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Aleksàndr Solzenicyn

Arcipelago GULag
1918-1956
Saggio di inchiesta narrativa
Volume terzo (V-VI-VII)

Traduzione di Maria Olsùfieva


Edizione a cura di Sergio Rapetti

Revisione ortografica 10/10/2022

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Arcipelago GULag V-VI-VII

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Sommario
Parte quinta La galera....................................................................................... 6
I Votati alla morte ....................................................................................... 7
II Il venticello della rivoluzione ................................................................. 44
IlI Catene, catene... .................................................................................... 68
IV Perché l'avete tollerato? ........................................................................ 97
V Poesia sotto una lastra, verità sotto la pietra ........................................ 123
VI Un fuggiasco convinto ....................................................................... 156
VII Il gattino bianco (racconto di Georgij Tenno) ................................. 188
VIII Evasioni con problemi morali e evasioni con problemi d'ingegneria
.................................................................................................................. 229
IX Quei bravi figlioli col mitra................................................................ 257
X Quando il terreno della zona comincia a scottare ............................... 267
XI A tastoni spezziamo le nostre catene................................................ 291
XII I quaranta giorni di Kengir............................................................... 331
Parte sesta Il confino ................................................................................... 385
I Il confino nei nostri primi anni di libertà ............................................. 387
II La peste contadina .............................................................................. 403
III Il confino s'infittisce .......................................................................... 425
IV La deportazione dei popoli ................................................................ 443
V Dal lager al confino ............................................................................ 467
VI La vita e gli agi del confinato ............................................................ 486
VII Gli zek in libertà .............................................................................. 511
Parte settima Stalin non è più ....................................................................... 539
I Un'occhiata da sopra la spalla .............................................................. 541
II I dirigenti cambiano, l'Arcipelago resta ............................................. 557
III La legge oggi ....................................................................................... 583
Postface .................................................................................................... 606
Un'ultima parola ancora ........................................................................... 608
Indice delle sigle e abbreviazioni ............................................................. 614
Indice dei luoghi geografici...................................................................... 617
Indice dei nomi ......................................................................................... 622

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Parte quinta
La galera

Della Siberia delle galere


e delle catene
faremo una Siberia sovietica,
una Siberia socialista!
Stalin

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I Votati alla morte

La rivoluzione ha una sua precipitosa larghezza. Si affretta a


rinunziare a molto. Per esempio, alla parola katorga (galera).
Eppure è una bella parola, una parola consistente, non una specie
di aborto come DOPR, non lo sdrucciolevole ITL.* La parola
galera cala dal palco dei giudici con lo scatto secco di una
ghigliottina e già nell'aula del tribunale spezza la spina dorsale
del condannato, gli tronca ogni speranza. La parola « galeotti » è
così terribile che gli altri detenuti, i non galeotti, pensano fra sé e
sé: quelli sì sono dei criminali! (È una proprietà codarda e
provvidenziale dell'uomo: non considerarsi mai il peggiore né il
più sfortunato. Gli hanno messo dei numeri! ve ne rendete conto?
dei furfanti matricolati, non c'è da dubitarne! Con noi, con voi e
con me, non faranno certo lo stesso!... Aspettate, lo faranno!)
Stalin amava molto le parole antiche, non aveva dimenticato
che su di esse gli Stati possono reggersi per secoli. Senza la mi-
nima necessità proletaria, ripristinò delle parole che erano state
eliminate per la troppa fretta: « ufficiale », « generale », « diret-
tore », « supremo ». E ventisei anni dopo che la rivoluzione di
febbraio aveva abrogato la galera, Stalin la ristabilì di nuovo. Fu
nell'aprile 1943, quando si rese conto che, forse, il suo carro,
arranca arranca, era giunto in cima alla salita. Così, i primi

* Si veda in appendice l'indice delle sigle. L'appendice comprende anche un indice dei nomi
di persona, un indice dei luoghi geografici e due cartine. Le note con asterisco sono del traduttore
o del curatore. Le note numerate dell'autore.

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frutti civici della vittoria del popolo a Stalingrado furono: l'Ukaz
sulla militarizzazione delle ferrovie (che deferiva donne e ragazzi
ai tribunali militari) e il giorno dopo (17 aprile) l'Ukaz
sull'introduzione della galera e della forca. (Altra bella istitu-
zione antica, neanche paragonabile al banale colpo di pistola, la
forca prolunga la morte e permette di mostrarla nei minimi
dettagli e contemporaneamente a una grande folla.) Tutte le
vittorie che seguirono portarono alla galera e ai piedi della forca
nuovi contingenti di votati alla morte: prima dal Kuban' e dal
Don, poi dall'Ucraina della riva sinistra,* da Kursk, Orèl, Smo-
lensk. Al seguito dell'esercito procedevano i tribunali, alcuni
venivano impiccati sul posto, pubblicamente, altri avviati alla
volta dei lager-galere nuovamente ricostituiti.
Il primo di questi lager fu senz'altro quello della miniera 17 di
Vorkuta (presto ne seguirono altri a Noril'sk e Džezkazgan). Lo
scopo dell'operazione vi era quasi dichiarato: la liquidazione
degli ergastolani. Era un vero e proprio mattatoio, ma, nella
tradizione del GULag, protratto nel tempo, affinché i condannati
soffrissero più a lungo e lavorassero ancora un poco prima di
morire.
Furono alloggiati in « tende » di sette metri per venti, usuali
nel settentrione. Rivestite di assi e cosparse di segatura, queste
tende diventavano una specie di baracche leggere. Ognuna era
calcolata per ottanta persone su pancacci a castello, per cento su
quelli continui. I galeotti vi erano invece alloggiati in duecento.
Ma non si trattava di una restrizione dettata dall'emergenza,**
bensì di un più razionale impiego degli alloggi. I galeotti ave-
vano una giornata lavorativa di dodici ore in due turni, senza
riposo settimanale, per cui ce n'erano sempre cento al lavoro e
cento nella baracca.
Durante il lavoro erano circondati dalle guardie della scorta e
dai loro cani, venivano picchiati senza motivo, incoraggiati a
* Del Dnepr.
** II termine russo è invece uplotnenie (restringersi, mettersi allo stretto), perifrasi
usata nell'URSS per indicare la coabitazione di più famiglie nello stesso appartamento.

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lavorare con i mitra. Sulla strada del ritorno verso la « zona »*
chiunque poteva per capriccio sventagliare sulla loro colonna una
raffica di mitra e nessuno avrebbe chiesto alla scorta di
rispondere per le vittime. L'estenuata colonna dei galeotti si
distingueva facilmente anche da lontano da una colonna di co-
muni detenuti: per il suo strascinarsi penoso e smarrito.
Le dodici ore di lavoro erano continue. (Durante l'escavazione
a mano di pietra da costruzione sotto le bufere polari di Noril'sk
davano dieci minuti al giorno per scaldarsi.) Quanto alle dodici
ore di riposo erano utilizzate nel modo più incongruo possibile.
A spese di queste ore li si faceva andare da una zona all'altra, li si
metteva in fila, li si perquisiva. Arrivati nella zona d'abitazione,
venivano immediatamente fatti entrare nella tenda, mai
arieggiata - una baracca priva di finestre - e qui rinchiusi a
doppia mandata. Durante tutto l'inverno vi si addensava un'aria
così fetida, umida, rancida che un uomo non avvezzo non avreb-
be potuto resistere neppure due minuti. La zona di abitazione era
ancor meno accessibile ai galeotti della zona di lavoro. Latrine,
mensa, infermeria - non vi erano mai ammessi, in nessun caso.
Per ogni necessità, un bugliolo e la « mangiatoia », uno sportello
nella porta. Così appare la galera staliniana degli anni 1943-44:
una combinazione degli aspetti peggiori del lager con gli aspetti
peggiori della prigione.1
Rientrava nelle dodici ore di riposo anche l'appello del mat-
tino e della sera, non un semplice conteggio dei capi di bestiame
come per gli zek,** ma un appello dettagliato, nominale, durante
il quale ciascuno dei cento galeotti doveva proclamare spedita-
mente, due volte al giorno, il proprio numero, e l'ormai strama-
ledetta lista di cognome nome patronimico, anno e luogo di

* II territorio circondato di filo spinato dove vive (« zona di abitazione ») o lavora (« zona di
lavoro ») il detenuto.
1
La galera zarista, secondo la testimonianza di Cechov era assai meno ingegnosa. Dalla
prigione di Aleksandrov (a Sachalin) i galeotti non solo potevano uscire a qualsiasi ora per recarsi
in cortile o alle latrine (non si faceva uso di buglioli), ma potevano anche andarsene in città per
tutta la giornata! Decisamente il senso autentico della parola galera - per cui i rematori devono
essere incatenati al remo - l'ha penetrato solo Stalin.
** Abbreviazione di zakljucennyj, « detenuto ». Qui, detenuto comune in contrapposizione a
galeotto. Si veda, per gli zek, Arcipelago GULag 2°, cap. XIX.

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nascita, articoli del codice, durata della pena, organo che ha
pronunciato la condanna e termine della pena, mentre gli altri
novantanove, due volte al giorno, dovevano stare ad ascoltare
tutto questo rodendosi il fegato. Sempre a spese di queste dodici
ore avevano luogo le due distribuzioni di cibo: le scodelle veni-
vano distribuite attraverso lo sportello e attraverso lo sportello
ritirate. A nessun galeotto era permesso lavorare in cucina o
trasportare i bidoni del cibo. Al servizio erano addetti esclusi-
vamente delinquenti comuni, e più questi derubavano impuden-
temente e implacabilmente i maledetti galeotti, più stavano
meglio essi stessi e facevano contenti i loro padroni: qui, come
sempre nel caso dell'articolo 58,* coincidevano gli interessi della
NKVD con quelli della delinquenza del lager.
Ma poiché negli atti ufficiali non doveva tramandarsi alla
storia che i galeotti venivano per giunta fatti crepare di fame,
secondo il regolamento era prevista la distribuzione di miseri, e
tre volte depredati, supplementi sotto forma di « razioni di mi-
natore » e « razioni premio ». Il tutto avveniva, con una lunga
procedura, attraverso la « mangiatoia » con appello nominale e
scambio buono-scodella. E quando finalmente sarebbe stato pos-
sibile lasciarsi cadere sul proprio pancaccio e abbandonarsi al
sonno, lo sportello veniva di nuovo ribaltato, l'appello nominale
ripetuto, e iniziava la distribuzione dei medesimi buoni per
l'indomani (i semplici zek non avevano tutte queste seccature con
i buoni, ci pensavano i capisquadra a ritirarli e a consegnarli in
cucina).
Così delle dodici ore di tempo libero in camerata, ne rimane-
vano a malapena quattro di tregua per il sonno.
Inoltre, va da sé, i galeotti non vedevano mai un soldo, e non
avevano diritto né ai pacchi né alle lettere (occorreva che nella
loro testa intronata e inebetita si spegnesse la libertà d'un tempo
e che, nell'impenetrabile notte polare, non restasse loro
nient'altro su questa terra che il lavoro e la propria baracca).
* L'articolo 58 del Codice penale con i suoi 14 commi contemplava l'attività antisovietica. Si veda
Arcipelago GULag I", pp. 76 sgg.

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Tutto questo faceva sì che i galeotti si piegassero a meraviglia
e morissero in fretta.
Il primo alfabeto di Vorkuta (28 lettere, ad ogni lettera nume-
razione da uno a mille), i primi ventottomila galeotti di Vorkuta,
andarono tutti sotto terra nel giro di un anno.
C'è solo da stupirsi che non sia bastato un mese.1
A Noril'sk, nello stabilimento di cobalto n. 25, dove i convo-
gli che caricavano il minerale venivano fatti entrare nella zona di
lavoro, i galeotti si stendevano sulle rotaie per farla finita prima.
Una ventina di uomini fuggì nella tundra dalla disperazione.
Furono avvistati dagli aerei, mitragliati, poi i cadaveri vennero
accatastati sullo spiazzo delle adunate.
Alla miniera n. 2 di Vorkuta c'era un lager di donne. Le ga-
leotte portavano il numero sul dorso e sul fazzoletto da testa.
Prendevano parte a tutti i lavori in miniera e... superavano per-
fino il piano!2
Ma sento i miei compatrioti e contemporanei gridare con
sdegno: un momento! Di chi ha il coraggio di parlarci? Sì, è
vero, erano destinati allo sterminio, e giustamente. Erano o no
dei traditori, dei Polizei, dei borgomastri!* E dunque? Se l'erano
pur meritato. Per caso non vorrà adesso compatirli? (Nel qual
caso, come è noto, la critica esorbita dai confini della letteratura
e compete agli Organi**). Quanto alle donne che dice, ma se
erano delle lettiere dei crucchi*, mi gridano delle voci di donne.
(Non avrò esagerato? Davvero sono state donne nostre a chia-
mare altre donne nostre lettiere?)
La cosa più facile per me sarebbe rispondere, come usa oggi,
smascherando il culto. Raccontare cioè di qualche condanna
atipica alla galera, per esempio il caso di quelle tre volontarie
1
Ai tempi di Cechov, nell'intera isola-galera di Sachalin i galeotti erano - quanti direste? - 5905,
sarebbero bastate sei lettere. Fa quasi la nostra Ekibastuz; Spassk era già molto più grande. Un
nome che fa paura solo a pronunciarlo: Sachalin, e invece, pensate!, aveva la consistenza di una
sezione di lager. Nel nostro solo Steplag ce n'erano dodici così. E di lager grandi come lo Steplag
dieci. Fate il conto di quante Sachalin ci fossero.
2
A Sachalin per le donne non c'erano lavori forzati in genere (Cechov).
* Rispettivamente, membri della polizia e sindaci reclutati dai tedeschi nei territori occupati.
** Della Sicurezza dello Stato (polizia segreta: Čeka, MVD, NKVD, ecc.).

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komsomoliane che, pilotando bombardieri leggeri, avevano
avuto paura di portare le loro bombe sull'obiettivo, le avevano
sganciate in aperta campagna e, rientrate sane e salve alla base,
avevano riferito di aver compiuto la missione. Ma in seguito una
di esse, tormentata dalla propria coscienza di giovane comunista,
raccontò la storia al segretario - una ragazza giovane come lei -
del Komsomol del suo reparto; questa, neanche a dirlo, s'affrettò
alla Sezione speciale* e le tre ragazze si beccarono vent'anni di
galera per una. Raccontare questo ed esclamare: ecco che onesti
cittadini sovietici erano alla mercé dell'arbitrio staliniano! E di
qui in poi indignarmi, non più precisamente dell'arbitrio, ma dei
fatali errori, oggi felicemente corretti, commessi ai danni dei
membri del Komsomol e del partito.
Sarebbe tuttavia indegno non esaminare la questione in pro-
fondità.
Parliamo anzitutto delle donne, delle donne, com'è noto, oggi
liberate dalla servitù. Non dal doppio lavoro, magari, ma pur
sempre liberate dal matrimonio religioso, dal giogo del disprezzo
della società e dalle Kabanicha.** Ma quale liberazione? Non ci
dimostriamo forse peggiori di una Kabanicha se le accusiamo di
antipatriottismo e di atti criminali per aver disposto liberamente
del loro corpo e della loro persona? Tutta la letteratura mondiale
(prestaliniana) non ha forse celebrato l'amore libero da
limitazioni nazionali, dall'arbitrio di generali e diplomatici? Noi
invece, perfino in questo campo, abbiamo applicato il criterio
staliniano: proibito incontrarsi senza essere autorizzati da un
Ukaz del Presidium del Soviet supremo. Il tuo corpo appartiene
prima di tutto alla patria.
Anzitutto, che età avevano queste donne quando entravano in
contatto con l'avversario, non in combattimento ma a letto?
Certamente non più di trent'anni, magari venticinque. Dunque,
fin dalle prime impressioni dell'infanzia, erano state educate
dopo l'Ottobre in scuole sovietiche e nell'ideologia sovietica!
* La NKVD.
** Personaggio del dramma di A. Ostrovskij, L'uragano, donna tirannica e brutale,
personificazione dell'arbitrio e despotismo dei proprietari di servi della gleba.

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Saremmo dunque indignati per l'opera delle nostre stesse
mani? Alcune di loro saranno state suggestionate dalla nostra
instancabile propaganda di quindici anni che non esiste nessuna
patria, che la patria non è che un'invenzione reazionaria. Ad altre
sarà venuta a noia la scipitezza puritana delle nostre adunate,
delle nostre dimostrazioni, dei nostri comizi, del nostro cinema
senza baci, dei nostri balli senza abbracci. Altre saranno state
sedotte dall'amabilità e dalla galanteria, da quelle sfumature
nell'aspetto d'un uomo e nel corteggiamento che nessuno ha
insegnato ai nostri giovanotti degli anni dei piani quinquennali o
agli ufficiali dell'accademia Frunze. Altre ancora avranno avuto
semplicemente fame, sì, una fame primitiva, in altre parole non
avevano niente da mettere sotto i denti. E ce ne furono forse
alcune che non videro altro mezzo per salvare se stesse o i
parenti, o per non essere separate da loro.
A Starodub, in provincia di Brjansk, dove arrivammo tallo-
nando il nemico in ritirata, mi raccontarono che la città era stata
a lungo presidiata, contro gli attacchi partigiani, da una
guarnigione magiara. Quando era venuto l'ordine di trasferi-
mento, diecine di donne del posto, dimentiche d'ogni vergogna,
si erano recate alla stazione a congedarsi dagli occupanti e sin-
ghiozzavano (aggiunse un ironico calzolaio) come non avevano
singhiozzato « accompagnando i mariti in partenza per il fronte
».
La Corte marziale arrivò a Starodub qualche giorno più tardi.
Si può star certi che non avrà trascurato di esaminare le dela-
zioni. Sicuramente avrà mandato qualcuna delle piangitrici di
Starodub alla miniera n. 2 di Vorkuta.
Ma di chi è la colpa? Di chi? Di quelle donne o di noi, di noi
tutti, miei compatrioti e contemporanei? Che razza di uomini
dovevamo essere noi, perché le nostre donne ci lasciassero e
andassero a gettarsi tra le braccia degli invasori? Non è questo il
prezzo, uno degli innumerevoli prezzi, che paghiamo e
continueremo ancora a lungo a pagare per una via che abbiamo
scelto precipitosamente e percorso confusamente, senza badare
alle perdite, senza uno sguardo al futuro?
Forse bisognava sottoporre tutte queste donne e ragazze a un

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severo biasimo morale (ma dopo aver ascoltato anche loro), forse
bisognava canzonarle ferocemente ma, per quello che avevano
fatto, mandarle in galera? mandarle al mattatoio polare?
« Ma fu Stalin a mandarle! Berija! »
No, scusate tanto! Coloro che le mandarono laggiù, e ce le
tennero finché morirono, sono quegli stessi che oggi siedono nei
consigli sociali dei pensionati e continuano a vigilare sulla nostra
moralità. E noi, noi presi tutti assieme? Se sentiamo dire « let-
tiere per i crucchi », annuiamo con aria di intesa. Ed è questa la
cosa più terribile; che annuiamo con aria di intesa. Il fatto che
ancor oggi consideriamo tutte quelle donne colpevoli costituisce
per noi un pericolo assai più grande che averle messe dentro a
suo tempo.
« D'accordo, ma gli uomini, quelli eran dentro per qualcosa o
no? Erano traditori della patria e nemici della società. »
Anche qui non facciamola tanto semplice. Si potrebbe
rammentare (e sarebbe la verità) che i principali criminali non
sono certo rimasti ad aspettare le nostre corti marziali e le nostre
forche. Si affrettarono a raggiungere l'Occidente e in molti casi
ci riuscirono. Le nostre indagini punitive poterono raggiungere
le cifre volute solo a spese di agnelli innocenti (le delazioni dei
vicini di casa furono in ciò di grande aiuto): come mai i tedeschi
si erano acquartierati presso il tal dei tali, per quali servigi gli
si erano affezionati? Quest'altro poi portava il fieno ai tedeschi
con la propria slitta, collaborazione diretta con il nemico.1
Così dunque, si potrebbe minimizzare e ancora una volta
scaricare tutto sul culto: ci sono state delle sbavature, d'accordo.
Oggi però è tutto a posto.
Ma visto che abbiamo incominciato, andiamo avanti.
E gli insegnanti? Quegli insegnanti che il nostro esercito nel
panico della precipitosa ritirata aveva abbandonato con le loro
scuole e i loro alunni, chi per un anno, chi per due, chi per tre. Se
gli intendenti erano stupidi e i generali scadenti, che cosa
dovevano fare adesso gli insegnanti? Far scuola ai loro ragazzi
1
Per dovere di obiettività non trascureremo di ricordare che dopo il 1946 alcuni di
questi furono processati una seconda volta e i 20 anni di lavori forzati commutati in 10 anni di
lager di lavoro correzionale.

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o no? E che cosa dovevano fare i ragazzi, non quelli che avevano
più di quindici anni e potevano guadagnarsi da vivere o andare
con i partigiani, ma quelli più piccoli? Dovevano studiare o
vivere come pecore brade due o tre anni, in riparazione degli
errori del comandante supremo? « II babbo non t'ha dato il
berretto, ti si gelino pure le orecchie », non è così?
Chissà perché, un simile problema non si è posto né in Dani-
marca, né in Norvegia, né in Belgio, né in Francia. In questi
paesi non si è ritenuto che il popolo, consegnato con facilità in
mano ai tedeschi da dirigenti inetti o dalla forza delle circo-
stanze, dovesse per questo cessare completamente di vivere. E
scuole, ferrovie e amministrazioni locali hanno continuato a
funzionare.
Ma c'è della gente (loro, naturalmente) che ha il cervello ruo-
tato di 180 gradi. Infatti nel nostro paese gli insegnanti riceve-
vano lettere anonime dai partigiani: « Non si azzardi a far scuola!
La pagherà cara! » Infatti lavorare alle ferrovie divenne
collaborazione con il nemico. Per non parlare dell'amministra-
zione locale: lavorarci fu considerato un tradimento inaudito e
senza limiti.
Chiunque sa che un bambino che interrompe gli studi corre il
rischio di non riprenderli in seguito. Dunque, se il Più Geniale
Stratega di tutti i tempi e di tutti i popoli ha preso una cantonata,
quale dovrà essere la sorte dell'erba nel frattempo: crescere o
seccare sul posto? e dei ragazzi, che farne, in attesa di tempi
migliori?: far loro scuola o no?
Certamente per farlo bisognerà pagare un prezzo. Bisognerà
togliere dalle aule i ritratti con i baffoni e magari portarci quelli
con i baffetti. L'albero si farà non più a Capodanno, ma a Natale,
e in tale occasione (e magari in qualche altro anniversario, del
Reich invece che dell'Ottobre) il direttore sarà tenuto a
pronunziare un discorso che esalti la nostra nuova e meravigliosa
vita mentre la vita, in realtà, è piuttosto brutta. Ma non se ne
pronunciavano forse anche prima di discorsi esaltanti la nostra
vita meravigliosa, e non era forse brutta anche prima?
Piuttosto, prima si era costretti ad agire contro la propria
coscienza e mentire ai ragazzi assai di più, perché le menzo-

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gne avevano avuto il tempo di consolidarsi e infiltrarsi nei pro-
grammi, nel corso della loro diligente e puntigliosa elaborazione
ad opera di schiere di specialisti della metodica e di ispettori. Ad
ogni lezione, a proposito o a sproposito, che si studiasse la
struttura dei vermi o le proposizioni subordinanti una proposi-
zione dipendente, si doveva per forza dare un calcio a Dio (anche
se credevi in Lui); non si doveva perdere l'occasione di celebrare
la nostra libertà senza limiti (anche se la notte prima l'avevi
passata in bianco ad aspettare che bussassero alla tua porta);
leggendo ad alta voce Turgenev o seguendo con la bacchetta il
corso del Dnepr, bisognava assolutamente maledire la miseria
passata ed esaltare l'abbondanza presente (mentre sotto i tuoi
occhi, sotto gli occhi dei bambini un bel po' di tempo prima della
guerra erano morti di fame interi villaggi e in città la tessera
annonaria dei bambini dava diritto a non più di trecento grammi
di pane).
E tutto ciò non era considerato un delitto contro la verità o
contro l'anima del bambino o contro lo Spirito Santo.
Ora invece, sotto il regime non consolidato, temporaneo degli
occupanti, si doveva mentire assai meno, ma nel senso opposto,
nel senso opposto! Era questo il punto! E quindi la voce della
patria e la matita del comitato locale clandestino del partito
vietavano lingua materna, geografia, aritmetica e scienze natu-
rali. Vent'anni di galera per chi si è dedicato a un simile lavoro!
Compatrioti, annuite! Ecco che li scortano coi cani verso la
baracca e il bugliolo. Lapidateli: hanno fatto scuola ai vostri figli.
Ma i compatrioti (e specialmente i pensionati di certi uffici*
privilegiati, teste quadre come pochi, messi a riposo a quaran-
tacinque anni) mi si fanno incontro coi pugni alzati: Chi difendo?
i borgomastri? gli starosta?** i Polizei? gli interpreti? la
schiuma e la canaglia?
Ebbene, scendiamo pure, scendiamo ancora più nel profondo.
Abbiamo troppo abbattuto il bosco considerando gli uomini
* Gli « Organi ».
** « Anziani » dei villaggi, con funzioni amministrative.

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alla stregua di schegge. Il futuro ci costringerà comunque a
riflettere sulle cause.
Ci siamo messi a cantare, a suonare « Che un nobile furore...
»:* e come non sentire un brivido sotto la pelle? Il nostro innato
patriottismo, proibito, deriso, assassinato e maledetto era stato di
punto in bianco autorizzato, incoraggiato, perfino proclamato
santo; come potevamo noi russi non sollevarci, non unire i nostri
cuori colmi di riconoscenza e trepidazione e non perdonare tutto,
con la generosità che ci è propria, ai boia di casa nostra, prima
dell'avvento dei boia d'oltre frontiera? Per poi maledire, con
ancor maggiore unanimità e furore, soffocando vaghi dubbi e la
nostra avventata generosità, i traditori, gente acrimoniosa e
vendicativa tanto peggiore di noi.
La Russia esiste da undici secoli, ha conosciuto molti nemici e
combattuto molte guerre. Ma furono molti i traditori in Russia?
Ne sono uscite folle di traditori? Parrebbe di no. Neppure i
nemici, a quanto sembra, hanno mai tacciato il carattere russo di
fellonia, d'infedeltà, di volubilità. E ciò sotto un regime nemico
del popolo lavoratore.
Ma eccoci alla guerra più giusta sotto il più giusto dei regimi
e improvvisamente emergono dal nostro popolo diecine e cen-
tinaia di migliaia di traditori.
Da dove vengono? Perché?
Forse è un ritorno di fiamma d'una guerra civile mai sopita?
Sono i « bianchi » superstiti? No. Si è già ricordato prima che
molti emigrati bianchi, ivi compreso il maledetto Denikin, pre-
sero le parti della Russia sovietica contro Hitler. Erano liberi di
scegliere e la loro scelta fu questa.1
Mentre quelle diecine e centinaia di migliaia di Polizei e
membri di spedizioni punitive, di starosta e interpreti, erano tutte
uscite dai ranghi dei cittadini sovietici. Non pochi fra essi erano
giovani cresciuti dopo l'Ottobre.
* Primo verso della celebre canzone La guerra santa (parole di Lebedev-Kumai, musica di
A. Aleksandrov), composta nel 1941, nelle prime settimane di guerra.
' Non avevano provato insieme a noi gli anni Trenta e da lontano, dall'Europa, per loro era
facile entusiasmarsi per il « grande eroismo patriottico del popolo russo » e non accorgersi di
dodici anni di ininterrotto genocidio.

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Che cosa li spinse ad agire così? Chi erano? Erano anzitutto
coloro sulle cui famiglie, sui cui corpi erano passati i cingoli
degli anni Venti e Trenta. Coloro che nelle torbide Fiumane delle
nostre fogne* avevano perduto genitori, parenti, persone care o
chi stava egli stesso per annegare ed era tornato a galla per
affondare e tornare a galla di nuovo, fra lager e deportazione. I
cui piedi si erano congelati nella calca davanti agli sportelli per
consegnare un pacco in prigione. Erano coloro ai quali quei
crudeli decenni avevano sbarrato, e reso via via sempre meno
praticabile, l'accesso a quanto di più prezioso v'è sulla terra, la
terra stessa, cioè, che era stata, a proposito, promessa da un
grande Decreto e per la quale, a proposito, essi avevano dovuto
versare il proprio sangue durante la Guerra civile. (Niente a che
vedere con le proprietà ereditarie degli ufficiali dell'esercito
sovietico, e le tenute recintate nei dintorni di Mosca: questo è per
noi, questo si può.) Alcuni altri erano stati incarcerati per
«spigolatura».** Altri erano stati privati del diritto di vivere dove
volevano, o del diritto di dedicarsi al proprio mestiere, antico e
amato (abbiamo fanaticamente distrutto ogni forma di
artigianato, ma non ce ne ricordiamo più).
Di tutti costoro da noi si dice (e lo dicono doppiamente i
propagandisti e ancor più gli ottobristi - sempre in guardia***),
stringendo le labbra in una smorfia sprezzante: « sono stati offesi
dal potere sovietico », « ex condannati », « figli di kulaki », «
celano in cuor loro un odio feroce per il potere sovietico ».
Uno lo dice, l'altro annuisce col capo. Come se in questo
modo si fosse spiegato qualcosa. Come se un potere popolare
avesse il diritto di offendere i propri cittadini. Neanche fosse
questo il vizio di fondo, la piaga principale: quelli che hanno
avuto motivo di risentirsi... quelli che celano in cuore...
E nessuno che gridi: ma fatemi il piacere! ma andate un po'

* Si veda Arcipelago GULag 1°, cap. II. :


* Si veda op. cit., p. 73.
*** Cioè i collaboratori della rivista « Oktjabr'» [«Ottobre»], che Solzenicyn accomuna agli
« scrittori proletari » degli anni Venti, coi loro organi di stampa: « Al posto di guardia » e « Al
nuovo posto di guardia ».

18
al diavolo con questi discorsi! Per voialtri, in fin dei conti,
l'esistenza determina sì o no la coscienza? O la determina sol-
tanto quando vi torna comodo? E quando invece vi incomoda,
non la determina?
Altra cosa che da noi sanno dire molto bene, il viso appena
velato da un'ombra leggera: « In effetti sono stati commessi
determinati errori ». E sempre questa forma impersonale, fra
innocente e sconcia: sono stati commessi, ma non si sa da chi.
Che sian stati i lavoratori, gli scaricatori o magari i kolchoziani?
Nessuno ha il coraggio di dire: li ha commessi il partito!, li han-
no commessi i dirigenti, inamovibili e irresponsabili! Del resto,
chi altri, se non il potere, poteva « commetterli »? Scaricare tutta
la colpa sul solo Stalin? Bisogna pur serbare un minimo senso
dell'umorismo. Stalin ha sbagliato, d'accordo, ma voi
dov'eravate, milioni di dirigenti?
Del resto anche quegli errori si sono rapidamente dissolti sotto
i nostri occhi in una macchia nebulosa, vaga, dai contorni incerti,
già non vengono più considerati frutto di stupidità, fanatismo e
malvagità, e sembran aver solo questo di deprecabile: che dei
comunisti mettessero dentro altri comunisti. E il fatto che da
quindici a diciassette milioni di contadini siano stati rovinati,
avviati allo sterminio, dispersi per il paese con la proibizione di
ricordare e di pronunciare il nome dei propri genitori, ebbene
questo, a quanto pare, non è stato un errore. E anche tutte le
Fiumane delle nostre fogne esaminate all'inizio di questo libro,*
anche quelle, a quanto pare, non sono state un errore; riguardo al
fatto che non fossimo minimamente preparati alla guerra contro
Hitler, che millantassimo spavaldamente una forza che non c'era
e ci ritirassimo ignominiosamente cambiando i nostri slogan
strada facendo, e che solamente gli Ivan, per di più in nome della
Santa Russia, fermassero i tedeschi sul Volga, ebbene, tutto
questo, ormai, non solo non è più considerato un errore, ma è
diventato quasi il merito principale di Stalin.
In due mesi abbandonammo al nemico un terzo o quasi della
* Si veda Arcipelago GULag 1°, cap. II.

19
nostra popolazione, comprese tutte quelle famiglie che non si era
fatto a tempo a sterminare del tutto, i lager di migliaia di persone
che si disperdevano da ogni parte quando fuggiva la scorta,
comprese le prigioni dell'Ucraina e dei Paesi baltici, dove
fumavano ancora gli spari che avevano abbattuto i « Cinquan-
totto ».*
Finché la forza era stata dalla nostra parte, avevamo oppresso,
perseguitato, braccato tutti quei disgraziati, negato loro il lavoro,
li avevamo cacciati dalle loro case e costretti a crepare. Quando
si rivelò la nostra debolezza pretendemmo da loro che
dimenticassero seduta stante tutto il male ricevuto, dimenticas-
sero i genitori e i figli morti di fame nella tundra, dimenticassero
i fucilati, dimenticassero la loro rovina e la nostra ingratitudine
nei loro confronti, gli interrogatori e le torture della NKVD, di-
menticassero i lager della fame e all'istante si unissero ai parti-
giani, o si celassero nella clandestinità, a rischiare la vita per
difendere la Patria. (Ma noi no, noi non dovevamo cambiare. E
nessuno poteva garantire loro che una volta tornati non li
avremmo, come prima, di nuovo perseguitati, braccati, incarce-
rati e fucilati!)
In una situazione del genere, ha più senso meravigliarsi del
fatto che così tante persone fossero contente dell'arrivo dei tede-
schi o piuttosto del fatto che fossero ancora relativamente poche?
Ai tedeschi capitò perfino di compiere qualche atto di giustizia,
ad esempio punendo delatori del tempo sovietico; si veda l'ese-
cuzione del diacono della chiesa di San Nicola a Kiev, e non
pochi casi analoghi.
E i credenti? Per vent'anni di seguito avevamo chiuso le
chiese e perseguitato la fede. Arrivarono i tedeschi e riaprirono le
chiese. (Dopo i tedeschi, i nostri si vergognarono di richiuderle
subito.) A Rostov sul Don, per esempio, la solenne riapertura
delle chiese fu salutata con manifestazioni di giubilo da parte di
una folla immensa. E invece avrebbero dovuto maledire i
tedeschi, non è vero?
* I condannati in base all'ari. 58 del Codice penale, cioè i politici. Si veda Arcipelago GULag
1°, p. 76.

20
Sempre a Rostov, nei primi giorni della guerra, viene arrestato
arre
l'ingegnere Aleksandr Petrovič M.-V.,V., muore in carcere durante
l'istruttoria, sua moglie trema di paura per mesi e mesi in attesa
che arrestino anche lei, ed è solo con l'arrivo dei tedeschi
tede che può
coricarsi tranquilla: « Adesso almeno potrò farmi una bella
dormita! ». E invece no, avrebbe
vrebbe dovuto pregare per il ritorno dei
suoi boia.
Nel maggio 1943, a Vinnica sotto l'occupazione tedesca, du- du
rante certi scavi nel giardino di via Podlesnaja (fatto recintare
all'inizio del 1939 per ordine del Soviet municipale e dichiarato «
zona vietata ta del Commissariato del Popolo per la Difesa »)
vennero casualmente alla luce tombe ricoperte da un'erba rigo rigo-
gliosa e già completamente invisibili: di queste tombe, fosse
comuni profonde 3,5 metri e della dimensione di tre metri per
quattro, se ne trovarono
ono 39. In ciascuna fossa si trovò, prima,

1. Abitanti di Vinnica identificano i corpi dei loro parenti

21
uno strato di indumenti, poi i cadaveri, disposti a testa-piedi.
Tutti avevano le mani legate ed erano stati abbattuti con un colpo
alla nuca, sparato da rivoltelle di piccolo calibro. Evidentemente
erano stati uccisi in prigione e seppelliti nottetempo. I documenti
di alcuni si erano conservati e consentirono di riconoscere in quei
cadaveri i condannati del 1938: « a 20 anni senza diritto alla
corrispondenza ». Ecco una scena degli scavi: degli abitanti di
Vinnica sono venuti a guardare o a identificare i propri cari (foto
1). Ma più si scavava, più se ne trovavano. Nel mese di giugno si
cominciò a scavare nei pressi del cimitero ortodosso, vicino
all'ospedale Pirogov e si trovarono altre 42 tombe. Poi, nel «
parco di cultura e riposo Gor'kij », sotto le attrazioni, la « casa
delle risate », sotto i terreni di gioco e la pista da ballo si
trovarono altre 14 fosse comuni. In tutto, 95 fosse e 9439
cadaveri. Questo nella sola Vinnica dove le tombe furono
scoperte per caso. Quante ne sono state nascoste nelle altre città?
E la popolazione, dopo aver visto quei cadaveri, avrebbe dovuto
ardere dal desiderio di unirsi ai partigiani?
Forse sarebbe giusto ammettere una buona volta che se noi,
voi, io soffriamo quando ci calpestano e calpestano ciò che ci è
caro, allo stesso modo soffrono quelli che calpestiamo noi. Forse
sarebbe giusto ammettere una buona volta che coloro che noi
sterminiamo hanno il diritto di odiarci. Oppure no, non ne hanno
il diritto? Dovrebbero morire dicendoci grazie?
Noi attribuiamo a questi Polizei e borgomastri un rancore
covato da chissà quanto, se non innato, mentre invece questo
rancore l'abbiamo seminato noi stessi, essi sono, per così dire, i
nostri « residui di produzione ». Krylenko aveva formulato la
cosa in questo modo: « Dal nostro punto di vista ogni delitto è il
prodotto di un determinato sistema sociale ». Del sistema vostro,
compagni! Bisogna tenere a mente la propria Dottrina!
Inoltre, non dimentichiamo che tra quei nostri compatrioti che
si rivoltarono contro di noi e ci attaccarono con la spada o con la
parola, v'erano molte persone completamente disinteressate, cui
non avevamo confiscato alcuna proprietà (non posse-
1
Krylenko, Cinque anni, p. 337.

22
devano nulla), che non erano state nei lager né avevano avuto nei
lager dei loro familiari, ma che da tempo si sentivano di fatto
soffocare dal nostro sistema in generale, dal suo disprezzo per il
singolo, dalla persecuzione delle opinioni, da quel ritornello
derisorio:
Non conosco un paese dove
si respiri così liberamente;*

da quel prosternarsi orante davanti al Capo; da quella matita


nervosa: « Spicciati dunque a sottoscrivere il prestito! », dagli «
applausi che diventano ovazione ».** Possiamo ammettere che
questa gente, gente normale, si sentisse mancare il respiro nella
nostra aria fetida? (A padre Fedor Florja si fece colpa, nel corso
dell'istruttoria, di aver osato raccontare durante l'occupazione
romena le turpitudini staliniane. « Cos'altro potevo dire sul
vostro conto? » rispose. « Ho detto ciò che sapevo. Ho detto
quello che è stato. » Secondo noialtri, invece: menti, agisci con-
tro la tua coscienza e muori anche, purché ne venga un vantaggio
per noi. Ma questo, mi sembra, non è già più materialismo, o
sbaglio?)
Fu nel settembre del 1941, poco prima di arruolarmi nel-
l'esercito: mia moglie e io, giovani insegnanti alle prime armi,
affittammo nella cittadina di Morozovsk (che l'anno dopo sa-
rebbe stata presa dai tedeschi) un appartamento che dava sullo
stesso cortiletto di altri due inquilini, la coppia senza figli dei
Bronevičkij. L'ingegner Nikolaj Gerasimovič Bronevičkij, d'una
sessantina d'anni, era un intellettuale di tipo cechoviano, molto
amabile, tranquillo e intelligente. Se cerco di ricordare la sua
faccia allungata, ci vedo subito un pince-nez, anche se probabil-
mente non lo portava affatto. Ancora più quieta e mite era sua
moglie, una donna piuttosto appassita, con i capelli tirati colore
del lino, di venticinque anni più giovane del marito, ma, anche
nel comportamento, tutt'altro che giovanile. Ci eravamo affe-
zionati e probabilmente anche essi ci ricambiavano, soprattutto
per contrasto con l'avida famiglia della padrona di casa.

* Versi di Lebedev-Kumac, di una canzone molto diffusa in epoca staliniana.


** Ancor oggi, formula stereotipa dei resoconti delle riunioni ufficiali.

23
La sera ci sedevamo tutt'e quattro sui gradini del portichetto.
Erano calme e dolci serate di luna, non ancora squarciate dal
rombo degli aerei e dalle esplosioni delle bombe, ma l'angoscia
dell'offensiva tedesca cominciava a dilagare, con invisibili ma
soffocanti nubi, nel cielo lattiginoso fino a minacciare, lassù in
alto, la piccola luna indifesa. Ogni giorno sostavano alla stazione
sempre nuove tradotte dirette a Stalingrado. I profughi inva-
devano il mercato della cittadina di voci, paure, biglietti da cento
rubli dilapidati senza badare e poi ripartivano. Facevano il nome
di città sulla cui resa l'Ufficio sovietico di informazione
continuava a lungo a tacere, temendo di dire la verità al popolo.
(Di tali città Bronevičkij non diceva mai « si è arresa » ma «
l'hanno presa ».)
Seduti sugli scalini chiacchieravamo. Noi giovani eravamo
pieni di vita e di trepida aspettativa di essa, ma in sostanza sulla
vita non sapevamo dire cose molto più intelligenti di quello che
se ne diceva sui giornali. Perciò ci sentivamo così a nostro agio
con i Bronevičkij: potevamo dire tutto ciò che pensavamo senza
renderci conto del loro diverso modo di percepire le cose.
E loro, probabilmente non senza stupore, osservavano in noi
due esemplari di giovani spensierati. Erano appena trascorsi gli
anni Trenta ma era come se non li avessimo vissuti. Ci chie-
devano che ricordi avessimo del '37, del '38. Che ricordi? la
biblioteca accademica, gli esami, allegre escursioni sportive, bal-
li, qualche recita, e l'amore, si capisce, era l'età dell'amore. Ma in
quegli anni non hanno messo dentro dei nostri professori? Già, è
vero, ne hanno messi dentro forse due o tre. Erano stati sostituiti
da assistenti. E di studenti, non ne hanno messi dentro?
Ricordammo: sì, anche qualche studente, dei corsi superiori. - E
allora?... E allora, niente, noi si ballava. - E dei vostri cari non...
fu toccato nessuno? ...Ma no.
È terribile, ma voglio ricordare le cose con assoluta preci-
sione. Perché è stato proprio così. Ed è tanto più terribile, in
quanto io non facevo parte della gioventù sportiva e patita dei
balli e nemmeno ero uno di quei maniaci tutti presi dalla loro
scienza o dalle loro formule. Provavo un vivo interesse per la

24
politica, e questo sin dall'età di dieci anni, ero ancora un moc-
cioso che già avevo smesso di credere a Vyšinskij ed ero stato
colpito dall'evidente montatura dei celebri processi,* ma niente
mi spingeva ad andare oltre, a collegare quei minuscoli processi
di Mosca (parevano grandiosi) con il rotolio dell'immane mola
che macinava il paese (il numero delle sue vittime restava in
qualche modo inavvertito). L'infanzia l'avevo trascorsa a fare
code per il pane, il latte, la semola (di carne non ne vedevamo
mai), ma ero ben lontano dal comprendere che la mancanza di
pane significava che la campagna era rovinata né il perché di
questo. C'è da dire che avevamo un'altra formula bell'e
confezionata: « difficoltà temporanee ». Nella nostra grande città
ogni notte mettevano dentro qualcuno, ma io di notte non giravo
per le strade. E di giorno le famiglie degli arrestati non
inalberavano una bandiera a mezz'asta. E i miei compagni di
corso non parlavano dei padri portati via.
Nei giornali, poi, ogni cosa assumeva un aspetto spensierato e
gagliardo.
E un giovane ha talmente voglia di credere che tutto va bene.
Capisco solo adesso che rischio corressero i Bronevičkij a
raccontarci qualcosa. Eppure il vecchio ingegnere, che aveva
subito i colpi più crudeli della GPU, ci dischiuse un poco il suo
passato. La salute l'aveva perduta in quegli anni, aveva cono-
sciuto più d'una prigione e più d'un lager, ma ci raccontò, con
accenti di viva passione, soltanto della Džezkazgan degli inizi: la
sua acqua avvelenata dal rame, la sua aria mefitica, gli assassinii,
l'inutilità delle lagnanze dirette a Mosca. Già la sola parola Džez-
kazgan raschiava la pelle come una grattugia, non meno di quegli
spietati racconti. (Ebbene? Quella Džezkazgan modificò almeno
un poco il nostro modo di vedere le cose? No, naturalmente. Non
ci riguardava da vicino. Non era successo a noi, sono cose che
non si trasmettono. È più facile non pensarci. È più facile
dimenticare.)
Quando a Džezkazgan Bronevičkij potè girare senza scorta,
* I tre grandi processi di Mosca, negli anni Trenta, che liquidarono la vecchia guardia
bolscevica: agosto 1936 (Zinoviev e Kamenev), gennaio 1937 (Pjatakov e Radek), marzo 1938
(Bucharin, Rykov, Rakovskij e altri).

25
lo raggiunse quella che sarebbe poi diventata sua moglie, allora
una ragazza giovane. Si sposarono là, all'ombra dei reticolati.
All'inizio della guerra si ritrovarono liberi per puro miracolo, a
Morozovsk, naturalmente con i passaporti « macchiati ». Lui
lavorava in uno scalcinato ufficio edile, lei come contabile.
Poi mi arruolai, e anche mia moglie lasciò Morozovsk. La
cittadina fu occupata. Poi liberata. Un giorno mia moglie mi
scrisse al fronte: « Pensa un po', pare che Bronevičkij sia stato il
borgomastro di Morozovsk sotto i tedeschi. Che schifo! »
Anch'io ne rimasi colpito e pensai: che schifo davvero.
Ma passarono altri anni. Disteso sul buio pancaccio di non so
quale prigione e frugando nella memoria mi ricordai di
Bronevičkij. E non seppi più condannarlo con la leggerezza della
gioventù. Egli era stato illegalmente privato del lavoro, poi
costretto a lavori indegni di lui, l'avevano rinchiuso in prigione,
torturato, battuto, affamato, gli avevano sputato in faccia. E lui?
Era tenuto a credere che tutto ciò aiutasse il progresso e che la
sua propria vita, fisica e spirituale, quella del suo prossimo, la
vita oppressa di tutto il suo popolo non avessero la minima
importanza?
Adesso, dietro al culto della personalità, questo brandello di
nebbia che ci è stato lanciato, e oltre gli strati del tempo che noi
attraversiamo, trasformandoci (e un raggio luminoso si rifrange e
deflette da strato a strato) noi vediamo noi stessi e gli anni Trenta
in modo distorto e non conforme alla realtà. La divinizzazione di
Stalin, la fede in tutto, senza dubbi né limiti, non furono affatto
proprie di tutto il popolo, ma appannaggio del partito, del
Komsomol, della gioventù studentesca delle città, dei sostituti
degli intellettuali (messi al posto di quelli annientati e dispersi), e
in parte della piccola borghesia urbana (della classe operaia),1
quella che non spegneva mai la radio, dal carillon mattutino della
Torre del Cremlino fino all'Internazionale di mezzanotte e per la
quale la voce di Levitan* era diventata la voce della coscienza.
(Dico « in parte » perché gli Ukaz sulla
1
Precisamente negli anni Trenta la classe operaia divenne la colonna portante della nostra
pìccola borghesia, e ne fu completamente assimilata.
* Dal 1931 famoso annunciatore di radio Mosca.

26
produzione - i « venti minuti di ritardo », non più che l'immo-
bilizzazione delle forze di lavoro - non erano propriamente i più
atti a cattivare gli animi.) C'era tuttavia nelle città una minoranza
e nemmeno tanto piccola, comunque alcuni milioni di uomini,
che girava il commutatore della radio con disgusto ogni volta che
trovava il coraggio per farlo, che su ogni pagina di ogni giornale
non vedeva altro che menzogna, dilagante su tutte le colonne; e
per questa minoranza di milioni il giorno delle votazioni era un
giorno di sofferenza e di umiliazione. Per questa minoranza la
dittatura che regnava nel nostro paese non era quella del
proletariato né quella del popolo né tantomeno (per chi ricordava
il vero significato originario della parola), quella dei Soviet,* ma
la dittatura usurpatrice di un'altra minoranza, che tutto poteva
essere tranne che un'elite spirituale. L'umanità è quasi incapace
di una conoscenza esente da emotività e passioni. L'uomo non sa
quasi mai costringersi a vedere anche il buono in ciò che ha
percepito globalmente come cattivo. Non tutto era esecrando
nella nostra vita, e non ogni parola dei giornali era bugiarda, ma
questa minoranza perseguitata, braccata e accerchiata dai
delatori, sentiva tutta intera la vita del paese come un solo
obbrobrio e le colonne dei quotidiani come una menzogna senza
fine. Ricordiamo che a quel tempo non esistevano emissioni
occidentali in lingua russa (e del resto gli apparecchi riceventi
erano in numero assai scarso), che le uniche informazioni cui
avevano accesso i cittadini erano quelle dei nostri giornali e della
radio ufficiale, ed era questo che i Bronevičkij e quelli come lui
avevano sperimentato come menzogna ininterrotta e
ossessionante o codarda dissimulazione. E tutto quanto veniva
detto e scritto sull'estero, sulla rovina irreversibile del mondo
occidentale nel 1930, sul tradimento dei socialisti occidentali,
sullo slancio unanime della Spagna intera contro Franco (e nel
1942, sulla proditoria aspirazione di Nehru alla libertà dell'India,
che, non è vero, indeboliva l'impero britannico nostro alleato),
tutto questo si era allo stesso modo rivelato menzogna. La
propaganda, asfissiante e colma d'odio,
* Soviet, da cui sovietico, in russo significa « consiglio »,

27
del tipo « chi non è con noi è contro di noi » non aveva mai fatto
distinzione tra le posizioni di una Maria Spiridonova e quelle di
Nicola II, tra Leon Blum e Hitler, tra il parlamento britannico e il
Reichstag. E perché mai Bronevičkij avrebbe dovuto rilevare e
riconoscere come vere le storie dall'apparenza fantastica che
parlavano di autodafé di libri sulle pubbliche piazze della
Germania, della rinascita di chissà quali antiche atrocità
teutoniche (non dimentichiamo che durante la prima guerra
mondiale la propaganda zarista aveva mentito non poco a
proposito della « ferocia dei teutoni »)? Perché avrebbe dovuto
riconoscere nel nazismo tedesco (contro il quale si inveiva quasi
con gli stessi termini - i più atroci - già usati contro i Poincaré, i
Pilsudski o i conservatori britannici) una bestia degna di quella,
ben reale, in carne ed ossa, che da un quarto di secolo
strangolava, avvelenava e lacerava a sangue lui stesso e
l'Arcipelago, e la città russa e la campagna russa? E tutto quel
zigzagare dei giornali a proposito degli hitleriani: dapprima gli
incontri amichevoli delle nostre brave sentinelle nella cattiva
Polonia,* e tutta l'ondata di simpatia giornalistica per quei co-
raggiosi guerrieri che si ergevano contro i banchieri anglo-fran-
cesi e i discorsi di Hitler riportati integralmente su un'intera
pagina della « Pravda »; e poi, in seguito, in un solo mattino (il
secondo mattino della guerra) un'esplosione di titoli: l'Europa
intera geme disperata sotto il loro tallone - tutto questo non
faceva che confermare l'opportunismo e la falsità dei giornali e
non poteva certo persuadere Bronevičkij che esistessero su
questa terra dei boia paragonabili ai nostri, che comunque lui
conosceva realmente. E se adesso, per convincerlo, gli avessero
messo ogni giorno sotto gli occhi il bollettino di informazioni
della BBC, al massimo avrebbero potuto persuaderlo del fatto che
Hitler, per la Russia, era solo il pericolo numero 2 e in nessun
caso, visto che c'era Stalin, il numero 1. Ma la BBC non gli aveva
messo niente sotto gli occhi e l'Ufficio sovietico d'informazione,
fin dal primo giorno della sua esistenza, aveva goduto
* Dopo l'invasione sovietica della Polonia (18 settembre 1939), venne stabilita una linea di
confine tra la zona occupata dai tedeschi e quella occupata dai sovietici,

28
dello stesso credito della TASS; quanto alle voci riportate dai
profughi evacuati non erano più attendibili delle altre (non
provenendo dalla Germania né dai territori occupati, dai quali
non era ancora uscito nessun testimone vivo); di prima mano
c'erano soltanto il lager di Džezkazgan, e il 1937, e la fame del
1932, e lo sterminio dei kulaki e il saccheggio delle chiese. E a
misura che s'avvicinava l'esercito tedesco, Bronevičkij e le
diecine di migliaia di uomini isolati come lui sentivano che la
loro ora era vicina, quell'unica irripetibile ora che giungeva
insperata dopo vent'anni, che non poteva toccare in sorte a un
uomo che una sola volta, data la brevità della nostra vita para-
gonata ai lenti movimenti della storia, l'ora in cui lui (essi)
avrebbe potuto proclamare il suo disaccordo con quanto era
avvenuto, con quanto era stato fatto, dilapidato, calpestato in
tutto il paese, e servire il proprio paese in procinto di perire in
qualche modo ancora poco chiaro, o affatto sconosciuto, servire
la causa della rinascita di una società russa. Sì, Bronevičkij aveva
tutto serbato in cuore e non aveva perdonato nulla. E mai
avrebbe potuto sentire come suo il potere che aveva battuto a
sangue la Russia, l'aveva ridotta alla miseria dei kolchoz e alla
degenerazione morale e adesso a questa inaudita sconfitta mili-
tare. E con affanno mi scrutava, ci scrutava, noi giovani vitelli,
incapace com'era di mutare le nostre convinzioni. Aspettava
qualcuno, chiunque, purché scalzasse il potere staliniano! (Noto
eccesso psicologico: qualsiasi altra cosa, purché non sia la solita
che ormai ci ha nauseato! Si può immaginare qualcosa al mondo
che sia peggio dei nostri? A proposito, la regione era quella del
Don, e metà della popolazione aspettava, esattamente allo stesso
modo, i tedeschi.) Così, dopo aver vissuto tutta la vita da
apolitico, Bronevičkij, nel settimo decennio dei suoi anni, decise
di compiere un passo politico.
Accettò di mettersi a capo della giunta municipale di Mo-
rozovsk...
E poi, credo, si rese ben presto conto del pasticcio nel quale
s'era cacciato: per i nuovi arrivati la Russia era una cosa ancor
più insignificante e ripugnante che per quelli che se n'erano
andati. Al vampiro occorrevano solo i suoi succhi vitali,

29
il corpo poteva anche perire. Non una vita sociale russa da
dirigere, quindi, per il nuovo borgomastro, ma solo l'organizza-
zione delle manovalanze della polizia tedesca. Ma, una volta
infilato sul suo asse, gli piacesse o non gli piacesse, non poteva
far altro che girare. Liberato dai primi boia, aiutarne degli altri. E
l'idea della patria ch'egli aveva sempre pensato come contrap-
posta all'idea sovietica, all'improvviso la vide confluire con essa:
in modo inconcepibile, come attraverso un setaccio, l'idea della
patria era filtrata dalla minoranza che la conservava, alla mag-
gioranza; dimenticate le esecuzioni, le beffe - con cui la si puniva
- eccola ormai diventata il tronco principale di un albero che non
ti appartiene più.
Egli (essi) dovette allora sentire con sgomento di non avere
via d'uscita. La gola si rinserrava dalle due parti, non rimaneva
che la morte o la condanna alla galera.
Certamente non tutti erano dei Bronevičkij. Certamente su
questo breve festino in tempo di peste calarono anche numerosi i
corvi, avidi solo di potere e di sangue. Ma dove non calano i
corvi! Si erano trovati benissimo anche con la NKVD. Si pensi a
Mamulov, all'Antonov di Dudinka, a quel tale Poi-suj-Šapka:* si
possono immaginare boia più ripugnanti? Spadroneggiano per
decenni e decimano il popolo. Sarà presto il turno del boia
Tkač,** eccone uno che trovò il modo di servire questi e quelli.
Poiché abbiamo parlato della città non possiamo trascurare la
campagna. Negli ambienti liberali d'oggi si usa accusare la
campagna di ottusità politica e biasimarla per il suo conserva-
torismo. Ma la campagna di prima della guerra, nel suo insieme,
nella sua schiacciante maggioranza, era lucida, incomparabil-
mente più lucida della città, non aveva preso minimamente parte
alla deificazione di papà Stalin (né al culto della rivoluzione
mondiale). Aveva mantenuto la facoltà di ragionare nor-
malmente, e ricordava perfettamente il modo in cui la terra prima
le era stata promessa e poi tolta; il modo in cui aveva vissuto,
mangiato e si era vestita prima del regime dei kolchoz
* Guardiani di lager. Si veda Arcipelago GULag 2°, rispettivamente pp. 142 e 553
(Mamulov), p. 539 (Antonov) e pp. 267 e 548 (Poi-suj-Sapka).
** Si veda Arcipelago GULag 2", p. 561.

30
e poi sotto di esso; come avevano portato via dall'aia il vitello, la
pecorella, perfino i polli; come avevano profanato e lordato le
chiese. In quegli anni la radio non gracchiava ancora nelle isbe, e
in quanto ai giornali non in tutti i villaggi c'era non fosse che una
persona istruita in grado di leggerli e tutti quei Chang Tso-lin,
Mac Donald e Hitler erano, agli occhi della campagna russa, tutti
quanti inutili entità lontane.
In un villaggio della provincia di Rjazan' il 3 luglio 1941 i
contadini si radunarono vicino alla fucina per ascoltare alla radio
il discorso di Stalin. E non appena il piccolo padre, fino ad allora
così duro e inesorabile dinanzi al pianto dei contadini russi, ebbe
spiattellato, nel suo lacrimoso smarrimento: « Fratelli e sorelle!...
», un contadino replicò all'indirizzo della nera bocca di
cartapesta:
« A-ah, p... e questo non ti andrebbe? » e gratificò l'altopar-
lante del grossolano gesto caro ai russi, consistente nel dare un
colpo all'interno del gomito con il taglio della mano agitando
l'avambraccio.
E i mužiki sghignazzavano.
Facciamo dunque il giro di tutti i villaggi, interroghiamo ma-
gari tutti i testimoni: di casi del genere, e anche più salaci, ne
raccoglieremmo senz'altro a diecine di migliaia.
Questo era dunque lo stato d'animo della campagna russa
all'inizio della guerra e, quindi, quello dei riservisti in partenza
che bevevano il loro ultimo gotto di vodka alla stazioncina della
ferrovia e ballavano coi parenti nello spiazzo polveroso. Aggiun-
geteci la valanga di una sconfitta mai vista a memoria di russo, le
immense distese rurali tra le due capitali* e fino al Volga, e i
molti milioni di contadini sottratti di colpo al potere dei kolchoz,
e risulta chiaro - basta con le menzogne, una buona volta, basta
coi ritocchi alla storia! - che le repubbliche avevano un solo
desiderio: l'indipendenza! la campagna: essere liberata dai
kolchoz! e gli operai: dagli Ukaz che li asservivano! E se i nuovi
venuti non fossero stati così irrimediabilmente ottusi e
* Leningrado, Pietroburgo fino al 1514, Pietrogrado fino al 1924, fu capitale della Russia dal
1712 al 1918; dopo mantenne lo status non ufficiale di seconda capitale dell'Unione Sovietica.

31
arroganti, se non avessero conservato per la Grande Germania la
così comoda amministrazione burocratica dei kolchoz, se non
avessero avuto in testa l'abominevole progetto di ridurre la
Russia a una colonia, ebbene, l'idea nazionale non sarebbe
tornata a cercar ricetto là dove era sempre stata soffocata, e
dubito molto che avremmo festeggiato il venticinquesimo anni-
versario del comunismo panrusso. (Qualcuno, un giorno, dovrà
raccontare anche dei partigiani, di come i contadini dei territori
occupati non li raggiungessero precisamente di loro spontanea
volontà. Di come all'inizio si armassero contro i partigiani per
non consegnare loro il grano e il bestiame.)
Chi ricorda il grande esodo della popolazione dal Caucaso
Settentrionale nel gennaio 1943? chi saprà trovare, nella storia
mondiale, qualcosa di analogo? Una popolazione, in maggioran-
za di contadini, che abbia abbandonato in massa, col nemico
sconfitto, con gli stranieri, le proprie terre, pur di non restare con
i propri nell'ora del loro trionfo! - convogli, convogli, convogli -
interminabilmente, nel freddo spietato, nel gelido vento di
febbraio.
Perché è qui che affondano le radici sociali di quelle centinaia
di migliaia di volontari che, a dispetto perfino delle mostruosità
hitleriane, persa ogni speranza, avevano indossato la divisa del
nemico. A questo punto dobbiamo tornare a parlare dei
vlasoviani. Nella prima parte di quest'opera* il lettore non era
ancora preparato ad accettare tutta la verità (beninteso neanch'io
la posseggo tutta, bisognerà dedicare all'argomento studi speciali,
per me non è che un tema collaterale). All'inizio dunque, prima
che il lettore percorresse insieme a noi tutto l'itinerario dei lager,
ci si era limitati a metterlo in guardia, a invitarlo a riflettere.
Adesso, dopo tutte queste tradotte e prigioni di transito, lavori
forzati e immondezzai dei lager, il lettore sarà forse un po' più
disposto a consentire con noi. Nella prima parte io parlavo di
quei vlasoviani che presero le armi per la disperazione, per
sfuggire alla fame della prigionia, a una situazione senza via
d'uscita. (Tuttavia ci sarebbe da riflettere anche
* Si veda Arcipelago GULag I°, pp. 257-268.

32
su questo: infatti da principio i tedeschi utilizzavano i prigionieri
di guerra russi unicamente per lavori non militari nelle retrovie, e
questa, parrebbe, era la migliore via di uscita per chi cercava solo
di salvarsi la pelle; perché dunque prendere le armi e cercare il
corpo-a-corpo con l'Armata rossa?) Ora è impossibile rimandare
a dopo, bisogna parlare anche di coloro che, da prima del '41,
non avevano che un'idea in testa: prendere le armi e battere quei
commissari rossi, čekisti e collettivizzatori. Ricordate Lenin: «
Una classe oppressa che non aspira a imparare l'uso delle armi,
ad avere delle armi, merita solo che la si tratti come si trattano gli
schiavi ».1 Dunque, la guerra germano-sovietica ha mostrato, e
possiamo andarne orgogliosi, che non siamo poi quegli schiavi
che tutti gli studi storici dei liberali dipingevano
oltraggiosamente: non erano degli schiavi coloro che portarono
la mano alla spada per far volare la testa di papà Stalin (e
neppure erano degli schiavi coloro che da questa parte, hanno
drizzato la schiena nel loro cappotto dell'Armata rossa: forma
complessa di effimera libertà che era impossibile prevedere
sociologicamente).
Questi uomini, che avevano sperimentato sulla propria pelle
ventiquattro anni di felicità comunista, sapevano già dal 1941
quello che nessuna persona al mondo sapeva ancora: che non era
mai esistito, sull'intero pianeta e nel corso di tutta la storia, un
regime più malvagio, più sanguinario e allo stesso tempo più
perfidamente flessibile del regime bolscevico, usurpatore del no-
me di « sovietico ». Sapevano che sotto ogni aspetto - numero
dei martirizzati, radicamento nella durata, vastità del disegno,
totalitarismo unificato a tutti i livelli - non c'era regime della
Terra che gli fosse paragonabile, neppure il regime di quel
novellino di Hitler che ottenebrava a quel tempo la vista a tutto
l'Occidente. E ora il momento era venuto, a quegli uomini si
offriva l'occasione di avere in mano un'arma: si pensa davvero
che avrebbero dovuto dominarsi, permettere al bolscevismo di
sopravvivere all'ora della sua morte, di rafforzarsi una volta di
più nella più feroce delle oppressioni e solo allora intraprendere
1
IV ed., vol. XXIII, p. 85.

33
la lotta (una lotta che, ancor oggi, non è stata intrapresa in quasi
nessuna parte del mondo)? No, era naturale riprendere lo stesso
metodo usato dal bolscevismo: come quest'ultimo aveva
azzannato il corpo della Russia indebolito dalla Prima guerra
mondiale, allo stesso modo, nel corso della Seconda, batterlo in
un momento analogo.
Del resto, già la guerra russo-finlandese, nel 1939, aveva
mostrato la nostra scarsa voglia di combattere. Ed è questo stato
d'animo che cercò di sfruttare Boris Georgievič Bazanov, già
stretto collaboratore di Stalin, ex segretario del Politburo e
dell'Orgburo del VKP(b): al comando di ufficiali russi emigrati,
rivolgere i soldati dell'Armata rossa fatti prigionieri contro il
fronte sovietico, non per combattere ma per farvi opera di per-
suasione. L'esperimento fallì con la brusca capitolazione della
Finlandia.
Quando cominciò la guerra tedesco-sovietica, dieci anni dopo
la collettivizzazione sterminatrice, otto dopo il grande massacro
ucraino (sei milioni di morti che la vicina Europa non notò
nemmeno), quattro dopo il demoniaco scatenarsi della NKVD, un
anno dopo la promulgazione delle scellerate leggi sulla produ-
zione, e tutto questo con dei lager di quindici milioni di persone
nel paese e il preciso ricordo, nella parte anziana della popola-
zione, di quella che era la vita prima della rivoluzione, il naturale
impulso del popolo era di tirare un respiro e liberarsi, il suo
naturale sentimento - il disgusto per il potere che regnava nel
paese. E non fu il « colpo a sorpresa » o la « superiorità numerica
dell'aviazione e dei carri armati » (a questo proposito, tutte le
superiorità numeriche erano dalla parte dell'Armata rossa) a
chiudere con tanta facilità catastrofiche sacche - in una volta sola
300 mila (Belostok, Smolensk) e 650 mila (Brjansk, Kiev)
uomini armati, - a sfasciare interi fronti, a far precipitare l'eser-
cito in una ritirata così impetuosa e profonda quale la Russia -e
probabilmente nessun altro paese in nessuna guerra - non aveva
conosciuto nei suoi mille anni di storia; ma fu invece l'istantanea
paralisi di un potere miserabile davanti al quale i sudditi
arretrano come si arretra dinanzi a un cadavere appeso. (Comitati
locali e cittadini vennero soffiati via in cinque minuti,

34
e Stalin si sentì soffocare.) Nel 1941 lo sconvolgimento avrebbe
potuto essere definitivo (nel dicembre 1941, sessanta milioni di
uomini sui centocinquanta della popolazione sovietica già non
erano più sotto il potere di Stalin). Non per nulla risuonò la
campana a stormo di quest'ordine staliniano (il n. 0019, del
16.7.1941): « Tutti (!) i fronti contano numerosi (!) elementi che
arrivano a correre incontro al nemico (!) e a gettare le armi alla
prima presa di contatto con esso ». (Nella sacca di Belostok,
all'inizio del luglio 1941, su 340 mila prigionieri di guerra
c'erano 20.000 disertori!). La situazione pareva così disperata a
Stalin che nell'ottobre 1941 chiese telegraficamente a Churchill
di far sbarcare in territorio sovietico venticinque-trenta divisioni
britanniche: c'è un altro comunista che si sia mai perso d'animo
più profondamente? Ecco lo stato d'animo del tempo: il 22
agosto 1941 il comandante del 436° reggimento fucilieri, mag-
giore Kononov, dichiarò apertamente ai suoi uomini che sarebbe
passato ai tedeschi per entrare a far parte dell'Armata di Libe-
razione e abbattere Stalin, e invitò chi voleva a seguirlo. Non
soltanto non incontrò alcuna resistenza, ma lo seguì l'intero
reggimento*. Tre settimane dopo, Kononov costituì, già
dall'altra parte, un reggimento di volontari cosacchi (lui stesso
era un cosacco del Don). Quando si presentò nel campo di
prigionieri di guerra di Mogilëv per reclutare dei volontari, dei
cinquemila prigionieri che vi si trovavano quattromila espressero
seduta stante il desiderio di unirsi a lui, ma egli non potè
prenderli tutti. Lo stesso anno, in un campo vicino a Tilsit, la
metà dei prigionieri sovietici, dodicimila uomini, firmarono una
dichiarazione in cui si affermava che era giunto il momento di
trasformare la guerra in guerra civile. Non abbiamo dimenticato
poi lo spontaneo movimento popolare a Lokot' di Brjansk:
creazione di un'amministrazione russa autonoma prima
dell'arrivo dei tedeschi e indipendentemente da loro, un territorio
stabile e fiorente composto di otto rajon,* con più di un milione
di abitanti. Le richieste della gente di Lokot' non potevano essere
più chiare: governo nazionale russo, amministrazione russa
autono-
* La più piccola unità territoriale dell'URSS.

35
ma in tutti i territori occupati, dichiarazione di indipendenza
della Russia entro i confini del 1938 e costituzione di un esercito
di liberazione sotto un comando russo. Anche i villaggi dei
cosacchi del Don accoglievano i tedeschi offrendo loro il pane e
il sale.* Fino al 1941 la popolazione dell'URSS vedeva le cose in
questo modo: arrivo dell'esercito straniero uguale rovesciamento
del regime comunista, impossibile darci un senso diverso. Si
aspettava un programma politico che liberasse dal bolscevismo.
Nel luglio 1941 a sud di Gatčina il tenente Rutčenko, fresco di
studi, formò un reparto combattente anticomunista composto
prevalentemente di ex studenti di Leningrado, che all'inizio agì
indipendentemente dai tedeschi. Martynovskij, già studente di
medicina a Leningrado, nell'agosto 1941 costituì vicino a Luga
un reparto partigiano di studenti sovietici: per liberarsi dal
comunismo.
Forse che per noi, là dov'eravamo, separati da loro dalla neb-
bia impenetrabile della propaganda sovietica e dallo spessore
dell'esercito hitleriano, era tanto facile credere che i nostri alleati
occidentali fossero entrati in questa guerra non per difendere la
libertà in generale, ma per proteggere la propria libertà di
europei occidentali unicamente contro il nazismo, sfruttando al
meglio gli eserciti sovietici e accontentandosi di questo! O non
era più naturale per noi immaginare che i nostri alleati fossero
fedeli al principio stesso della libertà e che non ci avrebbero
lasciati in balìa di una tirannide fatta ancora più feroce?... È vero
che questi erano gli stessi alleati per i quali avevamo dato le
nostre vite nella Prima guerra mondiale, e che già allora avevano
abbandonato il nostro esercito in sfacelo, impazienti com'erano
di ritornare al loro benessere. Ma l'esperienza è troppo crudele e
il nostro cuore si rifiuta di accettarla.
Avendo imparato, e a ragione, a non credere a una sola
parola della propaganda sovietica, naturalmente non credevamo
affatto alle fole che circolavano, del tipo che i nazisti avevano
intenzione di fare della Russia una colonia e di noi gli schiavi dei
tedeschi, era impossibile supporre che una simile idiozia potesse
* Tradizionale simbolo di ospitalità offerta.

36
albergare nelle menti del XX secolo, era impossibile crederlo
senza averlo realmente sperimentato su se stessi. Ancora nel
1942 la formazione russa di Osintorf attirò più volontari di
quanti ne potesse accogliere il reparto, in fase di organizzazione;
nella regione di Smolensk e in Bielorussia, per l'autodifesa degli
abitanti dei villaggi contro i partigiani, diretti da Mosca, fu
creata una « milizia popolare » di centomila volontari (subito
vietata dai tedeschi impauriti). E perfino nella primavera del
1943 è uno slancio generale che accoglie ancora ovunque Vlasov
nei suoi due giri di propaganda, a Smolensk e a Pskov. Anche
allora la popolazione aspettava: quando avremo dunque un
governo indipendente nostro e un esercito indipendente nostro?
Ho una testimonianza che proviene da Pozerevičk in provincia
di Pskov, sull'atteggiamento cordiale della popolazione russa
nei confronti dell'unità vlasoviana della zona: l'unità non faceva
ruberie, non si abbandonava a bisbocce, indossava la vecchia di-
visa russa, dava una mano nella mietitura, era sentita come un
potere russo non kolchoziano. Ci si venivano a iscrivere
volontari usciti dai ranghi della popolazione civile (proprio come
a Lokot' s'iscrivevano da Voskobojnikov)... Il fatto merita pur
riflessione: che bisogno li spingeva? certo non quello di uscire
da un campo di prigionia! Ma i tedeschi proibivano ai vlasoviani
di accettare i rinforzi (si arruolassero piuttosto come Polizei).
Ancora nel marzo 1943, in un campo di prigionieri di guerra
vicino a Char'kov, furono letti dei volantini del movimento
(presunto) di Vlasov e settecentotrenta ufficiali sottoscrissero la
domanda di ammissione all'esercito russo di liberazione, e questo
con l'esperienza di due anni interi di guerra, molti di loro
erano degli eroi della battaglia di Stalingrado, tra di loro c'erano
comandanti di divisione e commissari di reggimento! E si
trattava di un lager ben nutrito, non era la disperazione della
fame a ridurli a firmare. (Tratto caratteristico, tuttavia,
dell'ottusità tedesca: dei 730 firmatari 722 non furono liberati dai
campi fino alla fine della guerra e non ebbero modo di agire.)
Perfino nel 1943 sulle tracce dell'esercito tedesco in ritirata si
trascinavano in file interminabili diecine di migliaia di profughi
dai territori sovietici: tutto piuttosto che restare sotto il potere del
comunismo.
37
Ardisco dire: in definitiva, il nostro popolo non sarebbe valso
nulla, si sarebbe rivelato un popolo di schiavi incurabili, se
avesse mancato una tale occasione di minacciare con il suo
fucile, fosse pure da lontano, il governo staliniano, mancato
l'occasione di alzare almeno la mano e lanciare una bella bordata
contro l'amato Padre. I tedeschi ebbero la congiura dei generali,
ma noi? Al vertice, i nostri generali erano (e sono rimasti tali
ancor oggi) delle nullità, depravate dall'ideologia di partito e
dall'avidità e non avevano affatto conservato lo spirito nazionale
come è invece in altri paesi. Soltanto il popolo minuto di soldati
cosacchi e contadini ha alzato la mano e colpito. E soltanto il
popolo minuto: minima, tanto da scomparire, la partecipazione
dell'antica nobiltà dell'emigrazione o degli antichi strati ricchi
della popolazione o dell'intelligencija. E se a questo movimento
fosse stato concesso di dare liberamente prova di sé come nelle
prime settimane di guerra, ne sarebbe scaturito qualcosa come
una nuova rivolta di Pugačëv per vastità e livello degli strati
sociali coinvolti, per sostegno della popolazione, per la parte-
cipazione cosacca, per lo spirito che lo informava (fare i conti
con i satrapi scellerati), per l'energia elementare della spinta (e
cui faceva però riscontro la debolezza della direzione). In ogni
caso questo movimento fu quello del popolo, del popolo sem-
plice, - assai più che non tutto il movimento di liberazione
dell'intelligencija dall'inizio del secolo fino al Febbraio del 1917,
con i suoi fini pseudo-popolari e i suoi frutti di Ottobre. Nor era
però destinato a svilupparsi, ma a perire ignominiosamente, con
un marchio d'infamia: tradimento della nostra sacra Patria.
Abbiamo perduto il gusto delle spiegazioni sociali degli
eventi, che rigiriamo invece a seconda della convenienza del
momento. E il patto d'amicizia con Ribbentrop e Hitler?* E le
smargiassate di Molotov e Vorošilov alla vigilia della guerra? E,
in seguito, la stupefacente inettitudine, l'impreparazione,
l'incapacità (e la codarda fuga del governo da Mosca), e il mezzo
milione di soldati per volta abbandonati nelle sacche, tutto questo
non
* L'accordo sovietico-tedesco del 23 agosto 1939, stipulato qualche giorno prima
dell'invasione nazista della Polonia.

38
è tradimento della Patria, e ancor più carico di conseguenze?
Perché di questi traditori ci prendiamo tanta cura e li manteniamo
negli appartamenti di via Granovskij?*
Come sarebbe lungo, ma lungo davvero il banco sul quale
prenderebbero posto tutti i boia e tutti i traditori del nostro
popolo se decidessimo di metterli dentro dal primo all'ultimo...
Da noi alle domande imbarazzanti non si risponde. Si tace. E
invece, ecco che cosa ci gridano:
« Ma il principio! II principio in sé! Un russo ha il diritto, per
realizzare i propri fini politici, che a lui sembreranno giusti,
ammettiamolo pure, ha il diritto di appoggiarsi al braccio del-
l'imperialismo tedesco?!... E per di più in piena guerra, e guerra
spietata contro di esso? »
Eccolo, davvero, il problema di fondo: è lecito, per fini che
sembrano nobili, valersi dell'appoggio dell'imperialismo tedesco
in guerra con la Russia?
Tutti, oggi, risponderanno unanimi: no! no! no!
Ma se è così, perché quel vagone tedesco piombato,** Sviz-
zera-Svezia, con deviazione, adesso lo sappiamo, verso Berlino?
Tutta la stampa, dai menscevichi ai cadetti,*** gridava anch'essa
no! no! ma i bolscevichi spiegarono che era lecito, e che era anzi
ridicolo fargliene una colpa. E del resto non ci fu solo quel
vagone. Durante l'estate del 1918 quanti ne vennero spediti fuori
dalla Russia dai bolscevichi - carichi ora di viveri ora d'oro -, e
tutto nella bocca spalancata di Guglielmo? Trasformare la
guerra in guerra civile: Lenin lo aveva proposto prima di
Vlasov.
« Ma i fini! non si può trascurare i fini! »
Giusto! in che cosa consistevano? E dove sono, questi fini?
Ma si trattava di Guglielmo! del Kaiser! un Kaiser da niente!
Non era Hitler! E poi, ragioniamo, si può dire che ci fosse un
governo in Russia? provvisorio, tutto lì...
* Via di Mosca dove abita l'elite del regime.
** Per mezzo del quale Lenin e i suoi compagni poterono rientrare in Russia nell'aprile 1917.
Si veda A. Solzenicyn, Lenin a Zurìgo, Mondadori 1976.
*** Denominazione (dalle iniziali K.D., lette kà de) dei membri del partito costituzionale
democratico russo, liberale e riformista.

39
Potremmo ricordare che ci fu un tempo quando, trascinati
dalla nostra foga guerriera, riferendoci al Kaiser, lo qualificava-
mo al minimo di « efferato » e « sanguinario »; dei soldati del
Kaiser gridavamo con notevole imprevidenza che fracassavano
la testa ai neonati sbattendoli sulle pietre. Ma d'accordo, lascia-
mo stare il Kaiser. Che dire però del Provvisorio? un governo
che non aveva la Čeka, che non vi sparava alla nuca, che non vi
deportava nei lager, non vi cacciava nei kolchoz, che non vi
prendeva alla gola come un conato di vomito. Anche il governo
provvisorio non era quello staliniano.
Una cosa compensa l'altra.
Non che a qualcuno fremesse il cuore perché morivano interi
alfabeti di galeotti, semplicemente la guerra stava per finire, non
c'era più tanto bisogno di un simile spauracchio, non c'era più il
rischio che si formassero nuovi corpi di Polizei, il paese aveva
bisogno di manodopera, mentre in galera si moriva inutilmente.
E dal 1945 le baracche dei galeotti cessarono di essere le celle di
prigione ch'erano state fino ad allora, le porte furono lasciate
aperte di giorno, i buglioli trasferiti nei gabinetti, i galeotti
ebbero il permesso di recarsi all'infermeria con i propri mezzi,
alla mensa ce li cacciavano al trotto, per tenerli in gamba. Furono
ritirati i delinquenti comuni che depredavano i galeotti e si
cominciò a incaricare loro dei servizi. Poi si cominciò a
permettere loro di ricevere delle lettere: due volte l'anno.
Negli anni 1946 e 1947, il confine fra galera e lager cominciò
a cancellarsi discretamente: i capi dei lager, per lo più ingegneri
poco versati nella politica e che correvano più che altro dietro
alla realizzazione dei piani di produzione, cominciarono (per-
lomeno a Vorkuta) da una parte a trasferire i galeotti buoni
specialisti nei lager comuni, - dove della galera non restava
veramente più niente al galeotto, tranne il suo numero - e
dall'altra a spedire, a titolo di rinforzo, il bestiame, la manova-
lanza dei campi ITL nei campi di galeotti.
Dei dirigenti irragionevoli avrebbero così mandato a monte la
grandiosa idea staliniana della resurrezione della galera, se nel
1948 Stalin non avesse maturato una nuova idea, e cioè dividere

40
gli indigeni del GULag separando i ladri e i delinquenti comuni,
socialmente affini, dai « Cinquantotto », socialmente irrecu-
perabili.
Il tutto faceva parte di un progetto ancor più grandioso di
Rafforzamento delle Retrovie (il nome mostra che Stalin si stava
preparando a una imminente guerra). Furono creati i lager
speciali,1 con uno statuto speciale: un tantino più miti della
galera agli inizi, ma più duri dei lager ordinari.
Per distinguerli si pensò di dare a questi lager non più dei
nomi geografici locali, ma dei nomi fantasiosi e poetici. Furono
creati: Gorlag (lager delle miniere) a Noril'sk, Berlag (lager della
riva) a Kolyma, Minlag (dei minerali) sull'Inta, Reclag (del
fiume) sulla Pečora, Dubrovlag (del querceto) a Pot'ma, Ozerlag
(dei laghi) a Tajset, Steplag, Pescanlag e Luglag (delle steppe,
delle sabbie e delle praterie) nel Kazachstan, Kamyšlag (delle
giuncaie) nella provincia di Kemerovo.
Nei lager ITL cominciarono a serpeggiare delle voci sinistre: i
Cinquantotto sarebbero stati mandati in campi speciali di ster-
minio. (Naturalmente né gli esecutori né le vittime furono nep-
pure sfiorati dall'idea che l'operazione avrebbe dovuto richiedere
qualcosa tipo una nuova sentenza!)
Il lavoro cominciò a fervere negli URČ e nelle sezioni opera-
tive della Čeka. Si compilavano misteriosi elenchi, che venivano
portati chissà dove per il coordinamento. Poi si facevano arrivare
dei lunghi convogli rossi, attorno ai quali si schierava la scorta di
baldi giovanotti dalle spalline rosse* con mitra, cani e martelli, e
i nemici del popolo, chiamati secondo il solito elenco,
inflessibilmente e inesorabilmente strappati dal calduccio delle
loro baracche, venivano avviati per lontane destinazioni.
Ma non tutti i Cinquantotto venivano chiamati. Soltanto più
tardi, ragionando sui casi noti, i detenuti capirono chi erano
quelli che venivano lasciati in compagnia dei delinquenti comuni
sulle isole ITL: vi erano stati lasciati tutti quanti i 58-10, vale a
dire la semplice agitazione antisovietica, e cioè l'agitazio-
1
Nel 1921, si veda Arcipelago GULag 2°, p. 20.
* Dell'esercito, quindi.

41
ne solitaria, che non si indirizza a nessuno, che non è collegata
con altri, l'agitazione-abnegazione. (E sebbene fosse quasi im-
possibile immaginarsi agitatori del genere, resta il fatto che mi-
lioni di loro furono lasciati sulle vecchie isole del GULag.) Se
poi i nostri agitatori s'erano ritrovati in due o in tre, se avevano
dato prova della pur minima propensione ad ascoltarsi l'un l'altro,
a riecheggiarsi o a formare un coro, si erano buscati il
supplemento 58-11, «comma del gruppo» e ora partivano, in
quanto lievito di organizzazioni antisovietiche, per i lager spe-
ciali. Va da sé che prendevano la stessa strada, i traditori della
Patria (58-1-a e b), i nazionalisti borghesi e separatisti (58-2), gli
agenti della borghesia mondiale (58-4), le spie (58-6), i diver-
sionisti* (58-7), i terroristi (58-8), i sabotatori (58-9) e i sabo-
tatori dell'economia (58-14). Vi rientravano comodamente anche
i prigionieri di guerra tedeschi (Minlag) e giapponesi (Ozerlag),
che si intendeva tenere anche dopo il 1948.**
In compenso rimanevano nei lager ITL i non delatori (58-12) e
i collaboratori del nemico (58-3). Viceversa i galeotti messi
dentro appunto per aver collaborato con il nemico partivano ora
per i lager speciali insieme a tutti gli altri.
La ripartizione aveva un significato ancora più profondo di
quello indicato. In base a certi criteri non ancora comprensibili
rimanevano negli ITL ora delle traditrici condannate a venti-
cinque anni (Unzlag) ora, qua e là, dei lager interi di soli
Cinquantotto, ivi inclusi vlasoviani e Polizei, e non erano lager
speciali: senza numero ma con un regime rigidissimo (per
esempio, Krasnaja Glinka nell'ansa del Volga presso Samara; il
lager di Tuin nel rajon di Sira in Chakassia; quello di Juzno-
Sachalinsk). Questi lager si rivelarono duri, e la vita non vi era
più facile che in quelli speciali.
E per evitare che la Grande Divisione dell'Arcipelago, una
volta fatta, tornasse ad essere cancellata, fu stabilito, a partire dal
1949, che ogni indigeno, venuto fresco fresco da fuori, fosse
fornito, oltre che del verdetto, di una delibera (del GB della
* Sulla «diversione», si veda Arcipelago GULag 1°, p. 81:
** Anno in cui fu stipulato un accordo sul rimpatrio dei prigionieri di guerra.

42
provincia e della procura) iscritta nella pratica carceraria: in
quale tipo di lager detenere il capretto in questione.
Così, come il seme che muore per dar vita alla pianta, il seme
della galera staliniana crebbe nei lager speciali.
I convogli rossi si misero a trasportare il nuovo contingente
lungo le diagonali della Patria e dell'Arcipelago.
Sull'Inta ebbero un'idea brillante: cacciarono semplicemente
la mandria fuori da un cancello per spingerla dentro a un altro.
Cechov si lagnava della mancanza di « una definizione giuri-
dica della galera e della sua utilità ».
Ma si era ancora nell'illuminato secolo XIX! A metà del nostro
XX secolo delle caverne non avevamo bisogno di capire e
definire. Il Padre aveva deciso che così doveva essere, e tanto
bastava come definizione.
E noi annuiamo con aria d'intesa.

43
II Il venticello della rivoluzione

All'inizio della pena, schiacciato dalla sua durata che non ne


lasciava intravedere la fine e accasciato dal primo incontro con il
mondo dell'Arcipelago, non avrei mai creduto che la mia anima
si sarebbe gradualmente raddrizzata; che con l'andar degli anni
sarei salito senza accorgermene sull'invisibile vetta
dell'Arcipelago come sul Mauna-Loa delle Hawaii e da lì avrei
contemplato del tutto serenamente le lontananze dell'Arcipelago,
venendo perfino attratto dal tremolare incerto del suo infido
mare.
Avevo passato metà della mia pena su un isolotto dorato, dove
i prigionieri venivano nutriti, dissetati, tenuti caldi e puliti. In
cambio non ci chiedevano molto: passare dodici ore a uno
scrittoio e contentare le autorità.
Ed ecco che all'improvviso avevo perso il gusto di stare ag-
grappato a quei beni!... A tastoni cercavo già di trovare un senso
nuovo alla vita di prigione. Guardando indietro ritenevo ormai
pietosi i consigli dello specialista alla prigione di Krasnaja
Presnja di « evitare ad ogni costo di essere destinati ai lavori
comuni ». Il prezzo che noi pagavamo mi pareva sproporzionato
all'acquisto.
La prigionia aveva liberato in me la capacità di scrivere, a
questa passione dedicavo ormai tutto il mio tempo e avevo
impudentemente smesso di sgobbare sul lavoro ufficiale. Più che
al burro e allo zucchero ci tenevo a raddrizzarmi.

44
E fummo in parecchi ad essere « raddrizzati »: con un tra-
sferimento in un lager speciale.
Il nostro viaggio durò molto, tre mesi (nel XIX secolo, a ca-
vallo, avremmo fatto prima). Durò così a lungo che divenne
quasi un periodo della nostra vita, durante quel viaggio mi
sembra perfino di aver cambiato carattere e idee.
Fu in qualche modo un viaggio pieno di alacrità, allegria,
molto significativo. Ci soffiava in faccia un venticello fresco che
andava crescendo, il venticello della galera e della libertà. Da
ogni parte saltavan fuori uomini e fatti che ci convincevano che
la verità era dalla nostra parte! dalla nostra! dalla nostra! e non
dalla parte dei nostri giudici e dei nostri carcerieri.
La familiare prigione di Butyrki ci accolse con un grido
straziante di donna, lanciato da una finestra, certamente di una
cella d'isolamento: « Salvatemi! Aiutatemi! Mi uccidono! Mi
uccidono! ». Poi l'urlo soffocò nelle palme dei secondini.
Alla « stazione » di Butyrki fummo messi alla rinfusa con dei
novellini classe 1949. Avevano tutti dei tempi di pena strava-
ganti: non la solita diecina, ma il quartino.* Quando nel corso
degli innumerevoli appelli dovevano indicare il termine della
propria pena, si aveva l'impressione che si prendessero gioco di
voi: « Ottobre millenovecentosettantaquattro! », « febbraio
millenovecentosettantacinque ! ».
Pareva impossibile durarla tanto a lungo. Tanto valeva cercare
di procurarsi delle cesoie per tagliare il filo spinato.
Furono queste condanne a venticinque anni a creare una nuo-
va qualità nel mondo dei detenuti. Il potere aveva sparato su di
noi le sue ultime cartucce. Adesso la parola spettava ai detenuti,
una parola libera, ormai non più costretta e minacciata,
precisamente quella parola che non avevamo mai avuto in tutta la
nostra vita e che è così necessaria per vedere le cose con
chiarezza e unirsi.
Eravamo già nel nostro vagone cellulare quando l'altoparlante
della stazione di Kazan'** ci annunziò l'inizio della guerra di

* Venticinque anni di lager.


** Una delle stazioni di Mosca.

45
Corea. Penetrati fin dal primo giorno della guerra, prima di
mezzogiorno, attraverso la solida linea di difesa sudcoreana per
una profondità di dieci chilometri, i nordcoreani assicuravano di
essere stati aggrediti. L'ultimo imbecille, se era stato al fronte,
poteva capire che l'aggressore era colui che era avanzato il primo
giorno.
Anche la guerra coreana ci eccitò. Ribelli, chiedevamo la
tempesta!* Senza tempesta infatti, senza tempesta eravamo
condannati a una lenta agonia.
Oltre Rjazan’ il rosso levarsi del sole splendeva con tanta
intensità attraverso le cieche finestre del « vagonzak » che il
giovane soldato di scorta nel corridoio dirimpetto alla nostra
grata socchiudeva gli occhi abbagliato. Era una scorta come tutte
le altre: ci avevano ammassati in quindici per scompartimento, ci
davano da mangiare aringhe, però ci portavano anche l'acqua e ci
accompagnavano mattina e sera a fare i nostri bisogni e noi non
avremmo avuto nulla da ridire se non fosse stato per quel
ragazzo che, imprudentemente ma senza la minima cattiveria, era
saltato fuori a dire che eravamo dei nemici del popolo.
Apriti cielo! Dal nostro scompartimento e da quello attiguo al
nostro presero a inveire:
« Noi siamo dei nemici del popolo, ma perché non c'è niente
da mangiare nei kolchoz? »
« Sei della campagna anche tu, ce l'hai scritto in faccia, ma di
sicuro se ne hai l'occasione firmi di nuovo per fare il cane da
guardia, mica ci torni a zappare la terra, eh? »
« Se noialtri siamo dei nemici del popolo, perché mascherate i
cellulari? Perché non ci trasportate apertamente! »
« Ehi, figliolo! Avevo due ragazzi come te, e non mi sono
tornati a casa dalla guerra; e io sarei un nemico, così? »
Da tanto, tantissimo tempo niente di simile era volato attra-
verso le nostre grate. Gridavamo le cose più semplici, troppo
evidenti per essere smentite.
Un sergente, in servizio di rafferma anche lui, si avvicinò a
* Allusione a una celebre poesia di Lermontov, La vela (1832).

46
prestare man forte al ragazzetto confuso, ma non trascinò nes-
suno in cella di rigore, non annotò cognomi, tentò solo di aiutare
il suo soldato a difendersi. E anche in questo ci parve di cogliere
i segni di tempi nuovi - ma no! che « tempi nuovi » ci potevano
essere allora, nel 1950! -, no, i segni di quei nuovi rapporti che
creavano all'interno del mondo carcerario i nuovi tempi di pena e
i nuovi lager politici.
La discussione assunse l'aspetto di una vera e propria gara di
argomentazioni. I ragazzi ci guardavano e non si azzardavano più
a chiamare nemico del popolo qualcuno del nostro scompar-
timento o di quello attiguo. Tentavano di opporci qualcosa che
avevano letto sui giornali, udito ai corsi di istruzione politica, ma
sentivano loro stessi, - più con l'orecchio che con la mente - che
le loro frasi suonavano false.
« Guardate, ragazzi, guardate dalla finestra » gridarono loro
dalla nostra parte. « Guardate un po' come avete ridotto la
Russia. »
Da quella parte si stendeva un paese di tetti marcescenti, di
casupole sbilenche, un paese a tal punto cencioso e miserabile
(era la linea di Ruzaevka che gli stranieri non frequentano) che
se Batu-Khan lo avesse visto così lordato non si sarebbe preso la
briga di conquistarlo.
Nella tranquilla stazione di Torbeevo vedemmo passare lungo
i binari un vecchio con calzature di scorza di tiglio. Una vecchia
contadina si fermò davanti al nostro finestrino ch'era stato
abbassato e a lungo, immobile, ci guardò attraverso la grata del
finestrino e la grata interna, pigiati allo stretto sulle cuccette di
sopra. Ci guardava con quello sguardo eterno con cui il nostro
popolo ha sempre guardato quei poveretti.* Rare lacrime le
scorrevano sulle gote. Stava lì, curva, e ci scrutava come se suo
figlio fosse sdraiato lì, in mezzo a noi. « Ehi, mamma, è proibito
stare a guardare », le disse non troppo scortesemente il soldato.
Lei non voltò neppure la testa. Aveva con sé una bambina d'una
decina d'anni con dei fiocchetti bianchi nelle trecce. Ci guardava
con aria molto seria, addirittura con un'afflizione che

* I condannati alle galere.

47
non era della sua età, i piccoli occhi sbarrati e immobili. Ci
guardava così intensamente che penso ci avrà fotografati per
l'eternità. Il treno si mosse lentamente: la vecchia levò le nere
dita e devotamente, senza fretta, tracciò su di noi il segno della
croce,
A un'altra stazione una ragazza con un vestito a pallini,
nient'affatto intimidita o impaurita, si accostò a ridosso della
nostra finestra e prese a chiedere con disinvoltura quali erano i
nostri articoli e i tempi di pena. « Fila », le ringhiò il soldato che
andava su e giù per la banchina lungo il binario. « Sennò cosa mi
fai? Sono anch'io della compagnia! Toh, piuttosto, passa questo
pacchetto ai ragazzi! » e cavò un pacchetto di sigarette dalla
borsetta. (Noi avevamo già capito che quella ragazza era stata
dentro. Quante ce n'erano ormai in giro di ragazze come lei,
libere cittadine dopo aver passato la scuola dell'Arcipelago!) «
Fila o ti metto dentro! » gridò il vice del caposcorta saltando giù
dal vagone. Lei lanciò un'occhiata sprezzante a quella testa di
firmaiolo. « Va' un po' a farti... testa di c...! » E ci fece coraggio:
« Metteteglielo in c... a quelli, ragazzi! ». E si allontanò.
Così dunque proseguiva il nostro viaggio e non credo che la
scorta si sentisse scorta del popolo. Più si andava avanti e più ci
infiammavamo al pensiero che eravamo dalla parte della ragione,
che l'intera Russia era con noi, e che era giunta l'ora di finirla, di
farla finita con tutta quella faccenda.
Anche nella prigione di transito di Kujbyšev dove restammo
più di un mese ad ammuffire ci attendevano dei miracoli. Dalle
finestre della cella attigua risuonarono improvvisamente delle
grida isteriche, gli inconfondibili berci disperati dei malviventi
(perfino il loro piagnucolare stridulo ha qualcosa di ripugnante):
« Aiuto! Al soccorso! I fascisti ci picchiano! I fascisti! ».
Ecco una novità davvero: sono i «fascisti» a picchiare i
malviventi? Prima era sempre il contrario.
Ma ben presto, quando ci distribuiscono nelle camerate, ca-
piamo che, almeno per ora, è presto per gridare al miracolo. È
solo una prima rondine: Pavel Boronjuk, petto come una macina,
braccia come tronchi nodosi, pronti a colpire come a

48
tendersi per una stretta di mano, nero, col naso aquilino, ricorda
più un georgiano che un ucraino. Ufficiale al fronte, con una
mitragliatrice antiaerea ha sostenuto un duello con tre Messer,*
proposto per la stella,** scartato dalla Sezione speciale; inviato
in un battaglione di punizione, ne ritornò decorato; adesso scon-
tava la diecina, secondo le nuove norme « una pena da bambini
».
Aveva già avuto il tempo di conoscere a fondo i malviventi
durante il tragitto dalla prigione di Novograd-Volynskij e si era
già battuto con loro. Quel giorno se ne stava seduto tranquillo,
nella camerata vicina, su un pancaccio in alto e giocava a
scacchi. Erano tutti Cinquantotto, ma l'amministrazione ci aveva
infilato due delinquenti comuni. Uno di loro, venuto a recuperare
il proprio posto legittimo, vicino alla finestra sul giaciglio di
sopra, la sigaretta noncurante in bocca e un ghigno dei denti
metallici, disse per ischerzo: « Ecco, ci avrei giurato che
m'avrebbero messo di nuovo con dei banditi! ». L'ingenuo
Veliev, che non conosceva ancora abbastanza i comuni, volle
fargli coraggio: « Ma no, siamo dei Cinquantotto. E tu? ». « Io
son dentro per malversazione, sono un uomo di scienza! »
Sloggiate due persone, i malviventi buttarono i sacchi sui loro
posti « legittimi » e si avviarono lungo la camerata per passare in
rassegna i sacchi degli altri e attaccar briga. E i Cinquantotto?
Niente, non erano ancora quelli della nuova leva, e non
opponevano alcuna resistenza. Sessanta uomini aspettavano
docilmente di essere affrontati e derubati. C'è qualcosa di
ipnotico in questa impudenza dei delinquenti, che non
ammettono di incontrare la benché minima resistenza. Contano
anche sul fatto che le autorità saranno sempre dalla loro parte.
Boronjuk continuava, come niente fosse, a spostare i pezzi sulla
scacchiera, ma già roteava gli occhi, grandi e minacciosi, e
rifletteva sul modo migliore di battersi. Quando uno dei
malviventi si fermò davanti a lui gli assestò con slancio un calcio
sul muso con il piede calzato che gli penzolava dal pancaccio,
poi saltò giù, impugnò
* I caccia tedeschi Messerschmitt.
** Dì eroe dell'Unione Sovietica.

49
il solido coperchio di legno del bugliolo e con una coperchiata
sulla testa stordì l'altro malvivente. Si mise poi a legnarli di santa
ragione, un po' per uno, finché il coperchio non volò in pezzi.
Ora, questo aveva un'armatura di rinforzo di 40 mm di spessore,
fatta di due assi incrociate. I malviventi ripiegarono sul lamento,
ma non si può negargli il senso dell'umorismo, perfino nelle urla
non perdevano di vista il lato comico: « Ma cosa stai facendo?
Picchi con una croce! ». « Sei lì un pezzo d'uomo, perché
offendere così un poveretto? » Ma Boronjuk, che conosceva i
suoi polli, continuò a dar legnate fino a quando uno dei due si
precipitò alla finestra urlando: « Aiuto, i fascisti ci picchiano! »
I delinquenti non avevano dimenticato quell'episodio, in se-
guito minacciarono a più riprese Boronjuk: « Puzzi di cadavere!
Si farà un viaggetto assieme ». Ma non l'attaccarono più.
Anche con le cagne,* ci fu presto uno scontro che riguardò la
nostra camerata. Era l'ora dell'aria combinata con il disbrigo dei
bisogni, la sorvegliante aveva mandato una « cagna » a tirarci
fuori dai gabinetti, quello eseguì, ma la sua arroganza (nei con-
fronti di « politici »!) indignò Volodja Gersuni, giovane giovane,
tutto nervi e condannato di fresco; questi cercò di rimettere la «
cagna » al proprio posto e l'altro lo atterrò con un pugno. Un
tempo i Cinquantotto avrebbero passato il fatto sotto silenzio, ma
stavolta Maksimov, originario dell'Azerbajdzan (aveva ucciso il
presidente del suo kolchoz) lanciò un sasso contro la « cagna »,
Boronjuk le sferrò un cazzotto e quella colpì Boronjuk di striscio
con una coltellata (gli aiutanti dei guardiani portano il coltello, la
cosa da noi non stupisce nessuno) e corse a rifugiarsi sotto l'ala
protettrice dei padroni, inseguita da Boronjuk. Fummo tutti
rapidamente spinti nelle nostre celle, e vennero degli ufficiali
della prigione per cercare di chiarire chi era stato e minacciare
delle condanne supplementari per banditismo (a quelli dell'MVD
stan sempre molto a cuore le cagne). Boronjuk avvampò e si fece
avanti spontaneamente: « Son stato io a picchiare queste canaglie
e continuerò a picchiarle finché sarò

* Delinquente comune che collabora con i guardiani.

50
vivo! » II padrino* della prigione ammonì che noi
controrivoluzionari avevamo poco di cui andar fieri, e che
avremmo fatto meglio a tenere la lingua a posto. Allora saltò su
Volodja Gersuni, quasi ancora un ragazzo, preso al primo anno
di università, non un omonimo ma precisamente il nipote di quel
Grigorij Gersuni, che era stato a capo della Sezione di combat-
timento** dei socialisti rivoluzionari. « Non si azzardi a
chiamarci controrivoluzionarii » gridò all'ufficiale con voce di
galletto. « Son cambiati i tempi! Adesso siamo di nuovo dei ri-
vo-lu-zio-na-ri! ma contro il potere sovietico! »
Accidenti se è divertente! A che punto siamo arrivati! E il
padrino della prigione si acciglia, mette il muso ed è tutto,
inghiotte il rospo. Nessuno vien messo in cella di rigore, gli
ufficiali-carcerieri se ne tornan via senza gloria.
Sicché, si può vivere così in prigione? battersi? mostrare i
denti? dire ad alta voce quello che si pensa? Ma allora, quanti
anni è che ci facciamo far su da stupidi? C'è gusto a picchiare chi
piange. Noi si piangeva e loro ci picchiavano.
Adesso, questi nuovi leggendari lager dove ci trasferiscono,
dove si portano i numeri come dai nazisti, ma che finalmente
conterranno solo i politici, depurati dal muco della delinquenza
comune, forse è proprio là che comincerà una vita così? Volodja
Gersuni - occhi neri, viso affilato e pallido - dice speranzoso: «
Quando saremo arrivati al lager, decideremo con chi andare ».
Buffo ragazzo! Crede seriamente di trovarci un'animata diver-
sificazione, ricca di sfumature tra vari partiti, delle discussioni,
dei programmi, degli incontri clandestini? « Con chi andare »!
Come se ci lasciassero la scelta. Come se ogni decisione non
fosse già stata presa per noi in ogni Repubblica dagli addetti alla
ripartizione degli arrestati e dagli addetti ai trasferimenti.
Nella nostra lunga, lunghissima camerata, - una vecchia scu-
deria, nella quale al posto delle greppie erano state sistemate due
file di pancacci a due piani; lungo il passaggio, delle misere
colonne di tronchi sbilenchi impediscono al vecchio tetto di
* Ufficiale della Sicurezza dello Stato.
** Incaricata di preparare ed eseguire gli attentati,

51
crollare; le finestrelle del lungo muro sono anch'esse tipiche di
una scuderia, e la luce che ne viene basterebbe a non far mancare
la mangiatoia ma non di più (e inoltre sono sbarrate da
museruole), - in questa camerata, dunque, siamo in centoventi
circa. C'è di tutto. Più della metà sono dei baltici, privi
d'istruzione, dei semplici contadini: nei loro paesi si sta svol-
gendo una seconda « purga », vengono incarcerati e deportati
tutti coloro che si rifiutano di entrare volontariamente a far parte
di un kolchoz o siano sospettati di volersi rifiutare. Non pochi
sono ucraini occidentali dell'OUN1 e gente che li ha ospitati per la
notte o rifocillati una volta. Poi, quelli che provengono dalla
Repubblica federale sovietica russa - più che altro ripetenti* in
minor numero novellini. E poi naturalmente, un certo numero di
stranieri.
Ci portano tutti negli stessi lager (veniamo a sapere dall'ad-
detto alla ripartizione che si tratta dello Steplag). Osservo atten-
tamente coloro cui mi ha unito il destino e cerco di penetrarli col
pensiero.
Mi sono particolarmente vicini gli estoni e i lituani. Pur
essendo « dentro anch'io », né più né meno come loro, mi ver-
gogno come se fossi stato io a incarcerarli. Integri, lavoratori
indefessi, fedeli alla parola data, incapaci di sfrontatezza, che
cosa ha loro valso il destino di essere triturati dagli stessi male-
detti ingranaggi? Non davano noia a nessuno, vivevano tran-
quilli, ben organizzati, con una moralità superiore alla nostra;
l'unica loro colpa era che noi avevamo voglia di divorarli, l'unica
loro colpa era di vivere a due passi vicino a noi e di sbarrarci la
via al mare.
« Mi vergogno di essere russo! » esclamò Herzen quando noi
strangolavamo la Polonia.** Me ne vergogno doppiamente io,
ora, davanti a questi popoli non battaglieri, senza difesa.
Riguardo ai lettoni, i miei sentimenti sono più complessi. Nel
1
Organizzazione dei Nazionalisti ucraini.
* Arrestati una seconda volta dopo aver scontato una prima pena. Si veda Arcipelago GULag
I", p. 104.
** All'epoca dell'insurrezione del 1863.

52
loro caso c'è una specie di fatalità. Sono stati infatti loro a
seminare tutto questo.*
E gli ucraini? Da tempo non diciamo più « nazionalisti ucraini
» ma sempre e soltanto « quelli di Bandera » e la parola
banderisti è diventata un insulto, a tal punto che a nessuno viene
più l'idea di cercare di andare al fondo delle cose. (Diciamo
anche « banditi », in virtù di una regola che abbiamo assimilato
alla perfezione per la quale tutti coloro che nel mondo uccidono
per nostro conto sono dei « partigiani » mentre coloro che ci
uccidono sono dei « banditi », a cominciare dai contadini ribelli
di Tambov nel 1921).
Se invece si vuole andare a fondo, ecco qua: una volta, è vero,
ai tempi della Russia di Kiev, formavamo un unico popolo; ma
dopo allora, questo popolo è stato lacerato e, nel corso di molti
secoli, le nostre vite, i nostri costumi, le nostre lingue si sono
venute diversificando. La cosiddetta « Unione »** fu il tentativo
di pochi, tentativo difficilissimo anche se forse sincero di tornare
alla fraternità d'una volta. Ma abbiamo speso male i tre secoli
passati da allora. In Russia non vi sono stati uomini di Stato che
si siano preoccupati di affratellare di nuovo ucraini e russi, di
cancellare la cicatrice che li separa. (E che esista questa cicatrice,
è indubitabile; diversamente, nella primavera del 1917 non
avremmo visto crearsi i comitati ucraini e poi la Rada.)***
Quando non erano ancora arrivati al potere, i bolscevichi non
avevano alcuna difficoltà ad affrontare il problema. Lenin
scriveva sulla « Pravda » il 1° giugno 1917: « Noi consideriamo
l'Ucraina e gli altri territori non facenti parte della Grande Russia
come annessi dallo zar russo e dai capitalisti ». Questo è stato
scritto quando già esisteva la Rada centrale. E il 2 novembre
1917 veniva adottata la « Dichiarazione dei diritti dei

* Allusione alle unità di fucilieri lettoni probolsceviche che giocarono un ruolo fondamentale
prima e durante la rivoluzione d'Ottobre.
** Atto di obbedienza a Mosca proclamato dall'atamano Bogdan Chmel'nitskyj nel 1654.
*** Dopo la rivoluzione del febbraio 1917 il Governo provvisorio concesse l'autonomia
all'Ucraina riconoscendo l'indipendenza dell'Assemblea nazionale o Rada, che proclamò nel
novembre 1917 la Repubblica ucraina autonoma.

53
popoli della Russia ». Uno scherzo? un inganno cosciente? non
vi veniva proclamato che i popoli della Russia hanno ne più né
meno che il diritto di decidere di se stessi fino ad arrivare alla
secessione? Sei mesi più tardi il governo sovietico pregava la
Germania del Kaiser di collaborare con la Russia sovietica per
concludere la pace e definire delle frontiere precise con l'Ucraina
e il 14 giugno 1918 Lenin firmò tale pace con l'atamano
Skoropadskij. Mostrava così facendo di essersi del tutto
riconciliato con l'idea di una secessione dell'Ucraina dalla Rus-
sia, anche se questo significava un'Ucraina monarchica.
Ma, fatto davvero strano: non appena i tedeschi caddero sotto
i colpi dell'Intesa (evento che non poteva influire sui princìpi del
nostro atteggiamento verso l'Ucraina), cadde anche l'atamano, e
le nostre forze, anche se esigue, risultarono superiori a quelle di
Petljura: varcammo immediatamente la frontiera che avevamo
appena riconosciuto e imponemmo ai fratelli e consanguinei il
nostro potere. È vero che per altri quindici o vent'anni ci
trastullammo in modo insistente e perfino inopportuno con la
mova, la lingua ucraina, assicurando ai nostri fratelli che erano
perfettamente indipendenti e potevano separarsi da noi quando lo
volessero. Ma non appena essi l'hanno voluto fare davvero, alla
fine della guerra, li abbiamo dichiarati « banderisti », ci siamo
messi a dar loro la caccia, a torturarli, a metterli a morte e a
mandarli nei lager. (Invece, gli uomini di Bandera come quelli di
Petljura non sono altro che ucraini che rifiutano il potere
straniero. Quando si resero conto che Hitler non portava loro la
libertà promessa, combatterono anche contro Hitler durante tutta
la guerra, ma noi passiamo sotto silenzio questa circostanza
perché ci è svantaggiosa, né più né meno che l'insurrezione di
Varsavia del 1944.*)
Perché ci irrita tanto questa tenace coscienza nazionale degli
ucraini, questo desiderio che i nostri fratelli hanno di parlare la
propria lingua, di insegnarla ai loro figli, di scrivere insegne nella
loro mova? Perfino Michail Bulgakov (nella Guardia Bian-
* Che i sovietici lasciarono fosse schiacciata dagli occupanti nazisti (nell'agosto 1944).

54
ca), a questo riguardo si è lasciato trascinare da un sentimento
errato. Dal momento che, veramente, la nostra fusione non si è
realizzata fino in fondo, dal momento che tra noi esistono certe
differenze (ed è sufficiente che lo avvertano loro che sono la
minoranza) la cosa addolora, certo, ma dal momento che è così?
che l'occasione favorevole è stata mancata, specialmente negli
anni Trenta e Quaranta, e che le cose si sono esacerbate non ai
tempi dello zar, ma soprattutto dopo! perché ci da tanto sui nervi
questo loro desiderio di separarsi? Ci dispiace per le spiagge di
Odessa? per la frutta di Cerkassy?
Mi è doloroso scriverne: ucraini e russi sono uniti nel mio
sangue, nel mio cuore e nei miei pensieri. Ma una lunga espe-
rienza di rapporti amichevoli con gli ucraini nei lager mi ha
rivelato quanto grande sia il loro dolore. La nostra generazione
dovrà inevitabilmente pagare gli errori dei secoli precedenti.
Battere il piede e gridare: « Questo è mio! » è senz'altro la via
più semplice. Incomparabilmente più difficile è dire: « Viva chi
vuol vivere ». È impossibile, infatti, alla fine del XX secolo,
vivere nel mondo illusorio nel quale si ruppe la testa il nostro
ultimo e poco intelligente zar. Per quanto strano sia, non si sono
avverate le profezie della Dottrina d'Avanguardia circa il declino
del nazionalismo. Nel secolo dell'atomo e della cibernetica, esso,
non si sa bene perché, ha ripreso a prosperare. Ci piaccia o no, si
sta avvicinando il tempo di scontare tutte le cambiali emesse
sull'autodeterminazione, sull'indipendenza, e di pagarle noi
stessi, senza aspettare che ci brucino sui roghi, ci affoghino nei
fiumi o ci taglino la testa. Che siamo una grande nazione lo
dobbiamo dimostrare non con l'immensità del nostro territorio o
il numero dei popoli sottomessi alla nostra tutela, ma con la
grandezza delle nostre azioni. E con la profondità alla quale noi
sapremo arare la terra che ci resterà, detratte tutte quelle terre che
non vorranno vivere con noi.
Con l'Ucraina sarà estremamente doloroso. Ma non bisogna
chiudere gli occhi su ciò che significa la loro diffusa tensione
d'oggi. Se le cose non si sono appianate nel corso di molti secoli,
vuol dire che tocca a noi mostrarci ragionevoli. Abbiamo il
dovere di rimettere la decisione a loro: federalisti, separatisti,

55
si confrontino e confrontino le loro opinioni. Non cedere sarebbe
follia e crudeltà. Più saremo miti, tolleranti e chiari adesso,
maggiore sarà la speranza di ricostituire l'unità in futuro.
Lasciamoli vivere, lasciamoli provare. Si accorgeranno presto
che non tutti i problemi si risolvono con la separazione.1

Chissà perché, restiamo a lungo in questa camerata-scuderia e


non si decidono mai a portarci al nostro Steplag. Non che noi si
abbia fretta, qui ci divertiamo, là non potrà che essere peggio.
Non ci lasciano privi di notizie, ogni giorno ci portano una
gazzetta formato ridotto, tocca a me leggerla ad alta voce a tutta
la camerata, e io lo faccio con espressività, ce n'è davvero di
cose da esprimere.
In quei giorni, neanche a farlo apposta, ricorrono i decennali
della liberazione dell'Estonia, della Lettonia e della Lituania*.
Alcuni dei baltici capiscono il russo e traducono agli altri (io
faccio delle pause) e quelli urlano, semplicemente urlano sui loro
pancacci, di sopra e di sotto, sentendo parlare della libertà e
prosperità instaurate nei loro paesi per la prima volta nella storia.
Ciascuno di questi baltici (e costituiscono un buon terzo della
popolazione della prigione di transito) si è lasciato alle spalle una
casa rovinata, e ancora fortuna se la famiglia c'è rimasta, invece
di finire, su un'altra tradotta, in quella stessa Siberia.
Ma naturalmente ciò che più metteva in agitazione la prigione
erano i comunicati dalla Corea. Il blitzkrieg di Stalin era fallito.
Già affluivano i volontari dell'ONU. Noi sentivamo la
1
Dato che nelle diverse province dell'Ucraina varia la proporzione tra quelli che si
considerano russi, quelli che si considerano ucraini e quelli che non si considerano né
russi né ucraini, ci saranno senz'altro grosse complicazioni. Ogni provincia, forse, avrà
bisogno di un suo plebiscito, seguito da una politica intesa a favorire e aiutare coloro che
desidereranno trasferirsi da una provincia all'altra. Non tutta l'Ucraina, nei suoi confini
sovietici ufficiali d'oggi, è veramente Ucraina. Certe province della riva sinistra
tendono indubbiamente verso la Russia.
* Annesse una dopo l'altra dall'URSS, su « richiesta plebiscitaria » dei loro
abitanti, nell'agosto 1940.

56
Corea come una Spagna della terza guerra mondiale. (E certa-
mente Stalin l'aveva progettata come una prova generale.) I sol-
dati dell'ONU ci entusiasmavano particolarmente: che bandiera!
Chi non avrebbe riunito! Era la prefigurazione dell'umanità uni-
versale dell'avvenire.
Eravamo tanto nauseati che non riuscivamo più a sollevarci da
quel nostro stato. Eravamo incapaci di immaginare, di ammettere
questa idea: d'accordo, siamo pronti a morire purché restino sani
e salvi quelli che ora, dal loro benessere, contemplano con
indifferenza la nostra rovina. No, avevamo sete di tempesta.
Ci si stupirà: quanto cinismo, quanta disperazione in questo
stato d'animo! Davvero potevate far a meno di pensare alla
sciagura che sarebbe stata la guerra per l'immenso mondo libero!
Ma questo mondo libero non pensava affatto a noi. Ma come?
davvero volevate una guerra mondiale? Ma condannando tutti
quegli uomini, nel 1950, a pene che avrebbero finito di scontare
a metà degli anni Settanta, che cosa altro gli si lasciava volere, se
non una guerra mondiale?
Anche a me oggi sembrano assurde quelle folli e false spe-
ranze. Una totale distruzione nucleare non è una soluzione per
nessuno. E anche senza arrivare a quello, ogni situazione di
guerra fornisce sempre giustificazioni alla tirannia interna, la
rafforza. Ma la mia storia sarebbe falsata se io non dicessi la
verità: ciò che sentivamo quell'estate.
Come la generazione di Romain Rolland, nella sua giovi-
nezza, era vissuta oppressa dalla costante attesa della guerra, così
la nostra generazione di detenuti era vissuta oppressa dalla sua
mancanza: e questa soltanto è la verità completa e intera sullo
stato d'animo dei lager politici speciali. A questo ci avevano
ridotto. La guerra mondiale poteva significare per noi o una
morte accelerata (una raffica di mitra dall'alto delle torrette,
avvelenamento con il pane o i microbi, come facevano i
tedeschi) o la libertà. In ambedue i casi la liberazione era assai
più vicina che non la scadenza della pena nel 1975.
Era stato questo il calcolo di Petja P.-v. Nella nostra camerata
era l'ultimo uomo vivo proveniente dall'Europa. Subito dopo la

57
guerra le celle erano piene zeppe di russi ritornati dall'Europa.
Ma tutti quelli che erano ritornati allora o erano da un pezzo nei
lager o erano sotto terra, e gli altri rimasti in Europa avevano
mangiato la foglia: non ne arrivavano più; e questo da dove ve-
niva? Era tornato volontariamente in patria nel novembre 1949, a
un'epoca in cui le persone normali non tornavano più. La
guerra lo aveva sorpreso a Char'kov allievo di una scuola
professionale alla quale era stato iscritto forzatamente. Altret-
tanto forzatamente i tedeschi lo portarono insieme ad altri ado-
lescenti in Germania. Là rimase in qualità di « Ostarbeiter »*
fino alla fine della guerra, là si formò la sua psicologia: cercare
la vita facile e di non lavorare come l'avevano costretto a fare fin
da piccolo. In Occidente, sfruttando la credulità europea e la
mancanza di controlli severi ai confini tra un paese e l'altro, P-v
trasferiva delle automobili francesi in Italia, delle automobili
italiane in Francia e le vendeva a prezzi ridotti. Ma in Francia fu
scoperto e arrestato. Allora egli scrisse all'ambasciata sovietica
che desiderava ritornare nella sua cara patria. Il suo
ragionamento era questo: la pena in Francia l'avrebbe dovuta
scontare fino all'ultimo giorno, e poteva prendersi anche dieci
anni. Nell'Unione Sovietica, al contrario, gli avrebbero dato
venticinque anni per tradimento della patria, ma ormai stavano
già cadendo le prime gocce della terza guerra mondiale; l'Unione
Sovietica, secondo i suoi calcoli, non avrebbe resistito neanche
tre anni, era dunque più conveniente la prigione sovietica. Gli
amici dell'ambasciata si presentarono immediatamente e si
strinsero forte al cuore Petja P-v. Quanto alle autorità francesi si
liberarono volentieri di quel ladro. Nell'ambasciata furono così
raccolte una trentina di persone della stessa risma. Furono spediti
a Murmansk su di un piroscafo, con ogni confort, lasciati liberi
di bighellonare per la città e riacciuffati ad uno ad uno nelle
ventiquattro ore successive.
Adesso, nella nostra camerata Petja faceva per noi le veci
dell'Occidente giornalistico (aveva letto tutti i dettagli del pro-
* « Lavoratore dell'Est »: il termine designava le persone deportate in Germania come
lavoratori civili.

58
cesso Kravčenko),* teatrale (con guance e labbra eseguiva abil-
mente pezzi di musica occidentale) e cinematografico (ci raccon-
tava e mimava i film occidentali).
Ah, quanta libertà nella prigione di transito di Kujbyšev! A
volte le camerate s'incontravano nel cortile comune. Quando i
nuovi arrivati venivano condotti attraverso il cortile, si poteva
scambiare qualche parola con loro da sotto le « museruole ».
Andando ai gabinetti ci si poteva anche avvicinare alle finestre
aperte (protette da grate ma senza « museruole ») della baracca «
delle famiglie », dove erano detenute le donne che avevano
numerosi bambini (provenienti dai soliti paesi baltici o dal-
l'Ucraina occidentale, e mandate al confino). Fra due camerate-
scuderie c'era una fessura chiamata « telefono »; da mattina a
sera c'era qualcuno sdraiato, da una parte e dall'altra, a scam-
biarsi le novità del giorno.
Tutte quelle libertà non facevano che eccitarci ancora di più,
sentivamo il terreno farsi più solido sotto i nostri piedi mentre
quello sotto i piedi dei nostri custodi cominciava, almeno ci
sembrava, a scottare. Passeggiando per il cortile alzavamo il viso
verso l'afoso cielo bianco di luglio. Non ci saremmo stupiti né
minimamente spaventati se una formazione di bombardieri
stranieri fosse apparsa in cielo. La vita per noi non era più vita.
Chi ci incrociava, proveniendo dalla prigione di transito di
Karabas, ci portava voci sul fatto che là erano già stati appesi dei
volantini: « Basta sopportare! ». Ci infiammavamo l'un l'altro in
questo stato d'animo e quando a Omsk, in una notte afosa, ci
pigiarono, carne accaldata e sudaticcia, alla rinfusa nei cellulari,
gridammo dal fondo all'indirizzo dei guardiani: « Aspettate un
po', canaglie! Ci sarà un Truman anche per voialtri! Riceverete
una bomba atomica sulla testa! ». E quelli, zitti e vigliac-

* Processo di diffamazione intentato nel 1949 da Viktor Kravčenko, autore di Ho scelto la


libertà contro alcuni giornalisti di « l'Humanité » e di « Lettres françaises » che l'accusavano di
aver raccontato delle menzogne. Il processo aveva viceversa rivelato la realtà dell'esistenza di
campi di concentramento in URSS.

59
chi. Avvertivano anch'essi la nostra crescente pressione e, così ci
sembrava, la nostra giusta verità. Eravamo tanto assetati di verità
e giustizia che non ci sarebbe importato molto di essere inceneriti
insieme ai nostri boia dalla stessa bomba. Eravamo giunti a
quello stato estremo in cui non si ha più nulla da perdere.
A non rivelare queste cose, il quadro dell'Arcipelago degli
anni Cinquanta non sarebbe completo.
Il penitenziario di Omsk, che aveva conosciuto Dostoevskij,
non ha niente a che vedere con una di queste prigioni di transito
del GUlag, frettolose costruzioni di assi di legno. È una severa,
imponente prigione dell'epoca di Caterina II, soprattutto i suoi
sotterranei. Non si potrebbe inventare migliore scenografìa per
un film che una camerata sotterranea di questa prigione. Il pic-
colo lucernario quadrato è in cima a un pozzo inclinato che
sbocca, lassù in alto, alla superficie. I tre metri di profondità di
questo vano danno un'idea di quali siano i muri. Non c'è soffitto,
le vòlte crociate ci sovrastano come macigni. Uno dei muri è
bagnato, l'acqua s'infiltra dal terreno, cola sul pavimento. Fa buio
mattina e sera, in un giorno di sole c'è penombra. Non ci sono
ratti ma sembra di sentirne l'odore. E sebbene le vòlte ricadano
così in basso che in certi punti si toccano con la mano, i
carcerieri hanno trovato il modo di sistemarci dei pancacci a due
piani, quello inferiore appena sollevato dal pavimento, all'altezza
delle caviglie.
Si direbbe che quel penitenziario dovesse sedare i vaghi pre-
sentimenti di ribellione che aveva lasciato maturare in noi la
rilassatezza della prigione di transito di Kujbyšev. Invece no. Di
sera, alla luce, fioca come una candela, di una lampadina di
quindici watt, il vecchio e calvo Drozdov dal viso appuntito,
fabbriciere della cattedrale di Odessa, in piedi nel profondo
pozzo della finestra, con una voce debole, ma impregnata degli
accenti di una vita al tramonto, canta una vecchia canzone
rivoluzionaria:
Come un tiranno, come il tradimento
questa notte d'autunno è nera;

60
ma più nera che essa, e di sgomento,
emerge dalla nebbia la galera.*

Egli canta solo per noi, ma anche se gridasse a squarciagola


qui non lo sentirebbe nessuno. Quando canta, il suo sporgente
pomo d'Adamo va e viene sotto il bronzo della pelle del collo.
Egli canta e sussulta, si abbandona ai ricordi e si lascia penetrare
da diversi decenni di vita russa e il suo fremito si trasmette a noi:
All'erta sentinella! Sebbene tutto taccia
il carcere non è un cimitero.

In una simile prigione, una canzone simile!1 È tutto in armo-


nia. In armonia con quanto attende la nostra generazione di
detenuti.
Poi ci corichiamo in quella penombra gialla, nel freddo e
nell'umido. E se qualcuno ci raccontasse un romanzo?
Ed ecco che risuona la voce di Ivan Alekseevič Spasskij, una
specie di voce collettiva di tutti i personaggi di Dostoevskij. Essa
si interrompe di tanto in tanto, soffoca, non è mai calma, ad ogni
istante, si direbbe, rischia di trasformarsi in pianto, in grido di
dolore. Il più primitivo dei romanzi d'un Bresko-Breskovskij, nel
genere di Madonna rossa, raccontato da quella voce risuona
come la canzone di Orlando. È una voce colma di fede,
sofferenza e odio. E di colpo, verità o pura invenzione, non
importa, s'imprime nella nostra memoria come un'epopea la
storia di Viktor Voronin, la sua corsa a piedi di centocinquanta
chilometri fino a Toledo e la fine dell'assedio dell'Alcazar.**
Né la vita dello stesso Spasskij sarebbe un romanzo trascura-
* Questa strofa, e i due versi successivi, fanno parte di una poesia, Slusaj (Ascolta) di I.
Goltz-Miller, pubblicata per la prima volta nel 1864 e popolare tra la gioventù rivoluzionaria.
Messa in musica da P. Sokalskij la melodia venne utilizzata da D. Šostakovič nella sua XI
sinfonia, 1905. Si veda la nota 1, qui sotto.
1
Peccato davvero che Šostakovič, prima di comporre la sua XI sinfonia, non abbia ascoltato
qui quella canzone. O non l'avrebbe toccata, o ne avrebbe espresso il senso contemporaneo, e non
un senso che è morto.
** La Madonna rossa è un romanzo sulla guerra civile spagnola del 1936-39; l'assedio
dell'Alcazar (fortezza) di Toledo è un episodio famoso di quella guerra.

61
bile. Da adolescente prese parte alla Campagna dei Ghiacci.*
Combattè tutta la guerra civile. Emigrò in Italia. Studiò balletto
in una scuola russa all'estero, pare dalla Karsavina, e imparò
l'arte dello stipettaio da una contessa russa. (In seguito nel lager,
ci avrebbe stupito fabbricando per le autorità, con un arnese in
miniatura che si era fatto, dei mobili di una finezza e di una
leggerezza tali, dalle linee così armoniose da lasciare tutti di
stucco. Naturalmente gli ci voleva un mese per un tavolino.) Girò
l'Europa con una compagnia di balletti. Fu operatore di un
cinegiornale italiano durante la guerra di Spagna. Maggiore
dell'esercito italiano, con il nome leggermente modificato di
Giovanni Paschi, comandò un battaglione, e nell'estate 1942,
eccolo di nuovo sul Don. Qui poco dopo il suo battaglione rima-
se accerchiato benché il grosso delle forze russe fosse ancora in
ritirata. Spasskij avrebbe voluto battersi fino alla morte, ma i
ragazzi italiani di cui era formato il battaglione si sciolsero in
lacrime: volevano vivere. Il maggiore Paschi cedette e alzò la
bandiera bianca. Avrebbe potuto uccidersi, ma lo stuzzicava
l'idea di conoscere almeno un poco i sovietici. Avrebbe potuto
subire la comune prigionia e dopo quattro anni ritrovarsi in Italia,
ma la sua anima russa non seppe resistere e parlò a cuore aperto
con gli ufficiali che lo avevano catturato. Errore fatale! Se hai la
disgrazia di essere russo, nascondilo come una malattia
vergognosa, o guai a te! Cominciarono col tenerlo per un anno
alla Lubjanka. Poi tre anni nel lager internazionale di Char'kov
(spagnoli, italiani, giapponesi; c'era anche un lager così).
Scontati quei quattro anni, senza abbinarglieli, gliene rifilarono
altri venticinque. Macché venticinque, ormai! in un lager di
galeotti era condannato a lasciarci la pelle in men che non si
dica.
La prigione di Omsk e poi quella di Pavlodar ci avevano
accolti perché queste due città - grave omissione! - non dispo-
nevano ancora di prigioni di transito specializzate. A Pavlodar -
oh ignominia! - non si trovò neppure un cellulare e, dalla sta-
* La Campagna dei Ghiacci, nel nord della Crimea, segnò l'inizio del movimento dei Bianchi
nella guerra civile.

62
zione alla prigione, attraverso molti quartieri della città, ci fecero
sfilare in colonna, senza badare alla popolazione, come si faceva
prima della rivoluzione e nel decennio che seguì. I quartieri che
attraversavamo non avevano ancora strade asfaltate né
condutture per l'acqua, casette grigie di legno a un piano
affondavano nella sabbia, grigia anch'essa. La città propriamente
detta cominciava dall'edificio di pietra bianca a due piani della
prigione.
Secondo i criteri del XX secolo questa prigione non ispirava
orrore ma un senso di pace, non suscitava paura ma piuttosto una
certa allegria. Un vasto pacifico cortile coperto qua e là da
un'erbetta stentata, suddiviso - da una bassa palizzata, in modo
approssimativo e curiosamente poco convincente - in scomparti
da passeggio. Le finestre delle celle del primo piano erano
protette da sbarre, e non chiuse da « museruole »: prego,
sistematevi coi gomiti sul davanzale e studiatevi il paesaggio.
Proprio sotto i nostri piedi, fra il muro della prigione e il muro di
cinta esterno, passava di tanto in tanto, messo in allarme da
chissà cosa, e trascinandosi dietro la catena, un enorme cane,
mandava due o tre latrati sonori e via. Anche lui aveva poco di
carcerario, non faceva paura, non ricordava per niente i feroci
cani da pastore che vengono addestrati contro gli uomini, aveva
il pelo bianco giallastro, irsuto, tipo cane da guardia (d'una razza
che esiste nel Kazachstan), e sembrava tutt'altro che giovane,
anzi. Ricordava uno di quei bonari vecchi guardiani dei lager,
trasferiti lì dall'esercito, che, senza farne mistero, mostravano
ripugnanza per quel loro lavoro di cani da guardia.
Più lontano, dall'altra parte del muro di cinta, si vedeva
direttamente la strada, un chiosco della birra, tutti coloro che la
misuravano o vi sostavano, dopo aver portato un pacco in
prigione, o in attesa della restituzione di un recipiente. Più
lontano ancora si scorgevano quartieri di casette tutte uguali a un
piano, un'ansa dell'Irtys e perfino le lontananze al di là del fiume.
Una ragazza dall'aria vivace, alla quale avevano appena resti-
tuito al posto di guardia un paniere vuoto, alzò la testa verso la
nostra finestra, notò da lontano noi e il nostro gesticolare, ma

63
fece finta di nulla. Con passo dignitoso e altero proseguì lenta-
mente oltre il chiosco della birra, in modo che dal posto di
guardia non la potessero vedere e subito, bruscamente, si trasfi-
gurò tutta, lasciò cadere il paniere, cominciò ad agitare le brac-
cia, a salutare, a sorridere. Poi, tracciando dei rapidi ghirigori con
le dita: « Scrivete, scrivete dei biglietti » e, con un arco
raffigurante il volo: « Buttateli a me », poi, voltata verso la città:
« Ci penserò io a consegnarli! ». E, a braccia spalancate: « Che
altro posso fare? Come posso aiutarvi? Amici! ».
Tutto questo era così sincero, così spontaneo, così poco somi-
gliante alla nostra libertà con la museruola, ai nostri tartassati
cittadini. Cos'era successo? Erano arrivati i nuovi tempi? O nel
Kazachstan era così? Qui infatti una buona metà degli abitanti
sono dei confinati...
Cara, intrepida fanciulla! Come hai imparato in fretta a vivere
vicino a una prigione, come l'hai assimilato bene! Che felicità
(ma non saranno delle lacrime quelle che mi brillano nell'angolo
dell'occhio?) che esistano ancora ragazze come te!... Accetta il
nostro reverente saluto, tu che non hai nome. Ah, se tutto il
nostro popolo fosse così! mai nessuno, diavolo, l'avrebbe
rinchiuso sotto chiave! le maledette ruote dentate si sarebbero
inceppate!
Naturalmente nelle giubbe avevamo dei mozziconi di matita.
E dei pezzetti di carta. Avremmo potuto grattare un pezzo d'in-
tonaco, legarvici con un filo il biglietto e gettarlo dove
volevamo. Ma a Pavlodar non avevamo decisamente nulla da
farle dire o fare. Ci limitammo a ringraziarla con degli inchini e a
indirizzarle dei gesti di saluto.
Ci avrebbero portati nel deserto. Perfino la rustica e poco
attraente Pavlodar sarebbe rimasta nella nostra memoria come
una sfavillante metropoli.
Ora è la scorta dello Steplag a prenderci in consegna (ma non
quella della sezione di Dzezgazgan per fortuna; durante tutto il
tragitto avevamo scongiurato la sorte di risparmiarci le miniere
di rame). Vennero a prenderci con camion dai bordi rialzati,
muniti di grate sul davanti del cassone per proteggere i
mitraglieri, neanche fossimo stati delle bestie feroci. Ci fecero

64
sedere sul fondo del cassone, gambe ripiegate, faccia rivolta in
senso contrario alla marcia e in questa posizione ci sballottarono
per otto ore filate sul fondo dissestato della strada. Seduti sul
tetto della cabina, i mitraglieri, durante l'intero tragitto, tennero
la canna delle loro armi puntate sulle nostre schiene.
Nelle cabine degli autocarri facevano il viaggio dei tenenti,
dei sergenti; nella nostra la moglie di un ufficiale con una bam-
bina di forse sei anni. Alle fermate la bimba saltava giù, correva
nei prati, coglieva dei fiori, gridava con voce squillante alla
mamma. Niente la turbava: né i mitra, né i cani, né le teste
deformi dei detenuti che spuntavano dai bordi dei cassoni; il
nostro terribile mondo non le offuscava i prati e i fiori, neanche
per semplice curiosità volse mai lo sguardo su di noi... Mi fece
ricordare il figlio del capo della prigione speciale di Zagorsk. Il
suo gioco preferito: costringere due ragazzi suoi vicini a mettere
le mani dietro la schiena (a volte gliele legava) e a marciare per
la strada, mentre lui, bastone in mano, marciava al loro fianco
facendogli da scorta.
I bambini giocano come i padri vivono...
Attraversammo l'Irtys. Viaggiammo a lungo attraverso prati
allagati, poi in una steppa perfettamente uniforme. Il respiro
dell'Irtys, la freschezza della sera nella steppa, l'odore di assenzio
ci avvolgevano durante le soste, quando si posavano i turbini di
polvere grigiochiara sollevati dalle ruote. Coperti da un fitto
strato di quella polvere, guardavamo indietro (vietato voltare la
testa), tacevamo (vietato parlare) e pensavamo al lager verso il
quale eravamo diretti, col suo strano complicato nome non russo.
Lo avevamo letto capovolto sulle nostre « pratiche », spor-
gendoci dalle cuccette superiori del vagone cellulare: Ekibastuz,
ma nessuno poteva immaginare dove si trovasse, soltanto il
tenente colonnello Oleg Ivanov si ricordò che era un posto dove
si estraeva il carbone. Ci figuravamo perfino che fosse da
qualche parte non lontano dalla frontiera con la Cina (alcuni se
ne rallegravano, non avendo avuto ancora il tempo di abituarsi
all'idea che in Cina era ancora assai peggio di noi). Il capitano di
fregata Burkovskij (un novellino condannato a

65
venticinque anni, guardava ancora tutti con un'aria alquanto
selvatica, lui, vedi un po', era comunista, era stato messo dentro
per sbaglio, e ora si trovava in mezzo a tutti quei nemici del
popolo; se mi riconosceva, era unicamente in ragione della mia
qualità di ex ufficiale sovietico che non era stato prigioniero dei
tedeschi) mi ricordò una cosa dimenticata dai tempi dell'uni-
versità: se la vigilia del giorno dell'equinozio d'autunno avessimo
tracciato per terra la linea meridiana, e il 23 settembre avessimo
sottratto da 90 l'altezza della culminazione del sole, avremmo
ottenuto la nostra latitudine geografica. Una consolazione,
malgrado tutto, anche se non c'era modo di sapere la longitudine.
Il viaggio continuava, sembrava non dover finire mai. Scese la
notte. Adesso il cielo era nero, cosparso di grosse stelle,* era
chiaro che ci portavano verso sud-sud-ovest.
Nella luce dei fari delle vetture di dietro danzavano brandelli
della nube di polvere sollevata dappertutto sopra la strada ma
visibile solo nei raggi dei fari. Sorgeva uno strano miraggio: il
mondo intero era nero, il mondo intero oscillava e soltanto quelle
particelle di polvere rilucevano, turbinavano e disegnavano le
sinistre immagini del futuro.
Fino a quale limite del mondo? In quale buca ci stavano
portando, dove ci sarebbe stato dato di fare la nostra rivoluzione?
Le gambe ripiegate erano così intormentite, che non ci sem-
bravano più le nostre. Soltanto verso la mezzanotte raggiun-
gemmo il lager recintato da un'alta palizzata di legno e illumi-
nato, - nel mezzo della steppa nera e vicino a un nero villaggio
sprofondato nel sonno, - dalla vivida luce elettrica del corpo di
guardia e del perimetro della « zona ».
Ancora una volta l'appello, in base alla « pratica »: « ...marzo
millenovecentosettantacinque! » e, per quei rimanenti quarti di
secolo, ci fecero entrare attraverso altissimi doppi cancelli.
Il lager dormiva, ma tutte le finestre delle baracche brillavano
d'una luce vivida, quasi vi fervesse la vita. Luce di notte, dunque
regime carcerario. Le porte delle baracche erano chiuse

66
dall'esterno per mezzo di pesanti lucchetti. Sui rettangoli illu-
minati delle finestre si profilavano nere le sbarre.
L'aiuto dell'addetto ai materiali, che ci venne incontro, era
letteralmente drappeggiato di numeri cenciosi.
Di' un po', hai letto sui giornali che nei lager fascisti gli
uomini portano dei numeri?

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IlI Catene, catene...

Ma la nostra foga, le nostre speranze che precorrevano gli


eventi furono presto schiacciate. Il venticello dei cambiamenti
soffiava solo come corrente d'aria: nelle prigioni di transito. Qui,
dietro le alte palizzate dei lager speciali non era penetrato. E
sebbene in questi lager vi fossero solo politici, non c'era traccia
di volantini appesi ai pali.
Si racconta che nel Minlag i fabbri si fossero rifiutati di
forgiare grate per le finestre delle baracche. Gloria a quegli
uomini, i cui nomi restano per ora sconosciuti. Erano dei veri
uomini. Furono incarcerati in baracche a regime duro, le BUR. Le
sbarre per il Minlag furono fabbricate a Kotlas. E nessuno
sostenne i fabbri.
I lager speciali incominciavano con la solita silenziosa, per-
sino ossequiosa docilità, frutto di tre decenni di educazione nelle
ITL.
I convogli spinti fin là dal Settentrione polare non ebbero
modo di godere del bel sole del Kazachstan. Alla stazione di
Novorudnoe, saltando giù dai loro vagoni rossi i detenuti si
ritrovarono su una terra altrettanto rossastra. Era il famigerato
rame del Džezkazgan, alla cui estrazione nessun polmone ha
resistito per più di quattro mesi. Seduta stante, sui primi detenuti
in colpa, i guardiani, tutti contenti, fecero la dimostrazione della
loro nuova arma: le manette, non usate negli ITL: delle manette
nichelate, scintillanti, la cui massiccia produzione era stata messa
a punto per il trentesimo anniversario della rivolu-

68
zione di Ottobre (fabbricate in qualche officina da operai coi
baffi brizzolati, proletari esemplari della nostra letteratura: non
saranno stati Berija o Stalin in persona a fabbricarle, non è
vero?). Queste manette avevano una particolarità: di poter essere
strette più o meno fortemente: erano fornite di una lama
metallica dentata, vi venivano infilate ai polsi, poi, puntellan-
dosele su un ginocchio, un uomo della scorta ve le stringeva
sforzandosi di far entrare il maggior numero possibile di denti
nella tacca di blocco, in modo che facessero più male possibile.
Così, da dispositivi di sicurezza, intesi a immobilizzare, si tra-
sformavano in strumenti di tortura: comprimevano le ossa, cau-
sando un dolore acuto e continuo, e vi tenevano così per molte
ore e sempre con le mani rivoltate in fuori, dietro la schiena. Era
stato elaborato un altro procedimento apposito, consistente nel
prendere con le manette quattro dita, il che causava degli acuti
dolori nelle falangi.
Al Berlag le manette venivano applicate con zelo per ogni
inezia, per aver trascurato di togliersi il berretto davanti a una
guardia e cose del genere: vi infilavano le manette (le mani
dietro la schiena) e vi impiantavano in piedi vicino al corpo di
guardia. Le braccia intorpidivano, si intormentivano e uomini
adulti si mettevano a piangere: « Cittadino capo, non lo farò più!
Mi tolga le manette! ». (C'erano delle belle usanze laggiù al
Berlag, si faceva tutto a comando: non solo per andare alla
mensa, ma a comando si raggiungeva il proprio tavolo, a co-
mando si prendeva posto, a comando si abbassava il cucchiaio
nella sbobba, a comando ci si alzava e si usciva.)
Fu una cosa da niente ordinare con un tratto di penna: « Crea-
zione di lager speciali! regime disciplinare da mettere a punto,
presentare un rapporto per il tal giorno ». Ma quanti laboriosi
carcerologi (e conoscitori di anime, e conoscitori della vita dei
lager) dovettero studiare le cose punto per punto: che altro si
potrebbe rifilargli perché risulti ancor più spiacevole? che carico
supplementare infliggergli perché sia ancor più estenuante? Co-
me aggravare ancora la vita già di per sé tutt'altro che facile
dell'indigeno zek? Passando dagli ITL ai lager speciali quelle
bestie dovevano sentirne subito il peso e la rigidezza, ma con-

69
cretamente?: concretamente c'è sempre stato bisogno che qual-
cuno elaborasse le cose punto per punto.
Furono, si capisce, rafforzate le misure di sicurezza. In tutti i
lager speciali furono ulteriormente fortificati i recinti della zona,
tese nuove linee di filo spinato, disseminate spirali di filo spinato
nella « prezona ».* Lungo l'itinerario delle colonne di lavoratori,
a tutte le curve e incroci importanti, venivano preventivamente
installate delle mitragliatrici e delle postazioni di mitraglieri.
Ogni lager speciale fu dotato della sua prigione di pietra: la
BUR.1 Coloro che vi venivano rinchiusi dovevano obbligatoria-
mente consegnare la giubba: la tortura del freddo era infatti una
particolarità della BUR. Ma era una prigione anche ogni baracca,
giacché tutte le finestre erano munite di sbarre, per la notte si
portavano dentro dei buglioli e le porte venivano chiuse a chiave.
Inoltre in ciascuna « zona » c'erano una o due baracche di
punizione, con una sorveglianza rafforzata, che costituivano una
piccola « zona » speciale all'interno della zona; venivano chiuse
immediatamente dopo il rientro dei detenuti dal lavoro, come si
faceva nelle galere degli inizi. Erano queste, propriamente, le
BUR, ma noi le chiamavamo « baracche di punizione » (rezimki).
Poi, del tutto apertamente, fu messa a profitto la preziosa
esperienza hitleriana dei numeri: il cognome del detenuto, il suo
« io », la sua personalità dovevano essere sostituiti con un
numero, bisognava far sì che un individuo non si distinguesse più
da un altro individuo per ciò che costituisce la sua particolarità
umana, ma unicamente per un'unità in più o in meno in una serie
uniforme di numeri. Questa misura può anch'essa diventare una
forma di oppressione, e oltremodo efficace, ma a condizione di
applicarla in modo coerente, fino in fondo. Ed è quello che si
cercò di fare. Ad ogni nuova matricola, dopo

* « Zona »: in questo caso il complesso di recinzione del lager (palizzata, filo spinato,
torrette, ecc.); « prezona »: striscia di terreno nudo, solitamente arato perché vi siano visibili
eventuali orme, che circonda la zona all'esterno. ) Qui e in seguito la chiamerò BUR come la
chiamavamo noi, per abitudine invalsa negli ITL, sebbene in questo caso il termine non sia del
tutto corretto: non si trattava di una baracca ma di un vero e proprio carcere di pietra.

70
che aveva « suonato il pianoforte » alla sezione speciale del lager
(ossia dopo che aveva lasciato le sue impronte digitali, come si
faceva in prigione ma non negli ITL), si appendeva al collo una
tavoletta. Sulla tavoletta veniva scritto il suo numero, per
esempio SC-262 (all'Ozerlag erano ormai arrivati alla Y, com'è
corto l'alfabeto!*) e il fotografo della Sezione speciale lo foto-
grafava così combinato. (Tutte quelle fotografie sono ancora
conservate da qualche parte! Le vedremo, prima o poi!)
La tavoletta veniva poi tolta dal collo del detenuto (dopo tutto
non è un cane), che in cambio riceveva quattro (in certi lager tre)
straccetti bianchi di circa otto centimetri per quindici. Egli
doveva cucire questi straccetti in determinati punti, che non
erano proprio gli stessi per tutti i lager, ma di solito sulla schiena,
sul petto, sopra la fronte sul berretto, e inoltre su una gamba o su
un braccio (foto 2).1 Gli indumenti imbottiti venivano
preventivamente rovinati nei punti stabiliti; certi sarti nelle
sartorie dei lager erano preposti al deterioramento della roba
nuova: nel tessuto nuovo di fabbrica venivano ritagliati dei
quadratini, mettendo a nudo l'ovatta dell'imbottitura. Questa
pratica aveva lo scopo di far sì che lo zek, in caso di evasione,
non potesse spacciarsi per un libero cittadino.** In altri lager il
procedimento era ancora più semplice, il numero veniva
impresso sul tessuto col cloruro di calcio.
I guardiani avevano l'ordine di chiamare i detenuti unicamente
per numero, d'ignorare i cognomi e di non ricordarli. E sarebbe
stato piuttosto spaventoso se i guardiani avessero resistito, ma
non fu così (un russo non è un tedesco) e fin dal primo anno
cominciarono a confondersi, a chiamarne qualcuno per cognome,
e poi a usare i cognomi sempre più spesso. Per facilitare il
compito dei guardiani, sui pancacci veniva inchiodata, in

* Ɯ (šča) è la 27", trascritta y, vocale, la 29a lettera dell'alfabeto russo (di 33 lettere).
1
Questa foto e la successiva (foto 3) sono state fatte quando ero già al confino, ma la giubba
e il numero sono veri e vivi, sono del lager, e le tecniche esattamente quelle. Durante tutta la mia
permanenza a Ekibastuz, vissi con il numero SC-232, negli ultimi sei mesi soltanto mi fu ordinato
di sostituirlo col SC-262. Li ho portati via in segreto da Ekibastuz e li conservo tuttora.
** Si traduce così, approssimativamente, il termine gergale vol'njaska.

71
2. Nel lager speciale

72
modo da corrispondere ad ogni posto letto, una placca in com-
pensato col numero di chi ci dormiva. Così anche se non si
vedevano i numeri del dormiente il guardiano poteva sempre
chiamarlo e in caso di assenza, sapere chi era in colpa. I guar-
diani si vedevano così offrire un altro utile campo di attività:
aprire senza rumore il lucchetto e entrare silenziosamente nella
baracca prima della sveglia e segnare i numeri di chi si era alzato
anzitempo o farvi irruzione nell'esatto momento della sveglia e
segnare coloro che non si erano ancora alzati. In ambedue i casi,
la punizione immediata poteva essere la cella di rigore. Tuttavia
nei lager speciali l'uso era piuttosto di esigere una spiegazione
scritta, e questo nonostante la proibizione di detenere penna e
inchiostro e l'assoluta mancanza di carta. Il sistema delle note
esplicative - penoso, fastidioso e odioso - era un'invenzione
piuttosto buona, tanto più che l'organizzazione del lager non
aveva difficoltà a reperire per la bisogna tutti i perdigiorno
stipendiati che le servivano e tutto il tempo necessario. Non ti
punivano semplicemente ma esigevano che tu spiegassi per
iscritto: perché la tua branda non era rifatta alla perfezione;
perché lasciavi spenzolare sbilenca dal chiodo la tua targhetta col
numero; perché il numero sulla tua giubba era tutto sporco e
perché non avevi tempestivamente provveduto a rimetterlo in
ordine; come mai eri stato visto con una sigaretta nella baracca;
perché non ti eri tolto il berretto davanti al guardiano.1 La
profondità di queste domande rendeva la risposta scritta più
tormentosa per chi sapeva leggere e scrivere che non per un
analfabeta. Ma il rifiuto di farlo comportava un inasprimento
della punizione. La nota veniva dunque compilata, con pulizia e
nitore, come esigeva la deferenza verso i Lavoratori del regime
disciplinare, consegnata al guardiano della baracca, poi
esaminata dal Vicecapo del Regime disciplinare o dal Capo
stesso, e infine postillata, sempre per iscritto, con la definizione
della punizione inflitta. Allo stesso modo nei resoconti della
brigata l'uso era di scri-
1
Doroševič si era meravigliato a Sachalin di vedere i detenuti scappellarsi davanti al direttore
della prigione. Noi invece eravamo tenuti a scoprirci il capo ogni volta che incontravamo un
qualsiasì guardiano anche non graduato.

73
vere il numero prima del cognome; ci si aspetterebbe: invece del
cognome, ma a rinunciare ai cognomi si aveva paura!, si ha un
bel dire, ma un cognome è come una coda che ci si tira dietro, un
uomo è saldato al proprio cognome per sempre, mentre un
numero è labile, un soffio e sparisce. Ah, altra cosa sarebbe se si
marchiasse il numero direttamente sul corpo, con il fuoco o il
coltello! ma non si ebbe il tempo di arrivare a tanto. Ma
avrebbero potuto, ci mancò un pelo.
L'oppressione del numero si dissipava anche perché non era-
vamo in celle di isolamento, non sentivamo unicamente i guar-
diani ma parlavamo anche tra di noi. E tra di noi non soltanto
non ci chiamavano mai per numero, ma non lo notavamo nean-
che (ma c'è modo di non notare, ci diranno, il bianco di quegli
stracci stridente sul fondo nero? quando eravamo in molti riuniti
assieme - partenza per il lavoro, appello - era tutto un balenare
impressionante di numeri, come una tabella dei logaritmi, ma
soltanto per un occhio nuovo); non lo notavamo al punto di non
sapere mai il numero dei nostri amici più intimi e dei nostri
compagni di brigata, l'unico numero che conoscevamo era il
nostro. (Fra i pridurki* s'incontravano certi elegantoni
attentissimi a cucire il numero accuratamente, addirittura in
modo civettuolo, con i bordi ripiegati, a punti minuti in modo
che stesse meglio. Eterno servilismo! I miei amici ed io cerca-
vamo al contrario di far sì che i nostri numeri avessero l'aspetto
più laido possibile.)
Il regime dei lager speciali contava su un assoluto isolamento:
nessuna lagnanza ne sarebbe mai uscita, nessuno sarebbe mai
stato liberato, nulla poteva proromperne all'estero. (Né Ausch-
witz né Katyn' avevano insegnato nulla ai padroni del posto.) Nei
primi lager speciali si fece quindi largo uso dei bastoni. Per lo
più non erano i guardiani stessi a usarli (loro avevano già le
manette!) ma gli zek di loro fiducia, addetti vari all'intendenza e
« brigadieri », i quali potevano bastonare a più non posso con il
beneplacito delle autorità. A Džezkazgan prima della partenza
* Detenuti che lavorano in cucina, in cancelleria, nell'infermeria ecc. Si veda Arcipelago
GULag 2°, cap. IX.

74
per il lavoro gli addetti alla ripartizione, armati di bastone, si
piazzavano davanti alla porta della baracca e urlavano come ai
bei vecchi tempi: « Tutti fuori senza un ultimo! » (il lettore ha
capito da tempo perché l'ultimo, ammesso che se ne trovasse
uno, da quel momento era come se non ci fosse più).1 Per la
stessa ragione le autorità non si rammaricavano più di tanto se,
mettiamo, una tradotta invernale di detenuti, da Karabas a
Spassk, duecento uomini, erano congelati durante il tragitto, e se
i superstiti avevano riempito tutte le corsie e i corridoi della
infermeria, e ci marcivano vivi in uno spaventoso fetore mentre
il dottor Kolesnikov amputava diecine di mani, piedi e nasi.2
L'isolamento era così sicuro che il famoso capo del regime disci-
plinare del lager di Spassk, capitano Vorob'ev, e i suoi accoliti
prima punirono una ballerina ungherese detenuta con la cella di
rigore, poi con le manette e, ammanettata, la violentarono. Il
regime disciplinare era concepito per impregnare di sé a poco a
poco ogni minimo dettaglio. Per esempio era vietato possedere
fotografie, non soltanto le proprie (evasione!) ma quelle dei
propri cari. Venivano confiscate e distrutte. La responsabile della
baracca femminile a Spassk, un'insegnante di una certa età,
teneva su un tavolino un piccolo ritratto di Čajkovskij. Il
guardiano lo confiscò e le dette tre giorni di cella di rigore. « Ma
è un ritratto di Čajkovskij! » « Chi sia non mi riguarda, so solo
che il regolamento vieta alle donne di detenere ritratti di uomini!
» A Kengir si era autorizzati a farsi mandare della semola nei
pacchi da casa (figuriamoci, perché no?), ma era severamente
vietato cuocerla, e se uno zek sistemava il suo armamentario da
qualche parte fra due mattoni, il guardiano rovesciava il
pentolino con una pedata e costringeva il colpevole a spegnere il
fuoco con le mani. (A dire il vero, in seguito,
1
A Spassk, nel 1949, qualcosa tuttavia scricchiolò. I brigadieri furono chiamati « a
rapporto » e si ordinò loro di deporre i bastoni. Furono invitati da lì in poi, a farne a meno.
2
Questo dottor Kolesnikov era stato tra quegli « esperti » che poco tempo prima
avevano sottoscritto le conclusioni (false) della commissione di Katyn' (e cioè che non eravamo
stati noi a uccidere gli ufficiali polacchi). Per questo era stato incarcerato da una giusta
Provvidenza. E perché dal nostro potere? Perché non chiacchierasse. Il Moro non serviva più,

75
costruirono una piccola rimessa per la cucina, ma due mesi dopo
la stufa venne demolita e nel locale ci sistemarono i maiali degli
ufficiali e il cavallo dell'ufficiale della Sicurezza, Beljaev.)
Tuttavia, proprio mentre introducevano queste varie innova-
zioni disciplinari, i padroni non scordavano neppure il meglio
dell'esperienza degli ITL. All'Ozerlag il capitano Misin, capo di
uno dei lager, attaccava i renitenti a una slitta e li trascinava in
questo modo al lavoro.
Nell'insieme, il regime risultò, alla prova dei fatti, così sod-
disfacente che tutti i primi galeotti, quelli degli inizi, erano ormai
detenuti nei lager speciali allo stesso titolo di tutti gli altri, nelle
stesse zone di tutti e si distinguevano solamente per la presenza
di lettere diverse sugli stracci coi numeri. (Ah sì, e ancora perché
quando non c'erano abbastanza baracche, come a Spassk, erano
loro ad essere alloggiati nelle legnaie e nelle scuderie.) Così i
lager speciali, senza portare ufficialmente il nome di galera, ne
erano divenuti i legittimi eredi, si erano fusi con essa.
Ma perché il regime disciplinare fosse assimilato a fondo dai
detenuti bisognava fondarlo su un lavoro e un'alimentazione
adeguati.
I lavori prescelti per il lager speciale erano i più faticosi che
potesse fornire la zona circostante. Come ha molto giustamente
notato Cechov: « Nella nostra società e in parte anche nella
nostra letteratura si è affermato un modo di vedere per cui la vera
galera, la più dura e ignominiosa non troverebbe posto che nelle
miniere. Se l'eroe di Nekrasov, in Le donne russe* - come lavoro
- avesse pescato o abbattuto degli alberi, molti lettori sarebbero
rimasti insoddisfatti ». (Solo, Anton Pavlovič, riguardo al taglio
degli alberi, perché tanto disprezzo? Il taglio degli alberi, creda a
me, è adattissimo alla bisogna.) Le prime sezioni dello Steplag,
quelle con le quali cominciò, erano tutte destinate all'estrazione
del rame (prima e seconda sezione: Rudnik; terza: Kengir;
quarta: Džezkazgan). Si praticava la trivellazione a secco, la
polvere della ganga provocava
* Celebre poema (1872-73) di Nikolaj Nekrasov, consacrato alle mogli dei decabristi
deportati che seguirono i mariti nelle galere siberiane.

76
rapidamente la silicosi e la tubercolosi.1 I detenuti che si am-
malavano venivano spediti a morire nel famigerato lager di
Spassk (vicino a Karaganda), « ospizio nazionale » degli invalidi
di tutti i lager speciali. Spassk merita un discorso a sé.
Spassk era il luogo dove venivano inviati gli invalidi, gli
invalidi finiti, ridotti al punto che ci si rifiutava di utilizzarli
ancora nel proprio lager. Ma, incredibile, una volta varcata la
soglia della salubre zona di Spassk, gli invalidi si trasformavano
di colpo in lavoratori validissimi. Per il colonnello Čečev, capo
di tutto lo Steplag, la sezione di Spassk era una delle predilette.
Giunto in aeroplano da Karaganda, dopo essersi fatto lucidare gli
stivali nel corpo di guardia, quest'uomo tarchiato, malvagio, si
metteva a girare per la zona, cercando con lo sguardo qualcuno
che non fosse ancora intento al lavoro. Amava dire: « Ho un
invalido solo in tutta Spassk, gli mancano le due gambe, ma
lavora anche lui, un lavoro leggero: fa il fattorino ». Quelli con
una gamba sola facevano dei lavori sedentari: spaccavano le
pietre per farne pietrisco, assortivano assicelle. A Spassk né le
grucce né la mancanza di un braccio costituivano un ostacolo al
lavoro. Una trovata di Čečev: adibire alle barelle quattro uomini
con un braccio solo (due che avessero il braccio destro, due
quello sinistro). Altra invenzione al campo di Čečev: far girare a
mano i torni dell'officina meccanica quando veniva a mancare
l'energia elettrica. Un'idea cara a Čečev: « avere il proprio
professore » e il biofisico Čiževskij fu da lui autorizzato a
organizzare a Spassk un laboratorio (con quattro tavoli spogli).
Ma quando Čiževskij, utilizzando gli ultimi materiali di scarto,
ebbe messo a punto una maschera contro la silicosi ad uso degli
sgobboni del Džezkazgan, Čečev non ne autorizzò la
fabbricazione. Lavorano anche senza maschera, perché
complicare le cose? E poi, ci doveva pur essere un certo rinnovo
del contingente.
Alla fine del 1948 c'erano a Spassk circa quindicimila zek di
ambo i sessi. Era una zona immensa, i cui pali salivano su
1
Secondo una legge del 1886, i lavori nocivi per la salute non erano autorizzati, neanche se
erano stati scelti dai detenuti stessi.

77
per le colline, scendevano nelle vallate, da una torretta d'angolo
non si vedeva l'altra. A poco a poco fu completato il lavoro di
autorecinzione; gli zek costruirono dei muri interni e separarono
diverse zone: femminile, di lavoro, di soli invalidi (il che intral-
ciava le comunicazioni all'interno del lager e tornava comodo ai
padroni). Seimila persone andavano a lavorare a una diga a
dodici chilometri da lì. Poiché dopo tutto erano invalidi, ci
mettevano più di due ore all'andata e altrettanto al ritorno.
Converrà aggiungerci la giornata lavorativa, 11 ore. (A questo
regime, erano pochi quelli che resistevano per più di due mesi.)
Un altro grosso lavoro era costituito dall'estrazione di pietra da
costruzione; le cave si trovavano all'interno stesso delle zone
abitate (l'isola aveva i propri minerali!), tanto maschile che
femminile. Nella zona degli uomini la cava era su un'altura.
Dopo la ritirata si faceva saltare la pietra con l'ammonale e, di
giorno, gli invalidi spaccavano i massi a colpi di martelli. Nella
zona delle donne non si usava l'esplosivo, le detenute scavavano
a mano col piccone fino a raggiungere la pietraia, poi spaccavano
le pietre con dei grossi martelli. I loro martelli naturalmente
perdevano il manico, i nuovi martelli si rompevano, per ripararli
bisognava mandarli in un'altra zona. Da ogni donna, tuttavia, si
esigeva una norma di produzione: 0,9 metri cubi al giorno, e
poiché esse non erano in grado di compierla, per molto tempo
ricevettero la razione di punizione, quattrocento grammi di pane,
finché gli uomini non ebbero loro insegnato a prendere delle
pietre dai vecchi mucchi e, appena prima della consegna,
trascinarle in quelli nuovi. Ricordiamo che tutto quel lavoro non
solo era eseguito da invalidi e senza una sola macchina, ma per
giunta durante i rigidi inverni della steppa (fino a 30-35 gradi
sotto zero e con il vento) e indossando indumenti estivi, perché,
trattandosi di non lavoratori (cioè di invalidi), il regolamento
non prevedeva la fornitura di indumenti caldi. P-r ricorda di aver
maneggiato, con un simile gelo, quasi svestita, un enorme
martello spaccapietre. L'utilità poi di questo lavoro per la Patria
apparirà particolarmente lampante se aggiungeremo, per finire,
che il pietrame della cava delle donne, per una ragione o per
l'altra, risultò inadatto per l'edilizia

78
e che un certo giorno un certo capo ordinò che tutte le pietre
estratte dalle donne nel corso dell'anno, fossero gettate di nuovo
nella cava e ricoperte di terra per farci un parco (al parco
naturalmente non ci si arrivò). Nella zona degli uomini la pietra
era di buona qualità; quanto alla consegna ai cantieri di
costruzione, avveniva in questo modo: fatto l'appello, tutta la
formazione (e faceva un ottomila uomini alla volta, tutti quelli
che erano ancora vivi quel giorno) veniva mandata su per la
montagna, e potevano scenderne solamente quelli che portavano
delle pietre. Nei giorni di riposo questa passeggiatina degli
invalidi si faceva due volte, al mattino e alla sera.
Altri lavori erano: l'autorecinzione; la costruzione di una cit-
tadina per i guardiani e la scorta (case di abitazione, circolo,
stabilimento di bagni, scuola); lavoro nei campi e negli orti.
Il raccolto di quegli orti andava anch'esso a beneficio dei
liberi, agli zek spettavano soltanto le foglie di barbabietola: esse
venivano trasportate a carrettate e rovesciate in mucchi vicino
alle cucine, dove si infracidivano e marcivano; i garzoni delle
cucine le prelevavano col forcone e le rovesciavano direttamente
nelle caldaie. (Non ricorda un po' il foraggiamento del bestiame
domestico?...) Queste foglie cotte fornivano in permanenza la
sbobba, cui si aggiungeva una mestolata di pappa di semola al
giorno. Ecco un leggiadro quadretto ortivo a Spassk: un cento-
cinquanta zek, passatasi la voce, si precipitano tutti insieme in
uno di questi orti, si gettano bocconi nelle aiuole e si mettono a
rosicchiare gli ortaggi. Accorrono i guardiani, li bastonano sulla
schiena, quelli rimangono sdraiati e rosicchiano.
Agli invalidi che non lavoravano davano 550 grammi di pane
al giorno, a quelli che lavoravano 650.
Un'altra cosa ancora: Spassk ignorava le medicine (dove pren-
derne per una tale torma di gente? gente del resto destinata a
crepare comunque) e la biancheria per il letto. In certe baracche i
pancacci venivano riuniti e sulle assi aggiunte si dormiva non più
a due a due ma a quattro a quattro, ben stretti insieme.
Ah, sì, c'era ancora un altro lavoro! Ogni giorno centodieci-
centoventi persone andavano a scavare le tombe. Due Stude-
baker trasportavano i cadaveri in gabbioni dai quali sporgevano

79
braccia e gambe. Anche nei mesi favorevoli dell'estate, nel 1949
morivano dalle 60 alle 70 persone al giorno, d'inverno un cen-
tinaio (il calcolo è degli estoni che lavoravano nell'obitorio).
(Negli altri lager speciali la mortalità non era così alta e
l'alimentazione migliore, ma anche i lavori erano più duri, non si
trattava di invalidi: il lettore farà da sé la media.)
Tutto questo avveniva nel 1949 (millenovecentoquarantano-
ve), nel trentaduesimo anno dalla rivoluzione d'Ottobre, quattro
anni dopo la fine della guerra e delle sue crudeli necessità, tre
anni dopo che si era concluso il processo di Norimberga, e che
l'umanità intera aveva conosciuto gli orrori dei lager fascisti e
sospirato con sollievo: Questo non si ripeterà mai più.1
Se aggiungiamo a tutto questo regime disciplinare anche il
fatto che con il tuo trasferimento nei lager speciali veniva quasi
completamente troncato ogni legame con l'esterno, con tua mo-
glie, che ti aspettava, te e le tue lettere, con i figli per i quali
diventavi un mito (due lettere all'anno, e spesso neanche veni-
vano spedite, mentre tu ci avevi immesso quanto di meglio e
d'essenziale avevi da dire, accumulato nel corso dei mesi. Chi
oserebbe controllare le addette alla censura, collaboratrici del
MGB? Spesso si facilitavano il compito bruciando una parte delle
lettere, per non doverle controllare. E se la tua lettera non era
arrivata a destinazione potevano sempre incolpare la posta. A
Spassk, un giorno, avevano chiamato dei detenuti per riparare
una stufa nell'ufficio della censura: quelli vi trovarono centinaia
di lettere non spedite, ma non ancora bruciate, i censori se ne
erano dimenticati. Eppure, - considerate quale fosse l'atmosfera
dei lager speciali! - i fumisti ebbero paura di raccontare la cosa,
perfino ai loro amici! Quelli della Sicurezza
1
Prevedo l'emozione del lettore e mi affretto ad assicurargli quanto segue: tutti i vari Čečev,
Misin e Vorob'ev, nonché il guardiano Novgorodov vivono bene; Čečev è a Karaganda, generale
a riposo. Nessuno di loro è stato tratto in giudizio né lo sarà. Per quale motivo del resto? Tutti
loro, è vero, hanno semplicemente eseguito degli ordini. Non si possono mettere sullo stesso
piano dei nazisti che avevano semplicemente eseguito degli ordini. E se anche è accaduto che
facessero qualcosa in più, ebbene fu per purezza ideologica, in tutta sincerità, semplicemente per
ignoranza del fatto che Berija, « fedele compagno d'armi del grande Stalin », era al tempo stesso
un agente dell'imperialismo mondiale,

80
avrebbero fatto presto a vendicarsi. Queste addette alla censura
del MGB, che per il proprio comodo bruciavano l'anima dei pri-
gionieri, erano forse più umane di quelle donne delle SS che
collezionavano pelle e capelli degli assassinati?) Quanto alle
visite dei parenti, nei lager speciali neanche a parlarne: l'indi-
rizzo del lager era cifrato e nessuna visita vi era ammessa.
Aggiungiamo ancora che il problema di Hemingway, Avere e
non avere, praticamente nei lager speciali non si poneva nean-
che, fin dal giorno della loro istituzione era stato risolto ferma-
mente nel senso di non avere. Non avere denaro e non ricevere
salario (negli ITL c'era ancora la possibilità di guadagnare qual-
che soldo, qui neanche un copeco). Non possedere un cambio di
calzature o d'indumenti, niente da mettersi sotto, niente per stare
un po' più al caldo e all'asciutto. La biancheria (e quale
biancheria! Dubito molto che i poveracci di Hemingway avreb-
bero acconsentito a indossarla) veniva cambiata due volte al
mese, il vestiario e le scarpe una volta l'anno: la purezza cristal-
lina di un Arakceev. Non nei primi giorni del lager ma più in là
venne organizzato un deposito perpetuo degli effetti personali:
fino al giorno della vostra « liberazione » era considerata colpa
grave non avervi depositato qualche effetto personale: signifi-
cava che preparavate un'evasione, e quindi cella di rigore, istrut-
toria. Non detenere prodotti alimentari (fare la coda, al mattino,
al magazzino alimentare per depositarli, e rifarla la sera per
ritirarli, impiegando così utilmente le mezz'ore mattutine e serali
che restavano ancora libere e vostre). Non avere nulla di scritto,
non avere inchiostro, matite copiative o colorate, come carta non
avere altro che un quaderno di scuola. Infine, non avere libri. (A
Spassk all'atto dell'immatricolazione venivano confiscati al
nuovo detenuto i libri personali. Da noi all'inizio ci permettevano
di tenerne uno o due, ma un bel giorno fu proclamato un Ukaz di
grande saggezza: far registrare tutti i libri personali alla KVČ,
Sezione culturale ed educativa, far timbrare sul frontespizio «
Steplag. Lager n° tale ». Tutti i libri non timbrati sarebbero stati
sequestrati come illegali, quelli col timbro sarebbero stati da quel
momento in poi considerati di proprietà della biblioteca.)

81
3. La perquisizione personale

82
Se si ricorda inoltre che nei lager speciali le perquisizioni
erano più insistenti e frequenti che negli ITL (accurate perquisi-
zioni quotidiane all'uscita e all'entrata, foto 3; perquisizioni
pianificate nelle baracche con svuotamento delle stufe, schioda-
mento delle assi dell'impiantito e del portichetto; poi perqui-
sizioni personali di tipo carcerario, con spogliamento, palpazio-
ne, scucitura delle fodere e delle suole). Che col tempo si finì per
diserbare completamente la zona (« per evitare che vengano
nascoste delle armi nell'erba »). Che i giorni di riposo erano
dedicati ai lavori di manutenzione del lager.
Se si ricorda tutto questo indubbiamente non ci si meravi-
glierà più se l'obbligo di portare dei numeri non fosse, e di gran
lunga, il modo più evidente e doloroso di umiliare la dignità di
un detenuto. Quando Ivan Denisovič dice « non pesano niente, i
numeri », non è perché egli abbia perduto il senso della propria
dignità (come gli rimproverano certi critici supponenti i quali
non hanno mai portato un numero né patito la fame), dà
semplicemente prova di buonsenso. Il disagio che ci causavano i
numeri non era di ordine psicologico o morale (come speravano i
padroni del GULag), ma di ordine pratico, causato dal dover
sprecare il proprio tempo libero, pena la cella di rigore, a ricucire
un orlo scucito, a far rinnovare le cifre dai pittori, e quando gli
straccetti si sbrindellavano del tutto, a cercarne di nuovi chissà
dove.
Ma per alcuni i numeri costituivano veramente l'invenzione
più diabolica del lager, intendo riferirmi alle ferventi seguaci di
certe sette. Nel lager femminile presso la stazione di Suslovo
(Kamyslag) ce n'erano diverse e in generale le donne là impri-
gionate per motivi religiosi costituivano un terzo degli effettivi.
Non era stato tutto predetto dall'Apocalisse (13,16)?:

...ricevano un marchio sulla loro mano destra o sulla loro fronte.

E queste donne si rifiutarono di portare i numeri! il suggello


di Satana! Si rifiutarono anche di apporre la propria firma sulla
ricevuta all'amministrazione (sempre a Satana, dunque) per gli
indumenti dello Stato. L'amministrazione del lager (capo della
direzione: generale Grigor'ev, capo dell'OLP: maggiore Bogus)

83
dette prova di un'encomiabile fermezza. Ordinò di svestire le
donne fino a lasciarle in camicia, di togliere loro le scarpe (se ne
incaricarono le guardiane-komsomoliane) affinchè il freddo
invernale inducesse quelle insensate fanatiche ad accettare la
divisa fornita dallo Stato e a portare i numeri. Ma nonostante il
gelo le donne andarono per la zona scalze e con la sola camicia
indosso rifiutandosi di consegnare l'anima a Satana!
E davanti a uno spirito tanto agguerrito (reazionario, si capi-
sce; noi altri, gente civilizzata, non avremmo fatto tante storie
per dei numeri!) l'amministrazione dovette arrendersi, riconsegnò
alle credenti i loro indumenti ed esse li indossarono senza
numeri! (Così Elena Ivanovna Usova portò per tutti i dieci anni
di detenzione i propri indumenti, vestito e biancheria le erano
ormai marciti addosso e le cadevano dalle spalle, ma come
poteva la contabilità consegnarle qualcosa che apparteneva allo
Stato senza una ricevuta da parte sua!)
Altro inconveniente dei numeri: grossi com'erano, potevano
facilmente essere letti anche a distanza dalla scorta. La scorta ci
vedeva sempre e unicamente alla distanza di tiro dei suoi mitra,
non ci conosceva per cognome e non avrebbe potuto distinguerci,
vestiti tutti uguali com'eravamo, senza i nostri numeri. Così
invece notava chi parlava in colonna, chi scompigliava le file per
cinque, non teneva le mani dietro la schiena o raccoglieva
qualcosa da terra e bastava un rapporto del capo della scorta
perché il colpevole finisse in cella di rigore.
La scorta era un'altra delle forze che stringevano in pugno il
passerotto della nostra vita fino a ridurlo in poltiglia. Quelle «
mostrine rosse », soldati dell'esercito regolare, quei bravi figlioli
col mitra erano una forza bruta che non ragionava, non sapeva
nulla di noi, non accettava mai spiegazioni. Da noi a loro, non
poteva passare nulla; da loro a noi: grida, latrati di cani, scatti di
otturatori, pallottole. Ed erano sempre loro ad aver ragione, noi
mai.
A Ekibastuz, durante il rinterro di una ferrovia - si lavorava
senza recinzioni ma accerchiati dalla scorta -, un detenuto fece
qualche passo, all'interno del perimetro autorizzato, per prendere
del pane che era nella sua giubba gettata per terra:

84
un soldato della scorta alzò il mitra e lo stese sul posto. Aveva
ragione lui, si capisce. E non poteva che ricevere un encomio. E,
sicuramente, non si è pentito a tutt'oggi di quell'assassinio.
Quanto a noi, non esprimemmo in alcun modo la nostra indi-
gnazione e beninteso non scrivemmo da nessuna parte (d'altron-
de non avrebbero lasciato passare il nostro esposto).
Il 19 gennaio 1951 la nostra colonna, di cinquecento uomini,
era appena arrivata in prossimità del suo luogo di lavoro, un
cantiere ARM. Da un lato la zona recintata, senza soldati. Da un
momento all'altro avremmo ricevuto l'ordine di entrare. Improv-
visamente il detenuto Maloj (in realtà* un giovanottone dalle
spalle larghe) uscì, chissà per quale motivo, dai ranghi della
colonna e si avviò con un'aria stranamente pensierosa verso il
capo della scorta. Dava l'impressione di non essere in sé, di non
sapere quello che faceva. Senza alzare un braccio, senza gesti
minacciosi, camminava soltanto, assorto. Il capo della scorta, un
ufficialetto azzimato e antipatico, si spaventò e prese a fuggire
davanti a Maloj, gridando qualcosa con voce acuta, e senza
riuscire a tirare fuori la pistola. Si portò rapidamente davanti a
Maloj un sergente mitragliere e, da qualche passo di distanza, gli
scaricò una raffica nel petto e nel ventre, indietreggiando lenta-
mente. Prima di cadere Maloj continuò ancora il suo lento
movimento per qualche passo e dalla sua schiena, seguendo il
tracciato di invisibili pallottole, sfuggivano brandelli di ovatta
dalla giubba imbottita. Sebbene Maloj fosse ormai a terra e noi
altri, il resto della colona, non ci fossimo minimamente mossi, il
capo era a tal punto terrorizzato che dette ai soldati l'ordine di
sparare e da ogni parte i mitra sgranarono le loro raffiche sopra le
nostre teste, crepitò una delle mitragliatrici messe
preventivamente in posizione, e molte voci, una più isterica
dell'altra, ci urlarono: « A terra! A terra! A terra! ». Le pallottole
volavano sempre più basse fino a sfiorare il filo spinato. Noi, un
mezzo migliaio di uomini, non ci lanciammo sui tiratori per
sopraffarli, no, ci gettammo con la faccia a terra e il naso
* Maloj significa piccolo.

