forse l'unico modo in cui egli poteva staccarsi da questo alleato indefet­
tibile. Da questo momento in poi gli avvenimenti precipitano. Gunnar
è messo al bando nell'althing dell'estate seguente, a cominciare dal­
l'autunno i suoi nemici organizzano una spedizione che ha finalmente
ragione di lui.
Tutto questo accade perché, per un caso, si è voltato, ha levato lo
sguardo verso la fattoria dove era vissuto per tanti anni, vedendola
come per la prima volta, rannicchiata contro la collina, circondata da
campi, luminosi e profumati. Perché il cavallo è inciampato? Decisioni
RISCHIO 121

così gravi dipendono davvero da circostanze così accidentali? Se lo zoc­


colo del cavallo si fosse posato dieci centimetri più avanti, o se essi fos­
sero passati in quel luogo dieci minuti dopo, non ci sarebbe stata la
caduta da cavallo, o non sarebbe stato Gunnar a cadere. Lui e il fratello
avrebbero compiuto i loro tre anni di esilio, sarebbero rientrati al Paese
coperti di gloria e d'onore, e i loro nemici sarebbero stati definitiva­
mente ridotti al silenzio. Non ci sarebbero stati né l'assedio di Hlida­
rendi, in cui perì Gunnar, né l'incendio di Bergthorshvall, in cui mori­
rono Njal e i suoi figli, e noi oggi non leggeremmo la saga di Njal.
Gunnar ha salutato la madre, la moglie, i figli, gli amici. Cavalca
verso la spiaggia a fianco del fratello : fra qualche minuto saranno in
mare; fra qualche ora l'Islanda sarà scomparsa all'orizzonte. La sua
anima già lo precede alle Orcadi o in Norvegia. Qual destino lo at­
tende laggiù? Un caso, uno sguardo, e Gunnar cambia opinione e de­
stino. La sua decisione è indifendibile, lo sa, ma è irrevocabile, ed egli
vi si atterrà inflessibilmente. I suoi amici hanno fatto il possibile per
dissuaderlo; d'ora in poi non gli rimane che rifiutare il loro aiuto, per
evitare di trascinarli nella sua caduta. Tutto questo perché attorno a
Hlidarendi, all'alba, la campagna è bella.

La teoria delle decisioni vuole che si considerino tutti gli eventi


possibili attribuendo loro delle probabilità, le quali traducano la loro
plausibilità più o meno grande. Una probabilità zero significa che
l'evento in questione è considerato impossibile e lo si può quindi igno­
rare. Un evento di probabilità uno, per contro, è considerato certo,
ossia si è sicuri che avrà luogo. Le probabilità intermedie, fra O e l ,
esprimono i diversi gradi della certezza, nello stesso modo i n cui le
divisioni del termometro fra O e 1 00 misurano la temperatura del­
l'acqua.
Si può pervenire alla valutazione delle probabilità in molti modi. Il
più naturale consiste nel far ricorso a esperti. È così che si valutano
correntemente i rischi industriali, e che si vede attribuire a eventi come
la « sindrome cinese >>, la fusione del nocciolo di una centrale nucleare,
una probabilità certo infima, da w - w a w - s a seconda degli autori dello
studio e dei suoi destinatari, ma comunque positiva. Analogamente, si
esprimono numericamente la probabilità di avere un incidente di mac­
china in un certo momento, su un certo itinerario, o la probabilità che
il lancio di una navetta spaziale fallisca.
122 CAPJTOLO QUINTO

Alla base di queste valutazioni c'è l'idea che un evento importante


come un incidente non è mai altro che il risultato chiaramente cata­
strofico di un concorso di circostanze minori, di un tessuto di piccole
coincidenze, di cui nessuna avrebbe importanza individualmente, ma la
cui sfortunata accumulazione scatena fenomeni a una scala maggiore.
Nella centrale nucleare di Three Mile Island si ebbe qualche anno fa
un grave incidente dovuto al fatto che una valvola era rimasta aperta
mentre la spia sul pannello di controllo la segnalava chiusa. Gli opera­
tori lavorarono dunque per varie ore avendo un'immagine erronea
della situazione, e le misure da loro prese l'aggravarono considerevol­
mente. Ci si trovò in una situazione in cui, in caso di ulteriore sfortuna,
come l'apertura di un'altra valvola o la rottura di un tubo, si sarebbe
potuto avere un incidente ancora più grave, sino alla famosa sindrome
cinese. Ora, la probabilità che una valvola non si chiuda può essere sti­
mata ragionevolmente da un ingegnere, così come la probabilità che
una spia non si accenda, ed è quindi possibile calcolare la probabilità
globale di una tale situazione. Facendo un catalogo esauriente di tutte
le situazioni che possono condurre alla sindrome cinese, e stimando la
probabilità di ciascuna di esse, si potrà assegnare una probabilità alla
sindrome cinese stessa. Questa stima di probabilità diventa allora uno
strumento di gestione, nel senso che permette di esprimere quantitati­
vamente il rischio in forma obiettiva. Ogni miglioramento tecnologico
che riduca questa probabilità diminuisce tale rischio. Il progresso tec­
nologico non è tuttavia necessariamente benefico, in quanto può
aumentare altri rischi, come quello di inquinamento dell'atmosfera,
che saranno quantificati in modo analogo.
Ci si può stupire nel veder assegnare in questo modo delle probabi­
lità a eventi che non si sono mai prodotti, e che ci si augura non si pro­
ducano mai. L'idea che è alla base di queste stime è che gli eventi in
questione si compongano di microelementi indipendenti di cui è
necessaria la realizzazione simultanea, come l'apertura di certe porte
richiede la presenza di tre persone, ciascuna munita di una chiave
diversa. Se queste persone sono presenti in media un giorno su dieci, e
se le loro date di presenza sono indipendenti, la probabilità che si possa
aprire la porta in un giorno dato è di 1 1 1 O x 1 1 1 O x 1 1 1 O = 1 1 1 000; si
potrà cioè aprire una tale porta in media una volta ogni tre anni. Se la
porta serve a tener rinchiusi i quattro cavalieri dell'Apocalisse, si potrà
considerare troppo grande il rischio di veder devastare la Terra ogni
RISCHIO 123

tre anni. Si munirà allora la porta di otto serrature anziché di tre. Lo


stesso calcolo dà questa volta una probabilità di un centomilionesimo:
la porta verrà cioè aperta in media una volta ogni tremila secoli circa.
Poiché la storia umana non ha avuto inizio più di cinquanta o sessanta
secoli fa, si può stimare che la fine del mondo sia spostata in questo
modo a una data ragionevole.
In definitiva, però, la teoria delle decisioni non richiede che si
abbiano basi obiettive per le probabilità di eventi futuri. lo posso essere
perfettamente convinto che domani mattina ci sarà la fine del mondo :
attribuirò quindi a questo evento la probabilità l e mi comporterò di
conseguenza. È una probabilità soggettiva; essa non vale né per la forza
delle ragioni che posso addurre né per il numero delle persone che la
condividono, ma per la mia intima convinzione. Se domani non succe­
derà nulla, sarò costretto a rivedere questa probabilità; nell'attesa,
però, sarà essa a determinare il mio comportamento. In effetti, a tutte
le grandi scadenze si vedono comparire quelli che predicono l'immi­
nente fine del mondo, e i loro adepti che abbandonano i beni terreni
per prepararsi al ritorno del Signore. Una convinzione non ha meno
forza per il fatto di essere irrazionale; e una probabilità non influirà con
meno efficacia su chi deve prendere decisioni per il fatto di essere
soggettiva.
Si possono quindi esprimere valutazioni anche delle probabilità di
eventi su cui si hanno solo scarse informazioni. Chi non ha mai sentito
le conversazioni al bar in cui si smascherano i colpevoli di crimini
impuniti e in cui si fanno rivelazioni confidenziali sulla malattia segreta
e sulla prossima morte di uomini politici eminenti? Senza dubbio
coloro che propalano queste voci vi attribuiscono qualche credito, e
quindi esse devono ripercuotersi sulle loro previsioni e decisioni . Si
possono attribuire probabilità addirittura a eventi su cui non si ha
alcuna informazione. Se devo scommettere su una partita di pelota
basca, e non ho altra informazione che i nomi dei giocatori, tirerò a
testa e croce; ossia attribuirò a ciascun giocatore la stessa probabilità di
vittoria. Nel caso di una finale di tennis, c'è qualche probabilità che i
nomi mi dicano qualcosa, e in questo caso potrò allontanarmi dall'attri­
buzione del 50 per cento di probabilità a ciascun giocatore, che riflette
una totale mancanza d'informazione. Posso fare addirittura un passo
avanti, e chiedermi quale fiducia io assegni alle mie probabilità sogget­
tive: ossia posso stimare la forza delle mie convinzioni. Se sono sicuro
/24 CAPITOLO Q UINTO

di me, se per esempio i due finalisti sono divisi da un divario considere­


vole nella classifica ATP, risponderò che la mia stima è probabilmente
esatta, e potrò spingermi fino a esprimere questa probabilità in cifre. Si
possono avere così risposte complesse, del tipo: «Penso che X abbia un
90 per cento di probabilità di battere Y, e, tenendo conto degli ele­
menti di cui dispongo, sono sicuro della mia previsione al 60 per cento>>.
È chiaro che il linguaggio probabilistico traduce qui due situazioni
diverse, e che la sua precisione è più adatta al tennis che alla pelota
basca. Quando io dico che X ha un 90 per cento di probabilità di bat­
tere Y, mi riferisco a un modello matematico in cui le alee da cui di­
pende l'esito dell'incontro sono state identificate e pesate, e la probabi­
lità di 0,9 appare allora come il risultato di un calcolo, forse sommario,
ma sempre necessario. In una situazione ideale, se fossi intimo di X e di
Y e disponessi quindi di tutti gli elementi di valutazione, perverrei
senza dubbio a una stima abbastanza esatta delle probabilità di ciascuno
dei due avversari. All'altro estremo, se non conosco né X né Y, e se non
ne ho addirittura mai sentito parlare, non dispongo di alcuna informa­
zione che mi permetta di prendere posizione in un senso o nell'altro. È
quella che chi amerò, al seguito dei numerosi psicologi che hanno lavo­
rato sull'argomento, una situazione di « ignoranza>>, mentre la situa­
zione precedente, in cui si dispone di un modello probabilistico esatto,
è designata come « aleatoria>>, in ricordo del gioco dei dadi (in latino
alea).
In pratica ci si troverà per lo più in situazioni intermedie fra questi
due estremi : si parlerà allora di situazioni «incerte >>. È quanto espri­
meva il pronosticatore dicendosi sicuro al 60 per cento della sua previ­
sione. Egli si poneva più vicino all'alea che all'ignoranza, in una scala
continua che va dall'una all'altra. Si può anche realizzare la transizione
fra l'alea e l'ignoranza costruendo lotterie. Si organizzano due incontri,
il primo fra due giocatori che conosco perfettamente (situazione pura­
mente aleatoria; sono sicuro al 1 00 per cento del mio modello), l'altro
fra due giocatori di cui non so niente (situazione d'ignoranza totale;
nessuna fiducia nel mio modello) . Si tirerà a sorte quale dei due incon­
tri debba aver luogo. Mi trovo allora in una situazione d'incertezza, e il
livello di questa dipende dalle probabilità scelte. Se il primo incontro
ha sei probabilità su dieci di uscire, dirò che sono sicuro del mio mo­
dello al 60 per cento, o che il mio livello di fiducia è del 60 per cento.
È quindi possibile passare in modo continuo dall'alea all'ignoranza
RISCHIO 125

