Sei sulla pagina 1di 276

I ROMANZI DI URANIA

Isaac Asimov

Paria Dei Cieli


Pebble in the sky, 1950

Biblioteca Uranica 20
Urania n. 20 - 20 luglio 1953
Che cosa sarà il nostro pianeta tra cinquanta, cen-
tomila anni? Pària dei cieli è infatti un balzo di questo
genere nel remoto futuro: e questo balzo lo fa un uomo
qualunque dei nostri giorni scivolando inconsciamente
in una falla del Tempo apertasi all'improvviso sul suo
cammino, ad opera di un'oscura fase di una certa fis-
sione nucleare... e ricade su di una Terra che egli dap-
prima si rifiuterà di riconoscere per sua.
Ritroverà infatti il nostro povero pianeta popolato da
soli venti milioni di individui che "nuove" condizioni
ambientali hanno ridotto a un branco di nevrotici su-
perstiziosi, afflitti da morbi strani, da un profondissi-
mo complesso d'inferiorità razziale. Guerre atomiche
spaventose, infatti, hanno reso radioattivo il suolo e ri-
dotto la Terra il pianeta pària nel nuovo, meraviglioso
e felice Impero Galattico. La Terra vuole vendicarsi.
Medita e sta per attuare un'orrenda vendetta suscetti-
bile di ricondurre il caos nel Cosmo.
Ma un uomo, un ometto qualunque dei nostri giorni,
diventerà arbitro del destino di un'immensa galassia e
della nostra Terra..


Traduzione dall'inglese di Sem Schlumper
Copertina di Curt Caesar
Illustrazioni interne di Carlo Jacono

2/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/3
4/277 Isaac Asimov Paria dei cieli
Urania n. 20 - 20 luglio 1953

Paria dei cieli di Isaac Asimov ......................................... 7


I CON UN PIEDE SULLA TERRA E L' ALTRO A MEZZ' ARIA ............... 7
II CHE FARE DI UNO STRANIERO ? ............................................ 18
III MOLTI MONDI O UNO SOLO? ................................................ 29
IV IL MEZZO PIÙ SEMPLICE ...................................................... 44
V L'INVOLONTARIO VOLONTARIO ............................................ 54
VI UNA NOTTE D'ANSIE ........................................................... 69
VII PARLANO I PAZZI .............................................................. 77
VIII APPUNTAMENTO A CHICA................................................. 88
IX CONFLITTO A CHICA ......................................................... 100
X COME SI INTERPRETANO CERTI EVENTI ............................... 113
XI SI CAMBIA UNA MENTE ..................................................... 124
XII IL CERVELLO CHE SAPEVA UCCIDERE ............................... 137
XIII IL RAGNO TESSE LA SUA TELA ........................................ 147
XIV SECONDO INCONTRO ..................................................... 158
XV PRECIPITANO GLI EVENTI ................................................ 170
XVI FA' LA TUA SCELTA ........................................................ 182
XVII SI VOLTA BANDIERA .................................................... 194
XVIII DUELLO ...................................................................... 206
XIX STA PER SCOCCARE L'ORA "X"... ..................................... 215
XX SCOCCA L'ORA "X" .......................................................... 227
XXI OLTRE L'ORA "X"! ......................................................... 241
XXII IL MEGLIO ANCOR NON È VENUTO ................................. 250

Entra la morte di Rex Stout (3.) ................................... 255

Curiosità Scientifiche ............................................. 271


La minacciosa vita dei ghiacciai............................................ 271

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/5


6/277 Isaac Asimov Paria dei cieli
Paria dei cieli

I
CON UN PIEDE SULLA TERRA
E L'ALTRO A MEZZ'ARIA

D UE MINUTI prima di scom-


parire definitivamente dal-
la faccia della Terra che aveva
sempre conosciuto Joseph Sch-
wartz se ne andava placidamente
a spasso per le stradine acco-
glienti dei sobborghi di Chicago,
citando ad alta voce brani di Browning.
Strano, perché nessuno passandogli accanto l'avrebbe mai
giudicato un tipo da citazioni poetiche. Sarebbe stato anzi diffi-
cile scambiarlo per qualcosa di diverso da quanto era: un sarto
ritiratosi dagli affari. Ciò tuttavia, non aveva impedito allo Sch-
wartz di leggere moltissimo, sia pure a casaccio, obbedendo allo
stimolo della sua natura di curioso avido di sapere. E s'era quin-
di formato una infarinatura che comprendeva quasi tutto lo sci-
bile, aiutato in ciò anche da una memoria davvero prodigiosa.
Per dirne una, gli era bastato di leggersi un paio di volte il
Rabbi Ben Ezra di Robert Browning in gioventù per saperlo an-
cora tutto a menadito. Non ne capiva gran che, d'accordo; quel
giorno però tre versi del poemetto gli cantavano nel profondo
dell'essere, e andava declamandoli nel silenzio munitissimo del-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/7


la mente, beandosi del sole di quel bel mattino di prima estate
del 1953:
Grow old along with me!
The best is yet to be,
The last of life, for which the first was made...
Incanutiamo insieme!
Il meglio deve ancora venire,
L'ultima parte della vita per cui fu creata la prima...
Perché Schwartz, quei versi li sentiva appieno. E dopo le lotte
della prima gioventù spesa in Europa, dopo gli anni più maturi
trascorsi negli Stati Uniti, si beava soddisfatto della serenità del
suo tranquillo tramonto. Aveva una casa sua, danaro, e s'era po-
tuto ritirare dagli affari. Di che cosa aveva da crucciarsi con la
moglie in buona salute, due figliole bene accasate ed un nipotino
che sarebbe stato il sorriso dei suoi ultimi anni?
D'accordo, c'era la bomba atomica. E tutto quel morboso di-
scorrere di una terza Guerra Mondiale. Ma Schwartz credeva
buona la natura dell'uomo. E non pensava che ci potesse essere
un'altra guerra, un atomo fatto esplodere per ira. Sorrideva be-
nevolo ai bimbi che gli passavano accanto ed augurava loro
un'allegra cavalcata sino in fondo alla giovinezza, un sereno en-
trare in porto nella vecchiaia, "il meglio che deve ancora veni-
re".
Alzò il piede per non calpestare una bambola di stracci rima-
sta lì a sorridere dell'abbandono della bimba che l'aveva dimen-
ticata. Non aveva ancora posato a terra il piede, quando...

L'Istituto di Ricerche Nucleari di Chicago sorgeva in tutt'altra


parte della città, ed era popolato da individui che potevano an-
che essersi formati un concetto del tutto teorico del valore es-
senziale della natura umana, ma se ne vergognavano moltissimo
in quanto non erano ancora riusciti ad inventare uno strumento
capace di commisurare quantitativamente quel valore. Quando

8/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


capitava loro di meditare intorno a quel problema, lo facevano
soltanto per invocare un miracolo del cielo che impedisse in
qualche modo alla natura umana (meglio sarebbe stato chiamar-
la umana ingenuità) di trasformare in armi micidiali tutte le sue
scoperte innocue e veramente interessanti.
Ne risultava che lo stesso individuo incapace di por freno alla
curiosità che lo spingeva verso studi nucleari suscettibili un
giorno o l'altro di far saltare in aria una metà della Terra, sarebbe
stato prontissimo a rischiare la pelle per salvare il primo che
passava per strada.
La prima cosa che attrasse l'attenzione del dottor Smith fu
una specie di aureola azzurrastra che ardeva alle spalle di un cer-
to giovine chimico.
Si fermò ad osservare l'inusitato fenomeno e vide un bel ra-
gazzone che fischiettando contento colpiva ritmicamente con un
dito il cilindro graduato già colmo di solvente, entro il quale il
soluto, una polverina bianca, calava verso il fondo dissolvendosi
con regolamentare velocità.
Per un istante non ci fu altro. Ma l'impulso istintivo che ave-
va frenato il cammino del dottor Smith lo costrinse subito dopo
all'azione.
Si precipitò all'interno del laboratorio, diede di piglio ad un
lineare di legno e se ne servi per scaraventare al suolo tutto
quanto si trovava sulla tavola, mentre dalla fronte inondata di
sudore una goccia gli scendeva lentamente fin sulla punta del
naso.
Il giovanotto era rimasto a guardare a bocca spalancata il pa-
vimento sul quale il metallo liquefatto andava lentamente rap-
prendendosi in macchie argentee dalle quali emanava ancora
debolmente un terribile calore.
Debolmente, il chimico disse: «Ma che cosa diamine succe-
de?».
Il dottor Smith fece spallucce. Ma vivamente impressionato
rispose: «Non lo so proprio. Ditemelo voi, piuttosto! Che cosa

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/9


stavate facendo?»
«Niente!» protestò il giovanotto. «Era un campione di uranio
impuro... Stavo per fare una determinazione elettrolitica del ra-
me e... non so, io...»
«Nemmeno io, ragazzo mio. Ma posso dirvi quel che ho ve-
duto... Quel crogiuolo di platino mostrava un alone. S'era deter-
minata una potentissima radiazione, insomma. Uranio, avete
detto?»
«Sì... Ma si trattava di uranio impuro! Per la fissione non è
richiesta somma purezza del minerale? Dopo tutto non è mica
plutonio! E poi nessuno lo stava bombardando!»
«Già» disse il dottor Smith pensoso. «E si trovava indubbia-
mente assai al disotto del volume critico. Almeno... al disotto
dei volumi critici a noi noti...» E fece vagar lo sguardo lungo il
ripiano del tavolo di steatite, sulla vernice bruciacchiata e stinta
degli armadietti, sulle strisce di metallo rappreso, al suolo.
«Sappiamo, è vero, che l'uranio fonde a 1800 centigradi. Ma ne
sappiamo così poco di fenomeni. nucleari che non possiamo es-
serne troppo certi. Non dimentichiamo, soprattutto, che il luogo
in cui ci troviamo deve essere saturo, addirittura, di radiazioni
vaganti. Appena quel metallo si sarà raffreddato, ragazzo mio,
sarà bene sminuzzarlo, raccoglierlo, ed analizzarlo».
Si guardò intorno meditabondo, poi, notata una macchiolina
oscura all'altezza di una spalla d'uomo sulla parete di fronte,
mosse a quella volta con una stretta al cuore.
«Che cos'è questa roba?» indagò. «L'avevate già notata? C'è
da sempre?»
«Che cosa, professore?» volle sapere il giovane chimico av-
vicinandosi in preda ad una certa agitazione a guardare il punto
che il superiore gli stava indicando. Non si vedeva che un forel-
lino. Un forellino di quelli che si posson fare conficcando un
chiodo in una parete: ma quello era profondo quanto lo spessore
del muro maestro dell'edificio, tanto è vero che dall'altra parte si
vedeva la luce del sole.

10/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Mai veduto» soffiò il chimico scuotendo il capo con aria
smarrita. «A dire il vero, però, non ho mai pensato di accertar-
mene, professore...»
Smith non fece commenti. Arretrò di qualche passo portando-
si all'altezza del termostato, un parallelepipedo di lamiera, all'in-
terno del quale l'acqua mossa dalle pale del mescolatore mecca-
nico si riscaldava all'alterno spegnersi ed accendersi delle lam-
pade elettriche azionate da un impassibile relai a mercurio.
«E questo?» disse. «Che cos'è questo?» E grattò con un'un-
ghia la sommità dell'apparecchio dove, su di una faccia del pa-
rallelepipedo, si vedeva un forellino. Un forellino come si può
fare con un trapano, un po' più in su del livello dell'acqua.
Il chimico sbarrò gli occhi per la sorpresa.
«Questo non c'era, professore!»
«Hmm... Guardate un po' se ce n'è un altro dall'altra parte».
«Ch'io sia dannato... C'è!»
«Benissimo. Venite qui e guardate attraverso questi fori...
Spegnete il termostato, per favore. E mettetevi qui».
Andò a mettere la punta dell'indice sopra il foro nella parete e
domandò: «Che cosa vedete?».
«Il vostro dito, professore. L'avete messo su quel foro del
muro?»
Smith non rispose alla domanda del giovane. Sospirando, e
fingendo una naturalezza ch'era ben lungi dal provare, disse:
«Provate a guardare in direzione opposta, ora... Che cosa ve-
dete?»
«Niente».
«Meglio, vedete il punto in cui si trovava quel crogiuolo con
l'uranio. Non è così, forse?»
«Credo proprio di sì» disse il chimico, riluttante.
Lanciata un'occhiata sulla piastrina metallica che si trovava
sull'uscio ancora socchiuso, Smith impose con voce di gelo:
«Questo, dottor Jennings, è un fenomeno che deve rimanere as-
solutamente segreto. Non ne parlerete mai. Con nessuno. Capi-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/11


to?».
«Senz'altro, professore».
«Ed ora allontaniamoci di qui. Manderemo la squadra apposi-
ta per il rilievo di eventuali radiazioni e noi andremo in quaran-
tena per qualche tempo all'infermeria».
«Lesioni da radiazioni, professore?» balbettò il giovane im-
pallidendo.
«Si vedrà».
Ma non se ne trovò traccia: computo dei globuli normale;
normali anche il computo e l'osservazione delle radici pilifere.
La nausea prodottasi nei due individui in esame fu senz'altro ri-
conosciuta di origine psicosomatica, anche perché non si notò la
comparsa di altri sintomi.
E nessuno riuscì mai, né quel giorno né poi, a spiegare come
fosse stato possibile che un crogiuolo pieno di uranio impuro,
ben lungi dall'aver raggiunto proporzioni critiche ed esente dal
benché minimo bombardamento diretto di neutroni, si fosse im-
provvisamente fuso irradiando la sua fatidica e mortale "aureo-
la".
Ci si accontentò di concludere che lo studio della fisica nu-
cleare doveva ancora colmare "stranissime" lacune.
Il dottor Smith, tuttavia, non ebbe il coraggio di dire tutta la
verità nel rapporto che gli fecero fare. Non fece parola dei fori
trovati in laboratorio, non mise in luce il fatto che mentre il fo-
rellino più vicino al punto in cui s'era trovato il crogiuolo era
pressoché invisibile, quello che si trovava sulla parte opposta del
termostato s'era dimostrato un tantino più grande e quello sulla
parete, il più lontano dalla fonte del mortale fenomeno, si era ri-
velato assai maggiore del primo.
Un raggio capace di propagarsi in linea retta poteva coprire
un percorso di molti chilometri prima che la curvatura della Ter-
ra lo costringesse a piombare nel vuoto, rendendolo innocuo. Ma
a quel punto, il raggio doveva avere assunto proporzioni tali da
misurare tre, quattro metri di diametro. Dopo, si sarebbe dile-

12/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


guato nello spazio, dilatandosi e restringendosi, lasciando tracce
e causando mutazioni, forse assai rilevanti, nel "tessuto" di cui si
compone il cosmo.
Smith non parlò a nessuno di quel fenomeno strano. Non ri-
velò mai che il mattino seguente s'era fatto portare i giornali in
infermeria, pavido di trovarvi notizie delle quali poteva già im-
maginare il tenore.
D'altra parte, sono così numerose le persone che scompaiono
dalle metropoli, ogni giorno... E non c'era stato nessuno che fos-
se corso al più vicino commissariato per comunicare, terrorizza-
to, al funzionario di turno di aver veduto scomparire un uomo
oppure... perché no?, mezzo uomo. I giornali non citavano casi
di questo genere, e il dottor Smith si costrinse, più o meno alle-
gramente, a dimenticare.

Joseph Schwartz scomparve dalla faccia di questa Terra tra


un passo e l'altro. Sollevato un piede per allontanare con una pe-
datina la bambola di stracci che s'era trovato davanti, avvertì un
malessere, uno stordimento passeggero, che non durò più di
qualche secondo, e fu come se un turbine d'uragano l'avesse sol-
levato in aria rivoltandolo come un guanto. Appena posò a terra
il piede, si sentì mancare completamente il respiro, diede un ro-
co colpo di tosse, gli si piegarono le ginocchia e scivolò lenta-
mente tra l'erba.
Non riaperse subito gli occhi; quando lo fece si accorse che
quel che vedeva era vero: sedeva tra l'erba, nello stesso punto in
cui soltanto pochi istanti prima c'era stato dell'asfalto.
E le case erano scomparse! Le case bianche, i villini circon-
dati ciascuno dal loro giardino, allineati su di una lunga fila,
erano completamente scomparsi!
Fu a questo punto che provò più forte l'angoscia, perché vide
quasi completamente ingiallite le chiome di quegli alberi: nato e
vissuto nella giungla d'asfalto delle grandi metropoli, Schwartz
sapeva però riconoscere l'autunno...

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/13


Autunno! Com'era possibile se quando aveva alzato il piede
destro, e non erano passati che pochi istanti, era giornata di giu-
gno, fresca, luminosa, tutta verzura?
Con un gesto automatico si guardò ai piedi. Poi levando un
grido acuto, si piegò ed afferrò la bambolina di stracci che aveva
minacciato dì calpestare, stringendo quel soffio di realtà, quel...
No! Neanche questo gli era stato risparmiato. Perché quando
ebbe presa e rivoltata la bambola, vide che non era più intera.
Era rimasta tagliata per il lungo con tanta precisione, che l'im-
bottitura non era mossa di un millimetro: era lì, recisa a metà,
come se l'operazione fosse stata compiuta da un microtomo.
A questo punto, Schwartz si accorse di uno sfavillio sulla
scarpa sinistra. Sempre stringendo la bambola tra le mani, solle-
vò con uno sforzo, fin sopra il ginocchio, il piede. La parte infe-
riore della suola, quella che sporge un tantino al di là della pun-
ta, era stata perfettamente tagliata per il lungo. Tagliata in modo
come nessuna lama terrena, adoperata da calzolaio terreno,
avrebbe mai potuto fare. La tomaia nuovissima brillava quasi
come un liquido, incredibilmente liscia.
Salendo lungo la spina dorsale lo smarrimento di Schwartz si
fissò sul cervello, agghiacciandolo per l'orrore.
Allora, soltanto perché sperava che il suono della sua voce in-
troducesse un elemento consolatore in un mondo che gli si di-
mostrava per tutto il resto completamente folle, parlò ad alta vo-
ce. Parole che gli uscirono dal labbro basse, vibranti, soffocate.
«Per prima cosa, non sono pazzo, perché mi sento proprio
come mi son sempre sentito... È un fatto, però, che forse ero
matto prima, e me ne accorgo soltanto ora... Ma non può esse-
re...» E poiché dentro di sé sentiva montare come un'ondata d'i-
sterismo, represse il sentimento dicendosi: «Ci dev'essere un'al-
tra possibilità».
Cominciò a riflettere. "Un sogno, forse. Come faccio a sapere
se sto sognando o no?" Si pizzicò una guancia, ma avvertito il
dolore scosse sconsolato il capo. "Il pizzicotto posso anche es-

14/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


sermelo sognato. Non può costituire prova."
Si guardò attorno, col cuore colmo di disperazione. Potevano
i sogni essere così chiari, particolareggiati, durare così a lungo?
Sollevato il polsino della camicia, fissò lo sguardo sull'orolo-
gio da polso. La lancetta dei secondi girava, girava, girava. Se di
sogno si fosse trattato, quei secondi si stavano dilatando nel
tempo, come può accadere soltanto nel cervello di un pazzo.
Allontanò gli occhi dal quadrante, e con un gesto pietosamen-
te inutile si passò il fazzoletto sulla fronte madida di gelido su-
dore. "Che m'abbia colto un attacco di amnesia?"
Non osò formulare la risposta, tuffò il volto fra le mani tre-
manti.
E se, nel sollevare il piede per appioppare un calcio a quella
bambolina, la sua mente si fosse improvvisamente allontanata
dal sentiero consunto della normalità, lustro per l'abuso, che
aveva seguito con tanta fedeltà così a lungo? E se a distanza di
tre mesi, d'autunno, o a distanza di un anno e tre mesi, o di dieci
anni e tre mesi, gli fosse capitato di tornare a posare il piede in
quello strano posto, proprio nell'istante in cui recuperava la ra-
gione? Se così era stato, Schwartz avrebbe avuto la convinzione
di aver mosso un solo passo, e allora la realtà che gli stava attor-
no... Ma dove era stato, che cosa aveva fatto nell'intervallo?
«No!» E la negazione gli proruppe dal labbro in un alto grido.
Perché non poteva essere. Schwartz si guardò la camicia: la ri-
conobbe per quella che aveva infilato al mattino, o ciò che sa-
rebbe dovuto essere quel mattino, ed era una camicia pulita. In-
filata una mano in tasca ad un improvviso ricordo, ne tirò fuori
una mela.
La morse selvaggiamente, la sentì fresca, della sottile frescu-
ra del frigorifero dal quale l'aveva estratta soltanto due ore pri-
ma... O ciò che sarebbero dovute essere due ore prima.
E che dire della bambolina che gli giaceva ai piedi?
Cominciò a sentirsi pervadere da una furia selvaggia. Se la
realtà nella quale era capitato non era quella del sogno, allora

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/15


voleva dire che era impazzito.
Soltanto allora notò che era cambiata l'ora del giorno. Era
tardo pomeriggio; quanto meno, intorno a lui le ombre andavano
allungandosi. La desolazione, il silenzio che regnavano in quel
luogo, gli furono addosso improvvisi, angosciosi.
Balzò in piedi, tremante. Non gli rimaneva che andare in cer-
ca di uomini, di persone. E per trovarne, doveva cercare delle
case; e l'unico modo di trovarne era quello di mettersi su di una
strada. Una strada qualunque.
Istintivamente, volse le spalle alla zona in cui più fitti sorge-
vano gli alberi, e si incamminò.
Il primo gelo della sera gli attanagliava le carni, e le sommità
degli alberi sfumavano nella paurosa oscurità che già tutto av-
volgeva, quando avvistò finalmente una strada asfaltata. Quasi
singhiozzando di sollievo, le mosse incontro in fretta, il cuore
addolcito da immensa gratitudine, nel sentirsi sotto i piedi quel
nastro duro e battuto.
Ma nell'una e nell'altra direzione era deserto assoluto. Per un
istante Schwartz si sentì stringere nuovamente il cuore dalla
morsa dell'angoscia. Aveva posto ogni speranza sul passaggio di
qualche automobile. Sarebbe stata la cosa più semplice fare un
segno... e mormorare a chi si trovava al posto di guida: «Andate
a Chicago, per caso?»
E se invece era finito lontanissime da Chicago? Non importa-
va molto: bastava arrivare ad una città qualunque, dove ci fosse
un telefono. In tasca aveva soltanto quattro dollari e ventisette
centesimi, ma si sarebbe potuto rivolgere alla polizia...
Proseguì al centro della strada maestra voltandosi a guardare
dall'una e dall'altra parte, indifferente al tramonto, alle prime
stelle che trapuntavano il cielo.
Perché non si vedeva arrivare nemmeno un'automobile. Nes-
sun veicolo! E ormai le tenebre andavano infittendo sempre più.
Nel veder baluginare una specie di aurora boreale, all'oriz-
zonte, credette di tornare vittima del malore che l'aveva colto

16/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


poco prima. Ma fra i tronchi brillava solo una luminosità azzur-
rastra, fredda. Un debole bagliore intermittente, diverso dal ros-
so vivo di una foresta in fiamme. L'asfalto sotto il suo passo af-
frettato s'accendeva ogni tanto di deboli faville. Si piegò a toc-
carlo, lo sentì freddo; ma il bagliore azzurrastro gli feriva di
continuo lo sguardo.
Allora spiccò una corsa pazza, fuggendo scompostamente per
la strada maestra. Quando si accorse di stringere ancora in una
mano la, pupattola segata a metà, per il lungo, la lanciò lontano
al disopra della testa.
Rimasuglio di vita, di scherno, di disprezzo...
Si fermò, preso dal panico. Poteva essere quel che voleva, la
pupattola: ma poteva valere a dargli la prova della sua sanità
mentale. E di quella prova aveva bisogno! Schwartz si buttò
bocconi nel buio e trascinandosi tastò il terreno tutto intorno a
sé, sino a che ritrovò la bambola, macchia più scura, avvolta da
una debolissima radiazione luminosa.
Riprese lentamente il cammino, troppo affranto per ricomin-
ciare a correre.
Avvertiva il morso della fame, della paura, del terrore, quan-
do finalmente vide brillare una luce alla sua destra.
Una casa, finalmente!
Lanciò grida scomposte cui nessuno rispose; ma era una casa,
quella che gli stava davanti; un frammento di realtà, che gli sor-
rideva amico con un po' di luce, nell'orribile innominabile deser-
to di terrore di quelle ultime ore.
Abbandonò allora la strada, e sì buttò per i campi, superando
fossati, aggirando alberi, strappandosi la pelle tra gli arbusti,
guadando un ruscello.
Strana esperienza! Persino dal ruscello si levava una debole
luminosità... Una fosforescenza. Schwartz la notò soltanto con
una parte della mente.
Finalmente giunse alla meta, le mani protese, e toccò la strut-
tura dura, biancastra. Non era mattone, né pietra, né legno. Sem-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/17


brava costruita di porcellana dura, opaca, ma la cosa non gli im-
portava un accidente. Gli premeva di trovare la porta. La vide,
ma priva di un campanello, e cominciò a prenderla a calci sel-
vaggiamente, urlando come un indemoniato.
Udì del rumore venire dall'interno, e benedisse, grato, il suo-
no di voci umane, che non erano la sua. Riprese a gridare.
«Ehi, di casa!»
La porta si aperse girando sui cardini ben lubrificati, quasi
senza far rumore. Sulla soglia apparve una donna, negli occhi
della quale si leggeva la paura. Alta, sottile, non riusciva a na-
scondere la possente figura di un uomo che le stava alle spalle
vestito di una tuta che Schwartz non aveva mai veduto, ma che
nondimeno, chissà perché, gli dava l'impressione di essere un
abito che gli uomini indossano quando lavorano.
Ma Schwartz in quel momento non era capace di indagine
analitica. Per lui quella gente, i loro abiti, tutto era bello; bello
come può essere bello l'amico per un uomo già condannato a so-
litudine.
Quando parlò, la donna emise suoni dolci, eppure perentori.
Schwartz allungò la mano ad afferrare la porta, per non stramaz-
zare al suolo. Mosse le labbra, senza emettere un suono, e ad un
tratto la più spaventosa delle paure che avesse mai provato gli
chiuse come in una morsa il cuore e la gola.
Perché la donna aveva parlato in una lingua che Schwartz
non aveva mai udito.

II
CHE FARE DI UNO STRANIERO?

Quella sera, Loa Maren e il suo lento sposo Arbin giocavano


a carte mentre il vecchio nella sua carrozzetta a motore da inva-
lido stava in un angolo facendo frusciare incollerito il giornale.

18/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Arbin!»
Arbin Maren non rispose subito. Passò le dita sui rettangoli
lisci di cartoncino, prima di calare la sua carta; poi, presa lenta-
mente una decisione, rispose distrattamente:
«Che cosa vuoi, Grew?»
Il rugoso Grew guardò incollerito il genero, di sopra al gior-
nale che teneva tra le mani e che fece frusciare di nuovo. Trova-
va in quel rumore un grande sollievo per i suoi sentimenti offesi.
Povero diavolo ribollente di energie, inchiodato in una carroz-
zetta da invalidi, perché le gambe gli pendono dal tronco come
due inservibili monconi colpite da paralisi, deve pur trovare, in
nome dello Spazio, qualcosa che gli serva per farsi sentire. E
Grew ricorreva al giornale. Lo agitava fieramente, gesticolando
e quando non poteva farne a meno se ne serviva per colpire que-
sto o quell'altro.
Altrove, non certo sulla Terra, Grew lo sapeva, gli uomini di-
sponevano di telecronache, che emettevano film microscopici,
da potersi inserire quando si desiderava nei teleschermi. Gli
stessi che si usavano per la videolettura dei libri. Pensandoci

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/19


Grew emise un brontolio di scherno: che costume degenerato e
sterile!
«Hai letto della spedizione archeologica che stanno mandan-
do sulla Terra?» domandò.
«No» rispose Arbin, calmo.
«Be'... mandano proprio quaggiù una spedizione archeologi-
ca» disse. «Con tanto di alto consenso imperiale e tutto il resto.
Che ne dici?» Con quello strano tono imbarazzato che le perso-
ne impiegano, quasi senza accorgersene, quando leggono qual-
cosa ad alta voce, recitò: «"Bell Arvardan, Membro Anziano del
Reparto Ricerche dell'Istituto Archeologico Imperiale, nel corso
di un'intervista concessa alla Stampa Galassica, ha dichiarato
che si ripromette abbondanti risultati dagli studi archeologici
che egli intende iniziare sul pianeta Terra, sito ai margini del
Settore Sirio (v. mappa). La Terra – ha dichiarato lo scienziato –
con la sua civiltà arcaica, il suo ambiente particolarissimo, offre
un meraviglioso materiale di studio, troppo a lungo negletto dai
nostri studiosi di scienze sociali, che se ne sono occupati soltan-
to nell'esercizio, assai difficile a dire il vero, dell'amministrazio-
ne locale di quel pianeta.
«"A capo di un paio di anni di studi e di ricerche non dispero
di trovare quanto basterà a rivoluzionare i nostri concetti fonda-
mentali sull'evoluzione sociale, sulla storia umana". E via di
questo passo...» terminò Grew agitando rabbiosamente una ma-
no.
Arbin Maren l'aveva ascoltato distrattamente. Mormorò, in-
fatti: «A che cosa allude dicendo "meraviglioso materiale di stu-
dio"?».
Loa Maren, che non aveva ascoltato affatto, si limitò dunque
a dire: «Tocca a te, Arbin».
Grew insistette: «E non mi chiedete nemmeno perché la noti-
zia sia stata riportata dalla Tribune? Sapete bene che non stam-
perebbero una notizia trasmessa dalla Stampa Galassica, nean-
che dietro versamento di un milione di Crediti Imperiali, se non

20/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


ci fosse una buona ragione».
Dopo aver atteso invano una risposta, aggiunse: «Infatti han-
no pubblicato un lunghissimo commento, dedicando a questa
notizia tutta la prima pagina: e ne dicono di cotte e di crude di
questo Arvardan. Salta finalmente fuori un individuo che si pro-
pone di venir qui a compiere degli studi scientifici, e questi idio-
ti si sbracciano come pazzi per impedirglielo. Provate un po' a
leggere questo velenosissimo articolo!» concluse agitando il
giornale. «Leggetelo!»
Loa Maren depose le carte sulla tavola, e strinse tra i denti le
labbra sottili. Poi disse: «Papà... Oggi abbiamo già faticato ab-
bastanza, e non abbiamo alcuna intenzione di occuparci di poli-
tica. Più tardi, eventualmente! Te ne prego, papà».
«Te ne prego, papà! Te ne prego, papà!» strillò Grew scuo-
tendo il capo e scimmiottando la figlia. «Dovete proprio odiarmi
molto, se mi negate persino di scambiare quattro parole sugli
eventi più importanti dei nostri giorni. Vi dà fastidio vedermi
sempre qui seduto in un angolo, lasciando a voi due la fatica de-
stinata a tre... Ne ho colpa, forse? Sono forte, ho voglia di lavo-
rare e voi sapete benissimo che potrei farmi curare e tornare ad
usare le mie gambe come prima». Batté forte le palme delle ma-
ni sulle cosce: colpi duri, selvaggi di cui il vecchio non avverti-
va che lo schiocco. «E perché non mi si è curato? Perché non mi
si è voluto guarire? Soltanto perché ero troppo vecchio perché
ne valesse la pena. Non è giusto che nella Galassia si parli di
cultura "meravigliosa'', quando si riferiscono alla Terra? Che
cos'altro volete che dicano di un pianeta dove si nega il lavoro
anche a coloro che sono ancora capaci di lavorare? Per lo Spa-
zio! Sarebbe ora di piantarla con queste cretinerie, con queste
cosiddette "peculiari istituzioni". Le nostre istituzioni non sono
soltanto "peculiari": sono roba da pazzi! E se volete che vi dica
quel che ne penso...»
I1 vecchio agitava le braccia, mentre il volto rugoso gli si co-
priva di rossore.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/21


Arbin balzò in piedi e afferrò con tutte le sue forze una spalla
del vecchio. Disse: «Perché ti arrabbi tanto, Grew? Stai tranquil-
lo... Appena avrai finito di leggerlo mi occuperò anch'io dell'ar-
ticolo di fondo del giornale».
«Lo so... Ma tu ti troverai d'accordo con loro! È inutile! Voi
giovani siete un branco di smidollati; marionette siete, nelle ma-
ni degli Anziani».
«Zitto, babbo» gridò Loa. «Non cominciamo con queste sto-
rie». E rimase immobile tendendo l'orecchio. Non sapeva a che
cosa; tuttavia...
Anche Arbin si sentiva percorrere la spina dorsale da un bri-
vido tutte le volte che sentiva nominare la Società degli Anziani.
Era pericoloso parlare come Grew, pericoloso farsi beffe dell'an-
cestrale cultura della Terra. Pericoloso...
Per lo Spazio! Quello di Grew era Assimilazionismo, bello e
buono. Arbin inghiottì laboriosamente; perché anche a formular-
la soltanto mentalmente, la parola gli faceva paura. Effettiva-
mente, Grew apparteneva ad una generazione che in gioventù
aveva fatto un gran parlare di riformare o abbandonare gli anti-
chi Costumi. Le cose però nel frattempo erano cambiate radi-
calmente e Grew avrebbe dovuto saperlo. Con tutta probabilità
anzi, lo sapeva: soltanto non doveva riuscirgli facile di dimo-
strarsi ragionevole. Soprattutto, da quando era imprigionato nel-
la sua carrozzetta da invalido, condannato all'attesa. L'attesa del
giorno in cui si sarebbe eseguita la prossima Conta...
Grew, comunque, uscì dal breve battibecco senza essere ec-
cessivamente turbato. Non disse più nulla, si mosse sempre me-
no sulla poltrona, e si addormentò quasi senza accorgersene.
Loa ne approfittò per mormorare al marito: «Forse dovrem-
mo essere più gentili con lui, Arbin. Chissà come soffre, povero
babbo. Gli deve sembrare d'essere già morto, costretto com'è
all'immobilità dopo una vita così attiva».
«Non c'è nulla che sia peggio della morte, Loa. Il babbo ha i
suoi giornali e i suoi libri. Ci vuoi pazienza. Lascia che dica.

22/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Tanto più che l'andare in collera in questo modo, gli fa bene. Lo
tira su. Dopo lo sfogo di poco fa vedrai che rimarrà queto e sod-
disfatto per diversi giorni».
Tornò a guardare con attenzione le sue carte. Stava per com-
piere il gesto di sceglierne una da buttare sulla tavola, quando fu
bussato alla porta, e si udirono grida scomposte, di cui non si
riusciva a comprendere il significato. Arbin si fermò con la ma-
no a mezz'aria, sussultando. Lo sguardo di Loa fu pieno di terro-
re; la donna fissò il marito con le labbra tremanti.
Arbin disse: «Porta fuori di qui Grew. Presto!».
Loa aveva già raggiunto la sedia dell'invalido, quando costui
cominciò a mormorare. Lei gli rispose emettendo dei suoni che
volevano tranquillizzarlo.
Ma il vecchio semiaddormentato sbadigliò, si destò in un sus-
sulto appena sentì muoversi la carrozzella.
«Che cosa c'è?» domandò irritato, alzando la voce.
«Zitto, non c'è nulla» mormorò Loa vagamente. Sospinse la
carrozzella nella sala attigua. Ne chiuse la porta e vi si appoggiò
ansante cercando con lo sguardo gli occhi del compagno. Fu
bussato di nuovo.
I due rimasero l'uno vicino all'altra mentre aprivano la porta
in atteggiamento quasi di difesa. Quando si trovarono di fronte
all'uomo basso di statura, goffo, che accennava ad un sorriso, lo
guardarono senza ombra di ostilità.
Loa gli disse: «Avete bisogno di qualche cosa?». E lo disse
cerimoniosa, cortese; poi sussultò nel vedere che l'uomo, emessa
una strana esclamazione, si appoggiava con le mani alla porta
per impedirsi di cadere.
«Che si senta male?» domandò Arbin stupitissimo. «Vieni,
aiutami a trascinarlo dentro».
Qualche ora dopo, nella quiete della camera da letto, Loa ed
Arbin si accingevano lentamente a coricarsi.
«Arbin» chiamò Loa.
«Che c'è?»

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/23


«Credi che sia pericoloso? Voglio dire... Credi che sia perico-
loso ospitare quell'uomo? Chi sarà?»
«Come potrei saperlo?» rispose l'altro irritato. «Dopo tutto
nessuno può rimproverarci di aver offerto asilo ad un sofferente.
Domani, nel caso risultasse privo di documenti di identità, in-
formeremo gli uffici di pubblica sicurezza regionale, e non ci
penseremo più». Ed Arbin volse le spalle alla moglie per tronca-
re una volta per tutte quell'argomento di conversazione.
Ma la donna ruppe il silenzio e la sua voce risuonò nella
stanza ancor più ansiosa di prima: «Credi che possa essere un
Agente della Società degli Anziani? Che sia venuto a causa di
Grew...?»
«Per la sfuriata che il vecchio ha fatto dopo cena, dici? Sii ra-
gionevole. Non vale neppure la pena di discuterla, una supposi-
zione simile».
«Non è questo che volevo dire, e lo sai. Ospitando Grew ille-
galmente ormai da ben due anni, abbiamo trasgredito la più se-
vera delle disposizioni: il Costume...»
«E che male facciamo?» mormorò Arbin. «Non facciamo for-
se la nostra parte? Anche se ci danno quella di tre persone... Noi
lavoriamo per tre! Perché si dovrebbe sospettare di qualcosa?
Non gli permettiamo neanche di uscir di casa!»
«E se si fossero insospettiti per la carrozzella del babbo? Ri-
cordi? Il motore hai dovuto comperarlo fuori».
«Non ricominciare, Loa. Ti ho spiegato non so quante volte
che per mettere insieme quella carrozzella ho acquistato un co-
mune motorino di quelli per uso di cucina. E poi... Ti sembra le-
cito immaginare che quel povero diavolo sia un agente della
Fratellanza? Vuoi che si sobbarchino a così complicato armeg-
gìo, soltanto per un povero vecchio, e per una sconquassata car-
rozzella da invalido? Se avessero qualche sospetto, verrebbero
in pieno giorno e muniti di mandato di perquisizione, non ti pa-
re?»
«Ebbene, Arbin» rispose le donna subitamente animata e con

24/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


gli occhi sfavillanti «se la pensi proprio così, ed io speravo con
tutto il cuore che così fosse... quell'uomo deve essere un Venuto
di Fuori. Non può essere Terricolo».
«Come sarebbe a dire "non può"? Sei proprio ridicola, stase-
ra. Che cosa vuoi che venga a fare in Terra, proprio in Terra, un
abitante dell'Impero?»
«Non so! Tuttavia, potrebbe aver commesso un crimine nella
Galassia!» E tutta presa dal proprio fantasticare, la donna conti-
nuò: «Perché no? Potrebbe essere. La Terra costituirebbe un ot-
timo nascondiglio, per certa gente. Chi penserebbe mai di cerca-
re un fuggiasco proprio qui?».
«E chi ti dice che quell'uomo sia proprio uno Venuto di Fuo-
ri? Che prove ne hai?»
«Per prima cosa» disse Loa «quell'individuo non parla la no-
stra lingua. Puoi negarlo? Non si riesce a capire una sola parola
di quelle che pronuncia, per cui è indubbio che quello Straniero
viene da uno dei più lontani pianetini della Galassia, dove pro-
babilmente si parlano dialetti per noi incomprensibili. Ma forse
ti sfugge l'aspetto più interessante di questa vicenda. Se lo stra-
niero viene effettivamente di Fuori, non possiede numero di re-
gistrazione presso la Contea, in questo caso, sarà più che lieto di
non doversi presentare a quella gente, e noi potremo servirci di
lui al posto del papà. Così la stagione prossima, saremo effetti-
vamente in tre a sgobbare per la nostra "quota"... Ti dico di più:
perché non ce ne serviamo addirittura nel corso di questo raccol-
to?»
E la donna guardò ansiosa l'espressione d'incertezza stampa-
tasi sul volto del marito, che dopo aver a lungo riflettuto disse:
«Andiamo a letto ora, Loa. Torneremo su questo argomento
domani».
Spensero le luci e finalmente il sonno colmò di sé la camera
da letto e la casa.
Il mattino seguente, l'arrivo dello straniero fece le spese delle
indagini di Grew, al quale Arbin pose il problema, pieno di spe-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/25


ranze: il vecchio, infatti, aveva una forza d'animo, una capacità
di prendere decisioni, che il più giovane Arbin gli invidiava un
poco.
Grew disse: «Inutile nascondercelo, Arbin... Le tue preoccu-
pazioni traggono evidentemente origine dal solo fatto che io, re-
gistrato in qualità di lavoratore, ho contribuito ad elevare a quota
tre la produzione fissata per la nostra famiglia. Ed io ne ho abba-
stanza di crearvi delle preoccupazioni: ho già vissuto ben due
anni oltre il tempo concessomi. Ora basta».
«Non si tratta di questo» disse Arbin al colmo dell'imbarazzo.
«Non ho mai pensato che tu sia fonte di preoccupazioni per
noi».
«Quasi quasi son disposto a crederti: tra due anni ci sarà la
nuova Conta, ed io dovrò andarmene».
«Ma se non altro, in questo modo, potrai concederti altri due
anni di placide letture e di riposo; perché dovresti privartene?»
«Perché se ne privano anche gli altri. Non pensi inoltre a te
ed a Loa? Quando verranno a prendermi, si porteranno via anche
voi due. Puoi pretendere che io sia egoista al punto da voler vi-
vere ancora due schifosi anni di questa vita a spese di...?»
«Ora basta, Grew. Non cominciamo coi melodrammi. Ti ab-
biamo già detto migliaia di volte quel che abbiamo deciso di fa-
re. Due settimane prima della Conta, ti denunceremo».
«E credi di riuscire a trarre in inganno il medico?»
«Il medico lo corromperemo».
«Già... E adesso, se nascondete anche questo straniero... Il
vostro delitto si aggraverà ancora di più».
«Dello straniero ci libereremo. Per l'amor dello Spazio, per-
ché preoccuparti anche di questo? Abbiamo ancora due anni da-
vanti a noi. Dimmi piuttosto che cosa dovremmo fare con quello
là».
«Lo straniero» borbottò Grew «arriva alla nostra porta, bussa.
Non si sa di dove venga, che cosa dica... Non so proprio che co-
sa consigliare».

26/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Il contadino disse: «Male, non può farcene. Mi sembra un ti-
po mite, spaventato».
«Spaventato, eh? E se fosse pazzo? E se le frasi incomprensi-
bili che va mormorando, non fossero quelle di una lingua stra-
niera, ma il resultato di un cervello sconvolto?»
«Non mi sembra proprio» disse Arbin. Ma si agitò a disagio
sulla sedia.
«Lo dici perché pensi di servirtene... Sai che cosa ti dico?
Portalo in città».
«A Chica?» sbalordì inorridito Arbin. «Sarebbe la nostra ro-
vina!»
«Affatto» disse Grew. «Non ve lo dico sempre che fate ma-
lissimo a non leggere i giornali? Se non ci fossi io in questa fa-
miglia a farlo... Dunque, sappi che l'Istituto delle Ricerche Nu-
cleari, pare, dispone di uno strumento di recente invenzione su-
scettibile di facilitare il compito dell'insegnamento. Nel supple-
mento di fine settimana del periodico, c'è tutta una pagina che
tratta dell'argomento, e l'articolo finisce con un appello a dei vo-
lontari. Prendi quell'individuo e presentalo come cavia».
«Sei pazzo» disse Arbin scuotendo violentemente il capo in
segno di diniego. «Non sarei mai capace di fare una cosa simile,
Grew. Prima di tutto mi domanderebbero il numero di registra-
zione ed io non lo so. E di fronte ad una circostanza simile, il
minimo che ci può capitare è un'investigazione, una perquisizio-
ne in casa».
«Non è vero. E come al solito non capisci niente, Arbin. L'I-
stituto chiede dei volontari appunto perché la macchina da im-
piegare è ancora allo stadio sperimentale. Con tutta probabilità
l'ordigno sarà già riuscito ad accoppare un paio di persone e, ap-
pena vedranno un volontario, non faranno troppe domande. Se
lo straniero muore, non ci perde nessuno. Tanto meno lui, pove-
raccio... E adesso, Arbin, mettimi qui il proiettore per i libri e in-
fila in audio il rullo numero 6, e appena arriva il giornale porta-
melo».

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/27


Schwartz aperse gli occhi che mezzogiorno era già passato ed
avvertì subito, con una stretta al cuore, l'angoscia di una pena
che affondava le radici in se stessa: l'angoscia di non destarsi a
fianco della moglie, l'angoscia di sapersi privo, forse per sem-
pre, di un mondo familiare. Balzò a sedere sul letto nel vedere
accendersi e spegnersi una luce sopra la porta della sua stanza.
Udì la voce baritonale dell'ospite che pronunciava parole a lui
incomprensibili. Poi l'uscio si aperse e gli servirono una cola-
zione. Una specie di semolino al latte dal vago (assai vago!) sen-
tore della polenta al latte.
Ringraziò e gli risposero qualcosa. Poi l'ospite raccolse la
camicia di Schwartz dallo schienale della seggiola sopra la quale
lo sconosciuto l'aveva gettata. La osservò attentamente da tutte
le parti, soffermandosi con particolare attenzione sui bottoni. Poi
abbandonato di nuovo l'oggetto sulla sedia, fece scivolare di lato
la porta scorrevole che nascondeva un armadio a muro. Soltanto
allora, Schwartz notò il candore latteo, tepido quasi, delle pareti.
Ma l'ospite gli mostrava degli oggetti, e faceva cenni il cui
significato era indubbio. Si voleva, era evidente, che Schwartz si
lavasse e vestisse.
Assistito da Arbin obbedì. Ma non trovò di che radersi, e i
gesti animati che fece per indicare la pelurie che gli ricopriva il
mento, non sortirono altro effetto che quello di costringere l'o-
spite ad emettere suoni incomprensibili, ad atteggiare il volto ad
espressione di spiccata repulsione. Schwartz rimase a grattarsi la
barbaccia grigiastra e dura, sospirando.
Lo condussero ad un piccolo veicolo lungo, che poggiava su
due ruote e sul quale gli fu ordinato con un gesto di montare.
Vide correre sotto di lui velocemente l'asfalto della strada, e cor-
se in compagnia di Arbin, lungo lo stradale completamente de-
serto, fino a che si presentò lontano all'orizzonte un ammasso di
case bianche e basse, e più lontano ancora il tremolare di acque
azzurre.

28/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Chicago?» domandò con affannosa aspettativa.
Si spense così l'ultima frazione di speranza, perché quella cit-
tà era quanto di meno ci fosse al mondo di somigliante alla sua.
L'agricoltore non gli rispose, e l'ultima speranza di Schwartz
sfumò per sempre.

III
MOLTI MONDI O UNO SOLO?

Terminata l'intervista concessa alla stampa in occasione


dell'imminente partenza della sua spedizione sulla Terra, Bel
Arvardan si sentiva perfettamente in pace con tutti i milioni di
sistemi siderali di cui si componeva lo sconfinato Impero Galas-
sico. Ormai non si sarebbe più trattato per lui di essere famoso
in questo o in quest'altro Settore: confortate da prove le sue teo-
rie concernenti la Terra, la sua fama sarebbe stata immensa su
tutti i pianeti abitati della Via Lattea, su tutti i pianeti sui quali
l'Uomo aveva posto il piede, nel corso di centinaia e migliaia di
anni di espansione attraverso lo spazio.
A queste potenziali e vertiginose altezze di fama, e sommità
intellettuali e scientifiche così pure e rarefatte, Bel Arvardan
giungeva ancor giovane, se pur non troppo facilmente. Aveva
compiuto da poco il trentacinquesimo anno d'età, ma aveva già
alle spalle una carriera di lotte e di controversie. L'aveva comin-
ciata con uno scandalo che aveva scosso l'Universo Arturus fino
alle fondamenta, quando si era laureato dottore in archeologia
presso quell'Istituto all'età, senza precedenti, di ventitré anni. Lo
scandalo, che non aveva fatto meno rumore di una esplosione
vera e propria, si era verificato quando il Giornale della Società
di Archeologia Galassica gli aveva negato la pubblicazione del-
la dissertazione di laurea. Era la prima volta nella storia dell'U-
niversità che una tesi di laurea veniva respinta. Ed era anche la

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/29


prima volta nella storia di quel giornale tecnico, che il rifiuto
della pubblicazione veniva espresso in termini così duri e conci-
si.
Al profano di archeologia, la ragione di tanta avversità, di
tanta ostilità per una monografia succinta quanto oscura che si
fregiava del titolo "Dell'Antichità dei Manufatti del Settore Sirio
alla Luce dell'Ipotesi dell'Origine per Disseminazione dell'Uma-
nità" poteva sembrare incomprensibile. Vero era, invece, che
Arvardan aveva fatto sua l'ipotesi avanzata da alcuni gruppi di
mistici primitivi i quali, più preoccupati di metafisiche che d'ar-
cheologia, sostenevano che l'Uomo si era presentato dapprima
su di un solo pianeta, dal quale aveva poi preso le mosse per dis-
seminarsi gradualmente in tutta la Galassia. Tale teoria, purtrop-
po, era la beniamina dei letterati di quel tempo e costituiva la
"bête noire" degli archeologi dell'Impero.
Ma anche i più rispettabili di quegli archeologi avevano finito
per dover fare i conti con Arvardan il quale, nel corso di una de-
cina d'anni era divenuto un'autorità ovunque riconosciuta per
quanto concerneva lo studio dei cimeli di civiltà preimperiali.
Lui stesso ne aveva dissepolti diversi qua e là negli angolini più
tranquilli della Galassia.
Arvardan aveva cominciato dall'imporsi con una sua mono-
grafia sulle civiltà meccanicistiche del Settore Rigel, dove un
sommo perfezionamento di automi aveva dato origine ad una ci-
viltà a sé stante e di durata plurisecolare, caduta poi sotto il tal-
lone del Signore delle Guerre, Moray, quando gli schiavi metal-
lici avevano finito per ridurre a zero l'iniziativa di coloro che li
avevano creati. Infatti, in opposizione all'archeologia ortodossa
che sosteneva la tesi secondo cui Diversi Tipi Umani si erano
evoluti indipendentemente gli uni dagli altri sui Rispettivi Di-
versi Pianeti, come era dimostrato dalle differenze razziali ri-
scontrate negli abitanti il Settore Rigel, mai mescolatisi a crea-
ture umane d'altro ceppo, Arvardan aveva saputo dimostrare
esattamente il contrario, fornendo la prova che alla civiltà rige-

30/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


liana basata sugli automi si era giunti semplicemente attraverso
aggiustamento alle condizioni ambientali, sociali, economiche di
quel settore in quel periodo.
Gli ortodossi allora, nell'intento di sostenere a spada tratta la
loro teoria, avevano fatto ricorso ai mondi ancora barbari e pri-
mitivi di Ophiuchus dove si ignorava persino la navigazione in-
tersiderale. Quei mondi erano serviti loro per dimostrare al di là
d'ogni dubbio la validità della Teoria del Merger il quale voleva
che: a) in ogni pianeta fondato su realtà chimica acqua-ossigeno
in presenza delle condizioni necessarie e sufficienti di intensità
di temperatura e gravitazione a un certo punto si giungeva
all'acme produttiva dell'Uomo; b) nulla si opponeva a che i di-
versi ceppi umani potessero contrarre matrimonio tra di loro; c)
tale fenomeno della promiscuità razziale si era tradotto in realtà
subito dopo i primi viaggi intersiderali.
Ma Arvardan aveva scoperto tracce di una civiltà che prece-
deva di migliaia d'anni l'attuale barbarie in cui era piombato il
Settore Ophiuchus: scavi da lui eseguiti su quei pianeti avevano
riportato alla luce astronavi di costruzione ancestrale.
Ed aveva coronato la sua opera di studioso dimostrando al di
là d'ogni dubbio che l'Uomo era emigrato in quelle regioni dopo
aver già raggiunto un grado altissimo di civiltà.
Soltanto allora il Giornale della Società Galassica di Archeo-
logia si era affrettato a pubblicare la tesi che il laureando Arvar-
dan aveva presentato dieci anni prima.
Era grazie a quelle teorie che gli erano tanto care che il dottor
Arvardan si accingeva a partire alla esplorazione del meno im-
portante, del più insignificante addirittura dei pianeti dell'Impe-
ro... un globaccio oscuro che chiamavano Terra.

Arvardan atterrò nell'unica parte della Terra che poteva real-


mente dirsi "parte" dell'Impero: una spanna di territorio sperduto
tra le desolate alture dell'altipiano a nord dell'Himalaia. Era lì,
dove non c'era mai stata alcuna radioattività, che sorgeva in tutta

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/31


la sua magnificenza un palazzo
costruito secondo criteri architet-
tonici che non avevano niente a
che fare con quelli terricoli. In
ultima analisi, non era che una
delle innumeri copie di un proto-
tipo servito di modello per la co-
struzione dei palazzi destinati ai
Viceré insediati in mondi meno
scalognati di quello. Ma tutto. in
quella specie di paradiso, era sta-
to sacrificato a comodità: picchi
impervi erano stati livellati e ri-
coperti di terreno che innaffiato
opportunamente e immerso in
una atmosfera artificiale si era
trasformato in cinque chilometri
quadrati di prati e di aiuole fiori-
te.
Per farlo, in energia soltanto,
erano state spese somme incalco-
labili secondo i concetti econo-
mici terricoli: una bazzecola se si
pensa che alle spalle del Governo
Imperiale c'erano le favolose ric-
chezze di diecine di milioni di
pianeti in continuo accrescimento
di numero. Quell'anno infatti,
l'827° dell'Era Galassica, 50 nuo-
vi pianeti il giorno (di media) as-
surgevano a dignità di Province
avendo meritato tale distinzione
dopo aver raggiunto i 500.000
milioni d'abitanti, secondo la re-

32/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


gola.
In quel punto, dicevamo, in quel punto che NON ERA TERRA,
viveva il Procuratore della medesima. E gli succedeva ben di ra-
do di riuscire a dimenticare d'essere Procuratore d'un mondo da
strapazzo, per rammentarsi invece d'essere nato per i più alti
onori cui aveva diritto quale discendente di aristocratica proge-
nie.
Sua moglie poi non riusciva più a farsi la minima illusione.
Specialmente quando, intenta a potare la sommità d'una siepe
lasciava vagare lo sguardo in lontananza e vedeva la linea dirit-
ta, netta, precisa che separava meglio di qualsiasi "cortina" l'oasi
sulla quale sorgeva il palazzo, dalla selvaggia barbarie del resto
della Terra. In quei momenti, per consolare la donna dalla tri-
stezza dell'esilio, del confino, non bastavano le belle fontane
luminescenti a sera di liquidi gelidi e multicolori, non bastavano
più i sentieri fioriti, le grotte artificiali bellissime e incantate.
Ecco perché si riserbò ad Arvardan un'accoglienza che anda-
va al di là delle istruzioni del Protocollo. Perché, per il Procura-
tore, Arvardan era una boccata d'aria imperiale, di Spazio, era
tutto quanto rappresentava il concetto di sconfinato e di libero.
Da parte sua, Arvardan si trovò ammiratissimo di tutto:
«Bello! Magnifico, perbacco! Molto buon gusto davvero. Ba-
sta un soffio della nostra civiltà imperiale, Lord Ennius, per
permeare di sé anche province così lontane dai nostri mondi
centrali...»
«Be'... Purtroppo, un conto è venir qui in Terra per diverti-
mento, un conto è dovervisi stabilire, caro amico. La Corte del
Procuratore in Terra è meno di una bolla di sapone. Quel soffio
di cultura centrale cui alludevate si esaurisce in una boccata: ci
sono io, i miei familiari e gli uomini che compongono questa e
le guarnigioni di stanza nei punti più importanti di questo globo.
Se non arriva qualche visitatore come voi, c'è pochino pochino
in fatto di cultura quaggiù».
I due così parlavano seduti all'ombra di un bel colonnato. Nel

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/33


pomeriggio che moriva, vedevano il sole fiammeggiare lontano,
perduto quasi tra i picchi impervi soffusi di nebbie rossastre
all'orizzonte. L'aria era così gonfia del profumo delle gemme
che sbocciano, che al minimo movimento ci si sentiva mozzare
il respiro.
Ennius lo sapeva benissimo: era Procuratore ma avrebbe do-
vuto dimostrarsi meno indiscreto con l'ospite. Tuttavia, per con-
solarsi della lunga assenza dall'Impero, indagò pieno di speran-
za:
«Vi fermerete a lungo, dottor Arvardan?»
«Non lo so ancora con certezza, Lord Ennius. Precedo il resto
della mia spedizione perché intendo far conoscenza con la civil-
tà terricola e sbrigare subito tutte le pratiche necessarie allo
svolgimento del mio lavoro. È a voi che dovrò chiedere le ne-
cessarie autorizzazioni a piantare qua e là i miei campi e via di-
cendo?»
«Scartoffie? Fate conto di averle già in tasca firmate e tim-
brate. Quando intendete cominciare gli scavi? E soprattutto...
che cosa diavolo sperate mai di rinvenire tra questo infame pu-
gno di ciottoli che chiamano Terra?»
«Se tutto andrà liscio come spero, vorrei stabilire il mio pri-
mo accampamento entro un mese. Quanto a questa Terra... La
trovo tutt'altra che un infame pugno di ciottoli! Io la trovo una
preziosa rarità!»
«Preziosa rarità un corno!» soffiò disgustato il Procuratore.
«La Terra è un pianeta spregevole. Un porcile. Una cloaca. Una
tana orribile. Chiamatela come volete purché vi serviate di ter-
mini negativi e tenete presente che pur avendo questa Terra rag-
giunto l'acme di tutto quanto merita definizione di nauseabondo,
non eccelle neppure per barbarie: non è che il più comune e roz-
zo mondo di contadinacci che si sia mai veduto».
Alquanto impressionato dalla violenza del Procuratore, Ar-
vardan si limitò a osservare:
«Dimenticate che questo mondo è radioattivo...»