85
piantato nella neve: per più di un quarto d'ora, quella mattina
dell'Epifania, restammo coricati come tante pecore, in una posi-
zione di ignominiosa impotenza; e avrebbero potuto ammazzarci
come ridere tutti fino all'ultimo e non sarebbero stati tenuti
responsabili: tentativo di rivolta, scherziamo?
Ecco che miserabili schiavi prostrati eravamo durante il primo
e il secondo anno dei lager speciali, e questo periodo è abba-
stanza largamente descritto nell'Ivan Denisovič.
Come si era creata questa situazione? Perché queste numerose
migliaia di capi di bestiame, i Cinquantotto, pur sempre tuttavia
dei politici accidenti!, oramai separati dal mucchio dei
delinquenti comuni, trascelti e riuniti insieme, dei veri politici
ormai, sembrerebbe, perché dunque si comportarono come tante
nullità? così docilmente? (foto 3, p. 83)
Il fatto è che quei lager non avrebbero potuto cominciare
altrimenti. Oppressi e oppressori provenivano dagli stessi lager
ITL, decenni di tradizione servile e signoresca pesavano sugli uni
come sugli altri. Genere di vita e modo di pensare passavano da
un luogo all'altro insieme agli esseri viventi, ognuno di essi li
custodiva e li coltivava nell'altro, perché ognuno aveva fatto il
viaggio dallo stesso lager in compagnia, ogni volta, di alcune
centinaia di persone. Portavano con sé nel nuovo posto la con-
vinzione, generale e inculcata anche in loro, che nel mondo dei
lager l'uomo è ratto e cannibale per l'uomo e non può essere
diversamente. Portavano con sé un sentimento di interesse esclu-
sivo per la propria sorte e di totale indifferenza per la sorte
comune. Arrivavano pronti a una lotta spietata per la conquista
del posto di capobrigata, per i buoni posti caldi di pridurki in
cucina, al taglio del pane, nei magazzini, alla contabilità e alla
KVČ.
Quando è un isolato a partire per una nuova destinazione, egli,
nei suoi calcoli di come sistemarsi, può fare unicamente
affidamento su un caso fortuito o sulla propria sfrontatezza.
Durante un lungo trasferimento, quando per due, tre, quattro
settimane viaggiano nello stesso vagone, si lavano nelle stesse
prigioni di transito, marciano in un'unica colonna uomini che
hanno già avuto modo di misurarsi, di valutare ognuno nel vi-

86
cino il potenziale pugno del « brigadiere », di imparare l'arte di
strisciare di fronte alle autorità, l'abilità nell'inferire colpi
mancini, di lavorare in maniera truffaldina, di stornare a proprio
profitto il lavoro dei veri sgobboni; quando si trasferisce insieme
una masnada di affiatati pridurki, è naturale che essi non si
abbandonino a sogni di libertà ma portino avanti tutti insieme la
staffetta della schiavitù, si mettano d'accordo per impadronirsi
dei posti chiave nel nuovo lager ricacciando i pridurki venuti da
altrove. Per parte loro gli oscuri sgobboni, del tutto rassegnati al
loro destino improbo e oscuro, si mettono d'accordo su come
mettere insieme, nel nuovo posto, una « brigata » migliore, con
un brigadiere sopportabile.
E tutta questa gente non solo ha irrimediabilmente dimenti-
cato che ciascuno di essi è un uomo, portatore del fuoco divino,
capace di un destino più alto, ma ha anche dimenticato che
sarebbe loro possibile raddrizzare la schiena, che la semplice
libertà è un diritto dell'uomo né più né meno come l'aria, che essi
sono, tutti quanti, i cosiddetti politici e che finalmente, com'è
giusto, sarebbero per l'innanzi rimasti fra di loro, senza estranei.
Per la verità era tuttavia rimasta nei loro ranghi una piccola
percentuale di delinquenti comuni: disperando di trattenere i
propri beniamini dalle frequenti evasioni (l'articolo 82 del codice
penale prevedeva per l'evasione un massimo di due anni, e i ladri
ne avevano già accumulato diecine e centinaia: perché non
evadere dal momento che non c'era chi li potesse fermare?), le
autorità avevano deciso di appioppargli, per un'evasione, il 58-
14: sabotaggio economico.
Delinquenti comuni di questo tipo, in complesso molto pochi,
partivano per i lager speciali, una manciata appena per ogni
tradotta, ma del tutto sufficiente, secondo il loro codice, per
comportarsi in modo arrogante e sfacciato, « fare » i comandanti
col bastone in mano (come quei due azerbaigiani a Spassk, fatti
poi a pezzi) e aiutare i pridurki a inalberare saldamente sulle
nuove isole dell'Arcipelago la solita sconcia bandiera merdosa
degli ignobili e servili lager di lavoro e di sterminio.
Il lager di Ekibastuz era stato creato un anno prima del nostro

87
arrivo, nel 1949, e tutto vi era stato organizzato a immagine e
somiglianza del lager precedente, come era rimasto nella mente
dei detenuti e delle autorità. C'era un intendente,* un suo vice, e
dei responsabili (anziani), uno per baracca, che tartassavano i
propri sudditi a colpi di pugni o di delazioni. C'erano (grazie alla
particolare struttura delle baracche finlandesi) delle cabine
separate in ogni baracca, occupate, secondo una certa scala
gerarchica, da uno o due zek privilegiati. Poi c'erano gli addetti
alla ripartizione del lavoro, che vi pestavano sulla nuca, i bri-
gadieri sul muso, i guardiani con la frusta. Poi un assortimento di
cuochi dai grossi grugni sfrontati. Tutti i magazzini finirono nelle
mani dei caucasici amanti della libertà. I posti di direttore dei
lavori se li accaparrò un gruppetto di farabutti che si spacciavano
per ingegneri. I delatori portavano regolarmente e impunemente
le loro delazioni alla Sezione della Sicurezza. E il lager,
inaugurato l'anno prima con delle tende, aveva già la sua
prigione di pietra, peraltro non ultimata e per questa ragione
sovraffollata: si faceva la coda per andare in cella di rigore, con
tanto d'ordine già firmato, bisognava aspettare per un mese o due
il proprio turno - un'ingiustizia, non la si può definire altrimenti!
- la coda per la cella di rigore! (Ero stato condannato anch'io al
carcere, ma non arrivò mai il mio turno.)
In verità non passò un anno che i delinquenti avevano già
perso il loro lustro (o meglio lo avevano perso le « cagne », nella
misura in cui non disdegnavano le varie mansioni privilegiate).
Si sentiva già che mancava loro lo spazio, mancavano le nuove
leve, il ricambio, nessuno era disposto più ad ossequiarli.
L'intendente Mageran, presentato dal capo del regime discipli-
nare al lager schierato, tentò ancora di guardarci con sinistra
determinazione, ma già era in preda all'insicurezza, e ben presto
la sua stella tramontò ingloriosamente.
Il gruppo nostro, come ogni nuovo gruppo che arrivava, fu
sottoposto a pressione fin dal primo turno di bagno dopo l'imma-
tricolazione. Bagnini, barbieri e addetti alla ripartizione dei
lavori erano tesi e si avventavano come un sol uomo su chiun-
* L'« intendente » è un detenuto incaricato ufficialmente di sovraintendere all'ordine e alla
tenuta di un lager o di un settore di esso.

88
que osava fare la più timida obiezione contro la biancheria
lacera, l'acqua fredda o la procedura di disinfezione. Non aspet-
tavano altro e attaccavano il colpo, in diversi, come una muta di
cani, gridando a bella posta con voce esageratamente forte: «
Questo non è il transito di Kujbyšev! » e ci agitavano sotto il
naso i loro pugni grassocci. (Psicologicamente molto sagace: un
uomo nudo è dieci volte più impotente di fronte a uno vestito. E
a spaventare un nuovo gruppo fin dal primo turno di bagno, si
otteneva che ne restasse segnato ormai per tutta la sua esistenza
nel lager.)
Lo studente Volodja Gersuni, quello stesso che si ripromet-
teva, una volta al campo e dopo essersi ben reso conto della
situazione, di decidere « con chi andare », fu fin dal primo giorno
adibito a lavori di rafforzamento del lager: escavazione di fori
per i pali dell'illuminazione. Debole com'era, non ce la fece ad
adempiere la norma di lavoro. L'aiutante Baturin, una delle «
cagne », anch'egli lì lì per calmarsi, ma non ancora calmato del
tutto, lo chiamò pirata e lo colpì in faccia. Gersuni posò il
piccone e si allontanò dallo scavo. Andò all'ufficio comando e
dichiarò: « Mettetemi pure dentro, non andrò più a lavorare
finché i vostri pirati continueranno a picchiarci » (gli bruciava
più che altro quel « pirata », mancanza d'abitudine). Non si
rifiutarono di metterlo dentro, a due riprese fece diciotto giorni di
cella di rigore (si fa così: prima si infliggono cinque o dieci
giorni, poi, allo spirare del termine, non si libera il detenuto
aspettando che protesti e dia in escandescenze; a quel punto, e
ciò che conta legittimamente, gli si appioppa un secondo periodo
di cella di rigore). Dopo la cella di rigore, per violenze, gli
inflissero in aggiunta due mesi di BUR, ossia: restare chiuso nella
stessa prigione, ma ricevere del cibo caldo, e la sua porzione di
pane a seconda del lavoro giornaliero eseguito, e andare ai forni
a calce. Comprendendo che un po' alla volta stava affondando
sempre più, Gersuni pensò bene di cercare la salvezza in
infermeria senza evidentemente conoscerne la direttrice, madama
Dubinskaja. Credeva bastasse esibire i piedi piatti per essere
esentato dalle lunghe marce fino ai forni. Comunque, si
rifiutarono perfino di condurlo in infermeria, la BUR

89
di Ekibastuz non aveva alcun bisogno di visite ambulatoriali. Pur
di arrivarci, Gersuni, col quale erano stati prodighi di consigli su
come protestare, se ne rimase sdraiato in mutande sul pancaccio
dopo l'appello per il lavoro. I guardiani « Polundra »* (un ex
marinaio toccato nel cervello) e Konencov lo tirarono giù dal
pancaccio per i piedi e così svestito lo trascinarono per terra fino
all'adunata. Loro trascinavano e lui si afferrava a delle pietre
scaricate lì in previsione di un muro da costruire, cercando di
ancorarsi ad esse. Gersuni era ormai disposto a andare ai forni, si
limitava a urlare: « Lasciatemi infilare i pantaloni! ». Davanti al
corpo di guardia, ritardando da solo la partenza per il lavoro di
tutti i quattromila uomini, quel ragazzo fragile gridava «
Gestapo! Fascisti! » e si dibatteva per non farsi mettere le
manette. Malgrado tutto « Polundra » e Konencov gli piegarono
la testa fino a terra, e riuscirono ad ammanettarlo; poi lo spinsero
per farlo camminare. Quello che turbava Gersuni, ma che non
faceva né caldo né freddo ai due guardiani, nonché al capo del
regime disciplinare, tenente Mačechovskij, era chissà perché la
prospettiva di dover attraversare così com'era, in mutande, tutta
la cittadina. E rifiutò di muoversi. Non lontano da lì c'era un
soldato con un cane al guinzaglio. Volodja ricordò poi di avergli
sentito borbottare al suo indirizzo: « Ma insomma, perché tutto
questo baccano? mettiti in colonna. Te ne resterai vicino al
fuoco, e chiuso, non penserai mica che ti facciano lavorare. » E
tratteneva con sforzo il cane che cercava di sfuggirgli per saltare
alla gola di Volodja, perché l'animale capiva bene che quel
giovanotto resisteva alle mostrine celesti.** Volodja fu
allontanato dall'adunata e riportato nella BUR. Le mani, strette
dietro la schiena dalle manette, gli facevano sempre più male, un
guardiano, un kazacho, lo afferrò per il collo e gli premette un
ginocchio sul plesso solare. Poi lo buttarono a terra, qualcuno
disse con un tono pratico da professionista: « Dategliele per
bene, che se la faccia sotto » e cominciarono a tempestarlo di
calci con gli stivali, anche sulla terapia, finché non svenne. Il
giorno dopo lo convocò l'ufficiale
* Termine marinaresco equivalente a « Bada! ».
** Gli agenti della Sicurezza dellp Stato, Si veda Arcipelago GULag 1°, cap. IV.

90
della Sicurezza e cominciarono a montare contro di lui una pra-
tica per tentativo terroristico, perché, non è vero, mentre lo
trascinavano, aveva cercato di afferrarsi a delle pietre. Per farne
cosa?
In occasione di un'altra adunata, allo stesso modo, si rifiutò di
ubbidire Tverdochleb e annunzio uno sciopero della fame: non
avrebbe più lavorato per Satana! Noncuranti dello sciopero,
trascinarono fuori con la forza anche lui, ma da una baracca
semplice, per cui egli potè raggiungere e fracassare i vetri delle
finestre. Il tintinnio di vetri infranti risuonò in modo udibile su
tutta la linea,* sinistra musica d'accompagnamento per i conti e i
controlli dei guardiani e degli addetti alla ripartizione.
Musica d'accompagnamento per la strascicata monotonia dei
nostri giorni, settimane, mesi, anni.
E nessuna schiarita in vista. Non era stata prevista dalla MVD
al momento della creazione di questo tipo di campi.
Noi, i venticinque uomini circa del nostro gruppo, in mag-
gioranza ucraini occidentali, eravamo riuniti in una sola brigata;
eravamo riusciti a metterci d'accordo con gli addetti alla ripar-
tizione per avere come brigadiere uno dei nostri, Pavel Boronjuk.
Formavamo una brigata tranquilla, lavoratrice (gli ucraini occi-
dentali erano appena usciti da una terra non ancora collettiviz-
zata, non c'era nessun bisogno di spronarli, occorreva anzi
trattenerli). Per qualche giorno fummo considerati dei manovali,
ma presto si rivelarono fra noi dei muratori, altri s'impegnarono
ad imparare, così che diventammo una brigata di muratori. I
nostri lavori riuscivano bene. Le autorità se ne accorsero e ci
trasferirono dall'attività edile che avevamo in corso - la
costruzione di abitazioni per i liberi - all'interno della « zona ».
Al brigadiere fu mostrato un mucchio di pietre vicino alla BUR,
quelle stesse pietre a cui si era aggrappato Gersuni, e gli fu
promesso un approvvigionamento continuo di pietre dalla cava.
Gli fu anche spiegato che la BUR già esistente in realtà non era
che una mezza BUR e che ora bisognava ag-
* La linea è il luogo di adunata e di partenza per il lavoro.

91
giungerci una seconda metà identica, e che questo sarebbe stato
il lavoro della nostra brigata.
Fu così che, a nostra vergogna, ci mettemmo a costruire una
prigione per noi stessi.
Fu un lungo autunno asciutto, non piovve per tutto settembre
e una metà di ottobre. La mattina il tempo era calmo, poi si
alzava il vento, aumentava fin verso mezzogiorno per calmarsi
poi di nuovo sul far della sera. Talvolta soffiava in continuazione
ma lieve e struggente e faceva particolarmente sentire la
struggente steppa uniforme che si apriva ai nostri sguardi dalle
impalcature della BUR: né l'abitato con le prime fabbriche, né la
cittadina militare delle truppe di scorta né tanto meno la cinta
della nostra zona fatta di fil di ferro, potevano nascondere l'im-
mensità, la sconfinatezza, l'assoluta uniformità e la disperazione
di quella steppa nella quale solo una prima fila di pali telefonici
appena scortecciati fuggiva in direzione nord-est verso Pavlodar.
Talvolta il vento si faceva all'improvviso cattivo, e per un'ora ci
portava il freddo della Siberia, ci costringeva a infilare le giubbe,
ci tempestava, in pieno viso, coi grossi grani di sabbia e i
sassolini che raccoglieva nella steppa. Non c'è scampo, bisogna
proprio che riporti la poesia che composi in quei giorni mentre si
costruiva la BUR:
Il muratore

Eccomi muratore. Come disse il poeta*


con rozze pietre costruisco una prigione.
Ma non è la città, intorno. È la zona. Recintata.
Il cielo è terso, un nibbio in cerca plana.
Vento nella steppa! e non un solo viandante
che possa chiedermi: questa prigione, ma per chi?
Filo spinato, cani, mitra, ma non basta!
Nella prigione un'altra ce ne vuole.
Cazzuola in mano, lavoro senza pena.
È il lavoro in se stesso che m'attrae.
C'è stato il maggiore. Il muro non va bene.
Saremo messi dentro noi per primi.
Se fosse solo questo! La parola vola.

* La poesia richiama quella, celebre, di V, Brjusov su tema analogo.

92
Ma sulla pratica è posto un segno a penna,
qualcosa su di me, una delazione,
una parentesi mi unisce a qualcuno.
Frantumano a gara, squadrano i martelli.
Cresce un muro, l'altro, muro fra le mura...
Scherzando, fumo accanto alla malta,
la cena ci attende; polenta e pane in più,
ma fra le pietre s'aprono le fosse delle celle,
nereggia il fondo di altrui tormenti.
Un solo legame li unisce al mondo:
la pista nella steppa
e sui nuovi pali un tremulo ronzio.
Mio Dio, quanto siamo impotenti!
Mio Dio, quanto siamo schiavi.

Degli schiavi! E neanche perché, temendo le minacce del


maggiore Maksimenko, muravamo le pietre accuratamente e
senza risparmiare il cemento, affinchè non fosse facile per i
futuri prigionieri demolire quel muro. Ma perché di fatto, seb-
bene non arrivassimo al cento per cento della « norma », in
quanto brigata che costruiva la prigione, ci vedevamo assegnare
dei supplementi di vitto, e ci guardavamo bene dal buttarli in
faccia al maggiore, no, li divoravamo. Intanto il nostro com-
pagno Volodja Gersuni era rinchiuso nell'ala già terminata di
quella stessa BUR. Intanto Ivan Spasskij, senza colpa alcuna, a
causa di chissà quale ignota spunta sulla pratica, si trovava nella
režimka. E a molti altri di noi sarebbe toccato passare qualche
tempo in quella stessa BUR, all'interno di quelle stesse celle che
stavamo costruendo così meticolosamente e solidamente. Ed
ecco che nel bel mezzo del nostro lavoro, mentre noi
maneggiamo con alacrità la nostra malta e le nostre pietre,
all'improvviso risuonano nella steppa dei colpi d'arma da fuoco.
Presto al posto di guardia del campo, non lontano da dove siamo,
si avvicina un cellulare (un cellulare vero e autentico, di quelli
cittadini, lo aveva in dotazione il reparto della scorta; unica
differenza: sulle fiancate non c'era scritto, ad uso dei merli, «
Bevete lo spumante sovietico! »). Ne vengono spinti fuori
quattro uomini, pesti e insanguinati; due camminano in-
ciampando, uno viene trascinato, solo il primo, Ivan Vorob'ev,
incede con fierezza e rabbia.

93
Così fecero passare gli evasi sotto i nostri piedi, sotto le nostre
impalcature, e li condussero nell'ala destra della BUR, quella che
era già pronta.
E noi... noi muravamo...
Un'evasione! Quale disperato coraggio! Senza abiti borghesi,
senza cibo, a mani vuote, attraversare la zona sotto le pallottole e
correre, nella steppa nuda, aperta, infinita e senz'acqua! Non può
neanche dirsi un progetto, è una sfida, un modo orgoglioso di
uccidersi. Il solo tipo di resistenza di cui sono capaci i più forti e
coraggiosi fra noi.
E noi... noi muriamo.
E discutiamo. Questa è già la seconda evasione in un mese.
Anche la prima non è riuscita, ma era piuttosto idiota. Vasilij
Brjuchin (soprannominato Blucher), l'ingegnere Mut'janov e un
ex ufficiale polacco avevano scavato nelle officine meccaniche,
sotto la stanza in cui lavoravano, una fossa di un metro cubo; ci
si nascosero con una provvista di cibo e si ricoprirono con delle
assi. Il loro calcolo ingenuo era questo; una volta che le guardie,
come al solito alla sera, fossero state ritirate dalla zona di lavoro,
uscire dal buco e scappare. Ma naturalmente, al termine del
lavoro, tre uomini risultarono mancanti all'appello, mentre il filo
spinato era intatto: fu deciso quindi di mantenere le guardie sul
posto per alcune notti. Durante tutto quel tempo, quando sulle
loro teste passavano uomini e cani i fuggiaschi applicavano
lungo le fessure dei pezzi di ovatta imbevuti di benzina per
ingannare il fiuto delle bestie. Rimasero tre giorni senza parlare,
senza muoversi, braccia e gambe intrecciate e intormentite, - in
tre in un metro cubo, in effetti - infine non ressero più e uscirono.
Le brigate rientrano nella zona e ci raccontano come è evaso il
gruppo di Vorob'ev: forzando la zona con un autocarro.
Un'altra settimana. Continuiamo a murare. Già si delinea
molto chiaramente la seconda ala della prigione: qui le piccole
deliziose e accoglienti celle di rigore, lì le vezzose celle d'isola-
mento e le loggette, abbiamo già accumulato, in un volume
esiguo, una caterva di pietre, ma continuano a portarcene altre

94
dalla cava: pietra gratis, braccia gratis, qui e alla cava, costa solo
il cemento, fornito dallo Stato.
Passa una settimana, il tempo sufficiente perché i quattromila
di Ekibastuz si persuadano che l'evasione è una follia, che non
può venirne fuori niente. E all'improvviso: in una giornata di sole
come questa echeggiano di nuovo degli spari nella steppa:
un'evasione! Si direbbe quasi un'epidemia: di nuovo sfreccia il
cellulare della scorta che riporta due detenuti (il terzo è stato
ucciso sul posto). I due, Batanov e uno piccolo e giovane, insan-
guinati, passano davanti a noi, sotto le nostre impalcature, nel-
l'ala già pronta, per esservi picchiati di nuovo, gettati svestiti sul
pavimento di pietra e lasciati senza bere né mangiare. E tu che
cosa provi, schiavo, a guardare questi orgogliosi, laceri e
dilaniati? Non sarà la vile soddisfazione che non è toccato a te
ma a qualcun altro: di essere preso, picchiato a sangue, votato
alla morte?
« Muovetevi, bisogna terminare al più presto l'ala sinistra! » ci
grida il panciuto maggiore Maksimenko.
Noi muriamo. Stasera, avremo il nostro supplemento di pappa
di semola.
L'addetto alla malta è il capitano di fregata Burkovskij. Tutto
ciò che viene costruito è costruito nell'interesse della Patria.
La sera ci raccontano: anche Batanov era fuggito con una
macchina, sfondando la recinzione. Avevano sparato e colpito la
vettura.
Adesso avete finalmente capito, schiavi, che evadere equivale
a uccidersi, che nessuno si potrà allontanare per più di un
chilometro, che il vostro destino è lavorare e morire?
Non sono passati cinque giorni, nessuno ha udito un solo
sparo, ma il cielo, si direbbe, è diventato interamente metallico e
risuona dei colpi di un invisibile martello, tale è la novità:
un'evasione! ancora un'evasione! e riuscita stavolta!
L'evasione, questa domenica 17 settembre, ha funzionato così
perfettamente che l'appello della sera viene facilmente superato, i
conti tornano. Soltanto la mattina del 18 qualcosa non quadra, la
partenza per il lavoro viene sospesa, si organizza un appello
generale. Numerosi controlli generali sulla linea, controlli ba-

95
racca per baracca, brigata per brigata, infine un appello secondo
le pratiche, il fatto è che, in quanto a conti, i nostri cani da guar-
dia sanno contare soltanto i loro soldi quando passano alla cassa.
Ma adesso ottengono ogni volta un risultato diverso. Non sanno
tuttora quanti sono gli evasi! e chi precisamente? e quando? in
che direzione? come?
Viene la sera del lunedì, non ci hanno dato il pranzo (i cuochi
sono stati richiamati dalla cucina e spediti sulla linea insieme agli
altri a farsi contare), ma non ce ne rammarichiamo affatto, siamo
anzi contenti, maledettamente contenti. Ogni evasione riuscita è
una grandissima gioia per i detenuti. Per quanto si imbestialisca
poi la scorta, per quanto diventi più severo il regime, è una festa
per ognuno di noi. Ostentiamo una certa fierezza. Noi - sì,
proprio noi - siamo più furbi di voi, signori cani! Siamo riusciti a
scappare! (E, guardando le autorità negli occhi, pensiamo in gran
segreto: purché non li prendano! purché non li prendano!)
Inoltre non ci hanno portato a lavorare, il lunedì è trascorso
per noi come una seconda giornata di riposo. (Meno male che i
ragazzi non se la sono svignata di sabato! Non hanno voluto
sciuparci la domenica.)
Ma chi sono dunque? Chi sono?
Il lunedì sera si sparge la voce: sono Georgij Tenno e Kolja
Ždanok.
Noi continuiamo a innalzare il muro. Abbiamo già fatto gli
stipiti delle porte, bordato in alto le finestrelle, e stiamo appron-
tando i fori destinati a ricevere le capriate del tetto.
Tre giorni dopo l'evasione. Sette. Dieci. Quindici.
Nessuna notizia!
È fatta!

96
IV Perché l'avete tollerato?

Tra i miei lettori c'è un tipo cólto, uno Storico Marxista.


Seduto nella sua soffice poltrona, sfoglia; arrivato al punto dove
noi costruiamo la BUR, si toglie gli occhiali, picchietta sulla
pagina in questione con qualcosa di piatto, tipo righello, e
annuisce col capo.
« Ecco, ecco. Questo sì, a questo ci credo! Invece, quel suo
venticello della rivoluzione o che so io, figuriamoci! Da voi non
poteva prodursi nessuna rivoluzione, per questo ci vuole una
necessità storica. Mentre con voialtri, i cosiddetti "politici", ne
hanno ritirati alcune migliaia dalla circolazione, e che cosa è
successo? Senza più aspetto umano, privati di ogni dignità, senza
famiglia, senza libertà, senza vestiti, senza nutrimento, che cosa
avete fatto? perché dunque non siete insorti? »
« Ma noi ci guadagnavamo la nostra razione di pane. L'ha pur
visto: costruivamo una prigione. »
« E facevate bene. Costruire era proprio ciò che si doveva
fare. Era per il bene del popolo. Era l'unica decisione corretta.
Ma non crediate solo per questo di potervi definire dei rivolu-
zionari, siamo serii! Per fare la rivoluzione occorre essere legati
alla sola e unica classe d'avanguardia... »
« Ma ormai non eravamo tutti quanti degli operai? »
« Questo non c'entra niente. È un cavillo oggettivo e nient'al-
tro. Di che cosa sia la ne-ce-ssi-tà, ne ha un'idea? »
Direi proprio di sì. Parola d'onore, un'idea ce l'ho. Mi rendo
conto che se esistono, dopo quarant'anni, lager di molti

97
milioni di uomini, ecco, per l'appunto, si tratta di necessità
storica. Troppi milioni e troppi anni per poterli spiegare con i
capricci di Stalin, la malizia di Berija, la credulità e ingenuità
d'un partito dirigente per giunta illuminato in permanenza dalla
luce della Dottrina d'Avanguardia. Ma non voglio rinfacciare
questa necessità al mio opponente. Mi sorriderebbe gentilmente e
direbbe che sto parlando di un'altra cosa, che esco dal seminato.
Lui vede che sono imbarazzato, che non capisco gran che
della necessità e incalza:
« Prendiamo i rivoluzionari; han preso e spazzato via lo
zarismo. Semplicissimo. Si fosse provato, il Nicola, a reprimere
così i suoi rivoluzionari! ad appendergli dei numeri! si fosse
provato a... »
« Giusto. Non ci si è provato. Non ci si è provato e unica-
mente per questa ragione sono rimasti sani e salvi quelli che ci si
sono provati dopo. »
« Ma il fatto è che non poteva provarcisi Non poteva! »
Forse è giusto anche questo. Non è che non volesse, non
poteva.
Secondo la corrente interpretazione democratico-
costituzionale (e non parliamo dei socialisti) tutta la storia russa
non è che una successione di tirannie. Tirannia dei tartari.
Tirannia dei principi di Mosca. Cinque secoli di patrio
dispotismo foggiato sul modello orientale e di schietta e radicata
servitù. (E gli Stati generali, le comunità rurali, i liberi cosacchi o
i contadini del Nord?* Come non ci fossero mai stati.) Che si
tratti di Ivan il Terribile o di Aleksej il Mitissimo, di Pietro il
Duro o di Caterina Velluto,** fino alla guerra di Crimea tutti gli
zar non hanno mai saputo fare che una cosa sola: opprimere.
Opprimere i

* Fenomeni democratici, più o meno spontanei, della storia russa. Gli Stati generali (Zemskij
sobor, Assemblea del paese), convocati per l'ultima volta nel 1613, prevedevano rappresentanti
elettivi di tutte le classi sociali. La comunità rurale (mir) era una specie di autogestione delle terre
di un villaggio, durata fino alla collettivizzazione di Stalin. I cosacchi, del Don, del Kuban,
zaporoghi e degli Urali, costituirono a partire dal XVI secolo nel sud della Russia, libere
comunità alimentate dai numerosi fuggiaschi dalla schiavitù moscovita. I contadini del Nord
(della Russia europea) non hanno mai conosciuto la servitù e sono sempre stati i più liberi sudditi
della Russia imperiale.
** Aleksej Michailovič, Pietro il Grande, Caterina II.

98
propri sudditi fino a schiacciarli come scarabei, come bruchi. Il
galeotto deportato? Ebbene, lo si marchiava apertamente con le
due lettere SK* e lo si incatenava alla carriola. Piegando i sudditi,
il regime era inflessibile e forte. Sommosse e insurrezioni
venivano immancabilmente schiacciate.
Ma... c'è un ma! Schiacciate ma non del tutto! schiacciate ma
non nel senso tecnico che intendiamo noi. Dall'epoca della
guerra con Napoleone (dopo il ritorno dall'Europa delle truppe
russe), la società russa venne attraversata da un primo, primis-
simo venticello. E bastò perché lo zar dovesse tenerne conto.
Prendiamo ad esempio, i soldati semplici, che si trovavano nel
quadrato dei decabristi:** non ne fu impiccato nemmeno uno,
non è vero? né fucilato, è così? Da noi, ne sarebbe rimasto vivo
uno? Puškin e Lermontov non si poterono mettere in gattabuia
per la durata di una diecina, si dovette ricorrere a mezzi indiretti.
« Dove saresti stato il 14 dicembre a Pietroburgo? » chiese
Nicola I a Puškin. Questi rispose sinceramente: « In piazza del
Senato ». E per questo fu... rimandato a casa. Ora, sia noi, che
abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il sistema della macchina
giudiziaria, sia i nostri amici procuratori, sappiamo perfettamente
quanto valesse la risposta di Puškin: articolo 58, comma 2,
insurrezione armata, nel migliore dei casi, quindi, con
l'attenuante prevista dall'articolo 19 (intenzione): se non la
fucilazione, di sicuro non meno della diecina. I vari Puškin nostri
invece le loro brave condanne se le sono prese sui denti, sono
andati nei lager e ci sono morti (e Gumilév non ha neanche avuto
bisogno di andare fino al lager, l'hanno fatto fuori in una
cantina).
La guerra di Crimea - di tutte le nostre guerre la più fortunata
per la Russia! - non ci ha portato solo la liberazione dei contadini
e le riforme di Alessandro:*** contemporaneamente ad

* Iniziali di Ssyl'no-katorznyj, « galeotto deportato ».


** I decabristi tentarono, il 14 dicembre 1825, di sollevare le truppe, schierate in « quadrati
» sulla piazza del Senato a Pietroburgo.
*** Le «grandi riforme»: emancipazione dei servi della gleba, riforma della stampa, della
giustizia, del servizio militare, creazione di una amministrazione locale autonoma.

99
esse la Russia ha visto nascere la più grande di tutte le forze:
l'opinione pubblica!
Esteriormente suppurava ancora e perfino si estendeva la
galera siberiana, si organizzavano le prigioni di transito, parti-
vano i convogli di prigionieri, lavoravano i tribunali. Ma in che
modo? lavoravano - lavoravano e Vera Zasulič, che aveva
sparato al capo della polizia della capitale (!)... viene assolta?...
Vi furono sette attentati contro lo stesso Alessandro II (Kara-
kozov;1 Solov'ev; presso Aleksandrovsk; presso Kursk; la bomba
di Chalturin; la mina di Teterka; Grinevičkij). Alessandro II
girava per Pietroburgo (per inciso, senza scorta) con la paura
negli occhi, come una bestia braccata (testimonianza di Lev
Tolstoj, che aveva incontrato lo zar sulle scale di un'abitazione
privata2). E cosa credete che abbia fatto? Devastò e deportò
mezza Pietroburgo, come da noi dopo la morte di Kirov? Ma
scherziamo? una cosa del genere neanche poteva venirgli in
testa. Applicò il terrore di massa a scopo profilattico? il terrore
generalizzato come nell'anno 1918? prese degli ostaggi? Non ne
esisteva neppure il concetto. Mise dentro le persone sospette?*
Ma via, come poteva fare una cosa simile? Ordinò esecuzioni
capitali a migliaia? Di esecuzioni ce ne furono cinque. E di
condanne, complessivamente, in tutto quel periodo, meno di
trecento. (Se un solo attentato simile fosse stato tentato contro
Stalin, quanti milioni di vite ci sarebbe costato?)
Nel 1891, scrive il bolscevico Ol'minskij, in tutta la prigione
delle Croci egli era l'unico politico. Trasferito a Mosca fu di
nuovo l'unico alla Taganka. Solamente a Butyrki, alla vigilia
della partenza, se ne raccolsero alcuni!...
Con lo sviluppo dell'istruzione e della letteratura libera cre-
sceva di anno in anno, invisibile ma assai temibile per gli zar,
l'opinione pubblica; gli zar non reggevano già più né le redini
1
A proposito, Karakozov aveva un fratello. Il fratello di colui che aveva sparato allo
zar! Ecco quale fu la sua punizione: « Ordine di portare d'ora innanzi il nome di Vladimirov ». E
non subì alcuna misura di restrizione, né riguardo al patrimonio né riguardo all'elezione del luogo
di residenza.
2
Lev Tolstoi nei ricordi dei suoi contemporanei, voi. 1, 1955, p. 180.
* Allusione a un telegramma di Lenin dell'agosto 1918. Si veda Arcipelago GULag 2°, p. 19.

100
né la criniera, e a Nicola II toccò reggersi alla groppa e alla coda.
Vero è che, data la stagnante inerzia della dinastia, egli non
capiva niente delle esigenze del secolo e non aveva il coraggio
dell'azione. Nel secolo degli aeroplani e dell'elettricità egli con-
tinuava a non avere coscienza della cosa pubblica, persisteva a
considerare la Russia come un proprio possedimento personale,
ricco e variato, da cui riscuotere tributi, dove allevare stalloni,
mobilitare soldati per guerreggiare di tanto in tanto contro il suo
augusto fratello Hohenzollern. Né lui né i dirigenti da lui scelti
avevano più la fermezza necessaria per lottare per il potere. Non
opprimevano più, si limitavano a premere un poco per subito
allentare la presa. Non cessavano un momento di guardar a
destra e a sinistra e di tendere l'orecchio: cos'avrebbe detto
l'opinione pubblica? I rivoluzionari li perseguitavano giusto quel
tanto che bastava per dargli tempo e modo di conoscersi nelle
prigioni, per temprarli e circondare le loro teste con un'aureola.
Ma noi che oggi disponiamo del regolo graduato autentico, in
grado di fornire la scala di grandezza, siamo in grado di
affermare che il governo zarista non ha perseguitato ma
vezzeggiato con cura i rivoluzionari per la propria rovina.
L'indecisione, lo spirito di compromesso, la debolezza del go-
verno zarista saltano agli occhi di chiunque abbia fatto di persona
l'esperienza di un sistema giudiziario efficace.
Esaminiamo almeno la biografia di Lenin, ben nota a tutti.
Nella primavera del 1887 suo fratello viene giustiziato per
l'attentato ad Alessandro III.1 Come il fratello di Karakozov, egli
è il fratello di un regicida. Ebbene? Nell'autunno dello stesso
anno Vladimir Ul'janov* s'iscrive all'Università imperiale di
Kazan', per giunta alla facoltà di diritto! Non è sorprendente?
1
Per inciso, fu appurato a questo proposito, nel corso dell'inchiesta giudiziaria, che Anna
Ul'janova aveva ricevuto da Vilno un telegramma cifrato: « Sorella gravemente ammalata », il
che voleva dire « arrivano le armi ». Anna non si meravigliò, sebbene non avesse nessuna sorella
residente a Vilno e, chissà perché, consegnò il telegramma al fratello Aleksandr. È chiaro che era
una correa e da noi avrebbe avuto la diecina garantita. E invece non venne neppure incriminata!
Nel corso dello stesso caso si accertò che un'altra Anna (Serdjukova), una maestra di
Ekaterinodar, sapeva che si stava preparando un attentato contro lo zar e non aveva detto niente.
Che cos'avrebbe preso, da noi? La fucilazione. E le dettero? Due anni...
* Cioè Lenin.

101
Vero è che nello stesso anno accademico Vladimir Ul'janov
viene espulso dall'Università. Ma espulso per aver organizzato
un'assemblea antigovernativa di studenti. In altre parole, il
fratello minore di un regicida sobilla gli studenti alla disobbe-
dienza! Che cosa gli sarebbe costato da noi? La fucilazione,
senza alcun dubbio (e per gli altri, dieci o venticinque anni a
testa). Lui invece viene espulso dall'università. Quale crudeltà! e
per di più lo confinano... A Sachalin?1 No, nella proprietà di
famiglia di Kokuskino, dove sarebbe comunque andato per le
vacanze estive. Egli vuol lavorare: gli danno la possibilità di...
abbattere alberi nella tajga? No, di fare pratica legale a Samara,
frequentando nel contempo circoli illegali. Poi di passare, in
qualità di esterno, gli esami di ammissione all'università di
Pietroburgo. (E le schede informative? Che cosa ci stava a fare la
Sezione speciale?)
Qualche anno dopo questo stesso giovane rivoluzionario ven-
ne arrestato per aver creato nella capitale nientemeno che un'«
Unione di lotta per la liberazione »,* per aver tenuto a più riprese
discorsi sovversivi agli operai e scritto volantini. Venne
torturato, affamato? No, gli crearono un regime favorevole al
lavoro intellettuale. Durante il suo soggiorno alla prigione
istruttoria di Pietroburgo dove rimase un anno e dove ricevette a
diecine i libri che gli occorrevano, egli scrisse la maggior parte di
Lo sviluppo del capitalismo in Russia, facendo inoltre pervenire,
legalmente, per mezzo della procura, i suoi Saggi economici alla
rivista marxista « Novoe Slovo ». In prigione aveva diritto a pasti
a pagamento, su ordinazione, latte, acqua minerale acquistata in
farmacia, pacchi da casa tre volte alla settimana. (Anche Trockij
nella fortezza di San Pietro e Paolo poté stendere sulla carta il
primo abbozzo della teoria della rivoluzione permanente.)
Però, in definitiva, venne poi fucilato per decisione di una
1
A proposito, a Sachalin ci sono stati anche detenuti politici. Ma come si spiega che nessun
bolscevico di qualche rilievo (e neppure nessun menscevico) ci sia mai capitato?
* « Unione per la liberazione della classe operaia », fondata nel 1895, primo embrione in
Russia di un partito socialista di ispirazione marxista.

102
trojka?* No, non venne nemmeno condannato al carcere, fu
mandato al confino. In Jakutia, a vita? No, nella benedetta
regione di Minussinsk e per tre anni. Ce lo trasportarono amma-
nettato? in vagon-zak? Macché, fece il viaggio come un libero
cittadino, per alcuni giorni ancora bighellonò indisturbato per
Pietroburgo, poi per Mosca, doveva pur lasciare istruzioni se-
grete, stabilire dei contatti, organizzare una riunione dei rivo-
luzionari che restavano. Per raggiungere il luogo del suo confino
fu autorizzato a viaggiare a proprie spese, cioè in compagnia di
viaggiatori liberi; di trasferimenti in tradotta o prigioni di tran-
sito, Lenin non ne assaggiò mai, né all'andata né, naturalmente,
al ritorno dalla Siberia. Poi a Krasnojarsk ebbe ancora bisogno di
lavorare un po' di tempo in biblioteca, due mesi, per ultimare Lo
sviluppo del capitalismo, e questo libro, opera di un condannato
al confino, venne pubblicato senza nessuna difficoltà da parte
della censura (su, misuriamo tutto questo col nostro metro!). Ma
di quali mezzi dispone per vivere in quel remoto villaggio, visto
che certamente non trova lavoro? Semplice: ha domandato un
sussidio allo Stato, e gli pagano più di quanto gli sia necessario.
Non si potevano creare condizioni di vita migliori di quelle in cui
Lenin visse durante il suo unico periodo di confino. Dato il cibo
sano ed eccezionalmente a buon mercato, l'abbondanza di carne
(un montone alla settimana), di latte e ortaggi, i piaceri della
caccia senza restrizioni di sorta (è scontento del suo cane e
intendono seriamente mandargliene uno da Pietroburgo;
infastidito dalle zanzare durante la caccia si ordina guanti di
camoscio), guarisce dai suoi mali di stomaco e altri malanni di
gioventù, ingrassa rapidamente. Niente obblighi, servizi o
prestazioni, neppure le donne della famiglia** si debbono
affaticare: per due rubli e mezzo al mese una ragazzina quin-
dicenne, figlia di contadini, eseguiva tutti i lavori pesanti di casa.
Lenin non ha avuto bisogno di alcun guadagno letterario, ha
rifiutato tutte le proposte che gli venivano da Pietroburgo di
accettare un lavoro letterario retribuito, ha pubblicato e
* Sulle troike, si veda Arcipelago GULag 1°, p. 287.
** La moglie, Nadezda Krupskaja, e la suocera.

103
scritto esclusivamente quanto poteva procurargli una rinomanza
d'autore.
Scontato il confino (avrebbe potuto fuggirne senza difficoltà,
se non lo fece fu per prudenza), glielo prolungarono forse auto-
maticamente? Lo resero forse perpetuo? Perché mai, sarebbe
stato contrario alla legge! Gli permisero di vivere a Pskov, col
solo divieto di recarsi nella capitale. Va però a Riga, a Smolensk,
e senza essere pedinato. Allora con un amico (Martov) porta una
cesta piena di letteratura illegale nella capitale, e la porta
direttamente attraverso Carskoe Selo* dove il controllo è parti-
colarmente severo (Martov e lui hanno esagerato). A Pietroburgo
viene fermato. Non ha più con sé la cesta, ma una lettera scritta
con inchiostro simpatico e non ancora sviluppata, diretta a
Plechanov, nella quale c'è tutto il piano di creazione dell’« Iskra
»,** ma i gendarmi non si danno tanta pena: l'arrestato rimane in
cella tre settimane; quanto alla lettera resta nelle loro mani e
resta non letta.
E come finisce la scappatella dal domicilio obbligato? Con
vent'anni di galera come da noi? No, con quelle tre settimane di
arresto. Dopo di che viene definitivamente rilasciato per girare
liberamente la Russia, organizzare i centri di diffusione dell’«
Iskra », partire poi per l'estero e avviarvi la pubblicazione del
giornale (la polizia non vede ragione di rifiutargli il passaporto
per l'estero).
Ma questo è ancora niente! Perfino dall'emigrazione egli man-
derà in Russia per un'enciclopedia (Granat)*** un articolo su
Marx! e vi sarà pubblicato.1 Né sarà il solo.
Per finire, egli dirige le sue attività sovversive da una cittadina
austriaca vicinissima alla frontiera russa e non è che ci mandino
dei bravacci del servizio segreto per rapirlo e riportarlo indietro
vivo. Eppure non ci vorrebbe nulla.
Allo stesso modo si può osservare la debolezza e indecisione
* Residenza dello zar.
** Iskra (La scintilla), giornale e organizzazione marxiste russe fondate da Lenin,
Plechanov e altri nel 1900 a Monaco.
*** Famosa enciclopedia, pubblicata dai fratelli Granat; restò incompiuta.
1
Un po' come se la Grande Enciclopedia Sovietica pubblicasse l'articolo di un emigrato su
Berdjaev!

104
delle persecuzioni zariste sull'esempio di un qualsiasi socialde-
mocratico di rilievo (e soprattutto di Stalin, ma nel suo caso
s'insinuano sospetti supplementari).* Prendiamo Kamenev: du-
rante una perquisizione a Mosca nel 1904, gli confiscano una «
corrispondenza compromettente ». Durante l'interrogatorio si
rifiuta di dare spiegazioni. Ed è tutto. Lo confinano... al domi-
cilio dei genitori.
I socialisti rivoluzionari, è vero, furono perseguitati assai più
duramente. Ma duramente quanto? Non bastavano i capi d'accusa
contro Gersuni (arrestato nel 1903) o Savinkov (arrestato nel
1906)? Avevano diretto gli assassini dei massimi esponenti
dell'impero. Ma non furono giustiziati. Con tacito consenso fu
lasciata fuggire Maria Spiridonova, la quale aveva sparato a bru-
ciapelo al generale Luzenovskij, repressore dei contadini insorti
della regione di Tambov: non si erano decisi a giustiziare nem-
meno lei, era stata mandata in galera.1 E se da noi, nel 1921, una
studentessa diciassettenne di ginnasio avesse sparato al
repressore** dei contadini insorti della regione di Tambov (di
nuovo!), quante migliaia di studenti e membri dell'intelligencija
sarebbero stati immediatamente fucilati senza processo nell'on-
data di « reazione » del terrore rosso?
Un ammutinamento nella flotta (a Sveaborg)*** cosa com-
porta - la fucilazione? No, soltanto il confino.
Ivanov-Razumnik ricorda come venivano puniti gli studenti
universitari (per una grande dimostrazione a Pietroburgo nel
1901): la prigione della capitale ricordava un picnic studentesco:
scoppi di risa, canti in coro, libera circolazione da una cella
all'altra. Ivanov-Razumnik ebbe perfino la faccia di chiedere al
direttore della prigione un permesso per andare ad assistere a uno
spettacolo della tournée del Teatro d'Arte di Mosca:

* Allusione alle supposizioni per le quali Stalin sarebbe stato un agente della polizia segreta
zarista.
1
Fu liberata dalla galera dalla rivoluzione di Febbraio. In compenso, dal 1918 in poi la
Spiridonova fu arrestata più volte dalla Čeka. Seguì il pluriennale grande Gioco di Pazienza dei
socialisti, fu al confino a Samarcanda, Taškent, Ufa. In seguito le sue tracce si perdono in uno
degli « isolatori » politici, viene fucilata chissà dove.
** Tuchacevskij.
*** Porto militare fortificato sul mar Baltico, in cui insorsero equipaggi della flotta nel luglio
1904.

105
altrimenti il suo biglietto sarebbe andato perduto! Poi fu con-
dannato al confino a Simferopol' (aveva potuto scegliere) e
vagabondò zaino in spalla per tutta la Crimea.
Ariadna Tyrkova scrive dello stesso periodo: « Eravamo sotto
istruttoria, ma il regime non era severo ». Gli ufficiali della
gendarmeria le proposero di ordinare i pranzi da Dodan, il
migliore ristorante del posto. Secondo la testimonianza dell'in-
stancabile curioso Burcev « le prigioni di Pietroburgo erano assai
più umane di quelle europee ».
Per avere scritto un appello agli operai di Mosca affinchè
insorgessero con le armi (!) contro l'autocrazia, Leonid Andreev
fu tenuto per ben... quindici giorni in cella (parvero pochi perfino
a lui, tanto che scrisse che si era trattato di tre settimane). Ecco
alcuni estratti dal suo diario di quei giorni:1
« Cella d'isolamento! Non c'è male, non è poi tanto brutta. Mi
sistemo il letto, avvicino lo sgabello, la lampada, ci metto le
sigarette, una pera... Leggo, mangio la pera, proprio come a casa
mia... E mi diverto. Mi diverto proprio. » « Egregio signore! Ehi,
egregio signore! » lo chiama allo sportello un guardiano. Molti
libri. Biglietti dalle celle vicine.
Nel complesso, Andreev ammette che per quel che riguarda il
cibo e l'alloggio, la vita in cella era migliore di quella che faceva
da studente.
A quell'epoca Gor'kij scrisse I figli del sole nel bastione
Trubeckoj.*
L'oligarchia dirigente bolscevica ha pubblicato sul proprio
conto un'auto-réclame piuttosto sfacciata sotto forma del 41° vo-
lume della Enciclopedia « Granat »: Esponenti politici del-
l'URSS e della Rivoluzione di Ottobre - Autobiografie e bio-
grafie. Qualsiasi di queste biografie si legga, si è colpiti, in rap-
porto al metro nostro, nel constatare quanto impunemente
svolgessero l'opera rivoluzionaria, e in particolare quanto fossero
favorevoli le condizioni della loro reclusione. Ecco Krasin:
1
Dal libro di V. L. Andreev Infanzia.
* II bastione della fortezza dei SS. Pietro e Paolo di Leningrado è chiamato Trubeckoj dal
nome di un favorito di Pietro il Grande; fu usato come prigione politica dall'inizio del secolo
XVIII.

106
« Ha sempre ricordato con molto piacere la detenzione alla
Taganka. Dopo i primi interrogatori i gendarmi lo lasciarono in
pace (perché poi? A.S.) ed egli dedicò tutti quegli ozi involontari
al più tenace lavoro: imparò il tedesco, lesse nell'originale quasi
tutte le opere di Schiller e Goethe, si accostò a Schopenhauer,
studiò a fondo la logica di Mill, la psicologia di Wundt... ecc.
Come luogo di confino Krasin opta per Irkutsk, ossia la capitale
della Siberia, la sua città più progredita ».
Radek, prigione di Varsavia, 1906: « Sei mesi di prigione,
passati magnificamente a studiare il russo, a leggere Lenin, Ple-
chanov, Marx, ho scritto in prigione il mio primo articolo (sul
movimento sindacale)... e son stato terribilmente fiero quando ho
ricevuto (in prigione) il numero della rivista di Kautski con il
mio articolo ».
Oppure, al contrario, Semasko: « La reclusione (Mosca, 1895)
fu straordinariamente dura »: dopo tre mesi di detenzione in
carcere, venne inviato al confino per tre anni... nella città natale
di Elee!
La fama di « orribile Bastiglia russa » acquistata in Occidente
è stata per l'appunto opera di uomini che si erano rammolliti in
prigione, come Parvus, con le sue memorie tronfie e sentimentali
scritte per vendicarsi dello zarismo.
Questa stessa linea la si può osservare anche in personaggi
minori, lungo migliaia di singole biografie.
Ho proprio sottomano un'enciclopedia, un po' fuori tema,
d'accordo, è un'enciclopedia letteraria e per di più vecchia (anno
1932), con degli « errori ». Prima che questi errori siano
eliminati, prendo a caso la lettera « K ».
Karpenko-Karyj. Segretario della polizia municipale (!) a
Elisavetgrad forniva passaporti ai rivoluzionari. (Traduciamo
nella lingua nostra: un impiegato dell'ufficio passaporti che for-
nisce i passaporti a un'organizzazione clandestina!) Per questo
viene impiccato? No, confinato per... 5 (cinque) anni... nella
propria tenuta! Ossia in villeggiatura. Diventa scrittore.
Kirillov V.T. Partecipa al movimento rivoluzionario dei ma-
rinai del Mar Nero. Fucilato? Lavori forzati a vita? No, tre anni
di confino a Ust'-Sysol'sk. Diventa scrittore.

107
Kasatkin I.M. Stando in prigione scrisse dei racconti e i
giornali li pubblicarono! (Da noi, anche se si ha già scontato la
pena, non si riesce più a farsi pubblicare.)
A Karpov Evtichij, dopo due (!) condanne al confino, affidano
la direzione del teatro Imperiale Alessandro e del teatro Suvorin.
(Da noi, in primo luogo non avrebbe avuto il permesso di sog-
giorno* nella capitale, in secondo luogo la Sezione speciale**
non l'avrebbe assunto neanche come suggeritore.)
Krzizanovskij, in piena reazione stolypiniana,*** torna dal
confino e (restando membro del Comitato centrale clandestino)
inizia, senza il minimo ostacolo, l'attività d'ingegnere.
(Fortunato, da noi, se avesse potuto sistemarsi come fabbro in
una MTS.)
Sebbene Krylenko non sia entrato nell'Enciclopedia letteraria,
visto che siamo alla lettera K, ricordiamolo lo stesso. Durante
tutta la sua burrascosa attività rivoluzionaria egli ebbe per tre
volte « la fortuna di evitare l'arresto »1 e, arrestato sei volte,
scontò in tutto quattordici mesi. Nel 1907 (anno di reazione, si
noti) fu accusato di: propaganda tra le forze armate e parteci-
pazione a un'organizzazione militare, e assolto da un tribunale
militare distrettuale (!). Nel 1915 « per renitenza al servizio
militare » (è ufficiale e c'è una guerra in corso!) questo futuro
comandante supremo (e assassino di un altro comandante su-
premo)**** è punito con... l'invio in un altro reparto al fronte
(ma nient'affatto un reparto di punizione!) (Ed è in questo modo
che il governo zarista si riprometteva di vincere i tedeschi e,
nello stesso tempo, di spegnere la rivoluzione...) Ed è all'ombra
delle sue ali non tarpate di procuratore, che per quindici anni i
condannati di tanti e tanti processi vengono trascinati per
ricevere la loro pallottola nella nuca.
Durante quella stessa « reazione stolypiniana », il governatore

* In russo, propiska, la registrazione alla polizia locale senza la quale un cittadino sovietico
non ha diritto di risiedere in un dato luogo. La propiska è particolarmente difficile da ottenere per
le grandi città.
** La Sezione speciale, in questo caso del teatro, rende capillarmente presente la polizia
politica in tutte le istituzioni sovietiche.
*** Nel 1906-1910.
1
Qui e in seguito cito dalla sua autobiografìa nell'enciclopedia Granai, voi. 41, Parte I, pp.
237-245.
**** II suo predecessore, generale Duchonin.

108
della provincia di Kutais, V.A. Starosel'skij, che riforniva diret-
tamente i rivoluzionari di passaporti e armi, rivelava loro i piani
della polizia e delle truppe governative, non se la cavò, sembra,
con meno di due settimane di reclusione.1
Se si dovesse tradurre nel nostro linguaggio, ce ne vorrebbe di
immaginazione!
Nel mezzo di quello stesso periodo di « reazione » esce legal-
mente la rivista filosofico-socio-politica bolscevica « Mysl' »
[Pensiero]. E la « reazionaria » Vechi* scrive apertamente: « la
decrepita autocrazia », « il male del despotismo e della servitù »:
niente di straordinario, proseguiamo, si può anche da noi.
Il rigore di allora era davvero insopportabile. Un ritoccatore di
fotografie di Jalta, V.K. Janovskij, aveva disegnato la fucilazione
dei marinai dell'« Očakov »** e esposto il disegno nella vetrina
del negozio (sarebbe come esporre oggi in via Kuzneckij
Most*** episodi della repressione degli insorti di Novočer-
kassk).**** Che cosa ha dunque fatto il governatore di Jalta? A
causa della prossimità di Livadia,***** agì con particolare fe-
rocia; per cominciare sgridò Janovskij! In secondo luogo distrus-
se... non lo studio fotografico di Janovskij e neanche il disegno
rappresentante la fucilazione ma... una copia del disegno. (Mi si
dirà: è stato in gamba Janovskij. Ne prendo nota, resta comunque
il fatto che il governatore non dette ordine di demolire in sua
presenza la vetrina.) Terzo, a Janovskij fu inflitto il più atroce dei
castighi: pur continuando a vivere a Jalta, proibizione di farsi
vedere in strada al passaggio della famiglia imperiale.
Burcev, in una rivista dell'emigrazione, trascinava nel fango
perfino la vita intima dello zar. Tornato in Patria (nel 1914,
1
« Novyj mir » 1966, n. 2, Compagno governatore.
* Di « Mysl' », rivista mensile e organo legale dei bolscevichi, uscirono cinque fascicoli tra il
1910 e il 1911. Vechi (« Le pietre miliari ») è una celebre raccolta di articoli, pubblicata nel 1909,
da un gruppo di pensatori (Berdjaev, S. Bulgakov, Frank e altri) passati dall'originario marxismo
a posizioni idealistiche e cristiane.
** Nave della flotta del mar Nero il cui equipaggio si ammutinò a Sebastopoli nel novembre
1905.
*** Via del centro di Mosca.
**** Si veda, in questo volume, Parte settima, cap. III, pp. 584-592.
***** Residenza della famiglia imperiale in Crimea.

109
per slancio patriottico), fu forse fucilato? Ebbe meno di un anno
di carcere con privilegi vari per quanto riguardava i libri e il
necessario per scrivere.
Si permetteva all'ascia di tagliare impunemente. E l'ascia
avrebbe tagliato fino in fondo.
Quando Tuchacevskij fu, come si suol dire, « represso »,* non
soltanto venne dispersa e messa dentro tutta la sua famiglia (non
menziono neppure che sua figlia fu espulsa dall'università) ma
arrestarono anche i suoi due fratelli con le mogli, le quattro
sorelle con i mariti, tutti i suoi nipoti furono dispersi per gli
orfanotrofi ed ebbero il cognome cambiato in Tomasevič, Rostov
e così via. Sua moglie fu fucilata in un lager del Kazachstan, la
madre si ridusse a chiedere l'elemosina per le vie di Astrachan',
dove morì.1 Lo stesso si può dire dei parenti di centinaia di altri
giustiziati di rilievo. Ecco, questo si chiama perseguitare!
Particolarità principale delle persecuzioni (delle non-persecu-
zioni) del tempo degli zar fu forse questa: i parenti di un rivo-
luzionario non ebbero mai a soffrirne. Natal'ja Sedeva (moglie di
Trockij) ritorna senza difficoltà in Russia nel 1907, in un periodo
in cui Trockij è un criminale condannato. Qualsiasi membro
della famiglia degli Ul’janov (i quali, in epoche differenti,
conobbero quasi tutti l'arresto) in qualsiasi momento otteneva
l'autorizzazione a recarsi liberamente all'estero. Quando Lenin
era considerato un « criminale ricercato dalla polizia » per i suoi
appelli all'insurrezione armata, sua sorella Anna, nel modo più
legale e regolare che ci fosse, gli faceva trasferire del denaro a
Parigi sul suo conto al Crédit Lyonnais. Tanto la madre di Lenin
quanto quella della Krupskaja percepirono, vita natural durante,
elevate pensioni statali, riferite al grado di generale (del servizio
civile) e di ufficiale, per i mariti defunti e sarebbe stato
comunque assurdo il solo immaginare che potessero subire
vessazioni di sorta.
* Repressirovan è l'eufemismo per designare le vittime, soprattutto bolsceviche, del terrore
staliniano.
1
Cito questo esempio per riguardo ai parenti, agli innocenti parenti. Quanto a Tuchacevskij
medesimo, oggi egli comincia a essere oggetto, da noi, di un nuovo culto che io non intendo
affatto sostenere. Egli ha raccolto ciò che ha seminato guidando la repressione di Kronstadt e
dell'insurrezione dei contadini di Tambov.

110
È proprio in queste condizioni di esistenza che in Tolstoj si
era formata la convinzione che la libertà politica è inutile e che la
sola cosa necessaria è il perfezionamento morale.
Naturalmente la libertà non occorre a chi l'ha già. Su questo
siamo d'accordo anche noi: in definitiva l'essenziale non è certo
nella libertà politica. Lo scopo dello sviluppo dell'umanità non è
una vuota libertà fine a se stessa. E neppure una felice
organizzazione politica della società, è chiaro. L'essenziale, cer-
tamente, sono i fondamenti morali della società! Solo che questo
è già la fine, ma all'inizio? Ma come primo passo? A quel tempo
Jasnaja Poljana* era un club di pensiero aperto a chiunque. Se
l'avessero assediata come la casa di Anna Achmatova a Lenin-
grado, quando chiedevano i documenti a ogni visitatore, se
avessero esercitato la stessa pressione che esercitavano su tutti
noi, ai tempi di Stalin, quando tre persone temevano di riunirsi
sotto un medesimo tetto, allora anche Tolstoj avrebbe chiesto la
libertà politica.
Nel periodo più terribile del terrore stolypiniano il giornale
liberale « Rus' » stampava a caratteri di scatola, in prima pagina,
senza impedimenti di sorta: « Cinque esecuzioni capitali!... Venti
esecuzioni capitali a Cherson! ». Tolstoj singhiozzava, diceva
che era impossibile continuare a vivere, che nulla si poteva
immaginare di più orrìbile.1
Rivediamo l'elenco di « Byloe », già menzionato: 950 ese-
cuzioni in 6 mesi.2
Prendiamo quel fascicolo di « Byloe ». Osserviamo che è
stato pubblicato (nel febbraio 1907) nel bel mezzo degli otto
mesi (19 agosto 1906-19 aprile 1907) della giustizia militare
stolypiniana e che è stato compilato in base ai dati delle agenzie
telegrafiche russe. Insomma è come se a Mosca nel 1937 i gior-
nali avessero pubblicato gli elenchi dei fucilati, ne fosse uscito
un bollettino riassuntivo e infine i nostri vegetariani dell'NKVD
si fossero accontentati di aggrottare la fronte.
In secondo luogo, questo periodo di otto mesi di « giustizia
* Residenza di Lev Tolstoj, vicino a Tula.
1
Tolstoj nei ricordi dei suoi contemporanei, 1955, voi. II, p. 232.
2
Rivista «Byloe» n. 2/14, febbraio 1907.

111
militare », che non ha eguali in Russia né prima né dopo, non
potè essere prolungato perché tale giustizia non ricevette la
ratifica dell'« impotente » e « docile » Duma di Stato* (e Sto-
lypin non si arrischiò neanche a sottometterla alla discussione
della Duma).
In terzo luogo, a giustificazione della « giustizia militare » era
stato avanzato il motivo che nei precedenti sei mesi avevano
avuto luogo innumerevoli assassinii di membri della polizia per
motivi politici, molte aggressioni a funzionari,1 un'esplosione
nell'isola Aptekarskij; e « se lo Stato non oppone alcuna
resistenza agli atti terroristici viene a perdersi la nozione stessa di
Stato ». Per cui il ministero Stolypin, impazientito e furente
contro le corti d'assise con la loro potente avvocatura, non limi-
tata nell'azione (niente a che vedere coi nostri tribunali distret-
tuali o regionali, docili al primo colpo di telefono), si lancia nella
neutralizzazione dei rivoluzionari (e dei puri e semplici banditi
che sparano nelle finestre dei treni passeggeri, che uccidono la
gente per un biglietto da tre o cinque rubli) per mezzo dei
laconici tribunali militari. (Del resto c'erano alcune limitazioni:
un tribunale militare poteva essere istituito solamente in un luogo
dove vigeva la legge marziale o lo stato di sorveglianza
straordinaria; si riuniva unicamente in presenza di tracce fresche
- non oltre le ventiquattro ore - di un crimine e in caso di
evidenza dell'azione criminale.)
Se i contemporanei rimasero tanto sconvolti e indignati, signi-
fica che la cosa era inusitata per la Russia!
Nella situazione che si era determinata negli anni 1906-1907
ci pare che la responsabilità di questo periodo di « terrore stoly-
piniano » debba essere ripartita tra il ministero e, anche, i
rivoluzionari terroristi.
A cent'anni dalla nascita del terrore rivoluzionario russo, pos-
siamo ormai affermare senza esitazione che quel pensiero terro-
ristico, quelle azioni sono state un crudele errore dei rivoluzio-
* La Duma di Stato fu creata nel 1906 e verso la fine della decade stava assumendo l'aspetto
di parlamento. Fra il 1906 il 1917 vi furono quattro Dume o legislature.
1
Lo stesso articolo di « Byloe », a p. 45, non nega questi fatti.

112
nari e una sciagura per la Russia e non le hanno apportato altro
che confusione, dolore e infinite vittime.
Sfogliamo qualche altra pagina del medesimo fascicolo di «
Byloe ». Ecco uno dei primi proclami del 1862,1 è da lì che è
uscito tutto:
« Che cosa vogliamo noi? il bene, la felicità della Russia. La
realizzazione di una vita nuova, migliore è impossibile senza
vittime, perché non abbiamo tempo da perdere, ci occorre una
riforma veloce entro breve tempo ».
Quale via errata! Quegli zelanti non avevano tempo da per-
dere e quindi permisero che l'ora della prosperità universale si
avvicinasse grazie a delle vittime (ma non loro, gli altri). Non
avevano tempo da perdere e adesso, 105 anni dopo, noi, i proni-
poti, siamo non allo stesso punto loro (emancipazione dei con-
tadini) ma molto, molto più indietro.
Riconosciamo dunque che i terroristi erano i degni partner
delle corti marziali di Stolypin.
Ciò che secondo noi fa sì che l'epoca di Stolypin e quella di
Stalin non siano confrontabili è il fatto che ai tempi nostri il
carattere asiatico si è manifestato da una parte sola: si facevano
volare le teste per un sospiro e forse anche per meno.2
« Nulla di più orribile », esclamò Tolstoj? Eppure è così facile
immaginare qualcosa di più orribile. È più orribile quando le
esecuzioni hanno luogo non di tanto in tanto in una città ben
conosciuta in tutto il mondo, ma dappertutto e ogni giorno e non
in ragione di venti ma di duecento per volta, e i giornali non ne
scrivono una parola né a caratteri di scatola né a caratteri minuti,
e ripetono: « La vita è diventata più bella, la vita è diventata più
allegra ».*
Ti spaccano la faccia e poi: - era già così, che cosa vuoi?
No, non era così! E di gran lunga, anche se già allora lo Stato
russo era considerato il più oppressivo d'Europa.
1
«Byloe», 2/14, p. 82.
2
Posso affermare con tutta sicurezza che anche per quanto riguarda le spedizioni
punitive extragiudiziarie (repressione dei contadini nel 1918-19, Tambov 1921, il Kuban' e il
Kazachstan 1930), la nostra epoca ha largamente sorpassato, per ampiezza e tecnica, le
repressioni zariste.
* Così Stalin alla Conferenza nazionale degli stachanovisti (17 novembre 1935).

113
Gli anni Venti e Trenta del nostro secolo hanno approfondito
l'idea che gli uomini si fanno dei differenti gradi della com-
pressione. Quella polvere terrestre, quella consistenza terrestre
che sembrava ai nostri antenati compressa al limite viene oggi
interpretata dai fisici come un setaccio bucherellato. Un pallino
da caccia circondato da cento metri di vuoto, ecco il modello
dell'atomo. Hanno scoperto un mostruoso « pacchetto nucleare »:
riunire insieme tutti i pallini separati dai cento metri di vuoto. Un
ditale di quel « pacchetto » pesa quanto una nostra locomotiva
terrestre. Ma questo pacchetto è ancora troppo somigliante a un
piumino: a causa dei protoni non si può comprimere a dovere il
nucleo. Se si arriva a comprimere i soli neutroni, un francobollo
d'un tale « pacchetto neutronico » peserebbe cinque milioni di
tonnellate!
Ebbene, è cosi, senza neanche aver bisogno di richiamarsi ai
progressi della fisica, che hanno compresso anche noi.
Per bocca di Stalin il paese è stato chiamato una volta per
tutte a rinunziare alla bonarietà (blagodusie).* E cosa sia blago-
dusie il dizionario di Dal' lo determina così: « bontà dell'animo,
la sua facoltà di amare, misericordia, disposizione al bene
comune ». A questo siamo stati invitati a rinunciare, e abbiamo
rinunciato in gran fretta: alla disposizione al bene comune. Da
allora ognuno si è accontentato di stare alla sua propria greppia.
L'opinione pubblica russa dell'inizio del secolo era una forza
meravigliosa, faceva respirare l'aria della libertà. Lo zarismo non
fu battuto quando si cacciò Kolcak, e neppure quando si scatenò
la Pietrogrado di Febbraio, ma assai prima. Era già stato
irreversibilmente abbattuto da quando nella letteratura russa si
affermò il concetto che rappresentare la figura di un gendarme o
di una guardia municipale anche con un minimo di simpatia era
un tratto di servilismo degno dei Cento Neri.**

* Nella lettera del CC indirizzata alle organizzazioni del partito a proposito dell'assassinio di
Kirov (dicembre 1934).
** Bande organizzate dall'estrema destra e spesso sostenute dalla polizia; si resero
responsabili, tra il 1905 e il 1914, della maggior parte dei pogrom. Da allora cernosotenec è in
Russia sinonimo di ultrareazionario.

114
Da quando parve vergognoso non soltanto stringere loro la
mano, averne fra le proprie conoscenze, ma perfino salutarli con
un cenno del capo, sfiorarli con la manica su un marciapiede.
Da noi, invece i boia rimasti disoccupati, e magari su incarico
speciale, dirigono... la letteratura e la cultura. Essi comandano di
glorificarli come eroi leggendari. E questo da noi, chissà perché,
si chiama... patriottismo.
Opinione pubblica! Io non so come la definiscano i sociologi,
ma mi è chiaro che può essere costituita solo sulla base di
opinioni individuali, che si influenzano a vicenda, espresse libe-
ramente in modo del tutto indipendente dall'opinione del governo
o del partito.
Fino a quando non esisterà in questo paese un'opinione pub-
blica indipendente, non avremo alcuna garanzia che lo sterminio
immotivato di molti milioni di uomini non si ripeterà ancora, che
non ricomincerà in una notte qualsiasi, magari stanotte stessa, la
prima dopo la giornata d'oggi.
La Dottrina d'Avanguardia, come abbiamo visto, non ci ha
protetti da questa pestilenza.
Ma vedo che il mio contraddittore fa delle smorfie, sbatte le
palpebre, tentenna il capo: in primo luogo, il nemico ci ascolta!
secondariamente, perché generalizzare a questo modo? La que-
stione era molto più limitata: non perché ci avevano messi
dentro, e neanche perché coloro che erano rimasti in libertà
avevano tollerato simili iniquità. Essi, come è risaputo, non so-
spettavano niente, credevano semplicemente al Partito,1 crede-
vano, ad esempio, che se interi popoli vengono deportati nel giro
di ventiquattro ore, beh, ne avranno colpa loro. La questione è
un'altra: perché una volta nel lager, dove avremmo ben potuto
accorgerci di come stavano le cose, perché, in quel luogo,
abbiamo sofferto la fame, piegato la schiena, sopportato ogni
cosa senza lottare? Quegli altri non hanno mai camminato sotto
scorta armata e hanno conservato la libertà delle loro braccia e
delle loro gambe, e dunque sono scusabili se non
1
Risposta di V. Ermilov a I. Erenburg.

115
hanno lottato, mica potevano sacrificare la famiglia, la posizione,
lo stipendio, i diritti d'autore. In compenso oggi pubblicano le
loro considerazioni critiche e ci rivolgono dei rimproveri: perché
noi, visto che non avevamo nulla da perdere, siamo rimasti così
attaccati alla nostra razione di pane e non abbiamo combattuto?
Del resto mi sto avvicinando anch'io a questa risposta. Se
abbiamo sopportato nei lager è perché in libertà non esisteva
un'opinione pubblica.
Infatti, in generale, quali sono i mezzi di resistenza pensabili
per un detenuto, di resistenza al regime al quale viene sotto-
posto? Evidentemente questi:
1. La protesta.
2. Lo sciopero della fame.
3. L'evasione.
4. La rivolta.
Dunque, come amava esprimersi il Buonanima,* per chiunque
è chiaro (e se non è chiaro, glielo si può far entrare in testa) che i
primi due mezzi sono efficaci (e i carcerieri li temono)
unicamente a causa dell'opinione pubblica. Ma senza di essa, ci
ridono in faccia con le nostre proteste e i nostri scioperi!
Procedimento di sicuro effetto; strapparsi la camicia davanti
alle autorità della prigione, come fece Dzeržinskij, e ottenere
così quanto si esige. Ma solo a condizione che esista un'opinione
pubblica. Altrimenti: un bavaglio in bocca e per di più ti tocca
anche pagare la camicia all'amministrazione.
Ricordiamo almeno un caso celebre, quello della galera di
Kara alla fine del secolo scorso. Ai politici fu annunziato che da.
allora in poi sarebbero stati sottoposti alle pene corporali.
Nadezda Segeda (aveva dato uno schiaffo all'intendente... per
costringerlo a dare le dimissioni) doveva essere fustigata per
prima. Pur di non assoggettarsi alle verghe, prende il veleno e
muore. Dopo di lei si avvelenano e muoiono altre tre donne.
Nella baracca degli uomini si dichiarano pronti a uccidersi in
* Stalin.

116
quattordici, non tutti ci riescono.1 Come risultato le punizioni
corporali vengono soppresse. Il calcolo dei politici era di inti-
morire le autorità carcerarie. Infatti la notizia della tragedia di
Kara si sarebbe diffusa in tutta la Russia, e di lì nel mondo
intero.
Ma se applichiamo il caso alle condizioni nostre, non potremo
far altro che versare lacrime di rabbia. Schiaffeggiare un
intendente libero? Che per di più non aveva offeso te ma qual-
cun altro. Cosa c'è di così terribile se ti accarezzano un po' il
didietro? In compenso resti vivo. E chi glielo fa fare alle com-
pagne di prendere il veleno? E idem i quattordici uomini? La vita
ci è data una volta sola! e quello che conta è il risultato! Ti danno
da mangiare e da bere, perché voltare le spalle alla vita? Se va
bene magari salta anche fuori un'amnistia, o qualche riduzione di
pena, e dunque?
Ecco da quali altezze carcerarie siamo precipitati. Ecco come
siamo caduti in basso.
Ma come si sono anche innalzati i nostri carcerieri! Non sono
davvero i babbei di Kara. Se anche levassimo il capo, adesso, e
ci sollevassimo alle altezze di un tempo, quattro donne e
quattordici uomini quanti siamo, verremmo tutti fucilati prima di
arrivare a procurarci il veleno. (Del resto, dove trovare il veleno
in una prigione sovietica?) Quelli tuttavia che facessero in tempo
ad avvelenarsi non farebbero altro che facilitare il compito delle
autorità. Quanto agli altri, ebbene, proprio loro verrebbero tutti
fustigati per aver mancato di denunciare. Va da sé che le voci
sull'accaduto non oltrepasserebbero la recinzione di filo spinato.
È questo il punto, sta qui la loro forza! Se anche le voci si
fossero diffuse, non sarebbero arrivate lontano, sarebbero state
1
I particolari non sono privi d'importanza (E.N. Koval'skaja, Galera di donne, Biblioteca
storico-rivoluzionaria, Gosizdat, 1920, p. 8-9; G.F. Osmolovskij, La tragedia di Kara, Mosca
1920). N. Segeda aveva colpito l'ufficiale e gli aveva sputato in faccia senza un motivo preciso, in
conseguenza dell'atmosfera « clinicamente nervosa » venutasi a creare fra i galeotti. Dopo il fatto
l'ufficiale dei gendarmi (Masjukov) pregò un detenuto (Osmolovskij) di procedere a un'inchiesta
sul suo caso. Il comandante della galera (Bobrovskij) morì pentito reputandosi perfino indegno
del viatico d'un sacerdote. (Avessimo noi dei carcerieri così pieni di scrupoli!).

117
voci vaghe, non confermate dai giornali, subito fiutate dai dela-
tori, come dire niente. Non ne sarebbe scaturita un'ondata di
indignazione pubblica. E dunque, perché star lì a farsi cattivo
sangue? perché dar retta alle nostre proteste? Se volete avvele-
narvi, fate pure.
Quanto all'inutilità dei nostri scioperi della fame, è stata suf-
ficientemente dimostrata nella prima parte di quest'opera.*
E le evasioni? La storia ci ha tramandato il racconto di
numerose serie evasioni dalle prigioni zariste. Tutte queste
evasioni furono dirette e attuate, notiamolo, dal di fuori, da altri
rivoluzionari, compagni di partito degli evasi, con inoltre l'aiuto,
nei dettagli di esecuzione, di molti simpatizzanti. All'or-
ganizzazione dell'evasione vera e propria, come pure al succes-
sivo occultamento e trasporto dei fuggiaschi, prendevano parte
molte persone. (« Ah! » lo Storico Marxista mi ha preso in
castagna. « Perché la popolazione era dalla parte dei rivoluzio-
nari e il futuro apparteneva a loro! » « Ma potrebbe anche essere
» obietterò io modestamente « perché tutto questo era un gioco
allegro senza conseguenze penali. Fare un cenno da una finestra,
permettere all'evaso di pernottare nella propria camera da letto,
truccarlo? Per cose del genere non si rischiava l'incriminazione.
Quando Petr Lavrov fuggì dal confino, il governatore di Vologda
[Chominskij]... concesse alla sua compagna di andare a
raggiungere l'amato... Perfino la fabbricazione di passaporti falsi
non comportava altro che il confino nella propria casa di
campagna. La gente non aveva paura, lei sa per esperienza per-
sonale che cosa significhi? A proposito, e lei come mai non è
stato dentro? Ma, sa, era una lotteria** ... »)
Del resto esistono anche testimonianze d'altro tipo. Tutti
siamo stati obbligati a leggere a scuola La madre di Gor'kij e
qualcuno ricorderà forse il racconto di come funzionasse la
prigione di Niznij Novgorod: i gendarmi avevano delle pistole
arrugginite, se ne servivano per piantare chiodi nella parete, non
si aveva la minima difficoltà ad appoggiare una scala al
* Si veda Arcipelago GULag 1°, Parte prima, cap, XII.
** L'espressione è di Erenburg.

118
muro di cinta e a guadagnare tranquillamente il mondo libero.
Ecco cosa scrive un alto funzionario della polizia, Rataev: « II
confino esisteva solo sulla carta. La prigione non esisteva affatto.
Dato il regime disciplinare delle prigioni di allora un rivolu-
zionario che capitava in prigione continuava senza impedimenti
di sorta la sua attività di prima... Il comitato rivoluzionario di
Kiev, incarcerato al gran completo nella prigione cittadina, diri-
geva lo sciopero in città e pubblicava appelli alla popolazione. »1
In questo momento non ho accesso a fonti che mi permettano
di farmi un'idea su come fossero sorvegliate le galere zariste, ma
non ho mai sentito parlare di evasioni disperate, con una
probabilità su cento di riuscire, come quelle che sono avvenute
nelle nostre galere. Evidentemente i galeotti non provavano al-
cuna necessità di correre dei rischi: non erano né minacciati di
una morte prematura per esaurimento dovuto al pesante lavoro,
né di un prolungamento indebito del loro periodo di pena; la
seconda metà della pena doveva essere scontata al confino ed
essi rimandavano l'evasione ad allora.
Sotto gli zar, non fuggiva dal luogo di confino, c'è da credere,
solamente chi era troppo pigro per farlo. Evidentemente dove-
vano essere poco frequenti i controlli alla polizia, debole la
vigilanza, nessun posto di blocco sulle strade; nessun assogget-
tamento quotidiano, quasi poliziesco, al posto di lavoro; il denaro
non mancava (o comunque non era proibito farsene mandare),
1
Rivista «Byloe», n. 2/24, 1917, lettera di L.A. Rataev a N.P. Zuey. Si veda più in là anche
quanto riguarda la situazione generale in Russia, in libertà: « Da nessuna parte (salvo che nelle
capitali, A.S.) esistevano corpi di agenti segreti o pedinatori reclutati tra la popolazione, tutt'al più
la sorveglianza era effettuata da sottufficiali della gendarmeria [cioè della polizia politica. N.d.c.]
travestiti, i quali, quando si mettevano in borghese, a volte dimenticavano di togliersi gli speroni...
In queste condizioni bastava che il rivoluzionario trasferisse le proprie attività fuori dalla capitale
perché (esse) restassero un segreto impenetrabile per il dipartimento di polizia. In tal modo si
vennero a creare veri e propri nidi rivoluzionari e vivai di propagandisti e agitatori... ». I nostri
lettori capiranno agevolmente fino a che punto tutto questo differisca dall'epoca sovietica. Egor
Sazonov, travestito da cocchiere, rimase un giorno intero davanti al portone del dipartimento di
polizia in attesa di uccidere il ministro Plehve e nessuno gli badò, nessuno gli fece una domanda!
Kaljaev, ancora inesperto e teso, restò un giorno intero in piedi vicino la casa di Plehve a
Pietrpburgo sicuro che lo avrebbero arrestato e non lo beccarono!... Oh, buoni vecchi tempi, da
favola di Krylov!... Fare la rivoluzione così davvero non è molto difficile.

119
i luoghi di confino non erano molto lontani dai grandi fiumi e
dalle strade; e, ancora una volta, nessun pericolo minacciava
coloro che aiutavano l'evaso; l'evaso stesso, poi, in caso di cat-
tura, non rischiava né la fucilazione, né un feroce pestaggio, né
vent'anni di lavoro forzato come da noi. Di solito, quando veniva
ripreso, veniva riportato nel posto di prima a finire di scontare la
pena di prima. Tutto qui. Ogni colpo una vincita, insomma.
Tipica impresa del genere fu la partenza di Fastenko per l'estero
(Parte prima, cap. V). Ma ancora più tipica è forse l'evasione,
dalla regione del Turuchan, dell'anarchico A.P. Ulariovskij.
Durante la fuga a Kiev, gli bastò entrare nella sala di lettura degli
studenti e chiedere Che cos'è il progresso? di Michajlovskij*
perché gli studenti lo rifocillassero, gli procurassero un letto per
la notte e dei soldi per acquistare il biglietto. Ed ecco come fece
a fuggire all'estero: salì semplicemente la scaletta d'un piroscafo
straniero - e non vi stazionava, non è vero?, una pattuglia della
MVD - e si sistemò al calduccio vicino alle caldaie. Più
stupefacente ancora, tuttavia, è che durante la guerra del '14
ritornò volontariamente in Russia e, tenetevi forte, al Turuchan,
il suo vecchio luogo di confino. Spia straniera? Fucilazione?
Parla, canaglia, per chi lavori? No. Sentenza del pretore: per i tre
anni di assenza all'estero, tre rubli di ammenda o un giorno di
arresto. Tre rubli erano una forte somma e Ulanovskij preferì il
giorno di arresto.
Helphand-Parvus, autore dell'esplosivo Manifesto finanziario,
capo di fatto del Soviet di Pietroburgo dei deputati operai nel
1905 e guida di tutta la rivoluzione fu... squartato vivo?, no,
condannato a 3 (tre) anni di confino nella regione del Turuchan e
avrebbe potuto fuggire già a Krasnojarsk (i prigionieri erano stati
mandati in città a far provviste, Lev Deutsch infatti non tornò,
ma Parvus aveva indugiato). Arrivò fino a Enisejsk, soltanto là
fece ubriacare l'unico soldato di scorta e se ne andò. Dovette
girare parecchio: travestito da mužik, ebbe a soffrire
* Nikolaj Michajlovskij elaborò in Che cos'è il progresso?, pubblicato nel 1869, e in altri
scritti la teoria del populismo russo.

120
della rozzezza dell'ambiente contadino, della sporcizia e delle
pulci. Poi visse di nuovo a Pietroburgo prima di partire per
l'estero.
Quanto alle nostre evasioni, a cominciare da quelle dalle
Solovki a bordo di una fragile barchetta in balia del mare o in
una stiva in mezzo a dei tronchi d'albero fino agli slanci suicidi,
insensati e disperati coi quali cercammo di strapparci dai lager
staliniani dell'ultimo periodo (dedico all'argomento alcuni capi-
toli più in là), sono state imprese da giganti, ma da giganti votati
alla morte. Tanta audacia, tanta inventiva, tanta forza di volontà
non erano mai stati profusi nelle evasioni degli anni prima della
rivoluzione, ma quelle riuscivano sempre, le nostre quasi mai.
« Perché le vostre evasioni, nella loro essenza di classe, erano
reazionarie!... »
Reazionario, sul serio, l'impulso che porta l'uomo a cessare
d'essere uno schiavo e un animale?...
Se non riuscivano, è perché il successo d'una evasione, negli
ultimi stadi della sua realizzazione, dipende dall'atteggiamento
della popolazione. Ora, la nostra popolazione aveva paura ad
aiutare gli evasi, e arrivava addirittura, per venalità o ideologia, a
venderli.

Ed eccola, l'opinione pubblica!...*

Per quel che riguarda le sommosse di detenuti, sommosse di


tre, cinque, ottomila persone, la storia delle nostre tre rivoluzioni
** non ne ha conosciuta alcuna.
Noi sì.
Ma sempre in virtù della stessa maledizione, i più grandi
sforzi, il più grande numero di vittime da noi hanno sortito i
risultati più insignificanti.
Perché la società non era preparata. Perché, senza l'opinione
pubblica, una rivolta, anche in un lager immenso, non ha alcuna
possibilità di sviluppo.
* Verso di Griboedov, ripreso da Puškin nett'Evgenij Onegin (VI, 11).
** 1905, Febbraio e Ottobre 1917.

121
Dunque alla domanda: « Perché avete tollerato? » è tempo di
rispondere: ma noi non abbiamo tollerato! Ne leggerete la storia:
non abbiamo affatto tollerato.
Nei lager speciali abbiamo innalzato lo stendardo dei politici,
e lo siamo diventati.

122
V Poesia sotto una lastra, verità sotto la pietra

All'inizio del mio cammino nei lager desideravo molto evitare


i lavori comuni ma non sapevo da che parte incominciare. Al
contrario, arrivato a Ekibastuz al mio sesto anno di reclusione,
mi ripromisi di sbarazzare la mente dalle varie supposizioni,
relazioni e combinazioni esistenziali che mi distraevano da occu-
pazioni più profonde. Smisi quindi di trascinare l'esistenza pre-
caria del manovale come fanno, loro malgrado, le persone
istruite, che aspettano in permanenza un colpo di fortuna o
l'opportunità di entrare fra i pridurki, e decisi di acquisire qui, nel
lager, una specializzazione manuale. Nella brigata di Boronjuk ci
si presentò (a me e a Oleg Ivanov) una tale specializzazione,
quella del muratore. A una nuova svolta del mio destino fui
anche per qualche tempo fonditore.
Apprensione, al principio, ed esitazioni; facevo bene? ce
l'avrei fatta? Disadattati e abituati a lavorar di testa come siamo,
a parità di lavoro fatichiamo di più dei nostri compagni di
brigata. Ma è proprio dal giorno in cui io mi calai consape-
volmente sul fondo e lo sentii solidamente sotto i piedi - questo
suolo comune, solido, duro come la selce -, che iniziarono gli
anni più importanti della mia vita, quelli che hanno formato i
tratti definitivi del mio carattere. Ancora adesso, quali che siano
stati fino ad oggi gli alti e i bassi della mia vita, resto fedele alle
concezioni e alle abitudini acquisite laggiù.
La ragione per la quale avevo bisogno di una mente purificata
da ogni sedimento era che, già da due anni, stavo scrivendo un

123
poema. Poema che mi compensava molto, aiutandomi a non
badare a ciò che si faceva del mio corpo. A volte, in mezzo a una
colonna prostrata, fra le grida dei mitraglieri, sentivo un tale
afflusso di parole e immagini che avevo l'impressione di librarmi
in aria sopra la colonna, non vedevo l'ora di arrivare al cantiere
per scrivere da qualche parte in un cantuccio. In tali momenti
ero, ad un tempo, libero e felice.1
Ma come si fa a scrivere in un lager speciale? Korolenko
racconta che riusciva a scrivere anche in prigione, d'accordo, ma
avete un'idea di che usanze ci fossero in quella prigione?!
Scriveva con una matita (perché non gli era stata confiscata,
previa lacerazione delle cuciture dell'abito?) che aveva fatto
passare infilata nei riccioli dei capelli (e perché non l'avevano
rapato a zero?), e scriveva in mezzo al baccano (avrebbe fatto
meglio a ringraziare la sorte di avere modo di sedersi e allungare
le gambe!). Ed era tale la pacchia che potè conservare i
manoscritti e farli passare all'esterno (e questa, agli occhi di un
nostro contemporaneo, è davvero la cosa più ìncomprensibile).
Da noi non si potrebbe scrivere così, neppure nei lager!
(Anche una riserva di cognomi in vista di un futuro romanzo era
pericolosissima: l'elenco dei membri di un'organizzazione, eh? Io
ne annotavo solo la radice sotto forma di sostantivo o trasformata
in aggettivo.) La memoria, ecco l'unico nascondiglio dove poter
tenere ciò che si è scritto, dove celarlo durante perquisizioni e
trasferimenti. All'inizio non credevo molto nelle risorse della mia
memoria e avevo quindi deciso di scrivere in versi. Significava
naturalmente violare le leggi del genere. Più tardi scoprii che
anche la prosa si lascia assai bene comprimere nelle segrete
profondità di ciò che portiamo in noi stessi, nel nostro cervello.
Liberata dal peso delle nozioni vacue e inutili, la memoria del
detenuto colpisce per la sua capienza ed è in
1
Anche qui, tutto dipende dal metro che si usa! Scrivono di Vasilij Kurockin che i nove anni
della sua vita dopo la proibizione della rivista « Iskra » [« La Scintilla », rivista satirica
settimanale proibita nel 1873. N.d.c.] furono per lui « anni di vera agonia »: era rimasto senza il
suo organo di stampa! Ma noi che non osiamo neanche sognare un nostro organo di stampa, non
riusciamo a capire, ci sembra pazzesco: aveva la sua camera, la tranquillità, un tavolo, inchiostro,
carta, niente perquisizioni, nessuno gli confiscava quello che scriveva - perché, davvero, parlare
d'agonia?

124
grado di dilatarsi di continuo. Abbiamo ben poca fiducia nella
nostra memoria!
Ma prima di mandare a mente qualcosa si ha voglia di scri-
verla e rifinirla sulla carta. Carta e matita non sono proibite nel
lager, ma è proibito detenere uno scritto (a meno che non si tratti
di un poema su Stalin).1 E se non ti sei sistemato fra i pridurki
all'infermeria o fra i mangia a ufo della KVČ, mattina e sera devi
subire la perquisizione al posto di guardia. Decidi di scrivere su
pezzetti di carta piccolissimi, dodici-venti righi per volta, poi,
dopo la messa a punto, impararli a memoria e bruciarli. Mi ero
fermamente ripromesso di non fidarmi a strapparli solamente.
Nelle prigioni, tutto il lavoro di composizione e rifinitura del
verso andava fatto mentalmente. Poi spezzavo dei fiammiferi, li
disponevo in due file sul portasigarette, dieci unità e dieci decine,
e pronunziando mentalmente i versi spostavo un fiammifero per
ogni rigo. Dopo aver spostato dieci unità spostavo una diecina.
(Andava fatto con circospezione anche questo lavoro: un
movimento così innocente, accompagnato però da labbra
sussurranti o da un'espressione particolare del viso, avrebbe
suscitato l'attenzione dei delatori. Io mi sforzavo di manovrare i
miei fiammiferi con l'aria più distratta del mondo.) Mi impri-
mevo particolarmente nella memoria, come controllo, ogni cin-
quantesimo e centesimo rigo. Una volta al mese ripetevo tutto
quanto avevo composto. Se così facendo capitava al cinquante-
simo o centesimo posto un rigo sbagliato, ricominciavo ancora e
ancora a ripetere fino a quando non avevo catturato il fuggitivo.
Nel transito di Kujbyšev avevo visto dei cattolici (dei lituani)
impegnati a confezionare rosari tipo carcere. Si servivano di
pezzi di mollica di pane, bagnati e poi strizzati, che dipingevano
1
Un caso di « creatività » di questo tipo è descritto da Djakov: Dmitrievskij e Cetverikov
espongono alle autorità il soggetto di un romanzo che hanno progettato e ricevono la loro
approvazione. L'ufficiale della Sicurezza vigila affinchè non siano mandati ai lavori comuni. Poi,
in gran segreto, vengono portati fuori dalla zona (« perché i banderisti non li facciano a pezzi ») è
là continuano. Ecco un altro caso di poesia sotto una lastra. Ma dov'è finito quel romanzo?

125
di nero con della gomma bruciata, di bianco con della polvere
dentifricia, di rosso con dei sulfamidici rossi) e infilavano ancora
umidi su dei fili ritorti e insaponati e mettevano a seccare alla
finestra. Mi unii a loro, dissi che volevo pregare anch'io con un
rosario, aggiungendo che per la particolarità della mia fede avevo
bisogno di cento grani disposti in tondo (soltanto più tardi capii
che ne bastavano venti, era anzi più pratico, e mi fabbricai io
stesso un rosario così con dei tappi di sughero), e che ogni
decimo grano doveva avere la forma non di un pallino ma di un
cubetto, e che inoltre il cinquantesimo e il centesimo dovevano
potersi distinguere a tasto. I lituani rimasero colpiti dal mio
fervore religioso (i più devoti tra loro non avevano più di
quaranta grani) ma mi aiutarono con cordiale simpatia a
fabbricare un tale rosario, foggiando il centesimo grano in forma
di piccolo cuore color rosso scuro. Da allora quel meraviglioso
regalo non mi lasciò più, lo misuravo e tastavo nel grosso guan-
tone invernale durante gli appelli, le marce, le attese, potevo
farlo stando in piedi, e anche il freddo non era di ostacolo.
Durante le perquisizioni lo tenevo nel guantone imbottito dove
non si poteva individuare neanche a palparlo. I guardiani lo
scoprirono più volte ma pensando che servisse per pregare me lo
rendevano. Fino alla fine del mio periodo di pena (avevo già
accumulato più di dodicimila righi) e, più tardi ancora, al
confino, quel monile mi aiutò a scrivere e a ricordare.
Ma anche così non è tanto semplice. Più aumenta la quantità
di materiale composto, più giorni interi si perdono ogni mese a
ripeterlo. Queste ripetizioni sono dannose soprattutto perché tutto
quanto avete « scritto » vi diventa a tal punto familiare che finite
per non distinguere più le parti riuscite da quelle deboli. La
vostra prima variante - che già così è definita in gran fretta per
poter bruciare al più presto il testo -, resta la sola e l'unica. Non
ci si può permettere il lusso di metterla da parte per qualche
anno, dimenticarla, per poi rivederla con occhi freschi e critici.
Impossibile quindi scrivere veramente bene.
E non si poteva tirare in lungo con i pezzi di carta non ancora
bruciati. Io mi feci beccare pericolosamente con essi

126
per ben tre volte e mi salvai unicamente perché le parole più
compromettenti non le scrivevo mai, sostituendole con dei trat-
tini. Una di queste volte me ne stavo sdraiato sull'erba in disparte
da tutti, troppo vicino alla recinzione (per stare più tranquillo), e
scrivevo, nascondendo il pezzetto di carta in un libretto. Il
guardiano-capo « il Tataro », si avvicina quatto quatto da dietro e
ha il tempo di accorgersi che non sto leggendo ma scrivo.
« Fa' un po' vedere, » esige. Io mi alzo raggelato, e gli tendo il
foglietto. C'era scritto:

Quanto hanno tolto ci verrà pur reso


in più larga misura e sovrappeso.
Quei cinque giorni di spietata sorta
che t(atari) e k(azachi) a dura (scorta)
da Osterode a Brodnicy e ancor ci mena
a piedi e fino a qui con grande lena.

Se « scorta » e « tatari » fossero stati scritti per esteso il


Tataro mi avrebbe trascinato dall'ufficiale della Sicurezza e
quello avrebbe mangiato la foglia. Ma i trattini erano muti:
che t - e k - a dura –

Ciascuno ha una sua propria struttura di pensiero. Io avevo


paura per il mio poema, lui credeva che stessi disegnando, sul
posto, una pianta della zona per preparare un'evasione. Lesse
tuttavia quello che aveva trovato aggrottando la fronte. « Ci
mena a piedi e fino a qui » già gli dava da pensare, ma ciò che
soprattutto gli impegnò le meningi fu quel « cinque giorni ». Non
avevo neppure pensato quali associazioni d'idee avrebbe potuto
evocare! Cinque giorni è infatti una formula standard nei lager, è
in questi termini che si esprimeva una condanna alla cella di
rigore.
« Cinque giorni a chi? Di chi si tratta? » insisteva, tetro.
Riuscii a stento a convincerlo con l'aiuto dei nomi Osterode e
Brodnicy* che stavo cercando di ricordare una poesia scritta al
fronte da qualcun altro, che c'erano delle parole che non mi
ricordavo più.

* In Prussia orientale e Polonia; la prima tappa di Solženicyn dopo il suo arresto; si veda
Arcipelago GULag 1°, p. 176.

127
« E perché te le vuoi ricordare? Non è permesso ricordare! »
mi ammonì cupamente. « Se ti trovo sdraiato qui un'altra volta,
guai a te! »
A raccontarlo oggi sembra un caso insignificante. Ma allora,
per uno schiavo inerme come me, era un avvenimento colossale:
dovevo rinunciare a sdraiarmi in disparte dal chiasso e se appena
mi fossi fatto beccare un'altra volta dallo stesso Tataro con un
altro foglietto di versi, questo avrebbe potuto benissimo costarmi
un'inchiesta e un rafforzamento della sorveglianza.
E smettere di scrivere per me era ormai impossibile.
La seconda volta, durante il lavoro, venendo meno ai miei
principi, avevo scritto, tutti insieme, una sessantina di righi d'un
lavoro teatrale1 ma non ero riuscito a farli passare al momento
del ritorno nel lager. Anche stavolta al posto di molte parole
c'erano dei trattini. Il guardiano, un giovane sempliciotto con un
grande naso, esaminò il bottino con aria sorpresa:
« Una lettera? » domandò.
(Una lettera portata al cantiere puzzava soltanto di cella di
rigore. Ma sarebbe sembrata una « lettera » ben strana all'uffi-
ciale della Sicurezza!)
« È per una recita » buttai lì da impudente. « Cerco di ricor-
darmi una commediola. Quando la daremo, venga a vederci. »
II giovanotto guardò a lungo il foglietto, poi me, e disse:
« Sei grande e grosso, ma im-be-cille! »
E strappò il mio foglietto in due, jn quattro, in otto. Temetti
che gettasse i pezzetti per terra; erano ancora abbastanza grandi e
qui, davanti al posto di guardia, potevano essere raccolti da un
guardiano più vigile; proprio lì, a qualche passo da noi,
Mačechovskij in persona, il capo del regime disciplinare, sorve-
gliava l'andamento della perquisizione. Ma, evidentemente, ave-
vano avuto istruzione di non lasciar niente in giro davanti al
posto di guardia, per non dover poi ripulire loro stessi, e il
guardiano mi depose in mano, come in un recipiente per rifiuti, i
frammenti lacerati. Oltrepassai il cancello e mi affrettai ad
andare a gettarli nella stufa.
1
Il banchetto dei vincitori.

128
La terza volta, di nuovo avevo addosso un grosso frammento
di poema non ancora bruciato, ma inoltre - era quando lavo-
ravamo alla costruzione della BUR - non riuscendo più a tratte-
nermi, avevo scritto anche la poesia Il muratore. A quel tempo
non uscivamo mai dalla zona recintata e quindi non subivamo
ogni giorno la perquisizione personale. Il muratore era già al suo
terzo giorno, io ero uscito nel buio, poco prima del controllo, per
ripeterlo un'ultima volta prima di bruciarlo. Cercavo il silenzio e
la solitudine e avevo dimenticato di essere vicino al posto dove
Tenno, recentemente, era strisciato sotto il filo spinato. Il
guardiano probabilmente stava lì in agguato, mi prese subito per
la collottola e mi portò nella BUR. Approfittando dell'oscurità io
appallottolai cautamente il mio Muratore e me lo buttai a
casaccio dietro le spalle. Tirava un po' di vento e il guardiano
non udì il fruscio della carta sgualcita.
Ma io avevo ancora addosso un brano di poema, e me ne ero
completamente dimenticato. Alla BUR mi perquisirono e lo
trovarono; si trattava di un brano, che per fortuna non conteneva
niente di criminale, riguardante il fronte (tratto dalle Notti
prussiane*).
Il capoturno, un vecchio sergente non privo d'istruzione, lo
lesse.
« Che cos'è? »
« Tvardovskij! » risposi con fermezza. « Vasilij Terkin.
»
(Così, per la prima volta, si incrociarono le nostre due strade,
quella di Tvardovskij e la mia.)
« Tvardo-ovskij! » annuì con rispetto il sergente. «E a che
cosa ti serve? »
« II fatto è che qui non abbiamo libri. Così quando mi capita
di ricordare dei brani, me li segno, poi li rileggo di tanto in tanto.
»
Dopo avermi confiscato un'arma - una mezza lametta da barba
- mi restituirono il poema e mi avrebbero anche lasciato andare, e
io sarei corso a cercare Il muratore. Ma adesso, tra una storia e
l'altra, il controllo era già passato ed era ormai
* Pubblicato in russo da Ymca-Press. Parigi 1974.

129
proibito circolare nella zona; il guardiano mi accompagnò per-
sonalmente alla mia baracca e mi ci rinchiuse a doppia mandata.
Dormii male tutta la notte. Fuori infuriava un uragano. Dove
sarebbe stato portato il mio Muratore appallottolato? Nonostante
i trattini, il senso della poesia rimaneva evidente. Dal testo si
sarebbe capito che l'autore faceva parte della brigata che stava
costruendo la BUR. E in mezzo agli ucraini occidentali non
sarebbe stato difficile trovare me.
Così il frutto di tanti anni di lavoro - il già scritto e soprattutto
il progettato -, tutto questo sobbalzava da qualche parte nella
zona o nella steppa, indifesa pallina di carta. Io pregavo. Quando
le cose vanno male non ci vergogniamo di Dio. Ce ne
vergogniamo quando tutto va bene.
La mattina, subito dopo la sveglia, alle cinque, soffocando per
il vento ritornai sul posto. Era un vento fortissimo, sollevava
perfino i sassolini e ve li gettava in faccia. Era inutile cercare! Da
quel punto il vento soffiava verso la baracca del comando, poi
verso la režimka (circondata da ronde di guardiani e barriere di
filo spinato), poi oltre la zona su una strada dell'abitato. Per
un'ora intera, prima dell'alba, vagolai tutt'intorno, piegato in due,
ma inutilmente. Avevo ormai perduto ogni speranza. Ma quando
fu giorno, la pallina di carta biancheggiò a tre passi dal punto in
cui l'avevo gettata! Il vento l'aveva spinta da un lato e ficcata fra
due travi posate per terra.
Ancor oggi lo considero un miracolo.
Ecco come scrivevo. In inverno nella stanza riscaldata, in
primavera e in estate sulle impalcature, mentre lavoravamo:
nell'intervallo tra due secchi di malta appoggiavo il pezzetto di
carta sui mattoni e con un mozzicone di matita (nascondendomi
dai vicini) annotavo i righi che mi erano venuti in mente mentre
posavo la malta del secchio precedente. Vivevo come in sogno,
seduto alla mensa davanti alla sacra sbobba non sempre ne
avvertivo il sapore, non udivo quelli che mi stavano attorno, non
facevo che andare e venire tra i miei versi, adattandoli come i
mattoni di un muro. Mi perquisivano, mi contavano, mi facevano
marciare in colonna nella steppa; io vedevo una scena

130
della mia commedia, il colore del sipario, la disposizione dei
mobili sulla scena, le chiazze luminose dei riflettori, ogni mossa
degli attori.
I ragazzi sfondavano il filo spinato con un autocarro, stri-
sciavano sotto la recinzione, la attraversavano su un cumulo di
neve durante una bufera; ma per me era come se il filo spinato
non esistesse, io passavo tutto il mio tempo in una lunga e
lontana evasione, ma i guardiani non potevano scoprirla facendo
il conto delle teste.
Capivo di non essere l'unico, di essere partecipe di un grande
Mistero; nascosto in altri petti solitari il mistero maturava sulle
isole sparse dell'Arcipelago per rivelarsi negli anni futuri, forse
dopo la nostra morte, e riversarsi nella futura letteratura russa.
Nel 1956, lessi nel Samizdat, che a quell'epoca già esisteva, la
prima piccola raccolta di versi di Varlam Salamov e fremetti di
gioia, come quando si incontra un fratello:

Non è un gioco: è la morte


e ne pagherei lo scotto,
come Archimede, che c'è sorte
che della morte è ancor sotto:
rotta la penna, distruggere il brogliaccio.

Anche lui scriveva nel lager! nascondendosi da tutti lanciava


nell'oscurità lo stesso grido solitario, senza risposta:

Di tombe l'infinita teoria,


ecco il solo ricordo vivo al mondo,
e tra di esse ancor non c'è la mia
solo perché ho giurato, fino in fondo,
di piangere e cantare ancor la sorte
che ci toccò, e tocca a chi non osa,
come se in una vita che è già morte
principiasse davvero qualche cosa.

Quanti ce n'erano, di gente come noi? Molti di più, credo, di


quanti ne siano emersi in questi anni intermedi. Non a tutti è
stato dato vivere abbastanza a lungo. Qualcuno ha nascosto sotto
terra una bottiglia con i fogli dentro, ma non ha detto a nessuno il
posto. Qualcuno ha affidato le carte in custodia, ma

131
a mani negligenti o, al contrario, troppo caute. Qualcuno non ha
avuto neanche il tempo di annotare.
Neppure nel nostro isolotto di Ekibastuz potevamo facilmente
riconoscerci l'un l'altro, farci coraggio e sostenerci. Infatti ci
nascondevamo come lupi da tutti e quindi anche gli uni dagli
altri. Eppure, perfino in queste condizioni, riuscii a conoscerne
qualcuno.
In modo inaspettato, per mezzo di alcuni battisti, feci la
conoscenza con un poeta religioso, Anatolij Vasil'evič Silin. A
quel tempo aveva passato la quarantina. Il suo volto non aveva
nulla di notevole. La testa rasata e il viso sbarbato erano ispidi di
peli rossicci, e rossicce erano anche le sopracciglia. Era sempre
accomodante con tutti, dolce ma riservato. Solo dopo che
avemmo legato sul serio e dopo aver cominciato, le domeniche
che non si lavorava, a passeggiare insieme attraverso la zona per
intere ore, durante le quali mi recitava i suoi lunghissimi poemi
spirituali (che, come me, aveva scritto qui, nel lager), solo allora,
una volta di più, fui colpito al vedere fino a che punto sono
ingannevolmente nascoste sotto apparenze comuni certe anime,
invece assolutamente fuori dal comune.
Abbandonato dai genitori nell'infanzia, cresciuto in
orfanotrofio, ateo, aveva potuto accedere, prigioniero di guerra
dei tedeschi, a certi libri religiosi e ne era rimasto conquistato.
Da allora era diventato non solo credente ma filosofo e teologo.
E poiché precisamente « da allora » era stato dentro ininterrot-
tamente, in prigione e in lager, aveva dovuto percorrere da solo
tutto questo cammino teologico, scoprendo nuovamente per sé
quanto è già stato scoperto, sbagliando, forse, poiché « da allora
» non aveva più avuto né libri né consiglieri. Adesso lavorava
come manovale e sterratore, si sforzava di adempiere una «
norma » impossibile, ritornava al campo con le ginocchia molli e
le mani tremanti, ma da mane a sera giravano nella sua testa i
giambi dei suoi poemi, tutti di quattro piedi con la rima libera,
composti a memoria dall'inizio alla fine. A quell'epoca aveva già
composto, se non ricordo male, un ventimila righi. Anche per lui
era una sorta di servizio: un modo per ricordare e per trasmettere
agli altri.

132
La sua percezione del mondo era molto abbellita e riscaldata
dalla sensibile presenza del Palazzo della Natura. Chino sull'er-
betta gracile e rada che chiazzava indebitamente il suolo della
nostra sterile zona, esclamava:
« Come è bella l'erba terrestre! Ma perfino essa è stata donata
dal Creatore all'uomo perché se ne faccia giaciglio. Quanto più
belli dovremmo dunque essere noi! »
« E come la mette con quel "Non amate il mondo né quanto
v'è nel mondo"? » (I membri delle sette religiose ripetevano
spesso questa frase.)
Lui aveva un sorriso di scusa. Aveva l'arte, con quel sorriso,
di conciliarsi il prossimo:
« Ma perfino nell'amore terreno, carnale, si manifesta il nostro
slancio supremo verso l'Unione! »
La sua teodicea, ossia la giustificazione dell'esistenza del male
nel mondo, era così formulata:
Se lo Spirito che è di perfezione
tollera l'imperfetto ed il dolore
è perché tale è la condizione
per dare giusto prezzo a gioia e amore.

Dura è la legge: ma essa solamente
può spalancare ai miseri mortali
il regno della pace eternamente.

Egli spiegava audacemente le sofferenze di Cristo incarnato


non soltanto con la necessità di redimere i peccati umani ma
anche con il desiderio di Dio di provare le sofferenze terrene.
Silin affermava con sicurezza:
« Dio ha sempre saputo di queste sofferenze, ma prima non le
aveva mai provate. »
Anche per l'Anticristo, il quale

nella libera anima mortale


falsa l'anelito alla luce
e la limita alla luce secolare

Silin aveva parole umane e fresche:

La felicità che gli fu donata


l'angelo ribelle ha rifiutata.
133
E non avendo subito dell'uomo l'afflizione
così privo del dolore, il suo amore
non ha mai attinto alla vera perfezione.

Pur avendo un pensiero così libero, Silin riservava un rifugio,


nel suo largo cuore, a tutte le sfumature del cristianesimo:

...Dalla loro essenza viene


che di Cristo la dottrina
ogni genio avvicina
e l'ingegno suo mantiene.

A proposito dell'irascibile perplessità con la quale i materia-


listi si chiedevano come lo spirito abbia potuto generare la
materia, Silin si limitava a sorridere:
« Si rifiutano di domandarsi, però, come la rozza materia
abbia potuto generare lo Spirito. Non sarebbe un miracolo? Un
miracolo ancora più grande? »
Col cervello ingombro dei versi miei, di tutti i poemi di Silin
che ho ascoltato non sono riuscito a conservare che poche
briciole, nel timore che egli potesse non serbarne niente. In uno
dei suoi poemi, il suo eroe prediletto, dal nome greco antico (che
ho dimenticato) pronunziava un discorso immaginario a
un'assemblea delle Nazioni Unite, esponendo un programma spi-
rituale per l'intera umanità. Con il suo numero a quattro cifre
cucito addosso, schiavo estenuato e votato alla morte, questo
poeta aveva nel petto più cose da dire ai viventi che non tutto il
gregge radicatosi nelle riviste, nelle case editrici, alla radio,
uomini inutili a tutti fuorché a loro stessi.
Prima della guerra Anatolij Vasil’evič si era laureato alla
facoltà di lettere dell'istituto di pedagogia. Adesso gli rimane-
vano, come a me, tre anni prima della « liberazione » e del con-
fino. La sua sola specializzazione era l'insegnamento della lette-
ratura a scuola. Pareva poco probabile che ci avrebbero accettati,
noi, degli ex detenuti, in una scuola. E se invece l'avessero fatto?
« Non mi metterò certo a inculcare la menzogna nei ragazzi!
Dirò loro la verità su Dio, sulla vita dello Spirito. »
« Ma la licenzieranno dopo la prima lezione! »

134
Silin abbassò la testa e rispose a bassa voce:
« E sia. »
E si vedeva che non avrebbe vacillato. Che non avrebbe agito
contro la propria coscienza pur di potersi aggrappare a un
registro di classe, invece del piccone che maneggiava adesso.
È con pietà e profonda ammirazione che consideravo que-
st'uomo rossiccio e insignificante che non aveva conosciuto i
propri genitori, che non aveva avuto maestri e per il quale la vita
era sempre stata così faticosa quanto rivoltare con la pala il
sassoso terreno di Ekibastuz.
Silin mangiava dalla stessa gamella dei battisti, divideva con
essi il pane e la pietanza. Certamente sentiva il bisogno di avere
degli ascoltatori grati, doveva trovare gente con cui leggere e
commentare in comune il Vangelo nonché per nasconderlo. Non
so se non cercasse gli ortodossi (sospettando che avrebbero
potuto respingerlo per le sue eresie) o non ne trovasse: nel nostro
lager, salvo che tra gli ucraini occidentali, se ne incontravano ben
pochi oppure non spiccavano per coerenza di condotta. I battisti,
invece, parevano rispettare Silin, lo ascoltavano volentieri, lo
consideravano addirittura un membro della comunità, tuttavia
anche a loro non piaceva tutto ciò che c'era in lui di eretico, e
speravano di farne a poco a poco uno dei loro. Quando Silin
parlava con me in loro presenza, era piuttosto moscio: in loro
assenza rifioriva. Per lui era difficile modellarsi sulla loro fede,
fede che era comunque molto ferma, pura, ardente e li aiutava a
sopportare la galera senza che la loro anima ne fosse sconvolta e
distrutta. Sono tutti onesti, miti, laboriosi, misericordiosi, devoti
a Cristo.
Ed è per questo che li sterminano così risolutamente. Negli
anni 1948-50 per la sola appartenenza a una comunità battista,
centinaia e centinaia di essi vennero condannati a venticinque
anni di reclusione e avviati nei lager speciali (perché una
comunità, non è vero?, è una organizzazione!1)
1
All'epoca di Chruščev, la persecuzione dei battisti si è indebolita unicamente per quanto
riguarda la durata delle condanne, ma in sostanza è rimasta la stessa.

135
Nel lager non è come nella vita ordinaria. Nella vita ordinaria
ognuno cerca, senza cautele di sorta, di esprimersi e valorizzarsi
esteriormente. È più facile vedere chi ha delle pretese e che
pretese ha. In reclusione viceversa sono tutti spersonalizzati:
stessi capelli tosati, stesse facce malrasate, stessi berretti, stessi
giacconi. L'espressione spirituale è sfigurata dal vento, dall'ab-
bronzatura, dalla sporcizia, dal duro lavoro. Per arrivare a
discernere, sotto l'apparenza umiliata, spersonalizzata, la luce
dell'anima, bisogna farci l'abitudine!
Ma le fiammelle dello spirito si muovono e si aprono
spontaneamente una via l'una verso l'altra. Conoscenza -
riconoscimento reciproco, riunione di simili già uniti.
Per conoscere un uomo, il sistema più rapido e sicuro è
conoscere almeno un frammento della sua biografia. Alcuni
sterratori lavorano affiancati. Comincia a cadere una neve soffice
e fitta. Forse perché fra poco ci sarà la pausa l'intera brigata si
ripara nella capanna interrata. Ma un uomo è rimasto fuori. Si è
appoggiato alla vanga sull'orlo dello scavo e sta completamente
immobile, quasi si trovasse a suo agio così, come una statua. E,
come una statua, la neve gli ricopre la testa, le spalle, le braccia.
Gli è indifferente? o perfino gradevole? Attraverso quel turbinio
di fiocchi egli guarda, contempla la zona, la steppa bianca, è di
ossatura larga; ha larghe spalle e la faccia coperta di ispidi peli
chiari. È sempre posato, lento, calmissimo. Eccolo in piedi, che
contempla il mondo e pensa. È altrove. Io non lo conosco, ma il
suo amico Red'kin me ne ha parlato. È un seguace di Tolstoj. È
cresciuto nella convinzione arretrata che non si ha il diritto di
uccidere (neppure in nome della Dottrina d'Avanguardia!) e non
si può quindi prendere in mano un'arma. Nel '41 è stato
mobilitato. Ha gettato la sua arma vicino a Kuska, dove era stato
mandato, e ha attraversato la frontiera con l'Afghanistan. In
Afghanistan non c'era nessun tedesco e nemmeno se ne
aspettavano, ed egli avrebbe potuto rimanere tranquillamente in
servizio per tutta la durata della guerra senza dover mai sparare a
un essere vivente, ma già il solo fatto di portare quel pezzo di
ferro sulla spalla era contrario alle sue convinzioni. Sperava che
gli afghani avrebbero ri-

136
spettato il suo diritto a non ammazzare altri uomini e lo avreb-
bero lasciato passare nella tollerante India. Ma il governo
afghano, come tutti i governi, si dimostrò senza cuore. Temendo
di incorrere nelle ire dell'onnipotente vicino mise in ceppi il
fuggiasco. E lo tenne tre anni in prigione, proprio in questo stato,
con delle catene che gli immobilizzavano i piedi, in attesa di
sapere chi avrebbe vinto la guerra. La vinsero i Soviet, e i
servizievoli afghani restituirono loro il disertore. La sua pena
decorse da allora.
Ed eccolo in piedi, immobile sotto la neve, come se fosse
parte integrante di questa natura. Lo ha forse messo al mondo lo
Stato? Perché dunque lo Stato si è arrogato il diritto di decidere
come deve vivere quest'uomo?
Non abbiamo nulla in contrario ad avere Lev Tolstoj per
compatriota. È una bella effigie per un marchio (e anche per un
francobollo). E poi si può far fare agli stranieri il pellegrinaggio a
Jasnaja Poljana. E ci riempiamo la bocca della sua opposizione
allo zarismo e dell'anatema che lo colpì (qui la voce del
conferenziere fremerà addirittura). Ma se qualcuno, qualche
nostro compatriota, prende Tolstoj sul serio, se vien su un tol-
stoiano in carne e ossa, - ehi, state attenti! - non ci capitate sotto i
cingoli!
...Ti può capitare, al cantiere, di chiedere in prestito a un
caposquadra detenuto il suo metro pieghevole: hai bisogno di
misurare la tua muratura. Quello ci tiene moltissimo al suo
metro, non ti conosce, le brigate sono molte, ma senza una
ragione, con aria disarmata, ti tende subito il suo tesoro (secondo
le norme del lager, è pura idiozia). E quando tu gli rendi quel
metro ti dirà anche grazie. Come può un simile bislacco essere
caposquadra in un lager? Parla con l'accento. Ah, ecco, a quanto
pare è un polacco, si chiama Jurij Vengerskij. Sentirai ancora
parlare di lui.
...Ancora, ti può capitare di star camminando in colonna in-
sieme agli altri, dovresti sgranare il rosario nel guantone o pen-
sare alle strofe successive, ma ti ritrovi un compagno di fila
troppo interessante, una faccia nuova: una nuova brigata è stata
recentemente mandata a lavorare nel nostro stesso cantiere.

137
Un ebreo di mezz'età, simpatico, l'aspetto dell'intellettuale,
con un'espressione intelligente e beffarda. Il cognome è
Masamed, è laureato... dove, dove? A Bucarest, cattedra di
biopsicologia. Fra le altre strane specializzazioni, è fisiognomo e
grafologo. Inoltre pratica lo yoga ed è disposto a cominciare con
te, anche domani, un corso di hathayoga. (Il guaio è che ci danno
dei « tempi » troppo brevi in queste università! Trabocco! non c'è
il tempo di abbracciare ogni cosa!)
In seguito lo osserverò ancora, nelle zone del lager e del
cantiere. I suoi compatrioti gli propongono di sistemarlo nel-
l'ufficio, lui rifiuta: gli preme dimostrare che un ebreo può
benissimo cavarsela ai lavori comuni. E, a cinquant'anni, ma-
neggia impavidamente il piccone. Vero è che da autentico yoghi,
padroneggia il proprio corpo: a dieci sotto zero si spoglia e
chiede ai compagni di innaffiarlo con la pompa. Non mangia
come noi, che ci affrettiamo a ingollare questa pappa di semola,
ma voltato da una parte, con concentrazione, lentamente, a boc-
coni minuscoli, con un minuscolo cucchiaio speciale.1
...Succede così più d'una volta, durante un trasferimento in
colonna, di fare una conoscenza nuova e interessante. Ma gene-
ralmente, a dire il vero, non è che ti riesca sempre a dire gran che
in colonna: la scorta urla, i vicini brontolano (per colpa vostra...
tocca anche a noi...), all'andata ci muoviamo fiacchi, al ritorno si
ha troppa fretta, senza parlare del vento che ti sbatte sul grugno.
E all'improvviso... beh, è un caso nient'affatto tipico, come
dicono gli adepti del realismo socialista. Un caso fuori
dell'ordinario.
Nell'ultima fila cammina un ometto dalla folta barba nera
(l'ultima volta che l'hanno arrestato la portava, è stato fotografato
così per la sua pratica, e al lager gliel'hanno lasciata). Cammina
baldanzoso, conscio della sua dignità e porta sotto braccio un
rotolo di carta millimetrata legato con lo spago. È una proposta
di razionalizzazione o un'invenzione, una innovazione
comunque, e lui ne va fiero. Ne ha disegnato il piano sul luogo di
lavoro, l'ha portata a far vedere a qualcuno nel
1
Morirà comunque entro poco tempo, come un semplice mortale, d'un semplice infarto.

138
lager, adesso la riporta al cantiere. E all'improvviso un maligno
colpo di vento gli strappa da sotto il braccio il rotolo e lo fa
correre lontano dalla colonna. Con mossa spontanea Arnold
Rappoport (il lettore lo conosce già*) fa un primo passo per
riacciuffare il rotolo, un secondo, un terzo, ma quello continua a
fuggire, si infila fra due soldati della scorta, oltre l'accerchia-
mento, ormai! Rappoport a questo punto dovrebbe fermarsi;
infatti « un passo a destra, un passo a sinistra, la scorta spara
senza preavviso », ma eccola, la carta millimetrata! Rappoport le
corre dietro balzelloni, piegato in due, le braccia tese in avanti,
un destino malvagio gli porta via la sua idea tecnica! Arnold
allunga le braccia, le dita aperte come rastrelli, barbaro, non mi
toccare i disegni! La colonna l'ha visto, esita, si ferma da sola. I
mitra vengono alzati, scattano gli otturatori!... Fino a qui è tutto
tipico, ma ecco che comincia qualcosa di atipico: non si trova un
imbecille che spari, i barbari hanno capito che non si tratta di
un'evasione. Perfino nei loro cervelli ottenebrati ha finito per
entrare e per essere compresa questa immagine: è un autore che
corre dietro alla sua opera in fuga! Percorsi un'altra quindicina di
passi oltre la linea della scorta, Rappoport riacchiappa il rotolo,
si raddrizza e ritorna raggiante in fila. Ritorna dall'altro mondo...
Sebbene Rappoport si sia preso assai più della norma media
dei lager (dopo una pena da bambini e una diecina è stato al
confino, e adesso sconta un'altra diecina), è vivace, lesto, ha gli
occhi che brillano e i suoi occhi, pur essendo sempre allegri,
sono fatti per la sofferenza, sono occhi veramente espressivi.
Egli è fiero che gli anni di prigione non lo abbiano minimamente
invecchiato né spezzato. Del resto, come ingegnere lavora sem-
pre fra i pridurki alla produzione, e gli è facile essere su di
morale. Affronta il suo lavoro con vivacità, ma cova inoltre nel
suo intimo delle creazioni fatte per l'anima.
C'è larghezza nel suo carattere, vorrebbe abbracciare tutto. Ci
fu un momento che progettava di scrivere a tempo perso un libro
come questo mio: tutto sui lager, ma non vi si accinse mai.
* Vedi Arcipelago GULag 2°, p. 556.

139
La sua altra opera è oggetto dei nostri scherzi amichevoli: da
più anni ormai Arnold va compilando un prontuario tecnico uni-
versale che dovrà comprendere tutte le branche della tecnica
contemporanea e delle scienze naturali (i differenti tipi di valvole
radiofoniche come il peso medio d'un elefante) e dovrà essere...
tascabile. Reso cauto da tanti frizzi, Rappoport mi mostra in
segreto un'altra delle sue opere predilette. Un quadernetto
ricoperto di tela cerata nera contiene un trattato « sull'amore »,
un nuovo trattato, perché quello di Stendhal non lo soddisfaceva
minimamente. Sono annotazioni per il momento incompiute e
non collegate fra di loro. Ma, per un uomo che ha passato metà
della vita nei lager, come è casto! Eccone qualche estratto:1

- Possedere una donna non amata è l'infelice sorte dei poveri di spirito e di
corpo. Ma gli uomini se ne vantano come di una « conquista ».
- Il possesso non predisposto da uno sviluppo organico del sentimento
non dà la gioia ma la vergogna, il disgusto. Gli uomini del nostro secolo che
impegnano tutte le energie nel guadagno, l'impiego, il potere, hanno perduto il
gene dell'amore superiore. Viceversa per l'infallibile istinto femminile il
possesso non è che il primo gradino verso una vera intimità. Soltanto dopo
questo la donna considera l'uomo suo intimo e comincia a dargli del « tu ».
Anche una donna che si sia concessa casualmente sperimenta un afflusso di
grata tenerezza.
- La gelosia è l'amor proprio ferito. Un vero amore non più corrisposto non
è geloso, appassisce e muore.
- Come la scienza, l'arte e la religione, anche l'amore è un mezzo di
conoscenza del mondo.

Riunendo in sé interessi così opposti, Arnold Rappoport co-


nosce allo stesso modo le persone più diverse. Mi fa conoscere
un uomo dinanzi al quale sarei passato senza notarlo: a prima
vista è un dochodjaga* condannato a morire, un distrofico, le
clavicole gli sporgono dalla giacca della tenuta spalancata come
quelle di un cadavere. Lungo com'è la sua magrezza colpisce
particolarmente. Per natura già di carnagione scura la sua testa
rapata è per di più arsa dal sole del Kazachstan. Si trascina
1
Da allora sono passati molti anni. Rappoport ha abbandonato il suo trattato e io ho il suo
permesso di citarlo.
* Da dochodit’, « arrivare », nel gergo dei lager, detenuto arrivato allo stremo delle forze,
destinato a morire in breve tempo.

140
ancora nella zona di lavoro, si aggrappa alla barella per non
cadere. È greco, ed è un poeta anche lui. Un altro ancora! Un suo
libro di versi in greco moderno è stato pubblicato ad Atene. Ma
siccome egli è un prigioniero non di Atene ma dei Soviet (è
suddito sovietico), i nostri giornali non versano lacrime su di lui.
È di mezza età, e sta già per morire. In modo pietoso e mal-
destro cerco di distrarlo da questo pensiero. Lui sorride col
sorriso del saggio e mi spiega, in un russo approssimativo, che
ciò che fa paura nella morte non è la morte in sé ma la prepara-
zione morale ad essa. Paura, amarezza, rimpianto, tutto questo
l'ha già passato, egli ha già finito di piangere, ha già del tutto
superato l'inevitabile morte e vi è preparato. Solamente al suo
corpo resta da finire di morire.
Quanti poeti tra gli uomini! Tanti che si stenta a crederlo.
(Talvolta ne sono perfino disorientato.) Questo greco attende la
morte, ma questi altri due giovani non aspettano che una cosa:
che arrivi il termine della pena e la loro futura fama letteraria.
Sono poeti apertamente, non si nascondono. In comune hanno
una specie di luminosità, di purezza, e il fatto di non aver ulti-
mato, entrambi, gli studi universitari. Kolja Borovikov è un
ammiratore di Pisarev (e quindi nemico di Puškin),* lavora come
infermiere nella sezione sanitaria. Jura Kireev, di Tver', è invece
un ammiratore di Blok e compone nel suo stile, per il suo lavoro
nell'ufficio delle officine meccaniche esce ogni giorno dalla
zona. I suoi amici (e quali amici! più anziani di lui di vent'anni e
padri di famiglia) lo prendono in giro: in un lager ITL del Nord,
una romena accessibile a chiunque gli si era offerta, lui non
aveva capito niente e le aveva dedicato dei sonetti. A guardare
quel musetto limpido non si stenta a crederlo. Maledizione della
verginità adolescente che dovrà adesso trascinare con sé di lager
in lager.
...Certe persone sei tu ad osservarle, altre fanno lo stesso con
te. Nella grande baracca disordinata dove vivono, vanno e ven-
* Pisarev in La distruzione dell'estetica affermò che occorre « detronizzare » Puškin per
creare una letteratura di contenuto e forme nuovi.

141
gono incessantemente e riposano quattrocento uomini, dopo cena
e durante gli odiosi controlli della sera, io leggo il secondo
volume del dizionario di Dal', l'unico libro che sono riuscito a
portare con me fino a Ekibastuz; qui sono stato costretto a
deturparlo col timbro « Steplag. KVČ ». Non volto mai pagina,
perché nel brandello di sera che ci resta riesco a malapena a
leggerne mezza. Così dunque, dopo il controllo, seduto o vagan-
do attorno, resto col naso ficcato in questo o quel punto del libro.
Sono già abituato a sentirmi chiedere dai nuovi arrivati che cos'è
quel grosso libro e a sentir considerare con stupore perché
diavolo io lo legga. « La lettura più innocua che ci sia, » scherzo
io di rimando. « Non corri il rischio di beccarti un sup-
plemento»1
Tuttavia anche intorno a questo libro avvengono molti incon-
tri interessanti. Ecco che mi si avvicina un uomo piccolo, tale e
quale un galletto col suo naso da attaccabrighe, ha uno sguardo
acuto e canzonatore, un parlare cantilenante e pronuncia le «o
»:*
« Perdoni la curiosità, che libro è? »
Una parola tira l'altra, passano le domeniche, i mesi, e in
quell'uomo mi si rivela un micromondo, il concentrato di mezzo
secolo di storia del mio paese. Vasilij Grigor'evič Vlasov (quello
stesso del processo di Kadyj,** che aveva già scontato
quattordici anni della sua ventina) si considera economista e
uomo politico, e non sospetta neanche di essere un artista della
parola, ma della parola orale. Qualunque cosa racconti, della
fienagione, di una bottega di mercante (vi lavorò da ragazzo), di
un
1
Che cosa non è pericoloso leggere in un lager speciale? Aleksandr Stotik, economista nella
sezione di Džezkazgan, la sera leggeva in gran segreto un adattamento di Il tafano [romanzo
dell'inglese Ethel Voynich. N.d.c.]. Fu tuttavia denunciato. Vennero a perquisire il capo della
sezione in persona e una muta di ufficiali: « Aspetti gli americani? ». Lo costrinsero a leggere ad
alta voce in inglese. « Quanti anni ti rimangono? » « Due ». « Ne avrai venti! » Per di più gli
trovarono dei versi: « T'interessa l'amore? » ... « Creategli delle condizioni d'esistenza tali che non
solo l'inglese ma anche il russo gli esca dalla testa! » (Gli schiavi - pridurki si lamentarono con
Stotik: Metti di mezzo anche noi! Ce ne toccherà anche a noi!).
* Nella pronuncia russa letteraria, la « o » atona non si distingue dalla « a » atona, ma in
molte regioni si opera la distinzione: è ciò che si dice okat' « pronunciare le "o" ».
** Si veda Arcipelago GVLag 1°, pp. 420-432, 452-458.

142
reparto dell'Armata rossa, di una vecchia azienda agricola, d'un
boia del Servizio provinciale di ricerca dei disertori o di una
insaziabile donna di un sobborgo di provincia, tutto quanto mi
sorge davanti a tutto tondo e me ne impadronisco così sal-
damente come se avessi vissuto io stesso gli avvenimenti. Si
vorrebbe annotarlo immediatamente, ma è impossibile. Bisogne-
rebbe ricordarselo parola per parola dieci anni dopo, impossibile
anche questo!
M'accorgo che il mio libro e io siamo spesso l'oggetto degli
sguardi furtivi di un uomo che tuttavia non si risolve ad attaccar
discorso, un giovane magro, allampanato, dal naso lungo, non
educato, si direbbe, alla scuola del lager, addirittura apprensivo.
Facciamo conoscenza, parla con voce bassa e timida, stenta a
trovare le parole giuste, fa degli errori buffissimi ma subito li
riscatta col sorriso. Apprendo che è ungherese, si chiama János
Rozsás. Gli mostro il Dal' e lui approva con un cenno del volto
disseccato dall'estenuazione del lager. « Già-già, bisogna
distrarre l'attenzione verso altre cose, non pensare solo a man-
giare. » Ha solo venticinque anni ma non ha più l'incarnato della
gioventù sulle guance; la pelle arida e sottile riarsa dai venti
sembra tesa direttamente sulle ossa strette e allungate del cranio.
Gli dolgono le articolazioni, sono i reumatismi acuti che ha
contratto ai lavori forestali nel settentrione.
Qui nel lager si trovano due o tre suoi compatrioti, ma
assorbiti esclusivamente da un solo problema: come sopravvi-
vere? come riempirsi lo stomaco? János invece mangia senza
protestare ciò che gli ha assegnato il brigadiere* e, mezzo affa-
mato, non si permette di cercare altro. Guarda, ascolta, vorrebbe
capire. Capire che cosa? Vorrebbe capire noi, noi russi!
« II mio destino personale è diventato ancor più gramo da
quando ho conosciuto la gente di qui. Sono estremamente stu-
pito. Gente che amava il proprio popolo e che per questo è in
galera. Ma, penso, è la disorganizzazione dovuta alla guerra, no?
» « Me lo chiede nel 1951! Ma se è ancora disorganizzazio-
* Cioè la razione che gli spetta in base alla quantità di lavoro dichiarata a suo nome dal
brigadiere,

143
ne dovuta alla guerra, sarà forse la prima guerra mondiale?) Nel
1944, quando i nostri lo presero in Ungheria aveva 18 anni (e
non era ancora stato nell'esercito). « Allora non avevo ancora
avuto il tempo di fare alla gente né del bene né del male »,
sorride. « La gente da me non aveva avuto né utilità né danno.»
L'istruttoria di János andò così: il giudice non capiva una parola
di ungherese, e János non una parola di russo... Talvolta si
servivano di pessimi interpreti, certi ucraini dei Carpazi orientali.
János firmò le sedici pagine del verbale dell'istruttoria senza mai
aver capito di che cosa si trattasse. Così, quando uno sconosciuto
ufficiale gli lesse qualcosa da un foglietto, per molto tempo
János non capì che si trattava della sentenza dell'OSO.1
Fu spedito nel Nord, a tagliare gli alberi, qui deperì rapida-
mente e finì in ospedale.
Fino ad allora la Russia gli aveva mostrato una faccia sola,
quella per cui « si va dentro », adesso gliene mostrava un'altra.
Nel piccolo ospedale da campo dell'OLP di Symsk, presso
Solikamsk, c'era un'infermiera, Dusja, di forse quarantacinque
anni. Era stata condannata per reati comuni a cinque anni, aveva
il permesso di circolare. Il suo lavoro non lo intendeva come il
mezzo per arraffare quanto più poteva e tirare alla meno peggio
fino alla fine della pena (cosa molto diffusa da noi, e tuttavia
ignorata da János, con le sue lenti rosa) bensì come una
possibilità di rimettere in piedi quei moribondi che non servivano
più a nessuno. Con quanto passava l'ospedale non poteva
salvarli. Dusja barattava al villaggio la propria razione di pane di
300 grammi con mezzo litro di latte e dando questo latte da bere
a János (e prima di lui a qualcun altro) lo restituì alla vita.2 È
grazie a mamma Dusja che János si innamorò del

1
Dopo la morte di Stalin, quando János fu riabilitato, era divorato, dicono, dalla voglia
di chiedere una copia in ungherese della sentenza per sapere per quale motivo era stato dentro
nove anni. Ma ebbe paura: « Si chiederanno a che mi serve. E infatti ormai non mi serve gran
che... » Egli aveva capito il nostro spirito: davvero, a cosa gli serviva sapere, oggi?...
2
Qualcuno mi spieghi: in quale ideologia rientra questo comportamento? (Confrontate
piuttosto con un'infermiera comunista com'è descritta da Djakov: « Allora, ti fan male i
dentini, brutta faccia di banderista? »).

144
nostro paese e di tutti noi. Cominciò a studiare con zelo la lingua
dei suoi carcerieri e soldati di scorta, « la grande, la possente
lingua russa ».* Rimase nei nostri lager nove anni, vide la Russia
solamente dai finestrini dei cellulari, nelle piccole cartoline
illustrate e nei lager. Eppure l'amò.
János era di una specie che si fa sempre più rara ai nostri
giorni: nell'infanzia non aveva conosciuto altra passione che la
lettura. Conservò questa passione anche da adulto, e perfino nel
lager. In quelli del Nord e poi a Ekibastuz, non aveva mai
mancato un'occasione di procurarsi e di leggere dei nuovi libri.
All'epoca in cui lo conobbi aveva già letto e amato Puškin,
Nekrasov, Gogol', io gli ho spiegato Griboedov, ma più di tutti,
forse ancor più di Pétöfi e Arany, si era innamorato di Ler-
montov, che aveva letto per la prima volta in prigione, poco
tempo prima.1 Si sentiva soprattutto affine col Mcyri, il Novi-
zio,** anche lui prigioniero, anche lui giovane e anche lui con-
dannato a morire. Ne conosceva molti brani a memoria, e tra-
scinandosi per anni, le mani dietro la schiena, in una colonna di
stranieri, in terra straniera, borbottava per se stesso nella lingua
di un altro popolo:

Compresi allora confusamente


che fino al giorno della mia morte
non avrei più messo piede in terra patria.

Amabile, gentile, con occhi azzurro-chiari senza difesa, tale


era János nel nostro lager spietato. Si sedeva vicino a me sul mio
pancaccio, leggermente, proprio sul bordo, come se il mio sacco
imbottito di segatura rischiasse davvero d'essere ancor più
macchiato o deformato dal suo peso e diceva con voce dolce e
ispirata:

A chi potrei esprimere il segreto dei miei sogni?

* Espressione di Turgenev.
1
Ho sentito dire più d'una volta da stranieri che Lermontov è loro più caro di qualsiasi altro
poeta russo. Malgrado tutto, Puškin, mi dicevano, ha potuto scrivere Ai calunniatori della Russia
[poesia fortemente nazionalistica, scritta nel 1831 in occasione dell'insurrezione di Varsavia.
N.d.c.], mentre Lermontov, non avendo reso alcun servizio all'autocrazia, è senza macchia
** Protagonista e titolo di un poema di Lermontov, giovane monaco (mcyn) georgiano
catturato dai russi che languisce e muore in prigionia.

145
E non si lagnava mai di nulla.1

Fra i detenuti del lager ci si muove come su un terreno mi-


nato, si esplora ciascuno di loro con i raggi dell'intuizione per
non saltare in aria. E nonostante questa generale circospezione,
quante nature poetiche mi si sono rivelate, in quelle teste rasate
come scatole, sotto i giubbotti neri dello zek!
E quante si sono trattenute per non essere scoperte?
E quante - migliaia di volte più numerose - non le ho incon-
trate affatto? E quante ne hai strangolate tu nel corso di questi
decenni, maledetto Leviatano?

A Ekibastuz esisteva anche un centro ufficiale, peraltro


pericolosissimo, di incontri culturali: la KVČ, dove timbravano in
nero i libri e rinnovavano i nostri numeri.
Una figura importante e molto pittoresca della nostra KVČ era
quella di un pittore, in passato arcidiacono e forse addirittura
segretario personale del patriarca, Vladimir Rudčuk. Da qualche
parte nei regolamenti dei lager figura un punto non abolito: non
rasare gli ecclesiastici. Naturalmente è un punto che non viene
mai reso di pubblica ragione, e quei sacerdoti che
1
Tutti gli ungheresi furono rimandati a casa dopo la morte di Stalin e János sfuggì alla sorte
del Mcyri, che era già pronto a subire. Dodici anni sono passati, fra questi il 1956. Junos è
contabile nella cittadina di Nagykanizsa, dove nessuno sa il russo né legge libri russi. E che cosa
mi scrive?
« Anche dopo tutti gli avvenimenti trascorsi, sono sinceramente convinto che non vorrei
rinunciare al mio passato. Ho conosciuto, duramente, ciò che è inaccessibile agli altri... Al
momento della mia liberazione promisi ai compagni rimasti che non avrei mai dimenticato il
popolo russo, e non per le sofferenze che ha sopportato, ma per il suo buon cuore... Perché seguo
con interesse sui giornali le notizie della mia vecchia "patria"?... Le opere dei classici russi
occupano tutta una fila nella mia biblioteca, quarantun volumi in russo e quattro in ucraino
(Sevčenko)... Gli altri leggono i russi come leggerebbero gli inglesi o i tedeschi, io li leggo
diversamente. Tolstoj mi è più vicino di Thomas Mann, e Lermontov assai più vicino di Goethe.
Tu non puoi immaginare quanta segreta nostalgia ho di tante cose. A volte mi dicono: Sei un
bell'originale! Cos'hai visto di buono laggiù, che cosa ti attira verso i russi? Come spiegare che là
è trascorsa tutta la mia gioventù, e che la vita è un eterno addio ai giorni che fuggono... Come
potrei voltare le spalle, da ragazzino offeso, ai nove anni in cui il destino mio coincise coi vostri?
Come spiegare perché mi batte forte il cuore se sento alla radio una canzone popolare russa?
Canto tra me e me a mezza voce "Sfreccia la rapida troika" e questo mi fa così male che non ho
più la forza di continuare a cantare. I miei figli mi chiedono di insegnargli il russo. Aspettate,
ragazzi, per chi credete che raccolga dei libri russi?... »

146
non lo conoscono vengono sottoposti alla rasatura. Ma Rudčuk
conosceva i propri diritti e aveva conservato i suoi capelli
ondulati color castano chiaro, un po' più lunghi di come li por-
tano di solito gli uomini. Li curava, come curava del resto tutto il
suo aspetto. Era attraente, alto, snello, con una gradevole voce di
basso, lo si poteva benissimo immaginare durante una funzione
solenne in una immensa cattedrale. Drozdov, il fabbriciere che
era arrivato nel nostro stesso convoglio, riconobbe subito
l'arcidiacono: officiava nella cattedrale di Odessa.
Ma il suo aspetto e il suo genere di vita non assomigliavano a
quelli del nostro mondo, il mondo degli zek. Era di quei dubbi
personaggi che si erano intrufolati o che erano stati intrufolati
nella chiesa ortodossa dal giorno che questa aveva smesso di
essere in disgrazia: essi contribuirono enormemente a screditare
la chiesa. E la storia di come Rudčuk era finito in prigione era
oscura, non si sa perché mostrava una foto (chissà perché non
confiscata) che lo rappresentava in una via di New York con il
metropolita d'oltre frontiera Anastasij. Nel lager viveva in una
cabina individuale. Tornato dall'adunata, dove dipingeva, con
un'espressione di disgusto in viso, i numeri sui nostri berretti,
giubbe e calzoni, passava la giornata a non far niente, ogni tanto
pitturava copie piuttosto rozze di qualche mediocre dipinto.
Deteneva impunemente presso di sé un grosso volume di
riproduzioni di dipinti della pinacoteca Tret'jakov e fu a causa di
essi che capitai da lui: volevo vederli, forse per l'ultima volta in
vita mia. Riceveva nel lager il « Messaggero del Patriarcato di
Mosca » e discorreva talvolta con sussiego di santi martiri o di
particolari liturgici, ma sempre in modo affettato e insincero.
Aveva anche una chitarra ed è la sola cosa che praticasse con
sincerità: accompagnandosi lui stesso, cantava con voce
gradevole:

II vagabondo traversò il Bajkal...

facendo sentire anche con il dondolio del corpo fino a che


punto fosse stretto dalla dolente aureola del galeotto.
Meglio vive un uomo nel lager e più sottilmente soffre...
A quel tempo ero cauto alla ennesima potenza, e non ritornai

147
più da Rudčuk, sul mio conto non gli avevo raccontato nulla, e
così sfuggii, verme insignificante e inoffensivo, ai suoi occhi
penetranti. L'occhio di Rudčuk era l'occhio della MGB.
Del resto, in generale, chi dei vecchi detenuti ignora che le
KVČ pullulano sempre di delatori e sono il luogo forse meno
adatto per gli incontri e contatti personali? D'accordo, nei lager
ITL comuni si era attirati alla KVČ perché uomini e donne vi si
potevano incontrare. Ma in un lager di galeotti, perché fre-
quentarla?
Tuttavia risultò che la KVČ, nido di delazione, poteva essere
sfruttata per la libertà! Me lo insegnarono Georgij Tenno, Petr
Kiškin e Ženja Nikišin.
Fu proprio nella KVČ che Tenno ed io facemmo conoscenza;
se ricordo così bene quell'unico incontro è perché mi è rimasto
molto impresso Tenno stesso. Era un uomo snello, alto, dal por-
tamento sportivo. Non so perché non gli avevano ancora tolto,
allora, la giubba e i calzoni da marinaio (da noi, si finiva di
godersi la propria roba ancora per un mesetto). Sebbene al posto
delle spalline di capitano di fregata inalberasse qua e là il numero
SCh-520, avreste ancora detto che da un momento all'altro
avrebbe lasciato la terraferma per guadagnare la tolda della sua
nave, tanto il suo aspetto era quello tipico di un ufficiale di
marina. Quando si muoveva scopriva gli avambracci coperti di
peluria rossiccia, su uno era tatuata, intorno a un'ancora, la parola
« Liberty! », sull'altro Do or die.1 Tenno, inoltre, non era capace
di chiudere gli occhi o di stornare lo sguardo per nascondere il
suo orgoglio e la sua perspicacia. E neanche poteva nascondere il
sorriso che gli illuminava le grosse labbra. (Allora non lo sapevo
ancora: quel sorriso significava: il piano dell'evasione è pronto.)
Eccolo, il lager! un campo minato. Tenno ed io eravamo tutti
e due qui senza esserci: io ero sulle strade della Prussia orien-
tale,* lui nella sua futura, ennesima evasione, portavamo in noi il
potenziale di segreti progetti, ma neppure una scintilla
1
« Libertà! » e « Fare o morire » [in inglese nel testo. N.d.c.].
* Cioè, stava componendo il poema Notti prussiane.

148
doveva scoccare dalle nostre mani mentre ce le stringevamo, dai
nostri occhi, mentre ci scambiavamo parole superficiali. Così ci
dicemmo delle cose insignificanti, io ficcai il naso in un giornale,
lui parlò di uno spettacolo di dilettanti con Tumarenko, un
galeotto condannato a quindici anni eppure direttore della KVČ,
uomo molto stratificato, piuttosto complesso, che io un giorno
credetti di aver capito senza peraltro aver più l'occasione di
verificare la mia intuizione.
Per quanto ridicolo possa sembrare, presso la KVČ esisteva
anche un circolo di attività artistiche di dilettanti, o meglio si
stava appena costituendo. Il circolo era talmente privo dei pri-
vilegi degli ITL, così poco incoraggiato nella sua attività, che
soltanto i più incorreggibili entusiasti potevano frequentarlo.
Tale risultò essere Tenno, sebbene a vederlo si potesse sperare
meglio da lui. Anzi, fin dal primo giorno del suo arrivo a
Ekibastuz, era stato rinchiuso nella režimka e da lì, a forza di
insistere, aveva finito per ricevere l'autorizzazione ad andare alla
KVČ. Le autorità avevano interpretato il fatto come un sintomo
iniziale di emendamento e gli avevano accordato l'autorizzazione
richiesta.
Petja Kiškin non aveva niente a che fare con l'attività amato-
riale della KVČ eppure era l'uomo più celebre del lager. Lo co-
nosceva tutta Ekibastuz. Il cantiere dove andava lui ne era
orgoglioso; di sicuro quel giorno non ci si sarebbe annoiati.
Kiškin era una specie di innocente, ma non aveva niente di un
innocente, fingeva d'essere scemo ma da noi si diceva: « Kiškin è
più intelligente di tutti quanti! ». Era scemo esattamente quanto
l'Ivanuška cadetto della favola. Kiškin era un fenomeno
tipicamente russo, nostro, immemorabile: colui che dice la verità
ai potenti e ai malvagi, a voce alta e intelligibile, che mostra al
popolo qual è la sua vera natura e il tutto sotto una forma
apparentemente sciocca e innocua.
Uno dei suoi ruoli preferiti consisteva nell’infilarsi una specie
di panciotto verde da clown e raccogliere le scodelle sporche
dalle tavole. Era già una dimostrazione: l'uomo più popolare del
lager raccoglie le scodelle per non crepare di fame. Seconda ra-
gione: raccogliendo le scodelle, accennando passi di danza, fa-

149
cendo smorfie, centro permanente dell'attenzione, si trovava per
tutto il tempo in mezzo ai rabotjaga, le bestie da soma del lager,
e seminava idee ribelli.
Ora tirava bruscamente via dalla tavola a uno sgobbone la sua
scodella con la pappa di semola ancora intatta. Quello, che si
accingeva appena a consumare la sua sbobba, trasaliva, afferrava
la scodella, e Kiškin diventava tutto un sorriso (aveva una faccia
a forma di luna, ma non priva di crudeltà):
« Finché non vi si tocca la pappa non vi accorgete di nulla! »
E via, a passo di danza, con una montagna di scodelle.
Il giorno stesso, e non certo in quella sola brigata, i ragazzi si
sarebbero raccontati l'ultima trovata di Kiškin.
Un'altra volta si china su una tavola, tutti si voltano verso di
lui, alzando la faccia dalle scodelle. Roteando gli occhi come un
gatto a molla, un'espressione completamente idiota, Kiškin
domanda:
« Ragazzi! Il padre è un idiota, la madre una prostituta,
avranno da mangiare o bisognerà che tirino la cinghia? »
E senza aspettare la risposta, troppo ovvia, punta il dito sulla
tavola dove son state servite lische di pesce:
« Sette-otto miliardi di pud* all'anno, provate un po' a divi-
derle per duecento milioni!».
E scappa via. L'idea, la sua idea, è semplicissima! Com'è che
non abbiamo fatto anche noi questo calcolo? È da un bel po' che
strombazzano in giro che il nostro raccolto di grano è di otto
miliardi di pud all'anno, fa dunque, di pane cotto e al giorno, due
chilogrammi a testa contando anche i neonati. Noi siamo uomini
fatti, lavoriamo da mattina a sera la terra, dove sono i nostri due
chili?
Kiškin varia le sue formule. A volte sviluppa la stessa idea
cominciando dal capo opposto, con un « corso sul sovrappeso del
pane ». Per fare i suoi discorsi approfitta del momento in cui la
colonna è ferma davanti al posto di guardia del cantiere o del
lager e si può parlare. Uno dei suoi slogan costanti è:
* Un pud equivale a circa 16 chilogrammi,

150
« Coltivate la faccia! » « Giro per la zona, ragazzi, e guardo:
avete tutti certe facce da sottosviluppati! Non fate altro che
pensare alla vostra scodella di semola, e basta. »
Oppure, di punto in bianco, senza una ragione al mondo, grida
davanti a una folla di zek: « Dardanel! Basta con le idiozie! »
Parrebbe incomprensibile. Ma lo urla una volta, una seconda e
tutti cominciano a capire chiaramente chi è questo Dardanel, e
sembra ormai tanto divertente e azzeccato che par di vedere
perfino i sinistri baffoni di quel viso, è lui, Dardanel.
Cercando per parte sua di mettere in ridicolo Kiškin, il capo
gli chiede ad alta voce davanti al corpo di guardia: « Che cos'hai
dunque, Kiškin, che sei così calvo? Non te lo menerai troppo? ».
Senza un attimo di esitazione, Kiškin replica davanti a tutti: «
Sarebbe a dire che se lo menava anche Vladimir Il'ič,* o sbaglio?
»
Un'altra volta Kiškin fa il giro della mensa e annunzia che
quest'oggi, dopo la raccolta delle scodelle, insegnerà il
charleston ai dochodjaga.**
Ma ecco, all'improvviso, un evento mirabolante: è arrivato il
cinema. La sera, in quella stessa mensa, proiettano il film, senza,
schermo, direttamente sul muro bianco. È pieno di gente da
scoppiare, hanno preso posto sulle panche, sui tavoli, in mezzo ai
tavoli, uno sopra l'altro. Ma non si è ancora concluso il primo
tempo che interrompono la proiezione. Il fascio di luce bianca e
vuota cade sul muro e vediamo quanto segue: sono entrati alcuni
guardiani e si cercano un posto comodo. La loro scelta è caduta
su una panca, e comandano a tutti i detenuti che la occupano di
liberarla. Quelli non si decidono ad alzarsi, son tanti anni che
non vedono un film, e vorrebbero goderselo in pace. Le voci dei
guardiani si fanno più minacciose, qualcuno dice: «Su, prendigli
i numeri! ». Chiuso, bisognerà cedere. Improvvisamente risuona,
per tutta la sala buia, acuta come quella di un gatto, beffarda e a
tutti familiare, la voce di Kiškin:
* Nome e patronimico di Lenin.
** Si veda nota * a p. 140.

151
« Via, ragazzi, è giusto, i guardiani non hanno altre occasioni
di andare al cinema, andiamocene. »
Esplode una risata generale. Oh, riso! Oh, super forza! Tutto il
potere è dalla parte loro, ma i guardiani, senza aver segnato i
numeri, sono costretti a battere in ritirata scornati.
« Dov'è Kiškin? » urlano.
Ma la voce di Kiškin non si sente più, Kiškin non c'è più.
I guardiani se ne vanno, la proiezione riprende.
L'indomani Kiškin è chiamato dal capo del regime discipli-
nare. Stavolta i suoi cinque giorni non li scapola! No, invece,
torna sorridente. Ha scritto la seguente nota esplicativa: « Du-
rante una discussione fra guardiani e detenuti a proposito dei
posti al cinema ho invitato i detenuti a cedere, come è doveroso,
e andarsene. » Punirlo per una cosa del genere?
Anche questa passione insensata dei detenuti per gli
spettacoli, che li rende capaci di dimenticare se stessi, la loro
disgrazia e umiliazione per uno spezzone di pellicola o uno
spettacolo dove, in modo per loro offensivo, tutto riveste le tinte
più rosee, è messa abilmente in ridicolo da Kiškin. Prima di uno
spettacolo o di un film, si raccoglie sempre una piccola folla che
aspira ad entrare, ma la porta tarda ad aprirsi, si aspetta il
guardiano capo che farà entrare le brigate migliori in base a un
elenco. Si aspetta in piedi, gregge compatto e servile, ammac-
candosi le costole a vicenda. Dietro la folla, Kiškin si cava gli
stivali, con l'aiuto dei vicini si arrampica sulle spalle degli ultimi
e, così scalzo, corre agile e lesto di spalla in spalla, avanti, sulle
spalle della folla, fino alla porta tanto desiderata! Bussa a questa
porta, dimenandosi con tutto il suo corpo minuto di clown,
mostrando come brucia dal desiderio di avere un posto là
dentro!, e poi, altrettanto rapidamente, di spalla in spalla, corre
indietro e scende con un balzo. Prima la folla ride. Ma
contemporaneamente la penetra un senso di vergogna: è vero,
stiamo qui come tanti pecoroni. Ci siamo stufati! Mai visto uno
spettacolo!?
E tutti si disperdono. Quando arriva il guardiano con l'elenco
non rimane quasi nessuno da far entrare, nessuno fa ressa,
neanche a cacciarli dentro a bastonate.

152
Un'altra volta, nella spaziosa mensa, sta per cominciare tut-
tavia uno spettacolo. Tutti hanno già preso posto. Kiškin questa
volta non boicotta la rappresentazione. È lì anche lui col suo
panciotto verde, porta e riporta via delle sedie, aiuta a sistemare
il sipario. Ogni sua apparizione suscita applausi e approvazione
in sala. Improvvisamente corre sul proscenio, come se qualcuno
lo inseguisse, e agitando preventivamente la mano grida: «
Dardanel! Basta idiozie! ». Grandi risate. Si direbbe che c'è un
ritardo: il sipario è tirato, la scena è vuota, non c'è nessuno.
Immediatamente Kiškin fa irruzione sul palcoscenico. Ridono di
lui, poi ammutoliscono: non solo non ha più niente di comico,
ma ha l'aria di un demente, gli occhi stralunati, fa paura a
guardarlo. Declama tremando, e guardandosi intorno con
sguardo torbido:

Che vedo attorno a me, che cosa sento?


Il sangue, ed i gendarmi e i colpi forti,
i corpi degli uccisi e lo sgomento,
un padre con il figlio, insieme, morti.*

Si rivolge agli ucraini, la metà della sala! Per gente appena


arrivata da territori in subbuglio, è come del sale su una ferita
fresca! Lanciano delle urla. Un guardiano, sul palcoscenico, già
si precipita su Kiškin. Ma il viso tragico di Kiškin si dissolve
improvvisamente in un sorriso di clown. E grida, in russo questa
volta:
« Quand'ero in quarta, ci hanno fatto studiare questa poesia
sul Nove gennaio! »**
E sparisce dalla scena zoppicando buffamente.
Quanto a Ženja Nikišin, era un ragazzo semplice e gradevole,
con una faccia aperta e lentigginosa. (I ragazzi come lui un
tempo erano numerosi in campagna, prima che la si facesse a
pezzi. Oggi predominano espressioni malevole.) Ženja aveva un
filo di voce, cantava volentieri per gli amici in un angolo della
baracca e anche sul palcoscenico.
* In ucraino nel testo.
** Il 9 gennaio 1905 (« Domenica di sangue ») a Pietroburgo le truppe spararono su una folla
di operai diretti al Palazzo d'Inverno per presentare una petizione allo zar. Ci furono centinaia di
morti e feriti.

153
Ed ecco, un bel giorno, l'annuncio:
« Moglie, moglietta mia. Musica di Mokrousov, parole di
Isakovskij. Esegue Ženja Nikišin con accompagnamento di
chitarra.»
La chitarra emette una melodia semplice e mesta. E Ženja,
davanti alla sala piena, intona con semplicità una canzone che
esprime tutto ciò che la nostra tenerezza ha ancora di non
completamente inaridito, di non completamente spento.

Moglie, moglietta mia!


Tu sola, solo tu,
solo tu sei dentro nel mio cuore!

Solo tu. Sopra il palcoscenico si stinge il lungo slogan insi-


pido sul piano di produzione. Nell'oscurità bluastra della sala si
spengono per un momento gli anni di lager, i lunghi anni vissuti,
i lunghi anni che restano da vivere. Tu sola, solo tu! Non la
nostra inesistente colpa davanti al potere, non i nostri conti con
esso. Non le nostre occupazioni lupesche... Tu sola, solo tu...

Tu che mi sei cara,


ovunque io sia
tu sei la più cara, solo tu sei mia.

La canzone della separazione interminabile. Dell'assenza.


Dello smarrimento. Com'era adatta alla situazione! Ma nessuna
allusione diretta alla prigione. Tutto poteva essere benissimo
riferito alla lunga guerra.
E, poeta clandestino io stesso, non mi soccorse l'intuizione:
allora non capii che quelle che erano risuonate sul palcoscenico
erano, ancora una volta, parole di un altro poeta clandestino (ma
quanti erano?!), però più flessibile di me, più atto alla popolarità.
E cosa gli fai? puoi esigere lo spartito, in un lager? controllare
se davvero è di Isakovskij, e di Mokrousov? Avrà senz'altro detto
che ricordava la canzone a memoria.
Nell'oscurità bluastra, seduti, o in piedi, un duemila uomini.
Immobili, silenziosi come se fossero altrove. Induriti, crudeli,

154
mutati in pietra, sono presi al cuore. Dunque le lacrime sgorgano
ancora, non hanno dimenticato la strada.

Moglie, moglietta mia!


Tu sola, solo tu,
Solo tu sei dentro nel mio cuore!...

155
VI Un fuggiasco convinto

Quando Georgij Pavlovič Tenno racconta oggi le evasioni


passate, le sue, quelle dei suoi compagni o altre di cui ha soltanto
sentito parlare - se vuole riferirsi ai più irriducibili e tenaci: Ivan
Vorob'ev, Michail Chajdarov, Grigorij Kudla, Chafiz Chafizov,
dice con elogio: « Era un fuggiasco convinto! ».
Fuggiasco convinto è un uomo che non dubita un istante che
un uomo non ha il diritto di vivere dietro le sbarre, neppure fra i
pridurki più privilegiati, neppure alla contabilità, alla KVČ o al
taglio del pane. Un uomo che sin dal primo istante della sua
prigionia pensa all'evasione tutto il santo giorno e sogna l'eva-
sione di notte. Un uomo che ha firmato l'impegno a essere in-
transigente e subordina ogni sua azione a un solo e unico pro-
getto: l'evasione. Un uomo che non passa inattivo una sola
giornata nel lager: o sta preparandosi alla fuga o sta per l'appunto
fuggendo, o è stato ripreso, bastonato e rinchiuso per punizione
nella prigione del lager.
Un fuggiasco convinto! è un uomo che sa quello cui va in-
contro. Ha visto i cadaveri di evasi uccisi esposti a mo' di
esempio sul piazzale dell'adunata. Ha visto anche quelli che
hanno riportato vivi: pelle bluastra, costretti a fare il giro delle
baracche gridando e sputando sangue: « Guardate, detenuti, co-
me sono ridotto! Sarà lo stesso con voi! ». Sa che il cadavere di
un fuggiasco catturato è per lo più troppo pesante perché ci si dia
la pena di riportarlo nel lager. Ci si accontenta quindi di riportare
in un sacco la sua testa oppure (procedura più rego-

156
lare ai sensi del regolamento) la mano destra con l'avambraccio,
perché la Sezione speciale possa controllare le impronte digitali e
cancellare l'uomo dagli elenchi.
Un fuggiasco convinto! è un uomo contro il quale si murano
le sbarre alle finestre; contro il quale la zona è recintata con
decine di barriere di filo di ferro spinato, circondata di torrette,
palizzate, steccati; contro il quale si dispongono posti di blocco,
agguati, si nutrono di carne purpurea minacciosi cani grigi.
Un fuggiasco convinto! è inoltre un uomo che rifiuta i debili-
tanti rimproveri dei filistei del lager: « Per colpa degli evasi
staranno peggio gli altri! rafforzeranno la disciplina! dieci con-
trolli al giorno! allungheranno la sbobba! ». Un uomo che
scaccia lontano da sé i mormorii degli altri detenuti e non
soltanto i mormorii di rassegnazione (« si può vivere anche in un
lager, soprattutto se si ricevono pacchi da casa ») ma anche quelli
di protesta, gli scioperi della fame, considerando che quello non
è combattere ma un ingannare se stessi. Fra tutti i mezzi di lotta
egli ne conosce uno solo, crede in uno solo, lavora per uno solo:
la fuga.
Non può diversamente. È fatto così. Come un uccello non è
libero di rinunziare alle sue migrazioni stagionali, così il fuggia-
sco convinto non può far a meno di evadere.
Negli intervalli fra due evasioni non riuscite alcuni pacifici
detenuti chiedevano a Georgij Tenno: « Perché non te ne stai un
po' fermo? Che bisogno hai di scappare? Cosa ci trovi, nella
libertà, soprattutto al giorno d'oggi? ». « Come, cosa ci trovo? »
si stupiva Tenno. « La libertà! Passare ventiquattr'ore nella tajga
senza catene, questa è la libertà! »
Uomini come lui, come Vorob'ev, il GULag e gli organi quasi
non ne conobbero nella loro epoca media, l'epoca dei conigli.
Simili detenuti si sono visti soltanto nei primissimi tempi e poi
soltanto dopo la guerra.
Tenno era così. In ogni nuovo lager (e fu trasferito parecchie
volte) agli inizi era abbattuto, malinconico, finché non maturava
in lui un piano di evasione. Quando il piano si delineava Tenno
si illuminava tutto e un sorriso gli trionfava sulle labbra.
E quando cominciarono, ricorda, la revisione generale di tutte

157
4. Georgij Ivanovič Tenno

le pratiche e delle « riabilitazioni », si sentì cadere le braccia: la


speranza della
ella riabilitazione minava la sua volontà di evadere.
La sua complessa vita non troverebbe posto in questo libro.
Ma la stoffa del fuggiasco l'ebbe fin dalla nascita. Ancora
ragazzino fuggìì dall'internato di Brjansk « in America », ossia in
barca giù per ill fiume Desna; da un orfanotrofio di Pjatigorsk
fuggì d'inverno, con indosso la sola biancheria e scavalcando un
cancello
cello di ferro, per rifugiarsi dalla nonna. Ed ecco una cosa
veramente
mente originale: nella sua vita s'intrecciano due linee:
marina e circo. Si diplomò in una scuola navale, fu marinaio su
un rompighiaccio, nostromo su un motopeschereccio, ufficiale di
rotta nella flotta mercantile. Terminò gli studi all'istituto di
lingue estere, fece la guerra sul fronte settentrionale, come uffi
uffi-
ciale di collegamento
legamento su navi di scorta inglesi. Si recò in Islanda

158
e in Inghilterra (foto 4). Ma al tempo stesso si dilettò di acrobazia
fin dall'infanzia, si esibì nei circhi all'epoca della NEP e più tardi,
negli intervalli fra una navigazione e l'altra, fu allenatore alla
sbarra fissa; si esibì in numeri di « mnemotecnica », « ricordando
» serie di numeri e parole, « indovinando » i pensieri a distanza.
Il circo e la vita dei porti lo portarono a contatto con la malavita:
gli era rimasto qualcosa del loro linguaggio, del loro spirito
d'avventura, del piglio, della temerarietà. Rinchiuso in seguito
con dei delinquenti, in numerosi carceri a regime duro, ne attinse
sempre qualcosa di nuovo.
Tutte cose che si rivelarono molto utili per un fuggiasco
convinto.
Tutta l'esperienza di un uomo si accumula in lui; è così che ci
formiamo.
Nel 1948 fu improvvisamente smobilitato. Era già un segnale
venuto dall'altro mondo (conosce le lingue, ha navigato su navi
inglesi, per di più è un estone, anche se nato e vissuto a Pie-
troburgo), ma noi non ci stanchiamo mai di sperare il meglio.
Alla vigilia di Natale dello stesso anno, a Riga, dove il Natale è
ancora così sentito e dove la festa è grande in quei giorni, fu
arrestato e condotto in un sotterraneo di via Amatu, accanto al
conservatorio. Entrando nella sua prima cella non si trattenne e
spiegò chissà perché al secondino, taciturno e indifferente: «
Proprio stasera io e mia moglie dovevamo andare a vedere il
Conte di Montecristo, lui ha lottato per la libertà e nemmeno io
mi rassegnerò ».
Ma era troppo presto per lottare. Infatti noi siamo sempre
dominati dall'idea che possa trattarsi di un errore. La prigione?
perché? non è possibile! Si chiarirà come stanno le cose! Prima
del trasferimento a Mosca lo rassicurarono a bella posta (si fa per
rendere più sicuro il tragitto), il capo del controspionaggio,
colonnello Morščinin, andò addirittura a salutarlo alla stazione,
gli strinse la mano: « Vada tranquillo ». Contando la scorta
speciale erano in quattro e viaggiavano in uno scompartimento
riservato di prima classe. Il maggiore e il tenente, dopo aver
discusso come avrebbero passato allegramente il Capodanno a
Mosca (forse le scorte speciali sono state inventate apposta per

159
missioni del genere?), si sdraiarono sulle cuccette superiori e
sembrarono addormentarsi. Sull'altra cuccetta inferiore stava
allungato il maresciallo maggiore. Si muoveva ogni volta che
l'arrestato apriva gli occhi. In alto splendeva fioca una lampadina
blu. Tenno aveva sotto il capo il primo e ultimo « pacco » di sua
moglie: una ciocca dei suoi capelli e una tavoletta di cioccolata.
Sdraiato meditava. Il battito delle ruote era piacevole. Possiamo
dargli il senso che vogliamo e fargli predire ciò che ci piace. Per
Tenno, era pieno di speranza: « Sarà tutto chiarito ». Per questo
non pensava seriamente a fuggire. Si limitava ad esaminare come
avrebbe potuto fare, nel caso. (Più d'una volta, in seguito,
avrebbe ricordato quella notte sbuffando di rabbia. Mai più
sarebbe stato così facile scappare, mai più la libertà sarebbe stata
così a portata di mano!)
Nel corso della notte Tenno andò due volte al gabinetto per un
corridoio deserto, il maresciallo maggiore lo seguiva. La sua
pistola era appesa a un lungo cordone, come la portano i marinai.
Si infilò nel gabinetto insieme all'arrestato. Per un uomo pratico
di judo e lotta libera come Tenno, sarebbe stato un gioco da
ragazzi stenderlo sul posto, togliergli l'arma, intimargli di tacere
e andarsene tranquillamente alla prima fermata.
La seconda volta il maresciallo maggiore non ebbe voglia di
entrare in un luogo così angusto e rimase fuori della porta. Si
poteva spaccare il vetro, saltare sulla massicciata. Era notte
fónda! Il treno non era molto veloce (si era nel 1948) e faceva
frequenti fermate. Certo, era inverno, Tenno era senza cappotto e
aveva soltanto cinque rubli in tasca, ma non gli era ancora stato
confiscato l'orologio.
Il lusso della scorta speciale finì alla stazione di Mosca. Atte-
sero che tutti i passeggeri fossero scesi dal vagone, poi entrò un
maresciallo dalle mostrine celesti uscito da un cellulare: « Dov'è?
».
Immatricolazione, insonnia, dei box, degli altri box ancora.
Ingenua richiesta di vedere il giudice istruttore. Il secondino
sbadiglia: « Hai voglia, ti verrà a noia ».
Ecco il giudice istruttore. « Su, dimmi un po' delle tue atti-

160
vità criminali. » « Non sono colpevole di nulla. » « Soltanto papa
Pio non ha peccati. »
In cella, a tu per tu con « la chioccia ».* Questa fa di tutto per
venire a sapere qualcosa: raccontami com'è andata in realtà.
Qualche interrogatorio, e tutto diventa chiaro: non intendono
chiarire proprio niente, non ti rilasceranno. E dunque bisogna
fuggire.
La fama universale della prigione di Lefortovo non scoraggia
Tenno. Forse è come un novellino al fronte; non avendo provato
nulla non ha paura di nulla. È lo stesso giudice istruttore, Ana-
tolij Levsin, a suggerire il piano dell'evasione. E glielo
suggerisce diventando rabbioso, dimostrandogli odio.
Gli uomini, i popoli hanno ciascuno il suo metro. Quanti
milioni di uomini hanno sopportato le percosse fra queste mura
senza neppure chiamarle torture? Ma per Tenno l'idea che lo si
possa percuotere impunemente è intollerabile. È un oltraggio,
meglio non vivere più. Quando Levsin, dopo le minacce verbali,
per la prima volta gli si avvicina con i pugni alzati, Tenno balza
in piedi e risponde, tremando di furore: « Bada! Tanto io non ne
ho per molto! Comunque ti posso sempre cavare un occhio, o
anche tutti e due! Questo lo posso fare! »
E il giudice istruttore indietreggia. Questo scambio di un suo
occhio buono per la vita marcia d'un detenuto non gli va per
niente. Intanto sfinisce Tenno a colpi di soggiorni in cella di
rigore. Poi gli organizza una messa in scena: la donna che Tenno
sente urlare di dolore nell'ufficio attiguo è sua moglie; se lui non
confessa, lei verrà torturata ancora peggio.
Ancora una volta il giudice non aveva ben valutato con chi
aveva a che fare. Come non potè sopportare il pugno, così Tenno
non poteva sopportare l'interrogatorio della moglie. Sempre più
chiaramente sentiva di dover ammazzare quel giudice istruttore.
La cosa si combinava bene con il piano d'evasione! Il maggiore
Levsin portava anche lui un'uniforme della marina, era anche lui
di alta statura, anche lui biondo. La sentinella di guardia
all'entrata degli uffici istruttori poteva benissimo scam-
* Provocatore-delatore al servizio della polizia.