totale attraverso tutti i gradi dell'incertezza, ed esprimere quantitativa­


mente questi gradi per mezzo di probabilità. Il processo decisionale in
una situazione di futuro incerto può dunque - almeno in linea di prin­
cipio - essere ridotto per intero al calcolo delle probabilità. L'esempio
caricaturale di questa situazione è la scommessa di Pascal, almeno
quale è stata compresa dagli autori di manuali. La probabilità che Dio
esista è certamente piccola (forse di 1 0 - 10), ma i vantaggi che noi rica­
veremmo dalla sua esistenza sono talmente grandi (un'eternità di felici­
tà, ossia forse 1 0 1000 in unità da precisare), che il guadagno atteso
000
( 1 0 - 10 x 1 0 1 = 1 0 990, una cifra più che rispettabile) deve indurci ad agire
come se Dio esistesse. L'altro termine della scommessa, l'inesistenza di
0
Dio, che può vantare una probabilità molto maggiore ( 1 - 1 0 - 1 ,
diciamo l per non contare i decimali), ma un profitto molto minore (al
massimo l 00 anni di felicità, ossia l 0 2 nelle stesse unità di prima), con­
duce a una speranza di guadagno di l x l 0 2 = l 0\ molto inferiore alla
prima. Penso di rendere giustizia a Pascal dicendo che molto probabil­
mente non era questa la sua interpretazione. 1
Purtroppo le cose non sono così semplici, perché gli esseri umani
manifestano abitualmente una grande avversione per il rischio. Nella
situazione della scommessa di Pascal il guadagno potenziale è senza
dubbio immenso, ma le probabilità di successo sono così esigue che la
scommessa appare in definitiva poco interessante, tenuto conto soprat­
tutto della grandezza dell'investimento iniziale (probabilmente tutta
una vita di rinuncia e di ascesi). Chiunque scommetterebbe a cuor leg­
gero mille lire a cento contro uno, ma si esiterebbe di più a scommet­
tere alle stesse condizioni cento milioni di lire. Questo genere di avver­
sione per il rischio è ben noto agli economisti e ai finanzieri, e la sag­
gezza popolare ne ha ricavato dei proverbi, come «A bird in the band
is worth two in the bush>> (dei britannici), o «Meglio un uovo oggi
che una gallina domani >>. Ciò fa sì che un investimento considerato
rischioso - un'obbligazione di una società che produce merci scadenti o
le azioni di una società di alta tecnologia - deve offrire un rendimento
più elevato rispetto a investimenti considerati sicuri, o semplicemente
meno rischiosi, per poter convivere con questi negli stessi mercati

1 Blaise Pasca!, Pensées, in ffiuvres complètes, a cura di ]. Chevalier, coli . « La Pléia­


de», Gallimard, Paris 1 954, in particolare il Discours di Filleau de la Chaise (pp. 1 474-
5 0 1 ) . [Per la « scommessa», cfr. B. Pasca!, Pensieri, trad., introd. e note di P . Serini,
Einaudi, Torino 1 962, pp. 65-7 3 ] .
126 CAPITOLO QUINTO

finanziari . Dal rendimento atteso si sottrae un « premio di rischio >>, che


è tanto maggiore quanto più elevato viene valutato il rischio.
Ma a quest'avversione per il rischio si aggiunge un'avversione per
l'incertezza, che è d'altra natura e molto più difficile da quantificare. Se
si affrontano due giocatori di pari forza, e io so che sono di pari forza,
attribuirò a ognuno di loro una probabilità di vittoria 0,5. Per un incon­
tro fra due sconosciuti, darò ancora le probabilità al 50 per cento, ma
mi troverò in una situazione molto più scomoda: in effetti, come ha
mostrato un famoso esperimento di psicologia di Ellsberg/ l'applica­
zione del formalismo probabilistico alle situazioni di incertezza con­
duce a paradossi .
L'esperimento di Ellsberg è il seguente. Si presentano ai soggetti
due urne, contenenti l 00 palline ciascuna. Si annuncia che la prima
urna contiene esattamente 50 palline rosse e 50 palline nere; quanto
alla seconda, si dice semplicemente che contiene palline rosse e palline
nere, senza precisare in quale proporzione.
Si aprono allora le scommesse sulla prima urna. I soggetti scelgono
un colore, dopo di che si estrae una pallina. Coloro che hanno indovi­
nato il colore vincono cento dollari, gli altri niente. L'esperimento
dimostra che la maggior parte delle persone punta indifferentemente
sul rosso o sul nero, ossia che le probabilità soggettive sono di 0,5 e 0,5.
Si fa poi una serie d i scommesse sulla seconda urna. L e condizioni
della scommessa sono le stesse, ma questa volta i soggetti non hanno
alcuna informazione sul contenuto dell'urna, tranne il fatto che la pal­
lina che ne uscirà sarà nera o rossa. Ci troviamo dunque in una situa­
zione d'ignoranza, mentre la precedente era una situazione aleatoria.
In conformità alla teoria, la maggior parte delle persone scommettono
indifferentemente sul rosso o sul nero; esse continuano quindi ad asse­
gnare ai due colori probabilità soggettive 0,5 e 0,5.
E d ecco che arriva i l paradosso. Si apre una terza serie d i scom­
messe. Si guadagnano cento dollari ogni volta che esce una pallina
rossa, e niente quando esce una pallina nera, ma si ha il diritto di sce­
gliere l'urna da cui la pallina sarà estratta. Poiché le probabilità sogget­
tive sono le stesse per le due urne, e i soggetti stimano quindi che, in

1 D.
Ellsberg, Risk, Ambiguity, and the Savage Axioms, in « Quarterly Journal of Eco­
nomics », LXXV ( ! 96 ! ), pp. 643 -69; e in << Reply>>, LXXVII ( ! 963), pp. 3 3 6-42 . Vedi
anche H. Einhor e R. Hogarth, Decision Making under Ambiguity, in Rational Choice, a
cura di R. Hogarth e M. Reder, University of Chicago Press, Chicago ! 987, pp. 41 -66.
RISCHIO 127

un caso come nell'altro, hanno una probabilità su due di vincere, la


teoria esigerebbe che essi scegliessero indifferentemente l'una o l'altra
urna. In realtà la maggior parte delle persone esprime una preferenza
marcata per la prima urna (quella le cui proporzioni sono note) . Questa
preferenza si rivela ancor più spiccata se si tratta di perdere cento dol­
lari anziché guadagnarli, ma si trovano meno soggetti disposti a pre­
starsi all'esperimento. Ci si comporta quindi come se l'ignoranza fosse
un fattore di rischio supplementare di cui le probabilità soggettive da
sole non riescono a tener conto.

Da tutta quest'analisi emergono due interrogativi : che cos'è il


rischio? come padroneggiarlo? Noi distinguiamo un rischio aleatorio,
che naturalmente risulta dai metodi abituali del calcolo delle probabili­
tà, e un rischio d'ignoranza, dovuto a un'assenza di informazione su ciò
che può accadere. La distinzione non resisterebbe a un'analisi fine (il
caso è qualcosa di diverso dall'espressione della nostra ignoranza?), ma
ha una grande importanza pratica. L'esperienza mostra che l'essere
umano accetta più volentieri il rischio aleatorio che non il rischio
d'.ignoranza, anche se nella maggior parte delle situazioni concrete essi
si presentano congiuntamente. La saggezza popolare ci insegna che « è
meglio i l diavolo che s i conosce d i quello che non s i conosce », e anche
il poeta ci dice, per bocca del principe di Danimarca:
3

( . . . ) perché chi sopporterebbe le sferzate e gl'insulti del mondo, l'ingiustizia del­


l'oppressore, la contumelia dell'uomo orgoglioso, gÙ spasimi dell'amore
disprezzato, l'indugio delle leggi, l'insolenza di chi è investito di una carica, e
gli schemi che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso po­
trebbe fare la sua quietanza con un semplice pugnale? chi vorrebbe portar far­
delli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non che il timore di qualche
cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggia­
tore ritorna, confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbia­
mo, che non volare verso altri che non conosciamo?

In effetti, se gli individui e i popoli affrontano quotidianamente


rischi a volte molto grandi, purché l'esperienza ne abbia fissato i limiti,
li si sente molto più disarmati quando si tratta di affrontare l'ignoto. La
vita umana è fatta di rischi accettati. Il primitivo che vive di caccia o
raccolta non sa se domani troverà qualcosa da mangiare. Il contadino
3 William Shakespeare, Amleto, atto III, scena l , trad. R. Piccoli, in Tutte le opere,
a cura di M. Praz, Sansoni, Firenze 1 964, p. 699.
128 CAPITOLO QUINTO

che semina oggi non sa se, fra sei mesi o fra un anno, il raccolto ripa­
gherà i suoi sforzi. Il commerciante che rifornisce il suo magazzino
non sa se riuscirà infine a vendere tutte le merci. Ognuno di questi
rischi si inquadra in un modello sperimentato, trasmesso da una gene­
razione all'altra, che assegna limiti al possibile e determina delle proba­
bilità. Il contadino conosce, per esperienza o per sentito dire, le diverse
calamità che possono distruggere il suo raccolto, il gelo e la siccità,
l'inondazione e l'incendio, le cavallette e la malattia. Può immaginare
che le cose vadano ancor peggio, per esempio che si verifichino le dieci
piaghe d'Egitto, anche se esse non si sono più ripetute a memoria d'uo­
mo. Sa però che il cielo non gli cadrà sulla testa; sa anche che tutte
queste calamità hanno probabilità piccole, che si possono ancor più
ridurre prendendo certe precauzioni e praticando certi riti, come atte­
sta il semplice fatto che, dopo tante generazioni, egli sia ancora lì a col­
tivare la stessa terra. Egli ha dunque una probabilità ragionevole di
sopravvivere, come l'hanno avuta prima di lui i suoi antenati, e se
l'anno si annuncia sfavorevole, l'anno seguente dovrà essere migliore.
Raffìguriamoci ora l'irruzione dei conquistadores nell'impero incaico.
La società indiana era abituata ad assumersi un certo numero di rischi:
era una società contadina, e i rischi agricoli le erano familiari; era
anche un impero che era stato fondato attraverso la conquista, e i rischi
militari non le erano ignoti. Pare che gli inca non abbiano saputo
affrontare il nuovo rischio rappresentato da questi esseri barbuti e
corazzati, che montavano animali sconosciuti e maneggiavano strane
!ance tonanti, e il cui modo di combattere sfidava le leggi comuni del­
l'umanità. Le ragioni del crollo dell'impero incaico sono scomparse
con Atahualpa e con milioni di suoi sudditi, ma pare plausibile che fos­
sero connesse a un'incapacità psicologica di assumersi certi rischi. È
meglio sottomettersi che combattere un avversario di cui non si è in
grado di misurare la potenza.
In generale non pensiamo che un contadino o un commerciante,
che pure si assumono quotidianamente certi tipi di rischio, abbiano
bisogno di coraggio. Per contro, il personaggio dell'esploratore è
l'archetipo del coraggio. Perché? Perché penetra in quella terra inco­
gnita, in quell'area bianca delle vecchie carte geografiche la cui vista
induce un tale disagio che i cartografi preferivano riempirla di vignette,
o cingerla con la scritta: «Hic sunt leones>>. Un'informazione di questo
genere, per quanto fantastica e riconosciuta come tale, è più rassicu-
RISCHIO 129

rante di una totale mancanza d'informazione. E tuttavia quest'area


bianca della carta potrebbe essere l'Eldorado, in cui il minimo fiume
contiene pepite, o la mitica terra che l'Eterno promise al suo popolo e
in cui scorrono latte e miele. L'esploratore va forse verso la fortuna:
perché immaginare sempre il peggio, se non perché temiamo l'ignoto?
Vediamo dunque disegnarsi due zone di rischio: il campo dell'alea­
torio, in cui regna il calcolo delle probabilità, e il campo dell'ignoto,
dove l'unica regola è la prudenza. Questa impostazione sarebbe senza
dubbio sufficiente a darci un'immagine coerente delle decisioni umane,
se la frontiera fra questi due ambiti non fosse vaga, e se il calcolo delle
probabilità non si fosse imposto a poco a poco come uno strumento
universale. È così che, nella valutazione dei rischi legati alle centrali
nucleari, la comunità dei politici e dei tecnici, appoggiandosi a modelli
probabilistici, si oppone all'opinione pubblica, che tende a essere molto
più prudente. Si tratta semplicemente di mancanza d'informazione o di
mancanza di competenza da parte del pubblico, oppure è messa in
discussione la validità dei modelli probabilistici? L'importanza di que­
sto problema è tale che è legittimo dedicargli alcune pagine.
La prima osservazione da fare è che troppo spesso, quando si rendono
pubbliche le stime ufficiali delle probabilità di incidente, esse risultano
spesso in aperta contraddizione con le frequenze osservate. L'esempio
più famoso è quello della NASA, che nel 1 985 stimava la probabilità di
incidente nei lanci spaziali l su 1 00 000,4 mentre studi anteriori avevano
concluso per una probabilità dell'ordine di l su 1 00, e il razzo vettore
è esploso in realtà al venticinquesimo lancio. Non conosco le valuta­
zioni ufficiali circa il rischio di incidenti in centrali nucleari, sempre
che siano state pubblicate, ma dubito che la probabilità di un incidente
a Three Mile Island o a C emobyl sia stata stimata al suo valore reale.
Infine, ricordiamo che il Titanic era stato definito inaffondabile; la
probabilità che affondasse non era solo infima, non esisteva proprio.
Si può sempre sospettare che politici corrotti o ingegneri fanatici
trucchino le cifre per imporre i loro progetti, ma persino in circostanze
in cui non sono in gi oco poste concrete le probabilità di insuccesso cal­
colate da persone competenti e in buona fede possono rivelarsi siste­
maticamente sottovalutate. Un articolo recente 5 esamina ventisette

4 Space Shuttle Data for Planetary Mission RTG Safety Analysis (NASA, Marshall
Space Flight Center, AL, 1 5 febbraio 1 985).
5 M. Henrion e B. Fischhoff, in «American Journal of Physics>>, LIV ( 1 986), p. 79 1 .
130 CAPITOLO QUINTO

misurazioni della velocità della luce pubblicate fra il 1 87 5 e il 1 9 5 8 .