34/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«E con ciò? Migliaia di mondi lo sono! Nella Galassia ce ne
sono anche di più radioattivi di questo».
Li interruppe il tavolino-bar elettronico, venuto a fermarsi
spontaneamente accanto a loro.
«Che cosa preferite?» domandò Ennius all'ospite.
«Quel che volete... Una limonata, direi...»
Nelle imperscrutabili profondità del mobiletto-bar, forse il
meccanismo più universalmente popolare tra quelli prodotti
dall'ingenuità umana, si mise in moto un barista non umano, la
cui anima elettronica non mescolava le sostanze a forza di brac-
cia, bensì a contatto di atomi, distribuendo perfettamente i liqui-
di, mescolandoli in un modo che l'ispirata arte dell'uomo non
avrebbe saputo imitare.
Quasi come fossero venuti dal nulla, si materializzarono, da-
vanti ai due, alti bicchieri che la macchina aveva fatto uscire dai
suoi invisibili recessi.
Arvardan afferrò il bicchiere verde.
«Proprio come piace a me» disse, dopo aver assaggiato la bi-
bita, e riposto il proprio bicchiere nell'apposita nicchia sul brac-
ciolo della sua poltrona continuò: «Dicevate bene, signor Procu-
ratore, quando parlavate di migliaia di pianeti radioattivi. Non
dimenticate però che soltanto uno di essi è abitato: questo, si-
gnor Procuratore».
«Be'» disse Ennius facendo schioccare la lingua soddisfatto
della sua bevanda, parzialmente rappacificato con la realtà che
gli stava attorno: «In un certo senso, effettivamente, la Terra si
può anche chiamare "abitata"... Non vedo, però, come questo
fatto possa costituire comunque una prerogativa...».
«Non alludevo a prerogative statistiche o a distinzioni di sor-
ta» fece osservare Arvardan con molta convinzione. «Si tratta di
ben altro: il fatto che la Terra sia abitata può nascondere possibi-
lità addirittura fantastiche. Come sapete, i biologi hanno dimo-
strato, quanto meno si illudono di averlo fatto, che non si svi-
luppano forme di vita su quei pianeti nei quali la radioattività

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/35


atmosferica o marina varca certi limiti... Lo sapete, invece, che
su questo globo la radioattività supera per un margine assai con-
siderevole quei limiti?»
«Interessante. Lo ignoravo. Ecco dunque la prova definitiva
che i viventi su questa Terra sono fondamentalmente diversi da
quelli di tutto il resto della Galassia. Chissà che allegria per
voialtri che venite da Sirio». Divertito, il Procuratore prosegui
ironico e confidenziale: «Lo sapete voi che questo infernale pia-
neta è difficilissimo da governare proprio a causa del vivissimo
antiterricolismo che anima tutto il Settore di Sirio? Naturalmen-
te i Terricoli ricambiano cordialmente il vostro odio: meritata-
mente, trovo, perché se l'Antiterricolismo è sentimento assai dif-
fuso in tutta la Galassia in grado più o meno maggiore, a Sirio è
in atto in forme assai più violente...».
«Respingo vivamente l'insinuazione, Lord Ennius» protestò
Arvardan animatissimo. «Non sono venuto qui a cercare le pro-
ve di differenze razziali. Anzi! Non c'è individuo più di me tol-
lerante in tutto l'Universo, appunto perché credo fermamente,
sino nel più profondo del mio essere di uomo e di scienziato, che
l'uomo deriva da una sola Fonte: anche l'uomo che popola que-
sta Terra, dunque. Non vi sfugga, tra l'altro, che tutta la vita è
Una, alle sue radici: essa infatti si fonda in tutte le sue manife-
stazioni su quei complessi proteici in dispersione colloidale me-
glio noti col nome di protoplasma. Accennando alla radioattivi-
tà, poc'anzi non mi riferivo già all'influenza che il fenomeno può
avere nei confronti di questo o di quell'altro tipo umano, di que-
sta o quell'altra forma di vita, bensì alla vita tutta, fondata ap-
punto su di un meccanismo quantitativo di molecole proteiche.
Alludevo quindi anche a voi ed a me, come alludevo ai Terrico-
li, ai ragni o, che so?, ai microrganismi.
«Le proteine, voi me lo insegnate. sono gruppi immensamen-
te complicati di amminoacidi ed altri composti organici i quali, a
loro volta, formano ulteriori composti tridimensionali, instabili
come può esserlo il tempo in una giornata di continue alternative

36/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


di pioggia e sole. La vita è fatta proprio da questa instabilità:
nello sforzo di mantenere la propria identità, si vede costretta ad
agitarsi di continuo come fa l'acrobata che si muove continua-
mente per mantenere in equilibrio il lungo bastone che si mette
sul naso.
«Ma prima di trasformarsi in sostanza vivente quel meravi-
glioso composto che chiamiamo proteina deve essersi formato
da materia inorganica. Ecco dunque, che all'inizio degli inizi,
grazie all'energia radiante del sole che agisce su quelle macro-
scopiche soluzioni che chiamano oceani, le molecole organiche
aumentano gradualmente di complessità e si trasformano da me-
tano in formaldeide e, in ultima fase, in zuccheri ed amidi in una
direzione, e in urea ed amminoacidi nell'altra. Queste combina-
zioni e disintegrazioni di atomi, naturalmente, sono abbandonate
al caso ed il processo che in un mondo richiederà milioni di an-
ni, in un altro può richiederne soltanto centinaia. Naturalmente,
ammesso tutto ciò, si deve considerare anche la possibilità che si
debbano impiegare milioni di anni. E di questo passo si può an-
che ammettere che il processo non avvenga affatto.
«Ora, gli specialisti di fisiochimica organica, sono riusciti a
studiare tutte le reazioni a catena implicate nel processo, e parti-
colarmente quelle che si riferiscono all'impiego di energia. Han-
no cioè stabilito con esattezza quale sia la relazione tra energia e
mutamento atomico. Si è così appreso, al di là di ogni dubbio,
che molte delle fasi cruciali nella creazione della vita, necessita-
no di assoluta assenza di energia radiante. E se questo vi stupi-
sce, signor Procuratore, non posso far altro che invocare ad
esempio la fotochimica, la chimica cioè delle reazioni indotte da
energia radiante, scienza specialistica ben sviluppata, che de-
scrive innumeri casi di reazioni semplicissime che daranno co-
me prodotti finali due differenti composti a seconda che la rea-
zione abbia avuto luogo in presenza o in assenza di determinati
quanta di "energia luce".
«Nei mondi comuni, l'unica fonte di energia radiante od al-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/37


meno la più importante di queste fonti è data dal sole. Ma al ri-
paro delle nubi o durante la notte, i composti di carbonio e di
azoto si combinano e ricombinano, in modo reso soltanto possi-
bile dall'assenza di quelle particelle di energia che normalmente
vengono lanciate tra di loro dal sole... come una palla che va a
colpire un numero infinito di microscopici birilli.
«Ma sui mondi radioattivi, anche quando non brilla il sole,
anche la notte, le gocce d'acqua, persino quelle che si annidano a
cinque miglia di profondità dalla superficie, sfavillano, scoppia-
no addirittura per la carica di radiazioni gamma, pronte a scara-
ventare in ogni direzione gli atomi di carbonio costringendoli, ci
insegnano i chimici, a dar luogo a determinate reazioni a catena,
a procedere unicamente in determinate direzioni, le quali non
danno mai come prodotto finale la vita».
Terminato di bere, Arvardan aveva deposto il bicchiere vuoto
sul tavolino rimasto in attesa. Istantaneamente, il recipiente
scomparve nel profondo dell'apposita cavità dove venne lavato,
sterilizzato, pronto a servire un'altra bibita.
Battendo ritmicamente un'unghia sul bracciuolo della poltro-
na, Ennius osservò: «Trovo la vostra esposizione affascinante:
ma non spiega, tuttavia, come si sia determinato il fenomeno
"vita" sulla Terra. Come ha potuto svilupparsi in queste condi-
zioni?».
«Questo è il problema. Ma non credo difficile la risposta.
Almeno, personalmente. Un minimo di radioattività superiore
alla norma impedisce il formarsi della vita, ma non è detto che
basti a distruggere quella che vi si è già formata. Potrà modifi-
carla, tuttalpiù: mai distruggerla, perché da un punto di vista
chimico il problema si presenterà sotto questo aspetto: mentre
nel primo caso le radiazioni impediscono la formazione della
molecola, nel secondo dovrebbero essere in grado di spezzare,
disintegrare gruppi molecolari già costituiti. Come vedete, ben
altra cosa».
«Sarà; ma non ho ben compreso...»

38/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Ma è ovvio! Bisogna supporre che sulla Terra la vita si sia
formata prima che il pianeta divenisse radioattivo. Non ci rima-
ne altro, caro Procuratore: a meno che non si vogliano negare
l'esistenza della vita in Terra, e tanto di chimica da rivoluzionare
metà delle scienze».
«Ma... parlate seriamente?» sbalordì Ennius fissando l'altro
allibito.
«Certamente!»
«Ma come può un mondo diventare radioattivo? Gli elementi
radioattivi sono presenti su questo pianeta da milioni, bilioni di
anni!»
«Non dimenticate la radioattività artificiale, caro Lord En-
nius... Può essercene stata anche in quantità enorme! Che cosa ci
impedisce di immaginare che gli uomini, ad un certo momento,
si siano serviti di reazioni nucleari a scopo industriale trascuran-
do le debite precauzioni, o abbiano scatenato una guerra atomi-
ca, sia pure su di un solo pianeta, fenomeno oggi inimmaginabi-
le, naturalmente, ed abbiamo così trasformato artificialmente in
materiale radioattivo la crosta del loro pianeta?»
«Le vostre» mormorò Ennius «mi sembrano congetture piut-
tosto fantastiche. Soprattutto, mi riesce inconcepibile l'idea
dell'uso di reazioni nucleari a scopo bellico, e non so nemmeno
immaginare la possibilità che gli uomini possano averne perduto
il controllo in maniera tanto catastrofica...»
«Perché oggi abbiamo imparato a controllarle come se nulla
fosse! E se qualcuno, un esercito poniamo, ne ha fatto uso anco-
ra prima di escogitare il mezzo per difendersene? Sarebbe stato
come servirsi di spezzoni incendiari prima che l'umanità avesse
appreso a combattere il fuoco con l'acqua e con la sabbia».
«Mi sembra di sentir parlare Shekt...»
«Chi è questo Shekt?» volle sapere Arvardan animatissimo.
«Un Terricolo. Uno dei pochi degni... Uno dei pochi ai quali
un gentiluomo può degnarsi di rivolgere la parola. È un fisico. E
una volta m'ha detto che forse la Terra non è radioattiva da sem-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/39


pre».
«Ah!... Nulla di strano: la mia, non è una teoria nuova: la si
ritrova nel famoso Libro Degli Anziani, che ci dà una versione
tradizionale, mitica, della preistoria terrestre. In sostanza, non ho
fatto altro che esporne i concetti, mutandone la fraseologia piut-
tosto enigmatica, in chiare espressioni scientifiche».
«Il Libro Degli Anziani?» ripeté Ennius piuttosto scosso.
«Dove ve lo siete procurato?»
«Qua e là. E non è stato facile. Ne ho avute soltanto alcune
parti. Ma non esito a dirvi che le informazioni tradizionali di
quel testo, anche se poco scientifiche, risulteranno importantis-
sime per le mie ricerche, specialmente per quanto concerne la
radioattività... Perché volevate sapere dove me lo sono procura-
to?»
«Perché è il testo religioso cui si ispira una setta di estremisti
Terricoli. Agli Stranieri è vietato. E sino a che vi tratterrete qui,
farete bene a mantenere assoluto riserbo su quanto ne conoscete.
I Fanatici hanno linciato per molto meno i Non-Terricoli o Stra-
nieri, come ci chiamano».
«A sentirvi parlare, si direbbe che la polizia imperiale è im-
potente, quaggiù».
«Quando si tratta di sacrilegio è così, caro Arvardan. E... a
buon intenditore...»
S'udirono vibrate le note melodiose di un carillon, in armo-
nia, quasi, col frusciare del fogliame degli alberi. Si spense len-
tamente, risonando a lungo come d'accenti nostalgici.
«È ora di andare a cena» disse Ennius alzandosi. «Se vi de-
gnate di seguirmi, signore, vi offrirò quanta ospitalità imperiale
ci è consentita su questo oscuro globo che ha nome Terra...»
Non si presentavano spesso le occasioni di far servire pranzi
complicati: si doveva approfittare anche delle minime occasioni
per soddisfarsi. Molte furono le portate quella sera; assai lussuo-
so il servizio, elegantissimi gli uomini, affascinanti, incantatrici
addirittura, le donne. E il dottor Bel Arvardan di Baronn, Sirio,

40/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


venne fatto oggetto di attenzioni, di lusinghe inesauribili.
Incoraggiato forse dall'atteggiamento dei commensali, Arvar-
dan si abbandonò, nell'ultima parte del banchetto, alla esposizio-
ne dei concetti che aveva già esposti nel pomeriggio ad Ennius.
Purtroppo, però, alle sue idee fu riserbata accoglienza molto più
gelida.
Con la spiccata aria di condiscendenza che i militari sono so-
liti assumere nei confronti degli scienziati, un maturo colonnello
si piegò verso di lui per dirgli:
«Se ho ben capito, dottor Arvardan, voi osereste sostenere
che gli antenati di questi cani che popolano attualmente la Terra,
sarebbero appartenuti a razza ancestrale, dalla quale avrebbe poi
tratto origine tutto il resto dell'Umanità...»
«Non posso certo affermarlo in termini così categorici, ma ri-
tengo assai probabile che così possa essere. Spero comunque di
rendere noto il mio giudizio definitivo in merito, a capo di un
anno di ricerche».
«Se le vostre supposizioni dovessero risultare esatte, della
qual cosa mi permetto di dubitare assai, ne rimarrei addirittura
sbalordito. Dopo quattro anni di soggiorno quaggiù, ritengo di
essermi costituito una certa esperienza... Ebbene, i Terricoli mi
sembrano esseri spregevoli in tutti i sensi. Dal primo all'ultimo.
Da un punto di vista dell'intelligenza ci sono nettamente inferio-
ri, in quanto mancano nel modo più assoluto di quella scintilla
che è valsa a rischiarare l'umanità intera della Galassia. I Terri-
coli sono superstiziosi, avari, assolutamente privi di nobiltà d'a-
nimo. Vi sfido, e sfido chiunque a presentarmi un Terricolo, uno
solo, degno della definizione di uomo, come la meritate voi od
io... Soltanto allora riuscirete a persuadermi che queste canaglie
appartengono al ceppo dal quale noi tutti discendiamo».
«La sapete "l'ultima" sui Terricoli?» chiese un omone seduto
all'altro capo della tavola. «"Il solo Terricolo buono è morto... E
puzzava anche da estinto!"» E. scoppiò in un'omerica risata.
Arvardan corrugò la fronte. Con gli occhi fissi sul piatto che

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/41


aveva davanti, disse: «Non fraintendiamo: lungi da me il deside-
rio, soltanto, di dar vita ad una discussione in tema di discrimi-
nazioni razziali. Non ne vedo necessità alcuna, soprattutto per-
ché sino a questo momento io ho parlato unicamente del Terri-
colo preistorico. Non si dimentichi tuttavia che i discendenti di
quell'ancestrale capostipite, i Terricoli dei nostri giorni, sono
stati sottoposti per troppo lungo tempo a crudele isolamento, so-
no stati costretti a vivere in un ambiente che non esito a definire
per lo meno insolito... E non mi passa neppure per il capo di sot-
tovalutarli, come se nulla fosse. Mylord» concluse Arbardan ri-
volgendosi ad Ennius «se non erro, nel pomeriggio mi parlavate
di un Terricolo...»
«Possibile? Non rammento...»
«Mi avete nominato un fisico... Shekt, mi sembra».
«Certo. Ne avete sentito parlare?»
«Credo di potervi rispondere affermativamente. E dopo aver
pensato a lui per tutta la durata del pranzo, sono finalmente riu-
scito a identificarlo... Non è forse il direttore dell'Istituto di Ri-
cerche Nucleari di... Come si chiama quel posto?» domandò a se
stesso Arvardan, battendosi la fronte col palmo della mano. «Ah
sì! Chica!»
«Esattamente, signore! E con ciò?»
«Poca cosa, mylord... Ho letto un suo articolo apparso sul
Giornale di Fisica. L'ho notato perché in quel periodo ero ansio-
so di conoscere tutto quanto si riferiva alla Terra, e scritti di Ter-
ricoli, nella Galassia, se ne vedono molto pochi... Comunque,
volevo arrivare semplicemente a questo: quello scienziato, sem-
bra, avrebbe inventato un apparecchio capace di accrescere la
facoltà di apprendere dei mammiferi, influenzandone il sistema
nervoso. Lo chiama Sinottificatore...»
«Davvero?» proruppe, forse con soverchia animazione, En-
nius. «Non ne sapevo niente».
«Sarò lieto di fornirvene i dati. L'articolo dello Shekt, co-
munque, è interessantissimo. Purtroppo non posso seguirlo nei

42/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


suoi sviluppi matematici, ma se ho capito bene, si tratta di que-
sto... Sottoposti alcuni animali di discendenza terricola... ratti, si
chiamano, se ben ricordo... agli effetti del suo apparato, lo Shekt
ha proposto loro la soluzione di un problema. Li ha indotti, in
poche parole, a trovare la strada che conduceva al cibo, dopo
averli introdotti in una specie di labirinto. Servendosi di ratti non
sottoposti agli effetti del Sinottificatore come materiale di con-
trollo, lo Shekt ha saputo dimostrare che i ratti "trattati" erano in
grado di risolvere il loro problema in un terzo del tempo impie-
gato dagli altri. Mi seguite, colonnello?...»
«No, dottore» negò il militare che aveva dato origine alla di-
scussione, con somma indifferenza «affatto...»
«Pazienza. Dichiaro comunque, che l'individuo capace di tan-
to, Terricolo o no, è necessariamente eguale a me sul piano in-
tellettuale, e, perdonate l'ardire, eguale anche a voi».
«Scusate, Arvardan» intervenne Ennius. «Torniamo al Sinot-
tificatore... Ha già sperimentato con esseri umani, il professor
Shekt?»
«Ne dubito, Lor£1 Ennius» rise Arvardan. «Nel corso dei
suoi esperimenti, Shekt si è visto morire i nove decimi dei ratti
impiegati. Sino a che non l'avrà perfezionato, non oserà provare
gli effetti del suo apparato sull'uomo».
Ennius si abbandonò pensieroso sullo schienale della sedia.
Gli altri non dissero più una parola; cessarono persino di man-
giare.
Poco prima della mezzanotte, il Procuratore aveva abbando-
nato gli ospiti. Dopo essersi brevemente accomiatato dalla spo-
sa, partiva a bordo del suo apparecchio privato, che doveva de-
positarlo a Chica a capo d'un viaggio di un paio d'ore. Mai, per
tutto quel tempo, cessò di corrugare la fronte, mai riuscì a libe-
rarsi dal senso vivo d'ansia che l'aveva colto.

Così, lo stesso pomeriggio in cui Arbin Maren portava Joseph


Schwartz a Chica per farlo sottoporre all'azione del Sinottifica-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/43


tore di Shekt, il grande fisico era stato a colloquio per oltre un'o-
ra, nientemeno che col Procuratore della Terra in persona.

IV
IL MEZZO PIÙ SEMPLICE

A Chica, Arbin si sentiva inquieto. Da qualche parte, chissà


dove a Chica, una delle più popolose città della Terra (50.000
abitanti dicevano alcuni!) c'erano dei funzionari del Grande Im-
pero degli Stranieri.
Arbin, naturalmente, non aveva mai veduto un abitante della
Galassia in vita sua. A Chica, comunque, non faceva che guar-
darsi alle spalle per la paura di vedersene capitare uno a faccia a
faccia. E se gli fosse capitato, non avrebbe saputo distinguere
uno Straniero da un Terricolo nemmeno se l'avessero messo alla
tortura: lui sapeva soltanto, l'aveva nel midollo delle ossa, che
una differenza doveva esserci. Quale, non sapeva...
Nell'entrare nell'Istituto si guardò alle spalle. Aveva lasciato
ad un parcheggio stradale il veicolo a due ruote debitamente
munito di cartellino che ne autorizzava la sosta per sei ore, ed
ora temeva che tale circostanza potesse far convergere su di lui
dei sospetti...
C'era solo da sperare che lo straniero non osasse uscire dal
portabagagli posteriore nel quale l'aveva nascosto. Aveva annui-
to con grande animazione quando glielo aveva detto... Ma aveva
effettivamente capito?
In preda a vivissima agitazione, Arbin si maledisse per esser-
si lasciato convincere da Grew a commettere quella sciocchezza.
Poi aveva veduto spalancarsi una porta davanti a lui, e una voce
gli aveva interrotto le meditazioni.
«Desiderate?» aveva chiesto la voce.
Con accento impaziente. Forse perché aveva già fatto più vol-

44/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


te la stessa domanda. Lui aveva risposto con la voce rota, chioc-
ciando come se stesse per morire strangolato.
«È qui dove accettano i volontari per il Sinottificatore?»
«Firmate qui» aveva imposto l'impiegata.
«Dove debbo rivolgermi per il Sinottificatore?» aveva ripetu-
to Arbin nascondendo le mani dietro la schiena. E pronunciava il
vocabolo per lui così difficile con fatica enorme. Glielo aveva
fatto ripetere un centinaio di volte, Grew, a casa...
«Prima di introdurvi nell'Istituto dovete firmare il registro dei
visitatori» aveva insistito l'impiegata inflessibile. «È il regola-
mento».
Arbin le volse la schiena deciso ad andarsene. E la ragazza di
là dallo sportello strinse le labbra e pigiò con violenza il piede
sul segnale d'allarme.
L'impiegata mostrò Arbin a dito ad un'altra ragazza che veni-
va veloce lungo un corridoio, vestita di un camice bianco.
«È un volontario per il Sinottificatore, ma non vuol. darmi il
suo nome, signorina Shekt!»
Arbin levò il volto sulla nuova venuta, anche lei giovane co-
me l'impiegata. Un po' spaurito volle sapere:
«Vi occupate voi della macchina, signorina?»
«No! Affatto!» rispose la ragazza. E sorrise affabile, sì che
Arbin cominciò a sentirsi un tantino più rinfrancato.
«Se volete, vi accompagno di là» aggiunse. «Desiderate effet-
tivamente sottoporvi volontariamente agli effetti del Sinottifica-
tore?»
«No. Desidero semplicemente conferire con l'incaricato» dis-
se Arbin, brusco.
«D'accordo». I modi di Arbin non sembravano averla turbata.
La fanciulla scomparve dietro un uscio, dal quale si affacciò po-
co dopo per far cenno con un dito ad Arbin di entrare.
La seguì col cuore in tumulto, in una minuscola anticamera..
«Il dottor Shekt sarà con voi tra mezz'ora... Forse meno; in que-
sto momento è molto occupato... Potreste ingannare l'attesa con

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/45


qualche video-libro... Se volete vi porto un proiettore».
Ma Arbin scosse il capo. Aveva paura di essere caduto in una
trappola. Temeva che gli Anziani lo mandassero a prendere da
un momento all'altro.
L'attesa, fu la più lunga di tutta la sua vita.

Lord Ennius, Procuratore della Terra, non aveva avuto diffi-


coltà alcuna a farsi ricevere dal dottor Shekt. Nondimeno, aveva
condiviso le ansie di Arbin. Procuratore da quattro anni, tutte le
volte che si recava in visita a Chica provava la stessa, intensa
emozione. Prigioniero degli sterili deserti dell'Himalaia, incari-
cato di dirimere i contrasti inani di popolazioni che lo odiavano
quanto l'Impero del quale era il rappresentante, anche una gite-
rella in quel di Chica gli sembrava un'evasione.
Sempre brevissime, quelle fughe, purtroppo. Non poteva es-
sere diversamente perché a Chica era necessario indossare abiti
impregnati di piombo di giorno, biancheria egualmente trattata
la notte: peggio, dovevi continuamente preoccuparti di impedire
la flessione dal livello ottimale della metabolina che ti vedevi
costretto a mettere in circolo.
Di ciò, Ennius parlava in termini amari con Shekt:
«La metabolina» diceva reggendo tra due dita una pillola
vermiglia ed osservandola attentamente «è il simbolo vero e
proprio di ciò che questo pianeta significa per me, amico mio.
Immerso in una nube radioattiva che tutto mi circonda e che voi
non avvertite neppure, io sono costretto a ricorrere a questo me-
dicinale per esaltare tutte le mie funzioni metaboliche. Là!»
esclamò Ennius dopo aver inghiottito il preparato. «E adesso il
mio cuore accelererà i suoi battiti, comincerò a respirare a velo-
cità da campionato, il fegato mi si farà in quattro per realizzare
in fretta tutte quelle operazioni di sintesi che gli hanno fatto
guadagnare la definizione di "laboratorio chimico dell'organi-
smo" da parte dei signori medici. In compenso di tutto ciò, mi
rallegreranno feroci emicranie, e un profondissimo senso di

46/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


stanchezza».
Il dottor Shekt ascoltava leggermente divertito. E dava come
sempre l'impressione di essere miope. Non perché portasse gli
occhiali o fosse comunque afflitto da disturbi della vista. Sem-
plicemente perché si era abituato da tempo immemorabile a
guardare tutto ad occhi socchiusi, intento, ansioso addirittura di
soppesare ogni elemento. E non parlava mai, prima di avere me-
ditato a lungo. Alto, di mezza età, aveva la figura sottile un po'
curva.
Era così profondamente versato in tutto ciò che era cultura
galassica, da rimanere esente dalle qualità negative che rendeva-
no repulsivi, oggetto di unanime ostilità i comuni abitatori della
Terra. Shekt era persino "accettabile", per un individuo tanto co-
smopolita come "l'imperiale" Procuratore Ennius.
«Non avete alcun bisogno di quella pillola» disse Shekt. «La
metabolina non è che una delle moltissime superstizioni che vi
affliggono e lo sapete anche voi. Se al suo posto vi facessi in-
ghiottire una compressa di zucchero a vostra insaputa, vi senti-
reste egualmente bene. Dico di più: non tardereste a soffrire di
emicranie postume di origine puramente psicosomatica».
«Lo dite perché voi vi trovate a casa vostra, in questo am-
biente. Neghereste che l'indice del vostro metabolismo basale è
superiore al mio?»
«Non ci penso nemmeno. Ma con ciò? L'Impero continua ad
alimentare la superstizione secondo cui noi Terricolì saremmo
diversi dagli altri uomini, mentre si sa benissimo che nell'essen-
ziale non è affatto così. O siete qui come emissario dell'Antiter-
ricolismo?»
«Per la vita dell'Imperatore!» esclamò Ennius gemendo. «Ma
se i missionari più ferventi dell'Antiterricolismo sono proprio i
vostri simili, gli abitanti della Terra! Continuando a vivere come
fanno, abbarbicati al loro mortale pianeta intenti a macerarsi di
odio e risentimento, costituiscono l'ulcera di cui si duole croni-
camente la Galassia!

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/47


«Dico sul serio, Shekt. C'è un altro pianeta che viva come
questo una giornata di perenni rituali, adeguandovisi con furia
masochistica? Non passa un giorno senza che mi si presenti una
delegazione inviata da uno dei vostri istituti di governo a chie-
dermi la vita di questo o quell'altro povero diavolo, unicamente
colpevole di aver messo piede su di un'Area Proibita, di aver
eluso la disposizione dei Sessanta, di aver mangiato un pezzetto
di pane più degli altri».
«Non vi si deve pregar molto per indurvi a ordinare la pena di
morte, comunque. Il vostro idealistico disgusto per la pena, non
vi impedisce di indulgere ad accordarla».
«Mi sono testimoni le Stelle, Shekt, dei miei sforzi per non
acconsentirvi. Ma che cosa posso fare se l'Imperatore ha dispo-
sto il rispetto più assoluto delle usanze locali in tutte le provincie
dell'Impero? Non che io sia in disaccordo con la disposizione,
intendiamoci. È l'unica che possa impedire alle teste calde di
scatenare una sommossa ad ogni piè sospinto. Senza contare che
se osassi oppormi a concedere la pena suprema invocata dai vo-
stri Parlamenti, Senati, Camere, ne nascerebbe un pandemonio
tale, un così fiero coro di proteste contro l'Impero che preferirei
passare il resto della mia vita in mezzo a una legione di diavoli
che rimanere soltanto dieci minuti sulla faccia di questa male-
detta Terra».
Sospirando, Shekt si passò una mano sulla rada pelurie che
gli copriva il capo. «Per il rimanente della Galassia, dato e con-
cesso che si avvedano della nostra esistenza, la Terra non è che
un paria tra gli astri, un ciottolo spregevole del cielo. Ma per
noi, invece, la Terra è il focolare, la culla, la sola casa che cono-
sciamo. Siamo forse diversi da voi che venite di Fuori? No.
Siamo soltanto meno fortunati di voi. Costretti ad accalcarci su
di un mondo quasi interamente morto, viviamo in un'atmosfera
radiante che ci rinserra come una prigione, di là dalle sbarre del-
la quale c'è tutta la Galassia che ci respinge, ci disprezza. Potete
rimproverarci il senso di delusione, di abissale frustrazione che

48/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


ci brucia il petto? Permettereste voi, Procuratore, ai nostri in so-
vrannumero di emigrare verso altri pianeti?»
«Io sì» rispose Ennius facendo spallucce. «Sono gli indigeni
degli altri pianeti che si opporrebbero. Né si può dar loro torto:
perché cadere vittime delle malattie di cui i Terricoli sono porta-
tori?»
«La solita favola delle malattie dei Terricoli!» si ribellò Shekt
agitandosi. «È un concetto privo di senso che sarebbe ora di sra-
dicare dalle vostre menti! Non siamo portatori di morte. Siete
forse defunto per esservi degnato di scendere tra noi?»
«No. Ma mi son ben guardato da pericolose promiscuità».
«L'avete fatto perché reso pavido dalla nefasta propaganda di
cui siamo grati ai vostri stupidi fanatici!»
«Andiamo, Shekt! Neghereste forse che sia stata scientifica-
mente provata la radioattività degli abitatori della Terra?»
«No certo! Come potrebbero non essere radioattivi gli uomini
di questa Terra? Lo siete anche voi! Lo sono tutti i milioni di
pianeti che costituiscono l'Impero. Noi, ve lo concedo, lo siamo
un tantino di più: non quanto basta per far danno agli altri, tutta-
via».
«Comunque, l'uomo della strada della Galassia è persuaso del
contrario, e non ha la minima intenzione di far da cavia per di-
mostrare il contrario. E poi...»
«... e poi noi siamo diversi! Vero? Non siamo esseri umani
perché siamo mutati più in fretta degli altri, grazie alle radiazio-
ni atomiche che ci avrebbero resi differenti da voi sotto una
quantità di aspetti... Ma prove di ciò, non ve ne sono».
«Prove o no, noi ne siamo convinti».
« E sino a che si crederà a tutte queste panzane, caro Procura-
tore, sino a che si continuerà a considerare gli abitanti della Ter-
ra altrettanti paria, non sperate di veder scomparire negli abitanti
della Terra le caratteristiche che ve li rendono odiosi. Come po-
tremmo non reagire al vostro atteggiamento ostile? Ci odiate!
Come potremmo non ricambiarvi di eguale sentimento? Non

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/49


negatelo: siamo noi gli offesi. Non gli offensori».
Ennius si rodeva per aver sollevato quel vespaio. Anche i mi-
gliori dei .Terricoli, si diceva, avevano "la coda di paglia", erano
pronti ad assumere il caratteristico atteggiamento "terricolo" nei
confronti dell'Universo.
«Suvvia, non prendetevela, Shekt» mormorò pieno di tatto.
«E perdonate la mia giovine età, la noia che mi affligge e mi
ispira certi atteggiamenti. Compagni di prigionia in Terra, siamo
però entrambi cittadini dell'infinito mondo dello spirito dove
non si fanno distinzioni di luogo di nascita o di caratteristiche
fisiche razziali. Qua la mano. Torniamo amici».
Le rughe del volto di Shekt si fecero meno profonde, scom-
parvero per far luogo ad altre, indizio di profondo senso dell'u-
morismo. Con una risata, disse: «Parlate con l'accento di un
umile postulante, ma nelle vostre parole vibra sempre quello del
diplomatico di carriera. Non valete molto, come attore, caro
Procuratore».
«Concesso. Prendetevi la rivincita dimostrandovi prezioso
maestro, e parlatemi un po' del vostro Sinottificatore».
Shekt non seppe trattenere un sussulto. Accigliato, indagò:
«Che ne sapete del mio strumento? Vi occupate anche di fisica,
oltre che di amministrazione della cosa pubblica?».
«La cosa pubblica comprende anche tutto ciò che si riferisce
alla scienza. Dico sul serio, Shekt. Voglio sapere...»
Dubbioso, il fisico osservò attentamente l'altro. Levò la mano
ossuta alla bocca, strinse, pensoso, il labbro inferiore tra due di-
ta. «Non so proprio da dove cominciare...» disse sbattendo le
palpebre. «Mi limiterò ad una descrizione: si tratta semplice-
mente di un apparecchio destinato ad accrescere le capacità di
apprendere dell'essere umano».
«Dell'essere umano, dite? Per gli Astri! E funziona?»
«E chi lo sa? Ho ancora molto lavoro davanti a me. Comun-
que, caro Procuratore, vi fornirò alcuni elementi che vi daranno
un'idea... Il sistema nervoso dell'uomo, e degli animali, si com-

50/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


pone di sostanze neuroproteiche. Sostanze ordinate a formare
grosse molecole in equilibrio elettrico assai precario. Al minimo
stimolo, vedremo turbato l'equilibrio di una di queste molecole,
che tornerà ad equilibrarsi sbilanciando la sua vicina, la quale
ripeterà questo processo sino a che non sia raggiunto il cervello.
Il cervello è formato da un immenso raggruppamento di quelle
molecole, connesse tra loro in ogni maniera possibile. Siccome i
neuroprotoni presenti nel cervello sono in numero uguale a dieci
elevato alla ventesima potenza (una cifra formata da l seguito da
venti zeri) la somma delle loro combinazioni possibili ammonta
all'equivalente della progressione di dieci alla ventesima. Ad una
cifra tale, cioè, che trasformati gli elettroni e i protoni dell'uni-
verso in altrettanti universi, tutti gli elettroni e protoni presenti
negli universi così formati non sarebbero nulla al suo confron-
to... Mi seguite?»
«Non capisco una parola, grazie alle Stelle. Se lo tentassi mi
darebbe di volta il cervello al punto di mettermi ad abbaiare co-
me un cane rabbioso».
«Già. Comunque, si dicono impulsi nervosi i progressivi
squilibri elettronici che, percorsi i nervi sino a giungere al cer-
vello, dal cervello tornano a propagarsi lungo i nervi. Lo capite,
questo?»
«Fin qui ci arrivo».
«Benissimo. Sino a che l'impulso si propaga lungo una cellu-
la nervosa, essa sarà veloce in quanto le neuroproteine si trovano
praticamente a contatto tra loro. La cellula nervosa, però, è di
limitata estensione. E tra una cellula e l'altra c'è un legame che
non è formato di sostanza nervosa. In altre parole le cellule ner-
vose attigue non comunicano, in ultima analisi, tra loro».
«Per cui» disse Ennius «l'impulso si vedrà costretto a varcare
la barriera facendo un balzo».
«Esattamente! La barriera, come l'avete chiamata voi, toglie-
rà forza all'impulso, ne diminuirà la velocità di propagazione in
proporzioni pari al quadrato della massa. Ciò vale anche per il

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/51


cervello. Immaginiamo, ora, di trovare un mezzo che diminuisca
i valori della costante dielettrica del tessuto che divide una cellu-
la dall'altra...»
«La costante... che cosa?!»
«La capacità isolante della "barriera"... Diminuendola, l'im-
pulso saprebbe compiere il suo balzo assai più facilmente. Sare-
ste in grado di pensare, di apprendere assai più in fretta».
«Già. E ciò mi riporta alla mia domanda di poco fa. Funzio-
na?»
«Ho fatto qualche esperimento sugli animali».
«E con quale risultato?»
«Be'... La maggior parte me la son vista morire per degenera-
zione della proteina cerebrale... Per coagulazione, insomma.
Quella faccenda che capita quando si fa bollire un uovo».
«La crudeltà premeditata, il sangue freddo della scienza» si
ribellò rabbrividendo Ennius «è qualcosa di orrendo. Comun-
que... Che cosa è stato degli animali che non sono crepati?»
«Difficile a dirsi, dato che non erano esseri umani. Alcune
esperienze mi hanno dato risultati lusinghieri, ma... Ho bisogno
di sperimentare sull'uomo. Qui si tratta di studiare le proprietà
elettriche naturali di ciascun cervello. Perché ogni cervello pro-
duce microcorrenti di un certo tipo. Diverse, sempre, le une dal-
le altre. È un po' quanto succede per le impronte digitali e per il
reticolo vascolare della rétina. Di questo, debbo poter tenere
conto nel corso degli esperimenti... E se non sbaglio, non si veri-
ficherà più la minima coagulazione. Purtroppo non ho uomini
sui quali sperimentare. Ho chiesto dei volontari, ma...» E Shekt
agitò le mani, in un gesto deluso.
«Per forza, vecchio mio» disse Ennius. «Ma che intenzioni
avete, nel caso in cui vi riuscisse di perfezionare il vostro appa-
recchio?»
«Non spetta a me il deciderlo» affermò il fisico stringendosi
nelle spalle. «L'ultima parola spetta al Gran Consiglio, natural-
mente...»

52/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Uff!» protestò Ennius impaziente. «Al diavolo il vostro
Gran Consiglio. Conosco quella gente pestifera. È di voi che sto
parlando, ora: ve la sentite di dir loro due paroline, al momento
buono?»
«Che influenza potrebbero avere, su quella gente, le mie due
paroline?»
«Potreste dire loro che se la Terra riesce a produrre un Sinot-
tificatore innocuo agli esseri umani e ne facilita l'impiego a tutta
la Galassia, le restrizioni poste all'emigrazione di Terricoli verso
altri pianeti potrebbero venire rivedute, ridotte».
«Che?!» finì di sbalordire Shekt. «A rischio di epidemie, di
delitti contro la razza? A dispetto del fatto che noi non siamo
degli "umani"?»
«Si potrebbe trasferirvi tutti quanti su di un altro pianeta»
mormorò Ennius con calma. «Pensateci».
Proprio in quel momento si aperse la porta ed entrò una gio-
vane che, sfiorando con grazia estrema il mobiletto dei libro-
film, portò nell'ammuffita atmosfera dello studio dello scienzia-
to un soffio di giovinezza e di primavera.
«Vieni, Pola» la invitò vivacemente Shekt. «Mylord» aggiun-
se poi rivolto ad Ennius «ho l'onore di presentarvi la mia figlio-
la. Questo è il Procuratore della Terra, Lord Ennius, mia cara...»
Il Procuratore si alzò con grande galanteria, troncando sul na-
scere il tentativo della ragazza di fare l'inchino di rito.
«Mia cara signorina Shekt» disse «non avrei mai creduto la
Terra capace di produrre tanta bellezza. La vostra offuscherebbe
quella delle donne di qualsiasi pianeta».
«La vostra cortesia mi ha sopraffatto» disse Pola corrugando
per un attimo la fronte. «Siete davvero un valoroso a rischiare di
prendervi una infezione, toccando una volgare ragazza terrico-
la».
«Mia figlia, Procuratore» intervenne Shekt «sta completando
gli studi di medicina all'università di Chica...»
«Ho una notizia assai importante da darti» disse la ragazza

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/53


esitante.
«Debbo uscire?» domandò Ennius, con voce queta.
«No, no» disse Shekt. «Parla, Pola. Che c'è?»
«Un volontario, babbo».
«Per il mio apparecchio?» sbalordì Shekt.
«Così dice...»
«Vi porto fortuna, a quanto sembra» disse Ennius.
«A quel che sembra» mormorò Shekt. Alla figlia disse: «Por-
talo in Sala C e fallo aspettare. Vengo subito. Scusate se mi son
permesso...» disse ad Ennius.
«Andate pure, Shekt. Durerà a lungo l'operazione?»
«Alcune ore, purtroppo. Volete assistere?»
«Non saprei immaginare nulla di più disgustoso, caro Shekt.
Sino a domani mi fermerò al Palazzo di Stato. Mi comunicherete
i risultati?»
«Certamente» promise Shekt, con evidente sollievo.
«Bene... E pensate a quanto vi ho proposto a proposito di
quel Sinottificatore...»
Ennius se ne andò assai più turbato di prima. Aveva appreso
poco o nulla, eppure si sentiva assai più intimorito.

V
L'INVOLONTARIO VOLONTARIO

Rimasto solo, il dottor Shekt toccò il campanello con gesto


queto, quasi cauto, e poco dopo entrò un giovine tecnico dai ca-
pelli bruni ben pettinati all'indietro, dal camice bianco, immaco-
lato.
«Vi ha detto, Pola...?» cominciò il fisico.
«Sissignore. Gli ho dato un'occhiata col televisore e mi è
proprio sembrato un volontario. Non ha assolutamente l'aspetto
degli altri soggetti. Quelli che ci mandano nel solito modo».

54/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Credete che debba avvisarne il Consiglio?»
«Non saprei proprio. Anche perché quelli del Consiglio se la
prenderebbero se li mandate ad avvisare coi mezzi normali:
qualcuno potrebbe intercettare la comunicazione e... Potrei invi-
tarlo ad andarsene» propose poi il giovanotto animatamente.
«Gli dico che ci servono individui al disotto dei trenta e dato che
lui ne dimostra almeno trentacinque...»
«No» disse Shekt. «Preferisco riceverlo». E si sentì preda di
una strana indecisione. Sino a quel momento era riuscito a tratta-
re la faccenda del suo apparecchio con sommo giudizio. Aveva
fornito informazioni, naturalmente; ma non più di quanto basta-
va a farlo ritenere sincero. Ed ora, ecco che gli si presentava un
volontario vero e proprio, due minuti dopo la visita di Ennius.
Che ci fosse un legame tra i due eventi? In effetti, Shekt aveva
un'idea assai vaga delle forze oscure che si agitavano disordina-
tamente sulla dilaniata superficie della Terra. Ma le conosceva
quanto bastava per sentirsene alla mercé; più di quanto sospet-
tassero gli Anziani, dunque.
Che poteva fare, ora che si vedeva minacciato da due parti?
Dieci minuti dopo, il dottor Shekt contemplava malinconica-
mente il contadino ossuto, scheletrico, che gli stava di fronte col
cappellaccio in mano, il volto piegato da una parte quasi a sot-
trarlo ad un troppo approfondito esame. Doveva essere ancora
ben lontano dalla quarantina, giudicava Shekt.
«A quanto mi dicono, egregio signore» esordi Shekt «voi ri-
fiutate di dirci il vostro nome. Volete dirmi qualcosa, se non il
nome, o preferite venire senz'altro sottoposto agli esperimenti?»
«Chi? io? Qui..: sui due piedi?» strillò in preda a panico im-
provviso il malcapitato. «Non sono io il volontario» precisò. «E
non ho detto nulla che possa averlo fatto credere».
«Davvero? Sarebbe dunque un'altra persona, il volontario?
L'avete condotto qui con voi, il soggetto?»
«Be'... In un certo senso» disse Arbin cauto.
«Già. Ed ora, fatemi il favore di espormi i vostri desideri.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/55


Quanto direte rimarrà tra noi, che siamo qui pronti per soddi-
sfarvi in tutto quanto possiamo. D'accordo?»
Il contadino chinò il capo, nell'impacciato tentativo di mo-
strare il suo atteggiamento rispettoso. «Grazie, signore» disse.
«È che... Alla fattoria, abbiamo con noi un parente... lontanissi-
mo, naturalmente... che ci aiuta un po' nei lavori...»
Arbin deglutì faticosamente e Shekt fece un grave cenno
d'assenso col capo. «E sarebbe questo vostro parente, la persona
da sottoporre al mio trattamento?» domandò invece Shekt an-
nuendo comprensivo.
«Bravo! Proprio così... Mi sembrava di averlo detto e inve-
ce... Quel poveraccio, signor dottore, è un po' malato di cervel-
lo... Non è pazzo, intendiamoci» si affrettò ad aggiungere spa-
ventatissimo. «Non è da ricoverare, per carità... È... lento! Ecco
che cos'è... lento... non sa parlare».
«Non sa parlare?» stupì Shekt.
«Be'... parlare... parla. Ma non ne ha mai voglia. Perché non
parla giusto».
«E voi sperate che il Sinottificatore...»
«Certo! Se imparasse più in fretta potrebbe fare tanti lavoretti
che mia moglie non può fare».
«E se invece morisse? Potrebbe anche accadere...»
Arbin si guardò attorno smarrito, stringendosi disperatamente
le dita.
«Ci vuole il suo consenso, inoltre» disse Shekt.
«Non capirebbe se glie lo chiedete» disse caparbio il contadi-
no scuotendo il capo. «Mi sembrate un uomo intelligente» ag-
giunse Arbin dopo essersi colmati i polmoni d'aria. «Dovreste
capirlo quando vi dico che la nostra è una vita molto difficile,
dura. Quell'uomo diventa vecchio. Non ricade ancora nei limiti
posti dai Sessanta, ma... E se alla prossima Conta ce lo portano
via con la scusa che è un povero deficiente? Non vogliamo per-
derlo. Ecco perché ve l'ho portato qui.
«Non ho voluto dirvi come mi chiamo» continuò Arbin lan-

56/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


ciando penetranti occhiate alle pareti, quasi temesse di distin-
guervi orecchie indiscrete «perché forse gli Anziani troverebbe-
ro a ridire su quanto faccio. Potrebbero trovare offesa al Costu-
me, nel mio tentativo di salvare un povero derelitto... Ma la vita
è tanto dura, signore... Vi tornerebbe utile. Non avete chiesto dei
volontari?»
«Infatti. Ma dove si trova il vostro parente?»
«Se non me l'hanno ancora scovato, si trova nel portabagagli
del mio biciclo. Se l'hanno tirato fuori di lì, non so come se la
sia cavata, perché lui, poveretto...»
«Be'... Speriamo che non sia successo nulla. Andremo insie-
me a prendere il vostro macinino e lo porteremo qui nella nostra
autorimessa sotterranea. Farò in modo che non lo vedano che i
miei assistenti. E vi prometto che non avrete guai con la Fratel-
lanza».
Avvolse con un braccio le spalle di Arbin. Un gesto fraterno
che strappò al poveretto un contorto sorriso. Gli sembrava che
gli avessero tolto un peso enorme dallo stomaco.

Shekt si chinò a guardare l'ometto grassoccio, calvo, disteso


sul lettuccio. Il paziente non era cosciente, respirava profondo,
con ritmo regolare. Aveva parlato in modo inintelligibile, non
aveva capito nulla. Ma non aveva mostrato un solo sintomo di
deficienza mentale. A dispetto della sua età, anzi, aveva dimo-
strato di possedere i riflessi assai pronti.
Vecchio? Mah!
Shekt lanciò un'occhiata ad Arbin che aveva seguito tutto
quanto come un intenditore.
«Che ne direste di fargli un'analisi delle ossa? Ci sarebbe uti-
le... si correrebbero meno pericoli conoscendone almeno l'età»
disse Shekt.
«Ha cinquant'anni» affermò Arbin.
Il fisico fece spallucce. In fondo, la cosa non aveva importan-
za. Quando glielo avevano presentato, il soggetto era apparso

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/57


depresso, distratto, indifferente. Non aveva mostrato alcun so-
spetto; nemmeno quando gli avevano dato le Ipnopillole: le ave-
va prese subito, con un sorriso stanco, angosciato, e le aveva
messe in bocca.
Un tecnico entrava in quell'istante con uno dei voluminosi
apparecchi che costituivano nell'insieme il Sinottificatore. Qual-
cuno spinse un pulsante e il vetro polarizzato della sala operato-
ria, sottoposto a nuovo aggiustamento molecolare, divenne opa-
co. Illuminava l'ambiente una sola lampada che diffondeva una
luminescenza fredda sul paziente, sospeso, letteralmente, in un
campo diamagnetico forte di parecchie centinaia di kilowatt, a
cinque centimetri al di sopra del tavolo operatorio dove l'aveva-
no trasportato.
Arbin era rimasto lì, seduto al buio, completamente ignaro di
quanto si stava svolgendo sotto i suoi occhi, determinato, con
somma cocciutaggine, a prevenire in qualche modo, con la sua
presenza, quanto pure sapeva di non essere in grado di impedire.
Il fisico non gli badava. Cominciò la lunga operazione del
fissaggio degli elettrodi al cranio del paziente. Per prima cosa si
fece un attento esame della formazione cranica secondo i con-
cetti di Ullster, tecnica mediante la quale si potevano localizzare
le suture ermetiche dai percorsi ondulati. Shekt sorrideva triste-
mente a se stesso. Le suture, pensava, non potevano servire da
unità di misura inalterabile nella determinazione dell'età: l'uomo,
comunque, doveva avere più dei cinquant'anni dichiarati.
Poco dopo, tuttavia, non sorrideva più. Aveva anzi corrugato
la fronte. Perché quelle benedette suture non andavano... Ave-
vano qualcosa di strano...
Per un attimo, Shekt pensò di trovarsi alla presenza di una
formazione cranica primitiva, di un "tipo umano regredito"...
D'altra parte... Non era inferiore anche mentalmente alla norma,
quell'individuo? Dunque, nulla di strano... Poi subitamente im-
pressionato, Shekt gridò: «Ma l'ha sempre avuta la barba?! Non
me ne ero accorto! Quest'uomo mostra del pelo sul volto!

58/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Barba?» ripeté Arbin. «Che
cosa è?»
«Pelo. Pelo sulla faccia. Ve-
nite qui a vedere».
«Già» mormorò Arbin. L'a-
veva veduta anche lui, quella
"roba". Poi se l'era dimenticata.
«È nato così» disse affidandosi
alla fantasia. «Credo...» aggiun-
se poi.
«Be'... Togliamogliela» disse
Shekt. «Non si può lasciarlo
andare in giro come un animale
feroce...»
«No, certamente, signore...»

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/59


Un depilatorio venne spalmato sul volto del soggetto dalle
mani guantate di un assistente e il pelo scomparve per intero.
«È villoso anche sul petto, professore» disse poi l'assistente.
«Per la Grande Galassia!» gridò Shekt. «Fammi vedere! Ma
questo individuo è villoso come un animale! Con la camicia non
si vede e lo si può lasciare così, comunque. E. poi mi preme
continuare con gli elettrodi. Inserite un filo qui, un altro là, per
favore». Sottili filamenti andarono a congiungersi con le piastri-
ne di platino già disposte a ventosa sul cranio del paziente,
Una decina di contatti, in sostanza, che auscultando nei punti
di sutura cranica rivelavano come ombre di un'eco lontana, le
misteriose microcorrenti vaganti di cellula in cellula nel cervel-
lo.
A misura che i contatti venivano stabiliti od interrotti, gli
amperometri segnavano valori sempre cangianti che gli scienzia-
ti osservavano con somma attenzione. Le puntine tracciavano i
loro grafici sui rulli di carta graduata, in irregolari oscillazioni.
Poi i grafici vennero tolti dai tamburi e furono depositati su
di una superficie opalina di vetro luminoso. I tecnici si accosta-
rono tutti, sussurrando tra loro.
Infine, operazione tediosa, interminabile, si procedette all'ag-
giustamento del Sinottificatore. Si girarono manopole e bottoni
di comando, si osservarono gli aggiustamenti di non so quanti
"occhi magici", si bloccarono alcune inserzioni dopo aver preso
nota degli indici denunciati.
Poi Shekt si volse ad Arbin sorridendo: «Tra un attimo,
avremo finito» gli disse.
Col movimento lento di un mostro affamato, la parte più vo-
luminosa del macchinario venne fatta scivolare sopra il paziente
inconscio. Quattro filamenti gli furono collegati agli arti, mentre
una specie di cuscinetto scuro, che sembrava di gomma, gli ve-
niva infilato sotto la nuca, adattato alle spalle mediante strane
molle. Quindi gli elettrodi opposti, simili ad enormi mandibole,
si spalancarono per poi richiudersi sul viso stanco, esangue del

60/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


soggetto": uno per tempia.
Shekt non toglieva gli occhi dal cronometro. Impugnava l'in-
terruttore a pulsante. Pigiò il pollice e non si verificò nulla di vi-
sibile: non vide nulla nemmeno Arbin che in preda a viva emo-
zione seguiva la scena con gli occhi sbarrati. Shekt pigiò nuo-
vamente il pollice dopo tre minuti, che agli altri erano sembrati
ore.
«Vive!» annunciò un assistente piegandosi sul paziente ad-
dormentato.
Poi trascorsero ore intere, nel corso delle quali si registrarono
tanti rulli da colmare una biblioteca. La mezzanotte era passata
da un pezzo, quando reagendo all'iniezione che gli avevano pra-
ticata, il paziente aperse gli occhi tra uno sfarfallìo di palpebre.
Shekt arretrò pallido, ma felice. Si passò il dorso della mano
sulla fronte e mormorò: «È andata bene».
«Per qualche giorno» disse ad Arbin «dovrà rimanere con
noi».
«Ma... Ma...» balbettò il contadino, pazzo di paura.
«Dovete fidarvi di me» fu pronto a rassicurarlo il fisico. «So-
no pronto a garantirvi con la mia vita che quest'uomo vi verrà
restituito sano e salvo. Lasciatelo qui tranquillamente; non lo
avvicinerà nessuno. Se lo riportaste a casa in questo stato ri-
schierebbe di morire, e che vantaggio ve ne deriverebbe? Se
quest'uomo muore come vi giustificherete con gli Anziani?»
Arbin cedette di fronte a quell'argomento inoppugnabile. In-
ghiottendo, disse: «Come faccio a sapere quando debbo venirlo
a prendere? Il nome, non voglio dirvelo!». Ma lo disse in tono
arrendevole.
«Non ve l'ho chiesto, il nome» disse Shekt. «Tornate tra una
settimana alle dieci della sera e presentatevi all'ingresso dell'au-
torimessa dove abbiamo lasciato il vostro veicolo. E credetemi,
buon uomo: non avete nulla da temere».
A sera, Arbin abbandonò Chica sfrecciando a bordo del. suo
veicolo verso casa. Erano trascorse ventiquattro ore dal momen-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/61


to in cui lo straniero aveva bussato alla sua porta. E in quel frat-
tempo aveva violato ben due volte le leggi del Costume. Sarebbe
mai tornato a vivere tranquillo?
Mentre la vetturetta a due ruote filava lungo la strada deserta,
Arbin si volse più di una volta a guardarsi pavido alle spalle.
L'avrebbero seguito? Ne avrebbero rintracciata la residenza? O
ci si era limitati a fotografare il suo volto a sua insaputa? Poteva
persino darsi che nella lontana Washenn, là dove la Fratellanza
custodiva le pratiche relative a tutti gli uomini viventi sulla Ter-
ra, statistiche biologiche ad esclusivo beneficio dei Sessanta, si
sapesse già, si fossero già presi provvedimenti.
I Sessanta... La nemesi che incombeva su tutti gli abitanti del-
la Terra. Gli mancava ancora un buon quarto di secolo, prima di
dovervisi adeguare: ne avrebbe subito le ineluttabili conseguen-
ze a causa di Grew, a causa di quello Straniero.
Non sarebbe stato più conveniente non tornare mai più a Chi-
ca?

La mezzanotte era trascorsa da un pezzo, quando Shekt, ce-


dendo alle insistenze di Pola, preoccupatissima per il padre, si
decise a ritirarsi per la notte. Ma non riuscì a prender sonno.
Balzò dal letto e andò a sedersi accanto alla finestra. La città gli
apparve ormai immersa nell'oscurità; ma all'orizzonte, di là dalla
sponda opposta del lago, ardeva il fuoco azzurrino, di morte,
l'aurora boreale risparmiava soltanto pochissime zone ristrette
della Terra.
Shekt riviveva, in un folle carosello della fantasia, gli eventi
emozionanti della giornata testé trascorsa. Appena era riuscito a
convincere il contadino a tornarsene a casa, si era messo in con-
tatto televisivo con il Palazzo di Stato. Gli aveva subito risposto
Ennius, evidentemente rimasto accanto all'apparecchio in attesa
di notizie. Il procuratore era apparso a Shekt tutt'ora rivestito
dagli abiti pesantissimi, impregnati di piombo.
«Buona sera, Shekt... Com'è andato l'esperimento?»

62/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«È un miracolo che non se ne sia andato, il mio volontario,
poveraccio...»
«Non avevo ragione, forse, a rifiutarmi di assistere?» deprecò
Ennius con aria disgustata. «Voi scienziati non indietreggiate
neppure di fronte all'omicidio».
«Non esageriamo. Il soggetto non è ancora defunto. Forse,
anzi, riuscirà a cavarsela... Certo che...»
«Al vostro posto, caro Shekt, mi limiterei ad operare sui ratti,
d'ora in poi... Avete una faccia... Vi credevo assai più tetrago-
no... Specialmente, dopo tutte le altre esperienze che dovete aver
già compiute...»
«Invecchio, Mylord...»
«Pericoloso passatempo, l'invecchiare, sulla Terra» aveva ri-
sposto gelido Ennius. «Andate a nanna, Shekt...»
Ed ora, il fisico contemplava la notte del suo pianeta agoniz-
zante...
Aveva cominciato le sue esperienze col Sinottificatore due
anni prima. Da due anni, era divenuto il trastullo, lo schiavo del-
la Società degli Anziani; della Fratellanza, come amavano farsi
chiamare.
Shekt custodiva in fondo ad una scrivania sei o sette articoli
che, pubblicati sul Giornale di Neurofisiologia di Sirio, sarebbe-
ro valsi a spalancargli le porte del successo, della fama in tutta la
Galassia: marcivano in fondo a un cassetto, quegli articoli. Per-
ché, fedele alle sue abitudini di preferire una mezza verità alla
menzogna, la Fratellanza gli aveva fatto pubblicare sulla Rivista
di Fisica una serie di comunicazioni oscure, volutamente ingan-
natrici.
Ciò non era bastato a fermare le inchieste di Ennius. Perché?
Conosceva anche lui quanto Shekt aveva finito per intuire? Che
l'Impero avesse finito per sospettare quanto anche Shekt teme-
va?
Nel corso degli ultimi due secoli, la Terra si era sollevata tre
volte. Per tre volte i Terricoli si erano gettati sulle guarnigioni

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/63


imperiali sventolando la bandiera della riscossa, ispirati da quel-
la che chiamavano la loro "ancestrale grandezza". E naturalmen-
te, erano stati battuti. E se la Terra non era stata cancellata per
sempre, letteralmente, dal numero dei pianeti abitati, poteva rin-
graziare l'Impero, assai civile, i diversi Consigli Galassici, com-
posti da uomini di valore, ascesi al potere secondo il costume
democratico in seguito a libere elezioni.
Questa volta però, le cose potevano anche andare diversa-
mente... Perché, forse, le cose erano davvero cambiate. Ma sino
a qual punto poteva Shekt prestar fede alle parole di un folle
agonizzante, alle parole di un individuo per tre quarti incoerenti?
Che fare in tanta incertezza? Nulla, purtroppo. Perché Shekt
non avrebbe mai osato. Non gli rimaneva che attendere, perché
Shekt voleva continuare a vivere, sia pure sulla crosta spregevo-
le di quel miserabile pugno di fango radioattivo.
Ancora una volta, Shekt si coricò rattristato da quel pensiero.
Un istante prima di cadere addormentato, si domandò vagamen-
te se gli Anziani potevano essersi inseriti nella sua conversazio-
ne di quella sera con Ennius. Perché Shekt ignorava che gli An-
ziani vantavano ben altre fonti di informazione.