161
biare Tenno per Levšin. Veramente quest'ultimo aveva la faccia
piena e benpasciuta, mentre Tenno si era smagrato molto. (Per un
detenuto non è facile vedersi allo specchio. Anche se, nel corso
di un interrogatorio, chiede di andare al gabinetto, là lo specchio
è coperto da una tendina nera. Se ne hai l'occasione, un gesto, e
la scosti: oh, come sei malridotto, come sei pallido! Che pietà di
se stesso!)
Intanto l'inutile delatore è stato trasferito. Tenno esamina
attentamente il letto che ha lasciato. Nel punto di giuntura con la
gamba del letto, la barra trasversale metallica è arrugginita, la
ruggine ha intaccato lo spessore, la ribaditura tiene a malapena.
Lunghezza della barra: settanta centimetri circa. Come fare per
strapparla via?
Prima cosa da fare... allenarsi a un conteggio regolare dei
secondi. Poi calcolare, per ogni carceriere, l'intervallo di tempo
che intercorre fra due guardate attraverso lo spioncino (natural-
mente, per ogni secondino di guardia, bisogna cercare di mettersi
nei suoi panni, di figurarselo che va e viene liberamente per il
corridoio). L'intervallo varia dai quarantacinque ai sessantacin-
que secondi.
In uno di questi intervalli, uno sforzo, e la barra scricchiola
dalla parte dell'estremità arrugginita. L'altra estremità è integra, è
più difficile spezzarla. Bisognerebbe saltarci sopra a piedi uniti,
ma la barra farebbe rumore cadendo per terra. Dunque in uno
stesso intervallo bisogna riuscire a: disporre il guanciale sul
pavimento di cemento, saltare, rompere, rimettere il guanciale al
suo posto e la barra, diciamo, nel proprio letto. E tutto senza
smettere di contare i secondi.
Si è spezzata. È fatta!
Ma non è una soluzione: basta che entrino e la trovino, perché
tu perisca in cella di rigore. Venti giorni e venti notti di cella di
rigore significa dover rinunciare non solo all'evasione ma anche
a resistere al giudice istruttore. Ah, ecco: con le unghie lacerare
leggermente il materasso, toglierne un po' d'imbottitura.
Avvolgere con questa le estremità della barra e riappoggiarla
nella sua sede. Contare i secondi! Fatto, a posto.
Ma anche questo non può durare a lungo. Una volta ogni

162
dieci giorni c'è il bagno, durante il quale perquisiscono le celle.
Possono scoprire la barra rotta. Dunque bisogna agire al più
presto. Come portare la barra all'interrogatorio? All'andata non ci
sono perquisizioni. Vi palpano soltanto al ritorno dall'inter-
rogatorio, e solo dove ci sono delle tasche. Cercano delle lamette
da barba, temono i suicidi.
Tenno, sotto la giubba, porta la maglia tradizionale dei mari-
nai, che gli riscalda il corpo e lo spirito. « In alto mare, bello
sognare. » Chiede al secondino un ago (lo prestano solo in deter-
minate ore), per attaccare dei bottoni, dice, fatti col pane. Si
sbottona la giubba, i calzoni, tira fuori un lembo della maglia,
cuce un orlo in basso e ottiene una piccola tasca (per l'estremità
inferiore della barra). Prima ancora ha strappato un pezzo di
laccio dalle mutande. Adesso, fingendo di attaccare un bottone
alla giubba, cuce quel laccio sul rovescio della maglia, sul petto:
un cappio per l'altra estremità della barra.
Ora indossa la maglia col davanti di dietro, e giorno dopo
giorno hanno luogo gli allenamenti. La spranga è sistemata sulla
schiena, sotto la maglia: infilata nel cappio superiore, poggia sul
taschino inferiore. L'estremità superiore della spranga è a livello
del collo, sotto il bavero della giubba. L'allenamento consiste nel
riuscire, fra un'occhiata allo spioncino e l'altra, a portare la mano
alla nuca, afferrare l'estremità della spranga, - flessione del corpo
indietro, raddrizzamento con slancio in avanti come la corda d'un
arco, estraendo nel contempo la spranga - e assestare un colpo
violento sulla testa del giudice istruttore. Poi rimettere il tutto a
posto! Un'occhiata dallo spioncino. Il detenuto sfoglia un libro.
Il movimento riusciva sempre più veloce, già la spranga fi-
schiava nell'aria. Se anche il colpo non risultasse mortale, il
giudice cadrebbe senz'altro a terra svenuto. Avete messo dentro
mia moglie; nessuna pietà per nessuno di voi!
Tenno prepara anche due rullini di ovatta, ricavandoli dal
solito materasso. Si possono infilare in bocca, fra denti e
guancia, e simulare così un viso rubicondo.
Quel giorno bisognerà anche essere rasato per bene, qui inve-

163
ce ti scorticano con un rasoio spuntato, e una volta alla setti-
mana. Dunque è importante la scelta del giorno.
E come fare per arrossarsi le gote? Sfregandosele leggermente
con del sangue. Il sangue di lui.
Un candidato all’evasione non può guardare e ascoltare « tan-
to per fare », come gli altri uomini. Deve guardare e ascoltare
non perdendo mai di vista il proprio scopo, l'evasione. Non deve
tralasciare nessun dettaglio senza considerarlo attentamente. Se
lo accompagnano all'interrogatorio, alla passeggiata, alla latrina,
i suoi piedi contano i passi, i gradini (non tutto servirà, ma
contano lo stesso); il suo corpo nota le svolte; gli occhi abbassati
scrutano il pavimento: di che cosa è fatto, se è intatto; i suoi
occhi si voltano verso destra e verso sinistra fino ai limiti
accessibili e esaminano tutte le porte, doppie, a un solo battente,
il tipo di maniglia e di serratura, in quale senso si aprono; il
cervello valuta la destinazione di ogni porta; le orecchie
ascoltano e confrontano: quel suono l'ho già sentito dalla mia
cella, e questo significa la tal cosa.
Il celebre edificio di Lefortovo a forma di « K »: il suo spazio
centrale unico sul quale si affacciano tutti i piani, le sue gallerie
metalliche, il suo agente che regola il traffico mediante ban-
dierine. Il passaggio che porta al settore istruttorie. Gli interro-
gatori hanno luogo in uffici diversi a turno, tanto meglio! questo
permette di studiare la disposizione di tutti i corridoi e delle porte
di quel settore. Come fanno a entrare i giudici da fuori? Qui,
attraverso questa porta con lo spioncino quadrato. Il controllo
principale dei documenti non è qui, s'intende, ma al corpo di
guardia esterno, tuttavia anche qui si annota o si controlla
qualcosa. Ecco che uno di essi scende e dice a qualcuno in alto: «
Allora io vado al ministero ». Benissimo, la frase servirà al
fuggiasco.
Bisognerà poi indovinare come arrivano al posto di guardia, e
avviarsi sul giusto percorso senza esitazioni. Ma sicuramente c'è
un sentiero tracciato nella neve. Oppure l'asfalto è più scuro e più
sporco. Come passano il posto di guardia? Mostrando un
lasciapassare? Oppure lo hanno depositato entrando e ora di-
chiarano il proprio cognome e lo riprendono? O forse li cono-

164
scono tutti di vista e dichiararsi sarebbe un errore, basterebbe
tendere la mano?
Si possono trovare molte risposte se invece di ascoltare le
sciocche domande del giudice istruttore, lo si osserva attenta-
mente. Per temperare la matita egli prende una lametta da un
libretto che tiene nella tasca davanti. Sorgono subito degli in-
terrogativi:
- Non è un lasciapassare. Ma allora dov'è il lasciapassare? al
posto di guardia?
- Il libretto tessera assomiglia a quello della patente di guida.
Dunque arriva in automobile? ma allora ha in tasca anche la
chiave? La macchina la posteggerà davanti all'entrata della pri-
gione? Bisognerà leggere qui, prima di uscire dall'ufficio, il
numero di targa per non rischiare di far confusione dopo.
Non hanno spogliatoio. Il cappotto e il berretto della marina li
appende qui in ufficio. Tanto meglio.
Nulla va dimenticato, nulla d'importante tralasciato, e bisogna
fare ogni cosa nell'arco di quattro o cinque minuti. Quando lui
sarà stato atterrato bisognerà:
1. togliersi la giacca, indossare la sua, che è più nuova e ha le
spalline;
2. sfilargli i lacci dalle scarpe e infilarli nelle proprie, che
cascano dai piedi: ecco, questo richiederà parecchio tempo;
3. prendergli la lametta da barba e infilarla nel tacco, in un
nascondiglio appositamente preparato (se lo catturano e lo get-
tano nella prima cella che capita, tagliarsi subito le vene);
4. controllare tutti i documenti, prendere quelli che possono
servire;
5. imparare a memoria il numero di targa dell'automobile,
trovare la chiave d'avviamento;
6. infilare la propria pratica nella sua grossa cartella e portarla
via con sé;
7. prendergli l'orologio;
8. spalmarsi le guance di sangue;
9. trascinare il suo corpo dietro la scrivania o la tenda, in
modo che eventuali visitatori lo credano uscito e non si mettano
in allarme;

165
10. infilarsi i rotolini di ovatta sotto le guance;
11. indossare il suo cappotto e il suo berretto;
12. strappare i fili dell'interruttore. Se qualcuno entrasse poco
dopo troverebbe buio, l'interruttore non funziona, dunque è
bruciata la lampadina ed è questa la ragione per cui il giudice se
n'è andato. Ma anche avvitando un'altra lampadina non si
renderebbero subito conto di quanto è successo.
Risultavano così dodici azioni, la tredicesima sarebbe stata
l'evasione stessa... Il tutto da eseguire durante un interrogatorio
notturno. Situazione ancor più grama, certo, se risulta che il
libretto non è la patente. Ciò significherebbe che il giudice arriva
e parte con l'autobus apposito (lavorano di notte, hanno ben
diritto a un trasporto speciale!) e agli altri istruttori sembrerà
strano che Levsin, senza attendere le quattro o le cinque del
mattino, se ne sia ritornato a casa a piedi in piena notte.
Un'altra cosa ancora: passando davanti allo spioncino qua-
drato portarsi il fazzoletto al viso fingendo di soffiarsi il naso; e
al tempo stesso guardare l'orologio; e, per tranquillizzare la
guardia, gridare rivolto verso l'alto: « Perov! (è un suo amico) io
vado al ministero! Se ne parla domani! ».
Certamente le probabilità di successo sono scarsissime, per
ora forse tre, cinque su cento. È quasi disperata la situazione con
il posto di guardia, di cui non sa nulla. Ma non vuole morire qui
da schiavo! e nemmeno indebolirsi al punto da farsi prendere a
calci! Stavolta, avrò la lametta nel tacco!
E a un interrogatorio notturno, subito dopo il turno di rasatura,
Tenno ci andò con la spranga di ferro sulla schiena.
Il giudice istruttore inquisiva, inveiva, minacciava, Tenno lo
guardava sorpreso: possibile che non sente di avere le ore
contate?
Erano le undici di sera. Tenno contava di attendere le due di
notte. A quest'ora, di solito, i giudici cominciano a andarsene, si
concedono la « notte corta ».
Bisognava cogliere il momento: o quando il giudice porge i
fogli del verbale perché Tenno li firmi, come fa sempre: fingere
un malore, spargere i fogli per terra per costringerlo a chinarsi
per un attimo e... oppure alzarsi in piedi, anche senza aspettare

166
il verbale, vacillando, dire che si sente male, chiedere dell'acqua.
Quello porterà la tazza di ferro smaltato (il bicchiere lo tiene per
sé), bisogna bere un sorso e lasciarla cadere, in quel momento
portarsi la mano alla nuca, gesto naturale quando uno si sente
male. Il giudice si chinerà sicuramente per guardare la tazza
caduta per terra, e...
Batticuore. Vigilia della festa. O vigilia del supplizio.
Ma tutto andò diversamente. Verso mezzanotte entrò a passi
rapidi un altro giudice e bisbigliò qualcosa all'orecchio di Levšin.
Non era mai successo prima, Levšin si affrettò a premere un
pulsante perché il guardiano venisse a prelevare il detenuto.
Finito. Tenno tornò in cella, rimise a posto la spranga.
Un'altra volta il giudice lo fece venire quando non era stato
ancora sbarbato (era inutile prendere la spranga con sé).
Poi ci fu un interrogatorio di giorno. Si svolse in modo piutto-
sto bizzarro: stavolta il giudice non ringhiò, lo scoraggiò antici-
pandogli una condanna dai cinque ai sette anni, non aveva ra-
gione di preoccuparsi troppo. E all'improvviso non sentì più in sé
abbastanza rabbia da volergli spaccare la testa: la rabbia di
Tenno risultò poco tenace.
L'ora propizia era passata. Le probabilità di riuscita gli pare-
vano ora troppo esigue, gli pareva di non aver il diritto di
giocarsi la vita a quel modo.
Forse lo stato d'animo d'un fuggiasco è ancor più mutevole di
quello d'un attore.
E tutta la lunga preparazione andò a monte.
Ma un fuggiasco deve essere preparato anche a questo. Tenno
aveva già fatto fischiare la spranga in aria cento volte, aveva già
ucciso cento giudici istruttori. Aveva vissuto in tutti i suoi
dettagli l'intera fuga diecine di volte: ufficio, spioncino quadrato,
posto di guardia, fuori! l'evasione lo aveva estenuato prima di
averla iniziata.
Poco dopo il suo giudice istruttore venne sostituito e lui stesso
trasferito alla Lubjanka. Qui Tenno non si mise a preparare una
fuga (l'andamento dell'istruttoria gli parve più favorevole e la
decisione venne meno), ma osservava assiduamente e compilava
un piano per tenersi in esercizio.

167
Un'evasione dalla Lubjanka? È possibile? A ben pensarci è
forse più facile che da Lefortovo. Si comincia presto a racca-
pezzarsi in quei lunghi, lunghissimi corridoi che ti fanno per-
correre portandoti agli interrogatori. A volte ti capitano davanti
delle frecce: « All'uscita n. 2 », « All'uscita n. 3 » (rincresce di
non essere stato più previdente quando si era libero, di non aver
fatto il giro della Lubjanka, di fuori, per studiarne gli ingressi).
Ciò che rende le cose più facili qui, è proprio il fatto che non ci si
trova nella cinta di una prigione, ma in un ministero, dove
lavorano nugoli di giudici istruttori e di funzionari, che i
guardiani non possono conoscere tutti di vista. Dunque l'ingresso
e l'uscita avvengono unicamente dietro presentazione di un
lasciapassare, che resta nella tasca degli interessati. Se il vostro
istruttore non è conosciuto di vista non occorre assomigliargli
esattamente, basta un press'a poco. Il nuovo giudice istruttore
non è in divisa della marina ma in cachi. Bisognerebbe dunque
scambiare la propria uniforme con la sua. Non servirà più la
spranga, basterà essere decisi. Nell'ufficio ci sono molti oggetti,
per esempio questo fermacarte di marmo. E non è neanche
necessario ammazzarlo, basterebbe stordirlo per una decina di
minuti, il tempo di andarsene.
Ma la ragione e vaghe speranze di chissà quale grazia tolgono
chiarezza alla volontà di Tenno. Soltanto nella prigione di
Butyrki si dissolve il peso: da un foglietto dell'OSO gli leggono il
verdetto: venticinque anni di lager. Lui firma e si sente alleg-
gerito, torna a sorridere, sente che le gambe lo portano spedita-
mente nella cella dei condannati a venticinque anni. Il verdetto lo
libera dall'umiliazione, dal compromesso, dalla docilità, dal
servilismo, dai promessi cinque-sette anni da pezzente: venti-
cinque, accidenti a vostra madre, dunque non c'è da attendersi
nulla di buono da voialtri, dunque evado.
Evasione o morte. Ma la morte è forse peggio di un quarto di
secolo da schiavo? La sola rasatura a zero dopo il processo, una
semplice rasatura, chi ci ha mai fatto caso? è sentita da Tenno
come un insulto, uno sputo in faccia.
Adesso deve cercare alleati. Studiare la storia di altre
evasioni.

168
Tenno è un novellino in questo campo. Possibile che nessuno
sia mai evaso?
Quante volte tutti noi siamo passati, seguendo un secondino,
per le porte di ferro che dividono i corridoi della prigione di
Butyrki, ma pochi hanno notato ciò che Tenno vede subito: i
chiavistelli sulle porte sono doppi, ma il guardiano ne apre uno
solo e la chiusura cede. Dunque il secondo chiavistello è inattivo:
sono tre perni che possono uscire dal muro e infilarsi nella porta
di ferro.
In cella, ognuno ha le sue occupazioni; quanto a Tenno, cerca
soltanto di farsi raccontare di evasioni e di evasi. Trova uno che
si è trovato in un certo pasticcio con quei tre perni: è Manuel
Garcìa. Era successo qualche mese prima. Alcuni detenuti erano
usciti di cella per andare a fare i propri bisogni; immobilizzarono
un secondino (contrariamente al regolamento era solo; bisogna
dire che per molti anni non era mai successo nulla, si erano
abituati alla nostra docilità), lo svestirono, lo legarono, lo
lasciarono nella latrina, uno dei detenuti indossò la sua divisa. I
ragazzi presero le chiavi, corsero ad aprire tutte le celle di quel
corridoio (v'erano anche dei condannati a morte, per loro la cosa
arrivò proprio a puntino!). Urla, entusiasmo, appelli perché si
andasse a liberare gli altri bracci, perché ci si impadronisse
dell'intera prigione. Dimenticarono ogni prudenza. Invece di
preparare in silenzio la fuga cella per cella e permettere sola-
mente al detenuto travestito da secondino di girare per i corridoi,
vi si riversarono in massa, rumorosamente. Fecero tanto di quel
chiasso che il guardiano del corridoio attiguo guardò attraverso
lo spioncino del divisorio (si aprono dai due lati) e premette il
pulsante dell'allarme. A questo segnale d'allarme, da un comando
centrale si bloccano tutti i secondi chiavistelli delle porte
divisorie e i mazzi di chiavi dei secondini non includono quelle
che permetterebbero di aprirle. Il corridoio dei ribelli viene
isolato. Accorre un nugolo di guardie; si schierano in due file e i
detenuti vengono fatti passare in mezzo, ad uno ad uno, e
bastonati a sangue; gli istigatori individuati e portati via. Erano
già condannati al quartino comunque. Ebbero la pena raddop-
piata? Furono fucilati?

169
Trasferimento al lager. La « garitta » della stazione di Kazan',
ben nota a tutti i detenuti, in disparte, beninteso, dai luoghi
affollati. I detenuti ci arrivano in cellulare, e vengono caricati sui
vagon-zek prima che questi vengano agganciati ai treni. File di
soldati di scorta da ambedue i lati, attenti e tesi. Cani che tirano
alla catena, pronti ad azzannare. Un comando: « Scorta, pronti! »
e il mortifero scatto degli otturatori. Qui non scherzano. Anche
lungo i binari si è accompagnati coi cani. Fuggire? Un cane ti
raggiungerebbe.
(Ma il fuggiasco convinto, sempre buttato da un lager all'altro
dopo le evasioni, tradotto da una prigione all'altra, vedrà molte
stazioni, sarà scortato lungo molti binari. A volte non ci saranno
cani. Può fingersi zoppo, malato, trascinarsi a stento, tirarsi
dietro a fatica il proprio sacco e il giaccone: la scorta sarà più
tranquilla. E se vi fossero molti convogli sui binari, si può
fuggire a zig-zag fra di essi. Dunque: buttare la roba, piegarsi e
tuffarsi sotto i vagoni! Ma una volta piegato vedrai dietro al
convoglio gli stivali del soldato di scorta di riserva... Tutto
previsto. Ti basta fingere di essere cascato dalla gran debolezza e
di aver lasciato cadere la roba per questo. Ma se capitasse la
fortuna di un treno in transito, accanto! Sgattaiolare davanti alla
locomotiva: nessun soldato si metterebbe a correre! Tu rischi per
la libertà, ma lui? e quando il treno sarà sfrecciato via, tu non ci
sei più. Ma per questo occorre un duplice colpo di fortuna: un
treno al momento giusto e salvarsi da sotto le ruote.)
Dal transito di Kujbyšev portano i detenuti alla stazione in
autocarri aperti, si sta raccogliendo una grande tradotta rossa.
Nella prigione di transito, da un ladruncolo locale che « rispetta
gli evasi » Tenno ottiene due indirizzi, locali anch'essi, dove
potrà avere i primi aiuti. Corre a comunicare quegli indirizzi a
due volonterosi e si mette d'accordo con essi: tutti e tre cerche-
ranno di sedersi nell'ultima fila e quando la macchina rallenterà a
una curva (Tenno non ha perduto tempo durante il tragitto dalla
stazione al carcere, nel cellulare buio, i suoi fianchi hanno notato
quella svolta, anche se i suoi occhi non l'hanno vista) salteranno
giù tutti e tre. Uno correrà dritto, uno a destra, uno a sinistra,
oltrepassando la scorta, magari travolgendo qualcuno.

170
Spareranno, ma non potranno colpire tutti e tre. E poi chissà se
spareranno, ci sarà gente sulla strada. Li inseguiranno? No, non
si possono abbandonare gli altri nell'autocarro. Dunque gride-
ranno, spareranno in aria. Ma potrebbero essere fermati dai pas-
santi, dal nostro popolo sovietico. Spaventarli fingendo di avere
un coltello in mano! (Il coltello non c'è.)
I tre manovrano durante la perquisizione e indugiano per non
salire in macchina prima della sera, per capitare nell'ultima
mandata. Ecco l'ultima, ma non è un camion da tre tonnellate con
i bordi bassi come tutti i precedenti, bensì una Studebaker con i
bordi alti. Anche Tenno, seduto, ha la testa più bassa dell'orlo.-
La Studebaker fila rapidamente. La curva! Tenno da un'occhiata
ai compagni, hanno il terrore dipinto in faccia. No, non
salteranno giù. No, non sono fuggiaschi convinti (Ma tu lo sei
già diventato davvero?...)
Nell'oscurità, tra fanali, latrati, urla, bestemmie e sferraglia-
mento si fanno salire i detenuti nei carri bestiame. Qui Tenno
viene meno ai propri princìpi, non fa a tempo a esaminare il suo
vagone dall'esterno (un fuggiasco convinto deve vedere tutto per
tempo, non gli è lecito tralasciare nulla!).
Durante le fermate battono ansiosamente i carri con dei
martelli. Battono su ogni asse. Che cosa temono? Che siano
segate. Dunque, bisogna segarle.
Tenno trova (presso i ladri) un piccolo pezzo di lama di col-
tello affilata. Decidono di tagliare un'asse della parete di fondo
sotto i pancacci inferiori. Quando il treno rallenterà si butteranno
nella breccia praticata, cadranno fra le rotaie e aspetteranno
immobili fino a quando il treno sarà passato. Gli esperti dicono
che in fondo a un convoglio di carri bestiame per detenuti può
esservi una draga, un rastrello metallico i cui denti passano bassi
sopra le rotaie; afferrano il corpo del fuggitivo, lo trascinano e
quello muore così.
Tutta la notte, infilandosi a turno sotto il pancaccio, tenendo
con un cencino quella sega di pochi centimetri, tagliano un'asse
della parete. È difficile. Tuttavia un primo taglio è fatto. L'asse
comincia a smuoversi un poco. Attraverso il taglio, verso il

171
mattino vedono dall'altra parte delle assi bianche non piallate.
Come mai? Dunque hanno aggiunto al loro vagone una piatta-
forma supplementare per la scorta. Qui, sopra la breccia, sta
seduta una sentinella. Impossibile continuare a segare.
Le evasioni dei prigionieri, come ogni altra attività umana,
hanno una loro storia, una loro teoria. Non è male conoscerle
prima di accingersi a evadere.
La storia è costituita dalle evasioni già avvenute. Gli agenti
della Sicurezza non pubblicano opuscoli popolari sulla loro tec-
nologia, accumulano l'esperienza per sé. Puoi conoscere la storia
dagli altri fuggiaschi, catturati. La loro esperienza è costata
molto cara, è costata sangue, sofferenze, per poco la vita. Ma
interrogare sui particolari, passo per passo, ora l'uno ora l'altro,
non è uno scherzo, può essere pericolosissimo. È poco meno
rischioso che chiedere come si fa a entrare in una organizzazione
clandestina. Anche i delatori potrebbero udire le vostre lunghe
conversazioni. E soprattutto i fuggiaschi stessi, sottoposti a sup-
plizi dopo la cattura, quando la scelta era fra la vita e la morte,
possono aver vacillato, essersi lasciati arruolare ed essere oramai
un'esca, non un compagno. Uno dei compiti principali dei
padrini è quello di definire in anticipo chi simpatizza con i
fuggiaschi, chi s'interessa alle evasioni e, anticipando le inten-
zioni, fare una nota sulla scheda di quel detenuto; ed eccolo nella
brigata di regime duro, gli sarà assai più difficile evadere.
Ma Tenno interroga con ardore i fuggiaschi, di prigione in
prigione, di lager in lager. Evade, viene ripreso, nelle prigioni,
nei lager è tenuto insieme ad altri evasi, è il luogo migliore per
far domande. (Non evita errori. Stepan, eroico fuggiasco, lo
vende all'agente della Sicurezza di Kengir, Beljaev, e questo
ripete a Tenno tutte le domande da lui fatte.)
Quanto alla teoria delle evasioni, è semplicissima: evadi come
puoi. Se fuggi vuol dire che conosci la teoria. Se ti riprendono
vuol dire che non l'hai assimilata bene. L'abbiccì è questo: si può
fuggire dal cantiere o dalla zona abitata. È più facile fuggire dal
lavoro: i cantieri sono molti, la vigilanza non è continua, capita
di avere tra le mani uno strumento. Evadere da solo è

172
più difficile ma in compenso non ti tradirà nessuno. Fuggire in
compagnia è più facile, ma bisogna essere ben assortiti. Esiste un
altro principio: bisogna conoscere la geografia così da avere la
mappa davanti agli occhi come se ardesse. Ma in un lager non
vedrai una mappa. (A proposito, i ladri non conoscono affatto la
geografia, considerano settentrione quel transito dove l'ultima
volta faceva freddo.) Altro principio: bisogna conoscere la po-
polazione in mezzo alla quale ti troverai una volta fuggito. Altra
esigenza di metodo: devi sempre preparare l'evasione secondo un
piano, ma essere pronto in qualsiasi momento a compierla in
modo del tutto diverso, secondo l'occasione che si presenta.
Eccone una, per esempio. Una volta a Kengir tutti i detenuti
rinchiusi in prigione furono portati fuori per fabbricare saman*
Improvvisamente si alzò un uragano di polvere come ne capitano
nel Kazachstan: tutto si oscura, il sole sparisce, manciate di
polvere e sassolini colpiscono dolorosamente la faccia tanto che
non è possibile tenere gli occhi aperti. Nessuno era pronto a
evadere così repentinamente, ma Nikolaj Krylov corse al recinto,
buttò la giubba sul filo spinato, si arrampicò e tutto graffiato
scappò. La bufera cessò. La giubba abbandonata sul filo spinato
fece capire che un uomo era fuggito. Fu inseguito a cavallo, i
soldati tenevano i cani al guinzaglio. Ma l'uragano aveva
spazzato via ogni traccia. Krylov aspettò che l'inseguimento
cessasse stando nascosto in un mucchio di immondizie.
L'indomani bisognò pur muoversi. E le macchine, mandate in
giro per la steppa a cercarlo, lo ripresero.
Il primo lager di Tenno fu Novorudnoe presso Džezkazgan. È
un luogo di sterminio. Proprio da qui devi fuggire! Intorno è il
deserto, ora saline e dune di sabbia, ora tratti di cotica erbosa o di
alhagi da cammelli. In certi punti vi sono kazachi nomadi con il
loro gregge, in altri non c'è anima viva. Non esistono fiumi, è
quasi impossibile imbattersi in un pozzo. L'epoca migliore per
un'evasione sono i mesi di aprile e di maggio, qua e là si sono
mantenuti laghetti dovuti al disgelo. Ma anche i guardiani lo
sanno benissimo. In quest'epoca diventano più severe
* Mattoni non cotti, fatti con un impasto di argilla, paglia o letame.

173
le perquisizioni di chi va a lavorare, non si permette di portare
con sé un tozzo di pane o un cencio in più dello stretto ne-
cessario.
Quell'autunno, anno 1949, tre fuggiaschi, Slobodjanjuk,
Bazičenko e Kožin, rischiarono una fuga verso il meridione: spe-
ravano di seguire il corso del fiume Sara-Su verso Kzyl-Orda.
Ma il fiume era completamente a secco. Furono catturati quando
stavano per morire di sete.
La loro esperienza insegnò a Tenno a non evadere d'autunno.
Frequentava assiduamente e con ostentazione la KVČ: infatti non
era un fuggiasco o un ribelle, ma uno di quei savi detenuti che
intendono correggersi verso la fine della pena di venticinque
anni. Aiutava come poteva, prometteva di metter su uno spet-
tacolo dilettantesco di acrobazia e mnemotecnica e intanto, sfo-
gliando tutto quanto gli capitava sottomano, trovò una mediocre
carta del Kazachstan, inavvertitamente lasciata incustodita dal «
padrino ». Bene. Esiste una carovaniera per Dzusali, trecen-
tocinquanta chilometri, potrebbero esservi dei pozzi. Poi quat-
trocento chilometri a nord verso Isima, là potrebbero esservi dei
prati. In direzione del lago Balchas sono cinquecento chilometri
di deserto totale, il Bet-Pak-Dala.* È dubbio che si mettano
all'inseguimento in questa direzione.
Tali le distanze. Tale la scelta...
Quali pensieri non affollano la testa di un fuggiasco indaga-
tore! A volte capita nel lager una macchina per la vuotatura dei
pozzi neri, una cisterna con un tubo. La sua estremità è larga,
Tenno potrebbe infilarcisi e rimanere piegato nella cisterna, dopo
di che l'autista potrebbe anche pompare il liquame, basta non
arrivi fino in cima. Sarebbe tutto immerso nel sozzume, per
strada potrebbe rimanere soffocato, annegare, ma questo a Tenno
ripugna meno che scontare servilmente la pena. Si verifica: è
pronto? Sì, lo è. E il conducente? È un delinquente comune
condannato a un pena breve, ha il lasciapassare. Tenno fuma
insieme a lui, lo studia. No, non è l'uomo adatto: non
rischierebbe di perdere il lasciapassare per aiutare
* La Steppa della fame.

174
un altro. La sua psicologia è quella dei lager di lavoro correzio-
nale: chi aiuta un altro è un imbecille.
Durante quell'inverno Tenno prepara un piano e si sceglie
quattro compagni. Ma mentre, conformemente alla teoria, si
svolge una paziente preparazione secondo il piano, egli viene
inaspettatamente accompagnato, un giorno, in una cava di pietra
appena aperta. Si trova in una località collinare, non la si vede
dal lager. Non vi sono ancora torrette né recinzione, solo qualche
palo, pochi fili di ferro. In un punto quasi s'interrompono, è il «
cancello ». Sei soldati di scorta stanno fuori della zona di lavoro,
ma non c'è un'altura che li sollevi al di sopra del terreno.
Dietro di essi si stende la steppa di aprile, con l'erba ancora
fresca e verde, vi ardono i tulipani. I tulipani! Il cuore del
fuggiasco non regge alla vista di quei tulipani nell'aria di aprile.
Forse è questa l'occasione?... È il momento di fuggire, ora che
non sei sospettato, ora che non sei ancora nella režimka.
Nel frattempo Tenno ha conosciuto molti nel lager e adesso
raduna rapidamente un gruppetto di tre: Miša Chajdarov (era
stato nella marina da sbarco sovietica nella Corea del Nord,
fuggito dal tribunale militare attraverso il 38° parallelo; non
volendo sciupare le buone solide relazioni in Corea, gli ameri-
cani lo estradarono, quartino); Jazdik, autista polacco dell'eser-
cito di Anders (espone in modo espressivo la propria biografia
mediante due stivali spaiati: « uno mi viene da Hitler, uno da
Stalin »); e un ferroviere di Kujbyšev, Sergej.
A un certo punto arriva un camion carico di pali veri per il
futuro recinto e rotoli di filo spinato, proprio all'inizio dell'in-
tervallo per il pranzo. Il gruppo di Tenno, che ama il lavoro
forzato e ama soprattutto rafforzare i recinti, si offre volonta-
riamente di scaricare la macchina anche durante l'ora del pranzo.
Salgono nel cassone. Ma poiché era comunque tempo di riposo,
si muovevano appena e intanto riflettevano. L'autista si allon-
tanò. Tutti i detenuti erano sdraiati qua e là a scaldarsi al sole.
Scappiamo o no? Non hanno niente con sé, né un coltello, né
provviste, né cibo, né un piano. Tuttavia dalla piccola mappa
Tenno sa che in macchina si potrebbe arrivare fino a Džezdy e

175
poi a Ulutau. I ragazzi s'infiammano: è l'occasione. Un'occasione
buona!
Da lì al « cancello » e alla sentinella il terreno è in discesa.
Poco dopo la pista volta dietro una collina. Uscendo rapidamente
non potranno più sparare. E le sentinelle non abbandoneranno
certo il loro posto.
Scaricano. L'intervallo non è ancora terminato. Dovrà guidare
Jazdik. Salta a terra, si affaccenda intorno alla macchina, intanto
gli altri tre si sdraiano pigramente sul fondo del cassone, si
nascondono, forse non tutte le sentinelle hanno veduto dove sono
andati a finire. Jazdik ha chiamato il conducente: non ti abbiamo
fatto perdere tempo a scaricare, adesso dacci da fumare. Fumano.
Su, metti in marcia! Quello sale nella cabina, neanche a farlo
apposta il motore non parte. (I tre nel cassone non conoscono il
piano di Jazdik e credono sia già fallito.) Jazdik si offre di girare
la manovella. Inutile, non parte. Jazdik è stanco, propone
all'autista di salire al suo posto. Adesso in cabina c'è Jazdik.
Immediatamente il motore ruggisce! e la macchina parte in
discesa, diritta sulla sentinella al « cancello ». (Jazdik racconterà
poi: aveva chiuso il rubinetto della benzina quando il conducente
provava a accendere, e lo aveva riaperto non appena salito in
cabina.) L'autista non aveva fretta di riprendere il suo posto,
credeva che Jazdik si sarebbe fermato. Ma la macchina passò a
tutta velocità il « cancello ».
Due volte « Fermo! ». La macchina prosegue. Spari delle
sentinelle, dapprima in aria: la fuga assomiglia troppo a uno
sbaglio. Forse sparano alla macchina, i fuggiaschi non lo sanno,
sono sdraiati. La svolta. Sono di là dalla collina, irraggiungibili
dagli spari. I tre nel cassone non sollevano ancora la testa. Sbalzi,
velocità. D'un tratto, si fermano e Jazdik urla disperatamente:
non ha imbroccato la strada giusta, sono fermi davanti al
cancello d'una miniera, con il recinto e le torrette tutt'intorno.
Spari. Accorrono i soldati. I fuggiaschi si buttano a terra
supini e si coprono la testa con le mani. La scorta tira calci
cercando di colpirli alla testa, alle orecchie, alle tempie, sulla
spina dorsale.
La regola salvatrice, comune all'umanità intera: « Non si pic-
chia l'uomo a terra » non funziona nella galera staliniana. Da
176
noi picchiano appunto chi è a terra. E si spara a chi sta in piedi.
Ma durante l'interrogatorio si chiarisce che non c'è stata
evasione! Già! I ragazzi, concordi, dicono di essersi assopiti
nella macchina, questa si è messa in moto, poi hanno sentito gli
spari, ma era troppo tardi per saltar fuori, avrebbero potuto
colpirli. E Jazdik? È inesperto, non è riuscito a frenare la mac-
china. Mica era diretto nella steppa ma alla miniera vicina.
Così finì con le sole percosse.1
L'evasione secondo un piano viene invece preparata in anti-
cipo. Si fabbrica una bussola: si riportano dei rombi su un vasetto
di plastica. Si infila un pezzo di ferro da calza magnetizzato su
un galleggiante di legno. Adesso si versa l'acqua, e la bussola è
fatta. Per l'acqua potabile è comodo versarla in una camera d'aria
da automobile e portarla sottobraccio come un cappotto militare
arrotolato durante la marcia. Tutta questa roba (le provviste e gli
indumenti) sarà portata a poco a poco al kombinat della
lavorazione del legno, da cui si intende evadere, e là sarà
nascosta in una fossa vicino alla segheria. Un autista libero
venderà la camera d'aria. Riempita d'acqua, è già nella fossa.
Talvolta un convoglio giunge di notte, per cui gli scaricatori deb-
bono rimanere nella zona di lavoro. È questo il momento di
evadere. Qualcuno dei liberi, per un lenzuolo dello Stato tra-
fugato dalla zona (i nostri prezzi!), ha già tagliato le due file
inferiori di filo spinato dirimpetto alla segheria ed ecco che sta
per sopraggiungere la notte in cui vengono scaricati i tronchi.
Tuttavia un detenuto, nativo del Kazachstan, ha scoperto la
fossa-nascondiglio e ha fatto una delazione.
Arresto, percosse, interrogatori. Per Tenno sono troppe le «
coincidenze » assomiglianti a evasioni. Quando vengono spediti
nella prigione di Kengir e Tenno se ne sta con la faccia rivolta al
muro e le mani dietro la schiena, passa un capitano, capo della
KVČ, si ferma davanti a lui ed esclama:

1
Miša Chajdarov fuggirà molte altre volte. Anche nell'epoca Chruščeviana più mite, quando i
fuggiaschi rimarranno fermi in attesa della liberazione legale, lui con alcuni amici disperati (per
quel che concerne il perdono) tenterà di evadere dal lager di punizione pansovietico, Andzeba-
307: dei complici lanceranno granate rudimentali sotto le torrette per distrarre l'attenzione, mentre
i fuggiaschi armati di asce taglieranno il fil di ferro. Ma saranno fermati con i mitra.

177
« Toh! E dicevi di voler organizzare lo spettacolo... »
È soprattutto colpito dal fatto che sia risultato fuggiasco per
l'appunto un esponente della cultura del lager. Il giorno dello
spettacolo gli avrebbero dato un supplemento di polenta e lui
fugge! Che altro vuole l'uomo?...
Il 9 maggio 1950, quinto anniversario della Vittoria, il mari-
naio e combattente al fronte Tenno entra in una cella della fa-
mosa prigione di Kengir. Nella stanza quasi buia, con una minu-
scola finestrella in alto, manca l'aria, ma in compenso abbondano
le cimici, le mura sono coperte del sangue di insetti schiacciati.
Quell'estate il caldo raggiunge 40-50 gradi, tutti stanno sdraiati
nudi. È meno caldo sotto i pancacci, ma di notte due uomini ne
schizzano fuori urlando: ci sono le tarantole.
Nella prigione di Kengir è riunita una società scelta, trasferita
qui da vari lager. In tutte le celle sono rinchiusi uomini esperti di
evasioni, una rara collezione di aquilotti. Finalmente Tenno è
capitato in compagnia di fuggiaschi convinti!
E qui anche Ivan Vorob'ev, Eroe dell'Unione Sovietica. Du-
rante la guerra è stato partigiano nella regione di Pskov. È un
uomo deciso, non si lascia opprimere. Ha già al suo attivo eva-
sioni non riuscite, ne tenterà altre. Per sua disgrazia non riesce a
prendere il classico colorito da prigione, farsi amico dei delin-
quenti comuni, cosa di grande aiuto ai fuggiaschi. Ha conservato
la dirittura del combattente al fronte, è con lui un capo dello
Stato Maggiore, insieme tracciano una mappa della località e si
consultano apertamente, sdraiati sui pancacci. Vorob'ev non può
adattarsi all'astuzia, al riserbo del lager, e dei delatori lo vendono
sempre.
Matura il piano di sopraffare il guardiano durante la distri-
buzione serale del cibo, se sarà solo. Aprire tutte le celle con le
sue chiavi. Precipitarsi verso l'uscita della prigione, impadro-
nirsene. Poi, aperto il portone, buttarsi a valanga sul posto di
guardia. Sopraffare i guardiani e erompere fuori dai reticolati
all'inizio della notte. Quando li portarono a costruire case di
abitazione, concepirono il piano di fuggire attraverso le fogne.

178
Ma i piani non giunsero allo stadio di esecuzione. Quella
stessa estate tutta quella compagnia scelta venne ammanettata e
portata chissà perché a Spassk. Là furono messi in una baracca
sotto vigilanza speciale. La quarta notte i fuggiaschi convinti
tolsero le sbarre alla finestra, uscirono nel cortile dell'ammini-
strazione, uccisero silenziosamente il cane e attraverso il tetto
intendevano passare nella enorme zona comune. Ma il tetto di
ferro si piegava sotto i piedi, producendo nel silenzio della notte
un rumore di tuono. I guardiani dettero l'allarme. Tuttavia,
quando entrarono nella baracca, tutti dormivano tranquillamente
e la grata era al suo posto. Era stato un falso allarme.
Non era destino che rimanessero a lungo nel medesimo posto.
La sorte irrequieta sospinge sempre avanti i fuggiaschi convinti,
come tante anime in pena. O fuggono loro, o vengono portati via.
Adesso vengono tutti trasferiti, sempre ammanettati, a Ekibastuz.
Qui si aggiungono alla audace combriccola di altri fuggiaschi
sfortunati, Brjuchin e Mut'janov.
Come colpevoli, come sottoposti al regime duro, sono
destinati alla fabbrica di calcina. Scaricano la calce viva dalle
macchine, al vento, e la calce si spenge loro negli occhi, in
bocca, nella trachea. Durante lo scarico dei forni i corpi nudi e
sudati si coprono di polvere di calce spenta. Il quotidiano
avvelenamento, che dovrebbe servire al loro emendamento, lì
costringe ad affrettare l'evasione.
Il piano si forma spontaneamente: la calce viene portata con i
camion e su questi bisognerà evadere. Strappare il recinto, qui è
ancora fatto di filo di ferro. Prendere una macchina ben rifornita
di benzina. Il migliore conducente fra i fuggiaschi è Kolja
Ždanok, compagno di Tenno durante la fuga non riuscita dalla
segheria. Si mettono d'accordo; sarà lui a guidare. L'accordo c'è,
ma Vorob'ev è troppo deciso, troppo tutto azione per affidarsi in
mani altrui. Quando la macchina viene presa (i fuggiaschi si
mettono a fianco dell'autista con i coltelli in mano e al
poveraccio non rimane altro che partecipare suo malgrado
all'evasione), Vorob'ev si mette al volante.

179
I minuti sono contati! Devono tutti saltare dentro il cassone e
via! Tenno prega Vorob'ev: « Cedi il posto! ». Lui non vuol
cederlo. Tenno e Ždanok non credono nella sua abilità e
rimangono. Adesso i fuggiaschi sono soltanto tre: Vorob'ev,
Salopaev e Martirosov. D'un tratto ecco apparire non si sa come,
di corsa, Red'kin, il matematico, un bislacco, non è affatto un
fuggiasco, è capitato in carcere per tutt'altro. Ma era nelle
vicinanze, ha notato, capito e tenendo in mano, non un pezzo di
pane ma di sapone, salta nel cassone:
« Per la libertà? Vengo anch'io! »
(Come se salisse di corsa su un autobus: « Va a Razguljaj? ».)
Lentamente, curvando, la macchina parte in modo da strap-
pare i primi fili con il paraurti, gradualmente; gli altri saranno
all'altezza del motore e della cabina. Nella striscia di terreno
antecedente al recinto passa fra i pali, ma sulla linea principale di
recinzione occorre buttare giù un palo perché sono disposti a
scacchiera. In prima, la macchina abbatte un palo.
Le sentinelle sulle torrette rimangono di stucco: qualche gior-
no prima è successo un caso analogo in un altro cantiere, un
conducente ubriaco ha rotto un palo nella zona vietata. Forse è
ubriaco anche questo?... Le sentinelle indugiano per quindici
secondi. Nel frattempo il palo è caduto, la macchina parte in
seconda e senza forare le gomme attraversa la recinzione. Biso-
gna sparare! Ma non hanno modo: per proteggere le sentinelle
dai venti del Kazachstan le torrette sono state chiuse con assi
dalla parte esterna. I soldati possono sparare solamente dentro
alla zona recintata o lungo il filo spinato. Il camion non si vede
più, corre per la steppa sollevando la polvere. Le torrette sparano
impotenti in aria.
Tutte le strade sono libere, la steppa è uniforme, dopo cinque
minuti la macchina di Vorob'ev sarebbe già all'orizzonte. Ma
assolutamente per caso viaggia nella stessa direzione il cellulare
della divisione di scorta, diretto all'officina per riparazioni. Fa
rapidamente salire le guardie e insegue Vorob'ev. L'evasione
termina... dopo venti minuti. I fuggiaschi massacrati di botte, e
con essi Red'kin, camminano vacillando verso la prigione del

180
lager, avvertendo con la bocca insanguinata il tiepido e legger-
mente salato umore della libertà.1
Tuttavia per il lager si sparge la voce: ce l'avevano fatta, bene!
sono stati presi per caso. E dopo una decina di giorni Batanov, ex
allievo ufficiale dell'aviazione, ripete la manovra con due amici:
in un altro cantiere sfondano i reticolati e fuggono. Ma fuggono
per la strada sbagliata, avendo perso l'orientamento nella fretta, e
capitano sotto il tiro delle torrette della fabbrica di calcina. Una
gomma è forata, la macchina si ferma. La circondano i
mitraglieri: « Fuori! ». Devono scendere o aspettare di essere
trascinati fuori per la collottola? Uno dei tre, Pasečnik, ubbidisce
al comando e viene subito crivellato da raffiche rabbiose.
In poco più d'un mese, già tre evasioni da Ekibastuz, e Tenno
non scappa. Non ne può più. È roso dalla gelosia, dal desiderio di
imitare. Dal di fuori tutti gli errori sono più evidenti, gli sembra
sempre che avrebbe fatto meglio lui. Per esempio, se al volante
fosse stato Ždanok e non Vorob'ev, pensa Tenno, sarebbe stato
possibile anche sfuggire al cellulare. La macchina di Vorob'ev
era appena stata fermata che Tenno e Ždanok già discutevano su
come evadere.
Ždanok è piccolo, nero, molto mobile, sempre in combutta
con i delinquenti comuni. Ha ventisei anni, è originario della
Belorussia, da lì è stato portato in Germania, ha lavorato come
autista per i tedeschi. È condannato anche lui al quartino.
Quando si entusiasma arde tutto, sia sul lavoro, che nello slancio
d'una rissa, o in corsa. Naturalmente gli manca la padronanza di
sé, ma ne ha da vendere Tenno.
Meglio di tutto è fuggire dalla fabbrica di calcina. Se non è
possibile con una macchina, questa dovrà essere presa fuori dai
reticolati. Ma prima che il progetto sia ostacolato dalle sentinelle
o dall'ufficiale della Sicurezza, il brigadiere della baracca di
1
Nel novembre 1951 Vorob'ev evaderà ancora una volta da un cantiere con un
ribaltabile, insieme ad altri cinque. Saranno riacciuffati dopo qualche giorno. Secondo le voci,
Vorob'ev. fu nel 1953 uno dei capi ribelli della insurrezione di Noril'sk e rinchiuso poi nella
centrale di Aleksandrovskoe. Credo che la vita di quest'uomo notevolissimo, a cominciare dalla
sua gioventù di militare e dal periodo partigiano, ci spiegherebbe molte cose dell'epoca.

181
punizione, Leška lo Tzigano (Navruzov), una cagna, un uomo
mingherlino ma il terrore di tutti, il quale aveva ucciso decine di
persone durante la sua vita di lager (uccideva per un pacco-dono,
perfino per un pacchetto di sigarette), chiama in disparte Tenno e
lo previene:
« Sono un fuggiasco anch'io e i fuggiaschi mi piacciono.
Guarda, ho il corpo crivellato di pallottole, è stata un'evasione
nella tajga. So che anche tu volevi evadere con Vorob'ev. Ma
non scappare dalla zona di lavoro: qui sono responsabile io, mi
metterebbero dentro di nuovo. »
Ossia, vuoi bene ai fuggiaschi ma più ancora a se stesso.
Leška lo Tzigano è contento della sua vita di « cagna » e non se
la lascerà rovinare. Ecco l’« amore per la libertà » d'un comune.
Ma forse le evasioni di Ekibastuz diventano davvero mono-
tone? Tutti scappano dalla zona di lavoro, mai da quella abitata.
Ci si deve arrischiare? Anche la zona abitata è recintata per ora
soltanto con il fìl di ferro. Per ora, fino a quando non avranno
costruito una palizzata.
Un giorno nella fabbrica di calcina si guasta l'impianto elet-
trico della betoniera. Fanno venire un elettrotecnico di fuori.
Tenno lo aiuta a fare la riparazione, intanto Ždanok gli ruba di
tasca le pinze trincianti. L'elettricista si accorge che gli mancano.
Dichiararlo ai guardiani? Impossibile, processerebbero luì stesso
per negligenza. Prega i ladri di rendergliele. Quelli rispondono
che non le hanno prese.
Poi i fuggiaschi si procurano allo stabilimento anche due
coltelli: li ritagliano dalle vanghe con uno scalpello, li affilano
nella fucina, li temprano, confezionano manici di stagno in forme
di, argilla. Quello di Tenno è un « pugnale turco », non soltanto
farà comodo in caso di azione, ma con quell'aspetto ricurvo e
lucido fa paura, e questo è ancora più importante. Infatti hanno
intenzione di spaventare, non di uccidere.
Riescono a trasportare pinze e coltelli nella zona abitata na-
scondendoli sotto le mutande, alle caviglie, li infilano sotto le
fondamenta della baracca.
La chiave dell'evasione dovrà essere ancora una volta la KVČ.

182
Mentre si preparano e si trasportano le armi, Tenno dichiara di
voler prender parte insieme a Ždanok a uno spettacolo (a Eki-
bastuz non ve ne sono mai stati per ora, sarà il primo, e le
autorità lo sollecitano: hanno bisogno di veder attuato almeno
uno dei provvedimenti atti a distrarre dalla sedizione, e sarà un
divertimento anche per loro vedere come dopo undici ore di
lavoro forzato i detenuti faranno smorfie su un palcoscenico.)
Permettono dunque a Tenno e Ždanok di uscire dalla baracca di
regime duro dopo la chiusura, quando per altre due ore la zona
vive e si muove ancora. Quelli girano per la zona di Ekibastuz
con la quale non si sono ancora familiarizzati, osservano come e
quando avviene il cambio della guardia sulle torrette, quali sono
gli accessi più comodi. Nella KVČ stessa Tenno legge
attentamente il giornale locale di Pavlodar, cerca di ricordare i
nomi dei distretti, sovchoz e kolchoz, i cognomi dei presidenti,
segretari e ogni sorta di udarniki, lavoratori d'urto. Dichiara poi
che saranno rappresentate delle scenette e che per queste occorre
riavere gli abiti borghesi dal deposito e una cartella. (Una cartella
è inusitata per un'evasione. Conferirà un'aria autorevole.) Il
permesso viene concesso. Tenno porta ancora la giubba della
marina, adesso gli restituiscono il suo abito islandese, ricordo del
convoglio marino. Ždanok riprende dalla valigia dell'amico un
abito grigio, belga, talmente elegante che fa addirittura
impressione vederselo addosso nel lager. Un lettone ha una
cartella fra la sua roba e viene presa anche questa. Si procurano
berretti veri invece di quelli da lager, piccoli e con la visiera.
Le scenette richiedono tante di quelle prove che non basta il
tempo prima della ritirata generale. Quindi per tutta una notte, e
un'altra ancora Tenno e Ždanok non tornano nella baracca di
regime duro, passano la notte nella baracca della KVČ, abituano i
guardiani alla loro assenza. (Bisogna guadagnare almeno una
notte per l'evasione.)
Qual è il momento più comodo per evadere? L'appello serale.
Quando c'è coda davanti alle baracche, tutti i guardiani sono
occupati dal rientro, e anche i detenuti guardano tutti la porta,
impazienti di mettersi a dormire al più presto; nessuno

183
bada al resto della zona. Le giornate si stanno accorciando,
bisogna indovinarne una in modo che la verifica avvenga dopo il
tramonto, tra il lusco e il brusco, ma prima che i cani siano di-
sposti intorno al recinto. Bisogna cogliere quegli unici cinque o
dieci minuti perché è impossibile strisciare fuori in presenza dei
cani.
Scelsero la domenica 17 settembre. Era comodo. La domenica
non si sarebbe lavorato, si poteva raccogliere le forze verso sera,
fare senza fretta gli ultimi preparativi.
Ultima notte prima dell'evasione! È mai possibile addormen-
tarsi? Pensieri e ancora pensieri... Sarò vivo fra ventiquattro ore?
Forse no. E nel lager? non è forse una morte protratta da
dochodjaga all'immondezzaio? Non bisogna permettersi di abi-
tuarsi all'idea che sei uno schiavo.
La questione si pone in questi termini: sei pronto a morire? Sì.
E allora sei pronto per l'evasione.
Una domenica soleggiata. Per la preparazione delle scenette
comiche, i due sono stati rilasciati dalla baracca per l'intera
giornata. Inaspettatamente alla KVČ è giunta una lettera a Tenno
da sua madre. Sì, proprio quel giorno. Quante di tali fatali
coincidenze ricordano i detenuti! Una lettera malinconica, ma
forse atta a temprare: la moglie di Tenno è ancora in prigione,
non è stata tradotta in un lager. La cognata esige dal fratello di
Tenno di troncare ogni rapporto con quel traditore della patria.
Con le provviste va malissimo: se raccogliessero del pane
desterebbero sospetti. Ma calcolano di muoversi rapidamente, e
di dirottare una macchina nella cittadina. Tuttavia, proprio quel
giorno arriva un pacco da casa, la benedizione della mamma alla
vigilia dell'evasione. Glucosio in compresse, fiocchi d'avena,
maccheroni, il tutto andrà nella cartella. Sigarette: si potranno
scambiare col tabacco fatto in casa. Un pacchetto dovrà essere
portato all'infermiere. Ždanok è già nell'elenco degli esentati dal
lavoro per quest'oggi. Infatti Tenno si è recato nella KVČ a dire
che Ždanok sta male, non potrà prendere parte alla prova stasera.
Invece, nella baracca annunziano al guardiano e a Leška lo
Tzigano: stasera abbiamo la prova, non torneremo nella baracca.
Dunque non saranno attesi né qui né là.

184
Bisogna procurarsi anche una « Katjuša », un acciarino con lo
stoppino in una pipa, durante un'evasione serve meglio dei
fiammiferi. Bisogna anche visitare un'ultima volta Chafiz nella
sua baracca. L'esperto fuggiasco tataro Chafiz doveva evadere
insieme a loro, ma ha deciso che è troppo vecchio, rischia di
essere di peso. È l'unica persona che sa della progettata fuga. È
seduto alla turca sul suo pancaccio. « Dio ve la mandi buona! »
sussurra. « Pregherò per voi. » Sussurra qualcosa in tataro, passa
le palme delle mani sul viso di Tenno.
Tenno ha anche un vecchio compagno di cella della Lubjanka,
Ivan Koverčenko. Non sa dell'evasione, ma è un buon compa-
gno. È fra i pridurki, vive in una cabina separata. È da lui che i
fuggiaschi radunano la roba per gli sketch. È naturale cuocere
quest'oggi insieme a lui la semola arrivata nel magro pacco da
casa. Fanno anche il té. Seduti al piccolo festino, gli ospiti
illanguiditi dall'imminenza di ciò che li attende, il padrone di
casa dalla bella domenica, vedono dalla finestra che stanno por-
tando dal corpo di guardia all'obitorio, attraverso tutta la zona,
una bara raffazzonata alla meglio.
È per Pasečnik, ammazzato qualche giorno prima.
« Già, » sospira Koverčenko « evadere è inutile. »
(Se sapesse!)
Koverčenko, quasi intuisse qualcosa, si alza, prende in mano
la loro cartella piena zeppa, cammina con sussiego per la cabina
e dichiara con voce austera:
« Gli investigatori sono al corrente di tutto! Voi vi preparate a
evadere! »
Sta scherzando. Imita un giudice istruttore.
Bello scherzetto...
(O forse allude sottilmente? lo indovino, amici, ma non ve lo
consiglio!?)
Quando Koverčenko esce, i fuggiaschi indossano gli abiti
sotto la roba che portano normalmente. Scuciono i numeri, li
riattaccano in modo da poterli strappare con una mossa sola.
Infilano i berretti senza il numero nella cartella.
La domenica sta per finire. Il sole dorato tramonta. L'aitante,
lento Tenno e il piccolo mobile Ždanok si buttano i giubboni

185
sulle spalle, prendono la cartella (nel lager sono già abituati al
curioso aspetto dei due) e si dirigono verso il loro trampolino di
lancio, sull'erba fra due baracche, direttamente di fronte a una
torretta. Le baracche parano la vista da altre due torrette. Hanno
quindi dirimpetto a sé un'unica sentinella. Stendono i giubboni
per terra, vi si sdraiano e giocano a scacchi, perché la sentinella
si abitui alla loro presenza.
Cala la sera. Segnale della verifica. I detenuti si avvicinano
alle baracche. Nella penombra la sentinella non dovrebbe vedere
che i due sono rimasti sdraiati sull'erba. Sta per finire il suo
turno, non è più tanto vigile. È sempre più facile andarsene
quando la sentinella è sul posto da tempo.
Hanno deciso di tagliare il filo spinato non in un punto
qualunque, ma direttamente sotto la torretta. Certamente la
sentinella guarda piuttosto a una certa distanza che non sotto i
propri piedi. Hanno la testa china sull'erba, per di più sono nella
penombra, non vedono il punto dove stanno per passare. Ma è
stato scelto in anticipo: immediatamente di là dal recinto è stato
scavato un buco per un palo, vi si potranno nascondere per un
momento; ancora più in là si innalzano montagnole di scorie e
passa la strada che porta dalla cittadina della scorta all'abitato.
Il piano è d'impadronirsi subito di una macchina. Fermarne
una, dire all'autista: vuoi guadagnare qualcosa? dobbiamo por-
tare due casse di vodka ad Ekibastuz vecchia. Quale camionista
non ha voglia di alzare il gomito? Mercanteggiare un poco: un
mezzo litro? un litro? Va bene, andiamo, ma non una parola con
nessuno. Poi, strada facendo, legarlo, portarlo nella steppa,
lasciarlo là. In una sola notte fare tutta una tirata fino al fiume
Irtys, abbandonare lì la macchina, attraversare il fiume in barca e
dirigersi verso Omsk.
Si è fatto buio. Hanno acceso i proiettori sulle torrette, illu-
minano la recinzione, ma per ora i fuggiaschi sono sdraiati nel
settore oscuro. È il momento giusto! Fra poco ci sarà il cambio
della guardia e porteranno i cani.
Si accendono le lampadine nelle baracche, si vedono rientrare
i detenuti dopo la verifica. Si sta bene in baracca? Fa caldo, è

186
piacevole... Tu a momenti sarai crivellato con una raffica di mi-
tra, è brutto se ti sorprenderanno supino a terra.
Attenti a non tossire, a non emettere un suono sotto la torretta.
Vigilate pure, cani da guardia! Sta a voi vigilare, a noi
scappare.
Ma lasciamo che sia Tenno stesso a raccontare il seguito.

187
VII Il gattino bianco (racconto di Georgij Tenno)

"Sono più vecchio di Kolja, tocca a me andare per primo. Ho


il coltello in una guaina alla cintura, le pinze in mano. « Quando
avrò tagliato i primi fili, raggiungimi! »
Striscio alla maniera degli esploratori. Vorrei ficcarmi sotto
terra. Devo guardare la sentinella o no? Guardare significa
vedere la minaccia o addirittura attirare il suo sguardo col mio.
Ho tanta voglia di guardare! No, non lo farò.
Più vicino alla torretta. Più vicino alla morte. Aspetto la
raffica. Sta per crepitare... Forse mi vede benissimo, sta lì e si
beffa di me; vuol lasciarmi dimenare un altro po'?...
Ecco la prima recinzione. Mi volto, mi sdraio lungo il filo
spinato. Taglio il primo filo. Libero dalla tensione, scatta. La
raffica? No. Forse io solo ho udito quel suono. Com'era forte.
Taglio il secondo filo. Il terzo. Infilo una gamba, l'altra. I calzoni
rimangono impigliati alle spine del filo caduto. Li libero.
Striscio attraverso metri di terreno arato. Un fruscio dietro di
me. È Kolja, ma perché fa tanto rumore? Ah, è la cartella che
struscia per terra.
Ecco i fili incrociati del recinto principale. Ne taglio alcuni.
Adesso una spirale di filo spinato. La taglio due volte, sgombro
la via. Taglio i fili della striscia principale. Certamente quasi non
respiriamo. Quello non spara. Ricorda casa sua? o stasera va a
ballare?
Trasferisco il corpo di là dal recinto esterno. C'è un'altra
spirale. Vi rimango impigliato. Taglio. Non devo dimenticare né

188
confondermi, qui ci devono essere anche delle barriere inclinate.
Eccole. Taglio.
Adesso striscio verso la buca. Non ci ha ingannati, eccola. Mi
ci calo. Si cala Kolja. Riprendiamo il fiato. Presto, avanti! stanno
per darsi il cambio, stanno per venire i cani!
Usciamo dalla buca, strisciamo verso le collinette di scorie.
Neppure adesso ci decidiamo a guardarci alle spalle. Kolja arde
di far presto, si mette a quattro zampe. Lo tiro giù.
Superiamo strisciando la prima collinetta di scorie. Metto le
pinze sotto un sasso.
Ecco la strada. Vicino a questa ci alziamo in piedi.
Non sparano.
Camminiamo disinvolti, dondolando: è venuto il momento di
fingerci ex detenuti esentati dalla scorta, la loro baracca è qui
vicino. Strappiamo i numeri dal petto, dal ginocchio e improv-
visamente due uomini ci vengono incontro. Procedono dalla
guarnigione verso la cittadina. Sono soldati. E noi abbiamo
ancora i numeri sulla schiena! Io dico, forte:
« Vanja! Che ne diresti di un mezzo litro? »
Camminiamo adagio, non ancora sulla strada stessa ma verso
questa. Camminiamo adagio, perché passino al più presto, ma
diritto verso i soldati, e non nascondiamo la faccia. Passano a
due metri da noi. Per non voltare loro la schiena quasi ci
fermiamo. Quelli vanno avanti, discorrono di fatti loro e noi ci
strappiamo il numero, l'uno dalla schiena dell'altro.
Non siamo stati notati? Siamo liberi? Adesso via nella citta-
dina a prenderci una macchina.
Che succede? Sale un razzo sopra il lager. Un secondo. Un
terzo!
Ci hanno scoperti! Ci sarà subito l'inseguimento. Di corsa!
Non abbiamo più il coraggio di esaminare la situazione, di
meditare, giudicare, il magnifico piano è fallito. Ci buttiamo
nella steppa, basta allontanarci dal lager! Soffochiamo, cadiamo
sulle asperità, ci rialziamo e là continuano a esplodere razzi!
Pensando alle precedenti evasioni immaginiamo come a mo-
menti spediranno gli inseguitori a cavallo con i cani a guinzaglio

189
per tutta la steppa. Spargiamo tutto il nostro prezioso tabacco
sulle tracce e procediamo balzelloni.1
Bisognava adesso fare un grande giro nella steppa. Avrebbe
richiesto molto tempo e fatica. Kolja comincia a dubitare che io
segua la direzione giusta. È offensivo. Ma ecco la massicciata
della ferrovia di Pavlodar. Ne siamo felici. Dalla massicciata
Ekibastuz colpisce con le sue luci sparse e sembra grande come
non l'abbiamo mai veduto.
Raccattiamo un bastone. Tenendoci a questo camminiamo
uno su una rotaia, uno sull'altra. Quando sarà passato un treno i
cani non potranno fiutare le nostre tracce. Facciamo così circa
300 metri, poi saltiamo giù nella steppa.
Allora potemmo respirare liberamente, in modo tutto nuovo!
Avremmo voluto cantare, gridare! Ci abbracciammo. Eravamo
davvero liberi! E quanto rispetto per noi stessi, per aver deciso di
evadere, per aver portato la fuga a buon fine e ingannato la muta
dei cani.
Sebbene tutte le prove non fossero che all'inizio, la sensazione
era quella di aver già fatto l'essenziale.
Il cielo era sereno. Scuro e cosparso di stelle, quale non si
vede mai dal lager a causa dei lampioni. Orientandoci secondo la
stella Polare ci dirigiamo a nord-nord-est. Poi volteremo un poco
a destra e saremo vicino all'Irtys. Bisogna cercare di andarsene il
più lontano possibile la prima notte. In tal modo si allarga al
quadrato la zona circolare che gli inseguitori dovranno tenere
sotto controllo. Ricordando canzoncine baldanzose e alle-
1
Un caso! Un caso come quel cellulare. Un caso impossibile a prevedere. A ogni piè sospinto
stanno in agguato casi fortuiti, ora fortunati ora ostili. Non soltanto durante un'evasione, ma
unicamente sulla cresta del rischio ne avvertiamo il peso. Del tutto a caso tre o cinque minuti
dopo la fuga di Tenno e Ždanok si spenge la luce lungo il recinto e solamente per questo lanciano
razzi dalle torrette, molto numerose ancora quell'anno a Ekibastuz. Se i fuggiaschi si fossero
messi a strisciare cinque minuti più tardi le sentinelle rese più vigili li avrebbero visti e presi a
fucilate. Se i fuggiaschi avessero potuto restar calmi sotto il cielo vividamente illuminato,
esaminare la zona e constatare che i lampioni e i proiettori si erano spenti, sarebbero
tranquillamente andati a cercare una macchina, e tutta l'evasione si sarebbe svolta diversamente.
Ma nella loro situazione - appena usciti, il lancio dei razzi - non potevano avere dubbi che fosse
per causa loro, per la loro scomparsa.
Una breve interruzione nella rete d'illuminazione e tutta la fuga risultò sconvolta e
schiacciata.

190
gre in varie lingue, camminiamo velocemente, circa otto chilo-
metri l'ora. Ma poiché siamo stati in prigione per diversi mesi
non siamo allenati e le gambe si stancano presto. (Lo avevamo
previsto, ma pensavamo di viaggiare in macchina.) Ci fermiamo
e rimaniamo sdraiati con i piedi sollevati. Poi riprendiamo la
marcia. E ancora un riposo.
Stranamente a lungo non si spengono i bagliori di Ekibastuz
alle nostre spalle. Camminiamo da diverse ore e si vedono tuttora
in cielo.
Ma termina la notte, l'oriente impallidisce. Di giorno non solo
non possiamo camminare per la steppa piana e aperta, ma non
sarà facile neppure nascondervisi: non c'è erba sufficientemente
alta né cespugli, ci cercheranno anche con un aereo, lo sappiamo.
Scaviamo quindi una piccola fossa con i coltelli - la terra è
dura, sassosa, è difficile scavare, riusciamo a fare una buca larga
cinquanta cm. e profonda trenta, ci sdraiamo con le teste in
direzioni opposte, ci copriamo con spinosi rametti gialli di
caragana. Dormire adesso, rifarci le forze! Impossibile. Quel-
l'immobilità di oltre 12 ore è assai più gravosa della marcia
notturna. I pensieri ronzano incessanti... Il rovente sole di set-
tembre brucia, non c'è nulla da bere né ci sarà. Abbiamo infranto
la legge delle evasioni del Kazachstan, bisogna evadere in
primavera, non d'autunno. Ma pensavamo di avere una mac-
china... Languiamo dalle cinque del mattino fino alle otto di sera.
Il corpo è intormentito ma non possiamo cambiare posizione:
sollevandoci, smuovendo i rametti potremmo essere visti da un
uomo a cavallo da lontano. Con due abiti addosso soffochiamo
dall'afa. Sopporta.
Soltanto quando cala l'oscurità suona l'ora del fuggiasco.
Ci alziamo. È difficile stare in piedi, le gambe dolgono. Ci
avviamo lentamente, cercando di sgranchirle. Abbiamo anche
poca forza, in tutto il giorno abbiamo masticato maccheroni
secchi e inghiottito qualche compressa di glucosio. Abbiamo
sete.
Anche nell'oscurità notturna dobbiamo essere preparati a un
agguato. Certamente la notizia è stata trasmessa per radio, avran-
no spedito macchine in tutte le direzioni, e soprattutto in dire-

191
zione di Omsk. Saremmo curiosi di sapere come e quando hanno
trovato per terra i nostri giacconi e gli scacchi. Dai numeri capi-
ranno subito che siamo noi, non ci sarà neppure bisogno di fare
l'appello secondo le schede.1
Facciamo non più di quattro chilometri l'ora. Abbiamo i piedi
indolenziti. Ci sdraiamo spesso per riposare. Bere, bere! Nel
corso della notte non abbiamo fatto più di venti chilometri. Poi
bisogna cercare ancora un posto per nascondersi e raggomitolarsi
per la tortura diurna.
Sembra di vedere degli edifici. Ci avviciniamo carponi, pru-
dentemente. Ma sono, inaspettate nella steppa, delle rocce. Chis-
sà se fra queste troveremo l'acqua? Niente... Sotto una delle
pietre c'è una tana. L'hanno scavata gli sciacalli. È difficile
infilarvisi. Se crollasse? ci schiaccerebbe e la morte non sarebbe
istantanea. Fa già piuttosto freddo. Fino al mattino non riusciamo
ad addormentarci. Neppure di giorno dormiremo. Prendiamo i
coltelli e li affiliamo sulle pietre, si sono spuntati quando alla
fermata precedente abbiamo scavato la buca.
In pieno giorno udiamo un battito di ruote. Male, siamo vicino
a una strada. Un kazachi è passato vicinissimo. Borbottava
qualcosa. Balzare fuori e raggiungerlo? forse ha dell'acqua. Ma
come acciuffarlo senza avere esaminato i dintorni? forse possia-
mo essere veduti.
Non sembra che ci abbiano inseguiti per questa strada. Sbu-
chiamo cautamente, ci guardiamo intorno. A un centinaio di
metri c'è una costruzione crollata. Strisciamo là. Nessuno. Un
pozzo! No, è stato riempito di detriti. In un angolo c'è pula e
paglia. Ci sdraiamo lì. E-eh! Pulci! E come sono grosse, e
quante! La giacca grigio chiara di Kolja, quella belga, è tutta
1
Fu così: l'indomani dei lavoratori trovarono i nostri giubboni freddi, dunque erano rimasti là
tutta la notte. Strapparono i numeri e li fregarono: un giubbone è pur sempre roba! I guardiani
non li videro, quindi. Si accorsero dei fili tagliati solamente la sera del lunedì. E proprio con lo
schedario cercarono tutto il giorno chi era evaso. Anche il mattino successivo i fuggiaschi
avrebbero potuto tranquillamente camminare e viaggiare in macchina. Questo significò non
sapere il perché dei razzi. Quando nel lager si chiarì gradualmente il quadro dell'evasione di
domenica, si ricordarono che quella sera era venuta a mancare la luce ed esclamarono: « Furbi
davvero, bravissimi! Come si saranno ingegnati a interrompere la corrente? » E tutti
continueranno a lungo a pensare che furono aiutati dalla mancanza di luce.

192
nera di pulci. Ci scuotiamo, ci grattiamo. Strisciamo indietro
nella tana scavata dagli sciacalli. Passa il tempo, se ne vanno le
forze ma non ci muoviamo.
Ci alziamo quando sta per scurire. Siamo molto deboli, tor-
mentati dalla sete. Decidiamo di proseguire ancor più a destra
per arrivare prima all'Irtys. Una notte serena, un cielo nero e
stellato. Le costellazioni di Pegaso e Perseo formano un toro
dalla testa piegata che va tenacemente avanti e c'incoraggia.
Andiamo avanti anche noi.
Improvvisamente volano dei razzi davanti a noi. Questa volta
sono davanti! Rimaniamo con il fiato sospeso. Vediamo una
massicciata. La ferrovia. Non ci sono più razzi, ma un proiettore
si accende lungo i binari, il raggio oscilla dalle due parti. È un
carrello a motore che perlustra la steppa. Adesso ci vedranno e
sarà finita. Un'impotenza imbecille: starsene nella luce di un
raggio e aspettare che ti vedano.
È passato senza accorgersi di noi. Balziamo in piedi. Non pos-
siamo correre ma ci allontaniamo il più rapidamente possibile
dalla massicciata. Il cielo è oscurato da nuvole e noi, con tutto
quel voltare a destra e sinistra, abbiamo perduto l'orientamento.
Camminiamo oramai quasi a casaccio. Facciamo pochi chilome-
tri e forse anche quei pochi sono un inutile zig zag.
Una notte a vuoto. Si fa luce ancora. Ancora strappiamo ciuffi
di caragana. Dobbiamo scavare una buca, ma non trovo il mio
coltello alla turca ricurvo. L'ho perduto quando ero sdraiato o
quando mi sono precipitato via dalla scarpata. Un guaio. Come
può un evaso fare a meno d'un coltello? Scaviamo la buca con
quello di Kolja.
C'è una sola cosa bella: mi è stato predetto che morirò a
trentotto anni. È difficile per un marinaio non essere supersti-
zioso. Ma questa mattina del venti settembre è il mio complean-
no, ne compio trentanove. La profezia non mi tocca più. Vivrò!
Eccoci ancora una volta sdraiati in una buca senza un movi-
mento, senz'acqua: Se almeno potessimo dormire! non
dormiamo. Se almeno piovesse! No, le nuvole si disperdono.
Male. Sta per terminare il terzo giorno dalla fuga e non abbiamo
bevuto un goccio d'acqua, inghiottiamo cinque compresse di
glucosio al
193
giorno. E abbiamo fatto poca strada, forse un terzo della distanza
che ci separa dall'Irtys. E intanto gli amici del lager esultano per
noi, perché abbiamo ottenuto la libertà dal « procuratore verde
»...*
È sera. Le stelle. Direzione nord-est. Ci trasciniamo. Di punto
in bianco un grido lontano: « Va-va-va-va! ». Cos'è? Secondo i
racconti dell'esperto fuggiasco è così che i kazachi scacciano i
lupi dalle pecore.
Una pecora! Trovassimo una pecora saremmo salvi. In altre
circostanze non avremmo mai bevuto il sangue, ma ce ne fosse,
ora.
Strisciamo furtivamente. Costruzioni. Non vediamo un pozzo.
Entrare in una casa è pericoloso. Un incontro con qualcuno è una
traccia. Ci avviciniamo carponi a una capanna di saman. Sì, è
stata una donna kazachi a gridare per scacciare i lupi. Ci
buttiamo dall'altra parte d'un muricciolo di mattoni grezzi nel
punto in cui è più basso, ho il coltello fra i denti. Diamo la caccia
alle pecore, strisciando. Ne sento una respirarmi accanto. Ma
scartano di lato, ci sfuggono. Strisciamo da direzioni opposte.
Cerchiamo di afferrare una zampa. Scappano. (Più tardi ce lo
spiegheranno: strisciavamo e le pecore ci prendevano per
animali. Bisognava avvicinarsi ritti, da padroni, e si sarebbero
lasciate prendere.)
La donna sente che qualcosa non va, si è avvicinata, cerca di
vedere al buio. Non ha luce con sé, ma afferra zolle di terra, le
butta, ha colpito Kolja. Si dirige proprio su di me, a momenti
m'investe. Che ci abbia visti o sentiti, eccola gridare: « II de-
monio! Il demonio! ». E scappa da noi, noi da lei, un salto sopra
al muricciolo e ci sdraiamo dall'altra parte. Voci di uomini. Voci
calme. Certamente dicono: la donna se l'è immaginato.
Una sconfìtta. Ebbene, ci trasciniamo avanti.
La sagoma di un cavallo. Una bellezza! Ci farebbe comodo.
Ci avviciniamo. Sta fermo. Gli carezziamo il collo, gli buttiamo
la cinghia sopra. Faccio salire Ždanok e io non riesco ad arram-
picarmi, tanto sono fiacco. Mi afferro con le mani, mi butto
* L'evasione.

194
sull'animale con il ventre ma non riesco ad alzare una gamba. Il
cavallo gira in tondo. Eccolo sfuggito, parte via al galoppo get-
tando Ždanok a terra. Meno male che la cinghia gli è rimasta in
mano, non ha lasciato una traccia, tutto sarà attribuito al
demonio.
Ci siamo sfiancati con quel cavallo. È ancora più difficile
camminare. Cominciamo a trovare un terreno arato, solchi. Vi
affondiamo, trasciniamo a stento i piedi. Ma da un lato è bene,
dove si trovano terre arate c'è gente, c'è l'acqua.
Camminiamo, piano piano. Ci trasciniamo. Ancora sagome.
Ci sdraiamo di nuovo e strisciamo. Covoni di fieno! Benissimo.
Prati? È vicino l'Irtys? (Invece, è lontanissimo.) Con le ultime
forze saliamo su un mucchio e ci nascondiamo nel fieno.
Ora sì che ci addormentiamo per un'intera giornata. Contando
l'ultima notte prima dell'evasione, passata senza chiudere occhio,
abbiamo perduto cinque notti di sonno.
Ci sveglia alla fine della giornata il rumore di un trattore.
Scostiamo cautamente il fieno, sporgiamo la testa. Si sono avvi-
cinati due trattori. Una capanna. Imbrunisce.
Un'idea! Nel trattore c'è l'acqua di raffreddamento. I trattoristi
si butteranno a dormire e noi la berremo.
Si fa buio del tutto. Sono passati quattro giorni dalla fuga.
Strisciamo verso i trattori.
Meno male che almeno non ci sono cani. Raggiungiamo piano
piano la macchina, prendiamo un sorso: no, l'acqua è mescolata
con il petrolio. Sputiamo, non possiamo berla.
Questi hanno tutto, acqua e cibo. Bussare, supplicare per
carità di Dio: « Fratelli! Gente! Aiutateci! Siamo prigionieri
fuggiti di prigione! ». Così si faceva nel secolo diciannovesimo,
e la gente portava sui sentieri della tajga paioli di polenta, stracci,
monete di rame. Le contadine ti porgevano il pane e i giovanotti
offrivano tabacco.
Accidenti! I tempi non sono più quelli. Ci venderebbero. O
perché lo vogliono fare, per convinzione, o per salvare se stessi.
Perché c'è caso di prendersi il quartino per complicità. Nel secolo
scorso non avevano ancora pensato di condannare in base a un
articolo politico per un po' di pane e acqua.

195
Ci trasciniamo oltre. Ci trasciniamo per tutta la notte. Aspet-
tiamo l'Irtys, cerchiamo i segni d'un fiume. Non ve ne sono. Ci
spingiamo avanti senza pietà per noi stessi. Verso il mattino
troviamo un altro mucchio di fieno. Vi saliamo sopra con ancor
più difficoltà di ieri. Ci addormentiamo. C'è da essere contenti
anche di questo.
Ci svegliamo verso sera. Quanto può sopportare un uomo?
Sono già cinque giorni. Vediamo una jurta nelle vicinanze, con
una tettoia accanto. Ci avviciniamo furtivamente. C'è un muc-
chio di miglio. Ne riempiamo la cartella, cerchiamo di masti-
carlo, ma è impossibile inghiottirlo, tanto è secca la bocca.
Vediamo d'un tratto accanto alla jurta un enorme samovar, da
due litri. Strisciamo verso quello, apriamo il rubinetto. È vuoto,
maledetto. Lo incliniamo, riusciamo a succhiare un paio di
boccate ciascuno.
Avanti ancora. Avanti, cadendo ogni tanto. Sdraiati si respira
meglio. Non ci possiamo più alzare se ci sdraiamo sulla schiena.
Per farlo bisogna prima voltarsi sulla pancia. Poi alzarsi a quattro
zampe. Poi, vacillando, in piedi. Abbiamo già l'affanno. Siamo
così smagrati che ci sembra di avere lo stomaco appiccicato alla
spina dorsale. Prima del mattino abbiamo percorso duecento
metri, non più. E ci buttiamo di nuovo a terra.
All'alba non troviamo neppure il fieno. Una tana in una
collinetta, scavata da qualche bestia. Vi passiamo la giornata
senza riuscire a dormire; quel giorno l'aria si è raffreddata, sen-
tiamo il freddo della terra. O è il sangue che non ci scalda più?
Tentiamo di masticare i maccheroni.
Vedo improvvisamente una fila di uomini. Le mostrine rosse!
Ci stanno accerchiando! Ždanok mi scuote: hai le allucinazioni, è
una mandria di cavalli.
Sì, è stato un abbaglio. Ci sdraiamo di nuovo. La giornata non
finisce mai. Improvvisamente ecco uno sciacallo. È venuto alla
sua tana. Gli mettiamo fuori dei maccheroni e strisciamo in
disparte per adescarlo, sgozzarlo e mangiarlo. Non li vuole. Se
ne va.
C'è un declivio da un lato e in basso le saline di un lago
prosciugato; dall'altra parte una jurta, un sottile filo di fumo.

196
Sono passati sei giorni. Siamo al limite: ho già avuto l'alluci-
nazione delle mostrine rosse, la lingua non si muove più in
bocca, oriniamo raramente, con sangue. No, stanotte, a qualun-
que costo dobbiamo trovare acqua e cibo. Andiamo verso la
jurta. Se ci negheranno aiuti ricorreremo alla forza. Ricordo: il
vecchio fuggiasco Grigorij Kudla usava un grido: machmadera!
(Significa: « Finite le chiacchiere, prendi! ».) Ci mettiamo d'ac-
cordo con Kolja: io dirò « machmadera ».
Ci avviciniamo piano alla jurta nell'oscurità. Il pozzo c'è! ma
manca un secchio. Vicino c'è un palo, a cui è legato un cavallo
sellato. Gettiamo un'occhiata nella fessura della porta. Un
kazachi e la sua donna, dei bambini intorno a un lume a petrolio.
Bussiamo, entriamo. Dico « Salam! ».* Ho dei grandi cerchi
davanti agli occhi, faccio uno sforzo per non cadere. Una tavola
tonda bassissima, più bassa di quelle nostre moderne, per il
besbarmak.** Torno torno panchettine coperte di lana di pecora.
Un grosso baule rivestito di ferro battuto.
Il kazachi borbotta qualcosa in risposta, ci guarda sottecchi,
non è contento. Per darmi un'aria d'importanza (e devo rispar-
miare le forze) io mi siedo, metto la cartella sul tavolo. « Sono
capo d'una spedizione di esplorazione geologica, questo è il mio
autista. La macchina con la gente è rimasta nella steppa, a cinque
o sette chilometri da qui. Il radiatore perde, l'acqua se n'è andata.
Sono tre giorni che non beviamo e non mangiamo. Dacci da bere
e da mangiare, aksakal.*** E poi, cosa ci consigli di fare? »
Ma il kazachi socchiude gli occhi, non offre da mangiare e da
bere. « Come si chiama il capo? » domanda.
Avevo preparato ogni risposta, ma ho un ronzio nella testa,
tutto dimenticato. « Ivanov », rispondo. (È sciocco, si capisce.) «
Su, vendici del cibo, aksakal! » « No, vai dal vicino. » « È
lontano? » « Due chilometri. »
Sto seduto con aria sussiegosa, ma intanto Kolja non regge,
prende una focaccia dal tavolo, tenta di masticarla, vedo che
* Pace!
** Piatto nazionale kazachi a base di carne di montone.
*** Espressione di deferenza: « barba bianca », in kazachi.

197
non gli riesce. Improvvisamente il kazachi prende una frusta con
il manico corto, - una lunga codetta di cuoio e l'alza su Ždanok.
Io mi alzo: « Ah, gente! È questa la vostra ospitalità? ». Il
kazachi punta il manico della frusta nella schiena di Ždanok, lo
scaccia dalla jurta. Io comando: « Machmadera! ». Tiro
fuori il coltello e dico al kazachi: « A terra! Nell'angolo! »
Il kazachi balza dietro una tenda, io dietro, forse ha un fucile e
sta per sparare? Lui si è buttato sul letto, grida: « Prendi tutto!
Non dirò niente! ». Cane che non sei altro. A che mi serve il tuo
« tutto »? Perché non mi hai dato prima quel poco che ti
chiedevo?
A Kolja: « Perquisizione! ». Io rimango appostato alla porta
con il coltello. La donna strilla, i bambini si sono messi a
frignare. « Di' a tua moglie che non toccheremo nessuno. Ci
serve da mangiare. Carne, bar? » « Yok! »* spalanca le braccia.
Intanto Kolja fruga e già tira fuori da un ripostiglio un intero
montone seccato. « Perché menti? » Kolja trascina anche una
catinella piena di baursaki, pezzi di pasta fritti nel grasso. Vedo
allora che sul tavolo ci sono fiaschette di kumys.** Ne beviamo.
A ogni sorsata è la vita che torna. Che bevanda! Ci gira la testa,
ma l'ebbrezza restituisce le forze, ci sentiamo leggeri. Kolja ci ha
preso gusto. Mi tende del denaro, ha trovato ventotto rubli. In
qualche nascondiglio ce ne sono certamente di più. Infiliamo il
montone in un sacco, i baursaki in un altro, aggiungiamo le
focacce e certe caramelle sporche. Kolja prende anche una
scodella con pezzi fritti di montone. Un coltello! Proprio quello
che ci occorre. Cerchiamo di non dimenticare nulla: cucchiai di
legno, sale. Io porto via un sacco, torno, prendo un secchio pieno
d'acqua. Prendo una coperta, una briglia di riserva, la frusta.
(Quello brontola, non gli è piaciuto: dovrà pur inseguirci.)
« Sicché » dico al kazachi « impara e ricorda: bisogna essere
più buoni con gli ospiti. Per un secchio d'acqua e una decina di
baursaki ti avremmo fatto un inchino fino a terra. Non fac-
* « Ce n'è? » « No » (in kazachi).
** Latte fermentato di cavalla.

198
ciamo del male alla brava gente. Ultimi ordini: stattene fermo
qui, non ti muovere. Non siamo soli. »
Lascio Kolja fuori dalla porta e trascino il resto del bottino
verso il cavallo. Sembrerebbe necessario affrettarsi, ma rifletto
con calma. Porto il cavallo al pozzo, lo abbevero. Avrà da
lavorare anche lui, camminerà sovraccarico per l'intera notte.
Kolja ha un debole per gli animali da cortile. « Prendiamo le
oche? Gli tiriamo il collo? » « Faranno molto rumore. Non per-
diamo tempo. » Abbasso le staffe, tiro bene il sottopancia. Žda-
nok mette la coperta dietro la sella e vi si siede sopra montando
dall'orlo del pozzo. Prende in mano il secchio dell'acqua. But-
tiamo sul dorso del cavallo i due sacchi legati. Io monto in sella.
E ci dirigiamo a oriente per sviare l'inseguimento, orientandoci
con le stelle.
Il cavallo è scontento di avere in groppa due cavalieri, per di
più degli sconosciuti, cerca di voltare verso casa, dimena il collo.
Riusciamo a dominarlo. Comincia a camminare speditamente.
Vediamo delle luci. Le evitiamo. Kolja mi canticchia
all'orecchio:

Bello correr nella steppa, respirar la libertà,


purché abbia il suo cavallo il cowboy la vincerà!

« Ho visto il suo passaporto »* mi dice. « Perché non l'hai


preso? Un passaporto può sempre far comodo. Almeno per far
vedere la copertina da lontano. »
Strada facendo, senza scendere, sorseggiamo spessissimo del-
l'acqua, mangiamo un boccone. Tutto un altro stato d'animo.
Potessimo percorrere una bella distanza adesso nel corso della
notte!
D'un tratto udiamo grida di uccelli. Un laghetto. Girargli in-
torno prenderebbe troppo tempo, peccato sprecarlo. Kolja scende
e prende il cavallo per la briglia per attraversare l'ostacolo. Una
volta superato, ci accorgiamo di non avere più la coperta.
Scivolata via... Abbiamo lasciato una traccia...
Malissimo. Dalla jurta del kazachi si irradiano molte vie,

* Si tratta del passaporto interno.

199
ma se trovassero la coperta e aggiungessero questo punto alla
jurta, si delineerebbe la direzione da noi presa. Tornare a cer-
carla? Non c'è tempo. Capiranno comunque che siamo diretti a
nord.
Una sosta. Tengo il cavallo per la briglia. Mangiamo e bevia-
mo a non finire. È rimasta soltanto un po' d'acqua sul fondo del
secchio. Ce ne meravigliamo addirittura.
Puntiamo verso nord. Il cavallo non ce la fa a trottare, ma
avanza rapidamente e percorre da otto a dieci chilometri l'ora. Se
in sei notti abbiamo fatto centocinquanta chilometri, questa notte
ne faremo settanta. Se non avessimo fatto dei zig zag saremmo
già all’Irtys.
Albeggia. Non ci sono ripari. Proseguiamo ancora. Diventa
pericoloso cavalcare. Vediamo una profonda avvallatura, una
specie di fossa. Vi scendiamo con il cavallo, beviamo e man-
giamo ancora. Improvvisamente lo strepito d'una motocicletta.
Male, dunque lì vicino passa una strada. Bisogna nascondersi
meglio. Sbuchiamo per guardarci intorno. Poco lontano c'è un
aul* morto, abbandonato.1 Ci dirigiamo là. Scarichiamo tutto fra
le mura di una casa diroccata. Impastoio il cavallo, lo lascio
pascolare.
Ma quel giorno non riuscimmo a dormire: con quel kazachi e
la coperta avevamo lasciato una traccia.
La sera. Sette giorni. Il cavallo pascola in lontananza. Andia-
mo a prenderlo, scatta via, non si lascia prendere; Kolja lo afferra
per la criniera, il cavallo lo trascina, lo fa cadere. È riuscito a
sciogliersi le zampe anteriori; oramai non si riacchiappa più.
Insistiamo per altre tre ore, fino all'estenuazione, lo cacciamo fra
le rovine, gli buttiamo un cappio fatto con le cinture, tutto
inutilmente. Ci mordiamo le labbra dalla stizza ma siamo
costretti a abbandonarlo. Ci rimangono la briglia e la frusta.
Mangiamo, beviamo l'ultima acqua. Ci carichiamo sulle spalle
* Villaggio dell'Asia centrale.
1
Ve ne sono pochi nel Kazachstan, rimasti dopo gli anni 1930-33. Prima ci è passato
Budennyj con la sua cavalleria (a tutt'oggi non c'è in tutto il Kazachstan un solo kolchoz a lui
intitolato, un solo suo ritratto), poi la carestia.

200
i sacchi col cibo e il secchio vuoto. Ci incamminiamo. Oggi le
forze non ci mancano.
Il mattino successivo ci sorprende in un punto dove siamo
costretti a nasconderci fra i cespugli ai margini di una strada. Un
posto non troppo felice, ci potrebbero vedere. Strepita un carro.
Non dormiamo neppure quel giorno.
Alla fine dell'ottavo giorno riprendiamo la marcia. Dopo un
certo tratto sentiamo sotto i piedi una terra morbida: qui è stato
arato. Proseguiamo: i fari d'una automobile. Attenzione!
Una luna nascente fra le nuvole. Ancora un aul kazachi
distrutto e disabitato. Più in là le luci d'un villaggio, ne giunge un
canto:
Staccate i cavalli, giovanotti!

Nascondiamo i sacchi fra le rovine, con il secchio e la cartella


ci dirigiamo verso l'abitato. Abbiamo i coltelli in tasca. Ecco la
prima casa, grugnisce un maialetto. T'avessimo incontrato nella
steppa! Incontro a noi viene un giovanotto in bicicletta: « Senti,
amico, abbiamo una macchina, portiamo del grano, dove
possiamo prendere dell'acqua per il radiatore? » Il giovanotto
scende, ci accompagna. Fuori dell'abitato c'è un abbeveratoio per
il bestiame. Attingiamo l'acqua col secchio, la portiamo senza
berla. Appena il giovanotto si allontana ci sediamo e giù a bere.
Ne tracanniamo di colpo mezzo secchio. (La sete è
particolarmente forte perché siamo sazi.)
Sembra un po' più fresco. Sotto i piedi sentiamo della vera
erba. Ci dev'essere un fiume! Bisogna cercarlo. Ci incamminia-
mo. Erba più alta, cespugli. Salici! crescono sempre vicino
all'acqua. Giunchi! Ed ecco l'acqua!... Certamente un'insenatura
dell'Irtys. Beh, adesso ci sarà da sciaguattare, da lavarsi! Giunchi
di due metri. Le anatre ci volano via da sotto i piedi. Paese del
bengodi! Qui non periremo.
E fu allora che l'intestino scoprì, dopo otto giorni, di dover
funzionare. Otto giorni senza andare di corpo, che tormento.
Certamente il parto è qualcosa di simile...
Poi ci dirigiamo di nuovo verso l'aul abbandonato. Accen-
demmo un fuoco fra le mura diroccate, cuocemmo la carne di

201
montone secca. Bisognava riservare la notte al movimento, ma la
voglia di mangiare era insaziabile. Ci riempimmo al punto che fu
difficile muoversi. E, contenti, andammo a cercare l'Irtys. A un
bivio successe quello che non era mai successo per otto giorni,
un dissidio. Io dicevo, a destra, Ždanok, a sinistra.
Io sentivo con sicurezza che bisognava prendere a destra, lui
non voleva ubbidire. È un nuovo pericolo per i fuggiaschi, il
dissapore. Durante una evasione la parola decisiva deve assolu-
tamente spettare a una sola persona. Altrimenti si va incontro a
dei guai. Per far valere la mia opinione, presi a destra. Percorsi
cento metri, non udivo più i passi dietro di me. Mi si strinse il
cuore. Non dovevamo separarci. Mi sedetti presso un pagliaio,
guardai indietro... Ecco Kolja! Lo abbracciai. Proseguimmo fian-
co a fianco come se nulla fosse.
Più cespugli, più frescura. Ci avvicinammo a un borro. In
basso gorgogliava e spirava umidità verso di noi: l'Irtys... Siamo
colmi di gioia!
Troviamo un mucchio di fieno, ci nascondiamo dentro. Beh,
cani, dove ci cercate? Eccoci qua! Ci addormentammo come
sassi.
E... ci svegliammo sentendo uno sparo. E latrati di cane
accanto.
Come? Tutto qui? È già questa, la fine della libertà?
Ci stringiamo senza respirare. Passa un uomo, con un cane.
Un cacciatore! Ci addormentammo ancora più profondamente,
questa volta per l'intera giornata. Passammo così il nono giorno.
Quando si fece buio ci avviammo lungo il fiume. Avevamo
lasciato una traccia tre giorni prima. Adesso la muta ci avrebbe
cercato solamente nei pressi dell'Irtys. Per loro è chiaro che
tendiamo verso l'acqua. Camminando lungo la riva è facile
cadere in un agguato. E non è comodo seguirla, dobbiamo
percorrere insenature, curve, farci strada attraverso i giunchi.
Abbiamo bisogno di una barca.
Una luce, una casetta sull'argine. Uno sciaguattio di remi, poi
il silenzio. Noi ci nascondiamo e aspettiamo a lungo. La luce
viene spenta. Scendiamo adagio. Ecco la barca. E un paio di
remi. Bene! (Il padrone avrebbe potuto benissimo prenderli

202
con sé.) « In alto mare bello sognare. » È il mio elemento.
Dapprima piano piano, senza quasi remare. Una volta nel mezzo
del fiume remo a tutta forza.
Scendiamo giù per la corrente e incontro a noi, dietro a una
curva, avanza un piroscafo illuminato. Quante luci! Tutti gli oblò
sono illuminati, l'intero piroscafo risuona della musica e delle
danze. I beati liberi passeggeri, senza rendersi conto della loro
beatitudine e libertà, camminano in coperta, siedono al ristorante.
E come saranno accoglienti le loro cabine!
Scendiamo così per circa una ventina di chilometri. Stiamo
per esaurire le provviste. Prima che si faccia giorno sarebbe
ragionevole rifornirci. Sentiamo cantare dei galli, approdiamo,
risaliamo l'argine silenziosamente. Una casetta. Il cane non c'è.
Una stalla. Una mucca col vitello. Polli. A Ždanok piace il
pollame ma io dico, prendiamo il vitello. Ždanok lo porta fino
alla barca e io faccio sparire le tracce nel senso più letterale,
altrimenti la muta capirà che navighiamo sul fiume.
Il vitello camminò tranquillamente fino all'acqua, ma si rifiutò
di entrare nella barca. A stento, in due, riuscimmo a farcelo salire
e a buttarlo giù. Ždanok gli sedette sopra pigiandolo sul fondo, io
remai un poco, con l'intenzione di sgozzarlo una volta che ci
fossimo allontanati. Fu un errore trasportarlo vivo. Il vitello
cominciò a sollevarsi, scaraventò giù Ždanok, e già aveva buttato
nell'acqua le zampe davanti.
Al lavoro tutto l'equipaggio! Ždanok regge il vitello per la
groppa, io tengo Ždanok, siamo tutti inclinati da un lato, l'acqua
invade la barca. Non ci mancava che affogare nell'Irtys! Tuttavia
riusciamo a tirare indietro il vitello. Ma la barca pesca troppo,
bisogna vuotare l'acqua. Prima ancora però bisogna macellare il
vitello! Prendo il coltello e cerco di recidergli il tendine sul
garrese, ci dovrebbe essere, non so dove, il punto giusto. Non lo
trovo, o è spuntato il coltello, non ci riesco. Il vitello trema, lotta,
si agita, mi agito anch'io. Cerco di tagliargli la gola, e non posso
fare neppure questo. Lui muggisce, scalcia, a momenti salta fuori
e ci rovescia. Vuole vivere, ma vogliamo vivere anche noi.
Taglio e non riesco a sgozzarlo. Lui fa oscillare la barca, la

203
spinge, imbecille insensato, sta per farci affogare. Perché è tanto
cattivo e cocciuto, mi afferra un odio atroce, come se fosse un
acerrimo nemico, e comincio a ferirlo disordinatamente col
coltello, a infilarglielo nella carne con rabbia.1 Il suo sangue
sprizza, ci inonda. Lui muggisce disperatamente, tira calci
fortissimi. Ždanok gli stringe il muso, la barca oscilla, e io
continuo ad accoltellarlo. E dire che prima avevo pietà d'un to-
pino, d'un insetto! Ora non è il caso di avere pietà: o lui o noi.
Finalmente rimane immobile. Cominciamo a vuotare l'acqua
al più presto, a quattro mani, con la sessola, con dei vasi di vetro.
Poi, via a remare!
La corrente ci ha portati verso un braccio del fiume. Davanti a
noi c'è un'isola. Il posto più adatto per nasconderci, fra poco sarà
mattino. Spingiamo la barca ben addentro tra i giunchi.
Trasciniamo a riva il vitello e tutti i nostri beni, copriamo la
barca con giunchi anche dal di sopra. Non è facile risalire il
dirupo tirando il vitello per le zampe. Lassù l'erba arriva alla
cintola, c'è un bosco. Fantastico! Da quanti anni oramai viviamo
nel deserto. Abbiamo dimenticato come possono essere belli il
bosco, l'erba, i fiumi...
Spunta l'alba. Sembra che il vitello faccia il muso offeso. Ma
grazie a lui, l'amico, possiamo vivere un poco sull'isola.
Affiliamo il coltello contro un pezzo di lima della « Katjuša ».
Non mi è mai capitato di scuoiare una bestia, ma imparo. Taglio
longitudinalmente il ventre, scosto la pelle, tolgo le budella. In
fondo al bosco accendiamo un fuoco e cuociamo la carne di
vitello con fiocchi d'avena. Un secchio intero.
Un festino! E quello che più conta, l'animo in pace. In pace
perché siamo su un'isola. L'isola ci separa dai malvagi. Esistono
anche degli uomini buoni, ma chissà perché i fuggiaschi non ne
incontrano spesso, per lo più sono malvagi.
Una giornata afosa di sole. Non abbiamo la necessità di
raggomitolarci in una tana da sciacalli. L'erba è fitta e succosa.
Chi la calpesta ogni giorno non la sa apprezzare, non sa cosa
significa buttarvisi col petto, affondarvi il viso.
1
Non è così che i nostri oppressori, facendoci perire, allo stesso tempo ci odiano?

204
Vaghiamo sull'isola. È tutta una macchia di rose selvatiche e
le bacche sono già mature. Ne mangiamo a crepapelle. Poi di
nuovo la minestra. E di nuovo cuociamo la carne di vitello. Ci
facciamo una polenta con rognone.
Ci sentiamo il cuor leggero. Ricordiamo il difficile percorso e
ridiamo di molte cose. Di come là aspettano il nostro sketch. Di
come bestemmiano, di come fanno il loro bravo resoconto alla
direzione. Imitiamo i vari personaggi. E ci sbellichiamo dalle
risate.
Tagliamo la corteccia da un grosso tronco e vi incidiamo con
un fil di ferro arroventato: « Qui sulla via verso la libertà si
rifugiarono nell'ottobre 1950 due uomini innocenti condannati
alla galera a vita ». Rimanga pure una traccia. In questo luogo
recondito non servirà agli inseguitori, e qualcuno lo leggerà un
giorno.
Decidiamo di non aver fretta. Abbiamo tutto ciò per cui siamo
evasi: la libertà! (Chissà se sarà più completa una volta raggiunta
Omsk o Mosca.) Le giornate sono ancora tiepide e soleggiate,
l'aria è pura, c'è il verde, il ristoro. La carne ci basta. Il pane non
c'è e ci manca molto.
Viviamo così sull'isola quasi una settimana: dal decimo al
sedicesimo giorno. Nel fitto della macchia costruiamo una ca-
panna per stare all'asciutto. Di notte fa freddo anche là dentro,
ma di giorno ci rifacciamo del sonno mancato. Per tutti quei
giorni ci riscalda il sole. Beviamo molto, cerchiamo di fare come
i cammelli, di farci una provvista. Ce ne stiamo seduti spensie-
ratamente, nascosti tra i rami, e osserviamo a lungo la vita che si
svolge là, sulla riva. Là circolano le macchine. Là tagliano l'erba,
è la seconda fienagione. Nessuno capita da noi.
Di punto in bianco, di giorno, mentre sonnecchiamo tra l'erba
all'ultimo sole, sentiamo un rumore di ascia sull'isola. Ci
solleviamo e vediamo poco lontano un uomo che taglia rami e si
avvicina gradualmente a noi.
In questo mezzo mese mi è cresciuta la barba, irti peli rossicci
da far paura, non ho nulla con cui radermi, il tipico evaso.
Ždanok è imberbe come un ragazzino. Quindi io fingo di dormire
e mando lui senza aspettare che quello ci trovi; chiederà da
fumare, dirà che siamo turisti da Omsk, gli chiederà da
205
dove viene lui. In caso di bisogno sarò pronto a intervenire io.
Kolja ci va, parlano. Fumano. È un kazachi di un kolchoz
vicino. Vediamo poi che si avvia lungo la riva, sale su una barca,
e si mette a remare senza aver preso i rami tagliati.
Che cosa significa? Ha fretta di dare l'allarme? (O forse al
contrario si è impaurito? teme che noi lo denunziamo, anche per
il taglio della legna ci si busca una condanna. La vita è fatta in
modo tale che tutti hanno paura di tutti.) « Cosa gli hai detto di
noi? » « Che siamo degli alpinisti. » Sono risate, Ždanok fa
sempre qualche confusione. « Te l'avevo detto di dire turisti!
Macché alpinisti in mezzo alla steppa! »
No, non possiamo rimanere. Finita la vita beata. Riportiamo
tutto sulla barca e salpiamo. Sebbene sia giorno, dobbiamo an-
darcene al più presto. Kolja si allunga sul fondo della barca, non
lo si vede, di fuori sembra ci sia un uomo solo. Io remo, mi tengo
al centro del fiume.
C'è un problema: comprare del pane. Un altro: stiamo per
attraversare luoghi popolosi e devo assolutamente radermi. Con-
tiamo di vendere uno degli abiti a Omsk, di salire su un treno in
qualche stazione più in là e viaggiare così.
Prima di sera ci avviciniamo alla casetta di un guardiano delle
boe, saliamo. C'è una donna sola. Si spaventa, si agita: « Chiamo
subito mio marito! ». E se ne va non sappiamo dove. Io la seguo,
osservo. Sento un grido inquieto di Ždanok dalla casa: « Georgij!
». (Accidenti a te, hai una lingua che non val nulla. Ci eravamo
ben messi d'accordo che sarei stato Viktor Aleksandrovič.)
Torno. Due uomini, uno ha un fucile da caccia. « Chi siete? » «
Turisti da Omsk. Vogliamo comprare roba da mangiare. » (E, per
dissipare i sospetti): « Entriamo in casa, perché ci accogliete così
male? » Infatti i due si rilassano. « Noi non abbiamo niente.
Forse nel sovchoz. È due chilometri più in basso. »
Torniamo nella barca e ne facciamo una ventina. È una sera di
luna. Risaliamo l'argine. Una casetta. Non c'è luce. Bussiamo.
Esce un kazachi. È il primo disposto a venderci qualcosa, com-
priamo un mezzo pane, un quarto di sacco di patate. Compriamo
un ago col filo (questa è forse un'imprudenza). Chiediamo una

206
lametta, ma lui non si rade, non gli cresce la barba. È comunque
la prima persona buona che incontriamo. Ci prendiamo gusto e
chiediamo se non ci sarebbe un po' di pesce. Si alza la massaia,
ci porta due pesciolini dicendo in un russo storpiato « senza soldi
». Questo non ce l'aspettavamo davvero, darci qualcosa senza
essere pagata! Dunque esiste veramente della brava gente. Ficco
il pesce nel sacco ma l'uomo cerca di riprenderlo. « Cinque rubli!
» spiega. Ah è così. Non lo vogliamo, troppo caro.
Scendiamo lungo la corrente per tutto il resto della notte.
L'indomani, diciassettesimo giorno di fuga, nascondiamo la
barca fra i cespugli, dormiamo sul fieno. Così pure il
diciottesimo e il diciannovesimo, evitando ogni incontro.
Abbiamo tutto quanto ci occorre: acqua, fuoco, carne, patate,
sale, il secchio. Sulla scoscesa riva destra si stendono foreste
d'alberi fogliferi, sulla sinistra prati, molto fieno. Di giorno
accendiamo il focherello tra i cespugli, cuociamo una minestra,
dormiamo.
Ma presto arriveremo a Omsk e sarà inevitabile affrontare la
gente, dunque occorre radersi. Problema insolubile: senza
lamétta né forbici non s'inventa nulla. Non c'è che liberarsi dei
peli strappandoli uno per uno.
In una notte di luna vediamo un'alta collina che sovrasta il
fiume. Un fortino? dei tempi di Ermak? Ci arrampichiamo per
vedere. Al chiaro di luna scorgiamo una misteriosa cittadina
morta, le cui case son fatte di mattoni grezzi impastati con la
paglia. Vestigia anche queste, probabilmente dell'inizio degli
anni Trenta... Incendiavano tutto ciò che poteva bruciare, abbat-
tevano le murature, legavano qualcuno alla coda dei cavalli...
Qui non vengono i turisti.
Non era mai piovuto in quelle due settimane. Ma le notti
erano diventate freddissime. Per fare più presto remavo quasi
sempre io, Ždanok stava a poppa e gelava. La ventesima notte
cominciò a pregarmi di accendere un fuoco per scaldarsi con
dell'acqua bollente. Io lo facevo remare, ma lui era tutto scosso
da brividi di febbre e supplicava un fuoco.
Non poteva rifiutarglielo il compagno di fuga, Kolja avrebbe
dovuto capirlo e rinunziarvi da solo. Ma Ždanok era fatto così:

207
non sapeva rinunziare a un desiderio: come quando aveva affer-
rato la focaccia sul tavolo o si lasciava tentare dal pollame.
Tremava e chiedeva del fuoco. Lungo tutto l'Irtys ci aspetta-
vano certamente... C'era da meravigliarsi che non avessimo an-
cora incontrato dei soldati. Che con quelle notti di luna non ci
avessero scorti in mezzo all'Irtys e non ci avessero fermati.
D'un tratto sopra un'alta riva vedemmo una luce. Kolja co-
minciò a pregarmi di andarci a scaldare là, invece di accendere
un falò. Era ancora più pericoloso. Impossibile acconsentire.
Sopportare tanto, percorrere tanta strada, per che cosa? Ma non
potevo rifiutare, forse era malato. E lui non rinunziava.
Dormivano per terra, con un lume a petrolio acceso, un kaza-
chi e una donna. Impauriti balzarono in piedi, io spiegai: « II mio
compagno si è ammalato, lasciatelo scaldare. Siamo dell'am-
masso del grano, in missione. Ci hanno traghettato con una barca
dall'altra riva ». Il kazachi dice: « Coricatevi pure ». Kolja si
sdraiò su una coperta di lana, mi sdraiai anch'io per non destare
sospetti. Era la prima volta che avevamo un tetto sopra di noi, ma
questo tetto mi bruciava. Non soltanto non riuscivo a dormire,
ma neppure a rimanere coricato. Sentivo che ci eravamo traditi
da soli, che ci eravamo volontariamente cacciati in trappola.
Il vecchio uscì con le sole mutande (altrimenti lo avrei
seguito) e rimase assente per un pezzo. Sentivo bisbigliare in
kazachi dietro a una tenda. Era la coppia giovane. Domandai: «
Siete guardiani della boa? » « No, siamo allevatori di bestiame,
sovchoz Abaj, il primo della repubblica. » Bel posticino aveva-
mo scelto, non si poteva far di peggio. Dove c'è un sovchoz ci
sono autorità e milizia. E per di più il primo della repubblica!
Dunque fanno gli zelanti...
Stringo il braccio a Kolja. « Io vado alla barca, raggiungimi.
Con la cartella ». Ad alta voce: « Abbiamo fatto male a lasciare
le provviste sulla riva ». Esco nell'andito. Spingo la porta, è
chiusa dal di fuori. Tutto chiaro. Torno, do l'allarme a Kolja e di
nuovo mi dirigo verso la porta. I falegnami hanno fatto un cattivo
lavoro, in basso un'asse è più corta, infilo una mano

208
e allungo il braccio... Ecco, è rincalzata con un piolo. Lo spingo
via.
Esco. Presto, verso la riva. La barca è al suo posto. Sto lì ad
aspettare illuminato dalla luna piena. Ma non vedo venire Kolja.
Un bel guaio. Gli è dunque mancata la forza di alzarsi. Si sta
scaldando un minuto di più. Oppure lo hanno preso. Devo
tornare a salvarlo.
Risalgo il dirupo. Avanzano dalla casa verso di me quattro
uomini, fra questi Ždanok. Camminano stretti (o lo stanno
tenendo?). Lui grida: « Georgij! ». (Ancora una volta « Georgij!
») « Vieni qui! Vogliono i documenti! » E non ha in mano la
cartella che gli avevo detto di prendere con sé.
Mi avvicino. Un nuovo venuto, con accento kazachi, mi dice:
« I vostri documenti! ». Serbo la massima calma: « E lei chi
sarebbe? » « Sono l'intendente. » « Ebbene » dico con tono in-
coraggiante « andiamo pure. Niente vieta di verificare i docu-
menti. Sono là in casa, c'è più luce. » Entriamo in casa.
Alzo lentamente la cartella da terra, mi avvicino al lume a
petrolio, penso come fare a divincolarmi e fuggire, e intanto vado
ripetendo: « I documenti, senz'altro. Chi ne ha il dovere li deve
sempre verificare. La vigilanza non nuoce. Da noi all'ammasso
del grano c'è stato un caso... » Sto già tenendo la chiusura della
cartella, come per aprirla. I tre fanno ressa intorno a me.
Bruscamente do un colpo a sinistra con la spalla all'intendente,
quello cade sul vecchio, finiscono ambedue per terra. Assesto un
pugno sulla mascella del giovane. Strilli, urla. Io grido «
Machmadera! » e con la cartella in mano salto verso una porta,
poi verso l'altra. A questo punto Kolja mi urla dall'andito: «
Georgij, mi hanno preso! ». Si è afferrato allo stipite ma quelli lo
tirano dentro. Io gli do uno strattone al braccio, non riesco a
trascinarlo fuori. Allora punto il piede contro lo stipite e do uno
strattone tale che Kolja mi vola sopra e cado anch'io. Subito mi si
buttano addosso in due. Non capisco come ho fatto a
divincolarmi. Ci abbiamo rimesso la nostra preziosa cartella.
Corro verso il dirupo, scendo a balzelloni, sento gridare in russo:
« Dagli con l'ascia! Con l'ascia! ». Fanno apposta per
spaventarmi, altrimenti griderebbero nella loro lingua. Sento

209
che sono lì lì per afferrarmi. Inciampo, sto per cadere. Kolja è già
alla barca. « Spingi! » gli grido. « Salta dentro! » Lui spinge la
barca, io corro nell'acqua che m'arriva al ginocchio, salto nella
barca. I kazachi non si decidono a buttarsi nell'acqua, corrono su
e giù per la riva, ringhiano. « Ci avete presi, canaglie? » gli urlo
io.
Meno male che non hanno un fucile. Spingo la barca giù per
la corrente. Quelli urlano, corrono lungo l'argine, ma una inse-
natura sbarra loro la strada. Io mi tolgo le due paia di calzoni,
quelli della marina e quelli dell'abito, li strizzo, batto i denti. «
Beh, Kolja, ci siamo scaldati? » Sta zitto...
È chiaro che dobbiamo dare l'addio all'Irtys, All'alba dovremo
tornare sulla riva e proseguire per Omsk con macchine di
passaggio. Non dovrebbe più essere lontana.
Sono rimasti nella cartella la « Katjuša » e il sale. Come fare a
procurarci un rasoio, per non parlare poi di asciugarci? Ecco una
barca sulla riva, una casetta. Un guardiano, a quanto pare.
Saliamo, bussiamo alla porta. Non accendono la luce. Una voce
di basso: « Chi è? ». « Lasciateci scaldare! Per poco non siamo
affogati, s'è rovesciata la barca. » Tramenano a lungo, poi aprono
la porta. Nella penombra sta di fianco alla porta un robusto
vecchio, russo, ha alzato un'ascia con le due mani. La calerà sul
primo che entra, non avrà remore. « Non abbia paura » cerco di
convincerlo io. « Siamo di Omsk, siamo stati in missione nel
sovchoz Abaj. Volevamo raggiungere in barca il paese più in giù,
ma a uno sbarramento con reti abbiamo fatto una manovra
sbagliata e ci siamo rovesciati. » Ci guarda sempre con sospetto,
non abbassa l'ascia. Dove l'ho veduto, su quale quadro? Un
vecchio da antica saga, una criniera grigia, una testa grigia.
Finalmente risponde: « Dunque siete diretti a Zelezjanka? »
Meno male, così sappiamo dove ci troviamo. « Ma sì, a
Zelezjanka. Il guaio è che è affondata la cartella, e c'erano
centocinquanta rubli. Avevamo comprato della carne nel sov-
choz, adesso dobbiamo pensare a ben altro. Forse vuole com-
prarla lei? » Ždanok va a prendere la carne. Il vecchio mi lascia
entrare nell'unica stanza, c'è un lume acceso, un fucile da caccia
appeso alla parete. « Adesso voglio vedere i documenti. »

210
Cerco di fare il baldanzoso. « Li tengo sempre con me, meno
male che non si sono bagnati, li ho nella tasca superiore. Sono
Stoljarov Viktor Aleksandrovič, incaricato dell'Amministrazione
regionale per l'allevamento del bestiame. » Adesso bisogna pren-
dere l'iniziativa al più presto: « E lei chi è? » « Guardiano delle
boe. » « Nome e patronimico? » A questo punto torna Kolja e il
vecchio non menziona più i documenti. Dice che non ha soldi per
la carne, ma ci può rifocillare con il té.
Passiamo un'oretta con lui. Ci riscalda del té su un fuoco di
frasche, ci da del pane, ci taglia perfino una fetta di lardo.
Parliamo della navigazione sull'Irtys, di dove abbiamo comprato
la barca, dove dovremmo venderla. Per lo più parlava lui. Ci
guardava con simpatia, con un saggio sguardo da vecchio, mi è
sembrato che capisse tutto, un vero uomo. Avrei addirittura
voluto confidarmi. Ma non ci sarebbe stato di aiuto: ovviamente
non possedeva un rasoio, si lasciava crescere la barba come tutto
cresce nella foresta. Per lui era meglio non sapere nulla, sarebbe
stato pericoloso. « Sapeva, ma non ha parlato. »
Gli lasciammo un pezzo di vitello, lui ci dette dei fiammiferi,
uscì per accompagnarci, spiegò da quale parte del fiume dove-
vamo tenerci. Salpammo e ci mettemmo a remare rapidamente
per allontanarci il più possibile nel corso dell'ultima notte.
Avevano tentato di prenderci sulla riva destra, dunque bisognava
tenerci su quella sinistra. La luna era tramontata di là dalla riva
nostra, ma il cielo era sereno e vedemmo una barca seguire la
corrente lungo la riva destra, scoscesa e boscosa, ma noi eravamo
più veloci.
Un gruppo di agenti? I nostri corsi erano paralleli. Decisi di
agire sfacciatamente, feci forza sui remi, mi avvicinai. « Ehi,
paesano! Dove sei diretto? » « A Omsk. » « Da dove? » « Da
Pavlodar. » « Come mai così lontano? » « Per sempre, mi ci
stabilisco. »
Quella voce con le « o » marcate è troppo popolana per un
agente, risponde volentieri, sembra addirittura contento dell'in-
contro. Sua moglie dorme sul fondo della barca, lui passa la notte
a remare. Guardo meglio, sembra un carro più che una barca, è
piena di masserizie, ingombra di fagotti.

211
Rifletto rapidamente. L'ultima notte, le ultime ore sul fiume e
un tale incontro! Se si trasferisce vuol dire che ha con sé le
derrate, denaro, i passaporti, vestiario, perfino un rasoio. Nes-
suno mai si accorgerà della loro mancanza. Lui è solo, noi siamo
due, la moglie non conta. Io terrò il suo passaporto. Kolja si
travestirà da donna, è piccolo, con la faccia glabra, si imbottirà
qua e là. Certamente avranno anche una valigia, avremo così
l'aria di due viaggiatori. E qualunque autista ci darà un passaggio
fino a Omsk questa mattina stessa.
Quando mai sono mancate le rapine sui fiumi di Russia? Nella
malvagia sorte, quale altra via d'uscita ci può essere? Ora che
abbiamo lasciato la nostra traccia sul fiume, questa è l'unica e
ultima possibilità di riuscita. Fa pena togliere i beni a un
lavoratore, ma chi ha avuto pietà di noi? Chi ne avrà?
Il tutto in un baleno, tanto nella testa mia quanto in quella di
Kolja. Io mi limito a domandargli sottovoce: « Uhm? ». E lui,
piano: « Machmadera ».
Mi avvicino sempre più, adesso sto spingendo la loro barca
verso la riva ripida, il bosco scuro, ho fretta di non lasciarli
raggiungere la curva del fiume, di là forse termina il bosco.
Cambio voce, assumo un tono autorevole, comando:
« Attenzione. Siamo un gruppo operativo del ministero degli
interni. Attraccate a riva. Verifica dei documenti. »
II rematore abbandona i remi: è smarrito o forse addirittura
sollevato che si tratti di agenti e non di briganti.
« Prego » fa, « potete verificarli qui, sull'acqua. »
« Ho detto sulla riva e così sarà. E presto! »
Ci siamo ravvicinati quasi a toccarci con i bordi, ci fermiamo.
Saltiamo fuori, lui arranca con difficoltà sopra i fagotti, vediamo
che è zoppo. Si è svegliata la moglie: « C'è ancora molto? ». Il
giovane porge il passaporto. « E il libretto militare? » « Sono
invalido, ferito, riformato. Ecco qui il certificato... » Vedo scin-
tillare del metallo sulla loro prua, un'ascia. Faccio segno a Kolja,
lo prenda. Kolja scatta troppo bruscamente e afferra l'ascia. La
donna si mette a urlare, ha capito che le cose si mettono male. Io,
severamente: « Cosa sono queste grida? Smetta

212
subito. Siamo in cerca di evasi. Dei criminali. Anche un'ascia è
un'arma. » Lei si calma un poco.
Comando a Kolja:
« Tenente, vada al posto di blocco. Ci dovrebbe essere il
capitano Vorob'ev. »
(II grado e il cognome mi vengono spontaneamente, perché il
nostro amico capitano Vorob'ev, un fuggiasco, è rimasto chiuso
nella BUR di Ekibastuz.)
Kolja ha capito: deve dare un'occhiata dall'alto per vedere se
c'è qualcuno, se possiamo agire. Corre su. Io intanto interrogo e
guardo attentamente. Il fermato, servizievole, mi accende dei
fiammiferi perché io esamini il suo passaporto e i certificati.
Torna bene anche l'età, l'invalido non ha neppure quarant'anni.
Ha lavorato come guardiano di boa. Adesso ha venduto la casa e
la vacca. (Tutti i denari li ha con sé, certamente.) Vanno a
cercare fortuna. Un giorno non bastava, si sono rimessi in viag-
gio di notte.
Un caso eccezionale, un caso raro, proprio perché nessuno si
accorgerà della loro mancanza. Ma noi cosa vogliamo? La loro
vita? No, io non ho mai ammazzato nessuno e non lo voglio fare.
Un giudice istruttore o un agente della Sicurezza che mi tortura
sì lo ammazzerei, ma non potrei alzare la mano su un brav'uomo
di lavoratore. Prendergli i soldi? Pochissimi. Pochissimi, quanto?
Abbastanza per due biglietti per Mosca. E per il cibo. Qualche
cosuccia. Non li rovinerà. E se non prendessimo né i loro docu-
menti né la barca e ci mettessimo d'accordo che non fiateranno?
Difficile crederci. E come possiamo fare a meno di documenti?
Ma se togliamo loro i documenti, dovranno per forza sporgere
denunzia. Perché non lo facciano, occorre legarli. Legarli in
modo da avere due o tre giorni di vantaggio.
Ma allora significa che dovremo...?
È tornato Kolja, mi fa segno che lassù è tutto a posto. Aspetta
il mio « Machmadera! ». Che fare?
Mi sorge dinanzi agli occhi la galera da schiavi di Ekibastuz.
Tornarci? Possibile che non abbiamo il diritto di...?
Improvvisamente qualcosa di leggerissimo mi sfiora i piedi.
Guardo: è qualcosa di piccolo e bianco. Mi chino, vedo un gat-

213
tino bianco. È saltato fuori dalla barca, tiene la codina ritta come
uno stelo, fa le fusa e mi si strofina contro.
Non conosce i miei pensieri.
Sfiorato da quel gattino, sento incrinarsi la mia volontà. È
come se questa, tesa da venti giorni, dal momento in cui strisciai
sotto il filo spinato, adesso si sia spezzata. Sento che qualunque
cosa dica Kolja io non potrò togliere loro non solo la vita ma
neppure i sudati denari.
Mantengo il cipiglio:
« Aspettate qui, vediamo. »
Arranchiamo su per il dirupo, ho in mano i loro documenti.
Dico a Kolja quello che penso.
Lui tace. Non è d'accordo ma tace.
Le cose stanno così: loro possono togliere la libertà a chiun-
que e non hanno la minima esitazione. Ma se noi vogliamo
riprenderci la nostra innata libertà essi esigeranno per questo la
vita nostra e quella di tutti coloro che incontreremo sul nostro
cammino.
Loro possono tutto, noi no. Ecco perché loro sono più forti di
noi. Senza esserci messi d'accordo, scendiamo. Lo zoppo è fermo
presso la barca. « E sua moglie? » « Ha avuto paura, è scappata
nel bosco. »
« Tenga i documenti. Potete proseguire. »
Ringrazia. Grida in direzione del bosco:
« Ma-aria! Torna indietro. Sono brava gente. Andiamo! »
Noi salpiamo. Io remo rapidamente. Lo zoppo ci ripensa e mi
grida dietro:
« Compagno capo! Ieri abbiamo visto due, erano banditi sen-
z'altro. L'avessimo saputo li avremmo senz'altro fermati, i fara-
butti. »
« Beh, ti sei lasciato impietosire!? » rileva Kolja.
Io sto zitto.
Da quella notte, non saprei se dopo la sosta per scaldarci o
dopo il gattino bianco, la nostra evasione fu troncata. Avevamo
perduto qualcosa: la sicurezza? la tenacia? la capacità di
riflettere? l'accordo nelle decisioni? Alla vigilia di raggiungere

214
Omsk cominciammo a far errori e a divagare. Fuggiaschi simili
non vanno lontano.
Verso l'alba abbandonammo la barca. Dormimmo in un fie-
nile, ma d'un sonno agitato. Imbrunì. Avevamo fame. Avremmo
potuto lessare la carne ma avevamo perduto il secchio al mo-
mento della ritirata. Decisi di friggerla. Trovammo un sedile da
trattore, sarebbe servito come padella. Le patate le avremmo
cotte nella cenere.
C'era là vicino un alto capanno dei falciatori. Nell'annebbia-
mento che mi aveva preso quel giorno decisi chissà perché che
sarebbe stato bene accendere il fuoco dentro a quel capanno per
non essere visti. Kolja non voleva cenare affatto: « Andiamo
avanti ». Un diverbio, brutta cosa.
Accesi comunque il fuoco nel capanno, ma ci misi troppe
frasche. S'incendiò tutto, feci appena in tempo a scappare. Le
fiamme invasero anche il mucchio di fieno nel quale avevamo
passato la giornata. Ebbi un'improvvisa pietà per quel fieno,
profumato, buono verso di noi. Cominciai a spegnerlo, a roto-
larmi per terra perché il fuoco non si diffondesse. Kolja se ne
stava seduto in disparte imbronciato, senza aiutarmi.
Quale traccia avevo lasciato! Un bagliore visibile da molti
chilometri. Inoltre era una diversione. Per l'evasione ci avrebbero
dato il solito quartino, ma per la « diversione » ai danni del
fieno, proprietà del kolchoz, anche la pena suprema, volendo.
E quel che è peggio, con ogni nuovo errore aumenta la pro-
babilità di compierne altri, si perde la sicurezza, la facoltà di
valutare la situazione.
Il capanno era bruciato, ma si erano cotte le patate. Cenere
invece di sale. Mangiammo un po'.
Camminammo tutta la notte. Oltrepassammo un grosso vil-
laggio. Trovammo una vanga. La prendemmo con noi, per ogni
evenienza. Ci avvicinammo un poco di più all'Irtys. E c'imbat-
temmo in un'insenatura. Un altro aggiramento? Che noia. A forza
di cercare trovammo una barca senza remi. Poco importa, la
vanga ne farà le veci. Attraversammo l'insenatura. Là mi legai la
vanga dietro la schiena in modo che il manico sbucasse

215
come la canna d'un fucile. Nel buio mi avrebbero preso per un
cacciatore.
Poco dopo incontrammo qualcuno, via da una parte. E lui: «
Petro! ». « Sbagli, non sono Petro. »
Camminammo fino al mattino. Dormimmo ancora in un
fienile. Ci svegliò la sirena d'un piroscafo. Ci sporgemmo:
l'attracco non era lontano. Vi portavano cocomeri con i camion.
Omsk è vicina, vicinissima. È l'ora di radersi e di procurarsi dei
soldi.
Kolja mi redarguisce: « Adesso è finita. A che prò evadere se
poi ti lasci impietosire da quelli? Era in ballo la nostra sorte, e tu
t'impietosisci. Adesso è finita ».
Ha ragione. Adesso sembra insensato: niente rasoio, niente
denaro, l'uno e l'altro erano a portata di mano e non li abbiamo
presi. A che prò anelare a fuggire per tanti anni, ricorrere a tante
astuzie, strisciare sotto i reticolati e aspettarci una raffica nella
schiena, non bere per sei giorni, attraversare un deserto per due
settimane e poi non prendere quello che avevamo sotto mano?
Come presentarci così barbuti a Omsk? E con quali mezzi
proseguire?
Passiamo la giornata nel mucchio di fieno. Non riusciamo a
prender sonno, si capisce. Verso le cinque Ždanok dice: « Incam-
miniamoci adesso, ci guarderemo intorno finché c'è luce ». Io: «
Assolutamente no! ». Lui: « Esageri. Fra poco sarà un mese. Io
vado da solo ». Io lo minaccio: « Bada, potrei usare il coltello
anche contro di te! ». Ma naturalmente non lo farei mai.
Tace, sta fermo. Di punto in bianco salta fuori dal fieno e
s'incammina. Che fare? Separarci così? Salto giù anch'io, lo
seguo. Camminiamo in piena luce lungo la strada che costeggia
il fiume. Ci sediamo dietro un mucchio di fieno, ragioniamo: se
adesso dovessimo incontrare qualcuno, non lo si deve più mol-
lare, perché non ci denunzi prima del buio. Kolja corre impru-
dentemente fuori per vedere se la strada è deserta, e proprio
allora lo vede un giovanotto. Siamo costretti a interpellarlo: «
Vieni qua, amico, fumiamoci una sigaretta per dimenticare i guai
». « Che guai avete? » « Sono andato con un cognato in ferie in
barca, io sono di Omsk, lui è fabbro al cantiere navale di
Pavlodar, di notte la barca s'è slegata e se n'è andata, ci è
216
rimasto soltanto quello che era a riva. E tu? » « Sono guardiano
alle boe. » « Non avrai mica visto la nostra barca? magari fra i
giunchi? » « No. » « E dove stai? » « Laggiù » indica una
casetta. « Andiamo a casa tua, faremo cuocere un po' di carne. E
ci faremo la barba. »
Andiamo. La casetta risulta appartenere a un altro guardiano,
un vicino, quella del nostro è trecento metri più in là. Anche lì
non è solo. Appena entriamo in casa, il vicino arriva in bicicletta
con un fucile da caccia. Torce gli occhi verso la mia faccia irsuta,
fa molte domande sulla vita a Omsk. Interrogare me, galeotto,
sulla vita libera! Gli racconto frottole a casaccio, è difficile
trovare un alloggio, si sta male con i rifornimenti, mancano i
tessuti, così non si sbaglia. Lui fa smorfie, obietta, è del partito.
Kolja prepara la minestra, dobbiamo riempirci bene, forse prima
di Omsk non ci toccherà più nulla.
Angosciosa attesa del buio. Non possiamo lasciar andare né
l'uno né l'altro. E se arrivasse anche un terzo? Ma ecco che i due
si apprestano ad andare ad accendere i lumi. Offriamo il nostro
aiuto. Quello iscritto al partito rifiuta: « Non ho che due lumi da
mettere, poi devo andare al villaggio a portare frasche alla
famiglia. Ma poi torno ». Faccio segno a Kolja di non perderlo di
vista, al minimo sospetto via tra i cespugli. Indico il luogo
dell'incontro. Io vado con quello nostro. Dalla barca osservo la
località, faccio domande sulla distanza da questo o quel posto.
Siamo di ritorno contemporaneamente al vicino e questo mi
tranquillizza, non può aver avuto il tempo di denunciarci. Dopo
poco arriva davvero con il suo carro di frasche. Ma non
prosegue, si siede per assaggiare la minestra di Kolja. Non se ne
va. Come facciamo? Prenderli tutti e due? Uno in cantina, uno
legato al letto? Ambedue hanno i documenti, quello ha la
bicicletta e il fucile. Ecco la vita dell'evaso, non ti basta la
semplice ospitalità, devi anche depredare con la forza.
Improvvisamente uno stridio di scalmiere. Guardo dalla fine-
stra, sono in tre in una barca, fa già cinque contro due. Il mio
padrone di casa esce, torna subito a prendere dei bidoni. Dice: «
Il capo ha portato il petrolio. Strano che sia venuto lui, e di
domenica ».

217
Oggi è domenica! Abbiamo perso il conto dei giorni, per noi
il calcolo è diverso. Siamo evasi la domenica sera. Dunque sono
passate esattamente tre settimane! Cosa succede nel lager? La
muta dei cani dispera oramai di riprenderci. Se fossimo fuggiti in
macchina, a quest'ora avremmo potuto benissimo essere siste-
mati da qualche parte in Carelia, in Belorussia, avere un passa-
porto, lavorare. Con un po' di fortuna, saremmo stati anche più a
occidente... Che rabbia arrendersi ora, dopo tre settimane!
« Beh, Kolja, ci siamo abbuffati, non resta che alleggerirci un
po'! » Ci infiliamo fra i cespugli e da lì osserviamo il padrone di
casa che prende il petrolio dalla barca, raggiunto poco dopo dal
vicino iscritto al partito. Parlano di qualcosa, ma non di-
stinguiamo le parole.
Se ne sono andati. Rimando Kolja in casa, presto, per non
lasciare ai guardiani il tempo di parlare di noi a tu per tu. Io mi
avvicino piano piano alla barca del padrone di casa. Per non far
rumore con la catena, faccio uno sforzo e sfilo il palo stesso al
quale è fissata. Calcolo il tempo: se il capo dei guardiani è
andato a riferire su di noi, ha da percorrere sette chilometri fino
al villaggio, dunque gli ci vorranno altri quindici minuti perché si
preparino e vengano qui in macchina.
Torno in casa. Il vicino non se ne va mai, ci intrattiene con-
versando. Molto strano. Dunque bisognerà prenderli tutti e due in
una volta sola. « Beh, Kolja, andiamo a lavarci prima di dormire?
» (dobbiamo metterci d'accordo). Non appena siamo usciti,
sentiamo nel silenzio uno scalpiccio di stivali. Ci chiniamo e,
stagliati sul cielo ancora chiaro (la luna non si è ancora alzata)
scorgiamo degli uomini che corrono in fila dietro ai cespugli per
accerchiare la casetta.
Bisbiglio a Kolja: « Alla barca! ». Corro al fiume, rotolo giù
per il dirupo, casco ed eccomi già arrivato alla barca. La vita si
conta a secondi, e Kolja non c'è! Dov'è, dov'è andato a finire?
Non lo posso abbandonare.
Finalmente eccolo correre dritto verso di me nel buio lungo la
riva. « Tu, Kolja? » Una fiammata! Uno sparo a bruciapelo. Mi
tuffo a pesce (le braccia tese in avanti) nella barca. Raffiche di
mitra dall'alto. Gridano: « Uno di meno! » Si chinano: « È

218
ferito? ». Io gemo. Mi tirano fuori, mi fanno camminare. Zoppico
(picchieranno meno se mi vedono storpio). Senza farmi accor-
gerò butto via nell'oscurità i due coltelli.
In alto quelli dalle mostrine rosse mi chiedono il cognome. «
Stoljarov. » (Forse me la caverò in qualche modo. Sono riluttante
a dare il mio vero nome, è la fine della libertà.) Mi schiaf-
feggiano. « Il nome! » « Stoljarov. » Mi trascinano in casa, mi
svestono fino alla cintura, mi legano le mani dietro la schiena
con il fil di ferro, questo mi taglia la pelle. Mi puntano le
baionette nel ventre. Un sottile filo di sangue scorre sotto una di
queste. Un miliziano, tenente Sabotaznikov, quello che mi ha
preso, mi punta in faccia la rivoltella, vedo il grilletto alzato. « II
nome. » Inutile resistere. Lo dico. « Dov'è l'altro? » Scuote la
rivoltella, le baionette vengono spinte più profondamente. «
Dov'è l'altro? » Gioisco per Kolja, continuo a ripetere: « Era-
vamo insieme, sarà rimasto ucciso ».
Arriva l'ufficiale della Sicurezza con le mostrine celesti, un
kazachi. Mi butta, legato, sul letto e in questa posizione semi-
sdraiata comincia a tirarmi schiaffi in faccia, con mosse
uniformi, destra, sinistra, destra, sinistra, come se nuotasse. Ad
ogni colpo la mia testa sbatte contro il muro. « Dove sono le
armi? » « Quali armi? » « Avevate un fucile, ve l'hanno visto la
notte. » È stato quel cacciatore notturno, ci ha venduti anche lui.
« Era una vanga, non un fucile! » Non mi crede, continua a
percuotere. Improvvisamente mi sento tutto leggero, ho perduto
la conoscenza. Quando torno in me: « Bada, se rimane ferito uno
dei nostri ti accoppiamo sul posto! ».
(Fu come se lo avessero sentito, Kolja aveva davvero un
fucile. Lo venni a sapere in seguito: quando gli avevo detto « In
barca » lui era corso nella direzione opposta, verso i cespugli.
Spiegò poi di non avermi capito... No, per tutto quel giorno
aveva cercato di staccarsi da me, adesso lo aveva fatto. Ricor-
dava la bicicletta. Udendo gli spari corse via dal fiume, proseguì
carponi nella stessa direzione dalla quale eravamo venuti. Si era
fatto del tutto scuro e mentre l'intera muta si affaccendava
intorno a me, lui si alzò e corse. Correndo piangeva, credeva mi
avessero ucciso. Corse così fino alla seconda casetta, quella

219
del vicino. Spaccò una finestra con una pedata, cercò il fucile. Lo
trovò a tastoni, appeso sul muro, trovò uno zaino con le cartucce.
Caricò il fucile. Raccontava che il suo primo pensiero era stato: «
Vendicarsi? Sparargli, per Georgij? ». Ma ci ripensò. Trovò la
bicicletta, trovò un'accetta. Spaccò la porta dal di dentro, riempì
lo zaino di sale [gli parve la cosa più importante o non ebbe il
tempo di ragionare] e pedalò prima per una strada vicinale poi
attraverso il villaggio, dritto davanti ai soldati. Questi non
sospettarono nulla.)
Mi buttarono legato in un carro agricolo, due soldati si sedet-
tero su di me e mi portarono così al sovchoz distante circa due
chilometri. Qui c'era il telefono con il quale la guardia forestale
(era lui in barca con il capo dei guardiani delle boe) aveva chia-
mato le mostrine rosse; queste erano arrivate così presto appunto
perché chiamate telefonicamente, io non ci avevo pensato.
Con il guardaboschi si svolse a questo punto una scenetta di
cui non usa parlare, ma caratteristica per un catturato: avevo
bisogno di orinare e qualcuno mi doveva aiutare e aiutarmi molto
intimamente dato che avevo le mani legate. Perché i mitraglieri
non si dovessero umiliare fu comandato all'uomo di uscire con
me. Ci allontanammo nel buio e lui, mentre mi assisteva, mi
chiese perdono per il tradimento: « È il mio lavoro. Non potevo
fare altrimenti ».
Non risposi. Chi lo può giudicare? Ci tradivano tutti, lungo il
nostro cammino, fosse o no il loro dovere. Ci tradirono tutti ad
eccezione di quel vecchio dalla criniera grigia.
Stavo seduto seminudo, a mani legate, in un'isba prospiciente
la strada maestra. Avevo molta sete, non mi lasciavano bere. I
soldati mi davano occhiate feroci, ciascuno trovava un pretesto
per colpirmi con il calcio del fucile. Ma qui non sarebbe stato
semplice uccidermi: lo potevano fare finché erano in pochi,
senza testimoni. (Si poteva capire la loro rabbia: da tanti giorni,
senza riposo, giravano fra i giunchi nell'acqua, mangiando cibo
in scatola senza mai un pasto caldo.)
Tutta la famiglia era riunita nell'isba. Alcuni bambinelli mi
esaminavano con curiosità ma avevano paura ad avvicinarsi, anzi
tremavano. Il tenente della milizia se ne stava seduto con

220
il padrone di casa a sorseggiare la vodka, contento del successo e
dell'imminente premio. « Lo sai chi è quello? » diceva van-
tandosi. « Un colonnello, nota spia americana, un bandito peri-
coloso. Stava per rifugiarsi nell'ambasciata americana. Per strada
hanno ammazzato degli uomini e li hanno mangiati. »
Forse ci credeva davvero. La MVD aveva sparso queste voci su
di noi per catturarci più facilmente, perché tutti facessero
delazioni. Non basta loro il vantaggio del potere, delle armi,
della rapidità di spostamento, hanno bisogno anche della ca-
lunnia.
(Intanto Kolja passa accanto alla nostra isba, come niente
fosse, pedalando con il fucile a tracolla. Vede l'isba tutta illu-
minata, soldati rumorosi che fumano nel portichetto, e davanti
alla finestra me, nudo. E pedala verso Omsk. Là dove mi hanno
preso, alcuni soldati rimarranno in agguato fra i cespugli l'intera
notte, la mattina setacceranno la località. Nessuno sa ancora che
il guardiano vicino ha perduto la bicicletta e il fucile, forse anche
lui sta bisbocciando e vantandosi.)
Dopo essersi ben goduto il successo, inaudito per quei luoghi,
il tenente della milizia dà l'ordine di portarmi al villaggio. Di
nuovo mi buttano sul carro di prima e mi trasportano legato fino
al carcere di detenzione preventiva: ve ne sono dappertutto,
presso ogni soviet rurale. Due mitraglieri stanno di guardia nel
corridoio, due sotto la finestra: si tratta di un colonnello, una spia
americana! Mi hanno slegato le mani, ma mi hanno ordinato di
sdraiarmi in mezzo al pavimento, di non avvicinarmi alle pareti.
Così, il corpo nudo appoggiato al pavimento, passo la notte
d'ottobre siberiana.
L'indomani mattina viene il capitano, mi trivella con gli occhi.
Mi butta la giacca (il resto se lo sono bevuto). A voce bassa,
sogguardando la porta, mi fa una domanda strana:
« Come mai mi conosci? »
« Io non la conosco. »
« Come facevi a sapere che dirige le ricerche il capitano Vo-
rob'ev? Lo sai tu, canaglia, in che situazione mi hai messo? »
Era Vorob'ev! e anche capitano! La notte in cui ci spacciam-
mo per agenti della Sicurezza io avevo fatto il nome di Vorob'ev

221
e il brav'uomo da me risparmiato si era affrettato a fare il suo
rapporto dettagliato. Adesso il capitano aveva delle grane. Se il
capo dell'inseguimento ha dei rapporti con gli evasi non c'è da
meravigliarsi che in tre settimane non siano riusciti a catturarli!
Arriva tutta una muta di ufficiali, urlano, chiedono anche di
Vorob'ev. Rispondo che è pura concidenza.
Di nuovo mi legano le mani col fil di ferro, mi tolgono i lacci
delle scarpe e in pieno giorno mi conducono attraverso il
villaggio. Sono accerchiato da venti mitraglieri. Tutto il villaggio
si assiepa lungo la strada, le donne scuotono la testa, i ragazzini
corrono dietro urlando:
« Un bandito! lo portano a fucilare! »
II fil di ferro mi taglia i polsi, le scarpe mi cascano dai piedi a
ogni passo, ma cammino a testa alta e guardo la gente fiera-
mente, vedano che sono un uomo onesto.
Mi volevano far vedere a quelle donne, a quella ragazzaglia, a
mo' di dimostrazione, perché ricordassero il fatto (ne avrebbero
raccontato leggende per vent'anni). Al margine del villaggio mi
spinsero nel cassone di un camion aperto, con le assi vecchie e
scheggiate. Cinque mitraglieri sedettero appoggiati alla cabina
per non distogliere mai lo sguardo.
Adesso avrei rifatto all'indietro tutti i chilometri che ci sepa-
ravano dal lager, i chilometri che ci avevano tanto rallegrati. Non
erano meno d'un mezzo migliaio, sulla rotabile serpeggiante. Mi
misero le manette ai polsi, stringendole a più non posso. Le mani
dietro la schiena, non avevo modo di difendere il viso. Ero là
sdraiato come un birillo, non come un uomo. Ed è così che ci
chiamano.
La strada era dilavata dalla pioggia, la macchina sobbalzava
nelle buche. Ogni scossa mi faceva sbattere la faccia sul fondo
del cassone, me la graffiava, me la riempiva di schegge. Le mani
non solo non erano di aiuto, ma venivano tagliate vieppiù a ogni
scossone, era come se le manette mi segassero i polsi. Cercai di
strisciare ginocchioni verso il bordo e di sedermi appoggiato a
questo. Inutile! impossibile reggersi, il primo forte scossone mi
scaraventava giù e io tornavo a dibattermi. A volte venivo get-

222
tato contro il bordo così che pareva mi si staccassero le budella.
Impossibile stare sulla schiena, strappava i polsi. Cercavo di
buttarmi di fianco, peggio ancora. Sul ventre, male. Tentavo di
voltare il collo e sollevare così il capo per salvaguardarlo dai
colpi. Ma il collo si stanca, la testa ricade e sbatte la faccia
contro le assi.
Cinque soldati di scorta osservavano con indifferenza i miei
tormenti.
Quel tragitto entrerà a far parte della loro educazione spi-
rituale.
Il sottotenente Jakovlev, che viaggia nella cabina, da un'oc-
chiata dentro al cassone durante le soste e sogghigna: « Beh, non
sei scappato? ». Lo prego di lasciarmi fare i bisogni, lui
ridacchia: « Falla pure nei calzoni, chi ti dice nulla? ». Lo prego
di togliermi le manette, ride: « Non sei capitato con quello che ti
ha lasciato strisciare sotto il suo naso attraverso il reticolato! A
quest'ora non saresti vivo ».
Alla vigilia mi ero rallegrato che mi avessero percosso, tutto
sommato, non « quanto meritavo ». Perché sprecare i pugni, se ci
avrebbe pensato il cassone del camion? Non mi rimase su tutto il
corpo un tratto di pelle non graffiato o indolenzito. La sensazione
di avere le mani segate. La testa si spaccava dal dolore. Il viso
ammaccato, tutto spine per le assi scheggiate, la pelle scorticata.1
Viaggiammo l'intero giorno e quasi l'intera notte.
Quando io ebbi smesso di lottare con il cassone e sbattevo
oramai la testa contro le assi in uno stato di semincoscienza, un
soldato della scorta non resse, mi mise un sacco sotto il capo,
allentò le manette senza farsene accorgere e piegandosi verso di
me mi sussurrò: « Pazienza, sopporta, fra poco arriveremo ».
(Donde gli venne, al giovanotto? Come era stato educato? Una
cosa si può dire con certezza, non da Maksim Gor'kij né dal
dirigente politico del suo plotone.)
Ekibastuz. Accerchiamento. « Fuori! » Non mi posso alzare.
1
Tenno soffre per giunta di emofilia. Era pronto a tutti i rischi di una evasione, ma un graffio
poteva costargli la vita.

223
(Se lo avessi fatto, mi avrebbero pestato ancora, dalla gioia.)
Abbassarono un bordo, mi buttarono per terra. Si radunarono
anche i guardiani, per guardare e beffarsi di me: « Uh, aggres-
sore! » gridò qualcuno.
Mi trascinarono attraverso il posto di guardia e in prigione.
Fui messo non all'isolamento ma in una cella comune affinchè
mi vedessero gli amanti della libertà.
In cella mi presero in braccio e mi posarono premurosamente,
su un pancaccio superiore. Ma fino al mattino successivo non
avevano da darmi da mangiare.
Quanto a Kolja, quella notte proseguì per Omsk. Ogni volta
che vedeva i fari di una macchina, si fermava e si sdraiava nella
steppa mettendo per terra la bicicletta. Poi trovò un pollaio e là
appagò il suo sogno di evaso: tirò il collo a tre galline e se le
mise nello zaino. Quando le altre cominciarono a starnazzare si
affrettò ad andarsene.
Dopo la mia cattura l'incertezza che ci aveva fatto vacillare
dopo i grossi errori commessi s'impadronì ancor maggiormente
di Kolja. Instabile, sensibile, oramai fuggiva per disperazione,
senza connettere, senza sapere più che cosa bisognava fare. Non
riusciva a rendersi conto dell'essenziale, che cioè la sparizione
del fucile e della bicicletta era certamente già stata scoperta, che
questi non servivano più a mascherarlo e che bisognava quindi
abbandonare l'uno e l'altro fin dal mattino perché troppo evidenti;
che doveva entrare in Omsk non da quel lato e non per la
carrozzabile ma per remote vie traverse, terreni abbandonati,
dietro le case. Avrebbe dovuto vendere fucile e bici,
procurandosi così il denaro necessario. Lui invece passò una
mezza giornata nei cespugli lungo l'Irtys, di nuovo non resistette
fino alla notte e si mise a pedalare per un sentiero che
costeggiava il fiume. Può darsi benissimo che la radio locale
avesse già trasmesso i suoi connotati, in Siberia non hanno a tale
riguardo certe remore della Russia europea.
Si avvicinò a una casa, vi entrò. C'erano una vecchia e la
figlia d'una trentina d'anni. C'era la radio. Per una straordinaria
coincidenza una voce cantava:

224
Correva per reconditi sentieri
un vagabondo evaso di galera...

Kolja si afflosciò, qualche lacrima gli rigò il volto. « Cosa ti è


successo? » chiesero le donne. La loro compassione lo fece
piangere apertamente. Quelle lo vollero consolare. « Sono solo,
abbandonato da tutti » spiegò Kolja. « E tu sposati » disse la
donna, tra scherzosa e seria. « Anche la mia è nubile. » Kolja si
addolcì ancora, cominciò a dar occhiate alla ragazza da marito.
Questa mise la faccenda su un piano pratico: « Hai i soldi per la
vodka? » Kolja raggranellò gli ultimi rubli, non bastavano. «
Beh, vuol dire che te li darò dopo. » La donna se ne andò. « Già!
» si ricordò Kolja. « Ho preso delle pernici a caccia. Preparaci un
pranzo di gala, suocera! » « Ma queste sono galline. » « Si vede
che nel buio non me ne sono accorto quando sparavo. » « E
perché hanno il collo torto? »
Kolja chiese da fumare, la donna volle i soldi in anticipo dal
fidanzato. Lui si tolse il berretto, la vecchia si mise in agitazione:
« Sei un detenuto, per caso, testa rapata? Vattene finché puoi.
Quando torna mia figlia ti consegniamo alla milizia ».
Nella testa di Kolja ronza sempre lo stesso pensiero: perché
abbiamo avuto pietà di quei due liberi sul fiume, e i liberi non
hanno mai pietà di noi? Prende una giacca fatta a Mosca appesa
al muro, gli sta a puntino (fuori è freddo, lui non ha che l'abito
addosso). La vecchia strilla: « Ti denunzio alla milizia! ». Kolja
vede dalla finestra che la figlia sta tornando accompagnata da
qualcuno in bicicletta. Lo ha già denunziato!
« Machmadera », dunque. Afferra il fucile, comanda alla
vecchia di buttarsi per terra in un cantuccio e non fiatare. Si
appiattisce contro la parete, fa entrare i due, poi comanda: « A
terra! ». E all'uomo: « Tu regalami gli stivali per le nozze. Toglili
uno per volta ». Quello si sfila gli stivali sotto la minaccia del
fucile puntato. Kolja li infila, butta via le scarpe scalcagnate del
lager e minaccia di sparare se qualcuno lo seguirà.
Parte in bicicletta. L'uomo lo insegue sulla sua. Kolja salta
giù, imbraccia il fucile: « Fermo! Butta giù la bici! Scostati! ».

225
Lo allontana, spezza i raggi delle ruote, taglia le gomme e
riparte.
Poco dopo è sulla strada maestra. Omsk è davanti a lui. Si
dirige in città. Ecco una fermata di autobus. Alcune donne sca-
vano patate in un orto. Una motocicletta segue Kolja, montata da
tre operai in giubbone. Lo seguono per un pezzo, poi im-
provvisamente lo investono con il sidecar; i tre saltano giù, si
buttano su Kolja e lo picchiano sulla testa con una rivoltella. «
Perché lo picchiate? » strillano le donne dall'orto. « Cosa vi ha
fatto? »
Infatti: cosa gli ha fatto?
Ma il concetto di chi ha fatto che cosa, e che altro farà a chi
non è accessibile al popolo. Tutti e tre portavano la divisa
militare sotto i giubboni (da parecchi giorni il gruppo degli
agenti della Sicurezza sorvegliava gli accessi alla città). Alle
donne fu risposto: « È un assassino ». È la cosa più semplice.
Quelle, fiduciose nella Legge, tornarono a scavare patate.
Gli agenti chiesero anzitutto allo squattrinato fuggiasco se
aveva del denaro. Kolja rispose onestamente di no. Lo perqui-
sirono e in una delle tasche della sua « nuova » giubba trovarono
cinquanta rubli. Li presero, andarono alla prima trattoria, dove li
spesero in mangiare e bere. Del resto rifocillarono anche Kolja.
Così approdammo in prigione per un lungo periodo, il
processo si svolse soltanto nel luglio dell'anno successivo. Per
nove mesi gonfiammo di fame nella prigione del lager, di tanto in
tanto ci convocavano per l'istruttoria. L'istruttoria era svolta dal
capo del « regime » disciplinare Mačechovskij e dal tenente della
Sicurezza dello Stato Veijnstejn.
L'istruttoria si riproponeva di accertare chi dei detenuti ci
aveva aiutato, chi dei liberi aveva « per connivenza » interrotto la
corrente al momento della evasione. (Non spiegammo che il
piano era stato diverso e che la luce spenta lo aveva ostacolato.)
Dov'era il luogo d'incontro clandestino a Omsk? Attraverso quale
frontiera intendevamo fuggire? (Non potevano ammettere che
volessimo rimanere in patria.) « Eravamo diretti

226
a Mosca, al Comitato centrale, per parlar loro degli arresti
criminali, ecco tutto! » Non ci credevano.
Non avendo ottenuto nulla di « interessante », ci appioppa-
rono il solito mazzo degli evasi: 58-14 (sabotaggio controrivo-
luzionario); 59-3 (banditismo); Ukaz dei «quattro sesti», articolo
1-2 (furto commesso da una banda di ladri); il medesimo ukaz,
articolo 2-2 (rapina con violenza pericolosa per la vita); articolo
182 (fabbricazione e porto di armi bianche).
Ma tutta quella minacciosa catena di articoli non avrebbe
appesantito le catene che già portavamo. La pena giudiziaria, che
aveva oramai da tempo oltrepassato ogni limite ragionevole, ci
comminava i medesimi venticinque anni che poteva comminare a
un battista per la sua preghiera e che noi stavamo scontando
senza alcuna evasione. Quindi tutto si riduceva al fatto che da ora
in poi all'appello avremmo risposto come data di termine della
pena l'anno 1975 e non il 1973. Come se nel 1951 potessimo
avvertire la differenza!
Ci fu un solo momento pericoloso durante l'istruttoria, quando
minacciarono di processarci come sabotatori economici. La
parola apparentemente innocua era più fatale di quelle, logore, di
« bandito, ladro, rapinatore ». La definizione ammetteva la pena
di morte, introdotta un annetto prima.
Eravamo sabotatori in quanto avevamo sabotato l'economia
del nostro Stato. Come ci spiegarono i giudici istruttori, per la
nostra cattura erano stati spesi centoduemila rubli; certi cantieri
erano rimasti fermi per diversi giorni (i detenuti non venivano
portati al lavoro perché i soldati della scorta erano stati mandati
all'inseguimento); 23 macchine cariche di soldati perlustravano
la steppa giorno e notte e in tre settimane consumarono la
dotazione annuale di benzina; gruppi di agenti della Sicurezza
dello Stato erano stati dislocati in tutte le città e villaggi vicini;
erano state annunziate ricerche in tutta l'Unione Sovietica e
diramate quattrocento fotografie mie e quattrocento di Kolja.
Ascoltammo quell'elenco con orgoglio…
Dunque, ci dettero venticinque anni.

227
Quando il lettore prenderà in mano questo libro, non avremo
certamente ancora finito di scontarli... »1
Inoltre, dopo l'evasione di Tenno, fu sospesa per un anno l'at-
tività artistica della KVČ (per il malaugurato sketch).
Perché la cultura è una bella cosa, ma deve servire all'op-

(pagina incompleta nel cartaceo)

1
Quando il lettore avrà preso in mano il libro, Georgij Pavlovič Tenno, atleta e perfino
teorico dell'atletismo, non sarà più. Mori il 22 ottobre 1967 per un tumore fulmineamente
sopravvenuto. Visse a letto il tempo necessario per leggere questi capitoli e correggerli con le dita
che già si andavano freddando. Non così immaginava la propria morte, non tale la prometteva agli
amici! Una volta, progettando un'evasione, si infervorava tutto al pensiero di morire in
combattimento. Diceva che morendo avrebbe immancabilmente portato con sé una decina di
assassini, e primo fra questi Vjačik Karzubyj (Molotov), e sicuramente Chvat (giudice istruttore al
processo Vavilov). Non sarebbe stato uccidere ma giustiziare, giacché la legge dello Stato
proteggeva gli assassini. « Dopo i tuoi primi spari sei già in pari con la vita », diceva Tenno, « e
superi con gioia il piano. » Ma la malattia lo prese alla sprovvista, senza permettergli di cercare le
armi e togliendogli istantaneamente le forze. Già malato, Tenno portava in giro per Mosca le mie
lettere al congresso degli scrittori, buttandole in varie cassette postali. Volle essere sepolto in
Estonia, e con rito religioso. Fu sepolto a Pirita. Anche il pastore era un vecchio detenuto dei
lager hitleriani e staliniani.
Ma Molotov rimase al sicuro a sfogliare vecchi giornali e scrivere le sue memorie, Chvat a
spendere tranquillamente la pensione al 41 di via Gor'kij.

228
VIII Evasioni con problemi morali e evasioni con
problemi d'ingegneria

Negli ITL le evasioni - a meno che non avessero per meta


Vienna o l'attraversamento dello stretto di Bering - erano trattate
dai potenti e dalle istituzioni del GULag con un certo spirito
accomodante. Le si interpretava come un fenomeno spontaneo,
come un disordine inevitabile in un'azienda ordinata ma troppo
vasta, qualcosa di non molto diverso da una moria di bestiame,
dall'affondamento di legname fluitato, dal mezzo mattone invece
del mattone intero.
Diversamente stavano le cose nei lager speciali. Esecutori
della speciale volontà del Padre dei Popoli, questi lager erano
stati dotati di una vigilanza enormemente rafforzata e di un
armamento egualmente rafforzato, al livello della fanteria moto-
rizzata dell'epoca (si trattava precisamente di quei contingenti
che non dovevano essere smobilitati al momento della smobili-
tazione generale). Qui non si detenevano più i socialmente vicini
la cui fuga non era poi una gran perdita. Qui non valeva più la
scusa che i soldati erano in numero insufficiente o le armi
antiquate. All'atto stesso della fondazione dei lager speciali fu
reso implicito nelle istruzioni che non vi potevano essere eva-
sioni, perché ogni evasione di un prigioniero sarebbe stata equi-
valente al passaggio della frontiera dello Stato da parte di una
spia importante, sarebbe stata una macchia politica sul blasone
dell'amministrazione del lager e su quello del comando delle
truppe di scorta.
Ma fu precisamente da quel momento che i Cinquantotto co-

229
minciarono a beccarsi non più le diecine ma i quartini, ossia il
limite massimo di pena previsto dal codice penale. Così questo
inasprimento uniforme e insensato portava in sé la propria debo-
lezza: come nulla tratteneva più gli assassini dal compiere nuovi
assassinii (ogni volta la loro « diecina » veniva soltanto rinno-
vata), così i politici, ormai, non erano più trattenuti dal Codice
penale.
E anche gli uomini, gli uomini mandati in quei lager, non
erano più quelli di prima, che ragionavano sul modo migliore di
giustificare, alla luce dell'Unica Teoria Veridica, l'arbitrio delle
autorità del lager, ma ragazzi sani e forti, che avevano strisciato
sotto le bombe durante tutta la guerra, le cui dita non si erano
ancora distese del tutto, abituate com'erano a stringere le granate
a mano. Georgij Tenno, Ivan Vorob'ev, Vasilij Brjuchin, i loro
compagni e molti altri simili a loro negli altri lager si rivelarono,
benché disarmati, degni del materiale di fanteria motorizzata
delle nuove truppe regolari di scorta.
E sebbene, dal punto di vista numerico, vi siano state meno
evasioni nei campi speciali che negli ITL (i campi speciali sono
però durati anche meno), queste evasioni sono state più dure,
difficili, irreversibili, disperate e quindi più gloriose.
I racconti di queste evasioni ci aiutano a capire se il nostro
popolo fu davvero tanto paziente, tanto docile in quegli anni.
Eccone alcuni.
Una di esse avvenne un anno prima di quella di Tenno e gli
servì da modello. Nel settembre 1949 dalla prima suddivisione
dello Steplag (Rudnik, Džezkazgan) evasero due galeotti: Gri-
gorij Kudla, un vecchio ucraino tarchiato, grave, giudizioso (ma
quando si scaldava rivelava un'indole da zaporoz'e,* lo temevano
anche i delinquenti comuni) e Ivan Dušečkin, un tranquillo
belorusso di circa trentacinque anni. Nella miniera dove lavora-
vano avevano trovato in una vecchia galleria un pozzo in disuso
sbarrato in alto da una grata ch'essi scardinarono durante i turni
di notte; inoltre depositarono nel pozzo gallette, coltelli e una
borsa per l'acqua calda rubata in infermeria. La notte dell'eva-
* Cosacco del Dnepr.

230
sione, una volta scesi nella miniera, dichiararono separatamente
al brigadiere di non sentirsi bene e di non essere in grado di
lavorare, sarebbero andati a distendersi per un poco. Di notte,
sotto terra, non ci sono guardiani, il brigadiere rappresenta da
solo il potere, ma deve andarci piano con la gente, perché può
ritrovarsi anche lui con la testa spaccata in due. I fuggiaschi
versarono dell'acqua nella borsa, presero le provviste, ruppero la
grata e strisciarono fuori dal pozzo. L'uscita risultò essere non
lontana dalle torrette ma al di là della zona. Se ne andarono
inosservati.
Da Džezkazgan presero verso nord-ovest attraverso il deserto.
Di giorno restavano coricati, e marciavano di notte. Non trova-
rono acqua da nessuna parte e dopo una settimana Dušečkin non
voleva più alzarsi e Kudla dovette costringerlo facendogli
sperare che avrebbero trovato l'acqua oltre la collina che avevano
davanti. Vi si trascinarono, ma trovarono solo delle cavità piene
di fango. Dušečkin disse: « Non mi muovo più lo stesso, sgoz-
zami piuttosto e bevi il mio sangue! »
Eh,- i moralisti! Qual è la decisione giusta? Anche Kudla ha
dei cerchi che gli danzano davanti agli occhi. Dušečkin sarebbe
morto comunque; che senso aveva che perisse anche Kudla?...
Solo, se avesse poi trovato l'acqua poco dopo, come avrebbe
ricordato il compagno per il resto della vita?... Kudla decise che
avrebbe camminato ancora, se prima del mattino fosse ritornato
senza acqua avrebbe liberato Dušečkin dai suoi tormenti perché
almeno non fossero in due a perire. Si trascinò in direzione di
una duna, vide un anfratto e dentro, come nei romanzi più
inverosimili, dell'acqua! Kudla ruzzolò fino in fondo e, la faccia
nell'acqua, bevve, bevve a lungo. (Soltanto l'indomani si accorse
dei girini e delle alghe.) Torna dal compagno con la borsa piena:
« Dell'acqua, ti ho portato dell'acqua! ». Dušečkin non gli
credette; beveva e non ci credeva (durante tutte quelle ore si era
già visto bere dell'acqua...). Si trascinarono fino a quell'anfratto e
ci restarono a bere.
Dopo la sete venne la fame. Ma la notte successiva supera-
rono un crinale e scesero in una terra promessa: un fiume, erba,
cespugli, cavalli, la vita. All'imbrunire Kudla s'avvicinò inav-

231
vertito ai cavalli e ne uccise uno. Bevvero il sangue direttamente
dalla ferita. (Partigiani della pace!* Voi, quell'anno, sedevate in
rumorosi consessi a Vienna e Stoccolma, sorseggiando cocktail
con la cannuccia. Non vi veniva in mente che dei compatrioti del
versificatore Tichonov e del giornalista Erenburg potessero
succhiare i cadaveri dei cavalli? Essi non vi hanno spiegato che
in sovietico è così che s'intende la pace?)
Fecero cuocere la carne del cavallo sul fuoco, ne mangiarono
a lungo, poi s'incamminarono. Evitarono, girandoci attorno,
Amangeldy sul Turgaj, ma, sulla strada maestra, dei kazachi su
un camion di passaggio pretesero di vedere i loro documenti e
minacciarono di consegnarli alla milizia.
Più in là incontrarono spesso ruscelli e laghi. Kudla acchiappò
un montone e lo sgozzò. Erano evasi già da un mese! Ottobre
volgeva alla fine, cominciava a far freddo. Nel primo bosco che
incontrarono trovarono una capanna interrata e vi si stabilirono:
non si decidevano ad abbandonare quella ricca regione. In questa
fermata e nel fatto che i loro luoghi natii non li attiravano, non
promettevano loro una vita più tranquilla, c'era tutto il fallimento
obbligato, l'assenza di finalità della loro evasione.
Di notte facevano incursioni in un villaggio vicino, rubavano
ora un paiolo, ora, dopo aver forzato uno sgabuzzino, della
farina, del sale, una scure, delle stoviglie. (In mezzo alla vita
pacifica di tutti, l'evaso, come il partigiano, diventa rapidamente
e inevitabilmente un ladro...) Un'altra volta portarono via dal
villaggio una vacca e la macellarono nel bosco. Ma a questo
punto ci fu una nevicata e per non lasciare tracce furono costretti
a non muoversi dal capanno. Non appena Kudla uscì a cercare
delle frasche, lo vide un guardaboschi e cominciò subito a spa-
rare: « Siete voi i ladri? L'avete rubata voi la vacca? ». Trova-
rono tracce di sangue nei pressi della capanna. Furono portati al
villaggio e chiusi sotto chiave. La gente urlava: bisogna am-
mazzarli subito senza pietà! Ma il giudice istruttore del rajon
arrivò con una scheda di ricerca diramata per tutta l'Unione:
* Cioè del Movimento della pace, fondato nel 1948 sotto gli auspici dei partiti comunisti. A
Vienna si riunì nel 1951.

232
« Bravi ragazzi! Questi che avete catturato non sono ladri, ma
importanti banditi politici! ».
Tutto prese un'altra piega. Nessuno gridava più. Il proprietario
della vacca - che si rivelò essere un ceceno* - portò ai prigionieri
del pane, della carne di montone e perfino del denaro raccolto fra
i ceceni. « Ah, » dice « se tu fossi venuto a dirmi chi eri, ti avrei
dato tutto quello che ti serviva! » (Si può esserne certi, è
assolutamente da ceceni.) E Kudla pianse. Dopo così tanti anni di
esasperazione nella crudeltà, il cuore non resiste alla
compassione.
Gli arrestati furono condotti a Kustanaj; là, nella KPZ della
stazione, non solo confiscarono loro (per sé) tutto quello che i
ceceni avevano dato, ma non diedero loro niente da mangiare.
(Davvero Kornejčuk non vi ha parlato di questo al Congresso
della pace?) Prima di rispedirli al lager, sulla banchina della
stazione di Kustanaj, li costrinsero a inginocchiarsi, e
ammanettarono loro le mani dietro la schiena. E furono fatti
attendere così, davanti a tutti.
Se questa scena si fosse svolta sulla banchina di una stazione
di Mosca, Leningrado o Kiev, di una qualsiasi città - davanti allo
spettacolo di questo vecchio canuto, inginocchiato, coi ferri alle
mani, che si sarebbe detto tratto di peso da un quadro di Repin -
tutti avrebbero tirato diritto senza mostrare di badargli e senza
voltarsi, tutti: collaboratori di case editrici letterarie, registi
cinematografici d'avanguardia, ufficiali dell'esercito per non
parlare dei funzionari dei sindacati e del partito. Anche tutti i
cittadini comuni, di nessun rilievo, senza una posizione im-
portante, avrebbero cercato di passare facendo finta di nulla,
perché la scorta non li fermasse e non annotasse il cognome:
infatti hai il domicilio a Mosca, a Mosca i negozi sono buoni,
non si può rischiare... (E posso capire l'anno 1949; ma era forse
davvero diverso nel 1965? Forse che i nostri giovani istruiti si
fermerebbero a intercedere presso la scorta per un vecchio ca-
nuto e ammanettato in ginocchio?)
* II popolo ceceno, originario del Caucaso, era stato deportato nel 1944 in Asia centrale e la
sua repubblica soppressa.

233
Ma la gente di Kustanaj aveva poco da perdere, era tutta
reproba o malconcia o al confino. Presero a radunarsi intorno
agli arrestati, a buttar loro tabacco, sigarette, pane. Kudla aveva
le mani ammanettate dietro la schiena, si piegò per dare un
morso al pane per terra, ma un soldato della scorta glielo tolse di
bocca con una pedata. Kudla rotolò per addentarlo nuovamente e
il soldato buttò il pane più lontano. (Voi, registi cinematografici
d'avanguardia, che girate poco rischiose scene di « vecchi e
vecchie », forse ricorderete questa sequenza e questo vecchio?)
La gente cominciò a farsi avanti e rumoreggiare: « Lasciateli
andare! ». Sopraggiunse un distaccamento della milizia. Era più
forte del popolo e lo disperse.
Arrivò il treno, i fuggiaschi furono caricati e spediti nel car-
cere di Kengir.

Le fughe nel Kazachstan sono monotone come la sua steppa.


Ma forse è proprio quella monotonia che mette meglio in rilievo
l'essenziale?
Tre detenuti, nella stessa Džezkazgan, nello stesso anno 1951,
fuggirono anch'essi da una miniera e, risalendo un pozzo abban-
donato, uscirono all'aperto nella notte. Camminarono per tre
notti. Tormentati dalla sete, nel vedere alcune tende di kazachi
due di loro decisero di recarsi là a bere, mentre il terzo, Stepan
***, si rifiutò di farlo e rimase ad osservare da lontano. Dalla
collina vide i compagni entrare in una jurta e riuscirne subito di
corsa inseguiti da molti kazachi che li catturarono. Stepan,
mingherlino, basso di statura, proseguì di anfratto in anfratto da
solo, non avendo nulla con sé all'infuori di un coltello. Cercò di
dirigersi a nord ovest, ma dovette sempre deviare per evitare la
gente; preferiva gli animali. Si fece un bastone, cacciò arvicole e
topi: li uccideva lanciandogli contro il bastone mentre quelli
fischiavano presso la tana, ritti sulle zampette posteriori. Cercava
di succhiarne il sangue e li arrostiva su fuochi di caragana secca.
Fu proprio un fuoco a tradirlo. Stepan vide un giorno un uomo
che gli galoppava incontro su un grosso cavallo rossiccio. Ebbe
appena il tempo di coprire il suo spiedino con frasche

234
perché il kazachi non capisse che razza di cibo fosse. L'uomo si
avvicinò, chiese chi fosse e donde venisse. Stepan spiegò che
lavorava alla miniera di manganese a Džezdy (vi lavoravano
anche i liberi) e si dirigeva verso il sovchoz di sua moglie, a
centocinquanta chilometri di distanza. Il kazachi chiese come si
chiamava il sovchoz. Stepan scelse il nome più probabile: «
Stalin ».
Figlio delle steppe! Perché non proseguisti per la tua strada?
che male ti aveva fatto quel poveraccio? No. Dicesti minaccio-
samente: « Tu sei stato in carcere. Vieni con me ». Stepan be-
stemmiò e proseguì, ma il kazachi gli cavalcava accanto coman-
dandogli di seguirlo. Poi galoppava da un lato, chiamava i suoi a
grandi cenni. La steppa era deserta. Figlio delle steppe! Non lo
potevi abbandonare, vedevi che camminava con il solo bastone
per centinaia di chilometri nella nuda steppa, senza cibo, sarebbe
perito comunque. O ti faceva gola il chilogrammo di té?
Nel corso di quella settimana, vivendo alla pari degli animali
Stepan si era abituato ai fruscii e ai fischi del deserto. Improv-
visamente sentì un fischio nuovo e, più che riflettere, sentì con
un istinto animalesco il pericolo e balzò da una parte. Fu la sua
salvezza. Il kazachi aveva gettato il laccio, ma Stepan sfuggì al
cappio.
Caccia al bipede. Un uomo per un chilogrammo di té. Il
kazachi ritirò il laccio bestemmiando, Stepan continuò a cammi-
nare cercando questa volta di non perdere di vista il kazachi.
Quello si avvicinò per lanciare ancora una volta la corda. Non
appena lo fece Stepan lo disarmò con un colpo di bastone. (Gli
restava un briciolo di forza ma si trattava di vita o di morte.) «
Eccoti la taglia! » e continuò a menar botte, con rabbia, senza
permettere all'altro di rialzarsi, come una belva ne dilania un'altra
con le zanne. Si fermò quando vide il sangue. Prese all'uomo il
laccio, la frusta, montò sul cavallo. C'era attaccato alla sella un
sacco con provviste.
La fuga durò ancora molto, un paio di settimane, ma Stepan
evitò con cura i suoi nemici principali, gli uomini, i compatrioti.
Si era separato dal cavallo, aveva attraversato un fiume a nuoto
(e non sapeva nuotare! aveva fatto una zattera con i giunchi,

235
altra cosa che non sapeva fare), era andato a caccia e nella notte
gli era capitato di fuggire da una grossa bestia, forse un orso.
Una volta si sentì tanto tormentato dalla sete, dalla fame, dalla
stanchezza, dal desiderio di qualcosa di caldo, che decise di
entrare in una jurta isolata e mendicare. C'era davanti alla jurta
un cortiletto di mattoni crudi e troppo tardi, quando già si
avvicinava al muricciolo, Stepan vide due cavalli sellati e un
giovanotto che gli veniva incontro, un kazachi con la giubba, le
decorazioni, i calzoni alla cavallerizza. Era inutile fuggire. Ste-
pan capì che era finita. Ma il kazachi era uscito a far acqua. Era
fortemente sbronzo e si rallegrò nel vedere Stepan, quasi non si
accorgesse del suo aspetto lacero non più umano. « Entra, entra,
sarai nostro ospite! » Nella jurta c'era il vecchio padre e un altro
kazachi con le decorazioni. Erano due fratelli, ex combattenti al
fronte, adesso pezzi grossi ad Alma Ata, venuti a visitare il padre
(avevano preso i due cavalli nel kolchoz). I giovanotti avevano
assaggiato la guerra ed erano quindi veri uomini, per di più erano
ubriachi, traboccavano della bonarietà degli avvinazzati (quella
bonarietà che aspirava a sradicare, senza riuscirci fino in fondo,
il Grande Stalin). Fu una gioia per essi che un altro uomo si fosse
aggiunto al festino, anche se era un semplice operaio della
miniera diretto a Orsk, dove sua moglie era lì lì per partorire.
Non gli chiesero i documenti, ma gli dettero da bere e da
mangiare e lo fecero dormire. Succede anche questo... (È,
davvero sempre nemica dell'uomo l'ubriachezza? O rivela
talvolta il meglio che è in lui?)
Stepan si svegliò prima dei padroni di casa; temendo un tra-
nello uscì. No, i due cavalli erano al loro posto, avrebbe potuto
montare su uno di essi. Ma non volle fare del male a quella brava
gente e se ne andò a piedi.
Camminò ancora per alcuni giorni, già incontrava macchine.
Ogni volta faceva in tempo a evitarle abbandonando la strada. Si
avvicinò alla ferrovia e, dopo averla costeggiata, la notte stessa
giunse alla stazione di Orsk. Rimaneva solo da salire su un treno.
Aveva vinto! Aveva compiuto un miracolo: con un coltello fatto
da sé e un bastone aveva attraversato un vasto deserto, da solo, e
ora stava davanti al traguardo.

236
Ma alla luce dei lampioni vide dei soldati camminare su e giù
lungo i binari. Prese allora le strade lungo la ferrovia. Non si
nascondeva più al mattino, era ormai in Russia, in patria! Una
macchina gli venne incontro fra un nuvolone di polvere e per la
prima volta Stepan non fuggì alla sua vista. Ne balzò giù un
miliziano. « Chi sei? Documenti. » Stepan spiegò che era un
trattorista, cercava lavoro. Era presente per l'appunto il pre-
sidente d'un kolchoz: « Lascialo stare, a me occorrono trattoristi!
Chi è che ha i documenti in campagna? ».
Passò l'intero giorno in macchina, con varie fermate per bere
un bicchierino e mettersi d'accordo sul salario, ma prima del
crepuscolo Stepan non resse più e scappò verso il bosco distante
forse duecento metri. Il miliziano non perse tempo: uno sparo, un
altro. Dovette fermarsi. Fu legato.
Probabilmente le sue tracce si erano perse, ormai lo credevano
morto, e i soldati a Orsk aspettavano qualcun altro, perché il
miliziano stava per rilasciarlo, e al commissariato lo trattarono da
principio con molta cortesia, offrendogli addirittura panini con il
té, sigarette « Kazbek »; lo interrogò con estrema gentilezza lo
stesso capo (non si sa mai con questi diavoli di spioni, domani lo
portano a Mosca e potrebbe lagnarsi) dandogli sempre del « lei ».
« Dov'è la sua radio trasmittente? Per chi esplora? » « Esplorare?
» si meraviglia Stepan. « Non ho lavorato con i geologi, ma per
lo più nelle miniere. »
Ma quell'evasione finì peggio che con i panini e peggio che
con la cattura del corpo. Al ritorno nel lager fu picchiato a lungo
e senza pietà. Spezzato e sfinito, Stepan *** cadde molto più in
basso di prima: dette la firma all'ufficiale della Sicurezza di
Kèngir, per aiutare a scoprire i fuggiaschi. Divenne un'anatra da
richiamo. Raccontava la sua evasione per filo e per segno ora
all'uno ora all'altro compagno di cella nella prigione di Kengir
per saggiarne le reazioni. Se una reazione c'era, se questi
manifestavano il desiderio di ripetere l'esperienza, Stepan ***
andava a riferire al « padrino ».