Ognuna d i esse era accompagnata, come d'uso, d a una stima del mar­
gine di errore suggerita dallo stesso sperimentatore: questi fornisce
uno scarto tipo che permette, per ogni quantità e, di calcolare la proba­
bilità che il valore misurato si discosti più di e dal valore esatto. Se si fa
il calcolo, prendendo per e lo scarto fra il valore misurato e il valore del
1 984, considerato talmente esatto da essere usato oggi come riferi­
mento per la definizione dell'unità di lunghezza, si trovano in ogni caso
probabilità inferiori allo 0,5 per cento. In altri termini, se si accettano
le valutazioni dei successivi sperimentatori, si deve ritenere che gli
eventi abbiano effettivamente congiurato contro di loro per falsarne i
risultati: si sarebbe estratto ventisette volte di seguito un evento che
aveva meno di cinque probabilità su mille di prodursi.
La seconda osservazione è che l'imprevisto esiste, e che molto
spesso l'errore è umano. Nel 1 987, in Brasile, nella città di Goiània,
due rottamai scoprirono in una clinica adibita ad altro uso, una capsula
contenente un centinaio di grammi di una polvere fosforescente. Era
cesio 1 3 7 radioattivo, che si trovò così a essere liberato fra la popola­
zione in modo del tutto imprevisto. Quando la disseminazione fu
infine bloccata, nel dicembre 1 987, erano già stati catalogati 1 2 1 casi di
contaminazione, di cui quattro mortali, e più di l 00 000 abitanti si
erano presentati a esami di controllo della radioattività. Il timore di
contaminazione sui mercati esteri aveva ridotto alla metà il valore
totale della produzione agricola dello Stato di Goias, e ne aveva sof­
ferto anche la produzione industriale. In breve, si dovettero pagare
costi umani ed economici considerevoli per un rischio che nessuno si
era assunto coscientemente. E si possono immaginare, a partire dalla
scoperta iniziale, scenari ancor più catastrofici. Che cosa sarebbe acca­
duto, per esempio, se il cesio 1 3 7 fosse caduto in mano a ricattatori, e
il Brasile avesse dovuto far fronte alla minaccia di una contaminazione
organizzata?
L'esperienza dimostra che, in materia nucleare, il rischio sfugge in
gran parte alla misurazione. A Three Mile Island come a C ernobyl,
sono stati scenari imprevisti a condurre all'incidente, con la coopera­
zione involontaria degli operatori della centrale. Si può parlare di
errore umano, ma ciò equivale a spostare troppo facilmente sugli ope­
ratori la responsabilità di chi ha progettato la centrale. L'errore umano
dovrebbe essere integrato nei meccanismi di sicurezza e nei calcoli di
RISCHIO 131

affidabilità, allo stesso titolo dei guasti tecnici. In questa prospettiva,


l'errore umano dovrebbe ricevere molta più attenzione degli incidenti
dovuti ad avarie, giacché, se l'errore o la negligenza possono fare tanto
danno, quanto di più potrebbe farne l'intenzione deliberata di sabo­
tare? Si potrebbe pensare di eliminare questi rischi concependo cen­
trali completamente automatiche, ma il rischio umano non si limita
certamente agli operatori. Dopo tutto, gli ingegneri possono commet­
tere errori, gli esperti possono mentire, i sorveglianti possono dormire.
Coloro a cui competono le decisioni - e il pubblico - devono prendere
in considerazione tutti questi rischi, e sono in grado di apprezzarli
meglio dei tecnici.
Ci si deve render conto che un solo rischio trascurato o ignorato
può invalidare tutti i calcoli di affidabilità fatti sugli altri rischi. Inoltre
la moneta cattiva scaccia la buona, nel senso che i fattori che aggravano
il rischio hanno una netta prevalenza su quelli che tenderebbero a
diminuirlo. Immaginiamo per esempio una centrale in cui la probabi­
lità di incidente fosse stimata 1 1 1 000 000. Immaginiamo che siano stati
dimenticati due fattori di rischio, uno che moltiplica il rischio per mille
e uno che lo diminuisce nella stessa misura, così che per il l O per cento
del tempo la centrale funzioni in effetti con una probabilità di inci­
dente di 1 1 1 000, per il l O per cento con una probabilità di incidente di
1 / 1 000 000 000 e per il restante 80 per cento con la probabilità stimata
in precedenza, ossia di 1 1 1 000 000. Un semplice calcolo dimostra allora
che la probabilità reale di incidente è dell'ordine di 1 1 1 0 000. Essa è
press'a poco insensibile a qualsiasi cosa si possa fare per diminuire i
rischi noti . Se, per esempio, un lavoro assiduo e rigoroso sulle norme
di sicurezza riduce la probabilità di incidente in quel 90 per cento del
tempo in cui il rischio ignorato non opera a 1 1 1 000 000 000, la proba­
bilità reale di incidente resterà press'a poco di 1 1 1 0 000.
A queste considerazioni poco incoraggianti occorre aggiungerne
un'altra: essa è che mai, nella storia dell'umanità, si sono prese deci­
sioni che abbiano comportato un impegno per il futuro a così lunga
scadenza. L'industria nucleare produce scorie che resteranno estrema­
mente pericolose per almeno diecimila anni. Quelle che non si per­
dono (può succedere anche questo) o che non vengono riciclate, sono
accumulate in siti speciali, miniere abbandonate o caverne di granito,
dove in teoria sono sottoposte a una sorveglianza costante. Ma dieci­
mila anni sono una durata doppia rispetto al tempo trascorso da quando
1 32 CAPITOLO QUINTO

esiste la scrittura, il doppio della durata della storia umana. Immagi­


niamo che nostri lontani antenati, nella notte dei tempi, molto tempo
prima delle prime dinastie egizie o cinesi, molto prima dell'emergere
delle religioni attuali, ci avessero lasciato sepolcri da non aprire e a cui
neppure avvicinarsi. Le guardie sarebbero state fedeli durante quella
lunga successione di imperi, di guerre e di calamità? Si sarebbe conti­
nuato a trasmettere l'ordine nei secoli e nei millenni, il ricordo si
sarebbe perpetuato? O qualche conquistatore avrebbe fatto aprire quei
sepolcri dinanzi a sé per affrontare la leggenda?
Senza dubbio ci si culla nella speranza che le scorie radioattive non
restino nei loro depositi per diecimila anni, e che molto prima le future
generazioni abbiano trovato una cura per il cancro, un vaccino contro
l'Aids, il segreto dell'eterna giovinezza e il modo di sbarazzarci delle
nostre scorie. Queste potranno essere trattate in stabilimenti non
inquinanti, o trasportate nello spazio da veicoli che non esplodano in
volo. Gli stessi veicoli saranno senza dubbio comodissimi per reinte­
grare lo strato dell'ozono, e si attende con curiosità di vedere in che
modo i nostri discendenti riusciranno a diminuire la quantità di ani­
dride carbonica presente nell'atmosfera.
La verità è che la civiltà industriale procede senza misurare i rischi
in modo adeguato e senza considerarli in modo globale. Senza dubbio
si può fare una requisitoria contro l'energia nucleare, ma non è un
bene neppure bruciare combustibili fossili, e anche le dighe delle cen­
trali idroelettriche hanno i loro inconvenienti. È il problema delle sor­
genti di energia del pianeta, problema che si pone accanto a tanti altri
che non richiamano sufficientemente l'attenzione. Si riuscirà a metter
fine all'epidemia di Aids? In certi paesi africani è già infettato un terzo
della popolazione. Abbiamo riflettuto su tutte le conseguenze di questo
fenomeno? Un altro grave problema è quello di intere popolazioni che
sono state scacciate dalle loro terre e vivono da più di quarant'anni in
campi per profughi. Se si lascia perpetuare, una generazione dopo l'al­
tra, questo genere di situazione, si creano deliberatamente grandi rischi
storici. Chi li ha misurati ? Chi li prende in conto?
Noi procediamo anestetizzati fra i rischi creati da noi stessi. Di
tanto in tanto un incidente ci scuote dal nostro torpore, e noi gettiamo
uno sguardo nel precipizio. Si verifica un incidente a C ernobyl, e noi
non beviamo più latte; scoppia una rivolta popolare, e noi andiamo in
vacanza in un altro posto. Come Gunnar di Hlidarendi, che fu ripor-
RISCHIO 133

tato a se stesso da una caduta da cavallo. Ma il suo gesto aveva un'altra


grandezza.

L'assunzione di un rischio non è sempre il risultato di un calcolo. In


materia economica appunto, come faceva notare Keynes : 6 « S e la
natura umana fosse assolutamente insensibile all'attrattiva di tentare la
sorte e alla soddisfazione (a parte il profitto) di costruire una fabbrica,
una ferrovia, una miniera o una fattoria, il freddo calcolo potrebbe non
essere sufficiente da solo a dar luogo ad un investimento cospicuo >>.
Un po' sopra scriveva che « quando le imprese erano principalmente
proprietà di coloro che le gestivano o dei loro amici e soci, l'investi­
mento dipendeva dall'esistenza di un numero sufficiente di individui di
temperamento ottimista e di impulsi costruttivi, i quali si dedicavano
agli affari come un modo di vivere, senza basarsi effettivamente su un
calcolo preciso di profitti prospettivi>>.
Perché gli ateniesi si assunsero, prima a Maratona e poi a Salamina,
il rischio di affrontare da soli un nemico nettamente superiore, dinanzi
al quale molte altre città greche avevano capitolato, mentre i lacede­
moni si isolavano nel Peloponneso? Ecco con quale fierezza, un secolo
e mezzo dopo i fatti, gli ambasciatori ateniesi parlarono ai lacedemoni
a Sparta: 7 «Affe rmiamo, dunque, che a Maratona fummo primi e soli
ad affrontare il barbaro; e quando egli tornò per la seconda volta, non
essendo noi in grado di opporci a lui per terra, saliti in massa sulle navi,
insieme con voi combattemmo a Salamina >>. Il rischio era stato assunto
due volte. Se l'impresa fosse fallita, mai più nessuno avrebbe sentito
parlare degli ateniesi. Ma essa riuscì, e se ne parla ancora a distanza di
venticinque secoli . Eschilo, autore di tanti capolavori, non volle si
menzionasse sulla iscrizione funebre altro titolo di gloria oltre al fatto
di aver combattuto a Maratona : « Questa tomba racchiude Eschilo,
figlio di Euforione, ateniese, morto a Gela, produttrice di messi. Il suo
valore possono dirlo il sito glorioso di Maratona e il medo dalle lunghe
chiome, che lo hanno conosciuto >>.
Ci sono casi in cui il comportamento sembra dettato non da calcoli
di utilità bensì da imperativi morali che, una volta accettati, non