Il più giovane degli assistenti di Shekt prese la sua decisione


soltanto il mattino seguente.
Il giovanotto ammirava moltissimo il maestro; ma sapeva che
senza ordine esplicito della Fratellanza era severamente vietato
sottoporre un volontario al Sinottificatore. Un ordine che era
ormai divenuto Costume: infrangerlo voleva dire rendersi passi-
bili di pena capitale.
In ultima analisi, s'era domandato l'assistente, chi era il sog-
getto sottoposto a trattamento? La campagna intesa a procaccia-
re volontari era stata sottilmente orchestrata: aveva sì informato
il pubblico dell'esistenza del Sinottificatore quanto bastava a
soddisfare l'eventuale curiosità delle spie imperiali, ma si era
ben guardata dall'incoraggiare sinceramente i volontari. Tanto

64/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


era vero che i "volontari" li procurava direttamente la Società
degli Anziani.
Chi, dunque, poteva aver mandato quel volontario? La Socie-
tà degli Anziani, segretamente? per mettere alla prova la fedeltà
di Shekt?
O Shekt era un traditore? Di primo mattino, l'assistente ave-
va veduto il maestro chiudersi in ufficio con un tipo strano... Un
individuo che a giudicare dagli abiti goffi, pesanti, proprio quelli
indossati dagli Stranieri pavidi di radiazioni, doveva essere stato
un Venuto di Fuori...
Nell'uno o nell'altro caso, Shekt non sarebbe sfuggito alla pu-
nizione tremenda. "Perché compromettermi irrimediabilmente?"
pensava il giovanotto... Perché anticipare il Sessanta con quattro
decenni circa che gli rimanevano ancora?
E poi... Un atto di fedeltà simile, poteva significare per lui la
promozione... Ormai vecchio, alla prossima Conta Shekt sarebbe
comunque stato rimosso... Praticamente, non glie ne sarebbe ve-
nuto gran danno. Nessuno, in effetti.
E il giovane assistente aveva deciso. Un istante dopo, allun-
gata la mano verso il comunicatore, s'era messo direttamente in
contatto con l'apparecchio a disposizione del Gran Ministro di
Tutta la Terra. L'uomo che dopo l'Imperatore e dopo il suo Pro-
curatore, aveva facoltà di vita e di morte su tutti gli esseri viven-
ti della Terra.

Prima che le obnubilate impressioni che gli si agitavano nel


cranio dolorante assumessero forma più precisa nella mente tor-
turata di Schwartz, era caduto di nuovo il tramonto. Ricordava la
corsa che l'aveva portato alla città dalle case basse, sulla riva di
un lago, ricordava l'interminabile attesa in fondo al portabaga-
glio del veicolo.
E poi? Che cosa era successo, poi?... La mente gli si ribellava
a quel pensiero doloroso... Erano venuti a prenderlo e in una
stanza colma di apparecchi e di strumenti gli avevano sommini-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/65


strato due pillole... Già! Due pillole che aveva inghiottito alle-
gramente, certo di non avere ormai più nulla da perdere. L'aves-
sero avvelenato, gli avrebbero fatto un immenso favore.
E poi... nulla.
Un momento! E quegli sprazzi di coscienza?... Sicuro! Perso-
ne che si piegavano su di lui che giaceva su di un lettuccio...
Qualcuno, un medico certamente, che gli ascoltava il cuore con
lo stetoscopio... E una ragazza che gli aveva dato del cibo.
Gli balenò improvviso nella mente il sospetto di essere stato
sottoposto ad intervento chirurgico. In preda al panico, Schwartz
gettò lontano le coltri e si rizzò a sedere sul letto.
Una fanciulla, appoggiandogli le mani sulle spalle, lo costrin-
se con dolce violenza a stendersi di nuovo, parlandogli dolce-
mente. Ma Schwartz non la capiva, e tentò di opporre resistenza
alla pressione di quelle mani. Invano, perché Schwartz aveva
perduto tutte le sue forze.
Si agitò le mani davanti agli occhi. E le mani, le sue mani, gli
sembrarono normali. Agitò le gambe, avvertì il contatto delle
lenzuola con le estremità e fu certo che non glie le avevano am-
putate.
Rivolto alla fanciulla, pronunciò senza alcuna speranza d'es-
sere compreso: «Mi capite, voi, almeno? Sapreste dirmi dove
sono finito?». E quasi non seppe riconoscere la sua voce.
La ragazza gli sorrise, e gli rispose animatamente, rovescian-
dogli addosso un torrente di armoniose parole. Schwartz emise
un lamento. In quell'istante entrò nella stanza un uomo maturo.
Lo stesso che gli aveva somministrato le pillole. I due ingaggia-
rono una animatissima conversazione nel corso della quale la
ragazza mostrò più volte a dito il povero Schwartz...
«Ma per che cosa m'avete preso?» protestò il poveretto tra il
lamentoso e l'indignato. «Per una bestia, forse?»

Col trascorrere dei giorni, Schwartz apprese diverse cose.


L'uomo si chiamava dottor Shekt. La ragazza era sua figlia e si

66/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


chiamava Pola. E poi Schwartz scoperse di non aver più bisogno
di radersi. Non gli cresceva più pelo sulle guance. Un fenomeno
che lo colmava di terrore. Gli era mai cresciuta, prima, la barba?
O se l'era sognata?
Le forze gli tornarono rapidamente. Gli permettevano di ve-
stirsi, persino. Nessuno gli impediva di gironzolare per la stanza
e gli davano da mangiare cibi più sostanziosi del solito semoli-
no.
Che fosse proprio malato d'amnesia? Per questo l'avevano
sottoposto a tutte quelle cure? Che il mondo normale, naturale,
vero, fosse quello della realtà in cui si trovava? In questo caso,
l'altro... quello che "ricordava"... doveva essere frutto della fan-
tasia del suo povero cervello malato.
Doveva essere così, anche perché non lo lasciavano mai usci-
re da quella stanza. Si trovava in una specie di prigione? Che
crimine aveva commesso, allora?
Non c'è uomo più perduto di quello che si smarrisce nei
meandri della sua mente solitaria, là dove nessuno può raggiun-
gerlo e trarlo a salvamento. Non c'è uomo più disperato di quello
che non sa più ricordare.
Pola si divertiva ad insegnargli qualche vocabolo. E Schwartz
non stupiva di saperne apprendere tanti e così prontamente, per-
ché ricordava di aver sempre vantato una memoria ferrea. Da
quel punto di vista, almeno, era rimasto normale. Dopo due
giorni capiva già qualche frase delle più semplici, e a capo del
terzo giorno persino a farsi intendere.
Ma il terzo giorno, Schwartz dovete sbalordire. Shekt, tenu-
tagli una lezioncina di aritmetica, gli aveva posto un paio di
problemi. Quando Schwartz li aveva risolti, il fisico aveva fatto
annotazioni con rapidi tratti di un suo stylus, dopo aver consulta-
to un cronometro. Non era finita lì, perché Shekt gli aveva spie-
gato i logaritmi e subito dopo gli aveva domandato il logaritmo
di due.
Scegliendo le parole con grande cautela anche perché dispo-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/67


neva di un vocabolario limitato, Schwartz aveva prontamente ri-
sposto: «Io... dire... nulla... Risultato essere... non numero...».
Shekt aveva annuito animatamente e aveva detto: «Non nu-
mero! Non questo, non quello! Parte di questo! Parte di quel-
lo!».
Schwartz comprese di aver risposto bene. Capì che Shekt gli
diceva: «Bravo! Il Logaritmo di due non è un numero intero, ma
una frazione...». Ma Schwartz aveva subito aggiunto:
«Punto tre zero no zero tre... e... altri... tanti... numeri».
«Bravissimo!»
A questo punto Schwartz s'era sbalordito di se stesso. Come
aveva fatto a rispondere esattamente a quella domanda, se ricor-
dava perfettamente di non aver mai sentito parlare di logaritmi
in vita sua? Non si era nemmeno accorto di aver fatto un ragio-
namento per giungere alla risposta: l'aveva subito fornita, non
appena gli era stata formulata la domanda. Era come se il suo
cervello fosse divenuto una unità a sé stante della quale "lui",
Schwartz, non era che il "portavoce", l'altoparlante.
A meno che... A meno che Schwartz non fosse stato un ma-
tematico, in passato... Prima che lo cogliesse il male... L'amne-
sia.
Era questo dubbio che andava risolto senza ulteriori dilazioni.
Doveva sapere, e sentiva sempre più pressante il desiderio di
uscire da quella stanza, di uscire nel mondo per strappargli bru-
talmente la verità. Continuando a vivere in quella prigione dove
(questo l'aveva capito subito) lo trattavano come insolito mate-
riale clinico, non avrebbe mai saputo.
Gli si presentò l'occasione di tradurre in atto i suoi propositi il
sesto giorno. Nel frattempo avevano trascurato le precauzioni
prese agli inizi, e nell'uscire dalla sua stanza, Shekt s'era dimen-
ticato di chiuderne la porta. Là, dove solitamente la porta faceva
quasi tutt'uno con la parete entro la quale scorreva, Schwartz,
quel giorno, intravide due dita di spazio. Posò lentamente la ma-
no sulla minuscola, vivida sorgente luminosa della parete, come

68/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


aveva veduto fare dagli altri, e la porta si spalancò per intero, si-
lenziosamente... Il corridoio era deserto.
Così, Schwartz fuggì... ma senza sapere che la Società degli
Anziani aveva fatto sorvegliare dai suoi agenti persino la stanza
che abitava nella clinica che l'aveva ospitato.

VI
UNA NOTTE D'ANSIE

Anche la notte, la residenza del Procuratore somigliava un


poco ad un castello incantato. Fiori sconosciuti in Terra schiu-
devano le corolle candide e carnose, cingevano le mura del Pa-
lazzo con delicate sciarpe di profumo. Al lume (polarizzato) del-
la luna, la trama di silicati sintetici artisticamente intessuta nelle
strutture di lega purissima d'alluminio dell'edificio, mandava ba-
gliori di tenue violetto che spiccavano sullo sfondo metallico
luminescente.
Ennius contemplava le stelle. E le identificava con la bellez-
za, perché erano l'Impero.
Il cielo della Terra era indefinibile. Non fulgeva glorioso, ab-
bagliante, come i cieli dei Mondi Centrali dove, l'una accanto
all'altra, le stelle brillavano a gara, cancellando, quasi, il buio
della notte in una corrusca esplosione di luminosità. Non vanta-
va l'immensità solitaria dei cieli periferici dove rade, sperdute
stelle trapuntavano la notte infinita, in mezzo alla quale, simile
ad una lente lattiginosa. stava sospesa la Galassia, gli assi della
quale si perdevano stemperati in una nube di diamanti.
Sulla Terra si vedevano contemporaneamente duemila stelle.
Ennius vedeva Sirio intorno al quale rotolava uno dei dieci pia-
neti più popolati dell'Impero. Era lì, Arcturus: la capitale del
Settore in cui aveva avuto i natali. E il sole di Trantor, il mondo
che era capitale dell'Impero, si perdeva nell'immensità della Via

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/69


Lattea. Neppure il telescopio riusciva ad isolarlo tra l'infinito
bagliore d'infiniti mondi.
Nel sentire una mano che gli si appoggiava sulla spalla, levò
una delle sue ad incontrarla e sussurrò:
«Flora?»
«Per tua fortuna» gli rispose la moglie con accento divertito.
«Sai che, da quando sei tornato da Chica, quasi non hai riposato
un momento? Sai che è già quasi l'alba?... Vuoi che ti faccia ser-
vire la colazione?»
«E perché no?» rispose Ennius sorridendo affettuosamente.
«È proprio necessario passar la notte insonne come faccio io?»
La donna disse con dolcezza: «Caro, non me la fai... Dimmi
che cosa ti preoccupa tanto».
«Nulla, tesoro. Mi dispiace di averti seppellita inutilmente
quaggiù, lontana dalla società viceregale cui eri abituata nella
Galassia».
«Sciocchezze, Ennius! Dimmi la verità, te ne scongiuro».
Scuotendo il capo nell'ombra, l'uomo rispose: «Non so. Tutta
una serie di strani misteri ha finito per nausearmi. Prima dì tutto
Shekt con quel suo Sinottificatore. Poi, Arvardan, l'archeologo,
con tutte le sue teorie. E... un mucchio di altre cose. Sono stan-
co... Stanco perché quaggiù non riesco a combinare niente di
buono».
«Non è questa l'ora migliore della giornata per mettere alla
prova la tua resistenza d'animo».
«Questi Terricoli!» soffiò Ennius tra i denti serrati. «Possibile
che un branco d'individui sia di tanto peso all'Impero? Ricordi le
parole ammonitrici del vecchio Faroul, il mio predecessore,
quando sono stato distaccato quaggiù? Non faceva che ripetere
quanto avrei trovato difficile la situazione... E aveva ragione».
Tacque perduto in un suo pensiero e riprese, mormorando: «E
adesso... ho raccolto indizi tra loro indipendenti che mi portano
irremissibilmente ad una dolorosa costatazione: questi infernali
Terricoli si sono nuovamente lasciati affascinare dai loro insani

70/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


sogni di rivolta».
«Lo sai» proseguì Ennius guardando negli occhi la moglie
«che la Società degli Anziani propugna una dottrina secondo cui
la Terra sarebbe stata la sola culla dell'Umanità, secondo cui la
Terra è il centro dal quale si è mosso l'Uomo e che questo è il
solo pianeta degno di rappresentarne la maestà?»
«Così ci riferiva due sere fa anche Arvardan; ricordi?»
«Ricordo» disse Ennius accigliato. «Ma si riferiva al passato,
mentre la Società degli Anziani pensa al futuro. La Terra, se-
condo costoro, deve tornare ad essere il centro dell'Universo.
Sostengono addirittura che sta per suonare l'ora del Secondo Re-
gno della Terra. E minacciano la distruzione dell'impero, che
travolto da una immane catastrofe vedrà la Terra trionfare in tut-
ta la sua gloria primeva, di mondo» qui la voce di Ennius si
spense come in un rantolo «barbaro, arretrato, dal territorio am-
morbato. Tre volte questi concetti folli sono valsi a spingere i
Terricoli alla ribellione: tre sconfitte sanguinose non sono basta-
te a guarire costoro dalla loro folle fede».
«Povera gente» commiserò Flora. «Che cosa rimarrebbe loro,
se non avessero almeno la loro Fede? Privi di tutto il resto, di
tutto ciò che conferisce dignità, felicità agli altri pianeti, sono
respinti, disprezzati, odiati dagli abitanti della Galassia. Ti me-
ravigli che vivano prigionieri di un sogno? Puoi farne loro una
colpa?»
«Certamente» proruppe indignato Ennius. «Abbandonino i
loro folli sogni e si assimilino! Non li senti mai negare di essere
diversi dagli altri! Perché non abbandonano le loro barbare
usanze? Perché non rinunciano ai loro costumi superati, crudeli?
Si comportino come uomini e tali saranno considerati anche da-
gli altri. Ma se continuano a voler essere dei Terricoli noi conti-
nuiamo a considerarli quel che sono.
«Ma non è di questo problema che mi preoccupo, ora. È al
Sinottificatore che penso. Quell'infernale aggeggio m'ha tolto il
sonno» concluse Ennius. E alzò gli occhi verso il cielo dove già

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/71


impallidivano le stelle.
«Il Sinottificatore?... Non è quell'apparecchio cui accennava
il dottor Arvardan a cena? È per questo che ti sei recato a Chi-
ca?»
Ennius annuì. «E che cosa hai saputo?»
«Niente» rispose Ennius. «Ma Shekt lo conosco bene e sai
che cosa ho notato, Flora? Per tutta la durata del colloquio
quell'uomo mi è apparso angosciato da qualcosa. Quando ho
preso congedo si è dimostrato sollevato come se gli avessero tol-
to un peso dallo stomaco. Siamo in presenza di un mistero, cara
Flora».
«Funziona, quella macchina?»
«Non sono versato in neurofisica e non so risponderti. A sen-
tire Shekt l'apparecchio non sarebbe ancora in grado di funzio-
nare. Mi ha telefonato apposta per farmi sapere che il suo ultimo
volontario rischiava di lasciarci le cuoia. Ma non gli ho creduto!
Perché nella sua voce vibrava l'accento dell'uomo di scienza che
ha trovato qualcosa di nuovo. Trionfante addirittura, m'è sem-
brato. Scommetto che il suo volontario ha superato brillante-
mente la prova e Shekt ne è addirittura pazzo di gioia... Perché
mi avrebbe mentito? Ho ragione di temere che il Sinottificatore
sia già entrato in funzione, che sia forse in grado di creare una
razza di genii».
«Perché tanto segreto, allora?»
«È ovvio, per lo Spazio! Quali sono le ragioni d'insuccesso
delle tre ribellioni scatenate dai Terricoli? Evidentemente le in-
feriorità che li caratterizzano! Accresciuta del doppio, del triplo
l'intelligenza media di questa gente, le probabilità di riuscita di
una loro sommossa sarebbero addirittura...»
«Oh, Ennius!»
«Ci troveremmo nelle condizioni di un branco di scimmie che
muove guerra agli uomini! Che conterebbe la superiorità nume-
rica?»
«Dai corpo alle ombre, mio caro! Come potrebbero operare

72/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


un cambiamento così radicale senza che lo si venisse a sapere?
Ti fai mandare un pugno di Psicologi dal Ministero delle Pro-
vincie Esterne e cominci a fare eseguire degli esami scegliendo
il materiale terricolo a caso: se tra i Terricoli si manifestasse un
aumento spiccato del Quoziente Intellettuale normale medio, sa-
presti subito a che punto sei».
«Naturalmente... Ma potrebbe anche essere diverso, il piano
di costoro. Per ora io so soltanto questo: i Terricoli stanno pre-
parando una nuova sommossa. Qualcosa del genere della Rivol-
ta del 750. Molto peggio, naturalmente».
«E ci coglierebbe impreparati, una eventualità di questa natu-
ra?»
«Impreparati?» rise Ennius, amaramente. «Sono io l'imprepa-
rato! Le guarnigioni sono sempre sul piede di guerra e dispon-
gono del necessario per far fronte a qualsiasi evenienza. Ma io la
ribellione voglio prevenirla, Flora. Perché mi ripugna l'idea di
passare alla storia come il Procuratore della Ribellione, delle
stragi, delle repressioni sanguinose. Oggi mi colmerebbero di
onori: domani, la storia mi giudicherebbe un sanguinoso tiranno.
No... Preferisco essere ricordato come l'uomo che, prevenuta
una ribellione, riuscì a salvare la vita di venti milioni di pazzi».
Ma lo disse come se non avesse alcuna speranza di riuscirvi.
«Sei proprio sicuro di non essere più in tempo per agire in
questo senso, Ennius? Pensi realmente che sia già troppo tardi?»
E la donna gli sedette accanto, gli carezzò il viso teso. Ennius
afferrò la mano della moglie e proruppe: «Che posso fare? Tutto
è contro di me! Persino il Ministero si mette dalla parte dei con-
giurati: non m'hanno mandato tra i piedi anche questo Arvar-
dan?».
«Che cosa vuoi che faccia, di male, un innocuo archeologo,
tesoro?! Ragiona! Parla come tutti gli scienziati innamorati delle
loro teorie, ma mi sembra assolutamente innocuo».
«Innocuo! Ma se si propone di dimostrare che la Terra è ef-
fettivamente la culla dell'Umanità! In ultima analisi, Arvardan

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/73


vuole conferire una base scientifica alle elucubrazioni dei ribel-
li».
«E tu impedisciglielo».
«Non posso. Arvardan, ha tanto di credenziali del Ministro
delle Provincie Esterne controfirmate dall'Imperatore, la qual
cosa è più che sufficiente per legarmi le mani. Per poter agire
dovrei prima appellarmi al Consiglio Centrale, e la risposta l'a-
vrei a capo di non so quanti mesi... E poi, quali ragioni invoche-
rei per l'intervento della suprema autorità? Se tentassi di impe-
dirgli di agire facendo ricorso alla forza mi renderei colpevole di
un atto di ribellione. Sarei sostituito da un idiota qualunque che
non è a giorno della situazione e Arvardan continuerebbe come
se nulla fosse.
«Ma c'è di peggio, Flora. Sai come vuol procedere Arvardan
per dimostrare l'antichità della civiltà terrestre? Scommetto che
l'avrai già capito...»
«Vuoi prenderti gioco di me, ora?» rise dolcemente la donna.
«Come faccio a sapere una cosa simile? Non sono un archeolo-
go! Immagino che Arvardan farà eseguire degli scavi nella spe-
ranza di trovare opere d'arte o scheletri che potrà poi attribuire
ad epoche diverse a seconda della loro radioattività...»
«Si trattasse soltanto di questo, tesoro! Arvardan, me l'ha
confidato lui stesso non più tardi di ieri... si propone di mettere
piede sulle aree radioattive della Terra! Vi cercherà oggetti usci-
ti dalle mani dell'uomo allo scopo di riuscire a dimostrare che
essi preesistevano alle radioattività di questa crosta terrestre, ra-
dioattività che lui attribuisce ad una catastrofe scatenata dai Ter-
ricoli stessi in epoche preistoriche! Ecco come farà a dimostrare
quanto gli preme».
«E non l'avevo intuito, forse?»
«Sai che cosa significa penetrare nelle zone radioattive? Non
sai che quelle zone sono considerate tabù? Non sai che i tabù
costituiscono uno dei Costumi più rigidi dei Terricoli? Nessuno
può penetrare nelle aree tabù. E tutte le aree radioattive sono

74/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


considerate tabù...»
«A meraviglia! Saranno i Terricoli che fermeranno Arvar-
dan!»
«Il Gran Ministro, vuoi dire. E come faremo, allora, a dimo-
strare a questo Ministro che il progetto non era stato appoggiato
dal nostro Governo, che l'Impero si guarderebbe bene dal ren-
dersi complice di un tentato sacrilegio?»
«Il Gran Ministro non può essere così suscettibile!»
«No?!» esplose Ennius guardando fisso la moglie che comin-
ciava già ad intravedere nel tenue apparire delle primissime luci
dell'alba. «Sei d'una ingenuità addirittura commovente. Altro
che suscettibile, mia cara! Sai che cosa è successo circa... ve-
diamo... una cinquantina d'anni or sono? Be'... Ascolta e poi
giudicane tu stessa.
«È noto che la Terra, convinta di essere per diritto il pianeta-
capo, della Galassia, ha sempre rifiutato che l'Impero vi espo-
nesse le sue bandiere di dominatore. Accadde invece che, Stan-
nell II, l'imperatore fanciullo malato di mente e poi tolto di mez-
zo da mano assassina dopo aver regnato per due anni... ricordi,
vero?... accadde dunque che questo Stannell II, ordinasse che le
insegne dell'imperatore fossero sciolte al vento dall'alto dei pen-
noni del palazzo del Consiglio Terricolo a Washenn. A Wa-
shenn, mezz'ora dopo l'esecuzione di quell'ordine, scoppiava la
rivolta. Lacerate le bandiere imperiali, i ribelli attaccavano le
nostre guarnigioni. Stannell II, da quel pazzo che era, ordinò che
il suo ordine fosse eseguito anche a costo di trucidare sino all'ul-
timo i cittadini della Terrà. Per fortuna lo uccisero in tempo e il
suo successore, Edard, rinunciò alle bandiere e tutto tornò in pa-
ce com'era stato prima».
«Vorresti dire» domandò Flora incredula «che le bandiere
imperiali furono ammainate per sempre sulla Terra?»
«Esattamente. La Terra, per le stelle, è il solo tra i milioni e
milioni di pianeti che compongono l'Impero a non averne le in-
segne alla Camera del Consiglio. E se tentassimo di imporgliele,

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/75


combatterebbero sino all'ultimo uomo per impedircelo. Giudica
tu se i Terricoli siano o no... suscettibili! Pazzi addirittura, so-
no!»
Nel silenzio del primo grigiore dell'alba, la voce di Flora si
levò incerta e tremula:
«Non è soltanto delle conseguenze che una sommossa avreb-
be sul tuo nome, che ti preoccupi, temo... Sono tua moglie, ed
ho imparato a leggerti nel pensiero: tu temi che un terribile peri-
colo minacci l'Impero! Non puoi nascondermelo, Ennius: tu temi
che questa volta i Terricoli possano vincere!»
«Come posso farti capire?» mormorò Ennius con l'angoscia
nello sguardo. «È soltanto un presentimento... Sono troppi quat-
tro anni su questo pianeta, per un povero diavolo sano di cervel-
lo... Ma... perché si dimostrano così fiduciosi questi Terricoli?
Possibile che questo loro atteggiamento si ispiri soltanto alla
ferma fede che hanno in non so quale Destino, quale Forza so-
vrannaturale... qualcosa, insomma, che ha significato soltanto
per loro? A meno che... A meno che non dispongano di loro ar-
mi».
«Armi capaci di tenere in scacco duecento milioni di mondi?
Suvvia, non lasciarti prendere dal panico! Non esiste un'arma
simile!»
«Dimentichi quel Sinottificatore?»
«Affatto. E ti ho suggerito il mezzo per non fartene cogliere
alla sprovvista. Hai avuto sentore di altre invenzioni?»
«No» ammise riluttante Ennius.
«È quel che pensavo. Armi come quelle di cui fantasticavi
non esistono. Ed ora ti dirò quel che devi fare, caro. Mettiti di-
rettamente in comunicazione col Gran Ministro, ed a prova della
tua serietà, della tua buona fede, rendilo edotto dei propositi di
Arvardan. Ciò varrà senz'altro a stornare dal nostro Governo il
sospetto che esso abbia comunque a che fare con gli sciocchi
propositi di quell'archeologo, deciso a violare i famosi Costumi.
E senza metterti troppo in vista riuscirai anche a fermare il dot-

76/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


tor Arvardan. Fatto questo, ti fai mandare un paio di psicologi e
incaricali di indagare sulle reali possibilità di quel Sinottificato-
re... A tutto il resto saranno in grado di provvedere le nostre
guarnigioni.
«Perché non ti fermi qui a schiacciare un pisolino? Ti allungo
la sedia a sdraio e ti lascio il mio mantello di pelliccia per coper-
ta. Appena ti svegli ti faccio servire una buona colazione. Quan-
do il sole sarà alto, le cose ti appariranno diverse...»
E così Ennius, dopo aver passato insonne la notte, cadde ad-
dormentato cinque minuti prima che spuntasse il sole.
Otto ore dopo, il Gran Ministro apprendeva dal signor Procu-
ratore in persona la presenza sulla Terra e i propositi del dottor
Bel Arvardan.

VII
PARLANO I PAZZI

Arvardan pensava unicamente al modo migliore di passare le


vacanze. La sua nave, 1'Ophiuchus, sarebbe giunta soltanto tra
un mese, e l'archeologo poteva trascorrerlo come meglio crede-
va.
Sei giorni dopo aver messo piede in Terra, dunque, Bel Ar-
vardan si accomiatava dal suo ospite per compiere il tragitto
Everest-Washenn, la capitale terrestre, a bordo di uno dei più
grandi reattori stratosferici delle Linee Aeree della Terra.
Aveva preferito servirsi di quel mezzo di trasporto, rifiutando
gentilmente il velocissimo reattore privato offertogli da Ennius,
per soddisfare la sua curiosità di archeologo e di straniero per la
vita ordinaria di coloro che abitavano lo stranissimo pianeta Ter-
ra.
Ed anche per un'altra ragione.
Arvardan era nativo del Settore Sirio. Il più noto, cioè, tra tut-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/77


ti gli altri della Galassia, per i suoi accesi pregiudizi antiterrico-
listi. Ma si era sempre compiaciuto di ritenersi alieno da quel
sentimento ostile. Scienziato, archeologo, gli sembrava di non
poterselo permettere. Era, è vero, cresciuto con l'abitudine di
pensare all'abitante della Terra sulla falsariga di certi temi cari-
caturali assai diffusi, e al solo pronunciare la parola " terricolo"
si sentiva invadere da una strana sensazione.., ma, in ultima ana-
lisi, non era vittima dei pregiudizi correnti.
Quanto meno, così si illudeva che fosse. Per esempio, se un
Terricolo dotato delle qualità necessarie si fosse offerto di parte-
cipare e collaborare alla sua spedizione, Arvardan l'avrebbe cor-
dialmente accolto. Se ci fosse stato un posto, naturalmente. E se
gli altri membri della spedizione non si fossero opposti con so-
verchia ostinazione...
Pensandoci bene, lui sarebbe arrivato addirittura al punto di
sedersi a tavola con un Terricolo. Ne avrebbe magari divisa la
camera da letto, a patto che fosse stata igienica, pulita. Insomma
lui avrebbe senz'altro trattato il Terricolo come si trattano gli al-
tri esseri umani. Ma non sarebbe mai stato capace di non "senti-
re" che il Terricolo era appunto un Terricolo. Né si poteva far-
gliene una colpa, perché l'atteggiamento di Arvardan affondava
le radici nell'infanzia densa di subdolo fanatismo, inavvertibile
quasi, e così assoluto che aveva finito per accettarne gli assiomi
come una seconda natura. Soltanto a maturità raggiunta, ripen-
sandoci, si era effettivamente reso conto del bel servizio che gli
avevano reso.
Comunque, Arvardan era giunto al giorno della grande prova:
ormai sedeva al suo posto a bordo di un reattore affollato uni-
camente da Terricoli. E si sentiva perfettamente "naturale", o
quasi... Perché Arvardan era un tantino conscio di se stesso.
Guardava i volti dei suoi compagni di viaggio e li trovava as-
solutamente comuni. Come facevano, gli altri, a sostenere che i
Terricoli erano "diversi"? Chi avrebbe saputo distinguerli in
mezzo a una folla? Nessuno, che diamine. E le donne erano

78/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


tutt'altro che poco graziose. Anzi!... Però il matrimonio misto
non lo si poteva ammettere. Assolutamente.
Anche l'aereo gli sembrava un "affare" costruito alla carlona.
Sì, d'accordo... Si muoveva per forza atomica, ma ne avevano
applicato assai imperfettamente i principi, quei pasticcioni: l'ap-
parato motore non era stato provveduto di paratie stagne. Forse,
si disse Arvardan, perché i Terricoli abituati a vivere nella loro
particolare atmosfera non badavano troppo per il sottile alle di-
spersioni di raggi gamma, all'addensarsi eccessivo di neutroni
nell'ambiente, come gli "altri"...
Cominciò ad interessarsi del panorama, del "colpo d'occhio".
Vista dall'ultima stratosfera, di un color porpora cupo, la Terra
offriva uno spettacolo favoloso. Sotto di lui, Arvardan vedeva
vastissimo tratto di terreno avvolto da foschia, un immane deser-
to color arancione maculato qua e là da densi banchi di nubi av-
vampanti di sole. In coda, il reattore si lasciava lentamente die-
tro il cielo notturno, un orizzonte buio, molle, le cui ombre cupe
riverberavano della luce azzurrina delle aree radioattive.
Ma Arvardan fu distolto dalla sua contemplazione da uno
scoppio di risa di tutti i suoi compagni di viaggio.
«Che cosa c'è?» volle sapere Arvardan rivolgendosi al vicino.
«Stanno facendo il Grande Viaggio in occasione del quaran-
tesimo di matrimonio» spiegò l'uomo.
«Il Grande Viaggio?»
«Il giro della Terra; no?»
L'anziano, rosso di piacere, raccontava con parole assai bril-
lanti eventi ed impressioni del viaggio, mentre sua moglie con
opportuni interventi correggeva, meticolosa, la narrazione del
compagno, aggiungeva particolari di minore importanza, accolti
dal marito con grande cordialità. E tutti gli altri ascoltavano con
somma attenzione, sì che Arvardan fu convinto che, in ultima
analisi, i Terricoli sapevano essere umani e affettuosi come tutti
gli altri popoli della Galassia.
Sino a che uno domandò ai due vecchi: «Quando scade il vo-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/79


stro appuntamento coi Sessanta?».
«Tra un mese circa» fu la risposta pronta, allegra. «Il sedici di
novembre».
«Speriamo che faccia bel tempo, quel giorno» augurò l'uomo
che aveva posto la domanda. «Mio padre, invece, è arrivato ai
Sessanta che pioveva a dirotto. Un'acqua che non vi dico. L'ave-
vo accompagnato io... In un giorno come quello è logico che
uno desideri un po' di compagnia... e il poveretto non faceva che
lamentarsi per quel tempaccio. Tra l'altro avevamo una macchi-
na a due ruote scoperta... e ci eravamo bagnati come due pulcini.
A un certo punto ho cominciato a dirgli: "Di che cosa ti lamenti,
babbo? Dopo tutto, sono io quello cui toccherà di tornare a casa
sotto la pioggia!"»
Ci fu uno scoppio di risa alle quali non tardarono ad aggiun-
gersi anche quelle dei due vecchi. A misura che il sospetto si fa-
ceva strada nella sua mente, Arvardan si sentì colmo di orrore.
«Questi Sessanta di cui si sta parlando» disse all'uomo che gli
sedeva vicino «si riferiscono forse all'eutanasia? Debbo proprio
credere che quaggiù vi tolgono di mezzo quando arrivate ai ses-
santa anni?»
Arvardan terminò la domanda con un fil di voce, mentre il
compagno di sedile si voltava verso di lui per rispondergli sof-
focando le ultime risate e guardandolo a lungo, sospettoso.
«E che altro credevate?» gli disse finalmente il vicino.
Arvardan tracciò un gesto vago nell'aria con le mani, sorrise
piuttosto scioccamente. Sino a quel momento, per lui i famosi
Costumi avevano avuto un significato puramente accademico.
Soltanto in quel momento si rendeva conto che i Costumi si rife-
rivano effettivamente ad esseri viventi, che gli uomini e le donne
che lo circondavano non potevano vivere oltre i sessanta anni.
Il vicino continuava a fissarlo con gli occhi spalancati. «Di
dove venite, voi, amico? Non ne avete mai sentito parlare dei
Sessanta, a casa vostra?»
«Da noi li chiamano "Scadenza"» mormorò Arvardan debol-

80/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


mente. «Sono di laggiù, io» concluse accennando col pollice te-
so ad un punto indeterminato dello spazio alle sue spalle. L'altro,
tuttavia, continuò a fissarlo attentamente per altri venticinque
secondi almeno, con lo sguardo indagatore, duro.
Arvardan si sentì contrarre le labbra. Era sospettosa, quella
gente. Autentico, dunque, quell'aspetto della caricatura che se ne
faceva.
L'anziano, frattanto, aveva ripreso a parlare. «Ha deciso di
andarsene con me» annunciava accennando con aria scherzosa
alla compagna. «Le spetterebbero circa tre mesi più di me, ma
lei dice che non vale la pena di aspettare oltre; dice che tanto va-
le andarcene insieme. Vero, Chubby?»
«Verissimo» confermò con una risata argentina la donna. «I
ragazzi li abbiamo tutti accasati ed hanno i loro bambini, ormai.
Se restassimo più a lungo non causeremmo loro che inutili
preoccupazioni. E poi che cosa ci faccio al mondo, senza il mio
vecchio? Meglio andarcene insieme».
Dopo di che, tutti i passeggeri del reattore si impegnarono in
massa nel calcolo aritmetico del tempo che restava loro da vive-
re... Specialmente tra le coppie di coniugati si discusse anima-
tamente, si bisticciò addirittura, in tema di giorni, di mesi in più
o in meno...
Un omino dai vestiti che gli andavano stretti atteggiò il volto
ad un'espressione assai fiera per annunciare: «A me rimangono
esattamente dodici anni tre mesi, e quattro giorni. Dodici anni,
tre mesi e quattro giorni esatti. Né più né meno».
«A meno che non vi capiti di morire prima» insinuò giusta-
mente un altro. .
«Sciocchezze» protestò prontamente l'interessato. «Non ho la
minima intenzione di morire prima».
Un giovanotto magro, si tolse la lunga sigaretta dalle labbra
con gesto annoiato ed elegante per affermare con accento
drammatico: «Beati coloro che sanno fare i calcoli fissando ad-
dirittura con esattezza il giorno. Ce ne sono un mucchio che vi-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/81


vono oltre».
«Eh... purtroppo!» commentò un altro tra un coro di indignate
approvazioni.
Il giovanotto sottopose la sigaretta a complicate evoluzione
tra una boccata e l'altra per farne cadere la cenere e disse: «In
fondo, si possono anche capire l'uomo o la donna che scaduto il
compleanno tirano avanti sino al prossimo giorno del Consiglio,
magari per sistemare qualche faccenda importante. Ma quei
vermi, quei parassiti che fanno di tutto per sgattaiolare sino alla
prossima Conta? Quando penso a quei velenosi individui che si
mangiano il cibo della generazione seguente alla loro...» Parla-
va come se gli avessero fatto un torto personale.
«Ma come è possibile una cosa simile» domandò gentilmente
Arvardan «dal momento che esiste un'Anagrafe?»
Cadde un profondissimo silenzio nel quale vibrava il disprez-
zo per colui che aveva osato esprimersi in termini così idealisti-
ci.
Incoraggiato dalla sua qualità di prossima vittima dei Sessan-
ta, sicuro ormai di rischiar ben poco, l'uomo che festeggiando il
suo quarantesimo di nozze aveva dato origine alla discussione
disse: «Dipende. Dipende dalle conoscenze che si hanno. Io, per
esempio, ho conosciuto un tizio che compiuti i Sessanta all'810°
Conta, è incappato soltanto nella rete dell'820°. Ohi... pensateci
un po': ne aveva sessantanove, dico sessantanove, quando è mor-
to!»
«Ma come ha fatto?!»
«Prima di tutto aveva in serbo qualche soldo. E poi aveva il
fratello che era uno della Società degli Anziani. E quando uno
dispone di due alleati di quel genere, c'è poco da fare, c'è po-
co...»
Né si trovò chi osasse controbattere una verità così lapalissia-
na.
«E pensare» disse il solito giovanotto agitando la sigaretta
«che mio zio, uno dei molti individui troppo egoisti per sentirsi

82/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


in dovere di andarsene quando è venuto quel giorno, era riuscito
a scampare un anno più del dovuto... Un annetto solo, ripeto.
Noi non ne sapevamo niente perché altrimenti ci saremmo fatto
un dovere di denunciarlo alle autorità, s'intende... E se lo sareb-
be meritato, se si pensa ai diritti della generazione seguente la
sua! Per farla breve, lo pescano... E la Fratellanza fa chiamare
me e mio padre e vuol sapere perché non abbiamo sporto regola-
re denuncia. Io rispondo che non ne sapevo niente... Erano al-
meno dieci anni che non dava notizie, l'avaraccio!... Be'... Mi
credete? A dispetto delle nostre dichiarazioni, delle giustifica-
zioni in buona fede presentate anche da mio padre, la Fratellanza
ci appioppa un'ammenda di ben cinquecento crediti... Ecco che
cosa succede se non sei un raccomandato di ferro!»
Sul volto di Arvardan andava sempre più accentuandosi un'e-
spressione di disagio. Possibile che quei pazzi si accostassero
all'idea della morte in quel modo, giungessero al punto di sentir-
si risentiti verso i familiari, gli amici che tentavano di sfuggire
alla morte? Che avesse sbagliato reattore e fosse salito a bordo
di un aereo diretto a un manicomio... o a una clinica dove si pra-
ticava l'eutanasia? O si trovava semplicemente tra Terricoli...?
Il suo vicino, frattanto, era tornato a voltarglisi di fronte e
strillava: «Ehi voi! Di dove avete detto di essere?».
«Prego?» domandò Arvardan bruscamente strappato ai suoi
pensieri.
«Ho chiesto di dove venite! Prima avete fatto segno di essere
di "laggiù"... Non ha un nome, quel "laggiù"?»
E Arvardan vide puntati su di lui tutti gli sguardi dei compa-
gni di viaggio, una quantità di occhi che lo fissavano ostili, so-
spettosi.
Per disperdere ogni dubbio, cedendo a un gran bisogno di
franchezza rispose: «Non sono della Terra. Mi chiamo Bel Ar-
vardan e vengo da Baronn, nel Settore di Sirio. Come vi chiama-
te?». E tese la mano.
Le sue parole caddero tra quella gente come una capsula

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/83


esplosiva atomica.
Il silenzioso orrore espresso dapprima da tutti i volti degli
astanti non tardò a mutarsi in atteggiamento di violenta ostilità
al suo indirizzo. Il vicino si alzò in piedi tutto d'un pezzo per an-
dare a sedere in un altro sedile già occupato, dove gli altri si fe-
cero stretti stretti per lasciargli un po' di posto.
Tutti gli voltarono le spalle, e un istante dopo Arvardan si
trovò circondato da una siepe di schiere irrigidite. E per un
istante l'archeologo ne bruciò d'indignazione. Ma come, come
osavano quei Terricoli di trattarlo in quel modo? E pensare che
lui, un cittadino di Sirio aveva loro teso la mano in gesto d'ami-
cizia; si era abbassato al loro livello e avevano osato respingerlo.
Ma non tardò a recuperare l'equilibrio, sia pure a prezzo di
uno sforzo. Le superstizioni dei fanatici non potevano sortire
che quell'effetto: e l'odio dava vita all'odio!
Si accorse di qualcuno che gli era venuto vicino, e si volse a
domandare aggressivo: «Ebbene...?»
Era il giovanotto della sigaretta. Ne stava accendendo un'altra
mentre diceva: «Salve. Mi chiamo Creen... Non prendetevela
con questi idioti».
«Ci vuol altro» rispose Arvardan, breve. Non gli andava a
genio quella compagnia, non tollerava che un Terricolo osasse
dargli dei consigli.
«Sono dei provinciali!» soffiò pieno di disprezzo, l'altro.
«Una quantità di contadinacci zoticoni... Mancano completa-
mente di concezioni galassiche. Non vale la pena di discutere
con loro... Io invece professo una filosofia ben diversa. Vivi e
lascia vivere! Ecco il mio motto. Non ho nulla contro quelli di
Fuori, io. Se gli Stranieri si dimostrano gentili con me, io mi di-
mostrerò gentile con loro. Diavolaccio infame... Che colpa ne
hanno se sono gente di Fuori? Quanta ne ho io di essere un Ter-
ricolo. Dico bene?» E affibbiò una manata sul polso di Arvar-
dan.
L'archeologo annuì. Ma nel sentirsi toccare, rabbrividì da ca-

84/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


po a piedi. A prescindere da questioni di origine planetaria, Ar-
vardan non se la sentiva di aver rapporti sociali con un individuo
che poco prima si era rammaricato di non essere riuscito ad af-
frettare la morte di un parente.
«Andate a Chica?» domandò Creen adagiandosi comodamen-
te sullo schienale del sedile. «Come avete detto di chiamarvi?
Albadan?»
«Arvardan. E vado a Chica».
«La mia città natale! La più bella città della Terra, diavolac-
cio infame! Vi fermerete a lungo?»
«Non so. Non ho ancora deciso ».
«Già... Posso dire che mi piace moltissimo la vostra camicia?
Posso guardarla più da vicino? Roba che viene da Sirio, eh?»
«Infatti».
«Che stoffa, ragazzi! In Terra non se ne trova... Sentite un
po', amico... Non ne avreste un'altra così, in valigia? Se siete di-
sposto a venderla, potrei anche pagarvela. E... cara».
«Mi dispiace» negò Arvardan scuotendo il capo «ma non
posso. Ho portato pochissimo da casa, tanto che se mi fermerò a
lungo mi dovrò comperare qualcosa in Terra».
«Cinquanta » sparò Creen...
Ma non gli fu risposto. Un po' risentito, aggiunse: «Una di-
screta sommetta, no?!».
«Senz'altro» ammise Arvardan. «Ma come vi ho già detto
non ho camicie da vendere».
«Va bene...» soffiò Creen facendo spallucce. «Vi fermerete a
lungo sulla Terra?»
«Può darsi».
«Che articolo trattate?»
E a questo punto, l'irritato archeologo permise alla sua collera
di mostrarsi alla superficie.
«Ascoltatemi bene, signor Creen... Sono un po' stanco, se non
vi spiace, e vorrei dormire un po'. Posso?»
«Che cosa vi prende?» protestò Creen aggrottando la fronte.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/85


«Possibile che non vi riesca di essere un po' educati con la gente,
voialtri? Gli faccio una domanda gentilmente, e lui mi salta ad-
dosso come una furia!»
Sin qui, i due avevano conversato a bassa voce. Ora però
Creen urlava come un ossesso. Tutti si voltarono a guardare Ar-
vardan con facce buie, ostili, e l'archeologo strinse le labbra in
una linea diritta, quasi impercettibile.
L'aveva voluto, si disse amaramente. Se avesse adottato fin
da principio un atteggiamento distante, fiero, non si sarebbe mai
cacciato in quel pasticcio.
Gelido, disse: «Signor Creen... Non vi ho invitato a venirmi a
tenere compagnia, e non sono stato villano con voi. Sono stanco,
ve lo ripeto, e desidero riposare un poco. Non ci vedo nulla di
strano».
Il giovanotto schizzò in piedi e lanciò lontano la sigaretta con
un gesto violento. Poi puntando l'indice ringhiò:
«Ascoltami tu, adesso! Che cosa credi di essere? Come ti
permetti di trattarmi come se fossi un cane o qualcosa di simile?
Questi puzzoni di Stranieri! Vengon qui col loro vocabolario
scelto, con i loro modi aristocratici e credono di avere il diritto
di trattarci come pezze da piedi! Vi sbagliate, cari miei! Noi non
ci lasciamo calpestare da voialtri. Se la Terra non vi piace torna-
te di dove siete venuto e non dite una parola di più o vi faccio
vedere come siete fatto dentro. Credete di farmi paura?»
Arvardan gli voltò le spalle e si mise a guardare fuori dal fi-
nestrino.
Senza aggiunger verbo, Creen tornò a sedere al suo posto di
prima. Arvardan non gli badò, ma più che vederle, sentiva le oc-
chiate ostili, velenose, che gli indirizzavano da ogni parte. Ma
passò anche quella, come tutte le cose di questo Universo.
Terminò il viaggio in silenzio, solo.

Salutò con gratitudine l'atterraggio a Chica. E non appena gli


apparve il panorama dall'alto sorrise alla città che gli era stata

86/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


descritta come la più "bella della Terra, diavolaccio infame"...
La trovò assai più di suo gusto dell'atmosfera ostile di cui aveva
fatto l'esperienza a bordo del reattore.
Seguì personalmente le operazioni di scarico e verifica del
bagaglio, che fece poi trasportare a bordo di un veicolo a due
ruote.
«Al Palazzo di Stato» disse breve all'autista. E si allontanò
dall'aeroporto.
Così Arvardan metteva piede per la prima volta in Chica,
proprio il giorno in cui Joseph Schwartz prendeva la fuga dalla
sua stanzetta all'Istituto di Ricerche Nucleari.

Creen spiò con la bocca contratta in un sorriso amaro la par-


tenza dì Arvardan. Si tolse il libriccino di tasca e ne studiò a
lungo le pagine fumando rabbiosamente la sigaretta. A dispetto
della storiella dello zio che aveva spesso sortito magnifici risul-
tati, dai passeggeri del reattore il povero Creen non era riuscito a
tirar fuori molto. Quel vecchio aveva raccontato la storia di quel
tale che era sfuggito ai Sessanta grazie alle "raccomandazioni'', è
vero, ma dopo tutto a che sarebbe servito denunciarlo alla Fra-
tellanza? Sarebbe ricaduto sotto la legge dei Sessanta di lì ad un
mesetto, in ogni caso. No. Non ne valeva la pena.
Ma con lo Straniero, era un altro paio di maniche. Creen ri-
lesse i suoi appunti con somma soddisfazione.
"Bel Arvardan, Baronn, Settore Sirio; si interessa del Costu-
me dei Sessanta; giunto in Terra per ragioni ignote; sceso a Chi-
ca con aereo comune di linea ore 12 di Chica, addì 12 ottobre;
atteggiamento antiterricolista assai spiccato."
Non sarebbe trascorsa mezz'ora e la Fratellanza sarebbe stata
debitamente informata dell'arrivo del signor Arvardan. Creen la-
sciò l'aeroporto con passo dinoccolato.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/87


VIII
APPUNTAMENTO A CHICA

Per l'ennesima volta, il dottor Shekt sfogliò il volume che


raccoglieva ì suoi appunti, e levò il capo all'ingresso di sua figlia
Pola. Infilandosi il camice, la ragazza corrugò la fronte.
«Ma come, babbo! Non hai ancora mangiato?»
«Come?... Certamente!... Be'... Ho esagerato. Calma! Ora
mangio. Non puoi pretendere che interrompa esperimenti di vi-
tale importanza semplicemente perché è ora di mangiare».
Ma tornò di buon umore quando la figlia gli servì il dolce.
«Non hai idea» disse tutto contento «che razza di uomo sia quel-
lo Schwartz. Ti ho già accennato, mi sembra, alle sue suture
craniche...»
«Infatti. Mi hai detto che sono primitive».
«Questo è niente! Figurati che ha ben trentadue denti. Tre
molari superiori ed inferiori a destra ed a sinistra, uno dei quali è
una protesi di fattura evidentemente primitiva, casalinga, oserei
dire. Tu l'hai mai veduto un "ponte" che si allaccia ai denti adia-
centi mediante uncini di metallo?!... Ma questo è niente, ripeto,
perché non si è mai veduto un individuo dotato di ben trentadue
denti!... Ma non ho ancora finito. Ieri gli abbiamo fatto un'anali-
si interna. E sai che cosa gli abbiamo trovato?... Indovina!»
«L'apparato digerente!»
«Smettila di fare la spiritosa, Pola. E non tentare nemmeno dì
indovinare, perché voglio vedere che faccia fai quando ti dico
che Schwartz ha ancora l'appendice lunga otto centimetri... e...
aperta. Per la Galassia! È un fenomeno senza precedenti!»
«Conclusione?»
«Quell'uomo è un "regresso", un fossile vivente addirittura».
E Shekt abbandonò la poltrona per mettersi a passeggiare velo-
cemente tra la scrivania e la parete. «A mio avviso» disse «Sch-
wartz dovrebbe restar qui. Non possiamo rimettere semplice-

88/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


mente in circolazione un soggetto così interessante».
«Impossibile, babbo» disse Pola senza esitare. «Non si può
tenerlo qui. Abbiamo promesso a quel contadino di restituirlo e
poi... qui Schwartz è infelice, poveraccio».
«Infelice?! Ma se lo trattiamo come se fosse uno Straniero
facoltoso!»
«E con ciò? È abituato ai suoi campi, alla sua gente, povero
diavolo. Ha trascorso tutta la vita in quell'ambiente ed ora si ve-
de costretto a vivere una spaventosa esperienza, dolorosissima
forse, che ha finito per cambiargli le facoltà mentali. Non ti ca-
pirebbe; per questo sostengo che dobbiamo restituirlo alla fami-
glia. Non possiamo trascurare i suoi diritti umani».
«E la causa della scienza, Pola?»
«Sciocchezze! Dove va a finire la tua "causa" se pensi a
quanto ti può capitare se la Fratellanza apprende dei tuoi espe-
rimenti clandestini? Più lo tieni qui e più aumenta il pericolo che
te lo scoprano. Dai ascolto a me e domani sera restituiscilo ai
suoi come avevi deciso... E adesso vado giù a sentire se Sch-
wartz vuole qualcosa prima di andare a cena».
Ma la fanciulla tornò meno di cinque minuti dopo col volto
terreo, lucido di sudore. «È fuggito, babbo!»
«Chi, è fuggito?» domandò sorpreso il fisico.
«Schwartz!» gridò la fanciulla in un singhiozzo. «Nell'uscire
dalla sua stanza ti devi essere dimenticato di chiudere la porta».
Shekt balzò in piedi, con una mano protesa a sostenersi.
«Manca da molto?»
«Non so. Non credo. Quando sei sceso da lui?»
«Meno di un quarto d'ora fa. Quando sei arrivata, mi trovavo
qui da pochi minuti».
«Quand'è così» decise repentinamente Pola «corro fuori. Non
può essere andato lontano. Forse lo trovo che gironzola nei din-
torni. Ma tu non muoverti di qui. Se altri lo scopre non voglio
che si possa comunque sospettare di te. Comprendi?»
Shekt non seppe che annuire.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/89


Sostituite le anguste pareti del suo carcere ospedaliero con la
sconfinata realtà dell'esterno, Schwartz non provava il minimo
sollievo morale. Perché non poteva nemmeno illudersi di aver
agito secondo un piano preordinato. Sapeva sin troppo bene di
dover semplicemente improvvisare.
Se pure lo guidava un impulso razionale, un impulso cioè che
fosse qualcosa di più del semplice istinto cieco che l'aveva spin-
to a desiderare di sostituire l'inazione con una iniziativa qualsia-
si, questo impulso traeva origine unicamente dalla speranza che
Schwartz aveva di imbattersi per mero caso in un aspetto di vita
qualsiasi, suscettibile di fargli tornare la memoria perduta. Per-
ché il povero uomo era ormai convinto d'essere malato d'amne-
sia.
Ma s'era sentito cascare le braccia alla prima occhiata che
aveva gettato sulla città: nel tardo sole del pomeriggio, Chica gli
era apparsa bianca come latte!
Perché, dunque, un oscuro agitarsi di memorie gli diceva che
le città sarebbero dovute essere rossicce, brune, più sudice so-
prattutto? Più sudice... Lo ricordava così bene...
Procedeva lentamente, convinto, stranamente consapevole
anzi, di non aver da temere alcun inseguimento organizzato. Lo
sapeva, insomma, senza sapere come. Vero era che da qualche
giorno s'era accorto di possedere una sensibilità più acuta all'at-
mosfera, al senso delle cose, dell'ambiente. Una sensazione, così
gli sembrava, che caratterizzava il mutamento operatosi nella
sua mente nel momento in cui... quando...
Ma oltre quel punto, i pensieri di Schwartz non sapevano
procedere.
Comunque, in clinica, aveva avvertito intorno a sé un'atmo-
sfera di segreto e di timore, in un certo senso. Ecco perché era
certo che non si sarebbero gettati clamorosamente al suo inse-
guimento. Di questo era certo, senza comprendere perché. Che
la nuova sensibilità facesse parte del quadro patologico dell'am-

90/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


nesia?
Attraversò un altro incrocio. Per le vie circolavano pochi vei-
coli. Quanto ai pedoni... Erano i soliti pedoni. Solo che vestiva-
no abiti ridicoli privi di cuciture e di bottoni, e dai colori viva-
cissimi. Come quelli che indossava anche lui, d'altra parte. E si
chiese dove erano andati a finire quegli altri: i suoi abiti d'una
volta... se pur ne aveva avuti come quelli che ricordava. Perché
quando sei costretto a dubitare della tua memoria per principio,
è difficile che ti riesca di essere certo di qualcosa.
Ma la moglie, i figli... Li ricordava così bene! No. Non pote-
va esserseli immaginati. Ricordandoli s'era commosso. Si era
dovuto fermare in mezzo alla strada per riprendersi. A meno che
il ricordo che serbava dei familiari non fosse la sua versione di-
storta di persone reali appartenenti a quella realtà che pure gli
sembrava tanto irreale, ma con la quale dove-va ritrovare contat-
to.
Sospinto dalle sorde proteste dei passanti che incappavano in
lui, Schwartz riprese il cammino. E gli venne fatto di pensare
all'improvviso, incoercibilmente, che doveva aver fame, che gli
sarebbe venuta tra poco, comunque; e si rese. conto di esser pri-
vo di danaro.
Si guardò attorno, ma non riuscì a vedere nulla che somi-
gliasse ad un ristorante. Spinse lo sguardo all'interno di tutti i
negozi davanti ai quali passava... Sino a che, in fondo ad una
bottega, vide tanti minuscoli tavolini separati da tonde alcove
ricavate nelle pareti. Ad uno di quei tavoli sedevano due perso-
ne. Ad un altro, ce n'era una sola. Ma quella gente mangiava...
Come prima, anche ora, anche in quella realtà, per nutrirsi gli
uomini masticavano il cibo, l'inghiottivano.
Entrò. E rimase in piedi, sbalordito, per qualche istante: nien-
te banco delle mescite, niente "cassa". E non c'era traccia di
cuochi, di cucina, di fornelli. A chi poteva rivolgersi, in quel
luogo, per offrirsi di lavare i piatti in cambio d'un boccone?
Diffidente, si mosse accanto alla tavola alla quale sedevano i

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/91


due uomini che mangiavano. Con enorme fatica, additò il cibo,
articolò: «Fame! Dove? Per piacere...»
Alquanto sorpresi, i due lo squadrarono a lungo. Poi uno pro-
nunciò un lungo discorso, assolutamente incomprensibile, toc-
cando con una mano un aggeggio inserito all'estremità della ta-
vola, la quale comunicava direttamente con la parete. L'altro dis-
se anche lui la sua, spazientito.
Schwartz abbassò gli occhi, contrito. Già si accingeva a tor-
nare sui suoi passi, quando una mano gli toccò la manica...
Granz l'aveva notato sin da quando Schwartz aveva incollato
il volto pienotto, dall'espressione ardente di desiderio, ai vetri
della trattoria.
"Che cos'ha, quello?" s'era domandato.
Messter, che gli stava di fronte, seduto al tavolino con le spal-
le rivolte verso la strada, aveva fatto spallucce senza rispondere
al compagno.
«Sta entrando» aveva annunciato poi Granz. E Messter gli
aveva detto: «E con ciò?!»
«Nulla. Semplice constatazione».
Ma qualche istante dopo, lo sconosciuto s'era avvicinato a lo-
ro per segnare a dito lo stracotto che avevano sul piatto. E aveva
detto con accento strano: «Fame! Dove? Per piacere...»
«Vuoi mangiare?» gli aveva risposto Granz alzando gli occhi
dal piatto. «Accomodati, vecchio. Prendi una sedia, accomodati
ad un tavolo qualunque e serviti del Cibomatico... Il Cibomatico,
sì! Non l'hai mai visto?... Guarda questo povero idiota, Messter!
Mi sta fissando senza capire un accidente. Ehi! Dico a te... Lo
vedi quest'affare? Infila le tue monete nella fessura e lasciami
mangiare».
«Zitto» aveva grugnito Messter. «Non vedi che è il solito
mendicante in cerca d'elemosina?»
«Un momento, allora!» aveva detto Granz afferrando per una
manica il meschino che stava per andarsene. Ed a Messter aveva
sussurrato: «Offriamogli di che sfamarsi, poveraccio! Tra poco

92/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


incapperà nei Sessanta, per lo Spazio, e il meno che si possa fare
per lui è... Hai qualche soldarello, vecchio?... Soldi! Quattrini!...
Possibile che non capisca?... Danaro, amico! Questo...» E aveva
lanciata in aria una scintillante moneta da mezzo Credito.
«Ne hai?» aveva insistito.
Schwartz scosse lentamente il capo, in segno di diniego.
«E allora ci penso io!» E Granz, infilato in tasca la sua mone-
ta da mezzo Credito ne aveva lanciata un'altra, considerevol-
mente più piccina, a Schwartz.
Schwartz la strinse, incerto.
«Non stare lì, impalato! Infila la moneta nel Cibomatico! Lì...
Quell'affar lì!»
Schwartz si accorse di avere improvvisamente compreso. Il
Cibomatico mostrava alcune fessure. di grandezza diversa a se-
conda delle monete che vi si dovevano infilare. Ogni fessura era
contraddistinta da un cartellino la dicitura dei quali Schwartz
non sapeva leggere. A destra di ogni fessura c'era un grosso bot-
tone. Facendo scorrere un dito da una fessura all'altra, Schwartz
indicò con la mano libera i cibi che già si trovavano sulla tavola
dei due, levando le sopracciglia in atteggiamento interrogativo.
«Non ti basta un panino imbottito?» protestò Messter. «Si
fanno di gusti difficili i mendicanti, da queste parti.
«Pazienza! Vuol dire che ci rimetterò ottantacinque centesimi
di Credito. Domani incasso la paga comunque... Tieni!» disse
rivolgendosi a Schwartz. E infilate le monete nel Cibomatico,
estrasse da una cavità della parete il capace vassoio di metallo
che vi si trovava. «Portati tutto quanto ad un'altra tavola e buon
appetito...»
Schwartz emigrò ad una tavola vicina con il suo vassoio. Ap-
pena lo strinse tra due unghie, il cavetto di plastica che vi regge-
va un cucchiaio si ruppe con un piccolo colpo. L'orlo del vassoio
allora si sollevò arricciandosi verso il centro.
L'intingolo cominciò a fumare, ribollì per un istante. Non ap-
pena raffreddò, Schwartz terminò la cena.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/93


Se ne andò che Granz e Messter erano ancora seduti al loro
tavolino. C'era ancora l'avventore, solo, al quale Schwartz non
aveva badato affatto per tutta la durata del pasto.