I tratti di crudeltà rivelati da ogni evasione difficile


gonfiarono

237
a dismisura nella sconclusionata e sanguinosa evasione da
Džezkazgan nella stessa estate del 1951.
Sei detenuti, all'inizio dell'evasione notturna da una miniera,
uccisero il settimo ritenuto delatore. Poi, risalendo un pozzo,
raggiunsero la steppa. I sei erano uomini di indole diversissima,
tanto che fin dal principio non vollero proseguire insieme. Sa-
rebbe stato giusto se avessero avuto un piano intelligente.
Ma uno dei sei andò dritto nell'abitato dei liberi nelle imme-
diate vicinanze del lager e bussò alla finestra di una conoscente.
Non voleva nascondersi da lei o aspettare per un certo tempo in
cantina o in soffitta (sarebbe stato ottimo) ma passare con lei
qualche breve ora voluttuosa (riconosciamo subito i tratti del
delinquente comune). Passò con lei la notte e un giorno, la sera
successiva indossò l'abito del defunto marito della donna e andò
con lei al cine nel circolo. I guardiani del lager presenti lo rico-
nobbero e lo beccarono subito.
Altri due, georgiani, sicuri di sé e avventati, presero il treno
per Karaganda. Da Džezkazgan, se si eccettuano i sentieri da
pastori e da evasi non vi sono altre vie di comunicazione con il
mondo esterno se non per l'appunto il treno, e per l'appunto in
direzione di Karaganda. Lungo la ferrovia si stendono i lager, a
ogni stazione ci sono posti di blocco. Così i due furono beccati
ancor prima di arrivare a destinazione.
Gli altri tre si diressero a sud ovest, la via più difficile. Non
c'è gente, non c'è acqua. L'anziano ucraino Prokopenko, ex com-
battente, aveva una mappa; convinse gli altri a seguire quella via
promettendo che avrebbero trovato l'acqua. I suoi due compagni
erano un tataro della Crimea che si era fatto amico dei ladri e un
malandrino gracile. Camminarono senza acqua né cibo per
quattro giorni. Non sopportandolo oltre il tataro e il ladro dissero
a Prokopenko: « Abbiamo deciso di farla finita con te ». Lui non
capì: « Come, ragazzi? Volete che ci separiamo? ». « No, vo-
gliamo finire te. » Prokopenko si mise a supplicarli. Scucì il
berretto, ne cavò la fotografia di sua moglie con i figli sperando
di commuoverli. « Fratelli! Cerchiamo la libertà insieme! Io vi
porterò alla salvezza. Fra poco ci deve essere un pozzo, trove-
remo sicuramente l'acqua, pazientate un poco! Pietà! »

238
Ma quelli lo sgozzarono sperando di berne il sangue. Gli
tagliarono le vene, ma il sangue non sprizzò, si coagulava subito.
Una bella sequenza anche questa: due nella steppa, chini su un
terzo. Il sangue non cola...
Guardandosi come lupi a vicenda, perché oramai uno dei due
doveva rimetterci la pelle, s'incamminarono nella direzione
indicata dal « nonno » e due ore dopo trovarono un pozzo...
L'indomani furono avvistati da un aereo e presi.
Durante l'interrogatorio raccontarono i fatti, la cosa venne
risaputa nel lager e qui fu deciso di accoltellarli tutti e due per
Prokopenko.
Ma li tennero in una cella separata e per il processo li porta-
rono altrove.

C'è da credere che tutto dipenda dalle stelle sotto le quali ha


inizio l'evasione. I preparativi possono essere minuziosi e lungi-
miranti, ma ecco che nel minuto fatale si spegne la luce lungo i
reticolati e fallisce il piano di impadronirsi d'un camion. Un'altra
fuga fu cominciata d'impulso, ma prese una piega del tutto
diversa, quasi fosse premeditata.
Nell'estate del 1948, sempre nella sezione n. 1 del
Džezkazgan (allora non era ancora un lager speciale) una mattina
un camion fu spedito a caricare la sabbia di una lontana cava per
scaricarla nel punto dove si preparava la malta. La cava della
rena non era un cantiere e quindi non era vigilata, e fu necessario
portare nel camion anche i manovali, tre detenuti condannati alla
diecina e al quartino. La scorta consisteva di un caporale e due
soldati, l'autista era un delinquente comune esentato dalla scorta.
Un caso! Ma bisogna saper capire l'Occasione nell'attimo in cui
si presenta. Dovevano decidersi e mettersi d'accordo, il tutto in
vista e a portata di orecchio della scorta che stava accanto mentre
caricavano la rena. I tre avevano la medesima biografia, quella di
milioni d'altri a quel tempo: il fronte, lager tedeschi, evasione,
cattura, campi di concentramento di punizione, liberazione a
guerra terminata e, a mo' di ringraziamento, il carcere in patria.
Perché non fuggire nel proprio paese se non s'è avuta

239
paura di fuggire in Germania? Finirono di caricare. Il caporale
montò in cabina. I due soldati mitraglieri sedettero nella parte
anteriore del cassone, la schiena rivolta alla cabina e i mitra
puntati sui detenuti appollaiati sulla rena nella parte posteriore
del cassone stesso. Appena lasciata la cava, a un cenno conve-
nuto, i tre gettarono della rena negli occhi dei soldati e si buttaro-
no su di essi. Presero i mitra e attraverso lo sportello della cabina
stordirono il caporale con i calci delle armi. La macchina si
fermò, l'autista era mezzo morto di paura. « Non temere » gli
dissero « non ti toccheremo, mica sei un cane. Scarica. » II mo-
tore si mise in funzione e la rena, la rena preziosa più dell'oro,
quella che donava loro la libertà, fu ribaltata a terra.
A questo punto, come in quasi tutte le evasioni - non lo di-
mentichi la storia! - gli schiavi furono più magnanimi dei
guardiani: non li uccisero, non li picchiarono, comandarono loro
soltanto di svestirsi, di togliersi le scarpe e li lasciarono andare
scalzi e con la sola biancheria indosso. « E tu con chi vai, auti-
sta? » « Con voi, si capisce » decise anche quello.
Per confondere i guardiani scalzi (prezzo della misericordia!)
si diressero prima a occidente (la steppa è uniforme, viaggi dove
vuoi), là uno di essi si travestì da caporale, altri due da soldati e
corsero a settentrione. Tutti armati, l'autista con il lasciapassare,
nessun sospetto. Tuttavia quando attraversavano le linee
telefoniche le strappavano per interrompere le comunicazioni.
(Le tiravano giù con una corda all'estremità della quale legavano
una pietra, poi le strappavano con un gancio.) Ci voleva del
tempo per farlo, ma il vantaggio era grande. Viaggiarono a tutta
velocità l'intero giorno, il contachilometri mostrava trecento
chilometri percorsi ma la benzina era a zero. Si misero a
osservare le macchine di passaggio. Una Pobeda. La fermarono.
« Scusate, compagni, ma il servizio lo esige, permettete di
verificare i documenti. » Risultarono essere dei pezzi grossi,
autorità di partito della regione dirette non si sa se a controllare o
ispirare i propri kolchoz, magari solo a bisbocciarvi. « Giù,
scendete. Svestitevi. » I pezzi grossi supplicarono di non
ammazzarli. Li lasciarono nella steppa con la sola biancheria,
legati, presero i documenti, il denaro, gli abiti, proseguirono

240
con la Pobeda. (I soldati, da loro spogliati quella mattina,
raggiunsero soltanto verso sera la miniera più vicina; dalla tor-
retta: « Fermi! ». « Ma siamo dei vostri! » « Macché dei nostri,
in mutande! » «... »)
II serbatoio della Pobeda non era pieno. Percorsi venti chilo-
metri la macchina si fermò. Era già buio. Videro dei cavalli che
pascolavano, riuscirono a prenderli senza briglie, cavalcarono
senza sella. Ma l'autista cadde e si ferì a una gamba. Gli
proposero di salire in groppa insieme a uno di loro. Si rifiutò: «
Non abbiate paura, ragazzi, non vi tradirò ». Gli dettero del
denaro, la patente presa sulla Pobeda e galopparono via. L'autista
fu l'ultimo che li vide, nessuno dopo di lui. E non furono mai
riportati al loro lager. I ragazzi lasciarono così la diecina e il
quartino nella cassaforte della Sezione Speciale senza riprendersi
il resto. Il « procuratore verde » ama gli audaci.
L'autista non li tradì davvero. Si sistemò in un kolchoz presso
Petropavlovsk e visse tranquillo per quattro anni. Ma lo rovinò
l'amore per l'arte. Suonava bene la fisarmonica, si esibiva in un
club, poi prese parte a un concorso per dilettanti prima
distrettuale, poi regionale. Stava oramai dimenticando la vita
d'una volta, ma qualcuno fra il pubblico faceva parte della vigi-
lanza di Džezkazgan, fu arrestato sul posto, dietro le quinte, gli
appiopparono 25 anni in base all'articolo 58. Lo riportarono a
Džezkazgan.

Costituiscono un gruppo di evasioni a sé stanti quelle che


prendono lo spunto non da un impulso o dalla disperazione, ma
da un calcolo tecnico e da mani d'oro.
A Kengir fu organizzata un'evasione, divenuta celebre, in un
vagone ferroviario. A uno dei cantieri arrivavano continuamente
dei convogli carichi di cemento, di amianto. Venivano scaricati
nella zona e se ne andavano vuoti. Cinque detenuti prepararono
la seguente evasione: fabbricarono una finta parete interna da
vagone merci, per di più pieghevole, su cerniere, tanto che
mentre la trascinavano verso il vagone aveva tutto l'aspetto di
una passerella larga, comoda per le carriole. Il piano era questo:
mentre si scarica un vagone, sono padroni del campo i

241
detenuti; portare la parete preparata nel vagone, distenderla;
farne una parete solida mediante nottole; mettersi in cinque con
la schiena rivolta alla parete del vagone, raddrizzare e far restare
in piedi con delle corde la falsa parete. Tutto il vagone, e la pare-
te finta, sono coperti di polvere d'amianto. A occhio non si
scorge la differenza di profondità del vagone. La difficoltà sta
nel calcolo del tempo, occorre liberare il vagone prima della
partenza, mentre i detenuti sono ancora nel cantiere, ma non vi si
può salire per tempo, occorre essere sicuri che sta per ripartire.
All'ultimo momento i cinque si precipitarono, con i coltelli e le
provviste, ma improvvisamente uno dei fuggiaschi rimase con il
piede incastrato in uno scambio, se lo fratturò. Questo causò un
ritardo, e non ebbero il tempo di terminare il montaggio prima
della verifica da parte della scorta. Così furono scoperti. Ci fu un
processo.1
Attuò la stessa idea, ma evadendo da solo, un allievo ufficiale
di aviazione, Batanov. Nel kombinat di lavorazione del legname
a Ekibastuz si facevano stipiti per porte, portate poi ai vari
cantieri. Il lavoro nella falegnameria era ininterrotto, le sentinelle
non si allontanavano mai dalle torrette. Nei cantieri invece la
scorta vigilava soltanto di giorno. Con l'aiuto di amici Batanov fu
chiuso fra le assi di uno stipite, caricato su un camion e scaricato
nel cantiere. In falegnameria ci fu confusione nel conteggio dei
detenuti fra un turno e l'altro e l'assenza di Batanov non fu notata
quella sera; nel cantiere egli si liberò dello stipite e uscì. Tuttavia
quella notte stessa fu ripreso sulla strada per Pavlodar. (Questa
sua evasione avvenne un anno prima di quella in macchina,
quando le sentinelle spararono alle gomme.)

A Ekibastuz, a causa delle evasioni, riuscite o fallite fin


dall'inizio; a causa degli eventi, per cui già cominciava a scottare
il terreno della zona;2 in seguito a sagge annotazioni degli agenti
1
Un mio compagno di corsia nel dispensario oncologico di Taskent, un soldato di scorta
uzbeco, mi parlò, al contrario, di questa evasione come felicemente conclusa, e l'ammirava suo
malgrado.
2
Si veda cap. X.

242
della Sicurezza; a causa dei renitenti al lavoro e altri indocili,
gonfiava sempre più la Brigata di regime duro. Non bastavano
più le due ali di pietra della prigione né la režimka (baracca n. 2
accanto a quella dello stato maggiore). Fu istituita una seconda
režimka (baracca n. 8) appositamente per i banderisti.
Ad ogni nuova evasione e ogni nuova ribellione il regime
diventava sempre più rigido in tutte e tre le baracche. (Per la
storia del mondo della malavita notiamo: le cagne brontolavano
nella BUR di Ekibastuz: « Canaglie! È l'ora di smetterla con le
evasioni. Per colpa vostra ci faranno morire con questo regime...
In un lager di ladri, per roba del genere, sarebbero pugni ».
Ossia, dicevano esattamente quello che occorreva alle autorità.)
Nell'estate 1951 la režimka (baracca n. 8) decise di evadere in
blocco. Si trovava a una trentina di metri dai reticolati e decise di
scavare un tunnel. Ma il tutto era stato troppo discusso, i ragazzi
ne parlavano quasi apertamente fra di loro, ritenevano che un
uomo di Bandera non avrebbe potuto essere un delatore, mentre
in realtà ve n'erano. Avevano già scavato pochi metri in
lunghezza quando furono venduti.
I caporioni della baracca 2 erano molto indispettiti da tutta
quella chiassosa impresa, non perché temessero rappresaglie
come le cagne, ma perché si trovavano anch'essi a trenta metri
dai reticolati e ancor prima della baracca 8 avevano ideato e
iniziato uno scavo di alta classe. Ora che la stessa idea era stata
concepita dalle due baracche di rigore temevano che la muta
capisse e controllasse. Tuttavia, temendo di più le fughe in
macchina, i padroni di Ekibastuz si preoccuparono soprattutto di
circondare tutti i cantieri e la zona abitata con fossati della
profondità di un metro, nei quali sarebbe sprofondata qualsiasi
macchina. Come nel medioevo, non bastarono le muraglie, ci
volle il fossato. Adesso la scavatrice scavava un fossato dopo
l'altro, con precisione, facendo un lavoro pulito, intorno a tutti i
cantieri.
La baracca n. 2 era una piccola zona dentro la zona, circon-
data anch'essa dal filo spinato. Il cancelletto di accesso era
sempre chiuso a chiave. Finito il lavoro nella fabbrica di cal-

243
cina quei detenuti avevano il permesso di camminare nel loro
cortiletto presso la baracca soltanto per venti minuti. Per il resto
del tempo quelli sottoposti al regime di rigore venivano chiusi
nella loro baracca, e attraversavano la zona comune soltanto per
il raduno e al ritorno. Non andavano mai alla mensa comune, i
cuochi portavano loro il cibo nei contenitori.
La režimka considerava la fabbrica di calcina come una possi-
bilità di stare un poco al sole e respirare, non mostrava mai
eccessivo zelo nello spalare la nociva calce. Quando poi alla fine
dell'agosto 1951 ci fu anche un assassinio (il ladro Aspanov
uccise col piccone Anikin, un fuggiasco che aveva superato i
reticolati su mucchi di neve in mezzo a una tormenta, ma era
stato catturato ventiquattro ore dopo e punito con la baracca di
rigore. Ne parlo nella Parte terza, capitolo XIV), lo stabilimento
si rifiutò di accogliere tali « operai » e per tutto il mese di
settembre la baracca non fu portata al lavoro, visse in sostanza
secondo un regime puramente carcerario.
Vi erano molti « fuggiaschi convinti » e quell'estate cominciò
a radunarsi un ben affiatato gruppo di dodici uomini (Mahomet
Gadziev, capo dei musulmani di Ekibastuz; Vasilij Kustarnikov;
Vasilij Brjuchin; Valentin Ryzkov; Mut'janov; un ufficiale polac-
co, specialista nello scavare gallerie e altri). Tutti erano uguali,
ma Stepan Konovalov, cosacco del Kuban', ne era tuttavia il
capo. Fecero giuramento: chi ne avesse fatto parola ad anima
viva era un uomo finito: o doveva suicidarsi o sarebbe stato
accoltellato dagli altri.
A quel tempo la zona di Ekibastuz era già stata circondata da
un assito continuo alto quattro metri. Lungo questo si trovava
una prezona arata larga quattro metri, e là dall'assito si
stendevano quindici metri di territorio vietato che terminava con
una trincea larga un metro. Fu deciso di attraversare tutta questa
barriera di difesa con un tunnel tanto sicuro da non poter
assolutamente esser scoperto anzitempo.
La prima investigazione mostrò che le fondamenta erano
troppo basse, lo spazio sotto la baracca così esiguo che non
sarebbe stato possibile ammucchiarvi la terra scavata. Pareva un
ostacolo insormontabile. Dunque, rinunziare alla fuga?...

244
Qualcuno propose: in compenso è vasta la soffitta,
solleviamoci la terra. Pareva impensabile. Far salire inosservate
in soffitta ogni giorno, ogni ora, molte diecine di metri cubi di
terra attraverso lo spazio abitato della baracca, controllato e
visitato continuamente, e portarle su senza lasciarne cadere una
manciata, senza lasciar traccia!
Ma quando ebbero escogitato come farlo esultarono e l'eva-
sione fu definitivamente decisa. La decisione venne insieme alla
scelta della sezione, ossia della stanza. Quella baracca finlandese
era destinata in origine ai lavoratori liberi, era stata montata per
errore all'interno del lager, e in tutto Ekibastuz non ve n'era
un'altra simile: consisteva di piccole stanze nelle quali non
s'infilavano sette letti a castello come ovunque ma tre, ossia per
dodici persone. Scelsero una di queste sezioni, già abitata da
alcuni uomini della loro dozzina. Con vari espedienti, cambi
volontari o costringendo altri a sloggiare a forza di beffe e risate
(« Tu russi, tu... troppo ») mandarono gli altri nelle sezioni
attigue e riunirono i loro.
Più la režimka era separata dal resto della zona, più erano
puniti e oppressi i suoi abitanti, tanto più aumentava il loro
prestigio morale nel lager. Un'ordinazione proveniente dalla
režimka era una legge per il lager e adesso tutto quanto occorreva
veniva ordinato, procurato nei vari cantieri, portato con rischio,
affrontando le perquisizioni, e con nuovo rischio consegnato alla
režimka, nella sbobba, col pane o i medicamenti.
Prima di tutto furono ordinati e ottenuti i coltelli. Poi chiodi,
viti, stucco, cemento bianco, filo elettrico, isolatori. Furono accu-
ratamente segati coi coltelli gli incastri di tre assi del pavimento,
tolto uno zoccolo che le fissava, tolti i chiodi piantati alle estre-
mità delle assi vicino alla parete e quelli che le fissavano alla
trave nel centro della stanza. Le tre assi liberate furono riunite in
un unico pannello dal di sotto mediante un'assicella trasversale, il
chiodo principale vi fu infisso dall'alto in basso. La sua larga
testa fu tinta del colore del pavimento e impolverata. Il pannello
entrava molto precisamente nel pavimento, non c'era nulla con
cui afferrarlo e non veniva mai sollevato facendo leva nelle
fessure con un'accetta. Lo si sollevava invece togliendo il

245
listello, mettendo un cappio di filo di ferro intorno alla larga testa
del chiodo, al quale era stato lasciato un certo gioco, e tirando
verso l'alto. A ogni cambio di turno degli scavatori il listello
veniva tolto e rimesso al suo posto. Ogni giorno « lavavano il
pavimento », bagnavano le assi con l'acqua affinchè gonfiassero
e non lasciassero fessure o spazi. Il problema dell'accesso era
uno dei problemi principali. La stanza dello scavo era mantenuta
particolarmente linda e ordinata. Nessuno si sdraiava sul
pancaccio con le scarpe, nessuno fumava, non c'erano oggetti
sparpagliati in giro alla rinfusa, gli scomparti personali erano
lindi e ordinati. Nessun guardiano vi si soffermava durante l'ispe-
zione. « È ammodo » e passava oltre.
Secondo fu il problema del montacarichi per sollevare la terra
in soffitta. Come in ogni stanza, c'era una stufa anche in questa.
Fra la stufa e la parete rimaneva uno stretto spazio in cui a
malapena sarebbe potuto passare un uomo. L'invenzione consisté
nel chiudere quello spazio, far sì che da spazio abitabile
diventasse parte del vano scavato. In una delle stanze vuote
smontarono interamente un pancaccio a castello. Con quelle assi
chiusero il vuoto, poi le imbiancarono dello stesso colore della
stufa. Poteva la vigilanza ricordare in quali delle venti stanzette
della baracca la stufa faceva tutt'uno con la parete e in quali ne
era un poco scostata? Non fu notata nemmeno la scomparsa del
pancaccio. I guardiani avrebbero potuto notare il primo o
secondo giorno l'intonaco bagnato, ma per farlo avrebbero do-
vuto girare intorno alla stufa e piegarsi di là dal pancaccio, e, non
lo dimentichiamo, era una sezione modello! E anche se
l'avessero scoperto, non sarebbe stato ancora tutto perduto: era
un lavoro inteso ad abbellire la stanza, quel vuoto che si riempiva
sempre di polvere la deturpava!
Solamente quando si furono asciugate l'intonacatura e
l'imbiancatura, tagliarono con i coltelli il pavimento e il soffitto
del vano adesso chiuso, vi posero una scaletta fabbricata con
quello stesso pancaccio trafugato e così lo spazio esiguo
sottostante al pavimento si unì con quello vasto della soffitta. Era
un pozzo di miniera nascosto agli sguardi della vigilanza e la
prima miniera

246
in tanti anni in cui questi uomini giovani e forti lavorassero
volentieri fino a slombarsi!
È pensabile in un lager un lavoro che coincida col sogno, che
appassioni fino a togliere il sonno? Sì, ma ce n'è uno solo: quello
dell'evasione.
Problema successivo: lo scavo. Da fare con i coltelli affilati e
riaffilati di continuo, questo era chiaro. Ma vi erano molti altri
problemi. C'era il calcolo dello scavo in galleria (ingegnere
Mut'janov): scendere quanto bastava per essere al sicuro ma non
oltre, e avanzare lungo il percorso più breve; determinare il
diametro ottimale del cunicolo; sapere sempre in che punto ti
trovi e definire correttamente il punto di uscita. C'era anche
l'organizzazione dei turni di lavoro: scavare il maggior numero
possibile di ore del giorno e della notte senza darsi il cambio
troppo spesso e presentarsi sempre, impeccabili e al gran com-
pleto, ai controlli del mattino e della sera. C'era il problema del
vestiario da lavoro, del lavarsi: non si poteva risalire in super-
ficie tutti impiastricciati di argilla. Ci fu il problema della illu-
minazione: come fare un cunicolo di 60 metri lavorando al buio?
Tesero un filo elettrico sotto il pavimento e nel tunnel (provate
un po' a collegarlo alla rete senza farvene accorgere!). C'era il
sistema dei segnali: come richiamare gli scavatori da un lontano
punto del cunicolo se qualcuno entrasse inaspettatamente nella
baracca? O come far loro sapere che dovevano immediatamente
uscirne?
Tuttavia era proprio nella rigidità del regime disciplinare che
stava anche la sua debolezza. I guardiani non potevano avvici-
narsi furtivamente e entrare inosservati nella baracca, dovevano
percorrere sempre l’unica via fra i reticolati verso il cancelletto,
aprire il lucchetto, andare verso la baracca e aprirne la porta
chiusa a chiave, far sferragliare il chiavistello: tutto questo si
poteva facilmente osservare dalla finestra, non dalla camerata
dello scavo ma da una « cabina » vuota di fianco all'entrata, nella
quale bastava tenere un osservatore in permanenza. I segnali
nella galleria venivano dati con la luce: se lampeggiava due
volte: attenzione, preparati a uscire! se lampeggiava spesso:
attenzione! allarme! uscire subito!

247
Scendendo nel sotterraneo si svestivano completamente, met-
tevano tutti gli indumenti sotto la materassa e il guanciale. Dopo
l'imboccatura s'infilavano in uno stretto passaggio all'altro capo
del quale era impossibile immaginare una cella in cui ardeva
continuamente una lampadina e stavano giubbe e calzoni da
lavoro. Quattro altri (il turno) sporchi e nudi, salivano e si
lavavano con cura (l'argilla si solidificava in pallini tra i peli del
corpo, bisognava bagnarla o strapparla insieme ai peli).
Tutti questi lavori erano già in atto quando fu scoperto lo
scavo noncurante della baracca 8. È facile capire il sentimento
non solo di stizza ma anche di offesa che sentirono i nostri crea-
tori per la loro invenzione. Tuttavia la cosa passò senza con-
seguenze.
All'inizio di settembre, dopo quasi un anno di carcere, furono
trasferiti (reintegrati) in quella cella Tenno e Ždanok. Non ap-
pena ebbe ripreso fiato, Tenno cominciò a mostrare segni d'im-
pazienza, bisognava preparare un'evasione. Eppure nessuno nella
baracca, neppure i più convinti e spericolati fuggiaschi, faceva
eco ai suoi rimproveri: si stavano lasciando sfuggire il momento
più adatto per le evasioni, non era possibile starsene a braccia
incrociate. (Gli scavatori lavoravano a tre turni di quattro uomini
e non occorreva un tredicesimo.) Allora Tenno propose loro di
scavare un tunnel! La risposta fu che ci avevano già pensato, ma
che le fondamenta erano troppo basse. (Era veramente crudele:
guardare bene in faccia un esperto fuggiasco che ti osserva con
aria indagatrice e scuotere fiaccamente la testa: è come proibire a
un cane intelligente e addestrato di fiutare la selvaggina.) Ma
Tenno conosceva troppo bene quei ragazzi per prestar fede a una
tale epidemia d'indifferenza. Non potevano essersi rammolliti
così tutti insieme e in un colpo solo!
Insieme a Ždanok istituì una sorveglianza gelosa ed esperta,
di cui i guardiani non sarebbero stati capaci. Notò che i ragazzi
andavano spesso a fumare sempre nella stessa cabina vicina
all'entrata e sempre da soli, mai in compagnia. Che di giorno la
loro stanza è chiusa con un gancio, e se si bussa aprono dopo un
certo tempo, e che c'è sempre qualcuno che dorme profonda-
mente come se non bastasse la notte. Oppure Vasilij Brjuchin

248
esce tutto bagnato dalla latrina. « Cosa ti succede? » « Niente, ho
deciso di lavarmi. »
Scavano, è evidente che scavano. Ma dove? Perché stanno
zitti? Tenno andava da questo e da quello e bluffava: « Non è
prudente scavare come fate voi, ragazzi! Per niente prudente!
Meno male che me ne accorgo io, ma se fosse invece un de-
latore? »
Finalmente organizzarono una seduta del « Consiglio »* e
decisero di invitare Tenno. Gli proposero di ispezionare la stanza
e trovare degli indizi. Lui tastò e annusò ogni asse del pavimento
e delle pareti e con sua ammirazione e con immensa
soddisfazione dei ragazzi, non trovò nulla. Tremando di gioia
s'infilò sottoterra per lavorare per proprio conto!
La brigata sotterranea era organizzata così: uno, sdraiato,
scavava la terra dal fondo del cunicolo; un altro, raggomitolato
dietro di lui, riempiva con la terra scavata dei piccoli sacchi di
tela appositamente confezionati; il terzo li trascinava (con una
cinghia passata sulle spalle) lungo il cunicolo, risaliva il pozzo
della « miniera » e attaccava i sacchetti ad uno ad uno a un
gancio calato dalla soffitta. Il quarto si trovava in soffitta, buttava
giù i sacchetti vuotati, tirava su quelli pieni, li portava,
camminando in punta di piedi per tutta la soffitta spargendone il
contenuto in un sottile strato uniforme; alla fine del turno
ricopriva questo strato con scorie di carbone, che si trovavano in
gran quantità in quella soffitta. Poi i turni cambiavano, ma non
sempre, perché non tutti riuscivano a eseguire rapidamente e
bene i lavori più pesanti, addirittura estenuanti: scavo della terra
e trascinamento dei sacchetti.
Se ne tiravano dapprima due, poi quattro alla volta; per questo
avevano fregato ai cucinieri un vassoio di legno, che caricavano
di sacchetti e trascinavano con una cinghia. La cinghia scorticava
il collo, indolenziva le spalle, le ginocchia si spellavano, dopo un
solo tragitto l'uomo era in un bagno di sudore, dopo un intero
turno era da buttar via.
* II termine russo, del gergo furbesco, è tolkovišče, da tolkovat' (pop. « discutere ») e designa
una sorta di Tribunale, o Consiglio, della malavita.

249
Bisognava scavare in una posizione scomodissima. C'era una
vanga con il manico cortissimo, affilata tutti i giorni. Con questa
bisognava praticare dei tagli verticali per tutta la profondità che
si poteva raggiungere, poi, semisdraiati, la schiena appoggiata
sulla terra scavata, staccare i pezzi di terra e lanciarseli alle
spalle. Il terreno era ora sassoso, ora di tenace argilla. Bisognò
aggirare le pietre più grosse, così che il cunicolo assunse un
andamento sinuoso. In un turno di otto-dieci ore si avanzava non
più di due metri, talvolta meno di uno.
La cosa peggiore era la mancanza d'aria: faceva girare la testa,
perdere la conoscenza, dava la nausea. Si dovette così risolvere
un altro problema: quello della ventilazione. I fori di aerazione si
potevano praticare solamente verso l'alto, nella striscia di terreno
più pericolosa, continuamente vigilata, quella che cingeva la
zona. Ma senza di essi divenne impossibile respirare. Fu ordinata
una lamina di acciaio a « elica », la si fissò a un bastone
trasversale, ne risultò una specie di trivello e si aprì così un
primo stretto foro di comunicazione con l'aria aperta. Si creò una
corrente d'aria, fu più facile respirare. (Quando il cunicolo era
già oltre il reticolato, fuori dal lager, si praticò una seconda
apertura.)
Si scambiavano continuamente esperienze: sul modo migliore
di eseguire questo o quel lavoro. Si calcolava di quanto era pro-
gredito lo scavo.
Il cunicolo si tuffava sotto le fondamenta, poi non si scostava
dalla retta se non per le pietre o per l'imprecisione dello scavo.
Era largo mezzo metro, alto novanta centimetri, con una volta a
semicerchio. Secondo i calcoli, il soffitto doveva trovarsi a un
metro e trenta-un metro e quaranta dalla superficie. I fianchi del
tunnel erano rafforzati con assi, via via si allungava il filo
elettrico e si appendevano sempre nuove lampadine.
A guardarlo per il lungo era una metropolitana, il metrò del
lager!
Il tunnel era già lungo diecine di metri, si scavava oltre il
reticolato. Si udiva distintamente sopra la propria testa lo scal-
piccio del cambio della guardia, i latrati e l'uggiolare dei cani.
E d'un tratto... d'un tratto, dopo il controllo del mattino,

250
quando il turno di giorno non era ancora sceso e (secondo la
rigida regola che si erano dati i nostri fuggiaschi) non era visibile
nulla, che potesse destare sospetti, essi videro una muta di
guardiani dirigersi verso la baracca, guidati dal piccolo e brusco
tenente Mačechovskij, capo del regime disciplinare. I fuggiaschi
si sentirono gelare: erano stati notati? Venduti? O un controllo a
casaccio?
Risuonò l'ordine:
« Raccogliere gli effetti personali! Tutti fuori dalla baracca! »
L'ordine è stato eseguito. Tutti i detenuti sono stati cacciati
fuori e siedono sul proprio sacco nel cortiletto dell'« aria ». Dal-
l'interno della baracca si sente un gran fracasso: buttano giù i
pancacci. Mačechovskij grida: « Portate le accette! » e i guar-
diani trascinano picconi e scuri. Si sente lo stridio lacerante di
assi divelte.
Ecco il destino degli evasi: tanta intelligenza, lavoro, spe-
ranze, animazione e tutto questo non solo invano, sarebbe loro
costato nuovamente cella di rigore, percosse, interrogatori, pro-
lungamento della pena.
E invece! invece né Mačechovskij né alcuno dei guardiani
esce fuori di corsa gioiosamente eccitato agitando le braccia.
Escono sudati, scuotendosi di dosso sporcizia e polvere, sbuffan-
do, scontenti di aver faticato inutilmente. Delusi, comandano: «
Dentro ad uno ad uno! ». Comincia la perquisizione. I detenuti
tornano nella baracca. L'hanno messa a sacco! In alcuni punti (là
dove le assi erano fissate male o si vedevano delle fessure) il
pavimento è stato sventrato. Nelle camerate tutto è sparpagliato
in giro, i pancacci a castello, per la rabbia, buttati a gambe
all'aria. Soltanto nella camerata ammodo nulla è stato smosso.
I non iniziati sono furibondi:
« Cosa gli ha preso, a quei cani? Cosa cercano? »
Adesso i fuggiaschi vedono quanto sia stato saggio non aver
accumulato mucchi di terra scavata sotto il pavimento: sarebbero
stati notati subito attraverso le brecce del pavimento. Non sono
stati in soffitta: troppa fatica, senza ali, e del resto è tutto accu-
ratamente cosparso di scorie.

251
La muta è rimasta a bocca asciutta! Ah, che gioia! Se si
lavora con tenacia, si vigila con severità, non possono mancare i
frutti. Adesso arriveremo in fondo. Rimangono sei, forse otto
metri fino alla trincea del perimetro. (Bisogna scavare con par-
ticolare precisione gli ultimi metri, per uscire sul fondo della
trincea, né più in alto né più in basso.)
E poi? Konovalov, Mut'janov, Gadziev e Tenno hanno già
elaborato un piano accettato da tutti i sedici. La fuga avverrà la
sera verso le dieci dopo che avranno avuto luogo i controlli serali
in tutto il lager, quando i guardiani si saranno ritirati in casa o
saranno andati nella baracca del comando, al momento del
cambio della guardia nelle torrette, dopo il passaggio delle
guardie.
Tutti si caleranno, uno dopo l'altro, nel cunicolo. L'ultimo
osserverà la zona dalla cabina; poi, con l'aiuto del penultimo,
inchioderà la parte mobile dello zoccolo alle assi del portello così
che, quando lo avranno abbassato dietro di sé, anche lo zoccolo
tornerà al suo posto. Sarà tirato a più non posso il chiodo con la
testa larga, e sono stati preparati dei paletti sotto il pavimento
mediante i quali il portello diventerà inamovibile, anche se
dall'alto lo tirassero con violenza.
Inoltre: prima dell'evasione bisognerà togliere la grata da una
delle finestre del corridoio. Constatata al mattino l'assenza di
sedici persone, i guardiani non decideranno subito che si tratta di
un'evasione attraverso un tunnel, correranno per la zona a
cercarli, crederanno che quelli della režimka siano andati a fare i
conti con i delatori. Cercheranno anche in qualche altra sezione
del lager, pensando che ci siano passati scavalcando il muro. Un
lavoro pulito! Impossibile trovare il cunicolo, niente tracce sotto
le finestre, sedici uomini portati in cielo dagli angeli!
Si striscerà nella trincea del perimetro, poi, tenendosi sempre
sul suo fondo ci si allontanerà ad uno ad uno dalla torretta (l'usci-
ta dal cunicolo è troppo vicina); ad uno ad uno uscire sulla stra-
da; ogni quattro uomini, ci sarà un intervallo per non destare so-
spetti e per avere il tempo di orientarsi. (L'ultimissimo prenderà
ulteriori precauzioni: chiuderà il cunicolo dal di fuori con un por-
tello di legno preparato in precedenza e impiastricciato d'argilla,

252
lo farà aderire premendovi sopra col corpo, lo coprirà di terra,
affinchè al mattino non si possano vedere nella trincea segni di
scavo.)
Bisognerà attraversare l'abitato scherzando ad alta voce, spen-
sieratamente. Se tentassero di fermarli, resistenza collettiva, fino
all'uso dei coltelli.
Il punto di raccolta sarà vicino al passaggio a livello dove
transitano molte macchine. Il passaggio fa una gobba sopra la
strada, tutti si sdraieranno per terra, non saranno visti. Il pas-
saggio è fatto male (lo hanno veduto recandosi al lavoro), le assi
sono tutte sconnesse, i camion carichi di carbone e quelli vuoti lo
attraversano lentamente. Due dovranno alzare il braccio, fermare
un camion subito dopo il passaggio a livello, avvicinarsi alla
cabina dai due lati. Chiedere un passaggio. Di notte gli autisti
sono per lo più soli. Tirare subito fuori i coltelli, sequestrare
l'autista, metterlo in mezzo a due uomini, Valentin Ryzkov si
metterà al volante, tutti salteranno nel cassone e via! a Pavlodar.
Si possono sicuramente percorrere centotrenta-cento-quaranta
chilometri in poche ore. Prima di arrivare al traghetto, voltare nel
senso della corrente (quando li portavano nel lager hanno
osservato diverse cose), lasciare l'autista, legato, nei cespugli,
abbandonare la macchina, attraversare l'Irtys con una barca,
separarsi in gruppi e che ognuno proceda come vuole. Per
l'appunto è in pieno svolgimento l'ammasso del grano, le strade
sono piene di veicoli.
I lavori dovevano essere terminati il 6 ottobre. Due giorni
prima, il 4 ottobre, comunicarono a due della brigata, Tenno e
Volod'ka Krivosein, un ladro, che li avrebbero trasferiti. Vole-
vano tentare l'impietosita* per rimanere a qualunque costo, ma
l'ufficiale della Sicurezza promise che li avrebbe portati via am-
manettati anche se fossero stati in punto di morte. Decisero che
tanta ostinazione avrebbe destato sospetti. Sacrificandosi per gli
amici, si sottomisero.
Tenno non mise dunque a frutto l'insistenza che gli aveva
* Nel gergo furbesco, mostyrka, da mostyrit', mastyrit' (in gergo, persuadere): lesione
volontaria, talora molto crudele, per ottenere qualcosa, per protesta, ecc.

253
fruttato l'accoglimento nella brigata sotterranea. Il tredicesimo
non fu lui ma, da lui introdotto e patrocinato, il troppo indisci-
plinato e nervoso Ždanok. Stepan Konovalov e i suoi amici
cedettero malauguratamente alle insistenze di Tenno.
Finirono di scavare, sbucarono nel posto giusto, Mut'janov
non aveva sbagliato. Ma cominciò a nevicare e attesero che il
terreno si asciugasse un poco.
La sera del 9 ottobre eseguirono tutto esattamente com'era
stato progettato. Uscirono felicemente i primi quattro: Konova-
lov, Ryzkov, Mut'janov e il polacco, che era sempre stato il suo
collaboratore fisso, in tutte le evasioni « ingegneristiche ».
Poi strisciò nella trincea il malaugurato piccolo Kolja Ždanok.
Non fu certo colpa sua, udì dei passi in alto, vicino. Avrebbe
dovuto controllarsi, rimanersene quatto quatto, nascosto e ri-
prendere a strisciare quando fossero passati. Ma per eccessiva
petulanza alzò la testa. Voleva vedere chi passava.
Il pidocchio più svelto è il primo a capitare nel pettine. Ma
quello sciocco pidocchio rovinò un gruppo di fuggiaschi raro per
affiatamento e per vigore di progettazione, quattro vite lunghe,
complesse che si erano incrociate in quella evasione. In ognuna
di quelle vite l'evasione assumeva un significato grande,
particolare, dava un senso al passato e al futuro, da ciascuno di
quegli uomini dipendevano altre persone, altrove, donne, figli
non ancora nati. Ma il pidocchio alzò il capo e tutto andò a rotoli.
Quello che passava lassù, come si seppe poi, era il vice-
comandante delle guardie, vide il pidocchio, dette un grido, gli
sparò. I guardiani, indegni di tanto progetto che non erano
riusciti a indovinare, divennero grandi eroi. E il mio lettore, lo
Storico Marxista, picchiettando col suo righello sul libro, mi fa
cadere dall'alto, con condiscendenza:
« Già... Perché non siete fuggiti?... Perché non vi siete ri-
bellati? »
E ora tutti i fuggiaschi già entrati nel cunicolo, con la grata già
richiusa, dopo aver già inchiodato lo zoccolo al portello, stri-
sciarono indietro - indietro - indietro!

254
Chi ha attinto al fondo di questa disperazione, chi ha cono-
sciuto tanto disprezzo per le proprie fatiche?
Tornarono, spensero la luce nel tunnel, rimisero a posto la
grata nel corridoio.
Ben presto la baracca si affollò tutta di ufficiali del lager,
ufficiali della divisione, soldati di scorta, guardiani. Cominciò
l'appello secondo le schede, il trasferimento di tutti nella prigione
di pietra.
Ma non trovarono il cunicolo. (Quanto avrebbero cercato se la
fuga fosse riuscita secondo le intenzioni?) Vicino al posto dove
fu preso Ždanok trovarono un foro semicoperto di terra. Ma
anche raggiungendo la baracca attraverso il cunicolo era
impossibile capire da dove fossero scesi gli uomini e cosa
avessero fatto con la terra scavata.
Soltanto nella sezione ammodo risultarono mancanti quattro
uomini e cominciarono a far cantare senza pietà gli otto rimasti,
il mezzo più facile, per gente ottusa, di ottenere la verità.
A che prò nascondere, ormai?
In seguito furono organizzate vere e proprie escursioni di tutta
la guarnigione per visitare la galleria. Il maggiore Maksimenko,
panciuto capo del lager di Ekibastuz, si vantava poi alla
direzione di fronte agli altri capi-sezione:
« Da me sì che c'è stata una galleria! Una vera metropolitana!
Ma noi... la nostra vigilanza... »
Un semplice pidocchio, eppure...

Dato l'allarme, i quattro che erano riusciti ad andarsene non


ebbero più il tempo di raggiungere il passaggio a livello. Il piano
era fallito. Scavalcarono la palizzata della zona di lavoro deserta
dall'altra parte della strada, attraversarono la zona, scavalcando
un altro recinto e si avviarono per la steppa. Non osarono fer-
marsi nell'abitato per impadronirsi d'una macchina perché la
cittadina pullulava già di pattuglie.
Come Tenno un anno prima, persero subito velocità e proba-
bilità di successo.
Si diressero a sud-est, verso Semipalatinsk, Non avevano né

255
le provviste né le forze per un viaggio a piedi, negli ultimi giorni
si erano logorati per finire di scavare.
Al quinto giorno entrarono in una jurta e chiesero da mangiare
ai kazachi. Come il lettore può già intuire, quelli rifiutarono e
spararono agli affamati con un fucile da caccia. (È questo nella
tradizione di un popolo di pastori della steppa? E se non lo è, da
dove viene la nuova tradizione?)
Stepan Konovalov si buttò contro al fucile con un coltello, ferì
il kazachi, gli tolse l'arma e le provviste. Continuarono a cam-
minare. Ma i kazachi li seguivano a cavallo, li trovarono vicino
all’Irtys, chiamarono il « gruppo operativo ».
Poi furono accerchiati, pestati a sangue, massacrati, poi è già
tutto, tutto noto...
Se qualcuno mi sa indicare adesso alcune evasioni di
rivoluzionari russi del XIX o XX secolo che abbiano incontrato
tali difficoltà, una tale assenza di aiuti dall'esterno, tanta ostilità
dell'ambiente, tanta illegale crudeltà verso i catturati, me le
indichi.
E dopo questo dicano pure che non abbiamo lottato.

256
IX Quei bravi figlioli col mitra

Ci facevano la guardia soldati con il cappotto lungo e i para-


mani neri. Ci facevano la guardia soldati dell'Armata rossa. Ci
facevano la guardia gli « autoguardiani ». Ci facevano la guardia
vecchi riservisti. Finalmente arrivarono giovanottelli gagliardi
nati durante il primo piano quinquennale, che non avevano visto
la guerra, presero dei mitra belli nuovi e si misero a farci la
guardia.
Due volte al giorno, un'ora ogni volta, scarpiniamo legati da
un silenzioso mortale legame: chiunque di loro è libero di
uccidere chiunque di noi. Ogni mattina scarpiniamo fiaccamente,
noi in mezzo alla strada, loro di fianco, verso un luogo che non
occorre né ad essi né a noi. Ogni sera ci affrettiamo ener-
gicamente, noi verso il nostro recinto da bestie, essi verso il loro.
E poiché non esiste una vera casa, quei recinti ci servono da
case.
Camminiamo e non guardiamo mai i loro pellicciotti, i loro
mitra, a che prò? Quelli camminano e guardano costantemente le
nostre file nere. Secondo lo statuto hanno il dovere di guardarci
continuamente, così è stato loro comandato, in questo consiste il
loro servizio. Devono troncare con uno sparo ogni nostro
movimento e passo.
Come ci vedono, nelle nostre giubbe nere, con i nostri berretti
grigi foderati di « pelliccia alla staliniana »,* con i nostri stivali
di feltro, mostruosi, quattro volte risuolati, portati per la
* Cioè senza fodera affatto.

257
durata di tre pene? Siamo tutti coperti di toppe con i numeri,
possono forse trattarci da uomini?
C'è da stupirsi se il nostro aspetto suscita in essi il ribrezzo?
Infatti è inteso a suscitarlo. Gli abitanti liberi della cittadina,
soprattutto gli scolari e le insegnanti, guardano di sottecchi, con
spavento, dai sentieri tracciati sui marciapiedi, le nostre colonne
scortate sulla larga strada. Ce lo raccontano; tutti temono che noi,
progenie del fascismo, all'improvviso ci gettiamo all'impazzata
addosso alla scorta, per poi precipitarci a rapinare, violentare,
incendiare, uccidere. Infatti solamente questi desideri possono
essere accessibili a creature così simili a bestie. E quindi la scorta
protegge la popolazione da queste belve. La nobile scorta. Al
club, costruito con le nostre mani, questo sergente della scorta si
sente senz'altro un valoroso cavaliere mentre invita a ballare una
maestra.
Quei bravi ragazzi ci guardano continuamente, dall'accerchia-
mento, dalle torrette, ma non sanno assolutamente nulla di noi;
sanno soltanto che hanno il diritto di sparare senza preavviso.
Oh, se di sera venissero da noi nelle nostre baracche, si met-
tessero a sedere sui nostri pancacci e ascoltassero per quali colpe
è stato messo dentro questo vecchio o quel nonno laggiù! Le
torrette rimarrebbero deserte e i mitra non sparerebbero più.
Ma l'astuzia e la forza del sistema stanno appunto nel fatto che
il nostro mortale legame è basato sulla loro ignoranza. La loro
compassione per noi sarebbe punita come tradimento della
patria, un loro desiderio di parlarci sarebbe una violazione del
loro sacro giuramento. E perché parlare con noi, se all'ora
prevista verrà l'istruttore politico per una conversazione sulla
figura politica e morale dei nemici del popolo cui essi fanno la
guardia? Egli spiegherà e ribadirà con dovizia di particolari fino
a che punto quegli spauracchi sono nocivi e rappresentano un
fardello per lo Stato. (Il che rende ancor più allettante l'idea di
vedere quanto valgono come bersagli viventi.) Egli porterà con
sé certi incartamenti e dirà che la Sezione speciale gli ha affidato
in lettura, per una sera, le pratiche. Ne estrarrà, per leggerli,
alcuni foglietti dattiloscritti con dei racconti di misfatti per i quali
non basterebbero tutti i crematori di Auschwitz, e li attri-

258
buirà a quell'elettricista che ha riparato la luce sul palo o a quel
falegname al quale certi incauti compagni (e ne farà il nome)
volevano ordinare un comodino.
L'istruttore politico non commetterà un errore, non s'imbro-
glierà. Non racconterà mai a quei ragazzi che qui la gente viene
messa dentro per la fede in Dio, o semplicemente per sete di
verità, o semplicemente per amore di giustizia. O magari per
nessuna ragione.
La forza del sistema sta nel fatto che qui un uomo non può
parlare direttamente a un altro uomo, lo dovrà fare tramite un
ufficiale o l'istruttore politico.
La forza di quei ragazzi sta nella loro ignoranza.
La forza dei lager sta in quei ragazzi. Spalline rosse. Assassini
appollaiati su torrette e cacciatori di evasi.
Ecco l'esempio di una « conversazione politica » come la ri-
corda un ex soldato di scorta (Nyroblag): «Tenente Samutin; una
pertica dalle spalle strette, la testa appiattita a partire dalle
tempie. Ricorda un serpente. Bianco, quasi privo di sopracciglia.
Sappiamo che ha fucilato personalmente. Adesso recita con tono
monotono durante le lezioni di politica: "I nemici del popolo cui
fate la guardia non son altro che fascisti, luridume. Noi
rappresentiamo la forza e la vindice spada della Patria e dob-
biamo essere fermi. Niente sentimentalismo, niente compas-
sione! " ».
Così, si formano i ragazzi che cercano di colpire appunto alla
testa, con un calcio, il fuggiasco caduto. Coloro che respingono
con una pedata il pane dalla bocca di un vecchio ammanettato.
Coloro che guardano con indifferenza un evaso in manette di-
battersi contro le assi scheggiate del cassone di un camion;
quello ha la faccia insanguinata, la testa spaccata, ma essi guar-
dano con indifferenza. Infatti loro sono la spada vindice della
Patria, e lui è, a quel che ne sanno, un colonnello americano.
Già dopo la morte di Stalin, già condannato al confino perpe-
tuo, ero ricoverato in un ospedale libero a Taskent. D'un tratto,
tendo l'orecchio: un malato, un giovane uzbeco, racconta ai
vicini del suo servizio nell'esercito. Il loro reparto faceva la
guardia a dei boia, delle belve. L'uzbeco ammise che anche i

259
soldati della scorta non mangiavano abbastanza, e li rendeva
furibondi il fatto che i detenuti prendessero, come minatori (per
il 120% del lavoro si capisce) poco meno della loro onesta
razione di soldati. Altra cosa che li mandava su tutte le furie:
loro, i soldati della scorta, dovevano gelare d'inverno sulle tor-
rette (a dire il vero intabarrati in pellicce di montone fino alle
caviglie) mentre i nemici del popolo, una volta entrati nella zona
di lavoro, per tutta la giornata non facevano altro che trasferirsi
da un rifugio attrezzato all'altro per riscaldarsi (anche dalla
torretta avrebbe potuto vedere che non era così) e passarvi tutto il
tempo a dormire (immaginava seriamente che lo Stato
beneficasse a tal punto i propri nemici).
Mi si presentava un'occasione interessante: vedere il lager con
gli occhi d'un soldato di scorta. Cominciai a chiedergli che razza
di canaglie fossero quegli uomini e se avesse mai parlato con
loro personalmente. Allora mi raccontò tutto quanto aveva
saputo dall'istruttore politico, e come questi leggeva loro le «
pratiche » durante le conversazioni. E quell'odio indistinto ch'egli
provava all'idea che i detenuti passassero tutta la loro giornata
lavorativa a dormire si era certamente radicato in lui favorito dai
cenni di capo affermativi dell'ufficiale.
O voi che scandalizzate questi piccoli! Meglio sarebbe stato
per voi se non foste mai nati!...
L'uzbeco raccontò anche che un soldato semplice della Sicu-
rezza dello Stato riceve 230 rubli al mese (dodici volte di più che
un soldato dell'esercito! Perché tanta generosità? Il suo servizio è
forse dodici volte più gravoso?), e fino a 400 rubli oltre il circolo
polare - questo per un servizio a termine e con tutto (vitto e
alloggio) fornito gratuitamente.
Raccontava altri casi. Per esempio un suo compagno, mentre
scortava una colona, credette che uno dei detenuti volesse fug-
gire. Premette il grilletto e con un colpo solo uccise cinque
detenuti. Poiché in seguito tutti gli altri soldati testimoniarono
che la colonna camminava tranquillamente, il soldato subì un
grave castigo: per cinque morti ebbe quindici giorni agli arresti
(in un posto di guardia asciutto e riscaldato, s'intende).
Chi non conosce casi simili, quale indigeno dell'Arcipelago

260
non potrebbe raccontarne! Quanti ne abbiamo conosciuti negli
ITL: in un cantiere dove non esistono reticolati ma soltanto
un'invisibile linea di accerchiamento risuona uno sparo e un
detenuto cade, ucciso: ha varcato la linea, dicono. Può darsi non
l'abbia fatto, la linea è immaginaria e non si troverà un secondo
che vada a controllare dove passa, per non cadere accanto al
primo. E la commissione non verrà a verificare in che punto sono
i piedi dell'ucciso. Può anche darsi che abbia veramente varcato
la linea, infatti solo la sentinella ha agio di sorvegliare l'invisibile
linea, mentre il detenuto, lui, lavora. Dunque, lo zek che si
prende questa pallottola è proprio quello che lavora con maggior
lena e onestà. Alla stazione di Novočunka (Ozerlag) durante la
fienagione: uno zek vede un po' di fieno a due o tre passi da lui,
ha l'anima del contadino, un colpo di rastrello, verso il mucchio,
uno sparo. Per il soldato: un mese di licenza!
Accade anche che quella sentinella ce l'abbia proprio con quel
detenuto (non ha eseguito un ordine, obbedito a una richiesta) e
allora lo sparo è una vendetta. Sommata a perfidia, talvolta: il
soldato ordina al detenuto di andare a prendere qualcosa di là
dalla linea e riportarlo. E quando quello, fiducioso, ci va, gli
spara. Si può anche gettargli una sigaretta dall'altra parte: va',
fatti una fumata. Il detenuto ci andrà, anche per una sigaretta: è
fatto così, un essere abietto.
Perché sparano? Non sempre lo si capisce. Per esempio, a
Kengir, all'interno quindi di una zona ben organizzata, in pieno
giorno, senza l'ombra di una minaccia d'evasione, Lida, una
ragazza dell'Ucraina occidentale, è riuscita durante il tempo
libero a lavarsi le calze e le appende ad asciugare sulla scarpata
dell'antezona. Una sentinella prende la mira dall'alto della tor-
retta e la stende. (Si raccontava vagamente che in seguito cercò
di uccidersi.)
Perché? Un uomo col fucile, il potere illimitato di uccidere o
non uccidere un altro uomo.
Per di più è vantaggioso. Le autorità sono sempre dalla parte
tua. Non ti puniranno mai per l'assassinio. Al contrario, ti lode-
ranno, avrai una ricompensa e prima l'hai accoppato, all'inizio

261
del primo passo magari, maggiore è la tua vigilanza e maggiore il
premio. La paga di un mese. Una licenza di un mese. (Mettetevi
nei panni del comando: se la compagnia di scorta non ha
all'attivo casi di vigilanza dimostrata, che razza di compagnia è?
e che razza di comandanti ha? o forse i detenuti sono così docili
che si possono ridurre gli effettivi? Un sistema di vigilanza, una
volta creato, esige dei morti!)
Fra i fucilieri sorge perfino uno spirito di concorrenza: tu hai
ucciso e con il denaro del premio ti sei comprato del burro.
Ucciderò anch'io e mi comprerò anch'io del burro. Hai bisogno di
fare una scappata a casa a goderti un po' la tua ragazza?
Impallina uno di questi esseri grigi e vacci pure per un mese.
Casi del genere erano ben noti negli ITL. Ma nei lager speciali
fu introdotta una novità: sparare direttamente su una colonna,
come aveva fatto il compagno di quell'uzbeco. Come
nell'Ozerlag, P8 settembre 1952, a un posto di guardia. O spa-
rando nella zona dall'alto delle torrette.
In altre parole, è a questo che venivano addestrati. Era il frutto
del lavoro degli istruttori politici.
Nel maggio 1953 a Kengir quei bravi figlioli col mitra spa-
rarono una raffica improvvisa e del tutto ingiustificata contro una
colonna già giunta al lager e in attesa di passare la perquisizione
prima di entrare. Ci furono sedici feriti, e fossero stati soltanto
feriti! Avevano sparato con pallottole dirompenti, da tempo
vietate da tutte le convenzioni capitaliste e socialiste. Le
pallottole erano uscite dai corpi a imbuto, maciullando i visceri,
le mascelle, le estremità.
Perché la scorta dei lager speciali era armata appunto con
pallottole dirompenti? Chi lo aveva ratificato? Non lo sapremo
mai...
Tuttavia, quanto si offese il mondo della scorta nel leggere nel
mio racconto* che i detenuti li chiamavano « pappagalli » e che
ora era risaputo in tutto il mondo! No, i detenuti avrebbero
dovuto amarli e chiamarli i loro angeli custodi.
Ma uno di quei figlioli - uno dei migliori, a dire il vero – non
* Una giornata di Ivan Denisovič.

262
si offese, ma volle difendere la verità: Vladilen Zadornyj, nato
nel 1933, in servizio nella Guardia armata militarizzata (VSO)
della MVD, al Nyroblag, dall'età di diciotto ai vent'anni. Mi
scrisse alcune lettere:

I ragazzi non ci andavano di loro spontanea volontà, venivano arruolati dal


Commissariato di leva. Si insegnava ai ragazzi a sparare e a montare la
guardia. I ragazzi gelavano e di notte piangevano, cosa diavolo poteva
importargliene di quei Nyroblag e di tutti i loro detenuti? Non si possono
incolpare i ragazzi, servivano la Patria e sebbene non tutto fosse com
prensibile in quell'assurdo e pauroso servizio [e che cosa era comprensibile,
allora? O tutto, oppure niente... A.S.] avevano fatto giuramento.
Il servizio non era facile.

È sincero, è veritiero. C'è da rifletterci... Erano circondati da


una palizzata, quei ragazzi: giuramento! servire la Patria! siete
dei soldati!
Ma era anche ben debole in essi, se non del tutto inesistente, il
sentimento di umanità se non tenne contro un giuramento e delle
discussioni politiche. Ragazzi di questa risma non è che se ne
possano plasmare da tutte le generazioni, né da tutti i popoli.
Non è questo il problema essenziale del XX secolo?: è lecito
eseguire degli ordini affidando ad altri il peso della propria
coscienza? È ammissibile non avere nozioni proprie del male e
del bene e attingerle da istruzioni stampate e dalle indicazioni
verbali dei capi? Il giuramento! Quegli scongiuri solenni pro-
nunziati con un fremito nella voce e il cui senso è diretto a
salvaguardare il popolo dai malvagi, com'è facile, volgerli al
servizio di malvagi e contro il popolo!
Ricordiamoci quello che Vasilij Vlasov, già nel 1937, si ripro-
metteva di dire al suo boia: tu solo sei colpevole se si uccidono
degli uomini! Tu solo hai la mia morte sulla tua coscienza, vivi
con questo peso! Senza boia non ci sarebbero esecuzioni.
Senza truppe di scorta non ci sarebbero lager.
Certamente né i contemporanei né la storia mancheranno di
stabilire una gerarchia della colpevolezza. Certamente è chiaro
per tutti che i loro ufficiali hanno una colpa maggiore; gli uffi-
ciali della Sicurezza dello Stato una colpa ancora maggiore; an-

263
cora maggiore, coloro che scrivevano istruzioni e ordini; e più
colpevoli di tutti sono coloro che davano l'ordine di scriverli.1
Eppure quelli che sparavano, sorvegliavano, imbracciavano i
mitra, non erano tuttavia quelli, erano i ragazzi! Quelli che
davano calci a degli uomini per terra, erano sempre i ragazzi!
Scrive ancora Vladilen:

Ci facevano entrare nella testa e ci costringevano a imparare a memoria


l'USO-43 ss, il Regolamento del 1943 dei fucilieri di scorta, segretissimo,2 un
regolamento crudele e rigido. Più il giuramento. Più la sorveglianza degli
ufficiali della Sicurezza e dei vice commissari politici. Le « soffiate », la
delazione. Pratiche montate contro gli stessi soldati... Separati da una
palizzata e dal filo spinato, gli uomini con la giubba e gli uomini col cappotto
militare erano ugualmente prigionieri, gli uni per venticinque anni, gli altri per
tre.

È espresso con vigore: anche i soldati, in definitiva venivano


messi dentro non da un tribunale militare ma da un commissa-
riato di leva. Ma ugualmente, beh, ugualmente no davvero, per-
ché gli uomini col cappotto non ci mettevano niente a rovesciare
raffiche di mitra sugli uomini con la giubba e perfino su folle
intere, come vedremo.
Vladilen spiega:

I ragazzi erano diversi. Ve n'erano di quelli zelanti e limitati che nutrivano


un odio cieco per i detenuti. A proposito, erano particolarmente zelanti le
reclute provenienti dalle minoranze etniche: baskiri, burjati, jakuti. C'erano
poi gli indifferenti, ed erano la maggioranza. Facevano il servizio in silenzio,
senza mormorare. Le cose che più amavano erano il calendario a fogli
staccabili e l'ora della distribuzione della posta. E finalmente c'erano dei bravi
ragazzi che compativano i detenuti come uomini colpiti dalla disgrazia. La
maggioranza di noi capiva che il nostro servizio godeva di scarse simpatie
presso il popolo. Quando andavamo in licenza non portavamo la divisa.

Il modo migliore per Vladilen di difendere la propria idea è


1
Questo non vuol dire che saranno processati. Sarebbe importante verificare se sono
soddisfatti delle loro pensioni e delle loro ville.
2
A proposito, ci rendiamo conto del sinistro sibilante suono « s-s » nella nostra vita, in
questa o quella sigla? A cominciare da KPSS e quindi i « kapee-sessisti ». E dunque anche questo
regolamento era « S-S » (e lo era tutto quanto veniva considerato « top secret »): ciò significa che
i suoi compilatori ne capivano l'ignominia, e pur capendola lo stilavano; e in quale momento! non
appena cacciati i tedeschi da Stalingrado! Fu un ulteriore frutto della vittoria del popolo.

264
raccontare la sua storia. Anche se, veramente, uomini come lui
costituivano un'eccezione.
Era stato assegnato alle truppe di scorta per la svista di una
Sezione speciale piuttosto indolente. Il suo patrigno, Vojnilo, un
vecchio sindacalista, era stato arrestato nel '37, la madre espulsa
dal partito per questa ragione. Suo padre, comandante di brigata
della Čeka, membro del partito dal 1917, si affrettò a ripudiare
tanto l'ex moglie quanto il figlio (conservò così la tessera, ma
perse comunque i gradi della NKVD).1 La madre lavò l'onta
donando il proprio sangue durante la guerra. (Non ci facevano
caso, il suo sangue era accettato sia dai membri del partito che
dagli altri.) Il ragazzo « odiava i berretti celesti fin dall'infanzia,
ma proprio uno di questi gli fu messo sulla testa... » Troppo
vividamente si era impressa nella memoria del piccolo la terribile
notte in cui degli uomini che indossavano la stessa uniforme di
suo padre avevano frugato senza cerimonie nel suo lettino.

Non ero un buon soldato di scorta: attaccavo discorso con gli zek, ese-
guivo delle commissioni per loro. Lasciavo la carabina vicino al fuoco e
andavo ad acquistargli qualcosa allo spaccio o a impostare delle lettere. Io
penso che agli OLP di Promežutočnaja, Mysakort e Parma non si siano
dimenticati del fuciliere Volodja.* Un brigadiere dei detenuti mi disse una
volta: « Osserva la gente, ascolta il loro dolore e allora capirai... » Già prima,
in ogni « politico » vedevo il nonno, lo zio, la zia... I miei comandanti li
odiavo addirittura. Mormoravo, m'indignavo, dicevo ai fucilieri: «Ecco i veri
nemici del popolo». Per questo, per insubordinazione diretta (« sabotaggio ») -
rapporti con i detenuti - fui sottoposto a istruttoria... quella pertica di Samutin
mi schiaffeggiò... mi picchiò sulle dita con un fermacarte perché non volli
firmare una confessione a proposito delle lettere dei detenuti. Avrei potuto far
fuori quella tenia, sono pugile di seconda categoria, sollevavo pesi di trenta
chili come nulla fosse, ma due guardiani mi si appesero alle braccia... Tuttavia
gli istruttori avevano altre gatte da pelare: tanto fu lo scompiglio e il ristagno
nella MVD nel 1953. Non fui condannato, ma mi rilasciarono un passa-

1
Sebbene ci siamo da tempo abituati a tutto, a volte ci si meraviglia: viene arrestato il
secondo marito della donna che avete lasciato ed è una ragione per ripudiare il proprio figlio di
quattro anni? E si tratta di un comandante di brigata della Čeka!
* Volodja, diminutivo di Vladimir, è anche usato come diminutivo di nomi artificiali
sovietici del tipo di Vladilen: Vladi(mir) Len(in).

265
porto « sporco », articolo 47-d: « Estromesso dagli Organi della MVD per
estrema indisciplina e gravi infrazioni del Regolamento ». E fui buttato fuori
dal corpo di guardia della compagnia, completamente congelato e picchiato a
sangue perché me ne tornassi a casa... Il brigadiere Arsen, rilasciato dal lager,
si prese cura di me durante il viaggio.

Ma immaginiamo che un ufficiale della scorta voglia dimo-


strare compassione per un prigioniero. Lo potrebbe fare soltanto
in presenza dei soldati e per il tramite di questi. Dunque, dato il
generale inasprimento, gli sarebbe impossibile, e per di più «
imbarazzante ». Senza contare che qualcuno lo denuncerebbe
immediatamente.
Il sistema!

266
X Quando il terreno della zona comincia a scottare

No, la cosa che ci deve meravigliare non è che non ci siano


state sommosse e Insurrezioni nei lager; bensì il fatto che
nonostante tutto ve ne siano state.
Come ogni cosa indesiderabile nella nostra storia, ossia i tre
quarti di quanto in realtà è accaduto, anche queste sommosse
sono state accuratamente ritagliate, ricucite e bordate tutt'at-
torno, coloro che vi presero parte sono stati annientati, chi
avrebbe potuto testimoniare anche lontanamente è stato intimo-
rito, i rapporti di coloro che le repressero bruciati o nascosti
dietro venti pareti di casseforti, tanto che quelle insurrezioni si
sono già trasformate in miti, mentre da esse ci separano appena
quindici anni, talvolta soltanto dieci. (C'è da stupirsi se dicono
che non sono esistiti Cristo né Budda né Maometto? Sono passati
millenni...)
Quando la cosa non potrà più emozionare anima viva, gli
storici avranno l'accesso a resti di documenti, gli archeologi
daranno un colpo di vanga qua e là, faranno bruciare qualcosa
nei loro laboratori e si delineeranno date, luoghi, contorni di
quelle insurrezioni e i cognomi dei capi.
Allora appariranno le primissime vampate, come quella di
Retjunin nel gennaio del 1942, al comando di Oš-Kur'e presso
Ust'-Usa. Si dice che Retjunin, un libero stipendiato, fosse ad-
dirittura il capo, o poco meno, di quel comando. Egli lanciò
l'appello ai Cinquantotto e ai « socialmente nocivi » (7-35),
raccolse un paio di centinaia di volontari, questi disarmarono la

267
scorta, consistente di delinquenti comuni, e se ne andarono con
dei cavalli nella foresta per fare i partigiani. Furono ammazzati
ad uno ad uno. Ancora nella primavera del 1945 qualcuno fu
condannato per l'affare Retjunin anche se non vi aveva
partecipato.
Può darsi che a un certo momento noi sapremo - no, non noi,
ahimè - della leggendaria insurrezione del 1948 al cantiere 501
della ferrovia in costruzione Sivaja Maska-Salechard. Leg-
gendaria perché tutti ne sussurrano nei lager, ma nessuno sa
qualcosa di preciso. Leggendaria perché divampò non nei lager
speciali, dove esistevano lo stato d'animo e il terreno propizio,
ma negli ITL, in cui la gente era disunita dai delatori, schiacciata
dai delinquenti comuni, dove era schernito anche il diritto di
essere dei prigionieri politici, dove non era neppure pensabile
che potesse avvenire una sommossa di detenuti.
Secondo le voci tutto fu fatto da ex militari (smobilitati da
poco). Né poteva essere diversamente. Senza questi i Cinquan-
totto erano un gregge esangue e privo di fede. Ma quei ragazzi
(nessuno aveva più di trent'anni) erano ufficiali e soldati del
nostro esercito combattente; altri erano stati prigionieri di guerra,
anzi prigionieri di guerra che avevano aderito a Vlasov o a
Krasnov o avevano fatto parte di reparti « nazionali », avevano
combattuto là gli uni contro gli altri e qui erano legati da una
comune oppressione; giovani che avevano combattuto su tutti i
fronti della guerra mondiale, espertissimi di guerra moderna di
fanteria, di mimetizzazione, di eliminazione di pattuglie, questi
giovani, là dove non erano dispersi e isolati, avevano conservato
nel 1948 la forza d'inerzia della guerra e la fede in se stessi; in
cuor loro non riuscivano a capacitarsi: perché simili ragazzi,
interi battaglioni, dovevano morire docilmente? Anche l'evasione
era per essi una misera mezza misura, quasi la diserzione di
singole unità invece di accettare insieme il combattimento.
Tutto fu ideato ed ebbe inizio in una certa brigata. Dicono ne
fosse a capo un colonnello Voronin (o Voronov), un guercio. Si
fa anche il nome di un tenente carrista Sakurenko. La brigata
uccise la propria scorta (per l'appunto consisteva non di veri

268
soldati ma di riservisti). Poi andarono a liberare una seconda e
una terza brigata. Assalirono l'abitato dei guardiani e il proprio
lager dal di fuori, cacciarono le sentinelle dalle torrette e apri-
rono la zona. (A questo punto avvenne l'immancabile scissione: i
cancelli erano aperti, ma per lo più i detenuti non li varcarono.
C'erano alcuni condannati a pene brevi, e per loro non era van-
taggioso ribellarsi. C'erano altri condannati a dieci e anche quin-
dici anni in base agli Ukaz « sette ottavi » e « quattro sesti »* e
anche per costoro non era vantaggioso essere condannati secondo
l'articolo 58. C'erano i Cinquantotto, ma di quelli che preferivano
morire da sudditi fedeli in ginocchio piuttosto che rimanere in
piedi. Quelli poi che uscivano dai cancelli non andavano
necessariamente ad aiutare i ribelli: scappavano volentieri anche
i comuni per andare a rapinare i villaggi dei liberi.)
Dopo essersi armati con i fucili dei guardiani (sepolti poi nel
cimitero di Kočmas), i ribelli occuparono il lager attiguo. Unen-
do le forze decisero di muovere contro la città di Vorkuta, di-
stante sessanta chilometri. Ma li attendeva una sorte ben diversa:
furono lanciati dei paracadutisti che isolarono Vorkuta. I caccia
disperdevano e uccidevano gli insorti con voli radenti.
Ci furono poi i processi, altre fucilazioni, le condanne furono
di venticinque e dieci anni. (Giacché c'erano, « rinfrescarono » le
pene a molti che non avevano preso parte alle operazioni ma
erano rimasti dietro i reticolati.)
L'inutilità dell'insurrezione da un punto di vista militare era
evidente. Ma chi dirà che era più utile logorarsi lentamente fino
a morire?
Poco dopo furono creati i lager speciali, la maggior parte dei
Cinquantotto venne isolata lì. Ebbene?
Nel 1949, al Berlag, nella sezione Niznij Aturjach, cominciò
qualcosa di simile:., fu disarmata la scorta; presero sei, otto
mitra; assalirono dal di fuori il lager, sgominarono i guardiani,
tagliarono i fili del telefono; aprirono il lager. Ma oramai vi
erano solamente uomini con i numeri addosso, bollati, votati alla
morte, privi di ogni speranza.
* Ukaz cioè del 7 agosto 1932 e del 4 giugno 1937.

269
Ebbene?
I detenuti non varcavano i cancelli.
Coloro che avevano iniziato l'insurrezione, e che non avevano
più nulla da perdere, la trasformarono in evasione; si diressero in
gruppo verso Mylga. A Elgen-Toskana ebbero la strada sbarrata
dalle truppe e da piccoli carri armati (comandava l'operazione il
generale Semenov).
Furono tutti ammazzati.1
L'indovinello dice: qual è la cosa più veloce del mondo? La
risposta è: il pensiero.
Sì e no. A volte il pensiero è lento, oh, quanto lento! Con
difficoltà e ritardo un uomo, la gente, una società arrivano a
capire che cos'è avvenuto di se stessi. A capire la realtà della
propria situazione.

Mentre concentrava i Cinquantotto nei lager speciali, Stalin


era quasi divertito della propria forza. Anche senza quel
provvedimento quelli erano vigilati con la massima sicurezza,
ma egli volle essere più astuto di se stesso, superarsi addirittura.
Credeva di rendere le cose ancor più temibili. Ne risultò
l'opposto.
Tutto il sistema di repressione elaborato sotto Stalin era fon-
dato sulla mancanza di coesione fra gli scontenti; sull'impedir
loro di guardarsi negli occhi, di contarsi; sull'incutere a tutti
l'idea che esistevano soltanto pochi singoli arrabbiati, condan-
nati, con il vuoto nell'anima.
Nei lager speciali gli scontenti vennero in contatto con masse
di molte migliaia. Si contarono. Si resero conto che avevano
nell'anima, non il vuoto ma concetti sulla vita assai superiori a
quelli dei loro carcerieri; dei loro traditori; dei teorici che
spiegavano perché dovevano marcire nei lager.
Dapprima quasi nessuno notò questa novità dei lager speciali.
Esteriormente pareva una continuazione di quelli di lavoro cor-
rezionale. Vero è che si afflosciavano rapidamente i ladri, co-
lonne del regime carcerario e delle autorità. Ma pareva che la
' Non assicuro di aver esposto la storia di questa insurrezione con esattezza. Sarò grato a
chiunque vorrà correggermi.

270
crudeltà dei guardiani e l'area accresciuta della BUR avrebbero
compensato la perdita.
Invece, appena infiacchiti i ladri, sparì il furto nei lager. Si
poteva lasciare la razione di pane nello scomparto. Di notte non
occorreva più mettersi le scarpe sotto la testa, si potevano buttare
sul pavimento e ritrovarle lì l'indomani. Si poteva lasciare sul
comodino la borsa col tabacco, non tenersela in tasca tutta la
notte.
Sono inezie? No, era una differenza enorme. Terminati i furti,
la gente guardò i propri vicini senza sospetto, con simpatia.
Sentite, ragazzi, forse siamo davvero dei... politici!
E se lo siamo, possiamo parlare un poco più liberamente, fra
due pancacci o intorno al falò acceso dalla brigata. E anche
guardarsi intorno, si capisce, per vedere chi ci sta accanto. E in
fin dei conti vadano al diavolo, aumentino pure la pena, ci hanno
già dato un quarto di secolo, che altro?
Comincia a sparire anche la psicologia da lager d'una volta:
oggi tocca a te, domani a me; la giustizia non si ottiene comun-
que; così è stato, così sarà... Perché non si dovrebbe ottenere?
perché « sarà »?
Nelle brigate si parla oramai, a mezza voce, non della razione
del pane, non del semolino, ma di cose di cui non sentireste
parlare neppure « fuori », e sempre più liberamente, sempre di
più il brigadiere perde improvvisamente la sensazione dell'on-
nipotenza del suo pugno. Certi smettono di alzarlo del tutto, altri
lo fanno più di rado e con maggior prudenza. Lo stesso
brigadiere non si isola ma si mette a sedere e parla con gli altri. I
membri della sua brigata cominciano a vedere in lui un com-
pagno: infatti è dei loro.
I brigadieri frequentano la PPČ, la contabilità e i pridurki a
loro volta, riguardo a diecine di piccoli problemi - a chi dimi-
nuire o non diminuire la razione di pane, chi assegnare dove -,
ricevono dai brigadieri quest'aria nuova, questa atmosfera di
serietà, di senso di responsabilità, di chissà quale nuovo signi-
ficato delle cose.
Questo si trasmette ai pridurki, per ora non certo a tutti. Erano
arrivati là con l'avido desiderio di accaparrarsi i posti

271
vantaggiosi, li hanno ottenuti, perché non dovrebbero continuare
a vivere tranquilli come negli ITL: chiudersi nelle cabine, frig-
gersi le patate col lardo, vivere per conto loro, senza contatti coi
lavoratori? No! A quanto pare non era quello l'essenziale. E
allora, cosa? Diventa indecente vantarsi di succhiare il sangue
della gente come si faceva negli ITL, vantarsi di vivere alle spalle
degli altri. I pridurki si fanno degli amici fra i lavoratori,
stendono per terra i loro giubbotti nuovi di zecca accanto a quelli
tutti frittellati degli altri, e passano volentieri la domenica a
conversare distesi in loro compagnia.
E la divisione principale che separa gli uomini non è più così
rozza come quella vigente negli ITL: pridurki - lavoratori, delin-
quenti comuni - Cinquantotto, no, è decisamente più complessa e
interessante: comunità locali, gruppi religiosi, uomini di espe-
rienza, uomini di scienza.
Le autorità ci metteranno ancora del tempo, molto tempo pri-
ma di notarlo e capirci qualcosa. Ma già gli addetti alla distri-
buzione dei lavori non portano più i bastoni, e neppure ringhiano
come prima. Si rivolgono amichevolmente ai brigadieri: non
sarebbe ora di andare all'adunata, Komov? (Non che siano stati
toccati nell'anima, ma c'è qualcosa di nuovo e di inquietante
nell'aria.)
Ma il tutto procede lentamente. Occorrono mesi e mesi per
questi cambiamenti. Non investono tutti i pridurki né tutti i
brigadieri, ma soltanto quelli che, sotto la cenere e i macigni,
hanno serbato dei resti di fraternità e di coscienza. Quelli che
preferiscono restare delle canaglie, lo possono fare benissimo.
Non c'è ancora il vero cambiamento della coscienza, - lo scon-
volgimento profondo, la svolta eroica. Come prima, il lager resta
un lager, noi siamo oppressi e impotenti, e non ci resta che una
via d'uscita: andare a infilarci sotto il filo spinato e fuggire nella
steppa, facendoci annaffiare dalle mitraglie e braccare dai cani.
Mentre l'idea audace, l'idea temeraria, l'idea-gradino era que-
sta: come fare perché non siamo noi a fuggire davanti a loro, ma
loro fuggano davanti a noi?
Basta porsi questa domanda, basta che alcuni uomini arrivino

272
a concepirla e porsela perché termini nei lager l'epoca delle
evasioni. E inizi quella delle sommosse.

Ma come iniziare quest'epoca nuova? Da che cosa? Non


siamo incatenati, avviluppati da mille tentacoli, privi di ogni
libertà di movimento? - da che cosa cominciare?
Le cose più semplici sono tutt'altro che semplici nella vita.
Anche negli ITL, a quanto sembra, alcuni erano arrivati alla
conclusione che bisognava ammazzare i delatori. Anche là, ogni
tanto, un tronco rotolava giù da una catasta e sbatteva nell'acqua
un delatore. Non sarebbe stato dunque difficile capire quali
tentacoli bisognava tagliare per primi. Apparentemente, tutti
erano in grado di capirlo. E non lo capiva nessuno.
Improvvisamente, un suicidio. Nella režimka n. 2, un tizio
viene ritrovato impiccato. (Esporrò gli stadi successivi del pro-
cesso a partire dall'esempio di Ekibastuz. Ma, si noti bene, negli
altri lager speciali gli stadi sono stati i medesimi!.) Le autorità
non se ne rammaricano troppo, tolgono l'uomo dal cappio, lo
spediscono alla discarica.
Ma una voce serpeggiò nella brigata: quello era un delatore.
Non si è impiccato da sé. Lo hanno impiccato.
Un avvertimento.
Vi sono molti mascalzoni nel lager, ma il più ben nutrito, il
più rozzo e sfacciato di tutti è il gestore della mensa, Timofej S.1
Ha la sua guardia del corpo: benpasciuti cucinieri dai ceffi larghi,
e inoltre sostenta tutta una canea di piantoni-aguzzini. Lui stesso
e i piantoni battono gli zek a pugni e bastonate. Un giorno, tra gli
altri, senza un motivo al mondo dà un pugno a uno « scugnizzo »
tutto nero. Come è sua abitudine non è che stia tanto a guardare
chi picchia. Ma lo scugnizzo, secondo i nuovi costumi dei lager
speciali, non è più uno scugnizzo qualsiasi, è un musulmano. I
musulmani sono numerosi nel lager e son di ben altra pasta che i
delinquenti comuni. Al tramonto nella parte occidentale della
zona li si può vedere pregare, le braccia alzate e la fronte
premuta contro terra (negli ITL ne avrebbero
1
Non nascondo il nome, non me lo ricordo più.

273
riso, da noi no). Hanno i propri anziani, hanno perfino, nell'aria
nuova che tira, una specie di consiglio. La decisione che
prendono è: vendicarsi.
Una domenica, la mattina presto, la vittima e un inguš adulto
che l'accompagna scivolano nella baracca dei pridurki a un'ora in
cui quelli poltriscono ancora a letto, penetrano nella stanza dove
si trova S. e con due coltelli sgozzano rapidamente quell'uomo di
una novantina di chili.
Ma com'è ancora immaturo tutto questo! i due non tentano
neanche di nascondersi o di scappare. Con i coltelli insanguinati,
il cuore tranquillo di chi ha compiuto il proprio dovere, essi
vanno dal cadavere diritto alla baracca dei guardiani e si costi-
tuiscono. Saranno processati.
Sono ancora ricerche a tastoni. Tutto questo sarebbe potuto
succedere anche negli ITL. Ma il pensiero civico procede oltre:
non sarà qui l'anello principale spezzando il quale sarà possibile
rompere la catena?
« Ammazzate i delatori! » eccolo, l'anello. Piantate loro i
coltelli nel petto! Fabbrichiamo dei coltelli, sgozziamo i delatori,
eccolo l'anello!
Oggi, mentre sto scrivendo questo capitolo, intere file di libri
umanitari occhieggiano dai loro ripiani e i loro dorsi usati dai
bagliori smorti mi sovrastano col loro scintillio di biasimo, come
tante stelle fra le nuvole: in questo mondo non si può ottenere
niente con la violenza! Prendendo in mano la spada, il coltello, il
fucile, ben presto ci riduciamo al livello dei nostri boia e
violentatori. E non finirà mai...
Non finirà mai... Qui, seduto al mio tavolo, al calduccio e al
pulito, sono pienamente d'accordo.
Ma bisogna aver preso venticinque anni senza alcuna colpa,
essersi portati addosso quattro numeri, aver tenuto le mani
sempre dietro la schiena, aver passato la perquisizione mattina e
sera, essersi logorato sul lavoro, essere trascinato alla BUR in
seguito a una delazione, essere infine gettato a terra e calpestato,
perché da laggiù, dal fondo di quella fossa, tutti i discorsi dei
grandi umanitari vi facciano l'effetto d'un chiacchiericcio di
borghesi ben nutriti.

274
Non finirà mai... ma chissà se ci sarà un inizio? Ci sarà una
schiarita nella nostra esistenza oppure no?
Il popolo oppresso ha concluso: la malvagità non si può so-
praffare con la bonarietà.
Si dirà che anche i delatori sono uomini?... I guardiani fanno
il giro delle baracche e ci comunicano, a nostra maggiore inti-
midazione, un ordine del giorno portato a conoscenza dell'in-
sieme del lager Pesčanyj: in una delle sezioni femminili, due
ragazze (dall'anno di nascita si vede quanto sono giovani) hanno
tenuto conversazioni antisovietiche. Il tribunale composto di... A
essere fucilate!
Quale canaglia, anch'essa col giogo sul collo, ha venduto
quelle due ragazze che bisbigliavano sul pancaccio, ragazze già
condannate a dieci anni ciascuna? E i delatori sarebbero anch'essi
degli uomini?
Non si potevano aver dubbi. Eppure i primi colpi non furono
facili.
Non so come sia stato altrove (si cominciò a sgozzare in tutti i
lager speciali, perfino nel lager di invalidi di Spassk!), ma da noi
cominciò con l'arrivo di una tradotta da Dubovka, consistente più
che altro di ucraini occidentali, membri dell'OUN. Essi fecero
moltissimo e dappertutto per questo movimento, furono essi a
mettere in marcia il carro. La tradotta di Dubovka ci portò il
bacillo della ribellione.
Catturati direttamente sui sentieri della guerra partigiana, que-
sti ragazzi giovani e forti, arrivati a Dubovka si guardarono in-
torno, rimasero inorriditi allo spettacolo di quella letargia e di
quella schiavitù e tesero la mano al coltello.
A Dubovka la cosa terminò rapidamente, con una sommossa,
un incendio e lo scioglimento del lager. Ma i padroni, sicuri di sé
e ciechi com'erano (da trent'anni non incontravano nessuna
resistenza, ne avevano perduto l'abitudine) non si curarono
neppure di tenere i ribelli separati da noi. Furono dispersi nel
lager, fra le varie brigate. Era il procedimento usato negli ITL: là
la dispersione soffocava la protesta. Ma nel nostro ambiente che
già si andava depurando, la dispersione non fece altro che
favorire il rapido divampare delle fiamme.

275
I nuovi arrivati andavano al lavoro con le loro brigate, ma non
ci si applicavano per niente, o fingevano solo di farlo, si
sdraiavano al sole (per l'appunto era estate) e conversavano
sottovoce. Di primo acchito, in quei momenti, assomigliavano
molto ai delinquenti « fedeli alla legge »* tanto più che erano
altrettanto giovani, ben nutriti, larghi di spalle.
D'altronde si stava delineando proprio la legalità, ma una
legalità nuova e stupefacente: « Muoia stanotte stessa chi ha la
coscienza sporca! ».
Ora gli assassinii erano divenuti più frequenti delle evasioni
nella loro epoca migliore. Erano compiuti con sicurezza e in
modo anonimo. Nessuno andava a costituirsi con un coltello
insanguinato in mano; risparmiavano sia il coltello che se stessi
per un'altra occasione. Il loro momento favorito: le cinque del
mattino, quando le baracche vengono aperte da un guardiano
solitario che passa alla baracca successiva e quasi tutti i detenuti
dormono ancora; è allora che i vendicatori mascherati entrano in
punta di piedi nella stanza prescelta, si avvicinano al pancaccio
predestinato e uccidono inflessibilmente il traditore, già sveglio o
ancora mezzo addormentato, che urla disperatamente. Dopo aver
controllato che il loro uomo è davvero morto, se ne vanno
tranquillamente.
Erano mascherati e senza numeri: scuciti o ricoperti. Ma se
anche i vicini li avessero riconosciuti dalle sagome non soltanto
non si sarebbero affrettati a denunciarli, ma neppure nel corso
degli interrogatori, neppure di fronte alle minacce dei padrini si
sarebbero oramai arresi, ma avrebbero continuato a ripetere: no,
no, non so nulla, non ho visto nulla. E non era più semplicemente
l'antica verità assimilata da tutti gli oppressi: « "nonso" al caldo
sta, "sotutto" legato va », ma era per la propria salvezza. Infatti
chiunque avesse fatto un nome sarebbe stato ucciso l'indomani
alle cinque e la benevolenza dell'ufficiale della Sicurezza non gli
sarebbe stata di nessun aiuto.
Ed ecco che gli assassinii (anche se per ora ce n'erano stati sì e
no una decina) erano divenuti la norma, un fenomeno abi-
* Nel gergo della malavita v zakone è il ladro che vive secondo la legge non scritta che gli
vieta di lavorare.

276
tuale. I detenuti andavano a lavarsi, ricevevano la razione di pane
del mattino, e chiedevano: hanno ammazzato qualcuno stamani?
In questo sport sinistro risuonava agli orecchi dei detenuti il gong
sotterraneo della giustizia.
Tutto veniva fatto nella più assoluta clandestinità. Qualcuno
(di riconosciuta autorità) si limitava a indicare a qualcun altro, in
qualche luogo: è quello là! Non toccava a lui preoccuparsi
dell'esecutore, della data, del posto, dove procurarsi i coltelli.
Quanto agli esecutori, coloro ai quali spettava occuparsene, essi
non conoscevano il giudice di cui dovevano eseguire il verdetto.
Ed è doveroso riconoscere che - malgrado la mancanza di
documenti che comprovassero la qualità di delatori! - quel tri-
bunale non costituito, illegale e invisibile, giudicava con molta
più perspicacia e un minor numero di errori che non tutti i
tribunali che ci erano familiari, le « troike », collegi militari e
OSO vari.
La rubilovka,* come,la chiamavamo noi, cominciò a lavorare
con tanta regolarità da prendere anche le ore del giorno, funzio-
nando quasi pubblicamente. Un piccolo, lentigginoso
responsabile di baracca, ex pezzo grosso della NKVD di Rostov e
noto farabutto, fu ucciso una domenica, di giorno, nella stanza «
dei buglioli ». I costumi erano diventati a tal punto feroci che ci
fu ressa per vedere il cadavere insanguinato.
Un'altra volta, mentre davano la caccia al traditore che aveva
venduto la galleria sotto la zona a partire dalla režimka (baracca
di punizione) n. 8 (le autorità, resesi conto della cantonata presa,
vi avevano concentrato i principali dubovkiani, ma la rubilovka
ormai procedeva benissimo anche senza di loro), si videro i
vendicatori correre per la zona, armati di coltelli, in pieno giorno;
il delatore, per sfuggire loro, riparò nella baracca del comando,
quelli lo inseguirono anche là, fin nell'ufficio del capo della
sezione del lager, l'obeso maggiore Maksimenko. In quel
momento il barbiere del lager stava radendo il maggiore seduto
nella sua poltrona. Conformemente al regolamento di servizio, il
maggiore era senza armi (non ne devono portare
* Dal verbo rubit': tagliare, abbattere.

277
finché si trovano nella zona). Nel vedere gli assassini e i loro
coltelli, il maggiore spaventato fece un balzo sotto il rasoio e si
mise a supplicare, convinto che l'avrebbero sgozzato. Notò con
sollievo che stavano sgozzando, sotto i suoi occhi, un delatore.
(Nessuno intendeva attentare alla vita del maggiore. La consegna
del movimento iniziato era: sgozzare solamente i delatori, non
toccare i guardiani e i capi.) Maksimenko saltò comunque fuori
dalla finestra, rasato a metà, un asciugamano bianco sulle spalle
e corse fino al posto di guardia lanciando urla selvagge: «
Torretta, fuoco! Torretta, fuoco! ». Ma dalle torrette non risuonò
alcuno sparo...
Ci fu un caso in cui il delatore non era stato finito, era scap-
pato e, coperto di ferite, si era rifugiato in infermeria. Là fu
operato e fasciato. Ma se un maggiore della NKVD era stato ter-
rorizzato dai coltelli, poteva davvero l'infermeria salvare un de-
latore? Due o tre giorni più tardi finirono di sgozzarlo nel let-
tuccio dell'infermeria...
Su cinquemila uomini, ne furono uccisi una dozzina, ma ogni
colpo di coltello, uno dopo l'altro, staccava i tentacoli che ci
avviluppavano e ci impedivano. Prese a soffiare un'aria strana.
Esteriormente noi continuavamo, come prima, ad essere dei pri-
gionieri, a vivere nei limiti della zona del lager, in realtà eravamo
diventati liberi, perché per la prima volta in tutta la nostra
esistenza, per quanto potevamo ricordarcela, avevamo comin-
ciato a dire apertamente, ad alta voce, tutto ciò che pensavamo.
Chi non ha sperimentato un tale cambiamento non se lo può
immaginare.
E i delatori non denunciavano più.
Fino ad allora gli agenti della Sicurezza potevano lasciare
chiunque volessero per tutta la giornata nella zona, conversare
con lui per ore intere - per riceverne delazioni? assegnargli nuovi
compiti? estorcergli i nomi di detenuti fuori dell'ordinario, che
non avevano ancora fatto nulla ma che avrebbero potuto fare
qualcosa? o che potevano essere sospettati come animatori di una
futura resistenza?
E la sera, la brigata, di ritorno dal lavoro, gli chiedeva: « Co-
me mai t'hanno convocato? ». E sempre, verità o impudente ap-

278
parenza di verità, il compagno di brigata avrebbe risposto: «
Beh, per mostrarmi delle fotografie... ».
In realtà negli anni del dopoguerra mostravano spesso ai de-
tenuti fotografie di persone che potevano aver incontrato. Ma
non potevano, né sarebbe stato utile mostrarle a tutti. E tutti
invece, tanto le persone sicure che i traditori, si riferivano ad
esse. Il sospetto regnava nelle nostre file e costringeva ciascuno a
rinchiudersi in se stesso.
Ora invece l'aria si andò purificando dai sospetti. Se anche
l'ufficiale della Sicurezza ordinava a qualcuno di trattenersi dopo
il raduno, quello non rimaneva. Incredibile! Senza precedenti in
tutti gli anni di esistenza della Čeka-Ghepeu-MVD! Chi era stato
convocato non si trascinava da « loro » con il cuore in tumulto,
non vi trottava con un'espressione servile in volto, ma si rifiutava
fieramente di andarci (non dimentichiamo che i compagni di
brigata lo stavano osservando). Una invisibile bilancia oscillava
sopra l'adunata al mattino. Ammassati su uno dei piatti tutti i ben
noti fantasmi: uffici dei giudici istruttori, pugni, bastonate, notti
passate in piedi, in box dove si può stare solo in piedi, celle di
rigore umide e gelide, topi, cimici, tribunali, seconde e terze
condanne. Ma tutto questo non era imminente, era un molino che
macinava le ossa, ma incapace di inghiottirci in un colpo solo e
di stritolarci in un giorno. Anche dopo le macine la gente,
nonostante tutto, continuava a vivere: tutti i presenti ci erano
passati.
Sull'altro piatto della bilancia invece c'era solo un coltello, ma
un coltello destinato a te, se tu avessi ceduto. Era destinato a
penetrarti nel petto, e non chissà quando ma l'indomani stesso
all'alba, e tutte le forze della ČKGB erano impotenti a salvarti.
Non era molto lungo, ma quanto bastava per entrarti tra le
costole. Non aveva un vero manico, soltanto un nastro isolante
avvolto sulla parte ottusa della lama, ma bastava per permettere
una buona presa, per non lasciarselo sfuggire di mano.
E quella minaccia vivificante pesava di più! Dava a tutti i
deboli la forza di estirpare le sanguisughe e di passare oltre, al
seguito della propria brigata. (Forniva loro anche un'eccellente
giustificazione dopo: « saremmo anche rimasti, cittadino capo,
ma
279
abbiamo avuto paura del coltello... lei è al sicuro, lei non può
rendersi conto di cosa voglia dire... »)
E non basta. Non soltanto i detenuti cessarono di presentarsi
alle convocazioni degli agenti della Sicurezza e degli altri pa-
droni dei lager, ma evitavano oramai di impostare qualsiasi bu-
sta, qualsiasi foglietto scritto nella cassetta delle lettere appesa
nella zona o nelle cassette destinate ai reclami indirizzati alle alte
istanze. Prima di andare a imbucare una lettera o una richiesta, si
chiedeva a qualcuno: « Toh, leggi, controlla che non si tratta
d'una delazione. Andiamo a impostarla insieme ».
Da quel momento le autorità divennero cieche e sorde. Appa-
rentemente il panciuto maggiore e il suo non meno panciuto vice,
il capitano Prokof'ev, e tutti i guardiani, andavano e venivano
liberamente per la zona dove niente li minacciava, si muovevano
in mezzo a noi, ci osservavano: ma senza vedere niente! Perché,
in mancanza di un delatore, un uomo in divisa non è in grado di
vedere e di udire niente: prima che arrivi, la gente tace, si volta
dall'altra parte, nasconde, se ne va... Da qualche parte lì vicino
fedeli informatori languono dal desiderio di vendere i compagni,
ma nessuno osa neppure fare un segno convenuto.
Cessò di funzionare precisamente quell'apparato d'informa-
zione sul quale solo si era fondata per decenni la fama degli
onnipotenti e onniscienti Organi.
Erano sempre le stesse brigate, si sarebbe detto che continua-
vano ad andare a lavorare negli stessi cantieri (del resto oramai ci
eravamo messi d'accordo per resistere anche alla scorta, non
permetterle di modificare le nostre file di cinque, di ricontarci
durante la marcia, e ci riuscimmo! Non appena nelle nostre file
non ci furono più delatori,, indebolimmo anche i mitraglieri).
Lavoravamo per raggiungere la « norma » occorrente. Al ritorno
permettevamo ai guardiani di perquisirci, come prima (ma i col-
telli non venivano mai trovati!). Ma in realtà le nostre non erano
più le brigate artificialmente combinate dall'amministrazione;
sono degli insiemi umani ben diversi, che uniscono gli uomini e
in primo luogo le nazionalità. Nacquero e si rafforzarono dei
centri nazionali, inaccessibili ai delatori: ucraino, mu-

280
sulmano unificato, estone, lituano. Nessuno li eleggeva, ma si
formavano con tanta equità, in virtù dell'anzianità, della sag-
gezza, delle sofferenze sopportate, che la loro autorità era incon-
testata per la loro nazionalità. Evidentemente si era formato
anche un organo consultivo unificatore, un « Soviet delle nazio-
nalità »1 per così dire.*
Le brigate rimanevano le stesse, nello stesso numero, ma,
strana cosa: i brigadieri cominciarono a mancare! Fenomeno
inaudito per il GULag. Dapprima la loro fuga sembrò naturale:
uno era in infermeria, un altro in amministrazione, un altro
ancora stava per essere rilasciato. Prima c'era sempre di riserva
un'avida massa di gente desiderosa di ottenere il posto di bri-
gadiere per un pezzo di lardo o una maglia di lana. Ora invece
non solo mancavano gli aspiranti, ma c'erano dei brigadieri che
facevano anticamera ogni giorno alla PPČ e domandavano di
essere rilevati al più presto dalle loro funzioni.
Cominciava un periodo in cui i vecchi metodi brigadiereschi
ai danni degli sgobboni fino all'estrema « giubba di legno »**
furono definitivamente abbandonati, mentre, per inventarne di
nuovi, occorreva una capacità che non tutti avevano. Ben presto
le cose peggiorarono al punto che l'addetto alla ripartizione dei
lavori si riduceva ad andare nella stanza dove abitava la brigata
1
È il momento di fare una riserva. Non tutto andò così liscio come si potrebbe lasciar credere
quando si traccia la linea principale. Esistevano gruppi rivali di « moderati » e « estremisti ».
Entrarono in gioco, si capisce, simpatie e inimicizie personali e le ambizioni di chi aspirava a
diventare « un capo ». I giovani torelli « esecutori di giustizia » erano ben lontani dall'avere
un'ampia coscienza politica, alcuni, piuttosto, erano inclini ad esigere per il loro lavoro un'alimen-
tazione speciale, per ottenerla erano capaci di minacciare il cuciniere dell'infermeria, in altre
parole esigevano un supplemento di vitto a spese della razione degli infermi e, se il cuciniere
rifiutava, erano capaci di ammazzarlo senza preoccuparsi del giudizio morale: infatti l'abitudine
esisteva già, maschere e coltelli erano pronti. Insomma, in un nucleo sano cominciava già a
lavorare il tarlo, attributo immutabile, costante nel corso della storia, di tutti i movimenti
rivoluzionari.
Una volta ci fu puramente e semplicemente un errore: un astuto delatore era riuscito a
convincere un pacioso sgobbone a scambiare i letti e il poveraccio fu trovato sgozzato al mattino.
Ma nonostante tali deviazioni la direzione generale fu mantenuta molto nettamente, non c'era
modo di sbagliare. Il risultato fu quello che si contava di ottenere.
* Una delle Camere del Parlamento dell'URSS (Soviet supremo), è quella che rappresenta le
nazionalità.
** Espressione coniata nei lager: bara.

281
per fare una fumatina e una chiacchierata e pregare alla buona: «
Ragazzi, così non va, non si può fare a meno d'un brigadiere!
Sceglietevelo da voi, noi lo facciamo passare subito! »
Casi simili si moltiplicarono quando i brigadieri cominciarono
a rifugiarsi nella BUR, a nascondersi cioè nella prigione di pietra.
Non soltanto loro ma anche i capocantieri-bevitori di sangue del
genere di Adaskin e i delatori, alla vigilia di essere scoperti o
quando sentivano di essere fra i primi della lista: all'improvviso,
un frullo, e fuggivano. Ancora il giorno prima facevano i
bravacci, si comportavano e parlavano come se approvassero
quanto avveniva (adesso sarebbe stato impossibile parlare diver-
samente in mezzo ai detenuti!), la notte precedente avevano dor-
mito nella baracca comune (o più probabilmente avevano passato
la notte, a vegliare, pronti a difendersi, giurandosi che sarebbe
stata l'ultima), e ora erano scomparsi. Il piantone riceveva
l'ordine di portare la roba del tale alla BUR.
Fu un'epoca nuova, allegra e un tantino paurosa nella vita del
lager speciale. In definitiva, non eravamo fuggiti noi, erano
fuggiti loro, liberandoci della loro presenza. Epoca inaudita, im-
possibile su questa terra: un uomo con la coscienza sporca non
può più coricarsi tranquillamente! L'ora dell'espiazione non
suona nell'altro mondo, non è rimandata al giudizio della storia; è
un'espiazione viva, tangibile che alza su di te, all'alba, un col-
tello. Situazione immaginabile solo in una fiaba: la terra della
zona è morbida e tiepida sotto i piedi degli onesti, spinosa e
ardente sotto quelli dei traditori! Non si può che augurare altret-
tanto allo spazio oltre la zona, al nostro mondo libero, che mai ha
veduto tempi simili, né forse mai li vedrà.
La tetra BUR di pietra, da tempo ingrandita e ultimata, con le
sue piccolissime finestre protette dalle « museruole », umida
fredda e buia, circondata da una solida palizzata di assi di quattro
centimetri di spessore, la BUR preparata tanto amorevolmente dai
padroni per i renitenti al lavoro, gli evasi, gli ostinati, i
protestatari, i coraggiosi, eccola adesso improvvisamente
trasformata in casa di riposo per delatori, bevitori di sangue e
sbirri!
Non si può negare un certo senso dello humour al primo

282
che ebbe l'idea di correre dai čekisti e chiedere, in ricompensa di
un lungo e fedele servizio, di sottrarlo all'ira del popolo tra le
quattro mura del « sacco di pietra ». La storia non ci aveva
ancora mostrato nulla di simile: chiedevano una prigione più
solida, chiedevano di non vedere più la luce del giorno, di non
respirare più l'aria pura, fuggivano, non dalla prigione ma in
prigione.
I capi e gli ufficiali della Sicurezza ebbero pietà dei primi, li
accolsero: dopo tutto erano dei loro. Assegnarono loro la mi-
gliore cella della BUR (i burloni del lager la chiamavano « de-
posito bagagli »),* la fornirono di materasse, comandarono di
scaldarla meglio, concessero una passeggiata di un'ora.
Ma i primi spiritosi furono seguiti da altri che lo erano meno
ma volevano vivere con altrettanta avidità. (Alcuni volevano
conservare la faccia anche nella fuga: chissà, forse sarebbero
dovuti tornare a vivere fra i detenuti? L'arcidiacono Rudčuk
inscenò tutta una commedia per fuggire nella BUR: dopo la
ritirata i guardiani entrarono nella baracca, finsero una minuziosa
perquisizione con sventramento della materassa, « arrestarono »
Rudčuk e lo portarono via. Tuttavia il lager seppe per certo, poco
dopo, che l'orgoglioso arcidiacono, amante del pennello e della
chitarra, si trovava anche lui nell'affollato « deposito bagagli »). I
rifugiati raggiunsero il numero di dieci, poi di quindici, poi di
venti. (La « brigata Mačechovskij », come si cominciò a
chiamarla dal nome del capo del regime disciplinare.) Fu ne-
cessario organizzare una seconda camerata riducendo così ulte-
riormente l'area produttiva della BUR.
Tuttavia, i delatori sono necessari e utili soltanto fino a che
sono mescolati alla folla e non sono stati smascherati. Un dela-
tore scoperto non vale più nulla, non può più servire nello stesso
lager. È tenuto gratuitamente nella BUR, non fornisce alcun la-
voro produttivo, non giustifica la sua esistenza. Deve esserci un
limite anche alla beneficenza della MVD!
Fu allora fermato il torrente dei supplicanti timorosi per la
* In russo, c'è un gioco di parole: tra kamera (cella) e kamera chranenija (deposito bagagli).

283
propria vita. I ritardatari dovettero rassegnarsi a restare nella loro
pelle di agnelli e aspettare il colpo di coltello.
Il delatore è come un traghettatore: serve per un'ora, dopo chi
lo conosce più?
Le autorità si preoccuparono delle contromisure, del modo per
bloccare quel pericoloso movimento nei lager e spezzarlo. Il
primo provvedimento, abitudinario, la loro prima boa di
salvataggio, consistette nel redigere degli ordini scritti.
I carcerieri delle nostre anime e dei nostri corpi desideravano
meno di tutto ammettere che il nostro fosse un movimento
politico. Nelle minacciose ordinanze (i guardiani facevano il giro
delle baracche e le leggevano) tutte quelle iniziative erano
definite banditismo. Così diventavano più semplici, comprensi-
bili, diciamo familiari. Non era passato molto tempo da quando i
banditi ci venivano mandati con l'etichetta di « politici ». Adesso
i politici, i primi veri politici, erano diventati « banditi ». Si
dichiarava (senza crederci molto) che i banditi sarebbero stati
scoperti (per ora neanche uno) e (credendoci ancora meno) che
sarebbero stati fucilati. Nelle ordinanze veniva anche rivolto un
appello alla massa dei prigionieri: condannare i banditi e lottare
contro di essi. I detenuti ascoltavano l'ordinanza e si di-
sperdevano ridacchiando. Il solo fatto che gli ufficiali del regime
disciplinare avevano avuto paura a chiamare i politici col loro
nome (sebbene tutta l'arte dell'istruttoria consistesse, da ormai
trent'anni, nell'attribuirvi la « politica ») ci aveva fatto avvertire
la loro debolezza.
Debolezza è la parola giusta. Chiamare il movimento « bandi-
tismo » era, da parte loro, una scappatoia, un modo per l'ammi-
nistrazione del lager di togliersi ogni responsabilità: su come
aveva potuto tollerare la nascita di un movimento politico nel
lager. Vantaggio e necessità che si estendevano anche più in alto:
direzioni locali e provinciali della MVD, GULag, e fino al Mini-
stero. Un sistema che teme perennemente l'informazione ama
illudere se stesso. Se fossero stati uccisi guardiani o ufficiali del
regime non avrebbero potuto evitare il ricorso all'articolo 58-8,
terrorismo, e allo stesso tempo sarebbe stato loro facile con-
dannare alla fucilazione. Adesso si presentava l'allettante possi-

284
bilità di camuffare quanto avveniva nei lager speciali in episodi
della « guerra delle cagne », guerra che a quel tempo sconvol-
geva gli ITL e che era stata ordita dalla direzione stessa del
GULag.1
1
La « guerra delle cagne » meriterebbe un capitolo a sé in questo libro, ma occorrerebbe
trovare molto altro materiale. Rinviarne il lettore allo studio di Varlam Salamov Saggi sul mondo
della delinquenza, sebbene sia anch'esso incompleto.
In breve, la « guerra delle cagne » divampò all'incirca dal 1949 (se non si contano i continui
casi singoli di accoltellamento fra ladri e « cagne »). Nel 1951 la guerra infieriva ancora. Il
mondo ladronesco si scisse in numerosi gruppi; oltre ai ladri e alle cagne propriamente detti
c'erano ancora gli « illimitati », i « machnovisti », gli « ostinati »; i « cappuccetti rossi »; i « cinti
di piccone » e non sono ancora tutti [« illimitati » e « ostinati » sono i delinquenti irriducibili, che
si ostinano ad attenersi al codice della malavita, rifiutandosi di lavorare, ecc.; « machnovisti »
sono gli anarchici seguaci di Machno. N.d.c.]
A quel tempo la direzione del GULag, delusa oramai dalle infallibili teorie sulla rieducazione
dei delinquenti, aveva deciso evidentemente di liberarsi di quel peso giocando sulle divisioni,
sostenendo ora questo ora quel gruppetto, e annientando l'uno per mezzo dei coltelli dell'altro. Gli
accoltellamenti avevano luogo apertamente e massicciamente.
Poi i delinquenti si adattarono: o non uccidevano con le proprie mani oppure, dopo aver
ucciso, costringevano un altro a prendere su di sé la colpa. In tal modo giovani delinquenti o ex
soldati e ex ufficiali si attribuirono la colpa di un assassinio commesso da altri, sotto la minaccia
di essere a loro volta assassinati, presero venticinque anni per banditismo (articolo 59-3) e sono
tuttora dentro. Mentre i capibanda dei ladri ne uscirono bianchi come gigli grazie all'amnistia «
Vorošilov » del 1953 (ma non disperiamo, da allora sono già tornati dentro diverse volte).
Quando, sulla nostra stampa, tornarono di nuovo di moda le storie sentimentali sulla
riforgiatura dei delinquenti, trapelarono anche certe informazioni, naturalmente le più
menzognere e vaghe, sugli accoltellamenti nei lager; venivano a bella posta confusi (e mascherati
agli occhi della storia) la « guerra delle cagne », la « rubilovka » dei lager speciali e gli
accoltellamenti di natura ignota. L'argomento dei lager interessa il nostro popolo, gli articoli che
lo riguardano vengono letti con avidità, ma è impossibile ricavarne qualcosa di comprensibile
(proprio per questo vengono scritti). Prendiamo ad esempio il giornalista Galič che ha pubblicato
nel luglio 1959 sulle « Izvestija » un equivoco romanzo « documentario » su un certo Kosych il
quale, dal fondo del suo lager, avrebbe commosso fino alle lacrime il Soviet supremo con la sua
lettera di 80 pagine dattiloscritte (1. Da dove viene la macchina per scrivere? è quella
dell'ufficiale della Sicurezza? 2. E poi, chi diavolo avrebbe dovuto leggere quella lettera di 80
pagine, quando una sola pagina basta, là al Soviet, per farli soffocare di sbadigli?) Kosych si stava
facendo venticinque anni, una seconda condanna inflitta nel lager. Che condanna? per quale
motivo? Su questo punto Galič - tratto distintivo del giornalista sovietico - perde di colpo ogni
chiarezza e intelligibilità del discorso. Non si riesce a capire se Kosych ha commesso un
assassinio « da cagna » o l'uccisione politica di un delatore. Ma è di per sé caratteristico che il
tutto venga messo nello stesso sacco e definito « banditismo ». Il giornale della capitale dà la
seguente spiegazione scientifica del fatto: « Gli accoliti di Berija [incolpa il lupo, salveremo capra
e cavoli!] spadroneggiavano allora [e prima? e ora?] nei lager. Al rigore della legge si erano
sostituite le azioni illegali di quelle stesse persone che erano preposte ad applicarla [come?
malgrado le istruzioni ricevute? chi si sarebbe azzardato?]. Esse fomentavano in tutti i modi
possibili l'ostilità [la sottolinea-

285
In tal modo essi si discolpavano. Ma si privavano anche del
diritto di fucilare gli assassini dei lager, e di conseguenza si
privavano di efficaci contromisure. Né potevano contrastare un
movimento crescente.
Le ordinanze non servirono a nulla. La massa dei prigionieri
non si mise a condannare e lottare per conto dei padroni. La
misura successiva fu quella di mettere l'intero lager a regime di
punizione. Significava che da ora in poi avremmo passato tutto il
tempo libero dal lavoro, incluse le domeniche, sotto chiave come
in carcere, che avremmo usato i buglioli e ricevuto anche il cibo
in baracca. La sbobba e la pappa di semola ci venivano portate in
grossi barili; la mensa restò deserta.
Regime duro, ma di breve durata. Cominciammo a lavorare
con estrema pigrizia, e il trust del carbone levò alte lagnanze.
Inoltre i guardiani ebbero il lavoro quadruplicato, perché dove-
vano correre ininterrottamente da un capo all'altro del lager con
le chiavi, ora per far entrare e uscire i piantoni con i buglioli, ora
per darci da mangiare, ora per scortare gruppi fino all'infermeria
e dall'infermeria alle baracche.
Lo scopo delle autorità era di destare la nostra indignazione
contro gli assassinii e far sì che denunziassimo gli uccisori. Ma
eravamo tutti pronti a soffrire, a sopportare, ne valeva la pena.
Altro scopo era quello di non lasciare aperte le baracche per non
permettere agli assassini di passare da una baracca all'altra; in tal
modo, si pensava, sarebbe stato più facile identificarli. Eppure
avvenne nuovamente un assassinio, nessuno fu trovato, come
prima tutti « non avevano visto » e « non sapevano ». Poi
ruppero la testa a qualcuno nella zona di lavoro: e contro questo
non ci si poteva garantire chiudendo a chiave le baracche.
Il regime di punizione fu abrogato. Al suo posto, pensarono

tura è mia; questo sì, è vero. A.S.] fra i vari gruppi di detenuti [anche l'impiego dei delatori rientra
in questa formulazione...] Una ostilità feroce, spietata, artificialmente fomentata ».
Far cessare gli assassinii nei lager comminando pene di venticinque anni, pene che gli
assassini stavano già scontando, era naturalmente impossibile. Allora nel 1961 fu promulgato un
Ukaz che disponeva la fucilazione per l'assassinio compiuto nel lager, compreso, si capisce,
l'assassinio di un delatore. Ai lager speciali di Stalin mancava questo Ukaz di Chruščev.

286
bene di costruire una « grande muraglia cinese ». Era un muro di
due mattoni di spessore, alto quattro metri, proprio nel mezzo
della zona abitata, destinato a dividerla in due parti; per ora era
stato lasciato un varco. (L'idea era comune a tutti i lager speciali.
Una tale suddivisione delle zone grandi in diverse piccole
avveniva in molti altri lager.) Poiché il trust non intendeva
pagare questo lavoro, che per la cittadina non aveva senso, tutto
il peso (confezione dei mattoni, essiccamento, trasporto e posa in
opera) ricadde su di noi, sempre su di noi, sulle nostre
domeniche e le nostre serate (serate estive, luminose), dopo il
ritorno dal lavoro. Quel muro ci contrariava molto, era facile
comprendere che l'amministrazione ci stava preparando qualche
sporco tiro, eppure eravamo costretti a costruirlo. Eravamo liberi
solo di poco, solamente la bocca e la testa, ma come prima affon-
davamo fino alle spalle nella palude della schiavitù.
Tutte quelle misure - ordinanze minacciose, regime di puni-
zione, muro - erano molto rozze, rientravano perfettamente nello
spirito del modo di pensare carcerario. Ma cosa succede? Del
tutto inaspettatamente convocano una brigata, un'altra, una terza
dal fotografo e ci fotografano, ma con modi gentili, senza il
numero appeso al collo, senza il profilo obbligatorio: sedetevi
come più vi fa comodo, guardate l'apparecchio come più vi
piace. Da una frase « incauta » del capo della KVČ veniamo a
sapere che ci fotografano per i documenti.
Quali documenti? Quali documenti possono avere dei dete-
nuti?... L'emozione serpeggia fra i creduloni; forse preparano i
lasciapassare per permetterci di circolare senza scorta? O forse...
A questo punto un guardiano che torna dalla licenza racconta
a un altro (ma in presenza di detenuti e ad alta voce) che durante
il viaggio ha veduto interi convogli di uomini rilasciati: striscioni
e slogan, rami verdi, se ne ritornano a casa.
Signore, che batticuore! Sarebbe anche ora, da tanto tempo!
Da questo bisognava cominciare, subito dopo terminata la
guerra! Possibile sia cominciato?
Raccontano che qualcuno ha ricevuto una lettera da casa: i
suoi vicini sono già stati liberati, sono già a casa!
Improvvisamente una delle brigate fotografate è chiamata

287
a presentarsi dinanzi a una commissione. Entrate a uno a uno.
Dietro un tavolo con un panno rosso, sotto il ritratto di Stalin,
stanno seduti i nostri capi, ma non soltanto loro: ci sono due
sconosciuti, un kazachi e un russo, non sono mai stati nel nostro
lager. Si comportano con serietà ma con una punta di allegria,
compilano dei questionari: cognome, nome, patronimico, anno di
nascita, luogo di nascita, e poi invece dei soliti « articolo, durata,
termine della pena », la composizione della famiglia: moglie,
genitori e, se ci sono figli, che età hanno, dove vivono, se
insieme o separatamente. E tutto questo viene annotato!... (Ora
l'uno ora l'altro dei membri della commissione ricorda a quello
che scrive: nota anche questo, e questo ancora.)
Domande strane, dolorose e insieme piacevoli. Il più indurito
si sente addolcire, gli viene addirittura voglia di piangere. Per
anni e anni non ha sentito altro che abbaiare un brusco: articolo?
durata? condannato da chi? E ora, di punto in bianco, ti stanno
seduti davanti degli ufficiali non cattivi, seri, umani e ti
interrogano senza fretta, con simpatia, sì, è la parola, con sim-
patia su cose che sono custodite così profondamente che tu stesso
hai paura di sfiorarle, cose di cui avrai detto sì e no due o tre
parole al vicino di pancaccio, o più facilmente ti sarai tenuto
dentro... E questi ufficiali (e tu dimentichi, o forse ora perdoni, il
fatto che proprio questo tenente, l'ultima volta - era la vigilia
delle feste dell'Ottobre - ti ha confiscato e fatto a pezzi la
fotografia della tua famiglia...), questi ufficiali, nell'udire che tua
moglie si è risposata con un altro e che tuo padre sta molto male
e non spera più di rivedere il suo figliolo, schioccano
mestamente le labbra, si scambiano occhiate, tentennano la testa.
Dunque non sono malvagi, sono uomini anche loro, è che il
loro servizio è un servizio da cani... E dopo aver annotato tutto,
pongono la medesima domanda a ciascuno:
« Beh, dove vorresti vivere? Là dove stanno i tuoi genitori o là
dove vivevi prima? »
« Come? » sbarra gli occhi lo zek. « Io... sono nella baracca n.
7. »
« Questo lo sappiamo! » ridono gli ufficiali. « Ti chiediamo:

288
dove vorresti vivere. Mettiamo, ti dovessimo rilasciare, per quale
località dovremmo fare i documenti? »
Il mondo intero si mette a girare davanti agli occhi del pri-
gioniero, schegge di sole, piccoli raggi iridescenti... Con la testa
capisce che è un sogno, una fiaba, non può essere, la condanna è
a venticinque o dieci anni, nulla è cambiato, è tutto impia-
stricciato di argilla e domani tornerà nel cantiere, ma diversi
ufficiali, tra i quali due maggiori, gli sono seduti davanti e insi-
stono senza fretta, compassionevoli:
« Su, dove? Di' pure. »
Con il cuore in tumulto, fra ondate di calore e gratitudine,
come un ragazzino che avvampa facendo il nome della sua ra-
gazza, lo zek tradisce il segreto che serba nel petto, e confessa
dove vorrebbe vivere tranquillamente il resto dei suoi giorni se
non fosse un reprobo galeotto con quattro numeri addosso.
E quelli annotano! E gli chiedono di far entrare il prossimo. Il
primo schizza, mezzo demente, in corridoio e racconta ai ragazzi
quello che è successo.
Ad uno ad uno i membri della brigata entrano e rispondono
alle domande di quegli amichevoli ufficiali. E se ne troverà forse
uno su cinquanta, che sogghigni:
« Qui in Siberia è tutto formidabile, salvo che il clima è
maledettamente caldo. Non potrei andare oltre il circolo polare?
»
Oppure: « Scrivete così: sono nato nel lager, nel lager morirò,
non conosco posto migliore. »
Parlarono così con due o tre brigate (nel lager ce ne sono
duecento). Il lager restò in agitazione per alcuni giorni, c'era di
che discutere, anche se forse ci aveva creduto sì e no la metà di
noi, - erano passati i tempi della credulità, passati defi-
nitivamente! Poi la commissione cessò le sedute. Le fotografie
non gli erano costate care: l'apparecchio faceva sentire il suo clic
ma non era stato caricato. E la pazienza non bastò per starsene là
seduti in tanti a interrogare così cordialmente dei farabutti. E,
giacché non bastò, non se ne fece nulla di tutta quella spudorata
impresa.
(Eppure bisogna ammetterlo: un successo! Nel 1949 vengono
creati, per l'eternità, si capisce, dei lager con un regime
289
disciplinare feroce. E già nel 1951 i padroni sono costretti a
recitare quella commedia della cordialità. Quali altri indizi del
nostro successo occorrevano? Come mai negli ITL non erano mai
stati costretti a tali commedie?)
I coltelli tornarono a scintillare.
E i padroni presero una decisione: portar via. Senza i delatori
non sapevano precisamente chi, ma qualche sospetto, qualche
congettura c'era (e forse qualcuno, in segreto; aveva trovato
modo di riorganizzare le delazioni).
Ecco che due guardiani entrarono un giorno in una baracca
dopo il lavoro, alla buona, dicendo: « Piglia la roba, si va. »
Ma il detenuto li guardò: « Non ci vado ».
E infatti! in quel solito, semplice arresto al quale non ci era-
vamo mai opposti, che ci eravamo abituati ad accettare come il
corso del destino, esisteva anche questa possibilità: non ci vado!
Le nostre teste liberate adesso lo capivano.
« Come sarebbe a dire, non ci vai? »
« Non ci vado e basta! » ripetè quello con fermezza. « Sto
bene anche qui. »
« Dov'è che deve andare? Perché ci deve andare? Non lo
lasceremo prendere! Via! Fuori di qua! » fu urlato da ogni parte.
I guardiani esitarono un po' e poi se ne andarono.
Provarono in un'altra baracca, e fu la stessa cosa.
I lupi capirono che non eravamo più le pecore d'una volta.
Oramai ci dovevano prendere con l'inganno, o al posto di guar-
dia, oppure mandando un intero reparto contro uno solo. Non era
più possibile prendere un detenuto in mezzo alla folla.
Liberati dal malefizio, liberati da chi origliava e spiava, ci
guardammo intorno e vedemmo di essere migliaia. Ci accor-
gemmo di essere dei politici! di poter già resistere!
Dunque era stato scelto giustamente l'anello per il quale tirare
la catena e farla saltare: i delatori! le spie e i traditori! Erano dei
nostri quelli che non ci lasciavano vivere. Il loro sangue scorse
come sugli altari dell'antichità per affrancarci dalla maledizione
che pesava sopra di noi.
La rivoluzione si addensava. Il suo venticello, che pareva ces-
sato, si gonfia oggi nei nostri polmoni come un uragano!

290
XI A tastoni spezziamo le nostre catene

Adesso che fra noi e i nostri carcerieri il piccolo fosso era


sprofondato, eravamo fermi sulle due scarpate, pronti a
misurarci: e ora?
« Fermi » è, si capisce, un'immagine. Camminavamo, recan-
doci ogni giorno al lavoro con i brigadieri rinnovati (o eletti
tacitamente, persuasi a servire la causa comune, o fors'anche con
quelli di prima ma divenuti irriconoscibili, amichevoli, pre-
murosi), non tardavamo al raduno, non creavamo difficoltà gli
uni agli altri, non c'erano renitenti e la produzione era discreta,
pareva che i padroni del lager potessero essere pienamente
soddisfatti di noi. Anche noi avremmo potuto essere contenti di
loro: avevano disimparato a urlare, a minacciare, non ci trasci-
navano più nelle celle di rigore per ogni inezia, e non vedevano
che avevamo cessato di toglierci il berretto in loro presenza.
Durante l'adunata del mattino il maggiore Maksimenko dormiva,
ma la sera amava incontrare le colonne davanti al posto di guar-
dia e mentre scalpicciavamo là si metteva a scherzare. Ci guar-
dava con la sazia indifferenza con cui il padrone di qualche
masseria dell'antica Tauride poteva osservare i suoi innumerevoli
greggi che tornavano dalla steppa. Di tanto in tanto, la domenica,
cominciarono addirittura a mostrarci qualche film. Continuavano
peraltro a tartassarci come prima con la costruzione della «
grande muraglia cinese ».
Tuttavia tanto noi che loro pensavamo intensamente: e ora?
Le cose non potevano rimanere così: era insufficiente per loro e
insufficiente per noi. Qualcuno doveva colpire.

291
Che cosa potevamo sperare di ottenere? Oramai parlavamo ad
alta voce, senza gettare prima un'occhiata intorno, dicevamo
tutto quello che volevamo, tutto quanto si era accumulato (era
dolce sperimentare questa libertà di parola fra i reticolati, anche
se tardi nella vita). Ma potevamo sperare di estendere questa
libertà oltre il filo spinato e uscir fuori con essa? No, certamente.
Quali altre ragioni da politici potevamo far valere? Non
riuscivamo nemmeno a inventarle. Senza dire che sarebbe stato
vano, non riuscivamo neanche a inventarle! Nel nostro lager non
potevamo esigere né che cambiasse in generale il paese, né che
esso rinunziasse ai lager: ci avrebbero bombardati dagli aerei.
Sarebbe stato naturale esigere, che i nostri casi fossero rive-
duti, che fossero diminuite le pene ingiuste, inflitte per nulla. Ma
anche questa pareva un'impresa disperata. Nella fetida atmosfera
di terrore che si addensava sopra il paese, la maggioranza delle
nostre cause e dei verdetti parevano giustissimi ai giudici, e
pareva ne avessero convinto anche noi! E poi, una revisione ha
qualcosa d'imponderabile, intangibile per la folla, sarebbe stato
facilissimo ingannarci nel suo corso: promettere, tirare le cose in
lungo, inviare giudici per un supplemento d'istruttoria, poteva
durare degli anni. Se anche qualcuno fosse stato dichiarato libero
e portato via, come potevamo avere la certezza che non era stato
portato via per essere fucilato o trasferito in un altro carcere per
una nuova pena?
La commedia della commissione non aveva forse dimostrato
come si poteva rappresentarla? Anche senza una revisione quelli
avevano l'intenzione di dimetterci...
Su una cosa sola eravamo tutti d'accordo e qui non ci pote-
vano essere dubbi: che non fossimo rinchiusi nelle baracche per
la notte e che fossero aboliti i buglioli; che il nostro lavoro non
fosse del tutto gratuito; che ci fosse permesso scrivere dodici
lettere all'anno. (Ma avevamo già tutto questo negli ITL, e la vita,
là, era forse possibile?)
Quanto a cercare di ottenere una giornata lavorativa di otto
ore, su questo punto non c'era unanimità neppure fra di noi...

292
Ci eravamo tanto disabituati alla libertà che era come se non
vi aspirassimo neppure...
Si meditava anche sulla via da prendere: come agire? che cosa
fare? Era chiaro che non avremmo potuto fare nulla a mani nude
contro un esercito moderno, e quindi la nostra via non era
l'insurrezione armata ma lo sciopero. Durante questo sarebbe
stato possibile, per esempio, strapparsi di dosso i numeri.
Ma ci scorreva tuttora nelle vene un sangue da schiavi, da
schiave. Togliersi da soli quei numeri da cani di dosso pareva un
passo audace, insolente, irrevocabile come, mettiamo, uscire in
piazza con i mitra. La parola « sciopero » suonava alle nostre
orecchie così paurosa che cercavamo un punto d'appoggio nello
sciopero della fame: cominciare l'uno e l'altro contemporanea-
mente sembrava accrescere i nostri diritti morali. Ci sembrava di
avere il diritto di fare lo sciopero della fame, ma uno sciopero del
lavoro? Una generazione dopo l'altra era cresciuta con il concetto
che la parola drammaticamente pericolosa e, beninteso,
controrivoluzionaria « sciopero » fosse da mettere sullo stesso
piano di « Entente, Denikin, sabotaggio dei kulaki, Hitler ».
Così, accettando volontariamente uno sciopero della fame del
tutto superfluo, accettavamo in anticipo e volontariamente di
esaurire le nostre forze fisiche nella lotta. (Per fortuna dopo di
noi credo che nessun lager ripetè l'errore di Ekibastuz.)
Inventavamo anche i particolari di un tale sciopero generale
abbinato allo sciopero della fame. Il regime di punizione appli-
cato recentemente a tutto il lager ci aveva insegnato che la rea-
zione sarebbe certamente stata quella di chiuderci nelle baracche.
Come avremmo comunicato fra di noi? come avremmo
scambiato decisioni sull'ulteriore andamento dello sciopero?
Qualcuno doveva inventare e concordare fra le baracche i
segnali, da quale finestra verrebbero dati e da quale sarebbero
visibili.
Di tutto ciò si parlava ora qui ora là in piccoli gruppi, tutto
pareva inevitabile e auspicabile, e al tempo stesso, per mancanza
di abitudine, impossibile. Non era possibile immaginare il giorno
in cui ci saremmo riuniti per metterci d'accordo, ci saremmo
decisi e...

293
Ma i nostri guardiani, apertamente organizzati in gerarchia
militare, più abituati ad agire, avevano meno da perdere nel-
l'azione che nell'inazione, e colpirono prima di noi.
Poi le cose proseguirono da sole...
Festeggiammo l'anno nuovo 1952, calmi e raccolti, sui nostri
pancacci a castello, nelle solite brigate, baracche e « sezioni »,
nei soliti cantucci. Ma la domenica del 6 gennaio, alla vigilia del
Natale ortodosso, quando gli ucraini occidentali si apprestavano
a festeggiarlo degnamente: cucinare la kut'ja,* digiunare fino
all'apparire della prima stella e poi cantare i canti natalizi, la
mattina dopo la verifica ci chiusero a chiave e non aprirono più.
Non se l'aspettava nessuno. Era stato preparato in segreto, con
perfidia. Vedemmo dalla finestra come dalla baracca attigua un
centinaio di detenuti con tutta la roba veniva spinto verso il posto
di guardia.
Eccoli da noi. Guardiani. Ufficiali con le schede. Ci chiamano
ad uno ad uno. Esci, con tutta la roba... e la materassa, così
com'è, imbottita.
Ecco di cosa si tratta! È uno smistamento. Sentinelle presso il
varco nella muraglia cinese. Domani sarà chiuso. Ci portano
oltre il posto di guardia e ci fanno camminare a centinaia, con la
roba e le materasse, come degli scampati a un incendio, tut-
t'intorno al lager e, attraverso l'altro posto di guardia, nell'altra
zona. Da quella mandano i detenuti incontro a noi.
Tutti cercano di raccapezzarsi: chi hanno preso, chi hanno
lasciato? come va inteso il senso dello smistamento? L'intenzio-
ne dei padroni si rivela presto: in una metà (sezione n. 2 del
lager) sono rimasti soltanto gli autentici ucraini, duemila uomini.
Nella metà in cui ci hanno cacciati e che costituirà la sezione n.
1, vi sono tremila uomini di tutte le altre nazionalità, russi,
estoni, lituani, tatari, caucasici, georgiani, armeni, ebrei, polac-
chi, moldavi, tedeschi e ogni sorta di gente raccolta sui campi
dell'Europa e dell'Asia. Insomma, « unica e indivisibile ». (Cu-
rioso: il pensiero della MVD, che pur dovrebbe essere illuminato
* Piatto rituale di riso bollito, miele e uvetta o prugne secche.

294
dalla dottrina socialista extranazionale, segue il medesimo vec-
chio sentiero: dividere le etnie.)
Le vecchie brigate sono sciolte, si fa l'appello di quelle nuove,
saranno mandate a lavorare in nuovi cantieri, vivranno in nuove
baracche: è tutto un saltabeccare. Lo smistamento durerà, non la
sola domenica ma tutta la settimana. Molti legami sono stati
strappati, la gente è stata rimescolata e lo sciopero che pareva
maturare è oramai fallito... Sono stati furbi.
Nel settore degli ucraini sono rimasti tutta l'infermeria, il club
e la mensa. Noi abbiamo la BUR invece. Gli ucraini, i seguaci di
Bandera, i ribelli più pericolosi, sono stati separati e allontanati il
più possibile dalla BUR. Come mai?
Lo sapremo fra poco. Si sparge per il lager la voce fondatis-
sima (proviene dai lavoratori che portano la sbobba nella BUR)
che i delatori si sono fatti sfacciati nel loro « deposito bagagli »: i
sospetti sono stati rinchiusi con loro (ne hanno presi due o tre
qua e là) e i delatori li torturano nelle loro celle, li strangolano, li
picchiano, li costringono a parlare, a fare dei nomi. Chi sgozza?
È allora che il piano diventa chiaro: torturano. Non è la muta
stessa dei cani che lo fa (probabilmente non è stato sanzionato,
c'è da avere delle grane) ma hanno affidato il compito ai delatori:
cercate voi stessi i vostri assassini! Non se lo faranno ripetere
due volte. E sapranno giustificare il pane che mangiano, quei
fannulloni. Gli uomini di Bandera sono stati allontanati dalla BUR
appunto perché non l'assalgano. Noi diamo più affidamento;
siamo gente docile e della più svariata provenienza, non ci
metteremo d'accordo. I ribelli sono di là. E il muro è alto quattro
metri.
Per quanti saggi libri siano stati scritti da saggi storici, non
uno di questi ha imparato a prevedere né spiegare
successivamente la misteriosa accensione delle anime umane, il
misterioso nascere delle esplosioni sociali.
A volte si ficca della stoppa accesa sotto un pezzo di legno, si
continua, si insiste, e quello non prende fuoco. Ma basta che una
favilla sola uscita da un comignolo voli in alto perché s'incendi
un intero villaggio, perché sia ridotto in cenere.
Noi, i tremila, non ci eravamo preparati a nulla, non eravamo

295
affatto pronti, ma la sera tornammo dal lavoro e improvvisa improvvisa-
mente, nella baracca accanto alla BUR, cominciammo a smontare
i pancacci, ad afferrare i travicelli e le traverse e a correre nella
semioscurità (da un lato della BUR c'è un posto riparato) ad
abbattere con quei travicelli e quelle traverse la robusta palizpalizzata
intorno alla prigione del lager. Probabilmente senza un picconepic o
un'accetta, perché non ve ne possono essere all'interno di una
zona (ma forse erano riusciti a farsene dare un paio dal-
l'economato).
Era come se lavorasse una buona brigata di carpentieri, le
prime assi cedettero e si cominciò ò a divellere, in tutta la zona si
udì lo stridio dei chiodi da dodici centimetri. Non pa pareva un'ora
adatta per i carpentieri ma i suoni erano quelli del lavoro e sulle
prime le sentinelle sulle torrette, i guardiani e i lavora
lavoratori delle
altre baracche non ci fecero caso. La vita serale continuava,
alcune brigate si recavano a cena, altre ne tornavano, qualcuno
era diretto in infermeria,
eria, qualcuno al deposito, altri a ritirare un
pacco da casa.
Tuttavia i guardiani finirono per inquietarsi, andarono alla
BUR, da quella parte, all'ombra, dove ribolliva il lavoro e, scottati,
scot
tornarono di corsa alla baracca del comando. Qualcuno armato ar di
bastone rincorse anche un guardiano. Altri si misero a rompere
con sassi e bastoni i vetri della baracca del comando. I vetri si
spezzavano con un fragore allegro e minaccioso.
L'intenzione dei ragazzi non era di sollevare una sommossa e
neppure di occupare la BUR (impresa piuttosto difficile [foto [ 5] :
ecco la porta della BUR di Ekibastuz, divelta e fotografata molti
anni dopo), era un'altra: versare della benzina nella cella dei
delatori e darle fuoco, perché non strafacessero. Una dozzina di
uomini riuscì infatti a irrompere attraverso la breccia aperta nella
palizzata della BUR. Cominciarono a correre qua e là: avevano
indovinato la cella giusta? per abbattere la « museruola
muse » della
finestra, salire sulle spalle
alle l'uno dell'altro e porgere il secchio, ma
dalle torrette partirono raffiche di mitraglia e non riuscirono ad
appiccare il fuoco.
I guardiani fuggiti dal lager e il capo del regime Mačechovskij
(fu inseguito anche lui con un coltello, mentre correva attraverso

296
5. La porta della BUR di Ekibastuz

297
il deposito dell'economato urlando: « Ehi, della torretta, non
sparate! »: si buttò verso il reticolato esterno)1 chiamarono la
compagnia. Questa (come potremmo oggi conoscere i nomi dei
comandanti?!) dette ordine per telefono alle torrette d'angolo di
aprire il fuoco sui tremila uomini disarmati che non sapevano
nulla di quanto era successo. (La nostra brigata era, per esempio,
alla mensa e udimmo da lì, trasecolati, la sparatoria.)
Per ironia della sorte questo avvenne il 22 gennaio secondo il
calendario nuovo, il 9 secondo quello vecchio,* nel giorno cioè
che ancor prima di quell'anno era celebrato come giornata
solenne e luttuosa della Domenica di Sangue.** Da noi fu un
martedì di sangue, assai più spazioso per i boia che non a
Pietroburgo: non una piazza ma la steppa, niente testimoni,
giornalisti o stranieri.2
Nel buio cominciarono a sparare alla cieca sulla zona. Vero è
che la sparatoria non durò a lungo, forse la maggior parte delle
pallottole volò in alto, ma non poche capitarono in basso e non
ce ne vogliono molte per uccidere un uomo. Le pallottole
trapassavano le pareti sottili delle baracche e ferivano, come
sempre succede, non coloro che avevano assalito la prigione, ma
chi non c'entrava affatto; adesso dovevano nascondere le ferite,
non recarsi in infermeria, e far rimarginare le ferite, come i cani;
dalle ferite sarebbero stati riconosciuti come partecipanti alla
sommossa, bisognava pur riuscire a strappare qualcuno dalla
massa priva di volto! Nella nona baracca fu ucciso sul suo
pancaccio un pacifico vecchio che stava finendo di scontare dieci
anni e doveva essere dimesso il mese dopo; i suoi figli adulti
servivano nello stesso esercito che sparava contro di noi dalle
torrette.
Gli assalitori abbandonarono il cortiletto della prigione e si
sparpagliarono per le baracche (bisognava ricomporre i pan-
1
Finì accoltellato comunque, non da noi ma dai ladri che ci sostituirono a Ekibastuz nel
1954. Era duro ma coraggioso, non possiamo negarglielo.
* In Russia il calendario gregoriano (avanti di 13 giorni rispetto al calendario giuliano) fu
adottato solo il 14 febbraio 1918.
** Si veda nota a p. 153.
2
Del resto da quell'anno i calendari cessarono quasi di menzionare la Domenica di
Sangue, tutto sommato era un caso comune non degno di essere ricordato.

298
cacci per non farsi scoprire). Molti altri capirono che bisognava
rimanere nelle baracche. Altri, al contrario, corsero fuori, ecci-
tati, e vagavano per la zona cercando di capire che cosa stava
succedendo e perché.
In quel momento non era rimasto un solo guardiano. Le fine-
stre con i vetri spezzati della baracca del comando, abbandonata
dagli ufficiali, si aprivano su un vuoto che faceva paura. Le tor-
rette tacevano. Alcuni curiosi che volevano conoscere la verità
continuavano a girare fra i reticolati.
Allora si aprirono i cancelli del nostro settore e i mitraglieri
della scorta entrarono in formazione, tenendo i mitra davanti a sé
e sparando raffiche a caso. Si sparsero a ventaglio, seguiti dai
guardiani inferociti, armati con tubi di ferro, con bastoni, con
quello che era loro capitato sottomano.
Avanzavano a ondate su tutte le baracche, setacciando la
zona. Poi i mitraglieri si fermavano e smettevano mentre i guar-
diani correvano avanti, catturando gli uomini immobili che
cercavano di nascondersi, feriti o sani che fossero, e li picchia-
vano senza pietà.
Tutto questo si chiarì dopo, da principio udimmo solamente
una fitta sparatoria, ma nella semioscurità non vedevamo e non
capivamo nulla.
Presso l'entrata della nostra baracca si formò una calca mici-
diale: i detenuti cercavano di spingersi dentro al più presto, per
cui nessuno riusciva a entrare (non che le sottili assi delle pareti
potessero salvare dagli spari, ma all'interno l'uomo cessava di
essere un insorto). Anch'io ero accanto al portichetto. Ricordo
bene il mio stato: una nauseante indifferenza verso la sorte,
un'immediata indifferenza per la salvezza o la morte. Siate ma-
ledetti tutti quanti, lasciateci in pace. Perché siamo colpevoli nei
vostri confronti unicamente per esser nati su questa terra
disgraziata? perché dobbiamo eternamente stare nelle vostre
prigioni? La nausea di quella galera riempiva il petto di calma e
di disgusto. Perfino la mia continua paura per il poema e il
dramma, mai trascritti, e che portavo dentro di me, era assente.
In faccia a quella morte che già si dirigeva verso di noi tra i
reticolati, vestita con cappotti militari, io non cercavo affatto di

299
entrare nella porta della baracca. Era questo lo stato d'animo da
galeotto al quale ci avevano ridotti.
La porta si liberò, noi passammo per ultimi. Immediatamente
risuonarono gli spari, intensificati dall'ambiente chiuso. Ci spa-
rarono alle spalle tre pallottole che s'infìssero nello stipite della
porta l'una accanto all'altra. La quarta volò alta e lasciò nel vetro
della porta un pìccolo foro rotondo circondato da un nimbo di
minutissimi spacchi.
I nostri inseguitori non irruppero dietro di noi nella baracca.
Ci chiusero a chiave. Acchiappavano e coprivano di botte quelli
che non avevano fatto a tempo a correre dentro. I feriti e pestati
erano un paio di decine, gli uni rimasero zitti e nascosero le
ferite, gli altri furono per il momento mandati in infermeria e la
loro sorte ulteriore fu il carcere e l'istruttoria per aver preso parte
alla sommossa.
Ma tutto questo si seppe dopo. Di notte le baracche erano
chiuse, l'indomani, 23 gennaio, non permisero alle varie baracche
di radunarsi nella mensa e di rendersi conto dell'accaduto.
Alcune baracche furono ingannate, nessuno vi era stato leso, e,
non sapendo nulla degli uccisi, si recarono al lavoro. Era tra
queste la nostra baracca.
Noi uscimmo, ma dopo di noi a nessuno fu permesso di var-
care il cancello del lager: niente adunata, niente schieramento. Li
avevano ingannati.
Era brutto lavorare quel giorno nelle nostre officine meccani-
che. I ragazzi andavano da un banco all'altro, si mettevano a
sedere e discutevano su quanto era avvenuto la sera prima; fino a
quando avremmo sgobbato e tollerato ogni cosa? Ma è possibile
non tollerare? obiettavano vecchi detenuti, che avevano piegato
la schiena per sempre. Vi è mai stato un solo uomo che non sia
stato piegato? (Era questa la filosofia della leva del '37.)
Quando nel buio tornammo dal lavoro la zona della nostra
sezione era nuovamente deserta. Ma messaggeri accorrevano
sotto le finestre delle altre baracche. Risultò che la n. 9, in cui
v'erano stati due morti e tre feriti, e quelle attigue a questa non
erano andate a lavorare quel giorno. I padroni avevano parlato
loro di noi e speravano che anch'essi si sarebbero recati

300
al lavoro l'indomani. Ma era diventato chiaro che non lo avrem-
mo fatto neppure noi.
Qualche biglietto fu gettato a tale scopo, sopra alla muraglia,
agli ucraini, affinchè ci appoggiassero.
Lo sciopero abbinato allo sciopero della fame, non preparato,
neppure ideato fino in fondo, stava per cominciare d'impulso,
senza un centro, senza segnalazioni.
Più tardi, in altri lager, dove i detenuti s'impadronivano dei
depositi e non andavano a lavorare, i risultati furono certo più
ragionevoli. Da noi, anche se non ragionevoli, furono imponenti:
tremila uomini rifiutarono di colpo il pane e il lavoro.
L'indomani non una sola brigata mandò un incaricato a pren-
dere il pane. Non una brigata si recò alla mensa a prendere la
sbobba e la polenta già pronte. I guardiani non ci capivano nulla:
per una seconda, una terza, una quarta volta entrarono nella
baracca, con fare disinvolto, a chiamarci, poi usarono la maniera
forte per buttarci fuori con minacce, poi tornarono ad essere miti
e a invitarci: per ora andate soltanto a prendere il pane alla
mensa; non si parlava nemmeno dell'adunata.
Ma nessuno si mosse. Tutti stavano sdraiati, vestiti e calzati, e
tacevano. Soltanto a noi brigadieri (in quell'anno caldo ero
diventato brigadiere) toccava rispondere qualcosa, perché i guar-
diani si rivolgevano a noi. Anche noi rimanemmo sdraiati bor-
bottando:
« Non se ne fa nulla, capo... »
Quella tranquilla e unitaria disobbedienza alle autorità, le
autorità che mai avevano perdonato nulla a nessuno, quell'osti-
nata insubordinazione prolungata nel tempo pareva più paurosa
che correre e urlare sotto le pallottole.
Finalmente i tentativi di convincerci cessarono e le baracche
furono chiuse.
Nei giorni seguenti i soli piantoni ne uscirono: portavano fuori
i buglioli, distribuivano l'acqua da bere e il carbone. La comunità
esentò dallo sciopero della fame solamente chi era in infermeria.
Permise soltanto ai medici e agli infermieri di lavorare. La
cucina cosse il cibo una volta e lo buttò via, un'altra e lo buttò via
ancora poi cessò di cucinare. Il primo giorno,

301
credo, i pridurki si presentarono alle autorità, spiegarono che non
potevano assolutamente lavorare e se ne andarono.
I padroni non avevano più modo di vederci, di gettare una
occhiata dentro ai nostri animi. Fra carcerieri e schiavi si era
spalancato un fossato.
Nessuno di coloro che vi presero parte potrà mai dimenticare
quei tre giorni. Non vedevamo i compagni delle altre baracche e
non vedevamo i cadaveri insepolti che vi giacevano. Ma attra-
verso tutta la deserta estensione del lager eravamo legati con un
patto d'acciaio.
Lo sciopero della fame era stato proclamato non da uomini
sazi con riserve di grasso sottocutaneo, ma da uomini scarni,
esausti, da molti anni tormentati quotidianamente dalla fame, i
quali avevano raggiunto con difficoltà un equilibrio nel proprio
corpo e ne avvertivano già la rottura per la mancanza anche di
soli cento grammi di cibo. I moribondi, i dochodjaga, rifiutavano
il cibo insieme agli altri, sebbene tre giorni di digiuno potessero
portarli irreversibilmente alla morte. Il vitto che avevamo
rifiutato, che avevamo sempre considerato da pezzenti, adesso
appariva alla nostra immaginazione eccitata dalla fame come un
lago di sazietà.
Proclamavano lo sciopero della fame uomini cresciuti per
diecine d'anni all'ombra di una legge da lupi: « oggi tocca a te
morire, il mio turno e domani ». Ed eccoli trasfigurati, emersi
dalla loro fetida palude, pronti piuttosto a morire oggi che vivere
così anche domani.
Nelle stanze delle baracche si stabilirono rapporti improntati
alla solennità e all'affetto. Ogni rimasuglio di cibo in possesso di
qualcuno veniva portato in un posto comune e messo su un
cencio disteso, poi una parte era divisa fra gli astanti secondo una
comune decisione, l'altra era riservata per l'indomani. (Nel
deposito delle provviste personali i detenuti che ricevevano
pacchi potevano tenere parecchia roba, ma prima di tutto non era
possibile accedervi attraverso la zona, e poi non tutti sarebbero
stati disposti a portare nella baracca quanto gli rimaneva:
ciascuno contava di rimettersi in forze dopo il digiuno. Ecco
perché lo sciopero risultò un sacrificio ineguale, come ogni even-

302
to carcerario, e mostravano genuino valore coloro che non
possedevano nessuna provvista e non avevano nessuna speranza
di rifarsi in seguito.) Se c'era del semolino, veniva cotto nella
stufa e distribuito a cucchiaiate. Perché il fuoco fosse più vivo si
spezzavano le assi dei pancacci. Non era il caso di risparmiare i
giacigli governativi quando la nostra vita poteva non durare fino
all'indomani!
Nessuno poteva predire che cosa avrebbero fatto i padroni.
C'era da aspettarsi che avrebbero ricominciato a sparare dalle
torrette contro le baracche. Meno di tutto ci aspettavamo delle
concessioni. Mai in vita nostra avevamo ottenuto qualcosa da
loro, e c'era un'aria di amara disperazione intorno al nostro
sciopero della fame.
Ma anche in quella disperazione c'era qualcosa di confortante.
Avevamo compiuto un passo inutile, senza scampo, sarebbe si-
curamente finita male. La pancia sentiva i morsi della fame, si
stringeva il cuore, ma un altro bisogno veniva soddisfatto. In
quei lunghi giorni, sere, notti di fame tremila uomini meditavano
su se stessi e le proprie tremila condanne, sulle tremila famiglie o
sull'assenza d'una famiglia, su quello che era stato, su quello che
sarebbe stato di ciascuno, e sebbene in tanti petti i sentimenti
dovessero essere diversi, qualcuno si rammaricava, qualcun altro
era disperato, tuttavia la maggioranza era propensa a dire: così
dev'essere! per far loro rabbia! meglio se andrà a finire male!
È anche questa una legge che non è stata studiata, la legge
della comune ascesa d'un sentimento di massa a dispetto della
ragione. Io sentivo quest'ascesa chiaramente. Mi rimaneva sol-
tanto un anno da scontare. Avrei dovuto essere tormentato, pen-
tito di essermi cacciato in questo guaio dal quale sarebbe stato
difficile uscire senza una nuova condanna. Invece, non mi ram-
maricavo minimamente. Andate al diavolo, condannatemi pure
ancora una volta alla medesima pena!...
Il giorno dopo vedemmo dalla finestra un gruppo di ufficiali
che passava da una baracca all'altra. Un reparto di guardiani
apriva la porta, attraversava i corridoi, faceva capolino nelle
stanze e chiamava (con un tono nuovo, cortesemente, non come

303
prima quando sembravano indirizzarsi a del bestiame): « Bri-
gadieri! All'uscita! »
Tra noi cominciò una discussione. Erano le brigate, non i
brigadieri a prendere le decisioni. Passavamo da una stanza
all'altra, ci consigliavamo. La nostra posizione era incerta: i
delatori erano stati sradicati ma sospettavamo tuttora qualcuno,
anzi ve n'erano sicuramente, come Michail Generalov, inafferra-
bile, coraggioso brigadiere dell'officina riparazióni auto. La mera
conoscenza della vita suggeriva che molti di coloro che oggi
facevano lo sciopero della fame in nome della libertà domani
avrebbero parlato in nome della defunta schiavitù. Quindi coloro
che dirigevano lo sciopero (ve n'erano, beninteso) non si palesa-
vano, non uscivano dalla clandestinità. Non assumevano aperta-
mente il potere, mentre i brigadieri avevano apertamente rinun-
ziato al loro. Pareva dunque che scioperassimo trasportati dalla
corrente, senza che nessuno ci dirigesse.
Finalmente una decisione fu presa, chissà dove,
invisibilmente. Noi brigadieri, sei o sette uomini, uscimmo
nell'andito dove le autorità ci attendevano pazientemente (era
l'andito di quella stessa režimka n. 2 da cui era partito lo scavo
del « metrò », e questo cominciava a pochi metri dal punto
dell'incontro d'oggi). Ci appoggiammo alla parete, abbassammo
gli occhi e rimanemmo immobili, come impietriti. Abbassammo
gli occhi perché oramai nessuno voleva guardare i padroni con
uno sguardo servile, quello ribelle sarebbe stato poco saggio.
Eravamo là fermi in pose scomposte come teppisti matricolati
chiamati al cospetto del consiglio pedagogico, mani in tasca,
testa piegata da una parte, ineducabili, impenetrabili, un caso
disperato.
Peraltro da ambedue i corridoi una folla di detenuti era
affluita verso l'andito e, nascondendosi dietro le prime file, quelli
dietro urlavano tutto quello che volevano: le nostre esigenze e le
nostre risposte. Formalmente gli ufficiali con le mostrine celesti
(tra facce note ce n'era anche qualcuna nuova che non avevamo
mai vista) vedevano solamente i brigadieri e parlavano con essi.
Si comportavano con ritegno. Non cercavano più d'intimidirci,
ma neppure si abbassavano al nostro livello. Dicevano che era
nel nostro interesse cessare lo sciopero
304
e il digiuno. In caso di cessazione, avremmo avuto non soltanto
la razione d'oggi ma, cosa inaudita per il GULag, anche quella di
ieri. (Come si erano abituati al fatto che gli affamati si possono
comprare!). Non si parlò né di punizione né delle nostre
richieste, come se non esistessero.
I guardiani stavano ai lati, la mano destra in tasca.
Dai corridoi urlavano:
« Processare i colpevoli delle fucilazioni! » « Togliere i luc-
chetti dalle baracche! » « Abolire i numeri! »
Nelle altre baracche esigevano anche la revisione delle con-
danne dell'OSO da parte di tribunali aperti.
Noi intanto stavamo come dei ragazzacci davanti al direttore:
quand'è che la smetterà con questa tiritera.
I padroni se ne andarono, la baracca fu di nuovo chiusa a
chiave.
Sebbene la fame avesse già stancato molti e le teste appesan-
tite avessero perso chiarezza, non una voce si levò nella baracca
per dire che bisognava cedere. Nessuno si rammaricò ad alta
voce.
Cercavamo di indovinare quanto in alto sarebbe giunta la
notizia della nostra sommossa. Certamente al ministero degli
interni lo sapevano già o ne avrebbero saputo oggi, ma Baffo?
Infatti quel macellaio non avrebbe esitato a farci fucilare tutti,
tutti e cinquemila quanti eravamo.
Verso sera udimmo il rombo d'un aereo nelle vicinanze, seb-
bene il tempo fosse nuvoloso, poco adatto al volo. Intuimmo che
era arrivato qualcuno più in alto.
Uno zek navigato, un figlio del GULag, Nikolaj Chlebunov,
amico delle nostre brigate e ora, dopo diciannove anni scontati,
sistemato in cucina, fece il giro della zona e riuscì quel giorno -
non ebbe paura di farlo - a buttarci da una finestra un sacchetto
con qualche chilo di miglio. Lo dividemmo fra le sette brigate e
lo cuocemmo di notte perché la ronda non ci sorprendesse.
Chlebunov ci portò una brutta notizia: di là dalla muraglia
cinese la sezione n. 2, quella degli ucraini, non ci appoggiava.
Tanto ieri che oggi gli ucraini si erano recati al lavoro come se

305
niente fosse. Non c'era dubbio che avevano ricevuto i nostri
biglietti e notato il nostro silenzio di due giorni, dalla gru pote-
vano osservare com'era deserta la nostra area dopo la sparatoria
notturna, non incontravano le nostre colonne nella steppa. E ciò
nonostante non ci appoggiavano! (Come sapemmo dopo, i loro
caporioni, giovanotti digiuni di politica, avevano deciso che
l'Ucraina aveva un destino proprio, diverso da quello dei
moskali.* Dopo aver cominciato con tanto slancio, adesso ci ab-
bandonavano.) Dunque non eravamo più cinque, ma tremila.
Per tutta la seconda notte, la terza mattina e il terzo giorno la
fame ci dilaniò lo stomaco con i suoi artigli.
Ma quando al terzo mattino i čekisti chiamarono nuovamente
i brigadieri nell'andito e noi ci presentammo ancora una volta
svogliati, impenetrabili, torcendo la faccia, la decisione comune
era di non cedere. Avevamo già acquistato l'inerzia della lotta.
I padroni non fecero che infonderci nuove forze. Un ufficiale,
un nuovo arrivato, parlò così:
« L'amministrazione del lager Pescanyj prega i detenuti di
accettare il vitto. L'amministrazione accoglierà tutte le lamen-
tele. Esaminerà ed eliminerà tutte le ragioni di conflitto fra l'am-
ministrazione e i detenuti. »
Potevamo credere alle nostre orecchie? Ci pregavano di ac-
cettare il vitto! e non una parola sul lavoro. Avevamo preso
d’assalto il carcere, rotto i vetri e i lampioni, inseguito i secon-
dini con dei coltelli in mano e a quanto pare questo non era
considerato una sommossa, ma un conflitto fra parti uguali, am-
ministrazione e detenuti!
Era bastato che ci unissimo per due giorni e due notti perché i
padroni delle nostre anime cambiassero tono! Mai in vita nostra,
non solamente da detenuti ma neppure da liberi, da membri d'un
sindacato, avevamo udito discorsi così melliflui dai padroni!
Tuttavia ci disperdemmo in silenzio, infatti nessuno poteva
decidere sul posto. Né potevamo promettere di decidere. I bri-
gadieri se ne andarono senza aver alzato il capo, senza guardarsi
*
Termine spregiativo usato dagli ucraini per « russi ».

306
indietro, sebbene il capo della sezione ci chiamasse per
cognome.
Era questa la nostra risposta.
La baracca fu chiusa.
Dall'esterno pareva altrettanto muta e inamovibile ai padroni.
Ma all'interno cominciarono burrascose discussioni in tutte le
stanze. La tentazione era troppo grande. Il tono mite aveva
toccato sul vivo i poco esigenti zek più di qualunque minaccia. Si
levò qualche voce: cediamo. Cos'altro potevamo ottenere?
Eravamo stanchi! Volevamo mangiare! La misteriosa legge
che aveva saldato i nostri sentimenti e li portava in alto ora ebbe
un fremito nelle ali e cominciò a calare.
Ma si erano aperte certe bocche chiuse da decenni, bocche che
avevano taciuto tutta la vita e avrebbero taciuto fino alla morte.
Questi uomini venivano ascoltati, naturalmente, anche dai
delatori superstiti. Gli appelli di una voce divenuta sonora, di una
voce riacquistata per qualche minuto, erano destinati a essere
ripagati da un supplemento di pena, da un cappio gettato sul
collo che la libertà aveva fatto fremere (nella nostra camerata fu
il caso di Dmitrij Panin). Poco importa, le corde vocali avevano
fatto, per la prima volta, ciò per cui sono destinate.
Cedere adesso? Significava arrendersi a discrezione. A discre-
zione di chi? dei carcerieri, della muta di cani del lager. Da
quando esistevano carceri e lager, quelli avevano mai tenuto fede
alla propria parola?
Si sollevò il torbidume, da tempo posato, di sofferenze, di
offese, di scherno. Per la prima volta eravamo sulla strada giusta,
potevamo cedere così presto? Per la prima volta ci sentivamo
uomini, dovevamo arrenderci così presto? Un'allegra brezza
irosa ci soffiava in faccia, ci dava la febbre: continuare!
continuare! Ben diversamente saranno costretti a parlare con noi!
Cederanno! (ma quando mai, in che cosa potevano essere
creduti? Rimaneva poco chiaro. Ecco la sorte degli oppressi: per
essi è inevitabile credere e cedere...)
E le ali dell'aquila, si sarebbe detto, si rimisero a battere,
l'aquila del sentimento di duecento uomini. Esso riprese il volo.
E noi ci sdraiammo per risparmiare le forze, cercando di muo-

307
verci il meno possibile e di parlare solo di inezie. Era compito
sufficiente quello di pensare.
Le ultime briciole erano state mangiate da tempo nella barac-
ca. Nessuno aveva più nulla da cucinare e spartire. Nel generale
silenzio e immobilità si udivano soltanto le voci delle giovani
vedette strette alle finestre: ci raccontavano tutti gli spostamenti
avvenuti nella zona. Ammiravamo quei giovani ventenni, il loro
sereno entusiasmo di affamati, la ferma decisione di morire sulla
soglia d'una vita non ancora iniziata, pur di non cedere. Li
invidiavamo, perché la verità aveva raggiunto le nostre menti
troppo tardi, quando le vertebre erano già ossificate nella colonna
ingobbita.
Credo di poter oramai nominare Janek Baranovskij, Volodja
Trofimov e il fabbro Bogdan.
Improvvisamente, verso la fine del terzo giorno, quando il
sole stava per tramontare su un cielo rasserenato, le vedette
gridarono con cocente stizza:
«La baracca 9! La 9 s'è arresa! La 9 sta andando alla mensa! »
Balzammo tutti in piedi. Corsero da noi dalle stanze dell'altro
lato. Attraverso le grate, dai pancacci superiori e inferiori, car-
poni, sopra le spalle gli uni degli altri, guardavamo trattenendo il
fiato quella mesta processione.
Duecentocinquanta misere sagome, nere di per sé, ma più nere
ancora sullo sfondo del tramonto, procedevano in fila lunga,
docile e umiliata, di sbieco attraverso la « zona ». Camminavano
balenando attraverso i raggi del sole, interminabile incerta rada
sfilza, come se gli ultimi si rammaricassero che i primi fossero in
moto e non avessero voglia di seguirli. Alcuni, i più indeboliti,
erano tenuti a braccetto o per mano e la loro andatura malcerta
faceva pensare a tanti ciechi con tanti accompagnatori. Molti
tenevano in mano un pentolino o una gavetta e quelle misere
stoviglie da lager, portate nella speranza di ricevere una cena
troppo abbondante perché lo stomaco contratto la potesse
ricevere, quei recipienti tenuti davanti a sé come farebbero dei
mendicanti in cerca di elemosina, erano particolarmente offen-
sivi, da schiavi, commovevano.

308
Sentii che piangevo. Stornai lo sguardo asciugando le lacrime
e vidi che i compagni facevano lo stesso.
La parola della baracca n. 9 fu decisiva. Da quattro giorni,
dalla sera di martedì, tenevano i morti nella baracca.
Ora stavano andando verso la mensa e questo faceva capire
che avevano deciso di perdonare gli assassini per una razione di
pane e semolino.
La 9 era la baracca della fame. Vi stavano unicamente brigate
di manovali, raramente qualcuno riceveva un pacco. Molti erano
i dochodjaga. Forse si erano arresi perché non ci fossero altri
morti?
Ci disperdemmo in silenzio.
Capii a quel punto che cosa significa la fierezza dei polacchi e
in che cosa si dimostra l'abnegazione delle loro insurrezioni.
L'ingegnere polacco Jurij Vengerskij faceva ora parte della no-
stra brigata. Stava scontando il decimo anno di pena. Anche
quando era direttore dei lavori nessuno gli aveva mai sentito
alzare la voce. Era sempre tranquillo, cortese, mite.
Adesso aveva il viso sconvolto. Distolse lo sguardo da quella
processione di mendicanti con ira, disprezzo, tormento, si rad-
drizzò e gridò con voce sonora e sdegnosa:
« Brigadiere! non mi svegliare per la cena! Io non ci vado! »
Si arrampicò in cima al castello, si voltò verso il muro e non
si alzò. Di notte noi andammo a mangiare, lui no. Non riceveva
pacchi dono, era solo, mai sazio, ma non si alzò. L'idea della
scodella fumante non potè offuscare per lui l'incorporea Libertà.
Se tutti fossimo stati fieri e fermi come lui, quale tiranno avrebbe
resistito?
L'indomani, 27 gennaio, era una domenica. Non fummo
mandati a lavorare - a guadagnare il tempo perduto (sebbene di
certo i capi non pensassero che al piano di produzione andato a
monte), - ci nutrivano dandoci anche il pane dei giorni scorsi e ci
lasciavano gironzolare per la zona. Tutti andavano di baracca in
baracca, raccontavano come avevano passato quelle giornate, e
tutti erano in uno stato d'animo festoso, come se avessimo vinto,
non perso. I gentili padroni promisero ancora una volta

309
che tutte le richieste legittime (chi avrebbe determinato se erano
tali?) sarebbero state soddisfatte.
Intanto, una bazzecola, ma fatale: un certo Volodja Pono-
marev, una « cagna », il quale era stato con noi durante i giorni
dello sciopero, aveva udito molti discorsi e visto molte facce, era
fuggito riparando nel posto di guardia. Dunque era corso a
tradirci e a salvarsi dal coltello fuori dai reticolati.
In quella fuga di Ponomarev c'era, secondo me, tutta l'essenza
del mondo ladronesco. La loro presunta nobiltà non è che
reciproco obbligo all'interno di una casta. Ma una volta capitati
nel vortice d'una rivoluzione, commetteranno immancabilmente
una vigliaccheria. Non sanno capire i principi, ma unicamente la
forza.
Si poteva prevedere che si sarebbero preparati ad arrestare gli
istigatori. Ma dichiaravano il contrario: erano arrivate com-
missioni da Karaganda, da Alma Ata, da Mosca, avrebbero esa-
minato tutto. In una grigia immobile giornata di gelo sistemarono
una tavola all'aperto nel centro del lager, vi sedettero intorno
certi ufficiali con i pellicciotti bianchi e gli stivali di feltro e
proposero di avvicinarsi e presentare reclami. Molti vi andarono,
parlarono. Ogni cosa veniva registrata.
Il martedì, dopo che era suonata la ritirata, furono riuniti i
brigadieri « per la presentazione dei reclami ». In realtà la
consultazione era un'ennesima perfidia, una forma di istruttoria:
sapevano quanto risentimento avevano accumulato i prigionieri,
li facevano sfogare per poi arrestare a colpo sicuro.
Era il mio ultimo giorno di brigadiere: stava rapidamente
crescendo dentro di me il tumore trascurato, ma rimandavo
sempre l'operazione per il momento in cui, secondo il concetto
del lager, avrebbe « fatto comodo ». In gennaio e soprattutto nei
giorni dello sciopero della fame il tumore decise per conto suo
che il momento « comodo » era giunto e cresceva quasi di ora in
ora. Non appena le baracche furono aperte io mi feci visitare dai
medici e fu deciso l'intervento. Adesso mi trascinai all'ultima
consultazione.
Era stata convocata nella stanza attigua al bagno, un locale
ampio. Lungo i posti dei barbieri era stata disposta una lunga

310
tavola per la presidenza, vi sedettero un colonnello, alcuni
tenenti colonnelli, altri ufficiali di grado minore, mentre le nostre
autorità del lager si perdevano in seconda fila dietro alle schiene
degli altri. Stavano lì anche gli scrivani, i quali presero note
affannosamente durante l'intera consultazione; dalla prima fila
ripetevano per essi i cognomi degli intervenuti.
Si faceva particolarmente notare un tenente colonnello della
Sezione speciale o degli Organi, molto sveglio, intelligente, un
malvagio tenace con una testa alta e stretta; quella tenacità e la
strettezza del viso lo distinguevano dall'ottusa muta degli
ufficiali tanto che pareva non appartenervi.
I brigadieri parlavano malvolentieri, bisognava quasi tirarli
fuori a forza dalle fitte file. Non appena cominciavano ad esporre
qualcosa venivano interrotti, si chiedeva loro di spiegare per
quale ragione si sgozzava la gente e quali erano gli scopi dello
sciopero. Se un malcapitato brigadiere tentava di rispondere in
qualche modo a queste domande, per che cosa si accoltellava e
quali erano le richieste, subito l'intera muta lo assaliva: lei come
fa a saperlo? dunque ha rapporti con i banditi? Li nomini!
Così, nobilmente e in condizioni di perfetta parità, essi deter-
minavano la « legittimità » delle nostre esigenze...
Cercava d'interrompere le deposizioni di chi interveniva so-
prattutto il malvagio tenente colonnello dalla testa alta; aveva lo
scilinguagnolo sciolto e aveva rispetto a noi il vantaggio del-
l'impunità. Troncava bruscamente ogni discorso e cominciava
già a delinearsi un tono per cui noi eravamo accusati di tutto e
dovevamo giustificarci.
Avevo una voglia matta di farlo smettere. Presi la parola, dissi
il mio cognome (fu ripetuto come un'eco per coloro che
trascrivevano). Mi alzai dalla panca sapendo che nessuno degli
astanti avrebbe saputo tirar fuori di bocca più prontamente di me
una frase grammaticalmente compiuta. Una cosa sola non
immaginavo: di che cosa avrei parlato? Parlare di quanto è scritto
su queste pagine, di quanto avevamo vissuto e pensato in tutti
quegli anni di galera e in tutti quei giorni di digiuno, sarebbe
stato come parlare a degli orang-utan. Essi erano considerati dei
russi e sapevano magari capire le frasi russe più

311
semplici come « è permesso entrare? », « mi permette di far
rapporto? ». Ma quando stavano così seduti, a fianco a fianco, a
un lungo tavolo mostrandoci le loro monotone facce bianche,
benpasciute e prospere, prive d'ogni pensiero, era chiaro che
erano tutti da tempo degenerati in un tipo biologico a sé stante,
l'ultimo legame verbale fra di noi era definitivamente troncato,
non rimanevano che le pallottole.
Il solo « testalunga » non era ancora trasformato in orang-
utan, udiva e capiva benissimo. Fin dalle prime parole cercò di
confondermi. Tra la generale attenzione cominciò una gara di
repliche fulminee:
« Dove lavora, lei? »
(Ci si domanda: che differenza fa dove lavoro?)
« Nell'officina meccanica » butto lì io, pronto a rispondere
subito con la frase fondamentale.
« Là dove fabbricano i coltelli? » spara lui a bruciapelo.
« No », taglio corto con un colpo obliquo, « là dove si ripa-
rano le scavatrici mobili ». (Non so nemmeno io donde vengano
così rapidamente e con tanta chiarezza i pensieri.)
Avanti, avanti per abituarli anzitutto a tacere e ascoltare.
Ma il cane è in agguato dietro il tavolo e mi da un morso
improvviso con un balzo dal basso in alto:
« L'hanno delegata qui i banditi? »
« No, mi ci avete invitato voialtri! » gli do una sciabolata
trionfante e continuo il discorso.
Altre due volte tenta un'uscita ma finisce col tacere, sconfitto.
Ho vinto io.
Vinto, ma per che cosa? Un anno! Mi rimane un anno solo e
quest'anno pesa. Non saprò costringere la lingua a dire quello che
si meritano. Potrei pronunziare in questo momento un discorso
immortale ma sarei fucilato domani. Lo pronunzierei
ugualmente, ma solo a condizione che sia trasmesso in tutto il
mondo! No, questo uditorio è troppo esiguo.
Quindi non dico loro che i nostri lager sono fatti sul modello
fascista e sono un indizio di degenerazione del potere. Mi limito
a passare il petrolio sotto i loro nasi protesi. Ho saputo che c'è fra
di loro il capo delle truppe di scorta ed

312
ecco che deploro il comportamento indegno dei soldati di scorta
che hanno perduto il carattere del milite sovietico, aiutano a
sottrarre la produzione e sono per di più dei villani e degli
assassini. Poi dipingo i guardiani del lager come una banda di
avidi accaparratori che costringono i detenuti a rubare nei
cantieri (così è in realtà, ma la cosa comincia dagli ufficiali qui
seduti). E quale azione diseducativa produce ciò sui detenuti
desiderosi di emendarsi! Il mio discorso non piace neanche a me:
l'unico suo merito è che fa guadagnare tempo.
Nel silenzio che mi sono conquistato si alza il brigadiere T. e
lentamente, quasi balbettando per la forte emozione, o forse
balbetta per natura, proferisce:
« Prima, ero d'accordo anch'io... quando parlavano gli altri
detenuti... facciamo una vita... da cani... »
II mastino della presidenza ha rizzato le orecchie. T. gualcisce
il berretto tra le mani, è un galeotto dalla testa rapata, brutto, con
la faccia inasprita e deformata, gli è tanto difficile trovare le
parole giuste...
« Ma adesso vedo che non avevo ragione. »
Il mastino si rasserena.
« Viviamo molto peggio dei cani! » prosegue con forza,
rapidamente T. e tutti i brigadieri seduti si tendono. « Un cane ha
un solo numero sul collare, noi ne abbiamo quattro. A un cane
danno la carne, a noi danno lische di pesce. Un cane non si
rinchiude in una cella di rigore! Non si spara a un cane dalla
torretta! Non si danno venticinque anni a un cane! »
Adesso possono anche interromperlo, ha detto l'essenziale.
Si alza Černogorov, si presenta come ex eroe dell'Unione
Sovietica, si alza anche un altro brigadiere, parlano con ardore e
coraggio. Dalla presidenza ripetono con insistenza, calcando le
lettere, i loro cognomi.
Forse il tutto sarà la nostra rovina, ragazzi... Ma forse il
maledetto muro si sfascerà soltanto così, a furia di sbattervi
contro la testa.
La consultazione termina con un pari e patta. La commissione
non si fa più vedere, tutto prosegue pacificamente nel lager come
se nulla fosse.