6 J . M . Keynes, The Genera! Theory of Employment Interest and Money, Harcourt


Brace, New York 1 9 3 6, cap. 1 2 , sez. III [trad. A. Campolongo, Occupazione, interesse e
moneta. Teoria generale, Utet, Torino 1 968, pp. 1 3 2 sg.).
7 Tucidide, La guerra del Peloponneso, lb. I, cap. 73, trad. L . Annibaletto, vol. l ,
Mondadori, Milano 1 95 2 , l ' ed. Oscar Mondadori 1 97 1 , p . 49.
1 34 CAPITOLO QUINTO

lasciano molta scelta. Per il soldato impegnato in una lotta disperata, la


motivazione sarà da ricercarsi nel senso dell'onore, o nella solidarietà
con i compagni d'armi; per il capitalista, animato dall'etica protestante,
nella convinzione che il denaro debba dare frutto, come nella parabola
dei talenti. A partire dal momento in cui la coscienza si affida esclusiva­
mente a una regola decisionale, che le detta un'azione senza conside­
rare le possibilità alternative, è la nozione stessa di rischio a scompari­
re, lasciando posto a quella di destino. Quando Gunnar cade da cavallo
e decide di restare in patria, non soppesa il pro e il contro, ma è il suo
destino a imporglisi. Non correrà per mare, esiliato dagli intrighi dei
suoi nemici, fosse pure per tornare dopo tre anni. Morirà nella sua ter­
ra, le armi in pugno, e la sua principale preoccupazione sarà ormai
quella di non trascinare gli amici nella sua caduta.
Ogni problema di decisione ha una dimensione morale, e quanto
più la decisione è grave, tanto più questa dimensione è importante.
Diceva Albert Camus: «Non c'è rischio a scegliere ciò che vi disonora ».
CAPITOLO 6

Statistica

Allora Faraone disse a Giuseppe: «Nel mio sogno, ecco che io stavo presso il
fiume. Ed ecco che sette vacche, grasse di carne e belle di aspetto, salivano dal
fiume e si mettevano a pascolare nella giuncaia. Ed ecco che, dopo di quelle,
salivano altre sette vacche, deboli, bruttissime d'aspetto e magre di carne, io
non ne vidi mai di così brutte in tutta la terra d'Egitto. Poi, le vacche magre e
brutte divorarono le prime sette vacche, quelle grasse, che entrarono nel loro
corpo, ma non ci si accorgeva che erano entrate nel loro corpo, essendo il loro
aspetto deforme come prima. Allora io mi svegliai. Poi vidi ancora nel mio so­
gno ed ecco che da un unico stelo venivano su sette spighe piene e belle. Ma
ecco che venivano su, dopo di quelle, sette spighe gracili, sottili e arse dal vento
d'oriente. E le spighe sottili divorarono le sette spighe belle. E io l'ho narrato
agli indovini, ma nessuno me lo sa spiegare >>.
Allora Giuseppe disse a Faraone : « Il sogno di Faraone è uno solo. Dio ha mani­
festato a Faraone ciò che egli sta per fare. Le sette vacche belle sono sette anni
e le sette spighe belle sono sette anni : è un solo sogno. Le sette vacche magre e
brutte che salgono dopo quelle, sono sette anni e così le sette spighe sottili, arse
dal vento d'oriente; ci saranno sette anni di carestia. Questo è ciò che io dicevo
a Faraone : Dio ha fatto vedere a Faraone quello che egli sta per fare. Ecco,
stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutta la terra d'Egitto,
136 CAPITOLO SESTO

poi, dopo questi, verranno sette anni di carestia e nella terra d'Egitto si dimen­
ticherà tutta quell'abbondanza; la carestia consumerà il paese. Nessuno cono­
scerà più l'abbondanza del paese, a causa della carestia che verrà appresso, per­
ché sarà molto grave. E se il sogno di Faraone si è ripetuto due volte, significa
che la cosa è decisa da Dio e che Dio ben presto la eseguirà. Ora dunque,
Faraone provveda un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo della terra
d'Egitto. Procuri Faraone di stabilire dei sovrintendenti nel paese per riscuo­
tere la quinta parte della terra d'Egitto durante i sette anni di abbondanza. E
radunino essi tutte le vettovaglie di queste buone annate che stanno per venire e
ammassino il frumento sotto l'autorità di Faraone come vettovaglie della città e
le custodiscano. Tali vettovaglie resteranno in deposito per la terra nei sette
anni di carestia che verranno nella terra d'Egitto; così il paese non sarà distrutto
dalla carestia». '

La terra scandinava era dura verso i suoi figli, i quali appresero ben
presto a volgersi verso il mare, più ricco di risorse e di promesse. La
pesca e la pirateria, le spedizioni di conquista o di scoperta: questo era
l'universo vichingo. Il capo è colui che guida i suoi uomini alla vittoria.
La potenza del re è innanzitutto militare; il tributo e il saccheggio sono
le fonti della sua ricchezza. La cattiva stagione è innanzitutto quella in
cui è impossibile navigare.
È dall'ubertosa terra d'Egitto, e forse della Mesopotamia, due mil­
lenni prima dell'ingresso degli uomini del Nord nella storia, che ci
vengono i miti fondatori dell'agricoltura, e i metodi di gestione che
applicano ancor oggi i nostri governi . Certo, la Scandinavia conosceva
le carestie. Snorri S turluson racconta come Domalde, uno dei re mitici,
primi discendendi di Odino, fu sacrificato dopo tre cattivi raccolti con­
secutivi : 2
Domalde assunse l a successione di suo padre Visbur e regnò sul Paese. Fu un
periodo di carestia e di miseria. Gli svedesi organizzarono allora grandi sacrifici
a Uppsala. Il primo autunno sacrificarono dei tori, ma il raccolto non migliorò
molto; l'autunno seguente sacrificarono vite umane, ma il raccolto rimase
uguale se non peggiore. Il terzo autunno gli svedesi si recarono in gran numero
a Uppsala per i sacrifici; i capi tennero allora consiglio, e furono d'accordo che
quelle carestie dipendevano da Domalde, loro re, e che essi dovevano prenderlo
e sacrificarlo per ottenere raccolti migliori, prenderlo, ucciderlo e aspergere del
suo sangue le pietre sacrificali. E così fecero.

Qui la responsabilità del re è d'ordine magico o cerimoniale. Siamo


nel periodo travagliato in cui è ancora vivo il ricordo di Odino, e m

1 Genesi, 4 1 , 1 7-36.
2 Heimskringla, Ynglinga-Saga, c a p . 15.
STATISTICA 137

cui la storia si separa a poco a poco dal mito. Il raccolto è il risultato


visibile di un gioco complesso fra la società umana e le potenze sopran­
naturali che controllano la fertilità del suolo, un gioco in cui il re
svolge un ruolo importante. Forse Domalde è vittima del seid, poiché
sua suocera aveva fatto lanciare una maledizione contro di lui. Forse
paga il fatto di avere usato il seid contro suo padre, il re Visbur, e di
averlo sorpreso e arso vivo nella sua villa. Il fatto è che il sacrificio
porta i frutti attesi, poiché dopo di lui regna suo figlio Domar, e Snorri
precisa che egli visse a lungo e che il Paese godette per tutto il suo
regno di abbondanza e tranquillità.
La storia di Giuseppe ci mette di fronte a un ordine di responsabi­
lità del tutto diverso, burocratico e temporale. Faraone si interessa a
ciò che accadrà in un periodo di quattordici anni; egli vuole prevenire
i mali che si preannunciano, e ha i mezzi materiali per farlo. Imporrà
un tributo speciale del venti per cento in natura sui prodotti agricoli, e
accumulerà il prodotto durante i sette anni di abbondanza. Sovrinten­
derà alle operazioni un corpo di funzionari appositamente creato, e
diretto da un ministro con pieni poteri. Diciamo, per precisare le
nostre idee, che durante i sette anni grassi il raccolto sarà al 1 2 5 per
cento del livello normale, e durante i sette anni magri al 7 5 per cento.
La ripartizione proposta da Giuseppe conduce a limitare nel primo
periodo i consumi al livello normale ( 1 2 5 - 2 5 = l 00 per cento), cosa
che consentirà di mantenerli normali (75 + 2 5 = 1 00 per cento) anche
durante il secondo periodo. L'operazione regge, e avrà un grande suc­
cesso, almeno per Faraone, che si è procurato del grano gratuitamente
e può rivenderlo a peso d'oro (Genesi, 4 1 , 56-57).
È chiaro che un'operazione di questo genere richiede una grande
burocrazia, molto superiore alle possibilità dei re vichinghi. Si deve pro­
cedere a un censimento della produzione, creare una rete di magazzini
reali, farvi depositare il 20 per cento del raccolto di sette anni, assicu­
rarne la conservazione e tenerne la contabilità, e poi rivendere queste
eccedenze a un ritmo adeguato a farle durare sette anni, cosa che
impone di avere un'idea abbastanza precisa del fabbisogno della popola­
zione. Oltre alle solite guardie, ai soliti gabellieri e agenti del fisco,
occorrerà anche un esercito di contabili e di statistici. Ne è ben consape­
vole Faraone, che crea un corpo specializzato. Questi scribi eseguiranno
calcoli economici, contabilità analitica e controllo di gestione, e si servi­
ranno delle loro competenze tecniche per accedere al potere politico, a
138 CAPITOLO SESTO

immagine dello stesso Giuseppe, che ricevette da Faraone il nome di


Safenat-Panea e divenne suo ministro: una bella carriera.
Anche in tempi normali, il governo dei due regni dell'Alto e Basso
Egitto richiedeva di gestire risorse in vista del futuro, cosa che presup­
poneva un'amministrazione efficiente, in grado di svolgere una politica
a lungo termine, di illuminarla con previsioni e di imporla nell'imme­
diato. L'economia era essenzialmente agricola, e il Paese viveva al
ritmo delle inondazioni del Nilo. Occorreva dunque valutare regolar­
mente ogni nuovo raccolto, da un capo all'altro del Paese, stimare se
esso sarebbe stato o no sufficiente, se si potevano accumulare ecce­
denze o se invece si doveva attingere alle riserve, tenere una contabilità
esatta delle entrate e delle uscite, e cercare di prevedere l'entità del rac­
colto successivo, allo scopo di gestire efficacemente l'affluenza presente.
Giuseppe semplificò considerevolmente il problema di Faraone,
predicendogli in modo certo non soltanto il prossimo raccolto, ma
addirittura i prossimi quattordici. A quel punto non c'era bisogno di
essere un genio per decidere la politica da seguire: economizzare
durante i sette anni grassi, per ridistribuire durante i sette anni di care­
stia. Ma il problema concreto, quando non si ha il beneficio dell'assi­
stenza diretta dell'Altissimo, è che non si sa come sarà il domani. Se
quest'anno il raccolto è buono, non si sa se l'anno prossimo sarà buono
o cattivo, e quindi se quest'anno conviene economizzare o consumare.
E se due raccolti di seguito sono buoni, il problema rimane lo stesso: si
deve continuare a immagazzinare in vista di tempi difficili che non si
preannunciano ancora, oppure ci si può lasciar andare senza preoccu­
pazioni alle gioie del consumo?
In assenza di premonizioni, Faraone può far ricorso a qualche
ricetta sperimentata. La prima, molto in voga ancor oggi, è quella di
espandere il proprio territorio con conquiste e annessioni. Così
facendo egli diversifica il rischio, e in tal modo lo diminuisce. Le altre
terre agricole della Mezzaluna Fertile - Palestina, Libano, Siria, la
stessa Mesopotamia - non sono infatti sottoposte alle stesse condizioni
dell'Egitto. La sorte di queste regioni dipende in definitiva dalle ·preci­
pitazioni sulla doppia catena costiera del Libano e dell' Antilibano, e
non dalle precipitazioni sul lontano massiccio etiopico che alimenta il
Nilo. Quanto alla lontana Mesopotamia, vi è sviluppato un sistema di
irrigazione alimentato dal Tigri e dall'Eufrate, che discendono dai
massicci della Cappadocia. Tre economie, sottoposte ciascuna a rischi
STA TISTICA 139