Presa una doccia e cambiatosi d'abiti, Bel Arvardan si era fat-


to premura di soddisfare senza indugio il suo principale deside-
rio: quello di osservare l'animale uomo, sottospecie Terra, nel
suo habit naturale. La stagione era mite, fresca la brezza, lumi-
noso, tranquillo, pulito il villaggio... Pardon! La città, natural-
mente.
Niente male, Chica.
"Prima tappa: Chica!" pensava Arvardan. Il centro più popo-
loso della Terra. Poi sarebbe stata la volta di Washenn, la capita-
le del pianeta. E poi Sanlu, Senfran, Bonair!...
Sarebbe stato un giro turistico assai istruttivo.
Entrato in un Cibomatico sul far della sera, mentre mangiava,
aveva assistito alla scenetta che si era svolta tra due Terricoli en-
trati poco dopo di lui, ed un ometto anziano, goffo, grassoccio,
venuto per ultimo. Non aveva dedicato soverchia attenzione
all'episodio: ne aveva semplicemente preso nota mentalmente
per confrontarlo a quello cui aveva assistito a bordo del reattore:
i due seduti al tavolino, evidentemente modesti aerotaxisti, si
erano dimostrati assai caritatevoli.
Arvardan se ne era andato pochi istanti dopo l'uscita del
mendicante.
Aveva trovato le strade più movimentate di prima, forse per
l'approssimarsi del termine della giornata lavorativa.
Ad un certo momento dovette scansarsi, per evitare un vio-
lento scontro con una ragazza che avanzava quasi correndo.
«Scusatemi» le disse.
Vestiva un camice, e Arvardan non tardò a riconoscerla per
una infermiera. Ma la ragazza sembrava non essersi neppure ac-
corta d'essere scampata a un urto con lui: si era fermata ma ap-
pariva in ansia, voltava il capo in tutte le direzioni, si vedeva, in-

94/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


somma, che si trovava in vivo imbarazzo.
«Posso esservi utile, signorina?» le chiese Arvardan. «Qual-
cosa che non va?»
La ragazza gli spalancò addosso un paio d'occhioni pieni di
stupore. Arvardan la giudicò sui diciannove, vent'anni dopo
averne notati i bei capelli bruni, gli occhi scuri, gli zigomi alti, il
mento piccolo, il portamento assai grazioso. Scoperse anche, di
un subito, che sapere di razza terricola la deliziosa creatura
femminile che gli stava davanti, conferiva al suo fascino una
strana perversa nota piccante.
La ragazza continuava a guardarlo stupefatta, e quando ac-
cennò a rispondergli minacciò di cedere alla commozione:
«È inutile. Non preoccupatevi per me. Sono sciocca a sperare
di rintracciare una persona che non so nemmeno dove può esse-
re andata a cacciarsi». Ed abbassò gli occhioni umidi, in preda a
un profondissimo sconforto. Poi, riprendendosi, respirò profon-
damente e domandò: «Avete veduto, per caso, un ometto anzia-
no senza cappello, calvo, vestito di verde e bianco?»
«Come dite?» esclamò Arvardan a sua volta stupito. «Un an-
ziano vestito di verde e bianco?... uno che non sapeva parlare,
quasi?... L'ho veduto a tavola là dentro, con due individui, meno
di cinque minuti fa... Eccoli lì!... Ehi, voi!» gridò l'archeologo
facendo un cenno di richiamo. E Granz, che si accostò per pri-
mo, offerse: «Taxi, signore?».
«No, grazie. Ma se sapete dire alla signorina dove è andato
l'anziano al quale avete offerto da cena, può darsi che facciate
ugualmente una corsa».
«Se lo sapessi, ve lo direi volentieri» rispose Granz. «Pur-
troppo non l'ho mai veduto prima in vita mia».
«Non importa, signorina» disse Arvardan rivolgendosi alla
fanciulla. «Se si fosse allontanato nella direzione dalla quale sie-
te venuta voi, non avreste mancato di incontrarlo. Non può esse-
re andato lontano. Se ci muoviamo verso nord lo troviamo. Sa-
prei riconoscerlo senz'altro».

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/95


Solitamente per nulla impulsivo, Arvardan aveva offerto il
suo aiuto alla fanciulla obbedendo ad un impulso. E si accorse di
averlo fatto sorridendo.
«Ha fatto qualcosa, signorina?» intervenne Granz interessato.
«Non avrà oltraggiato qualche Costume, vero?»
«No, no» negò la fanciulla. «Si sente semplicemente poco
bene».
Messter seguì con lo sguardo i due che si allontanavano e
mormorò: «Ah! Si sente poco bene, eh?». E dato uno strattone
alla visiera del berretto si prese il mento tra due dita. «Che ne
dici, Granz?... "Poco bene"…»
E guardò per un istante di lato.
«Si può sapere che cosa t'ha preso?» volle sapere Granz, piut-

96/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


tosto a disagio.
«M'ha preso qualcosa che fa sentire "poco bene'. anche me...
Quel vecchio deve aver tagliato la corda dall'ospedale e quella
ragazza era un'infermiera, preoccupatissima, che lo rincorreva».
Un'espressione di folle terrore passò come un'ombra sul volto
di Granz che disse: «Credi che avesse le Febbri?».
«Certo! Quello aveva le Febbri da Radiazione all'ultimo sta-
dio... E purtroppo ci è venuto vicinissimo, la qual cosa è molto
pericolosa...»
Ai due che così parlavano, s'era frattanto avvicinato un orni-
no magro.
Un ornino dagli occhi penetranti, dalla voce squillante che
materializzandosi improvvisamente accanto ai due compari,
domandò: «Come avete detto, brava gente? Chi è stato colto da
Febbri da Radiazione?».
Granz e Messter lo guardarono ostili. «Chi siete?»
«Chi sono, eh? Volete proprio saperlo? Ebbene sono un Mes-
saggero della Fratellanza». E mostrò l'interno della giacca dove
si accese fioco un piccolo distintivo. «In nome della Società de-
gli Anziani, dunque, ditemi subito chi è il malato di Febbri».
In tono cupo, solenne, Messter rispose: «Non ne so nulla. Ho
visto passare un'infermiera che stava inseguendo un malato ed
ho pensato che il poveretto potesse avere le Febbri».
L'ometto si stropicciò vivacemente le mani, prima di precipi-
tarsi verso nord, guardandosi attorno rapidamente.

«Eccolo!» esclamò Pola afferrando febbrilmente il compagno


per un gomito. Schwartz s'era inaspettatamente presentato agli
occhi attoniti, disperati di Pola, davanti all'ingresso dei grandi
magazzini a servizio automatico del pubblico, a pochi isolati di
distanza dal Cibomatico.
«Già» sussurrò Arvardan. «Lo seguirò io: voi statevene na-
scosta perché, se vi avvista, si tuffa tra la folla e non lo troviamo
più».

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/97


Ed ebbe inizio un tallonamento assai simile a certi insegui-
menti che ci appaiono nei sogni di carattere angoscioso. La folla
che si ammassava nei grandi magazzini era un po' come le sab-
bie mobili: poteva risucchiarsi la preda lentamente, poteva im-
prigionarla, nasconderla nel suo seno per sempre, farla schizzar
fuori all'improvviso al di là di una impenetrabile calca di gente
frettolosa.
Comunque, Arvardan riuscì ad aggirare guardingo un lungo
banco di vendita, giocando con Schwartz come fa il gatto con un
topo. E a un certo momento, l'archeologo allungò una delle sue
grosse mani, e la strinse con forza sulla spalla della preda.
Schwartz proruppe in un affannoso incomprensibile discorso,
e in preda al panico, tentò di liberarsi con uno strattone dalla
presa dell'altro. Invano, perché la morsa di Arvardan avrebbe
saputo resistere allo sforzo di uomini assai più robusti. Sorri-
dendo, e parlando con accenti disinvolti e semplici per non at-
trarre l'attenzione degli astanti, l'archeologo disse:
«Salve, vecchio mio! Come va? Son mesi che non ci vedia-
mo!»
Espediente sin troppo ingenuo il suo, considerato l'atteggia-
mento terrorizzato dell'altro. Per fortuna Pola fu lesta a raggiun-
gergli.
«Schwartz» sussurrò la fanciulla. «Seguiteci, ve ne prego».
Dopo essersi irrigidito obbedendo ad un vano impulso di ri-
bellione, Schwartz cedette di schianto.
«Venire... io... con... voi...» disse con voce afflitta. Ma il resto
della frase si perse all'improvviso, potente vociare degli altopar-
lanti.
«Attenzione! Attenzione! Attenzione! Si invita la clientela ad
abbandonare ordinatamente i magazzini, uscendo dalle porte che
si aprono sulla Quinta Strada. Ciascuno presenterà i documenti
alle guardie appostate a quegli ingressi. Lo sfollamento deve av-
venire rapidissimamente! È di capitale importanza, signore e si-
gnori! Attenzione! Attenzione! Attenzione!»

98/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


L'avvertimento venne ripetuto tre volte. L'ultima, già soffoca-
to dallo scalpiccìo della folla che cominciava a fare ordinata res-
sa davanti alle uscite indicate. Poi s'udì levarsi da ogni parte
un'ansiosa domanda ripetuta a voce alta, all'infinito: «Che cosa è
successo? Che cosa è stato?».
«Mettiamoci in fila con gli altri, signorina» suggerì Arvardan.
«Ormai, abbiamo ottenuto quanto volevamo...»
«Non possiamo, non possiamo...» disse Pola angosciata scuo-
tendo il capo.
«E perché?» volle sapere l'archeologo corrugando la fronte.
La ragazza indietreggiò, spaurita. Poteva svelare allo scono-
sciuto che Schwartz era privo di documenti? Chi era in realtà
quel giovane, e perché le aveva offerto insistentemente il suo
aiuto?
«Andatevene» mormorò alla fine. «Finirete per trovarvi nei
guai, altrimenti».
Dai piani superiori ormai quasi totalmente evacuati, giunge-
vano a pianterreno gli ascensori stipati di folla. Schwartz, Pola e
Arvardan formavano uno stabile isolotto che divideva la fiuma-
na.
Quando ripensò, in seguito, all'episodio, Arvardan si rese
conto che in quel momento avrebbe anche potuto abbandonare
la ragazza. Lasciarla! Non rivederla mai più! Non doversi poi
mai pentire di nulla!... E tutto, tutto si sarebbe svolto in modo
assai differente. Perché il Grande Impero Galassico sarebbe an-
dato distrutto, travolto dal caos.
Ma Arvardan non volle abbandonare la ragazza. Anche se
terrore e disperazione le imbruttivano il bel volto, in quel mo-
mento. Né avrebbe potuto essere diversamente. Arvardan, co-
munque, rimase turbato nel vederla così smarrita.
Già si era allontanato d'un passo, ma tornò indietro per chie-
derle: «Restate qui, dunque?».
La ragazza annui.
«Ma perché?!»

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/99


«Perché non so che altro fare» gli rispose Pola tra le lagrime.
Non era che una povera "Terry", Pola. E com'era spaventata
la piccola, graziosa fanciulla...
«Ditemi che cosa posso fare per aiutarvi» mormorò Arvardan
gentilmente. «Farò del mio meglio» offerse più dolcemente.
Ma Pola non rispose.
Costituivano uno spettacolo degno d'esser veduto, i tre. Sch-
wartz s'era lasciato cadere al suolo dove sedeva inerte, troppo
angosciato per seguire il dialogo, troppo disperato per chiedersi
come mai i grandi magazzini si erano ormai quasi completamen-
te svuotati di pubblico, incapace di far altro che nascondersi il
volto tra le mani, cedendo senza dire una parola, senza osare un
lamento al più profondo sconforto. Pola piangeva. E provava
un'angoscia così profonda come non avrebbe mai saputo imma-
ginare. Arvardan, che non capiva, che non sapeva, cercava inva-
no, impacciatissimo, di incoraggiare la fanciulla battendole af-
fettuosamente la schiena con una mano. Senza nemmeno accor-
gersi che quella era la prima volta che toccava una ragazza terri-
cola. Una Terry...
Così li colse l'omino.

IX
CONFLITTO A CHICA

Sbadigliando lentamente, Marc Claudy, secondo ufficiale


della guarnigione di Chica, sbarrò gli occhi sulla realtà circo-
stante con noia indicibile. Dopo quasi due anni di servizio in
Terra, anelava al prossimo trasferimento.
Esser di guarnigione in Terra era come trovarsi in galera.
Dormivi in apposite baracche resistenti alle radiazioni e respira-
vi aria filtrata, epurata da polveri radioattive. Vestivi l'uniforme
impregnata di sostanze plumbee, pesantissime quanto gelide, e

100/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


guai se te la toglievi perché rischiavi di rimetterci la pelle. Come
se tutto ciò non fosse bastato, era impossibile addirittura frater-
nizzare con la popolazione. Non parliamo delle ragazze, poi:
niente da fare, ammesso che disperato e afflitto da solitudine ti
fossi abbassato a rivolgere la parola a una spregevole "Terry".
Non c'era che consolarti con qualche sbadiglio, con un pisoli-
no ogni tanto, rischiando magari di finire pazzo.
E il tenente Claudy scosse il capo nel vano tentativo di schia-
rirsi le idee. Poi si alzò dal letto e cominciò ad infilare le scarpe.
Un'occhiata all'orologio gli disse che non era ancora giunta l'ora
di andare a cena.
E all'improvviso, acutamente conscio di avere un piede scal-
zo e la chioma scarmigliata, dovette scattare in piedi, per irrigi-
dirsi nell'attenti.
Il colonnello lo guardò con aria di rimprovero, senza tuttavia
affrontare l'argomento del disordine.
«Tenente Claudy» pronunciò invece con accento di gelo «mi
segnalano disordini nel quartiere degli affari. Prendete il coman-
do di una squadra di disinfezione, portatevi ai grandi magazzini
Dunham ed assumete il comando della situazione. Prima di usci-
re, accertatevi che i vostri uomini siano rigorosamente protetti
da infezione per Febbri da Radiazioni».
«Febbri da Radiazioni?!» strillò l'ufficiale. «Scusatemi, si-
gnore, ma...»
«Sarete pronto ad uscire tra quindici minuti» disse gelido il
colonnello.

Arvardan notò l'omino per primo. L'altro accennò ad un umi-


le saluto e disse: «Salve, capo. Buona sera, gigante. Di' pure alla
ragazza che non c'è bisogno di frignare».
Pola sussultò, levando il capo, respirando affannosamente.
Obbedendo quasi a reazione condizionata, si avvicinò al giova-
nottone che cedendo a sua volta a un impulso inconscio le cinse
con aria protettiva la vita con un braccio. E non si accorse nem-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/101


meno che aveva toccato una ragazza Terricola per la seconda
volta.
«Che cosa vuoi?» domandò aspro Arvardan.
L'omino dagli occhietti penetranti uscì diffidente da dietro un
banco carico di merci.
«Uscire di qui sarà un bel guaio, ma non disperarti troppo,
ragazza mia» disse con impazienza. «Ci penso io a riportare il
vecchio all'Istituto».
«Quale Istituto?» domandò Pola atterrita.
«E piantala» protestò l'ornino. «Non l'hai mai veduto il mio
carrettino della frutta proprio di fronte all'ingresso dell'Istituto di
Ricerche Nucleari? Se ti ci vedo entrare tutti i giorni?! Sono
Natter, io, ragazza mia».
«Si può sapere che cosa vuoi?» interloquì Arvardan minac-
cioso.
«Credono che questo povero diavolo abbia le Febbri» annun-
ziò facendo grandi risate che gli scuotevano tutto il corpiciattolo
magro.
«Le Febbri da Radiazione?!» proruppero Pola ed Arvardan in
coro.
«Proprio» confermò Natter. «Lo hanno detto due autisti che
han cenato insieme a lui e ormai la notizia si è diffusa in tutta
Chica».
«E a te non fanno paura le Febbri?» indagò Arvardan aggres-
sivo. «Eppure è proprio per timore di un contagio che le autorità
hanno ordinato lo sgombero di questi locali, immagino...»
«Certo. Solo che le autorità hanno paura di entrare, adesso:
aspettano la squadra Straniera di disinfezione».
«E tu, invece, non hai assolutamente paura delle Febbri...»
«Perché dovrei? Guardatelo, questo poveraccio! Non ha le
Febbri: niente piaghe alla bocca, non è rosso in faccia e ha l'oc-
chio pulito pulito... Li ho visti quelli con la febbre. Me ne inten-
do. Andiamo, signorina. Usciamo di qui».
Ma Pola aveva sempre paura. «No, no. Non si può. Que-

102/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


st'uomo...» e non seppe continuare.
«Potrei portarlo fuori io, allora» offrì con fare insinuante Nat-
ter, «e in modo che nessuno gli domandi i documenti». .
Pola trattenne a stento un grido, ed Arvardan guardando l'o-
mino con evidente disgusto gli domandò: «Si può sapere com'è
che vi credete così importante?».
Natter sghignazzò divertito. Mostrò l'interno della giacca e
dichiarò: «Sono un Messaggero della Società degli Anziani. A
me non mi ferma nessuno».
«Qual è il vostro prezzo?»
«Danaro, naturalmente! Voi siete in ansia e io sono in grado
di mettervi tranquilli. Sarò onestissimo: la vostra ansia la valuto
cento Crediti; la tranquillità che posso darvi altrettanto. Cento
creditoni, signori e signore: cinquanta subito, cinquanta alla
consegna del vecchio».
«Non voglio che lo conduciate dagli Anziani» mormorò Pola
in preda all'orrore».
«Non ci penso nemmeno. Per gli Anziani non ha alcun valo-
re, mentre per me costui rappresenta cento Crediti. Certo che bi-
sogna fare in fretta. Se arrivano gli Stranieri, ve lo fanno fuori
prima ancora di accertarsi se la Febbre ce l'ha o non ce l'ha. Agli
Stranieri non importa niente di accopparci! Terricolo più, Terri-
colo meno... Anzi, ci provano gusto».
«Porterete la signorina con voi» disse Arvardan.
«Eh, no! Impossibile, egregio!» si oppose Natter guardando
l'archeologo con le pupille rimpicciolite dietro le palpebre strette
strette: «Io sono disposto a correre soltanto rischi calcolati... In
compagnia di uno potrei cavarmela: con due potrei fare fiasco».
«E se ti pigliassi per il collo e facessi di te un bel nodo? Che
cosa succederebbe?» domandò Arvardan sibilando minaccioso.
Natter si ritrasse sussultando, ma rimediò un po' di voce per
rimbeccare ridacchiando: «Niente succederebbe. Ma sareste uno
scemo a farlo. Prima di tutto vi acchiapperebbero e in più dovre-
ste anche rispondere d'omicidio... State calmo, ragazzo mio...

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/103


E... tirate giù quelle mani, per favore».
«Fate come dice» implorò Pola. «Dobbiamo accettare le pro-
poste di... quest'uomo. Lasciamo fare a lui... Non mancherebbe
di parola, vero, signor Natter?»
«Il vostro giovanotto» disse Natter arricciando le labbra «mi
ha quasi strappato un braccio e questo vi costerà un "extra" di
cento Crediti. Duecento in tutto...»
«Ve li darà mio padre...»
«Cento subito» impose Natter ostinato.
«Non ho danaro, con me» lamentò Pola.
«Non importa, signorina» disse Arvardan un po' offeso «ve li
anticipo volentieri». E aperto il portafogli, ne trasse qualche
banconota che lanciò a Natter dicendogli: «Ed ora muovetevi!».
«Andate con quest'uomo, Schwartz» sussurrò Pola.
E il poveretto le obbedì senza dir verbo, senza la minima rea-
zione. In quel momento sarebbe sceso all'inferno senza batter
ciglio.
Così, i due si ritrovarono soli, lì a guardarsi l'un l'altro un po'
stupiti, a disagio. Pola aveva modo di osservare attentamente
Arvardan per la prima volta. E rimase profondamente colpita
dall'alta statura del ben costrutto giovane, dal suo bellissimo vol-
to fiero, profondamente fiducioso e calmo. Sino a quel momento
ne aveva accettato l'aiuto come qualcosa che le fosse stato impo-
sto, senza una ragione, ma ora... Si senti improvvisamente inti-
midita e gli eventi delle due ultime ore sembrarono svanire sotto
i colpi affrettati del suo cuoricino.
E ricordò di non essersi nemmeno presentata.
«Sono Pola Shekt» disse sorridendo.
Arvardan, che non l'aveva ancora veduta sorridere, la guardò
interessato: era come se nell'interno della faccia della ragazza si
fosse accesa una luce, una radiazione. Gli colmava il cuore di...
Qualcosa che si affrettò a respingere con tutte le energie di cui
era capace, perché... Che diamine! Non con una ragazza della
Terra, vero?

104/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Con cordialità assai minore di quella che provava, disse: «Mi
chiamo Bel Arvardan». E le tese una manona bruna che inghiottì
per qualche istante quella minuscola, candida della fanciulla.
«Non so come ringraziarvi» mormorò Pola.
Arvardan si schermì con un gesto e propose: «Ce ne andia-
mo? Ora che il vostro amico è stato messo in salvo...».
«Se l'avessero preso chissà che rumore ci sarebbe stato, ve-
ro?» disse. E gli occhi imploravano una conferma alla speranza.
Ma Arvardan respinse la tentazione di cedere ai sentimento.
«Andiamo, allora?»
Dolorosamente stupita, la fanciulla aderì, scuramente: «An-
diamocene pure».
E in quell'istante s'udì risuonare una sirena nel cielo, mentre
all'orizzonte si profilavano grossi velivoli ruggenti. Gli occhi
della fanciulla si riempirono nuovamente di terrore, mentre la
mano già offerta nel saluto le ricadeva tremando lungo il fianco.
«Che succede, ora?» s'informò Arvardan.
«Gli Imperiali».
«Possibile che vi facciano paura?» stupì Arvardan. «Non ab-
biate paura degli Stranieri» disse alla ragazza servendosi del
termine terricolo per definire i soldati dell'Imperatore. «Ci penso
io, a quella gente, signorina Shekt».
«Per carità, non fatelo» implorò la fanciulla subito spaventa-
ta. «Con gli Stranieri non si deve nemmeno parlare: bisogna li-
mitarsi ad obbedire, senza nemmeno alzare gli occhi». Arvardan
allargò la bocca in un gran sorriso fiducioso.

Appena le guardie li videro ancora ad una certa distanza


dall'uscita, si ritrassero spaventate. Pola ed Arvardan furono sul
marciapiede isolati da grande spazio delimitato da una folla
compatta che mormorava sgomenta. S'udì più distinto l'ululato
delle sirene delle forze corazzate.
La piazza fu invasa in un istante da molti carri armati da bor-
do dei quali balzarono a terra nugoli di soldati dal capo nascosto

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/105


in uno speciale casco di cristallo. La folla fece largo mentre gli
Imperiali sollecitavano i più tardi colpendoli col calcio delle pi-
stole neuroniche.
Il tenente Claudy, al comando del piccolo esercito, si precipi-
tò sulla guardia più vicina per chiedere: «Avanti! Dov'è quello
che ha la Febbre?».
Dietro lo schermo di cristallo del casco colmo d'aria pura, il
volto del militare appariva distorto. La sua voce si ripercuoteva
metallica, amplificata dall'apposito altoparlante.
La guardia chinò la fronte a terra e con profondo rispetto an-
nunciò: «Il paziente è rimasto isolato all'interno del magazzino,
Vostro Onore. I due che lo accompagnavano, si trovano di fron-
te a voi, all'ingresso».
«Benissimo. Rimangano lì. Ed ora... per prima cosa... Via tut-
ta questa folla. Sergente! Fate piazza pulita».
Gli ordini del tenente furono eseguiti con rapidità ed efficien-
za non esente da molta brutalità. Il sole del tramonto lanciava le
ultime vampe rossastre su Chica, quando la folla cominciò a di-
sperdersi per le strade ammantate delle prime ombre. L'asfalto
cominciava ad avvampare di luce dolce azzurrina...
Il tenente Claudy batté energicamente uno dei suoi scarponi
con il calcio della pistola neuronica. «Siete sicuro» indagò poi
«che il terry malato sia ancora dentro?»
«Non è ancora uscito, Vostro Onore. Dev'essere ancora là
dentro!»
«Inutile perdere tempo. Procederemo come se ne fossimo cer-
ti. Sergente! Disinfestate il palazzo!»
Un contingente di soldati che le speciali uniformi isolavano
da qualsiasi possibilità di contatto con l'ambiente terricolo si
precipitò a passo di carica nell'edificio. Passò un quarto d'ora
che Arvardan dedicò ad attenta osservazione: in tema di relazio-
ni " interculturali" quello era un "esperimento'. che non si senti-
va di turbare, profondamente incuriosito da un punto di vista
professionale.

106/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Uscito l'ultimo dei soldati, l'edificio rimase completamente
buio. Come a notte profonda.
«Sigillare le porte!»
Pochi istanti, e i grossi recipienti colmi di disinfettante dispo-
sti su ogni piano del palazzo in posizioni strategiche si sarebbero
spalancati, comandati a distanza, lasciando uscire dense nubi di
vapori che avrebbero dato la scalata alle pareti, impregnando di
sé ogni millimetro quadrato di superficie, ogni particella d'aria,
ogni più riposta cavità. Alla presenza di quella sostanza non po-
teva sopravvivere protoplasma alcuno: né microbo, né uomo.
Per la disinfezione si impiegavano i vapori di un composto chi-
mico che dava morte tra orrende sofferenze.
E venne il momento, per i1 tenente, di accostare Pola ed Ar-
vardan.
«Come si chiamava?» volle sapere con accento dal quale
mancava persino una nota di crudeltà, assolutamente indifferen-
te com'era. ("D'accordo" si diceva il tenente "abbiamo accoppato
un Terricolo. E con ciò? Stamattina ho schiacciato anche una
mosca... Uno più uno fa due!")
Non gli fu risposto. Pola aveva chinato umilmente il capo.
Arvardan lo osservava incuriosito. L'ufficiale dell'Impero non
staccava loro gli occhi di dosso. Con un gesto breve ordinò ai
suoi uomini: «Controllate se hanno segni d'infezione».
Li sottopose, e assai rudemente, alla visita un militare che si
fregiava del grado e delle mostrine di Ufficiale Medico Imperia-
le. Afferrò più volte, violentemente, i due sotto le ascelle, aperse
loro la bocca in cerca di piaghe, con la gentilezza di chi spalanca
un boccaporto.
«Nessun segno d'infezione, tenente» annunciò poi. «Se si fos-
sero esposti al contagio, a quest'ora i sintomi sarebbero già evi-
dentissimi».
«Uuum... Be'...» brontolò Claudy. E toltosi con molte precau-
zioni il casco di vetro respirò con soddisfazione un po' d'aria
"vera". Terricola, d'accordo, ma aria, comunque. Raccolse nel

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/107


cavo del gomito l'ingombrante oggetto di cristallo e domandò,
aspro: «Come ti chiami, terry-squaw?».
Il termine era di per se stesso la quintessenza dell'insulto. E il
tenente l'aveva pronunciato in un tono che lo rendeva ancor
peggiore. Pola tuttavia, non mostrò segno alcuno di risentimen-
to.
«Pola Shekt» rispose in un sussurro.
«Documenti!»
La fanciulla infilò una mano in una tasca interna del camice e
ne trasse un piccolo portafogli di color rosa.
L'ufficiale glielo strappò di mano impaziente, l'aperse e lo
studiò al lume di una torcia elettrica portatile. Poi lo restituì lan-
ciandolo. Fini al suolo e Pola si chinò svelta nell'intento di rac-
coglierlo.
«In piedi!» latrò Claudy ed appioppò una pedata al portafogli.
Pola fece appena in tempo a ritirare la mano.
Accigliato, Arvardan decise che era venuto il momento di in-
tervenire.

108/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Come vi permettete?»
L'ufficiale si volse repentinamente, minaccioso.
«Ho detto: "Come vi permettete?"» disse Arvardan restituen-
do al militare l'occhiata gelida. «E volevo anche aggiungere. che
non si trattano in questo modo le donne e che sarebbe ora che
qualcuno vi insegnasse un po' di educazione».
Ormai pazzo d'ira, trascurò di render nota al tenente la sua
origine "planetaria".
«Dove l'hanno insegnata l'educazione a te, lurido terry?» do-
mandò Claudy sorridendo crudelmente. «Non te l'hanno inse-
gnato che quando parli con un Uomo devi dirgli Vostro Onore?
Dunque non sai stare al tuo posto, eh? Benissimo!' Era un'eterni-
tà che desideravo dare una bella lezioncina ad uno sporco terry
come te. Piglia!... E dimmi se ti piace!»
Un guizzo serpentino, e la palma dell'ufficiale si abbatté con
estrema violenza prima sull'una e poi sull'altra guancia di Ar-
vardan, in un "uno-due" di strabiliante efficacia. L'archeologo
balzò indietro. E si senti zufolare le orecchie. Poi s'impossessò
del braccio teso a nuove percosse, tra l'incredulo stupore dell'av-
versario...
Un violento, rapidissimo gioco di muscoli e il tenente si ro-
vesciò sconciamente al suolo. Il globo di cristallo si ruppe in
mille frammenti. Arvardan rimase immobile, sorridendo con fe-
rocia al tenente prostrato. Si tolse un'invisibile bruscolino di
polvere da una manica e disse: «C'è nessun altro bastardo che
vuol divertirsi a prendermi a ceffoni?».
Ma il sergente aveva sollevato la pistola neuronica. Contatto
e... si vide un lampo azzurrino avvolgere in un guizzo abbaglian-
te la possente figura di Arvardan.
L'archeologo si sentì irrigidire dolorosamente tutti i muscoli
del corpo e cadde in ginocchio per il dolore insostenibile. Poi,
s'afflosciò come se l'avesse colto una paralisi totale.
Lo richiamò alla realtà la sensazione gradita d'un po' di fre-
scura sulla fronte. Tentò di sollevare le palpebre e fu come se

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/109


avesse voluto far girare sui cardini arrugginiti un pesante cancel-
lo. Rinunciò ad aprire gli occhi e si portò lentamente la mano al-
la fronte soffrendo ad ogni istante spasimi lancinanti che gli per-
correvano in ogni senso il braccio.
Un morbido panno umido, trattenuto da una piccola mano...
Riuscì a spalancare un occhio e fu sommerso da un senso di
nausea.
«Pola» mormorò.
«Son qui» gli fu risposto con un piccolo grido di gioia. «Co-
me vi sentite?»
«Come se fossi morto» mormorò. «E non ho neanche il bene-
ficio dell'insensibilità... Che cosa mi è successo?»
«Ci hanno condotti in caserma. Il colonnello vi ha fatto per-
quisire... E adesso non so che cosa ci faranno... Ma non doveva-
te, non dovevate colpire quel tenente, signor Arvardan... Sapete
che gli avete rotto il braccio?»
«Benissimo» sospirò l'archeologo con un pallido sorriso.
«Peccato che non gli ho rotto la schiena».
«Ma c'è la pena capitale per chi si oppone con la forza ad un
Ufficiale Imperiale».
«Davvero? La vedremo».
«Zitto. Ecco che ritornano».
Arvardan si abbandonò comodamente sul lettuccio, chiuden-
do gli occhi. I singhiozzi di Pola gli giunsero indistinti, lontanis-
simi alle orecchie. E quando avvertì la stilettata improvvisa
dell'ago dell'ipodermica non riuscì nemmeno a muovere un mu-
scolo.
Poi lungo i nervi e lungo le vene si diffuse una benefica on-
data analgesica. Le braccia tornarono ad articolarsi e la schiena
riacquistò la primitiva elasticità. Arvardan fece sfarfallare rapi-
damente le palpebre e facendo perno su di un gomito balzò in
piedi.
Il colonnello lo guardava pensoso. Pola, in atteggiamento
pieno d'apprensione, eppure con gioia.

110/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Ebbene, dottor Arvardan» disse il colonnello «a quanto
sembra, in città siete stato vittima di uno spiacevole incidente».
Dottor Arvardan... Pola notò sgomenta quanto poco sapesse
del giovane, del quale aveva persino ignorato la professione...
Che cosa le stava accadendo? Mai si era sentita così... così...
«Spiacevole?» disse ridendo breve Arvardan. «Definizione
piuttosto inadeguata».
«Avete spezzato un braccio ad un ufficiale dell'Impero nell'e-
sercizio delle sue funzioni».
«Quell'ufficiale mi ha colpito per primo. Non credo che nelle
sue funzioni rientri anche il dovere di insultare volgarmente e
percuotere i cittadini. Protesto a buon diritto per le inqualificabi-
li offese di cui sono stato oggetto».
A corto d'argomenti, il colonnello si limitò a schiarirsi la vo-
ce. Pola spalancava sui due uomini gli occhi colmi di indicibile
stupore.
«Inutile che vi dica» mormorò finalmente il colonnello
«quanto deplori l'increscioso incidente. Poiché credo che offese
verbali e materiali siano state distribuite con una certa equanimi-
tà, dall'una e dall'altra parte in causa, ritengo opportuno invitarvi
a dimenticare l'accaduto».
«Dimenticarlo?» protestò Arvardan. «Sono ospite del Procu-
ratore e non mancherò di fargli sapere in qual modo le sue guar-
nigioni mantengono l'ordine sulla Terra».
«Calmatevi, dottore... Vi farò esprimere pubbliche scuse...»
«All'inferno le scuse! Che cosa intendete fare con la signori-
na Shekt?»
«Avreste un suggerimento da darmi?»
«Mettetela istantaneamente in libertà, dopo averle restituito i
documenti e dopo aver presentato le scuse di cui parlavate, a
lei!»
Arrossendo, il colonnello mormorò faticosamente: «Natural-
mente... Vuole la signorina accettare le nostre più profonde scu-
se?»

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/111


Avevano le mura oscure della caserma alle loro spalle. Un
volo di dieci minuti in aerotaxi li aveva depositati al centro della
città. A mezzanotte passata, si trovavano nel buio perimetro
dell'Istituto.
«Forse non me ne sono resa conto» diceva Pola. «Ma dovete
essere un personaggio assai importante, e mi meraviglio assai di
non avervi mai sentito nominare prima. Non ho mai visto gli
Stranieri trattare un Terricolo con tanta deferenza».
Benché assai riluttante, Arvardan si decise a dirle la verità.
«Non sono Terricolo, Pola. Sono un archeologo del Settore
Sirio».
La fanciulla volse verso di lui, di scatto, il visino sbiancato
dalla luna. «Ecco perché avete osato opporre resistenza ai solda-
ti imperiali. Eravate certo dell'impunità... Avrei dovuto capirlo
subito...» In atteggiamento di amarezza oltraggiata, la fanciulla
proseguì: «Vi domando umilmente perdono, Vostro Onore!
Ignorando il vostro alto stato, mi sono permessa qualche fami-
liarità con voi...»
«Pola!» esclamò Arvardan incollerito. «Che cosa vi prende,
ora? Che cosa importa se non sono un Terricolo? Possibile che
ciò basti a farmi apparire diverso da quanto ero cinque minuti or
sono, ai vostri occhi?»
«Avreste dovuto avvisarmi, Vostro Onore».
«Smettetela di chiamarmi in modo così ridicolo! Perché vi
comportate come tutti gli altri?»
«Quali altri, Eccellentissimo signore? Alludete forse ai bipedi
disgustosi che popolano questo rognoso pianeta? ...E vi sono an-
che debitrice di cento Crediti».
«Quand'è così» strepitò Arvardan con subita ferocia «sappia-
te che mi dovete ben di più di cento Crediti».
«È il solo debito che mi è consentito di pagarvi, mio Signore»
mormorò Pola dopo essersi morsicato il labbro inferiore.
«Il vostro indirizzo, prego...?»

112/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Palazzo di Stato!» gridò il giovane che già si allontanava. E
si confuse ben presto con le ombre della notte.

Shekt venne ad incontrare Pola sull'uscio del suo ufficio.


«È tornato» disse. «L'ha condotto qui un omino magro».
«Bene!» affermò la fanciulla con un nodo alla gola.
«Ha chiesto duecento Crediti e glieli ho dati».
«Doveva averne solo cento, ma non importa».
E sfiorando il padre, entrò nella stanza. «Non ti dico che
momenti ho passato» diceva il fisico. «Tutto il quartiere a rumo-
re... Non sono nemmeno uscito a domandare che cosa era capita-
to, per tema di danneggiarti».
«È andato tutto bene, babbo. Non è proprio successo niente...
Posso dormire qui, questa notte?»
Si sentiva spossata, ma non riuscì a prender sonno. Perché
qualcosa era pur successo alla piccola Pola... Aveva incontrato
un uomo che poi era risultato un Venuto di Fuori.
Ma sapeva dove abitava. Ne conosceva l'indirizzo.

X
COME SI INTERPRETANO CERTI EVENTI

I due Terricoli presentavano tra loro il più profondo dei con-


trasti: uno impersonava il potere più alto della Terra, l'altro ne
rappresentava la più grande realtà.
Infatti, il Grande Ministro era il più importante Terricolo del-
la Terra, era il capo riconosciuto del pianeta come sanciva un
preciso decreto dell'Imperatore di tutte le Galassie... salvo, inuti-
le dirlo, quanto stabilito dal Procuratore dell'Imperatore. Il Se-
gretario del Ministro invece, sembrava... nessuno... Lo si poteva
considerare tutt'al più un membro qualsiasi della Società degli
Anziani incaricato dal Grande Ministro, almeno da un punto di

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/113


vista teorico, di aver cura di certi particolari imprecisati; un im-
piegatuccio che si poteva licenziare, sempre da un punto di vista
teorico, anche sui due piedi.
Noto ovunque sulla Terra, il Gran Ministro era considerato
arbitro inappellabile in questioni di Costume. Lui e non altri sta-
biliva le esenzioni dalla legge dei Sessanta, lui e non altri giudi-
cava i colpevoli di infrazioni al rituale, di evasioni al raziona-
mento, al programma di produzione, di indebita invasione dei
terreni proibiti... E così via. Il suo Segretario, per contro, era
ignoto a tutti persino per nome: lo conoscevano bene i membri
della Società degli Anziani e, inutile dirlo, il Gran Ministro.
Poiché vantava rare doti d'eloquenza, era il Gran Ministro che
rivolgeva ai popoli lunghi discorsi nei quali fluivano a torrenti
sentimenti ed emotività d'altissimo potenziale. Portava lunghi i
bei capelli biondi, aveva l'atteggiamento di persona di sentimenti
delicati, patrizi. Il segretario, invece, con quel suo nasaccio toz-
zo e il volto arcigno preferiva i discorsi brevi che sostituiva, ap-
pena poteva, con un grugnito. Quando poteva farne a meno non
grugniva neppure... almeno in pubblico.
Inutile aggiungere a questo punto che il Gran Ministro aveva
tutta l'apparenza del potere, mentre il Segretario lo esercitava in
tutta realtà. Quando poi i due si incontravano tra le discrete pa-
reti dell'ufficio del Gran Ministro, tale circostanza era delle più
evidenti.
Quel giorno, infatti, il Gran Ministro era molto stizzito perché
non capiva niente e il Segretario se ne mostrava profondamente
indifferente.
«Vorrei proprio riuscire a trovare il filo conduttore» diceva il
Gran Ministro «esistente tra tutti questi rapporti che mi avete
scaraventato sulla tavola. Rapporti! Sempre rapporti! Non ho
tempo di leggere tutta quella roba».
«Appunto per questo» disse gelido il Segretario «mi avete as-
sunto. Spetta a me di leggerli, assimilarli, trasmetterli».
«Veniamo dunque al punto, Balkis. Il resto mi sembra di

114/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


scarsa importanza».
«Scarsa? Se Vostra Eccellenza non si affretta a dimostrare
maggiore acume, uno di questi giorni finirà per avere delle gros-
se sorprese... Esaminiamo dunque insieme questi rapporti e ve-
dremo se alla fine avrete ancora la faccia di giudicarli di scarsa
importanza. Cominceremo dal rapporto trasmessoci già sette
giorni fa dall'assistente di Shekt, rapporto che mi ha messo sulla
pista di...»
«Che pista?!»
Balkis sorrise breve, amaro. «Posso ricordare a Vostra Eccel-
lenza certi progetti, certe speranze che si nutrono in Terra da al-
cuni anni?»
«Zitto!» impose il Ministro rinunciando improvvisamente al
suo contegno di grande nobiltà. E non seppe neppure trattenersi
dal guardarsi attorno spaventato.
«Lasciate che ve lo dica, Eccellenza... Non sarà certo mo-
strandoci così apprensivi che riusciremo a qualcosa; fiducioso,
ecco come deve essere il nostro contegno... Ma torniamo ai pro-
getti a cui alludevo. Il Sinottificatore dello Shekt, opportuna-
mente impiegato, si dimostrerà un utilissimo giocattolo ai nostri
fini. Sin qui, almeno a quanto ci consta, è stato unicamente im-
piegato sperimentalmente e soltanto dietro nostre precise dispo-
sizioni. Lo Shekt, invece, ora si è permesso di sinottificare, in
barba ai nostri ordini, uno sconosciuto».
«Semplicissimo» opinò il Gran Ministro. «Si punisce seve-
ramente Shekt, si isola l'individuo sinottificato, e il problema è
risolto».
«Niente affatto. Troppo precipitosa, l'Eccellenza Vostra. Me
ne infischio che Shekt abbia disobbedito: è importantissimo sa-
pere per quale ragione l'ha fatto. Intorno all'episodio, gravitano
inoltre alcuni eventi, certe coincidenze che sono parte di tutta
una serie di fatti tutt'altro che casuali. Quel giorno, Shekt aveva
ricevuto la visita del Procuratore della Terra e con doverosa leal-
tà verso di noi ce ne dava comunicazione, mettendoci a giorno

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/115


degli argomenti trattati nel corso di quel colloquio; Ennius gli
aveva chiesto di poter impiegare il Sinottificatore in tutto l'Im-
pero, in cambio, se ben ricordo, di non so quali promesse di as-
sistenza alla Terra da parte del grazioso Imperatore».
«Già» disse il Gran Ministro.
«Non gongolate... Ricordate le promesse di aiuti alimentari
fatteci durante le carestie di cinque anni or sono? Eravamo privi
di Crediti Imperiali e non è partita una sola nave alla volta della
Terra! Poiché ritenuti radioattivamente infetti, non abbiamo po-
tuto offrire lo scambio di nostri manufatti. Ebbene... Ci hanno
mai regalato di che sfamarci come avevano promesso, i signori
Imperiali? Ci hanno mai concesso un prestito? Centomila morti
di fame, ci è costato, quello scherzetto. Ed ora fidatevi ancora
delle promesse degli Stranieri, se vi riesce.
«Ma questo non ha importanza. Ne ha invece l'apparente con-
tegno di fedeltà dimostrato da Shekt, il quale così credeva di al-
lontanarsi dal capo il nostro sospetto per un tradimento di cui
doveva invece macchiarsi quel giorno stesso...»
«Alludete forse a quell'esperimento eseguito senza autorizza-
zione?»
«Esattamente, Eccellenza. Chi è l'individuo sottoposto a trat-
tamento? Sulla scorta delle fotografie e delle immagini retiniche
che dobbiamo al collaboratore di Shekt siamo stati in grado di
fare ricerche dello sconosciuto presso l'Anagrafe del Pianeta: ma
non ne abbiamo trovata traccia. Si deve quindi concludere che
non si tratti di Terricolo ma di Venuto di Fuori. Siccome inoltre
la carta di identità non si può trasferire o falsificare perché basta
controllare l'immagine retinica di chi la presenta, Shekt doveva
sapere perfettamente con chi aveva a che fare. Possiamo quindi
concludere incontrovertibilmente che Shekt ha sottoposto al Si-
nottificatore un individuo che sapeva Venuto di Fuori. Per-
ché?...»
«La risposta vi sembrerà semplice, dolorosamente semplice...
Shekt non è persona troppo fidata: da giovane è stato Assimila-

116/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


zionista e ha osato perfino presentarsi alle elezioni di Washenn
come candidato di un movimento politico sostenitore di un at-
teggiamento conciliante nei confronti dell'Impero. Naturalmente,
non è stato eletto».
«Questo mi era ignoto» flautò il Gran Ministro. «Shekt è pe-
ricolosissimo, considerata la posizione che occupa».
«Shekt ha inventato il Sinottificatore» disse Balkis sorriden-
do bonario, tollerante «ed è il solo, fino a questo momento, che
ne conosca bene l'impiego. Lo tenevamo d'occhio anche prima e
d'ora in poi lo faremo sorvegliare ancora più strettamente. Un
traditore a noi noto come tale, può fare un monte di bene alla
nostra causa. Più di quanto possa farne un combattente leale.
«Ma torniamo ai fatti. Shekt, dicevamo, ha sinottificato uno
Venuto di Fuori. Perché? Il Sinottificatore non conosce che un
impiego: quello di esaltare le funzioni cerebrali dell'uomo. Per-
ché si è provveduto a ciò? Per una semplice ragione: è l'unico
sistema per superare in capacità le menti dei nostri scienziati già
sottoposti agli effetti del Sinottificatore! Cominciate a capire,
ora? L'Impero, non voglio andare più in là, intuisce, sospetta
quanto sta per accadere in Terra. E adesso venite a parlarmi di
questioni di scarsa importanza! Le ritenete ancora tali?» conclu-
se Balkis osservando la fronte madida di sudore del Gran Mini-
stro.
«I fatti sono altrettanti elementi staccati, alla rinfusa, che ri-
composti mostrano chiaramente una figura, un disegno chiaris-
simo. L'individuo Venuto di Fuori e sottoposto a trattamento ha
le sembianze dell'uomo qualunque, dell'individuo spregevole
addirittura. Ma quell'uomo può essere la migliore spia dell'Impe-
ro. Non c'è dubbio... Comunque abbiamo messo un agente alle
calcagna dello Straniero, che si cela dietro le generalità proba-
bilmente false di Schwartz, e non tarderemo a sapere di più. Ed
ora veniamo a quest'altro gruppo di rapporti».
«Quelli che si riferiscono a Bel Arvardan?» domandò il Gran
Ministro gettando un'occhiata sui documenti che si trovavano

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/117


sparsi sulla tavola.
«Quelli che si riferiscono al dottor Bel Arvardan», corresse il
Segretario. «È un eminente archeologo del valoroso Settore Si-
rio, i cui mondi sono popolati dai coraggiosi e cavallereschi fa-
natici che ben conosciamo». Pronunciate queste ultime parole
sibilando come un serpe, Balkis aggiunse: «Non importa... Co-
munque, quest'uomo dà luogo, a petto dello Schwartz, ad un
contrasto addirittura poetico, ad una stranissima controfigura...
Già... Perché Arvardan non solo non è uno sconosciuto, ma è
persona notissima, di chiara fama. Non solo si è guardato bene
dall'intrufolarsi clandestinamente sul nostro pianeta, ma vi è
giunto sull'ali d'una ondata clamorosa di pubblicità. E non è sta-
to l'oscuro assistente di laboratorio ad aprirci gli occhi sul conto
suo, bensì il Procuratore della Terra in persona».
«Pensate che questi elementi si ricolleghino tra loro?»
«Vostra Eccellenza... Non temo di errare dicendo che l'uno è
destinato ad offuscare con la propria la figura dell'altro. A meno
che, non si dimentichi che le classi dirigenti dell'Impero sono
maestre nell'intrigo, ci si sia voluti servire di due diversi sistemi
di mascheramento. Schwartz allora apparirà sulla scena a luci
spente, Arvardan invece investito da mille fasci di luce multico-
lore. Nell'uno e nell'altro caso si vuole una sola cosa: che noi
non si riesca a vederci chiaro... In sostanza, di che cosa ha volu-
to metterci sull'avviso il nostro bravo Ennius?»
«Se ben ricordo» mormorò il Gran Ministro passandosi ele-
gantemente l'unghia di un dito sulla punta del naso. «Ennius di-
ceva che Arvardan sarebbe a capo di una spedizione archeologi-
ca la quale, ottenuto l'alto consenso imperiale, si proporrebbe di
varcare i limiti delle Aree Proibite. A noi il compito di impedir-
glielo: Ennius frattanto provvederebbe a sostenere la nostra cau-
sa presso il Consiglio Imperiale... o qualcosa del genere».
«Dopo di che si ritiene che noi ci faremo premura di tenere
ben spalancati gli occhi su Arvardan. E perché? Unicamente al
fine di impedirgli di varcare i limiti delle Aree Tabù. In sostan-

118/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


za, ci troviamo di fronte ad un archeologo a capo di una spedi-
zione che giunge in Terra senza uomini, senza navi, senza appa-
recchi e materiale. Ci troviamo di fronte ad un uomo Venuto di
Fuori che invece di restarsene tranquillamente sull'Himalaia co-
me tutti i suoi simili farebbero, comincia a gironzolare per il
pianeta... ma fa subito tappa a Chica. Che cosa si fa per disto-
gliere la nostra attenzione da tutte queste circostanze sospette e
strane? Semplicissimo: ci dicono di vigilare intorno ad una cir-
costanza che non ha la menoma importanza.
«Non dimenticate, invece, Eccellenza, che Schwartz è stato
trattenuto per sei giorni all'Istituto di Ricerche Nucleari. E non
dimenticate che ad un certo momento è riuscito a fuggirne. Per-
ché? Semplicemente perché si sono improvvisamente dimentica-
ti di chiudere per bene l'uscio della sua stanzetta. Strana negli-
genza, stranissima dimenticanza... perché, sapete quando si è ve-
rificata la fuga dello Schwartz? Che coincidenza! Il giorno stes-
so in cui Arvardan ha messo piede a Chica...»
«Volete dunque dire che...» soffiò il Gran Ministro al colmo
dell'emozione.
«Voglio dire che Schwartz è un agente di Quelli di Fuori sul-
la Terra, che a Shekt fanno capo le fila dei traditori Assimilazio-
nisti che si annidano tra di noi, che Arvardan è venuto apposi-
tamente dall'Impero per prender contatti con gli altri due. Si os-
servi con quale abilità è stato organizzato l'episodio che doveva
mettere Schwartz a contatto di Arvardan. Lasciato tranquilla-
mente fuggire lo Schwartz, dopo un prestabilito lasso di tempo,
una infermiera, non a caso la figliola di Shekt in persona, si met-
te alle sue calcagna. Tutto calcolato: se le cose si mettevano ma-
le, appunto perché i tempi erano stati stabiliti alla frazione di se-
condo, l'infermiera, è ovvio, si sarebbe subito imbattuta con il
fuggiasco. Quest'ultimo allora, lo si sarebbe gabellato per un po-
vero demente fuggito da un ospedale a beneficio della curiosità
degli astanti, e ricondotto all'Istituto avrebbe atteso tranquilla-
mente che si presentasse nuovamente un'occasione favorevole.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/119


Manco a farlo apposta, due taxisti troppo curiosi si interessano
dello Schwartz ed apprendono che il "poveretto" è un malato:
l'espediente tuttavia si ritorce contro coloro che l'hanno ideato.
«Seguitemi attentamente, ora... Per non dar nell'occhio Sch-
wartz e Arvardan si incontrano in un Cibomatico e fingono di
ignorarsi a vicenda: è il classico incontro preliminare, inteso
unicamente a renderli edotti del fatto che, sino a quel momento,
tutto si è svolto tranquillamente, che si può dunque procedere...
Ciò dimostra se non altro che gli avversari non ci sottovalutano,
della qual cosa altamente mi compiaccio.
«Poi Schwartz se ne va. Arvardan lo segue qualche minuto
dopo e si incontra con la figlia di Shekt. Tutto, ripeto, calcolato
alla frazione di minuto secondo. I due, recitata una commediola
per soddisfare la legittima curiosità dei due conducenti d'aero-
taxi, si dirigono ai grandi magazzini Dunhan e si uniscono allo
Schwartz: il terzetto è al completo. E per l'incontro si sono scelti
un posto ideale: nemmeno una caverna nascosta tra i monti po-
teva assicurare loro tanta discrezione. Infatti i grandi magazzini
sono troppo frequentati perché si possano giudicare luoghi "so-
spetti", c'è troppa gente perché ci si possa far notare. Fantastici, i
nostri avversari. Veramente abili. Di ciò faccio loro volentieri
credito. »
« Ma sono già battuti in partenza. E di ciò dobbiamo esser
grati a Natter».
«Un agente finora insignificante, e che dobbiamo invece
sfruttare in tutte le sue magnifiche possibilità. Ieri si è comporta-
to in modo superiore ad ogni elogio. Gli avevamo dato il generi-
co incarico di vigilare su Shekt, e Natter, per assolvere il suo
compito, s'era piantato davanti all'ingresso dell'Istituto con un
carrettino d'ortofrutticoli. Nel corso della settimana passata, tut-
tavia, era stato incaricato di seguire da vicino la faccenda dello
Schwartz.
«Ecco perché non ha perso tempo a mettersi alle calcagna di
quest'ultimo non appena l'ha veduto fuggire dall'Istituto. Munito

120/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


di fotografie e di descrizioni precise, ha subito riconosciuto il
fuggiasco, l'ha seguito, osservando con somma attenzione ogni
particolare, come risulta dal suo particolareggiato ed esauriente
rapporto sugli eventi di ieri sera. Con intuizione sbalorditiva,
Natter capisce subito che lo Schwartz è "fuggito" al solo scopo
di incontrarsi con Arvardan. Si rende conto che operando da so-
lo non potrà trar profitto in alcun modo dell'oggetto di tale con-
vegno e decide seduta stante di impedire che esso si realizzi.
Sulla scorta delle informazioni fornite loro dalla Shekt, i due ae-
ro-taxisti fantasticano che Schwartz sia affetto da Febbri da Ra-
diazioni. Natter ne approfitta con tempestiva genialità e non ap-
pena vede i tre congiungersi ai grandi magazzini getta l'allarme
tra le autorità di Chica, le quali, sia ringraziata la Terra, una vol-
ta tanto non tardano ad intervenire.
«Provocata la forzosa evacuazione dei magazzini, i piani dei
tre si risolvono in uno scacco: soli, spiccano paurosamente nel
deserto di quei locali. E debbono persino fare i conti con Natter
che si avvicina loro offrendosi di ricondurre lo Schwartz all'Isti-
tuto. Arvardan e la ragazza non posson far altro che accettare:
Schwartz ed Arvardan non riescono nemmeno a scambiarsi una
parola!
«Natter, inoltre, si guarda bene dal mettere le manette a Sch-
wartz; così i due ignorano d'essere stati scoperti e ci porteranno
immancabilmente alle radici del complotto di cui fanno parte.
«Né il nostro Natter si è fermato a così poco: getta l'allarme
anche tra la guarnigione Imperiale della qual cosa non so come
lodarlo. Ciò facendo infatti, Natter mette Arvardan di fronte ad
una situazione assolutamente imprevista: Arvardan sarà costret-
to a rivelarsi per un Venuto di Fuori, precludendosi così ogni ul-
teriore possibilità di comportarsi come Terricolo in Terra, con-
tegno a quanto sembra indispensabile ai suoi fini, oppure dovrà
mantener nascosto l'esser suo esponendosi ad ogni e qualsiasi
sgradevole esperienza. Arvardan sceglie la parte dell'eroe e si
spinge al punto di spezzare un braccio ad un ufficiale dell'Impe-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/121


ro: a tanto lo conduce la sua passione per il realismo. E questo è
un punto a suo favore.
«Non ci sfugga l'importanza di quel suo comportamento. È
assai significativa: perché rischiare di esporsi agli effetti perni-
ciosi della Pistola Neuronica? Per amore di una ragazza ter-
ricola qualsiasi? Nossignore! Per qualche cosa di assai più im-
portante. È evidente».
Il Gran Ministro calò rumorosamente i pugni sulla tavola.
Con gli occhi iniettati di sangue, il volto contratto dall'ira disse
con voce strozzata: «Bravissimo, Balkis... Siete stato veramente
grande a ricostruire un quadro tanto preciso degli avvenimenti
sulla sola scorta di poche informazioni apparentemente prive di
legame. Bravo. È proprio come dite voi: logicamente non si può
giungere a conclusioni diverse... Ma questa volta ci sono già ad-
dosso, Balkis... E non avranno pietà, questa volta».
«Non è possibile» disse Balkis facendo spallucce. «Se fosse-
ro già consci della terribile distruzione che li minaccia i signori
dell'Impero a quest'ora ci avrebbero colpiti... Ed hanno le ore
contate. Per far qualcosa, Arvardan deve prima riuscire ad ab-
boccarsi con lo Schwartz e vi dirò quel che faremo a tal proposi-
to».
«Dite! Sentiamo!»
«Bisogna allontanare Schwartz, bisogna far sì che si senta
tranquillo, sicuro».
«In che modo? Dove intendete mandarlo?»
«Ho già pensato anche a questo. A suo tempo, Schwartz è
stato condotto all'istituto da un tizio di cui sapevamo soltanto
che doveva essere un agricoltore, come si poteva dedurre dalle
descrizioni che ce ne hanno fornito sia Natter, sia l'assistente di
Shekt. Esperite opportune indagini, Natter ha identificato quello
sconosciuto per certo Arbin Maren. A risultati identici è giunto
anche l'assistente, che operava indipendentemente da Natter.
Arbin Maren, così ci risulta, mantiene clandestinamente il suo-
cero, invalido, in evasione alla legge dei Sessanta.