313
La scorta mi accompagna in infermeria nella sezione ucraina.
Sono il primo a esservi portato dopo lo sciopero, il primo
messaggero. Il chirurgo Jančenko che mi deve operare mi chiama
per la visita, ma le sue domande e le mie risposte non si
riferiscono al tumore. Egli non vi presta nessuna attenzione ed io
sono contento di avere un medico di tanto affidamento. Mi fa
domande su domande. Ha il viso scuro per le nostre comuni
sofferenze.
Oh, come è diversa la nostra ricezione di un medesimo fatto a
seconda del tipo di vita! Questo tumore, evidentemente maligno,
quale colpo per me sarebbe stato nella vita libera, quante
emozioni e lacrime di persone care avrebbe causato! Qui, dove le
teste volano con tanta facilità, non è che un pretesto per stare un
poco a letto e non mi preoccupa più di tanto.
Nell'infermeria sono fra i feriti e gli storpiati di quella notte di
sangue. C'è chi è stato battuto dai guardiani fino ad essere ridotto
a una polpa sanguinolenta, non hanno un punto su cui giacere, la
loro pelle è tutta una piaga. Più bestiale di tutti è stato un aitante
secondino (memoria, memoria! non riesco a ricordarne il
cognome) il quale picchiava con un tubo di ferro. Qualcuno è già
morto in seguito alle ferite.
Le notizie si susseguono: nella sezione « russa » è cominciata
l'azione punitiva. Hanno arrestato quaranta persone. Per timore
di una nuova sommossa i padroni hanno proceduto nel modo
seguente: fino all'ultimo giorno si sono comportati con bonomia,
si sarebbe detto che cercassero di raccapezzarsi su chi di loro
fosse il colpevole. Ma nel giorno predisposto, mentre le brigate
varcavano il cancello, si accorsero che la scorta era raddoppiata o
triplicata. Le vittime dovevano essere prelevate in modo che non
ci aiutassimo l'un l'altro, né potessero esserci d'aiuto le mura
delle baracche o i cantieri. Una volta fuori dal lager, dopo aver
sparso le colonne nella steppa e prima di averle portate a
destinazione, i capi della scorta comandarono: « Fermi! Pronti a
far fuoco! Pallottola in canna! Detenuti, a terra! Conto fino a tre,
e faccio aprire il fuoco! Seduti! Tutti seduti! »
E di nuovo, come il giorno della scorsa Epifania, gli schiavi

314
impotenti e ingannati sono immobilizzati nella neve. Allora
l'ufficiale dispiega un foglio e legge l'elenco dei nomi e i numeri
di chi deve alzarsi e uscire fuori dal gregge imbelle, oltre
l'accerchiamento. Una scorta diversa riporta indietro questo
piccolo gruppo e alcuni ribelli, oppure viene un cellulare a
prelevarli. Il gregge esente dai fermenti è fatto alzare e mandato
al lavoro.
Così i nostri educatori ci mostrarono se era possibile crederli
mai in qualche cosa.
Qualcuno veniva portato in carcere anche di giorno, quando il
lager rimaneva deserto. Gli arresti volarono agevolmente sopra il
muro di quattro metri che lo sciopero non aveva saputo varcare, e
presero a dar beccate anche nella sezione ucraina. La vigilia della
mia operazione arrestarono anche il chirurgo Jančenko e lo
incarcerarono.
Gli arresti o i trasferimenti, era difficile distinguerli, pro-
seguirono senza che fossero prese altre precauzioni. Mandavano
chissà dove piccoli convogli di venti-trenta uomini. Ma im-
provvisamente il 19 febbraio si cominciò a radunare un'enorme
traduzione di circa settecento detenuti. Era una traduzione di
regime speciale: all'uscita del lager i destinati al trasferimento
venivano ammanettati. Vendetta del destino! Fra i trasferiti erano
anche più numerosi di noi gli ucraini che avevano evitato di
appoggiare i moskali.
Vero è che poco prima della partenza essi salutarono il nostro
sciopero spezzato. La nuova fabbrica di lavorazione del legname,
anch'essa tutta costruita di legno (nel Kazachstan, dove il
legname manca ma abbonda la pietra!), s'incendiò per cause non
chiarite - so per certo che si trattò di dolo - contemporaneamente
in più punti e in due ore andarono in fumo tre milioni di rubli.
Per gli uomini portati alla fucilazione fu come il funerale d'un
vichingo, l'antica usanza scandinava di bruciare insieme all'eroe
la sua barca.
Sono nella sala postoperatoria. Non è passata una settimana
da quando mi hanno operato. Sono solo nella corsia: la confu-
sione è tale che non ricoverano nessuno, l'ospedale è vuoto.
Accanto alla mia stanza, ultima nella baracca, c'è la capanna

315
dell'obitorio e là giace da diversi giorni il dottor Kornfeld,
ucciso. Non c'è tempo, manca il personale per seppellirlo. (Mat-
tina e sera il guardiano, arrivato alla fine della verifica, si ferma
davanti alla mia corsia e, per facilitare il conteggio, fa un gesto
che abbraccia l'obitorio e la mia stanza: « E due qui ». Poi annota
sulla scheda.)
Pavel Boronjuk, anche lui chiamato alla grande trasferta, rie-
sce a penetrare attraverso gli sbarramenti per abbracciarmi prima
della partenza. Non il nostro solo lager ma l'intero universo ci
sembra scosso, sconvolto dalla tempesta. Siamo scaraventati di
qua e di là e non possiamo capire che fuori dalla zona tutto è
rimasto come prima, nella calma della stasi. Noi sentiamo di
essere sulla cresta di grosse onde, qualcosa affonda sotto i nostri
piedi e se mai ci rivedremo sarà in un paese del tutto diverso. Ad
ogni buon conto, addio amico! Addio, amici!
Si trascinò un anno opprimente e ottuso, l'ultimo mio anno a
Ekibastuz, l'ultimo anno staliniano dell'Arcipelago. Pochissimi,
dopo una permanenza in carcere, furono rimandati nella « zona »
per mancanza di prove. Molti, moltissimi che avevamo imparato
a conoscere e amare durante quegli anni furono portati via: chi
per una nuova istruttoria e un processo, chi all'isolamento, in
seguito al segno indelebile apposto sulla sua pratica (anche se il
prigioniero era da tempo diventato un angelo); chi nelle miniere
di Džezkazgan; ci fu perfino un convoglio di detenuti «
psichicamente deficienti »: ne fece parte Kiškin il burlone, e i
medici vi sistemarono il giovane Volodja Gersuni.
A sostituire i detenuti partiti uscivano fuori ad uno ad uno dal
« deposito bagagli » i delatori: prima timorosi, circospetti, poi
sempre più insolenti. Tornò nella zona la « cagna venduta »
Volodja Ponomarev e passò da semplice tornitore a direttore,
dell'ufficio pacchi. Il vecchio čekista Maksimenko affidò a un
ladro matricolato la distribuzione delle preziose briciole raccolte
da famiglie diseredate.
La Sicurezza ricominciò a convocare in ufficio chi voleva e
per quanto tempo voleva. Fu una primavera soffocante. Coloro
cui le corna o le orecchie sporgevano troppo si affrettavano a

316
chinarsi per nasconderle. Io non ebbi più la carica di brigadiere
(ve n'erano di nuovo a sufficienza) e divenni manovale nella
fonderia. Quell'anno dovetti lavorare molto; ed ecco perché.
Come unica concessione dopo lo sbaragliamento di tutte le
nostre richieste e speranze, la direzione del lager ci concesse
l'autonomia economica, un sistema cioè per cui il lavoro da noi
eseguito non andava semplicemente a finire nelle insaziabili
fauci del GULag, ma veniva valutato e il 45% considerato nostro
salario (il resto andava allo Stato). Di questo « guadagno » il
lager si prendeva il 70% per il mantenimento della scorta, dei
cani, del filo spinato, della BUR, degli ufficiali della Sicurezza, di
quelli del regime disciplinare, della censura e dei preposti
all'educazione - tutte cose senza le quali non avremmo potuto
vivere - ma la percentuale rimanente, da dieci a trenta, era
tuttavia iscritta sul conto personale del detenuto; anche se non
l'intera somma, ma una parte di essa (se non avevi commesso
nessuna trasgressione, non avevi fatto ritardi, non eri stato
insolente, non avevi deluso le autorità) poteva essere trasformata,
secondo richieste mensili, nella nuova valuta del lager, i buoni, e
questi si potevano spendere. Il sistema fu impostato in modo che
più sudore e sangue versavi, più ti avvicinavi al trenta per cento,
mentre se non sgobbavi sufficientemente l'intero tuo lavoro an-
dava al lager e a te rimaneva un fico secco.
La maggioranza - oh, questa maggioranza della nostra storia,
soprattutto quando viene preparata mediante i prelevamenti! — la
maggioranza esultava per questa concessione dei padroni e
adesso si rovinava la salute sul lavoro pur di comprare allo
spaccio un po' di latte condensato, di margarina, di esecrabili
caramelle o di prendersi una seconda cena alla mensa « com-
merciale ». E poiché il calcolo del lavoro veniva fatto per bri-
gata, anche chi non voleva rovinarsi la salute sgobbando era
costretto a farlo perché guadagnassero i compagni.
Furono proiettati assai più spesso di prima i film. Come sem-
pre nei lager, in campagna, nelle cittadine più remote, con totale
disprezzo degli spettatori il titolo non veniva annunziato in
anticipo - neppure al maiale si annunzia in anticipo che cosa gli
sarà versato nel truogolo. I detenuti facevano ressa comun-

317
que - erano davvero gli stessi che nell'inverno avevano mante-
nuto così eroicamente lo sciopero della fame? - occupavano i
posti un'ora prima che oscurassero le finestre, senza preoccuparsi
minimamente se il film ne valeva la pena.
Panem et circenses!... Una ricetta così vecchia che imbarazza
addirittura ripeterla.
Non si poteva rimproverare quegli uomini se dopo tanti anni
di fame desideravano saziarsi. Ma mentre noi ci saziavamo qui, i
nostri compagni che avevano ideato la lotta, o quelli che nei
giorni di gennaio urlavano nelle baracche: « Non ci arrenderemo!
» o altri ancora che non c'entravano per niente, erano adesso
processati chissà dove, alcuni fucilati, altri incarcerati con nuove
pene in prigioni di isolamento, altri ancora erano sottoposti ad
estenuanti istruttorie, spinti, a mo' di ammonimento, in celle
cosparse di croci di condannati a morte, oppure qualche serpente
di maggiore, facendo capolino nella cella, sorrideva con aria
promettente: « Ah, Panin! Ricordo, ricordo... La sua pratica va
avanti. La metteremo in regola! »
Bellissima espressione, mettere in regola. Si può mettere in
regola mandando all'altro mondo, o in cella di rigore per ven-
tiquattro ore, si può anche mettere in regola con la consegna di
un paio di calzoni usati. Ma la porta s'è chiusa di scatto, il ser-
pente se n'è andato con il suo sorriso enigmatico, e tu cerchi di
indovinare, non dormi per un mese, per un mese sbatti la testa
contro il muro: come precisamente intendono metterti in regola?
Cose del genere sono facili da raccontare, ma solo da rac-
contare.
Senza alcun preavviso a Ekibastuz fu radunata una traduzione
di una ventina di persone. Una strana selezione. Furono raccolti
in fretta, senza misure di rigore, senza isolamento, quasi come si
raccolgono i detenuti che stanno per essere liberati. Ma nessuno
di essi era vicino all'aver scontato la pena. Non c'era fra essi
nessun detenuto preso di mira dai padroni con celle di rigore e
isolamento, no, erano tutti buoni detenuti, ben visti dalle autorità:
il solito viscido e sufficiente Michail Michajlovič Generalov
dell'officina riparazioni e il finto semplicione Belousov,
brigadiere alle macchine utensili; l’ingegnere-tecnologo

318
Gul'tjaev e il posatissimo, serio progettista di Mosca, Leonid
Rajkov, figura da uomo di Stato; il simpaticissimo tornitore,
compagnone dalla faccia leale, tonda come una focaccia, Ženja
Miljukov; un altro tornitore, il georgiano Kokki Kocerava,
amante della verità, ardente difensore della giustizia a cospetto
della folla.
Dove li avrebbero portati? La composizione del gruppo mo-
strava chiaramente che non erano destinati a un lager di puni-
zione. « Sarete portati in un buon posto », dicevamo noi, « vi
permetteranno di girare senza la scorta! » Ma non uno di essi
mostrava la minima gioia. Scuotevano la testa, sconsolati; rac-
coglievano di malavoglia la roba, pronti quasi a lasciarla qui.
Avevano un'aria abbattuta, avvilita. Possibile amassero tanto
l'irrequieta Ekibastuz? Ci dettero l'addio con le labbra smorte, e
delle intonazioni false. Li portarono via.
Ma non ci lasciarono il tempo di dimenticarli. Tre settimane
dopo corse la voce che erano stati riportati indietro. Indietro?
Tutti? Sì... Ma sono nella baracca del comando e non vogliono
rientrare nelle baracche dov'erano prima.
Mancava questo piccolo tratto a completare lo sciopero dei tre
giorni di Ekibastuz, lo sciopero dei traditori! Ecco perché erano
così riluttanti a partire! Negli uffici dei giudici istruttori, mentre
vendevano i nostri amici e firmavano verbali da Giuda speravano
che tutto si sarebbe svolto alla chetichella. Infatti da noi tutto
questo dura da decenni: una delazione politica è considerata un
documento inoppugnabile e l'identità del seksot (collaboratore
segreto) non viene mai rivelata. Ma c'era qualcosa nel nostro
sciopero - necessità di giustificarsi di fronte ai superiori? - che
costringeva i padroni a organizzare un grosso processo a
Karaganda. Per questo furono presi quegli uomini e essi, dopo
essersi guardati con occhi ansiosi, capirono che li avrebbero
portati là come testimoni. Non se ne sarebbero preoccupati,
conoscevano la regola del GULag del dopoguerra: un detenuto
trasferito altrove per necessità contingenti deve tornare nel lager
di prima. Ma si prometteva loro che in via di eccezione sarebbero
rimasti a Karaganda. Un ordine fu scritto, ma qualcosa risultò
sbagliato e Karaganda non li volle accettare.

319
Viaggiarono così per tre settimane, cacciati da un cellulare in
una prigione di transito e da questa in un cellulare. Si gridava
loro « A terra! », venivano perquisiti, gli si sequestrava la roba, li
facevano andare al bagno, davano loro da mangiare aringhe e li
privavano d'acqua, insomma era il trattamento usuale per dei
detenuti comuni ma ben intenzionati. Poi, sotto scorta armata,
furono portati al processo, là guardarono ancora una volta in
faccia quelli che essi avevano denunciato; là dettero gli ultimi
colpi ai chiodi delle loro bare, appesero lucchetti alle loro celle
d'isolamento, provvidero ad avvolgere chilometri di anni di lager
attorno alle loro nuove bobine,* e rifacendo a ritroso le
medesime prigioni di transito furono riportati, scoperti, nel lager
da cui erano partiti.
Non servivano più. Un delatore è come un traghettatore...
Non era forse stato sedato il lager? Non erano stati portati via
quasi mille uomini? Chi impediva, oramai, di fare qualche
visitina all'ufficio del padrino? Eppure no, quelli non volevano
uscire dalla baracca del comando. Scioperarono: rifiutavano di
entrare nella zona. Il solo Kočerava si decise sfacciatamente ad
atteggiarsi, al solito, a uomo tutto schiettezza:
« Non sappiamo perché ci hanno portati via. Gira e rigira,
rieccoci qui ».
Ma la sfrontatezza gli durò una sola notte e una sola alba.
L'indomani fuggì dai suoi, nella baracca del comando.
Ah sì? Dunque quello che è stato non è stato invano, e non
invano sono morti o si sono presi nuove pene i nostri compagni.
L'aria opprimente d'una volta non può più essere ripristinata. La
vigliaccheria è stata restaurata, ma non troppo solidamente. Si
parla liberamente di politica nelle baracche. Nessun addetto alla
ripartizione, nessun brigadiere oserà più pestare i piedi o alzare il
pugno. Infatti hanno appreso tutti con quanta facilità si
fabbricano i coltelli e s'infilano tra le costole.
La nostra isoletta, sconquassata, si staccò dall'Arcipelago.
Tuttavia, se lo sentivamo a Ekibastuz, dubito lo sentissero a
* La katuška (bobina) è la pena riguardo alla durata.

320
Karaganda. E certamente non a Mosca. Il sistema dei lager spe-
ciali aveva cominciato a sfasciarsi, ora qui ora là, in punti isolati,
ma il Padre e Maestro non ne aveva la minima idea, certamente
non gli era stato riferito (non sapeva rinunziare a nulla, né
avrebbe rinunziato alla galera fino a quando la sedia non avesse
cominciato a bruciargli sotto). Anzi egli prevedeva per il 1953
una nuova ondata di arresti, magari in vista di una nuova guerra e
a tale scopo nel 1952 allargava il sistema dei lager speciali. Fu
deciso che il lager di Ekibastuz sarebbe diventato, da sezione
dello Steplag o del Pesčanlag, la sezione principale di un grosso
lager sulle rive dell'Irtys (provvisoriamente chiamato delle
Lontananze, Dal'lag). Oltre ai numerosi sbafatori già presenti ne
arrivarono altri, tutt'una nuova direzione che dovevamo
mantenere con il nostro lavoro. Erano attesi anche nuovi
detenuti.

Intanto il contagio della libertà si diffondeva: come e dove


cacciarlo dall'Arcipelago? Come una volta quelli di Dubovka
l'avevano portato a noi, così i nostri l'avevano diffuso altrove.
Quella primavera in tutte le latrine dei transiti del Kazachstan era
scritto, graffito, inciso: « Onore ai combattenti di Ekibastuz! »
II primo gruppo di « principali istigatori », una quarantina di
uomini, e duecentocinquanta dei « peggiori » della grossa tra-
duzione di febbraio furono portati fino a Kengir (si chiamava
così l'abitato, la stazione ferroviaria era Džezkazgan), nella se-
zione n. 3 dello Steplag dove si trovavano la direzione e lo stesso
panciuto colonnello Čečev. Gli altri puniti furono divisi fra le
sezioni 1 e 3 dello Steplag (Rudnik).
Per intimidire gli ottomila zek di Kengir si annunziò loro che
erano stati portati dei banditi. Dalla stazione fino all'edificio
nuovo della prigione di Kengir furono fatti camminare con le
manette. Così, leggenda incatenata, il nostro movimento entrò a
Kengir ancora schiavo per svegliare anche questo. Come a
Ekibastuz un anno prima a Kengir regnavano ancora il pugno e
la delazione.
Dopo aver tenuto in prigione un quarto del nostro migliaio

321
fino al mese di aprile, il capo del lager di Kengir, tenente colon-
nello Fedotov, decise che erano stati intimiditi a sufficienza e
dette ordini perché fossero avviati al lavoro. Fornite dal centro,
avevano in dotazione 125 paia di belle manette nuove, nichelate,
dell'ultimo modello fascista; ammanettando i detenuti a due a
due bastavano giusto per duecentocinquanta uomini (proba-
bilmente la porzione destinata a Kengir era stata calcolata in base
a questo dato).
Con una mano libera, si poteva vivere. Nella colonna non
pochi ragazzi avevano già alle spalle l'esperienza delle carceri
dei lager (anche Tenno era stato incluso), conoscevano tutte le
particolarità delle manette e spiegarono ai vicini che, avendo una
mano libera, non ci voleva nulla a togliersi le manette, con un
ago o anche senza.
Quando furono vicini alla zona di lavoro, i guardiani comin-
ciarono a togliere le manette contemporaneamente in più punti
della colonna per iniziare senza indugio la giornata lavorativa.
Gli esperti presero allora a togliere rapidamente le manette a se
stessi e agli altri e a nasconderle sotto gli abiti: « Ce le ha già
tolte un altro! » Ai guardiani non venne in mente di contare le
manette prima di mettere in marcia la colonna, e non si
perquisiscono mai i detenuti all'entrata della zona di lavoro.
Così fin dal primo mattino i ragazzi portarono via ventitré
paia delle 125. Nella zona di lavoro presero a spezzarle a sassate
e martellate, ma subito ebbero un'idea migliore: le avvolsero
nella carta oleata perché si conservassero meglio e le murarono
nelle fondamenta delle case di abitazione che costruirono quel
giorno (blocco d'abitazione n. 20 dirimpetto al Palazzo della
Cultura di Kengir) accompagnandole con biglietti ideolo-
gicamente intemperanti: « Posteri! Queste case furono costruite
da schiavi sovietici! Ecco quali manette portavano! »
I guardiani maledirono e ingiuriarono i banditi, ma riuscirono
a procurarsi delle vecchie manette arrugginite per il ritorno. Ma
per quanta attenzione facessero i ragazzi ne sgraffignarono altre
sei paia all'entrata. E ancora delle altre nei due giorni successivi
andando al lavoro. Ogni paio costava 93 rubli.

322
I padroni di Kengir rinunziarono a portare i nostri ragazzi sul
lavoro ammanettati.
« Lottando otterrai i tuoi diritti! »
Verso il mese di maggio i detenuti provenienti da Ekibastuz
furono gradualmente trasferiti dalla prigione nella zona comune.
Adesso bisognava mettere il cervello a posto a quelli di Ken-
gir. Come primo provvedimento, fu mezzo strangolato uno dei
pridurki, che si era spinto per diritto avanti alla coda dinanzi allo
spaccio. Bastò perché si spargesse la voce che vi sarebbero state
novità. I nuovi arrivati erano diversi! (Non si può dire che fino
ad allora i delatori fossero lasciati indisturbati nel gruppo dei
lager di Džezkazgan, ma non v'era una vera e propria corrente.
Nel 1951 strapparono una volta le chiavi a un secondino della
prigione di Rudnik, aprirono una cella e vi sgozzarono un certo
Kozlauskas.)
Si crearono adesso anche a Kengir dei centri clandestini, uno
ucraino e uno russo. Furono preparati dei coltelli, delle maschere
per la rubilovka e tutta la storia ricominciò da capo.
« S'impiccò » alle sbarre della cella Vojnilovič. Furono uccisi
il brigadiere Belokopyt e il « benpensante » delatore Lifšic,
membro del tribunale militare rivoluzionario durante la guerra
civile sul fronte contro Dutov. (Lifšic si era sistemato bene come
bibliotecario della KVČ della sezione di Rudnik, ma la sua fama
lo precedette e a Kengir fu sgozzato il primo giorno.) Un
ungherese, intendente, fu fatto a pezzi con l'accetta nei pressi del
bagno. E, inaugurando la via verso il « deposito bagagli », corse
per primo nella BUR Sauer, ex ministro dell'Estonia sovietica.
Ma oramai anche i padroni del lager sapevano quello che
dovevano fare. Da tempo esistevano muri fra le quattro sezioni
del lager. Adesso pensarono di circondare di mura ciascuna
baracca, e ottomila uomini furono destinati a questo lavoro nelle
ore libere. Ogni baracca fu suddivisa in quattro sezioni non co-
municanti fra loro. Tutte queste piccole zone e ciascuna sezione
erano chiuse a chiave. L'ideale sarebbe stato di dividere il mondo
intero in celle d'isolamento. Un caporale, capo della prigione di

323
Kengir, era un pugile professionista. Si esercitava sui detenuti
come su dei sacchi. Nella sua prigione avevano inventato di pic-
chiare con un martello attraverso un pezzo di legno compensato
per non lasciare tracce. (Lavoratori pratici della Sicurezza dello
Stato, sapevano bene che la rieducazione non è possibile senza
percosse e assassinii e qualsiasi pm pratico sarebbe stato d'ac-
cordo con essi. Ma avrebbe potuto piombare là un teorico! e per
una tale poco probabile eventualità erano stati costretti a usare il
legno.) Un ucraino occidentale, estenuato dalle torture, s'impiccò
per paura di tradire gli amici. Altri si comportarono peggio. E
ambedue i centri fallirono.
Inoltre si trovarono in mezzo agli « esecutori di giustizia »
certi avidi avventurieri che cercavano un profitto per sé, non il
successo del movimento. Esigevano dei supplementi vitto e una
parte dei pacchi da casa.1
Anche questo servì per denigrare e troncare il movimento.
Troncarlo apparentemente. Ma dopo la prima prova generale
si chetarono anche i delatori. L'ambiente di Kengir, bene o male,
si andò depurando.
Il seme era stato gettato. Ma era destinato a germinare non
subito e diversamente.
Sebbene ci dicano che la personalità non forgia la storia, so-
prattutto se si oppone all'evoluzione progressista, per un quarto
di secolo una personalità ha continuato a torcerci le code da
pecoroni come voleva e noi non osavamo neppure uggiolare.
Adesso ci dicono: nessuno capiva niente, né la coda né
l'avanguardia, la vecchia guardia* sì aveva capito qualcosa, ma
preferì avvelenarsi in un cantuccio, spararsi in casa, vivacchiare
1
Probabilmente è inevitabile fra chi sceglie la via della violenza. Penso che i rapinatori di
Kamo, quando consegnavano alla cassa del partito i proventi delle rapine d'una banca, non
lasciavano vuote le proprie tasche. Né certamente Koba [soprannome di Stalin durante la
clandestinità. N.d.c.] che li guidava rimaneva senza soldi per il vino. Quando durante il
comunismo di guerra le bevande alcooliche furono proibite in tutta la Russia sovietica, lui teneva
per il proprio uso una cantina propria nel Cremlino senza farsene un problema.
* I bolscevichi della prima ora, in particolare i compagni di Lenin.

324
zitta zitta da pensionata piuttosto che far sentire la sua voce da
una tribuna.
Toccò a noi, bambinelli, iniziare il movimento di liberazione.
A Ekibastuz mettemmo cinquemila spalle sotto quelle volte, fa-
cemmo uno sforzo e provocammo una piccola fessura. Piccola,
certo, da lontano invisibile, fummo piuttosto noi a slombarci, ma
le piccole fessure fanno crollare le caverne.
Ci furono sommosse anche altrove oltre a quelle dei lager
speciali, ma tutto il sanguinoso passato è stato a tal punto li-
sciato, riverniciato, lavato via che mi è impossibile oggi fare un
elenco anche limitato delle insurrezioni avvenute nei lager. Ho
saputo per caso, ad esempio, che anche nel 1951 in un lager di
lavoro correzionale, a Vachruševo, ci fu uno sciopero della fame
di cinquecento uomini durato cinque giorni al quale seguirono
una grande agitazione, trasferimenti e arresti, dopo di che tre
evasi furono ammazzati a baionettate davanti al posto di guardia.
Si conoscono forti disordini avvenuti all'Ozerlag dopo l'uccisione
di un detenuto, l'8 settembre 1952.
Evidentemente all'inizio degli anni Cinquanta il sistema dei
lager staliniani, e soprattutto di quelli speciali, era in crisi. Già
mentre l'Onnipotente era ancora in vita gli indigeni cominciarono
a spezzare le proprie catene.
È impossibile prevedere come sarebbero andate le cose se lui
fosse rimasto in vita. Ma improvvisamente, senza che entrassero
in gioco le leggi dell'economia o della società, si fermò il lento
sporco vecchio sangue nelle vene della tarchiata e butterata
personalità.
Sebbene secondo la Teoria d'Avanguardia nulla avrebbe do-
vuto minimamente cambiare per questo - né lo temettero i ber-
retti celesti anche se il 5 marzo* piansero durante le ore di
guardia, né osarono sperarlo i giubboni neri pur strimpellando
sulle balalaike dopo aver saputo (quel giorno non furono fatti
uscire dai reticolati) che la radio trasmetteva marce funebri ed
erano state esposte bandiere abbrunate - pur tuttavia qualcosa
d'ignoto cominciò a fremere e spostarsi nei sotterranei.
* 5 marzo 1953, giorno in cui fu annunciata la morte di Stalin.

325
Per la verità l'amnistia nei lager della fine di marzo del 1953,
detta « di Vorošilov », era del tutto fedele al defunto per il suo
spirito: blandire e strangolare i politici. Cercando d'ingraziarsi la
teppaglia, l'amnistia li sguinzagliò per l'intero paese come tanti
ratti, invitando gli abitanti a soffrire, a mettere le sbarre alle
finestre e la milizia a riacchiapparli di nuovo tutti quanti. Quanto
ai condannati in base all'articolo 58 la proporzione fu la solita:
nella seconda sezione del lager di Kengir di tremila persone ne
furono liberate... tre.
Una tale amnistia poteva convincere la galera di una cosa
sola: la morte di Stalin non cambia nulla. Come non c'è stata,
così non ci sarà pietà. E se si vuole vivere sulla terra bisogna
lottare.
Anche nel 1953 le agitazioni nei lager proseguirono in vari
luoghi, incidenti minori, come nella sezione n. 12 del Karlag; ci
fu una grossa insurrezione al Gorlag (Noril'sk) sulla quale avrei
scritto un capitolo a sé se avessi avuto il materiale. Manca
totalmente.
Tuttavia la morte del tiranno non passò invano. Evidente-
mente qualcosa di recondito si muoveva chissà dove e a forza di
muoversi, improvvisamente, con un fracasso di latta, come un
secchio vuoto, andò a rotoli un'altra personalità ancora, dalla
cima della scala giù fin nel letamaio.
Adesso capirono tutti, avanguardia e coda, e perfino gli spac-
ciati indigeni dell'Arcipelago: era l'avvento di una nuova epoca.
Qui sull'Arcipelago la caduta di Berija fu particolarmente cla-
morosa: infatti era il Patrono supremo, il luogotenente del-
l'Arcipelago! Gli ufficiali della MVD erano sconcertati, confusi,
smarriti. Quando già il fatto era stato annunziato alla radio e non
si poteva ricacciare quell'orrore nell'altoparlante, ma bisognava
osare togliere i ritratti di quel caro affettuoso Protettore dai muri
dell'amministrazione dello Steplag, il colonnello Čečev disse con
le labbra tremanti: « Tutto è finito ». (Sbagliava. Credeva che
l'indomani essi sarebbero tutti stati processati.)1 Fra
1
Come fa notare Kljucevskij, l'indomani dell'emancipazione della piccola nobiltà (Ukaz sulle
libertà dei nobili, 18 febbraio 1762) furono emancipati anche i contadini (19 febbraio 1861), solo
99 anni dopo.

326
guardiani e ufficiali serpeggiò l'incertezza, perfino lo smarrimen-
to, subito notato dai prigionieri. Il capo del regime della sezione
3 di Kengir, dal quale nessuno mai aveva avuto uno sguardo
buono, arrivò improvvisamente al cantiere dove lavorava una
brigata di punizione, sedette e cominciò a offrire sigarette ai
detenuti. (Gli occorreva vedere quali scintille percorressero quel
torbidume e quale pericolo c'era da aspettarsi.) « Ebbé? » gli fu
chiesto in tono beffardo. « Sicché il vostro capo è risultato essere
un nemico del popolo? » « Già, parrebbe » fece l'ufficiale del
regime, afflitto. « Ma se era il braccio destro di Stalin! »
incalzavano quelli. « Dunque ha sbagliato anche Stalin? » «
Già... » chiacchierava amichevolmente l'ufficiale. « Ebbene ra-
gazzi, forse ci saranno le liberazioni, aspettate. »
Berija cadde ma lasciò in eredità ai suoi fedeli Organi l'onta
del berijanesimo. Se fino ad allora non un detenuto, non un
libero osava, senza rischiare la morte, dubitare anche solo in cuor
suo della cristallina onestà di un qualunque ufficiale della
Sicurezza dello Stato, adesso bastava appioppare alla canaglia
l'appellativo di « uomo di Berija » e quello era indifeso.
Al Reclag (Vorkuta) coincisero nel giugno 1953 due eventi:
l'agitazione in seguito alla deposizione di Berija e l'arrivo da
Karaganda e da Tajset di tradotte di ribelli (per lo più ucraini
occidentali). A quel tempo Vorkuta era ancora di una docilità da
schiavi e i nuovi venuti stupirono i detenuti locali con la loro
arditezza e inconciliabilità.
Tutto il cammino che noi mettemmo lunghi mesi a percorrere
fu qui fatto in un mese. Il 22 luglio scioperarono la fabbrica di
cemento, il cantiere della centrale termica n. 2, le miniere n. 7,
29 e 6. Da una miniera all'altra si poteva vedere come cessavano
i lavori, come si fermavano le ruote dei pozzi. Non si ripetè
l'errore di Ekibastuz, non ci fu uno sciopero della fame. Tutti i
guardiani fuggirono immediatamente dalle zone, tuttavia - fuori
il pane, capo! - portavano ogni giorno le derrate alimentari ai
cancelli e ve le lasciavano. (Credo fosse la caduta di Berija a
renderli tanto premurosi, altrimenti avrebbero reagito affamando
i ribelli.) Nelle zone in sciopero si crearono dei comitati, si
stabilì un « ordine rivoluzionario », alla mensa cessarono im-

327
mediatamente le ruberie e pur rimanendo uguali le razioni il vitto
migliorò notevolmente. La miniera n. 7 espose la bandiera rossa,
la 29, dalla parte della vicina ferrovia, espose... i ritratti dei
membri del Politburo. Che altro potevano esporre? Che cosa
esigere? Esigevano fossero tolti i numeri, le sbarre e i lucchetti,
ma non li strappavano da sé. Esigevano il diritto della
corrispondenza, delle visite, la revisione delle pratiche.
Soltanto il primo giorno furono fatti dei tentativi per con-
vincere gli scioperanti. Per tutt'una settimana, dopo, non venne
nessuno, ma le mitragliatrici furono appostate sulle torrette, e le
zone in sciopero furono accerchiate dalle guardie. Immagino che
gli ufficiali facessero la spola tra Mosca e il lager, non era facile
capire quale azione sarebbe stata giusta, data la novità della
situazione. Una settimana dopo il generale Maslennikov, il capo
del Reclag, generale Derevjanko, il procuratore generale
Rudenko, accompagnati da numerosi ufficiali (fino a quaranta)
cominciarono il giro delle zone. Tutti erano chiamati a radunarsi
nel centro del lager intorno alla brillante comitiva. I detenuti si
sedevano per terra, i generali rimanevano in piedi e li accusavano
di sabotaggio, di « indecenze ». (Subito facevano una riserva: «
alcune esigenze erano fondate », « potete togliere i numeri »,
riguardo alle sbarre « erano stati presi provvedimenti ».) Ma
dovevano immediatamente riprendere il lavoro: « Al paese oc-
corre il carbone! ». Alla miniera n. 7 qualcuno gridò dalle ultime
file: « E a noi occorre la libertà, vai a fa'... » e i detenuti
cominciarono ad alzarsi da terra e a disperdersi, piantando in
asso i generali.1
Furono immediatamente strappati i numeri, si cominciò a di-
vellere le sbarre. Tuttavia avvenne subito una scissione, gli spiriti
sbollirono: forse basta così? Non otterremo di più comunque. Il
turno di notte uscì quasi al completo, quello del mattino per
intero. Le ruote degli argani tornarono a girare e, guardando gli
altri cantieri, tutti ripresero il lavoro.
La miniera 29 si trova di là da una montagnola, donde non si
1
Secondo altri racconti furono appesi gli slogan: « La libertà a noi, il carbone alla Patria! ».
Infatti « A noi la libertà » è già sovversivo, conveniva aggiungere subito « il carbone alla Patria ».

328
vedono le altre. Le fu annunziato che tutte le altre avevano
ripreso a lavorare, quelli della 29 non ci credettero e continua-
rono a scioperare. Naturalmente non sarebbe stato difficile pre-
levare alcuni delegati, portarli alle altre miniere. Ma sarebbe
stato un abbassarsi a vezzeggiare i detenuti, e i generali avevano
sete di sangue: senza sangue non sarebbe stata una vittoria, senza
sangue quelle bestie di zek non impareranno nulla.
Il 1° agosto un autocarro di soldati arrivò alla miniera n. 29. I
detenuti furono chiamati ai cancelli. Da una parte si affollavano i
militari. « Al lavoro, o saranno presi dei durissimi prov-
vedimenti. »
Non fu spiegato quali. Guardate le mitragliatrici. Silenzio. Un
movimento di molecole umane tra la folla. Perché morire?
Specialmente chi è condannato a pene brevi... Chi ha da scontare
un anno o due si fa avanti. Ma ancora più decisamente di questi
avanzano gli altri e nella prima fila, afferrandosi per mano,
accerchiano i crumiri. La folla rimane indecisa. Un ufficiale tenta
di rompere la catena umana, viene colpito con una verga di ferro.
Il generale Derevjanko si porta in disparte e comanda « Fuoco! ».
Fuoco sulla folla.
Tre scariche e, fra queste, raffiche di mitra. 66 morti. (Chi
sono? Quelli delle prime file: i più impavidi e quelli che per
primi hanno ceduto. È la legge generale, la ritroviamo anche nei
proverbi.) Gli altri fuggono. Le guardie, con bastoni e verghe, li
rincorrono, percuotono i detenuti e li cacciano via dalla zona.
Per tre giorni (1-3 agosto) gli arresti si susseguono in tutti i
lager dove sono avvenuti degli scioperi. Ma cosa farne? Gli
Organi sono diventati più ottusi con la perdita del capofamiglia,
non ce la fanno a iniziare un'istruttoria. Ancora una volta tra-
duzioni, viaggi, diffusione del contagio. L'Arcipelago sta diven-
tando troppo angusto.
Per i rimasti è il regime di punizione.
Sui tetti delle baracche della miniera 29 sono apparse molte
toppe di legno, coprono i fori delle pallottole sparate in alto,
sopra le teste della folla. Ignoti soldati non hanno voluto
diventare assassini.

329
Ma sono bastati quelli che hanno colpito il bersaglio.
Ai piedi dello scarico della miniera n. 29, all'epoca di
Chruščev, qualcuno ha alzato una croce vicino alla fossa co-
mune, una croce molto alta, come un palo telegrafico. In seguito
è stata abbattuta. Poi qualcuno l'ha rimessa a posto.
Non so se oggi è ancora in piedi.

330
XII I quaranta giorni di Kengir

Ma la caduta di Berija rivestì anche un altro aspetto per i lager


speciali: aveva fatto sperare i galeotti e con ciò li aveva
disorientati, confusi, indeboliti. Rinverdirono le speranze di
prossimi cambiamenti e passò la voglia di dar la caccia ai dela-
tori, di andare in prigione per colpa loro, di scioperare e ribel-
larsi. Passò la rabbia. Tutto sembrava procedere per il meglio,
bastava pazientare.
Altro aspetto ancora: le spalline bordate di celeste (ma senza
le ali dell'aviazione),* fino ad allora le più onorate, le più
indubbie di tutte le forze armate, furono improvvisamente come
segnate da una sorta di marchio d'infamia, e non soltanto agli
occhi dei detenuti o dei loro parenti (di quelli, chi se ne fregava?)
ma, pareva, addirittura agli occhi del governo.
In quel fatale anno 1953 agli ufficiali della MVD fu infatti tolto
il secondo stipendio (quello « per le stellette »), ossia si
sarebbero oramai accontentati di un solo stipendio, più l'inden-
nità di anzianità e l'indennità « polare »,** più i premi, s'intende.
Fu un grave colpo per la tasca ma ancora più grave se si pensava
al futuro: dunque stiamo diventando inutili?
Proprio perché Berija era caduto, il ministero della Sicurezza
doveva dimostrare d'urgenza e nel modo più palese la propria
devozione e utilità. Ma come?

* Anche le spalline degli avieri hanno una profilatura color celeste.


** II secondo stipendio è proporzionale al numero delle « stellette » cioè al grado;
l'indennità « polare » premiava i soldati della MVD che prestavano servizio al di là del circolo
polare o in condizioni climatiche disagiate.

331
Le rivolte che fino ad allora erano sembrate ai guardiani una
minaccia adesso balenarono come una possibile salvezza: più
disordini, più sommosse, affinchè si rendesse necessario
prendere dei provvedimenti. Così non ci sarebbero state
riduzioni, né del personale né degli stipendi.
In meno di un anno la scorta armata di Kengir aprì più volte il
fuoco contro degli innocenti. I casi si susseguivano, e il fatto non
poteva non essere premeditato.1
Spararono a Lida, la ragazza della betoniera che aveva appeso
le calze ad asciugare nella prezona.
Spararono al vecchio cinese: nessuno a Kengir se ne ricordava
il nome, non parlava quasi il russo, ma tutti conoscevano la sua
sagoma dondolante, con la pipa fra i denti e la faccia da vecchio
folletto. Un soldato lo chiamò dall'alto della torretta, gli buttò un
pacchetto di tabacco proprio vicino al bordo della prezona e
quando il cinese si chinò per prenderlo fece fuoco ferendolo.
Un caso analogo: stavolta la sentinella gettò dalla torretta
delle cartucce, comandò al detenuto di raccoglierle e lo ammazzò
con un colpo.
Si conosce poi il caso della sparatoria con pallottole dirom-
penti contro la colonna che ritornava dallo stabilimento di arric-
chimento del minerale; furono raccolti da terra sedici feriti.
Almeno altri venti nascosero le ferite leggere per sottrarsi alla
registrazione ed eventuale punizione.
Questa volta gli zek non stettero zitti e si ripetè la storia di
Ekibastuz: la sezione n. 3 di Kengir per tre giorni non andò a
lavorare (pur accettando il vitto) esigendo che i responsabili
fossero puniti.
Arrivò una commissione, assicurò che i colpevoli sarebbero
stati processati (ma avrebbero convocato gli zek al processo,
mettendoli in condizione di verificare?...) Il lavoro fu ripreso.
Ma nel febbraio 1954 al DOZ (officina di lavorazione del
legname) ci fu un'altra vittima, spararono all'« evangelico », tutta
Kengir se lo ricorda (pare si chiamasse Aleksandr Sysoev). Que-
st'uomo aveva già scontato nove anni e nove mesi dei suoi dieci
1
Evidentemente l'amministrazione dei lager accelerò gli eventi anche altrove, per esempio a
Noril'sk.

332
anni di pena. Il suo lavoro consisteva nel rivestire gli elettrodi
delle saldatrici elettriche, lo faceva in un casotto vicino alla pre-
zona. Uscì per un bisogno e fu ammazzato con uno sparo dalla
torretta. Dei soldati accorsero in tutta fretta dal posto di guardia e
si misero a trascinare il corpo dell'ucciso verso la prezona, per
far credere che l'avesse violata. Gli zek non ressero oltre, affer-
rarono picconi e vanghe, e respinsero gli assassini lontano dal-
l'assassinato. (Per tutto il tempo che durò la faccenda un cavallo
sellato restò in attesa vicino al DOZ, era quello del čekista Beljaev
il Verruca, così soprannominato a causa della verruca che gli
ornava la guancia sinistra. Il capitano Beljaev era un sadico
traboccante di energia, e sarebbe stato perfettamente conforme al
suo spirito aver montato tutto quell'assassinio.)
Tutta la zona del DOZ entrò in subbuglio. I detenuti dissero
che avrebbero riportato il corpo dell'ucciso fino al lager a spalle.
Gli ufficiali opposero un rifiuto. « Perché lo avete ammazzato? »
si gridava loro. I padroni avevano la spiegazione pronta: era
colpa del morto, aveva cominciato per primo a tirare sassi contro
la torretta. (Si fossero dati la pena di prendere visione almeno
della scheda personale dell'ucciso avrebbero saputo che gli
rimanevano solo tre mesi da scontare e che era un evangelico...)
Il ritorno al lager fu tetro e ricordava che c'era poco da scher-
zare. Qua e là erano sdraiati nella neve dei mitraglieri pronti a
sparare (quelli di Kengir già sapevano che lo erano anche
troppo). Altri mitraglieri erano di guardia sui tetti della cittadina
delle truppe di scorta.
Questo accadeva ancora una volta in quella stessa sezione n. 3
che già aveva avuto sedici feriti in una volta sola. Sebbene quel
giorno ci fosse un solo ucciso, la sensazione di essere privi di
qualsiasi difesa, votati alla morte, in una situazione senza via
d'uscita, non faceva che aumentare: era passato quasi un anno
dalla morte di Stalin e i suoi mastini non erano per niente
cambiati. E in generale non era cambiato nulla.
La sera dopo cena accadde qualcosa di nuovo. Baracca per
baracca, camerata per camerata, si spegneva improvvisamente la
luce e dalla porta d'entrata qualcuno, invisibile, diceva: « Fra-
telli!. Fino a quando continueremo a costruire e ricevere in cam-

333
bio delle pallottole? Domani non si lavora! ». Così camerata per
camerata, una baracca dopo l'altra.
Un biglietto fu lanciato oltre il muro nella sezione n. 2.
Avevano già dell'esperienza, il procedimento da seguire era già
stato più volte discusso, seppero trovare il modo di dare l'an-
nuncio anche lì. Nella sezione n. 2, plurinazionale, predomina-
vano i condannati a dieci anni, molti si avvicinavano alla fine
della pena, tuttavia si unirono allo sciopero.
L'indomani le sezioni maschili 3 e 2 non andarono al lavoro.
Questo nuovo espediente - scioperare, senza però rinunciare
alla razione di pane e alla sbobba governativa - cominciava a
essere sempre più capito dai detenuti e sempre meno dai loro
padroni. Questi ultimi ebbero una trovata: guardiani e soldati
della scorta entravano disarmati nelle sezioni in sciopero, nelle
baracche, e afferrando in due ciascun detenuto lo spingevano, lo
cacciavano fuori. (Sistema troppo umanitario, così si vezzeg-
giano i ladri, non i nemici del popolo. Ma dopo l'esecuzione di
Berija nessun generale o colonnello osava dare per primo l'ordine
di sparare nella zona con le mitragliatrici.) La fatica, tuttavia,
non fu ripagata: gli zek andavano ai gabinetti, gironzolavano per
la zona, dappertutto, ma non andavano a lavorare.
Ressero così per due giorni.
Il semplice provvedimento di punire il soldato che aveva
ucciso l'evangelico non sembrava ai padroni né semplice né
giusto. Invece, nella notte fra il secondo e il terzo giorno di
sciopero, un colonnello arrivato da Karaganda, accompagnato da
un numeroso seguito, passò di baracca in baracca, sicuro di non
correre nessun pericolo e svegliando tutti senza cerimonie: «
Intendete bighellonare ancora a lungo? ». E, a casaccio, poiché
non conosceva nessuno, puntava il dito: « Tu! fuori!... Tu! fuori!
Tu! fuori! ». E questo capo valoroso e volitivo spediva in pri-
gione quegli uomini scelti a casaccio, intendendo replicare così,
nel modo più ragionevole, ai bighelloni. Will Rosenberg, un let-
tone, davanti a questa assurda rappresaglia disse al colonnello:
1
La parola « bighellonare » attecchì nella lìngua ufficiale dopo le agitazioni di Berlino nel
giugno 1953. Se della gente cerca di ottenere un aumento di salario, mettiamo, in Belgio, questo
si chiama « giusta collera del popolo »; se da noi la gente cerca di ottenere il proprip pane nero
sono dei « bighelloni ».

334
« Vado anch'io ». « Vacci pure! » assentì quello. Non capì
neanche, probabilmente, che si trattava di una protesta, né lo
sfiorò il dubbio che ci potesse essere qualcosa contro cui
protestare.
In quella stessa notte fu annunciato che con la democrazia
alimentare avevano chiuso: chi non fosse andato al lavoro avreb-
be ricevuto la razione di punizione. La sezione n. 2 andò a
lavorare l'indomani mattina. La 3, per la terza mattina conse-
cutiva, non si mosse. Fu applicata la tecnica già descritta per
spingere gli uomini fuori dalle baracche, ma questa volta con
l'impiego di effettivi rafforzati: furono mobilitati tutti gli ufficiali
che si trovavano a Kengir, sia quelli in servizio che quelli arrivati
là a prestar manforte o nelle varie commissioni. Gli ufficiali
entravano in gran numero nella baracca designata, abbagliando i
detenuti con tutto quello scintillio di spalline e balenio di alti
berretti, si aprivano la strada, piegati in due, fra i pancacci a
castello e si sedevano, posando senza schifiltosità i loro lindi
calzoni sui luridi materassi imbottiti di trucioli degli zek: « Su,
fatti in là, fatti in là, non vedi che sono un colonnello! ». E stan-
do seduti, a forza di spostarsi sempre più in là, le mani sui fian-
chi, essi, finivano per sospingere l'inquilino del pancaccio nel
passaggio, là lo afferravano i guardiani e lo spingevano oltre,
fino allo spiazzo delle adunate e il lavoro o, per i più
recalcitranti, fino alla prigione. (La capacità ridotta delle due
prigioni di Kengir limitava molto il comando: non arrivavano a
contenere più di un mezzo migliaio di detenuti.)
Così stroncarono lo sciopero, senza risparmiare la dignità e i
privilegi degli ufficiali. Questo sacrificio era richiesto dai tempi
incerti. Non era chiaro che cosa bisognava fare ed era pericoloso
sbagliare. Eccedendo nello zelo e sparando nel mucchio c'era il
rischio di ritrovarsi complici di Berija. Ma anche mostrando uno
zelo insufficiente e non mandando energicamente i detenuti al
lavoro c'era il caso di ritrovarsi suoi complici.1 Inoltre, con la
1
II colonnello Čečev, ad esempio, non sopportò questo rompicapo. Dopo gli eventi di
febbraio andò a riposo; in seguito ne perdiamo le tracce e lo ritroviamo, con una pensione «
personale » a Karaganda. Non sappiamo quando lasciò l'Ozerlag il suo capo, colonnello
Evstigneev. « Dirigente eccezionale... Modesto compagno », divenne vicedirettore della Centrale
idroelettrica di Bratsk (Evtušenko non lo ricorda).

335
loro personale e massiccia partecipazione alla repressione dello
sciopero, gli ufficiali della MVD avevano dimostrato come non
mai l'utilità delle loro spalline per la difesa del sacro ordine,
l'intangibilità degli effettivi in bilancio e il loro coraggio in-
dividuale.
Furono altresì applicati tutti i procedimenti già sperimentati.
Tra marzo e aprile altre persone furono tradotte in altri lager.
(L'epidemia continuò a propagarsi!) Una settantina di uomini (fra
cui Tenno) furono incarcerati in prigioni d'isolamento con la
classica formula: « Tutti i mezzi di correzione sono esauriti,
esercita un'influenza nefasta sugli altri detenuti, non è opportuna
la sua ulteriore permanenza nel lager ». Gli elenchi degli incar-
cerati furono esposti a scopo intimidatorio nel lager. Affinchè
l'autonomia finanziaria, come una sorta di NEP dei lager, sosti-
tuisse più efficacemente per i detenuti la libertà e la giustizia, gli
spacci, fino ad allora piuttosto miseri, vennero approvvigionati
con un vasto assortimento di prodotti alimentari. E perfino - oh,
impossibile! - fu distribuito ai detenuti un anticipo perché
potessero acquistare quei prodotti. (Il GULag faceva credito agli
indigeni! Non si era mai visto!)
Così per la seconda volta ciò che stava maturando qui a Ken-
gir rientrò senza essere arrivato a maturazione.
Ma a questo punto i padroni esagerarono. Tesero la mano per
afferrare il loro principale randello contro i Cinquantotto, cioè i
delinquenti comuni. (Infatti, perché sporcarsi le mani e le
spalline, quando esistevano i socialmente vicini?)
Alla vigilia delle feste del Primo maggio, rinunciando, da soli,
ai principi dei lager speciali, ammettendo oramai da soli che non
si potevano tenere separati i politici dando loro modo di capirsi, i
padroni introdussero e sistemarono nel lager ribelle, il 3, 650
ladri, tra i quali numerosi feroci delinquenti (molti minorenni). «
Sta arrivando un contingente sano! » avvertivano i Cinquantotto
con gioia maligna. « Adesso non muoverete più un dito. » E ai
ladri, arrivati freschi freschi, un vibrante appello: « Sarete voi a
mettere ordine qui! »
I padroni capivano benissimo da che cosa conveniva comin-

336
ciare per ristabilire l'ordine: rubando, vivendo alle spalle degli
altri, in modo che si instaurasse una generale disunione. I capi
sorridevano amichevolmente, come sanno sorridere solo ai ladri,
quando questi ultimi, avendo saputo che non lontano da lì c'era
un lager di donne, avevano cominciato a piatire alla loro maniera
disinvolta: « Faccele vedere le donnine, capetto nostro! ». Ma
quando si dice il corso imprevedibile dei sentimenti umani e dei
movimenti sociali! Iniettando nella sezione n. 3 di Kengir una
dose da cavallo di quel ben collaudato veleno cadaverico, i
padroni ottennero non un lager diventato docile, bensì la più
grande rivolta di tutta la storia dell'Arcipelago GULag.
Per quanto disperse e recintate siano apparentemente le
isolette dell'Arcipelago, l'esistenza delle prigioni di transito fa sì
ch'esse respirino la stessa aria, e siano vivificate da una linfa
comune. Il massacro dei delatori, gli scioperi della fame, le
astensioni dal lavoro non erano rimasti sconosciuti ai ladri.
Dicono diverse testimonianze che verso il 1954 nelle prigioni di
transito si potè notare che i ladri cominciavano a rispettare i
galeotti.
E se così era, cosa ci aveva impedito di ottenere il « rispetto »
dei ladri prima? Per tutti gli anni Venti, Trenta, Quaranta, noi, i
vari Ukrop Pomidorovič e Fan Fanyč*, così preoccupati del
valore mondiale della nostra persona, del contenuto del nostro
sacco, delle nostre scarpe, dei nostri calzoni se non ci erano
ancora stati tolti, di fronte ai ladri ci comportavamo da perso-
naggi comici: quando depredavano i nostri vicini, intellettuali di
portata mondiale come noi, distoglievamo pudicamente gli occhi
e ci stringevamo nel nostro cantuccio; e quando questi esseri
subumani aggredivano noi, naturalmente, a nostra volta non ci
aspettavamo nessun aiuto dai vicini, ma consegnavamo
rispettosamente tutto quello che avevamo a quegli scimmioni
purché non ci strappassero la testa. Infatti le nostre menti erano
occupate da ben altro, non a questo eravamo preparati. Non ci
aspettavamo davvero un nemico così basso e crudele. Eravamo
angustiati dalle storture della storia russa; certo, era-
* Nomi e patronimici scherzosi dati dai detenuti agli intellettuali.

337
vamo pronti a morire, ma soltanto d'una bella morte in pubblico,
davanti al mondo intero, e unicamente alla condizione di salvare
allo stesso tempo l'intera umanità. Mentre invece la nostra
profonda saggezza avrebbe dovuto forse essere quella di
accontentarci della più semplice delle cose semplici. Forse
avremmo dovuto essere pronti, fin dalla prima cella di transito,
tutti quanti, a prenderci una coltellata fra le costole e cadere
morti in un angolo umido, nel liquame vischioso del bugliolo, in
una zuffa ignominiosa con quei ratti umani in balia dei quali le
spalline celesti ci avevano lasciato perché ci sgozzassero. Forse
allora le nostre perdite sarebbero state assai minori e ci saremmo
rialzati prima, e meglio, e avremmo fatto a pezzi i lager di Stalin
a spalla a spalla con i ladri. E davvero, per quale motivo
avrebbero dovuto rispettarci?
Dunque i ladri giunti a Kengir avevano già sentito raccontare
qualcosa, si aspettavano già di trovare nei galeotti uno spirito
battagliero. E, prima che avessero il tempo di guardarsi intorno e
di cominciare a bazzicare le autorità, alcuni giovanotti posati
dalle spalle larghe andarono dai caporioni, e cominciarono a
parlar loro della vita e dissero quanto segue: « Noi siamo dei
rappresentanti. Saprete certo cos'è la rubilovka dei lager speciali,
se no ve lo spieghiamo noi. Oramai i coltelli li sappiamo
fabbricare non peggio di voi. Voi siete seicento, noi duemila-
seicento. Pensateci e scegliete. Se cercherete di metterci sotto, vi
sgozzeremo fino all'ultimo ». Era questo il passo saggio che
avrebbe dovuto essere fatto da tempo: rivolgere il coltello contro
i delinquenti, vedere in essi il nemico principale!
Naturalmente le spalline celesti non aspettavano altro che una
simile zuffa. Ma i ladri calcolarono che, con un rapporto di
quattro a uno, non valeva la pena di fronteggiare quei Cinquan-
totto fattisi arditi. Dopo tutto i loro protettori stavano fuori dai
reticolati, e poi che cavolo potevano aspettarsi da loro? li ave-
vano forse mai rispettati? L'alleanza che proponevano quei
ragazzi era un'avventura divertente e nuova e per di più sem-
brava aprire un varco in direzione della zona delle donne.
E i ladri risposero: « No, ci siamo fatti furbi. Staremo con i
mužik! ».

338
La conferenza non è stata registrata dalla storia e i nomi dei
suoi partecipanti non sono conservati in nessun verbale. Peccato.
Erano ragazzi in gamba.
Fin dal suo primo soggiorno nelle baracche della quarantena
sanitaria, il contingente sano inaugurò il nuovo domicilio accen-
dendo dei fuochi sul pavimento di cemento, bruciando ripiani e
pancacci a castello; il fumo cominciò a uscire dalle finestre.
Quanto al loro disaccordo sulla disposizione di chiudere a chiave
le baracche, l'espressero turando con zeppe di legno i buchi delle
serrature.
Per due settimane i ladri si comportarono come se fossero
stati in villeggiatura: si recavano al cantiere ma ad abbronzarsi
sdraiati al sole, e non a lavorare. Naturalmente per le autorità non
si poneva neppure la questione di infliggere loro la razione di
punizione, ma nonostante tutte le speranze che si riponevano in
loro, neanche c'era modo di assegnargli, visto che non lavo-
ravano, una paga. Tuttavia dei buoni comparvero anche presso i
ladri,- li si incontrava allo spaccio a fare acquisti. I capi ripresero
animo: gli elementi sani avevano finalmente cominciato a rubare.
Ma erano male informati e si sbagliavano: i politici avevano fatto
una colletta per trarre d'impiccio i ladri (probabilmente faceva
parte degli accordi, altrimenti i ladri non ci sarebbero stati), da
cui i buoni. Un caso troppo inaudito perché i padroni potessero
indovinare giusto.
Certamente la novità ed eccezionaiità del gioco divertiva
molto i ladri, soprattutto i minorenni: così, di punto in bianco,
trattare cortesemente i « fascisti », non entrare nelle loro
camerate senza permesso, non sedersi sui pancacci senza essere
stati invitati.
La Parigi del secolo scorso chiamava i propri giovani delin-
quenti (e ne aveva certamente a sufficienza) organizzati in guar-
dia, mobiles* Davvero ben caratterizzato! È una tribù a tal punto
mobile che lacera l'involucro dell'abitudinaria vita quotidiana,
non può assolutamente trovarvi una quieta sistemazione. Era
stato stabilito che non avrebbero rubato, sgobbare a un
* Allusione alla «guardia mobile» del 1848..

339
lavoro statale era contro la loro etica, ma avrebbero dovuto pur
occuparsi in qualche modo! La gioventù si divertiva a strappare i
berretti ai guardiani, a volteggiare durante il controllo della sera
sui tetti delle baracche e al di sopra dell'alto muro che separava
la sezione 3 dalla 2, a scompigliare la conta, a fischiare, lanciare
urli, di notte a spaventare le torrette. Si sarebbero intrufolati
anche nel lager delle donne, ma sbarravano loro il cammino gli
edifici dell'economato guardati da sentinelle.
Quando gli ufficiali del regime disciplinare o gli educatori o
gli agenti della Sicurezza dello Stato entravano nella baracca dei
ladri per un'amichevole conversazione, i ladruncoli in erba
ferivano i loro migliori sentimenti approfittando della conver-
sazione per sottrarre dalle loro tasche taccuini o portamonete,
oppure, dai pancacci superiori, per voltare il berretto del padrino,
visiera sulla nuca - tutti comportamenti senza precedenti nel
GULag! ma anche l'ambiente che si era formato era senza
precedenti. Anche prima i ladri avevano sempre ritenuto i loro
padri del GULag degli imbecilli, e li disprezzavano ancor più da
quando quelli avevano cominciato a strombazzare l'efficacia
della riforgiatura, li disprezzavano fino a riderne a crepapelle
quando salivano sulla tribuna o impugnavano un microfono per
decantare l'inizio di una vita nuova tra le stanghe di una carriola.
Ma, fino ad ora, bisognava evitare di inimicarseli. Adesso,
invece, la convenzione con i politici dirigeva le forze liberate dei
delinquenti precisamente contro i padroni.
Così le autorità del GULag, scarsamente dotate di intelletto
amministrativo e prive di un'alta intelligenza umana, si prepa-
rarono con le proprie mani l'esplosione di Kengir: prima con
delle sparatorie insensate, poi con l'immissione del carburante
ladronesco in quell'aria arroventata.
Gli eventi procedevano inesorabili. Non era possibile per i
politici far a meno di proporre ai ladri la guerra o l'alleanza. Non
era possibile per i ladri rifiutare l'alleanza. Questa, una volta
instaurata, non poteva rimanere inerte: si sarebbe disgregata
aprendo la strada alla guerra intestina.
Bisognava iniziare, in un modo o nell'altro iniziare! Gli
iniziatori, se si tratta di Cinquantotto, finiscono per dondolare in
fondo
340
a un nodo scorsoio; se sono dei ladri si prendono soltanto un
rimprovero durante le « conversazioni politiche »; i ladri dunque
proposero: iniziamo noi, voialtri appoggiateci.
Notiamo che l'insieme del lager di Kengir formava un unico
rettangolo, circondato da una zona esterna comune, all'interno
del quale, in senso longitudinale, erano state ricavate le zone
interne: prima la sezione n. 1 (femminile), poi l'economato
(abbiamo già parlato della sua potenza industriale),* poi la
sezione n. 2, poi la 3, infine la prigione con due edifici: prigione
nuova e prigione vecchia dove venivano rinchiusi non soltanto i
detenuti del lager, ma anche gli abitanti liberi della cittadina.
Primo obiettivo naturale: impadronirsi dell'economato dove si
trovavano inoltre tutti i depositi di viveri del lager. L'operazione
fu iniziata durante una domenica non lavorativa, il 16 maggio
1954. Anzitutto i « mobili » si arrampicarono sui tetti delle loro
baracche e sul muro fra le sezioni 3 e 2. Poi, a un ordine dei
caporioni che rimasero a dominare dall'alto, saltarono giù nella
sezione 2 con i bastoni in mano, là s'incolonnarono e marciarono
seguendo la linea dell'adunata che portava, lungo l'asse della
sezione 2, verso il cancello di ferro dell'economato per terminare
lì.
Tutte queste azioni, compiute apertamente, richiesero un certo
tempo durante il quale i guardiani ebbero modo di organizzarsi e
di ricevere istruzioni. E, cosa curiosissima, i guardiani presero a
correre di baracca in baracca tra i Cinquantotto gridando, proprio
a coloro che da trentacihque anni schiacciavano come le ultime
canaglie: « Ragazzi! Guardate! i ladri stanno per spaccare tutto
nella zona delle donne! Stanno per violentare le vostre mogli e le
vostre figlie! Venite in loro aiuto! Respingiamoli! ». Ma i patti
sono patti, e chi fece per accorrere perché non ne era a
conoscenza fu fermato. Sebbene fosse molto probabile che i gatti
alla vista delle cotolette non si attenessero ai termini della
convenzione, i guardiani non trovarono aiuto presso i
Cinquantotto.
Non è dato sapere come i guardiani avrebbero difeso la zona
* Si veda Arcipelago GULag 2°, pp. 592-595.

341
delle donne dai propri favoriti, in ogni caso dovevano in primo
luogo difendere i magazzini dell'economato. Così il cancello
venne spalancato e incontro agli assalitori avanzò un plotone di
soldati disarmati, diretti da dietro da Beljaev il Verruca, il quale
si trovava nella zona di domenica, vuoi per zelo, vuoi perché di
turno. I soldati cominciarono a respingere i mobili, scompi-
gliandone i ranghi. Senza mettere in azione i bastoni, i ladri
cominciarono a ritirarsi verso la loro sezione 3 e ad arrampicarsi
di nuovo sul muro, dall'alto del quale le riserve coprivano la
ritirata bombardando i soldati con pietre e mattoni.
Naturalmente non seguì nessun arresto fra i ladri. Le autorità,
non vedendo nell'accaduto altro che una manifestazione di in-
temperante birichineria, lasciarono che la domenica trascorresse
tranquilla fino alla ritirata. La cena fu distribuita senza incidenti
e col buio della sera, accanto alla mensa della sezione n. 2, iniziò
la proiezione, come in un cinema all'aperto, del film Rimskij
Korsakov.
Ma l'ardimentoso compositore non ebbe il tempo di dimettersi
dal conservatorio in segno di protesta contro gli attentati alla
libertà, che tintinnarono i vetri spezzati dei lampioni: i mobili
tiravano con le fionde per spegnere l'illuminazione della zona.
Nel buio essi già brulicavano in tutta la sezione 2, e i loro
acutissimi fischi da briganti tagliavano l'aria. Sfondarono con
una trave il cancello dell'economato, vi si riversarono e da lì con
una rotaia praticarono una breccia nel muro della zona
femminile. (Con loro c'erano anche dei giovani Cinquantotto.)
Alla luce dei razzi da combattimento lanciati dalle torrette il
čekista Beljaev - sempre lui - irruppe nella zona dell'economato
dal di fuori, attraverso il posto di guardia, alla testa di un plotone
di mitraglieri e - per la prima volta nella storia del GULag - fece
aprire il fuoco contro i socialmente vicini. Ci furono dei morti e
diverse decine di feriti. Poi i soldati dalle spalline rosse che
correvano dietro finivano i feriti con le baionette. Dietro ancora,
secondo una divisione del lavoro punitivo già sperimentata a
Ekibastuz, a Noril'sk e a Vorkuta, correvano i guardiani con
spranghe di ferro con le quali anch'essi colpivano

342
a morte i feriti. (Per tutta la notte nell'infermeria della sezione 2
restarono accese le luci della sala operatoria e un detenuto chi-
rurgo, lo spagnolo Fuster, operò in continuazione.)
Adesso l'economato era saldamente nelle mani della spedizio-
ne punitiva, vi furono disposti i mitraglieri. La sezione 2 (i
mobili avevano suonato l'ouverture, adesso entravano in campo i
politici) costruì una barricata di fronte al cancello dell'econo-
mato. Le sezioni 2 e 3 erano unite da una breccia, erano state
abbandonate dai guardiani e non vi esisteva più il potere della
MVD.
Ma cosa ne era di chi aveva avuto il tempo di penetrare nella
sezione femminile e ora era tagliato fuori dal resto del lager? Gli
eventi avevano superato il disprezzo disinvolto con cui i ladri
trattano le femmine. Quando gli spari echeggiarono nel-
l'amministrazione, coloro che irrompevano dalle donne non
erano più avidi predatori ma compagni di sventura. Le donne li
nascosero. Entrarono per catturarli dei soldati, dapprima di-
sarmati, poi armati, le donne impedivano loro di cercare e si
dibattevano. I soldati le picchiavano con i pugni e i calci dei
fucili, le trascinavano in prigione (la zona femminile, previden-
temente, aveva un carcere proprio), e sparavano agli uomini che
riuscivano a trovare.
Poiché il reparto punitivo risultava insufficiente, il comando
fece arrivare nella zona femminile delle « spalline nere », i sol-
dati del battaglione del genio di stanza a Kengir. Ma i soldati di
questo battaglione rifiutarono di occuparsi di una faccenda che
non spettava a dei soldati e si dovette riportarli indietro.
Intanto era proprio là, nella zona femminile, la giustificazione
politica con cui i castigatori avrebbero potuto difendersi davanti
ai loro superiori. Non erano affatto dei semplicioni. L'avessero
letto da qualche parte o inventato loro stessi, fatto sta che il
lunedì successivo fecero entrare nella zona femminile dei foto-
grafi e due o tre dei loro spilungoni travestiti da detenuti. Quei
brutti ceffi cominciarono a malmenare le donne e i fotografi a
fotografare. È per difendere le donne da simili arbitrii che il
capitano Beljaev è stato costretto a far aprire il fuoco!
Nelle ore mattutine del lunedì la tensione si addensò sopra

343
la barricata e il cancello divelto dell'economato. Lì davanti giace-
vano cadaveri che non erano stati portati via. I mitraglieri erano
sdraiati dietro le loro armi, puntate sul cancello. Nelle zone ma-
schili liberate si spezzavano i pancacci per farne armi, si
fabbricavano scudi con assi di legno e materasse. Dalla barricata
si apostrofavano i boia e quelli rispondevano. Qualcosa doveva
muoversi, la situazione era troppo instabile. I detenuti sulla
barricata erano pronti a entrare in azione. Alcuni zek scheletriti si
tolsero la camicia, salirono sulla barricata e mostrando il petto
ossuto e le costole sporgenti ai mitraglieri gridavano: « Su,
sparate! Ammazzate i vostri padri! Finiteci! ».
Improvvisamente accorse dall'ufficiale che comandava
all'economato un soldatino con un biglietto. L'ufficiale dette
ordine di portare via i cadaveri e le mostrine rosse
abbandonarono la zona insieme ad essi.
Per forse cinque minuti silenzio e sospetto regnarono sulla
barricata. Poi i primi zek si affacciarono cautamente nel cortile
dell'economato. Era deserto, c'erano soltanto qua e là i berrettini
neri dei morti con i numeri cuciti sopra.
(Si seppe più tardi che l'ordine di evacuare l'economato era
stato dato dal ministro degli interni del Kazachstan appena arri-
vato in aereo da Alma-Ata. I cadaveri furono portati nella steppa
e là sotterrati, per eliminare la possibilità di una perizia se fosse
stata richiesta in seguito.)
Tuonarono degli « Urrà! » e i detenuti si riversarono nell'eco-
nomato e nella zona femminile. La breccia fu allargata. Fu libe-
rata la prigione delle donne e tutto fu riunito. La zona principale
era libera! Soltanto la sezione carceraria, la 4, rimaneva una
prigione.
Su ogni torretta furono disposti quattro soldati dalle spalline
rosse: non mancavano davvero orecchie per raccogliere gli
insulti! I detenuti si raccoglievano davanti alle torrette e gri-
davano (le donne, si capisce, più forte degli altri): « Siete peggio
dei fascisti!... Bevitori di sangue!... Assassini! ».
Si trovò, naturalmente, un sacerdote, anzi più d'uno, e al-
l'obitorio fu celebrato il servizio funebre in memoria dei detenuti
uccisi e di quelli morti in conseguenza delle ferite.

344
Quali possono essere le sensazioni che gonfiano, fino a farlo
scoppiare, il petto di ottomila uomini - da sempre e fino a un
momento prima schiavi disuniti, ed ora, ecco, riuniti e liberati,
anche se non veramente, ma tuttavia almeno liberati entro il
rettangolo di quelle mura, sotto gli sguardi di quei soldati di
scorta quadruplicati?
Allungati e famelici nelle baracche chiuse a doppia mandata
di Ekibastuz - già questo era stato avvertito come un partecipare
della libertà. Qui eravamo addirittura alla rivoluzione di Feb-
braio!* Una fratellanza fra uomini, per tanto tempo soffocata e
ora prorompente! Noi amiamo i ladri! E i ladri amano noi! (Non
c'è niente da fare, l'hanno suggellata col loro sangue questa
nostra alleanza. E hanno finito per rinunciare alla loro legge
ladronesca.) Più ancora, si capisce, amiamo le donne che ci sono
di nuovo a fianco come dev'essere tra esseri umani, sono le
nostre sorelle nella sorte.
Nella mensa sono esposti dei manifesti: « Armati come puoi e
attacca per primo le truppe! ». Su pezzi di giornale (non c'è altra
carta) a lettere nere e colorate i più focosi hanno già tracciato in
gran fretta i loro slogan: « Ragazzi, dagli ai čekisti! » « Morte ai
delatori, servi dei čekisti! ». In uno, due, tre punti del lager,
comizi, oratori, provate a esserci dappertutto! Ciascuno propone
il suo. Pensa: ti è permesso pensare: per chi sei? Quali
rivendicazioni avanzare? Che cosa vogliamo? Beljaev in giu-
dizio, questo è chiaro. In giudizio gli assassini, chiaro. E poi?
Che non chiudano le baracche, siano tolti i numeri. E poi?...
Poi viene quello che fa più paura: a che scopo tutto questo è
stato cominciato e che cosa vogliamo? Naturalmente vogliamo la
libertà, solo la libertà. Ma chi ce la darà? I tribunali che ci hanno
condannati stanno a Mosca. E finché diciamo che siamo
scontenti dello Steplag o di Karaganda, possono trattare con noi.
Ma se dicessimo che siamo scontenti di Mosca... ci sotter-
rerebbero nella steppa tutti quanti siamo.
Ma allora, che cosa vogliamo? Sfasciare i muri? Evadere
verso il deserto?
* La rivoluzione del febbraio 1917, che abbattè il regime zarista.

345
Ore di libertà! Diecine di chili di catene che vi cadono da
braccia e spalle! No, non ci rammarichiamo di nulla. Questo
giorno ne è valso la pena.
Alla fine della giornata di lunedì arriva nel lager in tumulto
una delegazione delle autorità. Una delegazione assai benevola,
non hanno l'aria feroce, non hanno mitra, è chiaro, non abbiamo
a che fare con degli accoliti del sanguinario Berija. Siamo al
cospetto, apprendiamo, di generali arrivati in volo da Mosca: un
certo Bockov del GULag e il vice procuratore generale Vavilov.
(Erano in servizio anche sotto Berija, ma perché rivangare il
passato?) Essi ritengono le nostre richieste del tutto giuste! (Noi
stessi esclamiamo con sorpresa: giuste? Dunque non siamo dei
ribelli? Nò-nò, del tutto giuste.) « I responsabili delle sparatorie
saranno processati - E perché sono state picchiate le donne? -
Picchiate le donne? (stupisce la delegazione.) Non è possibile. »
Anja Michalevič fa sfilare davanti ai loro occhi un gruppo di
donne picchiate a sangue. La commissione si commuove: «
Esamineremo i fatti ». « Belve! » grida al generale Ljuba
Bersadskaja. Altri gridano: « Niente più chiusura delle baracche!
- Non verranno più chiuse. - Via i numeri! - Li sopprimeremo
senz'altro, » assicura un generale che non abbiamo mai visto in
faccia (né mai più lo vedremo). « Le brecce fra le zone devono
rimanere! (diventiamo sfrontati). Dobbiamo poter comunicare! -
Va bene, comunicate, comunicate pure » acconsente il generale.
« Lasceremo le brecce. » E allora, amici, che altro ci occorre?
Abbiamo vinto! Un giorno di tumulti, di gioie, di effervescenza e
abbiamo vinto. Sebbene qualcuno fra noi scuota la testa e dica: ci
ingannano! - noi ci crediamo. Crediamo alle nostre autorità, non
sono poi così cattive, dopo tutto. Crediamo perché così ci è più
facile uscire da questa situazione...
Che altro rimane agli oppressi se non credere? Essere ingan-
nati e credere da capo. Essere ancora ingannati, e credere ancora.
E, il martedì 18 maggio, tutte le sezioni del lager di Kengir
lasciarono la zona per recarsi al lavoro, facendosi ormai una
ragione dei propri morti.
E quella mattina tutto poteva ancora terminare tranquillamen-

346
te. Ma gli altolocati generali radunati a Kengir avrebbero con-
siderato un tale esito come una sconfitta. Non potevano ammet-
tere sul serio che i detenuti avessero ragione. Non potevano
punire sul serio dei militari della MVD. Il loro limitatissimo in-
telletto trasse dagli avvenimenti una lezione sola: le mura fra le
zone non erano sufficientemente difese. Bisognava installarvi
delle zone di fuoco.
Piene di zelo, le autorità misero al lavoro, per tutta quella
giornata, chi da anni e decenni si era disabituato a lavorare:
ufficiali e guardiani indossarono grembiali; chi sapeva come fare
prese in mano la cazzuola, i soldati non impegnati sulle torrette
spingevano le carriole, portavano il cemento; gli invalidi rimasti
nelle zone portavano e sollevavano i mattoni; Verso sera erano
già chiuse le brecce, rimessi a posti i lampioni rotti, lungo le
mura interne erano state tracciate delle strisce che sarebbe stato
proibito varcare e alle estremità furono poste delle sentinelle con
l'ordine di aprire il fuoco.
La sera, quando le colonne di detenuti, dopo aver dato il loro
contributo giornaliero di lavoro allo Stato, rientrarono nel lager,
furono mandate in fretta a cenare senza lasciar loro il tempo di
ritrovare lo spirito, allo scopo di rinchiuderle al più presto nelle
baracche. Secondo gli ordini del generale bisognava spuntarla
proprio quella prima sera - una sera di inganno troppo palese
dopo le promesse di ieri -, in seguito i detenuti si sarebbero
riabituali in qualche modo e sarebbero tornati in carreggiata.
Ma sull'imbrunire risuonarono, come la domenica precedente,
gli stessi acuti fischi da briganti: rimbalzavano tra la sezione 2 e
la 3 e sembrava una baldoria da teppisti (quei fischi erano
anch'essi una trovata dei delinquenti comuni, il loro apporto alla
causa comune). I guardiani tremarono e senza ultimare il giro
scapparono dalle zone. Un solo ufficiale (tenente dell'economato
Medvedev) indugiò e fu tenuto prigioniero fino al mattino.
Il lager rimase in mano ai detenuti,,, ma essi erano divisi.
Dalle torrette aprivano il fuoco su chi si avvicinava alle mura
interne. Numerosi zek furono uccisi, numerosi feriti. Di nuovo

347
tutti i lampioni furono fracassati con le fionde, ma dalle torrette
partivano razzi illuminanti. A questo punto alla sezione 2 tornò
comodo l'ufficiale dell'economato: fu legato a un tavolo — gli
rimaneva una sola spallina lacera -, spinto verso i reticolati e da
lì egli urlava ai suoi: « Non sparate, sono qui! Sono qui, non
sparate! ».
Con delle lunghe tavole si attaccò il filo spinato, si rovescia-
rono i paletti della prezona appena rimessi a posto, ma sotto il
fuoco non era possibile sfasciare il muro né arrampicarvisi sopra;
dunque, bisognava scavargli un cunicolo sotto. Furono messi in
azione coltelli e scodelle.
Nel corso di quella notte tra il 18 e il 19 maggio, furono
scavati passaggi sotto tutte le mura e ancora una volta furono
riunite tutte le sezioni del lager e l'economato. Oramai le torrette
avevano cessato di sparare, nei magazzini c'erano strumenti di
lavoro a sufficienza. Tutta la giornata di lavoro dei muratori con
le spalline andò sprecata. Al riparo della notte si spaccavano i
reticolati, si sfasciavano le mura e si allargavano le brecce perché
non diventassero delle trappole (nei giorni successivi, le
avrebbero allargate fino a raggiungere una ventina di metri).
Quella notte stessa praticarono una breccia anche verso la
sezione n. 4, quella della prigione. Il personale di sorveglianza
fuggì, chi verso le torrette dalle quali calarono delle scale, chi
verso il posto di guardia. I prigionieri saccheggiarono gli uffici
dei giudici istruttori. Furono liberati dalla prigione coloro a cui
domani sarebbe toccato capeggiare l'insurrezione; l'ex capitano
dell'Armata rossa Kapiton Kuznecov (allievo dell'Accademia
Frunze, non più giovane, dopo la guerra aveva comandato un
reggimento in Germania; uno dei suoi uomini si era rifugiato in
Occidente, e per questo era stato condannato; si trovava in
carcere per aver « denigrato la realtà del lager » in alcune lettere
inviate per mezzo di uomini liberi); l'ex tenente dell'Armata rossa
Gleb Slučenkov (a quel che si dice ex prigioniero di guerra e
vlasoviano).
La prigione « nuova » ospitava dei delinquenti comuni, abi-
tanti della cittadina di Kengir. Sulle prime pensarono che nel

348
paese fosse scoppiata una rivoluzione generale e accettarono con
esultanza l'inattesa libertà. Ma capirono subito che la rivoluzione
era troppo locale e tornarono docilmente nelle loro celle, dove
vissero onestamente, senza alcuna sorveglianza, per tutta la
durata dell'insurrezione, limitandosi ad andare a prelevare il cibo
alla mensa degli zek ribelli.
Gli zek ribelli! - che per ben tre volte avevano tentato di
respingere tanto quell'insurrezione quanto quella libertà. Non
sapevano come trattare simili doni e li temevano più che aspi-
rarvi. Ma erano di continuo gettati nella sommossa con l'inelut-
tabilità della risacca marina.
Cos'altro rimaneva loro? Credere alle promesse? Li avrebbero
nuovamente ingannati, com'era stato abbondantemente di-
mostrato il giorno precedente e anche prima. Piegare le ginoc-
chia? Lo avevano fatto per tutti quegli anni senza trovare mise-
ricordia. Chiedere di essere puniti il giorno stesso? - ma il
castigo, oggi come dopo un mese di vita libera, sarebbe stato
ugualmente crudele, inflitto com'era da gente i cui tribunali fun-
zionavano come macchine: se dovevano essere distribuiti dei
quartini, ebbene, li ricevessero tutti quanti, senza eccezione.
Si evade per gustare un giorno almeno di vita libera. E quindi
quegli ottomila uomini, più che insorgere, erano evasi verso la
libertà, foss'anche per un breve tempo. Da schiavi, ottomila
uomini erano divenuti di colpo liberi e si presentava loro l'occa-
sione di vivere. Facce abitualmente inasprite si addolcirono in
sorrisi bonari.1 Le donne videro gli uomini, e questi le presero
per mano. Coppie che avevano corrisposto per complicate vie
segrete, senza mai essersi viste, adesso facevano conoscenza.
Quelle lituane i cui matrimoni erano stati celebrati da sacerdoti
cattolici da una parte e dall'altra di un muro, ora videro i propri
mariti secondo le leggi della Chiesa; la loro unione era discesa
dal Signore sulla terra! Per la prima volta nella loro vita nessuno
impediva a membri di sette e credenti di riunirsi in preghiera.
Dispersi per tutte le zone, gli stranieri isolati ora si ritrovavano e
parlavano nella loro lingua di quella strana rivoluzione
1
Lo fa notare Makeev, che pure non era certo benevolmente disposto.

349
asiatica. Tutti gli approvvigionamenti del lager erano in mano ai
detenuti. Nessuno li cacciava più all'adunata e alla giornata di
lavoro di undici ore.
L'alba del 19 maggio si levò sopra un lager insonne, in sub-
buglio, un lager che si era strappato di dosso i numeri da collari
di cani che lo segnavano. Tra i reticolati pendevano i paletti con i
lampioni fracassati. I detenuti circolavano liberamente da una
zona all'altra, utilizzando i passaggi in trincea o facendone a
meno. Molti avevano indossato i loro indumenti « da libero »,
prelevati al deposito. Alcuni dei giovani si erano calcati in testa
alti berretti di montone o kubanki.* (Fra poco sarebbero apparse
le camicie ricamate, gli asiatici avrebbero indossato caffettani e
turbanti multicolori, il lager grigionero sarebbe fiorito.)
I piantoni giravano di baracca in baracca e convocavano tutti
alla grande mensa per l'elezione di una commissione: commis-
sione per le trattative con le autorità e l'autogestione del lager
(così aveva voluto chiamarsi, con timorosa modestia).
Forse si pensava di eleggerla per poche ore soltanto, ma era
destinata ad essere il governo del lager di Kengir per quaranta
giorni.
Se tutto questo fosse avvenuto due anni prima, i padroni dello
Steplag non avrebbero indugiato, se non altro per paura che lui
venisse a saperne qualcosa e avrebbero dato il solito ordine:
«Non risparmiare le cartucce! », e fatto mitragliare dall'alto delle
torrette tutta quella folla rinchiusa fra le mura. E se fosse stato
necessario farne fuori quattromila o anche ottomila, niente in
loro avrebbe tremato, perché ne erano incapaci.
Ma la complessità della situazione dell'anno 1954 li costrin-
geva a tergiversare. Lo stesso Vavilov, lo stesso Bockov avevano
avvertito certe nuove tendenze a Mosca. Anche qui si era già
sparato abbastanza, e ora bisognava studiare il modo di dare
un'apparenza di legalità a ciò che era stato. Si determinò così una
pausa, che consentì agli insorti di iniziare a vivere una vita nuova
e indipendente.
* Kubanka: berretto caucasico con bordo di pelliccia a calotta piatta.

350
Fin dalle prime ore bisognava definire la linea politica della
sommossa e di conseguenza il suo essere o non essere. O doveva
forse andare a rimorchio dei candidi manifestini tracciati su
pagine di giornale: « Ragazzi, dagli ai čekisti »?
Non appena uscito dal carcere, e in procinto di assumere -
spinto dalle circostanze, abitudine militare, consigli degli amici o
slancio interiore - la direzione del movimento, Kapiton Ivanovič
Kuznecov prese subito le parti e condivise il punto di vista dei
poco numerosi ortodossi* presenti a Kengir: « Farla finita con
quelle chiacchiere (i volantini), troncare lo spirito antisovietico e
controrivoluzionario di chi cerca di approfittare dei nostri eventi!
» (Cito queste espressioni secondo le note prese da un altro
membro della commissione, A.F. Makeev, sul contenuto di una
conversazione confidenziale che si era svolta nel magazzino da
Petr Akoev. Gli ortodossi annuivano alle parole di Kuznecov: «
Già, per volantini del genere, a noi altri, a noi tutti
appiopperanno nuove pene ».)
Fin dalle prime ore, era ancora notte, facendo il giro di tutte le
baracche e pronunciandovi discorsi su discorsi, fino ad averne la
voce rauca, e poi al mattino, alla riunione nella mensa, e più
volte ancora in seguito, il colonnello Kuznecov, trovandosi a
dover far fronte a stati d'animo estremi, all'asprezza di chi aveva
avuto la vita calpestata al punto di non avere più nulla da
perdere, non si stancò mai di ripetere:
« L'antisovietismo sarebbe la nostra morte. Se ora proclamas-
simo degli slogan antisovietici ci schiaccerebbero
immediatamente. Non aspettano altro che un pretesto per farlo.
Con simili volantini, forniremmo loro la giustificazione che gli
serve. La nostra salvezza è nel lealismo. Dobbiamo parlare con i
rappresentanti di Mosca come si conviene a dei cittadini
sovietici!»
E poi, a voce ancora più alta: « Non tollereremo un tale
comportamento da parte di singoli provocatori! ». (Bisogna dire
che mentre egli teneva quei discorsi, sui pancacci si abbraccia-
vano rumorosamente. Non si prestava una grande attenzione ai
suoi discorsi.)
* « Ortodossi » o « benpensanti » sono i comunisti dei lager che continuano a credere nel
partito. Si veda Arcipelago GUlag 2°, cap. XI.

351
È come se un treno vi trasportasse in una direzione diversa da
quella voluta e voi vi foste decisi a saltarne giù: sareste
comunque costretti a farlo seguendo il moto, e non contro di
esso. Sta in ciò l'inerzia della storia. Non tutti, di gran lunga non
tutti, erano d'accordo, ma la ragionevolezza di tale linea fu subito
capita e vinse. Ben presto vennero appesi in tutto il lager degli
slogan in grossi caratteri, ben leggibili dalle torrette e dai posti di
guardia:
« Viva la Costituzione sovietica! »
« Viva il Presidium del Comitato centrale! »*
« Viva il potere sovietico! »
« Esigiamo la presenza d'un membro del CC e la revisione dei
nostri casi! »
« Abbasso gli assassini di Berija! »
« Mogli degli ufficiali dello Steplag! Non vi vergognate di
essere le mogli di assassini? »
Sebbene per la maggioranza dei prigionieri di Kengir fosse
evidentissimo che i milioni di atti di repressione, vicini e lontani,
erano avvenuti sotto il sole melmoso di questa costituzione e
approvati da questo Politburo, non rimaneva loro altro che
scrivere: Viva questa costituzione e questo Politburo. Adesso,
rileggendo i motti, i detenuti ribelli si sentirono sotto i piedi la
terraferma della legge e cominciarono a rassicurarsi: il loro
movimento non era senza speranza.
Sopra alla mensa, nella quale si erano appena svolte le ele-
zioni, sventolò una bandiera visibile dall'intero abitato. Vi rimase
a lungo: fondo bianco, bordo nero, in mezzo la croce rossa del
servizio sanitario. Secondo il codice internazionale della marina
significava:
« SOS! Donne e bambini a bordo! »
A far parte della Commissione furono eletti dodici membri,
con a capo Kuznecov. La Commissione si specializzò subito e
creò delle sottocommissioni:
- agitazione e propaganda (diretta dal lituano Knopkus, punito
e trasferito dopo l'insurrezione di Noril'sk)
* Nel periodo dal 1952 al 1966 alla testa del partito, anziché il Politburo, vi fu un Presidium.

352
- economato
- alimentazione
- sicurezza interna (Gleb Slučenkov)
- militare
- tecnica, forse la più sorprendente di tutto questo governo di
lager.
All'ex maggiore Micheev furono affidati i contatti con le
autorità.
Faceva parte della Commissione anche uno dei caporioni dei
ladri, con certe determinate mansioni. V'erano anche alcune
donne (evidentemente la Sachnovskaja, una economista, membro
del partito, già coi capelli grigi; la Suprun, un'anziana insegnante
che era originaria della Russia subcarpatica; Ljuba Bersadskaja).
Entrarono a far parte della Commissione i veri ispiratori
dell'insurrezione? Certamente no. I centri, in particolar modo
quello ucraino (nell'intero lager i russi costituivano meno d'un
quarto), continuarono evidentemente a esistere per conto loro.
Michail Keller, un partigiano ucraino che, dal 1941, aveva com-
battuto ora contro i tedeschi ora contro i sovietici e a Kengir
aveva pubblicamente ammazzato un delatore, veniva ad assistere
alle riunioni della Commissione in qualità di silenzioso osser-
vatore di quell'altro Stato maggiore.
La Commissione lavorava apertamente nell'ufficio del reparto
femminile, mentre la sottocommissione militare aveva trasferito
il proprio posto di comando (il quartier generale da campo) ai
bagni della sezione 2. Le sottocommissioni si misero al lavoro. I
primi giorni furono particolarmente animati: bisognava inventare
e organizzare ogni cosa.
Anzitutto bisognava fortificarsi. (Micheev, il quale si atten-
deva l'inevitabile repressione militare, era contrario alla crea-
zione di qualsiasi postazione difensiva. Furono Slučenkov e
Knopkus a insistere.) Molti mattoni erano stati recuperati con
l'apertura delle larghe brecce nei muri interni. Ne furono fatte
delle barricate, erette davanti a tutti i posti di guardia, ossia
davanti a tutte le uscite (e entrate dal di fuori) rimaste in mano

353
alle guardie, ognuna delle quali poteva essere aperta in ogni
momento per lasciar passare i reparti punitivi. All'amministra-
zione si trovarono rotoli di filo spinato a sufficienza. Se ne fecero
delle spirali che vennero distribuite nelle direzioni minacciate.
Non si trascurò neppure di sistemare bene in vista, qua e là,
cartelli di avvertimento: « Attenzione! Mine! ».
Questa fu precisamente una delle prime imprese della sotto-
commissione tecnica. Si creò intorno al suo lavoro una fitta
atmosfera di mistero. La sottocommissione installò,
nell'economato, dei locali segreti, sulle porte dei quali erano
disegnati un teschio e delle ossa incrociate con la scritta «
Tensione 100.000 volt ». Vi erano ammesse soltanto le poche
persone che vi lavoravano. Neppure i detenuti sapevano più che
cosa stesse facendo la sottocommissione tecnica. Ben presto si
sparse la voce che stava mettendo a punto un'arma segreta di tipo
chimico. Poiché tanto i detenuti quanto i padroni sapevano
benissimo quanti ingegneri di vaglia ci fossero lì dentro, si
diffuse facilmente la superstiziosa convinzione che fossero
capaci di tutto, anche di inventare un'arma non ancora inventata
a Mosca. Quanto a fabbricare delle inezie come le mine con i
reagenti trovati nei depositi, cosa ci voleva? Così le scritte «
Mine! » furono prese sul serio.
Fu inventata anche un'altra arma: casse piene di vetro maci-
nato all'ingresso di ciascuna baracca (da gettare negli occhi dei
mitraglieri).
Le brigate furono lasciate com'erano, ma presero il nome di «
plotoni », le baracche di « reparti » e furono nominati i
comandanti di reparto, sottoposti alla sottocommissione militare.
A capo di tutte le sentinelle fu messo Michail Keller. Dei pic-
chetti occuparono, secondo un organigramma preciso, tutti i
punti minacciati, e venivano rafforzati durante le ore notturne.
Tenendo conto della peculiarità della psicologia maschile, per
cui un uomo non fuggirebbe in presenza d'una donna e
comunque si comporterebbe più coraggiosamente, i picchetti
erano misti. E tra le donne, a Kengir, non solo ce n'erano molte
forti di gola, ma se ne trovarono non poche di fegato, soprattutto fra

354
le ragazze ucraine, che costituivano la maggioranza nella sezione
femminile.
Senza più attendere la buona volontà del padrone, si cominciò
a togliere le inferriate dalle finestre delle baracche. Nei primi due
giorni, fino a quando i padroni non pensarono bene di disinserire
la rete elettrica del lager, le macchine utensili delle officine
lavorarono a pieno ritmo e con le sbarre di quelle inferriate si
fabbricarono numerose lance dall'estremità affilata. In generale,
in quei primi giorni le fucine sfornarono armi a getto continuo:
coltelli, asce-alabarde e spade, predilette dai delinquenti comuni
(per maggior effetto appendevano all'elsa bubboli di pelle
colorata). Si videro anche delle mazze snodate.
Con le lance in spalla i picchetti raggiungevano le loro posta-
zioni per la notte. Anche i plotoni femminili, che si trasferivano
per la notte nella zona maschile a prendere posto nelle baracche
in settori ad essi riservate, per uscirne, in caso di allarme,
incontro agli assalitori (si presumeva ingenuamente che i boia
avrebbero esitato a schiacciare delle donne), marciavano irti di
punte di lance.
Tutto ciò sarebbe stato impossibile, sarebbe crollato sotto il
peso della derisione o della lussuria, se non fosse stato protetto
dall'aria austera e pura dell'insurrezione. Lance e spade, agli
occhi della nostra epoca, non erano altro che giocattoli ma la
prigione non era affatto un gioco per questa gente, la prigione
dalla quale erano usciti e quella che li attendeva. Delle lance per
giocarci, ma avevamo avuto dalla sorte almeno questo!, questa
prima possibilità di difendere la nostra libertà. Nell'atmosfera
puritana dei primi giorni di una rivoluzione, quando anche la
presenza della donna sulla barricata diventa un'arma, uomini e
donne si comportavano in maniera dignitosa e dignitosamente
sfilavano, le lance puntate verso il cielo.
Se in quei giorni c'era qualcuno che puntava sulla più bassa
sensualità, erano i padroni dalle spalline azzurre, là, dall'altra
parte della zona. Il loro calcolo era che i detenuti, abbandonati a
se stessi per una settimana, sarebbero affondati nella deprava-
zione. Ed è in questi termini che riferivano gli avvenimenti agli
abitanti della cittadina: i detenuti si erano ribellati allo scopo

355
di darsi alla libidine. (Naturalmente: che altro poteva mancare ai
galeotti nella loro agiata esistenza?)1
Le autorità contavano soprattutto sul fatto che i delinquenti
comuni avrebbero violentato le donne, i politici le avrebbero
difese e così sarebbe incominciata una carneficina. Ma anche qui
gli psicologi della MVD si sono sbagliati! e la cosa desta anche la
nostra sorpresa. Tutto indica che i ladri si comportarono da
uomini, ma non nell'accezione che questa parola riveste
tradizionalmente da loro, bensì nella nostra. Peraltro tanto i
politici che le stesse donne li trattavano con marcata amicizia e
fiducia. Né possiamo penetrare ragioni ancor più segrete. Forse i
ladri non avevano dimenticato i sanguinosi sacrifici della prima
domenica. Se si può attribuire una forza all'insurrezione di
Kengir, questa stava nell'unità.
I ladri non toccarono neppure il deposito di viveri, e questo
non è meno sorprendente per chi conosce l'ambiente. Sebbene il
deposito contenesse provviste per diversi mesi, la Commissione,
dopo varie consultazioni, decise di mantenere le medesime
razioni di prima sia per il pane che per le altre vettovaglie. Paura
di sudditi ligi di mangiare troppo cibo dell'amministrazione e di
dover poi rispondere del delitto di dilapidazione! Come se in
tanti anni di fame lo Stato non si fosse indebitato nei confronti
dei prigionieri! Al contrario (ricorda Micheev), essendo venute a
mancare certe derrate fuori dalla zona, gli economi della
direzione chiesero che fossero cedute dalle scorte del lager. C'era
della frutta, per le razioni supplementari (da distribuire ai liberi!)
e i detenuti la consegnarono!
La contabilità del lager consegnava le derrate secondo le
norme solite, la cucina le riceveva, le cucinava, ma - effetto del
nuovo clima rivoluzionario — non le rubava e nessun inviato dei
comuni si presentava più con l'ordine di metterne da parte per gli
uomini. E i pridurki non avevano più diritto a una mestolata
supplementare. Risultò improvvisamente che con le stesse norme
il cibo era diventato notevolmente più abbondante.
1
Domata l'insurrezione i padroni non si peritarono di sottoporre tutte le donne a un esame
medico. Trovandone molte vergini si stupivano: ma come? perdersi una simile occasione? tanti
giorni insieme!... Giudicavano i fatti al loro livello.

356
Se anche i comuni vendevano della roba (roba rubata prece-
dentemente e altrove), avevano smesso di ripresentarsi subito
dopo, com'era loro abitudine, per riprendersela. « Non è più aria,
adesso », dicevano...
Perfino gli spacci dell'Ufficio approvvigionamento operai
(ORS) locale continuarono il loro commercio nelle zone. Il
quartier generale assicurò l'incolumità alla cassiera (una
lavoratrice libera). Era autorizzata a entrare nella zona senza
guardiani e qui, accompagnata da due ragazze, faceva il giro di
tutti i punti di vendita e raccoglieva i buoni dai venditori. (Ma
naturalmente i buoni si esaurirono presto, e i padroni non
permisero che gli spacci fossero riforniti di nuove merci.)
I padroni mantenevano il controllo di tre forniture delle zone:
l'elettricità, l'acqua, i medicinali. L'aria, come è noto, non
dipendeva da loro. Quanto ai medicinali, in quaranta giorni non
entrò nel lager neppure una pillola, non una sola goccia di
tintura di iodio. L'elettricità fu tagliata dopo due o tre giorni. La
conduttura dell'acqua non fu toccata.
La sottocommissione tecnica intraprese la battaglia per la
luce. Prima escogitarono di lanciare con forza sulla linea elettrica
che correva all'esterno della zona dei piccoli ganci montati su fil
di ferro molto sottile: per qualche giorno fu così rubata la
corrente, finché le prese non vennero scoperte e tagliate. Nel
frattempo i tecnici avevano avuto il tempo di provare un motore
a vento, di rinunziarvi e di montare nell'amministrazione (in un
punto nascosto all'osservazione delle torrette e degli aerei U-2
nei loro passaggi a volo radente) una centrale idroelettrica azio-
nata... dall'acqua del rubinetto. Un motore trovato lì nell'ammi-
nistrazione fu convertito in generatore e in questo modo furono
alimentate la rete telefonica interna, l'illuminazione del quartier
generale e... la radio trasmittente! Per l'illuminazione delle ba-
racche si usavano invece candele... Questa centrale idroelettrica,
unica nel suo genere, funzionò fino all'ultimo giorno della
rivolta.
All'inizio dell'insurrezione i generali entravano nella zona da
padroni. Vero è che Kuznecov non fu da meno: nel corso delle
prime trattative fece portar fuori dall'obitorio i corpi degli uccisi
e ordinò ad alta voce: « Scoprirsi la testa ». I detenuti
357
si scoprirono e anche i generali furono costretti a togliersi i
berretti militari davanti alle proprie vittime. Ma nel complesso
l'iniziativa rimase al generale del GULag Bockov. Dopo aver
approvato l'elezione della Commissione (« è davvero impossibile
discutere con tutti insieme »), egli esigette che i delegati alle
trattative parlassero anzitutto del proprio caso giudiziario (e
Kuznecov si mise a esporre il suo, dettagliatamente e forse non
senza piacere); e che gli zek, prendendo la parola, si alzassero in
piedi. Quando qualcuno disse: « I detenuti esigono... » Bockov
replicò con foga: « Dei detenuti possono solamente pregare, non
esigere! ». E si stabilì la forma: « i detenuti pregano ».
Alle preghiere dei detenuti Bockov rispose con una lezione
sull'edificazione del socialismo, l'incredibile ascesa dell'econo-
mia nazionale, i successi della rivoluzione cinese. Di nuovo,
invariabilmente pago di sé, quest'avvitamento obliquo della vite
nel cranio, che ci fiacca sempre e ci fa ammutolire... Bockov era
venuto nella zona per spiegarci le ragioni per cui le armi erano
state usate, e giustamente (presto avrebbero invece dichiarato che
nel lager non c'era stata nessuna sparatoria, che erano tutte
menzogne di banditi, e che nessuno era stato picchiato). Addi-
rittura si stupì che si osasse chiedergli di infrangere « il regola-
mento sulla detenzione in luoghi distinti di prigionieri e prigio-
niere ». (Vi parlano dei loro regolamenti come se si trattasse di
leggi eterne, anteriori alla creazione del mondo.)
Non passò molto tempo che i Douglas scaricarono nuovi e
anche più eccelsi generali: Dolgich (a quel tempo, a quanto
pareva, capo del GULag) e Egorov (vice ministro della MVD
dell'uRss). Fu organizzata un'assemblea generale alla mensa, e vi
afiuirono poco meno di duemila persone. Kuznecov comandò: «
Attenzione! In piedi! Attenti! » e con deferenza invitò i generali
a prendere posto al tavolo della presidenza, rimanendo da
subordinato in disparte. (Diversa fu la condotta di Slučenkov.
Quando uno dei generali si lasciò sfuggire un accenno ai nemici
che si trovavano lì, egli replicò loro con voce sonora: « E dite un
po', di voi chi in definitiva non è risultato essere un nemico?
Jagoda: un nemico, Ežov: un nemico, Abakumov: un nemico,
Berija: un nemico. Chi ci dice che Kruglov sia meglio? ».)

358
Makeev, a giudicare dalle sue annotazioni, aveva compilato
un progetto d'accordo in base al quale le autorità promettevano di
non trasferire né reprimere nessuno e di aprire un'inchiesta,
mentre gli zek, quale contropartita, acconsentivano a riprendere
immediatamente il lavoro. Tuttavia quando lui e i suoi sostenitori
iniziarono il giro delle baracche proponendo di accettare il
progetto, gli zek li tacciarono di « komsomoliani dai crani rasati
», « incaricati dell'ammasso » e « lacchè dei čekisti ». Il progetto
di accordo fu accolto in modo particolarmente ostile nella
sezione delle donne, oramai era particolarmente inaccettabile per
gli zek l'idea di dover tornare alla separazione in zone maschili e
zona femminile. (Makeev, incollerito, rispondeva ai suoi
obiettori: « Perché hai palpato le tette della tua Parasa, credi che
sia fatta, che sia la fine del potere sovietico? Il potere sovietico,
stanne certo, si farà ancora valere! ».)
Passavano i giorni. Non distogliendo mai gli occhi dalla zona
- occhi di soldati dall'alto delle torrette, occhi di guardiani (i
guardiani, che conoscevano di faccia gli zek, avrebbero dovuto in
seguito identificarli e ricordare che cosa facevano) e perfino
occhi di piloti (forse anche riprese aeree) -, i generali dovettero
riconoscere con dispiacere che nella zona non avvenivano mas-
sacri, né pogrom, né stupri, che il lager non si stava sfasciando
per conto suo e che non c'era alcun motivo per chiamare delle
truppe in aiuto.
Il lager restava in piedi e le trattative mutarono carattere. Le
spalline dorate, variamente combinate, continuavano a visitare la
zona per convincere e discutere. Venivano lasciati entrare tutti,
ma per poter entrare dovevano inalberare una bandiera bianca e,
dopo aver varcato il posto di guardia dell'amministrazione,
divenuto ora l'entrata principale del lager, assoggettarsi a una
perquisizione, proprio davanti alla barricata: qui una giovane
ucraina in giubbotto palpava le tasche dei generali per assicurarsi
che, delle volte, non vi fosse una pistola o una granata. In
compenso il quartier generale degli insorti garantiva loro
l'incolumità personale!...
I generali venivano accompagnati nei posti non vietati (non
nella zona segreta dell'amministrazione, naturalmente) e si per-

359
metteva loro di conversare con gli zek, radunando anzi per essi
grandi assemblee generali nelle varie sezioni. In un baluginio di
spalline i padroni prendevano posto al tavolo della presidenza,
come prima, come se nulla fosse.
Anche i detenuti facevano intervenire degli oratori. Ma come
era difficile parlare! non soltanto perché ognuno, col suo discor-
so, firmava la propria futura condanna, ma anche perché esi-
stevano troppe divergenze tra i Grigi e i Celesti riguardo alle idee
sulla vita, alla concezione della verità: e non c'era oramai quasi
alcuna possibilità di commuovere o illuminare quei panzoni
prosperi, quelle zucche lucenti. Li fece arrabbiare molto un
vecchio operaio di Leningrado, un comunista che aveva preso
parte alla rivoluzione. Che comunismo ci potrà mai essere,
domandò, se gli ufficiali se la spassano nell'amministrazione, si
fanno fabbricare, per il loro bracconaggio, pallini da caccia con il
piombo rubato alla fabbrica di arricchimento dei minerali; se un
capo di lager, quando si lava ai bagni, fa stendere tappeti e
suonare un'orchestra?
Per ridurre al minimo simili chiacchiere sconclusionate, gli
incontri assunsero anche la forma diretta, esemplata su un mo-
dello altamente diplomatico: un giorno di giugno si dispose nella
zona femminile una lunga tavola; da un lato si sistemarono su
una panca le spalline d'oro, in piedi dietro a loro i mitraglieri,
ammessi a proteggerli. Dall'altro lato si sedettero i membri della
Commissione, anch'essi con le loro brave guardie del corpo,
schierate gravemente con tanto di spade, lance e fionde. Più in là
si accalcavano i detenuti per sentire quel che si diceva al
Consiglio e commentare con grida. (E non mancò neanche il
rinfresco! le serre dell'economato fornirono cetrioli freschi e le
cucine del kvas. Le spalline dorate sgranocchiavano i cetrioli
senza imbarazzo...)
Le richieste-preghiere degli insorti, formulate fin dai primi
due giorni, venivano ora regolarmente ripetute:
- punizione dell'assassino dell'evangelico;
- punizione di tutti i colpevoli degli assassinii perpetrati al-
l'amministrazione nella notte fra domenica e lunedì;
- punizione di quelli che avevano pestato le donne;

360
- ritorno al lager dei compagni illegalmente puniti per lo
sciopero con la reclusione in prigioni d'isolamento;
- abolizione dei numeri, delle inferriate alle finestre delle
baracche, della chiusura a chiave delle baracche;
- abolizione definitiva delle mura interne (che erano state
abbattute) fra le varie sezioni del lager;
- giornata lavorativa di otto ore, come per i lavoratori liberi;
- aumento della remunerazione del lavoro (non si parlava
nemmeno di parità con le paghe dei liberi);
- libera corrispondenza con i familiari e qualche visita;
- revisione dei casi giudiziari.
Sebbene nessuna delle richieste scuotesse le fondamenta dello
Stato né contraddicesse la Costituzione (e molte costituissero
semplicemente il ritorno a una situazione precedente), per i
padroni era impossibile accettare anche la più trascurabile di
esse: perché quelle pingui nuche rasate, quei crani calvi e quei
berretti avevano da tempo perso l'abitudine di riconoscere un
proprio errore o una propria colpa. E per essi la verità era
esecranda e irriconoscibile, se proveniva non dalle « istruzioni »
segrete delle superiori istanze, ma dalla bocca del popolo
ignorante. Ma quell'assedio attorno a un lager di ottomila
persone che continuava a protrarsi gettava una macchia sulla
reputazione dei generali, poteva nuocere alla loro posizione, e
perciò essi promettevano. Promettevano che quasi tutte quelle
richieste sarebbero state accolte, soltanto (ed era verosimile)
sarebbe stato difficile lasciare aperta la zona delle donne, non era
lecito (come se fosse stato diversamente nei vent'anni di ITL); ma
si sarebbe potuto trovare il modo di organizzare dei giorni di
incontri. Quanto a cominciare a far funzionare nella zona la
commissione d'inchiesta (sulle circostanze delle sparatorie), i
generali inaspettatamente acconsentirono subito. (Ma Slučenkov
mangiò la foglia e insistette perché la cosa non avesse seguito:
col pretesto della testimonianza i delatori avrebbero spifferato
tutto quanto avveniva nella zona.) La revisione dei casi giudi-
ziari? Perché no, certamente l'avrebbero fatto, solo, bisognava
aspettare un poco. Quello che invece era assolutamente urgente,
era la ripresa, la ripresa, la ripresa del lavoro!

361
Questo, gli zek lo capivano benissimo: in colonne per cinque,
a terra sotto la minaccia delle armi, arresto degli istigatori.
No, rispondevano dall'altro lato del tavolo e dalla tribuna. No!
urlavano dalla folla. La direzione dello Steplag si è comportata in
modo provocatorio! Non crediamo ai dirigenti dello Steplag!
Non crediamo alla MVD!
« Non credete neppure alla MVD? » stupiva il vice ministro,
asciugandosi la fronte affranta da parole così sovversive. « Chi vi
ha ispirato tanto odio per la MVD?? »
Indovinalo un po'.
« Un membro del Presidium del CC! Un membro del Presi-
dium. Allora ci crederemo! » gridavano i detenuti.
« Badate! » minacciavano i generali. « Sarà peggio! »
Ma a questo punto si alzava Kuznecov. Parlava in modo coe-
rente, con facilità e aveva un atteggiamento fiero.
« Se doveste entrare nella zona armati, » ammoniva, « non
dimenticate che la metà delle persone presenti erano alla con-
quista di Berlino. Si impadroniranno anche delle vostre armi! »
Kapiton Kuznecov! Il futuro storico dell'insurrezione di Ken-
gir ci spiegherà quest'uomo. Come interpretava il proprio arresto,
cosa sentiva? Come vedeva il proprio caso? Da quanto tempo ne
aveva chiesto la revisione, se appunto nei giorni della sommossa
ricevette da Mosca la liberazione (e con essa, pare, la
riabilitazione)? Era solamente un riflesso professionale di
militare, quest'orgoglio di mantenere un tale ordine nel lager in
rivolta? Si era messo a capo del movimento perché ne era stato
conquistato? (Lo nego.) Oppure, conoscendo la propria attitudine
al comando, per moderarlo, incanalarlo e depositarne l'onda
domata sotto lo stivale delle autorità? (È ciò che penso.) Durante
gli incontri, le trattative e per mezzo di personaggi di secondo
piano, egli aveva la possibilità di trasmettere ai nostri aguzzini
ciò che voleva far loro sapere e di apprendere da loro quanto gli
occorreva. Per esempio in giugno fu mandato fuori dalla zona,
incaricato dalla Commissione di certe trattative, quel dritto di
Markosjan. Approfittò di tale occasione Kuznecov? Lo
riconosco: può anche darsi che non lo fece. La sua posizione può
essere anche stata indipendente, fiera.

362
Due guardie del corpo, due giganteschi giovanotti ucraini, il
coltello nella cintura, accompagnavano sempre Kuznecov.
Per proteggerlo? Per farlo eventualmente fuori?
(Makeev sostiene che nei giorni dell'insurrezione Kuznecov
aveva anche una moglie temporanea, una banderista anche lei.)
Gleb Slučenkov aveva una trentina d'anni. Dunque era stato
preso prigioniero dai tedeschi quando ne aveva circa diciannove.
Adesso indossava come Kuznecov la sua divisa militare d'una
volta, recuperata nel deposito, e mostrava, anzi ostentava, un
portamento militare. Zoppicava appena, ma compensava il di-
fetto con una grande mobilità.
Durante le trattative si dimostrò reciso e brusco. Le autorità
avevano avuto l'idea di invitare gli « ex minorenni » (imprigio-
nati prima dei 18 anni, ormai qualcuno ne aveva 20-21), a la-
sciare la zona, per liberarli. Probabilmente non si trattava di un
inganno, verso quell'epoca ne venivano infatti liberati un po'
dappertutto, oppure venivano loro ridotte le pene. Slučenkov
chiese: « Avete chiesto agli ex minorenni se vogliono passare da
una zona all'altra e abbandonare i compagni nella disgrazia? ».
(E di fronte alla Commissione insisteva: « I minorenni sono la
nostra guardia, non possiamo darglieli! ». E anche per i generali
era indubbiamente questo il senso riposto della liberazione di
quei giovani nei giorni della ribellione; andate poi a sapere se
non li avrebbero smistati per le varie prigioni fuori dalla zona!) Il
ligio Makeev cominciò tuttavia a raggruppare gli ex minorenni in
vista di un « tribunale di liberazione »: dei quattrocentonove che
avrebbero potuto essere liberati, secondo la sua testimonianza, si
arrivò a raccoglierne solo tredici disposti ad andarsene. Tenendo
conto della simpatia di Makeev per le autorità e della sua ostilità
per la sommossa, Una simile testimonianza lascia davvero di
stucco: 400 giovani, nel fiore degli anni, per lo più non politici,
rifiutarono non solo la libertà ma anche la salvezza!, e rimasero
in una rivolta condannata...
Alle minacce di schiacciare l'insurrezione con le truppe Slu-
čenkov rispose così ai generali: « Mandatele pure. Mandate più
mitraglieri che potete! Gli getteremo del vetro macinato negli
occhi, prenderemo loro i mitra! Sbaraglieremo la vostra guarni-

363
gione di Kengir! I vostri ufficiali dalle gambe storte ve li ripor-
teremo fino a Karaganda, entreremo in città a dorso d'ufficiale. E
là, a Karaganda, è pieno di gente come noi ».
Si può ben credere anche ad altre testimonianze che lo
riguardano. « Per chi fugge un colpo in pieno petto! » diceva
brandendo un coltello a serramanico. Nella baracca dichiarava: «
Tutti quelli che non usciranno a battersi si prenderanno una
coltellata! ». Inevitabile logica di ogni potere militare e di ogni
situazione di guerra...
Il neonato governo del lager, come ogni governo da che
mondo è mondo, non poteva esistere senza un servizio di sicu-
rezza e Slučenkov ne prese il comando (si installò nell'ufficio del
čekista della sezione femminile). Poiché una vittoria sulle forze
esterne era impensabile, Slučenkov si rendeva conto che quel
posto avrebbe significato un'inevitabile condanna a morte. Nel
corso della sommossa egli raccontò ai detenuti di aver avuto dai
padroni una proposta segreta: provocare dei massacri fra le varie
nazionalità (le spalline d'oro ci contavano parecchio) e offrire
così un pretesto plausibile per le irruzioni delle truppe nel lager.
In cambio i padroni promettevano a Slučenkov la vita salva. Egli
rifiutò la proposta. (A chi altri ancora avevano potuto fare delle
proposte, e quali? Comunque non ne fecero parola.) Non solo,
ma quando nel lager si sparse la voce che era imminente un
pogrom degli ebrei, Slučenkov ammonì che avrebbe
personalmente fustigato i propagatori di questa voce. Che si
spense subito.
Era inevitabile un conflitto fra Slučenkov e i benpensanti. Ed
è quanto accadde. Occorre premettere che in tutti quegli anni e in
tutti i lager gli ortodossi,* anche senza mettersi d'accordo,
condannavano unanimemente l'eccidio dei delatori e ogni lotta
dei detenuti per i propri diritti. Senza ascrivere il fatto a basse
considerazioni (non pochi ortodossi erano al servizio dei
padrini), lo si può spiegare benissimo con le loro vedute
teoriche. Essi ammettevano qualsivoglia forma di repressione e
annientamento, anche di massa, purché provenisse
* O «benpensanti»: si veda nota a p. 351

364
dall'alto, come manifestazione della dittatura del proletariato. Le
medesime azioni, ma provenienti dal basso, compiute per slancio
spontaneo, isolate, per essi non erano altro che banditismo, per di
più della varietà banderista (fra i benpensanti non ve n'era uno
solo che ammettesse il diritto dell'Ucraina alla secessione,
sarebbe stato nazionalismo borghese). Il rifiuto del lavoro da
schiavi da parte dei galeotti, l'indignazione per le fucilazioni e le
inferriate amareggiarono, afflissero e spaventarono i comunisti
del lager.
Fu così anche a Kengir: l'intero nido dei benpensanti (Gen-
kin, Apfelzweig, Talalaevskij, probabilmente Akoev, non cono-
sciamo altri nomi; inoltre un simulatore che aveva passato degli
anni nell'infermeria fingendo che la sua gamba « circolasse » [un
tale sistema intellettuale di lotta era invece tollerato dai
benpensanti]; e, in seno alla Commissione, dichiaratamente,
Makeev) non smise un momento di recriminare: prima: « non
bisognava incominciare »; quando furono chiuse le brecce: non
bisognava scavarci sotto; tutta quell'impresa era stata ideata dalla
feccia banderista, e adesso bisognava cedere al più presto. (E poi,
insomma, quei sedici uccisi non erano neanche della loro
sezione, e quanto all'evangelico era addirittura ridicolo piangerci
sopra.) Nei ricordi di Makeev si riflette tutta la loro irritazione di
settari. Tutto intorno va a rotoli, tutti sono malvagi, il pericolo li
minaccia dappertutto: da parte delle autorità, un supplemento di
pena, da parte dei banderisti una coltellata nella schiena. «
Vorrebbero impaurire tutti con i loro pezzi di ferro e obbligarci a
perire. » L'insurrezione di Kengir è definita con rabbia « un
gioco sanguinoso », « un falso atout », « esibizione dilettantesca
» dei banderisti e, più spesso, « festa di nozze ». Come scopi e
speranze dei capi dell'insurrezione egli non vede altro che la
libidine, il desiderio di non lavorare e di ritardare l'inevitabile
rappresaglia. (Rappresaglia sottintesa come giustificata.)
Tutto ciò esprime molto fedelmente l'atteggiamento dei ben-
pensanti nei confronti dell'intero movimento di liberazione dei
lager negli anni Cinquanta. Ma Makeev era oltremodo cauto, si
atteggiava addirittura a dirigente della sommossa, mentre

365
Talalaevskij diffondeva questi stessi rimproveri ad alta voce,
tanto che il servizio di sicurezza di Slučenkov, per agitazione
ostile agli insorti, lo chiuse in una cella della prigione di Kengir.
Proprio così. I detenuti insorti che avevano liberato la pri-
gione adesso ne istituivano una loro. Eterna derisione. Vero è che
in tutto furono incarcerate per vari motivi (rapporti con i padroni)
non più di quattro persone e nessuna di queste fu fucilata (al
contrario, in questo modo, fu loro fornito il miglior alibi di fronte
alla direzione).
Ma generalmente la prigione, specie la vecchia e oscura pri-
gione costruita negli anni Trenta, veniva piuttosto esibita che
utilizzata: si mostravano le celle individuali prive di finestre, con
un piccolo spiraglio in alto; i giacigli senza piedi, ossia sempli-
cemente delle assi di legno poste per terra, sul pavimento di
cemento, dove faceva ancora più freddo e umido che nel resto
della fredda cella; accanto al « letto », ossia sul pavimento, come
per un cane, una rozza scodella di terraglia.
Divenne meta di visite guidate, organizzate dalla
sottocommissione della propaganda per quelli tra i detenuti che
non avevano avuto modo di soggiornarvi e che ormai, forse, non
ne avrebbero avuto più l'occasione; vi accompagnarono anche i
generali (non ne furono particolarmente impressionati). Si chiese
loro di mandarci in escursione un gruppo di lavoratori liberi della
cittadina: tanto, senza i detenuti, non potevano lavorare nei
cantieri. E i generali si dettero addirittura la pena di far venire un
tal gruppo, non di semplici lavoratori, s'intende, ma di personale
scelto con cura che non trovò alcun motivo di indignazione.
In contraccambio le autorità proposero un'escursione di de-
tenuti a Rudnik (suddivisioni 1 e 2 dello Steplag) dove, secondo
voci che circolavano nel lager, era scoppiata una sommossa (a
proposito, la parola sommossa o peggio ancora insurrezione ve-
niva evitata, per considerazioni diverse, sia dagli schiavi che dai
loro padroni, ed era sostituita da una parola pudicamente
attenuata: « chiassata », sabantuj.*) Vi si recò una delegazione
* Propriamente, presso tatari e baškiri, festa popolare in occasione della fine dei lavori
campestri di primavera.

366
e potè convincersi che, in effetti, tutto procedeva come prima: i
ragazzi andavano al lavoro.
Molte speranze erano riposte nell'estendersi di scioperi ana-
loghi! La delegazione, di ritorno, portò con sé lo scoraggiamento.
(Li avevano portati a Rudnik appena in tempo. Rudnik, natu-
ralmente, era davvero in subbuglio, dai lavoratori liberi avevano
sentito, a proposito della sommossa di Kengir, fatti veri mesco-
lati a fandonie. In quello stesso mese di giugno avvenne che
molti detenuti si erano visti rifiutare le domande di revisione dei
casi. E un ragazzo mezzo matto era stato ferito nella zona vietata.
Cominciò uno sciopero anche là, vennero abbattuti i cancelli fra
le sezioni del lager, la « linea » fu invasa. Delle mitragliatrici
apparvero sulle torrette. Qualcuno appese un cartello con motti
antisovietici e l'appello « Libertà o morte! ». Fu tolto e sostituito
da un cartello con richieste legittime e l'impegno di compensare
interamente le perdite dovute alla sospensione del lavoro non
appena le richieste fossero state accolte. Arrivarono dei camion
per caricare della farina dal magazzino: ne furono impediti. Lo
sciopero durò una settimana, ma non si hanno informazioni
esatte al riguardo, tutto è di terza mano e probabilmente
esagerato.)
In generale, ci furono delle settimane in cui tutta la guerra si
trasformò in guerra di propaganda. La radio esterna non taceva
mai: per mezzo di diversi altoparlanti, posti intorno al lager,
alternava appelli ai detenuti, informazioni, disinformazioni e uno
o due dischi gracidanti e monotoni che mettevano a dura prova i
nervi di tutti:

Va pel campo la fanciulla


la fanciulla, le cui trecce io amo.

(Del resto, perfino per meritare questo misero onore - di


sentire suonare un disco, - c'era voluta un'insurrezione! Quando
stavamo in ginocchio, non ci suonavano niente, neanche quella
porcheria.) Questi stessi dischi, perfettamente nello spirito del se-
colo, fungevano anche da disturbatori delle emissioni
provenienti dal lager e destinate alle truppe di scorta.

367
Alla radio esterna ora denigravano il movimento nel suo in-
sieme assicurando che era stato iniziato all'unico scopo di vio-
lentare le donne e darsi al saccheggio. (Nel lager i detenuti ne
ridevano, ma non dimentichiamo che anche gli abitanti liberi
della cittadina udivano gli altoparlanti. D'altronde i nostri schia-
visti non potevano innalzarsi fino a un'altra spiegazióne; da parte
loro sarebbe equivalso a raggiungere delle altezze inaccessibili
ammettere che quella feccia era capace di aspirare alla giustizia.)
Ora tentavano di raccontare qualcosa d'ignominioso sui membri
della Commissione (perfino su un capo dei ladri: trasferito a
Kolyma su un barcone avrebbe aperto un foro nella stiva facendo
affondare l'imbarcazione insieme a trecento detenuti. Si insisteva
sul fatto che a far affogare i poveri detenuti, addirittura tutti
Cinquantotto, era stato proprio lui e non la scorta; né si capiva
bene come fosse riuscito a salvarsi). Ora tormentavano
Kuznecov annunciando che l'ordine della sua liberazione era
arrivato ma che ormai era stato annullato. Poi, di nuovo, appelli:
al lavoro! al lavoro! Perché la Patria dovrebbe mantenervi? non
lavorando recate un danno immenso allo Stato! (Slogan inteso a
trafiggere cuori di uomini condannati alla galera perpetua!)
Convogli interi di carbone sono bloccati, non c'è nessuno per
scaricarli! (Stiano pure fermi, ridevano i detenuti, cederete
prima! Ma neppure a loro veniva in mente che le spalline d'oro
potevano anche scaricarli da sé, visto che ne soffrivano tanto.)
Tuttavia la sottocommissione tecnica non fu da meno. Nei
magazzini si trovarono due apparecchiature cinematografiche
mobili. I loro amplificatori furono usati come altoparlanti, natu-
ralmente di potenza ridotta. Erano alimentati dalla stazione
idroelettrica segreta. (La presenza della corrente elettrica e della
radio presso gli insorti meravigliò e inquietò molto i padroni.
Temevano che installassero una radio trasmittente per informare
l'estero della loro sommossa. Anche nel lager qualcuno spargeva
questa voce.)
Il lager ebbe anche degli annunciatori propri (possiamo citare
Slava Jarimovskaja). Si trasmettevano le ultime notizie, un gior-
nale radio (inoltre esisteva un quotidiano murale con caricature).

368
C'era anche una trasmissione, Lacrime di coccodrillo, in cui si
derideva la preoccupazione che causava ai guardiani la sorte
delle donne, quelle stesse ch'essi avevano selvaggiamente pic-
chiato. C'erano anche trasmissioni destinate alla scorta. Inoltre di
notte ci si avvicinava alle torrette e si parlava ai soldati gridando
con dei megafoni.
Purtroppo non c'era sufficiente potenza per mandare in onda
delle trasmissioni per i pochi simpatizzanti che si sarebbero po-
tuti trovare a Kengir; gli abitanti liberi della cittadina, spesso essi
stessi dei confinati. Intanto proprio a questi, non più per radio ma
da qualche parte laggiù, in luoghi inaccessibili agli zék, le
autorità della cittadina imbottivano il cranio raccontando loro che
nel lager spadroneggiavano sanguinari banditi e lascive prostitute
(questa versione aveva successo tra le abitanti);1 che vi si
torturavano degli innocenti e li si bruciava vivi nei forni (solo
una cosa restava incomprensibile: perché la direzione non
intervenisse...)
Come gridare loro oltre i muri, a uno, due, tre chilometri di
distanza: « Fratelli! Chiediamo solo giustizia! ci uccidono e
siamo innocenti, ci trattano peggio dei cani! Ecco quali sono le
nostre richieste... »?
L'inventiva della sottocommissione tecnica, non avendo la
possibilità di esplicarsi al livello della scienza moderna, indie-
treggiò verso quella dei secoli passati. Con carta velina e colla
(c'era di tutto nell'economato, ne abbiamo scritto:2 per molti anni
esso aveva surrogato, per gli ufficiali di Džezkazgan, tanto le
sartorie della capitale quanto i laboratori di fabbricazione di
qualsivoglia genere di consumo) si mise insieme, seguendo
l'esempio dei fratelli Montgolfier, un enorme pallone. Vi si legò
un pacco di volantini e sotto fu fissato un braciere con della
brace ardente che mandava una corrente di aria calda nell’invo-
lucro del pallone, aperto in basso. Con immensa soddisfazione
1
Quando tutto fu finito e una colonna di donne fu scortata al lavoro attraverso l'abitato,
alcune donne russe maritate si raccolsero lungo la strada gridando: « Prostitute! Puttane! V'era
venuta voglia di... » e altre cose più espressive. L'indomani si ripetè la stessa cosa, ma le detenute
si erano rifornite di sassi e con questi risposero agli insulti. La scorta rideva.
2
Parte terza, cap. XXII [Arcipelago GULag 2°, pp. 592-595, N.d.c.]

369
della folla di detenuti riunita per l'occasione (quando i detenuti
gioiscono, sono come dei bambini) il mirabile congegno aerosta-
tico si alzò e volò via. Ma, ahimè, il vento soffiava più veloce-
mente di quanto l'aerostato prendesse quota, nel volare sopra la
palizzata il braciere s'impigliò nel filo spinato, e privo del flusso
di aria calda il pallone si afflosciò e bruciò insieme ai volantini.
Dopo questo insuccesso si cominciò a gonfiare i palloni con il
fumo. Col vento favorevole volavano discretamente, mostrando
alla cittadina scritte in caratteri cubitali:

Salvate dalle bastonature le donne e i vecchi!


Esigiamo la venuta di un membro del Presidium del CC!

Le sentinelle abbattevano quei palloni a colpi di fucile.


A questo punto si presentarono alla sottocommissione tecnica
dei detenuti ceceni e proposero di fabbricare degli aquiloni (sono
maestri nel farlo). Si cominciò a fabbricarli con successo e a
lanciarli lontano sopra la cittadina. Il telaio era munito di un
dispositivo particolare il quale, quando l'aquilone aveva assunto
una posizione adatta, liberava un pacco di volantini. Seduti sui
tetti delle baracche, i lanciatori osservavano il seguito delle
operazioni. Se i volantini si sparpagliavano vicino al lager i
nostri guardiani si precipitavano di corsa a raccoglierli; se
cadevano più lontano si vedevano motociclisti e cavalieri lanciati
al recupero. Si cercava con ogni mezzo di non permettere ai
liberi cittadini di leggere una verità indipendente. (I volantini
terminavano con la preghiera per chi li avesse trovati di farli
pervenire al CC.)
I soldati sparavano anche agli aquiloni, ma essi erano molto
meno vulnerabili dei palloni. L'avversario scoprì presto che,
piuttosto che sguinzagliare in tutte le direzioni una folla di guar-
diani, gli conveniva lanciare dei contro-aquiloni, per intercettare
e intralciare quelli dei detenuti. Guerra di aquiloni nella seconda
metà del XX secolo! e il tutto per combattere una parola di
verità...
(Forse il lettore troverà utile, per situare gli avvenimenti di
Kengir nel tempo, ricordare ciò che avveniva nel mondo esterno
durante i giorni dell'insurrezione. A Ginevra, conferenza sul-

370
l'Indocina. Assegnazione del premio Stalin per la pace a Pierre
Cot. Un altro francese progressista, lo scrittore Sartre, è appena
arrivato a Mosca per associarsi alla nostra vita progressista. Si
festeggiano con chiasso e pompa i trecento anni dell'unione fra
Ucraina e Russia.1 Il 31 maggio, grandiosa parata sulla Piazza
rossa. La Repubblica socialista sovietica d'Ucraina e la
Repubblica socialista federativa sovietica di Russia vengono
insignite dell'ordine di Lenin. Il 6 giugno s'inaugura a Mosca il
monumento a Jurij Dolgorukij. Dall'8 giugno congresso dei
sindacati - ma su Kengir nemmeno una parola. Il 10, emissione
di un prestito. Il 20, giornata nazionale dell'aviazione e bella
parata a Tusino. Inoltre quei mesi del 1954 sono stati caratteriz-
zati da un'intensa offensiva sul fronte, come si dice, della lettera-
tura: Surkov, Kocetov e Ermilov intervengono con articoli molto
fermi che richiamano all'ordine. Kocetov si chiede perfino: in
che tempi viviamo? E nessuno gli ha risposto: tempi di sommosse
nei lager! Nello stesso periodo sono stati attaccati molti lavori
teatrali e libri scorretti. In Guatemala intanto l'imperialismo degli
Stati Uniti d'America ha avuto la risposta che meritava.)
Nella cittadina vivevano dei ceceni deportati, ma non credo
proprio che avessero costruito loro quegli aquiloni. Non si può
davvero rimproverare ai ceceni di aver mai servito la causa
dell'oppressione. Essi capirono benissimo il significato della
insurrezione di Kengir e una volta portarono vicino ai reticolati
un camion carico di pane. Naturalmente le sentinelle li caccia-
rono via.
(Ancora a proposito dei ceceni. Sono difficili da sopportare
per gli altri abitanti - parlo del Kazachstan -: rozzi, insolenti,
detestano apertamente i russi. Ma bastò che quelli di Kengir des-
sero prova di indipendenza di carattere e coraggio per guada-
gnarsi immediatamente le simpatie dei ceceni. Quando ci sembra
di essere poco rispettati dovremmo verificare se non ce lo
meritiamo per il nostro modo di vivere.)
Intanto la sottocommissione tecnica dava gli ultimi ritocchi
1
Gli ucraini di Kengir proclamarono quel giorno giorno di lutto.

371
alla fin troppo famosa « arma segreta ». Consisteva di doppi an-
golari d'alluminio per abbeveratoi di vacche, avanzi di fabbri-
cazioni precedenti, riempiti con un miscuglio di zolfo di fiam-
miferi e carburo di calcio (tutte le casse di fiammiferi erano state
trasportate dietro la porta con la scritta « 100.000 volt »).
Quando lo zolfo si accendeva gli angolari venivano lanciati in
aria ed esplodevano con un sibilo.
Ma non toccò a quegli sfortunati buontemponi né al quartier
generale da campo installato ai bagni scegliere l'ora, il luogo e la
forma del colpo da inferire. Erano già trascorse due settimane
circa dall'inizio, quando in una di quelle notti scure prive di ogni
illuminazione risuonarono, contemporaneamente in molti punti
del muro esterno del lager, dei colpi sordi. Questa volta però non
erano né dei fuggiaschi né gli insorti ad accanirsi sul muro: lo
distruggevano le stesse truppe di scorta! Si creò un gran
scompiglio, tutti correvano qua e là con lance e sciabole, senza
riuscire a capire cosa stesse succedendo, ci si aspettava un
attacco. Ma le truppe non vennero all'assalto.
Al mattino si vide che il nemico, oltre ai cancelli esistenti,
ostruiti da barricate, aveva praticato una diecina di brecce in
diversi punti della zona. (Dall'altra parte delle brecce, per evitare
che gli zek ci si riversassero, furono installate delle postazioni di
mitragliatrici.)1 Si trattava con tutta evidenza di preparativi per
l'offensiva e nel formicaio del lager cominciò a fervere il lavorio
della difesa. Lo stato maggiore degli insorti decise di demolire le
mura interne, le costruzioni di mattoni d'argilla e paglia, e di
costruire un secondo muro di recinzione, particolarmente
fortificato con ammassi di mattoni in corrispondenza delle brecce
per proteggersi dalle mitragliatrici.
Era il mondo alla rovescia! Le truppe distruggevano la zona
mentre i detenuti la ricostruivano, e i ladri, poiché non infran-
gevano la propria legge, partecipavano a questo lavoro con la
coscienza pulita.
Si dovettero ora istituire posti di guardia supplementari da-
1
Le brecce, si dice, vennero sperimentate a Noril'sk; anche là furono praticate per attirare gli
indecisi, provocare la reazione dei delinquenti e far entrare le truppe col pretesto di riportare
l'ordine.

372
vanti alle brecce; assegnare a ciascun plotone la breccia verso la
quale era assolutamente tenuto a correre al primo segnale di
allarme per assumere le posizioni di difesa. I segnali convenuti
erano colpi su un respingente di vagone ferroviario e i soliti
fischi modulati.
Gli zek si apprestavano sul serio a andare incontro alle mitra-
gliatrici armati di lance. Anche chi non vi era preparato, a forza
di trovar la cosa assurda, ci si abituava.
È il primo passo che conta, poi la strada è una sola.
Ci fu anche un attacco di giorno. Alcuni mitraglieri furono
fatti avanzare in una breccia situata proprio davanti al balcone
della direzione dello Steplag, sul quale si affollavano numerosi
graduati (spalline larghe dell'esercito, spalline strette dei procu-
ratori), muniti chi di cineprese chi di apparecchi fotografici. Le
truppe procedevano senza fretta. Avanzarono giusto quel tanto
che bastò perché risuonasse il segnale d'allarme e i plotoni
assegnati alla breccia vi accorressero e occupassero la barricata,
lance brandite e sassi e mattoni in mano; allora dal balcone
ronzarono le cineprese e scattarono gli otturatori degli apparecchi
fotografici (tenendo i mitraglieri fuori campo). E ufficiali del
regime disciplinare, procuratori e istruttori politici, tutti quelli
che ancora potevano trovarsi là, membri del partito, dal primo
all'ultimo naturalmente, tutti a ridere del selvaggio spettacolo di
quei primitivi eccitati che agitavano le loro lance. Ben nutriti,
spudorati, ben sistemati, dall'alto del loro balcone si facevano
beffe dei propri concittadini ingannati e affamati, trovavano il
tutto molto spassoso.1
Altre volte si avvicinavano furtivamente alle brecce dei guar-
diani, e, proprio come se avessero avuto a che fare con degli
animali selvaggi o con l'uomo delle nevi, tentavano di gettare
una corda col cappio e trascinare fino a sé un prigioniero (una
lingua).
Ma, più che altro, contavano oramai piuttosto sui transfughi,
su chi si sarebbe perso d'animo. La radio rombava: tornate in
1
Quelle fotografìe, oggi, si trovano senz'altro da qualche parte, allegate ai resoconti delle
spedizioni punitive. E forse qualcuno non sarà abbastanza furbo da distruggerle e sottrarle al
giudizio della storia...

373
voi! uscite dalla zona attraverso le brecce! sulle brecce non
spariamo! chi avrà abbandonato la zona non sarà processato per
la sommossa!
La Commissione replicò attraverso la radio del lager: chi vuol
mettersi in salvo esca pure, anche attraverso il posto di guardia
principale, non tratteniamo nessuno.
E fu quello che fece... un membro di questa stessa Commis-
sione, l'ex maggiore Makeev, che si era avvicinato al posto di
guardia principale come se avesse avuto qualcosa da sbrigare.
(Come se, non perché lo avrebbero trattenuto o perché ci fosse
un'arma per tirargli una palla nella schiena, ma perché è quasi
impossibile fare il traditore sotto gli occhi dei vostri compagni
che vi inveiscono contro.)1 Dopo tre settimane di finzione sol-
tanto adesso potè sfogare la sua sete di sconfitta e, la sua rabbia
contro gli insorti che volevano una libertà che lui, Makeev, non
desiderava. Per espiare i propri peccati dinanzi ai padroni, adesso
lanciava per radio appelli alla resa e inveiva contro chi pro-
poneva di continuare a resistere. Ecco alcune frasi estratte dalla
sua stessa trascrizione di questo discorso radiofonico: « Qual-
cuno ha deciso che si può conquistare la libertà per mezzo di
lance e sciabole... Vogliono esporre alle pallottole chi si rifiuta di
prendere in mano il suo pezzo di ferraglia... Ci viene promessa la
revisione dei nostri casi. I generali, pazientemente, trattano con
noi, e Slučenkov lo interpreta come un segno di debolezza. La
Commissione è un paravento che serve solo a mascherare lo
scatenamento del banditismo... Avviate delle trattative degne di
politici, cessate (!!) di prepararvi a un'inutile difesa ».
Le brecce rimasero aperte, complessivamente, più a lungo di
quanto in precedenza il muro fosse rimasto continuo durante la
sommossa, ma in tutto questo tempo solo una dozzina di uomini
fuggirono all'esterno della zona.
Perché? Possibile che i rimasti credessero nella vittoria? No.
Possibile che l'imminente punizione non li sgomentasse? Sì, li
sgomentava. Possibile che non volessero serbarsi in vita per le
1
Anche dopo dieci anni è tale la vergogna che nelle sue memorie, ideate probabilmente a
propria giustificazione, egli scrive di essersi affacciato per caso fuori dal posto di guardia, e che là
gli si erano gettati addosso legandolo.

374
proprie famiglie? Sì, lo volevano. Si tormentavano, e migliaia di
loro forse pensavano in segreto a quella possibilità. Quanto agli
ex minorenni, addirittura li avevano invitati a uscire con moti-
vazioni legali ineccepibili. Ma su quella spanna di terra la tem-
peratura generale si era elevata a tal punto che le anime erano, se
non totalmente rifuse, per lo meno depurate e trasformate, e per
questa ragione le leggi troppo vili secondo cui « la vita è data
una volta sola »,* l'esistenza determina la coscienza, e la paura
per la propria pellaccia riduce alla codardia, non agivano più,
durante quel breve periodo e in quello spazio limitato. Le leggi
dell'esistenza e della ragione dettavano agli uomini di arrendersi
insieme o di fuggire separatamente, ma essi non fuggivano né si
arrendevano. Si erano innalzati a quel grado di elevazione
spirituale dal quale si dice ai boia:
« Ma andate dunque in malora! Braccateci pure! Sbranateci! »
E l'operazione così bene ideata, secóndo la quale i detenuti
sarebbero tutti sgattaiolati attraverso le brecce e nella zona sa-
rebbero rimasti soltanto i più ostinati, da schiacciare in un
secondo tempo, questa operazione fallì perché era stata conge-
gnata da mascalzoni incapaci di slanci ideali.
E nel giornale murale dei detenuti, accanto a un disegno: una
donna mostra a un bambino delle manette sotto una campana di
vetro: « Vedi, a tuo padre hanno fatto portare degli affari così », -
apparve la caricatura: « L'ultimo transfuga » (un gatto nero che
scappava attraverso la breccia).
Ma le caricature ridono sempre, mentre gli uomini fra i reti-
colati avevano ben poco da ridere. Scorreva la seconda, terza,
quarta, quinta settimana... Ciò che secondo le leggi del GULag
non poteva durare neanche un'ora, esisteva e durava da un tempo
inimmaginabile; una metà del mese di maggio e quasi tutto
giugno. All'inizio la gente era ebbra di vittoria, di libertà, di
incontri, di progetti, poi credette alle voci secondo le quali era
insorta Rudnik e forse avrebbero fatto lo stesso Curbaj-Nura,
Spassk, l'intero Steplag, poi, perché no?, Karaganda! e l'intero
Arcipelago sarebbe esploso e si sarebbe frantumato sparpaglian-
* Citazione dal romanzo Come si temprò l'acciaio (1935), di Nikolaj Ostrovskij.

375
dosi per l'intero paese! ma tutto Rudnik continuava come prima a
recarsi incolonnato, - testa bassa, mani dietro la schiena -, a
contrarre la silicosi undici ore al giorno e aveva ben altre cose a
cui pensare che Kengir o perfino se stesso.
Nessuno sostenne l'isola di Kengir. Ormai, non era più pos-
sibile neanche lanciarsi nel deserto: affluivano delle truppe,
vivevano attendate in piena steppa. L'intero lager era circondato
da un doppio sbarramento di filo spinato. Rimaneva un solo
barlume roseo: sarebbe arrivato il signore (si aspettava Malen-
kov) e avrebbe fatto da arbitro. Sarebbe arrivato, il nostro buon
maestro, e avrebbe congiunto le mani, costernato: ma come face-
vano a vivere in queste condizioni? come potevate tenerli così?
Processate gli assassini! fucilatemi Čečev e Beljaev! destituitemi
tutti gli altri! Ma era un barlume troppo barlume e troppo roseo
anche.
Non c'era da attendersi misericordia. Non restava che finire di
vivere gli ultimi giorni di libertà e consegnarsi alla repressione
dello Steplag e della MVD.
Si trovano sempre degli animi incapaci di reggere alla ten-
sione. Alcuni erano già schiantati interiormente e languivano
perché l'attesa e temuta repressione tardava tanto. Alcuni consi-
deravano alla chetichella che non erano per niente implicati nella
faccenda e non lo sarebbero stati se avessero continuato a tenersi
prudentemente in carreggiata. C'erano anche dei giovani sposi
(addirittura secondo un vero rito nuziale, e del resto un'ucraina
occidentale non si marita diversamente, e per le esigenze del
GULag erano presenti sacerdoti di ogni religione). Per questi
sposini, amarezza e dolcezza si alternavano in un amalgama che
gli uomini non conoscono nella loro così lenta esistenza. Essi
sentivano ogni giorno come l'ultimo, e poiché il castigo non
arrivava, ogni mattina era per loro un dono del cielo.
Quanto ai credenti, pregavano; avendo affidato a Dio l'esito
della sommossa di Kengir, erano come sempre le persone più
tranquille. Nella grande mensa si avvicendavano secondo un
orario stabilito servizi religiosi di ogni confessione. I testimoni di
Geova, ligi alle loro regole di vita, si erano rifiutati di prendere le
armi in mano, di lavorare alle fortificazioni, di fare la

376
guardia. Sedevano a lungo, le teste ravvicinate, in silenzio.
(Vennero adibiti a lavare le stoviglie.) Girava per il lager una
specie di profeta, vai a sapere se sincero o falso, il quale dise-
gnava delle croci sui pancacci e annunziava la fine del mondo.
Quasi a sostenere le sue parole, capitarono giorni freddissimi,
quali il vento porta talvolta nel Kazachstan anche in piena estate.
Le vecchine che egli aveva radunato, prive com'erano di indu-
menti caldi, sedevano per terra e tendevano le braccia verso il
cielo. Chi altri avrebbero potuto dal resto implorare!?...
Ce n'erano anche alcuni che sapevano di essere irreversibil-
mente compromessi, sapevano che restava loro da vivere solo
fino alla venuta delle truppe. E che bisognava, intanto, pensare e
agire per durare il più a lungo possibile. Questi uomini non erano
i più infelici. (I più infelici erano coloro che non erano
compromessi e pregavano perché tutto finisse.)
Ma quando tutti questi uomini si radunavano per decidere se
arrendersi o resistere, erano ripresi di nuovo da quell'atmosfera
di alta temperatura collettiva in cui le opinioni personali si fon-
dono, cessano di aver importanza perfino ai loro stessi occhi.
Oppure temevano lo scherno ancor più della morte.
« Compagni! » diceva con fermezza l'aitante Kuznecov, col
tono di chi conosce molti segreti, e sa che tutti quei segreti gio-
cano in favore dei detenuti. « Abbiamo i mezzi per difenderci con
armi da fuoco e il nemico avrà il cinquanta per cento almeno
delle nostre perdite! »
E diceva ancora:
« Neppure la nostra morte sarà infruttuosa! »
(In questo aveva perfettamente ragione. La temperatura gene-
rale agiva anche su di lui.)
Quando si arrivò alla votazione, se resistere oppure no, la
maggioranza fu per.
Slučenkov minacciava con aria significativa:
« Badate! Con chi rimane tra di noi e vorrà arrendersi, fosse
anche cinque minuti prima della capitolazione, faremo i conti! »
Un giorno la radio esterna annunzio un « ordine del GULag »:
per il rifiuto di lavorare, per sabotaggio, per... per... per..., scio-
glimento della suddivisione dello Steplag a Kengir e trasferi-

377
mento di tutti i detenuti a Magadan. (Chiaramente, il GULag si
trovava allo stretto sul nostro pianeta. E quelli che erano stati
comunque mandati a Magadan, per che cosa lo avevano meri-
tato?) Ultimo termine per riprendere il lavoro...
Ma scadde anche questo termine e tutto rimase come prima.
Rimase come prima, e l'aspetto fantastico, da sogno, di quella
vita impossibile, inaudita, sospesa nel vuoto, di ottomila persone
era reso più stupefacente dalla vita regolata del lager: cibo tre
volte al giorno; bagni a giorni fissi; lavanderia, cambio della
biancheria; parrucchiere; laboratorio di sartoria e di calzoleria.
Perfino giudici conciliatori in caso di litigi. E perfino...
liberazioni dal campo!
Proprio così. La radio esterna chiamava i liberati: si trattava o
di stranieri di una stessa nazionalità, il cui paese aveva meritato
di radunare i suoi connazionali, o di detenuti la cui pena
giungeva (o si fingeva che giungesse) al termine. Può essere che
in tal modo la direzione ottenesse delle « lingue » senza doverle
catturare con i cappi dei secondini? La Commissione si radu-
nava, ma, nell'impossibilità di controllare, rilasciava tutti.
Perché questo periodo si prolungava tanto? Che cosa aspetta-
vano i padroni? Che finissero le provviste? Tenevano conto del-
l'opinione della cittadina? Sarebbe stata la prima volta. Elabo-
ravano un piano di repressione? Avrebbero potuto farlo più
rapidamente. (Si seppe in seguito che si era approfittato di quel
lasso di tempo per far venire dai dintorni di Kujbyšev un reg-
gimento « a destinazione speciale », ossia punitivo. Non tutti
avrebbero saputo cavarsela in una faccenda del genere.) Con-
cordavano la repressione là in alto? E quanto in alto? Non sa-
premo più quale istanza, e in quale data prese la decisione.
Per diverse volte furono aperti improvvisamente i cancelli
esterni dell'economato: era per verificare lo stato di preparazione
dei difensori? Il picchetto di turno dava il segnale di allarme e i
plotoni accorrevano. Ma nessuno entrava nella zona.
In fatto di servizio informazioni, i difensori del lager non
avevano che le sentinelle sui tetti delle baracche. E solo ciò che
era visibile dall'alto dei tetti e al di sopra delle mura serviva da
base alla previsione.

378
A metà giugno apparvero nella cittadina numerosi trattori.
Lavoravano nei pressi dei reticolati, trainavano chissà cosa vici-
no alla zona. Lavoravano anche di notte. Quel lavoro notturno
dei trattori era incomprensibile. Ad ogni buon conto si scavarono
altre fosse dirimpetto alle brecce (un U-2 fotografò o annotò
comunque ogni cosa).
Quel ruggito malevolo aumentò lo sgomento.
E improvvisamente gli scettici vengono sbugiardati, e sbu-
giardati i disperati. Sbugiardati tutti coloro che dicevano che non
vi sarebbe stata misericordia, che è inutile chiedere qualcosa.
Solo gli ortodossi hanno diritto di trionfare. Il 22 giugno la radio
esterna annuncia: le richieste dei detenuti sono state accolte! Un
membro del Presidium del CC è in viaggio alla volta di Kengir.
Il barlume roseo si stava trasformando in un roseo sole, in
roseo cielo! Dunque era possibile ottenere qualcosa. Dunque
esiste la giustizia nel nostro paese. Ci faranno delle concessioni,
noi ne faremo a nostra volta. In fin dei conti si potrebbero anche
portare i numeri, e non è che le inferriate alle finestre ci diano
poi questa gran noia, mica entriamo dalle finestre. Ci stanno
ingannando nuovamente? Ma via, stavolta non esigono che ci
mettiamo a lavorare prima.
Come il tocco d'un bastoncino scarica un elettroscopio e le
sue inquiete foglie si abbassano con sollievo, così l'annunzio
della radio esterna dissipò la vischiosa tensione dell'ultima set-
timana.
Perfino quegli odiosi trattori, in movimento dalla sera del 24
giugno, ora sono silenziosi.
Il sonno è tranquillo in questa quarantesima notte dell'insur-
rezione. Certamente l'indomani sarebbe arrivato lui, forse era già
arrivato...1 Una di quelle brevi notti di giugno, quando non si
riesce a dormire abbastanza e quando il sonno è così dolce verso
l'alba. Come tredici anni prima.*
Con le primissìme luci del 25 giugno, un venerdì, dei razzi,
paracadutati, si dispiegarono nel cielo, altri razzi salirono dalle
1
Forse arrivò davvero? Forse fu lui a dirigere l'operazione?...
* 22 giugno 1941: inizio dell'offensiva tedesca contro I'URSS.

379
torrette e gli osservatori sui tetti delle baracche non proferirono
verbo, colti dalle pallottole dei tiratori scelti. Rombarono colpi di
cannone.
Degli aerei passarono a volo radente sopra il lager, seminando
il panico. I gloriosi carri armati T-34, che avevano occupato le
loro posizioni di partenza coperti dal ruggito dei trattori, mossero
adesso da ogni lato verso le brecce. (Uno di essi finì tuttavia in
una delle fosse.) Alcuni si trascinavano dietro dei cavalli di frisia
già montati destinati a dividere immediatamente la zona. Altri
erano seguiti da truppe d'assalto, con i caschi e i mitra. (Tanto i
mitraglieri quanto i carristi erano stati preventivamente riempiti
di vodka. Per quanto fossero truppe speciali, è più facile
schiacciare degli uomini addormentati e senza armi quando si è
ubriachi.) I cordoni di truppe all'attacco sono accompagnati da
radiotelegrafisti muniti di trasmittenti. I generali erano saliti sulle
torrette e da lì, alla luce dei razzi che illuminavano a giorno la
zona (gli zek, coi loro angolari, avevano appiccato il fuoco a una
torretta, che stava ardendo), impartivano gli ordini: « Prendete
quella baracca lì! È lì che si trova Kuznecov! ». Non si
nascondevano, come fanno di solito, al riparo di un punto di
osservazione perché non erano minacciati dalle pallottole.1
Da lontano, dall'alto degli edifici in costruzione, i liberi guar-
davano l'andamento della repressione.
Il lager si svegliò in piena follia. Alcuni rimasero nelle ba-
racche, buttandosi per terra nella speranza di salvarsi in questo
modo e non vedendo alcun senso nel resistere. Altri li incitavano
ad alzarsi e a lottare. Altri ancora uscivano di corsa incontro agli
spari, per combattere o semplicemente incontro a una morte
rapida.
La sezione n. 3, quella che aveva iniziato la sommossa (era
composta di condannati a venticinque anni, con una maggioranza
di banderisti), combatteva. Lanciavano... sassi contro i mitra-
1
Si nascosero soltanto agli occhi della storia. Chi erano quei disinvolti condottieri? Perché il
paese non ha salutato la loro gloriosa vittoria di Kengir? Solo a gran fatica, oggi, ne recuperiamo i
nomi, non dei principali fra essi ma nemmeno degli ultimi: colonnello Rjazancev, capo della
sezione operativa della Čeka dello Steplag; Sëmuškin, capo della sezione politica dello Steplag...
Aiutatemi! Continuate la lista!

380
glieri e i guardiani, certamente anche i loro angolari allo zolfo
contro i carri armati... Nessuno si ricordò del vetro macinato.
Una baracca partì per due volte al contrattacco gridando « Urrà!
»...
I carri armati schiacciavano chiunque trovavano sulla propria
strada (un cingolo passò sul ventre di Alla Presman, di Kiev).
Salivano sugli scalini delle baracche (vi furono schiacciate le
estoni Ingrid Kivi e Machlapa).1 I carri armati passavano rasente
le pareti delle baracche e schiacciavano chi vi si era appeso per
salvarsi dai cingoli. Semen Rak, abbracciato alla sua ragazza, si
gettò sotto un carro per farla finita prima. I carri sfondavano le
pareti di legno delle baracche e sparavano salve verso l'interno.
Ricorda Faina Epstein: come in un sogno, crollò un angolo della
baracca e un carro armato vi entrò obliquamente, sopra i corpi
vivi; le donne correvano qua e là all'impazzata; il carro armato
era seguito da un camion, le donne seminude vi venivano gettate.
I cannoni tiravano a salve, ma mitragliatrici e baionette lavo-
ravano sul serio. Le donne coprivano con i propri corpi gli uomi-
ni per salvarli, le baionette trafiggevano uomini e donne insieme.
Quella mattina il čekista Beljaev ammazzò con le proprie mani
una ventina di uomini. Dopo il combattimento fu visto mettere
dei pugnali tra le mani dei cadaveri mentre un fotografo scattava
fotografìe dei banditi uccisi. Ferita ad un polmone, la Suprun, già
nonna, membro della Commissione, morì. Alcuni andarono a
nascondersi nei gabinetti, furono abbattuti a raffiche di mitra.2
Kuznecov fu arrestato ai bagni, nel quartier generale, e messo
in ginocchio. Slučenkov, le mani legate, fu lanciato più volte per
aria e gettato per terra (un giochetto dei delinquenti).
Poi la sparatoria cessò. Urlarono: « Uscite dalle baracche!
Non spareremo ». E infatti si limitavano a menar botte con i calci
dei mitra.
1
In uno dei carri armati aveva preso posto, ubriaca, la Nagibina, il medico del lager.
Non per prestare soccorso ma per vedere l'interessante spettacolo.
2
Ehi, Tribunale dei crimini di guerra di Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre! Ehi,
filosofi! Ce n'è di materiale, no? Perché non ci fate una seduta? Non mi sentono...

381
Mano a mano che i prigionieri venivano catturati li accom-
pagnavano attraverso le brecce, attraverso la catena esterna dei
soldati di Kengir, li perquisivano e li obbligavano a buttarsi a
terra nella steppa a faccia in giù, le mani congiunte sopra la testa.
Fra questi uomini supini, come crocefissi, si aggiravano piloti e
guardiani, identificavano e portavano in disparte chi avevano
veduto dall'aria o dalle torrette.
(Indaffarati com'erano, quel giorno nessuno ebbe il tempo di
aprire la « Pravda ». Era un numero a tema: una giornata della
nostra patria: i successi dei metallurgici, la meccanizzazione
della mietitura. Sarà facile per uno storico farsi un'idea della
nostra Patria così com'era quel giorno.)
Gli ufficiali curiosi adesso potevano esaminare i misteri del-
l'economato: da dove veniva la corrente e in che cosa consisteva
l'« arma segreta ».
I generali vincitori scesero dalle torrette e andarono a far
colazione. Anche se non conosco nessuno di loro, non esito ad
affermare che il loro appetito, quel giorno di giugno, fu impecca-
bile e opportunamente annaffiato. I vapori della vodka non turba-
rono minimamente la chiarezza ideologica dei loro cervelli.
Quanto a ciò che avevano in petto, era stato introdotto dal di
fuori.
Morti e feriti: secondo i racconti, circa seicento; secondo i
documenti dell'ufficio di pianificazione e produzione della sotto-
divisione di Kengir, quali li conoscemmo qualche mese dopo,
più di settecento.1 I feriti riempirono l'infermeria del lager e si
cominciò a portarli nell'ospedale della cittadina. (Si disse ai liberi
che le truppe sparavano solamente a salve e che erano stati gli
stessi detenuti a uccidersi fra di loro.)
L'idea di costringere i superstiti a scavare le tombe dei morti
era attraente ma, per conservare il segreto, il lavoro fu eseguito
dalle truppe; circa trecento morti furono seppelliti in un angolo
della zona, gli altri chissà dove nella steppa.
Per tutta la giornata del 25 giugno i detenuti rimasero supini
nella steppa sotto il sole (quei giorni la calura era implacabile),
1
II 9 gennaio 1905 i morti furono circa 100. Nel 1912 durante le famose fucilazioni nelle
miniere d'oro della Lena, che sconvolsero l'intera Russia, vi furono 270 morti e 250 feriti.

382
mentre l'intero lager veniva perquisito, sconquassato e frugato.
Poi furono portati sul posto dell'acqua e del pane. Gli ufficiali
avevano degli elenchi pronti. Fu fatto l'appello, si metteva un
segno di fianco al cognome del superstite, gli si consegnava la
razione di pane, e subito dopo gli uomini venivano divisi se-
condo gli elenchi.
I membri della Commissione e gli altri sospetti furono rin-
chiusi nelle carceri del lager, che avevano cessato di essere mèta
di escursioni. Più di mille persone furono scelte per essere
inviate in prigioni di isolamento o a Kolyma. (Come sempre,
quegli elenchi erano stati compilati quasi alla cieca, vi capitarono
molti che non erano affatto implicati.)
Possa il quadro di questa repressione riportare la calma negli
animi turbati dagli ultimi capitoli. Dio ce ne scampi! Voglia il
cielo che nessuno sia più costretto a farsi rinchiudere nei « depo-
siti bagagli », e che i boia non subiscano mai più rappresaglie.
Per tutta la giornata del 26 si costrinsero i detenuti a smantel-
lare le barricate e a chiudere le brecce.
Il 27 giugno furono riportati al lavoro. Finalmente i convogli
ferroviari riebbero la mano d'opera.
I carri armati che avevano schiacciato Kengir raggiunsero coi
propri mezzi Rudnik e là furono mostrati ai detenuti. Perché ne
traessero le debite conclusioni.
Gli iniziatori dell'insurrezione furono processati nell'autunno
del 1955, naturalmente a porte chiuse e non ne sappiamo nulla di
preciso... Si dice che Kuznecov si sia comportato con fermezza,
cercando di dimostrare che la sua condotta era stata irreprensibile
e che non si sarebbe potuto inventare nulla di meglio. Non
conosciamo la sentenza. Con tutta probabilità Slučenkov,
Michail Keller e Knopkus furono fucilati. O meglio, li avrebbero
sicuramente fucilati, ma forse l'anno 1955 attenuò le pene?
A Kengir intanto si avviava un'onesta vita di lavoro. Non si
trascurò di creare brigate d'urto composte di ex ribelli. Fiorì
l'autonomia finanziaria. Funzionavano gli spacci, si proiettavano
film insipidi. Guardiani e ufficiali tornarono a ordinare qualcosa
per sé nei laboratori del lager: una scatola, un mulinello da pesca,
la riparazione della chiusura di una borsetta da donna. Calzolai e
sarti ribelli (lituani e ucraini occidentali) cucivano loro stivali
383
leggeri e abiti per le mogli.
Si ordinò inoltre ai detenuti che lavoravano allo stabilimento
di arricchimento dei minerali di togliere dai cavi il piombo della
copertura e di portarlo al lager per fonderlo e fabbricare pallini
da caccia: i compagni ufficiali si sarebbero divertiti a cacciare
l'antilope saiga.
Il generale subbuglio nel quale era piombato l'Arcipelago ar-
rivò comunque fino a Kengir: non furono più rimesse le
inferriate alle finestre e le baracche non vennero più chiuse a
chiave. Fu introdotta la liberazione condizionata anticipata dei «
due terzi » e perfino l'inaudito rilascio di « certificati »* per i
Cinquantotto: i più malandati venivano posti in libertà.
Sulle tombe cresce a volte un'erba particolarmente fitta e
verde.
Nel 1956, infine, venne liquidata quella zona; allora i confi-
nati, che non avevano lasciato quei luoghi e che continuavano ad
abitare sul posto, finirono tuttavia con lo scoprire dove erano
stati sepolti quelli e vi portavano dei tulipani della steppa.

Non può finire in trionfo una sommossa.


Se vince le si da un altro nome...
(Burns)

Ogni volta che passate dinanzi al monumento di Jurij


Dolgorukij ricordate: fu inaugurato nei giorni della sommossa di
Kengir e quindi è come se fosse un monumento alla sua
memoria.
* Si veda Arcipelago GULag 2°, p. 225.

384
Parte sesta
Il confino

385
386
I Il confino nei nostri primi anni di libertà

Certamente l'umanità ha inventato il confino prima del


carcere. L'espulsione dalla tribù costituiva già l'esilio. S'intuì
presto quanto fosse penoso per l'uomo vivere avulso
dall'ambiente e dal luogo abituali. Tutto è diverso, nulla va, ogni
cosa è provvisoria, non vera, anche se intorno c'è il verde invece
del ghiaccio perenne.
Non si tardò ad applicare il confino nell'impero russo: fu reso
legittimo sotto Aleksej Michajlovič* con il Codice del Sobor o
Stati generali del 1648. Ma ancor prima, alla fine del XVI secolo,
furono esiliati, senza alcun Sobor, gli abitanti di Kargopol' caduti
in disgrazia, quelli di Uglic, testimoni dell'uccisione del principe
ereditario Dmitrij.** Lo spazio bastava, la Siberia era già nostra.
Nel 1645 vi si contavano già un millecinquecento deportati.
Pietro ne deportava a centinaia. Abbiamo già detto che Elisabetta
commutava la pena di morte con l'esilio perpetuo in Siberia. Ma
a questo punto fu introdotta una frode e si cominciò a intendere
per esilio non soltanto l'insediamento libero ma anche la galera, i
lavori forzati e questa non è già più deportazione. Lo statuto di
Alessandro I sui deportati, del 1822, convalidò tale sostituzione.
Quindi si deve ritenere inclusa nelle cifre che si riferiscono alla
deportazione del secolo XIX anche
* Secondo zar della dinastia Romanov, regnò dal 1645 al 1670. Il codice da lui promulgato
era destinato a rimanere alla base del diritto russo per quasi due secoli e cioè fino alla
promulgazione del Codice del 1833.
** II fanciullo, figlio di Ivan il Terribile e della sua settima moglie, aveva avuto in
appannaggio la città di Uglic e là morì a otto anni pugnalato da sicari.

387
la galera. All'inizio del secolo XIX si deportavano ogni anno da
due a seimila persone. Dal 1820 si cominciò a deportare anche i
vagabondi (« parassiti » diremmo oggi) per cui in certe annate si
arrivava alla cifra di diecimila. Nel 1863 fu in auge la deserta
isola di Sachalin, staccata dal continente, e fu adattata a luogo di
deportazione per cui le possibilità si allargarono ancora. In tutto
furono deportate nel XIX secolo un mezzo milione di persone,
alla fine del secolo si contavano trecentomila deportati
contemporaneamente.1
Verso la fine del secolo il sistema della deportazione si rami-
ficò assumendo vari aspetti. Apparvero anche forme meno dure:
« esilio a distanza di due governatorati », perfino « esilio al-
l'estero »2 (questo non era considerato una punizione spietata
come dopo l'Ottobre). Si introdusse anche il confino amministra-
tivo che suppliva comodamente a quello giudiziario. Tuttavia: i
termini del confino venivano chiaramente indicati in cifre precise
e neppure il confino perpetuo fu tale. Cechov scrive in Sachalin
che dopo dieci anni scontati di deportazione (e anche dopo sei, se
la persona si comportava in modo perfettamente soddisfacente,
criterio mal definito ma che era largamente applicato secondo
quanto testimonia Cechov) il punito acquisiva la condizione di
contadino e poteva trasferirsi dove voleva all’infuori del suo
luogo nativo.
Particolarità sottintesa, a quel tempo naturale per tutti e oggi
stupefacente per noi, del confino dell'ultimo secolo zarista fu la
sua individualità: la deportazione era comminata, per via
giudiziaria o amministrativa, singolarmente a ciascuno, mai in
base alla sua appartenenza ad un gruppo.
Le condizioni del domicilio coatto mutavano di decennio in
decennio, mutava il grado della sua durezza, e varie generazioni
di deportati ci hanno lasciato testimonianze diverse. Erano dure
1
Tutti questi dati sono tratti dal volume XVI (Siberia Occidentale) della nota opera
Rossija di Semenoy Tjan-San'skij. Non soltanto lo stesso celebre geografo ma anche i suoi fratelli
furono perseveranti liberali pieni di abnegazione e molto fecero perché l'idea della libertà si
affermasse nel nostro Paese. Durante la rivoluzione l'intera famiglia fu rovinata e dispersa, un
fratello fucilato nell'accogliente tenuta di famiglia sul fiume Ranova, la tenuta stessa arsa, tagliato
il vasto frutteto, i viali di tigli e di pioppi.
2
P.F. Jakubovič, Nel mondo dei reietti.

388
le tradotte in gruppo, tuttavia tanto da Jakubovič quanto da Lev
Tolstoj apprendiamo che i politici venivano tradotti in condizioni
discrete. F. Kon aggiunge che in presenza dei politici la scorta
trattava bene anche i delinquenti comuni durante i trasferimenti,
per cui quelli apprezzavano molto i politici. Per molti decenni la
popolazione siberiana accolse in modo ostile i confinati: erano
loro assegnati gli appezzamenti di terra peggiori, i lavori peggio
retribuiti, i contadini rifiutavano di maritare con essi le fìglie.
Mal sistemati, malvestiti, bollati e affamati, essi si riunivano in
bande, rapinavano e così inasprivano ancora di più la
popolazione. Tutto questo non si riferiva ai politici, il cui
afflusso divenne notevole solo a partire dagli anni Settanta. Lo
stesso F. Kon scrive che gli jakuti accoglievano amichevolmente
i politici, sperando in essi come medici, maestri e consiglieri in
materie legali per difendersi contro le autorità. Comunque le
condizioni dei politici al confino erano tali che molti di essi si
affermarono in seguito come scienziati (anche se avevano
cominciato ad occuparsi di scienza soltanto durante la deporta-
zione): etnografi, linguisti1, biologi, come pure pubblicisti e
scrittori. A Sachalin Cechov non vide politici e non ce li ha
descritti2 ma F. Kon, per esempio, deportato a Irkutsk, cominciò
a lavorare nella redazione della rivista progressista « Rassegna
orientale » alla quale collaboravano populisti, membri della
Narodnaja Volja (Volontà del popolo), e marxisti come Krasin.
Non era una comune città siberiana, bensì il capoluogo e sede del
governatore generale, in cui, secondo lo Statuto del confino, non
dovevano essere ammessi i politici, eppure questi si impiegavano
nelle banche, nelle imprese commerciali, insegnavano,
frequentavano i salotti dell'intelligencija locale. I deportati riu-
scivano a far pubblicare nella « Regione delle steppe » di Omsk
certi articoli che la censura non avrebbe mai lasciato passare
1
Tan-Bogoraz, V.I. Jochel'son, L. Ja. Sternberg.
2
Per la sua insipienza giuridica, o meglio nello spirito del suo tempo, Cechov non si era
fatto mandare a Sachalin in missione e non si fece rilasciare nessun documento ufficiale.
Tuttavia ebbe la possibilità di eseguire un censimento dei deportati e galeotti da lui stesso ideato
ed ebbe perfino adito ai documenti delle prigioni! (Confrontate la cosa con noi! Provatevi a
ispezionare un gruppo dei lager senza un mandato della NKVD!) Non gli permisero soltanto di
incontrarsi con i politici.

389
in Russia. Omsk riforniva di giornali anche gli scioperanti di
Zlatoust. Divenne una città di radicali, grazie ai confinati, anche
Krasnojarsk. A Minussinsk, intorno al museo di Mart'janov si era
radunato un gruppo attivo di deportati tanto rispettato e così poco
soggetto a ostacoli amministrativi che oltre a creare
impunemente nell'intera Russia una rete di nascondigli e rifugi
per gli evasi (del resto abbiamo già scritto della facilità delle
evasioni di allora), dirigeva anche l'attività dell'ufficialissimo
comitato Witte della città.1 Se, parlando del regime per i
delinquenti a Sachalin, Cechov esclama che « imita nel modo più
triviale la servitù della gleba », non lo si può dire certo della
deportazione russa dei politici dal principio alla fine. Verso
l'inizio del XX secolo il confino amministrativo per i politici era
diventato non più una punizione, ma un vuoto e formale «
espediente invecchiato che aveva dimostrato la sua inefficacia»
(Gučkov). Stolypin aveva intrapreso nel 1906 misure per la sua
completa abolizione. E cosa fu il confino di Radiščev?
Nell'abitato di Ust'-Ilimskij Ostrov si comprò una casa di legno a
due piani (per dieci rubli, sia detto per inciso) e vi si stabilì con i
figli minori e la cognata che prese il posto di sua moglie.
Nessuno pensava a farlo lavorare, viveva come voleva e poteva
spostarsi liberamente per tutto il Circondario di Ilim. Molti
oramai, dopo aver visitato Michajlovskoe* come gitanti,
immaginano che cosa fosse il domicilio coatto di Puškin. Non
dissimile fu il confino di molti altri scrittori e personalità:
Turgenev a Spasskoe-Lutovinovo, Aksakov a Varvarino (luogo
di sua scelta). La moglie di Trubeckoj visse in cella con lui fin
dalla galera di Nerčinsk (nacque un figlio) e quando qualche
anno dopo egli fu trasferito al confino a Irkutsk, ebbe una grande
casa propria, carrozze, lacchè, governanti francesi per i figli (il
pensiero giuridico di allora non era ancora maturato fino al
concetto di « nemico del popolo » e « confisca di tutto il
patrimonio »). Herzen, esiliato a Novgorod, data la
1
Feliks Kon, In cinquantanni, voi. 2. Al confino.
* II confino a Michajlovskoe, tenuta della famiglia di Puškin nei pressi di Pskov, segnò il
periodo più fruttuoso della sua arte (1824-1826).

390
sua alta posizione nel governatorato riceveva i rapporti del capo
della polizia.
Tanta mitezza non era riservata solamente alle personalità
note o celebri. Ebbero a sperimentarla anche nel secolo XX molti
rivoluzionari e frondisti, soprattutto i bolscevichi: non erano
temuti. Stalin, pur avendo alle spalle quattro evasioni, fu con-
finato per la quinta volta... nella medesima Vologda. Vadim
Podbel’skij, per certi violenti articoli antigovernativi, fu depor-
tato... da Tambov a Saratov!* Quale crudeltà. E, si capisce,
nessuno lo forzava a lavorare.1
Ma anche un tale confino, facile secondo i concetti nostri, un
confino senza la minaccia della morte per fame, era a volte
sentito come gravoso dai confinati. Molti rivoluzionari ricordano
quanto sia stato doloroso il trasferimento dalla prigione, con il
suo pane, caldo e tetto assicurati, con il suo tempo libero per
dispute da universitari e da uomini di partito, al confino dove
bisognava procurarsi il tetto e il pane da soli, in mezzo ad
estranei. Quando non bisognava cercarseli era peggio ancora, ci
spiegano (F. Kon): «gli orrori dell'ozio... La cosa più paurosa è
che gli uomini sono condannati all'inattività », ed ecco che alcuni
si rifugiano nella scienza, altri nell'accumulare profitti, altri
ancora si danno all'alcolismo dalla disperazione.
Ma perché l'ozio? Infatti gli abitanti locali non se ne lagnano,
stentano a raddrizzare la schiena verso sera. È dunque più esatto
dire che si soffre per il cambiamento del terreno, per lo scom-
piglio del modo di vivere abituale, per lo sradicamento, la perdita
di legami vivi.
Bastarono due anni di confino al giornalista Nikolaj Nadezdin
per perdere ogni gusto della libertà e trasformarsi in onesto
servitore del trono. Il turbolento scapestrato Mensikov, confinato
nel 1727 a Berezov, costruì là una chiesa, ragionava con gli
abitanti del luogo delle vanità del mondo, si lasciò crescere la
barba, indossava tutto il giorno una semplice vestaglia e
* Capoluoghi di province confinanti, nella Russia europea.
1
Questo rivoluzionario, con il cui nome sono state ribattezzate le vie delle Poste di molte
città russe, sembra fosse così poco abituato al lavoro che al primissimo toccatogli si procurò dei
calli e... ne morì.

391
morì nel giro di due anni. In che cosa fu logorante, insoppor-
tabile, la spensierata vita di confino di Radiščev? Eppure quando,
tornato in Russia, fu minacciato di un secondo confino, ne fu
così sconvolto da suicidarsi. Puškin scriveva a Žukovskij nel-
l'ottobre 1824 dal villaggio di Michajlovskoe, da questo paradiso
terrestre dove, si direbbe, chiunque considererebbe una grazia
divina poter vivere: « Dio me ne liberi [dal confino, cioè. A.S.] !
Piuttosto la fortezza, il monastero di Solovki! » E non erano frasi
vuote, perché Puškin scrisse anche al governatore chiedendo di
commutargli il confino in detenzione alle Solovki.
A noi che abbiamo saputo cosa sono le isole Solovki, fa
meraviglia: per quale slancio, per quale disperazione e cecità il
poeta braccato potè voler abbandonare Michajlovskoe e chiedere
le isole Solovki?
È questa la tetra forza del confino, puro spostamento e inse-
diamento altrove coi piedi legati, intuito già dagli antichi domi-
natori, confino che conobbe già Ovidio.
Il vuoto. Lo smarrimento. Una vita che non sembra affatto
vita...
Nell'elenco dei mezzi di oppressione che la fulgida
rivoluzione doveva spazzare via per sempre figurava al quarto
posto, naturalmente, anche il confino.
Ma non appena la rivoluzione ebbe fatto i primi passi con le
sue gambette sempre più storte, senza essere ancora diventata
adulta, capì: non era possibile fare a meno del confino. Per un
anno, due, al massimo tre non ci furono confinati in Russia. Poco
dopo cominciarono le deportazioni: l'estromissione degli
indesiderabili. Ecco le autentiche parole di un eroe popolare,
futuro maresciallo, pronunciate nel governatorato di Tambov nel
1921: « Fu deciso di organizzare un'ampia deportazione delle
famiglie dei banditi [leggi « dei resistenti », A.S.] Furono orga-
nizzati vasti campi di concentramento [corsivo mio, A.S.] dove
tali famiglie furono preventivamente rinchiuse ».1
Unicamente la comodità di fucilare sul posto invece di tra-
1
Tuchacevskij, In lotta contro le insurrezioni controrivoluzionarie, rivista « Guerra e
rivoluzione », 1926, n. 7/8, p. 10.

392
sferire chissà dove, custodire, nutrire per strada, poi alloggiare e
ancora custodire, unicamente tale comodità ritardò l'introduzione
di una regolare deportazione fino alla fine del comunismo di
guerra. Ma già il 16 ottobre 1922 fu creata presso la NKVD una
commissione permanente per la deportazione di « persone
socialmente pericolose; esponenti di partiti antisovietici » (in-
somma tutti all'infuori di quello bolscevico) e la durata media era
di tre anni.1 Così già nei primissimi anni Venti l'istituto della
deportazione funzionava abitualmente e regolarmente.
Vero è che non fu ripristinato il confino per i reati comuni:
infatti erano già stati inventati i lager di lavoro correzionale e
furono questi ad assorbire i delinquenti. In compenso il confino
politico divenne più che mai comodo: in assenza di giornali
dell'opposizione, non diventava di pubblica ragione e ai vicini e
ai conoscenti di chi stava per essere deportato, un confino di tre
anni, inflitto senza cattiveria né fretta, sembrava, dopo le
fucilazioni del comunismo di guerra, un provvedimento lirico,
educativo.
Tuttavia nessuno tornava nei luoghi nativi da quella furtiva
deportazione « profilattica » e se qualcuno riusciva a tornare
poco dopo veniva ripreso. Una volta afferrati si cominciava a
percorrere i giri dell'Arcipelago e l'estremità spezzata dell'arco
terminava inevitabilmente nella fossa.
Data l'umana bonarietà il piano delle autorità non si chiarì
subito: semplicemente il potere non era ancora rafforzato abba-
stanza per sradicare di colpo tutti gli indesiderabili. Quindi per
ora si strappavano i condannati, non dalla vita, ma dall'umana
memoria.
Il confino si ripristinava tanto più facilmente in quanto non
erano ancora perdute, scomparse le vie percorse dalle tradotte
d'una volta; non erano minimamente cambiati i luoghi d'esilio -
della Siberia di Archangel'sk, di Vologda - la cosa non meravi-
gliava. (Del resto il pensiero statale non si fermerà lì, il dito di
qualcuno percorrerà la mappa della sesta parte delle terre emerse
e il vasto Kazachstan, non appena annesso all'Unione delle
1
Raccolta dei Decreti della RSFSR, 1922, n. 65, p. 844.