propri, ma fra loro indipendenti; se non piove in Etiopia, cio non


significa che non pioverà nel Libano. Un impero che si estendesse dal­
l'Egitto alla Mesopotamia non sarebbe quindi esposto a gravi carestie
se non nel caso di una siccità diffusa dall' Mrica centrale all'Asia Mino­
re. Siccità simultanee in regioni così lontane fra loro possono effettiva­
mente prodursi, ma molto meno spesso di siccità localizzate. Se,
per esempio, si stima che un anno su sette non ci sarà l'inonda­
zione del Nilo che feconda i terreni agricoli dell'Egitto, che un anno
su sette il Tigri e l'Eufrate saranno in secca, e che questi eventi siano
indipendenti, la probabilità che essi si producano contemporaneamente
è solo di uno su quarantanove, cosicché l'imperatore può considerarsi
praticamente al riparo da una simile catastrofe durante il suo periodo
di regno.
L'altra ricetta consiste nel rimettersi al tempo. Se effettivamente
l'anno prossimo sarà una brutta annata, ciò non implica necessaria­
mente che lo sarà anche l'anno successivo. Certo possono esistere cicli
climatici, o manifestazioni di collera divina, ma, in assenza di indizi
probanti, è ragionevole pensare che il tempo che farà l'anno prossimo
sia indipendente dal tempo che fa quest'anno. La conseguenza è sem­
plice. Se si stima, come in precedenza, che gli anni di siccità abbiano la
frequenza di uno su sette, la probabilità che ce ne siano due consecutivi
è solo di uno su quarantanove, e la probabilità che ce ne siano sette
consecutivi è di l su 82 3 543 (= T). Quest'evento è così improbabile
che la sua realizzazione sarà un indizio probante di un intervento
soprannaturale, o di un errore nel modello.
Al cuore di questi ragionamenti, come di ogni analisi statistica, si
trova la nozione di indipendenza. Essa può essere spaziale, dovuta alla
lontananza, o temporale, dovuta all'oblio. Senza dubbio, da un certo
punto di vista, l'indipendenza non esiste. La circolazione atmosferica
dipende in ultima analisi dall'irraggiamento solare e dalla rotazione della
Terra. Le perturbazioni locali che si osservano qua e là non sono altro
che conseguenze delle interazioni complesse di cui è teatro il sistema
globale. Le precipitazioni in Etiopia e in Cappadocia hanno cause co­
muni, ma lontane. Lo sa bene l'astronauta che, in orbita attorno alla
Terra, abbraccia in uno sguardo un intero emisfero e ammira il bal­
letto dei sistemi nuvolosi. Ma le figure sono abbastanza variate, il
loro svolgimento presenta abbastanza imprevisti, perché la proporzione
dei giorni di pioggia in Etiopia sia la stessa, la si riferisca alla tota-
140 CAPITOLO SESTO

lità del periodo o solo ai giorni di pioggia in Cappadocia. In


altri termini, la constatazione che piove ad Addis Abeba non modifica
(o modifica troppo poco perché possiamo rendercene conto) la proba­
bilità che piova ad Ankara, ed è questa l'idea che esprimiamo dicendo
che questi eventi sono indipendenti. Similmente, la constatazione che
oggi piove al Cairo non ci dice molto sul tempo che farà nello stesso
luogo fra un anno. In teoria, la risposta è già contenuta nello stato
attuale dell'atmosfera, ma da qui a trecentosessantacinque giorni sarà
passato abbastanza tempo per diluire il ricordo dell'acquazzone caduto
oggi fra innumerevoli altre influenze, ancor più insignificanti o al con­
trario considerevoli, il battito d'ali di una farfalla o un ciclone nel Mar
Cinese. Alla scala di un anno, la meteorologia non ha memoria. Colui
che sa che oggi ha piovuto e colui che non lo sa, sono nelle stesse con­
dizioni per predire se pioverà o no fra un anno.
In statistica si isolano degli eventi, di cui si postula l'aleatorietà, in
un senso matematico molto preciso. Schematizziamo questo modo di
procedere raffigurandoci per ogni avvenimento una grande urna, riem­
pita di palline rosse e verdi; ogni volta che si deve prendere una deci­
sione, Dio estrae una pallina dall'urna. Se la pallina è verde l'avveni­
mento ha luogo, mentre se è rossa esso non si produce. Il lavoro dello
statistico consistere nel predire la proporzione fra le palline rosse
e le verdi.
Nel caso più semplice le estrazioni sono indipendenti. Ciò significa
che, se si eseguono varie estrazioni successive, il risultato dell'ultima
non è influenzato dalle precedenti. Un primo modo di garantire questa
indipendenza è quello di rimettere nell'urna la pallina estratta, e di
agitare poi coscienziosamente l'urna per omogeneizzare la distribu­
zione delle palline. La frequenza empirica, ossia il numero di uscite del
verde diviso per il numero delle estrazioni, dovrebbe essere vicina alla
porzione di palline verdi presenti nell'urna, con un'approssimazione
tanto migliore quanto più grande è il numero delle estrazioni. Un altro
modo di realizzare l'indipendenza è quello di estrarre le palline da urne
separate. La probabilità di estrarre due palline verdi, una da ciascuna
urna, si ottiene allora moltiplicando la probabilità di estrarre una pal­
lina verde dalla prima per la probabilità di estrarre una pallina verde
dalla seconda. Per esempio, se due eventi hanno ciascuno una probabi­
lità di 1 12 , e sono indipendenti, la probabilità che si producano
entrambi è di 1 14.
STATISTICA 141

Ci sono vari modi di realizzare una dipendenza (si dice piuttosto:


una correlazione) fra certi eventi. Si possono estrarre simultaneamente
le palline dalla stessa urna. A tale scopo si devono introdurre due nuovi
colori, il bianco e il nero. Se chiamiamo X e Y gli eventi considerati,
avremo il seguente codice dei colori:

verde = hanno luogo X e Y


bianco = ha luogo X, e non Y
nero = ha luogo Y, e non X
rosso = non hanno luogo né X né Y;

e, come in precedenza, Dio estrarrà una pallina ogni volta che ci sarà
da prendere una decisione. Se i quattro colori sono in parti uguali,
25 per cento ciascuno, ritroviamo le probabilità assegnate in prece­
denza per due eventi indipendenti di probabilità 1 /2 , e l'estrazione così
realizzata sarà rigorosamente equivalente a una doppia estrazione da
due urne contenenti palline di due colori. Si dirà dunque a buon
diritto che X e Y sono indipendenti. All'altro estremo, si può
rinunciare a usare sia le palline bianche sia le palline nere. In questo
caso, X e Y risultano connessi nel modo più stretto, giacché non si
osserva mai l'uno senza l'altro; noi non cerchiamo di separare X e Y
volendo sapere se l'uno è la causa dell'altro, ma notiamo semplice­
mente che appaiono sempre insieme.
Fra questi due estremi si trovano tutti i gradi della correlazione.
A titolo di esempio, esaminiamo che cosa significhino proporzioni del
30 per cento per il verde, 20 per il bianco, 20 per il nero e 30 per il ros­
so. Se si è interessati solo all'evento X, ci si rende conto che esso ha
luogo sia per una pallina verde sia per una pallina bianca; esso ha dun­
que il 30 + 20 = 50 per cento di probabilità di prodursi . Questa è dun­
que la probabilità che si attribuisce a X in assenza di ogni altra
informazione. Ma se si sa per altra via che si è realizzato l'evento Y, la
pallina che è stata estratta è verde o nera. Viste le rispettive propor­
zioni, ci sono tre probabilità contro due che essa sia una pallina verde,
e quindi che si realizzi anche X. Questa informazione supplementare fa
dunque passare la probabilità dell'evento X al 66 per cento in luogo del
50. Il fatto che si sia prodotto Y aumenta la probabilità che si produca
X; si dice che gli eventi X e Y hanno fra loro una correlazione positiva.
Si può ovviamente tener conto delle correlazioni, ma il cuore della
statistica è lo studio degli eventi indipendenti. Il risultato migliore e
142 CAPITOLO SESTO

più universale è il teorema del « limite centrale », che descrive in modo


molto preciso il risultato di un gran numero di estrazioni indipendenti.
Supponiamo, per esempio, un'urna che contenga palline bianche e
nere in parti uguali. Si intuisce che, se si procede a un gran numero di
estrazioni, si dovrebbero estrarre press'a poco tante palline bianche
quante nere, pur comprendendo che si potrebbe anche essere sfortu­
nati ed estrarre dall'urna solo palline nere. Questo teorema ci dà la fre­
quenza relativa di tali casi patologici, e ci permette di constatare che
essa diminuisce molto rapidamente all'aumentare del numero delle
estrazioni. Così, se si eseguono 1 500 estrazioni, si ha un numero astro­
00
nomico, 2 1 5 , di scenari possibili, ma per la metà di essi la frequenza
osservata delle palline bianche sarà compresa fra 49 e 5 1 per cento,
ossia si discosterà meno dell' l per cento dalla proporzione esatta. La
probabilità di osserVare fra il 49 e il 5 1 per cento di palline bianche in
1 500 estrazioni è dunque di 0 , 5 , e sale a 0,954 se si compiono 1 0 000
estrazioni, e a 0,999 se se ne compiono 2 7 000. In quest'ultimo caso si
ha dunque meno di una probabilità su mille di sbagliare situando la
proporzione esatta in una forcella dell' l per cento attorno alla fre­
quenza osservata.
Il primo insegnamento del teorema del « limite centrale >> è che la
precisione aumenta come la radice quadrata del numero delle estrazio­
ni. Per un livello di fiducia dato, per esempio 1 1 1 000 (ossia se si vuole
avere meno di una probabilità su mille di sbagliare), se la porzione
esatta di palline bianche nell'urna è di 1 12 , al termine di cento estra­
zioni la frequenza esatta si situerà in un intervallo pari a 0,3 3 per cento
a entrambi i lati del 50 per cento, intervallo che scenderà a 0,03 3 per
cento dopo diecimila estrazioni, e a 0,003 3 per cento al termine di un
milione di estrazioni. L'intervallo si riduce di un fattore l O ogni volta
che il numero delle estrazioni viene moltiplicato per 1 00, il livello di
fiducia rimanendo fissato a 1 1 1 000. In altri termini, le estrazioni aber­
ranti continuano a esistere ed è sempre possibile estrarre consecutiva­
mente cento, dieci, mille o un milione di palline bianche, ma la loro
frequenza relativa diminuisce. Si può interpretare questo risultato
dicendo che errori aleatori indipendenti e di media nulla tendono a
compensarsi se li si somma.
Il teorema del « limite centrale >> possiede anche un'interpretazione
geometrica, che otterremo cercando di rappresentare con una curva il
risultato di un gran numero N di estrazioni indipendenti . lmmagi-
STATISTICA 143