122/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Non poteva trovarsi di meglio per Shekt ed i suoi amici di
Fuori nel caso in cui si fosse presentata la necessità di nasconde-
re Schwartz in un posticino tranquillo, meno pericoloso dell'Isti-
tuto. L'agricoltore era quel che ci voleva, sciocco e incapace
com'è ed all'oscuro di tutto, con tutta probabilità. Lo terremo
d'occhio. E Schwartz non farà un passo senza avere qualcuno al-
le calcagna... Quando dovrà incontrarsi con Arvardan non ci co-
glierà impreparati. Capito tutto, ora?»
«Perfettamente».
«Sia lodata la Terra! Finalmente posso andarmene a sbrigare
le. mie faccende... col vostro permesso, s'intende!» concluse con
un sorrisetto di scherno.
E il Gran Ministro, completamente ignaro di tanto sarcasmo,
agitò una mano in segno di congedo.

Mentre si dirigeva verso il suo modesto ufficio, il Segretario


era solo. E quand'era solo i suoi pensieri gli prendevano la ma-
no, si agitavano indisciplinati in fondo al suo cervello.
Quei pensieri non si abbassavano a considerare l'armeggiare
di un dottor Shekt qualsiasi. Non volevano saperne di Schwartz,
d'Arvardan... Tanto meno del Gran Ministro.
Balkis vedeva davanti agli occhi della fantasia l'immagine del
pianeta Trantor... dalla capitale del quale, una metropoli che oc-
cupava quasi tutto il pianeta, l'Imperatore comandava tutta la
Galassia. Non faceva che pensare a questo, Balkis: il potere che
si poteva soltanto attribuire ad una divinità era concentrato nelle
mani di un uomo. Un uomo come tutti gli altri.
Un essere umano qualsiasi! Come lui!
Un giorno, non lontano, chissà che...

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/123


XI
SI CAMBIA UNA MENTE

L'inizio di quel mutamento era cosa vaga nella mente di


Schwartz. Spesso nel profondo silenzio della notte, Schwartz
riusciva a risalire a quei momenti. E avrebbe dato la vita per po-
ter sapere con certezza: "Ecco... è stato proprio in quell'istante,
che tu..."
Dapprima, c'era stato il giorno lontanissimo di terrore e d'an-
goscia. Il giorno in cui s'era sentito solo in un mondo estraneo...
Poi, il viaggio a Chica, il suo strano epilogo. A questo epilogo
tornava spesso col pensiero.
C'era stata una macchina, gli sembrava. E poi gli avevano
somministrato alcune pillole. I lunghi giorni di convalescenza e
poi la fuga; il vagare per le strade, gli eventi incomprensibili
protrattisi per quelle che gli erano sembrate ore interminabili nei
locali di quei grandi magazzini. Naturalmente, di quegli episodi
non poteva serbare chiaro ricordo. Tuttavia, a capo di due mesi
da quel giorno, il poco che rammentava era rimasto nella sua
memoria per intero. senza la minima inesattezza.
Comunque, aveva cominciato ad avvertire qualcosa di strano
fin da allora. Aveva cominciato ad essere sensibile all'atmosfera,
tanto da "sentire" l'inquietudine, il timore addirittura di cui sof-
frivano quel vecchio dottore e la sua figliola. Possibile che ne
fosse effettivamente stato conscio? O così credeva ancora sulla
scorta di fuggevoli impressioni, ribadite poi nel pensiero nel ten-
tativo di ricordare?
Eppure... Quando quel giovanottone aveva allungato un brac-
cio per afferrarlo... proprio un istante prima che lo facesse...
Schwartz era stato conscio di essere sul punto di venire cattura-
to. L'allarme non gli era giunto in tempo da consentirgli di sot-
trarsi a quella cattura. Ma costituiva la prova migliore del fatto
che un cambiamento, in lui, c'era già stato.

124/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


E dopo erano cominciate le emicranie. No. Non erano stati
veri e propri dolori al capo. Pulsazioni, piuttosto. Come quelle di
una dinamo che si fosse messa a vibrargli nel cervello scuoten-
dogli la scatola cranica in modo insopportabile. Ammesso che le
sue fantasie a proposito di Chicago avessero mai trovato riscon-
tro in quella od in altra realtà, ai tempi di quella Chicago, appun-
to, Schwartz non aveva mai conosciuto niente di simile. Nean-
che nel corso dei primi giorni vissuti in questa realtà.
Che cosa gli avevano fatto, quel giorno, a Chica? Colpa della
macchina? O erano state le pillole? Le pillole... dovevano avere
avuto un'azione anestetica! Oh, ma... Allora l'avevano sottoposto
ad un intervento... E giunto a questo punto, il suo pensiero, co-
me già in mille occasioni diverse, si fermava incapace di proce-
dere.
Chica l'aveva lasciata il giorno seguente la sua fuga. E poi il
tempo aveva cominciato a trascorrere tranquillamente.
C'era stato Grew seduto sulla sua carrozzina da invalido, che
gli mostrava a dito le cose ripetendo parole strane. Talvolta ri-
correva ai gesti, Grew; come aveva fatto quella ragazza... Pola!
Già... Sino a che era venuto il giorno che Grew l'aveva piantata
di farfugliare come un insensato e s'era messo a parlare inglese.
Per meglio dire... era stato lui, proprio lui, Joseph Schwartz, che
smesso di parlare inglese aveva preso a farfugliare come un paz-
zo. Soltanto che... quel farfugliare aveva finalmente acquistato
un vero significato.
Facilissima, quella lingua. In quattro giorni aveva imparato a
leggerla. Una cosa sorprendente, era stata. Sì. D'accordo. Anche
a Chicago aveva sempre vantato una memoria fantastica... Così
gli sembrava, almeno... Ma nemmeno a Chicago era stato capace
di imprese simili. Grew invece non se n'era neanche meraviglia-
to.
Anche Schwartz aveva cessato di stupirsene.
Poi, quando l'autunno s'era rivestito tutto d'oro, le cose eran
tornate a sembrargli chiare. E lui era uscito a lavorare nei campi.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/125


Aveva imparato a farlo con una rapidità stupefacente. Era lì che
aveva ricominciato a stupirsi: non sbagliava mai. Dopo una sem-
plice spiegazione, era stato capace di operare con macchine
complicatissime, con motori che aveva veduto per la prima volta
in vita sua.
E aveva aspettato l'arrivo dell'inverno invano. L'avevano tra-
scorso a ripulire i seminati, a fertilizzarli, a prepararli in mille
modi per le colture primaverili.
E ne aveva chiesto a Grew cercando di fargli capire che cosa
fosse la neve. Ma il vecchio s'era limitato a guardarlo stupito,
dicendo: «Acqua gelata che vien giù come la pioggia? Capisco.
Si chiama neve quella roba. Ne cade sugli altri pianeti, dicono.
In Terra non s'è mai veduta».
E da quel giorno Schwartz aveva tenuto d'occhio la tempera-
tura: benché questa non subisse variazioni di sorta, le giornate si
accorciavano come succedeva nelle regioni nordiche. Come
succedeva in città settentrionali come Chicago, poniamo. E co-
minciò a dubitare seriamente di trovarsi ancora sulla Terra.-
Alla lettura dei libro-film di Grew rinunciò al primo tentati-
vo: gli uomini erano rimasti quelli di sempre, in quei racconti;
ma i particolari della loro vita di tutti i giorni, le piccole nozioni
che gli autori davano per risapute, le allusioni storiche e sociali
non avevano significato alcuno per il povero Schwartz che se ne
sentì assai scoraggiato.
E non erano finite le sorprese: piogge che cadevano peren-
nemente tepide, concitate diffide a non avvicinarsi a determinate
zone. Come la sera, per dirne una, che la foschia luminosa
dell'orizzonte aveva finito per accendergli in petto una curiosità
irresistibile. Che cos'era quell'aurora boreale azzurrina che tin-
geva i cieli notturni?
Dopo cena era sgattaiolato fuori alla chetichella. Ma non
aveva ancora coperto un miglio di strada che aveva sentito alle
spalle il ronzio del veicolo a due ruote di Arbin il cui richiamo
vibrante di collera aveva spezzato la calma della sera. Fermatosi,

126/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


s'era lasciato ricondurre a casa.
Passeggiandogli nervosamente davanti, Arbin gli aveva detto:
«Dovete stare alla larga da tutti i posti che brillano di notte,
possibile che non sappiate che cosa c'è in quei luoghi, Sch-
wartz?»
E Schwartz aveva allargato le braccia con aria interrogativa,
smarrita. Arbin se n'era andato facendo spallucce.
L'episodio di quella sera, aveva avuto per Schwartz un'impor-
tanza enorme: quella sera, mentre copriva il breve miglio che lo
separava dalla luminescenza azzurra, quel "qualcosa di strano"
che aveva avvertito in seno alla mente s'era sviluppato in ciò che
ormai chiamava "Contatto Mentale". Non sapeva descrivere il
fenomeno con precisione. Non seppe farlo mai.
S'era trovato finalmente solo nell'ultimo tramonto color por-
pora cupo, lungo la carrozzabile elastica, deserta, quando c'era
stato un contatto, in un certo senso. Ma non un contatto fisico.
Un contatto psichico, piuttosto... una sensazione simile a quella
che provi se ti vellicano con una piuma.
E poi i contatti erano diventati due... diversi, distinti l'uno
dall'altro. Sino a che il secondo (ma come aveva mai fatto a di-
stinguerli l'uno dall'altro?!) era diventato il più forte, il più di-
stinto e definito.
E aveva capito che si trattava di Arbin, almeno dieci minuti
prima di posare gli occhi su di lui, di vederselo davanti.
Dopo di che il fenomeno s'era ripetuto un'infinità di volte,
con frequenza sempre maggiore.
Allora aveva intuito: era in grado di avvertirne la presenza,
tutte le volte che Arbin o Loa o Grew si trovavano nel raggio di
una cinquantina di metri dal punto in cui si trovava lui. Gli riuscì
difficile convincersene; eppure il fenomeno finì per sembrargli
naturalissimo.
Si mise alla prova. Costatò che lui era sempre in grado di sa-
pere dove si trovavano esattamente gli altri tre in quel determi-
nato momento. Tutte le volte che voleva. E poteva anche distin-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/127


guerli l'uno dall'altro perché ogni Contatto Mentale era caratteri-
stico. Variava da persona a persona. Ma non ebbe mai il corag-
gio per parlarne agli altri.
Qualche volta gli capitava di chiedersi quale era stata la fonte
del primo Contatto Mentale avvertito lungo il cammino verso la
Luminescenza. Non era stato quello di Arbin. Nemmeno quello
di Grew. Nemmeno quello di Loa. Chi allora? Tuttavia... Poteva
avere molta importanza, l'episodio?
Ne avrebbe avuta più tardi. Quando aveva avvertito quel
Contatto una sera che riconduceva alle stalle il bestiame. In
quell'occasione si era rivolto ad Arbin per chiedergli:
«Che cos'è quella specie di bosco oltre South Hill?»
«Niente. Terreno Ministeriale. Appartiene al Gran Ministro».
«Perché non lo coltivano?»
«Non si può» disse Arbin con la reverenza nella voce. «In
quel posto, una volta c'era un gran Centro. Migliaia di anni fa. È
sacro quel terreno. Non si può toccare. E sia bene inteso, Sch-
wartz: se volete continuare a rimanere qui, dovete cercare di
mettere un freno alla vostra curiosità».
«Insomma quei luoghi sono disabitati, appunto perché sono
ritenuti sacri...»
«Non varcate i limiti di quella zona perché sarebbe la fine per
voi».
«State tranquillo. Me ne guarderò». Schwartz se n'era andato
macerato dai dubbi, stranamente a disagio. Era di lì che veniva
quel famoso Contatto Mentale. Un contatto straordinariamente
potente, caratterizzatosi, di recente, per l'aggiunta di un paio di
sensazioni supplementari. Inutile negarlo: il Tocco era ostile.
Minaccioso addirittura.
Ma perché? Perché?
Anche questa volta, Schwartz non aveva osato parlarne. Non
solo non gli avrebbero prestato fede: poteva anche capitargli di
peggio. Sapeva anche questo. E cominciava a temere di saper
troppe cose.

128/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Tra l'altro gli sembrava di essere ringiovanito. Non tanto da
un punto di vista fisico, naturalmente. Era dimagrato dalle parti
dello stomaco, è vero, e gli si erano allargate le spalle. Più soda,
la muscolatura gli si era fatta anche più elastica. Ed era naturale,
dato il gran lavoro fisico all'aria aperta. Era stato il suo modo di
pensare ad attrarre soprattutto la sua attenzione: aveva recupera-
to i doni della giovinezza, e non è possibile descrivere la gioia
che provò nel costatare ch'era ancora capace di capire le cose di
colpo. Che immensa emozione, provava quando, nel seguire le
lente spiegazioni di Arbin, ad un certo momento cominciava a
precederle mentalmente, giungendo un pezzo prima di lui alla
logica conclusione!
E non passarono due mesi che comprese perfettamente... Fu
nel corso di una partita a scacchi: una partita giocata con Grew
all'ombra del frutteto.
Per ragioni ignote, il gioco degli scacchi era rimasto quello di
prima. Di cambiato c'erano soltanto i nomi dei pezzi.
All'inizio, Schwartz conosceva appena appena le mosse dei
diversi "pezzi". E le prime partite, naturalmente, le aveva rego-
larmente perdute. Si era ben presto agguerrito. E le sconfitte
erano divenute sempre più rare. Pian pianino, Grew s'era visto
costretto ad un gioco più attento, più circospetto. Ad un certo
momento, prima di fare la sua mossa aveva dovuto riflettere a
lungo: quanto era bastato a trasformare in cenere una carica di
tabacco nella pipa, a volte. E poi... violente, rabbiose proteste,
lamentele a non finire quando Schwartz aveva cominciato a mat-
tarlo regolarmente.
Grew aveva il Bianco e una pedina a Re 4.
«Avanti» esortò acido. E, premuti i denti sul bocchino della
pipa, cominciò a spiare la scacchiera, tutto intento.
Sospirando all'ultime luci del tramonto, Schwartz prese posto
di fronte all'avversario. Avvertiva sempre più il genere delle
mosse che Grew si accingeva a fare e il gioco andava sempre
maggiormente perdendo di interesse, per lui. Era come se a

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/129


Grew si fossero spalancate un paio di finestrelle nel cervello.
Senza contare che gli bastava un'occhiata alla scacchiera per de-
cidere quasi per istinto quali mosse doveva fare in armonia con
la strategia subito adottata. Un bel fenomeno anche quello, pur-
troppo...
Poiché giocavano al buio, due si servivano della solita scac-
chiera "da notte" dai quadrati che si vedevano luccicare di color
arancione ed azzurro cupo nel buio. Figurine quasi informi, ros-
sicce alla luce del giorno, la notte le pedine subivano una fanta-
stica metamorfosi: una metà era bagnata di fluorescenza di color
bianco, di crema, sì da sembrar fredda porcellana, le altre ema-
navano faville di colore rosso.
Le prime mosse furono rapide. Il Re di Schwartz avanzò per
parare l'avanzata che si profilava tra le file nemiche. E Grew
spostò il suo Cavallo a Re su Alfiere 3, al che Schwartz rispose
con Cavallo a Regina su Alfiere 3.
Sembrava quasi che le pedine luminescenti si muovessero
sulla scacchiera animate da sovrannaturale volontà: le dita che le
reggevano e spostavano non si vedevano infatti, nel buio.
E Schwartz aveva paura. Anche a costo di sembrar pazzo,
doveva sapere. D'acchito, domandò: «Dove sono?»
E Grew interruppe la sua mossa per chiedere: «Come?»
Schwartz non conosceva il vocabolo per indicare "stato" o
"nazione". Disse quindi: «Che mondo è mai questo?» e mosse il
suo Alfiere.
«Terra» rispose breve Grew. E con grande gesticolare, mise
la propria Torre vicino al Re, sorpassando poi quest'ultimo
dall'altra parte della Torre.
Risposta che diceva poco, quella.
Mentalmente, Schwartz tradusse il vocabolo impiegato da
Grew con l'inglese "Terra". Ma che cosa voleva dire Terra, in
sostanza? Chiunque può definire "Terra" il pianeta che abita.
Avanzò di due quadretti il Cavallo a Regina costringendo l'Al-
fiere di Grew a ritirarsi: questa volta su Cavallo 3. Poi, ciascuno

130/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


a suo turno, Grew e Schwartz avanzarono con la Regina di un
quadretto liberando al centro lo spazio necessario al duello che i
rispettivi Alfieri avrebbero dovuto cominciare tra poco.
Calmo, in tono quanto più poteva discorsivo, Schwartz do-
mandò: «In che anno siamo?». E spostata la Torre accanto al Re
mise quest'ultimo al di là della Torre stessa.
Grew s'immobilizzò. «Si può sapere che cosa vi ha preso,
quest'oggi?» domandò poi. «Se non avete voglia di giocare dite-
lo. Ma se proprio lo volete sapere siamo nell'827» e con grande
sarcasmo aggiunse: «E.G.». Poi fissò la scacchiera e sbatté con
gran fracasso il suo Cavallo a Regina su Regina 5, dando così
inizio al suo primo assalto.
Schwartz non fece attendere il suo contrattacco: Cavallo a
Regina su Torre 4. Ormai la battaglia si faceva seria. Il Cavallo
di Grew si impossessò dell'Alfiere rosso che tracciato un arco di

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/131


fuoco fini nella scatoletta dei pezzi, vinto guerriero da riscattarsi
ormai soltanto all'inizio della prossima partita.
Approfittando della nuova pausa, Schwartz domandò timi-
damente: «Che cosa vuoi dire E. G.?»
«Come?» domandò Grew di pessimo umore. «Che?! State
ancora chiedendovi in che anno siamo? Ma si può essere più
sce... Be'... Abbiate pazienza, ma mi dimentico che avete impa-
rato a parlare appena un mese fa... Possibile che non lo sappiate?
Siete tanto intelligente! Questo è l'anno 827 dell'Era Galassica.
E.G... Capito? Sono cioè trascorsi 827 anni dalla fondazione
dell'Impero Galattico. 827 anni dal giorno che s'incoronò Impe-
ratore Frankenn l". E adesso, se non vi spiace, attendo la vostra
mossa!»
Ma cedendo a un'ondata di profonda delusione, Schwartz
strinse nel palmo della mano, spegnendolo, il suo povero Alfie-
re. «Un momento solo» implorò. Poi mise l'Alfiere su Regina 2
e volle sapere: «Vi dicono niente i nomi di America, Asia, Stati
Uniti, Russia, Europa?...». Non ne poteva più: doveva finalmen-
te orientarsi, fare il punto.
Nell'oscurità, si vedeva rosseggiare la pipa di Grew, che cur-
vatosi sulla scacchiera luminosa, era figura ancora più indistinta
nella notte. Che avesse scosso il capo in cenno di diniego? Sch-
wartz non poteva vederlo. Ma senti il "no" dell'altro riecheg-
giargli nel cervello assai più chiaramente che se Grew l'avesse
espresso verbalmente.
«Sapreste dirmi dove potrei comperarmi un atlante?» tentò
disperato Schwartz.
«Non ce ne sono» grugnì Grew. «Se volete, chiedetene a
Chica. Ma rischiereste la testa. Non sono forte in geografia, pur-
troppo. Comunque posso dirvi che non ho mai inteso i nomi che
avete pronunciato. A chi si riferiscono? Persone forse?»
Rischiare la testa? Ma perché? Schwartz sentiva la paura in-
gigantirglisi nel petto. Aveva forse commesso un crimine e
Grew l'aveva scoperto?

132/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Non ha nove pianeti il sole?» domandò dubbioso.
«Dieci» corresse l'altro, con estrema sicurezza.
Schwartz esitava. Poteva darsi, comunque, che nel frattempo
ne avessero scoperto un altro, un decimo pianeta del quale lui
non aveva ancora sentito parlare. Contò sulle dita, e disse: «De-
gli anelli il sesto pianeta?». Ma Grew spostò di due posizioni
l'Alfiere a Re, mossa alla quale Schwartz rispose in egual modo.
«Saturno?» domandò Grew. «Ha degli anelli, naturalmente.
Lo sanno tutti» concluse pensoso: poteva prendere l'Alfiere o il
Re, ma non era sicuro delle conseguenze di quella mossa.
«Tra Marte e Giove... c'è un agglomerato di asteroidi... dei
pianetini...? Tra il quarto ed il quinto pianeta, insomma...?»
«Sì» grufolò Grew. E mentre si dava da fare a riaccendere la
pipa metteva il cervello a dura prova. Schwartz ebbe sentore,
captò anzi, quell'incertezza e se ne senti infastidito. Ormai sicuro
di trovarsi sulla Terra, la partita a scacchi non gli importava
proprio più niente. E tra il caotico accavallarglisi di domande al
la superficie del cervello, fini per trapelargliene fuori una: «Rac-
contano dunque la verità, i vostri libri-film? Esistono effettiva-
mente molti altri pianeti abitati?».
E questa volta, Grew levò il capo dalla scacchiera per guarda-
re l'altro come se non credesse alle proprie orecchie:
«Per la Galassia! Dunque lo domandate seriamente! Non lo
sapete davvero?»
«Abbiate pazienza...» implorò Schwartz umiliato dalla pro-
pria ignoranza.
«Ebbene, sì. Ci sono. Milioni di mondi! Ne ha ogni stella che
vedete. Ne hanno la maggior parte di quelle che non riuscite a
vedere. E fanno tutti parte dell'Impero».
A misura che Grew le pronunciava, Schwartz si sentiva le pa-
role dell'altro riecheggiare debolmente nel cervello. Come se tra
la sua e la mente di Grew ci fosse stato un contatto diretto. Col
trascorrere dei giorni si sentiva irrobustire sempre maggiormente
la facoltà di stabilire il Contatto Mentale. Tra poco forse, si di-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/133


ceva, si sarebbe sentito risuonare nel cervello le parole, anche
quando gli altri non le pronunciavano.
E fu quella la prima volta che osò spiegare il suo stato menta-
le con un fenomeno che non fosse l'insania: che fosse scivolato
inconsciamente "nel" tempo?...
«È passato molto tempo da allora, Grew?» domandò con vo-
ce tremante. «Son passati molti anni da quando c'era un solo
pianeta abitato?»
«Che cosa volete, ora?» volle sapere l'altro sospettoso. «Siete
forse un membro della Società degli Anziani?»
«Come? Non sono membro di nessuna società, io. Ditemi
soltanto se non è vero che una volta la Terra era il solo pianeta
abi...»
«È quanto sostengono gli Anziani» gracchiò Grew di mala-
voglia. «Come si fa a saperlo? Sarà vero. È un fatto però che gli
altri mondi esistono dall'inizio della storia».
«E cioè?»
«Da migliaia di anni, naturalmente. Cinquanta, centomila...
Non so con precisione».
Migliaia di anni! Tutto quel tempo... tra un passo e l'altro? In
un respiro, un istante, in un batter d'occhio... aveva compiuto un
balzo di migliaia d'anni?! Meglio tornare a pensare di aver avuto
l'amnesia, dopo tutto.
Frattanto avevano continuato a giocare. Grew si accingeva a
fare la sua mossa: si "soffiava" l'Alfiere avversario e Schwartz
costatò mentalmente che l'altro aveva scelto male il suo gioco. E
una mossa seguì all'altra senza il minimo sforzo.
Prima di lanciarsi all'attacco definitivo, Schwartz si concesse
una breve sosta:
«È la Terra che comanda, vero?...»
«Che comanda?! Che cosa?»
«Be'... L'Imp...»
«Lo sapete che mi avete seccato abbastanza con tutte le vo-
stre domande?» strillò Grew incollerito facendo sussultare le

134/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


pedine della scacchiera. «Siete impazzito completamente? Vi
sembra proprio in grado di comandare qualcosa, la Terra? Guar-
date! Guardate un po' lì!» soffiava aspro Grew. «Lo vedete l'o-
rizzonte? Lo vedete come luccica? A questo s'è ridotta la Terra!
Tutta la Terra! Tranne qualche pezzetto come questo, qua e là».
«Non capisco».
«La crosta terrestre è radioattiva. Arde. Da sempre. E conti-
nuerà a bruciare per l'eternità. Non vi cresce niente. Non vi si
può vivere... Proprio non lo sapevate? Da che cosa traggono ori-
gine, secondo voi, i Sessanta?»
E qui il paralitico tacque. Fece nuovamente il giro della tavo-
la a bordo della carrozzina e tornato al suo posto annunciò:
«Tocca a voi».
I Sessanta! Perché quella parola si portava appresso la perce-
zione di qualcosa di minaccioso? Col cuore stretto d'angoscia
Schwartz riprese a giocare. E fu come se le pedine si muovesse-
ro per volontà propria sulla scacchiera.
Dopo parecchie mosse, con un sospiro di sollievo, si conces-
se un'altra pausa. Il suo valente avversario, ormai si vedeva mi-
nacciata la Torre, aveva sospesa sul capo la spada di Damocle
dello "scacco" mentre la sua Regina era in procinto di far giusta
vendetta. Ed era anche in vantaggio di una Torre contro una pe-
dina.
«Tocca a voi» disse soddisfatto.
Ma Schwartz non mosse.
«Che... Che cosa sono i Sessanta?» osò chiedere invece.
«Perché lo volete sapere? Che cosa vi salta in mente?» sibilò
Grew niente affatto amichevole. «State evadendo ai Sessanta,
voi?»
«Ma se non so nemmeno che cosa siano!»
Lo disse con accento di somma verità. E cadde fra i due un
lungo silenzio. A giudicare dall'atmosfera che circondava il con-
tatto mentale con Grew, Schwartz percepiva nei pensieri dell'al-
tro il concetto di "spaventoso": una sensazione comunque che

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/135


non gli riusciva di tradurre sul piano verbale.
«I Sessanta» mormorò infine Grew con la voce spenta «sono
appunto i nostri sessant'anni. La Terra non può sfamare più di
venti milioni d'individui e chi vuol vivere deve essere in grado
di produrre. Chi non produce non vive. E siccome dopo i Ses-
santa... non riesci più a produrre niente...»
«Vi... uccidono?!»
«Non si tratta di omicidio!» protestò Grew sostenuto. «Non si
può fare altrimenti! Poiché gli altri mondi si rifiutano di acco-
gliere i nostri emigranti, e si deve necessariamente lasciare il po-
sto alle generazioni che vengono dopo la nostra...»
«E non si può tenere nascosta la propria età?»
«C'è una Conta ogni dieci anni. Dimenticavo inoltre di dirvi
che c'è l'anagrafe...»
«I miei dati non li hanno di sicuro» scappò detto a Schwartz.
«E poi... ne compio cinquanta l'anno venturo».
«Non figurate iscritto all'anagrafe? È la stessa cosa: con una
radiografia ti leggono l'età dalla conformazione ossea. Non si
scappa. Alla prossima Conta, l'anno venturo ci casco diritto co-
me un fuso... Tocca a voi!»
«Volete dire che...»
«Purtroppo! Ne ho soltanto cinquantacinque, ma... Lo sapete
bene che gambe ho. Il nostro "Stato di Famiglia" parla di tre
componenti e le autorità hanno stabilito la nostra quota di pro-
duzione su quella base. Quando m'è venuto il colpo, dovevano
denunciarmi; soltanto, le autorità ci avrebbero ridotto la quota.
Ma Arbin e Loa non volevano che mi toccassero anzitempo i
Sessanta e... Ma sono stati due sciocchi perché l'anno venturo...
mi acchiappano in pieno ugualmente... Tocca a voi!»
«Un momento!» strillò Schwartz. «Ma li accoppano proprio
tutti, senza eccezioni, quelli che ne hanno sessanta?»
«Tutti quelli come noi, naturalmente. Le eccezioni ci sono: il
Gran Ministro, per esempio, vive tutti i suoi giorni. E così i
membri della Società degli Anziani. Anche gli scienziati, qual-

136/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


che volta. E quelli che si rendono meritevoli per aver compiuto
eccezionali imprese. Una dozzina di eccezioni in tutto, in un an-
no... Ne decide il Gran Ministro. E tocca muovere a voi!»
«È finita, la partita» disse Schwartz balzando in piedi. «Vinco
in cinque mosse: la mia Regina vi mangia la pedina e vi dà scac-
co, e voi dovete spostarvi su Cavallo 1. Col mio vi do scacco a
Re 2 e voi dovete spostarvi ad Alfiere 2. La mia Regina vi mi-
naccia a Re 6 è voi dovete muovervi a Cavallo 2. Allora porto la
Regina a Cavallo 6 e quando vi ho costretto a Torre 1, la mia
Regina vi "matta" a Torre 6... Sono un cannone!» concluse qua-
si senza accorgersene.
Grew rimase a studiare a lungo la scacchiera. Poi la scaraven-
tò lontano con un grido di furore. Le pedine fluorescenti si spar-
sero sull'erba.
«L'avete fatto apposta a distrarmi con tutte quelle ciarle!»
strillò fuori di sé.
Ma Schwartz non stava neppure a sentirlo. Sentiva soltanto
l'insopprimibile necessità di sfuggire alla legge dei Sessanta.
E Schwartz aveva sessantadue anni.
Sessantadue...

XII
IL CERVELLO CHE SAPEVA UCCIDERE

Schwartz giunse a prendere una decisione grazie alla metodi-


cità del suo processo mentale. Se voleva vivere, doveva lasciare
la fattoria. Rimanendovi, sarebbe incappato nella Conta e la
Conta equivaleva a morte.
Lasciare la fattoria, dunque. Ma dove rifugiarsi?
In quella specie di... ospedale, forse... a Chica? Era lì che si
eran già presi cura di lui, una volta. Perché l'avevan fatto? Per-
ché lui era stato un "caso" clinico: con la differenza che questa

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/137


volta sarebbe stato in grado di descrivere i sintomi che avverti-
va. E poi poteva raccontare le meraviglie del suo Contatto Men-
tale.
O il Contatto era comune anche agli altri? Ma no! Non l'ave-
va nessuno, che diamine! Né Arbin, né Loa, né Grew, i quali
dovevano vederlo, per sapere dove si trovava lui in un dato mo-
mento. E senza la sua straordinaria facoltà, come avrebbe fatto a
battere sistematicamente Grew agli scacchi?
Gli scacchi, inoltre, erano un gioco diffusissimo. Se gli uo-
mini fossero stati dotati di Contatto Mentale, nessuno avrebbe
più giocato agli scacchi. Sarebbe stato inutile.
La qual cosa voleva dire che lui, Schwartz, costituiva un fe-
nomeno psicologico. La vita del fenomeno, specialmente di un
"fenomeno" psicologico, non sarebbe stata troppo allegra, d'ac-
cordo... Meglio che dover morire, in ogni caso.
Né si poteva trascurare l'altra possibilità... E se invece di es-
sere semplicemente un infelice colpito da una strana forma di
amnesia, fosse stato invece un individuo scivolato in modo in-
spiegabile nel tempo? Be'... In questo caso non sarebbe stato
semplicemente un fenomeno dotato di Contatto Mentale: sareb-
be stato un uomo del passato! Un fenomeno storico, archeologi-
co. Una reliquia che non si poteva sopprimere.
Già... A patto che gli avessero creduto...
Ma quel medico non poteva non credergli. Quel medico sa-
peva che a Schwartz cresceva la barba... Fatto assai significativo
dal momento che Arbin e Grew non s'erano mai dovuti radere in
vita loro. Grew, anzi, una volta gli aveva detto che soltanto gli
animali erano villosi.
Inutile: Schwartz doveva andare da quel medico.
Come diavolo si chiamava?... Shekt, vero?... Proprio così... Si
chiamava Shekt.
Ma ne sapeva tanto poco di quell'orribile mondo! Andarsene
la notte, attraverso i campi non si poteva senza correre il rischio
di capitare in qualche posto sacro, misterioso, su qualche infer-

138/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


nale terreno radioattivo o... che altro! Così, facendo appello al
coraggio della disperazione, s'incamminò lungo la carrozzabile
di primo pomeriggio.
A casa, privi di Contatto Mentale, avrebbero avvertito la sua
assenza soltanto all'ora di cena. Quando, cioè, sarebbe già stato
molto lontano.
Nel corso della prima mezz'ora, Schwartz conobbe un senso
di viva gioia. Se non altro, finalmente aveva presa un'iniziativa;
tentava, quanto meno, di resistere all'ambiente: non era più la
fuga insensata di quella sera a Chica.
Niente male per un povero anziano. Avrebbe fatto vedere
lui...
E poi s'era dovuto fermare. In mezzo alla strada. D'un tratto.
Perché qualcosa di cui si era dimenticato, si era prepotentemente
imposto alla sua attenzione.
Già... Proprio quel Contatto Mentale strano. Quel Contatto
Mentale sconosciuto. Lo stesso di cui aveva avuto sentore la
prima volta, la sera in cui Arbin gli aveva impedito di arrivare là
dove l'orizzonte era luminescenza. Lo stesso dal quale s'era sen-
tito spiare nel transitare accanto a quei Terreni Ministeriali.
Se lo sentiva alle spalle, che lo spiava, e tese, in un certo sen-
so, le orecchie... Meglio, aggiustò le sue facoltà a captare quel
contatto, come si fa press'a poco, con l'udito in relazione ai suo-
ni, naturalmente. L'altra "trasmittente" non si avvicinava a lui.
Ma trasmetteva sulla sua lunghezza d'onda; quella di Schwartz.
E all'analisi dell'accento emotivo, quel Contatto Mentale risulta-
va molto attento, ostile, niente affatto esitante.
Sino a che cominciarono a chiarirsi anche altri particolari.
L'individuo che gli stava alle calcagna si proponeva fermamente
di non perderlo di vista. Ed era armato. Stava proprio doman-
dandosi se doveva ricorrere all'uso delle armi nel caso che Sch-
wartz l'avesse scoperto.
Schwartz era inerme, invece. Inerme e solo. Piuttosto che la-
sciarselo scappare, ormai Schwartz aveva captato anche questo,

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/139


lo sconosciuto l'avrebbe ucciso: Anticipando il prodursi di
quell'evento, la schiena di Schwartz si irrigidì come una tavola
di legno. Che sensazione si prova quando si crepa?... Com'è la
morte?... E quegli angosciosi interrogativi gli si ripresentavano
incessantemente sul ritmo dei passi, si intrufolavano senza posa
nei suoi pensieri, gli vellicavano l'inconscio sino a determinare
uno stato ansioso d'intensità insopportabile.
S'aggrappò alla "trasmittente" dell'altro come ad un'ancora di
salvezza. Così non avrebbe mancato di percepire l'aumento di
tensione che l'altro avrebbe dovuto impiegare per prenderlo di
mira con l'arma, premere il grilletto, chiudere il circuito. In
quell'istante, Schwartz si sarebbe gettato al suolo e poi sarebbe
fuggito... Ma perché agivano in quel modo? Perché, dato e con-
cesso che si trattasse dei Sessanta, non l'avevano già eliminato
da un pezzo? E la sua teoria relativa allo "scivolone" attraverso
il tempo cominciò a perdere consistenza dentro di lui... Schwartz
cominciò nuovamente a far l'amore con l'amnesia. Inutile... Do-
veva essere un criminale. Un individuo pericoloso da tenere
sempre sotto vigilanza. E l'amnesia era forse l'espediente cui era
ricorso il suo inconscio nell'intento di sottrarsi al confronto di
una colpa spaventosa.
Così, Schwartz procedeva lungo la carrozzabile deserta verso
l'ignoto, con la morte alle spalle.
Col sopraggiungere dell'oscurità, si era levato un vento appe-
na fresco. Come sempre, non riusciva a comprenderla, quella
stagione. Secondo i suoi calcoli si doveva essere a dicembre e
Schwartz trovava normale che il sole tramontasse alle quattro e
trenta. Ma il tepore di quel vento contrastava decisamente con
gli inverni rigidi delle regioni del Midwest.
Da un pezzo, ormai, Schwartz aveva compreso che la straor-
dinaria mitezza del clima di quel pianeta (La Terra?!) era dovuta
al fatto che il sole non era la sua unica fonte di calore: radioatti-
vo, anche il suolo emanava calore. Trascurabile se considerato
in relazione al decimetro quadrato, ingente se calcolato in ragio-

140/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


ne di milioni di chilometri quadrati.
Col cadere dell'oscurità, il Contatto Mentale dello sconosciu-
to si fece più vicino.
«Ehi, voi! Amico...!»
Al risuonare improvviso di quella voce nasale, acuta, Sch-
wartz si immobilizzò sussultando.
Lentamente, tutto d'un pezzo, si volse. L'ornino gli veniva in-
contro agitando amichevolmente una mano. Ma in quell'ora
buia, Schwartz non riuscì a discernerlo chiaramente. Gli si avvi-
cinava senza fretta e decise di aspettarlo.
«Oilà! Salve! Mi piace poco camminare solo lungo la strada
maestra. Vi spiace se mi accompagno a voi?»
«Salve» grugnì Schwartz per nulla entusiasta. Perché il Con-
tatto veniva proprio dall'omino. Era lui che l'aveva seguito. E ne
ricordava nebulosamente anche il volto: l'aveva già veduto a
Chica, quel giorno... Forse.
Sino a che l'inseguitore buttò le sue carte in tavola:
«Ehi! Ma io vi conosco! Sicuro!... Non mi riconoscete?»
L'avrebbe creduto sincero, in condizioni normali? In altra cir-
costanza? Difficile dirlo. In quegli istanti, tuttavia, non poteva
ignorare che dietro il fragile schermo di quel fittizio, casuale "ri-
conoscimento", il contatto mentale dell'omino gli trasmetteva, e
con quale intensità!, che era LUI l'individuo che lo teneva d'oc-
chio da chissà quanto tempo, che lo conosceva e spiava da sem-
pre, e se necessario, non avrebbe esitato a scaricargli addosso
l'arma.
Schwartz scosse il capo in segno di diniego.
«Possibile che non ricordiate?» protestò vivacemente lo sco-
nosciuto. «Ci siamo visti in quella sala dei grandi magazzini.
Quando vi ho sottratto a tutta quella canaglia. Vi credevano» e
qui l'omino finse vivissima ilarità «malato di Febbre da Radia-
zione. Ricordate ora?»
«Già» disse Schwartz. «Tanto piacere».
«Mi chiamo Natter» disse l'ometto, tendendo la destra.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/141


«Quella volta non s'è potuto nemmeno chiacchierare un poco.
Siamo stati travolti dagli eventi, in un certo senso... Vuol dire
che ne approfitteremo questa volta... Qua la mano».
«Schwartz...» e toccò brevemente la palma che gli veniva of-
ferta.
«A passeggio? Dove si va di bello?»
«A far quattro passi» mormorò Schwartz facendo spallucce.
«Camminatore, eh? Bravo! Anch'io! Sempre in giro a piedi
per il mondo, io... Camminare ti colma i polmoni d'aria pura...
Ti fa ribollire il sangue... Ma stasera mi sono allontanato più del
solito. E mi rende triste marciare solo, la notte. Sempre lieto di
avere una buona compagnia. Dove andate?»
Natter glielo chiedeva per la seconda volta, e il Tocco Menta-
le dell'omino fece comprendere a Schwartz che nella mente del
suo inseguitore c'era un'ansia di sapere, di indovinare... Non si
sarebbe accontentato di una menzogna.
«Sto andando all'ospedale» disse. «Quello dove sono andato
quella volta, a Chica».
«Volete dire... l'Istituto? Là dove vi ho condotto quella volta
che vi ho conosciuto ai grandi magazzini, insomma». E Sch-
wartz avvertiva nel cervello dell'altro grande ansietà, tensione
nervosa sempre maggiore.
«Vado dal dottor Shekt. Lo conoscete? Debbo presentarmi
per una visita di controllo, ogni tanto...»
«E andate a piedi?» obiettò Natter. «Possibile che il dottore
non vi mandi a prendere in automobile?» "Evidentemente" si
disse Schwartz "non ho risposto in modo convincente, ragione-
vole".
Silenzio... un silenzio pieno d'imbarazzo e di nervosismo.
«Sapete che si fa, vecchio mio?» propose Natter con disinvol-
ta baldanza. «Appena incontro una trasmittente pubblica faccio
venire un taxi da Chica: appuntamento..: lungo la strada!»
«Una trasmittente pubblica?»
«Sì. Ce ne sono ovunque lungo la carrozzabile. Ecco! Lì, per

142/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


esempio, ce n'è una». E si allontanò di un passo da Schwartz, il
quale, subitamente in preda a panico, gli impose: «Fermo! Non
muovetevi».
Natter obbedì. E si voltò con una strana espressione determi-
nata stampata in volto. «Si può sapere che cosa vi morde, ora?»
indagò.
«Basta con la commedia. So chi siete, so che cosa vi propo-
nete di fare. Volete avvertire qualcuno che sto per recarmi dal
dottor Shekt. I vostri accoliti ci manderanno incontro un'auto e
saranno poi ad attenderci all'arrivo. Se tentassi la fuga, sareste
pronto ad uccidermi. Lo so!»
Con la fronte aggrottata, Natter brontolò: «Quanto a questo...
potete esserne certo...». Ma l'aveva pensato soltanto. Tanto è ve-
ro che a Schwartz disse: «Avete preso un abbaglio, amico. E à
quanto sembra state facendovi gioco di me!» E si allontanò un
poco, portandosi la destra al fianco. Schwartz perse la testa. Agi-
tando le braccia in preda a collera furibonda urlò: «Lasciatemi in
pace! Che cosa vi ho fatto, io?... Andate via! Via!».
Terminò con un grido strozzato, stridulo, mentre l'odio, la
paura per l'individuo che gli stava di fronte con quel cervello
pieno d'ostilità, gli facevano contrarre i muscoli del viso. E la
piena del suo istinto di conservazione, sfociante in odio, si ab-
batté contro il Tocco Mentale dell'altro.
E il Contatto se ne andò. All'improvviso. Completamente. Per
un attimo Schwartz era stato conscio di una pena insopportabi-
le... non nel suo, ma nel cervello dell'altro... e poi... più nulla.
Finito il Tocco Mentale, se l'era sentito ricadere dalla mente,
piano come un pugno stanco di reggere la presa.
Ora Natter giaceva miseramente al suolo, macchia cupa sullo
sfondo della notte. Schwartz gli andò vicino. Vide che sul viso
dell'omino s'era stampata profondissima, indelebile, la maschera
d'un dolore immenso. Una maschera incavata che non accennava
a rilassarsi. Gli cercò il cuore: ma il cuore di Natter era fermo
per sempre.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/143


Schwartz si rizzò, sommerso da una ondata di orrore.
Aveva ucciso un uomo!
Poi... Un'ondata di sbalordimento...
L'aveva ucciso senza toccarlo! Aveva spento un uomo con
l'odio, colpendolo semplicemente nel Contatto Mentale.
Di quali altre cose era ancora capace?
Cominciò col decidere immediatamente di frugare le tasche
dell'altro. Vi trovò del danaro e lo tenne: gli sarebbe tornato uti-
le. Poi trascinò il cadavere in mezzo ad un prato lasciando all'er-
be altissime l'incarico di nasconderlo.
Continuò a camminare per due ore buone. E nessun altro
Contatto Mentale venne a disturbarlo.
La notte dormì tra i campi e il mattino seguente, dopo due ore
di marcia, giungeva ai sobborghi di Chica.

144/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


La città gli fece l'impressione d'un villaggio. Il movimento
della folla per le strade era nulla in confronto a quello che ricor-
dava della sua Chicago. Nondimeno, benché rade, scarse di fol-
la, le strade furono per lui piene di Tocchi Mentali, dapprima. E
il fenomeno lo imbarazzò vivamente, lo confuse e lo stupì.
Oh quanti! Dapprincipio, Schwartz si voltava sussultando
ogni qual volta un Contatto Mentale gli bussava al cervello, inte-
ressandosi ad ognuno, individualmente. Ma non passò un'ora, ed
aveva già appreso ad ignorare il fenomeno.
Ormai percepiva persino i vocaboli che non erano ancora stati
pronunciati. Era un fenomeno nuovo, che lo invogliò ad ascolta-
re. Ed udì... Strane, vaghe frasi senza legame, remote... E con le
frasi, sensazioni vivaci, cariche d'emotività e d'altro ancora che
non avrebbe saputo descrivere... Così che tutto il mondo gli si
presentò come un panorama fervente di vita, uno spettacolo che
soltanto lui sapeva vedere.
Avanzando lungo le vie, si accorse di aver la facoltà di pene-
trare oltre le mura delle case: vi introduceva la mente come se la
tenesse al guinzaglio, vi lasciava penetrare qualcosa capace di
intrufolarsi, invisibile a tutti, nei più riposti anditi, qualcosa che
poi tornava a lui coi pensieri più intimi degli esseri umani con i
quali era entrato in contatto.
Fini per fermarsi, pensoso, di fronte ad un gran palazzo dalla
immensa facciata di pietra. Chi? Non sapeva, ma... Gli stavano
alle calcagna. Ucciso il suo inseguitore, ora doveva fare i conti
con "gli altri"... Quelli che Natter s'era proposto di chiamare. Per
qualche giorno, sarebbe stato consigliabile stare al coperto. Ma
come?... Facendosi assumere da qualche parte? "Analizzò" l'edi-
ficio che gli sorgeva di fronte. Vi percepì un remoto Contatto
Mentale che poteva significare "assunzione". Là dentro si cerca-
vano artigiani del settore "abbigliamento" e lui, un tempo, aveva
fatto il sarto.
Entrò, dunque, e fu subito ignorato da tutti quanti. Batté la
spalla di un uomo per chiedergli: «Dove debbo presentarmi per

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/145


un impiego, per favore?»
«Entrate là dentro» gli fu risposto. E il Contatto Mentale rive-
lò somma noia ed atteggiamento sospettoso.
Varcò la soglia dell'uscio indicatogli e poco dopo sedeva di
fronte ad un individuo dal mento prominente e puntuto che lo
bersagliò di domande, registrando poi le risposte dell'aspirante
all'impiego in una sua macchina classificatrice.
«Età?... Cinquantadue?... Già... Stato di salute?... Coniuga-
to?... Esperienza?... Già lavorato tessuti?... Di qual genere?...
Termoplastici oppure elastometrici?... Che cosa vuol dire tessuti
d'ogni genere?... Qual era il vostro impiego precedente?... Co-
me? Ripetete sillabando... Non siete di Chica, vero?... I vostri
documenti, prego!... Numero di registrazione, prego?...»
Ma Schwartz ormai cercava di battere in ritirata. Non aveva
previsto che sarebbe finita in quel modo. Era cambiato il Contat-
to Mentale dell'uomo che gli stava di fronte! Si rivelava ormai
insospettito al punto da essersi stabilizzato su Schwartz.
«Temo» disse Schwartz «di non essere adatto a questo po-
sto».
«Ma che dite! Tornate indietro!» esclamò l'incaricato del per-
sonale facendogli un cenno di richiamo con la mano. «C'è un
posto magnifico. Fatto apposta per voi. Un momento, che guar-
do qui tra le pratiche». Sorrideva, ma il suo Tocco Mentale rive-
lava aperta ostilità.
Appena Schwartz lo vide premere il bottone di un campanello
che aveva sulla scrivania, in preda a panico improvviso spiccò la
corsa precipitandosi verso l'uscio.
«Prendetelo!» urlò subito l'altro districandosi velocemente
dalla scrivania.
Il cervello di Schwartz si lanciò a colpire con tutta la sua po-
tenza il Contatto Mentale dell'altro. Il fuggiasco udì risuonare un
roco gemito di agonia alle sue spalle. Si volse e vide il nemico
accasciato al suolo, le tempie strette tra le mani, il volto contrat-
to dalla pena. Gli stava accanto, in ginocchio qualcuno accorso

146/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


in suo aiuto, uno sconosciuto che ad un gesto pressante dell'altro
si lanciò all'inseguimento di Schwartz. Schwartz si ritrovò per la
strada conscio del fatto che l'incaricato del personale doveva
averlo riconosciuto, forse, sulla scorta di una particolareggiata
descrizione messa in onda dalle autorità.
E cominciò a fuggire a casaccio per le vie. Attirava l'atten-
zione di tutti quanti. Perché le strade, ora, erano divenute più af-
follate, perché correva, perché aveva i panni stazzonati che lo
vestivano assai male...
Non poteva identificare il vero nemico in quella ridda di Con-
tatti Mentali, di pensieri. I suoi erano pieni di paura e dispera-
zione. In quelle condizioni non gli riusciva di discernere i Con-
tatti di coloro che gli davano effettivamente la caccia, da quelli
soltanto insospettiti dal suo contegno. Per questo la Sferza Neu-
ronica lo colse impreparato.
Avvertì soltanto un dolore intenso che gli saettò per il corpo,
e poi rimase lì, per terra, come se ve l'avesse schiacciato un
masso. E prima che l'avvolgesse la notte fonda, si sentì scivolare
lentamente lungo la china d'un abisso d'agonia.

XIII
IL RAGNO TESSE LA SUA TELA

Tutto intorno all'area sulla quale sorgeva il Collegio degli


Anziani di Washenn, spirava un'aria di profonda quiete. La paro-
la d'ordine del luogo era Austerità, e tra i gruppi di novizi che
chiacchieravano insieme, tra quelli che passeggiavano lentamen-
te all'ombra degli alberi del Quadrangolo, aleggiava effettiva-
mente un'aria di grande gravità... Al Quadrangolo, non potevano
entrare che gli Anziani. Assai di rado, vi si poteva vedere il
Gran Ministro in persona. Mai, tuttavia, lo si era veduto attra-
versare il Quadrangolo in quel modo: di corsa, il volto addirittu-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/147


ra madido di sudore, insensibile alle caute occhiate che lo segui-
vano, alle espressioni stupite dei novizi.
Dopo essersi precipitato nel Tempio della Legge per l'ingres-
so privato, il Gran Ministro prese a salire di corsa la scala deser-
ta. La porta alla quale bussò precipitoso, si aperse quando colui
che si trovava nella stanza, schiacciò con il piede l'apposito co-
mando. E il Gran Ministro entrò.
Il Segretario lo degnò d'una occhiata appena: lentamente,
manovrò il bottone del televisore di fronte al quale sedeva, spen-
se l'apparecchio. «Omaggi, Vostra Eccellenza!»
«Non so che farmene dei vostri omaggi!» protestò il Gran
Ministro al colmo dell'impazienza. «Ditemi piuttosto che cosa
sta succedendo».
«Per dirla in poche parole, il nostro uomo ha preso il largo».
«Alludete all'individuo sottoposto a trattamento col Sinottifi-
catore dallo Shekt? All'Individuo Venuto di Fuori? La spia?
Quello che si era rifugiato in quella fattoria nei dintorni di Chi-
ca? Perché non si è provveduto ad informarmi? Per quale ragio-
ne sì trascura sistematicamente di informarmi?»
«Vi sapevo occupato, e la situazione richiedeva purtroppo
che si provvedesse con urgenza estrema. Mi sono quindi per-
messo di sostituirmi a voi, come meglio ho saputo».
«Siete di una tempestività sconcertante, quando si tratta di
procurarmi impegni inderogabili che vi permettono poi di opera-
re di testa vostra in mia forzata assenza... Non voglio...»
«Si sta perdendo un sacco di tempo» rispose il Segretario,
mettendo così fine alle proteste del Gran Ministro. «A capo di
due mesi di paziente attesa senza che nulla lo lasciasse prevede-
re, Schwartz abbandona la sua residenza, viene seguito, e riesce
a seminare il pedinatore».
«In che modo?»
«Non lo sappiamo ancora. Ma c'è dell'altro. Natter, il nostro
agente, la notte scorsa, manca per tre volte all'appuntamento che
ha con noi ''via radio". Gli uomini ai suoi ordini partono alla sua

148/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


ricerca lungo l'autostrada che conduce a Chica e lo rinvengono
all'alba: morto, in un fossato laterale della strada...»
«Ucciso da quello Venuto di Fuori?» indagò il Gran Ministro
terreo in volto.
«È probabile. Ma non ne siamo certi. Il corpo della vittima
non mostra alcun segno di violenza, se si eccettua l'espressione
di sofferenza immensa che gli è rimasta stampata in faccia. Si
provvederà all'autopsia. Ma non si può neppure escludere che
Natter sia morto per cause naturali, quanto improvvise, nel mo-
mento meno opportuno».
«Sarebbe una coincidenza davvero incredibile».
«Sembra anche a me» rispose freddamente l'altro. «D'altra
parte, ammettendo che Schwartz l'abbia ucciso, non saprei pro-
prio come spiegare gli eventi che sono seguiti a questo episodio.
Dalla precedente disamina della situazione, eravamo giunti alla
conclusione ovvia che ad un certo momento Schwartz sarebbe
partito per Chica nell'intento di prendere contatti con Shekt. Co-
sì, non appena Natter viene trovato morto lungo la strada in un
punto intermedio tra la fattoria del Maren e Cica, noi abbiamo
provveduto a lanciare un allarme alla città e tre ore or sono il
fuggiasco è incappato nella rete».
«Schwartz?» sbalordì il Gran Ministro. «E perché non me l'a-
vete detto subito?»
Balkis fece spallucce. «Questo, purtroppo, è particolare di se-
condaria importanza. Come dicevo, Schwartz è caduto in nostre
mani: ma con tale rapidità, con tale facilità, da rendersi quasi in-
spiegabile la morte di Natter. Schwartz si dimostra tanto astuto
da scoprire e quindi uccidere Natter (uno dei nostri uomini mi-
gliori, sia detto per inciso) e poi entra in Chica il mattino se-
guente il suo delitto, presentandosi, e non sotto mentite spoglie,
ad una fabbrica nell'intento di trovarvi lavoro».
«Possibile?»
«Lo ha fatto... O si deve credere che Schwartz abbia già tra-
smesso tutte le informazioni di cui era in possesso a Shekt oppu-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/149


re ad Arvardan, lasciandosi poi catturare al fine di attirare sol-
tanto su di sé la nostra attenzione, oppure ha agito in questo mo-
do per coprire altri agenti che noi non conosciamo».
«È troppo» disse il Gran Ministro agitando disperato le mani,
il volto atteggiato ad un'espressione ansiosa. «Troppo complica-
ta per me tutta questa vicenda».
Balkis sorrise. E con atteggiamento non certo esente da di-
sprezzo si degnò di avvertire: «Tra quattro ore, Vostra Eccellen-
za ha appuntamento col professor Bel Arvardan. Dovete ricever-
lo, Eccellenza. È naturale a mio avviso, che avvicinandosi la da-
ta dell'inizio della sua cosiddetta spedizione, Arvardan si veda
costretto a recitare la sua commedia sino in fondo, sino, cioè, a
venirvi a chiedere il permesso di eseguire scavi nelle Aree Proi-
bite. Ennius, che di questa commedia sembra conoscere tutte le
battute, non ha mancato di preavvisarcene. Non vi sarà difficile,
ritengo, ricambiargli pan per focaccia, opponendo ad ogni prete-
sto di Arvardan altri convincenti pretesti».
Piegando il capo, il Gran Ministro mormorò: «D'accordo...
Farò del mio meglio».