393
Repubbliche,* risulterà adattissimo alle deportazioni coi suoi
spazi sconfinati, e anche nella stessa Siberia si scopriranno luo-
ghi più reconditi).
Ma nella tradizione del confino rimaneva un elemento distur-
batore, e precisamente l'idea dei deportati che lo Stato abbia
l'obbligo di nutrirli. Il governo zarista non osava costringere i
confinati ad aumentare il prodotto nazionale. I rivoluzionari di
professione consideravano umiliante lavorare. In Jakutija un
confinato aveva diritto a 15 desiatine** di terra (65 volte più di
un kolchoziano oggi). Non che i rivoluzionari si precipitassero a
lavorare questa terra, ma gli jakuti ci tenevano molto e pagavano
un « diritto di cessione » ai rivoluzionari, un affitto, sdebitandosi
con prodotti alimentari o cavalli. Così, arrivato a mani vuote, un
rivoluzionario diventava di colpo creditore degli jakuti.1 Inoltre
lo Stato zarista pagava al proprio nemico politico confinato 12
rubli al mese per l'alimentazione e 22 rubli all'anno per il
vestiario. Lepesinskij scrive2 che anche Lenin, confinato nel
villaggio di Susenskoe, riceveva 12 rubli al mese (non li
rifiutava) mentre Lepesinskij ne prendeva 16, essendo non un
semplice deportato ma un impiegato dello Stato. F. Kon ci
assicura che quelle somme erano molto esigue. Sappiamo tutta-
via che i prezzi in Siberia erano due o tre volte inferiori a quelli
praticati in Russia, e quindi le somme rilasciate per il manteni-
mento dei confinati erano addirittura eccessive. Dettero per
esempio a Lenin la possibilità di dedicarsi durante tutti e tre gli
anni, senza patire alcuno stento, alla teoria della rivoluzione
senza doversi preoccupare di guadagnarsi da vivere. Martov
scrive che per cinque rubli al mese riceveva dal suo padrone di
casa alloggio e vitto completo e spendeva il denaro rimanente in
libri, mettendone anche da parte per l'evasione. L'anarchico A.P.
Ulanovskij dice che soltanto al confino (nella regione di
Turuchansk, dove fu insieme a Stalin) egli ebbe, per la prima
volta in vita sua, del denaro a sua disposizione; ne
* Nel 1924, col nome di repubblica autonoma di Kirghisia.
** Desjatina, vecchia misura russa: è pari circa a un ettaro.
1
F. Kon, op. cit.
2
Lepesinskij, La svolta.

394
mandava parte ad una fanciulla « libera » conosciuta durante la
trasferta, e per la prima volta potè assaggiare il cacao. La carne
di renna e lo storione non costavano nulla, una bella casa solida
valeva 12 rubli (lo stipendio di un mese!). Nessuno dei politici
conosceva stenti, tutti i confinati per sanzione amministrativa
ricevevano il sussidio in denaro. E tutti erano vestiti bene
(arrivavano sul posto già forniti di vestiario).
Vero è che i delinquenti comuni confinati a vita, i bytoviki nel
gergo nostro, non avevano denaro per il loro mantenimento, ma
ricevevano gratuitamente dall'erario pellicce, vestiario e cal-
zature. Cechov appurò che a Sachalin tutti i deportati erano
mantenuti gratuitamente per due o tre anni, e le donne per tutta la
durata della pena, ricevendo tra l'altro duecento grammi di carne
al giorno e tre libbre di pane (ossia il « chilo e duecento » dei
nostri stachanovisti delle miniere di Vorkuta per aver adempiuto
al 150% il lavoro assegnato. Peraltro Cechov considera quel pane
cotto male e di farina cattiva, ma nei nostri lager non è certo
migliore!). Ogni anno ricevevano un pellicciotto di pelo di
montone, una giubba e qualche paio di calzature. L'erario zarista
pagava inoltre ai confinati prezzi volutamente alti per i loro
prodotti a mo' di incoraggiamento (Cechov giunse alla
convinzione che Sachalin, come colonia, non era vantaggiosa per
la Russia, e che la Russia anzi la manteneva.)
La nostra deportazione sovietica, si capisce, non poteva ba-
sarsi su tali condizioni malsane. Nel 1928 il Congresso Panrusso
dei lavoratori amministrativi riconobbe insoddisfacente il sistema
di deportazione esistente e chiese « l'organizzazione della
deportazione sotto forma di colonie in località lontane ed isolate,
come pure l'introduzione di un sistema di condanne inde-
terminate » (ossia illimitate).1 Dal 1929 si cominciò a elaborare
una combinazione della deportazione con i lavori forzati.2
Chi non lavora non mangia, è questo il principio del socia-
lismo. E unicamente su tale principio socialista poteva basarsi la
deportazione sovietica. Ma proprio i socialisti erano abituati
1
Archivio Centrale di Stato per la Rivoluzione di Ottobre, fondo 4042, inv. 38, pratica 8, ff.
34-35.
2
Ivi, fondo 393, inv. 84, prat. 4, f. 97.

395
a ricevere gratuitamente il cibo al confino. Non osando infran-
gere subito la tradizione, anche l'erario sovietico cominciò a
pagare i suoi deportati politici - beninteso non tutti, beninteso
non i controrivoluzionari, ma i politici. E bisogna distinguere
anche fra questi: per esempio a Cimkent nel 1927 ai socialisti
rivoluzionari e ai socialisti democratici davano 6 rubli al mese, ai
trockisti 30 (dopo tutto erano dei nostri, bolscevichi). Ma i rubli
non erano più quelli zaristi, per la più piccola cameretta
bisognava pagare 10 rubli al mese, e con 20 copechi al giorno ci
si poteva nutrire a stento. Col tempo le cose peggiorarono. Nel
1933 i politici prendevano 6 rubli e 25 copechi al mese.
Quell'anno, lo ricordo benissimo, un chilogrammo di pane di
segale umido, « commerciale », costava già tre rubli. Dunque i
socialisti non potevano più imparare le lingue e scrivere lavori
teorici, non rimaneva loro altro che sgobbare. E non appena an-
davano al lavoro la GPU gli toglieva immediatamente l'ultimo
misero sussidio.
Ma anche desiderando lavorare non era facile per un confinato
trovare da guadagnare. Infatti la fine degli anni Venti, com'è
noto, fu da noi un periodo di forte disoccupazione, ottenere un
lavoro era privilegio di poche persone con una biografia
immacolata oppure dei membri del sindacato, i deportati non po-
tevano misurarsi con loro soltanto facendo leva sulla propria
istruzione o esperienza. Pesava inoltre sui deportati il comando
locale senza l'autorizzazione del quale nessuno avrebbe osato
assumerli. (Anche un ex deportato aveva poche speranze di tro-
vare un buon lavoro: il marchio d'infamia sul passaporto glielo
impediva.)
Nel 1934 a Kazan', ricorda P.S-va, un gruppo di deportati
istruiti ridotti alla disperazione si fece assumere per lastricare le
vie. Al comando furono redarguiti: perché quel gesto dimostra-
tivo? Ma non li aiutarono a trovare un'altra occupazione e
Grigorij B. sbottò, rivolto all'ufficiale della Sicurezza dello Stato:
« Non state preparando qualche processuccio? Potremmo farci
assumere come testimoni prezzolati ».
Ridotti a raccogliere le briciole.
Così in basso ,era caduta la deportazione politica! Non rima-

396
neva il tempo per disputare e scrivere contro il « Credo ». E nem-
meno conoscevano il problema di un ozio insensato... Preoccu-
pazione principale era quella di non morire di fame. E di non
abbassarsi a diventare delatori.
Nei primi anni sovietici, in un paese finalmente liberato da
una schiavitù secolare, l'orgoglio e l'indipendenza dei deportati
politici caddero come un pallone sgonfiato da una puntura di
spillo. Risultò illusoria quella forza dei confinati politici che il
potere di prima temeva un tantino. Risultò ancora che unica-
mente l'opinione pubblica del paese creava e appoggiava quella
forza. Non appena l'opinione pubblica fu sostituita da un'opi-
nione organizzata i confinati con le loro proteste e i loro diritti
divennero preda di ottusi agenti della Sicurezza e di spietate
istruzioni segrete (ebbe il tempo di applicare la firma e la mente
alle prime di queste il ministro degli interni Dzeržinskij). Oramai
divenne impossibile anche solo lanciare un rauco grido, una sola
parola di sé, laggiù, nel mondo libero. Se un operaio confinato
spediva una lettera al suo stabilimento di prima, l'operaio che
l'aveva fatta conoscere veniva immediatamente deportato anche
lui (Leningrado, Vasilij Kirillovič). I deportati persero non
solamente il sussidio in denaro, i mezzi di sussistenza, ma anche
ogni diritto: trattenerli ulteriormente, arrestarli, trasferirli divenne
ancor più facile per la Ghepeu di quando erano considerati
uomini liberi; ora nulla tratteneva gli agenti, quasi si fosse
trattato di bambole di gomma, non di uomini.1 Non ci voleva
nulla a scompigliarli come fu fatto a Čimkent, dove im-
provvisamente fu annunziata la « liquidazione » del luogo di
confino entro le ventiquattro ore. In queste ore bisognava dare le
consegne all'ufficio, svuotare l'abitazione, liberarsi delle mas-
serizie, fare le valigie e partire secondo l'itinerario prescritto.
Non era molto più mite di un trasferimento di prigionieri. Né era
molto più sicuro il domani del deportato.
Ma anche senza parlare del silenzio della società e della pres-
1
I socialisti occidentali che solamente nel 1967 sentirono « la vergogna di essere socialisti
insieme all'Unione Sovietica », avrebbero potuto magari giungere a questa conclusione 40-45
anni prima. Infatti i comunisti stavano già allora annientando i socialisti russi, ma: non duole il
dente se è in bocca altrui.

397
sione della Sicurezza dello Stato, cos'erano i deportati? questi
membri di partiti senza partito? Non intendiamo i democratici
costituzionali, non esistevano più, erano stati annientati, ma cosa
significava essere considerato socialista rivoluzionario o
menscevico negli anni 1927 o 1930? Nel paese non esisteva un
solo gruppo di persone attive che corrispondesse a tale denomi-
nazione. Da molto tempo, fin dalla rivoluzione, in dieci anni
tonanti e burrascosi, i loro programmi non erano stati riveduti, e
anche se tali partiti fossero improvvisamente risorti non avreb-
bero saputo come interpretare gli eventi e cosa proporre. La
stampa li menzionava soltanto al passato, i membri superstiti dei
partiti vivevano in famiglia, lavoravano ciascuno secondo la
propria specialità e avevano perfino dimenticato di pensare al
proprio partito. Ma le tavole della legge della GPU sono incan-
cellabili. Secondo un improvviso segnale notturno quei conigli
dispersi venivano tirati fuori dal loro buco e spediti, di prigione
in prigione, fino a Buchara, per esempio.
Così vi arrivò nel 1930 I.V. Stoljarov, per trovarvi senescenti
socialisti rivoluzionari e democratici raccolti da ogni parte del
paese. Avulsi dalla loro vita abituale, non rimaneva loro altro che
ricominciare a disputare, valutare il momento politico, proporre
soluzioni, cercare di indovinare come si sarebbe sviluppata la
teoria se... oppure se...
In tal modo, raggruppandoli, si formava qualcosa che non era
più un partito, ma un bersaglio da affondare.
I deportati degli anni Venti ricordano che l'unico partito vi-
vace e combattivo del tempo furono i socialisti-sionisti con la
loro energica organizzazione giovanile « Hashomer » e quella
legale « Hechaluc », che creava comuni agricole ebraiche in Cri-
mea. Nel 1926 fu incarcerato tutto il loro cc, e nel 1927 ragazzi e
ragazze di 15-16 anni, che non si erano persi d'animo, venivano
deportati dalla Crimea. Erano confinati a Turtkul' e altri luoghi
severi. Quello era davvero un partito, compatto, persistente,
sicuro delle proprie ragioni. Ma aspiravano non ad un fine
comune, ma ad uno scopo loro particolare: vivere come etnia,
vivere della propria Palestina. Il partito comunista, si capisce,

398
partito che aveva volontariamente rinunziato alla patria, non
poteva tollerare in altri un così stretto nazionalismo...1
Fino all'inizio degli anni Trenta sussisteva fra i deportati il
mutuo soccorso (per esempio i socialisti rivoluzionari, i demo-
cratici e gli anarchici confinati a Čimkent crearono una segreta
cassa di mutuo soccorso per i membri del loro partito disoccupati
del settentrione). In certi luoghi facevano cucina comune e si
occupavano assieme dei bambini, e le riunioni erano naturali in
tali occasioni, come pure le visite reciproche. Essi festeggiavano
al confino il 1° maggio (tralasciando con ostentazione l'Ottobre).
Ma negli anni Trenta tutto questo verrà a mancare: sarà fisso su
tutti quanti l'occhio di lince del čekista. I deportati si sarebbero
evitati affinchè la NKVD non sospettasse un'« organizzazione » e
non affibbiasse nuovi confini. (Sorte che li attendeva comunque.)
Così, confinati dallo Stato, essi si addentreranno in un secondo
volontario confino, la solitudine. (Per ora era esattamente quanto
voleva da loro Stalin.)
I confinati erano indeboliti anche dall'ostilità delle popola-
zioni locali: queste erano perseguitate se facevano amicizia con i
confinati, i colpevoli venivano a loro volta confinati altrove e i
giovani espulsi dal Komsomol.
Un'altra causa del loro indebolimento fu la scarsa cordialità
dei loro rapporti dagli inizi del regime sovietico, tramutatasi in
aperto dissidio dalla metà degli anni Venti, con l'arrivo in massa
nei luoghi di confino dei trockisti che non riconoscevano altri
politici all'infuori di sé.
Ma non erano certamente i soli socialisti ad essere confinati
negli anni Venti, anzi, erano sempre in minor numero di anno in
anno.
1
Parrebbe che uno slancio tanto nobile e popolare dei sionisti, di ricreare la terra degli avi,
riaffermare la fede e riunirsi dopo una diaspora di tre millenni, dovesse suscitare lo spontaneo
appoggio e aiuto se non altro dei popoli europei. In verità la Crimea al posto della Palestina non
era più la pura idea sionista; ma non fu forse una beffa di Stalin proporre a questo popolo
mediterraneo di eleggere a seconda Palestina il Birobidžan vicino alla tajga? Grande maestro nel
tenere a lungo nascosti i propri pensieri, con quell'affettuoso invito forse faceva la prima prova di
quella deportazione che aveva riservato loro per l'anno 1953? [La morte di Stalin, forse,
interruppe un'operazione in grande stile contro gli ebrei, preannunciata dalla montatura del «
complotto degli assassini in camice bianco » N.d.c.]

399
Affluivano numerosi gli intellettuali senza partito, quelle per-
sone spiritualmente indipendenti che intralciavano l'affermarsi
del nuovo regime. Come pure quelli di prima scampati alla
guerra civile. E perfino ragazzi, capitati al confino per aver
ballato il fox-trot.1 E ancora, gli spiritisti, gli occultisti, il clero,
da principio con l'autorizzazione di celebrare al confino. O sem-
plicemente dei contadini, semplicemente dei cristiani, o
krest'jane, come i russi avevano chiamato i contadini molti secoli
prima.
Tutti capitavano sotto il vigile occhio del medesimo agente
della Sicurezza, tutti si isolavano e si fossilizzavano.
Fiaccati dall'indifferenza del paese, i confinati perdevano an-
che la voglia di evadere. Per i deportati dei tempi zaristi le fughe
erano un allegro sport; Stalin per le sue cinque evasioni, e Nogin
per le sue sei non rischiarono una pallottola e neppure la galera,
ma la semplice reintegrazione nel medesimo luogo dopo un
viaggio di piacere. Ma la GPU, sempre più pesante, sempre più
indurita, impose ai. deportati, dalla metà degli anni Venti, la
responsabilità collettiva di partito: tutti i membri di un partito
erano responsabili per uno di essi che fosse fuggito. L'aria
mancava a tal punto, l'oppressione era tale che i socialisti, fino a
poco prima fieri e indomiti, accettarono tale malleveria. Oramai
vietavano a se stessi di evadere, da sé, per decisione del proprio
partito.
E poi, fuggire dove? Da chi? Dov'era il popolo presso cui
rifugiarsi?...
Furbacchioni esperti nel maneggiare giustificazioni teoriche
fecero presto ad enunciare: non è il momento di fuggire, bisogna
aspettare, e in generale non è il momento di lottare, anche per
questo bisogna aspettare. Nadezda Mandel’stam riscontra nei
socialisti confinati a Cerdyn' agli inizi degli anni Trenta il totale
rifiuto di resistere. Perfino la sensazione di una morte imminente.
E un'unica speranza pratica: quando daranno un supplemento di
confino, che sia senza un nuovo arresto, lascino firmare subito,
sul posto, così la modesta esistenza a fatica avviata non sarà
1
1926, Siberia. Testimonianza di Vitkovskij.

400
devastata. E un unico compito morale: mantenere in faccia alla
morte la loro dignità di uomini.
Per noi, dopo i lager da galeotti dove, da singoli isolati, siamo
divenuti una salda unità, sembra strano apprendere che i
socialisti si scindessero in impotenti individui isolati dopo aver
costituito un'unità già articolata, verificata nell'azione. Ma nei
decenni nostri la vita sociale si avvia verso l'allargamento e la
pienezza (inspirazione), mentre allora si avviava verso l'op-
pressione e la compressione (espirazione).
L'epoca nostra non deve quindi giudicare quella passata.
V'erano inoltre nella deportazione molte gradazioni atte an-
ch'esse a disunire e fiaccare i deportati. Erano diversi i tempi
fissati per il cambio delle carte d'identità (certuni erano obbligati
a farlo ogni mese, con procedure estenuanti). Temendo di
capitare in una categoria peggiore ciascuno si atteneva alle
regole.
Fino all'inizio degli anni Trenta esisteva anche una forma più
attenuata: non la deportazione ma il « meno ». In tal caso alla
persona « repressa » non veniva indicato un determinato luogo di
domicilio coatto, ma gli si dava la possibilità di scegliere la città
meno alcune. Tuttavia, una volta fatta la scelta, il domicilio
veniva fissato per i medesimi tre anni. I « meno » non dovevano
presentarsi periodicamente alla GPU, ma neppure avevano il
diritto di assentarsi. Negli anni di disoccupazione la camera del
lavoro* non dava impieghi ai « meno » e se questi s'ingegnavano
per ottenerli, sulla amministrazione venivano esercitate pressioni
perché fossero licenziati.
Il meno era uno spillo con cui l'insetto nocivo veniva trafitto
in attesa che venisse il suo turno di essere arrestato sul serio.
E poi, esisteva ancora la fede nel regime d'avanguardia, il
quale non può, non avrà mai bisogno della deportazione! La fede
nell'amnistia, soprattutto per il fulgido decimo anniversario di
Ottobre.
L'amnistia venne infatti, e colpì. Si cominciò a condonare un
* Le camere del lavoro continuarono ad esistere fino al 1929, fungevano da agenzie di
collocamento.

401
quarto del tempo (9 mesi su tre anni) ai confinati, ma non a tutti.
Poiché intanto proseguiva il Grande Gioco di Pazienza, e i tre
anni di confino erano seguiti da tre di prigione politica
d'isolamento e da altri tre di confino, questa accelerazione di
nove mesi non abbelliva affatto la vita.
Nel frattempo si arrivava al successivo processo. L'anarchico
Dmitrij Venediktov, verso la fine dei tre anni di confino a
Tobol'sk (1937), fu arrestato con la categorica imputazione di
aver « propagato voci a proposito dei prestiti »* (quali « voci »
potevano esserci sui prestiti emessi ogni anno con la inevitabilità
della fioritura di maggio?) e di « scontentezza nei confronti del
potere sovietico » (infatti un deportato deve esser contento della
propria sorte). E cosa meritò per dei delitti così infami? La
fucilazione entro 72 ore, senza possibilità di appello. (Sua figlia
Galina è apparsa di sfuggita sulle pagine di questo librò.)
Tale fu il confino dei primi anni della libertà conquistata e tale
l'unico modo per sottrarvisi definitivamente.
Il confino costituì il luogo dove furono rinchiuse preventiva-
mente tutte le pecore destinate al macello. I confinati dei primi
decenni sovietici non vi erano mandati per viverci, ma per
attendere di essere chiamati là. (Alcuni dei più intelligenti fra
quelli di prima come pure fra i semplici contadini capirono la
situazione fin dagli anni Venti. Scontato il primo confino di tre
anni rimanevano per ogni evenienza, per esempio, ad Archan-
gel'sk. Talvolta ciò li aiutò a non capitare più fra i denti del
pettine.)
Ecco come si trasformò per noi il pacifico confino di
Susenskoe** e anche quello di Turuchan dove si beveva la
cioccolata.
Ecco di che nuovo fardello fu gravata, da noi, l'angoscia di
Ovidio.

* Prestiti di Stato obbligatori.


** Come già detto, Lenin fu confinato dal 1897 al 1900 nel villaggio di Susenskoe
nella Siberia occidentale,

402
II La peste contadina

Si tratterà di un'inezia, in questo capitolo. Di quindici milioni


di anime. Di quindici milioni di vite.
Non di persone colte, s'intende. Non di persone che sapessero
suonare il violino. Non di persone che sapevano chi era Mejer-
chol'd o quanto fosse interessante occuparsi di fisica nucleare.
In tutta la prima guerra mondiale perdemmo tre milioni di
uomini. In tutta la seconda, venti milioni (secondo Chruščev,
mentre secondo Stalin non furono che sette. Fu generoso Nikita?
o Iosif tenne male i conti?) Ma quante odi, quanti obelischi e
fiamme perpetue! quanti romanzi e poemi! che dico: per un
quarto di secolo tutta la letteratura sovietica si è abbeverata di
questo sangue.
Quanto alla silenziosa peste traditrice che ha inghiottito
quindici milioni di contadini, non alla rinfusa, ma scelti, spina
dorsale del popolo russo, su questa Peste non esiste un solo libro.
Dei sei milioni fatti artificialmente morire di fame bolscevica in
Ucraina, dove la collettivizzazione fu introdotta con mezzi che
superarono ogni limite di umana efferatezza, di questo tacciono
tanto la nostra patria quanto la limitrofa Europa. Le trombe non
ci chiamano alla riscossa. I crocevia delle strade di campagna,
dove stridettero i convogli dei votati alla morte, non sono
neppure stati segnati con due o tre sassolini. E il fiore dei nostri
umanitari, così sensibili alle ingiustizie d'oggi, in quegli anni si
limitò ad annuire: giusto! se lo sono meritato!
Fu eseguito in tale segretezza, ogni traccia è stata così ben

403
cancellata e ogni sussurro così ben soffocato che oggi, mentre
rifiuto il materiale che mi viene spontaneamente offerto sui
lager: « Basta, amici, ho già cataste di questi racconti, non ho più
posto! » non ne ricevo affatto sulla deportazione dei contadini.
Del resto chi, e dove potrebbe raccontarne qualcosa?...
So benissimo che qui occorrerebbe non un capitolo solo e non
il libro di un uomo solo. Eppure non riesco a compilare
dettagliatamente neppure questo unico capitolo.
Tuttavia mi ci accingo. Lo lascerò come segno, come indica-
zione, come primi sassolini, che possano segnare il posto dove
un giorno dovrà pur essere ricostruito un nuovo tempio di Cristo
Redentore.*
Da cosa cominciò? Dal dogma che i contadini costituiscono
una piccola borghesia? (Chi non è, per costoro, piccola
borghesia? Secondo il loro schema meravigliosamente netto, lo
sono tutti all'infuori degli operai delle fabbriche, peraltro esclusi
quelli qualificati, e all'infuori di certi grossi imprenditori; tutti, e
cioè in sostanza tutto il popolo, contadini, impiegati, artisti,
aviatori, professori e studenti, medici, proprio tutti questi sono i
piccoli borghesi.) O, forse, da un supremo calcolo brigantesco:
rapinare gli uni e intimidire gli altri?
Dalle ultime lettere di Korolenko a Gor'kij nel 1921, prima
che questi emigrasse e quello morisse, apprendiamo che il
brigantesco assalto al mondo contadino era già iniziato allora e
veniva attuato quasi nella stessa forma dell'anno 1930.
Ma le forze mancavano ancora per osare, e si indietreggiò,
tergiversando.
Tuttavia l'idea rimase in testa, e per tutti gli anni Venti non
smisero di brandire il parolone, pungente, oltraggioso: kulak!
kulak! kulak!** Si stava condizionando la coscienza degli abi-
tanti delle città, convincendoli che non era possibile vivere sulla
medesima terra con un « kulak ».
* La chiesa di Cristo Redentore, che si innalzava a Mosca, fu demolita per costruire una
piscina riscaldata.
** La parola significa propriamente pugno, ma è venuta a significare rivenditore,
commerciante di bestiame, sensale in particolare nel commercio del grano e più tardi contadino
arricchito che sfrutta i braccianti.

404
La Peste sterminatrice dei contadini ebbe inizio, a quanto ci è
dato giudicare, nel 1929: cominciarono le compilazioni di
micidiali elenchi, le confische, la deportazione. Ma soltanto al
principio dell'anno 1930 fu proclamato pubblicamente quanto
veniva compiuto (ed era già stato provato e avviato), nella deli-
bera del CC del VKB(b) in data 5 gennaio (il partito « può nel
lavoro pratico, passare, in modo del tutto motivato dalla politica
di limitazione delle tendenze dei kulaki a quella della loro liqui-
dazione come classe ». Contemporaneamente fu vietato
ammettere i kulaki nei kolchoz. Chi mai ci spiegherà il perché,
oggi, in maniera coerente?)
Al seguito del CC non tardarono i docili e consenzienti Comi-
tato esecutivo centrale e Soviet dei Commissari del popolo: il 1°
febbraio 1930 la volontà del partito ebbe una veste giuridica. Ai
comitati esecutivi regionali si ingiungeva di « prendere tutte le
misure necessarie di lotta contro i kulaki, inclusa (né avveniva
diversamente) la totale confìsca dei loro beni e la loro
deportazione fuori dai confini della regione ».
Il Macellaio provò vergogna soltanto all'ultima parola. Disse
da quali confini. Ma non disse in quali. Chi non stava attento
poteva anche pensare che sarebbero stati inviati a trenta verste,
nelle vicinanze...
Quanto al podkulačnik, il kulakizzante, sembra che nella Teo-
ria d'Avanguardia non esistesse. Ma data l'ampiezza del raggio
d'azione della falciatrice era chiaro che non se ne poteva fare a
meno. Oramai abbiamo capito il prezzo della parola. Se era
annunziata la « raccolta dell'imballaggio », e i pionieri comin-
ciavano a girare per le isbe a raccogliere presso i contadini i
sacchi a beneficio dello Stato mendico, e quelli non li consegna-
vano, perché troppo attaccati alla roba propria (infatti non era
possibile comprarne allo spaccio), eccoti i kulakizzanti. E via,
buoni per la deportazione.
E questi appellativi si sparsero come fuoco di paglia per tutta
la Russia, le cui narici non si erano ancora freddate dopo le
sanguinose esalazioni della guerra civile. Le parole furono lan-
ciate e, sebbene non spiegassero niente, erano comprensibili,
semplificavano molto, non occorreva più riflettere. Fu
ripristinata
405
la legge selvaggia (secondo me non è russa; dove mai si è visto
qualcosa di simile nella storia russa?) della guerra civile: dieci
per uno! cento per uno! Per un attivista ucciso per difesa (per lo
più un fannullone, un chiacchierone. A. Ja. Olenev non è il solo a
ricordare: dirigevano lo sterminio dei kulaki ladri e beoni) si
sterminavano centinaia di contadini fra i più laboriosi, ordinati e
intelligenti, quelli che impersonavano la stabilità della nazione
russa.
Come? come! ci gridano. E gli sfruttatori, i bevitori di sangue
del popolo? quelli che opprimevano i vicini? Eccoti un prestito,
me lo renderai con la tua pelle?
È vero, capitarono, in piccola misura, anche gli sfruttatori
(saranno stati tutti?). Ma faremo una domanda anche noi: erano
sfruttatori nati? per natura? O per la proprietà di ogni ricchezza
(e di ogni potere!) di guastare l'uomo? Oh, se fosse davvero così
semplice « purgare » l'umanità o un ceto! Ma se i contadini
furono ripuliti dagli spietati sfruttatori con un fitto pettine di
ferro, e per farlo non si risparmiarono quindici milioni, donde
provengono, nella campagna d'oggi, nei kolchoz, tutti quegli
uomini malvagi, panciuti, dai ceffi rossi che li dirigono (come
dirigono i comitati distrettuali)? Donde provengono quegli
spietati persecutori delle vecchie sole e di tutti gli indifesi? Come
mai la loro rapace radice è stata risparmiata quando si stavano
sterminando i kulaki? Santo cielo, non saranno per caso i denti
degli attivisti?...
Chi aveva passato la sua giovinezza a svaligiare banche* non
poteva giudicare i contadini né da fratello né da padrone. Poteva
soltanto emettere un fischio da brigante, e furono trascinati nella
tajga e nella tundra milioni di lavoratori indifesi, di agricoltori
dalle mani callose, proprio quelli che avevano sostenuto il potere
sovietico pur di ottenere la terra e dopo averla ottenuta vi si
aggrappavano ora saldamente (la terra appartiene a chi la lavora).
Solo una lingua d'idiota in una testa di legno può ciarlare di
sfruttatori, quando certi villaggi del Kuban', Urupinsk per esem-
* Dopo la rivoluzione del 1905, Stalin partecipò attivamente ad alcuni « espropri », destinati
a rinsanguare le casse del partito bolscevico.

406
pio, sono stati completamente svuotati, e tutti gli abitanti, com-
presi vecchi e bambini, deportati (e rimpiazzati con soldati
smobilitati). È qui che diventa chiaro il principio di classe?
(Ricordiamo che proprio la regione del Kuban' quasi non appog-
giò i « bianchi » durante la guerra civile, sfasciò per prima le
retrovie di Denikin, e cercò un accordo con i rossi. Ed ecco che
si parla di « Kuban' sabotatore »! E che dire del villaggio di
Dolinka, celebre nell'Arcipelago, centro di una fiorente agri-
coltura? Nel 1929 tutti i suoi abitanti, tedeschi, furono « dekula-
kizzati » e deportati. Chi fossero tra loro gli sfruttatori e chi gli
sfruttati resta un mistero.)
Si capisce bene il principio della « dekulakizzazione » sul-
l'esempio dei destini dei bambini. Ecco Šura Dmitriev del vil-
laggio di Masleno (Seliščenskie Kazarmy presso Volchov). Nel
1925 alla morte del padre Fedor rimase, a tredici anni, unico ma-
schio; gli altri figli erano bambine. Chi doveva assumere le
redini dell'azienda paterna? Le assunse lui. Le bambine e la
madre gli si sottomisero. Da adulto, da lavoratore, salutava altri
adulti per la strada. Seppe continuare degnamente l'opera
paterna, e nel 1929 aveva i granai pieni di grano. Ecco l'esempio
d'un kulak. Fu deportato insieme a tutta la famiglia.
L'Adamova-Sliozberg racconta un incontro commovente con
la bambina Motja, incarcerata nel 1936 per essersi arbitraria-
mente allontanata - duemila chilometri a piedi! meriterebbe una
medaglia al merito sportivo - dal confino negli Urali per
raggiungere il suo villaggio nativo di Svetlovidovo vicino a
Tarussa. Da scolaretta era stata deportata con i genitori nel 1929
e privata per sempre della possibilità di studiare. La maestra la
chiamava affettuosamente « mia piccola Edison »; non soltanto
la bambina studiava benissimo ma aveva un ingegno da
inventore, aveva sistemato una specie di turbina che funzionava
con l'acqua di un ruscello e aveva fatto altre invenzioni per la
scuola. Sette anni più tardi ebbe il desiderio di dare almeno
un'occhiata a quella scuola irraggiungibile, e si prese per questo
la prigione e il lager. Mostratemi un destino di bambina simile a
questo, nel secolo XIX!
Meritava immancabilmente la « dekulakizzazione » ogni mu-

407
gnaio e chi erano i fabbri e i mugnai se non i migliori tecnici
della campagna, russa? Ecco il mugnaio Prokop Ivanovič Lak-
tjunkin da Pen'ki nei pressi di Rjazan'. Non appena lo deporta-
rono, in sua assenza le macine furono sforzate troppo e il molino
s'incendiò. Dopo la guerra ottenne il condono, tornò nel villaggio
nativo e non ebbe pace fino a quando, avuto il permesso, non
fuse da sé le macine e non costruì sul medesimo posto (doveva
assolutamente essere il medesimo) un molino, non certo per suo
profitto ma per il bene del kolchoz o meglio per completare e
abbellire il paesaggio circostante.
Prendiamo ora un fabbro di campagna, e vediamo che kulak
era. Anzi, cominciamo dal padre, come amano fare nei nostri
uffici del personale. Suo padre, Gordej Vasil'evič, aveva servito
25 anni nella fortezza di Varsavia guadagnandoci, come si suol
dire, tanto argento quanto ne contiene un bottone di stagno: un
soldato, dopo una ferma di venticinque anni, perdeva anche il
diritto all'appezzamento di terra. Vivendo in fortezza aveva
sposato la figlia d'un soldato, e tornò dopo il servizio militare nel
villaggio della moglie, Barsuki. Qui lo fecero ubriacare ed egli
spese metà dei soldi risparmiati per pagare le tasse dell'intero
villaggio moroso. Con l'altra metà prese in affitto dal proprietario
un molino, ma presto vi perse anche i soldi che gli restavano.
Durante la lunga vecchiaia fece il pastore e il guardiano. Ebbe sei
figlie, tutte maritate a dei poveracci, e un figlio, Trifon (il
cognome era Tvardovskij). Il ragazzo fu mandato a fare il
commesso in una merceria ma scappò per tornare a Barsuki e si
fece assumere dai fabbri Molcanov, senza compenso per il primo
anno; per quattro anni restò come apprendista, dopo altri quattro
divenne « maestro », si costruì un'isba nel villaggio di Zagor'e e
si sposò. Nacquero sette figli (fra questi il futuro poeta
Aleksandr); non ci si arricchisce con una fucina, il figlio
maggiore Konstantin aiutava il padre. Dall'alba al tramonto
forgiavano e fondevano e fabbricavano ogni giorno cinque
eccellenti accette d'acciaio, ma i fabbri di Roslavl' con le presse e
i lavoranti salariati vendevano a meno. La fucina dei Tvardovskij
rimase di legno fino all'anno 1929, ebbero un solo cavallo,
talvolta una mucca col vitellino, talvolta né mucca

408
né vitellino, e otto meli: erano questi gli sfruttatori. La Banca
agraria contadina vendeva a rate delle tenute ipotecate. Trifon
Tvardovskij prese 11 ettari di terra incolta tutta ricoperta di
cespugli, e ne disboscò con le proprie braccia, fino all'anno della
Peste, cinque ettari, il resto fu abbandonato, ancora ricoperto di
cespugli. Fu deciso di « dekulakizzare » Tvardovskij; in tutto
c'erano quindici case nel villaggio, e bisognava pur deportare
qualcuno! Gli ascrissero un reddito inaudito dalla fucina, lo tas-
sarono in misura insostenibile e quando non potè pagare in
tempo gli ingiunsero di prepararsi a partire, maledetto kulak.
Chiunque avesse una casa di mattoni in mezzo a case di travi,
o con un piano rialzato in mezzo a case che non ne avevano,
quello era un kulak. Preparati, canaglia, hai sessanta minuti!
Nelle campagne russe non ci devono essere case di mattoni, non
ce ne devono essere col piano rialzato. Indietro, nelle caverne!
Scaldati facendo uscire il fumo da un buco nel soffitto! È questo
il nostro grandioso progetto di trasformazione, non vi è ancora
stato nulla di simile nella storia.
Ma non sta qui il segreto principale. Talvolta chi viveva
meglio rimaneva a casa se faceva in tempo a iscriversi al
kolchoz. Ma l'ostinato poveraccio che non faceva domanda era
deportato.
Importantissimo: è questo il punto più importante. Non si
trattò affatto di « dekulakizzare », ma di cacciare a forza nei
kolchoz. Solo spaventandoli a morte era possibile togliere ai
contadini la terra donata dalla rivoluzione e rimetterli sulla
medesima terra come servi della gleba.
Fu una seconda guerra civile, questa volta contro i contadini.
Fu questa la Grande Frattura;* già, ma non ci dicono frattura di
che cosa.
Della spina dorsale del popolo russo.
No, abbiamo calunniato la letteratura del realismo socialista:
ha descritto la « dekulakizzazione », eccome, in una maniera
liscia, con molta simpatia, come una caccia a lupi zannuti.
Però non ha descritto lunghe serie di villaggi, tutti con le
* Perelom significa sia « frattura » sia, per traslato, « svolta ».

409
finestre inchiodate. Camminando lungo la strada vedi una donna
morta, con un bambino morto sulle ginocchia. Oppure un vec-
chio seduto per terra, appoggiato a una staccionata, ti chiede del
pane e quando torni indietro è già caduto da un lato, morto.
E nemmeno leggeremo la scena seguente: il presidente del
soviet rurale, accompagnato dalla maestra presa come testimone,
entra in un'isba dove sono sdraiati un vecchio e una vecchia (il
vecchio, prima, teneva un'osteria, è dunque uno sfruttatore, no?
infatti il viandante non ha bisogno di una tazza di té caldo!) e
brandisce la rivoltella: « Scendi dal letto, vecchia canaglia! ». La
vecchia urla, per maggior effetto il presidente spara al soffitto (fa
un bel rimbombo nell'isba). Per strada i due vecchi muoiono.
Tanto meno leggeremo di questo mezzo di « dekulakizzazio-
ne »: tutti i cosacchi di un villaggio del Don furono covocati a un
« raduno », là li circondarono con le mitragliatrici, li presero tutti
e li portarono via. Non ci volle niente a sloggiare le donne in
seguito.
Ci descriveranno e ci mostreranno anche al cinema granai o
fosse pieni di grano nascosto dagli sfruttatori. Ma non ci mostre-
ranno quel poco che hanno accumulato col sudore della fronte, la
mucca, il cortile, le suppellettili da cucina che la donna in
lacrime ha l'ordine di abbandonare. (Qualcuno della famiglia
riuscirà a mettersi in salvo, s'ingegnerà a iniziare pratiche, e
Mosca « delibererà » che la famiglia è di « media povertà »; ma
quando torneranno non troveranno più la propria roba: tutto è
stato portato via a pezzi e bocconi dagli attivisti e dalle loro
donne.)
Non ci mostreranno quei fagottini che essi permettono alla
famiglia di prendere con sé quando la fanno salire sul carro
appartenente allo Stato. Non sapremo che in casa Tvardovskij al
momento della disgrazia non c'era un pezzo di lardo né un tozzo
di pane, che li salvò un vicino, Kuz'ma, con molti figli a carico,
tutt'altro che ricco, con quel che aveva portato per il viaggio.
Chi faceva in tempo sfuggiva alla peste riparando in città.
Talvolta col cavallo, ma di quei tempi non si trovava a chi
venderlo: anche un cavallo appartenente a contadini era appe-
stato, era il sicuro indizio d'un, kulak. Il padrone finiva per le-

410
garlo al mercato, gli accarezzava il muso per l'ultima volta e se
ne andava prima di essere notato.
Si suol credere che la Peste fu nel 1929-30. Ma il suo fetore di
cadavere continuò ad aleggiare a lungo sopra la campagna.
Quando nel Kuban' nel 1932 si portava via tutto il grano appena
trebbiato per consegnarlo allo Stato, e i kolchoziani venivano
nutriti unicamente durante il raccolto e la trebbiatura, dopo di
che finivano i pasti caldi e non rimaneva un granello per il
trudoden'*, come si poteva tenere a freno le donne ululanti? Chi
altro è un kulak? Chi va deportato? (In quale stato fosse nei
primi tempi della collettivizzazione la campagna liberata dai
kulaki lo si può giudicare dalla testimonianza della Skripnikova:
nel 1930 in sua presenza certi contadini mandavano pacchi di
pane nero secco nel villaggio nativo dalle isole Solovki!)
Ecco la storia di Timofej Pavlovič Ovčinnikov, nato nel 1886,
originario del villaggio di Kiškino nel distretto di Michnevo (non
lontano dalla località di Gorki di Lenin,** vicino all'omonima
strada Lenin). Combattè durante la prima guerra mondiale,
durante quella civile. Poi tornò sulla terra concessa dal
decreto,*** si sposò. Era intelligente, istruito, navigato, aveva le
mani d'oro. S'intendeva di veterinaria, offriva i suoi servizi
volontariamente in tutto il circondario. Lavorando senza posa si
costruì una bella casa, si sistemò un giardino, allevò un buon
cavallo che aveva preso puledro. Ma la Nuova Politica Econo-
mica lo sviò, vi credette come aveva creduto alla proprietà della
terra, organizzò, a metà con un altro contadino, un laboratorio
artigiano in cui faceva dei salami a buon mercato. (Ora che in
campagna manca il salame da quarantanni c'è da grattarsi la
testa: cosa c'era di male in quell'attività?) Facevano tutto da soli,
senza assumere un lavorante, e vendevano i salami per il tramite
di una cooperativa. Durò due anni, dal 1925 al 1927, poi
cominciarono a soffocarli di tasse, adducendo presunti enormi
* Letteralmente « giornolavoro » unità di valutazione del lavoro nel kolchoz che determinava
la quota parte di ciascun suo membro del reddito della comunità.
** Gorki Leninskie: antica tenuta a sud di Mosca. Vi villeggiò Lenin negli ultimi anni della
sua vita, e vi morì.
*** II 26 ottobre 1917 Lenin fece adottare il decreto, subito messo in esecuzione, che aboliva
la grande proprietà fondiaria senza indennizzo.

411
guadagni (li inventarono, per dovere d'ufficio, gli ispettori finan-
ziari, e fecero delle soffiate alcuni invidiosi fannulloni del villag-
gio, capaci unicamente di fare gli attivisti). I due soci chiusero la
salumeria. Nel 1929 Timofej s'iscrisse fra i primi al kolchoz,
consegnò il suo buon cavallo, la mucca, l'intero inventario.
Lavorando a più non posso sui campi kolchoziani allevava
inoltre per il kolchoz due torelli di razza. Il kolchoz si sfasciava,
molti scappavano, ma Timofej aveva cinque figli, non era pos-
sibile muoversi. Nella maligna memoria dell'ufficio finanziario
era ancora considerato agiato (anche per le sue prestazioni vete-
rinarie alla popolazione) e anche da kolchoziano lo oberavano di
sempre nuove imposte. Non avendo egli di che pagare,
cominciarono a portargli via da casa perfino gli indumenti. Una
volta un suo figliolo undicenne riuscì a sottrarre al sequestro tre
pecore, la volta successiva furono prese anche quelle. Quando
vennero per l'ultima volta a pignorare i beni della famiglia,
questa non possedeva più nulla e gli spudorati ispettori
finanziari, pignorarono dei vasi di ficus. Timofej non resse e
sotto i loro occhi fece a pezzi le piante con un'accetta. Cosa
aveva fatto? 1. distruzione di beni ormai di proprietà dello Stato;
2. agitazione, munito di accetta, contro il potere sovietico; 3.
patente tentativo di screditare il sistema kolchoziano.
Per l'appunto il sistema kolchoziano faceva crepe nel villaggio
di Kiškino, nessuno voleva più lavorare, non ci credevano più;
una metà se n'era andata e bisognava punire qualcuno in maniera
esemplare. Timofej Ovčinnikov, quel nepman matricolato che si
era introdotto nel kolchoz allo scopo di sfasciarlo, fu ora «
dekulakizzato » su delibera del presidente del soviet rurale,
Sokolov. Era l'anno 1932, la deportazione in massa era terminata
e la moglie con sei figli (di cui uno lattante) non fu deportata ma
solo buttata fuori di casa, e questa venne confiscata. (A spese
proprie un anno dopo si trasferirono dal padre di lui ad
Archangel'sk. Tutti gli Ovčinnikov erano arrivati agli ot-
tant'anni, ma dopo una vita simile Timofej non arrivò ai cin-
quantatré.)1
1
Quanto segue non si riferisce al nostro tema, ma aiuta a capire l'epoca. Col tempo anche ad
Archangel'sk Timofej riuscì a farsi assumere in una

412
Anche nel 1935, a Pasqua, i capi dei kolchoz, ubriachi, gira-
vano nei villaggi esigendo dai cenciosi « agricoltori indipendenti
» soldi per la vodka. « Se non ce li dai ti deportiamo! » E lo fan-
no! Si tratta infatti di « indipendenti ». Sta appunto in questo la
grande svolta.
Quanto al viaggio, alla via crucis dei contadini, questo i reali-
sti socialisti non lo descrivono davvero. Caricati, spediti, fine
della storia, tre asterischi dopo l'episodio.
Fortunato chi era caricato su carri durante la buona stagione,
altrimenti erano slitte, con un gelo feroce, piene di lattanti,
bambini e ragazzi. Nel febbraio del 1931, mentre le gelate si
alternavano alle bufere di neve, continuarono a passare attraverso
il viaggio di Kocenevo (provincia di Novosibirsk), a passare
ininterrottamente interminabili convogli scortati da truppe: ap-
parivano dalla steppa nevosa e vi sparivano. Potevano entrare a
scaldarsi nelle isbe soltanto con il permesso della scorta e per
pochi minuti, per non trattenere il convoglio. (Quei militari delle
truppe di scorta della GPU sono ancora vivi! sono oggi pensionati,
devono pur ricordare! O forse no, non ricordano...) Si dirigevano
verso le paludi di Narym, e in quelle insaziabili paludi rimasero
tutti. Ma ancor prima, durante il crudele viaggio, morivano i
bimbi.
L'idea era proprio questa, distruggere il seme dei mužiki, in-
sieme agli adulti. Dopo la morte di Erode, solo la Dottrina
d'Avanguardia è stata capace di spiegarci come sterminare fino ai
bambini in fasce. Hitler non fu che un allievo, ma ebbe fortuna:
infatti dei suoi mattatoi s'è fatto un gran parlare, mentre dei
nostri non s'interessa nessuno.
I contadini sapevano cosa li attendeva. Quando capitava loro
la fortuna di attraversare luoghi abitati, alle fermate calavano

salumeria chiusa, anche questa con due soli lavoranti, ma con un direttore a capo. Quella sua era
stata chiusa come nociva per i lavoratori, questa era chiusa perché i lavoratori non ne sapessero
nulla. Confezionava salami pregiati per rifornire i dirigenti di quella regione settentrionale della
Russia. Più volte Timofej fu mandato a consegnare salami in una casa a un piano, dietro un'alta
palizzata, dimora del segretario del comitato regionale, compagno Austrin (angolo di vie
Liebknecht e Cumbarov-Lucinskij) e al capo della NKVD locale, compagno Sejron.

413
attraverso le finestre i bambini piccoli ma già capaci di arram-
picarsi: mendicate, vivete d'elemosina, pur di non morire insieme
a noi.
(Ad Archangel'sk negli anni di carestia 1932-33 ai ragazzi dei
miserabili « confinati speciali » non si concedeva né la refezione
scolastica né i buoni per il vestiario come agli altri bisognosi.)
Nel convoglio proveniente dal Don in cui le donne erano state
separate dai cosacchi, presi all'« adunata », una donna partorì
durante il viaggio. Ricevevano un bicchiere di acqua al giorno e
non tutti i giorni trecento grammi di pane. Un aiuto medico?
Neanche a pensarci. La madre non aveva latte e il bimbo morì.
Dove seppellirlo? Due della scorta salirono nel vagone, durante il
tragitto aprirono la porta e scaraventarono fuori il cadaverino.
(Quello scaglione fu portato al grandioso cantiere di Magni-
togorsk. Vi furono portati anche i mariti: scavatevi dei rifugi! È
proprio a partire da Magnitogorsk che i nostri bardi si misero
all'opera e riflessero la nuova vita.)
La famiglia Tvardovskij fu portata in carro soltanto fino ad
El'nja e per fortuna era già il mese di aprile. Là fu caricata su un
carro merci. I vagoni venivano chiusi dal di fuori, non c'era
neanche un secchio o un foro nel pavimento per i bisogni
corporali. Rischiando di essere punito, magari con una condanna
al lager per tentativo di evasione, Konstantin Trifonovič aprì un
buco con un coltello da cucina, mentre il treno viaggiava, quando
c'era più rumore. Il cibo era fornito così: ogni tre giorni, alle
stazioni principali, portavano la minestra in un secchio. Vero è
che il viaggio (fino alla stazione di Ljalja, Urali settentrionali)
durò solamente dieci giorni. Là era ancora inverno, la tradotta fu
accolta con centinaia di slitte e portata, sul ghiaccio del fiume,
nella foresta. V'era una baracca per gli operai addetti alla
fluitazione, calcolata per una ventina di persone. Ne fu portato un
mezzo migliaio, verso sera. Il comandante Sorokin, di Perm',
membro del Komsomol, camminava su e giù sulla neve e
mostrava dove infiggere i pioli: qui ci sarà la strada, qui ci
saranno le case. Fu così fondato l'abitato di Parča.
È difficile credere a tanta crudeltà: una sera d'inverno, dire in
piena tajga: ecco, qui! Esseri umani possono farlo? Il tra-

414
sporto avviene di giorno, dunque fanno arrivare i deportati verso
sera. Centinaia e centinaia di migliaia venivano trasportati pre-
cisamente così e poi abbandonati, con i vecchi, le donne e i
bambini. Sulla penisola di Kola (Appatity) vissero tutto il buio
inverno polare in semplici tende, sotto la neve. Del resto non so
se fosse molto più caritatevole portare, come fecero, i tedeschi
dalle rive del Volga in estate (anno 1931, '31, non '41, non
confondete!) nei luoghi privi d'acqua della steppa di Karaganda e
là costringerli a scavare e costruire, razionando l'acqua. E anche
là sarebbe sopraggiunto l'inverno. (Verso la primavera del 1932 i
bimbi e i vecchi morirono: dissenteria, distrofia). Nella stessa
Karaganda, come a Magnitogorsk, si costruivano lunghi rifugi
interrati, più simili a depositi di legumi che a dormitori. Sul
canale del mar Bianco alloggiavano i nuovi arrivati nelle
baracche dei lager svuotati. Sul Volgokanal, a due passi da
Mosca, i confinati venivano portati ancor prima del lager, subito
dopo terminata l'esplorazione idrografica, li facevano scendere e
comandavano loro di scavare quella terra e riempirne le carriole.
(Nei giornali si scriveva: « Delle macchine sono state portate sul
canale ».) Non c'era pane; bisognava scavare i proprì rifugi
durante il tempo libero. (Oggi vi portano gitanti con i battelli.
Ossa sul fondo del canale, ossa nella terra, ossa nel cemento.)
Con l'avvicinarsi della Peste, nel 1929, chiusero ad Archan-
gel'sk tutte le chiese: comunque avevano già deciso di chiuderle,
ma a quel punto sorse la necessità reale di alloggiare i « deku-
lakizzati ». Vaste fiumane di mužiki fluivano attraverso Archan-
gel'sk e per un certo tempo l'intera città divenne qualcosa come
un'immensa prigione di transito. Nelle chiese furono costruiti
castelli a molti piani, ma mancavano le stufe. Alla stazione con-
tinuavano a scaricare i carri bestiame e accompagnati dai latrati
dei cani, i cupi contadini calzati di scorza di betulla andavano ad
occupare i pancacci delle chiese. (Il ragazzo S. ricorda come un
contadino camminasse con finimenti da cavallo appesi al collo:
nella fretta non era riuscito a pensare di che cosa avrebbe avuto
più bisogno. Qualcun altro si portava dietro un grammofono con
il diffusore a tromba. Operatori cinematogra-

415
fici, eccovi del lavoro!) Nella chiesa della Presentazione al Tem-
pio i pancacci a otto piani, non fissati ai muri, crollarono di notte
e ci furono molte famiglie schiacciate. Le urla fecero accorrere
alla chiesa le truppe.
Così vissero i confinati durante l'inverno della Peste. Non si
lavavano. I corpi marcivano. Scoppiò un'epidemia di tifo
petecchiale. Morivano. Ma agli abitanti di Archangel'sk era stato
dato l'ordine severissimo di non aiutare i confinati speciali (così
erano chiamati i contadini deportati). Gli agricoltori moribondi di
fame vagavano per la città, ma nessuno poteva accoglierli in
casa, nutrirli o portare del té fuori, al cancello: la milizia, per
azioni simili, arrestava la gente del luogo e toglieva il passaporto.
Si vedeva un affamato trascinarsi per la strada, cadere e morire.
Ma neppure allora si potevano toccare (circolavano agenti per
controllare che nessuno desse prova di buon cuore). A quel
tempo erano deportati interi villaggi di orticoltori della periferia
delle città e allevatori di bestiame (ancora una volta: chi sfruttava
chi?), e gli abitanti di Archangel'sk tremavano dalla paura di
subire la medesima sorte. Temevano perfino di fermarsi, di
chinarsi sopra un cadavere. (Uno di questi rimase vicino alla
sede della GPU, non lo rimuovevano.)
Le sepolture avvenivano in modo organizzato, era un servizio
municipale. Senza bare, si capisce, in fosse comuni, accanto
all'antico cimitero cittadino lungo la strada per Vologda, quasi in
aperta campagna. Le tombe non venivano segnate.
E tutto questo per i seminatori di grano non era che una tappa.
Esisteva anche un grande lager oltre il villaggio di Talagi e
alcuni venivano presi per caricare il legname. Ma uno di questi
s'ingegnò a scrivere una lettera su un tronco da spedire all'estero
(andate a insegnare ai contadini a scrivere!) e furono tolti da quel
lavoro. Erano destinati altrove: sul fiume Onega, sul Pinega e su
per la Dvina.
Noi, nel lager, scherzavamo: « Più in là del sole non ci man-
deranno ». Quei contadini, però, furono mandati più lontano, in
luoghi dove per molto tempo non ci sarebbe stato un tetto sotto il
quale poter accendere un lucignolo.
La deportazione dei contadini si distingueva da tutte le pre-

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cedenti e successive deportazioni sovietiche in quanto essi non
erano confinati in un luogo abitato, ma in mezzo alle belve, in
luoghi deserti, allo stato primitivo. Peggio: anche allo stato
primitivo i nostri avi si sceglievano l'abitazione per lo meno
vicino all'acqua. Da quando esiste l'umanità, nessuno ha costruito
diversamente, ma per i confinati speciali si sceglievano posti (i
contadini stessi non avevano il diritto di scegliere!) su pendii
sassosi (sopra al fiume Pinega ad un'altezza di cento metri, dove
è impossibile scavare fino a raggiungere l'acqua e dove nulla
potrà crescere sulla terra). A tre o quattro chilometri di distanza
c'era una comoda prateria, ma no, secondo le istruzioni non si
doveva insediarli vicino a quella. I prati da falciare risultavano a
dieci chilometri dall'abitato, portavano il fieno con le barche...
Talvolta era esplicitamente vietato seminare il grano. (Erano i
čekisti a dare le direttive per l'agricoltura.) Per noi abitanti di
città è incomprensibile un altro fatto: quello che significa, per un
contadino, vivere con il bestiame; senza il bestiame non è vita
per lui. Questi invece erano condannati a non udire per molti
anni un nitrito, un muggito, un belato; a non sellare, non
mungere, non distribuire mangimi.
Sul fiume Culym in Siberia un « villaggio speciale » dei
cosacchi del Kuban' fu circondato da filo spinato e vi
innalzarono le torrette come per un lager.
Sembrava che tutto fosse fatto apposta perché gli odiati
agricoltori indifesi morissero al più presto, liberassero il nostro
paese da sé e dal grano. E infatti, molti di quei « villaggi speciali
» si estinsero. Adesso, sul posto dove sorsero una volta, i rari
passanti che ci capitano, finiscono un po' alla volta di bruciare le
assi delle baracche e prendono a calci i teschi che affiorano qua e
là!
Nessun Gengis Khan annientò tanti contadini russi quanti ne
sterminarono i nostri gloriosi Organi sotto la direzione del
Partito.
Ecco la tragedia del Vasjugan. Nel 1930 diecimila famiglie
(dunque 60-70 mila persone, date le famiglie di allora) passarono
attraverso Tomsk, poi lungo l'Ob', poi su per il corso del fiume
Vasjugan, ancora coperto dai ghiacci. (Gli abitanti dei villaggi

417
che si trovavano lungo il cammino erano poi costretti a raccattare
cadaveri di adulti e bambini.) Furono abbandonati sull'alto corso
del fiume, in mezzo alle paludi. Non furono lasciati ai deportati
scorte alimentari né strumenti di lavoro. Quando si sciolse la
neve non rimase nessuna via di comunicazione con il mondo
esterno, all'infuori di due punti dove tronchi d'albero
ammucchiati permettevano un passaggio fra gli acquitrini, l'uno
sulla via verso Tobol'sk, l'altro verso il fiume Ob'. Su ambedue i
punti furono messi dei posti di blocco con mitragliatrici, non si
permetteva a nessuno di uscire dalla trappola mortale. Cominciò
la moria. La gente disperata andava ai posti di blocco a suppli-
care, era abbattuta a raffiche di mitra. Più tardi, quando si riaprì
la navigazione, dall'« Integralsojuz » (cooperativa di consumo) di
Tomsk furono mandati barconi carichi di farina e sale, ma
neppure quelli poterono risalire il Vasjugan. (Il carico era stato
affidato ad un incaricato dell'Integralsojuz, le informazioni pro-
vengono da lui.)
Morirono tutti i deportati.
Raccontano che venne aperta tuttavia un'inchiesta sul caso e
che addirittura un uomo fu fucilato. Io non ci credo troppo. Ma
se così fu, la proporzione è quella solita della guerra civile: per
uno dei nostri, mille dei vostri. Anzi, per sessantamila dei vostri,
uno dei nostri!
Senza questo non si edifica la Nuova Società.
Eppure i confinati vivevano. Date le circostanze è difficile
crederci ma vivevano.
Nell'abitato di Parča la giornata cominciava con i bastoni dei
capomastri, gente del luogo. Per tutta la vita quei contadini
avevano iniziato la giornata da soli, adesso venivano cacciati a
bastonate a tagliare gli alberi e fluitare i tronchi. Per mesi non
avevano la possibilità di asciugarsi, la razione di farina veniva
diminuita sempre di più, si esigeva da essi l'adempimento del
lavoro assegnato, poi, di sera, potevano costruirsi l'alloggio. Gli
indumenti si logorarono completamente, i sacchi venivano usati
come gonne e trasformati in calzoni.
Ma se fossero morti tutti, non esisterebbero oggi molte città,

418
come per esempio Igarka. Chi costruì questa cittadina fin dal-
l'anno 1929? Fu davvero il SevPoljarLestTrust, il Trust Forestale
del Nord e delle Regioni polari? O non, piuttosto, i contadini «
dekulakizzati »? Con cinquanta gradi sotto zero vivevano in ten-
de, ma già nel 1930 fornirono il primo legname per
l'esportazione.
Nei loro « villaggi speciali » i « dekulakizzati » vivevano
come nei lager a regime duro. E sebbene non vi fossero reticolati
intorno, e un solo fuciliere vivesse di solito nel villaggio, questi
era il padrone di ogni divieto e permesso, era l'unico ad avere il
diritto inappellabile di sparare a chiunque disobbedisse.
La categoria civile a cui appartenevano i villaggi speciali, la
loro consanguineità con l'Arcipelago si spiegano agevolmente
con la legge dei vasi comunicanti: quando a Vorkuta era avver-
tita l'insufficienza della manodopera i confinati speciali venivano
trasferiti (senza un processo, senza un cambiamento di nome) dal
loro abitato nei lager. E vivevano tranquillamente tra i reticolati,
andavano a lavorare fra i reticolati, mangiavano la sbobba del
lager, con la sola differenza che pagavano per questa (come pure
per la scorta e per la baracca) con i propri guadagni. E nessuno si
stupiva di nulla.
I contadini confinati venivano trasferiti da un villaggio al-
l'altro, divisi dalla famiglia, come i detenuti da un lager all'altro.
Nel tiremmolla talvolta curioso della nostra legislazione, il 3
luglio 1931 il Comitato esecutivo centrale dell'URSS emanò una
delibera che permetteva di reintegrare i « dekulakizzati » nei loro
diritti dopo 5 anni « se si erano dedicati (in un lager a regime
duro!) a un lavoro socialmente utile e avevano dimostrato di
essere ligi verso il potere sovietico » (insomma, aiutavano il
fuciliere, il comandante o il čekista). Tuttavia questo era stato
scritto scioccamente, in un fugace impulso. Del resto i 5 anni
vennero a scadere proprio nel periodo in cui l'Arcipelago comin-
ciò a pietrificarsi.*
Non erano anni in cui ci si potesse permettere di indebolire il
regime: oggi l'assassinio di Kirov; poi gli anni '37-'38; dal '39
cominciò la guerra in Europa; dal '41 da noi. La prudenza sug-
* Si veda Arcipelago GULag 2°, cap. IV.

419
geriva tutt'altro atteggiamento: dal '37 si cominciò a prelevare i
soliti sciagurati kulaki ed i loro figli dal confino speciale, per
affibbiare loro l'articolo 58 e spedirli nei lager.
A dire il vero, in piena guerra, quando cominciò a mancare al
fronte la impetuosa forza russa, si ricorse anche ai kulaki: la loro
coscienza di russi doveva pur prevalere su quella di kulak! Qua e
là si proponeva loro di andare al fronte, invece di rimanere nei
villaggi speciali o nei lager, e di difendere la sacra patria.
E... ci andavano.
Ma non sempre. A Ch-v, figlio di kulaki, - ho utilizzato la
prima parte della sua biografia per Tjurin,* ma non ho osato,
allora, svelarne la seconda - fu proposto nel lager ciò che era
rifiutato a trockisti e comunisti per quanto vi anelassero: andare a
difendere la patria. Ch-v non esitò un istante, e rispose a muso
duro all'URČ del lager: « È vostra la patria, andate voi a difen-
derla, mangiatori di merda! Il proletariato non ha patria! »
Apparentemente il tutto rispecchiava fedelmente Marx, e in-
fatti ogni abitante d'un lager è ancora più povero, ancora più
privo di diritti che non un proletario, ma il tribunale del lager
non la pensava così e condannò Ch-v alla fucilazione. Lui rimase
due settimane in attesa della pena suprema e non fece domanda
di grazia, tanta era la sua rabbia contro di loro. Gli commutarono
essi stessi la pena in una seconda diecina.
Succedeva talvolta che i contadini venissero portati nella
tundra o nella tajga, lasciati andare e dimenticati: infatti erano
portati là a morire, perché tenerne il conto? Non si lasciava là
neppure un fuciliere, dato il luogo remoto e sperduto. E quella
razza tenace e laboriosa, finalmente liberata dai saggi dirigenti,
senza un cavallo o un aratro, senza attrezzi da pesca, senza un
fucile, magari con qualche accetta o vanga, cominciava l'impari
lotta per la vita in condizioni poco più facili che nell'età della
pietra. E a dispetto delle leggi economiche del socialismo quei
villaggi non soltanto sopravvivevano, ma si rafforzavano e ar-
ricchivano.
* II brigadiere di Suchov, in Una giornata di Jvan Denisovič.

420
In un tale villaggio, nei pressi dell'Ob', ma lontano dalla
navigazione fluviale, su un suo affluente, crebbe Burov, capitato
lì da ragazzino. Egli racconta che una volta, poco prima dello
scoppio della guerra, un motoscafo di passaggio li notò e attrac-
cò. Nel motoscafo c'erano i dirigenti del distretto. Cominciarono
a interrogare com'era sorto l'abitato, da quando, chi erano gli
abitanti. I dirigenti si meravigliarono della ricchezza e del be-
nessere sconosciuti nella loro regione di kolchoz. Partirono.
Qualche giorno dopo arrivarono gli incaricati con i fucilieri della
NKVD e di nuovo, come nell'anno della Peste, tutti ebbero l'ordine
di abbandonare, tempo un'ora, quanto avevano accumulato nel-
l'abitato e furono spediti, spogliati di ogni cosa, con un solo
fagottino, lontano nella tundra.
Non basta questo solo racconto per capire tanto l'essenza dei
kulaki quanto quella della « dekulakizzazione »?
Cosa si potrebbe fare con un popolo simile se si lascia vivere
liberamente e liberamente svilupparsi!
I vecchio-credenti!* Questi eterni perseguitati, questi eterni
deportati, avevano capito, con tre secoli di anticipo, l'immutabile
essenza delle Autorità! Nel 1950 un aereo servolò i vasti spazi
bagnati dalla Podkamennaja Tunguska. Dopo la guerra la scuola
di volo si era perfezionata molto e lo zelante pilota vide quanto
non era stato notato in venti anni: un abitato sconosciuto nella
tundra. Lo segnò. Fece il suo rapporto. Era lontano, in una zona
impervia, ma nulla è impossibile per la Sicurezza dello Stato, e
sei mesi dopo la località fu raggiunta. Erano dei vecchio-credenti
di Jaruevo. Quando cominciò la Grande Peste, pardon, la Grande
Collettivizzazione, quelli rinunziarono a tanto bene e, se ne
andarono tutti, un intero villaggio, nella tajga. Vissero senza mai
farsi notare, mandavano soltanto l'anziano della comunità a
Jaruevo per comprare il sale, gli attrezzi da pesca e da caccia, le
parti di ricambio per gli strumenti di lavoro, e facevano da sé
tutto il resto. Invece di denaro l'anziano portava, probabilmente,
pellame. Finite le faccende egli spariva dal mercato con
circospezione, come un delinquente pedinato. Così i vecchio-
* Scismatici che si separarono dalla Chiesa ortodossa nel XVII secolo; subirono crudeli
persecuzioni.

421
credenti di Jaruevo guadagnarono vent'anni di vita. Vent'anni di
libera vita da esseri umani in mezzo alle belve, invece di
vent'anni di sconforto kolchoziano. Portavano tutti gli abiti
tessuti in casa, calzature fatte in casa, e si distinguevano per
gagliardia.
Adesso questi ignobili disertori dal fronte dei kolchoz furono
tutti arrestati e condannati in base all'articolo... quale, direste
voi? Legami con la borghesia mondiale? Sabotaggio? No, 58-10,
agitazione (!) antisovietica e 58-11, organizzazione antisovietica.
(Molti di essi capitarono poi nel gruppo di Džezkazgan dello
Steplag, e da essi abbiamo avuto queste notizie.)
Nel 1946 altri vecchio-credenti, sloggiati da uno sperduto mo-
nastero dimenticato con un assalto delle nostre gloriose truppe
(oramai fornite di mortai, con l'esperienza, oramai, della guerra
patria) furono spediti su delle zattere giù per il corso dello Enisej.
Gli indomiti prigionieri, gli stessi sotto Stalin come sotto Pietro il
Grande, si buttavano dalle zattere nelle acque dello Enisej e i
mitraglieri li finivano là.
Combattenti dell'esercito sovietico! rafforzate
instancabilmente la vostra efficienza bellica!
No, la razza condannata non perì tutta. Anche al confino
nascevano figli, ed erano immatricolati, per diritto di eredità, nel
medesimo villaggio speciale. (« Un figlio non risponde per il
padre »,* ricordate?) Se una ragazza di fuori sposava un confi-
nato speciale entrava anch'essa a far parte del ceto dei servi della
gleba e veniva privata dei diritti civili. Se un uomo sposava una
di quelle diventava anch'egli un confinato. Se una figlia andava a
far visita al padre era registrata come confinata speciale, si
correggeva l'errore di non averla presa prima. Con tutte queste
aggiunte si compensava la perdita dei trapiantati nei lager.
Erano molto in vista i confinati speciali a Karaganda e nei
suoi dintorni. Erano in tanti. Come i loro antenati erano stati
legati in perpetuo agli stabilimenti degli Urali e dell'Altaj, così
* Formula lanciata da Stalin in persona alla fine degli anni Trenta.

422
essi erano legati in perpetuo alle miniere di Karaganda. Il padro-
ne non doveva avere troppi scrupoli in fatto di salario o di ore di
lavoro. Si dice che essi invidiassero moltissimo i detenuti dei
lager agricoli.
Fino agli anni Cinquanta, e in certi posti fino alla morte di
Stalin, i confinati speciali non possedevano un passaporto. Sol-
tanto a partire dalla guerra si cominciò ad applicare a quelli di
Igarka il « coefficiente polare »* nel calcolare il salario.
Ma quelli che sono sopravvissuti al ventennio di confino da
appestati, e sono stati liberati dalla tutela poliziesca, ed hanno
ottenuto i passaporti di cui andiamo orgogliosi, chi sono, cosa
sono interiormente ed esteriormente? Sono i soliti nostri cittadini
sovietici, del tutto rispondenti allo standard di moralità previsto.
Sono esattamente come chi è stato allevato dalle borgate operaie,
dalle adunate sindacali e dal servizio nell'esercito sovietico.
Esattamente come gli altri, sfogano la repressa baldanza
giocando a domino. Come tutti, annuiscono ad ogni cosa che
baleni sul televisore. Al momento occorrente bollano come tutti e
con la stessa indignazione la Repubblica sudafricana o danno gli
spiccioli per aiutare Cuba.
Abbassiamo dunque lo sguardo dinanzi al Grande Macellaio,
chiniamo la fronte e curviamo la schiena di fronte al suo enigma
intellettuale: dunque risulta che aveva ragione lui, conoscitore
dei cuori, quando metteva in moto quel suo pauroso impasto san-
guinolento rimestandolo di anno in anno?
Ha avuto ragione moralmente: non gli si tiene rancore. Sotto
di lui, dice il popolino, « si stava meglio che sotto Chruščev ».
Infatti il 1° aprile, giorno degli scherzi, abbassava ogni anno di
un copeco il prezzo delle sigarette e di dieci quello delle mer-
cerie. Fino alla sua morte gli furono cantati lodi e inni, e ancor
oggi non ci è permesso accusarlo: non soltanto qualsiasi censore
fermerà la vostra penna, ma qualsiasi avventore in un negozio o
passeggero di un vagone si affretterà a fermare il sacrilegio sulle
vostre labbra.
* L'URSS è divisa in « zone » salariali, secondo una scala che tiene conto delle difficoltà
ambientali.

423
Infatti noi rispettiamo i Grandi Malfattori. C'inchiniamo di-
nanzi ai Grandi Assassini.
Tanto più egli ha avuto ragione dal punto di vista statale: quel
sangue fu il cemento che gli dette dei kolchoz obbedienti. Poco
importa se un quarto di secolo dopo la campagna sarà impoverita
fino all'osso e il popolo degenererà spiritualmente. In compenso i
razzi voleranno nel cosmo e l'Occidente dei lumi e del progresso
striscerà servilmente dinanzi alla nostra potenza.

424
III Il confino s'infittisce

Una deportazione così feroce, in luoghi tanto selvaggi e così


esplicitamente ordinata allo sterminio, nessuno l'aveva mai su-
bita prima dei contadini e nessuno l'avrebbe più subita in seguito.
Tuttavia, sia pure restando in limiti più modesti e seguendo leggi
proprie, il nostro confino s'infittiva di anno in anno: arrivava
sempre più gente, la gente vi era sempre più concentrata, e i
regolamenti si facevano via via più severi. Possiamo distinguere,
grosso modo, i seguenti periodi: Negli anni Venti il confino era
una specie di tappa transitoria prima del lager; erano pochi quelli
che se la cavavano col solo confino, quasi tutti finivano per
essere rastrellati e spediti in un lager.
Dalla metà degli anni Trenta e soprattutto con l'avvento di
Berija, forse grazie al notevole incremento dei suoi effettivi
(quanta gente fornì la sola città di Leningrado!), il confino andò
acquistando un'importanza affatto autonoma, in quanto
procedimento del tutto soddisfacente dal punto di vista della
limitazione della libertà e dell'isolamento. Negli anni della guerra
e del dopoguerra, le sue dimensioni non cessarono di accrescersi
e la sua posizione a confronto dei lager andò rafforzandosi
sempre più: non comportava spese per la costruzione delle ba-
racche e delle recinzioni, né per la retribuzione ai guardiani, e
aveva una grande capacità di assorbimento, particolarmente per i
contingenti di donne e bambini. (In tutte le grosse prigioni di
transito delle celle apposite erano riservate in permanenza

425
alle donne deportate con i figli, e non rimanevano mai vuote).1 Il
confino garantiva il repulisti, sicuro e irreversibile, entro un
brevissimo tempo, di qualsiasi regione importante del territorio
metropolitano. Il confino si affermò tanto che dal 1948 acquistò,
nella vita della nazione, un ulteriore significato, quello di im-
mondezzaio, di serbatoio dove buttare gli scarti dell'Arcipelago,
perché non potessero mai più ritrovare la strada della metropoli.
A partire dalla primavera del 1948 furono emanate nei lager le
istruzioni seguenti: scontata la pena, i Cinquantotto, salvo casi
eccezionali, dovevano essere liberati al confino. Ossia, invece di
lasciare imprudentemente che si disseminassero per un paese che
non apparteneva loro, si doveva condurre ogni individuo, sotto
scorta armata, dal posto di guardia del lager fino al comando del
luogo di confino; da una gabbia a un'altra gabbia. E poiché le
zone di confino erano rigidamente definite, il loro insieme
formava una terza contrada (anche se frantumata) tra l'URSS e
l'Arcipelago: più spurgatore che purgatorio, poiché era aperto
sull'Arcipelago ma non sulla metropoli.
Gli anni 1944-45 fornirono al confino nuove leve particolar-
mente abbondanti provenienti dai territori vìttime
dell'occupazione-liberazione, gli anni 1947-49 ne portarono
invece dalle repubbliche occidentali. E per arrivare al totale di
tutte le fiumane, prese insieme, anche senza contare la
deportazione dei contadini, bisogna moltiplicare e moltiplicare e
moltiplicare ancora la cifra di mezzo milione che comprende tutti
i deportati che si ebbero nel corso del secolo XIX nella Russia
zarista, quella prigione dei popoli.
Quali erano dunque i delitti per i quali un cittadino del nostro
paese era soggetto negli anni Trenta e Quaranta alla deportazione
o al confino? (Questa distinzione, fonte evidentemente di una
sorta di voluttà amministrativa, in tutti quegli anni fu, se non
rispettata, per lo meno evocata. M.I. Bordovskij, perseguitato
1
Anche se i mariti venivano anch'essi deportati, non viaggiavano mai insieme a loro: le
istruzioni esigevano che i membri delle famiglie condannate fossero inviati in luoghi diversi. Così
quando I. Ch. Gornik, avvocato a Kisinev, fu deportato per sionismo nel territorio di Krasnojarsk
[Siberia centrale] la sua famiglia fu confinata a Salechard [Siberia nord-occidentale].

426
per la sua fede, il quale si stupiva che lo deportassero senza un
processo, si sentì spiegare nobilmente dal tenente-colonnello: «
Non c'è stato un processo perché si tratta di confino, non di
deportazione. Non la riteniamo imputabile, tant'è vero che non
l'abbiamo neanche privata del diritto di voto ». Ossia del più
importante dei diritti civili...)
È facile indicare i delitti più frequenti:
1. appartenere a una nazionalità criminale (ne parleremo nel
capitolo successivo);
2. aver finito di scontare una condanna al lager;
3. vivere in un ambiente criminale (la città sovversiva di
Leningrado; una regione di partigiani come l'Ucraina occidentale
o i paesi baltici).
Inoltre molte delle fiumane elencate all'inizio di questa opera*
avevano, accanto ai corsi principali che portavano nei lager,
derivazioni verso il confino, dove scaricavano costantemente una
parte del loro contingente. Chi erano? Per lo più famiglie di
persone condannate al lager. Ma non tutte le famiglie venivano
imbarcate, e d'altra parte non solo le famiglie si riversavano nelle
derivazioni alla volta del confino. Come per spiegare le correnti
formate da un liquido occorre una salda conoscenza
dell'idrodinamica, senza la quale non rimane che tacere e limi-
tarsi ad osservare il cieco elemento, che ruggisce e vortica, così
anche in questo caso: non ci è possibile studiare e descrivere tutti
gli impulsi differenziati che, quell'anno piuttosto che quell'altro,
si sono messi improvvisamente a dirigere quelle persone e non
quelle altre al confino invece che nel lager. Accontentiamoci di
osservare questo miscuglio pittoresco in cui entravano tanto degli
emigrati dalla Manciuria che degli individui isolati, provenienti
da paesi stranieri (ai quali la legge sovietica non permetteva,
neppure al confino, di sposare un sovietico o una sovietica,
deportati anch'essi sia pure, ma comunque sovietici); gente del
Caucaso (nessuno si ricorda di aver mai visto un solo
georgiano)** e dell'Asia centrale, ai quali la loro prigio-
* Si veda Arcipelago GULag 1°, cap. II.
** Era georgiano Stalin.

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nia durante la guerra era costata non dieci anni di lager ma sei di
confino; e perfino dei siberiani, ex prigionieri di guerra tornati
nel kraj nativo, i quali vivevano come degli uomini liberi, non
erano tenuti a presentarsi al comando, ma neppure potevano
allontanarsi dal distretto.
Non possiamo definire i vari tipi e casi di confino, perché le
nostre conoscenze si basano su casuali racconti o lettere. Se
A.M. Ar-v non mi avesse scritto, il lettore non avrebbe mai
conosciuto la vicenda che segue. Nel 1943, in un villaggio della
provincia di Vjatka giunse notizia che il kolchoziano Kožurin,
soldato semplice nella fanteria, era stato o fucilato o inviato in un
plotone di punizione, non era molto chiaro. Ben presto la moglie,
che aveva sei figli (la maggiore di 10 anni, il più piccolo di sei
mesi) e viveva con due sorelle nubili sulla cinquantina, ricevette
la visita di alcuni agenti esecutivi (capirete senz'altro queste due
parole: è un eufemismo per boia). Senza lasciare alla famiglia il
tempo di vendere alcunché (l'isba, la vacca, le pecore, il fieno, la
legna, tutto fu abbandonato al saccheggio), li gettarono tutti e
nove in una slitta coi loro quattro stracci e gli fecero fare in
questo modo, con un gelo terribile, i sessanta chilometri che li
separavano dalla città di Vjatka, oggi Kirov. Dio solo sa come
non congelarono per strada. Furono tenuti per un mese e mezzo
nella prigione di transito di Kirov e poi deportati in un piccolo
mattonificio nei pressi di Uchta. Le sorelle zitelle cominciarono a
frugare negli immondezzai, impazzirono e morirono ambedue.
La madre rimase viva con i figli unicamente grazie all'aiuto della
gente del luogo (aiuto non patriottico, privo di ideali, fors'anche
antisovietico). Tutti i figli, una volta cresciuti, servirono
nell'esercito e si distinsero, come si suol dire, « per l'alto livello
della loro preparazione politica e militare ». Nel 1960 la madre
ritornò nel suo villaggio e là dov'era l'isba non trovò una sola
trave né un solo mattone dov'era la stufa.
Un soggetto niente male, vero? non farebbe la sua brava
figura nella ghirlanda della Grande Vittoria Patria? No, non lo
vogliono, non è tipico.
E in quale ghirlanda intrecciare, a quale categoria di confino

428
riferire la deportazione degli invalidi dell'ultima guerra? Non ne
sappiamo quasi nulla (e sono pochi quelli che sanno qualcosa su
quest'argomento). Tuttavia, vi ricordate come erano numerosi - e
non ancora vecchi - questi mutilati che brulicavano nei nostri
mercati, sulle porte delle osterie e nei treni locali alla fine della
guerra? Poi, in modo impercettibile e in men che non si dica, si
fecero sempre più rari. Era anche questa una fiumana che partiva,
anche questa una campagna che si sviluppava. Furono confinati
in un'isola del nord, perché si erano fatti sfigurare in guerra per
la patria e al fine di risanare una nazione che si era distinta con
tante belle vittorie in tutte le forme di atletica e nei vari giochi
col pallone. Là, in quell'isola della quale non si sa nemmeno il
nome, questi sfortunati eroi della guerra sono naturalmente
privati del diritto di corrispondere col continente (riescono a
filtrarne solo rare lettere, è da esse che ne sappiamo qualcosa) e
naturalmente la razione alimentare è scarsa perché essi non
possono fornire una quantità di lavoro tale da giustificare razioni
abbondanti.
Credo che siano ancora là, a finire di vivere i loro giorni.
Il grande spurgatore, questo paese del confino fra I'URSS e
l'Arcipelago, includeva città grandi e piccole, villaggi e luoghi
completamente sperduti. I confinati cercavano di farsi ammettere
nelle città, ritenendo giustamente di potervi vivere un po' meglio,
e soprattutto di potervi trovare lavoro. E poi, là c'era una vita più
vicina alla normalità.
La capitale principale, forse, del paese del confino, e
comunque una delle sue perle, era Karaganda. Io la vidi prima
della fine della deportazione generale nel 1955 (ero confinato in
un altro posto ma il comando mi permetteva ogni tanto di
recarmi in città per brevi periodi: intendevo sposarmi, con una
donna anch'essa confinata). All'entrata di questa città, dove allora
regnava la fame, vicino alla baracca della stazione, un nido di
cimici al quale non si lasciavano avvicinare troppo i tram (per
paura che sprofondassero nelle gallerie delle miniere), s'innal-
zava sul rondò del capolinea del tram una casa di mattoni che era
altamente simbolica, col suo muro sorretto da travi perché

429
non crollasse. Nel centro della città nuova campeggiava su un
muro, intagliata nella pietra, questa iscrizione: il carbone è pane
(per l'industria). E infatti nei negozi c'era pane nero tutti i giorni,
ecco il vantaggio del confino in città. Lavoro se ne trovava
sempre, e non solo da manovale. Per il resto gli spacci alimentari
erano piuttosto vuoti. Ai banchi del mercato non ci si poteva
avvicinare, i prezzi erano vertiginosi. Almeno due terzi, se non
tre quarti della città viveva senza il passaporto e doveva farsi
spuntare al comando. Per strada mi imbattevo spesso in ex dete-
nuti, soprattutto di Ekibastuz, mi riconoscevano, mi apostrofa-
vano. Com'era la vita d'un confinato? Sul lavoro, una posizione
subalterna e un salario ridotto, poiché non tutti sono in grado di
dimostrare il grado d'istruzione dopo la catastrofe dell'arresto-
prigione-lager, e inoltre non si ha anzianità. Oppure, semplice-
mente, vi capita quel che capita ai negri: la paga non è la stessa
dei bianchi, e chiuso, se non ti va puoi andare a cercare altrove.
Ma con l'alloggio era anche peggio, i confinati vivevano in
angoli di corridoi aperti al passaggio, sgabuzzini senza luce, le-
gnaie, pagando ugualmente di pigione un occhio della testa a
privati che se ne approfittavano. Donne non più giovani, distrutte
dal lager, con i denti di metallo, accarezzavano come un sogno
l'idea di avere una camicetta di crespo « per le grandi occasioni
», un paio di scarpe « per uscire ».
Inoltre a Karaganda le distanze sono grandi, molti devono
compiere un lungo percorso per recarsi al lavoro. Un'ora buona
di sferragliante tranvai per andare dal centro della città ai sob-
borghi operai. Un giorno, era seduta di fronte a me, sul tranvai,
una giovane donna estenuata, con una gonna sporca e delle pan-
tofole lacere ai piedi. Tra le braccia teneva un bambino avvolto
in fasce luride, si addormentava di continuo: le braccia si abban-
donavano e il bambino le scivolava a poco a poco sulle ginoc-
chia fino a trovarsi sul punto di cadere, ogni volta le gridavano: «
Bada, lo farai cadere! ». Lei faceva a tempo a trattenerlo, ma
qualche minuto dopo si riaddormentava. Lavorava alle pompe
dell'acqua, nel turno di notte, aveva passato la giornata a cercare
delle scarpe in città senza trovarle.
Ecco cos'era il confino a Karaganda.

430
Per quanto ne so, la situazione era molto migliore a Džambul:
è il florido sud del Kazachstan, una terra benedetta, e i prodotti
alimentari vi costano pochissimo. Ma più è piccola una città e
più è difficile trovare lavoro.
Prendiamo la cittadina di Enisejsk. Nel 1948 vi fu portato
G.S. Mitrovič, proveniente dalla prigione di transito di Kra-
snojarsk; il tenente di scorta rispondeva con sicurezza alle do-
mande dei confinati. « Ci sarà lavoro? - Come no! » « E alloggi?
- Come no! » Una volta che il comando ebbe preso in consegna il
gruppo, la scorta se ne andò alleggerita. E i nuovi arrivati
dovettero dormire in riva al fiume, sotto delle barche rovesciate,
o sotto le pensiline del mercato. Non potevano comprare del
pane: veniva venduto solamente in base agli elenchi compilati
casa per casa, i nuovi arrivati non erano registrati in alcun
caseggiato e per affittare un alloggio bisognava pagare. Mitrovič,
che era invalido, chiese di lavorare nel suo campo, la zootecnia.
Il comandante ci vide il proprio vantaggio e telefonò alla sezione
agricola del distretto: « Senti, se mi dai una bottiglia ti do uno
zootecnico ».
Era il genere di confino dove, la minaccia « qualsiasi atto di
sabotaggio vi costerà l'articolo 58-14, sarete rimandati al lager! »
non spaventava nessuno. Su Enisejsk abbiamo una testimonianza
dell'anno 1952. Un giorno che c'era la spunta, disperati, i
confinati pregarono il comandante di arrestarli e rimandarli
appunto al lager. Uomini adulti, non riuscivano a guadagnarsi il
pane! Il comandante li fece disperdere: « La MVD non è un
ufficio di collocamento! ».1
Ancor più sperduto è Taseevo nella regione di Krasnojarsk, a
250 chilometri da Kansk. Vi erano deportati i tedeschi, i cece-
noingusci e gli ex detenuti dei lager. Il luogo non è nuovo, non
l'abbiamo inventato noi, nei suoi pressi si trova il villaggio di
Chandaly, dove un tempo cambiavano le catene ai galeotti. Di
nuovo c'è solo una città di tuguri, con i pavimenti di terra
1
Infatti per lui non era un obbligo e per dei detenuti era semplicemente impossibile,
conoscere le leggi del Paese dei Soviet, del Codice penale, per esempio, l'articolo 35: « Si deve
mettere a disposizione dei confinati un appezzamento di terra o assicurare loro un lavoro
retribuito ».

431
battuta. Nel 1949 vi fu portato un gruppo di ripetenti, li scari-
carono verso sera davanti a una scuola. Era ormai notte quando
una commissione si riunì per prendere in consegna la manodo-
pera: c'erano il capo della MVD locale, un rappresentante del-
l'azienda forestale, alcuni presidenti di kolchoz. Cominciarono a
sfilare davanti alla commissione malati, vecchi, uomini estenuati
dalla diecina nei lager, numerose donne: ecco la gente che lo
Stato, nella sua saggezza, aveva strappato alle pericolose città e
gettato in quella regione così severa per valorizzare la tajga. Da
principio tutti rifiutarono una « manodopera » simile, ma la MVD
esercitò le opportune pressioni. I moribondi scartati da tutti
furono rifilati allo stabilimento del sale, il cui rappresentante
aveva tardato e non era presente. Lo stabilimento è sul fiume
Usolka nel villaggio di Troickoe (anche questo un antico luogo
di deportazione, già durante il regno di Aleksej Michajlovic vi
avevano relegato dei vecchio-credenti). In pieno secolo XX la
tecnica era questa: dei cavalli aggiogati a una noria sollevavano
il sale che cadeva su piastre di forno, il sale vi veniva fatto
evaporare riscaldandolo (la legna proveniva dal taglio dei boschi,
e vi furono adibite le vecchie). Un importante e noto ingegnere
navale capitò in quel gruppo, gli fu assegnato un lavoro più
consono alla sua specialità: imballare il sale in casse.
Anche un operaio sessantenne di Kolomna, Knjazev, si
ritrovò a Taseevo. Non poteva più lavorare, chiedeva
l'elemosina. A volte qualcuno lo prendeva in casa per una notte,
altre volte dormiva per strada. Non c'era posto per lui nella casa
degli invalidi, nell'ospedale non lo tenevano a lungo. Un giorno
d'inverno si rifugiò nel portichetto del comitato distrettuale del
partito e là congelò.
Quando gli zek passavano dal lager al confino nella tajga
(passaggio ch'essi effettuavano così: a 20° sotto zero, in camion
aperti con i miseri indumenti che avevano indosso al momento
della liberazione, e stivali uso pelle dell'ultimo periodo di de-
tenzione, mentre i soldati della scorta indossavano pellicciotti e
stivali di feltro), non riuscivano a capacitarsi in che cosa consi-
stesse la loro liberazione. Nel lager almeno le baracche erano
riscaldate, qui vivevano nei ricoveri seminterrati dei boscaioli

432
senza fuoco dall'inverno precedente. Là come qui urlavano le
seghe a motore. E là come qui, questa motosega è l'unico mezzo
per guadagnarsi una razione di pane colloso.
E ai confinati capitava quindi di sbagliare, così a Kuzeevo
(distretto di Suchobuzimskoe sullo Enisej), quando videro arri-
vare il vice direttore dell'azienda forestale Lejbovič, un bel-
l'uomo lindo ed elegante, essi guardarono il suo cappotto di
pelle, la sua faccia bianca e benpasciuta e salutando dicevano:
« Buongiorno, cittadino capo! »
E lui scuoteva la testa con rimprovero:
« Ma no, non "cittadino"! Adesso sono vostro compagno, non
siete più dei detenuti ».
I confinati venivano radunati nell'unico ricovero e, alla luce
cupa di un lucignolo a petrolio che tremava e friggeva, il vice-
direttore ribadiva loro, martellando chiodo dopo chiodo sul
coperchio della loro bara: « Non crediate che la cosa sia prov-
visoria. Dovrete effettivamente vivere qui in perpetuo. Quindi
mettetevi al lavoro al più presto. Se avete una famiglia fatela
venire, altrimenti sposatevi fra di voi, senza indugio. Costruitevi
delle case. Partorite figli. Per costruire la casa e acquistare una
vacca, avrete un prestito. Al lavoro, al lavoro, compagni! Il
paese aspetta il nostro legname! ».
Poi il compagno ripartiva sulla sua automobile.
Il permesso di sposarsi era un altro vantaggio che avevi. In
certi miseri villaggi della Kolyma, per esempio nei pressi di
Jagodnoe, ricorda Rete, le donne c'erano; non le lasciavano
tornare sul continente, ma la MVD vietava loro di sposarsi: infatti
avrebbero dovuto dare nuovi alloggi agli sposi.
Ma anche questo divieto di sposarsi, in fin dei conti, era un
vantaggio. Nel Kazachstan settentrionale negli anni 1950-52, al-
cuni comandi, al contrario, ponevano come condizione a un
nuovo arrivato, per legarlo, di sposarsi entro due settimane al-
trimenti sarebbe stato mandato nell'interno, in pieno deserto.
È curioso che in molti luoghi di confino, ripreso pari pari e
senza ombra di ironia dalla terminologia dei lager, si usasse il
termine « lavori comuni ». Erano infatti precisamente come
quelli nei lager: lavori implacabili e logoranti che ammazzavano

433
di fatica e non davano il necessario per sopravvivere. Se, come
libero, il confinato doveva adesso lavorare un numero minore di
ore, le due ore di cammino all'andata (alla miniera o in foresta) e
le due di ritorno riportavano la giornata lavorativa alla norma dei
lager.
Ho visto un vecchio operaio, Berezovskij, sindacalista negli
anni Venti, - il quale aveva scontato dieci anni di confino dal
1938, e nel 1949 aveva avuto dieci anni di lager, - baciare con
trasporto la sua razione di pane dicendo gioiosamente che adesso
che era nel lager era salvo, aveva il suo pane assicurato. Al con-
fino invece, anche se andava al negozio con i soldi e vedeva una
pagnotta sullo scaffale, gli rispondevano sfacciatamente: « Di
pane non ce n'è! » — per pesarne subito dopo un pezzo a uno del
posto. Lo stesso accadeva con il combustibile.
Ho sentito press'a poco le stesse cose da Civil'ko, un vecchio
operaio di Pietroburgo (tutta gente certo non esageratamente vul-
nerabile). Diceva (nel 1951) che dopo il confino il lager speciale
di lavori forzati lo faceva sentire un essere umano: finite le
dodici ore di lavoro tornava nella zona. Al confino invece qual-
siasi nullità, purché fosse un libero, poteva imporgli un lavoro
straordinario non retribuito (faceva il contabile) a proprio van-
taggio, di sera o in un giorno di festa, e il confinato non osava
rifiutare per non essere cacciato l'indomani stesso dall'impiego.
La vita del confino non era dolce neanche per chi passava tra i
pridurki. Mitrovič, quando fu trasferito a Kok-Terek nella
regione di Džambul (all'arrivo a lui e a un suo compagno fu
assegnata una stalla da asini, senza finestra e piena di letame. I
due sgombrarono una striscia lungo il muro, stesero dell'erba, si
coricarono) fu assunto come zootecnico dalla sezione agricola
del distretto. Cercò di fare il suo lavoro onestamente, e subito
s'inimicò gli uomini liberi che occupavano posti di responsabilità
nel partito. I piccoli funzionari del distretto prendevano per sé,
nella mandria di un kolchoz, le vacche primipare sostituendole
con vitelle e pretendevano da Mitrovič che per mascherare la
cosa registrasse bestie di due anni come se ne avessero quattro.
Inoltre, facendo un censimento preciso, Mitrovič scoprì intere
mandrie cui i kolchoz accudivano senza esserne proprietari. Ri-

434
sultò che quelle bestie appartenevano personalmente al primo
segretario del comitato distrettuale, al presidente del comitato
esecutivo del distretto, al direttore della sezione finanziaria e al
capo della milizia. (Notiamo con quale destrezza il Kazachstan
era entrato nel socialismo!) Gli ingiunsero di non registrarli. E
lui invece li registrò. Dando prova di una sete di legalità
socialista stupefacente in uno zek al confino, osò protestare per-
ché il presidente del comitato esecutivo si era appropriato di una
pelle di agnellino di astrachan, e venne licenziato (e non fu che
l'inizio della loro guerra).
Ma anche un capoluogo di distretto non è il posto peggiore
per il confino. Le vere pene cominciavano là dove non esisteva
neppure la parvenza di un abitato libero, neppure un'ombra di
civiltà.
Lo stesso A. Civil'ko racconta del kolchoz « Zana Turmys »
(« Vita nuova »), nella provincia del Kazachstan occidentale, do-
ve visse dal 1937. Ancor prima dell'arrivo dei confinati la
sezione politica della MTS (Stazione di macchine e trattori) mise
in guardia gli abitanti locali e li informò che avrebbero portato
dei trockisti, dei controrivoluzionari. Il risultato fu che quelli, ter-
rorizzati, si rifiutavano perfino di prestare il sale ai nuovi arri-
vati, temendo di essere accusati di connivenza col nemico. Du-
rante la guerra, ai confinati non veniva rilasciata la tessera del
pane. Nella fucina del kolchoz, Civil'ko guadagnò in otto mesi...
un pud* di miglio... I deportati macinavano le granaglie ricevute
in pagamento con macine ricavate segando un monumento
funebre kazachi. Andavano alla NKVD: metteteci in prigione o
permetteteci di trasferirci nel centro distrettuale! (Ci diranno: e la
gente del luogo, allora? Come faceva? Beh, così... Chissà, si
erano abituati... E poi, basta poco, una pecora, una capra, una
mucca, una jurta, delle stoviglie: tutto fa.)
Nei kolchoz era dappertutto la stessa storia: ai confinati non
davano indumenti né la razione alimentare dovuta. Il confino più
temibile è quello in un kolchoz. Sembra una domanda d'esame:
dove si sta peggio, nel lager o nel kolchoz?
* Poco più di 16 chilogrammi.

435
Ma ecco una vendita di nuovi arrivati - tra loro si trova S.A.
Lifšic - alla prigione di transito di Krasnojarsk. I compratori
chiedevano dei carpentieri, la direzione rispondeva: prendetevi
anche un avvocato e un chimico (Lifšic) e allora vi daremo dei
carpentieri. Per sovrappiù davano donne anziane e malate. Poi,
con soli 25° sotto zero, li trasportano su autocarri scoperti nella
campagna più remota. Cosa ci potevano fare un avvocato e un
chimico? Per ora ricevere l'anticipo: un sacco di patate, delle
cipolle e della farina (ed era un bell'anticipo!). Il denaro lo avrete
l'anno prossimo se ve lo sarete guadagnato. Per adesso il lavoro
era questo: raccogliere la canapa, sepolta sotto la neve. All'inizio
mancava perfino un sacco da imbottire con la paglia per farne
una materassa.. Il primo impulso fu: lasciateci andare via dal
kolchoz! No, impossibile: il kolchoz aveva pagato
all'amministrazione della prigione 120 rubli per ogni capo (anno
1952).
Oh, poter tornare nel lager!...
Il lettore si sbaglierebbe di grosso se pensasse che i confinati
stavano meglio nei sovchoz [aziende di Stato] piuttosto che nei
kolchoz [aziende collettive]. Ecco un sovchoz nel distretto di
Suchobuzimskoe, il villaggio si chiama Minderla. Le baracche
non sono circondate con reticolati e sembra un lager esentato
dalla scorta armata. Sebbene sia un sovchoz, il denaro vi è sco-
nosciuto, non ce n'è in circolazione. Vengono solamente scritte
delle cifre: 9 rubli (staliniani)* a persona al giorno. E si scrive
ancora quanta semola ha mangiato quella persona, quanto costa
la giubba, l'alloggio. Si continua a sottrarre ed ecco un risultato
sorprendente: al momento di tirare le somme risulta che il
confinato non ha guadagnato niente, anzi è lui in debito col
sovchoz. A. Stotik ricorda che in quel sovchoz s'impiccarono due
uomini, dalla disperazione.
(Stotik stesso, uomo dalla fantasia traboccante, non seppe
trarre insegnamento dal suo sfortunato tentativo di imparare la
lingua inglese allo Steplag.1 Dopo essersi guardato intorno, al
confino, decise di valersi del diritto allo studio, garantito dalla
* I rubli leggeri di prima del 1961.
1
Si veda Parte quinta, cap. V [in questo volume. N.d.c.].

436
Costituzione a ogni cittadino dell'URSS, e fece domanda perché
lo lasciassero andare a Krasnojarsk per studiare! Sulla insolente
richiesta - probabilmente in nessun luogo di confino si era mai
vista una cosa del genere - il direttore del sovchoz, ex segretario
del comitato distrettuale, appose il suo parere che non era un
semplice rifiuto ma una dichiarazione di principio: « Nessuno
darà mai a Stotik l'autorizzazione di studiare ». Tuttavia, si
presentò un'occasione: la prigione di transito di Krasnojarsk
arruolava fra i confinati dei vari distretti dei carpentieri. Stotik,
che non era affatto carpentiere, si offrì, partì, visse a Krasnojarsk
in un convitto pieno di ubriaconi e ladri e là cominciò a prepa-
rarsi al concorso di ammissione alla facoltà di medicina. Agli
esami passò con il massimo dei voti. Prima della commissione di
accettazione nessuno aveva badato ai suoi documenti. Ma
dinanzi alla commissione: « Ho combattuto al fronte... Poi sono
tornato... » Aveva la gola secca. « E poi? ». « Poi... sono stato
arrestato... » fece Stotik con un fil di voce, e la commissione
s'incupì. « Ma ho già scontato la pena! Sono fuori! Ho avuto il
massimo dei voti! » insistette Stotik. Inutilmente. Ed era già
l'anno della caduta di Berija.)
Più ci si addentra nel paese e peggio è, più è remota la località
e meno diritti si hanno. A.F. Makeev nelle sue memorie su
Kengir che ho già citato riporta il racconto che lo « schiavo di
Turgaj », Aleksandr Vladimirovič Poljakov gli ha fatto della sua
deportazione, fra due soggiorni nel lager, in un luogo sperduto
del deserto di Turgaj. L'unica autorità del luogo era il presidente
del kolchoz, un kazachi, e non ci capitava mai nessun altro,
neppure dall'amato comando. Per tutto alloggio Poljakov
ricevette una rimessa che divideva con delle pecore, con un
giaciglio di paglia; le sue mansioni erano quelle di schiavo delle
quattro mogli del presidente, doveva aiutare ognuna di esse nelle
faccende domestiche, non escluso lo svuotamento dei vasi da
notte. Cosa poteva fare Poljakov? Partire e presentare al
comando la sue lagnanze? Non solo non c'era alcun mezzo di
trasporto, ma la sua partenza sarebbe stata considerata una
evasione, punibile con 20 anni di galera. Non c'erano altri russi
nei dintorni. Passarono alcuni mesi, finalmente arrivò un ispet-

437
tore delle tasse, un russo. Fu stupito del racconto di Poljakov e si
offrì di trasmettere il suo reclamo scritto al distretto. Per
quell'esposto, ritenuto un'ignobile calunnia contro il potere so-
vietico, Poljakov ricevette una nuova condanna al lager e gli anni
Cinquanta lo videro, tutto contento, a Kengir. Gli pareva quasi di
essere stato liberato...
E non siamo ancora sicuri che, di tutti i confinati, lo « schiavo
di Turgaj » sia stato il più diseredato.
Neppure si può affermare senza riserve che il confino abbia, a
paragone del lager, il vantaggio della stabilità, di un carattere
quasi casalingo (bene o male ci vivi e ci rimarrai, non vi saranno
traduzioni). Traduzioni magari no, ma può sempre capitare come
un fulmine a ciel sereno un inspiegabile e implacabile trasfe-
rimento voluto dal comando, o l'improvvisa chiusura del centro
di confino, casi simili vengono ricordati in vari anni e luoghi.
Soprattutto in tempo di guerra (vigilanza!). Tutti i confinati del
distretto di Tajpak si preparino entro dodici ore e via in quello di
Dzambejty! Abbandona tutti i tuoi averi, tanto miseri ma tanto
necessari, il tetto che lascia passare l'acqua ma che è già stato
quasi riparato. Butta via ogni cosa e marsc! bande di straccioni
scalzi; se non crepate, vi rifarete da un'altra parte.
Tutto sommato, nonostante l'apparente rilassatezza (andare
per conto proprio, non incolonnati; niente adunata prima del
lavoro; nessun obbligo di togliersi il berretto, non essere chiusi a
chiave dal di fuori per la notte) il confino ha un suo regime. Più
attenuato o più rigido a seconda dei luoghi, era però avvertibile
dappertutto fino all'anno 1953, quando iniziò un'attenuazione
generale.
Per esempio in molti posti i confinati non avevano il diritto di
presentare alcun reclamo su questioni civili se non attraverso il
comando militare e solo questo decideva se il reclamo doveva
essere inoltrato o no.
Al primo cenno dell'ufficiale del comando il confinato doveva
abbandonare qualsiasi lavoro o occupazione e presentarsi. Chi
conosce la vita capirà che un confinato non poteva non eseguire
qualsiasi richiesta personale (interessata) di un ufficiale del
comando.

438
Gli ufficiali del comando, per posizione e per diritti, non
erano da meno di quelli nei lager. Al contrario, avevano meno
preoccupazioni: niente reticolati, sentinelle, caccia agli evasi,
scorta al lavoro, obbligo di nutrire e vestire quelle folle. Bastava
spuntarli due volte al mese e di tanto in tanto aprire qualche
pratica, conformemente alla legge, contro chi aveva commesso
un'infrazione. Erano esseri autoritari, pigri, satolli (un
sottotenente del comando prendeva 2000 rubli al mese), e quindi
in maggioranza malvagi.
In epoca sovietica si conoscono poche evasioni, nel vero sen-
so della parola, dal confino: in caso di successo, non avrebbero
guadagnato molto in fatto di libertà; infatti i liberi locali che
vivevano accanto a lui erano quasi nelle sue stesse condizioni.
Erano lontani i tempi zaristi quando l'evasione dal confino finiva
facilmente in emigrazione all'estero. Inoltre la punizione per
l'evasione era di tutto rispetto. Era l'OSO a giudicare. Fino al 1937
esso comminava al massimo 5 anni di lager, dopo il 1937, dieci.
Dopo la guerra una nuova legge, che tuttavia non era stata
pubblicata da nessuna parte, fu presto conosciuta da tutti e
applicata rigorosamente: per la fuga dal luogo di confino, venti
anni di galera! Una crudeltà sproporzionata.
Il comando interpretava arbitrariamente che cosa doveva es-
sere considerato evasione, dove stava la linea che il confinato
non doveva varcare, e se poteva o no assentarsi per cercare
funghi o legna. In Chakassia, per esempio, nel villaggio mine-
rario di Ordzonikidze vigeva la regola seguente: assentarsi « in
alto » (verso i monti) era soltanto un'infrazione del regime, 5
anni di lager; assentarsi « in basso » (verso la ferrovia) era
un'evasione, 20 anni di galera. E questa colpevole indulgenza si
era radicata così profondamente nei costumi locali che quando
un gruppo di armeni confinati, ridotti alla disperazione dalla
prepotenza dei dirigenti della miniera, andò a lamentarsi al
centro distrettuale, senza aver ottenuto, si capisce, il permesso di
assentarsi, ebbero, per questa evasione, solamente 6 anni.
Per lo più tali assenze erano qualificate come fughe. Lo erano
anche le incaute iniziative prese da certi vecchi incapaci di
intendere il nostro sistema da cannibali.

439
Una greca d'oltre ottant'anni era stata deportata sul finire della
guerra da Simferopol' negli Urali. Quando la guerra finì e suo
figlio tornò a Simferopol', lei, naturalmente, andò a vederlo e
visse segretamente in casa sua. Nel 1949, quando aveva oramai
87 anni (!) fu arrestata, condannata a 20 anni di lavori forzati (87
+ 20 =?) e tradotta all'Ozerlag. Anche nella provincia di
Džambul' vi fu una vicenda analoga, con un'altra vecchia greca.
Quando furono espulsi dal Kuban' tutti i greci, lei fu presa
insieme a due fìglie adulte mentre la terza, sposata con un russo,
rimase nel Kuban'. Dopo qualche anno di confino la vecchia
decise di andare a morire presso quella figlia. « Evasione »,
galera, 20 anni! A Kok-Terek conoscevo il fisiologo Aleksej
Ivanovič Bogoslovskij. Beneficiò dell'amnistia « di Adenauer »*
del 1955, ma non interamente: fu trattenuto al confino, mentre
non avrebbe dovuto. Cominciò a spedire reclami e dichiarazioni,
il tutto si prolungava e intanto sua madre, che egli non vedeva da
14 anni, dalla guerra e successiva prigionia, stava diventando
cieca e sognava di vederlo ancora un'ultima volta prima di per-
dere del tutto la vista. Rischiando la galera Bogoslovskij decise
di andare e tornare entro una settimana. Si inventò una missione
in certi centri di allevamento sperduti nel deserto e invece
salì su un treno per Novosibirsk. Nel centro distrettuale la sua
assenza non fu notata, ma a Novosibirsk un vigile tassista lo
denunciò agli agenti della Sicurezza, quelli gli chiesero i do-
cumenti, non ne aveva e dovette scoprirsi. Fu rispedito a Kok-
Terek nella nostra prigione di argilla, e incominciò l'istruttoria a
suo carico quando arrivò improvvisamente un documento in cui
si spiegava che nessuna misura di confino pesava su di lui.
Appena rilasciato egli partì per raggiungere la madre. Ma arrivò
troppo tardi.
Impoveriremmo molto il quadro del confino sovietico se non
ricordassimo che in ogni centro distrettuale vigilava instancabil-
mente una sezione della Čeka, la quale « invitava » i confinati a
delle conversazioni, arruolava delatori, raccoglieva delazioni
* Si veda oltre, p. 507.

440
e se ne valeva per affibbiare supplementi di pena. Infatti, l'indi-
viduo confinato doveva pur cambiare una buona volta la mono-
tona immobilità del confino per il gagliardo affollamento di un
lager. Un secondo prolungamento, una nuova istruttoria, una
nuova condanna, furono la naturale conclusione del confino per
molti.
Pietro Viksne disertò nel 1922 dall'esercito, borghese e rea-
zionario, della Lettonia, si rifugiò nella libera Unione Sovietica,
qui fu nel 1934 confinato nel Kazachstan per aver scambiato
lettere con i familiari in Lettonia (questi non ebbero noie), non si
perse d'animo, divenne, da confinato, instancabile macchinista
stachanovista ad Ajaguz, tanto che il 3 dicembre 1937 nel
deposito locomotive locale fu appeso uno striscione « Prendete
esempio dal compagno Viksne! », dopo di che il 4 dicembre il
compagno Viksne venne messo dentro per una nuova pena, dalla
quale, stavolta, non sarebbe più ritornato.
Supplementi di pena comminati al confino, come nei lager,
erano all'ordine del giorno, allo scopo di dimostrare in alto
quanto fossero vigili i čekisti. Come dappertutto, erano applicati
metodi intensificati che aiutavano l'arrestato a capire il proprio
destino e rassegnarvisi (Civil'ko ebbe nel 1937 a Ural'sk 32
giorni di carcere duro e gli furono spaccati sei denti). Ma soprav-
venivano certi periodi speciali, come nel 1948, quando in tutti i
luoghi di confino venivano gettate reti fitte e si pescavano; per i
lager, o tutti quanti senza eccezione i confinati, come a Vorkuta
(« Vorkuta sta diventando un centro produttivo, il compagno
Stalin ha ordinato di ripulirlo ») o solo i confinati maschi, come
avvenne in certi posti.
Ma anche per chi non incappava in un « supplemento », la «
fine della deportazione » era avvolta nella nebbia. Così a
Kolyma, dove anche il « rilascio » dal lager consisteva nel pas-
sare dal posto di guardia del lager al comando speciale, la de-
portazione non terminava mai, perché non c'era modo di partire.
E quelli che riuscirono a guadagnare il « continente » nei brevi
periodi in cui fu consentito, ebbero a maledire chissà quante
volte il proprio destino: sul continente si presero tutti quanti una
nuova condanna al lager.

441
L'ombra della Čeka offuscava costantemente il cielo, di per sé
poco sereno, del confino. Sotto l'occhio degli agenti, esposti alle
soffiate dei delatori, sottoposti costantemente a un lavoro
estenuante per procurare il pane ai figli, i confinati conducevano
una vita timorosa e chiusa, isolati gli uni dagli altri. Le lunghe
conversazioni della prigione e dei lager erano solo un ricordo;
non si facevano più confidenze sul proprio passato.
È questa una delle ragioni per cui è così difficile raccogliere
racconti sulla vita al confino.
E nemmeno ci rimangono fotografìe: infatti queste si face-
vano unicamente per i documenti, ad uso dei quadri e della
Čeka. Un gruppo di deportati che si fa fotografare? cos'è? come
mai? Ci sarebbe subito una denunzia alla Sicurezza dello Stato:
ecco un'organizzazione antisovietica clandestina. Sarebbero stati
presi tutti proprio in base alla fotografia.
No, il nostro confino non ci ha lasciato nessuna di quelle
fotografie, sapete, di gruppo, piuttosto allegre: terzo da sinistra,
Ul'janov, secondo da destra, Krzizanovskij.* Tutti ben pasciuti,
ben vestiti, non conoscono il bisogno o il lavoro, se qualcuno ha
la barbetta è ben curata, se ha il berretto è di buona pelliccia.
Quelli sì, cari ragazzi, erano brutti tempi...
*Allusione al confino dei capi bolscevichi in epoca zarista.

442
IV La deportazione dei popoli

Gli storici potranno forse correggerci, ma la nostra memoria


umana non serba il ricordo di trasferimenti forzati di popoli nei
secoli XIX, XVIII o XVII. Ci furono dominazioni coloniali, sulle
isole negli oceani, in Africa, in Asia, nel Caucaso, i vincitori
imperarono sulla popolazione originaria, ma chissà perché quei
colonizzatori arretrati non pensarono a separare quelle po-
polazioni dalla loro terra avita, dalle case degli antenati. Forse
solamente la deportazione dei negri per le piantagioni americane
offre qualche similitudine e fa da antecedente, ma là mancò un
sistema statale maturo: v'erano soltanto singoli mercanti di
schiavi, cristiani nel cui petto divampò improvvisamente il fuoco
del profitto personale ed essi si precipitarono a catturare,
ingannare e comprare i negri, ognuno per sé, ad uno ad uno e a
decine.
Doveva sopravvenire la speranza dell'umanità civilizzata, il
XX secolo, e doveva svilupparsi al massimo, sulla base dell'Uni-
ca Dottrina Giusta, il problema nazionale, affinchè il più grande
specialista nel campo prendesse la patente per il totale sterminio
di popoli mediante la loro deportazione entro quarantotto, ven-
tiquattro ore e anche entro un'ora e mezzo.
Naturalmente nemmeno lui ebbe subito le idee chiare. Una
volta disse addirittura, incautamente: « Non è mai accaduto né
potrebbe darsi il caso che in URSS qualcuno possa diventare
oggetto di persecuzione a causa della sua origine etnica ».! Negli
1
Stalin, Opere, Mosca 1951, voi. 13, p. 258.

443
anni Venti tutte le lingue nazionali erano incoraggiate, si andava
ripetendo fino alla nausea alla Crimea che era tatara, tatara, vi fu
addirittura introdotto l'alfabeto arabo, le insegne erano in tataro.
Risultò essere un errore...
Anche dopo aver fatto passare i contadini tra le macine del
grande confino il Grande Nocchiero non seppe capire subito
come sarebbe stato comodo trasferire la sfessa cosa alle nazio-
nalità. L'esempio del suo potente fratello Hitler nello sradicare
ebrei e zingari venne tardi, dopo l'inizio della seconda guerra
mondiale, quando il nostro piccolo padre Stalin era già da un
pezzo sul problema.
Se si esclude la Peste contadina, e fino alla deportazione dei
popoli, il nostro confino sovietico, anche se maneggiava qualche
centinaio di migliaia di persone, non poteva reggere il paragone
con i lager, non poteva, per fama e dimensioni, lasciare di sé un
solco nella Storia. C'erano i confinati deportati (per verdetto di
un tribunale) e c'erano i confinati amministrativi (senza
processo), ma gli uni e gli altri erano unità che si potevano
contare3, con nomi e cognomi, anno di nascita, articolo del
Codice penale, imputazioni, foto di faccia e di profilo, e ci
volevano gli Organi, pieni di sagace pazienza e per nulla schiz-
zinosi, per comporre un mosaico con quei granelli di sabbia, e
costruire con quelle famiglie smantellate i monoliti dei distretti
di confino.
Ma quanto si elevò e quanto divenne più rapida la deporta-
zione quando furono spediti in esilio i confinati speciali. I due
primi termini risalivano ai tempi degli zar, quest'ultimo è pret-
tamente sovietico. Infatti la parola speciale, la sua abbreviazione
spec, entra nella composizione delle nostre parole predilette, più
vicine al nostro cuore (sezione speciale, missione speciale,
collegamento speciale, razione speciale, casa di riposo speciale:
specotdel, speczadan'e, specsvjaz, specpaèk, specsanatorij).
L'anno della Grande Svolta furono denominati confinati speciali
i « dekulakizzati », e com'era più sicuro, più elastico, questo
nuovo nome! Privava di qualsiasi appiglio i ricorsi: tra i « deku-
lakizzati » ce n'erano molti che non erano kulaki, ma dal mo-

444
mento in cui diventavano dei « confinati speciali » la cosa era
inattaccabile.
E quindi il Grande Padre fece applicare questa denominazione
alle nazionalità deportate.
Neppure Lui pervenne di colpo alla scoperta. Il primo espe-
rimento fu oltremodo cauto: nel 1937 un'operazione rapida e
discreta trasferì dall'Estremo Oriente al Kazachstan alcune de-
cine di migliaia di quei coreani, gente sospetta - quale fiducia si
poteva nutrire nei confronti di quelle facce sporche dagli occhi
strabici alla vigilia di Chalchin-Gol,* di fronte all'imperialismo
giapponese? - tutti in blocco, dai vecchi vacillanti ai poppanti
appena capaci di belare, con le loro misere masserizie.
Operazione tanto rapida che essi vissero il primo inverno in case
di argilla senza finestre (dove avrebbero trovato tanti vetri!). E
tanto discreta che nessuno all’infuori dei kazachi seppe di quel
trasferimento e non si trovò in tutto il paese una sola bocca per
dirne una sola parola, nessun corrispondente estero fiatò. (Ecco
perché tutta la stampa deve essere nelle mani del proletariato.)
Piacque. Rimase impresso. E nel 1940 lo stesso espediente fu
applicato nei dintorni di Leningrado, la città-culla.** Ma le vit-
time non furono prese di notte sotto la minaccia delle baionette,
la cosa fu chiamata « solenne accompagnamento » verso la Re-
pubblica carelo-finlandese (appena conquistata). In pieno giorno,
tra lo sventolio delle bandiere e lo squillo delle trombe, finlan-
desi ed estoni della periferia di Leningrado furono inviati a
valorizzare le loro nuove terre natali. Una volta portati a buona
distanza dai luoghi abitati (V.A.M. ci racconta qui la sorte di un
gruppo di 600 persone) furono loro tolti i passaporti e, messi
sotto scorta armata, continuarono il loro viaggio, prima in carro
bestiame poi su barconi. Dall'ancoraggio di destinazione in fondo
alla Carelia furono dispersi a destra e a sinistra a « rafforzare i
kolchoz ». E quei cittadini, che erano stati accom-
* Nella Repubblica mongola, vi si svolsero, dal maggio al settembre 1939, combattimenti
contro i giapponesi.
* Leningrado è soprannominata « culla della rivoluzione ».

445
pagnati alla partenza con tanta solennità, quei cittadini perfet-
tamente liberi, si sottomisero. Soltanto 26 ribelli, fra cui il nar-
ratore, si rifiutarono di partire, anzi di consegnare i passaporti. «
Ci saranno delle vittime » ammonì il rappresentante del potere
sovietico, nel caso specifico del Soviet dei Commissari del
Popolo della Repubblica carelo-finlandese). « Ci sparerete
addosso con le mitragliatrici? » gli gridarono alcuni. Che balordi,
perché le mitragliatrici? Ammassati e accerchiati com'erano sa-
rebbe bastata una mitragliatrice sola (e nessuno avrebbe com-
posto poemi su quei ventisei* finlandesi). Ma una strana mol-
lezza, lentezza e mancanza d'iniziativa impedì che fosse presa
quella ragionevole misura. Si cercò di dividere i 26, venivano
convocati ad uno ad uno dall'agente della Sicurezza dello Stato,
ma vi andavano tutti e ventisei, in massa: E il loro ostinato
insensato coraggio vinse! Furono loro lasciati i passaporti e
richiamate le truppe. Così non divennero né kolchoziani né
confinati. Ma è un caso eccezionale, la massa consegnò i
passaporti.
Tutto questo non era che una prova. Soltanto nel luglio del
1941 venne il momento di sperimentare il metodo in pieno:
bisognava estirpare la repubblica autonoma e, si capisce, tradi-
trice, dei tedeschi del Volga (con le sue capitali Engels e Marx-
stadt), scaraventandone gli abitanti entro pochi giorni in qualche
luogo più lontano, verso oriente. Qui fu applicato per la prima
volta nella sua purezza il metodo dinamico consistente nel
deportare interi popoli; quanto risultò più facile e fruttuoso
valersi di un'unica chiave, quella dell'appartenenza etnica, invece
di tutte quelle istruttorie e verdetti singoli per ogni persona!
Quanto agli altri tedeschi, presi qua e là in altre parti della
Russia, (e vennero presi tutti), la locale NKVD non aveva bisogno
di istruzioni superiori per distinguere se erano o no nemici. Se il
cognome era tedesco, andavano presi.
Il sistema era collaudato, perfezionato e da allora in poi
avrebbe acciuffato implacabilmente tutte le nazioni traditrici che
gli avrebbero segnalato e ogni volta con maggiore destrezza: i
* La fucilazione dei 26 commissari di Baku (da parte dei socialrivoluzionari nel 1918) è un
episodio celebre e ultracelebrato della guerra civile.

446
ceceni; gli ingusci; i karacaevcy; i balkari; i calmucchi; i curdi; i
tatari di Crimea; infine i greci. Il sistema è tanto più dinamico in
quanto la decisione del Padre dei Popoli viene annunziata alla
popolazione non per mezzo di un verboso processo ma sotto
forma di un'operazione di fanteria motorizzata moderna: le
divisioni armate entrano di notte nel territorio della nazionalità
condannata e occupano le posizioni chiave. Il popolo criminale si
sveglia e vede un accerchiamento di mitragliatrici e mitra intorno
a ciascun abitato. Si danno dodici ore (ma sono troppe, le ruote
della fanteria motorizzata rimangono immobilizzate troppo a
lungo, e già in Crimea verranno concesse solo due ore e anche
un'ora e mezzo) perché ciascuno prenda quello che può portare
via in braccio. Poi tutti vengono fatti salire nei cassoni dei
camion e sedere a gambe piegate come detenuti (vecchie, madri
con lattanti: salite, è un ordine!) e gli autocarri partono sotto
scorta armata per la stazione ferroviaria. Là sono pronti i
convogli di carri bestiame che li porteranno fino a destinazione.
Oppure dovranno a un certo punto aggiogarsi a delle zattere e
trascinarle con le corde contro corrente per 150-200 chilometri
addentrandosi in foreste selvagge (oltre Kologriv), nelle zattere
giaceranno immobili i loro vecchi dalle barbe bianche (i tatari lo
faranno sul fiume Unza, erano proprio quello che ci voleva per
loro quelle paludi settentrionali!)
Certamente a vederlo dalla cima di un'alta montagna era uno
spettacolo maestoso: all'improvviso l'intera penisola di Crimea
(appena liberata, aprile 1944) risuonò tutta e centinaia di colonne
di autocarri si misero a strisciare come serpenti lungo le sue
strade dritte o tortuose. Proprio allora finivano di fiorire gli
alberi. Le tatare trasferivano dalle serre agli orti le piantine di
cipolla. Si cominciava a trapiantare il tabacco. (E si finì anche.
Per molti anni il tabacco scomparve dalla Crimea.) Le
autocolonne non arrivavano fino agli abitati, si fermavano ai nodi
stradali, mentre i villaggi venivano accerchiati da reparti speciali.
La consegna era di dare un'ora e mezzo alla popolazione per i
preparativi di partenza, ma gli istruttori ridussero il tempo
concesso fino a quaranta minuti, per far prima, per non

447
arrivare in ritardo al punto di raccolta e perché nel villaggio
stesso restassero più cose da saccheggiare per il Sonderkom-
mando che il reparto speciale avrebbe lasciato sul posto. Certi
villaggi accaniti, come Ozenbas presso il lago Bijuk, dovettero
essere messi a ferro e fuoco. Le autocolonne portarono i tatari
alla stazione e là, nei convogli, essi aspettarono ancora per giorni
interi, gemendo e cantando lamentosi canti di addio.1
Armonica uniformità! ecco il vantaggio della deportazione in
massa di un intero popolo. Niente eccezioni, niente proteste
personali. Tutti partono docilmente, perché siamo tu, e lui, e io.
Partono non soltanto tutte le età e tutti e due i sessi, ma viene
colpito dall'Ukaz anche chi è nel seno materno. Partono anche
coloro che non sono stati ancora concepiti, perché sono destinati
ad esserlo all'ombra del medesimo Ukaz e fin dal giorno della
nascita, a dispetto dell'articolo 35 del cp, quest'anticaglia che non
interessa più a nessuno (« la deportazione non può essere
applicata a persone di età inferiore ai 16 anni »), saranno dei «
confinati speciali », non appena avranno fatto capolino nel
mondo, saranno già dei deportati a vita. La loro maggiore età, i
loro sedici anni, saranno distinti unicamente dal fatto che
cominceranno a recarsi al comando a « farsi spuntare ».
E quello che i deportati si lasciano alle spalle: le case spa-
lancate e ancora tiepide, le suppellettili messe a soqquadro, il
frutto del lavoro di dieci, venti generazioni, toccherà, con la
medesima uniformità, agli agenti operativi degli organi di re-
pressione, allo Stato, ai vicini appartenenti a nazionalità più for-
tunate e nessuno andrà mai a reclamare la sua vacca, i mobili, le
stoviglie.
Una cosa ancora viene a perfezionare e coronare l'uniformità,
ed è che l'Ukaz segreto non risparmia neppure i membri del
partito comunista appartenenti a quelle ignobili nazioni. Dunque
non occorre neppure controllare le tessere, e questo facilita
1
Negli anni Sessanta del secolo XIX i proprietari terrieri e la amministrazione del
governatorato di Tauride chiedevano che fossero espulsi in Turchia i tatari della Crimea;
Alessandro II rifiutò. Nel 1943 chiedeva lo stesso il Gauleiter della Crimea; rifiutò Hitler.

448
ulteriormente le cose. Al confino si costringeranno i comunisti a
faticare il doppio, e tutto andrà benissimo.1
L'unica crepa in questa uniformità derivava dai matrimoni
misti (non per nulla lo Stato socialista vi è sempre stato con-
trario). Al momento della deportazione dei tedeschi e poi dei
greci tali coppie erano lasciate sul posto. Ma questo creava molta
confusione e lasciava nei luoghi apparentemente purificati
focolai di infezione. (Come quelle vecchie greche che tornavano
a morire presso i figli.)
Dove venivano deportate le nazionalità? Spesso e volentieri, e
in gran quantità, nel Kazachstan, al punto che, aggiungendosi ai
confinati comuni, finirono per rappresentare una buona metà
della popolazione della repubblica che si sarebbe oramai potuta
chiamare a buon diritto Kazekstan. Ma non fu dimenticata l'Asia
centrale, né la Siberia (una moltitudine di calmucchi morì sul-
l'Enisej), gli Urali settentrionali e il Nord della Russia europea.
Dobbiamo o no considerare deportazione quella degli abitanti
dei Paesi baltici? Le condizioni formali non sono rispettate:
l'operazione non ha fatto piazza pulita degli abitanti, si ha l'im-
pressione che le popolazioni siano rimaste al loro posto (non
fosse così vicina l'Europa... non è la voglia che fa difetto!). Si ha
l'impressione, ma in realtà il rastrello è passato anche di là!
Si cominciò a « purgarle » molto precocemente: fin dal 1940,
non appena vi entrarono le nostre truppe e ancor prima che quei
popoli se ne rallegrassero e votassero unanimemente il proprio
ingresso nell'Unione Sovietica. Si cominciò con l'eliminazione
degli ufficiali. Occorre figurarsi che cosa sia stata per quei
giovani Stati la loro prima (e ultima) generazione di ufficiali
propri. Non erano i soliti baroni spocchiosi e fannulloni, ma
l'incarnazione stessa della serietà della nazione, del suo senso di
1
Naturalmente neanche il Saggio Nocchiero potè prevedere tutte le storture. Nel 1929
scacciavano dalla Crimea i principotti tatari e le persone altolocate. Veniva fatto con più mitezza
che in Russia: non si arrestavano, partivano spontaneamente per l'Asia Centrale. Là si
sistemavano a poco a poco fra la consanguinea gente musulmana, ritrovavano l'agiatezza.
Quindici anni dopo furono portati negli stessi luoghi tutti quanti i lavoratori tatari. Vecchie
conoscenze si ritrovarono. Con la sola differenza che i lavoratori erano traditori e deportati,
mentre gli ex principotti occupavano stabili posizioni nell'apparato sovietico, molti erano del
partito.

449
responsabilità e della sua energia. Ancora liceali, avevano impa-
rato, nelle nevi di Narva,* a difendere con i loro petti ancora
deboli l'ancora debole patria. Questa esperienza e questa energia
concentrate furono abbattute con un solo colpo di falce, fu un
importantissimo preparativo in vista del plebiscito. Ed era una
ricetta collaudata: non si era già proceduto così nella stessa
metropoli? Distruggere rapidamente e senza chiasso tutti i
potenziali capi di una possibile resistenza e coloro che potreb-
bero animarla con pensieri, discorsi, libri; ed ecco che il popolo è
apparentemente sul posto, mentre in realtà non esiste più. Un
dente morto, a vederlo esteriormente, per i primi tempi ha tutta
l'aria di essere ancora vivo.
Tuttavia nel 1940 i baltici non partirono per il confino, ma per
il lager, e non pochi di loro furono passati per le armi tra le mura
di pietra dei cortili delle prigioni. Anche nel 1941, al momento
della ritirata, si rastrellò il maggior numero possibile di gente
agiata, importante, in vista. Furono portati via come trofei
preziosi e poi gettati come letame sulla gelida terra del-
l'Arcipelago (venivano presi di notte, 100 chili di bagaglio per
tutta la famiglia, i capifamiglia subito da parte per la prigione e
l'annientamento). In seguito, durante tutta la guerra, i Paesi
baltici furono minacciati (dalla voce di radio Leningrado) di
spietate rappresaglie. Nel 1944, al ritorno, le minacce furono
messe in atto, si incarcerava abbondantemente. Ma anche questo
non era ancora la deportazione massiccia di popoli interi.
I momenti culminanti della deportazione di quelle genti
furono nel 1948 (gli indocili lituani), nel 1949 (tutte e tre le
nazioni) e nel 1951 (ancora una volta i lituani). Coincise con
questi anni il rastrellamento dell'Ucraina occidentale e anche lì
l'ultima deportazione avvenne nel 1951.
Chi si apprestava a deportare nel 1953, il Generalissimo? Gli
ebrei? E oltre a questi? Tutta l'Ucraina della riva destra del Don,
forse? Non conosceremo mai il suo grandioso progetto.
Personalmente sospetto in Stalin una sete rimasta implacata di
deportare tutta quanta la Finlandia nei deserti vicini alla fron-
* Teatro, nel 1918, di combattimenti contro le truppe del Kaiser per l'indipendenza
dell'Estonia.

450
tiera cinese, cosa che non gli riuscì di fare né nel 1940 né nel
1947 (tentativo di colpo di Stato di Leino). Avrebbe saputo
trovare un posticino al di là degli Urali magari per sistemarci
anche i serbi, magari anche i greci del Peloponneso.
Se questa Quarta Colonna della Dottrina d'Avanguardia*
avesse retto un'altra decina d'anni, non avremmo più riconosciuto
la carta etnica dell'Eurasia, ci sarebbe stata la grande
contromigrazione dei popoli.
Tutti i popoli deportati, tanti quanti furono, scriveranno un
giorno la loro epopea: diranno il distacco dalla terra nativa e
l'annientamento in Siberia. Per sentire veramente cos'è stato,
bisogna averlo vissuto di persona, non sta a noi parafrasarlo, né
precorrere i loro racconti.
Ma perché il lettore si convinca che tutti questi popoli sono
stati gettati in quel paese del confino ch'egli conosce già, in
quello stesso spurgatore annesso all'Arcipelago, seguiamo un
poco i popoli baltici nella loro deportazione.
Qui non solo le misure di deportazione non costituirono
affatto una violenza esercitata sulla volontà sovrana del popolo,
ma furono l'emanazione diretta di questa volontà. In ciascuna
delle tre repubbliche, i ministri, riuniti in consiglio, deliberarono
in tutta libertà (in Estonia il 25 novembre 1948) che i loro
concittadini appartenenti a questa e quella categoria dovessero
essere deportati nella lontana terra straniera della Siberia, e per di
più in perpetuo, in modo che non tornassero mai più nel loro
paese natale. (Si vede qui chiaramente tanto l'indipendenza dei
governi baltici quanto lo stato di estrema esasperazione al quale
li avevano portati i loro indegni compatrioti buoni a nulla.) Le
categorie erano le seguenti: a. le famiglie delle persone già
condannate (non bastava mettere nei lager i padri, bisognava
sterminarne il seme); b. i contadini agiati (così si affrettava di
molto la collettivizzazione, la cui esigenza era molto sentita nei
paesi baltici) e tutti i membri delle loro famiglie (gli studenti a
Riga venivano presi la stessa notte in cui i loro
* le quattro colonne sono Marx, Engels, Lenin e Stalin.

451
genitori erano presi nei villaggi); c. tutte le persone che per le
loro qualità si distaccavano dalla massa ma che, per chissà quale
motivo, erano sfuggite alle reti del 1940, '41 e '44; d. le famiglie
semplicemente ostili che non avevano fatto in tempo a riparare in
Scandinavia o quelle personalmente antipatiche agli attivisti
locali.
Per non recare danno alla dignità della grande Patria comune
e non far piacere ai nemici occidentali, la delibera non fu pub-
blicata nei giornali né resa di pubblica ragione nelle repubbliche;
nemmeno agli stessi deportati veniva notificata al momento della
deportazione, ma soltanto all'arrivo al luogo di confino, nei
comandi siberiani.
La tecnica della deportazione si era a tal punto perfezionata
nel corso degli anni successivi alla deportazione dei coreani e
anche dei tatari di Crimea, la preziosa esperienza era stata a tal
punto utilizzata e acquisita, che non si contavano più i giorni o le
ore, ma i minuti. Era stato stabilito e collaudato che bastavano
benissimo venti-trenta minuti dal primo colpo alla porta in piena
notte fino a quando l'ultimo abitante della casa varcava la soglia
natia al di là della quale l'attendevano le tenebre notturne e il
camion. In quei minuti la famiglia svegliata aveva il tempo di
vestirsi, rendersi conto che veniva mandata in esilio perpetuo
firmare un foglietto di rinunzia a ogni rivendicazione
patrimoniale, raccogliere le vecchie e i bambini, fare fagotto e,
dato l'ordine, uscire. (Per quanto riguarda la roba che la famiglia
si lasciava dietro, nessun problema: era tutto scrupolosamente
previsto. Una volta partita la scorta arrivavano dei rappresentanti
dell'ufficio finanziario locale e compilavano un verbale di
confisca, in base al quale gli oggetti erano poi venduti per conto
dello Stato mediante i negozi di articoli d'occasione. Non
abbiamo il diritto di accusarli di essersi intascati qualcosa o di
aver caricato roba « di straforo » sulle loro macchine. Del resto,
non era neppure veramente necessario: facendosi semplicemente
rilasciare una ricevuta dal negozio di occasioni, qualsiasi
rappresentante del potere del popolo poteva portarsi a casa del
tutto legalmente l'oggetto che gli interessava pagandolo una
miseria.)

452
Che cosa si poteva fare in quei 20-30 minuti? Cosa scegliere,
come fare a sapere che cosa sarebbe stato meglio portarsi via?
Un tenente incaricato di avviare alla deportazione una famiglia
(nonna di settantacinque anni, madre di cinquanta, una figlia di
diciotto e un figlio di venti) consigliò: « Prendete assolutamente
la macchina da cucire! » Chi ci avrebbe pensato? In seguito la
famiglia riuscì a sopravvivere unicamente grazie a quella mac-
china da cucire.1
Del resto, questa rapidità dell'operazione poteva tornare a
vantaggio delle vittime designate. Un uragano!, passa ed è finito.
La migliore scopa lascia sempre un po' di polvere in giro. Una
donna riuscì a resistere tre giorni e tre notti senza tornare a casa,
poi si presentò all'ufficio finanziario e chiese fossero tolti i sigilli
dalla sua abitazione, ebbene? Le tolsero i sigilli. Va' al diavolo,
dopo tutto: stacci pure fino al prossimo Ukaz.
In quegli angusti carri bestiame, calcolati per 8 cavalli, o per
32 soldati o per 40 detenuti, gli abitanti di Tallin si ritrovarono in
50 e più. Si era dovuto far così in fretta che i carri non erano stati
attrezzati e il permesso di praticare un foro nel pavimento non
arrivò subito. Il bugliolo, un vecchio secchio, si riempiva subito,
il liquame traboccava oltre l'orlo e schizzava in giro. Mammiferi
a due zampe, fin dal primo minuto erano stati costretti a
dimenticare che un uomo e una donna non sono affatto la stessa
cosa. Per un giorno e mezzo restarono rinchiusi senza acqua né
cibo, un bambino morì. (Ma tutto questo l'abbiamo già letto, non
è vero? Due capitoli indietro, vent'anni indietro, ed è sempre la
stessa cosa...) Il convoglio rimase fermo a lungo alla stazione di
Julemistè; fuori la gente correva lungo i vagoni, bussava,
chiedeva se il tale o il tal altro erano lì, tentava invano di far
passare cibi e roba. Ma venivano scacciati. Lontano dagli uomini
rinchiusi che morivano di fame. Lontano da quegli uomini senza
vestiti che la Siberia attendeva.
Durante il viaggio cominciarono a distribuire il pane, a certe
1
Che cosa capivano di quello che facevano i soldati di scorta? Marija Sumberg fu avviata al
confino da un soldato sibcriano originario della valle del Culym. Poco dopo questi fu smobilitato,
ritornò al suo paese e vi ritrovò la Sumberg; un grande sorriso allegro e cordiale: « Zietta! Non si
ricorda di me? »

453
stazioni ebbero la minestra. Tutti i convogli erano diretti lontano:
nelle province di Novosibirsk, di Irkutsk, di Krasnojarsk. Nella
sola Barabinsk arrivarono 52 vagoni di estoni. Per Ačinsk il
viaggio durava quattordici giorni e quattordici notti.
Che cosa può sostenere gli uomini in un viaggio così dispe-
rato? La speranza, dettata non dalla fede ma dall'odio: « Presto
verrà la loro fine. Quest'anno scoppierà la guerra e in autunno
rifaremo il viaggio in senso inverso ».
Nessuna persona che abbia avuto una vita normale, sia che si
trovi nel mondo occidentale che in quello orientale, può capire,
condividere, forse neanche giustificare lo stato d'animo che
regnava allora dietro le inferriate. Ho già scritto che anche noi
avevamo la stessa speranza e lo stesso desiderio in quegli anni;
nel 1949 e nel 1950. Il fatto è che l'ingiustizia di quel regime, di
quelle pene di venticinque anni, di quei ritorni sull'Arcipelago
per un secondo turno, attinse allora una specie di punto
culminante, un punto di rottura, per cui divenne improv-
visamente evidente che nessun essere umano poteva più soppor-
tarlo, che nessun guardiano poteva più difenderlo. (Diciamolo
anche in termini generali: se un regime è immorale, i cittadini
sono liberi da ogni obbligo nei suoi confronti.) A che limiti di
mostruosità si deve ridurre la vita della gente, perché migliaia di
uomini, nelle prigioni, nei cellulari e nei vagoni invochino, come
loro unica speranza di salvezza, la forza sterminatrice di una
guerra atomica!,...
Ma nessuno piangeva. L'odio prosciuga le lacrime.
Anche a questo pensavano gli estoni durante il viaggio: come
li avrebbe accolti il popolo siberiano? Nel 1940 i siberiani
spellavano vivi i deportati provenienti dai paesi baltici, li spo-
gliavano della loro roba, davano mezzo secchio di patate in
cambio di una pelliccia. (Cenciosi come eravamo allora, quelli
avevano davvero un'aria da borghesi...)
Ora, nel 1949, avevano ben ficcato in testa ai siberiani che
presto avrebbero visto arrivare dei kulaki matricolati. Ma i
vagoni vomitarono esseri esausti e laceri. Alla visita medica le
infermiere russe si meravigliarono della magrezza delle donne e
della povertà dei loro stracci; non avevano neanche un pezzo di

454
stoffa pulito per fasciare i bambini. I nuovi arrivati furono
distribuiti negli spopolati kolchoz e là, di nascosto dalle autorità,
le donne siberiane portavano loro quello che potevano: chi un
mezzo litro di latte, chi qualche focaccina di bietola o della
pessima farina di grano. Le estoni, ora sì, piangevano.
Ma bisognava anche fare i conti con gli attivisti della gioventù
comunista. Questi presero molto a cuore la cosa: della feccia
fascista (« Bisognerebbe affogarvi tutti! » esclamavano) che per
giunta e per colmo d'ingratitudine si rifiutava di lavorare per il
paese che l'aveva liberata dalla schiavitù borghese. Quei membri
del komsomol divennero i guardiani dei deportati, con l'incarico
di sorvegliarne il lavoro. Furono inoltre avvertiti: al primo sparo,
organizzare una battuta.
Alla stazione di Ačinsk si verificò un simpatico malinteso: le
autorità del distretto di Biriljussy acquistarono dalla scorta dieci
vagoni di confinati, un mezzo migliaio di persone, per i propri
kolchoz nella valle del Čulym e li trasferirono rapidamente a 150
chilometri a nord di Ačinsk. Ora, questa gente era destinata
(senza naturalmente saperlo) alla direzione delle miniere di
Sarala in Chakassia. Le miniere attendevano il loro contingente,
e intanto questo fu sparpagliato fra kolchoz dove l'anno pre-
cedente la giornata di lavoro era stata pagata 200 grammi di
grano, Ora, all'inizio della primavera, non era rimasto né grano
né patate, e nei villaggi si udiva il muggito delle mucche affa-
mate, che si buttavano come folli su un pugno di paglia mezzo
marcita. Quindi, assolutamente non per malvagità o per rappre-
saglia, il kolchoz attribuì ai nuovi arrivati un chilo di farina a te-
sta per settimana; era un anticipo discreto, equivalente all'intero
guadagno futuro. Gli estoni rimasero di stucco... (A dire il vero,
nel villaggio di Polevoj, lì vicino, i granai erano pieni di grano: si
accumulava di anno in anno perché rion riuscivano a
organizzarne il trasporto. Ma questo grano apparteneva allo
Stato, e non più al kolchoz. La gente intorno moriva di fame, ma
quel grano non si toccava: era dello Stato. Un giorno il pre-
sidente del kolchoz, un certo Paskov, prese l'iniziativa di distri-
buirne cinque chili per persona a tutti quelli che erano ancora in
vita e per questo si prese una condanna al lager. Quel grano

455
era proprietà dello Stato, punto e basta; il resto, erano affari del
kolchoz - ma l'argomento non rientra in questo libro.)
Gli estoni rimasero circa tre mesi in questa valle del Čulym, e
assimilarono con stupore una legge per loro nuova: ruba o
muori. Credevano già che sarebbe durato in perpetuo, quando
improvvisamente furono tutti spediti nel distretto di Sarala in
Chakassia (i padroni avevano ritrovato il proprio contingente).
Non c'era traccia, laggiù, di abitanti locali; tutti i villaggi erano
formati da deportati e ognuno aveva il suo comando. Miniere
d'oro dappertutto, trivellamenti, silicosi. (Quei vasti spazi sem-
bravano appartenere più che alla provincia di Krasnojarsk o alla
Chakassia, ai trust Chakzoloto [« Oro di Chakassia »] o
Enisejstroj [« Cantieri dello Enisej »] e i distretti dipendevano
più che dai soviet distrettuali o dai comitati regionali del partito
dai generali della MVD; il segretario del comitato curvava la
schiena davanti al capo del comando.)
Ma finire nelle miniere non era ancora il peggio. Il peggio era
essere arruolato a forza nelle « squadre di cercatori d'oro ».
Cercatori d'oro! suona così attraente, l'espressione scintilla di
prezioso metallo. Ma nel nostro paese conosciamo l'arte di
sfigurare qualsiasi concetto esistente. In queste squadre si ficca-
vano a forza i confinati speciali, contando sul fatto che non
avrebbero protestato. Venivano mandati a lavorare in miniere
abbandonate dallo Stato perché non più agibili. La sicurezza non
vi era più garantita e l'acqua vi colava continuamente, spesso in
scrosci violenti. Era impossibile svolgervi un lavoro redditizio e
arrivare a un salario decente: quella gente votata alla morte era
mandata là semplicemente per grattar via le ultime briciole di oro
che allo Stato dispiaceva lasciar perdere. Le squadre
dipendevano dal « settore cercatori » della direzione delle
miniere, che sapeva una cosa sola: imporre il piano ed esigerne
l'esecuzione, non riteneva di avere altri obblighi. Così le squadre
erano « libere » non in rapporto allo Stato ma nel senso che per
loro non valeva la legislazione statale; non spettavano loro ferie
pagate, non era obbligatorio il riposo domenicale (come per gli
zek, insomma), poteva saltar fuori all'improvviso un « mese
stachanovista » senza una sola domenica di riposo.

456
Che cosa restava della legislazione dello Stato?
l'incriminazione per chi non si presentava una volta al lavoro.
Ogni due mesi, un tribunale popolare si riuniva sul posto e
pronunciava numerose condanne al 25% di lavoro forzato:* i
pretesti non mancavano mai. Quei « cercatori » guadagnavano
tre o quattro rubli « d'oro » (da 150 a 200 rubli staliniani) al
mese.
In certe miniere nei pressi di Kop'èvo i confinati ricevevano la
paga non in denaro ma in buoni; infatti, cosa se ne facevano di.
una moneta circolante in tutto il paese, se non potevano
comunque spostarsi e nel negozio della miniera avrebbero potuto
spendere i buoni?
In questo libro è stato già sviluppato un dettagliato paragone
fra i detenuti e i servi della gleba di un tempo. Ricordiamo
tuttavia, sempre richiamandoci alla storia della Russia, che la
condizione più penosa non era quella dei contadini ma quella
degli operai degli stabilimenti industriali. Quei buoni con i quali
si potevano fare acquisti unicamente nella bottega della miniera
ci fanno immediatamente tornare in mente le miniere d'oro e le
fabbriche dell'Altaj. La popolazione ad esse legata nei secoli
XVIII e XIX commetteva apposta dei delitti, pur di andare in
galera e fare una vita più facile. Nelle miniere d'oro dell'Altaj del
secolo scorso « gli operai non avevano il diritto di rifiutarsi di
lavorare neppure la domenica » (!), pagavano delle multe
(confronta il lavoro forzato), e per di più dovevano frequentare
certi piccoli spacci pieni di prodotti di qualità scadente dove li si
spingeva a bere e li si imbrogliava sul peso. « Quegli spacci, e
non l'estrazione dell'oro, che era male organizzata, erano la
principale fonte di guadagno » per i padroni1 - si legga: per il
trust.
Come mai ogni cosa, nell'Arcipelago, è così poco originale?...
Nel 1952, un giorno di forte gelo, la piccola, fragile Ch.S. non
andò a lavorare perché non aveva degli stivali di feltro. Il capo
della squadra di lavorazione del legname la spedì per punizione
ad abbattere alberi per tre mesi, naturalmente senza stivali di
feltro. Sempre Ch.S., incinta, chiese che negli ultimi
* Con trattenuta, quindi, di un quarto del salario.
1
Semenov-Tjan-San'skij, La Russia, vol. XVI.

457
mesi della gravidanza le fosse assegnato un lavoro meno pesante
che non trascinare dei tronchi; le fu risposto: se non ti va di farlo
licenziati. Dopo di che, una medichessa ignorante si sbagliò di un
mese nel calcolo delle date e le concesse il congedo di maternità
solo due o tre giorni prima del parto. Laggiù, nella tajga della
MVD, c'è poco da discutere.
Eppure questo, perfino questo non era ancora la vera fossa
senza fondo. La fossa senza fondo era quella in cui cadevano i
confinati speciali inviati nei kolchoz. C'è chi discute oggi (non
senza ragione) se un kolchoz sia meno duro del lager.
Rispondiamo: e se si somma l'uno all'altro? Era questa la
situazione del confinato speciale in un kolchoz. Del kolchoz
avete l'assenza di una razione di pane, nel periodo della semina ti
danno settecento grammi di pane per di più fatto con del grano
mezzo marcio, color terra, misto a sabbia (devono averlo scopato
dai pavimenti dei granai). Del lager i soggiorni in carcere: se il
brigadiere si lamenta di un membro della sua brigata presso la
direzione del kolchoz, questa telefona al comando e il comando
lo mette dentro. Quanto a dove si guadagni di più, non c'è
davvero da stare allegri neanche qui: per il primo anno di lavoro
in un kolchoz Marija Sumberg ricevette, per giornata lavorativa,
venti grammi di grano (gli uccellini del buon Dio ne trovano di
più becchettando lungo la strada) e 15 copechi di Stalin (un
copeco e mezzo di Chruščev). Con i guadagni di tutto un anno
potè comprarsi... una catinella d'alluminio.
Di che cosa vivevano dunque? Dei pacchi che arrivavano loro
dai paesi baltici, inviati da quelli rimasti in patria.
Ma chi mandava pacchi ai calmucchi? Ai tatari della Crimea?
Fate il giro delle tombe, chiedetelo.
Sia che lo dovessero alla paterna decisione presa dal loro
Consiglio dei ministri sia che discendesse dalla fermezza di
princìpi regnante in Siberia, fatto sta che i confinati speciali
estoni, lettoni e lituani si videro applicare, fino all'anno 1953
quando il Padre non fu più, una « disposizione speciale »: nessun
lavoro all'infuori di quelli più pesanti! Il piccone, la vanga, la
sega! e basta! « Qui dovete imparare a diventare uomini ». E se
capitava che le esigenze della produzione portassero qual-

458
cuno a una posizione più elevata, il comando interveniva e lo
mandava di sua iniziativa ai lavori comuni. Ai confinati speciali
non si permetteva neppure di vangare la terra del frutteto accanto
alla casa di riposo della direzione delle miniere, per non
offendere gli stachanovisti che vi riposavano. Il capo del
comando cacciò M. Sumberg dal suo posto di vaccara: « Non è
qui in villeggiatura, vada a rastrellare il fieno ». Il presidente del
kolchoz ebbe il suo bel da fare perché gliela lasciassero. (Gli
aveva salvato i vitelli dalla brucellosi. Si era affezionata al
bestiame siberiano, trovandolo più « affettuoso » di quello
estone, e le vacche, poco abituate alle carezze, le leccavano le
mani.)
C'è bisogno di caricare d'urgenza il grano sui barconi - e i «
confinati speciali » lavorano senza alcun compenso 36 ore di
seguito (sul Čulym). Durante queste trentasei ore concedono loro
due intervalli di venti minuti per il pasto e un riposo di tre ore. «
Se non lo fate vi manderemo più lontano, al nord ». Un vecchio
cade sotto il peso del sacco, i sorveglianti, membri del
komsomol, lo prendono a pedate.
Ogni settimana i confinati hanno il dovere di presentarsi al
comando per la spunta. Si trova a distanza di alcuni chilometri? è
una vecchia di ottant'anni? Prendete un cavallo e portatela, Ogni
volta tutti si sentono ricordare che, per un'evasione, sono
vent'anni di lavori forzati.
In una stanza accanto a quella del comando c'è l'ufficio del-
l'agente della Sicurezza. Vi vuol vedere anche lui, vi prospetta un
lavoro a sentir lui migliore. Fa balenare la minaccia di mandare
la vostra unica figlia oltre il circolo polare, separandola dalla
famiglia.
Ah, di che cosa non sarebbe capace, quella gente! Quando, di
fronte a che cosa, un soprassalto della coscienza ha mai fermato
la loro mano?
E l'agente distribuisce gli incarichi: sorvegliare il tale. Rac-
cogliere degli elementi per mettere dentro il tal altro.
Ogni volta che un qualsiasi sergente del comando entra
nell'isba tutti i confinati speciali, anche le donne anziane, sono
tenuti ad alzarsi e ad attendere il permesso per tornare a sedersi.

459
Ma il lettore non avrà ritenuto di concludere che i confinati
speciali siano privi di diritti civili?...
No, ma no! Essi conservano il pieno esercizio di tutti i loro
diritti civili! Non si toglie loro il passaporto. Non sono privati del
diritto di prendere parte, come tutti, al suffragio universale,
uguale per tutti, segreto e diretto. Quel momento alto e fulgido,
quando fra i vari candidati, si cancellano tutti i nomi all'infuori di
quello prescelto, il godimento di quel diritto è stato loro con-
servato religiosamente. Nemmeno si proibisce loro di sottoscri-
vere il prestito (ricordiamo i tormenti del comunista Djakov nel
lager!). Mentre i kolchoziani liberi danno, brontolando e
bestemmiando, 50 rubli, agli estoni se ne spremono 400: « Voi-
altri siete ricchi. Chi non sottoscrive non riceverà i pacchi da
casa. Sarà mandato più lontano, al nord ».
E infatti lo manderebbero; perché no?...
Che tormento! Sempre le stesse cose, ancora e ancora. Eppure
questa parte l'avevamo iniziata con qualcosa di nuovo; invece del
lager il confino. Eppure questo stesso capitolo l'avevamo iniziato
con qualcosa di fresco: invece del confino amministrativo quello
speciale.
Ma abbiamo finito per parlare delle stesse cose.
È dunque necessario che continui, che continui ancora a par-
lare, a raccontare, a descrivere ancora e ancora nuovi luoghi di
confino? Che prenda altri luoghi? Altri anni? Altre nazionalità...
Altre nazionalità?
Frammiste l'una all'altra, ben visibili l'una all'altra, le naziona-
lità manifestavano nettamente i loro tratti peculiari, il loro modo
di vivere, i gusti e le tendenze loro propri.
I tedeschi erano i più laboriosi. Avevano troncato ogni rap-
porto con la vita precedente (del resto, il Volga o il Manyč erano
forse stati una patria per loro?). Come avevano fatto in epoca
lontana nelle fertili terre concesse da Caterina,* ora si radicavano
nel suolo aspro e sterile ricevuto da Stalin e si
* Lo stanziamento di coloni tedeschi sul Volga risale all'epoca di Caterina II.

460
dedicavano alla loro nuova terra d'esilio - come se dovesse
diventare la loro patria definitiva. Invece di attendere la prossima
amnistia o la prossima grazia sovrana, cominciarono a organiz-
zarsi per sempre. Deportati nel '41, nudi, ma zelanti e instan-
cabili, non si lasciarono abbattere ma ripresero subito il loro
lavoro metodico e razionale. C'è sulla terra un deserto che i
tedeschi non saprebbero trasformare in terra fiorente? Non per
nulla nella Russia d'una volta si diceva: il tedesco è come un
salice, dove lo pianti mette radici. Nelle miniere, nelle MTS, i
dirigenti non avevano che parole di lode per i tedeschi, non
esistevano lavoratori migliori. Verso gli anni Cinquanta i tede-
schi, a paragone degli altri confinati, e spesso anche degli
abitanti del luogo, avevano le case più solide, spaziose e pulite; i
maiali più grassi; le migliori mucche da latte. Le loro figlie
costituivano dei partiti invidiabili non soltanto per l'agiatezza dei
genitori, ma anche per la purezza e l'austerità dei loro costumi in
contrasto stridente con la rilassatezza che regnava nel mondo
vicino ai lager.
Anche i greci si misero al lavoro con ardore. Non smettevano,
è vero, di sognare il Kuban', ma neppure qui risparmiavano le
braccia. Vivevano un po' più stretti dei tedeschi, ma per quanto
riguarda orti e vacche li raggiunsero presto. Sui piccoli mercati
del Kazachstan la migliore ricotta, il migliore burro e le migliori
verdure erano quelle dei greci.
Riuscirono ancor meglio nel Kazachstan i coreani, ma erano
stati deportati prima e verso gli anni Cinquanta erano già abba-
stanza emancipati: non dovevano più presentarsi per la spunta,
circolavano liberamente da una regione all'altra e avevano solo il
divieto di varcare i confini della repubblica. Il loro successo non
consisteva nell'agiatezza delle aziende o delle case (queste e
quelle erano poco accoglienti e addirittura primitive fino a
quando la gioventù non cominciò a vivere all'europea). Ma, assai
pronti ad imparare, riempirono rapidamente le scuole del
Kazachstan (già negli anni della guerra non ne erano più
impediti) e divennero il nucleo principale dello strato colto della
popolazione.
Le altre nazionalità, mantenendo in segreto il sogno del ri-

461
torno, vivevano come sdoppiate, nei progetti e nelle azioni. In
complesso tuttavia si sottomisero al regime e non davano molte
preoccupazioni alle autorità del comando.
I calmucchi invece non resistevano, si lasciavano morire di
nostalgia. (Ma non ho avuto modo di osservarli di persona.)
Ma c'è una nazione che non cedette minimamente alla psico-
logia della sottomissione: non degli individui isolati, dei ribelli,
ma la nazione tutta intera. Sono i ceceni.
Abbiamo già visto il loro atteggiamento nei confronti degli
evasi dai lager.* Abbiamo già visto come, soli fra tutti i confinati
di Džezkazkan, cercarono di appoggiare l'insurrezione di Kengir.
Direi che fra tutti i confinati speciali i soli ceceni si dimostra-
rono degli zek in spirito. A partire dal momento in cui erano stati
proditoriamente strappati dai loro luoghi nativi, non credevano
più a nulla. Si costruirono delle sakli, capanne basse, buie,
misere, che sembravano lì lì per crollare. Allo stesso livello era
la loro agricoltura: temporanea, per un giorno, per un mese, per
l'anno in corso, senza bestiame, senza scorte, senza alcun
progetto per il domani. Mangiare, bere, se si era giovani un
vestito nuovo. Passavano gli anni, e continuavano a non posse-
dere nulla come nulla avevano posseduto. Mai, da nessuna parte,
i ceceni hanno mai cercato di ingraziarsi i dirigenti o di com-
piacerli: il loro atteggiamento era sempre fiero, se non aperta-
mente ostile. Disprezzando le leggi sull'istruzione obbligatoria e
l'insegnamento statale non mandavano a scuola le bambine per-
ché non venissero traviate, e non sempre vi mandavano i ragazzi.
Non permettevano che le loro donne lavorassero nei kolchoz. E
non sgobbavano nemmeno loro sui campi collettivi. Cercavano
di solito di sistemarsi come autisti: accudire a un motore non è
umiliante, nel continuo va e vieni in automobile trovavano un
appagamento della loro passione per le folli galoppate a cavallo,
e nelle occasioni che non mancano mai di presentarsi a un autista
appagavano l'altra loro passione per il furto. Quest'ultima
passione, del resto, l'appagavano anche di-
* Si veda più indietro, a p. 371.

462
rettamente. Nel pacifico mondo, onesto e sonnecchiante, del
Kazachstan essi introdussero un nuovo concetto: « rapinare », «
ripulire ». Potevano portare via del bestiame, saccheggiare una
casa oppure semplicemente togliere ogni cosa a qualcuno con la
violenza. Per loro gli abitanti locali e i confinati che avevano
chinato la testa davanti alle autorità erano della stessa razza.
Rispettavano unicamente i ribelli.
E, strana cosa, erano temuti da tutti. Nessuno riusciva a
impedire loro di vivere come volevano. Il potere che dominava
già da trent'anni il paese non riusciva a far loro rispettare le sue
leggi.
Com'era avvenuto? Ecco un caso che forse lo potrebbe spie-
gare. Nella scuola di Kok-Terek, c'era ai miei tempi, nella nona
classe, un giovane ceceno, Abdul Chudaev. Non ispirava affetto
né cercava di farlo, temeva quasi di umiliarsi mostrandosi
gradevole, ed era sempre di una secchezza esagerata, orgoglio-
sissimo e perfino crudele. Ma non si poteva far a meno di
apprezzare la sua intelligenza chiara e precisa. In matematica, in
fisica, non si accontentava mai del livello dei compagni; ma
andava sempre oltre, approfondiva sempre, poneva quesiti ori-
ginati da un'instancabile ricerca dell'essenziale. Come tutti i figli
dei confinati aveva conosciuto a scuola l'inevitabile influenza
della cosiddetta collettività ossia prima l'organizzazione dei
pionieri, poi il komsomol, i comitati scolastici, giornali murali,
conversazioni educative, - pagando così, in cambio delle
istruzioni ricevute, quello scotto morale che i ceceni pagavano
tanto malvolentieri.
Abdul viveva con la vecchia madre. Dei loro parenti stretti
non ne era rimasto vivo nessuno all'infuori di un fratello mag-
giore di Abdul, divenuto oramai un delinquente irrecuperabile,
capitato più volte nei lager per furto e assassinio, ma ogni volta
rilasciato prima di aver scontato la pena, ora per un'amnistia, ora
per servigi resi. Un bel giorno, riapparve a Kok-Terek, bevve per
due giorni senza mai smettere, leticò con un ceceno locale,
afferrò un coltello e lo inseguì. Gli sbarrò la strada una vecchia
cecena che non c'entrava affatto: spalancò le brac-

463
cia per fermarlo. Se quello avesse seguito la legge dei ceceni,
avrebbe dovuto buttare il coltello e cessare l'inseguimento. Ma
oramai, più che ceceno era un malvivente: alzò il coltello e
uccise l'innocente vecchia. A questo punto balenò nella sua
mente di ubriaco che cosa lo attendeva secondo la legge dei
ceceni. Corse alla MVD, confessò l'assassinio e quelli lo misero
volentieri in carcere.
Lui riuscì a scamparla, ma rimanevano il fratello minore
Abdul, sua madre e un altro vecchio della loro schiatta, zio di
Abdul. La notizia dell'assassinio fece immediatamente il giro dei
ceceni di Kok-Terek e i tre superstiti della stirpe dei Chudaev si
riunirono in casa, fecero provvista di cibo e acqua, tapparono la
finestra e la porta e si barricarono come in una fortezza. Adesso i
ceceni della stirpe della vecchia uccisa dovevano compiere la
vendetta su qualcuno della stirpe dei Chudaev. Fino a quando
non avessero versato il sangue dei Chudaev non sarebbero stati
degni di chiamarsi uomini.
Cominciò l'assedio. Abdul non andava a scuola, tutta Kok-
Terek e tutta la scuola sapevano perché. Un allievo della classe
superiore della nostra scuola, membro del komsomol e titolare
del massimo dei voti, rischiava di morire accoltellato magari
proprio nel momento in cui a un trillo del campanello tutti si
sedevano ai loro banchi o mentre l'insegnante andava spiegando
l'umanesimo socialista. Tutti sapevano, tutti lo ricordavano, du-
rante l'intervallo non parlavano d'altro, ma tutti abbassavano gli
occhi. Né l'organizzazione del partito, né quella scolastica del
komsomol, né i dirigenti, né il direttore, né il provveditorato agli
studi regionale, nessuno andò a salvare Chudaev, nessuno si
avvicinò alla sua casa assediata, in un paese di ceceni che ron-
zava come un alveare. E fossero stati solo quelli! Ma il soffio
della vendetta immobilizzò vigliaccamente tutte quelle istanze
che noi credevamo così terribili, come il comitato del partito, il
comitato esecutivo distrettuale, la MVD con il comando e la
milizia nascosta dietro le mura d'argilla. Bastò che alitasse l'an-
tica barbara legge, perché risultasse evidente che il potere sovie-
tico non esisteva a Kok-Terek. Il suo braccio non si protese
neanche da Džambul, capoluogo della provincia; infatti in

464
tre giorni non giunse né un aereo carico di truppe, né nessuna
ferma direttiva all'infuori di quella di difendere il carcere con le
forze esistenti.
Così divenne chiaro per i ceceni e per tutti noi che cosa sia
una vera forza in questo mondo e che cosa un miraggio.
Soltanto i vecchi ceceni si dimostrarono sensati. Andarono
una prima volta alla MVD chiedendo fosse loro consegnato perché
ne facessero giustizia il maggiore dei fratelli Chudaev. La MVD,
timorosa, rifiutò. Vi andarono una seconda volta, con la richiesta
di organizzare un pubblico processo e di fucilare in loro presenza
Chudaev. In tal caso, promisero, la faida sarebbe cessata. Non si
poteva escogitare un compromesso più ragionevole. Ma un
pubblico processo? ma come, un'esecuzione nota in anticipo ed
eseguita pubblicamente? Non era infatti un politico, ma un ladro,
un socialmente vicino. Si potevano calpestare i diritti dei
Cinquantotto, ma non quelli di un pluriassassino. Fecero
domanda alla regione, ne giunse un rifiuto. « Allora fra un'ora
sarà ucciso il minore dei Chudaev » spiegavano i vecchi. I
graduati della MVD si stringevano nelle spalle: non poteva
riguardarli. Non erano tenuti a sapere di un delitto non ancora
compiuto.
Eppure un soffio del secolo XX sfiorò... non certo la MVD, ma
gli induriti cuori dei ceceni. Non ordinarono ai vendicatori di
compiere vendetta. Mandarono un telegramma ad Alma-Ata. Ne
arrivarono d'urgenza certi altri anziani, i più stimati da tutto il
popolo. Fu riunito un consiglio di anziani. Il maggiore dei
Chudaev fu maledetto e condannato a morte, ovunque lo avesse
incontrato sulla terra un coltello ceceno. Gli altri Chudaev furono
convocati e si disse loro: « Andate pure. Non sarete toccati ».
Abdul prese i libri e tornò a scuola. L'organizzatore del partito
e quello del komsomol lo accolsero con ipocriti sorrisi. Alle
successive lezioni e conversazioni gli decantarono nuovamente
la coscienza comunista, senza rammentare l'increscioso
incidente. Non un muscolo fremette sul viso spossato di Abdul.
Egli aveva capito una volta di più che cos'è la forza principale
sulla terra: la vendetta per il sangue.

465
Noi europei leggiamo a scuola e nei libri soltanto parole di
altezzoso disprezzo, parole che poi noi ripetiamo, per questa
legge selvaggia, per questi crudeli e insensati assassinii in serie.
Ma non sono poi così insensati come sembra: lungi dallo ster-
minare le popolazioni montanare le rafforza. Le vittime della
vendetta non sono poi tanto numerose, ma quanta paura sparge
tutt'intorno! Ricordando la vendetta, quale montanaro oserà
offenderne un altro così senza ragione, come facciamo noi, per-
ché abbiamo il naso nel bicchiere, per scostumatezza, per ca-
priccio? E tanto più quale non ceceno oserà attaccar briga con un
ceceno? Dire che è un ladro? un villano? o che deve fare la coda
come tutti? Infatti la risposta potrebbe essere non una parola, non
un insulto, ma una coltellata nel fianco. E se anche tu afferrassi il
coltello (ma sei una persona civile e non lo porti con te!), non
risponderesti al colpo con un colpo: infatti l'intera tua famiglia
finirebbe accoltellata. I ceceni calcano la terra del Kazachstan
con un'espressione insolente negli occhi, si aprono un varco a
spallate e i « padroni del paese », come i non-padroni, fanno
largo rispettosamente. La vendetta emana un campo di paura e
così rafforza la piccola etnia di montanari.
« Sii duro con i tuoi perché gli stranieri ti temano! » Gli
antenati dei montanari, nei loro tempi remoti, non potevano
trovare una corazza migliore.
E lo Stato socialista, che cosa ha loro proposto invece?

466
V Dal lager al confino

In otto anni di carceri e lager non ho mai udito una parola


buona sul confino da qualcuno che vi era stato. Ma fin dalle
prime prigioni, dalle prigioni dell'istruttoria e poi da quelle di
transito, poiché l'uomo si sente troppo oppresso dalle sei
superfici di pietra ravvicinate che compongono la cella, si
accende la tremula speranza del prigioniero, il sogno del confino
balena come un miraggio, nel buio dei pancacci smagrati petti
sospirano: « Ah, il confino! Almeno mi condannassero al
confino! » Non solo io non evitai questa sorte comune, ma il
sogno del confino si era particolarmente rafforzato in me. Nella
cava d'argilla della Nuova Gerusalemme io ascoltavo il canto dei
galli nel villaggio vicino e sognavo il confino. Anche dal tetto
della barriera di Kaluga io guardavo l'immensità aliena della
capitale e facevo gli scongiuri: via da qui, il più lontano possibile
al confino! Spedii anche un'ingenua domanda al Soviet supremo
perché mi fossero commutati gli otto anni di lager in confino a
vita, foss'anche il più remoto e selvaggio. In risposta, l'elefante
non starnutì neppure. (Non capivo ancora che il mio confino a
vita l'avrei avuto, con la sola differenza che sarebbe stato non
invece del lager ma dopo questo.)
Nel 1952 dei tremila detenuti del lager « russo » di Ekibastuz
furono « liberate » circa dieci persone. Sembrò a quel tempo una
cosa stranissima: accompagnavano fuori dal cancello dei
Cinquantotto! Ekibastuz esisteva da tre anni e mai una sola
persona ne era stata rilasciata, mai nessuno arrivava al termine

467
della sua pena. Dunque erano scadute le prime diecine di guerra
di quei pochi che non erano morti nel frattempo.
Aspettavamo con impazienza le loro lettere. Ne arrivarono,
direttamente o indirettamente, alcune. Venimmo a sapere che
quasi tutti erano stati portati dal lager al confino, sebbene la
sentenza non lo prevedesse. Tanto ai nostri carcerieri che a noi
era chiaro che non si trattava di disposizioni giudiziarie né di
pene né di documenti scritti: il fatto era che noi, una volta per
tutte definiti nemici, saremmo stati oramai calpestati, schiacciati
e soffocati dal potere fino al giorno della nostra morte, secondo il
diritto del più forte. Soltanto questo sistema pareva normale a noi
e al potere, tanto vi eravamo assuefatti, tanto era diventato parte
della nostra vita.
Negli ultimi anni staliniani suscitava ansia non il destino dei
confinati, ma quello dei cosiddetti liberati, di chi veniva lasciato
fuori dai cancelli, apparentemente senza scorta, di chi veniva
apparentemente abbandonato dall'ala grigia della MVD. Ma il
confino, che il potere considerava, per insipienza, una pena sup-
plementare, era la continuazione dell'abituale esistenza senza
responsabilità, di quella fatalistica base sulla quale sta tanto saldo
il prigioniero. Il confino ci esentava dalla necessità di scegliere
da soli il luogo di residenza, e quindi evitava gravi errori e dubbi.
Era sicuro solamente il luogo dove ci deportavano. Era l'unico
posto in tutta l'Unione Sovietica in cui non ci potevano
rimproverare: perché ci siete venuti? Solamente là avremmo
goduto del diritto assoluto e definitivo su due metri quadri di
terra. E se qualcuno usciva dal lager solo, come me, senza che
nessuno lo aspettasse in nessun luogo, il confino pareva l'unico
posto dove sarebbe stato possibile incontrare un'anima cara.
Da noi hanno fretta di arrestare, ma non di liberare. Se uno
sfortunato democratico greco o un socialista turco fosse tratte-
nuto in prigione un giorno più del dovuto, la stampa mondiale ne
urlerebbe a squarciagola. Io ero felice che allo scadere della pena
mi trattenessero nel lager soltanto alcuni giorni per poi...

468
liberarmi? no, poi fu la tradotta. E per un mese intero Viaggiai a
spese del mio tempo.
Uscendo dal lager sotto scorta armata cercavamo di attenerci
alle ultime superstizioni da carcere: non voltarsi a guardare
l'ultima prigione (altrimenti ci tornerai), disfarsi nel modo giusto
del cucchiaio che usavi. (Ma qual era il modo giusto? Alcuni
dicevano: prendilo con te, per non tornare a riusarlo; altri: buttalo
in prigione, altrimenti questa t'inseguirà. Io avevo fuso da me il
cucchiaio in fonderia e lo presi con me.)
Ecco nuovamente balenare i transiti di Pavlodar, Omsk,
Novosibirsk. Sebbene avessimo scontato le pene, ci perquisivano
di nuovo, ci toglievano quanto non era autorizzato, ci cacciavano
in celle sovraffollate, nei cellulari, negli stolypin, ci mescolavano
ai ladri, i cani della scorta ringhiavano come prima contro di noi
e come prima i mitraglieri urlavano: « Non guardarsi indietro! »
Ma al transito di Omsk un bonario sorvegliante, mentre fa-
ceva l'appello secondo le pratiche, disse a noi cinque di Eki-
bastuz: « Avete dei santi in Paradiso! » « Perché? Dove andia-
mo? » rizzammo le orecchie noi, avendo capito che doveva es-
sere un posto buono. « Al sud », continuò a meravigliarsi quello.
E infatti da Novosibirsk andammo in direzione del sud.
Andiamo verso il caldo! Ci sarà il riso, ci saranno le mele e l'uva.
Cos'è successo? Possibile che il compagno Berija non sia riuscito
a trovarci un luogo peggiore nell'Unione Sovietica? Possibile che
esista un confino simile? (Dentro di me pensavo già: scriverò un
ciclo di poesie e lo chiamerò Versi sul Bellissimo Confino.*)
Alla stazione di Džambul ci scaricarono dallo stolypin coi
soliti sistemi sbrigativi e ci condussero, fra due file di soldati che
formavano un corridoio vivente, fino a un autocarro dove ci
fecero sedere nel fondo del cassone al modo solito come se
adesso che avevamo scontata la pena potessimo davvero pensare
ad evadere. Era notte fonda, la luna al suo ultimo quarto illumi-
nava appena il viale scuro lungo il quale viaggiavamo, ma era
* Ricalcato sul titolo della raccolta di A. Blok Versi sulla Bellissima Dama.

469
davvero un viale, di pioppi piramidali! Bel confino davvero! Che
sia la Crimea? È solo la fine di febbraio, adesso da noi sull'Irtys
sono geli feroci, qui invece ci accarezza un venticello tiepido.
Ci portarono in una prigione, e questa ci accolse senza per-
quisizioni e senza bagno. Le maledette mura si stavano
ammorbidendo! Entrammo nelle celle con sacchi e valigie.
L'indomani un ufficiale aprì la porta sospirando: « Fuori con
tutta la roba ».
I diabolici artigli si stavano allentando...
Uscendo dall'edificio ci tuffammo in un rosseggiante mattino
di primavera. L'alba intiepidiva le mura di mattoni del carcere.
Nel mezzo del cortile ci attendeva un autocarro, due zek che
erano stati aggiunti al nostro gruppo vi avevano già preso posto.
Era il momento di respirare, di guardarsi intorno, di lasciarsi
penetrare dall'atmosfera irripetibile di quel mattino, ma come
trascurare l'occasione di fare una nuova conoscenza? Uno dei
nuovi, un vecchietto canuto e asciutto dai lacrimosi occhi chiari
sedeva sulla sua roba così dritto, in atteggiamento tanto solenne,
che lo si sarebbe detto lo zar in attesa di ricevere gli ambascia-
tori. Lo si sarebbe potuto credere un sordo o magari uno straniero
che avesse perduto ogni speranza di parlare la propria lingua con
qualcuno. Appena montato sul camion decisi di attaccare
discorso con lui e quello con voce ben ferma e nel russo più puro
si presentò:
« Vladimir Aleksandrovič Vasil'ev. »
E subito tra noi scoccò una scintilla! Il cuore sente chi gli è
amico e chi gli è nemico. Questo era un amico. In prigione ti
devi affrettare a far conoscenza con la gente: non sai se ne sarai
separato fra un minuto. Ah, è vero, non siamo più in prigione...
ma non importa. Cercando di sovrastare il rumore del motore, gli
faccio la mia intervista e non mi accorgo che l'autocarro è
passato dall'asfalto della prigione ai ciottoli della strada,
dimentico che non bisogna voltarsi a guardare l'ultima prigione
(quante saranno, le ultime?), e prima che mi venga in mente di
dare un'occhiata al breve tratto di libertà che attraversiamo,
eccoci di nuovo nello spazioso cortile interno di una MVD di
provincia con il divieto, come al solito, di uscire in città.