niamo che si tratti di palline bianche o nere, e alla fine contiamo le


nostre palline bianche. Può capitare che ci si trovi senza alcuna pallina
bianca, se tutte le estrazioni hanno dato una pallina nera, con N palline
bianche, se ogni estrazione ha dato una pallina bianca, o con un qual­
siasi numero intermedio. Per ogni numero n compreso fra O ed N,
riportiamo su un grafico il numero di scenari che arrivano a questo
totale di palline bianche. Si ottiene una caratteristica curva a campana,
detta curva di Gauss, simmetrica attorno al valore N/2 (se l'urna conte­
neva un numero uguale di palline bianche e di palline nere). L'univer­
salità di questa curva, onnipresente in tutti i campi della scienza e della
tecnica, è una conseguenza del teorema del « limite centrale >>.
Man mano che si vanno raccogliendo le misure, si vede apparire una
curva di Gauss. La statura delle reclute il giorno del censimento dei
giovani di leva, gli errori di arrotondamento nei calcoli, le misure spe­
rimentali di costanti fisiche si ripartiscono in maniera gaussiana. Lo si
comprende facilmente, se si considera che la statura di un uomo
dipende dalle costanti che influiscono su tutta la popolazione (tipo di
alimentazione, corredo genetico), ma anche da parametri individuali
(gusti alimentari, livello di vita, attività fisica, ereditarietà e mutazioni)
la cui ripartizione è aleatoria. Ogni individuo estrae i suoi parametri
alla nascita, e poiché queste estrazioni hanno luogo in modo indipen­
dente nella popolazione, la ripartizione delle stature in essa si conforma
al teorema del «limite centrale >>. Similmente, ogni misura fisica è infi­
ciata da errori di varia origine, dovuti particolarmente alle limitazioni
del dispositivo sperimentale e alla precisione degli strumenti usati .
Riprodurre l'esperimento, ripetere la misurazione, corrisponde a ese­
guire una nuova estrazione, indipendente dalle precedenti, e quindi
mettersi nelle condizioni di applicazione del teorema del « limite
centrale >>.
Quest'ultimo è così potente da estendersi ad ambiti in cui il caso
non ha visibilmente alcun posto. Uno di questi è l'aritmetica. Ricor­
diamo innanzitutto che un numero è primo se non ha divisori (oltre
naturalmente a l e a se stesso) . Così 2, 3 , 5, 7, 1 1 , 1 3 , 1 7 , 1 9, 2 3 , 29,
3 1 , 37 sono numeri primi; questo è solo l'inizio di una sequenza infi­
nita che ha affascinato i matematici dalla più remota antichità fino ai
nostri giorni. Se un numero non è primo, si decompone in un prodotto
di fattori primi; 6 ha due fattori primi (6 = 2 x 3) e 2 1 O ne ha quattro
(2 1 0 = 2 x 3 x 5 x 7). Per essere divisibile per 6, un numero dev'essere
144 CAPITOLO SESTO

divisibile per 2 e per 3 . Ora, metà dei numeri sono divisibili per 2 , un
terzo sono divisibili per 3, e un sesto sono divisibili per 6. Poiché
1 16 = 1 12 x 1 13 , esiste un'analogia formale con la regola di moltiplica­
zione delle probabilità di eventi indipendenti. Ci si può spingere oltre e
applicare il teorema del « limite centrale », come se si avesse veramente
a che fare col caso? La cosa sarebbe altamente paradossale; che cosa c'è
di più deterministico della successione dei numeri interi?
E tuttavia Mare Kac e Paul Erdos hanno mostrato nel 1 93 9 che il
numero dei fattori primi segue una ripartizione gaussiana. Esattamen­
te, il numero di fattori primi di un intero m è dell'ordine di log log m, e
la porzione di interi m per i quali questo numero è compreso fra

log log m + a V 2 log log m


e
log log m + b Y 2 log log m,
2 2
è data dall'area sotto la curva di Gauss .n - 1 1 exp (- x ) fra x = a e x = b. La
situazione assomiglia a ciò che si avrebbe se la sequenza infinita dei
numeri interi fosse il risultato di altrettante estrazioni indipendenti
fra i numeri primi. Come se Dio avesse creato dapprima i
numeri primi e poi avesse costruito gli altri tirando a sorte fra questi. Il
primo giorno egli estrasse il 2 e il 3 , e il 6 fu. Il secondo giorno estrasse
il 2 , il 3 , il 5 e il 7, e il 2 1 O fu.

Questa è una presentazione statica della nozione di indipendenza; se


ora vogliamo dare ad essa una dimensione dinamica, possiamo occu­
parci per esempio del moto browniano. Questo è in origine il moto
irregolare che anima particelle microscopiche in sospensione in un
liquido. Scoperto nel 1 82 7 dal botanico scozzese Robert Brown osser­
vando i moti disordinati di granelli di polline in sospensione in acqua,
e identificato nel 1 905 da Albert Einstein e da Marjan Smoluchowski
come l'effetto del moto aleatorio delle molecole circostanti, la sua teo­
ria matematica fu sviluppata da Norbert Wiener e da Paul Levy. Oggi
esso è uno fra i principali strumenti per la costruzione di modelli di
fenomeni dipendenti dal tempo e dal caso; la sua ubiquità non è affatto
inferiore a quella della ripartizione gaussiana, alla quale è d'altronde
strettamente legato.
Il moto browniano è per definizione un moto del tutto sprovvisto di
memoria. La particella di polline, in movimento nell'acqua, non sa
STA TISTICA 145

quando subirà il prossimo urto, né in quale direzione e con quale forza


sarà spostata. Il modello matematico idealizza questa situazione e
costruisce una particella che, in ogni istante, dimentica da dove viene,
guarda dov'è e decide dove vuole andare. In altri termini, lo sposta­
mento istantaneo dev'essere indipendente dalla storia passata; si può
immaginare che esso sia continuamente estratto a sorte. Rappresentia­
moci questa traiettoria in cui, a ogni istante, interviene un mutamento
di direzione e di velocità, e che nondimeno è continua. Quale matassa
da sbrogliare sul piano dell'esperimento! Se ne ingrandiamo certe por­
zioni, o se al contrario cerchiamo di guardarla da maggior distanza,
ritroviamo la stessa struttura a tutte le scale, una sorta di linea spezzata
che procede a tentoni nel nostro campo visivo. Fisicamente non si può
scendere più in basso della scala molecolare, ma matematicamente si
può continuare a ingrandire indefinitamente, ritrovando sempre lo
stesso aspetto generale. A qualsiasi scala di tempo, per quanto piccola,
la particella muta continuamente di direzione e di velocità: per questo
motivo le traiettorie del moto browniano ricordano quelle curve conti­
nue ma prive di tangenti che i matematici del secolo scorso considera­
vano curiosità un po' morbose. Il fisico Jean-Baptiste Perrin fece que­
st'osservazione nel libro Les atomes ( 1 9 1 3), che attrasse l'attenzione del
matematico Norbert Wiener.
Fu Wiener a dare, nel 1 92 3 , la prima definizione matematica rigo­
rosa del moto browniano. La difficoltà consisteva nel mostrare che esi­
ste effettivamente un ente matematico dotato di tutte le proprietà che i
fisici attribuivano comunemente al moto browniano. Wiener risolse il
problema appoggiandosi a due proprietà fondamentali. Da un lato,
tutte le traiettorie devono essere continue; dall'altro, una volta che la
posizione della particella è stata osservata nell'istante t = O (ed è dunque
nota), la sua posizione (aleatoria) in un istante successivo t dev'essere
governata da una legge di Gauss, i cui parametri dipendono beninteso
dal tempo t trascorso. Tutte le altre proprietà del moto browniano si
deducono da queste.
Una volta posto su solide basi matematiche, il moto browniano
avrebbe svolto un ruolo centrale nella costruzione di modelli dei feno­
meni aleatori. Nelle trasmissioni, per esempio, il segnale è sempre
associato a un rumore di fondo; il problema della filtrazione consiste
nel separare il segnale dal rumore. Esso fu risolto per la prima volta
dallo stesso Wiener, che inaugurò così i nuovi strumenti da lui intro-
146 CAPITOLO SESTO

dotti. I suoi risultati furono d'altronde coperti per molto tempo dal
segreto militare, in quanto si applicavano a una tecnologia nuova di
grande importanza in guerra: il radar. Oggi sono stati scoperti metodi
di filtrazione più efficienti, usati per esempio dai piloti automatici e
dalle guide inerziali degli aerei di linea o dei sottomarini. Ma le appli­
cazioni del moto browniano vanno ben oltre il trattamento del segnale:
si tratti di studiare la propagazione di un'epidemia o la diffusione del
calore, esso è lo strumento di base della costruzione di modelli.
In questi ultimi anni il moto browniano ha trovato un'altra applica­
zione. Alla fine del secolo scorso, un matematico di nome ]. Bachelier
sostenne una tesi con la quale proponeva di sviluppare un modello del
corso delle azioni in borsa per mezzo di un moto browniano. 3 Né i
mercati di borsa né la tecnica matematica erano ancora all'altezza di
quest'idea, e Bachelier sprofondò nell'amarezza e nell'oblio. Si dovet­
tero attendere i lavori di Wiener perché l'idea conoscesse un ritorno di
fortuna, che divenne un trionfo a partire dal 1 97 3 , quando Fischer
Black e Myron Scholes dimostrarono la loro famosa formula che per­
metteva di stimare le opzioni su azioni.
Ci si deve rendere ben conto che l'idea di costruire modelli del
corso di azioni per mezzo di un moto browniano non ha nulla di arbi­
trario, ma riflette idee precise sul comportamento dei mercati di borsa.
Se si assume che questi siano efficienti, ossia che il prezzo di un'azione
rifletta tutta l'informazione disponibile in proposito, si deve ammettere
che le variazioni di questo prezzo riflettono l'acquisizione di nuove
informazioni. Fra queste, alcune erano prevedibili e altre no. Per quanto
concerne le prime, se il mercato ha fatto quanto doveva, ne ha già
tenuto conto nel prezzo delle azioni : il rialzo o il calo hanno avuto
luogo per anticipazione, e la realizzazione di ciò che era previsto non
influisce più sui corsi. Questi dunque dipendono soltanto dalla parte
veramente nuova dell'informazione, ossia da quella che non era preve­
dibile a partire dagli elementi disponibili in precedenza. Da que­
sto punto di vista è naturale assimilare i corsi della borsa a un processo
a incrementi indipendenti, ossia in ultima analisi a un moto browniano.
Da un altro punto di vista, sono gli operatori a determinare i corsi
delle azioni, e riesce difficile accettare l'idea che queste migliaia di indi-

3 J. Bachelier, Théorie de la spéculation, in « Anna! es Scientifiques de l'École Nor­


male Supérieure», XVII ( 1 900), pp. 2 1 -86.
STATISTICA 147

vidui seduti alle loro scrivanie in tutto il mondo, ognuno con le sue
intuizioni e le sue fobie, si diano tutto quel daffare per costruire un
moto browniano. La verità indubitabile è che quest'ipotesi è sufficiente
per spiegare (se non per prevedere) il 95 per cento dei movimenti dei
corsi nel 9 5 per cento delle situazioni di borsa, ma che è nel restante 5
per cento che si manifesta l'ingegnosità umana e che si fanno o di­
sfanno le fortune. L'utilizzazione del moto browniano nella teoria
finanziaria va peraltro molto oltre un semplice adattamento ai corsi,
poiché permette di determinare i prezzi di certi prodotti finanziari,
come le opzioni .
Un'opzione su un'azione è un contratto col quale ci si impegna a
vendere entro tre mesi una certa azione a un prezzo determinato oggi.
L'acquirente ha il diritto di non esercitare l'opzione se il prezzo si rive­
lerà infine superiore al corso constatato alla scadenza. Il detentore di
un grosso pacchetto di azioni, che desidera premunirsi contro una ca­
duta dei corsi, vorrà comprare le corrispondenti opzioni, salvo non
esercitarle se i corsi restano stabili. Colui che gli venderà le opzioni si
assume un rischio, e dev'essere quindi remunerato. Il problema del
giusto prezzo dell'opzione è stato risolto da Black e Scholes nel 1 9 7 3 .
L a loro formula non fa intervenire l a probabilità che il corso aumenti o
diminuisca, ma esclusivamente la sua «volatilità», ossia il suo tracciato
più o meno accidentato. Non si chiede quindi agli operatori di fare
previsioni, neppure statistiche, sull'evoluzione del corso dell'azione,
bensì di mettersi d'accordo sul valore della sua volatilità, ossia, in defi­
nitiva, di identificare uno dei parametri che governano un moto brow­
niano. Così, per determinare il prezzo dell'opzione non c'è bisogno di
sapere se l'azione salirà o scenderà. Questo risultato notevolissimo è
alla base di tutta la teoria moderna della finanza, e ha reso il moto
browniano popolare fra persone che non si credevano destinate a occu­
parsi di matematiche.