Giunto in anticipo, Bel Arvardan ebbe modo di guardarsi at-


torno. Esperto conoscitore dei trionfi architettonici di tutte le
Galassie, il Collegio degli Anziani gli sembrò poco più di un
malinconico blocco di granito armato d'acciaio, una costruzione
di stile arcaico. Non erano risultati interamente divertenti i suoi
due mesi di viaggio attraverso i continenti occidentali della Ter-
ra. Forse, perché tutto si era guastato fin dal primo giorno. E
tornò così col pensiero a quel giorno.
Provò un subitaneo improvviso dispetto contro se stesso: per
essersi permesso quel pensiero. Era stata villana. Egregiamente
ingrata si era dimostrata la ragazza terricola... Una come tutte le
altre... Perché si sarebbe dovuto sentir colpevole lui? Eppure...
Che avesse trascurato di tenere in giusto conto l'immensa
sorpresa provata dalla ragazza nello scoprire la sua qualità di

150/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Uomo Venuto di Fuori? Perché, si disse Arvardan, non aveva
pensato che forse la ragazza aveva già sopportato molto ad ope-
ra dei Venuti di Fuori? E quando aveva scoperto, in quel modo,
senza che nulla venisse ad alleviare la dolorosa sorpresa...
Se si fosse dimostrato più paziente!... Invece l'aveva piantata
in asso bruscamente, sì da non ricordarne neppure per intero il
nome. Pola... Pola... che cosa?
Infermiera in un ospedale... E se avesse tentato di scoprirlo,
questo ospedale? Lo rammentava vagamente, come una macchia
meno buia nella notte che l'aveva circondato al momento della
separazione. Non doveva trovarsi molto lontano da quel Cibo-
matico...
Ma reagì con somma energia a quel pensiero, disperdendolo
mentalmente in mille minuti frammenti. Stava forse diventando
pazzo? Che cosa ci avrebbe guadagnato a ritrovarlo? Graziosa,
dolce, affascinante in un certo senso... Ma Terricola, dopo tutto.
Una ragazza terricola.
Ed Arvardan accolse lieto l'ingresso del Gran Ministro. Pote-
va così sollevare il suo pensiero dalla pena del ricordo di quel
giorno a Chica, pur sapendo che nel profondo della sua mente
quel pensiero sarebbe riemerso alla superficie. Sempre... quei
pensieri... agivano in quel modo.
Avvolto da una cappa nuova, lucente e bella in tutta la sua
magnificenza, il Gran Ministro mostrava un volto nel quale non
v'era traccia di fretta o di dubbio; nessuno avrebbe potuto im-
maginare che dietro la sua fronte covava l'ansia.
E la conversazione tra i due si svolse in termini davvero ami-
chevoli. Esaurito lo scambio dei convenevoli Arvardan si diffuse
sull'importanza che gli studi archeologici avevano avuto nella
formazione delle filosofie imperiali. Ne sottolineò l'importanza,
disse che aveva portato a concludere che tutti gli esseri umani
che abitavano i molteplici mondi della Galassia erano indub-
biamente fratelli... al che il Gran Ministro, dopo essersi profes-
sato graziosamente d'accordo, fece notare come la Terra condi-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/151


videva tale convinzione da lunga pezza, come non le rimanesse,
purtroppo, altro se non sperare che sarebbe venuto presto il
giorno in cui anche il rimanente della Galassia, si sarebbe deciso
a dimostrare con i fatti, di conformarsi a tale teoria.
Con un breve sorriso, Arvardan disse:
«È appunto per questo, Eccellenza, che mi sono permesso di
presentarmi a voi. I contrasti esistenti tra la Terra ed alcuni dei
Dominii Imperiali viciniori si fonda in massima parte, ho ragio-
ne di ritenere, su certi contrasti ideologici. Ritengo tuttavia che
si potrebbe ovviare in imponente misura a quei dissensi, dimo-
strando che i Terricoli non sono diversi, anche da un punto di vi-
sta razziale, dai rimanenti cittadini della Galassia».
«E come vi proponete di raggiungere tale scopo, signore?»
«Non è facile da spiegarsi in poche parole. Vostra Eccellenza
mi insegna che le due teorie archeologiche che van per la mag-
giore, sono quelle universalmente note con i nomi di Teoria del
Merger e Teoria della Radiazione».
«Le conosco entrambe. Da dilettante, s'intende...»
«Capisco. Per spiegare il fenomeno della grande somiglianza
esistente tra tutti gli esseri umani, la Teoria del Merger implica
necessariamente che diversi ceppi umani, evolutisi indipenden-
temente gli uni dagli altri, si siano mescolati tra loro nei tempi
remoti – dei quali non esiste quasi documentazione – dei primis-
simi viaggi interplanetari».
«Già» commentò acido il Gran Ministro. «Senonché, perché
la teoria del Merger si regga, bisogna anche ammettere l'esisten-
za di diverse centinaia di migliaia di esseri più o meno umani
evolutisi, è vero, separatamente, ma di tipo biologico e chimico
così strettamente affine da rendere possibile il matrimonio misto
tra di loro».
«Esattamente» rispose Arvardan soddisfatto. «Avete messo il
dito sul punto più debole di questa teoria. D'altra parte, il Merger
ritiene possibile che in determinati settori remoti della Galassia,
alcune sottospecie umane siano rimaste differenti dalle altre ap-

152/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


punto per non essersi con le altre congiunte...»
«Alludete naturalmente alla Terra» commentò il Gran Mini-
stro.
«Non necessariamente. La Terra viene considerata soltanto
un esempio. La teoria della Radiazione, d'altra parte...»
«Ci considera tutti discendenti da un gruppo di uomini appar-
si dapprima su di un solo pianeta originario. Il mio popolo» dis-
se allora il Gran Ministro «fondandosi su prove storiche, e su
certi scritti che considerati come testo sacro non possono essere
concessi in visione ai Venuti di Fuori, credono con profonda fe-
de che il pianeta originario, la culla dell'umanità, sia appunto la
Terra».
«Lo ritengo anch'io e vi chiedo di aiutarmi a fornirne le prove
a tutta la Galassia».
«Mi sembrate molto ottimista. Che cosa vi proponete, in so-
stanza?»
«Sono convintissimo, Eccellenza, che in certe aree del vostro
mondo, oggi purtroppo infestate da radioattività, siano rimasti
innumeri oggetti di fattura ancestrale, innumeri reliquie architet-
toniche, l'età delle quali si potrebbe accuratamente calcolare a
seconda del deterioramento dovuto alla radioattività. Confron-
tando questi dati...»
Scuotendo vivamente il capo il Gran Ministro obiettò:
«Di questo, non c'è neppure da parlarne».
«Ma perché?» volle sapere Arvardan aggrottando la fronte e
stupito oltre ogni dire.
«Per prima cosa» disse il Gran Ministro in tono bonario, di-
dascalico «a quali risultati credete di poter giungere anche am-
mettendo che riusciate a provare che avete ragione a tutti gli altri
mondi? Che cosa importerebbe agli altri di sapere che, alcuni
milioni di anni or sono eravate tutti quanti Terricoli? Bilioni e
bilioni di anni fa eravamo tutti quanti delle scimmie; d'accordo!
Ma invitereste dei quadrumani alla vostra tavola?»
«Andiamo, Eccellenza! Il confronto non regge!»

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/153


«Regge invece, signore. I Terricoli, grazie al lungo isolamen-
to, grazie soprattutto alla speciale influenza che può aver avuto
su di loro la radioattività, si sono a tal segno differenziati dai lo-
ro lontani cugini che presero un giorno le mosse dalla Terra per
emigrare nel resto della Galassia, sì da costituire oggi una razza
completamente diversa dalle altre. Eccovi dimostrato perché non
riuscirete a concludere nulla. Tutt'al più finirete per esacerbare
ancora maggiormente l'odio di cui siamo fatti segno da parte di
tutti».
«E gli interessi della scienza pura, Eccellenza?» obiettò Ar-
vardan. «E il progresso umano sulla via della conoscenza?»
«Sono profondamente spiacente di dover porre ostacoli lungo
questo cammino» riconobbe con aria grave il Ministro «Sarei
ben lieto di venirvi in aiuto. Ma il mio popolo è una razza di in-
dividui ostinati, rigidi, che secoli e secoli del... deprecabile at-
teggiamento riservato loro da parte della Galassia, ha costretto a
ritirarsi in se stesso. I Terricoli, come ben sapete, hanno certi ta-
bù, certi costumi... che neppure io potrei osar di violare».
«E le zone radioattive...»
«Costituiscono uno dei più importanti di quei tabù. Appog-
giando le vostre richieste, non otterrei altro scopo che quello di
dar luogo a disordini e sommosse, le quali finirebbero per mette-
re in pericolo la vostra e la vita di coloro che vi sarebbero com-
pagni nella vostra spedizione, così che l'Impero si vedrebbe co-
stretto a prendere misure disciplinari contro la Terra. Ciò, lo
comprendete certamente, vorrebbe dire tradire la fiducia del mio
Popolo».
«Ma io prenderei ogni precauzione possibile. Anzi! Accette-
rei la collaborazione di vostri osservatori... E se mi riuscisse di
scoprire qualcosa di importante ve ne farei immediatamente par-
tecipe con una particolareggiata relazione».
«Mi tentate, signore» disse il Gran Ministro. «Il vostro è sen-
za alcun dubbio un progetto interessantissimo. Purtroppo però
mi sembrate sopravvalutare quelli che sono i miei poteri. Non

154/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


sono un monarca assoluto. In sostanza il potere di cui dispongo
è assai limitato... Ed io non posso far nulla senza aver prima udi-
to il parere della Società degli Anziani».
«Tutto ciò mi addolora moltissimo» disse Arvardan scuoten-
do il capo. «Il Procuratore non aveva mancato di avvertirmi che
difficoltà ci sarebbero state, tuttavia io speravo che... Quando
potreste consultare il vostro Governo, a proposito della mia spe-
dizione, Eccellenza?»
«Il Praesidium della Società degli Anziani si riunirà fra tre
giorni. Ma io non ho potere di cambiare l'ordine del giorno e
quindi non potrò mettere in discussione la vostra proposta se
non a capo di una settimana».
«Pazienza... Aspetterò...» annuì Arvardan con aria svagata.
«A proposito, Eccellenza... Desidererei vivamente far la cono-
scenza d'uno scienziato del vostro pianeta, del quale ho sentito
molto parlare. Si tratta di certo dottor Shekt di Chica. Vi sarei
veramente grato se mi poteste fornire di una lettera di presenta-
zione».
Visibilmente irrigiditosi alle ultime parole dell'archeologo, il
Gran Ministro rimase in silenzio per qualche istante. Poi disse:
«Posso domandarvi qual è la ragione per cui volete far la cono-
scenza del dottor Shekt?».
«Certamente. Ho sentito parlare di uno strumento che il dot-
tor Shekt avrebbe inventato: Sinottificatore, lo chiama, se non
erro. Opera sulla neurochimica del cervello ed avrebbe interes-
santi addentellati con un mio progetto. Infatti ho lavorato al-
quanto intorno alla possibilità di dividere l'umanità per gruppi...
Secondo i tipi delle correnti psichiche, se mi seguite...»
«Capisco. E sarà mia premura farvi avere immediatamente la
lettera di presentazione che desiderate. Vi guarderete tuttavia di
far menzione al dottor Shekt delle vostre intenzioni circa le Aree
Proibite».
«State tranquillo, Eccellenza» promise Arvardan e si alzò in
piedi. «Vi ringrazio moltissimo per la vostra cortesia e per il vo-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/155


stro gentile atteggiamento. Spero comunque che il Consiglio de-
gli Anziani si dimostri benevolo verso il mio progetto».
Accomiatatosi Arvardan, entrò il Segretario. Con le labbra
socchiuse nel suo sorriso caratteristico, freddo e selvaggio, dis-
se:
«Benissimo. Vi siete comportato molto bene, Eccellenza».
«Non ho capito bene che cosa c'entrasse Shekt» disse il Gran
Ministro guardando il Segretario con aria meditabonda.
«State tranquillo. Non preoccupatevene, perché tutto si svol-
ge nel migliore dei modi. Avrete notato, spero, che quando vi
siete opposto al suo progetto, Arvardan ha mostrato di adontar-
sene ben poco. Vi è sembrato forse che la sua reazione fosse
quella di uno scienziato che si vede negata, senza alcuna ragione
apparente, una possibilità che gli stava molto a cuore? O non vi
sembra piuttosto che la sua sia stata la reazione di chi, costretto
suo malgrado a recitare la commedia, veda determinarsi con
soddisfazione una situazione che lo sollevi da necessità tanto
noiose?
«E c'è un'altra strana coincidenza da notare: appena fuggito,
Schwartz si dirige verso Chica. Immediatamente, il giorno dopo,
Arvardan spunta fuori qui, e dopo aver recitato tepidamente la
commedia della cosiddetta spedizione, ci fa sapere, quasi per ca-
so, che intende recarsi a Chica ed incontrarvisi con Shekt».
«Ma perché, Balkis? Mi sembra assolutamente sciocco da
parte sua l'aver parlato di Shekt».
«Arvardan crede che voi non sospettiate di nulla. È logico
che giochi d'audacia. E vi dice che ha intenzione di incontrarsi
con Shekt. Ve ne parla, non solo, ma si fa rilasciare da voi una
lettera di presentazione. Può comportarsi diversamente una per-
sona che voglia stornare dal suo capo qualsiasi sospetto? Senza
contare che il suo atteggiamento ci fa comprendere qualcosa di
più: Schwartz, è vero, può anche essere riuscito a scoprire che lo
si vigilava; può essere stato lui ad uccidere Natter. Ma non ha
avuto tempo di informare gli altri, altrimenti Arvardan non

156/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


avrebbe potuto recitare la commedia come invece ha fatto».
E socchiudendo gli occhi, il Segretario continuò a tessere
come un ragno la sua tela. «Non possiamo sapere quanto tempo
passerà ancora prima che gli altri notino l'assenza di Schwartz e
divengano quindi sospettosi; ci conviene in ogni caso lasciare ad
Arvardan tutto il tempo necessario per prendere contatto con
Shekt. Li prenderemo insieme così; e sorpresi in questo modo, ci
sarà ben poco che possano negare».
«Quanto tempo ci rimane?» domandò il Gran Ministro.
«Data fissa, non ne abbiamo: sappiate soltanto che da quando
è stato scoperto il tradimento di Shekt, ci siamo messi al lavoro
con rinnovato fervore... Tutto procede per il meglio. Ci muove-
remo non appena saremo in possesso dei computi matematici
delle orbite. Purtroppo è proprio l'inadeguatezza dei nostri calco-
latori quella che ci ha messo i bastoni tra le ruote sino ad ora,
Comunque... ormai è questione di pochi giorni».
«Giorni!» pronunciò in tono lamentoso misto a trionfo ed or-
rore il Gran Ministro.
«Giorni» ripeté il Segretario. «Ma ricordate... basterà una
bomba anche due secondi prima dell'ora X a fermarci per sem-
pre».
Giorni! E poi si sarebbe scatenato il più terribile dei duelli
della storia della Galassia: giorni, e la Terra avrebbe attaccato
tutto il resto dell'Universo.
Il Gran Ministro non seppe frenare il tremito delle mani.

Nuovamente seduto a bordo di un aereo stratosferico, Arvar-


dan si sentiva il cervello attraversato da pensieri selvaggi. Ormai
non aveva più alcuna speranza: né il Gran Ministro, né la sua
popolazione di psicopatici gli avrebbero mai permesso di varca-
re ufficialmente le aree radioattive.
Che cosa si voleva, per la Galassia? Che entrasse in quelle
zone illegalmente? Che armata una nave si fosse battuto per ot-
tenere il suo scopo? Quasi ne sarebbe valsa la pena.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/157


Dannati idioti! Chi diavolo credevano di essere?
Naturalmente, Arvardan lo sapeva: i Terricoli pensavano di
essere i diretti discendenti del tipo umano originario, gli abitanti
del pianeta madre... E purtroppo, Arvardan ne era persuaso an-
che lui; i Terricoli avevano ragione!
Comunque... Ma ad interrompere i suoi pensieri venne la par-
tenza dell'aereo. Arvardan si senti premere le spalle contro i sof-
fici cuscini dello schienale e seppe che entro un'ora sarebbe
giunto in vista di Chica.
Né spasimava dalla voglia di arrivarvi, disse a se stesso; ma
quel Sinottificatore poteva anche dimostrarsi importante, e dal
momento che si trovava sulla Terra, sarebbe stato sciocco da
parte sua non cercare di trarne profitto. Comunque, abbandonato
il pianeta, non vi avrebbe mai più fatto ritorno.
La tana da topi!
Ennius aveva ragione.
Quel dottor Shekt tuttavia... E Arvardan strinse tra le dita la
lettera di presentazione, greve di formalità ufficiali, che gli ave-
vano consegnata...
Tentò di rizzarsi a sedere... Invano: ingaggiato in una terribile
lotta contro le forze di inerzia che lo schiacciavano contro il suo
sedile mentre la terra schizzava via sempre più lontana sotto di
lui e l'azzurro del cielo incupiva in un profondo color purpureo,
ricordò improvvisamente il nome della ragazza... Pola Shekt, si
chiamava.

XIV
SECONDO INCONTRO

Nel corso dei due mesi succedutisi dal giorno in cui il sinotti-
ficatore del dottor Shekt era stato impiegato su Joseph Schwartz,
il fisico aveva subito un profondissimo cambiamento. Non mol-

158/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


to da un punto di vista fisico, quantunque lo scienziato apparisse
più curvo, un tantino più esile. Si trattava invece del suo atteg-
giamento, divenuto più distratto, pavido.
Gli riusciva di confidarsi soltanto con Pola, forse perché an-
che la fanciulla si era in un certo senso isolata dal resto del
mondo nel corso di quegli ultimi due mesi.
«Mi fanno sorvegliare» diceva allora. «Non so come, ma lo
sento. Hai mai provato nulla di simile?... In quest'ultimo mese,
all'Istituto si è verificato un gran cambio della guardia: e sono i
miei preferiti, coloro dei quali sapevo di potermi fidare, che so-
no stati trasferiti... Ho sempre qualcuno al mio fianco, non mi
riesce più di avere un'ora per me solo. E non mi lasciano nem-
meno scrivere i rapporti».
Pola, allora, cercava invariabilmente di calmarlo dicendogli:
«Andiamo, babbo; per qual ragione vuoi che facciano tutto quel
che dici? È vero! Hai sperimentato con Schwartz senza il loro
permesso... Lo ritieni un crimine così orribile? Se si trattasse di
ciò, a quest'ora te ne avrebbero chiesto ragione».
«Mi condanneranno... Tra poco scadono i miei Sessanta, e
non mi lasceranno vivere» aveva mormorato Shekt agitando il
viso giallastro e scarno.
«Dopo tutto quello che hai fatto? Sciocchezze!»
«So troppe cose, Pola; e non si fidano più di me».
«Di che cosa, sai troppo?»
E siccome quella sera Shekt si sentiva stanco, desideroso di
sollevarsi dal peso che gli gravava sul cuore, glielo disse, il suo
segreto. Dapprima la fanciulla non volle prestargli fede: quando
finalmente si convinse, non fu capace d'altro che di rimanere lì
sedere irrigidita dal terrore.
Pola aveva chiamato il Palazzo di Stato il giorno dopo, da un
telefono pubblico all'altro capo della città. Coperto il microfono
con un fazzoletto, aveva domandato del dottor Bel Arvardan.
Non l'aveva trovato. Si trovava a Bonhair a circa seimila mi-
glia di distanza, ne attendevano il ritorno a Chica, ma non sape-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/159


vano dirle quando questo si sarebbe verificato con esattezza. Se
ne sarebbero informati, tuttavia... Voleva la signorina lasciar lo-
ro il suo nome?
Ma a questo punto Pola aveva interrotto la comunicazione. E
con occhi colmi di lacrime non versate, sperduti di disperazione,
aveva mormorato: «Sciocca. Sciocca!».
Arvardan le aveva prestato aiuto e lei l'aveva allontanato, gli
aveva permesso di andarsene amareggiato. Per lei, per una pic-
cola ragazza terricola, per difenderne la dignità offesa da uno
Venuto di Fuori, Arvardan aveva rischiato la frusta neuronica e
peggio... Come tutto compenso, lei gli aveva voltato le spalle.
I cento Crediti che Pola aveva spedito al Palazzo di Stato il
mattino seguente l'incidente, le erano stati ritornati senza una ri-
ga di accompagnamento. Allora aveva pensato di riavvicinarlo,
di domandargli scusa... Ma non ne aveva avuto il coraggio.
Ed ora... Ora si sarebbe trascinata sin nel Palazzo del Procu-
ratore in persona... Pur di...
Soltanto lui sarebbe potuto venire in suo soccorso, ora. Lui
Venuto di Fuori, e capace di parlare ai Terricoli con democratica
umanità. Pola non l'aveva mai immaginato un Venuto di Fuori
sino a che Arvardan non le si era professato tale. Ed era così al-
to, così pieno di coraggio... Lui avrebbe saputo quanto si doveva
fare.
E in modo o nell'altro lo si sarebbe dovuto informare, perché
tacere sarebbe stata la rovina di tutta la Galassia.
Gran parte dei Venuti di Fuori se lo sarebbero meritato... Ma
gli altri? Le donne, i bambini, i malati, i vecchi... Quelli gentili,
tra loro, quelli buoni... Quelli come Arvardan, quelli che non
avevano neppure sentito parlare della Terra?... Perché tutti, in
fondo, erano uomini. Perché una vendetta così orribile, avrebbe
macchiato per sempre quanto di giusto poteva esserci, quanto di
giusto in effetti c'era nella causa della Terra, con un infinito ma-
re di sangue, di carni putrescenti.
Quando, del tutto inaspettato, Arvardan era venuto a doman-

160/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


dare del dottor Shekt all'Istituto, il fisico scuotendo il capo aveva
detto: «Non sarò mai capace di dirglielo».
«Devi invece» aveva imposto Pola.
«Qui? È impossibile... Sarebbe la nostra rovina».
«E allora fa' in modo che se ne vada subito. Al resto penserò
io».
Mentre diceva queste parole, nel cuore le cantava una selvag-
gia canzone. Non solo perché le si presentava l'occasione di sal-
vare una miriade infinita di esseri umani, ma perché ricordava il
largo, smagliante sorriso di Arvardan.
Pola era felice, perché sapeva che Bel Arvardan poteva fare
qualunque cosa!

Naturalmente, di tutto ciò Arvardan non sapeva nulla. E


scambiò l'atteggiamento di Shekt per quel che gli sembrava... La
solita scortesia, il gelo che faceva mirabilmente il paio con l'ac-
coglienza che gli era stata dovunque riserbata sulla Terra.
Nell'anticamera, volutamente deserta, dell'Istituto, Arvardan
si senti un intruso, una persona indesiderata.
Scelse quindi le parole con cura: «Non mi sarei mai sognato
di permettermi di venirvi a disturbare, dottor Shekt, se non m'a-
vesse mosso un interesse del tutto professionale per il vostro Si-
nottificatore. Mi consta che, a differenza di molti Terricoli, voi
non vi dimostrate ostile agli abitanti della Galassia, e così...».
Frase evidentemente poco fortunata, perché Arvardan vide
Shekt sussultare. Il fisico l'interruppe bruscamente: «Siete stato
molto male informato, signore, in quanto non mi si può imputare
alcun atteggiamento particolarmente amichevole nei confronti
degli Stranieri in quanto tali. Non ho alcuna preferenza, non co-
nosco avversione alcuna. Sono un Terricolo e basta».
Arvardan strinse le labbra con la voglia subitanea di voltare
le spalle all'interlocutore.
«Capisco benissimo» disse freddamente pur non avendo
compreso nulla dell'atteggiamento dell'altro. «Arrivederci, si-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/161


gnore».
«Le mie occupazioni...» mormorò debolmente il dottor Shekt.
Arvardan uscì dallo studio di Shekt furioso contro lui e con-
tro tutta la tribù dei Terricoli.
Già il suo braccio aveva spezzato il raggio fotoelettrico che
apriva la porta dell'ingresso principale, quando udì un affrettato
scalpiccìo dietro di sé, un sussurro concitato all'orecchio. Gli
venne infilato in una mano un pezzo di carta, e quando si volse
non vide che un bagliore rosso e una figura che scompariva.
Aperse il foglietto soltanto quando sedette al volante dell'auto
che aveva in affitto. Una mano febbrile vi aveva tracciato le se-
guenti parole:
"Fatevi indicare il Gran Teatro alle otto di questa sera. Accer-
tatevi di non essere seguito".
Rilesse le frasi cinque volte, con la fronte ferocemente ag-
grottata. Poi spalancò gli occhi sul biglietto, come se si aspettas-
se di vederne schizzar fuori altre parole scritte in inchiostro sim-
patico. Si volse a guardarsi alle spalle. La strada era deserta. Già
aveva levato la mano per gettare dal finestrino quello sciocco
brandello di carta, quando, a capo di una lunga esitazione, decise
di infilarselo in una tasca del panciotto.
Senza alcun dubbio, se quella sera avesse avuto di meglio da
fare di quanto suggeriva lo scarabocchio di quel foglietto, tutto
sarebbe finito... ossia, sarebbe stata la fine di molti trilioni di
uomini. Ma volle il caso che Arvardan quella sera non avesse
proprio null'altro da fare.
Diremo di più... Arvardan rimase a lungo fermo a chiedersi se
il mittente del bigliettino non era per caso...
Alle otto in punto, a bordo della sua macchina in affitto, Ar-
vardan avanzava lentamente in coda all'interminabile fila di au-
tomobili che si snodava lungo la via che conduceva, con infinite
curve, al Gran Teatro. E sembrava che tutto quanto riusciva a ro-
tolar su ruote a Chica, stesse dirigendosi su quel posto quella se-
ra, tanto è vero che quando vi giunse vide sparire una infinità di

162/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


veicoli in una immane voragine oltre la quale si trovava il par-
cheggio sotterraneo. Si vide così costretto a districare la sua
macchina dal resto della fila, per andarsi a fermare all'angolo del
Teatro: in attesa di non sapere che cosa.
Una figuretta sottile si precipitò giù dal passaggio destinato ai
pedoni, gli si avvicinò, dall'altra parte del finestrino. La guardò
stupefatto. Ma la nuova venuta aveva già aperto la porta e gli si
era seduta accanto prima che lui avesse avuto il tempo di dire
una parola.
«Scusate» disse poi «vorrei proprio...»
«Zitto» sussurrò la figura sedendo molto all'indietro sul sedile
della macchina. «Vi hanno seguito?»
«E perché lo avrebbero dovuto fare?»
«Non fate lo spiritoso. Andate avanti dritto e voltate quando
ve lo dico io... Spicciatevi, per l'amor di Dio...»
Arvardan quella voce l'aveva ormai riconosciuta. Pola si tolse
il cappuccio che l'aveva sino a quel momento nascosta, ed Ar-
vardan le vide il bellissimo volto incorniciato dai soffici e lucen-
ti capelli bruni. Due occhi neri, cupi, lo guardavano.
«Spicciatevi, è meglio» disse la ragazza dolcemente.
Arvardan obbedì. Il silenzio regnò assoluto per quindici mi-
nuti, eccettuate le rare e brevi indicazioni sul cammino da segui-
re. L'archeologo fermò la macchina quando la ragazza glielo
disse: all'angolo di un quartiere discreto e signorile. Non si ve-
deva anima viva intorno. Restarono un attimo immobili, poi,
dietro le precise indicazioni di Pola, Arvardan procedette lentis-
simamente, centimetro per centimetro, lungo la discesa che con-
duceva alla porta di un'autorimessa.
Chiusa la pesante porta alle loro spalle, la piccola luce accesa
all'interno dell'auto fu la sola a rompere le tenebre fittissime del
luogo. Soltanto allora Pola lo guardò; disse, con aria grave:
«Mi spiace di essere stata costretta a questo, dottor Arvardan.
Non potevo far diversamente, perché dovevo assolutamente par-
larvi a quattr'occhi. So che ormai vi sarete fatto un pessimo con-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/163


cetto di me e...»
«Non ditelo neppure» negò lui, imbarazzato.
«Debbo invece, e voglio anche dirvi che mi sono accorta di
essermi comportata in modo vergognoso e poco educato quella
sera. Non trovo parole per domandarvi scusa...»
«Ve ne prego... Non dite queste cose» ripeté Arvardan disto-
gliendo lo sguardo dal volto della fanciulla. «Anch'io mi sarei
dovuto comportare in un modo un pochino più diplomatico».
«Be'... Comunque...» mormorò Pola. Poi tacque per alcuni
secondi per ridarsi un po' di contegno, e prosegui: «Non è per
questo che vi ho fatto venire qui. È perché voi siete l'unico Ve-
nuto di Fuori ch'io abbia mai conosciuto; il solo straniero che si
sia dimostrato gentile e nobile con me... Ho bisogno del vostro
aiuto».
«Di che si tratta?»
«Per prima cosa... Spero che non ci abbia seguito nessuno.
Ma se si udisse del rumore alle nostre spalle... Vi dispiacereb-
be... Vorreste...» balbettò Pola abbassando gli occhi «buttarmi le
braccia al collo e fingere di... sapete...»
Arvardan annuì e disse, sorridendo: «Credo di saper improv-
visare senza alcuna fatica. Ma è proprio necessario aspettare che
si produca quel rumore?»
Pola avvampò. «Ve ne prego... Non è il caso di scherzare o di
interpretare erroneamente le mie intenzioni. Ho suggerito
quell'espediente come il solo capace di stornare dal nostro capo
il sospetto... Sarebbe l'unico modo che li potrebbe convincere
che...»
«Convincere chi? E di che si tratta?» domandò dolcemente
Arvardan.
La fissò, molto incuriosito. Come era giovane e dolce! Gli
sembrava debole, bisognosa di aiuto, si sentiva salire al cuore
l'urgente, irragionevole bisogno di proteggerla.
«Si tratta di cose molto serie» disse Pola. «E tra poco dovrò
dirvi cose che forse non vorrete credere, in un primo momento.

164/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Ebbene... Dovrete cercar di crederle. Voglio che vi convinciate
della mia sincerità, voglio soprattutto che voi decidiate di sposa-
re la nostra causa, di combattere per la giustizia al nostro fianco.
Sareste disposto a farlo? Vi do quindici minuti per riflettere. Se
poi vi persuaderete che non vale la pena di prestarmi ascolto, me
ne andrò e non udrete mai più parlare di me».
«Quindici minuti?» ripeté Arvardan. E sulle labbra gli tremò
un involontario sorriso. Contemplò un attimo il quadrante dell'o-
rologio da polso e fissandone le lancette disse: «D'accordo».
Pola lasciò cadere sul grembo le mani strette, sbarrando gli
occhi nel buio che li circondava intorno all'autorimessa.
Lui, invece, la studiava attentamente... Lasciava vagare lo
sguardo sulla molle, dolce linea del suo mento, in quell'istante
irrigidito ad assumere un'espressione di forza che non doveva
esserle familiare; posava gli occhi sul naso piccino, un tantino
all'insù, sulle gote particolarmente colorite, così caratteristiche
delle donne che abitavano la Terra.
Captò un'occhiata rapida di Pola.
«Che c'è?» domandò. La fanciulla arrossì e si strinse il labbro
inferiore tra i denti, poi mormorò: «Niente. Vi stavo osservan-
do».
«Me n'ero accorto. Ho forse un baffo nero sul naso?»
«No» rispose Pola con un piccolo sorriso, il primo che si
concedeva da quando era entrata in auto. E Arvardan notò che
quando scuoteva il capo i suoi bei capelli ondulati ripetevano
dolcemente il movimento gonfiandosi e agitandosi, profumati.
Ma la fanciulla gli stava dicendo:
«Mi sono spesso domandata, sin da quella prima volta.., quel-
la sera, ricordate?... perché non indossate anche voi gli abiti im-
pregnati di piombo come fanno tutti i vostri simili: generalmen-
te, quelli Venuti di Fuori girano per le strade come altrettanti
sacchi di patate».
«Mentre invece io...»
«Voi no» c'era nella sua voce una nota di ammirazione: «Voi

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/165


mi sembrate... una statua di marmo, una scultura antica... Ma
siete vivo... caldo di umanità... Scusatemi! Sto diventando im-
pertinente!»
«Se. ci tenete alla nostra amicizia» disse Arvardan «fatemi il
piacere di smetterla di credere che io vi consideri una ragazzina
terricola incapace di stare al suo posto. Per me, tutte le fanfalu-
che a proposito della radioattività sono volgari superstizioni: me
l'hanno dimostrato al di là d'ogni dubbio gli esperimenti accurati
di laboratorio che ho condotto sugli animali. E quando ho misu-
rato la radioattività atmosferica di questo pianeta non vi ho tro-
vato niente di diverso dagli altri. La miglior prova è data dal fat-
to che giro tranquillamente per la Terra da oltre due mesi e non
ho avuto nemmeno un raffreddore. Non mi cascano i capelli» se
ne tirò un ciuffo «e digerisco perfettamente. E non credo di esse-
re isterilito» concluse «anche perché a questo riguardo sono ri-
corso alla precauzione di indossare sempre calzoncini impregna-
ti di piombo: ma quelli non si vedono...» fini con aria molto gra-
ve. Pola scoppiò a ridere e gli disse gentilmente:
«Dovete essere un po' matto...»
«Davvero lo credete?»
«Vorrete ascoltarmi, ora?» gli domandò Pola. «I quindici mi-
nuti che vi avevo concessi sono passati da un pezzo».
«Non crediate che mi riesca difficile restare a sedere così ac-
canto a voi» mormorò dolcemente il giovane. «Mi fa enorme-
mente piacere, invece... E lasciate che ve lo dica, Pola... Non ho
mai veduto una ragazza così bella, così graziosa come voi, in vi-
ta mia!»
«Volete ascoltarmi, ora?» gli domandò Pola.
«Ve ne prego!» protestò la fanciulla levando su Arvardan gli
occhioni stupiti e un poco spaventati.
«Ditemi quel che avete da dire. Crederò e farò il possibile per
tornarvi utile». E lo dichiarò in perfetta buona fede. Arvardan,
ormai, era giunto al punto che per quella ragazza avrebbe sbattu-
to giù dal trono il suo Imperatore. Era la prima volta in vita sua

166/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


che si innamorava... Ma arrivato a quella conclusione costrinse
il suo pensiero a fermarsi.
Innamorato? Di una ragazza terricola? !
«Stamane, immagino, vi siete abboccato con mio padre, dot-
tor Arvardan...»
«Non potreste chiamarmi Bel? Io vi chiamerò Pola. Sì. Ho
veduto vostro padre».
«Farò del mio meglio per riuscire a chiamarvi Bel... E... avre-
te trovato mio padre piuttosto... poco gentile, Ma non poteva
agire diversamente. Lo fanno vigilare. Per questo avevamo pre-
stabilito di accogliervi male, stamani: così questa sera ho potuto
avvicinarvi io e portarvi qui... questa rimessa fa parte della no-
stra casa.
«Volevamo informarvi che...» e qui la sua voce scese fino a
un indistinto sussurro «la Terra... è in procinto di scatenare una

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/167


nuova rivolta».
Arvardan non seppe nascondere. un istante di ilarità.
«Non è il caso di prendermi in giro!» protestò Pola subito in-
furiata. «Dico sul serio, credetemi: la Terra è in procinto di ri-
bellarsi e questa volta la cosa è assai seria perché è in grado di
portare morte e distruzione a tutta quanta la Galassia».
«Morte e distruzione a tutta la Galassia?» ripeté Arvardan
sinceramente divertito. «Andiamo, Pola! La Galassia ha un vo-
lume di qualcosa come parecchi milioni di anni-luce al cubo, e
in questo spazio sono compresi qualcosa come duecento milioni
di pianeti abitati, con una popolazione valutabile a circa cinque-
cento quadrilioni di individui. Giusto?»
«Se lo dite voi...»
«È esatto, state tranquilla. Ebbene... che cos'è la Terra? Un
pianeta di venti milioni di individui, un solo pianeta privo di ri-
sorse. In moneta spicciola... Per ogni Terricolo ci sono ben ven-
ticinque bilioni di cittadini della Galassia. Che cosa volete fare,
in proporzione di uno contro venticinque bilioni d'individui?»
Il dubbio non riuscì a far presa a lungo sulla fanciulla. Dopo
un attimo di silenzio, proruppe: «Ebbene, Bel... Io non so che
cosa rispondervi. Ma è in grado di farlo mio padre. Papà sostie-
ne che la Terra ha escogitato un mezzo mediante il quale è in
grado di cancellare dalla realtà ogni forma di vita al di fuori di
questo pianeta. E se lo dice mio padre, deve esser vero. Non si è
mai sbagliato, che io sappia».
Mentre parlava, le gote della fanciulla s'erano arrossate. E
Arvardan moriva dalla voglia di carezzarle. Si domandò., sgo-
mento, che cosa diamine gli stava succedendo.
«Son passate le dieci?» s'informò Pola.
«Sì» rispose il giovane.
«Allora il babbo dev'essere di sopra... A meno che non lo ab-
biano arrestato nel frattempo» disse guardandosi attorno timoro-
sa, rabbrividendo. «Seguitemi... Entreremo in casa passando da
una porta di questa rimessa».

168/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Ma aveva appena posata la mano sulla maniglia della portiera
quando s'irrigidì. In un lievissimo sussurro, disse: «Sta venendo
qualcuno... Presto...»
Il resto si perse... Perché Arvardan era stato pronto a ricorda-
re l'avvertimento impartitogli poco prima. Con mossa spontanea
le sue braccia si strinsero intorno alla fanciulla e un istante dopo
il corpicino tepido, morbido di Pola aderiva al suo. Sotto le sue,
le labbra della ragazza risposero tremando al bacio che fu un
oceano infinito di dolcezza...
Per una decina di secondi Arvardan aguzzò lo sguardo con la
coda dell'occhio, tese l'orecchio per cogliere... che so?.. una la-
ma improvvisa di luce, il rumore di un passo. Ma dopo, tutto si
perse nella sensazione prepotente dell'abbraccio.
Si separarono dopo un'infinità. E rimasero ancora a lungo
guancia contro guancia.
No. Non s'era mai innamorato così prima d'allora, pensò Ar-
vardan. E questa volta il pensarlo non lo sgomentò.
Che c'era di male? Terricola o no... non c'era una ragazza
come Pola, in tutta quanta la Galassia.
«Dev'essere stato un passante, un nottambulo» mormorò co-
me in un sogno.
«No» negò la giovane. «Ne sono certa... Non c'era nessuno!»
La allontanò da sé per guardarle gli occhi. «Dici sul serio?
Ah, diavoletto...»
«Non è che mi dispiaccia» disse Pola con gli occhi sfavillanti
di gioia. «Lo desideravo tanto, che mi baciassi...»
«E allora baciami ancora. Questa volta... sarà soltanto perché
lo desidero io!»
Trascorsero di nuovo attimi eterni di gioia infinita. Poi Pola
si sciolse dall'abbraccio e con movimenti rapidi ed aggraziati si
ricompose i capelli e il colletto della tunica. «Entriamo, ora»
disse con voce ferma. «Spegni la luce, in auto. Ho una minusco-
la torcia elettrica».
Arvardan la seguì nel buio, là dove illuminata da una lama di

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/169


luce giallognola, la figuretta di Pola appariva vaga come un so-
gno.
«Dammi la mano. Dobbiamo salire una scala a chiocciola».
«Ti voglio bene, Pola» le sussurrò Arvardan dietro le spalle.
E le parole gli uscirono dal labbro senza la minima fatica, non
solo, ma le sentì così profondamente vere che le ripeté un'altra
volta: «Ti voglio bene, Pola».
«Sono una Terricola, mio bel signore».
«Diventerò Terricolo anch'io. Vedrai».
L'afferrò per una mano, che nel tentativo di divincolarsi gettò
il fascio luminoso della lampada sul suo visino bagnato di la-
crime.
«Perché piangi?»
«Perché, quando il babbo ti avrà svelato certi particolari, non
riuscirai più a voler bene a una ragazza della Terra».

XV
PRECIPITANO GLI EVENTI

Arvardan e Shekt si erano appartati in una cameretta del se-


condo piano della casa; la stanza aveva i vetri accuratamente po-
larizzati ad opacità assoluta. Pola, sdraiata su di una poltrona a
pianterreno sbarrava gli occhi, vigile, sulla strada buia e deserta.
«Vi domando scusa, dottor Arvardan» disse il fisico con voce
ferma «per la sgarbata accoglienza che ho dovuto riserbarvi
stamani. Spero che vorrete comprendere come...»
«Ora capisco perfettamente, signore».
Shekt sedette alla tavola ed accennò con un gesto della mano
ad una bottiglia di vino. Arvardan respinse garbatamente l'offer-
ta e propose: «Preferisco uno di questi frutti, se non vi spiace...
Che cosa sono? Non credo di averne mai veduti come questi».
«Sono una specie di arance» spiegò Shekt. «Non credo che ne

170/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


crescano fuori dalla Terra. Ma si sbucciano con facilità». E
sbucciato uno dei frutti lo offerse all'ospite che, dopo averlo an-
nusato incuriosito, affondò i denti nella polpa succosa. Lanciò
un'esclamazione entusiasta:
«Perbacco, dottor Shekt! Ma sono squisiti! Ne avete mai
esportati, di questi frutti?»
«Agli Anziani» mormorò rattristato il biofisico «non garbano
gli scambi con i paesi di Fuori. E i nostri vicini di spazio, non
hanno alcun entusiasmo di entrare in rapporti commerciali con
noi. Vedete? Questo non è che uno dei molti aspetti delle nostre
difficoltà».
Arvardan si sentì stringere il cuore da una viva sensazione di
fastidio e di dispetto.
«Ma ve ne siete mai domandato il perché?» esclamò l'archeo-
logo. «È che né l'una, né l'altra parte desiderano sinceramente di
giungere ad una soluzione del problema! Non è forse vero che la
maggior parte degli abitanti della Terra rispondono alla situa-
zione odiando in massa, e senza discriminazione alcuna, la Ga-
lassia? È diventata una forma morbosa universale, ormai, ri-
spondere con l'odio all'odio. Desidera forse il vostro popolo
eguaglianza e tolleranza? Affatto! La Terra non aspetta altro che
il momento di insediarsi al posto di comando».
«C'è indubbiamente del vero in quanto affermate» ammise
tristemente Shekt. «Ma non è tutto. Dateci anche una sola op-
portunità e nel lasso d'una generazione vedrete i Terricoli diven-
tare più maturi; li vedrete abiurare il loro folle isolamento per
sottoscrivere di tutto cuore all'unità della razza umana. Già in
passato, la voce degli Assimilazionisti si è fatta udire potente-
mente in Terra. Anch'io ho propugnato teorie di tolleranza, di
saggio, benefico compromesso. Ora, purtroppo, la Terra è domi-
nata dai Fanatici, dai nazionalisti ad oltranza che sognano glorie
passate e si perdono dietro folli sogni di conquiste future. È da
costoro che si deve difendere l'Impero».
«Alludete forse alla rivolta cui m'ha accennato Pola?» indagò

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/171


Arvardan con la fronte corrugata.
«Mio caro dottore» disse Shekt malinconico. «Per quanto
possa sembrarvi ridicolo che la Terra riesca mai a conquistare
tutta la Galassia, sappiate che proprio questo sta per avvenire.
Sono tutt'altro che un eroe, fisicamente, e sono ansioso di conti-
nuare a vivere: immaginate quindi quanto debba essere grave la
crisi che mi ha spinto al rischio tremendo di perpetrare un tradi-
mento, tenuto d'occhio come sono dalle autorità amministrative
locali».
«Quand'è così» volle precisare Arvardan «sappiate subito
che, se si tratta di cosa così grave, io non potrò aiutarvi altro che
nelle mie limitate capacità dì un cittadino galassico. Dal mo-
mento che vi vedete costretto a correre tutti i rischi di un tradi-
mento, perché non vi rivolgete direttamente al Procuratore? En-
nius è il solo che potrebbe intervenire con efficacia».
«Proprio questo non posso fare, dottor Arvardan. È proprio in
previsione di una mia mossa di questo genere che gli Anziani mi
fanno sorvegliare. E quando vi siete annunciato a me stamane,
ho perfino pensato che foste un agente o qualcosa del genere.
Ho persino temuto che Ennius sospettasse già qualcosa».
«Già» mormorò Arvardan. E fu più che mai convinto di tro-
varsi alla presenza di un vecchio paranoico, eccentrico e forse
innocuo, ma... pazzo quant'altri mai. Non gli rimaneva che restar
lì ad ascoltarlo, cercando di non esasperare la queta insania.., per
amor di Pola.
«Stamane, se non erro» diceva Shekt frattanto «avete affer-
mato di conoscere, in certa misura, il mio Sinottificatore».
«Infatti. A suo tempo ho letto il vostro articolo apparso sulla
Rivista di Fisica, ed ho discusso della vostra invenzione col Pro-
curatore nonché con il Gran Ministro».
«Con il Gran Ministro?»
«Precisamente. È stato quando mi son fatto preparare la lette-
ra di presentazione che stamane... vi siete rifiutato di leggere».
«Non so come chiedervene scusa. Sarebbe stato molto meglio

172/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


se non aveste chiesto quella lettera al Gran Ministro, tuttavia...
Pazienza. Che ne sapete del mio Sinottificatore?»
«Che sarebbe un interessante fallimento».
«Dalla lettura di quell'articolo, non potevate trarne diversa
impressione» si rammaricò vivamente Shekt. «Si voleva soprat-
tutto metterne in luce le qualità negative, tacendo con somma
cura, di proposito, gli importantissimi brillanti risultati in effetti
ottenuti».
«Già... Bella moralità scientifica, dottor Shekt. Complimen-
ti!»
«Lo so. Ma non dimenticate che ho cinquantasei anni: se ave-
te un'infarinatura dei costumi della. Terra capite certamente a
che cosa alludo».
«Ai Sessanta, naturalmente. E ne so più di quanto avrei volu-
to, se debbo proprio confessarvelo» disse Arvardan. E ricordan-
do i discorsi uditi durante il suo primo viaggio a Chica, aggiun-
se: «Tra l'altro, so che si fanno eccezioni a favore di scienziati
particolarmente meritevoli».
«È vero. Ma ne decidono esclusivamente il Gran Ministro e il
Consiglio degli Anziani con giudizio inappellabile. Non potreb-
be intervenire neppure l'Imperatore in persona. E a suo tempo mi
è stata promessa la vita in cambio del segreto più assoluto intor-
no alle reali possibilità del mio Sinottificatore nonché del suo
perfezionamento. Potevo sapere, allora, a quale uso si voleva
destinare la mia invenzione?» domandò disperato il vecchio spa-
lancando le braccia tremule.
«E cioè?» volle sapere Arvardan tirando fuori le sigarette dal
panciotto ed offrendone una all'altro, che la rifiutò.
«Lo saprete subito... Avute le prove sperimentali che il mio
apparecchio poteva essere felicemente impiegato sugli uomini,
fui costretto a sottoporre a trattamento tutti i biologi della Terra,
l'uno dopo l'altro. Tutta gente le cui simpatie per i Fanatici od
estremisti che dir si voglia, erano assai note. Sopravvissero tutti
alla prova, benché, ad un certo momento, accusassero tutti certi

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/173


postumi secondari. Ad un certo momento, me ne riportarono
all'Istituto uno che sottoposi alle cure del caso, senza tuttavia
riuscire a salvarlo. E scopersi la macchinazione ascoltandone il
delirio di moribondo».
Mancava poco a mezzanotte. La giornata era stata lunga, ric-
ca di eventi. Eppure qualcosa cominciò ad agitarsi in fondo alla
coscienza di Arvardan, che si eresse sul busto e incitò: «Venite
al punto, per l'amor di Dio...».
«Abbiate un momento di pazienza. Non capireste se trascu-
rassi di darvi esaurienti spiegazioni. Dunque... Conoscerete sen-
za alcun dubbio, il particolare ambiente della Terra... la radioat-
tività».
«Lo conosco abbastanza profondamente, credo».
«Anche l'influenza esercitata da questa radioattività sulla Ter-
ra e sulla sua economia?»
«Si».
«In questo caso non sarà necessario che mi diffonda sull'ar-
gomento. Basterà riaffermare che le mutazioni si presentano sul-
la Terra con frequenza maggiore che nel resto della Galassia. E
l'affermazione dei nemici che definiscono diversi i Terricoli tro-
verebbe così una base fino a un certo punto scientifica. In effetti,
non solo le mutazioni sono di minore importanza, ma in gran
parte non hanno carattere permanente. Le uniche mutazioni
permanenti verificatesi a carico degli abitanti della Terra sono
quelle che si riferiscono a certi aspetti della loro chimica interna,
quelle cioè che li hanno resi particolarmente resistenti al loro
ambiente caratteristico. Così gli uomini di questo pianeta rivela-
no maggior resistenza all'influenza delle radiazioni, le loro
ustioni guariscono con rapidità maggiore che negli altri...»
«Tutto questo lo so, dottor Shekt...»
«Avete mai pensato, allora, che questo processo di mutazione
possa essersi verificato anche a carico di altre specie viventi sul-
la Terra, oltre che negli uomini?»
Cadde un istante di silenzio, a capo del quale Arvardan disse:

174/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Be',... No! Non ci avevo pensato. Ma ora che me l'avete fatto
osservare la cosa mi sembra ovvia».
«Infatti. E come avrete forse notato gli animali domestici esi-
stono sulla Terra in numero assai superiore che altrove. E l'aran-
cia che avete mangiato è una varietà, dovuta a mutazione, che
non esiste in nessun altro mondo abitato. Inutile aggiungere a
questo punto, che quanto vale per gli animali e per le piante si
verifica anche nel mondo degli esseri microscopici».
A queste parole, Arvardan si senti stringere il cuore in una
morsa di gelido terrore.
«Alludete forse ai... batteri?» disse.
«Alludo a tutto il mondo della vita primitiva: protozoi, batte-
ri, e proteina autoriproducentesi che alcuni chiamano ancora vi-
rus».
«Dove volete andare a finire?»
«Non mostrereste così grande, improvviso interesse se non
l'aveste già intuito, dottor Arvardan. Rifatevi alla superstizione
dei vostri che credono gli abitanti della Terra portatori di malat-
tie e di morte, che ripetono ad ogni piè sospinto che la promi-
scuità con i Terricoli significa ancora morte, che accusa gli abi-
tanti di questo pianeta di essere degli iettatori, dei "portatori di
malocchio"...»
«Spregevoli superstizioni!»
«Non interamente. È appunto qui che viene il peggio. Anche
questa, come tutte le credenze sia pure superstiziose e contorte,
possiede, in fondo, una briciola di verità. Accade infatti talvolta,
che un Terricolo si porti a spasso nel proprio torrente circolato-
rio un determinato parassita microscopico, frutto di una muta-
zione, e pertanto dissimile da tutti gli altri esistenti altrove, al
quale si dimostrerà fatalmente più resistente che uno Venuto di
Fuori. Quanto ne segue non è che semplice biologia, dottor Ar-
vardan».
L'archeologo tacque.
«Naturalmente, qualche volta veniamo colti impreparati an-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/175


che noi» continuò allora Shekt. «Dalle nebbie radioattive salta
fuori un nuovo germe ed ecco che il nostro pianeta soggiace a
spaventose epidemie. Comunque, bene o male, i Terricoli, se la
sono sempre cavata: con l'avvicendarsi delle generazioni, ad
ogni varietà di microbi e virus noi abbiamo opposto i nostri anti-
corpi, abbiamo creato le nostre difese, siamo sopravvissuti. Ma i
Venuti di Fuori non hanno alle spalle il nostro passato auto-
immunizzatore».
«Non mi direte» balbettò Arvardan con voce turbata «che ba-
sta un semplice contatto con uno di voi per...» Gli si chiuse la
gola e si abbandonò tremando sullo schienale della poltrona. Ri-
pensava ai baci di Pola.
«Non volevo dir questo, naturalmente: noi non creiamo le
malattie; ci limitiamo ad esserne portatori. Il fenomeno, comun-
que, si verifica assai di rado. Sulla Terra, c'è un germe su ogni
quadrilione, su ogni quadrilione di quadrilioni, che sia veramen-
te pericoloso. E avete tante probabilità di esserne infettato, quan-
te ne avete di essere colpito sulla testa da una meteora che riesca
a sfondare proprio il tetto di casa mia. Naturalmente, se si co-
mincia a isolare quel germe, dopo esserne andati deliberatamen-
te in cerca e se si provvede a concentrarlo...»
Questa volta cadde un silenzio assai più lungo. Quando Ar-
vardan si credette nuovamente capace di articolare le parole,
disse con voce strangolata: «Ed è questo che hanno fatto gli uo-
mini della Terra?!»
Non riteneva più di trovarsi di fronte ad un paranoico. Ormai
era pronto a credere al dottor Shekt.
«Precisamente. E in un primo tempo erano mossi da scopi più
che leciti. Giustamente preoccupati di studiare certi aspetti parti-
colari della vita terricola, i nostri biologi sono recentemente riu-
sciti ad isolare il virus della Febbre Comune».
«E che cos'è la Febbre Comune?»
«In Terra possiamo considerarla un morbo endemico, beni-
gno. Con noi, per lo meno, si è sempre dimostrato tale. Ne ca-

176/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


dono malati quasi tutti i Terricoli, nell'infanzia, e i suoi sintomi
sono tutt'altro che gravi. Modico rialzo termico, esantema pas-
seggero, infiammazione delle articolazioni, delle labbra e della
cavità orale, fenomeni questi che si accompagnano a fastidiosa
sensazione di sete. Dopo quattro, sei giorni di letto il paziente ne
guarisce e rimane immunizzato. L'ho avuta io, l'ha avuta Pola.
Qualche volta, la forma morbosa assume caratteri assai più viru-
lenti, probabilmente indotti dalla presenza di un virus patogeno
di ceppo diverso dal solito, e viene chiamata Febbre da Radia-
zione».
«Febbre da Radiazione» mormorò Arvardan. «Ne ho già sen-
tito parlare...»
«Davvero? Be'... la chiamano così perché si crede comune-
mente di caderne malati quando ci si espone agli effetti delle zo-
ne radioattive. In realtà, frequentando quelle zone ci si può am-
malare di febbre da radiazioni in quanto è proprio in quell'am-
biente che il virus normale può mutarsi fino ad assumere i carat-
teri del ceppo pernicioso. La malattia, comunque, non è già in-
dotta dalla radiazione in sé, bensì da quel virus particolare. I sin-
tomi del male esplodono a due ore di distanza dalla virulenta-
zione del virus; il malato allora avrà già le labbra ridotte in uno
stato tale da non riuscire più a parlare e spesso sarà morto in un
paio di giorni.
«Ed eccoci al punto, dottor Arvardan: mentre il Terricolo si è
aggiustato alla Febbre Comune, lo Straniero non ne è assoluta-
mente immune.
«È capitato qualche volta che ne sia caduto vittima uno dei
soldati delle guarnigioni imperiali; ebbene, li abbiamo veduti
morire nel lasso di dodici ore. Ed è toccato sempre a noi Terri-
coli di cremarne la salma perché i commilitoni si rifiutano inva-
riabilmente di avvicinarla.
«Come dicevo, il virus è stato isolato una decina di anni or
sono. Come per la maggior parte dei virus filtrabili, anche in
questo caso si tratta di nucleoproteina che , però possiede la par-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/177


ticolare caratteristica di contenere una quantità straordinaria-
mente elevata e concentrata di carbonio, zolfo e fosforo, radioat-
tivi per almeno il cinquanta per cento del loro peso. E, a quanto
sembra, non sarebbero già le tossine del virus a scatenare i noti
sintomi nell'organismo dell'ospite, bensì per l'appunto queste ra-
diazioni. È più che naturale dunque che i Terricoli, da lungo
adattatisi alle radiazioni gamma, rimangano colpiti dal virus in
forma piuttosto lieve. Il primo oggetto di ricerca sul virus fu
quello di studiare il metodo grazie al quale riusciva a concentra-
re i propri isotopi radioattivi. Come vi sarà certamente noto, per
isolare gli isotopi con mezzi chimici bisogna sobbarcarsi a labo-
riosi interminabili procedimenti. E l'unico organismo capace di
tanto che si conosca è appunto il virus del quale stiamo parlan-
do. Ma ad un certo punto si mutarono gli obiettivi delle ricerche.
«E poiché mi sembra che abbiate ormai intuito il resto, sarò
volutamente breve, dottor Arvardan. Mentre si poteva sperimen-
tare su animali venuti di Fuori, assai più difficile era procurarsi
materiale umano galassico. Troppo pochi erano gli imperiali
presenti sulla Terra perché non se ne notasse l'improvvisa fre-
quente scomparsa. Guai se con una mossa falsa i Terricoli aves-
sero rivelato l'esistenza di un loro piano segreto. Ecco dunque
che mi mandano un folto gruppetto di batteriologi da sottoporre
a trattamento col mio Sinottificatore al fine di esaltarne le facol-
tà introspettive. È appunto a costoro che si deve la scoperta di
una formula matematica che applicata alla chimica delle protei-
ne ed all'immunologia ha reso possibile la coltura di un ceppo di
virus sintetico mediante il quale si medita di aggredire tutti i vi-
venti della Galassia, eccettuati i Terricoli. Le scorte di virus cri-
stallizzato ammontano ormai a tonnellate».
Arvardan era impietrito. Grosse gocce di sudore gli rotolava-
no lungo le tempie e le guance gelide.
«La Terra, in poche parole, si accinge a scatenare contro la
Galassia la più gigantesca guerra batteriologica che l'Universo
conosca...