470
A prima vista si darebbero a Vladimir Aleksandrovič
novant'anni, da come si combinano quegli occhi fuori dal tempo,
quel viso appuntito, quel ciuffo di capelli bianchi. Invece ne ha
settantatré. È uno dei più anziani ingegneri russi, un idrografo e
idrotecnico dei più grandi. Nell'« Unione degli ingegneri russi »
(che cos'è? ne sento parlare per la prima volta. Apprendo che
questa società è stata una creazione importante del pensiero
tecnico, forse uno di quei balzi in anticipo di un secolo quali ne
ha fatti più d'uno la Russia negli anni Venti e Trenta, tutti slanci
che sarebbero poi finiti male »), nell'« Unione degli ingegneri
russi », dunque, Vasil'ev è stato un esponente molto in vista;
ancor oggi ricorda con tenace soddisfazione: « Ci rifiutavamo di
far finta di credere che si potesse far crescere i datteri su dei rami
secchi ».
Il ché naturalmente comportò lo scioglimento della loro as-
sociazione.
Quella regione del Semireč'e dove eravamo appena arrivati lui
l'aveva percorsa a piedi e a cavallo un mezzo secolo prima.
Ancor prima della prima guerra mondiale aveva messo a punto
dei progetti per l'irrigazione della vallata del Ču, la realizzazione
di un sistema di chiuse sul fiume Naryn e di un tunnel attraverso
la catena del Ču-Ili, progetti che aveva subito cominciato ad
attuare egli stesso. Nei suoi cantieri funzionavano sei « spalatrici
elettriche » che aveva fatto venire dall'estero fin dal 1912 (tutte e
sei sarebbero sopravvissute alla rivoluzione; negli anni Trenta
vennero presentate, nel cantiere della diga sul Čirčik, come
produzione sovietica recente). Adesso, dopo aver scontato
quindici anni per « sabotaggio » - di cui tre anni, gli ultimi, alla
prigione di isolamento di Verchneural'sk - aveva chiesto come
una grazia di essere inviato al confino e di morire qui, nel
Semireč'e, dove tutto aveva avuto inizio. (Ma non gli avrebbero
fatto neanche questa grazia se Berija non si fosse ricordato
dell'ingegner Vasil'ev che negli anni Venti aveva separato le
acque delle tre repubbliche della Transcaucasia.)
Ecco perché oggi, seduto sulla sua roba nel camion, ha que-
st'aria così assorta, e un aspetto un po' da sfinge: questo primo
giorno di libertà per lui è anche quello del ritorno nel paese

471
della sua giovinezza, nel paese dell'ispirazione. No, non è poi
tanto breve la vita umana, se si è stati in grado di lasciare delle
pietre miliari lungo la via percorsa.
Vladimir Aleksandrovič racconta che recentemente sua figlia
si è fermata sull'Arbat* davanti alla vetrina del giornale « Trud
»**. Uno dei soliti corrispondenti enfatici, senza risparmiare le
parole, ben pagate, raccontava sul giornale di un suo viaggio
nella valle del Ču, irrigata e fatta rinascere a nuova vita dal genio
creatore dei bolscevichi, descriveva il sistema di sbarramento del
Naryn, vantava la saggezza delle installazioni idrauliche nonché
la felicità dei kolchoziani. E inaspettatamente - chi glielo aveva
sussurrato all'orecchio? - concludeva: « Ma pochi sanno che tutte
queste trasformazioni sono la realizzazione del sogno di Vasil'ev,
un ingegnere russo di talento rimasto incompreso nella vecchia
Russia zarista.1 Peccato che questo giovane entusiasta non sia
vissuto fino a vedere trionfare le proprie nobili idee! » Le
preziose righe si confusero, si mescolarono sulla pagina; la figlia
di Vasil'ev strappò il giornale dalla vetrina, se lo. strinse al petto
e lo portò via, noncurante dei colpi di fischietto di un miliziano.
A quel tempo il giovane entusiasta se ne stava in un'umida
cella del carcere d'isolamento di Verchneural'sk. Precocemente
invecchiato, i reumatismi o una malattia ossea gli avevano
piegato la spina dorsale, non riusciva più a raddrizzarsi. Fortu-
natamente non era solo nella cella, aveva per compagno uno sve-
dese che lo guarì massaggiandogli la schiena con tecniche spe-
ciali usate dagli sportivi. Gli svedesi non sono frequenti nelle
prigioni sovietiche. Dissi che anch'io ne avevo avuto uno per
compagno. Si chiamava Erik...***
« ...Arvid Andersen? » replicò con vivacità V.A. (Egli parla e
si muove molto vivacemente.)
Che coincidenza! Dunque era stato Arvid a guarirlo facen-

* Via centrale di Mosca.


** « II lavoro », organo dei sindacati sovietici.
1
Alla fine del 1917 Vasil'ev era praticamente alla testa del Dipartimento per le bonifiche.
*** Si veda Arcipelago GULag 1°, pp. 547-549.

472
dogli dei massaggi! Vedete come sono piccolo, ci lancia come
viatico l'Arcipelago. Ecco dunque dove avevano portato Arvid
tre anni fa: nell’« isolatore » degli Urali. Non sembra che il
povero ragazzo sia stato poi molto difeso dal Patto atlantico o da
suo padre miliardario.1
Intanto, cominciano a convocarci ad uno ad uno negli uffici
del comando: è nello stesso cortile della MVD della provincia; il
suo colonnello, il maggiore e i numerosi tenenti hanno sotto la
loro giurisdizione tutti i confinati della provincia di Džambul.
Comunque al colonnello non avevamo accesso, il maggiore si
limitava a scorrere i nostri visi come dei titoli di giornale, ed
erano i tenenti a formalizzarci, rilasciandoci documenti scritti a
penna con graziosi caratteri.
L'esperienza del lager mi da di gomito, con piccoli colpi pre-
cisi: attenzione! in questi brevi minuti si sta decidendo la tua
sorte! Non perdere tempo! Esigi, insisti, protesta! Sforzati, inge-
gnati, inventa qualche ragione per cui devi assolutamente rima-
nere nel capoluogo o vivere nel centro più vicino e più comodo.
(La ragione ci sarebbe anche, solo che io non la so: sono le
metastasi che si sviluppano nel mio corpo da due anni, dopo
l'operazione incompleta che ho subito al lager.)
Ah no, non sono più quello d'una volta... Non sono più lo
stesso degli inizi. Una specie di supremo torpore è calato su di
1
Pavel Veselov (Stoccolma), che si occupa attualmente di altri casi di arresto di cittadini
svedesi da parte delle autorità sovietiche, ha analizzato tutto ciò che E.A. Andersen raccontava su
se stesso ed esprime la seguente ipotesi: per aspetto e per cognome E.A. era piuttosto norvegese,
ma per qualche ragione aveva preferito farsi passare per svedese. I norvegesi rifugiatisi all'estero
dopo il 1940 erano assai più numerosi nell'esercito britannico che non gli svedesi, rappresentati
forse da qualche individuo isolato. E.A. poteva anche avere davvero dei parenti inglesi che si
chiamavano Robertson, ma essersi inventato la parentela con il generale Robertson per aumentare
il proprio valore agli occhi della Sicurezza dello Stato. Non è escluso che a Berlino ovest dopo la
guerra egli abbia lavorato per lo spionaggio militare degli Alleati, e che sia stato questo ad attirare
su di lui l'attenzione della MGB. Probabilmente a Mosca era venuto con una delegazione inglese o
norvegese e non svedese (credo che di svedesi non ce ne siano mai state). Forse la Sicurezza dello
Stato gli propose il doppio gioco, ed egli si prese i suoi 20 anni per aver rifiutato. Quanto al padre
di Erik, poteva effettivamente trattarsi di un uomo d'affari ma non così ricco come diceva. Erik
esagerò anche la conoscenza di suo padre con Gromyko (il che indusse i ghebisti a mostrarlo a
Gromyko) per interessare la Sicurezza a uno scambio e in tal modo mettere al corrente della sua
situazione l'Occidente. (Nota aggiunta nel 1974.)

473
me, e mi ci trovo bene. Mi piace non agitarmi come mi sugge-
rirebbe l'esperienza del lager. Mi ripugna inventare adesso un
futile e pietoso pretesto. Nessun uomo sa nulla in anticipo. La
più grande sciagura può occorrergli nel migliore dei luoghi,
come la più grande felicità lo può raggiungere nel peggiore. E
non ho nemmeno avuto il tempo d'informarmi, di farmi dire quali
sono, nella provincia, i distretti buoni e quelli cattivi: ero troppo
assorbito dalla storia del vecchio ingegnere.
Nella sua pratica ci dev'essere un'annotazione che raccomanda
di usargli particolari riguardi, poiché gli permettono di andarsene
a piedi, tutto solo, in città all'Ente di regolazione idrica della
provincia a chiedere un lavoro. Mentre per noi tutti la
destinazione è il distretto di Kok-Terek: un tratto di deserto nel
nord della provincia, l'inizio del Betpak-Dala, una terra senza
vita che occupa il centro del Kazachstan. Altro che uva!
Il cognome di ciascuno di noi viene scritto in lettere tonde su
un modulo stampato su una carta rugosa e rossastra, poi vi
appongono la data e ce lo ficcano sotto il naso: firmate.
Dove ho già visto una cosa simile? Ah sì, fu quando mi noti-
ficarono la decisione dell'OSO. Anche allora non dovevo far altro
che prendere in mano la penna e firmare. Ma quella volta era una
bella carta liscia, carta della capitale. Penna e inchiostro invece
facevano schifo come qui.
Dunque vediamo, cos'è che mi si « notifica in data odierna »?
Che io, tal de' tali, sono confinato in perpetuo nel distretto tale, e
posto sotto la sorveglianza ufficiale (toh! la vecchia terminologia
zarista)* della MGB locale e che, se dovessi uscire1 senza
autorizzazione dai confini del distretto, sarei processato in base
al Decreto numero tale del Presidium del Soviet supremo che
prevede la pena di 20 (venti) anni di lavori forzati.
Ebbene, è tutto legale. Niente ci sorprende. Firmiamo vo-
lentieri.1 Nella mia testa gira e rigira con insistenza un epi-
gramma, un po' lunghetto per la verità:
* Ai tempi dello zar una delibera amministrativa poteva porre il sorvegliato « sotto
sorveglianza ufficiale » ovvero « sotto sorveglianza ufficiosa ».
1
Molti anni dopo mi procurerò il Codice penale della RSFSR e vi leggerò con

474
Per dare un colpo di maglio
sul fragile nostro destino,
un foglio: confino perpetuo,
guardato dall'MGB.
Non me ne curo e firmo.
Esiston le Alpi. Basalti. Via Lattea.
Esistono stelle, non quelle
che brillano sopra di me.
Esser perpetuo lusinga!
Ma l’Emmeghebé lo sarà?

Vladimir Aleksandrovič torna dalla città, gli recito l'epigram-


ma, e ridiamo, ridiamo come ridono i bambini, i prigionieri, gli
innocenti. Vladimir Aleksandrovič ha una risata molto limpida
che ricorda quella di K.I. Strachovič. V'è fra i due una
somiglianzà profonda: sono uomini troppo completamente votati
alla vita dell'intelligenza, perché le sofferenze del corpo possano
infrangere il loro equilibrio spirituale.
Eppure, anche adesso, egli ha ben poco di cui rallegrarsi.
Naturalmente non era qui che dovevano mandarlo, è stato uno
dei soliti errori. È a Frunze che doveva andare, solo da lì pote-
vano assegnarlo alla valle del Ču, dove un tempo aveva iniziato i
suoi grandi lavori. Qui invece l'Ente idrico si occupa solo della
rete di canali di irrigazione. Il kazachi semianalfabeta e
supponente che lo dirige si è degnato di far attendere qualche
minuto nel suo ufficio, in piedi vicino alla porta, il creatore del
sistema idraulico del Ču e, dopo un colpo di telefono al comitato
provinciale del partito, ha acconsentito ad assumerlo in qualità di
tecnico avventizio, come una ragazzina appena uscita dalla
piacere, all'articolo 35, che il confino può essere comminato per una durata da tre a dieci anni,
mentre se è complementare alla detenzione non può superare i cinque anni. (È l'orgoglio dei
giuristi sovietici: a partire dal Codice penale del 1922 il diritto sovietico ignora le interdizioni in
perpetuo e in generale tutte le misure di repressione aventi un carattere di perpetuità, all'infuori
della più paurosa di tutte: l'esilio a vita fuori dai confini dell'URSS. E questo costituisce «
un'importante differenza di principio tra il diritto sovietico e il diritto borghese » [Raccolta Dalle
prigioni...]). Sì, è così, niente da dire, ma, per risparmiare del lavoro alla MVD, è senz'altro più
semplice assegnare alla gente il confino perpetuo: questo evita di dover star lì a seguire quando
scadono le pene e di darsi da fare per rinnovarle.
L'art. 35 dice ancora che il confino può essere comminato soltanto con una delibera del
tribunale. Beh, non esageriamo, dell'OSO magari? Neanche: il nostro confino perpetuo ce l'ha
assegnato il tenente di servizio.

475
scuola. Di andare a Frunze - non se ne parla neanche, è un'altra
repubblica.
Come riassumere in una frase l'intera storia russa? Il paese
delle possibilità soffocate.
Eppure l'omino dai capelli bianchi si frega le mani: tra gli
scienziati è ancora un nome, forse gli otterranno il trasferimento.
Firma anche lui la sua carta, riconoscendo di essere confinato in
perpetuo e che, se dovesse uscire dai confini del distretto,
sconterebbe la galera fino all'età di novantatré anni. Gli porto la
sua roba fino al cancello, fino alla linea che mi è vietato varcare.
Adesso andrà a cercarsi una camera in affitto presso qualche
persona di buon cuore, parla già di far venire la vecchia da
Mosca. Figli? I figli non verranno. Dicono che non si può
abbandonare l'appartamento a Mosca. Ha altri parenti? Sì, un
fratello. Che però ha avuto un destino profondamente infelice:
storico di professione, non ha capito la rivoluzione d'Ottobre, ha
abbandonato la patria, e adesso, poveraccio, detiene la cattedra di
bizantinologia all'università di Columbia. Ridiamo ancora una
volta, compatiamo il fratello e ci diciamo addio con un
abbraccio. Un altro uomo notevole che ha incrociato per un
attimo la mia strada e ora sparisce per sempre.
Noi che restiamo siamo tenuti, chissà perché, per giorni e
giorni in una stanzetta dove dormiamo stretti l'uno all'altro su un
brutto pavimento tutto scheggiato, riuscendo a stento ad
allungare le gambe. Mi ricorda la cella di rigore da cui ho
iniziato, otto anni fa. Ci chiudono a chiave per la notte, noi i
liberati, proponendoci di tenere dentro il bugliolo, se vogliamo.
L'unica differenza con una prigione è che in questi giorni non ci
nutrono gratuitamente, diamo il nostro denaro e ci portano
qualcosa dal mercato.
Il terzo giorno arriva una scorta in piena regola, armata di
carabine, ci fanno firmare che abbiamo ricevuto del denaro per il
viaggio e gli alimenti, questo denaro ci viene immediatamente
tolto dalla scorta (ci dicono che è per acquistare i biglietti: in
realtà terrorizzeranno i conduttori, ci faranno viaggiare gratis e si
intascheranno i soldi, è il loro guadagno), ci incolonnano a due a
due con la roba e ci portano alla stazione, ancora una

476
volta tra due filari di pioppi. Cantano gli uccelli, ferve la prima-
vera, eppure non è che il 2 marzo! Portiamo le giubbe imbottite e
abbiamo caldo, ma siamo contenti di essere nel sud. I prigionieri,
tra gli uomini, sono quelli che più soffrono il freddo, più di
qualunque altra cosa.
Ci fanno viaggiare per un'intera giornata, con un treno len-
tissimo, nella stessa direzione dalla quale siamo giunti, poi, dalla
stazione, una diecina di chilometri a piedi. Sacchi e valigie ci
fanno fare una bella sudata, si inciampa, piegati in due, ma li
trasciniamo: ogni cencio che siamo riusciti a portare fuori dal
posto di guardia del lager servirà ai nostri corpi di pezzenti. Ho
su di me due giubbe imbottite (sono riuscito a non farne
registrare una nell'inventario) e inoltre il cappotto del fronte, un
cappotto che ne ha viste tante, logorato a forza di trascinarsi sulla
terra del fronte e su quella del lager, rossiccio, bisunto, come
potrei abbandonarlo adesso?
Il giorno finisce, non siamo ancora arrivati. Dunque dovremo
di nuovo pernottare in prigione, a Novotroickoe. È già un pezzo
che siamo liberi eppure non facciamo che passare da una pri-
gione all'altra. Una cella, il nudo pavimento, lo spioncino, mani
dietro la schiena, l'acqua calda - la sola cosa che manca è la
razione di pane: non ce la danno perché siamo liberi.
Al mattino arriva un camion e la stessa scorta del giorno pri-
ma, che in mancanza di una caserma ha pernottato come ha
potuto, viene a prenderci. Ci addentriamo nella steppa per altri
60 chilometri. Rimaniamo impantanati in bassure fangose, sal-
tiamo giù dal camion (prima, quando eravamo degli zek, non
avremmo dovuto farlo) e spingiamo, spingiamo il camion strap-
pandolo alla morsa del fango perché finisca al più presto la va-
rietà offerta dal viaggio, perché abbia inizio al più presto il
confino perpetuo. Intanto la scorta, disposta in semicerchio, ci
sorveglia.
Sfilano chilometri di steppa. A perdita d'occhio, a destra e a
sinistra, un'erba grigia e coriacea, che nessun animale vuole
mangiare, e di tanto in tanto, qualche raro villaggio, un misero
aul col suo ciuffo d'alberi. Finalmente davanti a noi, al di là

477
del circolo uniforme della steppa, appaiono le cime di alcuni
pioppi (Kok-Terek significa « pioppo verde »).
Siamo arrivati! Il camion sfreccia fra le casette di argilla dei
ceceni e dei kazachi, solleva un nugolo di polvere e attira una
muta di cani indignati. Gli asini, attaccati ai loro minuscoli
carrettini, si fanno gentilmente da parte, da un cortile si volta a
guardarci, lento e sprezzante, un cammello. C'è tanta gente, ma i
nostri occhi vedono soltanto le donne, queste straordinarie
creature che abbiamo dimenticato: eccone una, piccola e mora,
che dalla porta di casa guarda passare il nostro camion, la mano a
visiera sopra gli occhi; eccone tre tutte insieme, con i vestiti rossi
variopinti. Nessuna è russa. « Meno male, ci sono abbastanza
fidanzate anche per noi! » mi grida allegramente all'orecchio il
quarantenne capitano di lungo corso V.I. Vasilenko, il quale s'è
fatto tranquillo i suoi anni a Ekibastuz come direttore della
lavanderia e che ha tutte le intenzioni, ora che ritrova il mondo
libero, di spiegare le ali e cercarsi una nave per la vita.
Oltrepassati lo spaccio distrettuale, l'osteria, l'ambulatorio,
l'ufficio postale, il comitato esecutivo distrettuale, il comitato del
partito col suo tetto di ardesia, la casa della cultura col suo tetto
di canne, il nostro camion si ferma davanti alla casa della MVD-
MGB. Saltiamo giù tutti impolverati, entriamo nel giardinetto e lì,
noncuranti del fatto che siamo sulla via principale, ci laviamo
fino alla cintola.
Dall'altra parte della strada, dirimpetto alla MGB, si erge un
edificio alto e straordinario anche se è composto del solo piano
terra: quattro colonne doriche sostengono con tutta serietà un
falso portico, ai piedi delle colonne due gradini imitanti la pietra
levigata, il tutto sotto un tetto di paglia scurita. Il cuore mi si
mette a battere per conto suo: è una scuola! una scuola del ciclo
completo.* Smetti di battere, taci, sei insopportabile: questo
edificio non ti riguarda.
Una ragazza attraversa la via principale e si dirige verso

* A quei tempi il ciclo lungo (desjatiletka) comportava dieci anni di studio e quello corto
sette (semiletka), corrispondenti quindi press'a poco alle nostre elementari + media inferiore.

478
quella porta tanto desiderata: capelli ricci a boccolotti, tutta pu-
litina, con la giacchettina stretta in vita che la fa assomigliare a
una vespa. Ma almeno coi piedi tocca terra? È una maestra.
Tanto giovane che non può aver finito l'istituto pedagogico.
Dunque ha fatto il ciclo breve e poi le scuole magistrali. Come la
invidio! Che abisso fra lei e me, semplice manovale! Appar-
teniamo a ceti diversi e io non oserei mai prenderla sotto braccio.
Intanto i nuovi arrivati, chiamati ad uno ad uno in un ufficio
silenzioso, passano tra le mani di... di chi direste? ma del
padrino, diamine, dell'agente della sicurezza! Ce n'è uno anche al
confino, anche qui è lui la figura principale.
Il primo incontro è molto importante: infatti non dovrò gio-
care a rimpiattino con lui per un mese, ma in perpetuo. Adesso
varcherò quella soglia e cominceremo a studiarci di sottecchi a
vicenda. Un kazachi giovanissimo, si maschera con il riserbo e la
cortesia; io mi maschero con la dabbenaggine. Capiamo am-
bedue che le nostre frasi insignificanti, come « eccole un foglio
di carta », « con quale penna posso scrivere? », sono già un
duello. Ma per me è importante mostrare che non lo sospetto
neppure. Vedete, son sempre così, aperto e senza malizia. Ma sì,
diavolo color bronzo, segnatelo in un angolo del cervello: questo
non richiede una sorveglianza speciale, se ne starà tranquillo, la
reclusione gli ha giovato.
Che cosa devo riempire? Un questionario, s'intende. E un
curriculum vitae. Saranno i primi elementi di un nuovo fascicolo:
la cartellina è bell'e pronta lì sul tavolo. In seguito raccoglierà
delazioni contro di me, pareri dei funzionari preposti. E non
appena si delineerà una nuova pratica e arriverà dal capoluogo il
segnale di mettermi dentro, lo faranno (qui, nel cortile, c'è una
prigione di mattoni d'argilla e di paglia) e mi appiopperanno una
nuova diecina.
Porgo i primi fogli all'agente, lui li legge e li appunta alla
cartellina.
« Mi saprebbe dire dov'è la sezione distrettuale dell'istruzione
pubblica? » chiedo improvvisamente, spensierato e cortese.
Lui, altrettanto cortesemente, me lo spiega. Non alza le
soprac-

479
ciglia con aria meravigliata. Ne deduco che posso andare a farmi
assumere, la Sicurezza dello Stato non ha obiezioni. (Na-
turalmente, da zek navigato non ho scoperto le carte dicendo
direttamente: posso lavorare nell'istruzione pubblica?)
« Mi dica, quando potrò girare senza scorta armata? »
Lui si stringe nelle spalle.
« In linea di principio, oggi sarebbe desiderabile che lei non
uscisse. Ma se è per questioni di lavoro può farci un salto. »
Ed ecco che vado! Capiscono tutti la grandiosità di questa
parola libera? Vado da solo! Senza mitra spianati, né di fianco né
dietro. Mi volto: nessuno. Se voglio posso prendere il lato destro
della via, e passare lungo la palizzata della scuola vicino a una
scrofa che fruga in una pozzanghera. Se voglio posso prendere il
lato sinistro dirigendomi verso quelle galline che vanno e
vengono razzolando proprio davanti alla sezione dell'istruzione
pubblica.
Fino alla sezione sono solo duecento metri ma quando ci ar-
rivo, la mia schiena, eternamente curva, si è già raddrizzata un
poco, le mie maniere sono già un po' più disinvolte. Nello spazio
di questi duecento metri sono salito di un gradino nella scala
sociale.
Entro, con la mia vecchia giubba militare di lana dei tempi del
fronte, con i vecchi, vecchissimi calzoni spigati. Ho gli scarponi
del lager, sono di cuoio grosso e nascondono a stento le estremità
delle pezze da piedi che mi fanno sempre delle orecchie.
Vi trovo due grassi kazachi, seduti: due ispettori, a dar retta ai
cartellini sui tavoli.
« Vorrei lavorare nella scuola » dico con crescente convin-
zione, e con una specie di leggerezza addirittura, come se chie-
dessi dove tengono, nel loro ufficio, la caraffa dell'acqua.
Drizzano le orecchie. Dopo tutto in un aul in pieno deserto
non è che ogni mezz'ora capiti un insegnante per farsi assumere.
E sebbene il distretto di Kok-Terek sia più vasto del Belgio, qui
conoscono il nome e la faccia di tutti quelli che hanno fatto i loro
sette anni di scuola.
« Che studi ha fatto? » mi chiedono in un russo discreto.

480
« Ho la laurea in fisica e matematica. »
Sussultano addirittura. Si scambiano occhiate. Parlottano ra-
pidissimamente in lingua kazachi.
« E... da dove viene? »
Come se non fosse chiaro, devo dirgli tutto. Quale imbecille
verrebbe qui a farsi assumere, per di più nel mese di marzo?
« Sono arrivato qui in confino un'ora fa. »
I due assumono subito l'aria di gente che la sa lunga e spa-
riscono l'uno dopo l'altro nell'ufficio del direttore. Se ne sono
andati e adesso vedo fisso su di me lo sguardo della dattilografa,
una russa d'una cinquantina d'anni. Un attimo, è come una
scintilla, siamo conterranei: proviene dall'Arcipelago anche lei.
Da dove, per che cosa, da quale anno? Nadezda Nikolaevna
Grekova, di una famiglia di cosacchi di Novočerkassk, arrestata
nel '37, è una semplice dattilografa: l'intero arsenale degli Organi
l'ha convinta di aver fatto parte di non so quale fantastica
organizzazione terroristica. Dieci anni per cominciare, adesso è
ripetente, confino perpetuo.
Abbassando la voce e gettando occhiate alla porta socchiusa
del direttore m'informa dettagliatamente; due scuole del ciclo
completo, molte del ciclo breve, il distretto ha un bisogno estre-
mo di matematici, non ce n'è uno che abbia fatto gli studi
superiori, quanto ai fisici da queste parti non se n'è mai visto
uno. Un campanello dall'ufficio. Nonostante la sua corpulenza, la
dattilografa balza su e si precipita alla chiamata, tutta piena di
zelo e al ritorno è con voce forte e tono ufficiale che mi invita a
entrare.
Una tovaglia rossa sul tavolo. Su un divano i due grassi
ispettori, seduti molto comodamente. In una grande poltrona,
sotto il ritratto di Stalin, il direttore: una piccola kazachi fles-
suosa e attraente, con maniere di gatta e di serpe. Stalin mi
sogghigna dall'alto con un riso malevolo.
Mi fanno sedere presso la porta, lontano, come un imputato.
Inizia una lunga inutile e penosa conversazione, lunga soprattutto
perché dopo avermi detto un paio di frasi in russo i tre discutono
poi per una decina di minuti in kazachi, ed io me ne sto lì come
uno scemo. Mi chiedono, non trascurando alcun

481
dettaglio, dove e quando ho insegnato, esprimono il dubbio che
io abbia dimenticato la mia materia e il metodo. Poi, dopo tutta
una serie di indugi e di sospiri (posti non ce ne sono, le scuole
del distretto sono sovraffollate di fisici e matematici, non si vede
proprio come rimediarci anche un mezzo stipendio, e poi, non è
vero, l'educazione di un giovane, al giorno d'oggi, è un'opera di
grande responsabilità), arrivano al nocciolo: perché sono stato
dentro? in che cosa è consistito precisamente il mio crimine? La
gatta-serpe già socchiude i suoi occhi maliziosi, quasi la luce
purpurea del mio delitto colpisse già il suo viso devoto al partito.
Io guardo, sopra la sua testa, la faccia sinistra del demonio che ha
storpiato la mia vita. Davanti al suo ritratto, cosa potrei
raccontare loro dei nostri reciproci rapporti?
Decido di spaventare quei dispensatori di lumi con un sistema
ben noto agli zek: quello che volete sapere è un segreto di Stato,
non ho il diritto di parlarne. Detto questo, vorrei semplicemente
sapere se mi assumono o no.
Eccoli che ripartono col loro parlottare fitto in kazachi. Chi è
tanto coraggioso da assumere, a proprio rischio e pericolo, un
criminale di Stato? Ma c'è una via d'uscita: mi fanno redigere un
curriculum vitae, mi fanno compilare un questionario in doppia
copia. Niente di nuovo! Fortuna che la carta ha una pazienza
inesauribile! Non ho già compilato tutto quanto un'ora fa? Lo
faccio di nuovo, poi rientro alla MGB.
Faccio il giro del loro cortile, della loro prigione casalinga,
con vero interesse. Guardo come, a imitazione dei grandi e senza
alcuna necessità, hanno praticato nel muro d'argilla uno sportello
per l'accettazione dei pacchi dei parenti, sebbene il muro sia così
basso che si potrebbe benissimo porgere una cesta anche senza lo
sportello. Ma che MGB sarebbe, senza uno sportello? Percorro il
loro cortile e trovo che qui respiro meglio che nell'ammuffita
sezione dell'istruzione pubblica: da là la MGB appare misteriosa, e
raggela gli ispettori. Invece qui siamo di casa. Prendiamo queste
tre gran teste del comando (due di loro sono degli ufficiali):
ebbene, sono stati messi qui apertamente per sorvegliarci, e noi
siamo il loro pane quotidiano. Niente misteri.

482
I nuovi capi si rivelano di manica larga, ci permettono di pas-
sare la notte non in una stanza chiusa ma nel cortile, sul fieno.
Una notte sotto il cielo aperto! Abbiamo dimenticato che cosa
significhi... Sempre catenacci, inferriate, sempre mura e soffitti.
Macché dormire! Giro, giro senza sosta per il cortile annesso al
carcere, inondato di tenera luce lunare. Un carro dal quale è stato
staccato il cavallo, un pozzo, un abbeveratoio, un piccolo
pagliaio, ombre nere di cavalli sotto una tettoia, tutto è così
pacifico, così antico, senza il marchio crudele della MVP. È solo il
3 di marzo, e tuttavia la notte non ha portato un abbassamento
della temperatura, è la stessa aria, quasi estiva, del giorno. Nella
cittadina di Kok-Terek sparpagliata sotto la luna ragliano i
ciuchi, a lungo, appassionatamente, ancora e ancora, informano
le ciuche del loro amore, della forza traboccante che li ha
riempiti e probabilmente a quel gran clamore si mescolano anche
le risposte delle femmine. Distinguo poco le voci, ma forse
quell'urlo basso e possente è di un cammello. Mi sembra che se
avessi voce mi metterei anch'io a urlare alla luna: adesso posso
respirare! adesso posso muovermi!
Non è possibile che io non abbia sfondato la cortina di carta
dei questionari. In questa notte risuonante di fanfare sento la mia
superiorità su tutti quei funzionari morti di paura. Insegnare!
sentirmi di nuovo uomo! Entrare con passo rapido in un'aula e
percorrere con sguardo acceso i visi dei fanciulli! L'indice
puntato sul disegno tracciato alla lavagna e tutti trattengono il
respiro. La soluzione di un problema e tutti tirano un respiro di
sollievo, liberati.
Non posso dormire. Vado avanti e indietro, avanti e indietro
sotto la luna. I ciuchi cantano. Cantano i cammelli. E tutto canta
in me: libero, libero!
Finalmente mi corico accanto ai compagni sul fieno, sotto la
tettoia. A due passi da noi i cavalli sono in piedi davanti alle
greppie, masticano tutta la notte pacificamente il loro fieno. Mi
sembra che in tutto l'universo non si sarebbe potuto trovare cosa
più dolcemente familiare di quel rumore per la nostra prima notte
dì quasi libertà.

483
Masticate, voi che non conoscete malvagità. Masticate, ca-
vallini.

L'indomani ci permettono di cercarci un alloggio privato. Dati


i mezzi di cui dispongo mi trovo una casetta-pollaio con un'unica
finestrella semieieca, tanto bassa che anche nel mezzo, dove il
tetto è più alto, non riesco a raddrizzarmi completamente. « Una
piccola isba, anche bassa bassa... » scrivevo una volta in carcere,
sognando il confino. Ma adesso non è troppo piacevole non
potere alzare la testa. In compenso, è una casa per me solo! Il
pavimento è di terra, vi stendo la giubba imbottita del lager ed
ecco fatto il letto. Ma subito un ingegnere, anche lui al confino,
professore all'istituto Baumann, Aleksandr Kliment'evič
Zdanjukevič, mi presta un paio di casse di legno, sulle quali mi
sistemo comodamente. Non posseggo ancora un lume a petrolio
(non posseggo nulla! dovrò scegliere e comprare ogni oggetto
necessario, a uno a uno, come se fossi arrivato su questa Terra
per la prima volta) ma non me ne rammarico. Per troppi anni,
nelle celle e nelle baracche, la luce fornita dallo Stato ci ha ferito
l'anima; adesso sono felice come un re, qui, nel mio buio. Anche
l'oscurità può diventare un elemento di libertà! In questa oscurità
e in questo silenzio (potrebbe giungere fin qui la voce
dell'altoparlante che è in piazza, ma sono tre giorni, a Kok-Terek,
che la radio tace), me ne sto semplicemente disteso sulle mie
casse e me la godo.
Che altro potrei desiderare?
Tuttavia la mattina del 6 marzo supera ogni nostra speranza.
La mia padrona di casa, nonna Čadova, una confinata originaria
di Novgorod, mi dice sussurrando, timorosa di dirlo ad alta voce:
« Vai ad ascoltare la radio. Mi hanno detto una cosa, ho paura
a ripeterla. »
Infatti la radio ha ripreso a trasmettere. Vado sulla piazza
centrale. Una folla di forse duecento persone, moltissime per
Kok-Terek, si è raccolta, sotto il cielo plumbeo, intorno al palo
dell'altoparlante. Tra la gente molti kazachi, soprattutto vecchi.
Hanno scoperto le teste calve e tengono in mano i loro sontuosi
berretti rossicci di pelliccia di ondatra. Sono molto afflitti.

484
I giovani sono più indifferenti. Due o tre trattoristi non si sono
tolti il copricapo. Naturalmente non me lo toglierò neppure io.
Non ho ancora capito le parole dell'annunziatore (ha la voce
spezzata a forza di effettismi drammatici) ma già mi sembra di
intuire.
Eccolo l'attimo che invocavamo, i miei amici e io, quando non
eravamo ancora studenti. L'attimo per il quale pregano tutti gli
zek del GULag (all'infuori degli ortodossi). È morto, il dittatore
asiatico. Ha tirato le cuoia, la carogna. Oh, chissà che
incontenibile giubilo ci dev'essere in questo momento là da noi
nel lager speciale! Mentre qui le maestre di scuola, delle giovani
ragazze russe, singhiozzano da spezzare il cuore: « Cosa ne sarà
adesso di noi? » Hanno perduto la persona più cara... Vorrei
urlare loro attraverso tutta la piazza: « Cosa ne sarà di voi?
Semplicemente, i vostri padri non verranno più fucilati! I vostri
fidanzati non verranno più arrestati! E voi stesse non sarete più
delle ČS! »
Avrei voglia di urlare davanti all'altoparlante, addirittura di
eseguire una danza selvaggia. Ma, ahimè, i fiumi della storia
sono lenti. E la mia faccia, a tutto allenata, si atteggia a smorfia
di dolorosa attenzione. Fingere, per ora, fingere come prima.
Eppure l'inizio del mio confino è magnificamente segnato!
Ancora una giornata dedicata interamente a scrivere una
poesia: Il cinque marzo.

Passa una decina di giorni, e la lotta per i portafogli,


congiunta al timore che si ispirano reciprocamente, fa sì che i
Sette Boiari* aboliscano completamente la MGB! Dunque avevo
ragione di dubitare che la MGB fosse perpetua.1
Ma allora, che cosa resta di eterno sulla terra, all'infuori
dell'ingiustizia, dell'ineguaglianza e della schiavitù?

* L'autore dà questo nome, da riferire propriamente al governo appunto di sette boiari,


durante l'interregno che precedette l'elezione del primo zar Romanov (1610-1612), ai sette
successori di Stalin che assunsero la « direzione collettiva » prima del governo personale di
Chrušč'ev: Malenkov, Molotov, Vorošilov, Bulganin, Kaganovič, Mikojan e Chruščev stesso.
1
Vero è che dovevano restituircela sei mesi dopo con il medesimo organico.

485
VI La vita e gli agi del confinato

1. Chiodi da bicicletta - ½ chilo


2. Scarpi -5
3. Soffiettore -2
4. Biccieri - 10
5. Stuccio da scolaro -1
6. Mappatondo -1
7. Fiamiffero - 50 scatole
8. Lampada Pipistrella -2
9. Pasta di entifricia - 3 pezzi
10. Pan pepato - 34 chili
11. Vodka - 156 mezzi litri*

Così si presentava l'elenco che recensiva, a fini d'inventario e


per la modifica dei pezzi, tutte le merci esistenti nei grandi
magazzini dell'aul Ajdarly. Era stato compilato dagli ispettori ed
esperti della Cooperativa di consumo del distretto di Kok-Terek
e adesso io dovevo macinare tutto quanto nella mia calcolatrice,
e operare una riduzione dal 7,5 all'1,5 per cento a seconda degli
articoli. I prezzi diminuivano catastroficamente e c'era da
aspettarsi che per l'inizio dell'anno scolastico sia il rnappatondo
che lo stuccio sarebbero stati venduti, i chiodi sarebbero stati
fissati al loro posto sulle biciclette; soltanto le forti giacenze di
pan pepato, probabilmente d'anteguerra, rischiavano di rimanere
invendute. La vodka, si sarebbe anche potuto aumentarne il
prezzo: non sarebbe comunque durata oltre il 1° maggio. Questo
ribasso dei prezzi, che, secondo la tradizione stali-

* Si è cercato di riprodurre in italiano i comici errori della lista.

486
niana, veniva praticato il 1° aprile e doveva far guadagnare ai
lavoratori una somma di tot milioni di rubli (la cifra era già stata
calcolata e pubblicata in anticipo), per me personalmente fu un
duro colpo.
Da un mese che ero arrivato al confino mi mangiavo i miei
guadagni di fonditore nel lager: in libertà vivevo con il denaro
del lager! Andavo continuamente alla sezione della pubblica
istruzione per sapere quando mi avrebbero finalmente assunto.
Ma la serpigna direttrice non mi riceveva più, i due grassi ispet-
tori trovavano di giorno in giorno sempre meno tempo per
borbottarmi qualche parola e finalmente, verso la fine del mese,
mi fu mostrata una delibera della Pubblica istruzione provinciale
in cui era detto che le scuole del distretto di Kok-Terek quanto a
matematici erano al completo e che non c'era nessuna possibilità
di trovarmi un lavoro.
Tuttavia, allora stavo scrivendo un dramma, I decabristi senza
dicembre, senza dover passare mattina e sera la perquisizione e
senza essere così spesso costretto a distruggere quanto avevo
scritto. Non mi occupavo d'altro, e dopo il lager mi piaceva. Una
volta al giorno andavo all'osteria e là per due rubli mangiavo una
zuppa calda, la medesima che venivano a prelevare con un
secchio per gli ospiti della prigione locale. Quanto al pane nero,
lo vendevano liberamente nello spaccio. Avevo già comprato
delle patate, e perfino un pezzo di lardo. Avevo trasportato da
me, caricandola su un asino, una provvista di rami di alossilo,*
sicché potevo anche accendermi il fornello. La mia felicità era
quasi completa, e progettavo, se non mi avessero assunto, di
dedicarmi completamente al dramma fino a quando il denaro mi
fosse bastato; ora che finalmente ero libero di farlo.
Poi un bel giorno, per strada, uno degli ufficiali del comando
mi fece segno di avvicinarmi. Mi portò alla Cooperativa di con-
sumo, nell'ufficio del direttore, un kazachi grasso come una
bomba, e proferì con tono significativo:
« Un matematico ».
Che miracolo era successo? Nessuno mi chiese perché ero

* Arbusti delle zone steppiche, Haloxylon.

487
stato dentro, nessuno mi fece scrivere curriculum vitae o compi-
lare questionari. Immediatamente la segretaria del direttore, una
ragazzina greca confinata, bella come un'attrice del cinema, battè
sulla macchina da scrivere, con un solo dito, che mi si nominava
economista-pianificatore con lo stipendio di 450 rubli al mese.
Lo stesso giorno e con la stessa facilità, senza questionari di
sorta, furono assunti alla Cooperativa distrettuale altri due
confinati disoccupati: il capitano di lungo corso Vasilenko e un
altro che non conoscevo, un tipo molto riservato, Grigorij
Samuilovič M-z. Vasilenko aveva già in testa un progetto con-
sistente nell'approfondire l'alveo del Ču (nei mesi estivi lo
attraversava a guado una vacca) e organizzare dei collegamenti
con motoscafi, per la qual cosa cercava di ottenere dal comando
l'autorizzazione a recarsi sul posto a esplorare l'alveo. Così,
mentre il capitano Mann, del quale Vasilenko era stato compa-
gno di corso all'Istituto nautico e sul brigantino-scuola a vela «
Tovarišč », allestiva la spedizione dell'« Ob' » nell'Antartide,
Vasilenko era nominato magazziniere di una cooperativa di
consumo.
Ma, in realtà, non servivano né pianificatori, né magazzinieri,
né contabili, fummo tutti e tre mandati sulla stessa breccia: la
modifica dei prezzi delle merci. Ogni anno, nella notte dal 31
marzo al 1° aprile, la cooperativa era in preda alle convulsioni
dell'agonia, il personale non bastava mai né poteva bastare.
Bisognava: inventariare tutte le merci (scoprendo i commessi che
rubavano ma non per denunciarli), cambiare i prezzi e fin dal
mattino successivo praticare quelli nuovi, così vantaggiosi per i
lavoratori. La rete ferroviaria e stradale dell'immenso deserto del
nostro distretto era di chilometri zero, e negli spacci più remoti
non si riusciva mai ad introdurre questi prezzi così vantaggiosi
per i lavoratori prima del 1° maggio: ogni commercio si
interrompeva per un mese intero, il tempo necessario alla Coo-
perativa del distretto per fare i suoi conti e mettere a punto i
nuovi listini che si facevano poi pervenire a dorso di cammello.
Ma almeno nel capoluogo del distretto non bisognava compro-
mettere il commercio nei giorni precedenti le feste del 1°
maggio.
Quando arrivammo alla Cooperativa c'erano già al lavoro una
488
quindicina di persone, alcune di ruolo, altre assunte per l'occa-
sione. Conteggi larghi come lenzuola coprivano con la loro pes-
sima carta tutte le tavole, si sentiva solo lo schioccare degli
abachi sui quali i contabili più esperti moltiplicavano, e divi-
devano, nonché il solito scambio di improperi. Misero al lavoro
anche noi. Mi venne subito a noia moltiplicare e dividere sulla
carta e chiesi una calcolatrice. Non ce n'era neanche una alla
Cooperativa e, del resto, nessuno sapeva usarla, ma qualcuno si
ricordò di aver visto nell'armadio della direzione una
macchinetta con delle cifre; anche là, comunque, non l'usava
nessuno. Telefonarono, ci fecero un salto, me la portarono. Mi
misi rapidamente ad allineare colonne di cifre, sotto l'occhio
torvo dei contabili più anziani: non sarà un concorrente, per
caso?
Io intanto giravo la manovella e pensavo tra me e me: come fa
presto uno zek a diventare sfacciato, o, per dire la stessa cosa in
modo più forbito, come crescono rapidamente i bisogni
dell'uomo! Ero scontento che mi avessero distolto dal dramma
che stavo componendo nel mio buio stambugio; scontento che
non mi avessero assunto in una scuola; scontento che mi
avessero forzato a... picconare una terra gelata? Impastare
l'argilla con i piedi nell'acqua gelata? no, mi avevano forzato a
sedermi a un tavolo pulito per girare la manovella d'una
calcolatrice e scrivere cifre in colonna. Se all'inizio degli anni di
lager mi avessero proposto di compiere quel beato lavoro durante
l'intera pena, anche per dodici ore al giorno, gratuitamente, avrei
esultato. Ora me lo pagano 450 rubli al mese, così che potrò
aggiungere al mio regime alimentare anche un litro di latte al
giorno, e storco il naso: non saranno un po' pochi?
Per una settimana la Cooperativa del distretto rimase impan-
tanata nella modifica dei prezzi (bisognava definire giustamente,
per ogni merce, il gruppo al quale apparteneva per il ribasso
generale e a quale altro gruppo apparteneva per il rincaro parti-
colare applicato alla campagna) e nessun negozio potè riaprire.
Allora il presidente, un uomo grasso che era il più grande fan-
nullone della terra, ci riunì tutti nel suo pomposo ufficio e disse:
« Ecco di cosa si tratta. L'ultima scoperta della medicina è che
l'uomo non ha affatto bisogno di dormire otto ore. Quattro
489
sono pienamente sufficienti. Quindi ordino: il lavoro inizia alle
sette del mattino e finisce alle due di notte, intervallo per il
pranzo un'ora e per la cena un'ora ».
E nessuno di noi sembrò trovarci niente di buffo, in questa
assordante tirata, ne fummo tutti spaventati. Ci rannicchiammo
tutti in silenzio, e il solo punto che osammo discutere fu dove
convenisse sistemare l'intervallo della cena.
Eccolo, il destino del confinato che mi era stato descritto: con-
siste tutto di ordini come quello. Tutti gli uomini che si trovano
in quell'ufficio sono dei confinati, temono per il loro posto; se
vengono licenziati, non troverebbero tanto facilmente un altro
posto a Kok-Terek. E poi, in fin dei conti, non è che quel lavoro
lo si faccia per il direttore personalmente, è per il paese, bisogna
farlo. E così l'ultima scoperta della medicina sembra a tutti
piuttosto accettabile.
Ah, potersi alzare e mettere in ridicolo quel tronfio maiale!
Sfogarsi, una volta almeno! Ma sarebbe « agitazione antisovie-
tica » della più bell'acqua, un appello a sabotare un'iniziativa
della massima importanza. E tutta la vita è così: in ognuna delle
categorie in cui vi trovate a passare - scolaro, studente, cittadino,
soldato, detenuto, confinato — le autorità hanno modo di costrin-
gervi, e a voi non resta che piegare la schiena e tacere.
Se ci avessero detto fino alle dieci di sera, sarei rimasto. Ma
quello ci voleva fucilare a secco, voleva che io, uscito dal lager,
cessassi di scrivere, qui, in libertà! Ah no, va' al diavolo, tu e il
tuo ribasso dei prezzi. Il lager mi suggerisce una via d'uscita: non
parlare apertamente contro, ma agire contro in silenzio. Insieme
a tutti gli altri ascoltai docilmente l'ordine, ma alle cinque di sera
mi alzai e me ne andai. Tornai soltanto alle nove del mattino. I
miei colleghi erano già tutti seduti a far di conto o a far finta di
farlo. Mi guardarono come un selvaggio. M-z, pur approvando in
cuor suo la mia condotta, non si era risolto a seguire il mio
esempio, ma mi informò in segreto che la sera prima il
presidente, trovando vuoto il mio posto, aveva urlato che mi
avrebbe fatto spedire a cento chilometri da lì, in pieno deserto.
Confesso di essermi preso paura: certamente la MVD era ca-

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pace di tutto. Mi ci avrebbe mandato, eccome! E precisamente a
cento chilometri, e chi s'è visto s'è visto. Ma la fortuna mi
proteggeva: capitato nell'Arcipelago dopo la fine della guerra,
ossia dopo che il periodo più funesto era passato, ora ero arrivato
al confino dopo la morte di Stalin. E in un mese qualcosa aveva
fatto in tempo ad arrivare, perfino al nostro comando.
Cominciava impercettibilmente un'epoca nuova, il triennio più
mite nella storia dell'Arcipelago.
Il presidente non mi convocò e non si affacciò nell'ufficio.
Feci la mia giornata, tutto fresco confronto agli altri che tene-
vano gli occhi aperti a fatica e facevano sbagli su sbagli, e decisi
di andarmene di nuovo alle cinque. Venga pure la fine, se deve,
purché faccia presto.
Tante volte nella vita ho constatato che si può sacrificare
molto, ma non ciò che costituisce l'asse della propria vita. Io non
sacrificai il dramma, concepito fin dai lavori forzati nel lager
speciale, e vinsi. Per una settimana tutti lavorarono di notte e si
abituarono a vedere deserto il mio tavolo. Il presidente
distoglieva lo sguardo se m'incontrava nel corridoio.
Ma non toccò a me assicurare il buon funzionamento della
cooperazione rurale del Kazekstan. Un giorno apparve nel nostro
ufficio uno dei responsabili pedagogici della scuola, un giovane
kazachi. Prima che arrivassi io, era l'unico ad avere una laurea a
Kok-Terek, e ne era fierissimo. Tuttavia la mia comparsa non
aveva suscitato la sua invidia. Sia che volesse rinsaldare la
scuola alla vigilia delle prime promozioni, o fare un dispetto alla
serpigna direttrice dell'Istruzione pubblica, fatto sta che mi disse:
« Mi porti subito il suo diploma di laurea! ». Andai a prenderlo
di corsa come un ragazzino. Lui se lo ficcò in tasca e partì per
Džambul a un congresso sindacale. Tre giorni dopo passò di
nuovo all'ufficio e mi posò davanti un estratto di una delibera
della Pubblica istruzione provinciale. La stessa spudorata firma
che in marzo mi informava che le scuole del distretto erano al
completo, adesso mi nominava, in aprile, insegnante di fisica e
matematica nelle due classi superiori, a tre settimane dagli esami
di licenza! (Aveva certo rischiato, il responsabile pedagogico.
Non tanto un rischio d'or-

491
dine politico quanto d'altro genere: temeva che avessi dimenti-
cato del tutto la matematica durante gli anni di lager. Quando
venne il giorno degli scritti di geometria e trigonometria, non mi
permise di aprire la busta in presenza degli allievi, ma convocò
nell'ufficio del direttore tutti gli insegnanti e mi stava dietro in
piedi mentre io risolvevo i problemi. La concordanza delle
risposte immerse lui e gli altri matematici in uno stato di festosa
euforia. Com'era facile farsi la fama d'un Cartesio, da queste
parti! Non sapevo ancora che ogni anno, durante gli esami della
settima classe, giungono al capoluogo del distretto numerose
telefonate dai villaggi: il problema non riesce, i dati devono
essere sbagliati! Gli stessi insegnanti hanno fatto soltanto il ciclo
breve...
Devo dire della felicità che provai nell'entrare in un'aula e
prendere in mano il gesso? Fu quello il giorno che mi rese la
libertà e il mio posto di cittadino. Per me non esisteva più tutto il
resto di cui è fatto il confino.
Quando ero a Ekibastuz la nostra colonna veniva fatta passare
spesso davanti alla scuola locale. Mi voltavo a guardare, come un
paradiso inaccessibile, il cortile con i ragazzini che correvano, i
vestiti chiari delle insegnanti e il trillo flebile del campanello dal
portichetto mi feriva. Non ne potevo più degli anni lugubri della
prigionia, dei lavori comuni del lager. Mi sembrava una felicità
assoluta, lacerante, vivere da confinato proprio in quello sterile
buco di Ekibastuz, entrare, al suono di quella campanella, in
classe con il registro sotto il braccio e l'aria misteriosa di chi sta
per rivelare cose straordinarie e iniziare la lezione. (In
quell'anelito c'era beninteso la vocazione dell'insegnante, ma
certamente vi aveva parte anche un frustrato senso del proprio
valore, che nasceva dal contrasto tra tanti anni di umiliazione da
schiavo e la consapevolezza di possedere facoltà delle quali
nessuno aveva allora bisogno.)
Ma, gli occhi fissi sulla vita dell'Arcipelago e dello Stato, mi
era sfuggito il fatto più semplice, e cioè che negli anni della
guerra e del dopoguerra la nostra scuola era morta, non esisteva
più, ne era rimasto soltanto un involucro gonfio di vento, un
suono vuoto. La scuola era morta, nella capitale come nell'ul-

492
timo dei villaggi. Quando la morte spirituale si diffonde come un
gas venefico per il paese, chi sono le prime vittime se non i
ragazzi, se non la scuola?
Tuttavia seppi tutto ciò anni più tardi, tornando dal paese del
confino nel territorio metropolitano. A Kok-Terek non lo
sospettavo neanche: l'oscurantismo dilagante era bensì la morte,
ma erano vivi, non ancora soffocati, i ragazzi confinati.
Erano ragazzi del tutto particolari. Crescevano nella consa-
pevolezza della propria condizione di oppressi. Ai consigli pe-
dagogici, e altre riunioni di chiacchiere, si diceva, parlando di
loro e indirizzandosi a loro, che erano dei piccoli sovietici, e che
crescevano anche loro per il comunismo con l'unica differenza
che erano momentaneamente limitati nel diritto di spostarsi,
null'altro. Ma ognuno di essi sentiva il collare che gli serrava il
collo, e questo fin dalla prima infanzia, fin da quando avevano
ricordo di sé. Il resto del mondo, così interessante, ricco di
eventi, ribollente di vita (come lo vedevano al cine e nelle riviste
illustrate) era per essi inaccessibile, i giovani non vi sarebbero
capitati neppure durante il servizio militare. C'era solo la
speranza, molto debole, di ottenere dal comando l'autorizzazione
di andare in città, essere là ammesso agli esami, all'università,
laurearsi senza ostacoli. Dunque tutte le conoscenze che
avrebbero potuto apprendere sul vasto mondo, le potevano
ricevere unicamente qui sul posto, la scuola locale sarebbe stata
per essi, per lunghi anni, la prima e ultima istruzione che avreb-
bero ricevuto. Per di più, la povertà della vita nel deserto li
metteva al riparo da quelle distrazioni e divertimenti che rovi-
nano la gioventù delle città del XX secolo, da Londra ad Alma-
Ata. Nella metropoli i ragazzi si sono già disabituati a studiare,
ne hanno perso il gusto, sentono i loro studi come un obbligo
fastidioso, cui si sottomettono tanto per essere iscritti da qualche
parte fino a che siano usciti dall'età scolare. Per i nostri ragazzi
confinati invece, a condizione di insegnare bene, lo studio era la
cosa più importante della vita, era tutto. Studiavano avidamente,
quasi per elevarsi dalla propria condizione di ragazzi di seconda
scelta e trovarsi sullo stesso piano dei ragazzi di

493
prima categoria. Fare dei veri studi era per essi l'unico mezzo per
soddisfare il loro amor proprio.
(No, lo soddisfacevano anche le funzioni elettive scolastiche;
il Komsomol; e, dall'età di 16 anni, il voto, la partecipazione alle
elezioni a suffragio universale. Quanto desideravano, poveretti,
almeno un'illusione di parità di diritti! Molti erano fieri di
iscriversi al Komsomol, e facevano in tutta sincerità delle
comunicazioni politiche durante le riunioni lampo. Ricordo che
cercai di convincere una tedeschina, Viktoria Nuss, iscritta a un
biennio magistrale, che lungi dall'essere umiliati dalla propria
condizione di confinati bisognava esserne fieri. Macché! Mi
guardò come se fossi pazzo. C'era anche chi invece non aveva
fretta di entrare nel Komsomol, e in tal caso veniva tirato dentro
con la forza: è permesso e tu non t'iscrivi, come mai? A Kok-
Terek certe ragazzine, delle tedesche che appartenevano in
segreto a delle sette religiose, furono costrette a iscriversi per
evitare alle loro famiglie di essere mandate più lontano nel
deserto. (Oh voi, che scandalizzate questi piccoli! meglio sarebbe
per voi se vi appendeste al collo una macina da mulino...)
Quanto ho detto si riferisce alle classi « russe » della scuola di
Kok-Terek (quasi nessuno era propriamente russo, la maggio-
ranza era costituita da tedeschi, greci, coreani, alcuni curdi e
ceceni, ucraini di famiglie trasferitesi all'inizio del secolo e kaza-
chi i cui padri occupavano posti di responsabilità: questi ci
tenevano che i loro figli studiassero il russo). Per lo più i ragazzi
kazachi avevano classi proprie. Erano ancora dei veri selvaggi,
nella loro maggioranza (quando non erano stati corrotti dalla
famiglia « funzionaria »), molto diretti e sinceri, con un radicato
concetto del bene e del male che conservavano intatto a meno
che non fosse corrotto da un insegnamento menzognero o
spocchioso. Quasi tutto l'insegnamento in lingua kazachi era
peraltro un'opera di propagazione dell'ignoranza: all'inizio era
stata costretta a diplomarsi alla meglio la prima generazione,
questi semianalfabeti partivano poi con molto sussiego per
insegnare alla generazione successiva; quanto alle ragazze mette-
vano loro « soddisfacente » e le lasciavano uscire dalle scuole e
dagli istituti magistrali nonostante fossero ancora immerse

494
nell'ignoranza più nera. Quando dinanzi a questi ragazzi primitivi
brillava improvvisamente un insegnamento vero, essi lo
assorbivano non soltanto con le orecchie e gli occhi ma lo
ingollavano a grandi sorsate.
Di fronte a tanta ricettività dei ragazzi di Kok-Terek, io
m'immersi totalmente nell'insegnamento e per tre anni fui felice
di questo solo (e forse lo sarei stato per molti anni a venire). Non
mi bastavano le ore dell'orario per correggere e completare
quanto non era mai stato dato ai ragazzi prima, organizzavo
lezioni serali supplementari, seminari, lavori all'aperto, osserva-
zioni astronomiche e quelli li frequentavano con una compat-
tezza e un entusiasmo che non manifestavano neppure per il
cinema. Mi nominarono anche professore principale, per di più
di una classe tutta kazachi, ma anche questo mi piaceva, o quasi.
Tuttavia il lato luminoso della mia vita era strettamente deli-
mitato dalla porta della mia classe e dalla suoneria che annun-
ciava l'inizio e la fine delle lezioni. Nella sala dei professori,
nell'ufficio del direttore, o nella Sezione distrettuale dell'Istru-
zione pubblica, non soltanto si restava impantanati nella solita
uggia ufficiale dilagante in tutto lo Stato, ma questa era resa
ancora più amara dalla condizione del nostro paese di confinati.
Anche prima di me v'erano stati fra gli insegnanti dei tedeschi e
dei confinati amministrativi. La nostra condizione era quella
degli oppressi: non si perdeva una sola occasione per rammen-
tarci che il permesso di insegnare ci era stato dato a titolo di
favore e che questo favore poteva essere revocato da un mo-
mento all'altro. Gli insegnanti confinati fremevano più degli altri
(che del resto non è che fossero realmente indipendenti) al solo
pensiero di attirarsi l'ira degli alti funzionari del distretto dando
voti poco alti ai loro figli. Temevano anche di far arrabbiare la
direzione con un insufficiente profitto scolastico, per cui alza-
vano i voti, favorendo così anch'essi la propagazione dell'igno-
ranza in tutto il Kazachstan. Inoltre gli insegnanti confinati (e
quelli più giovani fra i kazachi) erano gravati da tributi e taglie:
da ogni stipendio era trattenuto un quarto, non si sapeva a
beneficio di chi; il direttore (Berdenov) annunziava magari che
era il compleanno della sua figlioletta, e gli insegnanti dovevano

495
offrire 50 rubli ciascuno per il regalo; inoltre ora l'uno ora l'altro
era convocato nell'ufficio del direttore o nella sezione distrettuale
dove gli imponevano di « prestare » 300-500 rubli. (Del resto era
questo lo stile locale. Anche agli studenti kazachi si estorceva un
montone o un mezzo montone per la serata dei diplomi, e in
questo modo era loro garantita la licenza elementare anche se
erano degli ignoranti perfetti; la serata dei diplomi si trasformava
in una grossa bisboccia dei militanti locali.) Inoltre tutti i
dirigenti erano iscritti a qualche corso per corrispondenza e
costringevano gli insegnanti della nostra scuola a eseguire al loro
posto tutti gli esercizi scritti di controllo (il lavoro veniva
trasmesso loro per via gerarchica, attraverso i responsabili
didattici, e i professori-schiavi non meritavano neppure l'onore di
vedere in faccia i propri studenti).
Non so se fu la mia fermezza, fondata sul fatto che ero « inso-
stituibile », come risultò subito evidente a tutti, o l'epoca più
dolce che già s'annunciava, oppure l'una e l'altra insieme, in ogni
caso io non infilai il collo in quel basto. I ragazzi avrebbero
studiato volentieri solamente se le mie valutazioni fossero state
giuste, e io assegnavo i voti senza tener conto dei segretari e del
comitato distrettuale. Nemmeno pagavo i tributi, né facevo «
prestiti » ai dirigenti (la serpigna direttrice della Istruzione
pubblica del distretto ebbe la sfrontatezza di chiedermene uno!),
mi bastava il fatto che ogni maggio lo Stato, sempre più misero,
ci estorcesse un mese di stipendio (il confino ci restituiva la
prerogativa dei liberi, la sottoscrizione del prestito, che ci era
stata tolta nel lager). Il mio zelo civico si fermava lì.
Accanto a me Georgij Stepanovič Mitrovič, insegnante di
biologia e chimica, il quale aveva scontato dieci anni a Kolyma
per « attività controrivoluzionaria », un serbo già anziano e
malaticcio, lottava incessantemente per una giustizia locale a
Kok-Terek. Cacciato fuori dalla sezione agraria distrettuale ma
ammesso ad insegnare, egli trasferì nella scuola i propri sforzi. A
Kok-Terek le ingiustizie si incontravano a ogni piè sospinto,
aggravate dall'ignoranza della gente, dalla loro presunzione di
selvaggi e dall'omertà che legava le schiatte. L'illegalità era vi-
scida, sorda, impenetrabile, ma Mitrovič la combatteva (con

496
Lenin sulle labbra, è vero) con abnegazione e in modo disinte-
ressato: tuonava alle riunioni dei professori, a quelle degli
insegnanti del distretto, bocciava agli esami gli esterni incapaci
appartenenti a famiglie di funzionari e i diplomandi « per un
montone », scriveva reclami al capoluogo della provincia o ad
Alma-Ata, spediva telegrammi a Chruščev (raccoglieva fino a 70
firme di genitori, e faceva spedire i telegrammi da un altro di-
stretto, da noi non sarebbero stati inoltrati). Esigeva verifiche,
ispezioni, queste arrivavano e finiva per essere messo sotto ac-
cusa lui stesso, scriveva ancora; dei consigli pedagogici venivano
convocati apposta per esaminarlo, veniva accusato di pro-
paganda antisovietica fra i ragazzi (era a un pelo dall'arresto!)
oppure, con altrettanta serietà, di aver maltrattato delle capre che
brucavano i vivai piantati dai pionieri; veniva espulso,
reintegrato, esigeva un compenso per la forzata assenza dal
lavoro, lo trasferivano in un'altra scuola, ci andava, lo espelle-
vano di nuovo: si batteva gloriosamente. Se io mi fossi unito a
lui, avremmo dato del filo da torcere a tutti gli altri.
Invece, non lo aiutai per niente. Serbavo il silenzio. Evitavo di
prender parte a votazioni decisive (per non essere contro di lui),
mi eclissavo col pretesto di un lavoro di gruppo, di un incontro
con gli studenti. Non impedivo che quegli esterni legati al partito
si prendessero il voto di sufficienza: costituivano il potere, lo
ingannassero pure. Mantenevo il segreto sul mio compito:
scrivere, scrivere senza sosta. Mi risparmiavo per un'altra
battaglia, più tardi,. Ma la questione che si pone è più vasta:
Mitrovič faceva bene a battersi? era proprio necessario?
La lotta che conduceva era chiaramente votata alla sconfitta:
non poteva sperare di smuovere quella pasta densa e informe.
Anche se egli avesse riportato una piena vittoria, questa non
avrebbe corretto il regime, l'intero sistema. Una macchiolina
chiara dai contorni ben circoscritti sarebbe appena balenata nel
punto lavato, poi il grigiore avrebbe nuovamente ricoperto tutto.
Qualunque fosse stata la sua vittoria, non avrebbe compensato
l'arresto che sarebbe stato il suo castigo (soltanto i tempi
chruščeviani salvarono Mitrovič dal carcere). La sua lotta era
disperata, ma umana era la sua indignazione contro l'ingiustizia,

497
che lo portava addirittura a perdersi. La sua lotta era destinata
alla sconfìtta, ma non si può certo definirla inutile. Se non fos-
simo tutti tanto assennati, se non piagnucolassimo gli uni con gli
altri: « Non ne verrà fuori niente, è inutile! », il nostro paese
sarebbe completamente diverso. Mitrovič non era un cittadino
ma un confinato, eppure le autorità del distretto temevano lo
scintillio dei suoi occhiali.
Lo temevano, sì, ma arrivava il fulgido giorno delle elezioni -
le elezioni dalle quali esce il nostro beneamato governo popolare
-; si ritrovavano a fianco a fianco l'instancabile lottatore Mitrovič
(e allora cosa valeva la sua lotta?), l'essere sfuggente che ero io,
e l'ancor più riservato e all'apparenza più cedevole di tutti
Georgij M-z. Dissimulando una repulsione che dentro ci
mordeva forte, partecipavamo tutti e tre a quella beffa festosa.
Votare era permesso a quasi tutti i deportati, tanto poco conta-
vano, e perfino i privati dei diritti improvvisamente si vedevano
inclusi nelle liste, incalzati, spinti addirittura. Da noi a Kok-
Terek non c'erano neanche le cabine per votare, ne era stata
collocata una sola da una parte, con le Tendine spalancate, ma
non c'era nemmeno un sentiero per arrivarci, era disagevole e
imbarazzante andarci. Le elezioni consistevano nel portare al più
presto la scheda fino all'urna e infilarcela. Se qualcuno si
fermava e leggeva attentamente i nomi dei candidati, appariva
già sospetto: forse che gli organi del partito non sanno chi pro-
pongono? A che serve leggere? Una volta votato tutti avevano il
sacrosanto diritto di andare a bere (lo stipendio o quantomeno un
anticipo venivano sempre pagati alla vigilia delle elezioni).
Vestiti con gli abiti migliori, tutti (ivi compresi i confinati!) si
salutavano solennemente per strada, congratulandosi a vicenda
per chissà quale festa. C'era da rimpiangere il lager dove non
c'erano elezioni.
Una volta Kok-Terek elesse giudice popolare un certo
kazachi, all'unanimità, si capisce. Come al solito si fecero gli
auguri. Ma qualche mese dopo contro quel giudice fu intentato
un procedimento penale nel distretto dal quale proveniva (e dove
anche era stato eletto all'unanimità). Si seppe che aveva preso
parecchie bustarelle da privati. Ahimè, bisognò destituirlo e organiz-

498
zare nuove elezioni parziali a Kok-Terek. Il candidato era ancora
una volta un kazachi venuto da fuori che nessuno conosceva. La
domenica tutti indossarono gli abiti migliori, votarono
all'unanimità fin dal mattino e di nuovo per le strade le medesime
facce felici, senza una scintilla di umorismo, si augurarono... una
buona festa.
In galera potevamo ridere apertamente di tutta quella buffo-
nata, ma al confino non c'era con chi confidarsi; la vita vi è
simile in tutto e per tutto a quella dei liberi e la prima cosa che si
mutua da loro è la peggiore: la diffidenza. M-z era uno dei pochi
con i quali parlavo ogni tanto di argomenti del genere.
Ci era arrivato da Džezkazkan, per di più senza un soldo, il
suo denaro era rimasto chissà dove per strada. Ma questo non
preoccupò minimamente il comando: era stato semplicemente
cancellato dall'elenco dei detenuti e lasciato libero per le strade
di Kok-Terek: arrangiati, ruba o muori. In quei giorni gli prestai
una diecina di rubli e acquistai la sua eterna gratitudine, egli
seguitò a lungo a ricordarmi che lo avevo tratto d'impiccio.
Quello di ricordare il bene ricevuto era un suo tratto
caratteristico. Ma ricordava anche il male. (Così ricordava quello
che gli aveva fatto Chudaev, quel ragazzo ceceno che per poco
non era caduto vittima di una vendetta. Tutto ha il suo rovescio
in questo mondo, e Chudaev, scampato lui stesso alla morte, punì
crudelmente, ingiustamente e con cieca malvagità il figlio di M-
z).
Nella sua situazione di confinato senza professione, M-z non
riusciva a trovare un lavoro decente a Kok-Terek. Il massimo che
potè ottenere fu di lavorare nel laboratorio della scuola, e ci
teneva molto. Ma l'impiego richiedeva di essere servizievole con
tutti, di non dire insolenze a nessuno, di non manifestarsi in
alcun modo. Infatti non si manifestava, era impenetrabile sotto
un'apparente cortesia e nessuno sapeva di lui neppure perché, a
cinquant'anni, non avesse ancora una professione. Ma io e lui
diventammo amici. Ci ravvicinava il fatto che non ci eravamo
mai scontrati, anzi ci eravamo aiutati più volte, e per di più
avevamo reazioni e espressioni identiche ereditate dal lager. E

499
dopo un lungo periodo di silenzio, appresi finalmente la storia,
così ben celata, della sua vita esteriore e interiore. È istruttiva.
Prima della guerra era stato segretario del comitato distret-
tuale del partito a Ž., all'inizio delle ostilità fu nominato capo
della sezione cifratura presso lo stato maggiore di una divisione.
Aveva sempre occupato posti di rilievo, era una persona impor-
tante e non conosceva le minute traversie umane. Ma nel 1943
avvenne che per colpa della sezione cifratura un reggimento
della divisione non ricevette in tempo l'ordine di ritirarsi. Biso-
gnava rimediare, ma avvenne anche che tutti i sottoposti di M-z
fossero irreperibili o morti, e il generale mandò lo stesso M-z in
prima linea, in mezzo alle tenaglie che già si chiudevano intorno
al reggimento, perché gli portasse l'ordine di ritirata, salvandolo.
M-z partì a cavallo, con la morte nell'anima, e una gran paura di
restarci. Strada facendo si trovò in un tale pericolo che decise di
fermarsi senza neppure sapere se ne sarebbe comunque uscito. Si
fermò, consapevolmente - abbandonando, consegnando il
reggimento al nemico - scese da cavallo, abbracciò un albero (o
ci si riparò dalle schegge degli obici) e... giurò a Jahvé che se
fosse rimasto vivo sarebbe diventato un credente zelante,
avrebbe seguito in tutto la sacra legge. E la storia finì bene: il
reggimento fu annientato o fatto prigioniero, M-z rimase vivo,
ebbe 10 anni di lager in base all'articolo 58, li scontò ed ora era
con me a Kok-Terek. Con quanta inflessibilità adempiva il voto!
Solo ingannandolo la moglie riusciva a dargli da mangiare del
pesce senza scaglie, non permesso dalla religione ebraica. Non
poteva non presentarsi al lavoro di sabato, ma cercava di non fare
nulla. A casa seguiva rigidamente tutti i precetti e pregava, in
segreto, date le circostanze della vita sovietica.
Naturalmente non aveva raccontato a molti questa storia.
A me non sembrò molto semplice. Di semplice c'è una cosa
sola, una verità che la nostra società rifiuta più violentemente di
ogni altra: e cioè che il tronco più profondo della nostra vita è la
coscienza religiosa, e non la coscienza ideologica formata dal
partito.
Come giudicare? Secondo tutte le leggi penali, militari e del-

500
l'onore, secondo le leggi patriottiche e comuniste, quell'uomo
meritava la morte e il disprezzo; infatti aveva causato la perdita
di tutto un reggimento pur di salvarsi la pelle, per non parlare poi
del fatto che in quel momento non gli era bastato l'odio per il
nemico più terribile che gli ebrei avessero mai avuto.
Ma secondo certe altre leggi, ancora superiori, M-z avrebbe
potuto esclamare: tutte le vostre guerre non cominciano forse a
causa della insipienza dei vostri uomini politici? Hitler non è
forse penetrato nelle terre russe per la propria insipienza, più
quelle di Stalin e di Chamberlain? e ora mandate me a morire?
Mi avete forse partorito voi?
Mi si obietterà: lui (ma allora anche tutti gli uomini di quel
reggimento!) avrebbe dovuto dichiarare tutto questo all'ufficio di
arruolamento, quando gli fecero indossare una bella uniforme, e
non là, le due braccia strette attorno a un albero. E infatti non
cerco neppure di difenderlo da un punto di vista logico,
logicamente avrei dovuto odiarlo o disprezzarlo, sentire ribrezzo
per una sua stretta di mano.
Ma non sentivo nulla di simile nei suoi riguardi. Perché non
avevo fatto parte di quel reggimento e non avevo sperimentato
quella situazione? O perché intuisco che la sorte di quel reggi-
mento doveva dipendere ancora da un centinaio di altri fattori? O
perché non ho mai veduto M-z minimamente altero, ma sola-
mente abbattuto? Ci scambiavamo ogni giorno una forte stretta
di mano e mai una volta la sentii come un atto ignominioso.
In quanti esseri differenti può mutarsi un medesimo uomo nel
corso della sua vita! E come ogni volta appare nuovo per sé e per
gli altri! Ma noi prendiamo uno di questi esseri completamente
diversi fra di loro e - a un ordine, per legge, per impulso, per
cecità - lo lapidiamo con gioia e prontezza.
Ma se la pietra cade di mano?... Se tu stesso sei stato colpito
dalla sciagura e in te sorge un nuovo modo di vedere? Di vedere
la colpa. Di vedere il colpevole. Lui e te stesso.
In questo libro hanno già trovato posto molte parole di per-
dono. Mi si obietta, con stupore e indignazione: dov'è dunque il
limite? Non si possono perdonare tutti!
Infatti non perdono tutti. Perdono solamente quelli che sono

501
caduti. Fino a quando l'idolo si erge sulla sua altura di comando
e, con una piega autoritaria sulla fronte, storpia le nostre vite,
insensibile e arrogante, datemi una pietra pesante! Su, prendiamo
una trave in dieci e assestiamogli, un bel colpo!
Ma non appena egli è stato abbattuto e cade, e l'impatto con la
terra ha segnato la sua faccia con il primo solco della coscienza,
allontanate le vostre pietre.
Torna anch'egli allo stato umano.
Lasciategli fare questo cammino divino.

In confronto ai vari tipi di confino che ho già descritto,


bisogna riconoscere che a Kok-Terek noi godevamo di una
situazione di privilegio, come tutti i confinati che vivevano nel
sud del Kazachstan e in Kirgizia. Qui si mandava la gente in
luoghi già abitati, ossia là dove esisteva l'acqua e il suolo non era
dei meno fertili (nella valle del Ču e nel distretto di Kurdaj, era
addirittura generosamente fertile). Molti capitavano in città
(Džambul, Čimkent, Talass, perfino Alma-Ata e Frunze) e, tra il
non avere alcun diritto come loro e avere quelli di cui disponeva
il resto della popolazione, la differenza non era molto sensibile.
Là i prodotti alimentari costavano poco, si trovava facilmente
lavoro specialmente negli abitati industriali, data l'indifferenza
della popolazione locale per l'industria, i mestieri e le professioni
intellettuali. Ma anche coloro che capitavano in località rurali
non venivano tutti cacciati nei kolchoz o per lo meno non rigi-
damente. Nel nostro Kok-Terek c'erano quattromila persone, per
lo più confinate, ma il kolchoz comprendeva solamente i
quartieri kazachi. Tutti gli altri riuscivano a sistemarsi presso le
MTS, o comunque a farsi mettere in ruolo da qualche parte,
foss'anche con un salario minimo - ma di fatto vivevano con i
prodotti del loro orticello di venticinque are di terreno secco, di
una mucca, dei suini, delle pecore. È significativo che il gruppo
degli ucraini occidentali che viveva da noi (deportati
amministrativi che avevano scontato cinque anni di lager) e
lavorava duro nel mattonificio del cantiere edile locale, si tro-
vasse meglio sulla terra del luogo, argillosa, bruciata, date le rare
irrigazioni, ma in compenso non kolchoziana, che non nei

502
kolchoz della loro prediletta e fiorente Ucraina, al punto che
dopo la liberazione preferirono tutti restare qui per sempre.
A Kok-Terek erano pigri anche gli agenti della Sicurezza —
caso particolare e benefico della pigrizia nazionale kazachi. C'era
anche qualche delatore, ma non li sentivamo e non avemmo a
soffrirne.
Ma la causa principale di questa inattività e del regime miti-
gato era l'avvento dell'epoca di Chruščev. Ci raggiungeva a
impulsi e ondate indebolite dai numerosi passaggi.
Ci raggiunse prima di tutto - e fu un inganno - l'amnistia « di
Vorošilov » (così fu chiamata nell'Arcipelago sebbene fosse stata
promulgata dai Sette Boiari*). Il brutto tiro giocato da Stalin ai
politici il 7 luglio 1945** era stato una lezione labile e presto
dimenticata. Come i lager anche i paesi di confino erano
periodicamente percorsi, a folate, da voci su amnistie. È straor-
dinaria questa capacità di ottusa fede! N.N. Grekova, per esem-
pio - quindici anni di tribolazioni, ripetente - teneva appeso al
muro della sua capanna d'argilla un ritratto di Vorošilov, dagli
occhi limpidi, ed era convinta che il miracolo sarebbe venuto da
lui. Ebbene, il miracolo ci fu: con la firma di Vorošilov il go-
verno si beffò ancora una volta di noi il 27 marzo 1953.
Per la verità non si poteva inventare una giustificazione plau-
sibile del perché appunto nel marzo 1953, in un paese sconvolto
dal dolore, dei dirigenti sconvolti dal dolore dovessero scarcerare
dei delinquenti, a meno che fossero tutti compresi dal senso della
precarietà dell'esistenza. Ma anche nell'antica Russia esisteva
l'usanza, come testimonia Kotosichin, di rilasciare i criminali nel
giorno del funerale di un sovrano, il che, a proposito, scatenava
un saccheggio generale (« la gente di Mosca è per natura poco
timorosa di Dio, rapina il sesso maschile e femminile per le
strade togliendo loro gli abiti e uccidendoli »)1. Proprio così
avvenne in questo caso. Una volta sepolto Stalin, presero questa
misura per rendersi popolari, motivandola ufficialmente col
* Si veda nota a p. 485.
** Sull'amnistia del 1945, si veda Arcipelago GULag 2°, pp. 192-196.
1
Cito secondo Plechanov, Storia del pensiero sociale russo, Mosca 1919, vol. I, 2a parte,
cap. IX.

503
fatto della « sparizione della criminalità nel nostro paese » (E
allora chi è che sta dentro! allora, non ci dovrebbe essere nes-
suno da rilasciare!). Tuttavia, poiché come prima si avevano i
paraocchi e i pensieri, servili, erano diretti sempre nella mede-
sima direzione, l'amnistia fu concessa alla teppaglia e ai banditi,
mentre ai Cinquantotto era applicabile soltanto se scontavano
una pena « fino a cinque anni inclusi ». Un estraneo, giudicando
secondo i costumi di uno Stato decente, potrebbe credere che «
fino a cinque anni » significasse che tre quarti dei politici
sarebbero tornati a casa. In realtà solamente l'uno o il due per
cento di noialtri era condannato a pene tanto infantili. (In com-
penso i ladri furono scaraventati come locuste sulla gente del
luogo, e ci volle tempo e fatica alla polizia per riacchiappare i
banditi amnistiati e ricacciarli nel solito recinto.)
L'amnistia ebbe un'eco curiosa nel nostro confino. Proprio qui
si trovava da parecchio chi aveva già scontato a suo tempo la
pena infantile di cinque anni, ma invece di essere mandato a casa
era stato confinato senza l'intervento di un tribunale. A Kok-
Terek c'erano vecchie e vecchi solitari provenienti dall'Ucraina,
dalla regione di Novgorod, ed erano i più pacifici e i più infelici.
Si rianimarono molto dopo l'amnistia, aspettavano di essere
rimandati a casa. Ma un paio di mesi dopo giunse l'abituale e
crudele chiarimento: poiché erano stati assegnati al confino
(supplementare, senza essere stati giudicati) non per cinque anni,
ma in perpetuo, la precedente pena di cinque anni che aveva
portato a tale confino non c'entrava per niente, e non erano
soggetti all'amnistia... Tonja Kazačuk era una donna libera,
venuta dall'Ucraina per far visita al marito confinato; qui, per
uniformità, era stata iscritta come confinata. Appena seppe
dell'amnistia, si precipitò al comando ma si sentì obiettare, con
tono indifferente: « Lei non è stata condannata a cinque anni
come suo marito, il suo confino è a tempo indeterminato,
l'amnistia non la riguarda ».
Dracone, Solone e Giustiniano sarebbero andati falliti con le
loro legislazioni!...
Così nessuno ebbe nulla dall'amnistia. Ma con l'andare dei
mesi, soprattutto dopo la caduta di Berija, s'insinuarono nel paese

504
del confino, impercettibilmente, tacitamente, delle vere mitiga-
zioni. Le persone condannate a cinque anni furono rilasciate. Si.
cominciò a permettere ai figli dei confinati di iscriversi alle
università vicine. Anche sul lavoro si smise di rinfacciare: «
Confinato! ». Anche questo era in certo modo un addolcimento. I
confinati poterono avanzare di grado negli impieghi.
Le scrivanie del comando divennero stranamente deserte.
«Dov'è quel tale ufficiale?» « Non lavora più, ormai.» Gli
organici si diradavano e si riducevano fortemente. La sacrosanta
registrazione cessava di esserlo. Divenne libero il transito per il
distretto, più facile il viaggio in un'altra regione. Le voci
s'infittivano: « Ci faranno andare a casa, a casa! ». E infatti
furono rilasciati i turkmeni (deportati per essere stati prigionieri
di guerra). Poi i curdi. Si cominciò a vendere le case, i loro
prezzi subirono una flessione.
Furono rilasciati anche alcuni vecchi confinati amministrativi:
qualcuno intercedeva per essi a Mosca e venivano riabilitati. I
confinati erano in agitazione, in subbuglio: è mai possibile che ci
muoveremo anche noi? Anche noi, possibile?
Ridicolo. Come se quel regime fosse capace di diventare
migliore. Il lager mi aveva insegnato a non credere mai. Del
resto non avevo un grande bisogno di credere: là, nel vasto ter-
ritorio metropolitano, non avevo parenti né persone care. Qui al
confino mi sentivo quasi felice. Mi sembrava di non aver mai
vissuto così bene.
Per la verità durante il primo anno di confino ero soffocato da
una malattia mortale, quasi un'alleata dei carcerieri. Per un anno
intero nessuno a Kok-Terek seppe definire che malattia fosse.
Facevo lezione tenendomi ritto a stento; dormivo e mangiavo
poco. Dovetti finire di scrivere alla lesta e sotterrare tutto quanto
avevo composto nel lager e tenuto a mente, e quanto di nuovo
avevo scritto al confino. (La notte prima di partire per Taskent,
l'ultima notte dell'anno 1953, la ricordo bene: pareva finita lì
l'intera mia vita e l'intera mia produzione letteraria. Sembrava
pochino.)

505
Ma la malattia mi si scrollò di dosso. Cominciarono invece i
due anni del mio Bellissimo Confino, offuscato da un unico
sacrificio, reso penoso unicamente dal fatto che non osavo spo-
sarmi: non c'era donna alla quale potessi affidare la mia solitu-
dine, i miei scritti, i miei nascondigli. Ma vissi di giorno in
giorno in uno stato di continua beatitudine, d'animazione, non
accorgendomi di alcuna limitazione della libertà. A scuola davo
tutte le lezioni che volevo, in due turni, e queste mi davano una
costante felicità, non ce n'era una che mi stancasse, non una che
fosse tediosa. Ogni giorno mi rimaneva il tempo per scrivere, e
quell'oretta non richiedeva alcuna preparazione spirituale: non
appena mi sedevo i righi prorompevano da sotto la penna. Di
domenica, quando non ci costringevano a raccogliere le barba-
bietole del kolchoz, scrivevo da mattina a sera, per tutto il
giorno. Là cominciai un romanzo (confiscato dieci anni dopo)* e
tenevo in serbo progetti di lavoro per gli anni a venire. Mi
avrebbero comunque pubblicato solamente dopo morto.
Apparvero i soldi e mi comprai una casetta di argilla, ordinai
una tavola solida per scrivere, mentre continuavo a dormire sulle
casse vuote. Acquistai anche un apparecchio radio a onde corte,
di sera tappavo le finestre, avvicinavo l'orecchio alla seta e
attraverso i fruscii del disturbo pescavo l'agognata informazione
a noi proibita, ricostruendo secondo le associazioni di idee
quanto non riuscivo a captare.
Troppo stanchi eravamo delle decennali menzogne,
anelavamo ad un brandello, foss'anche stracciato, di verità.
Peraltro quel lavoro non valeva il tempo che vi perdevo:
l'infantile Occidente non poteva arricchire di saggezza o di
tenacia noi, allevati dall'Arcipelago.
La mia casetta stava al margine orientale dell'abitato. Di là dal
cancelletto c'era il canale di irrigazione, la steppa, e ogni mattina
il sorgere del sole. Bastava alitasse dalla steppa un lieve vento
che i polmoni non riuscivano a saziarsene. Al crepuscolo e
durante le notti, nere e lunari, io vi camminavo, da solo, e
respiravo come un forsennato. Per cento metri intorno a me non
c'era nessuna abitazione.
* Si tratta di Il primo cerchio.

506
Ero del tutto rassegnato a vivere là, se non « in perpetuo »,
almeno una ventina d'anni (non credevo in un avvento della li-
bertà prima, né sbagliai di molto). Mi sembrava oramai di non
voler più andare altrove (anche se il cuore mi tramortiva nel-
l'osservare la carta della Russia centrale). Sentivo l'intero mondo,
non come esterno, non come se mi chiamasse, ma come fosse già
da me vissuto, tutto dentro di me, rimaneva il solo compito di
descriverlo.
Ero colmo.
L'amico di Radiščev, Kutuzov, gli scriveva in esilio: « Mi è
amaro, amico mio, dirtelo... ma la tua situazione ha i suoi van-
taggi. Lontano da tutti gli uomini, lontano da tutti gli oggetti che
ci abbagliano, puoi viaggiare con tanto maggior successo dentro
a te medesimo; là puoi guardare te stesso con equanimità e
quindi giudicherai con meno parzialità cose che prima vedevi
attraverso un velo di ambizione e di vanità mondane. Forse molte
cose ti appariranno in un aspetto del tutto nuovo ».
Proprio così. E avendo caro quel modo di vedere depurato, io
avevo caro, del tutto consciamente, il confino.
Questo intanto si muoveva e si agitava sempre più. Il co-
mando divenne addirittura gentile e continuava a ridursi. Per
l'evasione comminavano oramai soltanto cinque anni di lager, e
anche questi erano condonati. Una nazionalità dopo l'altra, cessò
di essere assoggettata alla « spunta » e ottenne poi il diritto di
partire. L'ansia della gioia e della speranza sconvolgeva la nostra
pace di confinati.
Del tutto inaspettata piombò una nuova amnistia, quella «
Adenauer » del settembre 1955. Poco tempo prima Adenauer era
venuto a Mosca e aveva ottenuto da Chruščev il rilascio di tutti i
tedeschi. Nikita ordinò che fossero liberati, ma a questo punto si
accorsero che ne risultava un'incongruenza: i tedeschi erano
liberi mentre i loro complici russi si tenevano le pene di
vent'anni. Ma poiché erano tutti Polizei, starosta o vlasoviani,
non si aveva voglia di far chiasso su quell'amnistia. Bisognava
del resto seguire la legge costante della nostra informazione:
strombazzare di inezie e parlare furtivamente di problemi im-
portanti. Quindi la più grande fra tutte le amnistie politiche

507
dopo l'Ottobre fu concessa in un giorno qualunque, il 9 set-
tembre, senza festeggiamenti, pubblicata nelle sole « Izvestija »,
e anche lì su una pagina interna, senza accompagnamento di un
commento o di un solo articolo.
Come non mettersi in agitazione? Io lessi: « Amnistia alle
persone che hanno collaborato con i tedeschi ». Ma come, e a
me? A quanto pare non mi tocca: io ero nell'Armata rossa e non
ne ero mai uscito. Andate al diavolo, meglio così. Un mio amico,
L.Z. Kopelev, mi scrisse da Mosca che, agitando in aria il
ritaglio di giornale su quell'amnistia, aveva ottenuto dalla polizia
di Mosca un temporaneo permesso di soggiorno nella capitale.
Ma poco dopo lo convocarono: « A che gioco giochiamo? Lei
non ha collaborato con i tedeschi? » « No. » « Dunque ha servito
nell'esercito sovietico? » « Sì. » « E allora se ne vada da Mosca
entro 24 ore e non ci metta più piede. » Lui vi rimase, si capisce:
« Quanta tremarella dopo le dieci di sera! A ogni scampanellata
mi pareva che venissero a prendermi ».
Io gioivo: stavo invece benissimo! Nascosti i manoscritti (li
nascondevo ogni sera) mi mettevo a dormire come un angelo.
Dal mio puro deserto immaginavo la brulicante, vanitosa,
vacua capitale e non mi sentivo affatto attratto da essa.
Gli amici di Mosca, invece, insistevano: « Che idea, rimanere
là! Esigi una revisione del processo. Adesso li rivedono! ».
Perché? Qui potevo stare un'ora intera a osservare come le
formiche, dopo aver trivellato un forettino nelle fondamenta
d'argilla e paglia della mia casa, senza brigadieri, senza guardiani
o capi dei lager, in fila indiana, trasportano il loro carico, le
bucce di semi, per farne una provvista per l'inverno. Una certa
mattina non appaiono, sebbene vi siano molte bucce davanti a
casa. Hanno indovinato in anticipo, sanno che oggi pioverà,
sebbene il sole sfavilli allegramente in cielo. Dopo la pioggia, le
nuvole sono ancora fitte e nere ma le formiche sono già al
lavoro; sanno con certezza che non pioverà più.
Qui, nel silenzio del mio confino, vedevo perfettamente l'an-
damento della vita di Puškin: prima felicità, l'esilio al meridione,
seconda, quella a Michajlovskoe. Là avrebbe dovuto vivere

508
sempre, senza bramare altro. Quale fato lo attirava a
Pietroburgo? Quale fato lo spinse a sposarsi?
Ma è difficile per un cuore umano rimanere sulla via della
ragione. È difficile per un fuscello non seguire il corso
dell'acqua.
Cominciò il XX congresso. Per molto tempo non sapemmo
niente del discorso di Chruščev (anche quando cominciarono a
leggerlo a Kok-Terek, lo fecero di nascosto ai confinati, mentre
noi ne sentimmo parlare dalla BBC). Ma anche nel giornale
accessibile a tutti mi bastarono le parole di Mikojan: « Questo è
il primo congresso leniniano » in non so quanti anni. Io capii che
il mio nemico Stalin era caduto, e quindi io stavo salendo.
Scrissi una domanda di revisione.
A questo punto cominciarono a togliere il confino a tutti i
Cinquantotto.
Per mia debolezza, abbandonai il mio limpido confino. E
partii verso il torbido mondo.
Non rientra in questo capitolo la descrizione di ciò che sente
un ex detenuto nel varcare il Volga da oriente a occidente, e nel
viaggiare poi per tutto il giorno, sul suo treno rombante,
attraverso boschi russi.
Quell'estate, a Mosca, telefonai alla procura per sapere cosa
n'era della mia domanda. Mi chiesero di telefonare più tardi e
l'amichevole voce di un giudice istruttore bonaccione m'invitò a
passare dalla Lubjanka a fare quattro chiacchiere. Nel famoso
ufficio dei lasciapassare al Kuzneckij Most mi dissero di aspet-
tare. Sospettando che certi occhi già mi stessero osservando,
studiando il mio viso, io, interiormente teso, assunsi un'espres-
sione stanca e bonaria fingendo di guardare un bambino che gio-
cava nella sala d'aspetto, in modo tutt'altro che divertente.
Proprio così! il mio nuovo giudice istruttore, in abito borghese,
era là ad osservarmi. Convintosi che non ero un incandescente
nemico si avvicinò e, cortesissimo, mi accompagnò alla Grande
Lubjanka. Già strada facendo espresse il rammarico che mi
avessero (chi?) rovinato la vita, privato d'una moglie, di figli. Ma
gli afosi corridoi della Lubjanka illuminati a giorno erano i

509
medesimi attraverso i quali mi avevano condotto rasato, affa-
mato, insonne, senza bottoni, con le mani dietro la schiena. «
Che bestia le era capitata, l'istruttore Esepov? Ricordo, ce n'era
uno di questo nome, adesso è stato destituito. » (Di sicuro se ne
sta seduto nella stanza accanto e ingiuria il mio...) « Io ho
lavorato nella Smers, nel controspionaggio della marina, tra noi
non c'era gente simile! » (Proviene dai vostri Rjumin. Avete
avuto un Levsin, un Libin.) Ma io annuisco, semplicione: sì,
certo. Quello ride addirittura delle mie facezie del '44 su Stalin: «
Come l'ha notato giustamente! ». Loda i miei racconti dal fronte,
inclusi nella mia pratica come materiale di accusa: « Non
contengono niente di antisovietico! Li riprenda, se vuole, cerchi
di farli pubblicare ». Io rifiuto, con voce da malato, da agoniz-
zante quasi: « Che dice mai, non penso alla letteratura da anni.
Se vivrò ancora, voglio dedicarmi alla fisica ». (Tale è il colore
del tempo! È così che giocheremo con voi, d'ora in poi.)
Non pianga il picchiato, pianga chi non lo è stato. La prigione
doveva pur darci qualcosa. Se non altro, l'arte di comportarci
davanti alla KGB.

510
VII Gli zek in libertà

In quest'opera c'è il capitolo « L'arresto ». Occorre adesso il


capitolo « La liberazione ».
Infatti, fra coloro sui quali è piombato un giorno l'arresto
(parleremo soltanto dei Cinquantotto), meno d'un quinto, anzi
direi non più d'un ottavo ha gustato questa « liberazione ».
E poi, la liberazione, chi è che non la conosce? Ne è stato
scritto tanto nella letteratura mondiale, è stata mostrata tante
volte al cinema: si spalancano i cancelli, giornata soleggiata,
folla esultante, abbracci di parenti.
Ma sia maledetta la « liberazione » sotto il cielo privo di gioia
dell'Arcipelago, e diventerà ancora più grigio il cielo sopra di te
nel mondo « libero ». La liberazione differisce dal fulmine
dell'arresto soltanto perché è dilungata, per nulla affrettata
(perché dovrebbe aver fretta, oramai, la legge?), simile alla coda
allungata delle lettere. Per il resto è il medesimo arresto, il
medesimo passaggio punitivo da stato a stato, che ti spezza nello
stesso modo il petto, l'intero assetto della tua vita, delle tue idee,
senza nulla promettere in cambio.
Se l'arresto è il ghiaccio che ricopre di colpo un liquido, la
liberazione è un timido disgelo fra due periodi glaciali.
Fra due arresti.
Perché in questo paese a ogni scarcerazione deve necessaria-
mente far seguito un arresto.
Periodo fra due arresti: questa fu la liberazione in tutti i
quarant'anni precedenti a Chruščev.

511
Salvagente gettato fra due isole: dimenati nell'acqua fra un
reticolato e l'altro.
Da campanella a campanella: è questo il tempo da scontare.
Da reticolato a reticolato: è questa la liberazione.
Il tuo passaporto d'un colore olivastro torbido, che il poeta
invitava con tanta insistenza a invidiarci* è lordato dall'inchio-
stro di china nero dell'articolo 39. Con questo, non ti danno il
permesso di soggiorno in nessuna città, non ti assumono in
nessun impiego ben retribuito. Nel lager si era cacciati al lavoro,
qui ci assumono. In compenso nel lager davano la razione di
pane, qui no.
Al tempo stesso c'è l'illusoria libertà di spostamento.
Non liberati ma privati del confino, così dovrebbero chia-
marsi quegli infelici. Privati del benefico fatale confino, essi non
riescono a trovar la forza di partire per la tajga di Krasnojarsk o
il deserto del Kazachstan dove troverebbero molti ex, loro simili.
No, essi vanno nel bel mezzo della tartassata libertà, e là tutti li
evitano, mentre essi diventano i candidati prenotati per una
nuova prigionia.
Natal'ja Ivanovna Stoljarova fu scarcerata dal Karlag il 27
aprile 1945. Non potè partire subito: bisognava aspettare il
passaporto, la tessera del pane mancava, mancava l'alloggio,
come lavoro le proponevano il taglio del legname. Dopo aver
finito i pochi rubli raccolti fra amici del lager, la Stoljarova tornò
al lager, mentì alle guardie dicendo che andava a riprendere la
sua roba (vigeva un ordine patriarcale in quella sezione) e andò
dritta alla sua baracca. Quanta gioia! Le amiche la circondarono,
portarono la sbobba dalla cucina (oh, quanto è buona!), ridevano
ascoltando le disavventure della vita libera: no, da noi si sta più
tranquilli. Controllo. Una di troppo!... Il guardiano di turno la
rimproverò ma le permise di rimanere a pernottare purché se ne
andasse via al mattino.
La Stoljarova aveva lavorato sodo nel lager (da giovanissima
era arrivata nell'Unione Sovietica da Parigi, poco dopo era stata
arrestata, ed ora voleva essere liberata al più presto per visitare
* Majakovskij, in una poesia del 1929.

512
la patria!). Fu scarcerata con agevolazioni « per ottimo lavoro »,
ossia non le fu assegnato un domicilio determinato. Chi lo aveva,
finiva col sistemarsi per il meglio: la polizia non poteva cacciarlo
via. Ma la Stoljarova con il suo certificato di scarcerazione «
pulito » divenne un cane scacciato dappertutto. La polizia non le
dava il permesso di soggiorno in nessun luogo. In casa degli
amici, a Mosca, le veniva offerto il té ma nessuno le proponeva
di rimanere a dormire. Pernottava nelle stazioni ferroviarie. (E il
guaio non è che la polizia ci venga di notte, svegli la gente
perché non ci dorma, e prima dell'alba tutti fuori per permettere
di spazzare, il guaio non è quello. Ma chi degli zek rilasciati non
ricorda il tuffo al cuore all'avvicinarsi di ogni guardia? Che
occhiata minacciosa... Certamente indovina che sei un ex
detenuto. Ora ti dirà: « Documenti! ». Ti prenderà il certificato di
scarcerazione e sarà finita, sarai nuovamente uno zek. Da noi non
ci sono diritti, non ci sono leggi, e nemmeno esiste l'uomo, ma il
documento. Ora prende il certificato e sarà finita... È così che ci
sentiamo, noialtri.) A Luga la Stoljarova volle sistemarsi come
magliaia in un guantificio, dove si facevano guanti non per i
lavoratori ma per i tedeschi prigionieri di guerra. Non soltanto
non l'assunsero ma il direttore la svergognò in presenza di tutti: «
Volevi introdurti nella nostra organizzazione! Conosciamo i loro
trucchi! Abbiamo letto Sejnin! ». (Oh, quel grassone di Sejnin!
Almeno gli andasse qualcosa di traverso!)
È un giro vizioso: non accettano al lavoro senza un permesso
di soggiorno, non danno il permesso di soggiorno se non si ha un
impiego. Senza lavoro non si ha neppure la tessera del pane. Gli
ex detenuti ignoravano la regola secondo la quale la MVD ha il
dovere di sistemarli al lavoro. E anche se qualcuno ne era al
corrente, aveva paura di rivolgersi a quel ministero: c'era da
essere messi dentro...
La libertà è libertà di piangere.
Quando io ero studente c'era nell'università di Rostov uno
strano professore, N.A. Trifonov: testa sempre rientrata fra le
spalle, continua tensione, sempre pronto allo spavento, non
bisognava mai interpellarlo in un corridoio. Venimmo a sapere

513
più tardi che era stato dentro e ogni voce che risuonava nel cor-
ridoio poteva sembrargli quella d'un agente.
Nella facoltà medica di Rostov, dopo la guerra, un medico
scarcerato, ritenendo inevitabile un secondo arresto non volle
attenderlo, e si uccise. Chi ha assaggiato i lager, chi li conosce
può benissimo decidersi a una tale scelta. Non è più difficile.
Sfortunati quelli che sono stati liberati troppo presto. Capitò
nel 1946 ad Avenir Borisov. Era tornato, non in una grande città
ma nella sua cittadina nativa. Tutti i vecchi amici e commilitoni
cercavano di non incontrarlo per strada, di non fermarsi a
salutarlo (ed erano i coraggiosi combattenti al fronte di ieri!), e
se non c'era modo di evitare una conversazione cercavano di
limitarsi a qualche parola evasiva e ad allontanarsi al primo
momento opportuno. Nessuno gli chiese come era vissuto
durante quegli anni (eppure sembra ne sappiamo meno
sull'Arcipelago che sull'Africa centrale!). Capiranno mai i posteri
quanto era ben ammaestrato il nostro « uomo libero »? Ma ecco
che un vecchio amico degli anni studenteschi lo invitò al té una
sera, quando s'era fatto buio. Che atmosfera amichevole! Quanto
calore! Per disgelare è necessario un segreto calore. Avenir
chiese di vedere vecchie foto, l'amico gli portò gli album.
L'amico stesso aveva dimenticato e si meravigliò quando Avenir,
improvvisamente, si alzò e se ne andò, senza attendere il
samovar. Che altro doveva fare, quando vide la propria faccia
cancellata con l'inchiostro su tutte quante le foto?1
In seguito Avenir fece strada, divenne direttore di un orfa-
notrofio. Sotto la sua direzione crescevano gli orfani di combat-
tenti al fronte e questi piangevano di rabbia quando i figli di
genitori abbienti chiamavano il loro direttore tjuremscik. (Oramai
non c'è più, da noi, chi sappia chiarire che tjuremscik erano stati,
semmai, i loro genitori mentre Avenir era, già allora, un
1
Cinque anni dopo l'amico dette la colpa alla moglie, era stata lei a cancellarle. E, dopo dieci
(1961), la moglie stessa venne da Avenir al comitato distrettuale del sindacato a chiedere di essere
mandata in ferie a Soci. Lui le procurò la carta che le serviva. Lei cinguettò a lungo della loro
vecchia amicizia.

514
tjuremnik.* Nel secolo scorso il popolo russo non avrebbe mai
potuto perdere a tal punto il senso della propria lingua.)
Kartel', nel 1943, sebbene fosse stato condannato in base
all'articolo 58, fu rilasciato dal lager con la tubercolosi polmo-
nare. Il suo era un passaporto avariato, impossibile vivere in una
città, impossibile ottenere un impiego, era la morte lenta, e tutti
lo evitavano. A questo punto, ecco una commissione di
arruolamento, si ha fretta, occorrono combattenti. Con la sua
forma palese di tubercolosi Kartel' si dichiara sano: se deve
morire, meglio morire presto e fra i suoi. Combattè quasi fino
alla fine della guerra. Soltanto all'ospedale l'occhio vigile della
Terza Sezione si accorse che quel soldato pieno di abnegazione
era un nemico del popolo. Nel 1949 era previsto un suo secondo
arresto, ma certe brave persone del Commissariato di leva gli
vennero in aiuto.
Negli anni staliniani la migliore liberazione era di uscire dal
cancello del lager e rimanere nelle sue immediate vicinanze.
Questi uomini erano già conosciuti nei cantieri, li accettavano
volentieri al lavoro. Gli agenti, incontrandoli per strada, li guar-
davano come persone già controllate.
Magari non proprio così. Nel 1938, dopo il rilascio,
Prochorov-Pustover rimase come ingegnere libero nel Bamlag. Il
capo della sezióne della Čeka, Rozenblit, gli disse: « Lei è stato
rilasciato, ma si ricordi che dovrà rigar dritto. Il minimo errore e
si ritroverà detenuto. Non occorrerà neppure un processo.
Dunque stia bene attento e non cominci a pensare di essere un
libero cittadino ».
Ancor oggi sono centinaia di migliaia i detenuti ragionevoli,
rimasti nei pressi dei lager, avendo volontariamente scelto la
prigione come variante della libertà: si trovano in qualche
distretto di Nyrob o Narym. Per loro è anche più facile fare un
eventuale secondo turno: è tutto lì, a portata di mano.
A Kolyma non c'era altra scelta: infatti la gente veniva tenuta
sul posto. All'atto della scarcerazione firmavano un impegno
* Si veda Arcipelago GULag 2°, pp. 538 sgg.

515
volontario a continuare a lavorare al Dal's troj (era più difficile
ottenere l'autorizzazione di recarsi sul continente che essere
rilasciati). Per sua disgrazia, finì di scontare la sua pena N.V.
Surovceva. Ancora ieri lavorava nella « cittadina dei bambini »,
al caldo, ben nutrita; oggi la cacciano a lavorare nei campi, altri
lavori non ce ne sono. Ancora ieri aveva la branda e la razione di
pane garantite, oggi non ha pane, non ha un tetto, si rifugia in
una casa semicrollata con i pavimenti marci (e questo a
Kolyma!). Potè ringraziare le amiche della « cittadina dei bam-
bini » che le facevano arrivare del pane dal lager. « Oppressione
dello stato libero », così essa definisce le sue nuove sensazioni.
Soltanto gradualmente si rimetterà in piedi e diventerà addi-
rittura... proprietaria! Eccola, orgogliosa, davanti alla sua casetta
(foto 6) che non tutti i cani avrebbero accettato.
(Perché il lettore non creda che è colpa della solita famigerata
Kolyma, trasportiamoci a Vorkuta e vediamo la VGS tipica - co-
struzione civile provvisoria - in cui vivono, così ben sistemati,
dei lavoratori liberi, ex detenuti, si capisce: foto 7).
Dunque non fu la peggiore forma di liberazione quella lamen-
tata da M.P. Takubovič: nei pressi di Karaganda una prigione fu
adattata a casa di riposo per invalidi (Casa Tichonov) ed egli fu «
liberato » in quella casa, senza il diritto di assentarsi e sotto
sorveglianza.
Rudkovskij, respinto ovunque (« sopportai non minori tribo-
lazioni che nel lager »), partì per le terre vergini di Kustanaj («
Là si poteva incontrare chiunque »). I.V. Sved divenne sordo, a
forza di agganciare vagoni ferroviari a Noril'sk sotto qualsiasi
bufera di neve; poi lavorò come fuochista, dodici ore al giorno.
Niente certificato di rilascio! Alle assicurazioni sociali si strin-
gono nelle spalle: « Ci presenti dei testimoni ». I nostri testimoni
sono i trichechi... I.S. Karpunič ha fatto vent'anni a Kolyma, è
malato, sfinito. Ma verso i sessant'anni gli mancano i «
venticinque anni di lavoro salariato » e quindi niente pensione.
Più uno è stato nei lager, più è malato e minore è la sua anzianità,
meno speranza ha di ricevere una pensione.
Infatti da noi non esiste, come in Inghilterra, una « società

516
517
di assistenza agli ex detenuti ». Fa perfino paura immaginare una
tale eresia.1
Mi scrivono: « Nel lager è stata una giornata di Ivan Deni-
sovič, in libertà la seconda ».
Ma permettete! Da allora non è forse sorto il sole della
libertà? E delle braccia non si sono forse tese verso i diseredati?
« Questo non si ripeterà più! » E addirittura, se non erro, delle
lacrime hanno bagnato le tribune del congresso?
Žukov (vive a Kovrov): « Non mi rizzai in piedi, ma semmai
in ginocchio ». Ma: « L'etichetta di detenuto ci rimane attaccata e
alla prima riduzione del personale siamo noi a essere buttati fuori
». P.G. Tichonov: « Riabilitato, lavoro in un istituto di ricerche
scientifiche, eppure è come se il lager continuasse. I medesimi
imbecilli che erano a capo dei lager lo sono di nuovo anche là ».
G.F. Popov: « Qualunque cosa si dica e si scriva, non appena i
miei colleghi sanno che io sono stato dentro, guarda caso, mi
voltano subito le spalle ».
No, il diavolo è potente. La nostra patria è fatta così: per
spingerla di un passo verso la tirannide basta accigliarsi, basta
tossicchiare. Per attirarla di un palmo verso la libertà bisogna
attaccare cento buoi e pungolare ognuno: « Guarda da che parte
tiri! guarda da che parte tiri! »
E la forma della riabilitazione? Giunge alla vecchia C-na la
brutale notifica: « Presentarsi domani alle dieci del mattino al
commissariato di polizia ». Nient'altro. Sua figlia vi corre la sera
prima: « Temo per la sua vita. Di che si tratta? Come debbo
prepararla? ». « Non abbia paura, è una cosa piacevole, la riabi-
litazione del suo defunto marito ». (O forse è cosa amara? Non
viene in mente ai benefattori.)
1
Oggi anche i delinquenti comuni si trovano nella medesima situazione. Ad A.I.
Burlaka risposero al comitato di partito del distretto di Anan'ev: « Questo non è un ufficio di
collocamento »; alla procura: « Non ci occupiamo di queste cose »; in municipio: « Aspetti ».
Rimase disoccupato per 5 mesi (1964). A P.K. Egorov a Novorossijsk (1965) fecero subito
firmare l'impegno di andarsene entro le 24 ore. Egli mostrò al Comitato esecutivo del Soviet
cittadino il certificato rilasciato nel lager « per il suo eccellente lavoro », si misero a ridere.
Il segretario lo buttò fuori. Allora « unse le ruote » e potè rimanere a Novorossijsk.

518
Se queste sono le forme della nostra misericordia, intuite
quelle della nostra crudeltà.
Ci fu una valanga di riabilitazioni, ma non spaccò comunque
la petrigna fronte della società infallibile. Infatti la valanga non
cadeva là dove bisognava aggrottare un sopracciglio bensì là
dove bisognava attaccare mille bovi.
« La riabilitazione è un inganno! » dicono apertamente i
dirigenti partitici. « Ci sono stati troppi riabilitati! »
Voldemar Zarin (Rostov sul Don) scontò quindici anni e da
allora stette per otto anni in silenzio. Nel 1960 decise di raccon-
tare ai colleghi come si stava male nei lager. Risultato: gli fu
intentata una causa e il maggiore della KGB disse a Zarin: « La
riabilitazione non significa innocenza, significa solamente che i
crimini non erano rilevanti. Qualcosa rimane sempre! »
A Riga, nello stesso anno 1960, l'intero collettivo dell'ufficio
perseguitò per tre mesi di seguito Petropavlovskij perché aveva
tenuto nascosta la fucilazione del proprio padre... nel 1937.
Komogor esprime la sua perplessità: « Chi ha ragione, chi è
colpevole, oggi? Dove nascondersi, quando un grugno di porco
comincia di punto in bianco a parlare di uguaglianza e fraternità?
».
Markelov, dopo la riabilitazione, è diventato niente po' po' di
meno che presidente del comitato sindacale di una cooperativa.
Ma il presidente della cooperativa stessa non osa lasciare solo
per un attimo questo eletto dal popolo nel proprio ufficio. Mentre
il segretario del buro del partito Baev, contemporaneamente
dirigente del personale, intercetta ad ogni buon conto tutta la
corrispondenza indirizzata a Markelov al comitato locale. « Non
le è capitato un foglio riguardante le rielezioni del comitato? » «
Sì, c'è stato qualcosa un mesetto fa. » « Ma quello mi occorreva!
» « Tenga, lo legga presto, sta per finire la giornata di lavoro. » «
È indirizzato a me! Gielo rendo domani mattina, » « Che dice,
che dice, è un documento. » Provatevi a entrare nei panni di un
Markelov, a essere sottoposto a uno di quei grugni, e che l'intero
vostro stipendio come il vostro permesso di soggiorno dipendano
da quel Baev e poi respirate a pieni polmoni l'aria del secolo
libero!

519
L'insegnante Deeva viene licenziata per « corruzione morale
»: ha leso il prestigio degli insegnanti sposando... un detenuto
liberato (al quale aveva fatto scuola nel lager).
Questo non ai tempi di Stalin, ma ai tempi di Chruščev. Di
tutto il passato è rimasta una sola realtà: il certificato. Un
foglietto di dodici centimetri per diciotto. Per un vivo, il certi-
ficato di riabilitazione. Per un morto, il certificato di morte.
Impossibile controllare la data di morte. Il luogo della morte è
indicato con una grande Zeta. La diagnosi, anche a sfogliarne un
centinaio, è sempre la medesima, quella di turno.1 Talvolta ci
sono i nomi dei testimoni (inventati). I testimoni veri stanno tutti
zitti. Noi stiamo zitti.
Da chi, come potranno sapere qualcosa le generazioni succes-
sive? Tutto chiuso, inchiodato, ripulito.
« Perfino i giovani - si lamenta Verbovskij - guardano i ria-
bilitati con sospetto e disprezzo. »
Non tutti i giovani. La maggioranza se ne infischia che ci
abbiano riabilitati o no, che siano ancora dentro dodici milioni o
no, non vedono alcun nesso. Purché siano liberi loro, con i loro
magnetofoni e le ragazzotte ricciute.
Infatti il pesce non lotta contro la pesca, cerca solamente di
sfuggire fra le maglie della rete.
Come una medesima malattia ha un decorso diverso a seconda
dell'individuo, così noi, i liberati, a esaminarci più dappresso
reagiamo in modo molto differente.
Anche fisicamente. C'è chi si è sforzato troppo per cercare di
sopravvivere nel lager. L'hanno sopportato come se fossero
d'acciaio: per dieci anni si sono sfiancati a lavorare senza con-
sumare neppure una quota parte di quanto occorre al corpo;
semivestiti, spaccavano le pietre al gelo e non avevano neanche
un raffreddore. Ma non appena scontata la pena, caduta l'inu-

1
La figlia di Č-na chiese all'ingenua impiegata di mostrarle tutte le quaranta schede del
pacchetto. Su tutte e quaranta, con la medesima calligrafìa era annotata la stessa malattia di
fegato... Oppure: « Suo marito (Aleksandr Petrovič Maljavko-Vysockij) è morto prima del
processo e dell'istruttoria e quindi non può essere riabilitato ».

520
mana pressione esterna, si è allentata anche la tensione interiore.
Queste persone sono uccise da un fenomeno di decompres-
sione. Čul’penëv, un gigante che aveva abbattuto alberi per sette
anni senza prendere un solo raffreddore, appena rimesso in
libertà venne colpito da numerosi acciacchi. G.A. Sorokin dopo
la riabilitazione perse irrimediabilmente « quella salute spirituale
che i compagni mi invidiavano. Cominciarono le nevrosi, le
psicosi... » Igor' Kamenev: « In libertà mi fiaccai e mi lasciai
andare, mi sembra che sia molto più difficile vivere da libero ».
L'antico proverbio dice: « Nei giorni brutti me la cavo meglio,
è nei giorni di festa che finisco sbronzo ». C'è chi perse tutti i
denti in un solo anno. C'è chi divenne di colpo vecchio. Chi
arrivò a stento a casa, si consumò e morì.
Altri invece ripresero animo soltanto dopo la liberazione.
Soltanto allora ringiovanirono e si raddrizzarono. (Io per esem-
pio sembro ancor oggi più giovane che non sulla mia prima foto
di confinato). Si capisce di botto quanto è facile vivere in libertà.
Là, nell'Arcipelago, è tutta un'altra forza di gravità, hai i piedi
pesanti come un elefante, qui sgambetti come un passerotto.
Tutto quanto sembra impossibilmente tormentoso ai liberi, noi lo
risolviamo con uno schiocco della lingua. Infatti il nostro criterio
è « c'è stato di peggio! ». Peggio, e dunque adesso è facilissimo.
Non ci stanchiamo mai di ripetere: « c'è stato di peggio ».
Ma lascia una traccia ancor più definita sul nuovo destino d'un
uomo quella frattura spirituale che egli ha provato all'atto della
liberazione. La frattura può essere molto diversa. Soltanto sulla
soglia del posto di guardia cominci a sentire che ti lasci alle
spalle la tua patria, la galera. È qui che sei nato spiritualmente e
una segreta parte della tua anima vi rimarrà per sempre, mentre i
piedi si trascinano chissà dove nel muto spazio incomprensibile
della libertà.
I caratteri si manifestano nel lager, ma si manifestano anche
alla scarcerazione. Così si accomiatò dal lager speciale nel 1951
Vera Alekseevna Korneeva, che abbiamo già incontrato

521
in questo libro:* « Mi si chiuse alle spalle il cancello di cinque
metri e non potei credere a me stessa: mentre mi avviavo verso la
libertà, piangevo. Su che cosa? Eppure avevo la sensazione di
aver strappato il cuore dalle cose più care e amate, dai compagni
di sventura. Chiuso il cancello fu tutto finito. Non vedrò mai più
quelle persone, non ne avrò mai la minima notizia, quasi fossi
finita nell'al di là... »
Nell'al di là!... La liberazione come una forma di morte. Ci
siamo forse liberati? Siamo morti per una vita d'oltretomba del
tutto nuova. Un poco irreale. Dove tastiamo cautamente gli
oggetti cercando di identificarli.
Infatti ben diversa immaginavamo la liberazione in questo
mondo. La vedevamo nella variante Puškiniana: « E le mani dei
vostri fratelli vi renderanno la spada ».** Ma poche generazioni
di prigionieri sono destinate a tanta felicità.
Questa invece era una liberazione rubata, non genuina. Chi la
sentiva tale si affrettava a fuggire nella solitudine con il suo
piccolo pezzo di libertà trafugata. Fin dal lager « quasi ognuno di
noi, i miei compagni più cari ed io, pensavamo che se Dio ci
avesse concesso di uscirne vivi, saremmo vissuti, non nelle città
e nemmeno in un villaggio ma in qualche remota foresta.
Avremmo lavorato come boscaioli, guardie forestali, pastori
infine e ci saremmo tenuti il più lontano possibile dalla gente,
dalla politica, da tutto questo mondo futile » (V.V. Pospelov).
Avenir Borisov si tenne lontano dalla gente i primi tempi dopo la
scarcerazione, si rifugiava nella natura. « Ero pronto ad ab-
bracciare e baciare ogni betulla, ogni pioppo. Il fruscio delle
foglie che cadevano (fui liberato d'autunno) mi pareva una
musica e mi venivano le lacrime agli occhi. Me ne infischiavo di
avere 500 grammi di pane, potevo ascoltare il silenzio per ore e
per di più leggere libri. Ogni lavoro mi pareva facile, semplice, i
giorni volavano come ore, la sete di vivere era insaziabile. Se
esiste una felicità al mondo, essa visita immancabilmente ogni
zek nel primo anno della sua vita libera ».
Persone come queste continuano a lungo a non volere avere
* Si veda Arcipelago GULag 1°, p. 284.
** Ultimo verso di una celebre poesia di Puškin dedicata ai decabristi.

522
niente: ricordano che i beni si perdono facilmente, è come se
scottassero. Evitano in modo quasi superstizioso la roba nuova,
finiscono di portare gli indumenti vecchi, di usare la mobilia
rotta. Quella di un mio amico è ridotta in modo tale che non c'è
nulla su cui sedersi, appoggiarsi, ogni cosa vacilla. « È così che
viviamo - mi dice ridendo - da una zona all'altra. » (Anche sua
moglie ha scontato una pena.)
Lev Kopelev è tornato a Mosca nel 1955 e ha scoperto questo:
« È diffìcile vivere con chi sta bene. Fra gli amici d'una volta io
mi trovo bene soltanto con quelli che hanno qualche guaio ».
Infatti umanamente sono interessanti solamente coloro che
hanno rinunziato a far carriera. Chi la fa è terribilmente noioso.
Ma gli uomini sono diversi. E molti hanno sentito il passaggio
alla libertà del tutto diversamente (soprattutto quando la KGB
chiudeva appena appena un occhio): urrà! sono libero! e ora, un
impegno solo: non ricascarci più. Ora, riacchiappare il tempo
perduto!
C'è chi lo riacchiappa nell'impiego, chi nei titoli (accademici o
militari), chi nei guadagni e nel libretto di risparmio (da noi è
considerato di cattivo gusto parlarne, ma zitti zitti contano...) Chi
nei figli. Chi... Valentin M. ci giurava in prigione che avrebbe
riacchiappato il tempo perduto con le ragazze e infatti: per
diversi anni di seguito ha passato il giorno sul lavoro, e le serate,
anche quelle feriali, con ragazze, sempre nuove; dormiva 4-5 ore,
dimagrì, invecchiò. C'è chi lo riacchiappa con il cibo, la mobilia,
i vestiti (dimenticano come venivano tagliati i bottoni, come la
roba migliore si perdeva nell'anticamera del bagno). Diventa
anche un'occupazione fra le più piacevoli il comprare.
Come biasimarli, se hanno veramente mancato tanto? Se tanto
è stato tagliato via dalla loro vita?
A questi due modi diversi di recepire il mondo esterno corri-
spondono anche due atteggiamenti diversi nei confronti del
passato.
Hai vissuto anni orribili. Non sei un bieco assassino, non sei
uno sporco truffatore, perché dunque dovresti cercare di
dimenticare il carcere e il lager? Perché dovresti vergognartene?

523
Non è più bello pensare che ti hanno arricchito? Non è più
giusto andarne orgogliosi?
Ma altrettanti (per niente deboli, per niente sciocchi, persone
dalle quali non te l'aspetteresti affatto) cercano di dimenticare.
Dimenticare al più presto! Dimenticare come se nulla fosse mai
stato.
Ju. G. Vendelstein: « Di solito cerco di non ricordare, è un
meccanismo di difesa ». Pronman: « Dirò sinceramente: non de-
sideravo rivedere ex detenuti dei lager per non ricordare ». S.A.
Lesovik: « Tornato dal lager cercavo di non ricordare il passato.
E sa, mi è quasi riuscito! » (prima del racconto Una giornata di
Ivan Denisovič). S.A. Bondarin (so che nel 1945 era stato nella
stessa mia cella della Lubjanka prima di me; io tento di fargli i
nomi, non soltanto dei nostri compagni di cella, ma anche di chi
è stato con lui prima della nostra detenzione, persone che io non
avevo mai conosciute, e ricevo la sua risposta): « Io ho cercato di
dimenticare tutti coloro con i quali sono stato dentro ». (Dopo
questo, si capisce, non gli ho più scritto.)
Per me è comprensibile che gli ortodossi evitino vecchie co-
noscenze del lager: è venuto loro a noia abbaiare da soli contro
cento, i ricordi sono troppo penosi. E, tutto sommato, a che serve
loro questo pubblico poco pulito, di pochi ideali? Che
benpensanti sarebbero se non fossero capaci di dimenticare, di
perdonare, se non tornassero alla condizione di prima? Infatti
proprio per questo scrivevano suppliche quattro volte l'anno:
fatemi tornare! fatemi tornare! ero buono e sarò buono!1 In che
cosa consiste il ritorno per essi? Anzitutto nel ripristino della
tessera del partito. Dei formulari. Dell'anzianità. Dei meriti.

Sulla testa ormai giustificata


sentiranno l'ala grata della tessera.

L'esperienza del lager è invece un'infezione della quale biso-


gna sbarazzarsi al più presto. Forse che in essa, anche a scuo-
1
Precisamente con questi sentimenti si sono riversati in massa nel 1956: come da un baule
muffito, portarono fuori l'aria degli anni Trenta e volevano riprendere le cose dal giorno in cui
erano stati arrestati.

524
terla e lavarla, si potrà trovare un granello di metallo nobile?
Eccovi il vecchio bolscevico di Leningrado, Vasil'ev. Ha
scontato due diecine. (Ogni volta ha avuto anche cinque anni di
museruola, domicilio coatto.) Ha ottenuto una pensione per-
sonale.
« Ho assolutamente tutto ciò che mi serve. Rendo gloria al
mio partito e al mio popolo. » (Questo è mirabile! Infatti il
biblico Giobbe glorificava così soltanto Dio: per le piaghe, la
moria, la fame, le morti, le umiliazioni: gloria a te, gloria a te!)
Ma questo Vasil'ev non è un fannullone, non è un semplice
consumatore: « Faccio parte della commissione per la lotta
contro gli elementi parassitari ». Ossia, per quanto le senili forze
glielo permettono, mette mano a uno dei peggiori soprusi del
giorno d'oggi. È questa, la faccia del Benpensante.
Si capisce anche perché i delatori non vogliono ricordi né
incontri: hanno paura di rimproveri e smascheramenti.
Ma gli altri? Non è una schiavitù troppo profonda? Un im-
pegno volontario per non capitarci una seconda volta? « Di-
menticare, come un brutto sogno, dimenticare le visioni del
maledetto passato del lager », si stringe le tempie fra i pugni
Nasten'ka, capitata in prigione, non in un modo qualunque ma
con una ferita da arma da fuoco. Perché lo studioso di filologia
classica A.D., il quale per il genere dei propri studi valuta
mentalmente scene di storia antica, perché lui comanda a se
stesso di « dimenticare tutto »? Che cosa potrà capire, allora,
della storia dell'umanità?
Evgenija D., quando mi raccontava nel 1965 la sua incarce-
razione alla Lubjanka avvenuta nel 1921, ancor prima del suo
matrimonio, soggiungeva: « A mio marito buonanima non l'ho
mai raccontato, me ne dimenticai ». Dimenticato? Non l'ha
raccontato alla persona più cara con la quale ha vissuto una vita?
E allora non ci mettono dentro abbastanza!
Forse non si dovrebbe giudicare tanto severamente? Forse si
tratta dell'uomo medio? Infatti si riferiscono pure a qualcuno i
proverbi:

525
Un solo giorno di felicità cancella sette anni di disgrazie
Una storia è presto dimenticata, un corpo fa presto a tornare in carne.

Un corpo in carne! è questo, l'uomo.


Un mio caro amico e coimputato, Nikolaj V., insieme al
quale, con comuni sforzi, rotolai dietro le sbarre, sente tutto
quanto ha sopportato come una maledizione, come il vergognoso
fiasco d'uno sciocco. Si è buttato nella scienza, l'impresa più
sicura per risalire. Nel 1959, quando Pasternak era ancora vivo
ma stretto da un anello di persecuzione, io gli parlai di lui.
Quello foce un gesto d'impazienza: « A che prò parlare di queste
vecchie ciabatte! Ascolta piuttosto come mi batto nel mio istituto
». (Lui si batte sempre con qualcuno.) Eppure il tribunale lo
valutò degno di dieci anni di lager. Non sarebbe bastata una bella
fustigata?
È stato liberato anche Grigorij M-z, i suoi precedenti penali
sono stati annullati, lo hanno riabilitato rendendogli la tessera del
partito (non chiedono infatti se nel frattempo ti sei messo a
credere a Geova o Maometto, non ammettono che, forse, nean-
che una particella delle tue idee d'una volta ti sia rimasta - ti
ficcano il cartoncino tra le mani: toh, la tessera!). Egli torna dal
Kazachstan nella sua Z., il treno attraversa la mia città, io lo vado
a incontrare alla stazione. Dove sono rivolti i suoi pensieri,
adesso? Ma... intende forse tornare nella Sezione segreta, o
Speciale, o nello Specotdel? Mi sembra un po' troppo distratto il
suo discorso. Non mi scriverà più un rigo...
Ecco F. Retz: oggi dirige un ufficio alloggi, è anche druzinnik,
membro della polizia volontaria. Mi racconta con molto sussiego
come vive. Ma la vita di prima, l'ha forse dimenticata? come si fa
a dimenticare diciotto anni di Kolyma? Di questa racconta in
modo arido e con perplessità: è davvero stato il tutto? Com'è
possibile? Il vecchio gli è scivolato via di dosso. Ora è tutto
liscio e tutto contento.
Come un ladro taglia corto, così dimentica lo pseudo-politico.
Anche per quelli, una volta che hanno tagliato corto, il mondo
diventa più comodo, non punge e non stringe. Come prima
pareva loro che fossero dentro tutti, così adesso s'immaginano

526
che non stia dentro nessuno. Sono compresi dal senso, piacevole
come una volta, del Primo Maggio e dell'anniversario di Ottobre.
Sono passati i giorni di rigore quando ci perquisivano con
particolare dileggio al gelo e quando riempivano di noi le celle
del carcere del lager. Ma perché cercare tanto in alto? Se il
dirigente ha dato il capofamiglia sul lavoro quel giorno, a cena è
una festa, è un trionfo.
Soltanto in famiglia l'ex martire si permette di bofonchiare di
tanto in tanto. Solamente là egli ricorda di tanto in tanto, per
essere più vezzeggiato e apprezzato. Ma quando varca la soglia
di casa dimentica.
Ma non siamo così inflessibili. È un tratto proprio all'intera
umanità, quello di tornare da un'esperienza ostile al proprio « io
», ai molti suoi tratti e abitudini, d'una volta (anche se non ai
migliori). Sta in questo la stabilità della nostra personalità, dei
nostri geni. Diversamente, l'uomo forse non sarebbe più uomo. Il
medesimo Taras Sevčenko, di cui ho già citato alcuni righi
improntati allo smarrimento,1 scrive gioiosamente dieci anni
dopo: « Non un solo tratto è mutato nel mio aspetto interiore.
Ringrazio con tutta l'anima l'Onnipotente Creatore perché non ha
permesso all'orribile esperienza di sfiorare con i ferrei artigli le
mie convinzioni ».
Come fanno a dimenticare! Dove si potrebbe imparare a
farlo?
« No!, » scrive M.I. Kalinina « nulla si dimentica e nulla si
accomoda nella vita. Non sono contenta di essere quella che
sono. Tutto va liscio nella vita quotidiana, sono tenuta in gran
conto sul lavoro eppure qualcosa mi rode sempre il cuore, e sento
una stanchezza infinita. Spero che lei non intenda scrivere di chi
è stato liberato che sono persone felici che hanno dimenticato
ogni cosa. »
Raisa Lazutina: « Non si deve ricordare il male? e se non c'è
nulla di buono da ricordare?... ».
Tamara Prytkova: « Ho scontato dodici anni, da allora ne
1
Parte terza, cap. XIX [Arcipelago GULag 2°, p. 525. N.d.c.]

527
sono passati già undici (!) e non riesco a capire a che scopo
vivere! Dove sta la giustizia? ».
Da due secoli l'Europa parla di uguaglianza, ma a che punto
siamo tutti diversi! Quali solchi differenti lascia la vita sulle
nostre anime! Non dimenticare nulla per undici anni, e dimen-
ticare tutto l'indomani...
Ivan Dobrjak: « È rimasto tutto nel passato, ma non tutto.
Sono riabilitato ma non ho pace. È raro che io dorma tranquillo
per una settimana, sogno sempre il lager. Balzo in piedi, in
lacrime, oppure mi svegliano, spaventati ».
Anche undici anni dopo Hans Bernstein continua a sognare
unicamente del lager. Per cinque anni di seguito mi vedevo
soltanto detenuto quando sognavo, mai libero. L. Kopelev,
quattordici anni dopo la liberazione, si ammalò e nel delirio
parlava di prigione. La lingua poi non riesce mai a pronunziare «
cabina » in un battello o « camera » in un ospedale ma sempre «
cella ».
Šavirin : « A tuttoggi non riesco a guardare tranquillamente
un cane lupo ».
Čul’penëv cammina per un bosco, ma non riesce più a respi-
rare, a goderne semplicemente: « Vedo che gli abeti sono buoni:
pochi rami, non ci saranno quasi punto frasche da bruciare,
saranno metri cubi puliti... »
Come dimenticare, se ti trasferisci nel villaggio di Malcevo,
che una metà dei suoi abitanti è passata attraverso i lager, anche
se per lo più a causa di furti? Vai alla stazione di Rjazan' e vedi
tre sbarre spezzate nel recinto. Nessuno le ripara, quasi debba
essere cosi; perché esattamente di fronte a quel punto si fermano
i cellulari, ancora oggi, ancora oggi si fermano lì! e li
posteggiano in modo da cacciare i detenuti attraverso quella
apertura (è più comodo che scortarli sotto le pensiline affollate).
La società sovietica di diffusione dell'ignoranza* t'incarica di
tenere una conferenza (1957) e dal foglio di via t'accorgi che ti
mandano in una colonia di lavoro correttivo, l'ITK-2, una colonia
femminile presso una prigione. Tu vai verso il posto di guardia
* La denominazione reale è « Associazione nazionale per la diffusione delle conoscenze
politiche e scientifiche ».

528
e dallo spioncino sbuca il familiare berretto. Accompagnato dal
cittadino educatore attraversi il cortile della prigione, e donne
ricurve e malvestite ti salutano, tutte, per prime, con fare servile,
per ingraziarsi. Eccoti nell'ufficio del capo della sezione politica,
e mentre questo t'intrattiene, sai che in questo momento stanno
cacciando le donne fuori dalle celle, fanno alzare quelle che
dormono, nella cucina individuale strappano di mano i
paioli: avanti, muoversi, alla conferenza! Eccone piena la sala.
La sala è umida, sono umidi i corridoi e certamente più umide
ancora le celle, e le sciagurate donne lavoratrici tossiscono
durante tutta la conferenza, con una tosse inveterata, pro-
fonda, sonora, ora secca ora dilaniante. Sono vestite non come
donne ma come caricature di donne, le giovani sono angolose e
ossute come vecchie, tutte esauste aspettano che io finisca. Mi
vergogno. Vorrei dissolvermi come fumo e sparire. Invece di
quei « successi della scienza » vorrei gridare loro: « Donne! fino
a quando continuerà tutto questo? ». Il mio occhio ne distingue
qualcuna fresca, ben vestita, addirittura con il maglione di lana.
Sono le pridurki. Devo fermare lo sguardo su di esse, e senza
ascoltare chi tossisce potrò allora andare avanti con l'intera
conferenza, liscio liscio. Non distolgono gli occhi da me da
quanto ascoltano attentamente... Ma so che non ascoltano le
parole, non gliene importa niente del cosmo, vedono raramente
un uomo, e quindi mi osservano... Immagino: ora mi tolgono il
lasciapassare e rimarrò qui. Queste mura a pochi metri dalla ben
nota strada, dalla nota fermata del filobus, mi sbarreranno l'intera
vita, saranno non più mura ma anni... No, a momenti me ne
andrò. Con quaranta copechi prenderò il filobus e mangerò a
sazietà a casa. Potessi almeno dimenticare: quelle rimarranno
tutte qui. Tossiranno nello stesso modo. Tossiranno per anni.
Ogni anno, nel giorno del mio arresto, io mi organizzo « il
giorno del detenuto »: la mattina mi taglio 650 grammi di pane,
metto due zollette di zucchero, verso dell'acqua appena calda.
Per pranzo chiedo mi si cuocia una sbobba con una cucchiaiata
di polentina. Come faccio presto a riprendere la

529
vecchia forma: già verso sera raccatto le briciole, lecco la sco-
della. Le sensazioni risorgono con estrema vivezza.
Ho anche portato via con me gli straccetti con il numero e li
custodisco. Né sono il solo. Ve li mostreranno come una reliquia
ora in questa, ora in quella casa.
Una volta camminavo lungo la Novoslobodskaja: ecco la pri-
gione di Butyrki! « Accettazione pacchi ». Entro. Pieno di donne,
qualche uomo. Chi consegna un pacco, chi discorre. Dunque è da
qui che ci arrivavano i pacchi! Com'è interessante. Con l'aria più
innocente mi avvicino per leggere le regole dell'accettazione. Ma
un sergente dal largo ceffo mi ha già scorto con il suo sguardo
d'aquila e si sta rapidamente avvicinando. « Lei cosa vuole,
cittadino? » Ha intuito che non sono qui per consegnare un
pacco, c'è qualcosa sotto. Dunque puzzo di detenuto!
E visitare i morti? Quelli nostri, fra i quali dovresti essere
anche tu, trafitto da una baionetta? A. Ja. Olenev, già vecchio, vi
andò nel 1965. Con il sacco da montagna e il bastone raggiunse
l'ex cittadina ospedaliera, da lì salì la collina (vicino all'abitato di
Kerbi) dove sotterravano. La collina è piena di crani e di ossa, gli
abitanti la chiamano tuttora « collina delle ossa ».
In una lontana città settentrionale, dove la notte dura mezzo
anno e per mezzo anno è giorno, vive Galja V. Non ha più
nessuno al mondo e quella che chiama .« casa » è un brutto
angolo rumoroso. Il suo riposo consiste nell'andare con un libro
in un ristorante, farsi servire del vino, berne qualche sorso,
fumare e perdersi a « ricordare con nostalgia la Russia ». I suoi
amici prediletti sono gli orchestrali e i portieri. « A volte chi
torna da lì nasconde il proprio passato. Io sono fiera della mia
biografia. »
Qua e là si radunano, una volta l'anno, compagnie di ex dete-
nuti, bevono e ricordano. « Strano, » dice V.P. Golicyn « le
immagini del passato sono ben lungi dall'essere tutte tetre e
penose, molte cose si ricordano con un bel sentimento di calore.
»
È anche questa una proprietà dell'uomo, e non delle peggiori.

530
« Io portavo nel lager la lettera Y - comunica con esultanza
V.L. Ginzburg. - Ma il passaporto me lo rilasciarono con la serie
K/Z! »
Leggi e ti senti intenerire. Parola d'onore, fra tante lettere
quelle degli ex detenuti spiccano per insolita tenacia vitale. E
quanta energia, quanta chiarezza di visione! Ai giorni nostri, se
ricevi una lettera del tutto esente da piagnistei, una lettera
veramente ottimista, può solamente essere quella di un ex dete-
nuto. Abituati come sono a qualsiasi cosa, niente li abbatte.
Io sono orgoglioso di appartenere a questa possente tribù. Noi
non eravamo una tribù, ma tale ci hanno reso. Ci hanno saldati
come non avremmo mai potuto fare da soli, nella penombra e
nella disunione della vita libera dove ognuno ha paura dell'altro.
Qui gli ortodossi e i delatori si sono automaticamente staccati da
noi, non abbiamo bisogno di metterci d'accordo per sostenerci a
vicenda. Non abbiamo più bisogno di mettere gli altri alla prova.
C'incontriamo, ci guardiamo negli occhi, due parole - e che altro
c'è da spiegare? Siamo pronti a correre in aiuto. Abbiamo
qualcuno dei nostri ovunque. E siamo milioni!
Le sbarre ci hanno dato una nuova misura delle cose e degli
uomini. Hanno tolto dai nostri occhi la opacità di tutti i giorni,
che offusca costantemente la vista dell'uomo che non è mai stato
sconvolto. E quali inattese conclusioni si traggono!
N. Stoljarova, arrivata di sua propria volontà da Parigi nel
1934 per cadere nella trappola che le ha strappato gli anni
migliori della vita, non solamente non ne è tormentata, non
maledice il giorno in cui è giunta, ma dice: «Ebbi ragione quando
a dispetto del mio ambiente e della voce della ragione partii per
la Russia! Senza minimamente conoscerla l'avevo intuita nel mio
intimo ».
I.S. Karpunič-Braven, una volta uomo di successo, impulsivo,
impaziente comandante di brigata durante la guerra civile, non
esaminava con attenzione le liste che gli presentava il capo della
Sezione speciale, e scriveva sul foglio, non in alto e non a lettere
maiuscole, ma in basso e a lettere minuscole, come cosa di poca
importanza, con una matita spuntata e senza mettere i puntini: m
s (significava: Misura Suprema - tutti!). Poi

531
ci furono i rombi all'occhiello, poi vent'anni e mezzo di Kolyma
e ora eccolo vivere in mezzo alla foresta in una solitaria azienda,
annaffia l'orto, distribuisce il becchime ai polli, lavora da
falegname, non presenta domanda di riabilitazione, copre d'im-
properi Vorošilov, scrive rabbiosamente su dei quaderni risposte,
risposte e ancora risposte a ogni trasmissione radiofonica e a
ogni articolo di giornale. Ma passano altri anni e il filosofo
arcadico trascrive con sussiego da un libro l'aforisma: « Non
basta amare l'umanità, bisogna saper sopportare gli uomini ». E,
prima di morire, con parole proprie, parole che fanno addirittura
trasalire (non è mistico, questo? non è il vecchio Tolstoj?):
« Ho vissuto giudicando ogni cosa in base al mio criterio. Ma
adesso sono un altro uomo e non giudico più secondo il mio
criterio. »
Lo straordinario uomo che è V.P. Tarnovskij è rimasto a
Kolyma dopo aver scontato la pena. Scrive versi che non manda
a nessuno. Le sue riflessioni l'hanno portato a scrivere:
Mi è toccata questa terra, Dio mi condanna al silenzio perché
vidi Caino coi miei occhi ma ucciderlo non potei.1
Dispiace una cosa sola: moriremo tutti a poco a poco senza
aver compiuto nulla di degno.
Anche gli incontri attendono gli ex detenuti in libertà. Incontri
di padri con i figli. Di mariti con le mogli. Raramente questi in-
contri vanno a finir bene. In dieci, quindici anni, durante la
nostra assenza, i figli non hanno potuto crescere di pari passo con
noi: a volte sono semplicemente degli estranei, a volte dei
nemici. Poche donne sono state ricompensate per aver fedel-
mente atteso il marito: hanno vissuto tante cose separatamente,
tutto è cambiato nell'uomo, di vecchio non rimane che il cogno-
1
Per dovere di giustizia debbo ora aggiungere che ha lasciato Kolyma, ha fatto un
matrimonio sfortunato, ha perduto l'elevata carica spirituale e non sa più come liberare il collo.

532
me. L'esperienza di lui e di lei è troppo diversa, non è più pos-
sibile per i due essere vicini.
Qui abbonda il materiale per film e romanzi, ma esorbita da
questa opera.
Ci limiteremo quindi al solo racconto di Marija Kadackaja
(foto 8 : Kadackaja e il marito da giovani; foto 9 : Marija Kada-
ckaja oggi).
« Nei primi dieci anni mio marito mi scrisse 600 lettere. Nei
successivi dieci, una, e tale che dopo non avevo più voglia di
vivere. Dopo 19 anni, durante la prima licenza, egli si recò
direttamente non da noi, ma da certi parenti e venne a trovare
mio figlio e me soltanto di passaggio per quattro giorni. Il treno
con il quale l'aspettavamo non partì quel giorno. Dopo una notte
insonne mi coricai per riposare. Sento una scampanellata. Una
voce sconosciuta: "Cerco Marija Venediktovna". Apro. Entra un
uomo anziano, corpulento, con l'impermeabile e il cappello.
Senza dire una parola si fa avanti con disinvoltura. Io, svegliata
di soprassalto, devo aver dimenticato che aspettavo mio marito.
Rimaniamo in piedi. "Non mi riconosci?" "No." E intanto penso
tra me e me che dev'essere qualcuno dei parenti, ne ho molti e
anche quelli non li vedo da molti anni. Poi guardo le sue labbra
serrate e ricordo che aspettavo mio marito. Persi la conoscenza.
A questo punto entrò mio figlio, per di più malato. Così
rimanemmo in tre, senza uscire dall'unica nostra stanza, per
quattro giorni. Egli fu molto riservato anche con il figlio; quanto
a me non dovetti quasi parlare con mio marito, fu sempre una
conversazione generale. Lui raccontava della sua vita e non
mostrò nessun interesse per quella nostra durante la sua assenza.
Ripartì per la Siberia, non ci guardò negli occhi
nell'accomiatarsi. Io gli dissi che il mio secondo marito era stato
ucciso sulle Alpi (era in Italia, lo liberarono gli alleati). »
Ma vi sono altri incontri più allegri.
C'è il caso d'incontrare un secondino o il capo del lager. Im-
provvisamente, in un villaggio turistico di Tiberda uno riconosce
nell'istruttore di cultura fisica Slava, un secondino di Noril'sk.
Oppure, nel « Gastronom » di Leningrado Miša Bakst vede una
faccia familiare, e anche l'altro l'ha notato. È il capi-

533
534
tano Gusak, capo del lager, ora in borghese. « Senti, aspetta,
aspetta! Dov'è che sei stato dentro? Ah, ricordo, ti abbiamo tolto
i pacchi da casa perché lavoravi male! » (Dunque ricorda. Ma
tutto questo sembra loro naturale, quasi siano stati designati a
comandarci in eterno, e come se la situazione attuale fosse
soltanto un breve intervallo!)
Può capitare d'incontrare (Bel'skij) il comandante del reparto,
colonnello Rudyko, il quale aveva dato un frettoloso consenso al
tuo arresto pur di non avere grane. Anch'egli è in borghese con
un berretto da bojaro, un'aria da scienziato, è un uomo stimato.
Può anche darsi che s'incontri il giudice istruttore, quello che
ti ha picchiato e costretto a stare in ginocchio. Adesso gode di
una buona pensione, come per esempio Chvat, che abita in via
Gor'kij, giudice istruttore e assassino del grande Vavilov. Dio ci
scampi da un tale incontro, il colpo al cuore lo provi tu, ancora
una volta, non lui.
Magari incontri il tuo delatore, quello che ti ha mandato
dentro, ed ora sta benissimo. I fulmini del cielo non lo puni-
scono. Chi torna nei luoghi nativi rivede immancabilmente i
propri delatori. « Sentite — insiste qualcuno più focoso, —
denunziateli alla giustizia! Se non altro perché siano
pubblicamente smascherati! » (Ormai capiscono tutti che non si
otterrebbe di più.) « Ma no... lasciamo correre... » rispondono i
riabilitati.
Perché quel processo andrebbe per quella direzione verso la
quale bisogna tirare con i buoi.
« Lasciate che li punisca la vita » si schermisce Avenir
Borisov.
Non rimane altro.
Il compositore Ch. disse a Šostakovič: « È stata quella signo-
ra, L., membro della vostra unione, a mandarmi dentro ». « Scri-
va una dichiarazione » rispose impulsivamente Šostakovič, « noi
la espelleremo. » (Magari!) Ch. agitò le braccia: « Ah no, grazie,
mi hanno già trascinato per la barba, per terra, una volta e mi è
bastato! ».
Altro che nemesi! G. Polev si lamenta: « La canaglia che mi
ha mandato dentro per poco non mi fece nuovamente arrestare

535
quando fui rilasciato, e l'avrebbe anche fatto se io non fossi
partito dalla mia città natale. »
Questo sì che è alla nostra maniera. Questo sì che è alla ma-
niera sovietica!
Che cos'è un sogno, che cos'è un miraggio, un fuoco fatuo
delle paludi? Il passato o il presente?...
Nel 1955 Efroimson si presentò al vice procuratore generale
Salin per portargli un volume di accuse criminali contro Ly-
senko. Salin disse: « Non è materia di nostra competenza, si
rivolga al CC ».
Da quando in qua sono incompetenti? Oppure, perché non lo
sono diventati trent'anni prima?
Godono un pieno benessere i due falsi testimoni che hanno
fatto mettere Čul'penëv nella sua fossa in Mongolia: Lozovskij e
Serëgin. Čul’penëv, in compagnia di un comune conoscente del
reparto, andò da Serëgin nel suo ufficio presso il Soviet di
Mosca. « Le ho portato uno dei nostri compagni del Chalchin-
Gol, non se lo ricorda? » « No, non ricordo. » « E non ricorda un
certo Čul’penëv? » « No, non ricordo, la guerra ci ha scaraventati
di qua e di là." » « E non conosce la sua sorte? » « Non ne ho
idea. » « Ah, canaglia, canaglia! »
Non c'è altro da dire. Nel comitato rionale del partito al quale
appartiene Serëgin: « Non è possibile! Lavora tanto co-
scienziosamente ».
Lavora coscienziosamente!
Tutto è a posto e tutti sono a posto. I tuoni hanno rombato un
po' per sparire poi quasi senza pioggia.
Tutto è a posto a tal punto che Ju. A. Krejnovič, grande esper-
to delle lingue del Nord,1 è tornato nel medesimo istituto, e nella
medesima sezione insieme a coloro che lo avevano denunziato e
lo odiavano: ogni giorno si toglie il cappotto insieme a loro e
partecipa alle sedute.
Insomma, è come se le vittime di Auschwitz si associassero
1
È stato detto bene che se un tempo i membri del gruppo « Libertà del popolo », i
narodovol'cy, erano diventati dei famosi linguisti grazie al loro invio in esilio, Krejnovič si
mantenne tale nonostante il lager staliniano; perfino a Kolyma lo si è visto tentare di studiare lo
jukagir.

536
ai loro ex aguzzini per intraprendere assieme un commercio di
mercerie.
Vi sono Obergruppen-delatori anche nel mondo letterario.
Quante persone ha rovinato Ja. Elsberg? Lesjučevskij? Lo sanno
tutti e nessuno osa toccarli. Si voleva espellerli dall'unione degli
scrittori, inutilmente. Tanto meno si possono privare del lavoro.
E, si capisce, espellerli dal partito.
Quando veniva creato il nostro codice (1926) si riteneva che
l'assassinio per mezzo della calunnia fosse cinque volte meno
grave e più perdonabile di quello mediante il coltello. (Infatti non
era possibile supporre che sotto la dittatura del proletariato
qualcuno si sarebbe valso di tale mezzo borghese, la calunnia).
Secondo l'articolo 95 la falsa denunzia, le deposizioni false e
unite con: a. accuse di grave delitto; b. motivi d'interesse; c.
artificiosa creazione di prove a sostegno delle accuse, vengono
punite con la privazione della libertà fino a... due anni. E magari
sei mesi.
Questo articolo è stato redatto o da poveri idioti o viceversa
da persone anche troppo lungimiranti.
Io propendo per quest'ultima interpretazione.
A tuttoggi non si è mai dimenticato di includere questo arti-
colo nelle varie amnistie (quella di Stalin del '45, la « Vorošilov
» del '53), si sono sempre presi cura dei loro militanti.
C'è poi la prescrizione. Se sei stato falsamente accusato (in
base all'articolo 58) la prescrizione non sussiste. Ma se tu hai
accusato falsamente, la prescrizione c'è, ti salvaguardiamo.
Il caso della famiglia di Anna Čebotar-Tkač è tutto intessuto
di false testimonianze. Nel 1944 lei, suo padre e due fratelli
furono arrestati per un presunto assassinio politico della rispet-
tiva nuora e cognata. Tutti e tre gli uomini furono picchiati a
morte in prigione (non vollero confessare), Anna scontò dieci
anni. A questo punto saltò fuori che la vittima era perfettamente
sana e salva. Ma per altri dieci anni Anna fece inutilmente
domanda di essere riabilitata. Perfino nel 1964 la procura ri-
spose: « È stata condannata giustamente e non sussistono ragioni
per una revisione». Quando alla fine venne riabilitata,
l'instancabile Skripnikov fece scrivere ad Anna una domanda

537
perché fossero citati in giudizio i falsi testimoni. Il procuratore
dell'URSS G. Terechov1 rispose: impossibile a causa della pre-
scrizione...
Negli anni Venti furono scovati, trascinati in tribunale e
fucilati dei poveri contadini ignoranti che avevano messo a morte
quaranta anni prima dei narodnovol'cy condannati da un
tribunale zarista. Ma quei contadini « non erano dei nostri ».
Quei delatori invece sì, erano sangue del nostro sangue.
È questa la vita libera che attende gli ex detenuti. Esiste nella
storia un altro caso in cui tanta scelleratezza nota a tutti sia
sfuggita alla giustizia e al castigo?
Cosa possiamo aspettarci di buono per il futuro? Cosa può
venir fuori da tanto fetore?
Quale meravigliosa efficacia ha dimostrato lo scellerato dise-
gno dell'Arcipelago!

538
Parte settima
Stalin non è più

... e non si ravvidero


dei loro omicidi. Apocalisse, 9, 21

539
540
I Un'occhiata da sopra la spalla

Naturalmente non perdevamo la speranza: quello che


avevamo vissuto sarebbe stato un giorno raccontato; infatti
prima o poi la verità finisce per essere detta su tutto quanto
accade nella storia. Ma ci sembrava che sarebbe successo molto
tempo dopo, dopo la morte della maggioranza di noi. E in
circostanze completamente mutate. Io stesso, che mi consideravo
un cronista dell'Arcipelago e scrivevo, scrivevo senza sosta, non
speravo molto che la cosa avvenisse durante la mia vita.
Il corso della storia ci sorprende sempre, i perspicaci non
meno degli altri, con le sue svolte inattese. Non potevamo pre-
vedere come sarebbe andata a finire: senza alcuna visibile ra-
gione, tutto sarebbe stato sconvolto da una violentissima scossa e
si sarebbe messo in movimento, gli abissi si sarebbero appena
appena, e per brevissimo tempo, dischiusi, e due o tre uccellini
portatori di verità avrebbero avuto il tempo di sfuggirne prima
che i battenti ricadessero, chiusi di nuovo per chissà quanto
tempo ancora.
Quanti sono stati i miei predecessori! Quanti manoscritti
incompiuti, nascondigli espugnati, testimoni caduti per strada,
troppo esausti per superare gli ultimi metri! La sorte ha voluto
che fossi io ad aver la fortuna di infilare fra i due battenti di
ferro, prima che si richiudessero, la prima manciata di verità.
Come della materia immersa nell'antimateria, essa esplose
subito.
Esplose e provocò un'esplosione di lettere: c'era da aspettar-

541
selo. Ma anche un'esplosione di articoli di giornali nei quali,
soffocando il digrignare di denti, l'odio, la ripugnanza, mi si
incensava con un tale scialo di formule ufficiali da averne
allegati i denti.
Quando gli ex detenuti seppero, dalla grancassa di tutti i
giornali, che era stato pubblicato un racconto sui lager e che i
giornalisti facevano a gara nel lodarlo, decisero all'unanimità: «
Saranno le solite balle! si saranno ingegnati a infilare le loro
menzogne anche qua ». Infatti non era possibile immaginare che
di punto in bianco i nostri giornali si precipitassero, con la
consueta mancanza di senso della misura, a lodare la verità.
Alcuni non vollero neppure prendere in mano il mio racconto.
Ma quando cominciarono a leggerlo, si levò come un grande
gemito, un gemito di gioia e insieme di dolore. E le lettere co-
minciarono ad affluire.
Io le conservo. Troppo raramente i nostri connazionali hanno
l'occasione di esprimersi sui problemi della nostra vita sociale e
tanto meno l'hanno gli zek. Essi, così spesso delusi, così spesso
ingannati, credettero tuttavia che questa volta fosse davvero
l'inizio dell'era della verità, e che si potesse oramai parlare e
scrivere apertamente.
S'ingannarono, naturalmente, per l'ennesima volta. « La verità
ha trionfato, ma troppo tardi! » scrivevano. Troppo tardi? Di
fatto non aveva trionfato per niente. Ce n'erano anche di quelli
che vedevano chiaro: quelli che non firmavano la lettera (« ci
tengo alla mia salute e ai giorni di vita che mi rimangono»), o
che, dall'inizio, nel pieno degli incensamenti dei giornali, mi
chiedevano: « Non capisco come abbia fatto Volkovoj* a
permetterti di pubblicare questo racconto. Rispondimi, sono
inquieto: sei in prigione?... ». Oppure: « Com'è che non vi hanno
ancora messi dentro, te e Tvardovskij? ».
Chissà, s'era forse inceppata la tagliola, non funzionava più. E
anche i Volkovoj furono costretti a prendere in mano la penna e a
scrivere a loro volta delle lettere o delle smentite che invia-
* II capo del regime disciplinare in Una giornata di Ivan Denisovič.

542
vano ai giornali. Si potè constatare che avevano un livello
d'istruzione del tutto dignitoso.
Questa seconda ondata di lettere ci permette inoltre di ap-
prendere una buona volta come dobbiamo chiamarli, qual è il
nome che si danno essi stessi. Eravamo sempre in cerca della
parola: padroni dei lager, lagerščiki e invece... agenti esecutivi.
Una paroletta d'oro. « Čekisti » a quanto pare non è molto pre-
ciso, beh, vada per agenti esecutivi, poiché piace a loro.
Scrivono:

Ivan Denisovič è un leccapiedi. (V.V. Olejnik, Aktjubinsk.) Non si sente


per Suchov né simpatia né rispetto, (Ju. Matveev, Mosca.) Suchov è stato
condannato giustamente... cosa diavolo ci starebbero a fare, in libertà, gli
zek? (V.I. Silin, Sverdlovsk.)
Quella gentuccia dall'anima vile è stata giudicata con troppa indulgenza.
Gli individui che si sono comportati in modo losco durante la guerra... non mi
fanno nessuna pena. (E.A. Ignatovič, Kimovsk.)
Suchov è uno sciacallo patentato, abilissimo e spietato. Un egoista fatto e
finito che vive unicamente per riempirsi la pancia. (V.D. Uspenskij, Mosca.)1
Invece di mostrare come i militanti più devoti sono periti nel 1937, l'autore
ha scelto il 1941, quando nei lager capitavano per lo più indegni pagnottisti.2
Nel '37 di Suchov non ce n'erano,3 la gente andava alla morte con gravità e in
silenzio, e pensava: a chi può servire?4 (P.A. Pankov, Kramatorsk.)

Sull'organizzazione della vita nei lager:

Perché dare molto cibo a chi non lavora? La sua forza resta inutilizzata...
Si è fin troppo teneri con il mondo dei criminali. (S.I. Golovin, Akmolinsk.)
Quanto alle norme alimentari, non si deve dimenticare che quelli non sono
in villeggiatura. Devono riscattare la loro colpa lavorando onestamente e
chiuso. (Caporale Bazunov, Ojmjakon, 55 anni, una lunga carriera nel
servizio dei lager.)
Ci sono meno abusi nei lager che in qualsiasi altra istituzione sovietica
(!!). Io affermo che attualmente nei lager sono diventati più severi. (V.
Karachanov, Mosca.)
1
Questo pensionato non sarà quell'Uspenskij che ha ammazzato il proprio padre, un
prete, e partendo da qui ha fatto carriera nei lager?
2
Ma sì, dei semplici senzapartito, dei prigionieri di guerra.
3
Eccome se ce n'erano! Più dei vostril
4
Quale profondità di pensiero! Del resto, non tanto silenziosamente ma con ininterrotti
pentimenti e domande di grazia.

543
Questo racconto costituisce un affronto per i soldati, i sergenti e gli
ufficiali del MOOP. Il popolo è il creatore della storia, ma com'è mostrato qui?
Sotto l'aspetto di « pappagalli », « gaglioffi », « imbecilli ». (Bazunov.)
Anche noi esecutori siamo uomini, anche noi abbiamo saputo compiere
degli atti eroici: non sempre finivamo i detenuti che cadevano e in tal modo ci
assumevamo il rischio di perdere il nostro lavoro. (Grigorij Trofimovič
Zeleznjak.)1
Tutta la giornata del racconto è piena di atti riprovevoli commessi dai
detenuti senza che sia mostrato il ruolo dell'amministrazione... Ma la
detenzione nei lager non era una conseguenza del culto della personalità,
bensì rappresentava l'esecuzione di sentenze emesse dagli organi giudiziari.
,(A.I. Grigor'ev.)
I guardiani ignoravano i motivi della condanna di ognuno.2 (Karachanov.)
Solženicyn descrive tutto il lavoro del lager come se il partito non vi
svolgesse alcun ruolo direttivo. Eppure, allora come oggi, c'erano delle
organizzazioni del partito che dirigevano tutto il lavoro secondo coscienza.
Gli agenti esecutivi si limitavano a eseguire quanto era loro richiesto da
regolamenti, istruzioni, ordini. Del resto sono le stesse persone che
assicurano il servizio anche attualmente (!!),3 sono soltanto aumentate di
forse il dieci per cento, sono state più volte lodate per l'ottimo lavoro, in
generale sono apprezzate dai loro superiori.
Tutti i funzionari del MOOP ardono di collera e indignazione... È in-
credibile quanto fiele ci sia in quest'opera... È stata scritta apposta per aizzare
il popolo contro il MOOP... Perché i nostri Organi permettono che siano
dileggiati gli agenti del MOOP? È disonesto! (Anna Filippovna Zacharova,
provincia di Irkutsk, nella MVD dal 1950, membro del partito dal 1956.)

Ascoltate, ascoltate bene questo grido dell'anima: è disone-


sto). Martirizzare gli indigeni per quarantacinque anni era onesto.
Ma pubblicare un racconto è disonesto!

Non mi era ancora mai capitato di dover digerire una simile porcheria...
Non sono il solo a pensarla così, siamo in molti, il nostro nome è legione.4

Alcuni sono più perentorii:


1
Zeleznjak si ricorda anche di me personalmente: « Arrivò con una traduzione di
detenuti ai quali avevano messo i ferri, si distingueva per il suo carattere litigioso. In seguito fu
trasferito a Džezkazgan dove capeggiò con Kuznecov l'insurrezione... »
2
Noi? « Noi non facevamo che eseguire degli ordini », « non sapevamo ».
3
Una testimonianza molto importante!
4
Ma sì; il loro nome è proprio legione. Ma nella fretta si sono dimenticati di controllare
la citazione nel Vangelo. Vi si parla di una legione di demoni...

544
Il racconto di Solzenicyn deve essere immediatamente ritirato da tutte le
biblioteche e sale di lettura. (Kuz'min, Orel.)

Così fu fatto, solo gradualmente.


Non bisognava pubblicare questo libro; il materiale andava trasmesso agli
organi del KGB. (Anonimo:1 un contemporaneo dell'Ottobre.)

E in effetti le cose sono andate pressappoco così, ci aveva


indovinato il caro contemporaneo.
E un altro Anonimo, questa volta un poeta:
Ascolta, oh Russia,
priva di macchia alcuna
è la nostra coscienza!

Ah, questo « maledetto incognito ». Sarebbe interessante sa-


pere almeno se ha fucilato personalmente della gente, se si è
limitato a mandarla a morte, o se fa semplicemente parte degli
ortodossi qualsiasi. E invece no; è anonimo! Anonimo e senza
macchia...
E, per finire, un'ampia visione filosofica:
La storia non ha mai avuto bisogno del passato (!!) e questo è ancor più
vero per la storia della cultura socialista. (A. Kuz'min.)

La storia non ha bisogno del passato! ecco cosa sono arrivati a


dire i Benpensanti. Che cosa le occorre dunque? il futuro? E sono
essi a scrivere la storia...
Che cosa possiamo obiettare ora a tutti costoro, che cosa pos-
siamo opporre a questo coro di compatta ignoranza? Come spie-
gare loro le cose, oggi?
Infatti la verità è, per natura, come timida: quando la pres-
sione della menzogna si fa troppo impudente, la verità tace.
Un paese dove è impossibile scambiarsi liberamente l'infor-
mazione alla lunga vede crearsi un abisso d'incomprensione fra
intere categorie di cittadini: tanti milioni da una parte, tanti
milioni dall'altra.
Stiamo semplicemente cessando di essere un popolo unico,
perché non parliamo più la stessa lingua.
1
Ad ogni buon conto, restiamocene nascosti: va' a sapere da che parte
potrebbe soffiare il vento...

545
Eppure uno sfondamento ci fu. Per quanto solido, per quanto
sicuro apparisse il muro di menzogne costruito per l'eternità, -
una breccia vi si spalancò all'improvviso e l'informazione irrup-
pe. Ancora ieri non avevamo assolutamente nessun lager, asso-
lutamente nessun Arcipelago, e oggi l'intero popolo, il mondo
intero scopriva dei lager! e per giùnta dei lager di tipo fascista!
Che fare? Maestri del ripiego, veterani della lode ad oltranza, è
mai possibile che tolleriate una cosa del genere? Voi, proprio voi
sareste intimiditi? voi cedereste?
Certamente no! I maestri del ripiego furono i primi a pre-
cipitarsi nella breccia. Era come se da anni l'avessero attesa per
riempirla con i propri corpi piumati di grigio e per celare con un
battito di ali gioioso - proprio così, gioioso - la vista del-
l'Arcipelago agli spettatori stupiti.
Il primo loro grido - trovato in un secondo, dettato dall'istinto
- fu Questo non si ripeterà più! Gloria al Partito! Questo non si
ripeterà mai più.
Bravi, bravissimi mastri stuccatori! Infatti se «questo non si
ripeterà », va da sé che oggi questo non esiste. Nel futuro non ci
sarà e oggi, si capisce, non esiste.
Fu così abile il loro sbattere d'ali nella breccia che l'Arcipe-
lago, appena apparso agli sguardi della gente, era già diventato
un miraggio: non aveva realtà nel presente, non ne avrebbe avuta
nel futuro, al più, forse, era esistito nel passato... Ma era il culto
della personalità!, (comodo, questo « culto della personalità »:
basta tirarlo fuori e sembra quasi di aver spiegato qualcosa). E
ciò che era reale, che restava, che colmava la breccia ed era
stabilito per i secoli dei secoli è « Gloria al Partito! » (All'inizio,
apparentemente, lo si glorificava perché « questo non si ripeterà
più », ma poi si arrivò quasi a rendergli gloria nello stesso tempo,
per la stessa occasione, per l'Arcipelago stesso, tutto fondeva,
impossibile distinguere: la gente non era ancora riuscita a
procurarsi la rivista che conteneva il racconto che già dappertutto
montava il grido: « Gloria al Partito! ». Non sono ancora arrivati
al punto dove fustigano, che ormai da ogni parte tuona: « Gloria
al Partito! ».

546
I cherubini della menzogna, incaricati della guardia al Muro,
avevano portato a buon fine la prima operazione.

Quando Chruščev, asciugando intanto una lacrima, dette il


permesso di pubblicare Ivan Denisovič, era fermamente convinto
che i lager in questione erano quelli di Stalin e che lui, Chruščev,
non aveva niente di simile.
Anche Tvardovskij, mentre si dava da fare per ottenere il visto
in alto loco, credeva sinceramente che si trattasse del passato,
scomparso per sempre.
Tvardovskij era scusabile: l'universo nel quale viveva, quello
del mondo pubblico della capitale, si nutriva unanimemente
dell'idea che adesso era il disgelo, che gli arresti erano cessati,
che due congressi purificatori avevano già avuto luogo e che la
gente ritornava dal nulla, e numerosa. L'Arcipelago era sparito
dietro la bella nebbia rosa delle riabilitazioni divenendo del tutto
invisibile.
Ma io, io! mi lasciai prendere anch'io dal clima generale, in
modo inescusabile. Nemmeno io ingannavo Tvardovskij, anch'io
credevo sinceramente di avergli portato un racconto sul passato.
La mia lingua aveva dunque dimenticato il gusto della sbobba?
eppure mi ero ripromesso di non dimenticarlo. Non avevo
dunque penetrato la natura degli addestratori di cani? Io che
volevo diventare il cronista dell'Arcipelago, non avevo dunque
capito fino a che punto esso fosse intimamente legato allo Stato e
necessario alla sua esistenza? Ero sicuro di me stesso come di
nessun altro, sicuro di sfuggire, almeno io, alla legge comune.
Una storia è presto dimenticata, un corpo fa in fretta a tornare
in carne.
Eppure mi ero rimpolpato. Eppure mi ero lasciato invischiare.
Eppure avevo creduto... avevo creduto alla bonarietà della metro-
poli. Al benessere della mia nuova vita. Ai racconti degli ultimi
amici arrivati da là: si stava meglio, il regime si era allentato! Si
rilasciava, si rilasciava di continuo!, chiudevano intere sezioni!
licenziavano gli agenti...
Sì, siamo davvero solo cenere. E soggetti alle leggi della ce-

547
nere. Per grande che sia la nostra parte di dolore, non è suffi-
ciente a renderci una volta per tutte sensibili al dolore comune. E
fino a quando non avremo dominato in noi stessi ciò che è cenere
non vi saranno sulla terra assetti politici giusti, né democratici né
autoritari.
E così la terza ondata di lettere, quella che proveniva dagli zek
d'oggi, costituì per me una sorpresa, anche se era la più naturale
delle tre, quella che avrei dovuto aspettarmi in primo luogo. Su
pezzetti di carta tutta sgualciata, coperti di segni tracciati con
vecchi mozziconi di lapis, in buste di fortuna il cui indirizzo era
spesso stato scritto da liberi - segno che erano stati spediti di
straforo - l'Arcipelago di oggi mi mandava le sue obiezioni, e
anche la sua collera.
Anche quelle lettere si confondevano in un unico grido. Ma
stavolta il grido era: « e noi? »
Infatti tutto il gran chiasso dei giornali intorno al racconto,
sollevato a uso e consumo dei liberi e dell'estero» girava attorno
all'idea: « Questo è stato ma non si ripeterà mai più ».
E gli zek urlavano: come non si ripeterà più se noi siamo
dentro adesso e nelle medesime condizioni?
« Dai tempi di Ivan Denisovič non è cambiato nulla » scri-
vevano unanimemente, dai luoghi più diversi.

Se uno zek legge il suo libro, ne rimane amareggiato, perché vede che tutto
è rimasto come prima.
Che cosa è cambiato se tutte le leggi che prevedono pene di venticinque
anni, che sono state emanate sotto Stalin, rimangono in vigore?
Di chi è stavolta il culto della personalità, visto che siamo di nuovo chiusi
in carcere senza colpa alcuna?
Una nuvola nera ci ha ricoperto e nessuno ci vede più.
Perché i Volkovoj sono rimasti impuniti? Anche oggi pretendono di
educarci.
Tutti, a cominciare dall'ultimo guardiano fino al direttore del GULag,
hanno un vitale interesse a che i lager continuino a esistere. Il personale di
custodia ti appioppa sanzioni scritte per ogni inezia; gli agenti scarabocchiano
note infamanti sulle pratiche personali di ognuno... Noi, con le nostre pene di
venticinque anni, siamo una pacchia per questi esseri tarati che sono chiamati
a rimetterci sulla via della virtù. I colonizzatori non usavano gli stessi sistemi
per far passare gli indiani e i negri per dei sotto-uomini? Non ci vuol niente a
metterci contro l'opi-

548
nione pubblica, basta scrivere un articolo e intitolarlo « L'uomo dietro le
sbarre »1 e domani la gente chiederà a gran voce che ci brucino nei forni.

È giusto. Ed è tutto vero.


« La sua è una posizione da retroguardia! » mi sbalordì Vanja
Alekseev.
Quando ebbi letto tutte quelle lettere, io che nii sentivo un
eroe vidi che ero senza scuse; in dieci anni avevo perduto il
senso dell'Arcipelago nella sua realtà vivente.
Per loro, per gli zek d'oggi, il libro non sarebbe esistito, la
verità che racchiudeva sarebbe stata senza valore se io non avessi
aggiunto un seguito che parlasse di loro. La verità doveva essere
detta, perché cambiassero le cose. Se la parola non tratta di cose
reali e non ne suscita, a che serve? vale forse più dell'abbaiare
dei cani, di notte, nel villaggio?
(Vorrei dedicare questa considerazione ai nostri modernisti: è
così che il nostro popolo è abituato a intendere la letteratura.
Un'abitudine che non perderà tanto presto. Bisogna dispia-
cersene?)
Tornai in me. Attraverso i rosei effluvi delle riabilitazioni
distinsi di nuovo la massa rocciosa dell'Arcipelago, i suoi grigi
contorni punteggiati di torrette.

Lo stato della nostra società corrisponde bene a quello che in


fisica si chiama campo. Tutte le linee di forza di questo campo
1
Kasjukov e Mončanskaja, L'uomo dietro le sbarre in « Sovetskaja Rossija », 27 agosto
1960. Ispirato dagli ambienti governativi l'articolo mise fine al breve (1955-1960) periodo di
mitigazione che aveva conosciuto l'Arcipelago. Gli autori ritengono che le condizioni di vita
create nei lager siano «più consone a istituzioni di beneficenza », che si sia « dimenticato la sua
condizione di condannato », che « i detenuti non ne vogliono sapere di doveri », « L’amministra-
zione ha assai meno diritti che non i detenuti » (?). Assicurano che i lager sono « dei pensionati
gratuiti » (Dove, chissà perché, non si fanno pagare ai detenuti il cambio della biancheria, il taglio
dei capelli, l'uso delle camere riservate agli incontri con i familiari.) Si indignano riferendo che
nei lager la settimana lavorativa è di sole quaranta ore e che per giunta « il lavoro non è neanche
obbligatorio » (??) Reclamano « condizioni di vita dure e difficili » affinchè il delinquente tema la
prigione (lavoro pesante, pancacci senza materasso, divieto di portare indumenti civili,
soppressione di tutti quegli spacci che vendono caramelle, ecc.) nonché l'abolizione della
liberazione anticipata (anzi, « in caso di infrazione della disciplina, un prolungamento »). Essi
vogliono ancora che « una volta scontata la pena, il detenuto non pensi che per l'avvenire sarà
trattato con indulgenza ».

549
vanno nella stessa direzione: dalla libertà verso la tirannia. Sono
linee estremamente stabili, sono incrostate, intagliate nella pietra,
è quasi impossibile sollevarle in un turbine, abbatterle, deviarle.
Ogni carica, ogni massa che si introduce viene agevolmente
trascinata dalla parte della tirannia, è impossibile che si apra un
cammino in direzione della libertà. Bisognerebbe attaccarci
diecimila buoi.
Adesso, dopo che il mio libro è stato ufficialmente dichiarato
nocivo e la sua pubblicazione riconosciuta un errore, una delle «
conseguenze del volontarismo in letteratura » - viene tolto anche
dalle biblioteche destinate alla popolazione libera - la sola
menzione del nome di Ivan Denisovič o del mio è diventata
sull'Arcipelago un attentato irreparabile alla Sicurezza dello
Stato. Ma prima! prima di tutto questo! quando Chruščev mi
stringeva la mano e mi presentava fra gli applausi ai trecento
individui che si ritenevano l'elite dell'arte, quando la stampa a
Mosca faceva un gran baccano attorno a me e i giornalisti face-
vano la coda davanti alla mia stanza d'albergo, quando era stato
pubblicamente dichiarato che il partito e il governo sostengono
libri del genere, quando il Collegio militare del Tribunale
supremo era orgoglioso di avermi riabilitato (chissà come ne
saranno pentiti oggi!) e giuristi col grado di colonnello
dichiaravano dall'alto della loro tribuna che quel libro doveva
essere letto nei lager, — fu allora che mute senza voce e senza
nome, le forze del campo magnetico esercitarono la loro resisten-
za invisibile e il libro si fermò. Si fermò allora. Rari furono i
lager in cui il libro penetrò legalmente, in cui si potè prenderlo in
lettura alla biblioteca della KVČ. Fu tolto dalle biblioteche.
Veniva tolto dai pacchi inviati ai detenuti da gente di fuori. I
liberi lo portavano di nascosto, sotto la giacca, e lo imprestavano
agli zek per 5 rubli e talvolta, a quanto pare, anche per 20 (in
rubli di Chruščev! e poi a degli zek! Ma quando si conoscono
meglio i costumi spudorati del mondo che gravita intorno ai
lager, non ci si meraviglia più). Gli zek riuscivano a introdurlo
nel lager malgrado le perquisizioni e lo tenevano nascosto e da
conto come un coltello; di giorno lo nascondevano, di notte lo
leggevano. In un lager degli Urali settentrionali per

550
renderlo più duraturo gli confezionarono una rilegatura di
metallo.
Ma perché parlare degli zek se anche nel mondo che circon-
dava i lager si diffondeva questo divieto, tacito ma accettato da
tutti! Alla stazione di Vis della ferrovia del Nord, la cittadina
libera Marija Aseeva scrisse una lettera indirizzata alla «
Literaturnaja Gazeta » in cui esprimeva un giudizio favorevole
sul racconto: non è chiaro se l'abbia gettata nella cassetta delle
lettere o dimenticata imprudentemente su un tavolo, fatto sta che
cinque ore dopo averla scritta fu convocata dal segretario
dell'organizzazione di partito, un certo V.G. Šiškin, che l'accusò
di provocazione politica (che parole vi sanno trovare!) e la fece
subito arrestare.1
Nell'ITK 2 di Tiraspol', lo scultore detenuto G. Nedov si mise a
lavorare, nel suo laboratorio di pridurok, alla statua di un
detenuto (foto 10); per cominciare la modellò con la plastilina. Il
capitano Solodjankin, capo del regime disciplinare, notò la cosa.
« Ma è un detenuto quello! Chi te ne da il diritto? Questa è
controrivoluzione! » Afferrò la statuetta per le gambe, la spaccò
in due e gettò i pezzi per terra: « A forza di leggere quei vostri
Ivan Denisovič! » (Ma non calpestò i frammenti e Nedov li
raccolse e li nascose.) In seguito alla denunzia di Solodjankin,
Nedov fu chiamato dal capo del lager, tale Bakaev; ma nel
frattempo lo scultore era riuscito a procurarsi alla KVČ un certo
numero di giornali. « Ti manderemo davanti a un tribunale!
Monti la gente contro il potere sovietico! » tuonò Bakaev.
(Capivano l'effetto che può produrre l'immagine di uno zek!) «
Mi permetta di dirle, cittadino capo... Vede, Nikita Sergeevič
dice che... Il compagno Il’ičev... » « Ma questo ci parla come
fosse un nostro pari! » esclamò Bakaev sbalordito. Soltanto sei
mesi dopo Nedov si arrischiò a recuperare le due metà, a riunirle,
a fondere la statuetta in metallo bianco e farla uscire dal lager per
mezzo di un libero.
Nell'ITK 2 furono intraprese delle ricerche per trovare il libro.
Fu fatta una perquisizione generale nella zona abitata. Non fu
1
Non so come sia andata a finire.