È semplice e bello ricondurre la statistica al teorema del « limite


centrale » e alle sue manifestazioni, fra cui il moto browniano. Pur­
troppo lo statistico si trova di fronte ad altri problemi . Più di qualsiasi
altro scienziato, egli risente dolorosamente del fatto di non poter con­
validare alcun modello, e di non poter apportare con certezza se non
risposte negative.
Siamo partiti da urne contenenti certe proporzioni di palline di
148 CAPITOLO SESTO

colori diversi, e ci siamo chiesti se le frequenze di tali colori osservate


nel corso di una successione di estrazioni indipendenti si discostereb­
bero o no dalle proporzioni esatte. Purtroppo lo statistico non dispone
di quest'osservatorio privilegiato. Tutto quel che gli viene fornito è
una serie di osservazioni, tanto meglio se numerose. Egli non può
riconoscere il caso, non può trarre conclusioni dalle palline estratte
riguardo al contenuto dell'urna, predire il contenuto di questa e affer­
mare che le osservazioni sono il risultato di estrazioni indipendenti.
Esiste sempre la possibilità che siano in gioco altri meccanismi là dove
si crede di riconoscere il caso, come avviene per un baro che sa rime­
scolare e alzare le carte in modo da distribuirle come vuole lui. Lo sta­
tistico non può mai confermare («verificare >>) un modello probabilisti­
co: egli può al massimo invalidarlo (« falsificarlo >>), constatando che le
osservazioni sono aberranti rispetto al modello proposto: se questo
fosse il modello giusto, le estrazioni osservate avrebbero avuto solo una
probabilità molto piccola di prodursi.
Lo statistico constata se esiste o no compatibilità fra un modello
probabilistico e una serie di osservazioni. Egli conclude per l'incompa­
tibilità se la probabilità conferita dal modello alle osservazioni in esame
è troppo piccola, dell'ordine di 1 1 1 000 o meno. Si riconosce qui il vec­
chio principio euristico secondo il quale gli eventi di probabilità troppo
piccola non si producono, principio che conduce in questo caso a
escludere il modello proposto. Per contro, se si conclude a favore della
compatibilità, ossia se la probabilità della serie osservata, calcolata a
partire dal modello proposto, è dell'ordine di 1 / 1 0 o più, non si può
concludere che il modello sia valido, conclusione alla quale non si po­
trebbe legittimamente pervenire neppure se la probabilità salisse a 9/ 1 0,
a 99/ 1 00 o ancor più. Il fatto è che non si può mai escludere la possibilità
che un altro modello, scelto meglio, si dimostri ancora migliore, ossia
che in ultima analisi il fenomeno considerato non dipenda dal caso.
Questo è evidentemente il problema generale della scienza. Noi
non siamo stati ammessi nelle officine del Creatore, non sappiamo che
cosa accada realmente e, come faceva notare non so chi, forse avremmo
potuto dargli qualche buon consiglio. 4 Non possiamo far altro che for-

4 [Uno di questi fu il re di Castiglia Alfonso X il Saggio. Insoddisfatto della com­


plessità e imprecisione del sistema tolemaico, egli aveva incaricato numerosi astro­
nomi ebrei e cristiani di compilare nuove tavole planetarie, che da lui presero il nome
di Tavole alfonsine. «Il retto giudizio di Alfonso era urtato dal groviglio di tutti quei
STATISTICA 149

mulare piani da parte nostra e controllare se i fenomeni osservati si


accordano o no con essi. Lo scienziato è sempre alla ricerca dell'espe­
rienza decisiva che gli permetta di invalidare una teoria. In statistica,
però, quest'attività di controllo si estende sino al livello tecnologico.
Nelle fabbriche come nei ministeri, sul campo o nelle università, lo sta­
tistico fa ipotesi e le sottopone al vaglio dell'esperimento. Per un con­
trollo di qualità, per esempio, si tratta di controllare che la porzione di
pezzi difettosi che escono da una catena sia inferiore a un limite
dato. Lo statistico farà l'ipotesi che sia così, adotterà un livello di fidu­
cia e verificherà l'ipotesi sul campione che gli viene fornito. Egli inter­
verrà se l'esperimento contraddice l'ipotesi, ossia se questa è incompa­
tibile, al livello di fiducia fissato, con i risultati ottenuti.
Questo modo di procedere, per falsificazione di modelli, se è poco
ambizioso, è per contro estremamente generale e versatile. In un con­
trollo di qualità è il rifiuto del modello che è interessante, in quanto
dimostra che i valori attribuiti a certi parametri non sono quelli giusti,
ossia che le soglie teoriche non sono rispettate. In altre situazioni sarà
più interessante la compatibilità di un modello probabilistico con le
osservazioni, la quale significherà che non si può escludere l'ipotesi che
il fenomeno studiato sia un prodotto del caso. Si tratti di valutare le
risposte a questionari in cui lo studente deve scegliere fra varie possibi­
lità proposte, di sperimentare un nuovo farmaco o di analizzare esperi­
menti di parapsicologia, ci si deve sempre porre la domanda: il caso da
solo avrebbe potuto fare altrettanto bene? Supponiamo che io debba
rispondere a cento domande scegliendo ogni volta fra quattro risposte
possibili: se non so niente dell'argomento e do le risposte tirando a sor­
te, posso sperare di imbroccarne venticinque. È questo il motivo per
cui, in questo genere di prova, si dà il punteggio zero per venticinque o
meno di venticinque risposte esatte. L'attribuzione di un voto comincia
solo al di sopra della soglia delle venticinque risposte esatte, cosa che
d'altronde non esclude le ingiustizie.

cerchi nei quali si facevano muovere i corpi celesti ; intuiva che i modi della natura
dovevano essere più semplici : "Se Dio - diceva - mi avesse chiamato a consiglio, le
cose avrebbero avuto un miglior ordine"». Così scrive Pierre-Simon de Laplace in
Compendio di storia dell'astronomia, ultima parte della Exposition du système du monde,
1 796, (trad. M. Viscardini, Universale Economica, Cooperativa del Libro Popolare,
Milano 1 9 5 3 , p. 5 1 ) . Cfr. anche J. L. E. Dreyer, Storia dell'astronomia da Talete a Keple­
ro, trad. L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1 970, p. 249, e A. L. Mackay, A Dictionary of
Scientific Quotations, Adam Hilgher, Bristol, Philadelphia e New York 1 99 1 , p. 3 ] .
1 50 CAPITOLO SESTO

Solo una volta escluso il caso si possono proporre altre spiegazioni,


ossia la preparazione dello studente, i benefici di una terapia o la tra­
smissione del pensiero. Finché i test statistici non escludono il caso,
non ci sarà niente di dimostrato. Questa può sembrare un'affermazione
elementare, ma non lo è. Ben pochi si rendono conto che, rispondendo
a caso, si imbroccherà spesso la risposta giusta, e che inoltre si potranno
realizzare serie spettacolari.
Notiamo che lo statistico non potrà mai dimostrare la presenza del
caso; può solo chiudergli certe porte, o !asciargliele aperte, senza poter
garantire che saranno usate, essendo sufficiente che questa spiegazione
non possa essere esclusa. La sola evenienza in cui lo statistico può
affermare la presenza del caso è quando lo introduce lui stesso. In un
sondaggio, per esempio, egli metterà ogni cura nel prelevare i suoi
campioni a caso, ossia nell'organizzare in un modo o in un altro estra­
zioni indipendenti di palline da un'urna. La cosa sembra molto sempli­
ce, e se si tratta di prelevare degli esemplari al termine di una catena di
produzione si può procedere effettivamente in questo modo, ma se si
vuoi condurre un sondaggio per conoscere le opinioni politiche o le
abitudini sessuali in una popolazione il problema è del tutto diverso.
Come interrogare la gente? In strada? E le persone che non si spo­
stano, o che usano la propria automobile? Per telefono? Non tutti
l'hanno, il telefono, e uno stesso numero può servire varie persone. A
domicilio? Come tirare a sorte su tutto il territorio, senza discriminare
fra città e campagne? E che cosa si deve fare se qualcuno si rifiuta di
rispondere? Lo si deve sostituire, o se ne deve tener conto in modo
diverso? E quanto valgono le risposte stesse che otteniamo? Chi mi as­
sicura che gli intervistati abbiano risposto sinceramente? Non si con­
fessano volentieri certe preferenze politiche, che vengono invece
espresse liberamente nel segreto dell'urna. Si deve quindi tener conto
di una certa distorsione nelle risposte, e come? Lo statistico è indotto
ben presto a elaborare protocolli di sperimentazione estremamente
rigorosi, nei quali il caso non occupa più se non un ruolo accessorio.
La grande scoperta di questi ultimi anni, in effetti, è che la statistica
può perfettamente fare a meno del caso. La generalizzazione delle tec­
niche informatiche di gestione ha condotto all'accumulo di masse
enormi di dati in tutti gli ambiti della vita sociale, e la loro semplice
classificazione, per non parlare della loro interpretazione, pone pro­
blemi considerevoli. In questo compito di elaborazione dell'informa-
STATISTICA 1 51

zione si dispone dei metodi statistici tradizionali, come l'analisi fatto­


riale, ma sono emersi anche nuovi metodi di classificazione automatica
e di analisi dei dati che si riferiscono sempre alla statistica, ma non più
a un modello probabilistico. Ci si preoccupa di più di riconoscere
forme, rappresentando per esempio i dati come punti in uno spazio di
grande dimensione, e cercando di separarli in nubi il più possibile
distinte. È un lavoro che in due dimensioni facciamo senza difficoltà a
occhio, ma che richiede l'aiuto di un computer e calcoli complessi
quando il numero dei parametri da trattare è maggiore di tre. Ci tro­
viamo allora di fronte a un problema di geometria in cui l'aleatorietà
non ha più alcuna parte.
Ma la situazione potrebbe rovesciarsi di nuovo. La parola « statisti­
ca » viene a significare sempre più « trattamento automatico di dati >>, e
lo sviluppo del settore è dominato dalle masse sempre più grandi di
dati informatizzati . Accanto ai problemi tradizionali, di classificazione e
interpretazione, se ne pongono di nuovi, come la compressione dei
dati: le masse di dati da immagazzinare sono tali che le memorie dei
computer si saturano rapidamente e i tempi di accesso diventano proi­
bitivi. Diventa dunque necessario trattare l'informazione in modo che
essa occupi il minor numero di bit possibile; in questo gioco di taglio e
ricostruzione i modelli probabilistici e le statistiche classiche ripren­
dono paradossalmente tutti i loro diritti. Similmente, niente di tutto
ciò sarebbe possibile senza i progressi considerevoli dei mezzi di cal­
colo conseguiti negli ultimi dieci o vent'anni; ma il progresso tecnolo­
gico non basta a permetterei di padroneggiare l'esplosione dei dati
disponibili, e si sono dovuti quindi sviluppare metodi di calcolo molto
efficienti, che sfruttassero appieno la struttura interna dei computer,
come l'elaborazione in parallelo. Si perviene a una situazione in cui si
progetta il computer in funzione del genere di elaborazioni che dovrà
eseguire. La circolazione dei bit - cioè degli O e degli l - nella mac­
china nelle diverse fasi dell'elaborazione diventa una fra le preoccupa­
zioni maggiori del progettista, così come l'architetto affronta il pro­
blema del flusso dei viaggiatori in una stazione o in un aeroporto, con
l'aiuto dei modelli probabilistici e delle statistiche classiche, che si
prendono così la loro rivincita.