178/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Una guerra che noi non possiamo perdere, né voi potete vin-
cere. Esattamente. Cominciata l'epidemia si avranno migliaia di
decessi giornalieri e nessuno riuscirà a frenarla.
«Fuggiaschi atterriti, ignari portatori del virus, provvederan-
no a spargere il morbo per lo spazio. E se giungerete al punto di
decidere la disintegrazione di interi pianeti si provvederà imme-
diatamente ad infettarne altri e l'epidemia comincerà a mietere
vittime di bel nuovo. Nessuno sospetterà della Terra: quando la
nostra immunità risulterà clamorosamente evidente e si comin-
cerà a sospettare di noi, la strage avrà assunto proporzioni così
enormi e l'abbattimento degli Stranieri sarà così vasto che essi
saranno ormai incapaci di una iniziativa qualsiasi».
«Ma... sarà la morte di tutti?!» sbalordì col singhiozzo nella
voce Arvardan, incapace di accettare una verità così orrenda.
«Non di tutti, forse. I nostri scienziati sono stati veramente
bravi: hanno anche scoperto un'antitossina nonché il mezzo di
produrne in quantità enormi. Se il resto della Galassia si arrende
subito, ne otterrà. Senza contare i pianeti fuori mano e le immu-
nità naturali di qualche singolo».
In preda a profondo accasciamento, Arvardan non osò neppu-
re dubitare un solo istante della veridicità dell'esposizione di
Shekt. La verità che aveva appreso valeva a cancellare come un
tratto di penna la proporzione di venticinque milioni contro uno
sulla quale aveva fondato sino a poc'anzi la propria sicurezza. E
Shekt continuava con la sua voce stanca:
«Tutto ciò, comunque, non è opera della Terra. È volontà di
un pugno di capi pervertiti sino a questo punto dalla ostilità che
li ha esclusi fino a questo momento dalla Galassia. È opera di un
pugno di individui avvelenati dall'odio per coloro che li hanno
disprezzati, gente che vuole soltanto vendicarsi ad ogni costo,
con folle determinazione...
«Ma prima che Terricolo io sono uomo. Posso ammettere che
trilioni di individui muoiano per la follia di qualche milione?
Posso permettere che una civiltà ormai disseminatasi per tutta la

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/179


Galassia crolli miseramente per colpa dei risentimenti, sia pure
giustificati, di un solo pianeta? E che cosa ne avremmo guada-
gnato noi Terricoli? Nulla; perché si può dominare la Galassia
unicamente da quei pianeti che dispongano delle indispensabili
risorse... e la Terra non ne ha. Poniamo pure che i Terricoli rie-
scano a regnare per una generazione a Trantor: i loro figli diver-
ranno trantoriani che guarderanno il resto dei Terricoli con
sommo e profondissimo disprezzo.
«Quale vantaggio ne verrebbe all'Umanità, inoltre, mutando
la tirannia galassica con quella della Terra? Nessuno! Perché noi
dobbiamo trovare la via d'incontro di tutti gli uomini, la via che
conduca a giustizia, a libertà».
E raccogliendo il volto scarno tra le mani esangui e tremanti
il dottor Shekt agitò il capo sotto la scossa dei singhiozzi.
Arvardan l'aveva da ultimo ascoltato come in preda ad una al-
lucinazione. Ricompostosi un poco, mormorò:
«No, dottor Shekt! Il vostro non si può certo chiamare tradi-
mento. Parto immediatamente per l'Everest. E il Procuratore
ascolterà le mie parole. Deve ascoltarle, deve crederle!»
E in quell'istante, s'udirono passi affrettati lungo il corridoio.
Si spalancò violentemente l'uscio e Pola apparve sulla soglia ter-
rea in volto.
«Babbo... Un drappello di armati sta marciando verso casa
nostra!»
Il dottor Shekt minacciò di venir meno. «Presto!» impose ri-
prendendosi. «Dottor Arvardan! Prendete Pola con voi e fuggite
attraverso l'autorimessa. A me non pensate. Li trattengo io...»
Ma quando si voltarono, si trovarono di fronte un uomo av-
volto da un serico mantello di color smeraldo. Aveva un sorri-
setto ironico stampato sul labbro e reggeva con disinvolta ele-
ganza un micidiale staffile neuronico. In basso, molti pugni adi-
rati colpivano con una gragnuola di colpi la porta d'ingresso che
ben presto si sfasciò sotto l'urto tremendo.

180/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«

«Io?»

«Chi siete?» volle sapere


Arvardan guardando con aria
di sfida lo sconosciuto avvolto
dal mantello, che era venuto a
fermarsi davanti a Pola.
disse lo sconosciuto. «Non
sono che l'umilissimo segreta-
rio di Sua Eccellenza il Primo
Ministro». E muovendo più
appresso ai tre, proseguì: «So-
no appena giunto in tempo.
Appena, appena... To'... C'è
anche una ragazza... Molto
poco saggio...».
«Sono cittadino galassico»
tuonò Arvardan «e vi contesto
il diritto di impedirmi di usci-
re... Dico di più, vi contesto il
diritto di entrare in questa casa

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/181


senza il permesso delle Autorità!»
«Io» disse il Segretario battendosi leggermente il petto con la
mano disarmata «sono il diritto e l'autorità su questo pianeta. E tra
breve sarò anche diritto ed autorità per tutta la Galassia. Ormai vi
abbiamo presi tutti al laccio... Persino Schwartz...»
«Schwartz?!» sbalordirono all'unisono il dottor Shekt e Pola.
«Vi sorprende? Venite! Ve lo farò vedere».
Ed Arvardan non fu conscio che di un ultimo perfido sorriso
di quelle labbra esangui, contorte in un sogghigno cattivo... Poi
il fiammeggiante bagliore della sferza neuronica lo avvolse di
luce rossa e lo precipitò, tra pene inenarrabili, nell'abisso dell'in-
coscienza.

XVI
FA' LA TUA SCELTA

Per il momento, avevano costretto Schwartz ad accomodarsi


su di una panca in una delle stanzette segrete del seminterrato
della Casa di Correzione di Chica.
Nel corso di lunghi secoli, tra le sue mura, sbigottiti Terricoli
erano rimasti a lungo in attesa della condanna per aver evaso o
falsificato gli impegni produttivi, per essere vissuti oltre i termi-
ni prestabiliti, per essersi dimostrati complici in quei crimini o
aver osato di ribellarsi all'autorità costituita. Ogni tanto, ispiran-
dosi all'atteggiamento "superiore'', del proprio Governo, questo
o quel Procuratore aveva giudicato inique le sentenze, ridicole
superstizioni i capi di accusa ed aveva preteso il proscioglimento
degli imputati. Ne erano sempre seguiti gravi tumulti. Un paio di
volte si era giunti addirittura alla rivolta armata.
Così, quasi sempre, alla richiesta di una condanna a morte da
parte del Consiglio, il Procuratore cedeva: in fondo si trattava
soltanto della vita di un Terricolo...

182/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Inutile dirlo, di tutto ciò Schwartz era perfettamente all'oscu-
ro. Non aveva che coscienza visiva di quanto lo circondava in
qualità dì ambiente: una angusta cameretta dalle pareti appena
luminiscenti, arredata con due durissime panche ed una tavola;
in un angolo, un minuscolo ricettacolo accoglieva l'indispensabi-
le degli impianti igienico-sanitari.
Scompigliandosi la coroncina di capelli che gli incorniciava-
no la calvizie, Joseph Schwartz si alzò inquieto. Bell'affare quel
suo tentativo di fuga! Privo di un ricovero qualsiasi su quella
Terra balorda e incomprensibile, era stata brevissima, assai poco
divertente, ed era finita... lì.
Meno male che poteva giocherellare un po' col suo Contatto
Mentale. Anche perché se fosse rimasto lì per ventiquattro ore a
cercar di scoprire la ragione per la quale l'avevano ficcato in gat-
tabuia avrebbe finito col diventar matto. Così sfiorava psichica-
mente i secondini che passavano per il corridoio, allungava i
tentacoli del suo Contatto Mentale a far conoscenza con le guar-
die di stanza negli uffici adiacenti, riusciva perfino a mettersi in
sintonia col cervello del comandante della Casa Penale como-
damente seduto nel suo ufficio ai piani superiori.
Schwartz rivoltava accuratamente tutti quei cervelli e li sot-
toponeva a meticoloso esame. Gli si spalancavano davanti come
altrettante noci... aridi ricettacoli dai quali si sprigionavano co-
me in un sibilo emotività e pensieri...
Apprese così molte cose sulla storia della Terra e dell'Impe-
ro... più di quanto gli fosse mai riuscito di fare durante i due me-
si trascorsi alla fattoria.
Una delle cose che aveva apprese, al di là d'ogni dubbio era
questa:
Doveva considerarsi condannato a morte, senza scampo. Sen-
za dubbi o riserve!
Se non oggi, forse domani... Ma sarebbe morto!
Una nozione che finì per penetrargli nel profondo e che Sch-
wartz accettò quasi con un senso di sollievo.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/183


Ma allo spalancarsi dell'uscio, fu in piedi per un istante irri-
gidito dalla paura anche se il Tocco Mentale del nuovo venuto
era esente da qualsiasi idea di morte. Non era che una guardia
armata di una specie di bastoncino metallico che Schwartz aveva
ormai imparato a conoscere.
«Venite con me» gli disse aspra la guardia.
Schwartz le si mise alle calcagna, meditando sulle strane qua-
lità di cui si sapeva dotato. Assai prima che la sua guardia potes-
se far uso della sua arma, assai prima di potersi rendere conto di
doverla impugnare, la meschina poteva finire abbattuta al suolo,
incapace di difendersi perché il Tocco Mentale di Schwartz le
aveva afferrato la Mente: una stretta e tutto sarebbe finito.
Ma poi? Ne sarebbero accorse molte altre. E quante ne poteva
affrontare in "quel" suo modo, Schwartz, in una volta sola?
Quante paia di mani aveva la sua Mente?
Seguì docile il guardiano, che lo condusse in un vastissimo
stanzone. Su tre altissimi tavoli posavano i corpi di due uomini e
quello di una ragazza. Ma non si trattava di cadaveri... Le menti
di quei tre, infatti, erano attive. Attivissime, benché i corpi fos-
sero paralizzati. Lo conoscevano!... Possibile che lo conoscesse-
ro?
Si fermò per osservarli meglio, ma la guardia lo spinse per
una spalla imponendogli: «Cammina!».
C'era un altro tavolo, infatti, nello stanzone. Vuoto. Libero
per lui! E poiché nella mente della guardia non c'era concetto di
"morte", Schwartz vi si arrampicò con santa pazienza. Ma sape-
va che cosa gli sarebbe successo, ora.
La guardia gli toccò le membra col suo bastoncino di metallo.
Si contrassero in uno spasimo... e poi non se le senti più, tra-
sformato semplicemente in una testa che si librava nel nulla.
La volse, quella testa.
«Pola!» gridò. «Voi siete Pola, non è vero? Siete la ragazza
che...»

184/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


E lei gli faceva cenno di "si"
con il capo. Schwartz aveva
certo riconosciuto la ragazza
dal contatto mentale: come
avrebbe potuto, se due mesi
prima non aveva ancora ac-
quisito la sua strana facoltà?
A quei tempi, la ricettività
della sua mente era giunta
allo stadio della sensibilità
all'atmosfera soltanto. E una
luce vivissima gli illuminò
quello scorcio del recente
passato.
Ma doveva apprendere
ancora parecchio dal conte-
nuto di quei cervelli! Il cor-
po dell'uomo che veniva su-
bito dopo la ragazza appar-
teneva al dottor Shekt.
Quello successivo a Bel Ar-
vardan. Schwartz, così, ne
conobbe i nomi, ne avvertì
la disperazione; nella mente
della fanciulla c'era un abis-
so di orrore e di spavento...
Per qualche istante provò
pietà per loro. Li commise-
rò. Ma ricordando chi erano,
che cosa erano, gli si indurì
il cuore.
Crepassero pure!
Ma gli altri tre si trova-
vano in quello stanzone da

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/185


quasi un'ora. Uno stanzone evidentemente destinato ad accoglie-
re centinaia di individui, e nel quale i quattro prigionieri si per-
devano, quasi. E che cosa poteva dire, in quelle circostanze? Ar-
vardan si sentiva la gola inaridita e continuava a muovere la te-
sta in ogni direzione senza alcuno scopo. Era il solo movimento
che la paralisi gli consentiva di fare.
Shekt aveva chiuso gli occhi; le sue labbra erano esangui e
contratte.
«Shekt! Shekt!» chiamò Arvardan in un sibilo.
«Che c'è... Che c'è?» gli fu risposto con un filo di voce.
«Che fate? Non vorrete addormentarvi, spero! Pensate qual-
cosa! Escogitate qualcosa, per l'amor di Dio!»
«Che cosa volete che escogiti?!»
«Chi è quello Schwartz?»
«Non rammenti, Bel?» mormorò Pola. «L'episodio di quella
sera davanti ai grandi magazzini? Quando ci siamo incontrati
per la prima volta?»
Contorcendosi selvaggiamente, Arvardan riuscì a sollevar la
schiena di qualche centimetro e intravide così un pezzetto del
visino di Pola.
«Ce la caveremo, Pola! Vedrai...»
Ma la giovane scosse il capo in cenno di diniego ed Arvardan
lasciò ricadere il capo, tra spasimi lancinanti di tutti i tendini.
«Ascoltatemi, Shekt» riprese. «Come l'avete conosciuto que-
sto Schwartz? Un vostro paziente, forse? Rispondetemi!»
«È venuto ad offrirsi volontario per il Sinottificatore e l'ho
trattato».
«Come mai era venuto volontario?» volle sapere Arvardan
dopo avere a lungo dibattuto la domanda con se stesso. «E... se
fosse davvero un agente imperiale?»
Schwartz sorrise senza pronunciare verbo: seguiva perfetta-
mente i processi mentali dei due, ma aveva deciso di non inter-
venire.
«Un agente imperiale?» ripeté Shekt agitando debolmente il

186/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


capo. «Perché così ha detto il Segretario del Gran Ministro?
Sciocchezze! E anche se lo fosse? Ridotto com'è potrebbe fare
ben poco... Ascoltate, Arvardan, perché non cerchiamo una giu-
stificazione plausibile, che ci permetta eventualmente...»
«Che ci permetta eventualmente di cavarcela? Questo, vole-
vate dire... E noi dovremmo continuare a vivere mentre la Ga-
lassia muore e la sua civiltà è destinata a rovina? Meglio mori-
re!»
«Pensavo soprattutto a Pola» si giustificò balbettando Shekt.
«Io ho fatto la mia scelta» disse la fanciulla con voce ferma.
«Non mi sorride l'idea di morire, ma se tutto ciò per cui vale la
pena di battersi è destinato a morte son pronta a perire anch'io».
E Arvardan si sentì fiero del contegno della sua ragazza.
Quando se la sarebbe portata con sé a Sirio, avrebbero tentato
invano di umiliarla chiamandola Terricola: sarebbe bastato il
racconto di quell'episodio a ricacciare in gola a tutti ogni giudi-
zio men che lusinghiero.
Ma a questo punto Arvardan ricordò che forse non gli sareb-
be mai stato dato di poter condurre Pola con sé a Sirio... Non ci
sarebbe mai stato ritorno a Sirio. Forse non ci sarebbe più nep-
pure stato il pianeta. E per sfuggire a quel triste pensiero, per
sottrarvisi in un modo qualunque, gridò: «Ehi voi! Schwartz! O
come diavolo vi chiamate...»
Schwartz sollevò il capo per un attimo degnandosi di gettare
un'occhiata verso l'altro. Ma continuò a tacere.
«Chi siete?» domandò Arvardan. «Com'è che vi trovate coin-
volto in questa faccenda? Per quale delle due parti avverse vi
battete?»
A quella domanda, la profonda ingiustizia di tutto quanto gli
era capitato calò come un'ombra cupa sull'animo di Schwartz.
«Io? Com'è che mi trovo implicato in questa faccenda? Statemi
a sentire... Un tempo io ero nessuno: un pover'uomo onesto, che
si guadagnava il pane lavorando duro; facendo il sarto. Non ho
mai fatto male a nessuno, non ho mai dato seccature a nessuno;

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/187


badavo soltanto a me e alla mia famiglia. Poi, senza una ragione
al mondo, senza nessunissima ragione... sono finito qui».
«A Chica?» domandò Arvardan, che non riusciva a capire.
«No!» gridò Schwartz con selvaggia ironia. «Non alludevo a
Chica! Alludevo a tutto quanto questo mondo balordo... Che co-
sa me ne importa, ormai... Lo crediate o no... io vengo da un
mondo del passato. Il mondo che ho conosciuto io aveva terra
fertile ed alimenti per due bilioni di individui, ed era il solo
mondo che si conoscesse».
«Ve l'ho detto» disse il fisico ad Arvardan con intonazione di
rispettoso stupore «che quest'uomo ha ancora un'appendice ver-
miforme lunga quasi sette centimetri? Lo ricordi questo partico-
lare, Pola? E ha anche i denti del giudizio, per non parlare della
barba».
«Sicuro! Certo!» strillò Schwartz in tono di sfida. «E mi di-
spiace di non avere anche una coda, se no vi farei vedere anche
quella! Io vengo dal passato. Io ho viaggiato attraverso il tem-
po! Non chiedetemi come, non chiedetemi perché e lasciatemi in
pace» concluse improvvisamente mutando tono di voce «perché
tra poco verranno a prenderci. Ci stanno martoriando con questa
attesa, per poi finirci meglio!»
«L'avete saputo dal Segretario, forse? Un uomo alto, secco,
con un gran naso?»
«Balkis?» domandò incuriosito. «E che cosa vi ha detto?»
«Non gli ho mai parlato» precisò Schwartz «eppure lo so.
Così, si pensa di dar morte a tutti noi, e non ci resta alcuna via
di scampo».
«Costui è pazzo! Non vi sembra?» sussurrò Arvardan.
«Non direi... Sto piuttosto pensando alle sue suture craniche...
Ricordo che erano primitive, molto primitive».
Arvardan era al colmo dello stupore. «Volete dire... Andia-
mo! Non è possibile!»
«Eppure io l'ho sempre creduto». E per un attimo la voce di
Shekt tornò alla sua intonazione normale, quasi che l'essersi pro-

188/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


spettato un problema scientifico, l'avesse distolto dall'abisso
emotivo nel quale la sua personalità più vera era completamente
scomparsa.
«Si è calcolato che l'energia necessaria a far muovere la ma-
teria lungo l'asse del tempo, raggiunge un valore quasi superiore
all'infinito... Ecco perché ad un certo momento si è considerata
impossibile la cosa. Altri, però, hanno parlato della possibilità
che esistano "falle del tempo'', così come si è constatata l'esi-
stenza di falle analoghe in campo geologico. Infatti, sappiamo,
per dirne una, che alcune astronavi sono scomparse nello spa-
zio, improvvisamente ed alla presenza di numerosi testimoni.
Non dimentichiamo inoltre quel pianeta che troviamo descritto
in tutti i libri di Galassografia dell'ultimo secolo: visitato da ben
tre spedizioni che l'hanno esaurientemente descritto... non lo si è
mai potuto ritrovare.
«Né dobbiamo trascurare di far parola di certi sviluppi nella
chimica nucleare che sembrano negare la legge della conserva-
zione della massa-energia. Si è tentato di spiegare il fenomeno
supponendo la fuga di una certa quantità di massa lungo l'asse-
tempo. Si sa ad esempio che i nuclei dell'uranio, mescolati a ra-
me e bario in proporzioni minime quanto definite, determinano
un sistema risonante sotto l'influenza di radiazioni gamma-
luminose...»
«Babbo» intervenne Fola. «È inutile...»
«Un momento» intervenne Arvardan, perentorio. «Lasciatemi
pensare un momento. Io sono il solo che possa decidere su que-
sta questione. Quello che abitavate era forse l'unico mondo della
Galassia?»
«Sì» rispose cupo Schwartz.
«Questa tuttavia è una vostra supposizione; intendo cioè che,
privi come eravate di mezzi atti a viaggiare nello spazio, non po-
tevate sincerarvene. Infatti potevano esserci molti altri mondi
abitati».
«Non sono in grado di rispondervi».

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/189


«Quel che immaginavo. Peccato. Conoscevate le forze atomi-
che?»
«Avevamo la bomba atomica. Fatta di uranio e... plutonio...
credo... E deve essere stata quella roba lì a rendere radioattivo
questo mondo. A dispetto di tutto... debbono averla fatta, un'al-
tra guerra, dopo che me ne sono andato io... Con le bombe ato-
miche...» E senza saper come, Schwartz fece timidamente ritor-
no col ricordo alla sua Chicago, al mondo dei suoi giorni perdu-
ti, ai giorni che non conoscevano la bomba atomica. Ne provò
un acuto senso di nostalgia, di dispiacere; non pensava a se stes-
so, ma pensava a quanto era stato bello, allora, quel mondo...
«Benissimo» continuava frattanto Arvardan quasi tra sé.
«Che lingua parlavate?»
«Sulla Terra? Ne parlavamo un sacco!»
«Qual era la vostra?»
«L'inglese...»
«Bene. Parlatela un po'».
Da due mesi, o forse più, Schwartz non aveva più pronuncia-
to una parola in inglese. E in quel momento, con infinito amore,
pronunciò dolcemente: «Voglio tornare a casa: voglio tornare tra
i miei».
«Be'... Capisco... Come dicevate " Mamma" nella vostra lin-
gua, Schwartz?»
Schwartz lo disse, con infinita dolcezza.
«Già, e... "Babbo"... "Fratello"... "Uno"... alludo ai numeri
cioè "due"... "tre"... "casa"... "uomo"... "donna"...»
L'interrogatorio proseguì a lungo, sino a che Arvardan si fer-
mò per riacquistare fiato. Ed aveva il volto atteggiato ad espres-
sione di somma meraviglia.
«Shekt» disse «o quest'uomo dice il vero o io sono vittima
dell'incubo più pazzesco che si possa immaginare. Schwartz par-
la lo stesso linguaggio delle iscrizioni degli strati di cinquanta-
mila anni fa, presenti su Sirio, Arcturus, Alpha Centauri e una
ventina d'altri. Parla una lingua che è stata decifrata soltanto in

190/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


quest'ultima generazione, e che è conosciuta nella Galassia da
una dozzina di persone in tutto, tra le quali l'umile sottoscritto».
«Ne siete certo?»
«Certo? Ne sono certissimo. Sono un archeologo e nessuno
meglio di me lo può sapere».
Per un istante, Schwartz cominciò a sentir scricchiolare l'ar-
matura di riserbo entro la quale si era fasciato. Per la prima volta
dopo tanto tempo gli sembrava di riprendere contatti con
quell'individualità che aveva creduto perduta. Il suo segreto non
era più tale. Aveva detto di essere un uomo del passato, e coloro
che erano stati ad ascoltarlo l'avevano creduto. Ciò costituiva la
prova che egli era sano di mente, ciò disperdeva per sempre il
dubbio atroce d'esser stato pazzo, ed egli ne provava infinita
gioia. Tuttavia mantenne il suo atteggiamento di riserbo.
«Quell'uomo mi serve» disse Arvardan tutto acceso dalla sa-
cra fiamma della sua professione. «Shekt, voi non potete render-
vi conto di che cosa significhi quello Schwartz per tutti gli studi
archeologici. È un uomo del passato! Oh, Grande Spazio!... E mi
viene un'idea... Si potrebbe mercanteggiare Schwartz, che è la
prova di cui la Terra da lungo va in cerca. Noi possiamo dare
Schwartz agli anziani, in cambio...»
Ma Schwartz lo interruppe sardonico: «So benissimo che co-
sa pensate. Vi illudete che io possa servire alla Terra, come pro-
va che questo pianeta è la culla dell'umanità dalla quale tutti gli
altri uomini hanno preso le mosse per stabilirsi nel resto della
Galassia. L'ho pensato anch'io... E avrei volentieri barattato que-
sta mia testimonianza pur di rimanere in vita. Ma i nostri avver-
sari non crederanno né a me... né a voi».
«Ma se costituite una prova incontrovertibile!»
«Vi sghignazzeranno sul muso. Perché loro si sono formati
un determinato concetto dogmatico del passato. Apportare una
variante qualsiasi, anche se fondata sulla verità, anche se verità
assoluta, sarebbe come bestemmiare loro in faccia. Perché i Ter-
ricoli di questi giorni non sanno che cosa farsene della verità: a

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/191


loro preme soltanto di salvare i valori tradizionali».
«Chi ve lo dice?»
«Lo so!» E le parole proruppero dalle labbra di Schwartz co-
me una sentenza da oracolo, sì che Arvardan fu costretto al si-
lenzio.
Ma era Shekt ora che guardava il suo paziente con gli occhi
stanchi, accesi da una strana luce.
«Avete avvertito postumi fastidiosi, in seguito dell'azione del
Sinottificatore?» domandò dolcemente.
Schwartz non comprese le parole, ma ne afferrò il significato.
Dunque, in un modo o nell'altro, avevano operato sulla sua
mente!
Alla fine si decidevano a dirglielo. Rispose: «Non ho avverti-
to alcun postumo fastidioso».
«A quanto sembra, tuttavia, avete appreso la nostra lingua
con enorme rapidità. E la parlate bene. Quasi come se fosse la
vostra lingua materna. Non vi sorprende la cosa?»
«Ho sempre avuto un'ottima memoria» rispose freddamente
l'interrogato.
«Non vi sentite dunque affatto differente da quel che eravate
prima del trattamento?»
«Debbo forse dire che riesco a leggere il pensiero?» rispose
Schwartz con una breve risata. «E con ciò?»
Ma Shekt non si occupava più di lui. Rivolta verso Arvardan
la sua faccia esangue, dall'espressione esausta, disse: «Arvar-
dan... Schwartz è in grado di "sentire" le menti altrui. Pensate a
quante cose potrei fare con lui, mentre invece...»
«Che... Che cosa... Che diav...» proruppe Arvardan incredulo.
E persino Pola, non seppe trattenere, a questo punto, la sua
meraviglia: «È vero quel che dice il babbo?» domandò a Sch-
wartz.
L'uomo venuto dal passato annuì. Pensò che la ragazza si era
presa cura di lui ed ora avrebbe dovuto morire. Eppure... In un
certo senso la giudicava una traditrice.

192/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Shekt, frattanto, diceva: «Ricordate, Arvardan, quel batterio-
logo di cui vi parlavo, quel tale che mi è morto in seguito a trat-
tamento col Sinottificatore? Sapeva leggere il pensiero. Lo sco-
persi poco prima che morisse, e non l'ho mai detto a nessuno. A
nessuno... Ma non dimentichiamo che il fenomeno può verifi-
carsi, Arvardan; è possibile. Infatti, se abbassiamo la resistenza
opposta dalle cellule cerebrali, il cervello può essere messo nelle
condizioni di captare i campi magnetici indotti dalle microcor-
renti che si sprigionano dai pensieri altrui e di ritrasformarli in
vibrazioni identiche: lo stesso principio. sul quale si fonda la co-
struzione dei comuni registratori o magnetofoni. Ci troveremmo
di fronte a telepatia nel senso esatto della definizione».
Schwartz continuava a tacere ostinato ed ostile, mentre Ar-
vardan si voltava lentamente verso di lui per dire: «Se è così,
Shekt, sarebbe proprio un peccato non servirci di lui».
La mente dell'archeologo si agitava selvaggia, prendendo in
esame cose possibili ed impossibili. «Credo proprio che ci sia un
mezzo per cavarcela, ora. Deve saltar fuori, per noi, per la Ga-
lassia!»
Ma Schwartz rimaneva freddo a contatto col tumulto mentale
che agitava l'altro. Disse: «Potrei leggere i pensieri di quelli là!
Ma che vantaggio ce ne verrebbe? Perché, se volete proprio sa-
perlo, so anche fare ben altro! Che ne dite per esempio, di que-
sto?».
Non fu che una spinterella... Ma Arvardan lanciò un urlo
all'improvviso senso di dolore al cervello.
«Opera mia» disse Schwartz. «Ne volete un altro?»
Arvardan disse, ansando: «Non potreste sistemare in questo
modo le guardie? Il Segretario? Perché vi siete lasciato portare
qui senza reagire? Grande Galassia! Shekt, siamo a cavallo!
Ascoltatemi. Schwartz...».
«No» disse Schwartz «sarete voi ad ascoltarmi. Perché dovrei
desiderare di tornar libero? Per andar dove? Per tornare ancora
una volta su questo mondo spento? No! Io vorrei tornare a casa

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/193


mia e non posso farlo più! Io vorrei tornare alla mia gente, al
mio mondo e non posso. Non mi resta che una cosa da desidera-
re: morire».
«Ma si tratta di tutta la Galassia, Schwartz. Non potete pensa-
re soltanto a voi stesso!»
«Non posso? E chi ve lo dice? Perché dovrei preoccuparmi
della Galassia? Per conto mio la vostra Galassia può andare
all'Inferno come meglio crede. So benissimo ormai quali sono i
propositi della Terra e li condivido di tutto cuore. Poco fa, la si-
gnorina ha detto di aver fatto la sua scelta. L'ho fatta anch'io:
sposo la Causa della Terra».
«Che?!»
«E perché no? Non sono Terricolo anch'io?»

XVII
SI VOLTA BANDIERA

Era già trascorsa un'ora dal momento in cui emergendo dalle


nebbie dell'incoscienza, Arvardan aveva ripreso contatto con la
realtà per ritrovarsi gettato su di un tavolaccio, come un pezzo di
carne qualsiasi in attesa del macellaio. E non era accaduto nulla.
Non c'era stato altro che quel chiacchierio febbrile, insopporta-
bilmente trascorso in quel lasso di tempo insopportabile.
E quella situazione era stata creata ad arte, aveva un suo sco-
po preciso. Questo Arvardan lo sapeva: l'avevano gettato su quel
tavolo, senza degnarsi nemmeno di mettergli una guardia al
fianco, e privandolo così della coscienza di costituire comunque
un pericolo, si tendeva a renderlo conscio della sua abissale im-
potenza.
Pensieri insopportabili, di cui Arvardan cercò di mutare il
corso, interrompendo l'intollerabile silenzio.
«Ho paura che il locale pulluli di onde riceventi... Abbiamo

194/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


fatto male a parlare».
«Nessuno ci ha ascoltati» disse Schwartz con voce piana.
«Non c'è nessun orecchio in ascolto».
L'archeologo frenò a tempo la domanda che gli era venuta au-
tomaticamente alle labbra: «Chi ve l'ha detto?...»
Pensò al potere infinito di cui era dotato quell'uomo! Un uo-
mo del passato che si autodefiniva Terricolo, che dichiarava di
voler morire!
Supino, non riusciva che a vedere un tratto del soffitto. Vol-
gendo il capo da una parte, poteva vedere l'angoloso profilo di
Shekt; dall'altra parte aveva una bianca parete. Sollevò a fatica il
capo, e per un attimo riuscì ad intravedere il visino esangue, an-
gosciato di Pola.
Perché non l'avevano almeno deposto accanto a Pola?... No...
Era meglio così, forse... così ridotto, non doveva costituire uno
spettacolo piacevole.
In quel momento la vocina stranamente dolce e tremula di
Pola venne a strapparlo dagli abissi della depressione in cui l'a-
vevano tuffato la certezza della morte ormai vicina.
«Bel... Credi che ne avremo ancora per molto?» •
«Non credo, tesoro... Che peccato aver sprecato così questi
due mesi...»
«È stata colpa mia» sussurrò la fanciulla. «È stata colpa mia,
perché se non altro avremmo avuto tutti per noi questi ultimi
minuti... Non doveva finire così...»
Che cosa poteva risponderle, Arvardan? Folli, inani pensieri
gli si agitavano nel cervello... Non altro. Si doveva riuscire a in-
durre Schwartz a prestar loro aiuto. Un pensiero, questo, che
Arvardan tentò di tener celato... pur sapendo che nulla si poteva
celare a Schwartz.
Lo chiamò...

Impotente come i compagni, Schwartz giaceva sul tavolo spe-


rimentando una tortura che era soltanto sua: nel cranio si sentiva

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/195


vivere e pulsare tre cervelli oltre il suo.
Solo, non avrebbe più vacillato. Il suo desiderio di pace infi-
nita, di quiete eterna nella morte l'avrebbe esaudito; solo sarebbe
stato capace di opporsi all'istinto di conservazione. Quell'istinto
che soltanto due giorni prima... erano forse tre?... l'aveva costret-
to a fuggire dalla fattoria. Ma come poteva, povero Schwartz, se
avvertiva in tutto il suo orrore il miserabile terrore di morte che
incombeva su Shekt, la sofferenza, la ribellione che si agitavano
nella mente vitale, pugnace di Arvardan, la profonda malinconi-
ca delusione della fanciulla...
Avrebbe dovuto chiudere la sua mente. A che pro interessarsi
delle sofferenze degli altri? Aveva avuto la sua vita da vivere?
Doveva viverla fino alla sua morte.
Ma i pensieri dei compagni bussavano con dolcezza ma osti-
natamente al suo cervello... Penetravano, vi si insinuavano attra-
verso tutte le fessure.
Sino a che Arvardan chiamò: "Schwartz" e Schwartz seppe
che volevano che lui li salvasse. Ma perché avrebbe dovuto?
Perché?
«Schwartz» ripeté Arvardan insinuante. «Potreste vivere co-
me l'uomo più famoso della Galassia. Perché morire, invece?
Val forse la pena di morire per costoro?»
E Schwartz si aggrappò disperatamente a tutte le memorie
della sua giovinezza per salvare una volontà che già sentiva va-
cillare. E fu uno strano miscuglio di passato e di presente, che
finì per portare alla superficie il suo grido di indignazione. «È
vero» gridò. «Potrei vivere famoso, riverito... Ma sarei sempre
un traditore. Fuori di qui c'è della gente che mi vuole uccidere...
È vero! Ma voi non considerate quella gente uomini: pensate a
loro servendovi di una immagine piena di odio e di disprezzo. E
ciò non perché quella se lo meriti, ma perché è terricola».
«Non è vero!»
«È vero, invece! E lo sanno tutti. Si propongono di uccider-
mi... Ma è soltanto perché mi credono uno di coloro che, come

196/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


fate voi, condannano indiscriminatamente un pianeta intero, fa-
cendolo oggetto di insopportabile e ingiustificato disprezzo... La
vostra soffocante superiorità...!»
«Ma... parlate come un Fanatico!» protestò Arvardan suo
malgrado stupitissimo. «E senza ragione alcuna! Avete forse
sofferto per ragioni razziali da parte della Galassia?! No, eviden-
temente! Perché voi siete abitante d'una Terra ch'era la sola de-
positaria di vita nel cosmo. Ed è per questo, Schwartz, che siete
anche voi come me! Siete uno della razza dominante! Perché
volete associarvi a un rimasuglio di disperati? Questo non è più
il pianeta che ricordate!»
«Ah! Sarei un appartenente alla razza dominante, dite?»
schernì aspro Schwartz. «Lasciamo cadere questo argomento
doloroso, per favore. Non vale la pena di insistervi... Esaminia-
mo il vostro caso invece! Magnifico prodotto della Galassia, il
dottor Arvardan! Tollerante, magnanimo, crepa d'ammirazione
per se stesso perché è tanto buono da riuscire a trattare il dottor
Shekt proprio come un eguale... In realtà, e tuttavia, sotto sotto,
nella vostra mente... e non tanto nel profondo che io non possa
leggervi... vi sentite a disagio anche in presenza del dottor
Shekt. Di lui non vi piace né il comportamento, né il modo di
parlare. Shekt è stato capace di tradire la Terra, ma ciò nondi-
meno lo disprezzate... Già! E vi siete spinto al punto di baciare
le labbra d'una ragazza Terricola... Ma ripensandoci, vi giudicate
un debole per averlo fatto! Ve ne vergognate, ora...»
«Per le Stelle, non è vero! Io non ho mai... Pola!» urlò dispe-
rato Arvardan a questo punto. «Non credergli! Non dargli retta!»
«Non negare, Arvardan» disse Pola, quietamente. «E non rat-
tristarti inutilmente, Bel... Schwartz, adesso, sta osservando i re-
sidui emotivi depositati nel tuo inconscio. Dal tempo della tua
fanciullezza. Troverebbe qualcosa del genere anche in me, se si
divertisse a curiosare, poco educatamente come fa, anche nel
mio cervello».
Schwartz si sentì avvampare di vergogna.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/197


«Indagate anche nella mia anima, Schwartz» invitò Pola sen-
za alzare minimamente la voce. «Se siete effettivamente capace
di leggere il pensiero altrui, ditemi se mi propongo semplice-
mente il tradimento. Indagate nel cervello di mio padre e vedete
se mento quando dico che papà avrebbe brillantemente conti-
nuato a vivere dopo i Sessanta se si fosse adeguato supinamente
ai voleri di quei pazzi che si propongono la distruzione della Ga-
lassia... Esaminateci attentamente, Schwartz... E diteci se siamo
animati dal desiderio di nuocere comunque alla Terra e ai suoi
abitanti.
«Poco fa avete sostenuto di esservi messo in sintonia per un
istante con la mente di Balkis... Ebbene... non so se siete riuscito
a calarvi in profondità, sino alla feccia di quel cervello... Fatelo;
magari quando sarà troppo tardi, quando sarà venuto qui a finir-
ci... Scoprirete allora che avete a che fare con un folle megalo-
mane e... rallegratevi di aver voluto perire, allora!»
Schwartz non fiatò.
«Infilatevi anche nei miei pensieri, Schwartz» implorò Ar-
vardan a questo punto. «E calatevi pure nel profondo: sono nato
a Baronn, nel Settore di Sirio, ed ho trascorso gli anni formativi
della mia personalità in una atmosfera d'antiterricolismo acceso.
È colpa mia se alle radici del mio inconscio alligna la malefica
pianta di tante folli superstizioni? Ed ora risalite a dare uno
sguardo al periodo della mia vita adulta, matura... Non ho forse
combattuto con tutte le mie forze il malseme del razzismo?
«Ignorate la nostra storia, Schwartz! Non sapete che per dis-
seminarsi per tutta la Galassia, l'Uomo ha vissuto migliaia, die-
cine di migliaia d'anni di lotte, di miserie, di sofferenze. Non ne
sapete nulla, voi, dei primi secoli dell'Impero: anni ed anni di
caos, di lotte intestine, di dispotismi che si succedevano l'uno
all'altro. È solo da duecento anni che il nostro Governo ha scelto
finalmente la forma democratica, rappresentativa, che consente a
ciascuno dei nostri mondi autonomia culturale, autogoverno,
rappresentanti che fanno intendere la loro voce nel coro che go-

198/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


verna la Galassia!
«Mai, nella storia dell'Uomo, s'è avuto periodo come questo
scevro di guerre e di miserie. Mai è stata aggiustata più saggia-
mente a realtà l'economia Galattica. Mai ci ha sorriso meglio il
futuro. Avreste il coraggio di distruggere tutto ciò per comincia-
re tutto da capo? E quale sarebbe l'inizio?... Una teocrazia dispo-
tica fondata su morbosi principi di sospetto, d'odio, di fanati-
smo!
«Le contraddizioni lamentate dalla Terra, i suoi problemi, le
sue lagnanze sono legittime. Saranno risolte, soddisfatte un
giorno se la Galassia continuerà ad essere. Ma quanto si propon-
gono costoro, qua fuori, non è una soluzione dei vostri proble-
mi! Sapete che cosa si propongono?»
Schwartz era profondamente commosso, al pensiero di tutti
quei mondi destinati a perire, a dissolversi, prede di una terribile
malattia... Poteva definirsi un Terricolo, lui? E avevano forse
cessato di essere dei Terricoli, in sostanza, gli uomini che venuti
dopo di lui s'erano veduti costretti a lasciare la loro Terra stra-
ziata e corrosa per tentare gli spazi e andarsi a stabilire su altri
mondi? Non era forse terricola tutta la Galassia? Non discende-
vano forse tutti i suoi abitanti... da lui, Schwartz, e dai suoi fra-
telli?
Con la gola stretta mormorò: «Avete ragione... Sono con
voi... Che posso fare, per venirvi in aiuto?»
«Dipende dalla distanza cui può giungere la vostra psicorice-
vente, chiamiamola così...» fu pronto a suggerire Arvardan, qua-
si temesse che l'altro mutasse improvvisamente idea.
«Non so fin dove arrivo. Sento che fuori ci sono delle menti...
Quelle delle guardie, immagino... Penso di riuscire persino a
sfiorare quelle di coloro che passano per strada, ma... più mi al-
lontano e più la ricezione sì fa debole...»
«Naturalmente» disse Arvardan. «Ma... E il Segretario? Sa-
preste identificarne il cervello tra quelli degli altri?»
«Non so» brontolò Schwartz. Un lungo silenzio e poi: «No...

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/199


Non ce la faccio... Non ce la faccio...»
«Però... Comincio a potermi muovere un pochino!» proruppe
Arvardan improvvisamente. «Per la Grande Galassia! Riesco ad
agitare un alluce!... Ma... Ohi!» Il menomo movimento gli cau-
sava inenarrabili spasimi. «Poco fa» azzardò allora l'archeologo
«mi avete colpito al cervello col vostro pensiero... Potete farlo
anche più energicamente?»
«Sono riuscito ad uccidere un uomo, in quel modo».
«No! E come?!»
«Non so. So che l'ho fatto. È stato... È stato...» Schwartz si
rivelò quasi comico nel tentativo di esprimere sul piano verbale
un così complicato e nuovo meccanismo psichico.
«Non importa... Sapreste tenere a bada in quel modo più di
un avversario?»
«Inutile indurlo ad uccidere il Segretario» intervenne Pola a
questo punto. «Non avrebbe senso. Come faremo ad uscire?
Ammettiamo pure che riesca ad uccidere Balkis dopo averne
identificata la mente... E gli altri armati che ci sorvegliano
dall'esterno?»
«L'ho preso, stavolta!» annunciò finalmente Schwartz.
«Chi?!» gridarono gli altri tre all'unisono: anche Shekt gli
spalanca va addosso due grandi occhi pieni di stupore.
«Il Segretario... Ecco... Questo deve proprio essere il suo
Contatto Mentale...»
«Non mollatelo» impose Arvardan, agitandosi; e il movimen-
to fu così scomposto e repentino che egli cadde al suolo come
un sacco di patate. Aveva una gamba ancora interamente para-
lizzata e i suoi tentativi di rimettersi in piedi andarono misera-
mente falliti.
«Ti sei fatto male?!» gridò Pola. Nel tentare di sollevarsi sul
gomito avverti alle giunture un lontano ritorno di elasticità nor-
male.
«Non mi sono fatto niente!» rispose Arvardan. «Passategli il
cervello al setaccio, Schwartz» ordinò poi. «Diteci tutto quel che

200/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


c'è dentro».
Nello sforzo selettivo e ricettivo, Schwartz avvertì subito una
violenta emicrania. Impacciate, grevi, le sue propaggini mentali
si tendevano e ripiegavano come le dita d'un infante che tentasse
l'avventura di impossessarsi di un oggetto troppo voluminoso
per le sue tenere forze. Ma dopo qualche tentativo disperato riu-
scì nell'intento: l'occhio della sua mente ispezionava, alfine, il
cervello di Balkis.
Ad ogni segnale ricevuto, sussultava come per una scarica
elettrica dolorosa... Ed erano pulsioni slegate:
«È trionfante!... È certo delle vittoria... Pensa a certi "cosi"...
Missili, sì... Missili spaziali! Dice che ne ha già terminata la
preparazione, ma... No! Non... Non li ha ancora lanciati... Sta
per farli lanciare...»
«Missili radiocomandati carichi del virus» soffiò Shekt come
in un lamento. «Li puntano verso i diversi pianeti e...»
«Dove li custodisce quegli ordigni, Schwartz?» tuonò Arvar-
dan. «Guardate, per carità! Cercate attentamente, Schwartz, per
l'amor della Galassia!»
«In un palazzo... Non riesco... Una stella... a cinque punte...
un posto che si... che si chiama Sloo».
«Esattamente» intervenne di nuovo Shekt. «Per tutte le Stelle
della Galassia!... Si tratta del Tempio di Senloo, circondato d'o-
gni parte da sacche radioattive. Non vi si può avventurare nes-
suno, tranne gli Anziani. Il tempio sorge alla confluenza tra due
fiumi, Schwartz?»
«Non... Ecco! Sì!... Si, si!»
«Quando, Schwartz? Quando hanno intenzione di lanciarli?»
«Il giorno non so vederlo, ma... tra breve; molto presto... Non
fa che pensare a questo, quel cervellaccio» mormorò Schwartz
che si sentiva scoppiare la testa.
Tremando in tutto il corpo, Arvardan era finalmente riuscito a
mettersi carponi sulle mani e sui piedi che pure gli vacillavano
sotto il corpo. «Viene qui?» indagò.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/201


«Sì... È già alla porta».
E la voce di Schwartz si spense in un mormorio mentre l'u-
scio veniva aperto.
Gelida di scherno, la voce di Balkis si ripercosse come un'eco
sulle pareti dello stanzone: «Dottor Arvardan!» strillò trionfante.
«Fareste meglio a tornare a sedere!»
Arvardan sollevò il capo a guardarlo, acutamente conscio del-
la posizione ridicola in cui si trovava. Potersi muovere! Potersi
muovere quanto bastava per fare un balzo, e strappare l'arma
dell'altro!
Non era il solito staffile neuronico, l'arma che pendeva ele-
gantemente dalla cintura di flexiplast che cingeva le reni dell'av-
versario. Era un disintegratore di grosso calibro, capace di ato-
mizzare un uomo con la velocità del pensiero.
E il Segretario guardava i quattro corpi distesi davanti a lui,
impotenti, con un senso selvaggio di soddisfazione. Cercava di
non pensare alla ragazza: con gli altri, sarebbe stata questione di
un minuto. Con gli altri... Il traditore terricolo, l'Agente Imperia-
le e la creatura misteriosa che aveva fatto sorvegliare per due
mesi. Tutti qui?... Possibile che non ce ne fossero anche altri?
C'erano e come! Ennius, l'Impero...
Le braccia di quei due organismi le aveva lì, alla sua mercé.
Ma da "qualche altra parte" doveva ancora esserci la mente che
le aveva messe in moto. La mente pronta, magari, a metterne in
moto anche altre.
Il Segretario si fregava le mani tutto contento, senza alcuna
preoccupazione. Calmo e gentile disse:
«È venuto il momento di mettere le carte in tavola. Tra la
Terra e la Galassia esiste uno stato di guerra... guerra che non è
ancora stata dichiarata, ma che lo sarà a suo tempo. Guerra dun-
que... e voi siete nostri prigionieri. E sarete trattati a seconda di
quanto richiederanno le circostanze. Inutile dirvi, comunque,
che la pena comunemente comminata a spie e traditori è appunto
quella di... morte!»

202/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Soltanto se la guerra è stata dichiarata legalmente!» obiettò
vivacemente Arvardan.
«Legalmente?!» ripeté sprezzante il Segretario.
«Non discutere» ammonì Pola dolcemente. «Dica quel che
vuole, purché la faccia finita in fretta».
Arvardan si voltò a sorriderle. Una smorfia, più che un sorri-
so, che gli distorse orribilmente i muscoli irrigiditi del volto. Ma
riuscì a mettersi in posizione eretta. E in piedi rimase, tremando
spasmodicamente in tutto il corpo.
Balkis emise un risolino di scherno.
Coprì lentamente la distanza che lo separava dall'archeologo
e quando gli fu di fronte allungò una mano sul petto di Arvar-
dan. E spinse...
Arvardan cadde e Pola lanciò un grido. Poi lentamente, con
lentezza addirittura esasperante, scese dal tavolo su cui giaceva,
muscoli ed ossa tutto uno spasimo inenarrabile.
Balkis lasciò che la fanciulla si trascinasse fino ad Arvardan.
«Eccolo lì il tuo amante» disse. «Il tuo gagliardo maschio
Venuto di Fuori. Corri, dunque! Affrettati a raggiungerlo! Getta-
ti su di lui e dimentica tra le sue braccia il sangue e il martirio di
un bilione di poveri Terricoli. Sollevalo, il superbo che una ma-
no, una sola mano di questo vile e spregevole Terricolo è stata
capace di buttare per terra!»
Pola, ormai, era accanto a Arvardan. «Non è stato nulla!»
mormorò l'archeologo.
«È un vile» disse Pola. «Un vigliacco capace di fare il gra-
dasso con l'avversario paralizzato. Ma credimi, caro: di Terricoli
come lui ce ne sono molto pochi, per fortuna».
«Lo so! Altrimenti come potresti essere Terricola, tu?»
«Come dicevo» tuonò allora il Segretario irrigidendosi «le
vostre vite sono alla mia mercé... Per riscattarle non c'è che un
mezzo. Volete venire a patti?»
«Al nostro posto voi sareste pronto a farlo, lo so» disse Pola.
«Zitta» impose Arvardan ansando, ancora dolorante. «Che

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/203


cosa siete venuto a proporci?»
«Ma come?!» sbalordì sprezzante il Segretario. «Pronto a
vendervi anche voi? Come farebbe uno spregevole Terricolo
qualunque come me?!»
«Fate la vostra proposta» disse Arvardan.
«Eccola. Ovviamente, si è avuto sentore dei nostri disegni.
Non è difficile comprendere come certe notizie siano giunte sino
al dottor Shekt, ma vorrei proprio sapere come hanno fatto a
pervenire all'Impero. È questo che mi imbarazza. Che sappiate
voi, Arvardan, non mi preoccupa minimamente. Mi infastidisce
che sappia l'Impero. Che cosa sa l'Impero?»
«Sono un archeologo e non una spia» protestò Arvardan.
«Non ho idea di che cosa sappia l'Impero intorno a questa sporca
faccenda. Spero soltanto che ne sappiano più di quanto deside-
riate».
«Lo immaginavo. Ma potreste anche cambiare idea. Pensate-
ci!»
Sin qui, Schwartz non aveva detto una parola. Non aveva
nemmeno alzato gli occhi.
Il Segretario attese per un po' e poi, con tono alquanto feroce,
disse:
«Quand'è così, mi compiacerò di dirvi che cosa vi succederà
se non collaborate. So che vi siete preparati alla spiacevole
quanto inevitabile necessità di morire e vi dico subito che la
morte vi sarà data. Ma non rapida e sbrigativa. Il dottor Shekt e
sua figlia, purtroppo anche lei implicata nella faccenda, sono cit-
tadini terricoli e sarà nostra cura di sottoporli entrambi agli ef-
fetti del Sinottificatore. Ci intendiamo, vero, dottor Shekt?»
Gli occhi del fisico si spalancarono per il terrore.
«Bravo! Ho visto che ci siamo capiti perfettamente. Il Sinotti-
ficatore, opportunamente aggiustato, farà di voi due imbecilli
facendo degenerare i tessuti del vostro sistema nervoso centrale.
Sarete uno spettacolo: se non vi imboccheranno creperete di fa-
me, e se non vi ripuliranno vivrete tra il sudiciume. Sarete un or-

204/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


rore...»
«Quanto a voi» disse Balkis rivolto ad Arvardan «siete citta-
dino imperiale come il vostro amico Schwartz e ci sarete utilis-
simi per un indispensabile esperimento. Il virus concentrato non
abbiamo ancora avuto modo di sperimentarlo su voi... cani ga-
lassici. Ce lo direte voi se i nostri calcoli sono stati giusti! Ve ne
daremo poco, di virus: per farvi morire dolorosamente, pian pia-
nino».
E tacque osservandoli con gli occhietti malvagi, socchiusi.
«A voi la scelta» concluse. «Morire come vi ho detto o farmi
conoscere se vi sono altri agenti all'opera oltre voi, e quali sono
le contromisure che l'Impero ha deciso di adottare».
«E chi ci assicura che non ci farete morire egualmente, quan-
do avrete appreso quanto vi interessa di sapere?» obbiettò il dot-
tor Shekt.
«Non posso che assicurarvi di farvi crepare tra orrende tortu-
re se vi ostinerete a tacere. A voi la scelta, dunque!»
«Dateci del tempo per riflettere, almeno!»
«È quel che ho già fatto. Son qui da dieci minuti e non avete
ancora risposto alla mia domanda... Avanti! Non avete nulla da
dire? Proprio nulla? Non posso continuare ad aspettare per l'e-
ternità, che diamine!»
Schwartz degnò finalmente Balkis di un'occhiata.
«Potrei uccidervi come un cane» affermò tranquillamente
«ma ho deciso di non farlo».
«Molto gentile!»
«Al contrario! Vi risparmio obbedendo a pura crudeltà. L'a-
vete detto voi stesso: ci sono cose peggiori della morte!»
Arvardan si voltò e indirizzò a Schwartz un'occhiata piena di
speranza.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/205


XVIII
DUELLO

Schwartz aveva il cervello in tumulto. Pure, non avrebbe sa-


puto dire come, si sentiva a suo agio, anche se, mentre una parte
di lui sembrava aver acquisito il controllo della situazione, l'al-
tra, la maggiore, non ne voleva sapere. Infatti, l'avevano paraliz-
zato per ultimo; e mentre perfino il dottor Shekt riusciva ormai a
mettersi seduto, lui riusciva a malapena a muovere un tantino il
braccio.
In tali condizioni di inferiorità, lasciato cadere il suo "sguar-
do" nella mente del Segretario, infinitamente corrotto, infinita-
mente malvagio, Schwartz cominciò il suo duello. Disse:.
«Pur sapendo che vi accingevate ad uccidermi, in un primo
tempo avevo sposato la vostra causa. Mi sono infatti illuso, per
qualche istante, di comprendere i vostri sentimenti, le vostre in-
tenzioni... Ma, mentre le menti di questi tre mi risultano relativa-
mente innocenti e pure, la vostra è qualcosa di indescrivibile.
Non è già per i Terricoli che voi vi battete, ma per la vostra am-
bizione personale. Quello che sognate non è una Terra libera,
ma una Terra tornata ad essere schiava. Voi non vagheggiate la
distruzione del potere imperiale, se non per sostituirla con una
vostra dittatura personale».
«La sapete lunga!» disse Balkis. «Ma divertitevi pure... In
fondo, l'informazione che vi chiedo non è così urgente per me,
da dover restar qui a sopportare la vostra insolenza. Tra l'altro,
se non lo sapete, abbiamo deciso di anticipare la nostra "ora X".
Lo sapevate questo?»
«No» rispose Schwartz. «Non andavo in cerca di questa noti-
zia, tanto è vero che mi è sfuggita... Ma me ne rendo conto ora:
la vostra "ora X" scadrà tra due giorni... Anzi meno!... Vediamo
un po'... Ecco! Giovedì, alle sei del mattino, ora di Chica».
A questo punto, il Segretario si decise a sguainare il disinte-

206/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


gratore. Avanzò a passi rapidi, e dominando con la sua la figura
prona di Schwartz tuonò:
«Come l'avete saputo?»
Schwartz si irrigidì; da un punto imprecisato della sua mente,
"qualcosa" si lanciò ad afferrare. Fisicamente, al fenomeno seguì
un più energico serrarsi delle mascelle, un cadergli delle palpe-
bre. Dal profondo del cervello di Schwartz, qualcosa s'era lan-
ciato ad agganciare con forza il Contatto Mentale dell'altro.
Per Arvardan, per alcuni preziosi e purtroppo sprecati secon-
di, la scena rimase priva di alcun significato... Poco significativi
gli erano infatti apparsi l'improvvisa immobilità, l'improvviso
assoluto silenzio del Segretario.
Con un brontolio. impercettibile, Schwartz disse: «L'ho pre-
so... Toglietegli l'arma. Non posso continuare a trattenerlo...»
E questa volta Arvardan comprese. Con uno sforzo si mise di
nuovo carponi. Poi lentamente, dolorando intensamente in tutto
il corpo, riuscì con la sola forza di volontà a mettersi in posizio-
ne precariamente eretta. Pola tentò di seguirne il movimento,
non ci riuscì interamente. Shekt si lasciò cadere dal suo tavolac-
cio, finendo per terra, in ginocchio. Soltanto Schwartz taceva,
quasi immobile, il volto contratto in un'espressione di estrema
fatica.
Il Segretario sembrava impietrito. E mentre la fronte tersa e
liscia gli diveniva madida di sudore, il volto non mostrava la
minima emozione interiore. Soltanto la mano destra, quella che
stringeva intorno al calcio del disintegratore, dava segno di vita.
Un osservatore particolarmente attento avrebbe potuto scorgervi
un impercettibile flettersi ed irrigidirsi del pollice sopra il botto-
ne che, spinto fin in fondo alla sua corsa, avrebbe dato luogo al-
la scarica fatale. E il pollice... lì a continuare ad esercitare una
pressione, insufficiente... almeno per il momento.
«Tenetelo stretto» ansò Arvardan in preda a gioia feroce. E
dopo aver sostato alquanto appoggiandosi allo schienale di una
sedia per riprender fiato, annunciò: «Ora lo prendo».