551
552
trovato. E un giorno Nedov decise di vendicarsi: venuta la sera
prese l'opera di Tevekeljan Il granito non fonde, finse di na-
scondersi dal resto della camerata (in presenza di noti delatori
pregò i ragazzi di coprirlo) facendo in modo di essere veduto
dalla finestra. La delazione scattò immediata. Accorsero tre
guardiani (il quarto era rimasto fuori dalla finestra per vedere a
chi avrebbe consegnato il libro, se avesse fatto in tempo a
sbarazzarsene.) Se ne impadronirono! Fu portato nel posto di
guardia dei guardiani e rinchiuso nella cassaforte. Il guardiano
Čižik, mani sui fianchi, con il suo enorme mazzo di chiavi: «
L'abbiamo trovato il libro! Ora andrai al fresco! ». Ma l'indomani
l'ufficiale guardò il libro. « Imbecilli! rendeteglielo. »
Ecco come gli zek leggevano un libro « approvato dal partito e
dal governo »...

In una dichiarazione del governo sovietico del dicembre 1964


si dice: « I responsabili di crimini mostruosi non devono in alcun
caso e in nessuna circostanza sfuggire al giusto e meritato ca-
stigo... Niente può essere paragonato ai crimini degli assassini
fascisti, che si prefiggevano lo scopo di annientare interi popoli
».
I nostri governanti intendevano così impedire alla RFT di
applicare la prescrizione allo scadere dei venti anni.
Però non hanno molta voglia di giudicare se stessi, anche se
indubbiamente anch'essi « si prefiggevano lo scopo di annientare
interi popoli ».
Da noi si pubblicano molti articoli sulla necessità di punire i
criminali della Germania occidentale che sono riusciti a fuggire.
Abbiamo addirittura degli specialisti di questo tipo di articoli,
come per esempio Lev Ginzburg. Ecco cosa scrive (alcuni
dicono che l'analogia vi è intenzionalmente evocata): quale pre-
parazione morale si dovette far subire ai nazisti, perché le loro
uccisioni in massa paressero loro naturali e morali! Adesso i
legislatori si difendono dicendo che non furono essi ad applicare
le leggi, mentre gli esecutori dicono che non furono essi a
promulgarle!
Com'è familiare... Abbiamo appena letto quello che scrivono i
nostri agenti esecutivi: « La detenzione nei lager rappresentava
553
554
l'esecuzione di sentenze emesse dagli organi giudiziari... I guar-
diani ignoravano i motivi della condanna di ognuno ».
Se eravate degli uomini avevate il dovere di informarvi. Ciò
che vi rende degli scellerati è appunto il fatto che non abbiate
mai posato uno sguardo di cittadino o uno sguardo umano sulle
persone affidate alla vostra custodia. Credete che i nazisti non
avessero le loro brave istruzioni, né più né meno come voi?
Forse che non credevano di lavorare per la salvezza della razza
ariana?
Quanto ai nostri giudici istruttori non esiteranno (anzi già non
esitano più) a rispondere: e perché i detenuti deponevano contro
se stessi? Avrebbero dovuto mostrare una maggiore fermezza
quando li torturavamo! E perché i delatori ci comunicavano delle
informazioni sbagliate? Noi ci basavamo sui loro rapporti come
su delle deposizioni testimoniali.
Ci fu un breve momento in cui li si vide in preda all'inquie-
tudine. V.N. Il'in, quell'anziano generale di divisione della MGB
che abbiamo già nominato, disse parlando di Stolbunovskij (giu-
dice istruttore del generale Gorbatov, questi lo ricorda nelle sue
memorie): «Ahi, ahi, brutte cose! Adesso avrà delle grane.
Eppure prende una bella pensione ». Fu lo stesso impulso che
indusse anche A.F. Zacharova a prendere la penna: non si
metteranno a passare in rivista tutti quanti! E prese impetuo-
samente le difese di un certo capitano Lichošerstov, « calunniato
» da D'jakov:

È tuttora capitano, segretario di un'organizzazione del partito (!), lavora in


una sezione agricola.* Figuratevi come gli sarà difficile fare il suo lavoro, ora
che scrivono cose simili di lui. Corre voce che il suo caso verrà esaminato e
non è escluso che debba anche comparire!1 Ma per che cosa poi? Speriamo
siano chiacchiere, ma non è escluso che ci arrivino. Questo sì creerebbe un bel
subbuglio fra i funzionari del MOOP. Esaminare il suo caso perché ha eseguito
tutte le istruzioni che riceveva dall'alto? E ora dovrebbe essere lui a
rispondere per chi dava quelle istruzioni? Ci mancherebbe solo questo! Ha
sempre torto il più debole.

* Di un lager.
1
Non dice « chiamato in giudizio »: è una cosa che la sua lingua si rifiuta di dire.

554
Ma l'allarme fu breve. No, nessuno dovrà rispondere. Nessun
caso verrà esaminato.
Forse il personale è stato un poco ridotto, qua e là, ma basta
avere un po' di pazienza e aumenterà di nuovo. Intanto gli agenti
della Sicurezza che non sono in età di pensione o che vogliono
arrotondarla, sono diventati scrittori, giornalisti, redattori,
conferenzieri antireligiosi, lavoratori ideologici, alcuni perfino
direttori di imprese. Hanno cambiato i guanti ma continuano a
dirigerci. Così è più sicuro. (Quanto a quelli che preferiscono
godersi la pensione, niente deve turbare la loro serenità. Per
esempio, il tenente colonnello a riposo Churdenko. Tenente
colonnello, ci dici niente! avrà senz'altro comandato un
battaglione! No, vi sbagliate, nel 1938 cominciò dalla gavetta, da
semplice secondino, reggeva la sonda che serviva a nutrire a
forza gli scioperanti della fame).
Intanto si scelgono e si distruggono, senza fretta, tutti i docu-
menti che ingombrano gli archivi: elenchi dei fucilati, ordini di
incarcerazione negli Šizo e nelle BUR, pratiche delle istruttorie
nei lager, rapporti di delatori, dati inutili sugli agenti esecutivi e i
soldati di scorta. Anche alla sezione sanitaria, nella contabilità,
dappertutto si possono trovare carte superflue, inutili tracce.

Verremo a sederci in silenzio al festino.


Anche da vivi non ci volevate.
Oggi noi siamo taciti e morti,
ma anche da morti ci temete voi.
Viktoria C., detenuta a Kolyma

Osiamo aprire bocca: infatti, perché sempre il più debole? E il


Servizio del Movimento allora? E più su dei guardiani, degli
agenti esecutivi e dei giudici istruttori? Quelli che si limitavano a
muovere l'indice? Quelli cui bastava proferire qualche parola da
una tribuna...
Ancora una volta... vediamo, com'è? - « I responsabili di
crimini mostruosi... in nessuna circostanza... giusto e meritato
castigo... niente può essere paragonato... si prefiggevano lo scopo
di annientare interi popoli... »
Ma…, zitti! Proprio per questo nell'agosto 1965, dalla tribuna

555
della conferenza ideologica (conferenza a porte chiuse sulla
direzione che conveniva imprimere alle nostre menti) fu pro-
clamato quanto segue: « È ora di ristabilire la nozione utile e
legittima di nemico del popolo ».

556
II I dirigenti cambiano, l'Arcipelago resta

C'è da credere che i lager speciali fossero tra le creature predi-


lette del tardo pensiero staliniano. Dopo tante ricerche educative
e punitive, era nato infine questo capolavoro della maturità:
questa organizzazione uniforme, numerata, rigidamente artico-
lata, psicologicamente già avulsa dal corpo della madrepatria,
fornita di un'entrata ma non di un'uscita, congegnata in modo tale
da inghiottire solo nemici per restituire in cambio unicamente
beni materiali e cadaveri. È difficile immaginare la sofferenza
che avrebbe provato, nella sua anima di creatore, il Lungimirante
Artefice se avesse dovuto essere testimone della bancarotta che
investì anche quest'opera grandiosa. Già lui vivente il sistema era
stato in preda a convulsioni, a repentine fiammate, si era coperto
di fessure - ma con tutta probabilità la prudenza aveva impedito
che di ciò gli si facesse rapporto. Il sistema dei lager speciali, che
all'inizio era inerte, scarsamente mobile, inoffensivo, subì in
breve un riscaldamento interno e nel corso di pochi anni passò
allo stato di lava vulcanica. Se il Corifeo fosse vissuto ancora un
anno o un anno e mezzo non sarebbe più stato possibile tenergli
nascoste quelle esplosioni, e il suo stanco pensiero senile avrebbe
dovuto assumere il peso di una nuova decisione: rinunziare alla
sua creatura prediletta e rimescolare di nuovo tutti i lager o, al
contrario,

557
coronare l'impresa facendo fucilare una dopo l'altra tutte le
lettere dell'alfabeto coi loro gruppi di mille detenuti.
Ma il Pensatore, pianto a calde lacrime e insopprim
insopprimibili sin-
ghiozzi, morìì poco prima. E ben presto, con la sua mano già
rigida di cadavere, si trascinò dietro con gran fracasso il suo
accolito ancor fresco e rubicondo, pieno di forze e di volontà, il
ministro di quegli Affari interni così vasti e ingarbug
ingarbugliati.
E la caduta del Capo dell'Arcipelago affrett
affrettò tragicamente lo
sfacelo dei lager speciali. (Che errore storico irreparabile! Sbu-Sbu
dellare il ministro degli Interni più intimi! Lordare di fango le
spalline color del cielo).
Gli straccetti coi numeri, che he costituivano la pi più grande
scoperta del pensiero carcerario del XX secolo, furono scuciti in
fretta, buttati via e dimenticati. E già questo tolse ai lager speciali
la loro severa uniformità. Ma questo non era ancora niente, se si
pensa che vennero toltee le inferriate dalle finestre delle baracche
e sfilati i lucchetti dalle porte, così che i lager speciali furono
privati delle piacevoli particolarità carcerarie che li
distinguevano dagli ITL. (Per quanto riguarda le sbarre,

558
la decisione era certamente stata troppo affrettata, ma non si
poteva indugiare oltre, i tempi esigevano che si prendessero al
più presto le distanze!) Chissà con quanto dispiacere, perfino la
BUR di pietra di Ekibastuz, che aveva resistito, contro i ribelli, fu
adesso demolita del tutto ufficialmente...1 Ma perfino questo non
era ancora niente, se si pensa che gli austriaci, gli ungheresi, i
polacchi, i romeni che si trovavano nei lager speciali furono
semplicemente rimessi in libertà, dall'oggi al domani, nonostante
i loro neri delitti, le loro pene di quindici o venticinque anni -
togliendo così agli occhi dei detenuti qualsiasi valore alle
condanne. Se si pensa che furono abolite le limitazioni alla
corrispondenza grazie alle quali, e solo a queste, i detenuti si
sentivano veramente dei sepolti vivi. Furono perfino autorizzati i
colloqui! Fa paura a dirlo: i colloqui! (Nel ribelle Kengir si
cominciarono addirittura a costruire, a questo scopo, delle casette
separate.) Quelli che fino a ieri erano lager speciali furono
sommersi da una tale ondata di liberalismo sfrenato che alle
detenute fu permesso di acconciarsi i capelli (e le scodelle
d'alluminio cominciarono a sparire dalla cucina per essere
trasformate in pettini metallici). E invece dei conteggi e dei
buoni di acquisto agli indigeni fu consentito di disporre di denaro
come tutti quanti e di servirsene per pagare i propri acquisti
come se vivessero fuori dalla zona.
Esseri scriteriati e incoscienti demolivano con le loro mani il
sistema che li nutriva, un sistema che avevano messo insieme
con pazienza, tessendo, legando, attorcigliando per decenni.
E credete che quei delinquenti inveterati si fossero almeno un
po' addolciti per tutti questi favori che ricevevano? Macché. Al
contrario, dimostrando così la propria ingratitudine e per-
versione, essi avevano coniato la parola offensiva, insensata e
profondamente ingiusta di « beriani » e avevano preso l'abitu-
dine, ogni volta che qualcosa non piaceva loro, di gettarla in
faccia alla coscienziosa scorta, ai pazienti guardiani e perfino a
quei tutori così solleciti del loro benessere che dirigevano il
lager. E questo non solo feriva il cuore degli agenti esecutivi,
1
Privandoci così della possibilità di aprirci un museo negli anni Ottanta.

559
ma, subito dopo la caduta di Berija, era anche pericoloso, perché
avrebbe potuto essere preso da qualcuno come spunto per
un'accusa.
Di conseguenza il capo di uno dei lager di Kengir (lager già
epurato dei ribelli che erano stati rimpiazzati da gente di
Ekibastuz) fu costretto a parlare così da una tribuna: « Ragazzi
(in quei brevi anni fra il 1954 e il 1956 fu ritenuto possibile
rivolgersi così ai detenuti), voi offendete il personale di custodia
e la scorta chiamandoli "beriani". Vi prego di smettere ». Prese
allora la parola il piccolo V.G. Vlasov e replicò: « Sentite questa
parola da qualche mese e vi siete già offesi? E io che da diciotto
anni mi sento dare del "fascista". Credete che non sia offensivo
per noi? ». E il maggiore promise che l'appellativo di fascista
sarebbe stato bandito. Chi vuole, dia.
Con tutte queste riforme distruttrici e portatrici di cattivi
frutti, si può ritenere che la storia particolare dei lager speciali si
sia conclusa con l'anno 1954 e quindi cessare per l'innanzi di
distinguerli dagli ITL.
Gli anni dal 1954 al 1956 furono ovunque, nell'Arcipelago
sconvolto, anni di lassismo e d'inaudita indulgenza, ed esso
conobbe forse la più grande libertà di tutta la sua storia, se si
escludono le case di pena per reati comuni della metà degli anni
Venti.
Istruzioni e ispettori facevano a gara per instaurare nei lager il
liberalismo più sfrenato. Le donne furono esentate dal taglio
degli alberi! Sì, questo lavoro fu riconosciuto, figuratevi, troppo
pesante per le donne (benché trent’anni di pratica ininterrotta
fossero lì a dimostrare il contrario). Fu ripristinata la liberazione
condizionale anticipata per chi aveva scontato due terzi della
pena. In tutti i lager si cominciò a pagare in denaro, e i detenuti si
precipitarono negli spacci; non c'erano più ragionevoli
limitazioni agli acquisti che del resto, dato il numero sempre
crescente di detenuti esentati dalla scorta armata, potevano essere
fatti anche nei negozi dell'abitato. Si installarono gli altoparlanti
della radio in tutte le baracche, si riempirono i detenuti di
giornali e giornali murali, si designò un responsabile alla
propaganda in ogni brigata. Vennero dei conferenzieri (dei

560
colonnelli!) a intrattenere i detenuti sugli argomenti più svariati,
perfino su come Aleksej Tolstoj avesse travisato la storia;
tuttavia per i dirigenti non era un'impresa facile raccogliere un
uditorio, non si potevano più usare i bastoni, bisognava far
ricorso a mezzi indiretti di azione e di persuasione. E quei
detenuti che entravano in sala non la smettevano un momento di
rumoreggiare, parlando di cose proprie senza badare ai con-
ferenzieri. Fu permesso ai detenuti di sottoscrivere il prestito ma
nessuno all'infuori dei benpensanti ne rimase commosso e gli
educatori si videro costretti a prenderli semplicemente a uno a
uno per il braccio per portarli fino al tavolo della sottoscrizione e
lì far loro sputare quei miseri dieci rubli (un rublo
Chruščeviano). Di domenica si cominciò a organizzare spettacoli
comuni che riunivano zona maschile e zona femminile: final-
mente un posto che gli zek frequentavano volentieri, acquistando
perfino, per l'occasione, delle cravatte allo spaccio.
Si videro ben presto tornare in vita cose che facevano parte
del tesoro più antico dell'Arcipelago: risuscitò quell'abnegazione,
quello spirito d'iniziativa di cui esso era vissuto ai tempi dei
grandi Canali. Furono creati dei « consigli di attivisti » che
comprendevano, come i comitati locali dei sindacati, una sezione
studio e produzione, una sezione cultura di massa e una sezione
vita pratica, la cui funzione principale era di lottare per
migliorare la produttività del lavoro e la disciplina. Furono
ripristinati i « tribunali di compagni » investiti del diritto di
distribuire biasimi, infliggere ammende e richiedere che il tale o
il tal altro fossero sottomessi a un regime più severo o privati del
beneficio dei due terzi.
Questi provvedimenti erano già stati di grande aiuto per la
Direzione, però in lager che non erano passati, come i nostri
lager speciali, per l'esperienza degli eccidi e delle sommosse.
Stavolta fu semplicissimo: il primo presidente di un consiglio di
attivisti (a Kengir) venne sgozzato, il secondo picchiato a sangue
e nessuno volle più far parte di un « Consiglio degli attivisti ». Il
capitano di fregata Burkovskij partecipò, durante questo periodo,
a un consiglio di attivisti, lo fece in tutta coscienza e per una
questione di principio, ma con grande pru-

561
denza; riceveva continuamente minacce di morte e frequentava le
riunioni della brigata dei banderisti per ascoltare la critica della
propria attività.
Ma gli spietati colpi del liberalismo facevano traballare sem-
pre più il sistema dei lager. Furono istituiti « lager a regime
alleggerito » (perfino Kengir ebbe il suo!): in sostanza i detenuti
avevano l'unico obbligo di dormire nella zona e si recavano al
lavoro senza scorta per l'itinerario e nell'ora che volevano (tutti
cercavano di uscire il più presto possibile e di rientrare il più
tardi possibile). La domenica un terzo dei detenuti era di libera
uscita prima di pranzo, un terzo dopo, e soltanto un terzo non
meritava la passeggiata.1
Il lettore si metta nei panni dei dirigenti dei lager e dica se era
possibile fare il proprio lavoro in queste condizioni, e se si
poteva contare di ottenere un qualche risultato.
Un ufficiale della MVD, che ebbi per compagno durante il mio
viaggio in treno in Siberia nel 1962, descrisse così tutto quel
periodo: « Una completa baldoria! Chi non aveva voglia di
lavorare, non lavorava. Avevano così tanti soldi che si compra-
vano il televisore ».2 Conservava di quell'epoca breve e tristis-
sima un pessimo ricordo.
Infatti non può venir niente di buono da una situazione in cui
un educatore è ridotto a domandare al prigioniero di fare questo
o di fare quello non avendo alle spalle la frusta, la BUR né la scala
graduata della fame.*
Eppure sembrava non bastasse. Fu lanciato contro
l'Arcipelago anche l'ariete della residenza fuori zona: i
prigionieri se ne andavano a vivere addirittura fuori dai reticolati,
potevano farsi una famiglia e una casa, veniva loro pagato un
salario come ai liberi, intero (nessuna trattenuta per la scorta, la
zona, o l'am-
1
Questo non significa che fosse dappertutto una tale pacchia. Restarono dei lager di
punizione come quello « di tutta l'Unione » ad Andzeba vicino a Bratsk, dove imperversava
sempre Mišin, il sanguinario capitano dell'Ozerlag. Nell'estate del 1955 contava circa 400 ospiti
(tra cui Tenno). Ma anche là i detenuti finirono per diventare padroni del lager.
2
Se non lavoravano, da dove venivano i soldi? Se si era nel Nord, e per di più nel 1955,
da dove venivano quei televisori? Ma io non lo interrompevo, ben contento di sentirlo parlare.
* Si veda il sistema descritto in Arcipelago GULag 2°, p. 208.

562
ministrazione del lager), e l'unico legame con il lager rimaneva
l'obbligo di andarci due volte la settimana per farsi « spuntare ».
Era davvero la fine! Fine del mondo o fine dell'Arcipelago, o
dell'uno e dell'altro insieme. E ci toccò sentire i nostri organismi
giuridici esaltare la residenza fuori zona come la scoperta
più umana e moderna del regime comunista!1
Dopo tanti colpi sembrava non rimanesse altro da fare che
sciogliere i lager. E consumare così la rovina di quella gran cosa
che era stata l'Arcipelago, rovinare, disperdere e demoralizzare
centinaia di migliaia di agenti esecutivi con mogli, figli e animali
domestici, ridurre a niente la loro anzianità, il loro grado, il loro
irreprensibile servizio!
E il processo pareva già iniziato: cominciarono ad arrivare nei
lager delle « commissioni del Soviet supremo », dette più
semplicemente « di alleggerimento », le quali, scavalcando le
autorità del lager, si riunivano nella baracca della direzione e
redigevano ordini di scarcerazione con una tale irresponsabile
leggerezza da credere che si trattasse di mandati di arresto.
Una minaccia mortale incombeva sull'intero ceto degli agenti
esecutivi. Bisognava intraprendere qualcosa! Bisognava lottare.

Ogni grande evento sociale in URSS è votato a una o all'altra di


queste sorti: o sarà sottaciuto, o sarà travisato. Non so citare un
solo evento di rilievo nel paese che sia sfuggito a tale alternativa.
Così l'intera esistenza dell'Arcipelago: per lo più veniva sotta-
ciuta, e quando se ne scriveva qualcosa si mentiva; questo è vero
per i tempi dei grandi Canali non meno che per le commissioni di
alleggerimento del 1956.
Bisogna dire che non avremmo avuto neanche bisogno che i
giornali ci infarcissero la testa, né che ci costringesse una qual-
che necessità esteriore, per contribuire alla menzogna sentimen-
talistica da cui sono state avvolte queste commissioni. Infatti,
1
Scoperta comunque già descritta da Cechov in Sachalin (che parla anche dei crediti ai
detenuti e della liberazione anticipata condizionale); i galeotti della categoria « in via di
emendamento » avevano il diritto di costruirsi una casa e di sposarsi.

563
come non commuoversi!: abituati ad essere assaliti perfino dal-
l'avvocato della difesa, adesso era dalla nostra parte anche il
pubblico ministero. Anelavamo alla libertà, sentivamo che stava
cominciando una nuova vita, lo vedevamo anche dai cambia-
menti nel lager ed ecco che una miracolosa commissione inve-
stita di pieni poteri, dopo aver parlato cinque-dieci minuti con
ciascuno dì noi, consegnava un biglietto ferroviario e il passa-
porto (con il permesso di soggiorno a Mosca per certuni)!
Cos'altro, se non lodi, poteva sfuggire dai nostri petti estenuati,
eternamente stretti dalla morsa del gelo, rantolanti, di
prigionieri?
Ma innalziamoci appena appena al di sopra di questa gioia
febbrile, che ci induceva a correre a ficcare in gran fretta i nostri
stracci nel tascapane; era davvero così che si sarebbe dovuto
metter fine ai crimini staliniani? Non avrebbe dovuto questa
commissione presentarsi davanti a tutti i detenuti riuniti,
scoprirsi il capo e dire:
« Fratelli! Siamo stati mandati dal Soviet supremo a chiedervi
perdono. Per anni e decenni avete languito qui, senza colpa
alcuna, mentre noi ci riunivamo in splendide sale, sotto lampa-
dari di cristallo, senza mai ricordarci di voi. Abbiamo docilmente
sancito tutti i decreti inumani del Cannibale, siamo complici dei
suoi assassinii. Accettate dunque, se solo potete, il nostro tardivo
pentimento. Il cancello è aperto, siete liberi. Là, sulla pista
d'atterraggio si stanno posando aerei con medicinali, prodotti
alimentari e vestiario caldo per voi. Sugli aerei ci sono anche dei
medici »?
In entrambi i casi si tratta di una liberazione, ma è presentata
in modo diverso, non ha lo stesso senso. La commissione « di
alleggerimento » è un portinaio zelante e amante della pulizia
che segue le tracce del vomito staliniano e le ripulisce con cura,
punto e basta. Non è così che si possono dare nuove basi morali
alla vita della società.
Più in là cito il giudizio di A. Skripnikova con il quale sono
perfettamente d'accordo. I detenuti sono convocati ad uno ad uno
(come al solito, si preferisce avere a che fare con singoli
individui che con gruppi) dinanzi alla commissione riunita in un
ufficio. Ognuno si sente porre alcune domande sulla sostanza
564
del proprio caso giudiziario. Sono formulate con benevolenza e
cortesia, ma il loro scopo è di portare il detenuto a riconoscere
la propria colpa (non è il Soviet supremo ad essere colpevole,
ma ancora e sempre lui, il disgraziato prigioniero!) Egli deve
tacere, deve abbassare la testa, deve mettersi nella posizione di
chi riceve il perdono, non di chi lo da. Ossia, facendo balenare
davanti ai suoi occhi la libertà, si ottiene ora da lui ciò che
neanche la tortura era riuscita a strappargli. E perché? Lo scopo è
importante: perché torni in libertà un essere timoroso. E poi,
secondo vantaggio, i verbali della commissione testimonieranno
davanti alla Storia che la maggioranza dei detenuti era colpevole,
e che le mostruose illegalità dipinte da alcuni non sono mai
esistite. (Può darsi vi fosse inoltre un piccolo calcolo finanziario:
senza la riabilitazione non ci sarà da pagare l'indennizzo ai
riabilitati.)1 Presentata in questa forma la liberazione dei detenuti
non faceva esplodere il sistema dei lager in quanto tale, non
ostacolava nuove immatricolazioni (che non cessarono neppure
negli anni 1956-1957), non creava alcun obbligo di liberare a
loro volta le « matricole ».
E chi, per un incomprensibile orgoglio, rifiutava di ricono-
scersi colpevole? Rimaneva dentro. La cosa fu più frequente di
quanto si possa credere. (Le donne del Dubrovlag, che si rifiuta-
rono nel 1956 di dichiararsi pentite, furono radunate e spedite nei
lager di Kemerovo.)
La Skripnikova racconta il caso seguente. Un'ucraina occiden-
tale si era presa dieci anni perché il marito era un banderista;
adesso esigevano da lei che ammettesse di esser finita dentro
perché suo marito era un bandito. « No, non lo dirò. » « Dillo e
sarai libera. » « No, non lo dirò, non è un bandito, è dell'OUN. » «
Beh, visto che non vuoi, resta pure! » (Il presidente della
commissione si chiamava Solov'ev). Passarono alcuni giorni e
venne a visitarla il marito, che ritornava dal Nord. La sua
1
A proposito, all'inizio del 1956 c'era un progetto di indennizzo che riguardava tutti gli anni
di detenzionc, cosa perfettamente naturale, che era stata applicata in altri paesi dell'Europa
orientale. Ma la gente da indennizzare, là, non era così numerosa, e per periodi molto più brevi!
Quando si fecero i calcoli da noi, si rabbrividì: « Sarebbe la rovina dello Stato! ». E ci si limitò a
un indennizzo di due mesi.

565
condanna era a venticinque anni, ma aveva riconosciuto senza
difficoltà di essere un bandito ed era stato graziato. Egli non
apprezzò affatto la fermezza di sua moglie, inveì anzi contro di
lei: « Potevi dire che sono un diavolo con la coda e con gli
zoccoli anche, e che li avevi pure visti. E adesso come faccio, da
solo, con la casa e i figli? ».
Ricordiamo che anche la Skripnikova rifiutò di riconoscersi
colpevole e rimase dentro altri tre anni.
Così l'era della libertà arrivò sull'Arcipelago in toga di pro-
curatore.
Eppure il panico degli agenti esecutivi non era immotivato; gli
anni 1955 e 1956 videro nel cielo dell'Arcipelago una straordi-
naria congiunzione astrale. Furono anni fatali, e avrebbero potuto
essere gli ultimi della sua esistenza.
Se gli uomini che erano allora investiti del supremo potere e
avevano il gravoso privilegio di disporre di una completa infor-
mazione sul proprio paese fossero stati imbevuti, penetrati - se
non altro - dalla loro propria Dottrina, ma penetrati davvero, in
modo totale, senza distinzione di « ambito della vita privata », in
modo assolutamente disinteressato, non avrebbero dovuto allora
- allora o mai più - guardarsi intorno, inorridire e scoppiare in
singhiozzi? Chi li lascerà entrare nel « regno del comunismo »
con quel sacco sanguinolento in spalla? Trasuda e s'allarga in
macchie scarlatte sulla loro schiena. I politici sono stati rilasciati
e va bene; ma chi aveva fabbricato milioni di delinquenti
comuni? Non furono i rapporti di produzione? Non fu
l'ambiente? Non fummo tutti noi? Non foste voi?
E dunque bisognava gettare alle ortiche il programma spa-
ziale, smettere di preoccuparsi della flotta di Sukarno e della
guardia personale di Kwame Nkrumah! Fermarsi almeno un
momento a grattarsi la testa: che fare? Perché le nostre leggi, le
migliori del mondo, sono ripudiate da milioni di nostri cittadini?
Che cosa li costringe a infilare il collo sotto questo giogo
mortale, e tanto più numerosi quanto più questo è insopportabile?
Come fare perché questa fiumana inaridisca? Forse le nostre
leggi non sono quelle che dovrebbero essere? (E a questo

566
punto non si potrebbe fare a meno di pensare alla scuola tar-
tassata, alla campagna lasciata nell'abbandono e a tante altre
cose che si chiamano semplicemente ingiustizia, senza
aggiungere « sociale »). Come richiamare in vita chi è già caduto
in trappola? Non con un gran gesto facile, come l'amnistia
Vorošilov ma esaminando con cuore sincero i fatti, la personalità
di ciascun caduto.
Perché, in definitiva, dobbiamo metter fine all'Arcipelago o
no? Oppure è eterno! Per quarant'anni abbiamo portato questo
marciume in corpo, non vi basta?
A quanto pare, no. No, non basta. Siamo troppo pigri per sfor-
zare le meningi, e nessuna eco risuona nell'anima. Rimanga pure
l'Arcipelago per altri quarant'anni e noi intanto ci occuperemo
della diga di Assuan e dell'unità araba!
Gli storici che si occuperanno del regno di Nikita Chruščev,
questi dieci anni durante i quali ci sembrò all'improvviso che
certe leggi fìsiche alle quali eravamo abituati avessero smesso di
funzionare - quando gli oggetti si misero stranamente a sfidare le
forze dei campi magnetici e le leggi della gravità - quegli storici
non potranno fare a meno di stupirsi per il gran numero di
possibilità che si concentrarono per un breve periodo nelle mani
di quell'uomo e per l'uso ch'egli ne fece, baloccandosi con esse
come per gioco, e poi abbandonandole spensieratamente.
Rivestito della più grande potenza che la nostra storia abbia mai
conosciuto dopo quella di Stalin - una potenza indebolita, certo,
ma comunque immensa - egli l'ha utilizzata come l'orso della
favola di Krylov, che rotolava di qua e di là il suo ceppo nella
radura, senza scopo né profitto alcuno. La liberazione del paese,
che egli poteva tracciare cinque volte più nettamente e
approfondire cinque volte di più, egli l'abbandonò come fosse
stata una bagattella, senza capire il proprio compito storico, l'ab-
bandonò per il cosmo, il granoturco, i missili di Cuba, gli ulti-
matum di Berlino, per dedicarsi alla persecuzione della chiesa, a
spaccare in due i comitati provinciali, e a combattere i pittori
astratti.
Chruščev non portò mai nulla fino in fondo e tanto meno la
causa della liberazione del suo popolo. Ci fu bisogno di aizzarlo

567
contro l'intelligencija? Niente di più semplice. Si voleva che le
stesse mani che avevano appena abbattuto i lager di Stalin si
applicassero ora a rialzarne le mura? Detto fatto.
Fu nel 1956, nell'anno del XX congresso, che furono adottate
le prime disposizioni restrittive concernenti il regime dei lager! E
l'opera continuò nel 1957, anno in cui Chruščev ebbe accesso, da
solo, al pieno potere.
Ma il ceto degli agenti esecutivi non era ancora soddisfatto. E,
presentendo la vittoria, passò al contrattacco: non si poteva
continuare così. Il sistema dei lager è il sostegno del potere
sovietico e lo si lascia perire!
Naturalmente la loro azione si sviluppò in modo discreto,
senza alcuna pubblicità: alla tavola di un banchetto, nel salone di
un aereo, durante una gita in barca, in campagna, eppure, di tanto
in tanto, qualcosa ne trapelava all'esterno. Una volta l'intervento
di B.I. Samsonov alla Sessione del Soviet supremo del dicembre
1956: i detenuti vivono troppo bene, sono contenti (!) del cibo
(mentre invece dovrebbero essere costantemente scontenti...),
sono trattati con troppi riguardi. (E in questa assise che non
aveva ammesso le colpe passate, non si trovò evidentemente
nessuno che rispondesse per le rime a Samsonov), un'altra
l'articolo L'uomo dietro le sbarre (1960).*
E senza resistere a queste pressioni; senza approfondire nulla;
senza considerare che, malgrado tutto, la criminalità non era
aumentata negli ultimi cinque anni (e, anche se fosse aumentata,
è nella struttura dello Stato che bisognava cercarne le cause);
senza tracciare un nesso fra questi nuovi provvedimenti e la
propria fede nel trionfale avvento del comunismo; senza studiare
la questione nei suoi particolari; senza andare a guardare con i
propri occhi, quello « zar » che aveva « passato tutta la sua vita
in viaggio » firmò senza difficoltà l'ordine che gli tendevano,
ordinando così i chiodi grazie ai quali il patibolo, presto
ricostruito, ritrovò la solidità e la forma di un tempo.
E il tutto avvenne in quello stesso anno 1961 in cui Nikita
fece un ultimo sforzo, il suo canto del cigno, per strappare da
* Si veda a p. 549.

568
terra il carro della libertà e farlo salire verso le nuvole. Precisa-
mente nel 1961, l'anno del XXII congresso, fu promulgato il
decreto che istituiva nei lager la pena di morte per « gli atti di
terrorismo contro i detenuti emendati (cioè contro i delatori) e il
personale di custodia » (non erano mai stati attaccati!) e venne
approvata dalla Corte suprema in seduta plenaria (nel giugno
1961) la creazione di quattro regimi di lager, che non erano più
quelli di Stalin, ma quelli di Chruščev.
Quando saliva alla tribuna del congresso per lanciare il suo
ultimo attacco contro la tirannia carceraria di Stalin, Nikita aveva
appena consentito che fossero serrate le viti di un sistema che
non era da meno del precedente. E credeva sinceramente che
tutto questo fosse compatibile e conciliabile!.,.
I lager d'oggi sono quelli sanciti dal partito alla vigilia del
XXII congresso. Da allora sono rimasti tali e quali.
La differenza coi lager di Stalin non è data dal regime di
detenzione, bensì dalla composizione degli effettivi: non ci sono
più milioni e milioni di Cinquantotto. Ma, come prima, i detenuti
si contano a milioni e, come prima, molti sono esseri senza
difesa, vittime di una giustizia iniqua e cacciati nei lager
unicamente perché il sistema vuole sopravvivere ed essi rappre-
sentano il suo nutrimento.
I dirigenti cambiano, l'Arcipelago rimane.
Rimane perché questo regime statale non potrebbe sussistere
senza l'Arcipelago. Se si liquidasse questo, anche quello cesse-
rebbe di esistere.

Non esistono storie senza fine. Ogni storia deve a un certo


punto essere interrotta. Nella misura delle nostre possibilità -
modeste e insufficienti - abbiamo seguito la storia
dell'Arcipelago dalle salve purpuree che segnarono la sua nascita
fino alla rosea nebbia delle riabilitazioni. Con questo glorioso
periodo di mitigazione e disgregamento alla vigilia del nuovo
inasprimento del regime dei lager sotto Chruščev e alla vigilia
del nuovo codice penale consideriamo conclusa la nostra storia.
Il seguito troverà altri storici tra la gente che, per sua disgrazia,
conosce meglio di noi i lager di Chruščev e del dopo-Chruščev.

569
Anzi si sono già trovati: sono S. Karavanskij1 e Anatolij
Marčenko.2 E ne emergeranno ancora altri perché presto, molto
presto si aprirà per la Russia l'epoca in cui tutto sarà di pubblica
ragione.
Alla lettura del libro di Marčenko, per esempio, perfino il
cuore indurito di un vecchio dei lager si stringe per il dolore e il
raccapriccio. E la sua descrizione della detenzione d'oggi ci
mostra una Prigione di Tipo Nuovo, ancora più degna di questo
nome di quella di cui parlavano i nostri testimoni. Veniamo a
sapere che il Corno, il secondo corno della detenzione (si veda
Parte prima, cap. XII) svetta con una punta ancor più acuminata e
trafigge ancor più aspramente il collo del prigioniero. Facendo il
confronto fra i due edifici della prigione politica di Vladimir,
quello che risale ai tempi degli zar e quello sovietico, Marčenko
mette in evidenza dove s'interrompe l'analogia tra le due epoche:
l'edificio degli zar è asciutto e caldo, quello sovietico umido e
freddo (nelle celle ti si congelano le orecchie*, e non ci si può
mai togliere il giaccone); le finestre ereditate dal vecchio regime
sono state chiuse per tre quarti da mattoni sovietici - senza
dimenticare le museruole.

Gli agenti della Sicurezza dello Stato costituiscono una forza,


e non cederanno mai con le buone. Se hanno resistito nel '56,
credete, resisteranno ancora e ancora.
Non costituiscono soltanto gli organi del lavoro correttivo. Né
del ministero preposto al Mantenimento dell'Ordine. Abbiamo
già visto come essi siano fortemente appoggiati tanto dai giornali
che dai deputati.
Infatti essi sono l'ossatura. L'ossatura di molte cose.
Ma non posseggono unicamente la forza, hanno anche degli
argomenti. Non è tanto facile discutere con loro.
Io mi ci sono provato.
Ossia, non avevo mai avuto l'intenzione di farlo, ma mi ci
hanno spinto le lettere, lettere di indigeni d'oggi, che io non
1
S. Karavanskij, Chodataistvo (L'istanza), Samizdat 1966.
2
A. Marčenko, Moi pokazanija (La mia testimonianza), Samizdat 1967.

570
mi aspettavo affatto. Si indirizzavano a me pieni di speranza:
dovevo parlare! dovevo prendere le loro difese! dovevo ottenere
per loro delle condizioni più umane. A chi ne dovevo parlare?
senza dire che non mi avrebbero ascoltato... Se avessimo la
libertà di stampa avrei pubblicato tutto quanto; ecco qua, le cose
sono state dette, adesso discutiamone!
E invece, eccomi (nel gennaio 1964) trasformato in un postu-
lante clandestino e timido che si aggira con passo incerto nei
corridoi dei vari enti, si china per parlare davanti agli sportelli
degli uffici che rilasciano i permessi avvertendo su di sé lo
sguardo di disapprovazione e di sospetto dei militari di servizio.
Uno scrittore che si occupa di problemi pubblici, se vuole otte-
nere che degli uomini appartenenti alla sfera governativa si de-
gnino, tanto occupati come sono, di dargli ascolto per una
mezz'ora, deve chiederlo come un onore e un favore insigni.
Tuttavia non è neanche lì la difficoltà principale. Il più diffi-
cile per me è, come allora, alla riunione dei brigadieri di Eki-
bastuz, decidere che cosa devo dire loro. E in quale lingua.
Il mio vero pensiero, come è esposto in questo libro, sarebbe
pericoloso e perfettamente inutile rivelarlo. Non otterrei altro
risultato che rimetterci la testa nel sordo silenzio di un ufficio: la
società non udrebbe la mia voce, gli assetati di giustizia non ne
saprebbero mai niente e io non sposterei di un millimetro le cose.
Ma allora, cosa dire? Mentre varco le loro soglie di marmo,
scintillanti come specchi, mentre salgo le loro scale dai carez-
zevoli tappeti, mi impongo un certo numero di pastoie, accetto di
avere la lingua, le orecchie, le palpebre, trapassate da fili di seta
che vengono tutti a fissarsi alle mie spalle, alla pelle della
schiena e a quella del ventre. Devo, come minimo, ammettere
questi princìpi:
1. Gloria al Partito per tutto quello che è stato, è e sarà!
(Dunque la politica penitenziaria nel suo insieme non può essere
sbagliata. Io non devo osare di dubitare della necessità
dell'Arcipelago. E neanche affermare che « la maggior parte dei
detenuti è innocente »).

571
2. Gli alti funzionari con i quali converserò sono tutti devoti
alla loro missione, sono pieni di premure per i detenuti. Non si
possono accusare d'insincerità, di indifferenza, di scarsa infor-
mazione (poiché si dedicano anima e corpo al loro lavoro, come
possono ignorare qualcosa!)
Assai più sospetti sono i motivi del mio intervento: chi sono,
io? perché mi occupo di queste cose, se non rientra nei miei
obblighi professionali? Non ci avrò qualche sporco interesse?...
Perché m'immischio in queste faccende, se il Partito non ha
bisogno di me per vedere tutto e sistemare ogni cosa per il
meglio?
Per avere un aspetto un po' più solido scelgo il mese in cui
sono stato proposto per il premio Lenin ed ecco che mi muovo
come una pedina piena di speranza di diventare dama.

Soviet supremo dell'URSS, Commissione delle proposte


legislative. Vengo a sapere che questa commissione è impegnata
già da parecchi anni a elaborare il nuovo Codice del Lavoro
correttivo, destinato a reggere tutta la vita futura dell'Arcipelago
e a sostituire quello del 1933, un codice che è esistito senza
esistere e che forse non è mai stato neanche redatto. Mi
organizzano un incontro con questi alti personaggi affinchè io,
reduce dall'Arcipelago, possa fare conoscenza con la loro
saggezza e presentare loro gli orpelli delle mie elucubrazioni.
Sono in otto. Quattro di loro stupiscono per la giovane età: al
massimo questi ragazzi avranno appena finito gli studi superiori,
forse neanche. Come è rapida la loro scalata al potere! Con quale
disinvoltura si tengono in questo palazzo di marmi e di parquet,
dove io sono stato ammesso con mille precauzioni. Il presidente
della commissione, Ivan Andreevič Babuchin, è un uomo
anziano, la bonarietà in persona. Si ha l'impressione che se stesse
a lui tutti gli abitanti dell'Arcipelago sarebbero rinviati domani
stesso alle loro case. Ma il suo ruolo qui è questo: durante l'intera
conversazione, rimarrà seduto in disparte, senza dire niente. I più
attivi sono due vecchietti, due vecchietti alla Griboedov, di quelli

572
tali e quali, fissati dalla sclerosi su quello che hanno imparato
una volta per tutte. Giurerei che dal 5 marzo 1953 non hanno
aperto un giornale perché nulla poteva più accadere che avesse la
minima influenza sulle loro idee! Uno di essi porta una giacca
azzurra: mi sembra di vedere un'uniforme di corte dei tempi di
Caterina II, vi distinguo perfino la traccia che ha lasciato, quando
ne è stata svitata, la grande stella d'argento che doveva coprirgli
una buona metà del petto. I due vecchietti non mi approvano
assolutamente fin dal momento in cui varco la soglia,
disapprovano me e la mia visita, ma hanno deciso di mostrarsi
pazienti.
È difficile parlare quando si hanno troppe cose da dire. Inol-
tre, sono tutto trafitto dai fili e li avverto a ogni mossa.
Tuttavia ho pronta la tirata principale e mi sembra che non
contenga nulla che possa esercitare una trazione sui fili. Voglio
dir questo: da dove viene questa idea (non intendo dire che venga
da loro) secondo la quale c'è rischio che i lager diventino luoghi
di villeggiatura, e se non si lasciano in preda al freddo e alla
fame vi si instauri una sorta di beatitudine? Li prego di
immaginare, sebbene manchi loro un'esperienza diretta, la fitta
palizzata che ergono attorno al detenuto le privazioni e punizioni
che derivano dalla sua stessa condizione; vive lontano dai luoghi
nativi; vive con gente con la quale non vorrebbe vivere; non vive
con quelli che vorrebbe vicini: la famiglia, gli amici; non vede
crescere i propri figli; è privato dell'ambiente abituale, della
propria casa, della propria roba, dell'orologio da polso; il suo
nome è perduto e infamato; è privo della libertà di movimento; di
solito non lavora secondo la sua specialità; avverte di continuo la
pressione di gente estranea e a lui ostile, di altri prigionieri con
esperienza, vedute, e abitudini diverse dalle sue; è privato
dell'influenza mitigatrice dell'altro sesso (per non parlare poi
dell'aspetto fisiologico); e perfino l'assi-
* Dalla commedia L'ingegno che guaio!

573
stenza medica è incomparabilmente peggiore. In che cosa tutto
ciò ricorda una villeggiatura sul mar Nero? Perché tanta paura
che lo diventi?
No, l'idea non li scuote. Sono saldi come prima sulle loro
sedie.
Allarghiamo ancora: vogliamo restituire questa gente alla
società? Perché, allora, li facciamo vivere come dannati? Perché
i regimi consistono nell'umiliare sistematicamente i prigionieri e
logorarli fisicamente? Quale interesse ha lo Stato di farne degli
invalidi?
Ecco, ho esposto il mio pensiero. Ed essi mi spiegano il mio
errore: mi figuro male il contingente odierno, giudico in base alle
mie impressioni sul passato, sono rimasto arretrato rispetto alla
vita. (Ecco il mio punto debole: infatti io non vedo chi è dentro
oggi.) Sono dei recidivi isolati e per loro tutto ciò che ho
elencato non costituisce affatto una privazione. La sola cosa che
possa venire a capo di questa gente sono i regimi attuali. (I fili
tirano, tirano; loro sono più competenti di me, sanno meglio loro
chi è dentro.) Restituirli alla società? Sì, certamente, certamente,
dicono con voce legnosa i vecchietti e quello che sento è: no,
naturalmente, finiscano pure di crepare laggiù, saranno meno
fastidi per noi e anche per voialtri.
E i regimi? Uno dei vecchietti reduci di Očakov - è procura-
tore, è quello vestito di celeste con la stella sul petto, ha i capelli
bianchi e radi ricciolini — assomiglia perfino un poco a
Suvorov.
« Abbiamo già cominciato a vedere dei risultati con l'introdu-
zione dei regimi severi. Invece di duemila assassinii all'anno
(qui si possono dire queste cose) ne abbiamo solamente qualche
diecina. »
Una cifra importante, l'annoto senza farmi accorgere. Sarà
senz'altro il maggior risultato di tutta la visita.
Chi sono i detenuti! Per discutere dei regimi occorrerebbe
naturalmente sapere chi è dentro. Occorrerebbero diecine di psi-
cologi e giuristi, che andassero nei lager e potessero intrattenersi
liberamente con i detenuti, poi se ne potrebbe discutere. Per

574
l'appunto, i miei corrispondenti non scrivono mai per quale
ragione sono finiti dentro, loro e i loro compagni.1
La parte generale della discussione è chiusa, passiamo alle
questioni particolari. Ma anche senza di me è tutto chiaro per la
commissione, è già tutto deciso, questa gente non ha nessun
bisogno di me, provano solo una leggera curiosità nei miei
riguardi.
I pacchi? Non più di 5 chilogrammi, secondo la scala in
vigore adesso. Propongo loro di raddoppiare almeno il numero
dei pacchi autorizzati e di portare il peso massimo a 8 chilo-
grammi. « Quelli fanno la fame, capite! chi ha mai rieducato la
gente con la fame? »
« Come, fanno la fame? » s'indigna unanimemente la commis-
sione. « Noi ci siamo stati, abbiamo visto come portano via il
pane avanzato a camionate! » (Per i maiali dei guardiani?)
Cosa devo fare?. Gridare: «Mentite! Non può essere! » ma
subito un dolore acuto mi attraversa la lingua, legata, da un filo
che mi passa sulla spalla, al di dietro. Non devo venir meno ai
princìpi che mi sono dato.: essi sono ben informati, sinceri e
premurosi. Mostrare loro le lettere dei miei zek? Ai loro occhi
non avrebbero alcun valore e quei pezzetti di carta sgualciti e
logori sarebbero ridicoli e assurdi sulla tovaglia di velluto rosso
che copre la tavola.
« Ma lo Stato non ci perderebbe niente se i pacchi fossero di
più! »
« E chi si varrà di questo diritto? - obiettano. - Principalmente
le famiglie ricche (qui si permettono di adoperare la parola «
ricchi », perché occorre ragionare da uomini di Stato realisti). Poi
i detenuti ladri che sono riusciti a mettere al sicuro la refurtiva
prima di essere presi. Dunque aumentare il volume dei pacchi
significherebbe sfavorire le famiglie lavoratrici. »
1
Come farsi un'idea di tutti quei recidivi così diversi? Nella colonia di Tavda c'è un ex
ufficiale zarista di 87 anni, certamente un «bianco». Nel 1962 ha finito di scontare 18 anni della
seconda ventina. Una bella barba a ventaglio, lavora come controllore in una fabbrica di guanti.
Forse, malgrado tutto, quarant'anni di prigione sono un po' tanti per espiare delle convinzioni
giovanili? E quanti sono questi destini, tutti così dissimili! Bisognerebbe conoscere ciascuno di
essi per poter giudicare del regime applicabile a tutti.

575
Come mi tagliano i fili, come mi dilaniano! È una condizione
inviolabile: gli interessi degli strati lavoratori innanzitutto. La
stessa commissione è lì solo per quello, per servire gli strati
lavoratori.
Non credevo di essere così poco pronto alla replica. Non so
come obiettare. Dire: « No, non mi avete convinto » e infischiar-
sene? Cosa ho, in definitiva, a che fare con loro?
« Lo spaccio! » insisto. « Dove sta il principio socialista della
retribuzione? Se hai guadagnato devi ricevere il dovuto. »
« Bisogna pur che si costituiscano un fondo per la liberazione!
» mi obiettano. « Altrimenti all'uscita si faranno mantenere dallo
Stato. »
Sì, l'interesse dello Stato innanzi tutto: c'è un filo per questo,
impossibile muoversi. E non posso proporre che la paga sia
aumentata a spese dello Stato.
« Almeno le domeniche siano consacrate al riposo! »
« È previsto, lo specifichiamo. »
« Ma nelle "zone" ci sono diecine di sistemi per rovinare la
domenica alla gente. Date disposizioni perché ciò non avvenga. »
« Il Codice non può contenere regolamentazioni così mi-
nuziose. »
La giornata lavorativa è di otto ore. Dico loro qualcosa, fiac-
camente, a proposito delle sette ore ma in cuor mio mi sembra di
esagerare: non son più le dodici ore e neanche le dieci, cosa si
vuole ancora?
« La corrispondenza è un legame tra il detenuto e la società
socialista (ecco come ho imparato ad argomentare!). Non la
limitate. »
Ma non possono rivedere le disposizioni. È già fissata una
scala, meno severa di quella che avevamo conosciuto noi. Mi
mostrano anche quella dei colloqui, ivi compresi quelli « perso-
nali » di tre giorni, noi non ne avevamo per anni interi, dunque è
sopportabile. La loro scala mi sembra addirittura generosa, mi
trattengo a stento dal lodarla.
Sono stanco. Mi sento tutto cucito, non posso muovermi. Qui
sono inutile. Me ne devo andare.

576
E in generale, in questa stanza luminosa e festosa, seduto in
una di queste poltrone e cullato dai loro discorsi sussurranti, i
lager non sembrano più così orribili, sembrano anzi una cosa
ragionevole. Ecco, portano via il pane a camionate... Si dovrà pur
impedire a quegli uomini terribili di avventarsi contro la società?
Rivedo i ceffi dei delinquenti... Manco da dieci anni, come posso
indovinare chi è dentro adesso? I nostri, i politici, a quanto pare
sono stati rilasciati. Le minoranze etniche pure...
Il secondo degli odiosi vecchietti vorrebbe sapere cosa ne
penso degli scioperi della fame: non posso certamente non
approvare l'alimentazione forzata con la sonda, visto che la
razione somministrata in questo modo è più ricca della sbobba?1
Mi rizzo sulle zampe posteriori e urlo che il detenuto ha
diritto non soltanto a fare lo sciopero della fame, poiché è il suo
unico mezzo di difesa, ma anche a morire di fame.
Le mie argomentazioni sembrano loro assurde. Io d'altra parte
sono tutto cucito dentro: non posso certo spiegar loro il nesso fra
lo sciopero della fame e l'opinione pubblica del paese.
Me ne vado stanco, disfatto; vacillo addirittura un poco, men-
tre essi non sono minimamente scossi. Faranno tutto a modo loro
e il Soviet supremo approverà all'unanimità.

Vadim Stepanovič Tikunov, ministro della Tutela dell'Ordine


Pubblico. Fantastico! io, il misero galeotto ŠČ-232, vado dal mi-
nistro degli interni a fargli una lezione sul modo di tenere
l'Arcipelago!...
Quando ci si avvicina all'ufficio del ministro, tutti i colonnelli
che si incontrano hanno la testa tonda e un corpo bianco e ben
curato, ciò che non gli impedisce di essere molto vivi nei loro
movimenti. Nella stanza del segretario principale non ci sono
porte che conducano oltre. In compenso c'è un enorme armadio a
vetri e specchi, con tendine di seta increspata dietro ai vetri; vi
entrerebbero due uomini a cavallo ed è in realtà l'entrata nel
gabinetto del ministro. Una stanza dove troverebbero
comodamente posto duecento persone.
1
Soltanto da Marčenko verremo a sapere il loro nuovo procedimento: versare attraverso la
sonda dell'acqua bollente per rovinare l'esofago.

577
Il ministro è d'una grassezza malsana, con una grossa ma-
scella; la faccia a trapezio si va allargando verso il mento.
Durante tutta la conversazione egli è rigidamente ufficiale, mi
ascolta senza il minimo interesse, per dovere.
Mi lancio nella solita tirata sulla « villeggiatura ». E di nuovo
le stesse questioni d'ordine generale: non è nostro dovere comune
(suo e mio!) correggere i detenuti? (Quello che io penso della «
correzione » l'ho detto nella Parte quarta.) Perché la svolta del
1961? Perché i quattro regimi? Gli ripeto cose noiose, tutto
quello di cui ho parlato in questo capitolo, a proposito del cibo,
lo spaccio, i pacchi, il vestiario, il lavoro, gli arbitrii, gli agenti
esecutivi. (Non ho osato portare le lettere per paura che me le
requisiscano seduta stante, ma ne ho annotato alcuni passi, senza
indicare il nome degli autori.) Gli parlo per una quarantina di
minuti, forse un'ora, troppo a lungo, mi meraviglio io stesso che
egli mi ascolti.
Di tanto in tanto m'interrompe, ma sempre molto rapidamente,
per approvare o respingere un'affermazione. Non obietta mai in
modo violento. Mi aspettavo un muro d'orgoglio, ma egli è assai
più mite. È d'accordo con me su molti punti! È d'accordo che le
somme da spendere allo spaccio siano aumentate; che i detenuti
ricevano più pacchi da casa, e senza che la loro composizione sia
regolamentata, come vuol fare la commissione delle proposte
(ma tutto questo non dipende da lui, è il nuovo Codice del
Lavoro correttivo, e non il ministro, che deve decidere); è
d'accordo che i detenuti possano cucinarsi le proprie provviste
personali (ma non ne hanno); che la corrispondenza e gli invii di
stampati non siano più limitati (ma è un forte aggravio di lavoro
per la censura del lager); è anche contro gli eccessi di zelo alla
Arakceev, con spostamenti effettuati sempre in colonna (tuttavia,
sarebbe inopportuno intervenire su questo: smantellare la disci-
plina è facile, difficile poi ripristinarla); ammette che l'erba che
cresce nella zona non andrebbe estirpata (quello che era successo
al Dubrovlag, sostiene, era differente: figuratevi che i detenuti si
erano fatti, vicino alle officine, degli orticelli e vi si
affaccendavano durante l'intervallo, ciascuno aveva due o tre
metri quadrati di pomodori e cetrioli, - il ministro aveva

578
ordinato che gli orti fossero spianati e distrutti e ne è fiero!
Io a lui: « II legame che unisce l'uomo alla terra ha un valore
morale », lui a me: « Gli orti individuali incoraggiano l'istinto
della proprietà privata »). Il ministro si degna perfino di fremere
quando evoca la cosa orribile che si è fatta obbligando i detenuti
« fuori zona » a ritornare dietro i reticolati. (Non oso chiedere
quale carica avesse a quel tempo, e come avesse combattuto
contro quel provvedimento.) Di più: il ministro riconosce che Il
regime carcerario è più duro oggi di quanto lo fosse ai tempi di
Ivan Denisovič.
Se è così non ho più niente da spiegargli! La nostra conver-
sazione non ha senso. (E lui, da parte sua, non ha nessun motivo
di prendere nota di suggerimenti presentati da un uomo che non
ricopre nessuna carica ufficiale.)
Che cosa posso suggerirgli? di svuotare l'Arcipelago, dispen-
sando tutti dalla scorta? Non riuscirei neppure a formulare
un'ipotesi del genere, è un'utopia. E poi, quando si tratta di
questioni così ampie, esse non dipendono da nessuno in parti-
colare, serpeggiano fra molte istituzioni senza appartenere a
nessuna.
Al contrario, il ministro sostiene con tutto il peso di una
convinzione ben radicata che l'uniforme a righe è indispensabile
per i recidivi (« se lei sapesse che razza di gente! »). Ed è sem-
plicemente offeso dai miei rimproveri ai guardiani e alla scorta
armata: « Lei fa una grande confusione, oppure sono le sue
vicende personali che le fanno vedere le cose in un certo modo ».
Mi assicura che non c'è modo di indurre la gente a farsi assumere
tra il personale di custodia, perché i vantaggi sono stati
soppressi. (Vorrei gridare: « Ma il fatto che non ci vogliano
andare è sintomo della salute morale del popolo », ma i fili
avvertitori mi tirano le orecchie, le palpebre, la lingua. E trascuro
anche l'occasione di dirgli che sono soltanto i sergenti e i
caporali a non volerci andare, gli ufficiali, invece, fanno a gara.)
Si è ridotti a prendere dei ragazzi del servizio di leva. Il ministro
mi fa notare che, contrariamente a quello che penso, sono solo i
detenuti a comportarsi con villania, mentre il personale di
custodia è sempre di una correttezza estrema.

579
Quando si vede una tale divergenza tra le lettere scritte da
poveri zek insignificanti e le parole di un ministro, a chi si deve
credere? È chiaro che sono i detenuti a mentire.
Del resto egli cita in appoggio alle proprie parole ciò che ha
visto coi suoi occhi: infatti lui ci va nei lager, io no. Perché non
ci vado? Mi propone il Dubrovlag, Krjukovo. (Il fatto che abbia
subito proposto questi due indica chiaramente che devono essere
sistemati alla Potemkin.* E poi a che titolo dovrei andarci? Non
oserei neanche alzare gli occhi sui detenuti... Rifiuto...).
Il ministro oppone alle mie critiche l'insensibilità dei detenuti
e la loro indifferenza alle premure di cui sono oggetto. Arrivi ad
esempio alla colonia di Magnitogorsk e chiedi: « Lamentele? » e
tutto quello che sanno fare è rispondere in coro, davanti al capo
del lager: « Nessuna! ».
Il ministro cita come « aspetti notevoli della rieducazione ope-
rata dai lager » i seguenti fenomeni:
- la fierezza di un detenuto che il suo capo aveva lodato per
il suo lavoro al tornio;
- la fierezza provata dai reclusi di un lager all'idea che la
loro produzione (dei bollitori) era destinata all'eroica Cuba;
- il resoconto sull'attività di un « Soviet per l'ordine interno »
del lager e la sua rielezione;
- l'abbondanza dei fiori (demaniali) al Dubrovlag.
La sua preoccupazione principale è di arrivare a creare in ogni
lager una base industriale. Ritiene che con lo sviluppo di attività
interessanti cesseranno le evasioni.1 Quando gli oppongo « la
sete di libertà che è nella natura dell'uomo », non capisce
neanche quello che intendo dire.
Me ne vado con la stanca convinzione che la matassa non ha
né capo né coda, che non ho fatto avanzare le cose neanche di un
capello, e che le zappe continueranno a strappar via l'erba man
mano che cresce. Me ne vado schiacciato dalla con-
* Durante il viaggio di Caterina II nel meridione della Russia, nel 1787, il suo favorito e
luogotenente Potemkin creò un'impressione di eccezionale benessere costruendo facciate di case,
archi, ecc. lungo l'itinerario percorso dal corteo imperiale.
1
Tanto più che, come sappiamo adesso da Marčenko, non si cerca più di catturare gli evasi, li
si abbatte sul posto.

580
sapevolezza che gli uomini hanno sulle cose dei punti di vista
inconciliabili. Lo zek non capirà mai il ministro finché non avrà
preso possesso di questo gabinetto dal quale esco, e il ministro
non capirà mai lo zek finché non sarà mandato dietro il filo
spinato, non gli sarà stato calpestato il suo orticello, non gli
avranno proposto, in luogo della libertà, l'apprendistato su un'in-
teressante macchina utensile.

Istituto per lo studio delle cause della criminalità. Fu una


conversazione interessante con due vice direttori piuttosto colti e
alcuni collaboratori. Persone vive, che avevano idee personali e
discutevano fra di loro. Poi uno dei vice, N.V. Kudrjavcev,
nell'accompagnarmi all'uscita, mi rimprovererà: « No, lei, mal-
grado tutto, non tiene conto di tutti i punti di vista. Tolstoj
l'avrebbe fatto... » E di punto in bianco mi farà cambiare dire-
zione: «Venga un momento a far conoscenza con il nostro
direttore, Igor' Ivanovič Karpec ».
La visita non era prevista! Avevamo già parlato di tutto,
perché ricominciare? Comunque, d'accordo, entrai a salutarlo.
Come no! Ebbi poi a stupirmi che quei vice direttori e capi di
sezione che avevo conosciuto lavorassero sotto quel direttore,
che fosse lui a dirigere tutto il lavoro scientifico. (Avrei saputo
solo più tardi la cosa più interessante: avevo davanti a me il
vicepresidente dell'associazione internazionale dei giuristi de-
mocratici!)
Si alzò per ricevermi con un'aria ostile e sprezzante (se non
ricordo male, restammo in piedi per tutta la nostra conversazione
di cinque minuti) come se io avessi terribilmente insistito per
farmi ricevere e lui avesse finito per acconsentire a malincuore.
E sia. La sua faccia esprimeva anzitutto un sazio benessere,
secondariamente la fermezza e poi il ribrezzo (quest'ultimo di-
retto a me). Senza riguardi per l'abito di ottima stoffa, portava,
avvitato sul petto come una decorazione, un grosso distintivo:
una spada verticale che trafigge qualcosa in basso e le lettere
MVD. (È un distintivo importantissimo. Indica che il portatore è
un uomo che da un tempo particolarmente lungo ha « le mani
pulite, il cuore ardente, la testa fredda ».)

581
« Che cosa c'è? di cosa si tratta? »
Non ho nessun bisogno di parlare con lui ma oramai, per
cortesia, ripeto qualcosa di quello che avevo detto agli altri.
« A-ah, » sembra capire finalmente il giurista democratico, «
la liberalizzazione? Vezzeggiare gli zek! »
A questo punto, inaspettatamente e di colpo, ottengo tutte
quelle risposte che avevo cercato invano in mezzo ai marmi e
agli specchi.
Innalzare il livello di vita dei detenuti? Impossibile! Perché in
tal caso i lavoratori liberi che li affiancano vivrebbero peggio
degli zek, il che è inammissibile.
Accettare che i pacchi siano più frequenti e voluminosi?
Impossibile! Perché questo avrebbe un effetto negativo sugli
agenti di custodia che non ricevono prodotti dalla capitale.
Fare dei rimproveri, educare gli agenti di custodia? Impos-
sibile! Noi teniamo troppo ad essi! Nessuno vuol più fare questo
lavoro, noi non possiamo pagare molto, e le agevolazioni sono
state soppresse.
Non applichiamo ai detenuti il principio socialista di remu-
nerazione del lavoro? Sono stati essi stessi a escludersi dalla
società socialista!
Ma il nostro scopo non è tuttavia quello di restituirli alla vita
sociale?
Restituirli??? si stupisce il portaspada. Il lager non è fatto per
questo. Il lager è castigo! Kara!
Kara! riempie la stanza. Kara!
Karrrra!
La spada verticale è lì, che colpisce, trafìgge - inestirpabile!
Ka-ra!
L'Arcipelago è stato, l'Arcipelago è, l'Arcipelago sarà.
Altrimenti, su chi vendicarsi di dover constatare che la Dot-
trina d'Avanguardia si è sbagliata, che gli uomini che vengono su
non corrispondono allo schema previsto?

582
III La legge oggi

Come il lettore ha già visto attraverso tutto questo libro, il no-


stro paese non ha più avuto prigionieri politici a cominciare dai
primi tempi dello stalinismo. I milioni di persone che sono sfilate
davanti ai nostri occhi, tutti quei milioni di Cinquantotto, erano
dei semplici delinquenti.
L'allegro e loquace Nikita Sergeevič* ha fatto molto in questo
senso: da quale tribuna non s'è profuso in salamelecchi: Politici?
Non ne abbiamo. Da noi, non ce ne sono.
E, figuratevi - il dolore è presto dimenticato, la montagna è
presto aggirata, il corpo è presto rimpolpato - figuratevi che
quasi ci abbiamo creduto. Sì, perfino i vecchi zek. Milioni di
detenuti erano stati rilasciati sotto gli occhi di tutti, quindi,
apparentemente, non restavano più politici, questo è un fatto. Noi
stessi eravamo rientrati, ed erano rientrati coloro che aspet-
tavamo, tutti i nostri insomma. Nel nostro ambiente intellettuale
cittadino i vuoti sembravano essersi colmati, la cerchia comple-
tata e chiusa. Ti corichi la sera e quando ti risvegli al mattino
nessuno della tua casa è stato portato via, ti telefonano gli amici,
sono tutti al loro posto. Non è che ci credemmo proprio del tutto
però accettammo l'idea che, tutto sommato, non c'erano più
politici nei lager. Qualche centinaio di baltici, d'accordo, non
ricevono tuttora (1968) l'autorizzazione a rientrare nella loro
repubblica. E poi ci sono ancora i tatari di Crimea: non è stata
ancora tolta la maledizione che pesa su di loro, ma
* Chruščev.

583
senz'altro lo si farà presto... Come sempre (come ai tempi di
Stalin), la superficie era levigata e ben pulita, niente traspariva
all'esterno.
E Nikita, infaticabile, dalla tribuna: « Non si ritornerà mai a
simili fenomeni e fatti nel partito e nel paese » (22 maggio 1959,
prima di Novočerkassk). « Oggi tutti respirano- liberamente nel
nostro paese... tutti guardano con tranquillità al proprio presente,
al proprio avvenire » (8 marzo 1963, dopo Novočerkassk).
Novočerkassk! Una delle città fatali della Russia. Le cicatrici
della guerra civile non le erano dunque bastate! Se volle offrire
una seconda volta il proprio corpo alla sciabola.
Novočerkassk! Un'intera città, un'intera sommossa popolare,
cancellata con un colpo di spugna, fatta scomparire senza lasciar
traccia. Le tenebre dell'ignoranza generale erano ancora così fitte
sotto Chruščev che non solo non s'è saputo nulla di
Novočerkassk all'estero, non solo la radio occidentale non ce ne
ha informato ma perfino le voci ne sono state troncate sul posto,
non si sono diffuse, così che la maggior parte dei nostri con-
nazionali ignora perfino il nome di questo evento: Novočerkassk,
2 giugno 1962.
Esponiamo dunque qui tutte le informazioni che siamo riusciti
a raccogliere.
Si può affermare senza esagerazione che siamo in presenza di
uno dei nodi della storia russa contemporanea. Se non si
considera il grande sciopero (dall'esito pacifico) dei tessitori di
Ivanovo-Voznesensk all'inizio degli anni Trenta, la fiammata di
Novočerkassk è stata, dopo un silenzio di quarantun anni (dopo
Kronstadt e Tambov),* la prima manifestazione popolare, una
manifestazione che esplose senza preparazione, senza capi, senza
essere stata concepita da nessuno, un grido dell'anima: non si può
continuare a vivere in questo modo!
Venerdì 1 giugno fu pubblicato in tutta l'Unione Sovietica
* I marinai della fortezza navale di Kronstadt, vicino a Leningrado, che nel 1917 avevano
appoggiato i bolscevichi, nel 1921 si ribellarono contro la dittatura del partito comunista. A
Tambov, a sud-est di Mosca, ci fu una grande sommossa contadina contro i bolscevichi nel 1920-
21.

584
uno di quei decreti che Chruščev si divertiva ogni tanto ad
escogitare: i prezzi della carne e del burro venivano aumentati.
La pubblicazione di un secondo piano economico senza rapporto
con il primo fece sì che lo stesso giorno alla grande fabbrica di
elettromotrici di Novočerkassk (NEVZ) le norme di
remunerazione del lavoro fossero abbassate considerevolmente,
la riduzione arrivò fino al trenta per cento. Quel mattino, nono-
stante la loro docilità, la loro assuefazione a tutto, nonostante la
forza dell'abitudine, gli operai di due reparti (forgia e fonderia)
non riuscirono a costringersi a lavorare: da due parti insieme, era
troppo! Parlavano a voce alta, erano eccitati e si arrivò presto a
un meeting spontaneo. Fenomeno consueto in Occidente,
straordinario per noi. Né gli ingegneri né l'ingegnere capo
riuscirono a convincere gli operai. Il direttore della fabbrica, un
certo Kuročkin, venne a sua volta. Alla domanda degli operai: «
Come faremo adesso a vivere? », quell'uomo benpasciuto
rispose: « Vi abbuffavate di pasticci di carne, vuol dire che
adesso ci metterete la marmellata ». Lui e il suo seguito
sfuggirono a stento al linciaggio. (Chissà? Se avesse risposto in
modo diverso magari sarebbe finito tutto lì.)
Verso mezzogiorno lo sciopero si estendeva già a tutta l'im-
mensa NEVZ. (Gli scioperanti inviarono dei messi nelle altre fab-
briche: vi trovarono molta esitazione, ma nessun sostegno.) Nei
pressi della fabbrica passa la linea ferroviaria Mosca-Rostov. Sia
perché pensassero che in tal modo Mosca avrebbe appreso più in
fretta l'accaduto, sia perché volessero impedire l'arrivo di carri
armati e truppe, le donne si sedettero in gran numero sulle rotaie
per bloccare i treni; gli uomini cominciarono a divellere le rotaie
e a erigere barricate. Lo sciopero assumeva proporzione e
carattere rilevanti in rapporto all'intera storia del movimento
operaio russo. Sull'edificio della fabbrica apparvero degli slogan:
« Abbasso Chruščev! ». « Di Chruščev facciamone salsicce! »
Nel frattempo, le truppe e la milizia affluivano verso la fab-
brica (che si trova, con la sua cittadina operaia, a 3-4 chilometri
dalla città, dall'altra parte del fiume Tuzlov). Dei carri armati
presero posizione sul ponte che attraversa il Tuzlov. La circola-

585
zione venne vietata, dal crepuscolo fino all'alba, nell'abitato e sul
ponte. La cittadina passò una notte agitata. Prima che facesse
giorno trenta operai definiti « mestatori » erano stati arrestati e
condotti nello stabile della milizia cittadina.
Il mattino del 2 giugno entrarono in sciopero anche altre
imprese di Novočerkassk (ma di gran lunga la minoranza). Alla
NEVZ si riunì spontaneamente un meeting generale, e si decise di
formare un corteo per recarsi in città ed esigere il rilascio degli
operai arrestati. Il corteo (all'inizio, soltanto trecento persone
circa: la gente aveva paura, e si può capire) sfilò, con donne e
bambini, con ritratti di Lenin e slogan pacifici, davanti ai carri
armati attestati sul ponte, senza incontrare ostacoli di sorta e salì
verso la città. Qui si andò rapidamente ingrossando: curiosi,
operai isolati di altre imprese e ragazzi. Qua e là nelle vie la
gente fermava dei camion e vi si arrampicava sopra per
pronunziare discorsi. L'intera città era in ebollizione. Il corteo
della NEVZ prese la strada principale (via Mosca), e una parte dei
manifestanti cercò di forzare le porte del commissariato di
polizia dove si pensava fossero rinchiusi i compagni arrestati.
Dall'interno risposero a revolverate. Più in là la strada portava al
monumento a Lenin1 e poi, per due vie più strette che con-
tornavano una piazza alberata, alla sede del comitato cittadino
del partito (l'antico palazzo degli atamani, dove si era ucciso
Kaledin). Tutte le strade nereggiavano di folla, ma era là, nella
piazza, che c'era il massimo assembramento. Numerosi ragazzi si
erano arrampicati sugli alberi per vedere meglio.
La sede del comitato del partito era deserta: le autorità erano
fuggite a Rostov.2 All'interno, vetri rotti, documenti sparsi sul
pavimento - sembrava un quartier generale abbandonato dalle
truppe durante la guerra civile. Percorso il palazzo, una ventina
1
Che rimpiazza un monumento all'atamano Platonov, opera di Klodt, abbattuto e rifuso.
2
II primo segretario del comitato di partito per la provincia di Rostov – un certo Basov,
il cui nome figurerà un giorno insieme a quello del generale Pliev, comandante della regione
militare del Caucaso settentrionale, su una targa apposta sul luogo della fucilazione - aveva avuto
il tempo di venire fino a Novočerkassk e di ripartirne spaventato (si dice perfino che fosse
saltato giù dal balcone del primo piano) per rifugiarsi anche lui a Rostov. Subito dopo gli eventi,
partì con una delegazione per l'eroica Cuba.

586
di operai uscirono sul lungo balcone che attraversa la facciata e
arringarono la folla con discorsi disordinati.
Erano circa le undici del mattino. La milizia era sparita, ma le
truppe si facevano sempre più numerose. (Fu davvero un
grazioso spettacolo quello di queste autorità civili che al primo
piccolo allarme si nascondevano dietro l'esercito.) I soldati occu-
parono la posta centrale, la stazione radio, la banca. A quell'ora
la città era ormai completamente circondata da truppe ed era
assolutamente impossibile uscirne o entrarvi. (Erano stati fatti
venire, tra gli altri, gli allievi ufficiali della scuola di Rostov,
lasciandone tuttavia una parte in sede per il pattugliamento delle
strade). E lungo la via Mosca, per la stessa via seguita dai dimo-
stranti avanzarono lentamente verso il comitato urbano dei carri
armati. Dei ragazzi presero ad arrampicarvisi sopra per turare le
feritoie. I carri spararono una salva e per tutta la via crepitarono i
vetri spezzati delle vetrine e delle finestre. I ragazzi scapparono, i
carri armati continuarono ad avanzare.
E gli studenti? Novočerkassk è una città universitaria. Dove
erano dunque gli studenti? Quelli del politecnico, di altri istituti e
di alcune scuole tecniche vennero rinchiusi fin dal mattino nei
convitti e negli edifici universitari. Perspicaci rettori! Ma, dicia-
molo pure, studenti di poco senso civico! In fondo furono pro-
babilmente contenti che si fornisse loro questo pretesto. Non
penso che una serratura bloccata sarebbe bastata a trattenere gli
studenti in rivolta dell'Occidente d'oggi (e neppure gli studenti
della Russia di un tempo).
Nell'edificio del comitato urbano scoppiò un gran parapiglia;
gli oratori venivano aspirati uno dopo l'altro all'interno e il
balcone si affollava di militari sempre più numerosi. (Non è così
che essi avevano dianzi osservato l'insurrezione di Kengir dal
balcone della direzione dello Steplag?) Un cordone di mitraglieri
cominciò a sgomberare la piccola piazza antistante il palazzo,
respingendo la folla verso i recinti del giardino. (Numerosi
testimoni concordano nel dire che quei soldati erano degli
allogeni, dei caucasici portati fin lì dall'altro capo della regione
militare, e che questo nuovo cordone veniva a rimpiazzarne un

587
primo formato da soldati della guarnigione locale. Ma le testi-
monianze divergono su altri punti: il primo cordone aveva rice-
vuto l'ordine di sparare? e se l'ordine non era stato eseguito è
perché l'ufficiale che lo aveva ricevuto invece di trasmetterlo ai
suoi uomini si era ucciso davanti a loro?1 Il suicidio dell'ufficiale
è indubbio, ma non sono chiare le circostanze in cui avvenne e
nessuno conosce il nome di questo eroe, vittima della propria
coscienza.) La folla indietreggiava, ma nessuno si aspettava il
peggio. Chi abbia dato l'ordine non lo sa nessuno,2 fatto sta che
quei soldati alzarono i mitra e spararono una prima raffica sopra
le loro teste.
Forse il generale Pliev non aveva intenzione di far sparare
subito sulla folla, ma gli eventi seguirono il loro corso: la salva
tirata sopra le teste investì gli alberi del giardino e i ragazzi che
ci erano appollaiati sopra, i quali cominciarono a cadere. La folla
probabilmente lanciò un urlo e allora i soldati - a un comando, in
un accesso di follia sanguinaria o in un moto di spavento -
cominciarono a sparare fitte raffiche, stavolta sulla folla e con
pallottole dirompenti.3 (Ricordate Kengir? I sedici del posto di
guardia?) Presa dal panico, la folla si mise a fuggire accalcandosi
nei vialetti che aggiravano il giardino, ma i soldati continuarono
a bersagliarla di colpi, nella schiena. Continuarono a sparare
finché non restò nessuno nella grande piazza dall'altra parte del
giardino, al di là del monumento di Lenin, quella piazza che
taglia la vecchia prospettiva Platov e si estende fino a via Mosca.
(Un testimone oculare racconta: si aveva l'impressione che tutto
fosse coperto di cadaveri. Ma naturalmente erano molti i feriti.
Fonti diverse concordano abbastanza nello stimare che i morti
furono dai settanta agli ottanta.)4 I soldati si lanciarono alla
ricerca di camion e autobus: li requisivano e vi caricavano i
morti e i feriti per spedirli dietro l'alto
1
Secondo questa versione i soldati che si erano rifiutati di sparare furono deportati in Jakutia.
2
Quelli che lo sapevano, perché si trovavano lì vicino, o sono stati uccisi o ritirati dalla
circolazione.
3
Testimoni sicuri attestano 47 uccisi solamente con pallottole dirompenti.
4
Un po' meno che davanti al palazzo d'Inverno, ma sappiamo che in seguito l'anniversario
del 9 gennaio fu celebrato ogni anno dall'intera Russia indignata, mentre noi... quando
cominceremo a commemorare il 2 giugno?

588
muro dell'ospedale militare. (Per un paio di giorni, questi autobus
avrebbero circolato con i sedili macchiati di sangue.)
Come a Kengir, furono utilizzate delle cineprese per filmare
gli insorti sulle strade.
La sparatoria cessò, si dissipò la paura, la folla riaffluì verso
la piazza, e di nuovo fu accolta a colpi di fucile.
Durò da mezzogiorno all'una.
Ecco ciò che vide un attento testimone alle due del pomerig-
gio: « La piazza davanti alla sede del comitato del partito è
occupata da carri armati, credo otto, di vario tipo. Davanti ad essi
è disposto un cordone di soldati. La piazza è deserta, ci sono solo
dei piccoli gruppi, prevalentemente di giovani, che gridano
qualcosa all'indirizzo dei soldati. Gli avvallamenti dell'asfalto
sono riempiti da pozze di sangue, non esagero, non avrei mai
creduto che si potesse vedere una tale quantità di sangue. Le
panche del giardino ne sono tutte macchiate, sangue dappertutto,
sulla sabbia dei vialetti, sui tronchi imbiancati degli alberi. Sulla
piazza le tracce lasciate dai cingoli dei carri si intersecano in tutti
i sensi. La bandiera rossa che portavano i manifestanti è
appoggiata al muro dell'edificio, qualcuno ha infilato in cima
all'asta un berretto grigio, schizzato di sangue bruno. Sulla
facciata dello stabile spicca come al solito uno striscione rosso,
appeso lì da chissà quando: "Il popolo e il partito sono tutt'uno".
« La gente si avvicina ai soldati, li svergogna e li maledice:
"Come avete potuto?... Vi rendete conto su chi avete sparato?...
Avete sparato sul popolo!". Quelli si giustificano: "Non siamo
stati noi! Noi siamo stati appena portati qui! Non sapevamo
nulla". »
Vedete come all'occorrenza san far presto i nostri assassini
(altro che lenti burocrati!): avevano già avuto modo di portare
via quei soldati e di mettere al loro posto dei russi che cadevano
dalle nuvole. Sapeva il fatto suo, quel generale Pliev...
Un po' alla volta la gente ritornò e, verso le cinque o le sei, la
piazza era nuovamente affollata. (Bravi abitanti di Novo-
cerkassk!) La radio della città tuttavia continuava a ripetere: «
Cittadini, non cedete alla provocazione, tornate alle vostre

589
case! ». I soldati sono ancora lì con i loro mitra, il sangue non è
stato ancora lavato, eppure quelli ritornano alla carica. Le grida
aumentano, ed ecco un nuovo comizio. Si sa già che sono giunti
in volo (certamente in tempo per la prima sparatoria) sei tra i più
importanti membri del CC tra i quali, naturalmente, Mikojan
(specialista di situazioni alla Budapest) e Frol Kozlov (i nomi
degli altri non sono conosciuti con precisione). Hanno eletto a
loro domicilio l'edificio della vecchia scuola dei cadetti e ci si
sono arroccati come in una fortezza. Una delegazione di giovani
operai della NEVZ viene incaricata di andare a raccontare quanto
è avvenuto. La folla rumoreggia: « Venga qui Mikojan! Che
veda coi suoi occhi tutto questo sangue! ». No, Mikojan non
verrà. In compenso verso le sei un elicottero-ricognitore fa il giro
della piazza volando basso, osserva e si allontana.
La delegazione operaia è presto di ritorno. Come è stato con-
venuto, il cordone di militari lascia passare i delegati che, in
compagnia di ufficiali, si affacciano poi al balcone. Si fa
silenzio. I delegati riferiscono alla folla che sono stati dai
membri del Comitato centrale, che hanno raccontato loro di
questo sabato di sangue e che Kozlov ha pianto quando ha sentito
dei bambini che cadevano dagli alberi dopo la prima salva. (Vi
rendete conto? Frol Kozlov, il capo dei comunisti che hanno
spadroneggiato a Leningrado, lo stalinista ultraferoce ha pianto!)
I membri del CC hanno promesso di aprire un'inchiesta
sull'accaduto e di punire i colpevoli col massimo rigore (lo stesso
promettevano nei lager speciali), ma per ora è indispensabile che
tutti rientrino nelle proprie case, per non creare disordini in città.
Ma il meeting non si sciolse. Verso sera la folla era ancora più
fitta. Che coraggio, davvero! (Secondo certe voci, la brigata
inviata dal Politburo avrebbe preso quella sera la decisione di
deportare l'intera popolazione della città. Non stento a crederlo:
non ci sarebbe stato nulla di strano, dopo la deportazione di interi
popoli che avevamo già conosciuto. A fianco di Stalin non c'era
allora lo stesso Mikojan?)
Verso le nove di sera si tentò di disperdere la folla facendo
avanzare i carri armati che si trovavano davanti al palazzo. Ma
non appena i carristi accesero i motori, la gente circondò i

590
carri da ogni parte, bloccando le feritoie e i portelli. Il ruggito dei
motori tacque. I mitraglieri restarono immobili, senza cercare di
prestare aiuto ai carristi.
Un'ora dopo all'altra estremità della piazza, apparvero dei
carri armati e delle autoblindo che trasportavano soldati mitra-
glieri appollaiati sulle corazze. (Ne abbiamo di esperienza, noi,
dopo l'ultima guerra! Abbiamo o no battuto i fascisti?) Avan-
zando a grande velocità (tra i fischi dei giovani ammassati sui
marciapiedi: gli studenti erano stati liberati verso sera) essi ripu-
lirono la carreggiata di via Mosca e di viale Platov.
Soltanto verso mezzanotte i mitraglieri si misero a sparare in
aria pallottole traccianti e la folla cominciò a disperdersi.
(Forza dei movimenti popolari! Come modifichi rapidamente
i dati politici! Ieri il coprifuoco e una gran paura, adesso l'intera
città passeggia per le vie e fischia. Bisogna dunque credere che
sotto la spessa corteccia di un mezzo secolo siano ancora lì, a
portata di mano: un popolo affatto diverso, un'atmosfera del tutto
diversa?)
Il 3 giugno la radio della città trasmise i discorsi di Mikojan e
di Kozlov. Kozlov non piangeva più. Non promettevano più di
cercare i colpevoli (in alto loco). Gli eventi erano stati provocati
da nemici e questi nemici sarebbero stati castigati con la
massima severità. (Adesso che la gente se n'era andata dalla
piazza.) Mikojan disse ancora che l'esercito sovietico non ha in
dotazione pallottole dirompenti e quindi erano stati dei nemici a
sparare.
(Ma chi erano dunque questi nemici? Dove erano i paracadute
coi quali erano scesi? E dove erano spariti? Non se ne poteva
vedere almeno uno? Oh, come siamo abituati a essere trattati da
imbecilli! Ci dicono « nemici » e noi quasi la prendiamo per una
spiegazione... Nel Medioevo si diceva: «il diavolo»…1)
1
Un'insegnante (!) di Novočerkassk, nel 1968, raccontava in treno, con tono autorevole: « I
militari non sparavano. Spararono una volta sola in aria per ammonimento. A sparare erano i
sabotatori diversionisti, con pallottole dirompenti. Dove le avevano prese? I diversionisti hanno
tutto quello che vogliono. Sparavano contro i militari e contro gli operai. Gli operai persero la
testa, assalirono i soldati, li picchiarono; cosa c'entravano, quelli? Poi Mikojan girò per le strade,
andava a vedere come vive la gente. Le donne gli offrirono delle fragole... » Per ora rimane nella
storia solamente questo.

591
Immediatamente, i negozi furono riforniti di burro, salame e
molte altre cose che non si erano viste da chissà quanto tempo,
perché erano riservate alle capitali.
Tutti i feriti sparirono senza tracce, non ne tornò uno. Invece
le famiglie dei feriti e dei morti (avevano avuto il torto di cercare
i propri cari...) furono deportate in Siberia. E molte delle persone
che avevano preso parte agli avvenimenti ed erano state notate e
fotografate subirono la stessa sorte. Seguì una. serie di processi a
porte chiuse contro coloro che avevano preso parte alla
dimostrazione. Ci furono anche due processi « pubblici » (con
biglietti d'ingresso riservati ai capi delle organizzazioni del
partito e ai dipendenti del comitato cittadino). Uno di questi
decise la sorte di cinque uomini (condannati alla fucilazione) e di
due donne (condannate a quindici anni).
I membri del comitato cittadino restarono al loro posto.
Il sabato successivo a questo « sabato di sangue », la radio an-
nunciò che « gli operai della fabbrica di elettromotrici si erano
impegnati a realizzare il piano settennale prima della scadenza ».
...Se lo zar non fosse stato un coniglio, avrebbe fatto lo stesso,
il 9 gennaio, a Pietroburgo: bastava arrestare tutti quegli operai
con i loro stendardi e affibbiare loro la rubrica banditismo. Un «
movimento rivoluzionario »? E dove?
Nella città di Aleksandrov, nel 1961, un anno prima di Novo-
čerkassk, la milizia picchiò a morte un fermato, dopo di che vietò
che il corteo funebre passasse davanti alla sua sede. La folla
s'inferocì e appiccò il fuoco allo stabile della milizia. Seguirono
immediatamente degli arresti. (Una storia analoga doveva
accadere di lì a poco a Murom.) Bene, ma in quale categoria
comprendere tutta quella gente arrestata? Sotto Stalin perfino un
sarto che puntava l'ago a un foglio di giornale per non perderlo si
vedeva rifilare l'articolo 58.* Ma ora i tempi erano cambiati e ci
si attenne a un partito più intelligente: la devastazione della sede
della milizia non doveva essere considerata un atto politico. Non
era altro che volgare banditismo.
* Episodio narrato in Arcipelago GULag 2°, p. 298. Il sarto, così facendo, aveva infilzato un
occhio di una foto di Kaganovič.

592
Istruzioni venute dall'alto dicevano che « i disordini provocati
da movimenti di folla » non dovevano essere considerati attinenti
al campo della politica. (Ma allora, chiedo io, che cosa lo sarà?)
Ecco com'è sparita da noi la razza dei prigionieri politici!
Durante tutto questo tempo, un altro fiume ha continuato a
scorrere - un fiume che non si è mai inaridito. Gente che non è
mai stata neanche sfiorata dalla « ondata benefica la cui appa-
rizione è stata provocata... » ecc. Il loro fiume è scorso ininter-
rotto in tutte le epoche: quando « le norme leniniane venivano
violate » come quando venivano invece osservate, e, dopo l'av-
vento di Chruščev, con un accanimento tutto particolare.
È il fiume dei credenti. Quelli che hanno tentato di opporsi
alla nuova e feroce campagna di chiusura delle chiese. I monaci
espulsi dai loro monasteri (molte notizie ci sono state fornite da
Krasnov-Levitin). I membri delle sette che si dimostrano troppo
ostinati, in particolare quelli che rifiutano il servizio militare -
qui, scusate tanto, è un aiuto diretto fornito all'imperialismo e
questo, dati i tempi miti che corrono, vale cinque anni, se è la
prima volta.
Ma questa gente non ha niente a che vedere con i politici,
sono dei « religiosi » e bisogna rieducarli: licenziarli dal lavoro
unicamente a causa della loro fede; suggerire ai giovani del
Komsomol di andare a rompere i vetri delle loro case; costrin-
gerli con pressioni amministrative a frequentare le conferenze
antireligiose; sfondare le porte delle chiese con la fiamma ossi-
drica; abbattere le cupole con fili d'acciaio attaccati a trattori;
disperdere le vecchie annaffiandole con idranti. (È questo il
dialogo, compagni comunisti francesi?)
Come hanno dichiarato, al Soviet dei deputati dei lavoratori,
ai monaci di Pocaev: « Se si dovessero applicare le leggi sovie-
tiche, chissà quando arriverebbe il comunismo ».
Soltanto nei casi estremi, quando le misure educative restano
senza risultato, bisognerà ricorrere alla legge.
Ma ecco dove l'adamantina nobiltà della nostra Legge odierna
risplende in tutto il suo fulgore: non processiamo a porte chiuse
come sotto Stalin, né in contumacia; i nostri processi sono
semipubblici (si svolgono in presenza di un semipubblico).

593
Ho tra le mani la trascrizione di un processo che si è svolto
nella città di Nikitovka, nel Donbass, nel gennaio 1964: si giu-
dicavano dei battisti.
Ecco come si svolse. Dei correligionari degli accusati, che
erano venuti ad assistere al processo, vennero tenuti tre giorni in
prigione col pretesto di appurarne l'identità (si trattava invece di
impedire loro di andare alle udienze e spaventarli ben bene). Un
uomo (un libero cittadino!) che ha gettato dei fiori agli imputati
si prende dieci giorni. Lo stesso il battista che ha preso appunti
durante il processo, e gli appunti gli vengono confiscati (se ne
sono conservati altri). Un gruppo selezionato di giovani del
Komsomol sono stati fatti entrare da una porta laterale prima del
pubblico, perché occupino le prime file. Durante il processo si
levano grida dal pubblico: « Bisognerebbe cospargerli tutti di
benzina e dargli fuoco! ». Esclamazioni legittime che la corte si
guarda bene dallo scoraggiare. Caratteristici procedimenti della
corte: deposizioni di vicini ostili; deposizioni di minorenni
spaventati: vengono portate dinanzi al tribunale bambine di nove
e undici anni (purché si porti a compimento il processo, ce ne
infischiamo di ciò che sarà poi delle bambine). I loro quaderni
dove sono stati ricopiati testi biblici figurano fra le prove a
carico.
Uno degli imputati è Bazbej, padre di nove figli, minatore;
non ha mai ricevuto alcun aiuto dal comitato sindacale della
miniera appunto perché è un battista. Ma sua figlia Nina, scolara
dell'ottava classe, si è lasciata abbindolare, comprare (50 rubli
del comitato miniera), le hanno promesso di iscriverla all'uni-
versità, e durante l'istruttoria essa ha rilasciato delle deposizioni
fantasiose contro il padre: egli aveva cercato di avvelenarla con
della limonata rancida; quando i credenti andavano a nascondersi
nella foresta per le loro riunioni di preghiera (nell'abitato erano
perseguitati) « avevano una radiotrasmittente: un grande albero
avvolto da una carcassa di filo di ferro ». Poi, le sue false
deposizioni hanno cominciato a tormentare Nina, la testa ha
cominciato a non funzionare più, è stata ricoverata nell'ospedale
psichiatrico, nel reparto agitati. Tuttavia viene portata al processo
nella speranza che ripeta la sua testimonianza.

594
Lei nega tutto: « Il giudice istruttore mi dettava quello che do-
vevo dire ». Poco importa, lo spudorato giudice se ne lava le
mani, ritiene valida la precedente deposizione di Nina e senza
valore quella presente. (In generale, quando una testimonianza
utile all'accusa viene smentita, il caratteristico e costante proce-
dimento dei giudici è di non dare alcun credito alla testimonianza
che ascolta e di opporle quella che si afferma resa durante
l'istruttoria: « Ma come? Nella sua deposizione è detto - Durante
l'istruttoria lei ha testimoniato che... Con quale diritto smentisce
le sue dichiarazioni?... Badi che anche questo la può condurre sul
banco degli accusati! ».)
Il giudice non ascolta la sostanza, non ascolta la verità. Questi
battisti sono perseguitati perché si rifiutano di riconoscere i
predicatori che ha inviato loro il funzionario ateo incaricato dallo
Stato per gli affari della loro comunità (secondo lo statuto dei
battisti chiunque dei fratelli può fare il predicatore). La posizione
del comitato di provincia del partito è nota: condannarli e privarli
dei figli. E sarà fatto, anche se con la mano sinistra il Presidium
del Soviet supremo ha appena firmato (2 luglio 1962) la
convenzione mondiale sulla « lotta contro la discriminazione
nell'ambito dell'istruzione ».1 Questa convenzione dice tra l'altro:
« I genitori devono avere la possibilità di assicurare ai figli
un'educazione morale e religiosa corrispondente alle loro proprie
convinzioni ». Ma è proprio quanto noi non possiamo ammettere.
E se qualcuno interviene sulla sostanza dell'accusa, viene subito
interrotto dal giudice. Ecco il livello della sua polemica: « E per
quando sarebbe questa vostra fine del mondo, se noi intendiamo
costruire il comunismo! ».
Nella sua dichiarazione conclusiva, la giovane Ženja Chlo-
ponina disse: « Invece di andare al cinema o a ballare io leggevo
la Bibbia e pregavo, e solamente per questo voi mi private della
libertà. Sì, non essere in prigione è una grande gioia, ma è una
gioia ancora più grande non essere prigionieri del peccato. Lenin
ha detto: la Turchia e la Russia sono gli unici due paesi dove
sussiste una pratica così infame come la persecuzione per
1
Se l'abbiamo firmata, è naturalmente a causa dei negri americani; che cosa ce ne potremmo
fare, da noi?

595
motivi religiosi. Della Turchia non so, non ci sono mai stata, ma
quel che accade qui in Russia, lo vedete anche voi... ». Viene
interrotta.
Verdetto: cinque anni di lager per due di loro, quattro per altri
due, tre anni per Bazbej, capo di una famiglia numerosa. Gli
imputati accolgono il verdetto con gioia e si mettono a pregare. I
« rappresentanti dei lavoratori » gridano: « Troppo poco!
Aumentare! » (cospargere di benzina...)
I battisti, uomini pazienti, si sono immersi nei calcoli e nei
censimenti e hanno creato un « consiglio dei parenti dei
prigionieri » che ha intrapreso la pubblicazione di un bollettino
manoscritto nel quale si riferisce di tutte le persecuzioni. Il
bollettino ci informa ad esempio che dal 1961 al 1964 sono stati
condannati 1971 battisti, di cui 15 donne. (Ne vengono dati tutti i
nomi. Figura anche il calcolo delle persone a carico lasciate dai
prigionieri senza mezzi di sussistenza: sono 442, di cui 341 in
età prescolare.) La maggioranza sono condannati a cinque anni di
confino ma per alcuni sono cinque anni di lager a regime duro
(manca solo la divisa a righe!) più, per soprammercato, dai tre ai
cinque anni di confino. B.M. Zdorovec di Ol'šany, provincia di
Char'kov, è stato condannato a sette anni di regime duro a causa
della sua fede. È stato gettato in prigione Ju.V. Arend, un
vecchio di 76 anni, e tutti i membri della famiglia Lozov (padre,
madre, figlio). Nel villaggio di Sokolovo, distretto di Zmiev,
provincia di Char'kov, Evgenij M. Sirochin, invalido di guerra di
pirma classe, cieco dai due occhi, è stato condannato a tre anni di
lager per aver dato un'educazione religiosa alle fìglie Ljuba,
Nadja e Raja, che gli sono state tolte per decisione del tribunale.
Il tribunale che ha giudicato il battista M.I. Bordovskij (a
Nikolaev il 6 ottobre 1966) non ha esitato a usare documenti
grossolanamente falsificati. L'imputato protesta: « Non è onesto!
». Gli ringhiano: « La legge vi schiaccerà, vi annienterà quanti
siete! »
1
A proposito, il processo dei populisti, cent'anni fa, è stato chiamato « il processo dei 193 ».
Quanto chiasso, mio Dio, quante emozioni! Ha il suo posto nei manuali.

596
La leg-ge, si badi. Da non confondersi con la giustizia som-
maria extragiudiziaria degli anni in cui « le norme venivano
ancora osservate ».
Recentemente abbiamo potuto leggere L'istanza, di S. Kara-
vanskij, un libro che ci è giunto da un lager e che agghiaccia il
cuore. L'autore era stato condannato a venticinque anni, ne aveva
scontati sedici (1944-1960), era stato liberato (evidentemente in
base ai « due terzi »), si era sposato, si era iscritto all'università -
no! Nel 1965 vennero a riprenderselo: « Prepara le tue cose! Hai
ancora nove anni da star dentro ».
In quale altro luogo della Terra è possibile una cosa del
genere, sotto quale altra Legge che non sia la nostra? Si infilava
al collo della gente il giogo di ferro dei quarti di secolo; fine
prevista - anni Settanta! Improvvisamente, un nuovo codice
(quello del 1961) stabilisce: abolite le pene superiori ai 15 anni.
Anche uno studente al primo anno di legge capisce che, di
conseguenza, le pene di 25 anni inflitte fino ad allora dovevano
essere annullate. Eh no, sono restate in vigore: da noi è così.
Potete gridare fino a spezzarvi la voce, potete sbattere la testa
contro il muro: sono sempre in vigore. Addirittura vi si viene a
riprendere se siete stati rilasciati: da noi è così.
Non sono pochi i detenuti in questa situazione. L'epidemia di
liberazioni dei tempi di Chruščev li ha scansati e loro sono
sempre là, abbandonati da tutti, sono stati nostri compagni di
brigata, di cella, li abbiamo incontrati nelle prigioni di transito.
Nella nostra vita ripristinata li abbiamo dimenticati da tempo, ma
essi vagano come prima, sperduti, cupi e inebetiti, su quelle
stesse poche spanne di terra indurita, fra quelle stesse torrette,
dietro agli stessi reticolati. Cambiano i ritratti nei giornali, cam-
biano i discorsi dalle tribune, si lotta contro il culto, poi si smette
di lottare, ma i condannati a 25 anni, questi figliocci di Stalin,
sono sempre là dentro.
Karavanskij dà le agghiaccianti biografie di alcuni di essi.
Oh, pensatori occidentali « di sinistra », così amanti della
libertà! Oh, laboristi di sinistra! Oh, studenti progressisti ame-
ricani, tedeschi, francesi! Tutto questo è ancora troppo poco per
voi! Per voi, tutto il mio libro si riduce in sostanza a nulla.

597
Capirete ogni cosa, e di colpo, solo il giorno che - mani
dietro la schiena! - partirete voi stessi per il nostro Arcipelago.
Tuttavia è un fatto che i politici sono adesso
incomparabilmente meno numerosi che ai tempi staliniani:
oramai non si contano più a milioni e nemmeno a centinaia di
migliaia.
Forse perché è migliorata la legge!
No, si tratta semplicemente di un cambiamento (temporaneo)
di rotta. Come prima scoppiano di tanto in tanto delle epidemie
giuridiche, che evitano agli addetti alla giustizia eccessivi sforzi
cerebrali; già dai giornali, a saperli leggere, se ne colgono i
prodromi: se se la prendono coi teppisti, significa arresti in
massa in base all'articolo contro i teppisti; se scrivono di furti
commessi ai danni dello Stato, stai certo che si prepara un'in-
fornata di malversatori.
Dal fondo delle loro colonie, i detenuti d'oggi continuano a
ripetere tristemente:
È inutile cercare la verità. Nei giornali è una cosa, nella vita
un'altra. (V.I.D.)
Sono stufo di essere un paria nella società e del popolo a cui
appartengo. Ma dove potrei ottenere giustizia? La parola
dell'istruttore vale più della mia. E tuttavia, che cosa può sapere
e capire questa ragazza di 23 anni: come può immaginare il
destino al quale condanna la gente? (V.K.)
Si rifiutano di rivedere i processi perché questo
comporterebbe per loro una riduzione degli organici (L-n).
I metodi impiegati sotto Stalin nel corso dell'istruttoria e del
processo sono stati semplicemente trasferiti dal campo politico
a quello dei reati comuni, tutta qua la differenza (G.S.).
Da quello che ci dicono queste persone che soffrono
possiamo trarre i seguenti insegnamenti:
1. la revisione dei processi è impossibile (perché crollerebbe
la casta dei giudici);
2. come prima ci facevano a pezzi servendosi dell'articolo 58,
così adesso fanno a pezzi utilizzando articoli di diritto comune
(infatti, deve pur mangiare tutta questa gente, no? e che ne
sarebbe altrimenti dell'Arcipelago?).
Per farla breve: supponiamo che un cittadino voglia togliere
598
dalla circolazione un altro cittadino che non gli piace (legal-
mente, è chiaro - non piantandogli un coltello fra le costole).
Come farlo a colpo sicuro? Un tempo bisognava scrivere dela-
zioni in base al 58-10. Oggi occorre prima consigliarsi con gli
addetti (istruttori, magistrati, ufficiali della milizia e un
cittadino di questo tipo ha sempre delle relazioni in questo
ambiente): quest'anno che cosa va di moda? verso quale articolo
è orientata l'apertura della rete? da quale articolo è richiesto un
certo rendimento? Eccolo il coltello: non vi resta che infilarlo
tra le costole del vostro uomo.
Per parecchio tempo è imperversato, ad esempio, l'articolo
stupro. Nikita, in un momento di malumore, aveva ordinato che
per questo delitto non si scendesse al di sotto di una pena di
dodici anni. Mille martelli si misero a battere aggiustando
dodici anni a chi capita capita: i fabbri non dovevano restare
senza lavoro. È un articolo delicato, di carattere intimo, che
bisogna considerare attentamente, perché ha qualcosa di ana-
logo al 58-10: in ambedue i casi si è a quattrocchi. Qui, come
là, qualsiasi verifica è impossibile, perché si evita di avere dei
testimoni - ed è proprio ciò che torna comodo al tribunale.
Così, ad esempio, due donne di Leningrado vengono convo-
cate alla milizia (è il caso S-va). « Siete state a una festicciola
con degli uomini? - Sì. - Avete avuto rapporti sessuali? - S-sì. -
Allora delle due l'una: o eravate consenzienti oppure non lo
eravate. Se lo eravate, per noi diventate delle prostitute; resti-
tuiteci i vostri passaporti di residenti e lasciate Leningrado entro
le 48 ore. Se non lo eravate, dichiarate per iscritto di essere state
vittime di uno stupro. » Le donne non hanno nessuna voglia di
lasciare Leningrado. E gli uomini si prendono dodici anni
ciascuno.
La grossa massa di carne ottusa e sorda che conduce le istrut-
torie e i processi trae la sua vita dall'infallibilità. La sua forza, la
sua sicurezza si basano sul fatto che non rivede mai le proprie
decisioni, ogni giudice può maneggiare la scure come vuole
nella certezza che nessuno lo correggerà. Esiste per questo un
segreto accordo: ogni reclamo, ovunque sia diretto, sia pure a
Mosca, sarà sempre trasmesso precisamente a quella istanza

599
contro la quale è diretto. E affinché nessuno tra gli addetti alla
giustizia (procuratori e giudici istruttori) sia oggetto di biasimo
se ha commesso un abuso di potere, se si è lasciato trascinare da
uno scatto d'ira o da un desiderio di vendetta personale, se ha
sbagliato e magari di grosso - lo copriremo! lo difenderemo!
faremo muro attorno! Non per nulla, noi siamo la Legge.
Vorreste forse che l'istruttoria, una volta cominciata, non si
concludesse con un'incriminazione? Far lavorare a vuoto il giu-
dice istruttore? Vorreste forse che il tribunale popolare, una
volta che si sia incaricato di un caso, non lo concludesse con
una condanna? Significherebbe far fare una brutta figura al
giudice istruttore e aver lavorato a vuoto. E che significherebbe,
per un tribunale provinciale, rivedere le decisioni del tribunale
popolare? Significherebbe aumentare la percentuale degli «
scarti » imputabili alla provincia, semplicemente, creare grane
ai propri compagni; a che pro? Ogni istruttoria, una volta
iniziata, per esempio in seguito a una delazione, deve
assolutamente terminare con una condanna, che non è possibile
rivedere. Non giochiamoci l'un l'altro dei brutti scherzi e tutto
andrà bene. Non giochiamone neanche al Comitato distrettuale;
facciamo come ci dice. Tornerà buono all'occorrenza.
Altra cosa importantissima nel funzionamento della giustizia
attuale: niente magnetofoni, niente stenografe, solo una segre-
taria dalla mano lenta che scarabocchia non si sa che cosa, con
la velocità di una scolara del secolo scorso, sui fogli del verbale.
Questo verbale non verrà letto durante l'udienza e nessuno vi
avrà accesso finché non sarà stato rivisto e approvato dal
giudice. Solamente quello che avrà approvato il giudice, e solo
quello, sarà stato detto nel corso del processo. Quello che abbia-
mo sentito con le nostre orecchie? fumo, invenzione bell'e
buona.
Il giudice ha costantemente presente il viso nero e lucente
della verità, vale a dire l'apparecchio telefonico nella camera del
consiglio. Un oracolo che non vi tradirà mai - a condizione,
beninteso, che si faccia quel che dice.
Vivi e prospera, ceto dei magistrati! Noi siamo al tuo
servizio, non tu al nostro. La giustizia sia per te un morbido
tappeto. Conta una sola cosa, che tu stia bene!
600
Tanta provata stabilità delle decisioni dei giudici facilita
molto la vita alla polizia e le dà la possibilità di applicare senza
remore il principio dell'aggancio o del « sacco di reati ». Ecco
in cosa consiste. Per pigrizia, lentezza, insipienza o mancanza
di perspicacia della milizia locale questo o quel crimine rimane
impunito. Ma per le esigenze del rapporto di servizio occorre
assolutamente che i casi vengano risolti (ossia « chiusi »). Si
aspetta dunque l'occasione buona. Capita al posto della milizia
un tipo facile da far su, timido, un po' babbeo, e gli si caricano
sulle spalle tutti i delitti rimasti impuniti: è lui l'inafferrabile
bandito che ha commesso tutti quei delitti, da un anno a questa
parte. A pugni e con la fame lo si costringe a riconoscersi col-
pevole di tutti i casi pendenti e a firmare la confessione, dopo di
che viene condannato, nel complesso, a una lunga pena e porta
via con sé l'onta del distretto.
In questo modo la società si trova notevolmente risanata, per
il fatto che non rimangono nel suo seno reati impuniti. E gli
investigatori della milizia vengono premiati.
La società si è vieppiù risanata e la giustizia rinforzata dal-
l'anno in cui è stato lanciato l'ordine di catturare, processare e
deportare i parassiti, i mangiaufo. Anche quell'Ukaz* ha con-
tribuito, in una certa misura, a rimpiazzare il defunto e così
flessibile 58-10; come quel suo antenato, l'imputazione di pa-
rassitismo si è rivelata subdola, impalpabile e inconfutabile.
(Sono riusciti ad applicarla perfino al poeta Iosif Brodskij!)
Dacché l'hanno sfiorata con le loro mani la parola tunejadec
(parassita) ha subito una deviazione di senso molto abile. I veri
parassiti erano precisamente i buoni a nulla profumatamente
pagati che si sprofondavano nelle loro poltrone di magistrati o
di funzionari amministrativi per riversare un torrente di condan-
ne sui quei poveracci, che, troppo lavoratori o troppo abili,
arrotondavano un po' il salario con lavoretti extra vari. E con
quanta malvagità, la malvagità dei sazi contro gli affamati,
furono attaccati quei « parassiti »? Due giornalisti di Adzubej1
non si vergognarono di dichiarare con bella impudenza: i « parassiti »

* Del 4 maggio 1961.


1
« Izvestija », 23.6.64.

601
non erano stati confinati abbastanza lontano da Mosca! si per-
metteva loro di ricevere pacchi e vaglia dai parenti! non era
stato loro imposto un regime abbastanza severo! « non li si
obbliga a lavorare dall'alba al tramonto » - testuale: dall'alba al
tramonto. All'alba di quale comunismo, e in virtù di quale costi-
tuzione si può esigere un tale lavoro da schiavi?
Così, abbiamo enumerato alcune importanti fiumane che (in-
sieme alle incessanti ruberie ai danni dello Stato) portano sem-
pre nuovi contingenti sull'Arcipelago.
E non trascuriamo neanche le « milizie popolari »: non è per
niente che pattugliano le strade, seggono nei loro quartieri
generali e spaccano i denti alle persone fermate, queste bande di
filibustieri, queste Sezioni d'Assalto reclutate dalla polizia, che
non sono previste dalla costituzione né responsabili davanti alla
legge.
I rinforzi continuano ad affluire sull'Arcipelago. E benché
già da un pezzo noi si viva in una società senza classi, e
sebbene metà del cielo sia già illuminata dal rosso bagliore del
comunismo, ci siamo in certo qual modo abituati al fatto che i
delitti non cessino, non diminuiscano. Del resto non ce lo pro-
mettono neppure più. Negli anni Trenta ci dicevano con sicu-
rezza: ancora qualche anno e non ci saranno più delitti. Adesso,
non ci dicono più niente.
La nostra legge è potente, astuta e flessibile, molto diversa
da tutto ciò che su questa Terra porta il nome di « legge ».
I romani, poveri imbecilli, avevano inventato questo
precetto: « La legge non ha effetto retroattivo ». Da noi invece
sì. Il vecchio detto reazionario borbotta: « La legge non si
scrive oggi per l'ieri ». Da noi invece sì, si scrive. Se viene
promulgato un nuovo Ukaz di moda, e alla Legge prude di
applicarlo anche a chi è stato arrestato prima, perché no, si può
farlo. Così si procedette ad esempio con i trafficanti di valuta e
gli amministratori corrotti (che avevano accettato regalie): le
istanze locali, per esempio di Kiev, inviarono a Mosca degli
elenchi di nomi perché vi fossero indicati coloro ai quali andava applicato l'ef-

602
fetto retroattivo (allungare la bobina o dare i nove grammi di
piombo).* E si attennero alle istruzioni ricevute.
La nostra Legge sa anche prevedere il futuro. Sembrerebbe
che prima di un processo, nessuno sia in grado di sapere quale
ne sarà l'andamento e quale il verdetto. Ebbene: figuratevi che
la « Legalità socialista » può pubblicare tutto quanto in
anticipo, prima dell'apertura del processo. Come avrà fatto a
indovinare? Andate un po' a chiedere1...
Inoltre la nostra Legge non menziona il peccato di falsa testi-
monianza: evidentemente non lo reputa un reato. Una legione di
falsi testimoni prospera in mezzo a noi e s'incammina digni-
tosamente verso un'onorata vecchiaia, gode il dorato tramonto
d'una vita. Il nostro paese è l'unico, in tutta la storia e in tutto il
mondo, a vezzeggiare i falsi testimoni.
E ancora, la nostra Legge non punisce né i giudici né i pro-
curatori assassini. Tutti fanno una lunga e onorata carriera, e
poi entrano nobilmente nella vecchiaia.
Infine, bisogna riconoscerlo, anche la nostra Legge ha i suoi
momenti di sconcerto, i suoi scarti bruschi, propri di ogni pen-
siero creativo in cui palpita la vita. Ora vuole abbassare bru-
scamente, entro un anno, la criminalità: arrestare meno, proces-
sare meno, mettere i condannati in libertà sotto cauzione. Ma
poi, ecco un altro scarto: non si finisce mai con questi delin-
quenti! Basta con le cauzioni, inasprire il regime, aumentare le
pene, mettere a morte la canaglia!
Nonostante i colpi di maglio della tempesta, la nave della
Legge naviga maestosa e lenta. Se domani si ordinasse nuova-
* Allungare la bobina: prolungare la pena; dare i nove grammi di piombo: la pena capitale.
1 « La legalità socialista » (organo della Procura dell'URSS), gennaio 1962, n. 1. Dato alle
stampe il 27 dicembre 1961. A pagina 73-74 si trova l'articolo di Grigor'ev (Gruzd) Dei boia
fascisti; contiene un resoconto del processo contro i criminali di guerra estoni a Tartu. Il
corrispondente descrive l'interrogatorio dei testimoni; le prove a carico sul tavolo dei giudici;
l'interrogatorio di un imputato (« rispose cinicamente l'assassino »), la reazione degli astanti, il
discorso del procuratore. Comunica anche la sentenza di morte. E tutto avvenne precisamente
così, però soltanto il 16 gennaio 1962 (si veda la « Pravda » del 17 gennaio) quando la rivista
era già stata stampata e si trovava in vendita. (Il processo era stato rinviato senza che ne fosse
informata la rivista. Il giornalista si prese un anno di lavori forzati.)

603
mente di mettere dentro milioni di persone per reati d'opinione,
o deportare interi popoli (nuovamente gli stessi oppure altri) o
città intere, e di appendere ai detenuti quattro numeri, il pos-
sente fasciame della Legge quasi non fremerebbe, la sua asta di
prua non si piegherebbe.
La sola cosa immutabile è il verso di Derzavin,
comprensibile soltanto per il cuore di chi l'ha provato su se
stesso:

Un tribunale iniquo è peggio d'un brigante.

Questo sì, è immutabile. Oggi come ai tempi di Stalin, come


nel corso di tutti gli anni descritti in questo libro. Sono stati
promulgati e stampati molti Principi fondamentali, Decreti,
Leggi, contradditori o concordi, ma non sono essi a reggere la
vita del paese, non è in base ad essi che si arresta o si giudica,
che si fanno perizie. Soltanto nei pochi casi (un quindici per
cento?) in cui l'oggetto dell'istruttoria e del dibattito giudiziario
non metta in causa gli interessi dello Stato, l'ideologia regnante,
gli interessi privati o la tranquillità personale di qualche funzio-
nario, soltanto in questi pochi casi i giudici godono di questo
privilegio: senza telefonare a nessuno né ricevere indicazioni da
alcuno, giudicare secondo coscienza, sulla sostanza del caso.
Ma in tutti gli altri casi, la stragrande maggioranza, siano cause
civili o penali, poco importa, non possono non essere implicati
importanti interessi del presidente del kolchoz, del soviet rurale,
del capo di un'officina, del direttore dello stabilimento, dell'am-
ministrazione di un caseggiato, del miliziano del rione, dell'in-
caricato o del capo della milizia, del medico primario, dell'inge-
gnere capo, dei capi delle amministrazioni o dei dicasteri, delle
sezioni speciali e dell'ufficio quadri, dei segretari dei comitati
distrettuali e provinciali del partito e più in alto, più in alto
ancora. In tutti questi casi s'incrociano telefonate da un ufficio
all'altro, e voci calme e misurate formulano un consiglio ami-
chevole, una precisazione, un suggerimento, che indicano in
quale senso bisogna risolvere il caso giudiziario di quel povero
piccolo uomo sulla testa del quale s'intrecciano i progetti miste-
riosi e incomprensibili di personaggi che gli stanno sopra. Il
piccolo fiducioso lettore di giornali entra nell'aula del tribunale

604
con la giustizia che gli batte in petto, con ragionevoli argomen-
tazioni pronte, e tutto emozionato le espone davanti alle ma-
schere sonnacchiose dei giudici, senza immaginare che il ver-
detto è già stato scritto e che non vi sono istanze d'appello, non
esiste alcun mezzo di far rivedere la sinistra sentenza, dettata da
un interesse ben preciso, e la cui ingiustizia sgomenta e brucia.
Quello che ha davanti è un muro. E la malta che ne salda i
mattoni è la menzogna.
Abbiamo intitolato questo capitolo « La legge oggi ». Un
titolo più esatto sarebbe stato: non abbiamo legge.
La stessa perfida ipocrisia continua a impregnare l'aria che
respiriamo, la stessa nebbia di ingiustizia continua ad avvilup-
pare le nostre città, più densa del fumo delle ciminiere.
Da più di cinquantanni si erge questo Stato immenso tenuto
insieme da cerchi d'acciaio: i cerchi, e la loro morsa, ci sono,
ma legge non ce n'è.

605
Postface

Non avrei dovuto scrivere questo libro da solo; i diversi


capitoli avrebbero dovuto essere distribuiti fra persone
competenti; poi ci saremmo riuniti in un consiglio redazionale
per correggere il tutto aiutandoci a vicenda.
Ma evidentemente non è ancora giunto il tempo per un
lavoro del genere. Coloro ai quali avevo proposto di assumersi
la stesura di alcuni capitoli, si sono rifiutati, e hanno preferito
affidarmi un racconto, orale o scritto, perché io lo utilizzassi
come meglio ritenevo. Avevo proposto a Varlam Salamov di
scrivere tutto il libro con me, ma anche lui ha declinato la
proposta.
In effetti, ci sarebbe voluto un intero ufficio. Annunci sui
giornali, alla radio (« Rispondete! »), una vasta corrispondenza
aperta, in una parola quello che S. Smirnov aveva potuto fare
sulla fortezza di Brest.
Io invece, non soltanto non potevo neanche immaginare
un'impresa di quest'ampiezza, ma dovevo dissimulare e disper-
dere in giro sia il progetto che le lettere e il materiale di cui
disponevo, e fare tutto questo nella più assoluta segretezza. Ho
perfino dovuto camuffare l'impiego del mio tempo facendo finta
di attendere ad altre opere.
Cominciavo il libro, lo abbandonavo. Non riuscivo a
decidere se aveva senso che lo scrivessi io da solo. Avrei retto
alla prova? Ma quando, oltre a quelle che avevo già raccolto,
cominciarono a convergere verso di me anche lettere di
prigionieri da varie parti del paese, capii che, visto che tutto
questo era stato dato a me, dovevo farlo.

606
Occorre che spieghi una cosa: non una sola volta il libro si è
trovato intero, con tutte le sue parti riunite, sul medesimo
tavolo! Nel pieno del lavoro sull'Arcipelago, nel settembre
1965, i miei archivi vennero saccheggiati e un romanzo
sequestrato. Questo mi indusse a sparpagliare in direzioni
diverse le parti dell'Arcipelago già scritte e i materiali destinati
alle altre parti, che non furono mai più riuniti; non volevo
correre questo rischio, con tutti i nomi che già figuravano
nell'opera. Passavo il mio tempo a segnarmi su dei foglietti, per
non dimenticarmene, in quale posto bisognava cancellare la tal
cosa, in quale altro verificare la tal altra, e correre da un
nascondiglio all'altro. Ebbene, proprio questa febbrilità
spasmodica, questa incompiutezza sono tratti peculiari della
nostra letteratura perseguitata. Vogliate dunque accettare il libro
così com'è.
Non ho terminato l'opera non perché la ritenessi compiuta,
ma perché non avevo più abbastanza vita davanti a me.
Mentre chiedo indulgenza voglio anche lanciare un appello:
non appena si presentasse il momento, la possibilità, radunatevi,
amici superstiti, voi che sapete, e scrivete, accanto a questo,
altri commenti: correggete quello che va corretto, aggiungete
quanto va aggiunto (ma senza affastellare troppo, e badando a
non ripetere le stesse cose). Allora, e solo allora, l'opera avrà
acquisito la sua forma definitiva. Che Dio vi aiuti!
È già stupefacente ch'io abbia potuto portare la mia opera
allo stato attuale restando sano e salvo: più volte ho creduto che
non me l'avrebbero permesso.
È un anno notevole questo in cui metto il punto finale al-
l'opera, notevole per due anniversari (che sono collegati fra
loro) : il cinquantenario della rivoluzione che ha creato l'Arcipe-
lago e il centenario dell'invenzione del fil di ferro spinato
(1867).
Immagino che dei due sarà trascurato il secondo...

Rjazan' - Il Rifugio, 27.4.58 - 22.2.67

607
Un'ultima parola ancora

Avevo fretta, l'anno scorso, poiché mi apprestavo a far


esplodere la mia lettera al Congresso degli scrittori, e mi
aspettavo, se non di morire, almeno di perdere la libertà di
scrivere e la possibilità di accedere ai miei manoscritti. Ma la
faccenda della lettera girò in modo tale che non solamente non
fui arrestato ma al contrario mi ritrovai come installato sul
granito. Capii allora che dovevo e potevo rimettere mano a
quest'opera e finire di correggerla.
Adesso, un piccolo numero di amici l'hanno letta. Essi mi
hanno aiutato a vederne i gravi difetti. Non osavo controllarla
su una cerchia più vasta e, se anche lo potrò fare un giorno, sarà
troppo tardi per me.
Nel corso di quest'anno ho fatto quello che ho potuto, ho
aggiunto quello che mancava. Non mi si faccia colpa
dell'incompiutezza: non ci sarebbe fine alle aggiunte, e
chiunque abbia avuto anche il minimo contatto con questo
mondo, chiunque ci abbia riflettuto appena un poco, potrebbe
sempre avere qualcosa da aggiungere - magari anche una perla
preziosa. Ma esistono le leggi della misura. La misura è già
colma, e se si volesse aggiungere ad ogni costo ancora qualche
grano di verità, l'intera roccia franerebbe.
Ma chiedo invece ai lettori di volermi perdonare se qua e là
mi sono espresso in maniera infelice, o imprecisa, di perdo-
narmi ripetizioni e lungaggini. Considerino che neppure que-
st'anno è passato tranquillamente, negli ultimi mesi ho di nuovo

608
sentito il terreno bruciarmi i piedi e il mio tavolo le mani. E
considerino anche che, nemmeno per quest'ultima redazione, ho
mai veduto una sola volta l'intera opera riunita insieme, non l'ho
mai tenuta tutta insieme sulla mia scrivania.
Non è ancora giunto il tempo di affidare alla carta l'elenco
completo di coloro senza i quali questo libro non sarebbe stato
scritto, rielaborato, conservato. Essi sanno. M'inchino pro-
fondamente dinanzi a loro.

Rozdestvo sull'Ist'a, mag gio 1968

609
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611
612
613
Indice delle sigle e abbreviazioni
BUR Karak usilènnogo rezima (Baracca a regime rinforzato)
CC Comitato centrale (in russo CK, Čeka, Central'nyj ko-mitet)
Čeka Crezvycajnaja komissija (Commissione straordinaria):
negli anni 1917-1918, denominazione degli « Organi »
CP Codice penale
CS Clen semi (Membro della famiglia): articolo-sigla com-
portante l'incriminazione in quanto « membro della fa-
miglia (di un nemico del popolo) »
DOK Derevo-obdeloSnyj kombinat (Kombinat per la lavorazione
del legno)
DOPR Dom prinuditel'nych robot (Casa di lavori forzati)
DOZ Derevo-obdelocnyj zavod (Fabbrica per la lavorazione del
legno)
GB Sicurezza dello Stato, si veda KGB
ghepeu si veda GPU
GPU (ghepeu) Gosudarstvennoe politiéeskoe upravlenie (Direzione po-
litica dello Stato) : nome assunto dagli « Organi » nel
febbraio-dicembre 1922
GULag Glavnoe upravlenie lagerej (Direzione centrale dei campi
di prigionia)
Informburo Informacionnoe bjuro (Ufficio informazioni): agenzia
sovietica di informazioni attiva durante la seconda guerra
mondiale
ITK Ispravitel'no-trudovoj lager' (Campo di lavoro corre-
zionale)
ITL Ispravitel'no-trudovaja kolonija (Colonia di lavoro cor-
rezionale)
kgb (kaghebe) Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti (Comitato per la
Sicurezza dello Stato): subentra nel 1954 alla MGB
kolchoz kollektivnoe chozjajstvo: azienda agricola a statuto co-
operativo
Komsomol Kommunisticeskij sojuz molodèìi (Unione della gioventù
comunista), a sua volta denominazione abbreviata di
Vsesojuznyj Leninskij kommunisticeskij sojuz molodèìi
(Unione pansovietica della gioventù comunista leninista)
KPSS (kapeeses) Kommunisticeskaja partila Sovetskogo Sojuza (Partito
comunista dell'Unione Sovietica, sigla italiana: PCUS)
KPZ (kapeze) Kamera predvaritel'nogo zakljuéenija (Cella di deten-
zione preventiva)
KVČ (kavece) Kulturno-vospitatel'naja cast' (Sezione culturale ed edu-
cativa)
MGB (emghebe) Ministerstvo gosudarstvennoj bezopasnosti (Ministero
della Sicurezza dello Stato) : dirige gli « Organi » dopo il
614
1946
MOOP Ministerstvo ochrani obscestvennogo porjadka (Mini-
stero per il mantenimento dell'ordine pubblico)
MTS MaMnno-traktornaja standja (Stazione di macchine e
trattori): mettevano a disposizione dei kolchoz i mac-
chinari per l'attività agricola; liquidate nel 1958 MVD
(emvede) Ministerstvo vnutrennych del (Ministero
degli Interni): assume la direzione degli « Organi » nel
1946
NEP Novaja ekonomiceskaja politika (Nuova politica
economica): subentrò nel 1921 al «comunismo di guerra»
NEVZ Novočerkasskij elektrovozostroitelnyj zavod (Fabbrica di
locomotori elettrici di Novočerkassk)
NKVD (enkavede) Narodnyj komissariat vnutrennych del (Commissariato del
popolo agli Interni): dirige gli «Organi» dopo il 1934
OLP Otdel'nyj lagernyj punkt (Punto individuale del sistema dei
lager): campo locale, unità base del GULag
Orgburo Organizacionnoe bjuro (Ufficio organizzativo)
OSO Osoboe sovescanie (Consiglio speciale): organo che
emetteva le condanne presso la GPU
OUN Organizacija ukminskich nadonalistov (Organizzazione dei
nazionalisti ucraini)
PCUS Partito comunista dell'Unione Sovietica (in russo KPSS)
Politburo Politiceskoe bjuro (Ufficio politico)
PPČ (pepece) Proizvodstvenno-planovaja cast (Sezione del piano di
produzione)
RSFSR (eresèfeser) Rossijskaja sovetskaja federativnaja socialisticeskaja
respublika (Repubblica socialista federativa sovietica rus-
sa): la più importante delle repubbliche di cui è composta
I'URSS
Samizdat « Autoeditoria »: la produzione, letteraria e d'altro genere,
per lo più dattiloscritta, che eludendo la censura circola
nell'URSS a cura degli stessi lettori
Sizo Strafnoj izoljator (Isolatore disciplinare)
Smers Smert' spionam (Morte alle spie): servizio di
controspionaggio dell'Esercito
sovchoz Sovetskoe chozjajstvo: azienda agricola statale
SR Socialist-revoljucioner (Socialrivoluzionario)
ss soversenno-sekretno (segretissimo)
su Sobranie uzakonenii (Raccolta di testi legislativi)
TASS Telegrafnoe agentstvo Sovetskogo Sojuza (Agenzia
telegrafica dell'Unione Sovietica)
URČ Ucètno-raspredelitel'naja cast (Sezione contabilità e
ripartizione)
USO Ustav strelkovoj ochrany (Regolamento dei fucilieri di
scorta)
615
vagonzak vagon-zakljucénnye (vagone detenuti): carro ferroviario
adattato per il trasporto dei detenuti
VCK (veČeka) Vserossijskaja crezvycajnaja komissija (Commissione
straordinaria panrussa): negli anni 1917-1919, commis-
sione straordinaria per la lotta contro la controrivoluzione e
il sabotaggio; dal 1918 ripartita in organi locali, le varie
Čeka; quest'ultima denominazione è la più diffusa
VGS Vremennoe Grazdanskoe Stroitel'stvo (Costruzione civile
provvisoria)
VKP (b) Vsesojuznaja kommunisticeskaja partija (bol'sevikov)
(Partito comunista - bolscevico - dell'Unione Sovietica):
denominazione ufficiale del PCUS tra il 1925 e il 1952
Vochra Voenizirovannaja ochrana: altra denominazione della vso
vso Voenizirovannaja strelkovaja ochrana (Guardia armata
paramilitare)
zek (z/k) abbreviazione di zakljucénnyj (detenuto)

616
Indice dei luoghi geografici
Ačinsk a O di Krasnojarsk
Ajaguz NE del Kazachstan, tra Ust'-Kamenogorsk e il lago
Balchas
Alma-Ata E del Kazachstan, capitale della Repubblica
Altaj sistema montuoso dove nasce l'Ob
Amangeldy Kazachstan, a N del Mar d'Arai
Archangel'sk grande porto sul Mar Bianco
Astrachan’ grande porto nel delta del Volga sul Mar Caspio
Balchas (lago) Kazachstan orientale
Barabinsk Siberia sudoccidentale, a O di Novosibirsk
Belostok (Bialystok) in Polonia, a NE di Varsavia
Berezov sull'Ob inf., a S df Salechard
Betpak-Dala la Steppa della Fame, Kazachstan orientale, SE di
Džezkazgan
Biriljussy Siberia centrale, a N di Krasnojarsk
Birobidzan capitale della « Provincia autonoma degli Ebrei »
nell'Estremo Oriente sovietico a O di Chabarovsk;
per estensione la provincia stessa
Brest-Litovsk alla frontiera polacco-sovietica, a O della Belorussia
Brjansk Russia centrale a O di Orèl
Buchara S dell'Uzbekistan, a O di Samarcanda
Bug (fiume) si getta nel Mar Nero a E di Odessa
Butyrki prigione di Mosca
Carskoe Selo dal 1937 Puškin; vicino a Leningrado, ex residenza
imperiale
Chakassia repubblica autonoma sul corso superiore dello
Ejdsej
Char'kov Ucraina orientale sul Donec superiore
Cherson sul Dnepr inferiore
Croci (prigione delle) a Leningrado
Čerdyn' negli Urali, a N di Solikamsk
Čimkent tra Taskent e Džambul
Cirčik (fiume) affluente del Syr-Dar'ja
Ču (fiume) fiume della Kirghisia e del Kazachstan centrale; na-
sce nella catena del Tjan'-San' e si perde nelle step-
pe del Betpak-Dala
Ču-Ili piccola catena di montagne tra i bacini del Ču e del-
l'Ili
Čulym (fiume) affluente dell'Ob, nasce in Chakassia
Donbass bacino minerario del Donec
Dvina sett. (fiume) si getta nel Mar Bianco ad Archangel'sk
Džambejty N del Caspio
Džambul SE di Džezkazgan, NE di TaSkent
617
Džezdy NO di Džezkazgan
Džezkazgan Kazachstan centrale
Džusaly E del Mar d'Arai sul Syr-Dar'ja
Ekaterihodar oggi Krasnodar, a E del Mar d'Azov
Ekibastuz Kazachstan, a NE di Karaganda
Elee a O di Tambov nella grande ansa del Dnepr
Elizavetgrad oggi Kirovograd, a NO di Krivoj Rog
El'nja a E di Smolensk
Engels sulla riva orientale del Volga, di fronte a Saratoy
Enisej (fiume) grande fiume della Siberia centrale
Enisejsk sul corso medio dell'Enisej, a N di Krasnojarsk
Frunze capitale della Repubblica del Kirgizistan, E
dell'Asiacentrale sovietica
Gattinà alla periferia S di Leningrado
Igarka sullo Enisej inferiore
Ili (fiume) si getta nel lago Balchas
Indigirka a E della Lena
Inta SO di Vorkuta
Irkutsk Siberia orientale, O del lago Bajkal
Irtyš (fiume) grande affluente dell'Ob
Išim (fiume) affluente dell'Irtys, nasce a N di Karaganda
Ivanovo città industriale a 300 km a E di Mosca
Jagodnoe nella Kolyma, a O di Orotukan
Jakutija repubblica autonoma,sulla Lena, l'Indigirka e la Ko-
lyma
Jasnaja Poljana tenuta di L. Tolstoj vicino a Tuia, a S di Mosca
Kansk E di Krasnojarsk
Kara (fiume) in Transbaikalia
Karabas vicino a Karaganda
Karaganda nel Kazachstan orientale
Kargopol' tra Archangel'sk e Vologda
Katyn' vicino a Smolensk
Kemerovo a E di Novosibirsk
Kengir vicino a Džezkazgan
Kiev capitale dell'Ucraina, sul Dnepr
Kišinev capitale della Moldavia, a O del Dnestr
Kiškino nel distretto di Michnevo
KoSenevo a O di Novosibirsk
Kok-Terek a SE del lago Balcha§
Kola (penisola di) a N del Mar Bianco
Kologriv a NE di Gor'kij
Kolomna tra Mosca e Rjazan'
Kolyma fiume e regione del NE della Siberia
Kopevo in Chakassia
Kotlas alla confluenza della Dvina settentrionale e della
Vycegda
618
Krasnojarsk S della Siberia centrale, sullo Enisej
Krjukovo in Mordovia
Kronà'tadt isola del golfo di Finlandia, davanti al delta della
Neva
Kuban' fiume e regione a E del Mar d'Azov
Kujbyšev sul Volga a S di Kazan
Kursk a S di Orel
Kustanaj Kazachstan nordoccidentale
Kuška sulla frontiera afghana, a S di Mary
Kzyl-Orda sul Syr-Dar'ja, a E del Mar d'Arai
Lefortovo prigione alla periferia di Mosca
Livadia sulla costa S della Crimea
Ljalja Urali settentrionali, a N di Sverdlovsk
Lokot' (Brjanskij) tra Brjansk e Kursk
Lubjanka nel centro di Mosca, prigione e sede degli « Organi
»
Magadan nella Kolyma, sul Mare di Ochotsk
Magnitogorsk Urali meridionali
Marxstadt a NE di Engels
Michajlovskoe tenuta di Puslcin, nella provincia di Pskov
Michnevo S di Mosca
Minussinsk sul corso superiore dello Enisej
Mogilev tra Minsk e Smolensk
Mordovia repubblica autonoma dei Mordvini, tra Gor'kij e
Penza
Morozovsk nell'ansa del Don, a O di Stalingrado
Murmansk porto sul Mar Glaciale artico, estremo NO della
Russia europea
Murom tra Gor'kij e Rjazan'
Narva sulla frontiera estone-russa, vicino al golfo di
Finlandia
Narym sull'Ob, a NO di Tomsk
Nercinsk a E di Cita sulla Transiberiana
Nikolaev alla foce del Bug, a E di Odessa
Niznij Aturjach nella Kolyma
Niznij Novgorod nome (fino al 1932) di Gor'kij
Noril'sk vicino all'estuario dello Enisej
Novgorod a S di Leningrado
Novočerkassk vicino a Rostov-na-Donu
Novocunka nella Siberia orientale, a E di Tajset
Novograd-Volynskij a O di Kiev
Novorudnoe vicino a Džezkazgan
Novosibirsk a S della Siberia centrale, sull'Ob
Ob (fiume) grande fiume della Siberia occidentale
Ocakov sul Mar Nero, a O di Odessa
Odessa grande porto sul Mar Nero
619
Ojmjakon O della Kolyma
Ol'sany vicino a Char'kov
Omsk sull'Irtys, a SE di Tobol'sk
Onega (lago) NO della Russia europea, tra Leningrado e il Mar
Bianco
Ordzonikidzevskij in Chakassia
Orel nella Russia centrale, tra Tuia e Kursk
Orla O di Smolensk
Orsk a NE del Mar Caspio
Osintorf O di Smolensk
Parma Urali settentrionali
Pavlodar sull'Irtys, NE di Ekibastuz
Pečora (fiume) NE della Russia europea
Perni' a O degli Urali centrali
Petropavlovsk a N del Kazachstan
Pinega (fiume) affluente della Dvina settentrionale
Pjatigorsk a N del Caucaso centrale
Pocaev. Ucraina occidentale, E di L'vov
Podkammenaja nella Siberia centrale, affluente dello Enisej, tra
Tunguzka (fiume) Enisejsk e Turuchansk
Pot'ma in Mordovia
Pozerevičy SO di Novgorod
Pskov a E della frontiera con l'Estonia
Ranova (fiume) SE di Rjazan'
Reiety SO di Novosibirsk
Riga capitale della Lettonia, sul Baltico
Rjazan' SE di Mosca
Roslavl' SE di Smolensk
Rostov (na-Donu) vicino alla foce del Don
Ruzaevka in Mordovia, tra Mosca e Kujbyšev
Sachalin (isola di) grande isola a N del Giappone
Salechard sull'estuario dell'Ob
Samara (fiume) affluente del Volga (a Kujbyšev)
Samara (città) nome, fino al 1935, di Kujbyšev
Samarcanda nell'Uzbekistan
Saratov sul Volga, tra Kujbyšev e Stalingrado
Semipalatinsk NE del Kazachstan
Simferopol' nella Crimea centrale
Smolensk negli Urali settentrionali
Solovki arcipelago nel Mar Bianco
Spasskoe-Lutovinovo nella regione di Orel
Starodub a metà strada tra Kiev e Mosca
Suslovo a NE di Kemerovo
Sverdlovsk negli Urali centrali
Syktyvkar capitale della Repubblica autonoma dei Komi, sulla
Vycegda
620
Susenskoe in Chakassia, S della Siberia centrale
Taganka prigione di Mosca
TajSet nella Siberia centrale, a E di Krasnojarsk
Tallin capitale dell'Estonia, sul golfo di Finlandia
Tambov a metà strada tra Mosca e Stalingrado
Tara affluente dell'Irtyg, a N di Omsk
Tartu in Estonia
Tar'ussa a N di Tuia
Taseevo a NO di Kansk
Ta§kent a NE di Samarcanda, capitale dell'Uzbekistan
Tavda nella Siberia occidentale
Teberda a O del Caucaso centrale
Tilsit nella Prussia orientale (oggi Sovetsk)
TiraspoF in Moldavia, a SE di KiSinè'v, sul Dnestr
Tobol'sk nella Siberia occidentale, sull'Irtys
Tomsk a N di Novosibirsk
Torbeevo in Mordovia
Tuia a 300 km a S di Mosca
Turgaj fiume e deserto a NO di Džezkazgan
Turuchan (fiume) affluente dello Enisej
Turuchansk sullo Enisej inferiore
Tusino aeroporto militare di Mosca
Tuzlov (fiume) nel Donbass
Uchta tra Kotlas e Vorkuta
Ufa negli Urali centali
Ulutau NO di Džezkazgan
l,Jnza (fiume) affluente del Volga, a N di Gor'kij
Ural'sk sul fiume Ural, a N del Mar Caspio
Usolka (fiume) Siberia centrale, a N di Kansk
Ust'-Ilimskij Siberia orientale, tra Bratsk e Ust'-Kut
Ust'-Nera nella Kolyma
Ust'-Usa nel bacino della Pecora
Ust'-Vym' a N di Syktyvkar
Vasjugan (fiume) affluente dell'Ob
Vilno oggi Vilnius, capitale della Lituania
Vinnica a SO di Kiev
Vjatka antico nome (fino al 1934) di Kirov, a N di Kazan'
Volchov (fiume) scorre da Novgorod verso N,-fino al lago Ladoga
Vologda a mezza strada tra Mosca e Archangel'sk
Vorkuta a O dell'estuario dell'Ob
VySegda (fiume) affluente della Ovina settentrionale
Zagorsk a 70 km a NE di Mosca
Zlatoust negli Urali centrali
Zmiev a SE di Char*kov

621
Indice dei nomi
Abakumov, Viktor Semenovič (1897-1954), ministro della Sicurezza dello
Stato dal 1946 al 1952; destituito sotto Stalin, con-
dannato e giustiziato sotto Chruščev, nel 1954, 358
Achmatova, Anna Andreevna (pseudonimo di A. Gorenko, 1889-1966),
grande poetessa, lungamente in disgrazia sotto Stalin,
111
Adamova-Sliozberg, 407
Adaskin, 282
Akoev, Petr, 351, 365
Aksakov, Sergej Timofeevič (1791-1859), critico e scrittore, esponente di un
peculiare « realismo lirico », 390
Aleksandrov, A., 17
Alekseev, Vanja, 549
Aleksej Michajlovič (1629-1676), zar della Moscovia dopo il 1645, 98 n,
387, 432
Alessandro I Pavlovič (1777-1825), zar dal 1801, 387
Alessandro II Nicolaevič (1818-1881), zar dal 1855, subì nume-
rosi attentati ad opera di terroristi, soccombendo all'ultimo, 100, 448 n
Alessandro III Aleksandrovič (1845-1894), zar dal 1881
Anastasij, metropolita, 147
Andersen, Arvid E., 472, 475 n
AndreeV, Leonid Nikolaevič (1871-1919), scrittore, 106
Anikin, 244
Antonov, 30
Apfelzweig, 365
Arakceev, Aleksej Andreevič (1768-1834), generale, ministro della guerra
sotto Alessandro I, 81, 578
Arany, Janos (1817-1882), poeta ungherese, partecipò ai moti rivolu-zionari
del 1848, 145
Arend, Ju. V., 596
Aseeva, Marija, 551
Aspanov, 244
Austrin, 413 n

Baduchin, Ivan Andreevič, 572 Baev, 519


Bakaev, 551
Bakst, Miša, 533
Bandera, Stepan (1909-1959), leader nazionalista ucraino, dirigente
dell'OUN, venne assassinato a Monaco da un agente
sovietico, 53, 54, 243, 295
Baranovskij, Janek, 308
Basov, 586 n
Batanov, 95, 181, 242
Batu-Kban (m. 1255), condottiero mongolo, sottomise nel 1240 i principati
622
russi, 47
Baturin, 89
Bazbej, 594, 596
Bazičenko, 174
Bazunov, 543, 544
Bazanov, Boris Georgevič, 34
Beljaev, 77, 172,. 333, 342, 343, 376, 381
Belokopyt, 323
Belousov, 318
Bel'skij, 535
Berdenev, 495
Berdjaev, Nikolaj Aleksandrovič (1874-1948), filosofo e pensatore religioso,
109 n
Berezovskij, 434
Berija, Lavrentij Pavlovič (1899-1953), georgiano capò della NKVD nel
1938, destituito dopo la morte di Stalin e giustiziato,
14, 69, 80 n, 98, 285 n, 326, 327, 331, 335, 346, 352,
358, 425, 437, 469, 471, 503, 560
Bernstein, Hans, 528
Bèršadskaja, Ljuba, 346, 353
Blok, Aleksandr Aleksandrovič (1880-1921), grande poeta russo, esponente
di rilievo del simbolismo, 141, 469 n
Blum, Leon, 28
Bobrovskij, 117
Bočkov, 346, 350, 358
Bogoslovskij, Aleksej Ivanovič, 440
Bogus, 82
Bondarin, S.A., 524
Bordovskij, M.I., 426, 596
Borisov, Avenir, 514, 522
Boronjuk, Pavel, 48, 49, 50, 91, 123, 316
Borovikov, Kolja, 141
Bresko-Breskovskij, Nicola] Nikolaevič, scrittore di romanzi d'avventure, 61
Brjuchin, Vasilij, 94, 179, 230, 248
Brjusov, Valerij Jakovlevič (1873-1924), poeta simbolista russo, 92 n
Brodskij, losif Aleksandrovič (n. 1940), poeta russo, subì nel 1963 una
condanna per «parassitismo »; costretto ad emigrare,
vive dal 1973 negli Stati Uniti, 601
Bronevičkij, Nikolaj Gerassimovič, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30
Bucharin, Nikolaj Ivanovič (1888-1938), tra i massimi dirigenti del partito,
escluso dal Politburo nel 1929, condannato a morte nel
1938 e fucilato, 25
Budennyj, Semen Michailovič (1883-1973), maresciallo dell'URSS; nella
guerra civile comandò la Prima armata di cavalleria,
200
Bulgakov, Michail Afanasevič (1891-1940), uno dei più grandi scrittori russi
623
del secolo, autore di romanzi satirici e fantastici, 54,
109 n
Bulganin, Nikolaj Aleksandrovič (n. 1895), uomo politico, presidente del
Soviet supremo dal 1955 al 1958, 485 n
Burcev, 106, 109
Burkovskij, 65, 95, 561
Burlaka, A.I., 518 n

Caterina II (1729-1796), zarina dal 1762, 60, 98 n, 460 n, 573, 580 n


Chafizov, Chafiz, 156, 185
Chajdarov, Michail, 156, 175, 177
Chalturin, 100
Chamberlain, Neville, 501
Chang Tso-Iin, 31
Chlebunov, Nikolaj, 305
Chloponina, Ženja, 595
Chmel'nitskyj, Bogdan, 53
Chominskij, 118
Chruščev, Nikita Sergeevič, 135 n, 286 n, 403, 423, 458, 485 n, 497, 503,
507, 509, 511, 520, 550, 567, 568, 569, 583 n, 584,
585, 593, 597
Chudaev, Abdul, 464, 465, 499
Churchill, Winston, 35
Churdenko, 555
Chvat, 228, 535
Civil'ko, A., 435, 441
Cot, Pierre, 371

Čadova, 484
Čaikovskij, Petr Il’ič, 75
Čebotar-Tkač, Anna, 537
Čečev, 77, 80 n, 320, 326, 336 n, 376
Čechov, Anton Pavlovic, Un, 43, 76, 388, 389, 390, 395, 563 n
Černogorov, 313
Četverikov, 125 n
Čizevskij, 77
Čizik, 553
Čul’penëv, 521, 528, 536

Dal', Vladimir Ivanovič (1801-1872), scrittore, autore di un famoso dizionario


della lingua russa, 142
Denikin, Anton Ivanovič (1872-1947), uno dei principali capi militari dei
Bianchi nella guerra civile, 17
Derevjanko, 328, 329
Derzavin, Gavrila Romanovič (1743-1816), poeta del classici-smo russo, 604
Deutsch, Lev Grigorevič (1855-1941), socialdemocratico menscevico,
624
biografo di Plechanov, 129
Djakov, Boris Aleksandrovič (n. 1902), scrittore, rinchiuso in un lager nel
1949, ha pubblicato nel 1964 un libro di ricordi
conforme alla linea ufficiale, 125 n, 144 n, 460, 554
Dmitriev, Sura, 407
Dmitrievskij, 125 n
Dobrjak, Ivan, 528
DolgorukijY Jurij (1090-1157 circa), principe russo, considerato il fondatore
di Mosca (nel 1147), 371, 384
Dorosevič, 73 n
Dostoevskij, Fedor Michailovič, 60, 61
Drozdov, 60, 147
Dubinskaja, 89
Duchonin, 108 n
Dušečkin, Ivan, 230, 231
Dutov, 323
Džeržinskij, Feliks Edmundovič (1877-1926), creò la Čeka, 116

Egorov, P.K., 518 n


Elisabetta I Petrovna (1709-1761), figlia di Pietro il Grande, zarina dal 1741,
387
Elsberg, Jakov Efimovič (n, 1901), critico e storico della letteratura, dopo il
XX Congresso venne accusato di aver denunciato
numerosi scrittori, 537
Engels, Friedrich, 451 n
Epstein, Faina, 381
Erenburg, Il'ja Grigorevič (1891-1967), scrittore e giornalista; scrisse delle
memorie sul periodo staliniano, 115 n, 118n
Ermak, 207
Ermilov, V.V., ll'Sn, 371
Esepov, 510

Fedotov, 322
Florja, Fedor, 23
Franco, Francisco, 27
Frank, Semen Ludvigovič (1877-1950), filosofo e pensatore religioso, 109 n
Fuster, 343

Gadziev, Mahomet, 244, 255


Galanskov, Jurij Timofeevič (1939-1972), poeta e pubblicista; redattore di
riviste del Samizdat, processato nel 1968 e condannato,
morì nel lager, 538
Galic, 285 n
Garcia, Manuel, 169
Generalov, Michail Michajlovič, 304, 318
Gengis Khan, 417
625
Genkin, 365
Gersuni, Volodja, 50, 51, 89, 90, 91, 93, 105, 265, 316
Ginzburg, Aleksandr Il’ič (n. 1936), autore di un famoso « Libro bianco »
sul processo a Siniavskij e Daniel', venne processato
con Galanskov nel 1968 e condannato a 5 anni di lager;
tra i maggiori esponenti del movimento democratico
nell'URSS è attualmente in carcere, 538
Ginzburg, Lev, 553
Ginzburg, V.I., 531
Goethe, Johann Wolfgang, 107, 146 n
Gogol', Nikolaj Vasil'evič, 145
Golicyn, V.P., 530
Golovin, S.I., 543
Goltz-Miller, Ivan Ivanovič (1842- 1871), poeta rivoluzionario, 61 n
Gorbatov, Aleksandr Vasil'evič (n. 1891), generale, fu deportato a Kolyma;
scrisse delle memorie sul lager, 554
Gor'kìj, Maksim (pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peskov'), 106,
118, 223, 404
Gornik, I.Ch., 426 n
Granovskij, 39
Grekova, Nadezda Nikolaevna, 481, 503
Griboedov, Aleksandr Sergeevič (1795-1829), drammaturgo, 121 n, 145
Grigor'ev, 82
Grigor'ev, A.I., 544
Grigor'ev (Gruzd), 603 n
Grinevičkij, 100
Gromyko, Andrej Andreevič (n.1909), ministro degli Esteri dal 1957,
473 n
Guckov, 390
Guglielmo II, imperatore di Germania, 39
Gul'tjaev, 319
Gusak, 535

Herzen Aleksandr Ivanovič (1812-1870), scrittore e pensatore russo


rivoluzionario

Ivan IV Vasil’evič, il Terribile (1530-1584), gran principe di Mosca dal


1533, zar dal 1547, 98, 387 n
Ivanov, Oleg, 65, 123
Ivanov-Razumnik, 105

Jagoda, Genrich Grigor'evič (1891-1938), diresse dal 1934 al 1936 la


NKVD, 358
Jakovlev, 223
Jakubovič, M.P., 516
Jakubovič, Petr Filippovič (1860-1911), poeta membro dell'organizzazione
626
populista « Volontà del popolo », 388 n, 389
Jančenko, 314, 315
Janovskij, V.K., 109
Jarimovskaja, Slava, 368
Jazdik, 175, 176, 177
Jochelson, Vladimir Il’ič (1855-1943), esponente del movimento « Libertà
del popolo », deportato nel 1888 nella regione della
Ko-lyma, 389 n

Kadackaja, Marija, 533


Kaganovič, Lazar Mojseevič (n. 1893), tra i più stretti collaboratori di Stalin,
membro del Po-litburo dal 1930, 485 n, 592 n
Kaledin, 586
Kalinina, M.I., 527
Kaljaev, 119n
Kamenev, Igor', 521
Kamenev, Lev Borisovič (pseud. di Rosenfeld, 1883-1936), tra i massimi
dirigenti del partito dopo la morte di Lenin, venne
espulso nel 1927, arrestato nel 1934 e condannato a
morte nel primo dei processi di Mosca nel 1936, 25 n,
105
Karachanov, V., 543, 544
Karakozov, 100, 101
Karavanskij, S., 570, 597
Karpec, Igor' Ivanoviò, 581
Karpenko-Karyj (pseud. di Ivan Karpovič Tobilevič, 1845-1907),
drammaturgo e attore ucraino, 107
Karpov, Evtichij Pavlovič (1857-1926), drammaturgo e regista teatrale,
populista, 108
Karpunic-Braven, I.S., 516, 531
Kasatkin, Ivan Michajlovič (1880-1938), scrittore, membro del partito
socialdemocratico, scomparve negli anni del « culto »,
108
Kasjukov, 549 n
Kazačuk, Torija, 504
Kazlauskas, 323
Keller, Michail, 353, 354, 383
Kireev, Jura, 141
Kirillov, Vladimir Timofeevič (1890-1943), rivoluzionario, poeta proletario,
vittima del « culto », 107
Kirov, Sergej Mironovič (pseud. di Kostrikov, 1886-1934), stretto col-
laboratore di Stalin, assassinato (per ordine di questi),
100, 113
Kiškin, Petr, 149, 150, 151, 152, 153, 316
Kivi, Ingrid, 381
Kljucevskij, Vasilij Osipovič (1841-1911), uno dei massimi storici russi, 326
627
Knjazev, 432
Knopkus, 352, 353, 383
Kocerava, Kokki, 319, 320
Kocetov, Vsevolod Anisimovič (1912-1974), scrittore, redattore dal 1961
della rivista « Oktjabr », 371
Kolčak, Aleksandr Vasil'evič (1873-1920), ammiraglio della flotta imperiale,
fu tra i capi del movimento dei Bianchi; sconfitto
dall'Armata Rossa, venne fatto prigioniero e fucilato,
114
Kolesnikov, 75
Komov, 272
Kon, Feliks Jakovlevič (1864-1941), rivoluzionario polacco, poi bolscevico,
si stabilì nell'URSS dopo il 1917, 389, 390 n, 391, 394
Konencov, 90
Kononov, 35
Konovalov, Stepan, 244, 252, 254, 256
Kopelev, Lev Zinov'evič (n. 1912), germanista, compagno di prigionia di
Solzenicyn, 508, 523, 528
Korneeva, Vera Alekseevna, 521
Kornejčuk, Aleksandr Evdokimovič (1905-1972), drammaturgo russo-
ucraino, dirigente dell'Unione scrittori e del Movimento
della pace, cinque volte premio Stalin, 233
Kornfeld, 316
Korolenko, Vladimir Galaktionovič (1853-1921), scrittore populista, più
volte deportato sotto il regime zarista, si oppose al
terrore bolscevico, 124, 404
Kosych, 285 n
Koval'skaja, E.N., 177
Koverčenko, Ivan, 185
Kozlov, Frol Romanovič (1908-1965), dirigente comunista, membro del
Presidium del CC dal 1957 al 1964, 590, 591
Kozin, 174
Kožurin, 428
Krasin, Leonid Borisovič (1870-1926), bolscevico della prima o-ra, primo
ambasciatore dell'URSS in Francia, 106, 389
Krasnov, Petr Nikolaevič (1869-1947), già generale bianco durante la guerra
civile comandò una unità cosacca che lottò nel 1944-45
contro i bolscevichi; consegnato a Stalin dagli inglesi,
venne impiccato, 268
Krasnov-Levitin, Anatolij Emmanuilovič (n. 1915), pubblicista e religioso,
militante nel movimento per i diritti civili, in esilio dal
1975, 593
Kravčenko, Viktor Andreevič (1905-1966), alto funzionario sovietico si
rifugiò negli Stati Uniti nel 1944; autore di un famoso
libro, Ho scelto la libertà, intentò un processo per
diffamazione contro dei direttori di pubblicazioni co-
628
muniste francesi che l'avevano accusato di falso, 59
Krivosein, Volod'ka, 253
Kruglov, 358
Krupskaja, Nadezda Konstantinova (1869-1939), moglie e collaboratrice di
Lenin, 103, 110
Krylenko, Nikolaj Vasil'evič (1885-1938), alto funzionario della Giustizia
sovietica, commissario del popolo alla Giustizia per
l'URSS dal 1936, venne poi fucilato, 22, 108
Krylov, Ivan Andreevič (1768-1844), noto favolista russo, 119n
Krylov, Nikolaj, 173
Krzizanovskij, 108, 442
Kudla, Grigorij, 156, 197, 206, 209, 220, 230, 231, 232, 233, 234
Kudrjavcev, N.V., 581
Kùrockin, Vasilij, 585
Kustarnikov, Vasilij, 244
Kutuzov, 507
Kuz'min, 545
Kuznecov, Kapiton Ivanovič, 348, 351, 352, 357, 358, 362, 363, 368, 377,
381, 383, 544

Laktjunkin, Prokop Ivanovič, 408 Lavrov, Petr Lavrovič (1823-1900),


rivoluzionario ideologo del movimento populista, 118
Lebedev-Kumač, Vasilij Ivanovič (1898-1949), poeta, molte sue poesie sono
diventate popolari canzoni, 17 n, 32 n
Lenin, Vladimir Il’ič, 33, 39, 54, 100 n, 101, 102, 103, 107, 110, 113, 151,
265, 284 n, 371, 394, 402 n, 411, 451 n, 497, 586, 595
LepeSinskij, 394
Lermontov, Michail Jurevič, 46 n, 99, 145, 146 n
Lesjučevskij, Nikolaj Vasil'evič, direttore della Casa editrice « Sovetskij
pisatel’ », venne accusato di aver denunciato e fatto
arrestare degli scrittori negli anni Trenta, 537
Lesovik, S.A., 524
Levitan, 26
Levsin, 161, 162, 167, 510
Libin, 510
Lichoserstov, 554
Lifšic, 323, 436
Lozovskij, 536
Luzenovskij, 105
Lysenko, Trofim Denisovič (1898-1977), agronomo, impose le sue
concezioni nel campo della genetica grazie al sostegno
di Stalin; introdusse procedimenti di tecnica agraria che
si rivelarono catastrofici, 536

Makeev, A.F., 358, 359, 363, 365, 366, 374, 437


Maksimenko, 93, 95, 255, 277, 278, 291, 316
629
Maksimov, 50
Malenkov, Georgij Maksimilianovič (n. 1902), segretario di Stalin, gli
successe a capo del governo nel 1953; venne eliminato
dalla vita politica nel 1957, 376, 485 n
Maljavko-Vysockij, Aleksandr Petrovič, 520 n
Maloj, 85
Mamulov, 30
Mandel'štam, Nadežda Jakovlevna (n. 1899), vedova di Osip M., ha scritto
delle Memorie di grande importanza, 4DO
Mann, Thomas, 146 n
Marčenko, Anatolij Tichonovič (n. 1938), più volte condannato al lager ha
scritto La mia testimonianza, 570, 577 n, 580 n
Markelov, 519
Markosjan, 361
Martirosov, 180
Mart'janov, Petr Alekseevič (1835-1866), rivoluzionario, amico di Herzen,
deportato in Siberia nel 1863, 390
Martov, Julij Osipovič (pseud. di Zederbaum, 1873-1923), rivoluzionario,
amico di Lenin, nel 1903 si mise a capo della frazione
menscevica; emigrò nel 1920, 104
Marx, Karl, 102, 104, 107, 420, 446, 451 n
Masjukoy, 117
Maslennikov, Ivan Ivanovič (1900-1954),generale,lavorò negli «Organi »
prima e dopo la guerra, 328
Matveev, Ju., 543
Medvedev, 347, 349 n
MenSikov, Aleksandr Danilevič (1673-1729), militare e uomo politico, nei
favori di Pietro il Grande, cadde in disgrazia dopo la
sua morte e venne esiliato in Siberia nel 1727, 391
Meyerhold, Vsevolod Emilevič (1874-1942), regista teatrale, accusato di «
formalismo », scomparve durante il « culto », 403
Michajlovskij, Nikolaj Konstantinovič (1842-1904), filosofo positivista,
critico letterario e pubblicista, tra i massimi esponenti
del populismo, 120
Michalevič, Anja, 346
Micheev, 353, 356
Mikojan, Anastas Ivanovič (n. 1895), stretto collaboratore di Stalin e
consigliere di Chruščev, si è oggi ritirato dalla vita pò.
litica, 485 n, 509, 590, 591
Miljukov, Ženja, 319
Mili, John Stuart, 107
Mism, 76, 80 n, 562 n
Mitrovič, Georgij Stepanovič, 431, 434, 496, 497, 498
Mokrousov, Boris Andreevič (n. 1909), compositore, autore di canzoni,
premio Stalin, 154
Molcanov, 408
630
Molotov, Viačeslav Michajlovič (pseud. di Skrjabin, n. 1890), tra i massimi
dirigenti del partito e dello Stato ai tempi di Stalin; mi-
nistro degli Esteri a più riprese dal 1939 al 1956;
allontanato dalla vita politica nel 1957, 38, 228, 485 n
Moncanskaja, 549 n
Montgolfìer, Joseph Michel, 369
Morščinin, 159
Mut'janov, 94, 179, 244, 247, 252

Nadezdin, Nikolaj, 391


Navruzov (Leška lo Tzigano), 182, 184
Nedov, 551, 552
Nehru, Javaharlal, 40
Nekrasov, Nikolaj Alekseevič (1821-1877), poeta, fautore di una poesia
socialmente impegnata, 76, 145
Nicola I Pavlovič (1796-1855), zar dal dicembre 1825, 99
Nicola II Aleksandrovič (1868-1918), zar dal 1894 al 1917, morì assassinato
con tutta la sua famiglia, 28, 98, 101
Nikišin, Ženja, 148, 153, 154
Nkrumah, Kwame, 566
Nuss, Viktoria, 494 economica, finanziò i bolscevichi in esilio, 107, 120

Pasečnik, 181, 185


Paškov, 456
Perov, 165
Petljura, Simon Vasil'evič (1879-1926), leader nazionalista ucraino nel
1917-1920, 54
Pétöfi, Sàndor (1823-1849), poeta e patriota ungherese, rinnovò la lirica
magiara, 145
Petropavlovskij, 519
Pietro I il Grande, 98 n, 106 n, 423
Pilsudski, Józef (1867-1935), presidente della Polonia dal 1926, 28
Pirogov, 31
Pisarev, Dmitrij Ivanovič (1840-1868), critico letterario radicale, fu
imprigionato per quattro anni nella fortezza di
Pietroburgo, 141
Pjatakov, Georgij Leonidovič (1890-1937), alto dirigente del partito, venne
condannato a morte al primo processo di Mosca e fuci-
lato, 25 n
Platonov, 586
Plechanov, Georgij Valentinovič (1856-1918), filosofo marxista, u-no dei
fondatori della socialdemocrazia russa, si avvicinò ai
menscevichi e prese posizione contro la rivoluzione
d'Ottobre, 107, 503 n
Plehve, Viaceslav Konstantinovič (1846-1904), ministro degli Interni nel
1902, morì in un attentato, 119n
631
Pliev, 586 n, 588
PodbePskij, Vadim Nikolaevič (1887-1920), bolscevico, commissario del
popolo, 39.1
Poincaré, Raymond, 28
Poisuj-Sapka, 30
Polev, G., 535
Poljakov, Aleksandr Vladimirovič,437, 438 Polundra, 90
Ponomarev, Volodja, 310, 316 Popov, G.F., 518 Pospelov, V.V., 522
Potemkin, Grigorìj Aleksandrovič (1739-1791),
favorito di Caterina II, uomo di Stato, 580 n
Prochorov-Pustover, 515
Prokof ev, 280
Prokopenko, 238, 239
Prytkova, Tamara, 527
Puškin, Aleksandr Sergeevič, 99, 121 n, 141, 145, 390, 392, 508,
522 n

Radek, Karl Bernardovič (pseud. di Sobelsohn, 1885-1939), compagno di


emigrazione di Lenin tornò con lui in Russia nel 1917;
membro del CC fino al 1925, venne espulso dal partito
nel 1927 e scomparve, 25
Radiščev, Aleksandr Nikolaevič (1749-1802), scrittore, pubblicò sotto
Caterina II un libro che denunciava la servitù della gle-
ba; condannato a morte, la sua pena fu commutata
nell'esilio, 392, 507
Rajkov, Leonid, 319
Rak, Semen, 381
Rakovskij, Christian Georgevič, 25
Rappoport, Arnold, 139, 140
Rataev, L.A., 119
Red'kin, 136, 180
Repin, Il'ja Efìmovič (1844-1930), pittore populista realista, 233
Retjunin, 267, 268
Retz, F., 433, 526
Ribbentróp, Joachim von, 38
Rjazancev, 380
Rjumin, 510
Robertson, 473 n
Rolland, Romain, 57
Romanov, famiglia imperiale russa dal 1613 al 1917, 387 n, 485 n
Rosenberg, Will, 334
Rozsàs, János, 143, 144, 145, 146 n
Rudòuk, Vladimir, 146, 147, 148, 283
Rudenko, Roman Andreevič (n. 1907), dal 1953 procuratore generale
dell'URSS, 328
Rudkovskij, 516
632
Rudyko, 535
Russell, Bertrand, 381
Rutčenko, 36
Rykov, Aleksej Ivanovič, 25
Ryzkov, Valentin, 244, 253, 254

Sabotaznikov, 219
Sakurenko, 268
Salin, 536
Salodjankin, 551
Salopaev, 180
Samsonov, B.I., 568
Samutin, 259, 265
Sartre, Jean-Paul, 381
Sauer, 323
Savinkov, 105
Sazonov, Egor S. (1879-1910), socialrivoluzionario, uccise il ministro
Plehve nel 1904, 119
Schiller, Johann Christoph Friedrich von, 107
Schopenhauer, Arthur, 107
Sedeva, Natal'ja, 110
Segeda, Nadezda, 116
Semaško, Nikolaj Aleksandrovič, 107
Semënov, 270
Semënov Tjan-Šan'skij, Petr Petrovič (1827-1914), esploratore e geografo,
lasciò una classica descrizione geografica della Russia,
388 n, 457
Semuskin, 380
Serdjukova, Anna, 101 n
Serëgin, 536
Silin, Anatolij Vasil'evič, 132, 134, 135
Silin, V.I., 543
Sirochin, Evgenij M., 596
SiSkin, V.G., 551
Skoropadskij, Pavel Petrovič (1873-1945), generale zarista, atamano
dell'Ucraina dall'aprile al dicembre 1918, sostenuto dai
tedeschi, 54
Skripnikov, 537
Skripnikova, A., 411, 564, 565, 566
Slobodjanjuk, 174
SluSenkov, Gleb, 348, 353, 358, 361, 363, 364, 366, 374, 377, 381, 383
Sokalskij, Petr retrovič (1832-1887), compositore ucraino, 61 n
Solov'ev, 565
Sorokin, G.A., 414, 521
Spasskij, Ivan Alekseevič, 61, 62, 93
Spiridonova, Marija Aleksandrovna (1884-1941), condannata nel 1906 per
633
un attentato, nel 1917 è a capo dei SR di sinistra; morì
probabilmente in un lager sovietico, 28, 105
Stalin, Iosif Vissarionovič Dzugasvili, detto, 7, 9 n, 14, 19, 26, 28, 30, 31,
33, 34, 35, 40, 41, 56, 57, 69, 80n, 98, 105, 111, 113,
114, 116 n 125, 144 n, 146 n, 175, 235, 236, 259, 270,
286 n, 288, 324 n, 325 n, 326, 327, 333, 338, 371, 391,
394, 400, 403, 405 n, 422, 428 n, 443 n, 444, 450, 451
n, 458, 460, 485 n, 491, 501, 503, 509, 510, 520, 537,
539, 567, 568, 569, 584, 590, 592, 593, 597, 598, 604
Starosel'skij, Vladimir Aleksandrovič, 109
Stendhal, 140
Sternberg, Lev JakovleviS, 389 n
Stolbunovskij, 554
Stoljarov, I.V., 398
Stoljarov, Viktor Aleksandrovič, 211, 219
Stoljarova, Natal'ja Ivanovna, 512, 513, 531
Stolypin, Petr Arkadevič (1862-1911), uomo di Stato; ministro degli Interni
e presidente del Consiglio dei ministri dal 1906 al
1911, 112, 113, 390
Stotik, Aleksandr, 142 n, 436, 437
Strachovič, K.I., 475
Sukarno, Ahmed, 566
Sumberg, Marija, 453 n, 458, 459
Surkov, Aleksej Aleksandrovič (n. 1899), poeta, più volte insignito del
premio Stalin, dirigente dell'Unione degli scrittori, 371
Surovceva, N.V., 516
Suvorov, Aleksandr Vasil'evič (1729-1800), illustre condottiero, vincitore
dei turchi e dei francesi (1799), 574
Sysoev, Aleksandr, 332
Sachnovskaja, 353
Salamov, Varlam Tichonovič (n. 1907), scrittore e poeta, ha trascorso
diciassette anni nei lager; assai noti i suoi Racconti
della Kolyma, pubblicati solo in Occidente, 131, 285 n,
606
Savirin, 528
Sejnin, 513
Sejron, 413 n
SevSenko, Taras Grigorevič (1814-1861), poeta nazionale ucraino, esiliato
come soldato semplice nella zona del Caspio < dal
1847 al 1857, 145 n, 527
Sostakovič, Dmitrij Dmitrevič (1906-1975), compositore, 61 n, 535
Sved, I.V., 516

Talalaevskij, 365, 366


Tan-Bogoraz, Vladimir Germanovič, 389 n
Tarnovskij, V.P., 532 Tenno, Georgij Pavlovič, 96, 129, 148, 149, 156, 157,
634
160, 161, 162, 163, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 172,
173, 174, 175, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184,
185, 187, 190n, 223 n, 228, 230, 248, 249, 252, 253,
254, 255, 322, 336, 562 n
Terechov, G., 538
Tevekeljan, Vartkes Arutjunovič (1902-1969), scrisse un romanzo Il granito
non fonde (1962) inteso a glorificare i čekisti, 553
Tichonov, Nikolaj Semenovič (n. 1896), poeta,
dirigente dell'Unione degli scrittori, 232, 518 Tikunov,
Vadim Stepanovič, 577 Tjurin, 141 Tkac, 30
Tolstoj, Aleksej Nikolaevič (1882-1945), scrittore, autore di romanzi epico-
realistici tra cui la trilogia consacrata alla guerra civile
La via dei tormenti, 561 Tolstoj, Lev Nikolaeviò, 100,
110, 135, 146, 389, 581
Trifonov, N.A., 513
Trockij, Lev Davidovič (pseud. di Bronstein, 1879-1940), tra i massimi
protagonisti della rivoluzione d'Ottobre, dopo la morte
di Lenin si oppose a Stalin; espulso dall'URSS nel
1929, venne assassinato in Messico da un agente della
NKVD, 102, 110
Trofimov, Volodja, 308
Tuchafievskij, Michail Nikolaevič (1893-1937), capo di Stato maggiore
dell'Armata Rossa dal 1925, finì giustiziato, 105n, 110,
392 n
Tumarenko, 149
Turgenev, Ivan Sergeevič (1818-1883), celebre romanziere russo, venne
esiliato nella sua proprietà nel 1852 per avere
pubblicato un necrologio su Gogol' vietato dalla
censura, 16, 145 n, 390
Tvardovskij, Aleksandr Trifonovič (1910-1971), poeta e saggista, dal 1949
al 1954 e dal 1958 al 1970 fu redattore capo della
rivista « Novyj mir », 129, 542, 546
Tvardovskij, Trifon, 408, 409, 410, 414
Tverdochleb, 91
Tyrkova, Ariadna, 106

Ulanovskij, A.P., 120, 394


Ul'janov, famiglia, 110
Ul'janov, Vladimir si veda Lenin
Usova, Elena Ivanovna, 84
Uspenskij, V.D., 543

Vasilenko, V.I., 478, 488


Vasil'ev, 525
Vasil'ev, Vladimir Aleksandrovič, 470, 471, 472, 475
Vavilov, 228, 350, 535
635
Veijnstejn, 226
Veliev, 49
Vendelstein, Ju. G., 524
Venediktov, Dmitrij, 402
Vengerskij, Jurj, 137, 309
Verbovskij, 520
Veselov, Pavel, 473 n
Viksne, Pietro, 441
Vladimirov, 100 n
Vlasòv, Andrej Andreevič (1901-1946), generale dell'Armata Rossa venne
fatto prigioniero dei tedeschi; formò delle unità russe
che combatterono al loro fianco; consegnato ai sovietici
e impiccato, 38, 40
Vlasòv, Vasilij Grigor'evič, '142, 263, 560
Voiynich, Ethel, 142 n
Vojnilo, 265
Vojnilovič, 323
Vorob'ev, 75, 80 n
Vorob'ev, Ivan, 93/94, 156, 157, 178, 179, 180, 181, 182, 213, 230
Voronin (o Voronov), 268
Voronin, Viktor, 61
Vorošilov, Kliment Efremovič (1881-1969), uomo politico e capo militare,
presidente del Pre-sidium del Soviet supremo dal 1953
al 1960, 38, 285 n, 326, 485 n, 503, 532, 537, 567
Vyslnskij, Andrej Januar'evič (1883-1954), procuratore generale del-l'URSS
dal 1935 al 1939, 25

Witte, Sergej Julevič, 390 Wundt, Wilhelm, 106

Zacharova, Anna Filippovna, 544, 554


Zadornyj, Vladilen, 263, 264
Zarin, Voldemar, 519
Zasulič, Vera Ivanovna (1849-1919), rivoluzionaria, figura di rilievo del
partito menscevico, 100
Zdanjukevič, Aleksandr Kliment'evič, 484
Zdorovec, B.M., 596
Zinoviev, Grigorij Evseevič (pseud. di Apfelbaum, 1883-1936), colla-
boratore di Stalin, condannato al primo processo di
Mosca e fucilato, 25
Zuev, N.P., 119n
Ždanok, Kolja, 96, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 188, 189, 190, 192, 193,
194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 202, 203, 204, 205,
206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 216,
217, 218, 219, 221, 224, 225, 226, 227, 248, 254, 255
Zeleznjak, Grigorij Trofimovič, 544
Zukov, Georgij Konstantinovič (1896-1978), maresciallo dell'Unione
636
Sovietica, guidò la conquista di Berlino; ministro della
difesa dal 1955 al 1957, venne rimosso dall'incarico da
Chruščev 518
Žukovskij, Vasilij Andreevič (1783-1852), poeta romantico, amico di
Puškin, precettore del futuro Alessandro II, 392

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