La statistica non è fatta per dimostrare l'esistenza del caso, o per


svelame la presenza. Essa si fonda, al contrario, su un postulato ini-
1 52 CAPITOLO SESTO

ziale: che il mondo sia probabile. Come ognuno di noi, lo statistico


prende l'avvio dal principio che il mondo esiste, ma gli chiede qualcosa
di più: gli chiede di essere probabile. È teoricamente possibile - e in
ogni caso perfettamente compatibile col calcolo delle probabilità - che
da domani tutte le monete lanciate in aria senza barare diano testa, e
che alla roulette del casinò non escano più che rosso, pari e manque (i
numeri dall' I al l 8) . Una cosa del genere è senza dubbio infinitamente
poco probabile ma è possibile, e se si producesse non ci sarebbe da
cambiare una virgola nei trattati di statistica. Questi ci insegnerebbero
allora che, se il Creatore decidesse di rifare l'universo, avrebbe molte
probabilità di costruirne uno dal comportamento più normale. Nel­
l'attesa, però, rioi ci troveremmo a vivere in un universo improbabile,
in cui i fiumi salirebbero verso la loro sorgente e in cui l'entropia dimi­
nuirebbe col tempo.
Noi postuliamo che non sia così. Crediamo di vivere in un universo
in cui gli eventi di probabilità troppo debole non si producono, e ci
comportiamo in conseguenza. Finora l'esperienza non ci ha smentiti,
ma nessuno può essere certo di come sarà il futuro.
CONCLUSIONE

Quella notte il re Olav riposò in mezzo al suo esercito e, come abbiamo


detto, vegliò a lungo e pregò Dio per sé e per i suoi uomini, e dormì poco.
All'alba si assopì, e quando si risvegliò stava facendo giorno. Il re si disse che era
il momento di dare la sveglia all'esercito, e fece chiamare Tormod lo scaldo.
Questi non era lontano, e rispose; chiese al re che cosa volesse. Il re rispose:
« Intonaci un canto >>. Tormod si alzò e cantò con voce così forte che tutto
l'esercito lo sentì . Egli intonò l'antico canto di Bjarke, ed eccone i primi versi:
1 54 CONCL USIONE

Il giorno è venuto col sole


Le piume del gallo si rizzano
È l'ora per il servo
Di andare alla sua fatica.
Non al vino vi chiamo
Né al riso delle donne,
Ma piuttosto vi risveglio
Per Hild 1 e il suo gioco feroce.

La battaglia ebbe luogo quel giorno, il 2 9 luglio 1 03 0, a Stiklestad,


e il re Olav vi perì con la maggior parte del suo esercito. Dopo la
morte cominciò il suo vero destino. Il popolo e i baroni la cui coali­
zione lo aveva sconfitto non tardarono a pentirsi di avere sconsiderata­
mente abbandonato la Norvegia nelle mani del re di Danimarca. Essi
trasferirono con gran pompa il corpo di Olav Haraldmm nella catte­
drale di Nidaros, e andarono a cercare suo figlio Magnus nel suo esilio
russo di Novgorod per incoronarlo re. La fama della santità di Olav si
estese rapidamente in tutti i Paesi nordici, e la sua tomba divenne uno
dei luoghi di pellegrinaggio più popolari del Medioevo. La cattedrale
fu distrutta in gran parte al tempo della Riforma, e oggi nessuno sa più
dove riposino le spoglie di Olav il Santo.
Lo scaldo Tormold combatté sotto le insegne del re Olav e fu gra­
vemente ferito. Morì quella sera stessa, strappandosi da sé la freccia che
lo aveva colpito. Snorri Sturluson racconta che alla cuspide della frec­
cia estratta erano attaccate fibre cardiache, bianche e rosse, e che Tor­
mod disse: « Il re ci ha nutriti troppo bene. Le radici del mio cuore
sono ricoperte di grasso».
Gli uomini muoiono; solo l'arte sopravvive. I temi del vecchio can­
tico, la fatica quotidiana e la singolar tenzone, la pesante abitudine del
presente e la speranza inquieta del futuro, risuonano ancor oggi. Al di
sopra della mischia, al di là del frastuono e del furore, s'innalza come
un'invocazione all'armonia del mondo. È perché odono questa invoca­
zione, che gli uomini di Olav Haraldsson accettano di seguirlo in una
battaglia senza speranza.
E io, perché dovrei accettare di dedicare la mia vita alla scienza? È
per scoprirmi sballottato dal caso, incapace di prevedere, ridotto a regi­
strare l'istante, come Fabrizio del Dongo, nella Certosa di Parma di

1 Hild o Hilde è una valchiria; il suo gioco è la guerra.


CONCL USIONE J 5)

Stendhal, quando attraversava da semplice spettatore il campo di batta­


glia di Waterloo? Perché dovrei impegnarmi in questa battaglia, dopo
tante altre, se essa conduce ineluttabilmente a incoronare il caso come
re dell'universo?
È che anch'io ho udito il canto di Tormod. Il caso non è tutta la
scienza, anche se io gli ho dedicato questo libro. Nel mio lavoro di ricer­
catore esploro altri ambiti, in cui il caso non ha molto spazio. La geome­
tria, la relatività generale, la dinamica dei sistemi conservativi, la fisica
delle particelle elementari, sono altrettante teorie di una bellezza quasi
sovrumana, nelle quali ritrovo una medesima armonia che si esprime
sotto la stessa forma matematica, quella di un principio variazionale.
Un principio variazionale è un criterio matematico che permette di
distinguere una soluzione particolare fra una moltitudine di soluzioni
possibilì. Il più semplice, e meglio noto, è quello che caratterizza la
linea retta come il percorso più breve fra due punti. Per mettere in
opera questo principio variazionale, dovremo innanzitutto definire la
distanza fra due punti, e poi la lunghezza di una curva. Dovremo tro­
vare allora, nell'infinita varietà delle curve che vanno da un punto a un
altro, quella più breve. È così che definiremo il segmento di retta, e
tutte le sue proprietà ulteriori deriveranno da questa proprietà fonda­
mentale. Ci troveremo allora ad aver costruito la geometria euclidea
non sugli assiomi di Euclide ma su una sola proprietà semplice, che è
un principio di economia.
Questo modo di procedere non sarebbe altro che una curiosità da
matematici se non lo si ritrovasse nel cuore della fisica. Già nel Seicen­
to, Pierre de Fermat enunciava il principio che i raggi luminosi
minimizzano il cammino ottico. Quest'affermazione equivale a sotto­
mettere a un principio variazionale tutta l'ottica geometrica, ossia, per
l'epoca, la punta più avanzata della scienza. Per trame partito occorre
innanzitutto definire il percorso ottico, che non è esattamente la lun­
ghezza, ma che la pondera attraverso l'indice di rifrazione del mezzo
attraversato. Occorre poi cercare, fra tutte le traiettorie possibili, quella
che ha il cammino ottico minimo. Misteriosamente, è propria questa la
traiettoria che percorre il raggio di luce. La si può così calcolare: sarà
un segmento di retta se l'indice di rifrazione del mezzo è costante, una
curva più complessa se esso varia. Tutte le leggi dell'ottica geometrica
- riguardino esse la riflessione, la rifrazione o i sistemi di lenti - si tro­
vano a essere le conseguenze di quest'unico principio.
I i6 CONCLUSIONE

Fu lo stesso Fermat a ricondurre le leggi della meccanica a un unico


principio variazionale, da lui chiamato «principio di minima azione ».
Quest'ultimo ha attraversato indenne le due rivoluzioni della fisica
contemporanea, adattandosi alla relatività generale come alla mecca­
nica quantistica. Esso si trova sempre al cuore del sapere; ogni nuova
crisi conduce a una riorganizzazione attorno ad esso, rafforzandone
però la posizione centrale.
Quest'economia della scienza aveva già meravigliato gli uomini del
Seicento. A che cosa si deve tale ruolo del principio di minima azione?
L'interrogativo risuona nella filosofia dell'epoca, per esempio in Male­
branche e soprattutto in Leibniz, la cui opera è il tentativo più audace
di dargli una risposta. Dire che questo mondo è il migliore di tutti i
mondi possibili è una formulazione che si presta in modo anche troppo
chiaro alla canzonatura, ma che traduce l'esperienza e l'entusiasmo
dell'epoca. Nell'istante stesso in cui Leibniz costruiva il linguaggio del­
l'analisi matematica, vedeva il mondo fisico impadronirsene come se
esso fosse la sua lingua materna. I princìpi variazionali vi si esprime­
vano naturalmente, e si vedevano nascere i metodi di calcolo che avreb­
bero permesso di trattarli. Leibniz presentì lo sviluppo della scienza
attorno a questo centro di organizzazione, e volle comprenderne le
ragioni prima di vederne i frutti. Non possiamo far altro che ammirare
la sua audacia e condividere la sua meraviglia.
A distanza di più di tre secoli, noi perseguiamo la stessa sintesi,
alberghiamo in noi la stessa visione. Dal Parmenide di Platone, sappiamo
che la verità non si può circoscrivere, che - se esiste una realtà ultima -
essa arretra tanto più dinanzi a noi quanto più la incalziamo, fino a sva­
nire nell'inconsistenza. Da una particella elementare a un'altra, da
un'analisi psicologica a un'altra, la discesa è sottile e senza fine. Questo
cammino non può essere altro che una rivelazione della contingenza, e
il caso sarà quindi il nostro compagno di viaggio. Ma è un altro il cam­
mino che cerchiamo, un'ascesa in cui vedremo le cose riunirsi anziché
disperdersi, e in cui il caso ci abbandonerà, come Virgilio abbandonò
Dante all'ingresso del Paradiso. La bellezza sarà la nostra guida.
Dalla massa informe e vuota della gettando un dado. In questi capitoli
terra, caos originario che la Bibbia Ekeland ci guida in un lucido
pone al principio del tempo, esame del calcolo delle probabilità
al crepuscolo degli dèi e e della teoria dei giochi, del
distruzione del mondo, alla teorema di Godei e delle
dinamica dei sistemi complessi che sue implicazioni per la presunta
la scienza chiama col nome necessità della matematica,
suggestivo di caos; dagli effetti del dell'anticipazione, della teoria
naso di Cleopatra nella storia del dei sistemi complessi, del rischio
mondo, alle strategie della teoria e della teoria della decisione,
dei giochi, all'imprevedibilità dei della statistica e della valutazione
fenomeni meteorologici, quello che della probabilità. Ma, e proprio qui
noi chiamiamo caso ricorre sotto è una delle ragioni principali del
una molteplicità di aspetti nella vita fascino che emana da questo libro,
dell'uomo. Esso sembra la trattazione scientifica si intreccia
contingente, irrazionale, con le vicende umane. Vediamo
imprevedibile; ma è anche oggetto quindi operare i diversi aspetti del
della scienza, che lo studia sotto caso in alcuni episodi delle antiche
una varietà di aspetti . La scienza Saghe dei re di Norvegia di Snorri
ha le sue leggi, che ci servono Sturluson, in varie storie bibliche,
di guida nell'interpretazione dei nella curiosa vicenda del giudice
fenomeni e nella conoscenza Briglialoca di Rabelais che decide
del mondo. Ma ci sono molti le sentenze tirando due dadi, nelle
fenomeni che non si lasciano tormentose elucubrazioni del
inquadrare nella cornice della portiere di Handke, solo davanti al
scienza deterministica. Ci sono giocatore avversario che si accinge
inoltre fenomeni in cui il caso, a battere il calcio di rigore . . .
la contingenza sembrano essere
ingredienti essenziali, irriducibili
dell'accadere o campi come quello Ivar Ekeland è preside
dell'economia in cui la previsione deli'Université Paris-Dauphine ed
di ciò che può accadere si traduce è membro del Centre de recherche
in comportamenti che possono de mathématiques de la décision.
incidere sugli sviluppi reali. Fra le sue opere si ricordano
Il matematico Ekeland si è proposto La théorie desjeux (197 4), Éléments
in questo libro di illustrare alcuni d'économie mathématique (197 9)
aspetti matematici del caso, e lo fa, e Convexity Methods in Hamiltonian
non a caso, in sei capitoli : sei come Systems (19 9 0). Ha ricevuto
le facce di un dado. Sei facce il premio J e an Rostand per la
interconnesse e indipendenti come divulgazione scientifica. In Italia è
i capitoli di questo libro, che stato tradotto Il calcolo e l'imprevisto.
il lettore può leggere nell'ordine Il concetto di tempo da Keplero a Thom
che più gli aggrada, o a caso, (Comunità, Milano 198 5).

I SBN 88-339-07 1 4 -7

L. 26 000 ( i . i .) 9 788833 907 1 47

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