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/207


Cominciò ad avanzare. Come in un incubo gli sembrava di
guadare un mare di melassa, di nuotare in una polla di catrame
fuso; e ad ogni minimo movimento, i muscoli gli si tendevano
con pena inenarrabile.
Non era... non poteva essere conscio dello spaventoso duello
che si svolgeva davanti ai suoi occhi.
Per raggiungere il solo scopo che aveva, il Segretario non do-
veva esercitare altro che un minimo di forza sul suo pollice... tre
once per essere esatti, e per farlo la sua mente non aveva che da
passare l'ordine ad un tendine pronto ad obbedirgli, peggio, già
parzialmente contratto...
Anche Schwartz non aveva che uno scopo: impedire all'altro
di esercitare quella pressione... Ma il Contatto Mentale dell'altro
gli presentava una massa così convulsa di sensazioni diverse,
che Schwartz non riusciva a differenziare dalle altre l'area cere-
brale del Segretario coinvolta in quell'operazione. Ecco perché si
era dato allo sforzo immane di produrre nell'avversario una sta-
si... una stasi completa...
E alla stretta che lo imprigionava, il Contatto Mentale del Se-
gretario si ribellava con tutte le forze. Abbarbicatosi così a lui in
una stretta fatale, Schwartz era come un lottatore che, eseguita
una presa sull'avversario, dovesse opporsi con tutte le forze ai
disperati tentativi dell'altro di divincolarsi.
Di questo disperato duello, nulla si vedeva all'esterno. Soltan-
to il rabbioso stringersi l'una sull'altra delle mascelle di Sch-
wartz; soltanto il tremito delle labbra, insanguinate ormai dalla
morsa dei denti... E qualche vago, improvviso movimento del
pollice del Segretario che voleva tendersi... tendersi a pigiare si-
no in fondo il bottone.
Arvardan fu di nuovo costretto a fermarsi a prender fiato.
Non avrebbe voluto, ma vi fu costretto..
«Ancora qualche istante, Schwartz» soffiò esausto. «Tenete-
lo, tenetelo...»
Lentamente, lentissimamente, Schwartz scosse il capo in

208/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


cenno di diniego e sussurrò: «Non ce la faccio... Non ce la fac-
cio più...»
A Schwartz infatti, in quel momento sembrava che tutta la
realtà stesse per scomparire in un caos senza forma.
Le "propaggini" della sua mente cominciavano a dimostrarsi
meno elastiche, meno prensili...
E il pollice del Segretario mosse di qualche altra frazione di
millimetro per stabilire il contatto mortale. Ma non riuscì, quan-
tunque la pressione aumentasse via via...
Schwartz si sentiva schizzare gli occhi fuori dalle orbite; si
sentiva scoppiare le vene del cervello. Già avvertiva il senso di
orribile trionfo che prendeva corpo nella mente dell'altro...
Finalmente Arvardan si gettò. Il suo corpo ribelle, irrigidito,
cadde in avanti, mentre le mani gli si tendevano come artigli a
stringere, ad afferrare.
Trascinò con sé nella rovinosa caduta anche il corpo irrigidito
del Segretario, "frenato" dalla mente di Schwartz. Il disintegra-
tore cadde di lato, scivolò lontano sul pavimento.
La mente del Segretario si divincolò, fu libera in un istante; e
Schwartz si lasciò cadere all'indietro col cervello ridotto ad una
massa confusa di volontà e di impulsi.
Sotto il peso morto del corpo di Arvardan che lo inceppava,
Balkis si dibatté selvaggiamente. Piantò un ginocchio nello sto-
maco dell'altro con forza feroce, mentre levava e ripetutamente
lasciava cadere sulla mascella di Arvardan la mano destra, stret-
ta a pugno. Levò e lasciò ricadere... sino a che Arvardan mollò
la presa, sotto l'insostenibile gragnuola di colpi.
Ansante, scomposto, il Segretario riuscì a mettersi in piedi.
Barcollò, ma nuovamente si immobilizzò: gli stava di fronte
Shekt, appoggiato su di un fianco. Con la destra sorretta dalla
sinistra, gli puntava contro il disintegratore.
«Branco di idioti!» strillò il Segretario con voce soffocata
dalla collera.
«Non concluderete niente uccidendomi! E lo sapete. Non sal-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/209


verete così l'Impero al quale vi siete venduti... Non riuscirete
neppure a salvare voi stessi. Rendetemi l'arma e vi prometto che
vi lascerò liberi».
E tese la mano. Shekt lo derise: «Non sono pazzo abbastanza
per credervi».
«Forse no; ma siete semiparalizzato!» E il Segretario balzò
improvvisamente a destra, mettendosi fuori di tiro prima che il
fisico, indebolito, riuscisse a riaggiustare la mira.
Schwartz in quell'istante estese la sua mente in un assalto fi-
nale: il Segretario barcollò un poco e cadde sconciamente al
suolo come se fosse stato colpito da una bastonata al capo.
Arvardan frattanto era riuscito a rimettersi in piedi. Aveva
una guancia rossa gonfia, e avanzava tremando.
«Siete già in grado di muovervi, Schwartz?»
«Un po'» gli rispose l'altro con voce stanca. E scivolò giù dal
suo tavolo.
«C'è nessuno che venga da questa parte?»
«No... Credo proprio di no».
Arvardan sorrise tristemente a Pola.
«Chissà, Pola» mormorò l'archeologo. «Forse c'è ancora un
domani per noi».
Ma la fanciulla non fece che scuotere il capo: «Non ce ne
avanza il tempo. Il nostro domani finisce alle sei in punto di
giovedì».
«E non basta? Vedremo». Arvardan si piegò sul Segretario
prono al suolo e gli sollevò assai poco gentilmente il capo.
«È ancora vivo?» Tentò invano di sentirgli il polso con i pol-
pastrelli intorpiditi, e finì per posargli la palma sotto il mantello.
«Il cuore batte ancora... Avete una dote tremenda, Schwartz!
Perché non ve ne siete servito subito?»
«Perché volevo riuscire a farlo star fermo» disse Schwartz, il
volto del quale mostrava chiari i segni dello sforzo terribile al
quale si era sottoposto. «Pensavo che riuscendo a tenerlo fermo
potessimo costringerlo poi a precederci, a farci da schermo...

210/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Volevo che ci nascondessimo dietro il suo mantello in un certo
senso...»
«Ottima idea» proruppe Shekt. «A Fort Dibburn, meno di
mezzo miglio di qui, c'è la guarnigione imperiale. Una volta che
l'avremo raggiunta, saremo in salvo e potremo comunicare con
Ennius».
«Ma come si fa ad arrivarci? Fuori di qui ci debbono essere
centinaia di guardie; altre centinaia ne troveremmo disposte lun-
go la strada... E a che cosa ci può essere utile questo fantoccio
svenuto, vestito di seta verde?»
«Senza contare» disse Schwartz cupo «che non sono neanche
riuscito a farlo star fermo a lungo. L'avete veduto... Non ce l'ho
fatta!»
Shekt disse, serio: «Perché non ci siete ancora allenato.
Ascoltatemi, Schwartz... Cercherò di spiegarvi come funziona la
vostra mente. In sostanza, il vostro cervello funziona come una
stazione capace di ricevere onde dai campi elettromagnetici ce-
rebrali. Così come ricevete, credo, siete anche in grado di tra-
smettere. Mi capite? Dovete concentrare il vostro pensiero su
quanto volete che egli faccia... Non appena ci siete riuscito, gli
renderemo il suo disintegratore».
«Che?!» proruppero all'unisono i tre.
«Sarà il Segretario a guidarci fuori di qui» disse Shekt alzan-
do la voce. «Non c'è altra via di scampo. E perché ci lascino
uscire indisturbati, Balkis dovrà avere bene in vista la sua arma
al fianco».
«Ma se non sono riuscito a tenerlo» disse Schwartz piegando
e sbattendo le braccia di cui aveva appena cominciato a riavere
l'uso.
«Lo so! Ma non possiamo contare su altro. Provatevi, Sch-
wartz e imponetegli di muovere un braccio appena tornerà in sé»
disse Shekt, vivamente.
A terra, il Segretario diede in un lamento: Schwartz avvertì
all'istante il ritorno del Contatto Mentale dell'altro e silenziosa-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/211


mente, pavidamente quasi, lasciò che prendesse forza... poi gli
parlò. Un discorso senza parole... Un discorso silenzioso come
quello che rivolgiamo alle nostre braccia quando vogliamo
muoverle.
E non fu il braccio di Schwartz a muoversi, bensì quello del
Segretario. E il Terricolo d'altri tempi si guardò attorno con un
sorriso di soddisfazione selvaggia; ma gli altri non avevano oc-
chi che per Balkis. Balkis che rinvenuto ma ancora prono al suo-
lo aveva sollevato a un angolo di novanta gradi un braccio... co-
sì... Senza alcuna ragione apparente.
Schwartz si mise di buzzo buono all'opera.
Si vide il Segretario schizzare in piedi come un burattino;
quasi, minacciò di rovesciarsi nuovamente al suolo... Poi, in
modo strano, involontario... cominciò a danzare, privo di grazia,
di continuità. Uno spettacolo che colmò tutti di profondo sbigot-
timento: i tre che vedevano danzare soltanto un corpo, Schwartz
che vedeva danzare quel corpo e ne leggeva la mente. E il corpo
di Balkis obbediva ai comandi di un cervello cui non era allac-
ciato da nessun legame materiale...
Lentamente, con somma cautela, Shekt si avvicinò al Segre-
tario trasformato in automa e non senza un brivido tese una ma-
no, sulla palma aperta della quale stava il disintegratore, con la
canna puntata davanti a lui.
«Fate che la prenda, Schwartz» disse Shekt.
Si vide la mano di Balkis tendersi ad afferrare, impacciata,
l'arma. Per un attimo gli occhi del Segretario furono attraversati
da un'espressione di selvaggio desiderio che però non tardò a
scomparire. Lentamente, molto lentamente l'arma tornò a ri-
prendere il suo posto nella cintura; la mano del Segretario ricad-
de spenta lungo il fianco.
«Per poco non mi scappava!» non seppe trattenersi dal dire
Schwartz con una risatina. E aveva il volto color della cenere.
«Be'? Riuscite a tenerlo?»
«Si dibatte come un diavolo, ma faccio molto meno fatica di

212/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


prima».
«Riuscireste anche a farlo parlare?» intervenne Arvardan.
Ci fu un lungo silenzio a capo del quale dalla gola del Segre-
tario uscì un roco grugnito. Un altro silenzio, ancora un grugni-
to.
«È tutto» ansò Schwartz.
«Perché non ci riesce?» domandò Pola preoccupata.
«Alla parola» disse Shekt facendo spallucce «si giunge attra-
verso il movimento di muscoli terribilmente delicati e complica-
ti. Non è come comandare ì lunghi muscoli dorsali. Non ha nes-
suna importanza, Schwartz. Ce la caveremo anche se non parla».

Seguirono due ore d'una odissea che almeno un paio dei suoi
protagonisti non avrebbero potuto rivivere. Il dottor Shekt, ad
esempio, aveva finito per cristallizzare tutti i timori che l'angu-
stiavano in un suo compartecipare profondissimamente alla lotta
che sapeva svolgersi nel cervello di Schwartz. E per tutte intere
le due ore non ebbe occhi che per il viso tondo dell'uomo del
passato, un viso tutto contratto nello spasimo del suo sforzo inte-
riore. Agli altri non dedicò che un paio di distratte occhiate.
Nel vedere apparire il Segretario avvolto nella sua serica di-
visa color dello smeraldo, le guardie che stazionavano di fuori si
irrigidirono sull'attenti. Balkis rispose con un gesto strano, che
poteva sembrare distratto a coloro che rendevano gli onori al suo
potere, alla sua apparenza di autorità ufficiale. Così tutto il
gruppetto uscì indisturbato.
Arvardan si rese conto di quanto fosse pazzesco l'episodio a
cui prendeva parte, soltanto quando ebbero lasciato alle spalle
l'immane Casa di Correzione. Soltanto allora tornò a pensare per
un istante al pericolo immenso, inimmaginabile della Galassia,
al fragile e sottile ponticello che forse sarebbero riusciti a gettare
sopra l'abisso. Ma anche in quei momenti, Arvardan si abbando-
nava interamente al fascino degli occhioni di Pola.
In futuro, quei momenti Arvardan li avrebbe condensati in un

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/213


concetto solo: Pola...
Anche Pola ignorava il fulgore dei raggi del sole di quel mat-
tino, ed aveva occhi soltanto per il volto tumefatto di Arvardan.
Gli sorrideva, conscia del braccio forte, possente del giovane
che sosteneva il suo con tanta leggerezza.
Ma Schwartz subiva la tortura di un'agonia. L'immenso viale
che conduceva, a capo di una curva assai ampia, alla strada prin-
cipale, gli apparve deserto. E ne fu grato al Cielo.
Soltanto lui sapeva che cosa voleva dire uno scacco, in quei
momenti. Soltanto lui avvertiva l'insostenibile umiliazione, l'o-
dio abissale, le indescrivibili vendette che covavano nella mente
sotto il suo controllo. Era lui, Schwartz, che doveva stanare da-
gli anfratti della memoria di quel cervello certe informazioni: il
luogo in cui Balkis aveva lasciato l'auto, la via giusta da percor-
rere per arrivarvi senza dar nell'occhio... E nel corso del febbrile
indagare tra le pieghe di quella memoria, continuava a prender
contatto con gli orribili propositi di rappresaglia di cui sarebbero
stati tutti vittime semmai gli fosse capitato di "mollare" la presa
del Contatto Mentale del Segretario...
Raggiunta la vettura di Balkis, Schwartz farfugliò nel tentati-
vo di parlare. Perché non osava neppure rilassarsi quanto basta-
va per esprimersi normalmente. «Non so... guidare macchina...
troppo complicato... farglielo fare...»
Shekt gli dimostrò simpatia con un mormorio consolatore:
non osava rivolgergli la parola, non osava toccarlo, sfiorarlo, di-
strarne la mente sia pure per una frazione di secondo.
«Fate in modo che sieda sui sedili posteriori, Schwartz. A
guidare ci penso io. Badate soltanto a tenerlo immobile. Gli tol-
go il disintegratore. Non badate ad altro».

L'automobile del Segretario era di un modello speciale. Una


fuori serie che non si poteva ignorare. E se quella macchina fos-
se stata meno appariscente, meno clamorosa la sua comparsa, i
passanti avrebbero avuto tutto il tempo di notare l'Anziano esan-

214/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


gue, immobile, appoggiato agli schienali dei sedili posteriori...
Se ne sarebbero stupiti... Avrebbero intuito nell'episodio qualco-
sa che "non andava"...
Non ebbero occhi che per l'auto, e tutto andò liscio...
Di fronte alla cancellata immensa, tutto uno sfavillìo di cro-
mature, che si ergeva superba e possente secondo lo stile caratte-
ristico delle costruzioni imperiali che così volevano differenziar-
si da quelle più tozze e solenni della Terra, un soldato sbarrò lo-
ro il passo. Mise il suo enorme fucile in senso orizzontale da-
vanti a sé in un gesto che imponeva "l'alt" e l'auto si fermò.
«Sono un cittadino dell'Impero» si affrettò ad annunciare Ar-
vardan. «Desidero parlare al vostro Comandante».
«I vostri documenti, signore».
«Mi sono stati tolti. Sono Bel Arvardan di Baronn, Sirio. Ho
fretta di comunicare alcune notizie importantissime soprattutto
per il Procuratore».
Il soldato si portò alla bocca il polso e parlò, senza alzar la
voce, al microfono che vi si celava. Un attimo di silenzio. Giun-
ta la risposta, abbassò il fucile e si fece di lato. I cancelli si spa-
lancarono lentamente.

XIX
STA PER SCOCCARE L'ORA "X"...

Seguirono ore durante le quali fuori e dentro Fort Dibburn ci


furono veri e propri tumulti. Ma il turbamento fu assai più pro-
fondo a Chica.
A mezzodì il Gran Ministro chiese, via Onda Comune, noti-
zie del suo Segretario da Washenn. Lo si fece ricercare, non si
riuscì a trovarlo. Il Gran Ministro ne rimase seccato; turbati pro-
fondamente, invece, i funzionari di grado inferiore, alla Casa di
Correzione.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/215


Aperte le indagini, si interrogarono le guardie di servizio nei
corridoi che circondavano la grande sala delle riunioni. Si seppe
così che il Segretario aveva lasciato l'edificio in compagnia dei
suoi prigionieri alle dieci e trenta del mattino... No. Non aveva
lasciato istruzioni. Dove s'era diretto? Non sapevano.
Anche le guardie all'esterno sapevano ben poco. E si deter-
minò così una certa atmosfera fatta di generale ansietà, che au-
mentava col passare delle ore.
Finalmente, alle 2 pomeridiane fu riferito che era stata veduta
passare l'auto del Segretario... Nessuno sapeva dire se Balkis vi
si trovava a bordo, ma qualcuno sosteneva di averlo veduto al
posto di guida. Nulla di certo, solo supposizioni e pareri discor-
di.
Alle due e trenta si ebbe la matematica certezza che il veicolo
aveva varcato i cancelli di Fort Dibburn.
Mancava poco alle tre, quando fu deciso di chiamare al tele-
fono il Comandante. Rispose un tenente. Costui disse che, alme-
no per il momento, "non era in grado di fornire informazioni in
merito". L'ufficiale, tuttavia, chiese che l'ordine fosse mantenuto
a qualunque costo. E che non era il caso di far circolare la noti-
zia della scomparsa di un membro della Società degli Anziani,
prima che le autorità di Sua Maestà Imperiale ne dessero il con-
senso.
Tutto ciò ottenne proprio l'opposto di quanto le Autorità Im-
periali desideravano.
Non si può pretendere che un gruppo di congiurati sia dispo-
sto a correre dei rischi quando il capo della congiura finisce in
mani avversarie a ventiquattro ore di distanza dallo scoccare
dell'ora "X della rivolta. L'episodio lo si poteva valutare unica-
mente sotto due aspetti: il complotto era stato scoperto, o Balkis
aveva tradito. Due aspetti comunque terrificanti: fosse successa
l'una o l'altra cosa, per la congiura era solo e sempre un falli-
mento.
Furono fatte circolare delle "voci" e la popolazione di Chica

216/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


cominciò ad agitarsi.
Agli angoli delle strade apparvero come per magìa gli attivi-
sti. Spalancate le porte degli arsenali segreti i cittadini vi entra-
vano a mani vuote e ne uscivano armati. Una colonna prese le
mosse in direzione del forte e verso le sei della sera chiese di
parlare personalmente col Comandante.
A tanto sommovimento esterno, all'interno del forte corri-
spondeva uno svolgersi di eventi quasi altrettanto drammatici. Il
primo si verificò quando un giovine ufficiale, venuto incontro
all'auto di Balkis, pretese che il Segretario gli consegnasse il di-
sintegratore di cui era armato.
«Datelo a me, questo affare» impose seccamente.
E Shekt a Schwartz: «Lasciateglielo prendere...»
Così, la mano di Balkis salì alla cintola, e strette le dita intor-
no al calcio dell'arma la consegnò al militare che, a sua volta, la
passò ad un soldato perché la portasse via... E con un sospirone
di sollievo assai simile ad un singhiozzo di soddisfazione, Sch-
wartz liberò il Segretario dalla sua imposizione mentale.
Quanto a Arvardan, non s'era lasciato cogliere di sorpresa da
quel momento. Non appena aveva veduto il Segretario schizzar
su come un tappo troppo a lungo costretto sott'acqua, gli saltò
addosso, con tutta la furia che aveva fino a quel momento dovu-
to trattenere.
Balkis, finì immobile sui cuscini posteriori dell'auto, con un
rivolo di sangue che gli usciva da un angolo della bocca. Arvar-
dan se la cavò con una ferita al viso, già abbondantemente tume-
fatto per la caduta alla Casa di Correzione.
Dopo essersi passate le dita tremanti tra i capelli scomposti,
l'archeologo puntò l'indice contro il Segretario e disse: «Accuso
quest'uomo di aver ordito un complotto inteso a rovesciare il
Governo Imperiale. Chiedo di essere ricevuto dall'Ufficiale di
Picchetto».
«Non so se potrò accontentarvi» gli rispose gentilmente un
ufficiale. «Dovrete seguirmi subito tutti quanti, comunque...»

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/217


E per non so quante ore, tutto si fermò a quel punto. Li ave-
vano condotti in una linda stanzetta dove, per la prima volta do-
po dodici ore, i nostri amici ebbero modo di consumare un pasto
degno di questo nome.
Ma la stanza nella quale erano stati chìusi si trovava sotto
sorveglianza di alcuni armati ed Arvardan, col passare delle ore,
perse le staffe e cominciò ad urlare: «Abbiamo semplicemente
cambiato di prigione».
Fu come se non lo avessero udito.
Vissero così tutta la noia della vita di guarnigione senza che
un cane si degnasse di occuparsi di loro. Schwartz dormiva e,
vedendo che Arvardan lo guardava, Shekt disse scuotendo il ca-
po:
«Non si può. È umanamente impossibile. Quel poveretto è
esausto. Lasciatelo riposare».
«Non mancano che trentanove ore!...»
«Lo so... Ma dobbiamo aspettare».
In quel momento si udì una voce che con intonazione vaga-
mente sarcastica chiese:
«Chi di lor signori si professa cittadino dell'Impero?»
«Io» gridò Arvardan, balzando in piedi. «Sono...» Ammutolì,
nel riconoscere l'ufficiale che lo guardava con un sorriso cattivo:
un braccio gli pendeva rigido lungo il corpo, a ricordo dell'ulti-
ma volta che s'era incontrato con l'archeologo...
«Bel...» sussurrò Pola alle sue spalle. «quell'ufficiale... Quel-
lo dei grandi magazzini...»
«Quello al quale ha spezzato un braccio» completò gelido il
nuovo venuto. «Sono il tenente Claudy. Vi ho perfettamente ri-
conosciuto. Voi, dunque, sareste cittadino dei mondi di Sirio,
vero?! Ma non sdegnate di mescolarvi a costoro, per la Galassia!
Possibile che un uomo possa abbassarsi a tanto? Guarda come si
trascina dietro ancora questa ragazza!» Fece una pausa ad effetto
poi sillabò con scherno: «La lurida squaw terricola!».
Arvardan si frenò a stento: non ora, si disse; non in quel mo-

218/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


mento. Costringendosi ad un tono di voce corretto, domandò:
«Potrei essere ricevuto dal Colonnello, Tenente?
«Il Colonnello non è in servizio. purtroppo, in questo mo-
mento».
«Non si trova in città?»
«Non ho detto questo. E se si tratta di cosa veramente impor-
tante... non mi sarà difficile mettermi in comunicazione con lui».
«Ebbene si tratta di cosa urgentissima... Potrei conferire con
l'Ufficiale di Picchetto?»
«Sono io l'Ufficiale di Picchetto».
«E allora chiamate il Colonnello.
«Se non mi date la prova dell'urgenza che attribuite al vostro
colloquio, non posso assolutamente farlo» rispose con esaspe-
rante lentezza Claudy, confermando le parole con un cenno ne-
gativo del capo.
Tremante d'impazienza, Arvardan proruppe: «Smettetela con
questo giochetto, per la Galassia!... Si tratta di vita o di morte, vi
dico!».
«Davvero?» ridacchiò l'ufficiale agitando con aria di vanesio
un suo elegante bastoncino di canna di bambù. «Ebbene, perché
non riferite a me direttamente?»
Arvardan lo fulminò con lo sguardo, deglutendo a fatica. Pola
gli pose una mano su di un braccio e: «Forse è meglio, Bel» dis-
se. «Non farlo inquietare. Accontentalo»..
Ma Arvardan non l'ascoltò. Si limitò a dire, gelido: «Perché
non riconosco la vostra competenza in materia».
Avanzando d'un passo, l'ufficiale menò un possente manrove-
scio in faccia ad Arvardan, proprio nel punto in cui sulla gota
tumefatta dell'archeologo spiccava il cerotto che gli medicava la
ferita.
Arvardan lanciò un grido di dolore. Ma si dominò ancora.
«Come? Non fate fuoco e fiamme come l'altra volta, oggi?»
lo beffeggiò il tenente Claudy.
Arvardan non rispose.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/219


«Venite con me» disse il tenente.
Quattro soldati circondarono l'archeologo. L'ufficiale apri la
marcia.
Rimasto in compagnia di sua figlia e di Schwartz che conti-
nuava a dormire, Shekt disse: «Io non lo sento più. E tu?».
«È un po' che non lo sento più nemmeno io» rispose la fan-
ciulla. E aggiunse: «Credi che faranno del male a Bel?».
«E ti sembra possibile?» mormorò affettuoso il vecchio. «Ar-
vardan non è uno di noi. È cittadino imperiale e non possono
permettersi di bistrattarlo impunemente... Sei innamorata di lui,
vero?...»
«Terribilmente, babbo! Lo so... È una sciocchezza, ma forse
finirà tutto in una bolla di sapone... Non ci sarà domani, per
noi...»
E Shekt balzò in piedi, come se le ultime parole di sua figlia
l'avessero subitamente ricondotto a una realtà assai più impel-
lente. «Non lo sento proprio più» ripeté.
Alludeva al Segretario che avevano sentito passeggiare come
un leone in gabbia nella stanza attigua alla loro sino a poco pri-
ma. Da qualche istante, tutto era silenzio dall'altra parte della pa-
rete.
Una sciocchezza? No, perché il corpo e la mente di Balkis
erano divenuti per Shekt il simbolo stesso delle forze sinistre
che erano pronte a diffondere morte e distruzione su tutto il gi-
gantesco sistema delle stelle abitate. Scuotendolo dolcemente
per una spalla, Shekt invitò Schwartz a svegliarsi.
«Che c'è?» protestò Schwartz imbambolato. Una profondis-
sima stanchezza gli smorzava tutte le facoltà mentali e fisiche.
«Dov'è Balkis?» domandò con tono urgente Shekt.
«Chi?... Ah, sì!» mormorò Schwartz. Si mise seduto e ricor-
dando che non era con gli occhi che doveva cercare il Segreta-
rio, con un violento sforzo lanciò nell'etere le sue propaggini
psichiche in cerca di quel Contatto Mentale che ormai conosce-
va tanto bene.

220/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Lo trovò, e se ne ritrasse. La lunga immersione in quell'animo
non era certo valsa a renderglielo meglio accetto. La sintonia
con tanta protervia gli faceva schifo.
«Si trova su dì un altro piano e sta parlando con un tizio che
non ho mai "toccato" sino ad ora. Un momento... Se il Segreta-
rio lo nomina, forse... Ecco!... Lo chiama Colonnello».
Shekt e Pola si scambiarono una lunga occhiata.
«Non ci troveremo di fronte ad un tradimento, adesso?» sus-
surrò la ragazza.
«Non so» disse Shekt afflitto. «Dopo quanto ho veduto non
c'è niente di cui possa stupirmi!»

Il tenente Claudy sorrideva. Sedeva con un disintegratore in


mano ad una scrivania, circondato dai suoi soldati in armi. E
parlava col piglio autoritario che tanta potenza gli permetteva.
«I Terricoli non mi vanno giù» stava dicendo. «Non li ho mai
potuti soffrire. Sono la feccia della Galassia. Pieni di malanni,
infetti, superstiziosi, neghittosi... E degenerati e stupidi, sono.
Tuttavia... Sanno stare quasi tutti al loro posto, le canaglie!
«Perché io li giustifico, in un certo senso. Sono nati così e...
che cosa volete che ci facciano? Io, inutile dirlo, non sopporterei
quel che sopporta l'Imperatore da loro... Se fossi io l'Imperatore,
naturalmente... Ma lasciamoli pur fare... Un giorno o l'altro...»
«Basta adesso!» strepitò Arvardan. «Vi ho detto che devo fa-
re comunicazioni della massima urgenza e gravità...»
«Tacete! E statemi ad ascoltare perché non ho ancora finito.
Volevo soltanto dire questo: di fronte ad un uomo... uno che si
dice un vero uomo, almeno... capace di scendere così in basso da
strisciare in mezzo ai Terricoli per insozzarsi con le loro femmi-
ne... provo una nausea immensa. Uno che fa così è peggio di lo-
ro».
«Bene. Andate a mettere in pensione quello che chiamate
cervello. Bella porcheria, la vostra mente. Riuscirà comunque a
capire che si sta tramando contro l'Impero? Riuscirete, signor

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/221


tenente, a capire che ci troviamo in una situazione pericolosis-
sima nella quale perdere anche soltanto un istante può voler dire
mandare a morte un quadrilione di abitanti della Galassia?!»
«Come? Be',... non so, caro dottor Arvardan... Perché voi sie-
te dottore, non è vero?... Bisogna stare attenti ai titoli, che dia-
mine! Comunque... Ho formulato una certa teoria intorno alla
vostra personalità... per me, voi siete un Terricolo. Sì... Forse
siete nato a Sirio, ammettiamolo pure. Ma avete un'animaccia
nera da Terricolo e vi servite della vostra cittadinanza imperiale
ai fini della loro ignobile causa, che dovete aver sposato. Bell'af-
fare avete combinato col rapimento di quel membro degli An-
ziani, al quale, tra parentesi, stringerei volentieri la gola con
queste mie mani... Fatto si è che adesso i Terricoli ce lo chiedo-
no. E si sono messi direttamente in comunicazione col forte!»
«Che? Si è già a questo punto? Ma allora... Che cosa stiamo
qui a perdere tempo?! Conducetemi dal Colonnello, vi dico!»
«Perché? Vi aspettate disordini? Sommosse? Magari organiz-
zate da voi stesso per poi...»
«Siete impazzito?! Perché avrei dovuto fare una cosa simi-
le?!»
«Allora sareste contento se restituissimo l'Anziano alla sua
gente?»
«Questo non potete, non dovete farlo!» strillò Arvardan bal-
zando in piedi. E per un attimo, sembrò che l'archeologo stesse
per buttarsi addosso all'altro.
Con il disintegratore in mano, Claudy disse: «Non possiamo
farlo, eh? Ascoltatemi bene, perché il conto tra me e voi è anco-
ra aperto. Vi ho preso a sberle e vi ho costretto ad umiliarvi alla
presenza della vostra ganza terricola e vi ho costretto a star lì
seduto davanti a me a sentirvi giudicare un lurido verme... ma
non sono ancora soddisfatto. Mi ci vuole l'occasione buona e vi i
disintegro per benino un braccio come voi avete spezzato il mio.
Provatevi a muovervi anche di un solo millimetro e vedrete!».
Arvardan rimase come impietrito.

222/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Ridendo, Claudy ripose il disintegratore nella fondina e disse:
«Peccato! Debbo risparmiarvi perché il Colonnello desidera ri-
cevervi alle cinque e un quarto...»
«E sapendolo... avete potuto... avete inscenato...»
«Naturalmente» ammise Claudy mentre Arvardan, pazzo di
collera, gli stava davanti incapace persino di parlare.
«Se il tempo che mi avete fatto perdere, tenente Claudy» dis-
se l'archeologo quando si fu ricomposto un poco «sarà causa di
rovina per noi, allora non ci resterà troppo tempo da vivere. Ma
voi creperete prima di me» sibilò Arvardan con ira gelida, pau-
rosa «perché, dovessi dedicare a ciò gli ultimi istanti di vita, mi
divertirò a fare della vostra schifosa faccia una poltiglia informe
d'ossa e cartilagini sanguinolente...»
«Sarò pronto ad aspettarti, schifoso amante di donnacce terri-
cole. Quando vorrai!»

Dopo lunghi anni di servizio presso le forze armate dell'Im-


pero, anche il comandante di Fort Dubburn aveva finito per cri-
stallizzarsi. Nel corso della sua lunghissima carriera, da quando
cioè era salito dal grado di semplice cadetto a quello attuale,
aveva prestato servizio in ogni parte della Galassia... Comanda-
va, è vero, una guarnigione in un mondo di nevrotici come era la
Terra, ma anche quel compito per lui non era che una delle solite
corvée. Ed era appunto il tran-tran queto e tranquillo di tutti i
giorni quel che gli premeva soprattutto di preservare. Non aveva
altre aspirazioni.
Entrando nel suo ufficio Arvardan lo trovò stanco. Il colon-
nello aveva aperta sul collo la camicia, ed aveva appeso allo
schienale della sedia la tunica, adorna dell'aurea decorazione
della "Astronave Sole dell'Impero".
Guardando Arvardan con aria solenne, fece scoppiettare le
giunture delle dita.
«Un bel pasticcio, davvero!» disse. «Un gran pasticcio. Vi ri-
cordo perfettamente, giovanotto: siete quel Bel Arvardan di Ba-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/223


ronn, causa principale di turbamento in questa città nel corso
degli ultimi due mesi. Possibile che non riusciate a tenervi alla
larga dai pasticci?»
«Purtroppo, questa volta, nei pasticci non ci sono da solo,
Colonnello. Con me c'è anche tutto il resto della Galassia».
«Sì, lo so» disse l'ufficiale con aria impaziente. «Quanto me-
no, so che questo andate affermando. Tra l'altro mi si dice anche
che avete perduto i vostri documenti.
«Infatti mi sono stati tolti, ma sono ben conosciuto all'Eve-
rest. Il Procuratore in persona è in grado di identificarmi e spero
che ciò possa avvenire prima del tramonto».
«Quanto a questo... vedremo». Il colonnello incrociò le brac-
cia sul petto e appoggiandosi comodamente allo schienale della
poltrona suggerì: «Cominciamo a sentire la vostra versione dei
fatti...».
«Sono stato informato che un gruppo di Terricoli si trova alla
testa di una pericolosa cospirazione che intende rovesciare il
Governo Imperiale coll'uso della forza. Se tale circostanza non
sarà immediatamente resa nota alle competenti autorità, i con-
giurati potrebbero riuscire non solo a rovesciare il Governo, ma
a distruggere l'Impero stesso».
«Mi sembra che andiate troppo in là, giovanotto! Dichiara-
zione assai avventata la vostra! Figuratevi se i Terricoli sono ca-
paci di rovesciare il Governo Imperiale! Tuttavia sono ben di-
sposto ad ascoltare i particolari di quella che chiamate congiu-
ra...»
«Lo farei volentieri se non si trattasse di cosa assolutamente
seria. Così grave, anzi, che ritengo assoluta necessità comunica-
re soltanto al Procuratore in persona i particolari che mi avete
richiesto. Vi chiedo dunque formalmente di mettermi in diretta
comunicazione con lui».
Corrugando la fronte e contemplandosi le unghie delle mani,
il colonnello mormorò: «Mettete forse in dubbio la mia compe-
tenza in materia?».

224/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Affatto, signore. Mi rendo semplicemente conto che soltanto
il Procuratore ha l'autorità necessaria di prendere le decisioni
gravi e urgenti indispensabili in questo caso».
«A quale decisione particolare volete far riferimento?»
«Entro trenta ore si dovrebbe bombardare e distruggere com-
pletamente un certo edificio di questa Terra. Se ciò non sarà fat-
to, la maggior parte degli abitanti dell'Impero sarà perduta».
«Di che edificio si tratta?» domandò con aria stanca il colon-
nello.
«Potrei essere messo in comunicazione diretta con il Procura-
tore, per favore?» ripeté Arvardan impaziente.
Cadde un lunghissimo silenzio. Rigidamente, il colonnello
disse: «Vi rendete conto che col rendervi colpevole di sequestro
di persona ai danni di un Terricolo, siete passibile di giudizio da
parte delle autorità terricole? In casi normali, il nostro Governo
si adopera perché i propri cittadini vengano giudicati da tribunali
galassici. Tuttavia, le relazioni con la Terra sono estremamente
delicate ed io ho ricevuto severe istruzioni al fine di evitare
qualsiasi ragione di contrasto. Per questa ragione, se vi rifiutere-
te di rispondere esaurientemente alle mie domande, mi vedrò
costretto a consegnare voi e i vostri compagni alla Polizia loca-
le».
«Ma questo vuol dire condannarci a morte! E sarebbe la mor-
te anche per voi... Sono cittadino dell'Impero e chiedo formal-
mente di essere sentito dal Pro...»
Arvardan fu interrotto dal risuonare di un campanello che si
trovava sul tavolo da lavoro dell'ufficiale. Il comandante la piaz-
za schiacciò un bottone. «Dite!»
«Colonnello» rispose chiara una voce «un gruppo d'indigeni
ha circondato il Forte. Si crede che siano armati».
«Ci sono state violenze?»
«No, signore».
Il volto del colonnello non si scompose. Era allenato a fron-
teggiare queste situazioni. «Siano preparate artiglierie ed avia-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/225


zione. Tutti gli uomini ai loro posti di combattimento. Si fa fuo-
co soltanto se si è attaccati».
«Sì, signore„ Un Terricolo domanda di essere ricevuto facen-
dosi schermo dietro la bandiera dei parlamentari».
«Mandatemelo. E mandate anche il Segretario del Gran Mini-
stro».
Terminato il colloquio col suo ufficiale, il colonnello indiriz-
zò all'archeologo un'occhiata piena di freddezza.
«Spero che vi rendiate conto della spaventevole natura dell'a-
zione che avete commessa, col rapire un Anziano».
«Chiedo di essere presente al colloquio con il Segretario»
gridò Arvardan quasi completamente folle di collera. «Voglio
anche che mi spieghiate per quale ragione avete permesso che io
rimanessi per quattro ore confinato in una stanza, guardato a vi-
sta, mentre voi vi intrattenevate con un traditore indigeno. Mi è
noto infatti che gli avete accordato un colloquio prima di de-
gnarvi di ricevermi!»
«Se avete intenzione di muovere accuse contro di me» disse
il colonnello alzando gradualmente la voce «vi invito formal-
mente a farlo in modo esplicito».
«Non ho alcuna accusa da formulare. Voglio soltanto ricor-
darvi che dovrete rendere conto delle vostre azioni: a cose finite!
E un giorno, se pur saremo sopravvissuti, potreste divenire fa-
migerato sotto il nome di distruttore del vostro popolo! Questo
per la vostra cocciutaggine».
«Silenzio! In ogni caso non è a voi che debbo render conto
delle mie azioni. E d'ora in poi si procederà in questa faccenda
secondo la mia insindacabile decisione. Capito?»

226/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


XX
SCOCCA L'ORA "X"

Il Segretario entrò attraverso la porta che gli era stata aperta


da un soldato. Sul labbro violaceo e tumefatto gli aleggiava un
breve sorrisetto assai gelido. Fece un compito inchino al colon-
nello, ma finse di ignorare la presenza di Arvardan.
«Signore» gli disse il colonnello «ho debitamente comunicato
al Gran Ministro la ragione per cui vi trovate qui, nonché il mo-
do con il quale vi siete stato condotto. La vostra detenzione in
questo luogo, naturalmente, è in modo assoluto... poco ortodos-
sa; non appena mi sarà possibile, sarà mia premura rimettervi in
libertà. Devo però avvertirvi che questo signore ha mosso contro
di voi un'accusa assai grave, accusa che date le circostanze è
mio dovere di approfondire...»
«Capisco, Colonnello» disse calmo il Segretario. «Tuttavia
ho già avuto l'onore di spiegarvi che questo individuo è stato
sulla Terra, a quanto mi consta, soltanto per un paio di mesi o
poco più. Non ha quasi assolutamente conoscenza della politica
interna del nostro pianeta, e mi piacerebbe proprio di conoscere
su quali basi ardisce fondare le accuse che mi muove».
Arvardan intervenne: «Sono archeologo di professione, in
questi ultimi tempi mi sono proprio specializzato sulla Terra e
sui suoi problemi. Vanto una conoscenza dei problemi politici di
questo pianeta che si può dire tutt'altro che imprecisa. Comun-
que, io non sono il solo a muovere delle accuse».
«Già...» disse sprezzante il Segretario. «Uno dei nostri scien-
ziati appoggia le accuse di costui. Si tratta di un individuo che
ormai vicino alla sua normale sessantina, soffre di mania di per-
secuzione. C'è inoltre un altro individuo i cui precedenti sono
ignoti e del quale si sa soltanto che ha sofferto a lungo di idio-
zia... Non vedo come questi tre individui possano sostenere con
tanta baldanza certe accuse».

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/227


«Chiedo formalmente di poter...» urlò Arvardan, alzandosi in
preda a un'ira incontenibile.
«Seduto» impose il colonnello, gelido e piuttosto ostile.
«Avete rifiutato di discutere la faccenda con me; ora ne subirete
le conseguenze. Sia introdotto il parlamentare».
Si trattava di un altro dei membri della Società degli Anziani.
Alzandosi dalla poltrona il colonnello gli disse: «Siete il porta-
voce degli uomini adunatisi qui fuori?».
«Lo sono, signore».
«Qual è la ragione di questa adunata illegale che mi puzza
molto di sommossa? Domandate forse che sia messo in libertà il
vostro compatriota qui presente?»
«Sì, signore. Domandiamo che sia messo immediatamente in
libertà».
«Senti, senti! Comunque nell'interesse della legge e per il ri-
spetto dovuto ai rappresentanti di Sua Maestà Imperiale, non sa-
rà possibile prendere in considerazione la vostra richiesta, sino a
che i vostri uomini saranno adunati in armi ed in atteggiamento
ribelle davanti a questo Forte. Ordinate immediatamente alla vo-
stra gente di disperdersi».
Il Segretario prese la parola con accenti di bonarietà: «Il Co-
lonnello ha perfettamente ragione, Fratello Cori. Ti prego, calma
gli animi e comunica à tutti che io sto perfettamente bene, che
non corro alcun pericolo... Anzi non c'è alcun pericolo per nes-
suno. Capisci? Per nessuno. Te ne do la mia parola di Anziano».
«Lieto di apprenderlo, Fratello. Lieto di vederti in buona sa-
lute».
Il parlamentare fu fatto uscire.
Il colonnello disse seccamente: «Non appena sarà ristabilita
la normalità in città, farò in modo che possiate tornare ai vostri
perfettamente tranquillo. Vogliate anche accettare i miei ringra-
ziamenti per la vostra gentile collaborazione».
Arvardan tornò a mettersi in piedi: «Ve lo proibisco. Non po-
tete rimettere in libertà questo assassino della razza umana e

228/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


proibirmi nel contempo di prendere contatti con il Procuratore
come è il mio diritto di cittadino dell'Impero Galassico». E in un
parossismo di delusione aggiunse: «Possibile che dimostriate
maggior considerazione ad un cane Terricolo che a me?».
«Colonnello» disse il Segretario con tono di voce che risuonò
un pochino più alto dell'incoerente balbettio collerico dell'altro
«se quest'uomo non desidera altro, rimarrò volentieri qui sino a
che tutta la faccenda sia stata esposta al Procuratore. Nulla mi
sarà più gradito che poter dimostrare al Procuratore che non esi-
ste cittadino più leale verso l'Impero di quanto lo sono io».
«Ammiro i vostri sentimenti, signore» disse il colonnello ir-
rigidendosi sull'attenti. «E confesso che al vostro posto avrei as-
sunto ben altro atteggiamento. Sarà mia cura tentare di prendere
contatto al più presto col Procuratore».
Arvardan tacque sin che non lo si ricondusse in cella.
Evitando lo sguardo degli altri, rimase a lungo seduto mor-
dendosi i pugni.
Sino a che Shekt gli domandò: «Ebbene?».
Scuotendo il capo Arvardan rispose: «Credo di aver rovinato
tutto».
«Che cosa avete fatto?»
«Ho perduto le staffe, offeso il Colonnello... non ho concluso
nulla... Bella razza di diplomatico sono, Shekt».
E in un subito desiderio di giustificarsi, proruppe:
«Che cosa potevo fare? Balkis era già stato ricevuto dal Co-
lonnello e io non potevo più fidarmi del comandante. E se Bal-
kis gli aveva offerto la vita in cambio della complicità? E se il
Colonnello faceva parte del complotto sin dall'inizio? So che
questi sono sospetti assolutamente pazzeschi... Ma non potevo
proprio correre il rischio di aprirmi completamente a lui. Era
troppo sospetto. Ecco perché ho insistito per vedere Ennius in
persona».
Il fisico si alzò e stropicciandosi le mani esangui dietro la
schiena, volle sapere: «E Ennius?».

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/229


«Credo che verrà. Ma se lo fa, obbedirà soltanto alla richiesta
di Balkis, la qual cosa proprio non mi riesce di comprendere».
«Verrebbe su richiesta di Balkis? Allora Schwartz deve avere
visto giusto».
«Che cosa ha detto Schwartz?»
Il tozzo Terricolo si mise a sedere sulla sua branda. Nel vede-
re che tutti gli occhi si posavano su di lui, fece spallucce ed al-
largando le mani in un gesto di impotenza disse: «Ho preso con-
tatti con la Mente del Segretario proprio quando lo facevano
passare davanti a questa porta. Effettivamente ha avuto un lun-
ghissimo colloquio con il Colonnello del quale ci avete parlato».
«Questo lo so».
«Ma nella mente di quell'ufficiale non ho trovato alcun segno
di tradimento».
«Meglio così!» mormorò Arvardan. «Si vede che mi sono
sbagliato. Ma quando arriverà Ennius, me la faranno pagar cara.
E Balkis?»
«Non è minimamente spaventato o preoccupato. Quel che lo
fa vivere è semplicemente l'odio. Soprattutto odio contro di noi
che l'abbiamo catturato e trascinato qui. Vuole offrirci ogni pos-
sibilità di sconfiggerlo per poi trionfare di noi».
«Volete dire che il Segretario è disposto a rischiare il succes-
so dei suoi piani, i suoi sogni di diventare Imperatore, soltanto
per prendersi la rivincita su di noi? È pazzesco!»
«Lo so» disse Schwartz con assoluta sicurezza. «Il Segretario
infatti è pazzo».
«In questo caso, Schwartz, avremo bisogno di voi, del vostro
cervello...»
Ma Shekt scuotendo il capo disse: «No, Arvardan, non po-
tremo farlo. Quando ve ne siete andato ho svegliato Schwartz ed
ho discusso con lui l'intera situazione. I poteri psichici di cui è
dotato, e che riesce a descrivere soltanto in modo assai impreci-
so, non sono ancora, è ovvio, sotto suo preciso e perfetto con-
trollo. Può, se vuole, stordire, paralizzare, addirittura uccidere

230/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


un uomo, è vero. Meglio ancora, riesce persino a controllare i
muscoli involontari più estesi anche contro la volontà del sog-
getto: ma non riesce a fare di più. Come abbiamo veduto nel ca-
so del Segretario, Schwartz non è riuscito a farlo parlare, in
quanto i piccoli muscoli che muovono le corde vocali sono trop-
po difficili da manovrare per i suoi poteri. Non è riuscito neppu-
re a coordinare i movimenti del Segretario, quanto bastava a far-
gli guidare l'automobile; e quando l'ha costretto a camminare è
riuscito a mantenerlo in piedi soltanto con molta difficoltà. È
ovvio quindi che noi non potremmo imporre ad Ennius il con-
trollo di Schwartz, per esempio, sino al punto di costringere il
Procuratore a firmare o a scrivere un ordine. Ho già pensato a
questo, come vedete» concluse Shekt e scosse ancora una volta
il capo con aria scoraggiata.
Arvardan si sentì precipitare in un abisso di desolata impo-
tenza. Poi con un'improvvisa stretta al cuore, domandò:
«Dov'è Pola?»
«Dorme nell'alcova».
Avrebbe voluto destarla. Avrebbe desiderato... Oh, avrebbe
desiderato tante tante cose!
Guardò l'ora all'orologio da polso. Mancava poco a mezza-
notte: non rimaneva loro altro che una trentina di ore.
Si gettò a dormire sulla sua cuccetta e alle prime luci dell'alba
fu nuovamente desto. Per tutto il resto del giorno nessuno si fece
vedere, e l'archeologo andò sempre maggiormente perdendo le
speranze.
Quando, ventiquattr'ore dopo, finalmente il Procuratore arri-
vò, mancavano sei ore al momento fatale. Pola gli sedette accan-
to, ed Arvardan ne sentiva le piccole dita intorno al polso, le ve-
deva stampata sul volto una espressione di timore, di profonda
stanchezza che lo rendevano più di ogni altra cosa furibondo
contro il contegno dei Galassici.
Forse meritavano tutti di morire, quegli stupidi... stupidi...
stupidi...

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/231


Shekt e Schwartz quasi non li vedeva. Sedevano alla sua sini-
stra. Ed era entrato anche Balkis. Il dannato Balkis con le labbra
ancora tumefatte, una larghissima ecchimosi verdastra su di una
guancia, che doveva fargli un male del diavolo ogni volta che
parlava. Arvardan, girò gli occhi intorno con le labbra contratte
in un doloroso sorriso aprendo e chiudendo spasmodicamente i
pugni.
Ennius, con la fronte aggrottata, incerto, quasi ridicolo, vesti-
to com'era di quei suoi sciocchi panni pesanti, informi, impre-
gnati di piombo, li guardò a uno a uno.
Idiota anche lui! Arvardan si sentì scuotere da un brivido di
odio per tutti quei Galassici imbelli che non sapevano desiderare
altro che la loro pace e il loro comodo. Dov'erano finiti i conqui-
statori di trecento anni prima? Dove?...
E non rimanevano che sei ore!

Ennius era stato chiamato a Chica, da quella guarnigione, cir-


ca diciotto ore prima e per giungervi aveva dovuto compiere una
mezza circumnavigazione del pianeta. I motivi che l'avevano in-
dotto ad obbedire alla chiamata gli riuscivano ancora oscuri,
benché inspiegabilmente impellenti. In sostanza, pensò, cercan-
do di calmarsi, non si trattava altro che del sequestro di persona
ai danni di uno di quei ridicoli, superstiziosi individui terricoli
che amavano vestirsi di seta verde... In sostanza, non c'erano che
folli accuse prive di sostegno e di prove attendibili. Nulla, in ul-
tima analisi, che il colonnello non sapesse e potesse sistemare da
solo.
Ma c'era Shekt. C'entrava in qualche modo Shekt... Non già
in qualità di accusato, ma di accusatore. E questo il Procuratore
non se lo sapeva spiegare.
Ora sedeva di fronte a loro, pensoso, perfettamente consape-
vole che le decisioni che doveva prendere, avrebbero potuto por-
tare ad una ribellione, avrebbero potuto indebolire la sua posi-
zione a Corte, rovinargli qualsiasi possibilità di fare carriera...

232/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Quanto al lungo discorso che Arvardan aveva testé terminato,
proprio non sapeva che cosa pensarne. Che cos'era quel gran
parlare di "ceppi diversi'', virus, di epidemie impossibili a domi-
narsi? Se mai avesse accettato di prendere le sue decisioni in ba-
se alle accuse dell'archeologo, che figura avrebbe potuto fare di
fronte ai superiori?
D'altra parte, Arvardan era un archeologo di gran fama.
Decise quindi di vederci più chiaro. Si rivolse al Segretario:
«Che cosa avete da dire al riguardo?».
«Molto poco. La qual cosa vi sorprenderà» disse il Segretario
con grande disinvoltura. «Che prove ci sono a sostegno delle ac-
cuse che mi si muovono?»
«Eccellenza» disse Arvardan costringendosi a portar pazienza
«ho già avuto l'onore di dirvi che questo individuo ha ammesso
in ogni particolare il delitto di cui lo accusiamo, quando erava-
mo suoi prigionieri due giorni or sono».
«Non so come vorrete giudicarla voi» disse il Segretario «ma
a me sembra, Eccellenza, che anche questa sia una dichiarazione
che non ha di prove attendibili. Se dobbiamo rifarci ai fatti, non
mi sarà difficile provare con la testimonianza di persone inso-
spettabili, che sono stati costoro a sequestrare con la violenza la
mia persona e non altrimenti, che sono stati costoro a mettere in
pericolo la mia esistenza, e non viceversa. Gradirei inoltre che il
mio accusatore spiegasse in qual modo è venuto a conoscenza di
tutto quanto si vanta di sapere nel corso di sole nove settimane
di soggiorno su questo pianeta, quando Vostra Eccellenza, il si-
gnor Procuratore della Terra, non ha trovato nulla da rimprove-
rarmi nei suoi lunghi anni di servizio quassù!»
«C'è del vero in quanto dice il Fratello» ammise Ennius di
mala voglia. «Spiegatevi dunque, Arvardan!»
L'archeologo rispose, rigido: «Il dottor Shekt mi ha informato
dell'esistenza della cospirazione, ancor prima che l'accusato qui
presente ce lo confessasse!».
«È vero, dottor Shekt?» domandò il Procuratore lanciando

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/233


un'occhiata al fisico.
«È vero, Eccellenza».
«E come ne siete venuto a conoscenza?»
Shekt disse: «Mi rifaccio alla perfetta ed accurata descrizione
che il dottor Arvardan ha fornito dell'uso che si è fatto del Sinot-
tificatore. Mi rifaccio inoltre alle sue osservazioni concernenti le
dichiarazioni rese in punto di morte dal batteriologo F. Smithko.
Smithko era membro della congiura. Le sue dichiarazioni sono
state registrate col magnetofono, e le bobine di filo sono a vostra
disposizione».
«Ma, dottor Shekt, le dichiarazioni di un moribondo, per di
più in stato delirante... almeno questo era quanto sosteneva poco
fa il dottor Arvardan... non possono essere di gran peso. Non
avete di meglio?»
Arvardan lo interruppe: «Stiamo forse giudicando un evasore
dalle disposizioni sulla viabilità? Non c'è tempo qui di soppesare
analiticamente ogni parola, di sottoporre ogni dichiarazione al
vaglio del micrometro. Vi dico che non ci rimangono che cinque
ore e mezzo, fino alle sei del mattino per essere precisi, se vo-
gliamo stornare dal nostro capo il terribile pericolo che tutti ci
minaccia, e voi... Conoscete il dottor Shekt da lunga pezza, Ec-
cellenza. Vi ha forse mai mentito, questo grande scienziato?».
Il Segretario intervenne immediatamente: «Nessuno ha accu-
sato il dottor Shekt di avere deliberatamente mentito, Eccellen-
za. Non vi sfugga però che il nostro buon dottore invecchia e
che in questi ultimi tempi si è molto preoccupato per l'approssi-
marsi del suo sessantesimo compleanno. Purtroppo, senilità e
paura debbono aver sviluppato in lui certe tendenze paranoiche
del resto assai comuni qui sulla Terra... Guardatelo! Vi sembra
forse, il suo, il viso di una persona normale?».
In verità il dottor Shekt appariva esausto, angosciato, tortura-
to da quanto temeva che gli riserbasse ancora il futuro; tuttavia il
fisico riuscì a dare alla sua voce un tono normale e calmo. Disse:
«Vi dirò allora che nel corso di questi ultimi due mesi, io sono

234/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


stato sottoposto all'incessante controllo degli Anziani; vi dirò
che mi è stata aperta e censurata la corrispondenza. È ovvio,
comunque, che i malevoli potrebbero attribuire anche queste mie
accuse a mania da paranoico. Mi rifarò quindi al qui presente
Joseph Schwartz, l'uomo presentatosi volontariamente per essere
sottoposto al Sinottificatore, proprio il giorno in cui Vostra Ec-
cellenza è venuto a trovarmi all'Istituto».
«Ricordo» disse Ennius, grato in un certo senso che almeno
per un momento l'oggetto della discussione fosse cambiato.
«Costui è quel volontario?»
«Sì».
«Non mi sembra che abbia subito gravi conseguenze per es-
sersi sottoposto ai vostri esperimenti».
«C'è molto più di questo. Sottoposto al Sinottificatore, lo
Schwartz ne ha tratto benefici poco comuni anche perché dotato
di una memoria fotografica, elemento che mi era allora comple-
tamente ignoto. Comunque, oggi quest'uomo è dotato di una
mente sensibile ai pensieri altrui».
Ennius si sporse in avanti sulla sedia e urlò, completamente
sbalordito: «Che?! Volete dire che sa leggere il pensiero?».
«Ve lo possiamo dimostrare, Eccellenza. Ma sono certo che
anche il Fratello vorrà confermare questa mia dichiarazione».
Il Segretario lanciò una rapida occhiata d'odio a Schwartz
mentre per un attimo il suo volto esprimeva una selvaggia fero-
cia. Ma la sua voce, tuttavia risuonò pacata: «Questo è in buona
parte vero, Eccellenza. Questo individuo possiede certamente
facoltà ipnotiche, che però non saprei se si possano attribuire
agli effetti del Sinottificatore... Potrei aggiungere però che dopo
averlo sottoposto ai suoi esperimenti, il dottor Shekt ha trascura-
to di fare regolare rapporto, la qual cosa rende tutta questa circo-
stanza assai sospetta».
«Non ho fatto rapporto» obiettò Shekt queto «perché così mi
era stato ordinato dal Gran Ministro».
Ma a questa risposta il Segretario si limitò a fare spallucce.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/235


Ennius li riportò all'argomento che gli stava a cuore:
«Smettiamola con questi sciocchi bisticci» disse. «Che c'entra
Schwartz? Cosa c'entra con la faccenda di cui ci occupiamo, la
sua capacità di leggere nel pensiero, di esercitare azione ipnotica
o cose di questo genere?»
«Shekt voleva dire» intervenne il Segretario «che Schwartz
ha letto il mio pensiero, e quindi... SA...»
«È così? Be'... E che cosa pensa?» domandò il Procuratore ri-
volgendosi per la prima volta a Schwartz.
«Pensa» disse Schwartz «che noi non abbiamo alcun modo di
convincervi della verità di quanto asseriamo».
«Verissimo» proruppe il Segretario. «Verissimo, benché a ta-
le deduzione si poteva arrivare anche senza bisogno di speciali
talenti psichici».
«Pensa inoltre» continuò Schwartz «che voi siete un povero
stupido timoroso di prendere una decisione, desideroso unica-
mente di pace, speranzoso di attirare dalla vostra gli uomini del-
la Terra senza urtarli troppo nelle loro manie, e vi giudica stupi-
do appunto perché nutrite tale speranza».
Il Segretario avvampò. «Non è vero!» disse. «Il tentativo di
questo individuo di presentarmi a Vostra Eccellenza sotto una
luce sfavorevole è ovvio!».
«Ci vuoi altro perché io dia retta ai pregiudizi!» disse tran-
quillamente Ennius. E tornando a rivolgersi a Schwartz volle sa-
pere: «E che cosa sto pensando io?».
Schwartz riprese: «Che se anche riesco a leggere il pensiero
degli altri, non c'è nessun bisogno che io racconti a tutti quanto
apprendo».
Sul volto del Procuratore si dipinse un'espressione di profon-
do stupore. Disse: «Giusto! Giustissimo! Sostenete vere le accu-
se pronunciate dai dottori Arvardan e Shekt?».
«Le sottoscrivo fino all'ultima parola».
«Bene! Pur riconoscendovi generiche capacità telepatiche, la
vostra deposizione non può aver alcun valore davanti alla legge,

236/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


sino a quando queste dichiarazioni non avranno l'avallo di altra
persona come voi dotata, ma estranea al dibattito».
«Ma qui non è questione di legge!» strillò Arvardan. «Si trat-
ta di salvare la Galassia!»
«Eccellenza» disse improvvisamente il Segretario alzandosi
in piedi «ho da avanzare una richiesta.... Desidero che Joseph
Schwartz venga allontanato da questa stanza».
«E perché?»
«Costui, oltre a saper leggere il pensiero, è dotato di certo po-
teri psichici. Io stesso sono stato catturato grazie alla paralisi
delle facoltà volitive che questo Schwartz è riuscito a impormi.
Temo vivamente che possa tentare qualcosa del genere contro di
me in questo momento o addirittura contro Vostra Eccellenza. È
unicamente per questo che ho osato fare la mia richiesta».
Arvardan balzò in piedi, ma il Segretario parlò coprendo la
voce dell'altro: «Come si può agire con equità in presenza di un
individuo capace di influenzare la mente del giudice facendo ri-
corso a mezzi psichici?»
Ennius prese rapidamente una decisione. Poco dopo Joseph
Schwartz, senza opporre la minima resistenza, senza mostrare il
minimo segno di turbamento sul viso tondo da luna piena, veni-
va condotto fuori dalla stanza.
Arvardan pensò che ormai fosse giunta la fine.
Il Segretario, invece, imbaldanzito, levò in tutta la sua pos-
senza l'alta figura vestita di seta verde e con atteggiamento di
grande fierezza e sicurezza di sé, si rivolse a Ennius:
«Eccellenza! Come voi avrete certamente notato, le accuse e
le convinzioni del dottor Arvardan si fondano unicamente su
quelle del dottor Shekt il quale, a sua volta, fonda le sue sulle ul-
time parole pronunciate da un moribondo in stato delirante. E
tutto questo, tutta questa congerie di fantasie, non è giunta in su-
perficie se non quando Joseph Schwartz è stato sottoposto agli
effetti del Sinottificatore.
«Chi è, dunque, questo Joseph Schwartz? Prima della sua

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/237


comparsa, il dottor Shekt si è sempre dimostrato un uomo nor-
male. Ne è testimone Vostra Eccellenza, che ha avuto occasione
di parlargli il giorno stesso in cui Schwartz è venuto a chiedere
di essere sottoposto al suo trattamento. Era forse anormale,
Shekt, quel giorno? Vi ha forse parlato di congiure in atto ai
danni dell'Impero? Vi ha forse accennato agli insani discorsi di
un batteriologo folle? Vi è forse apparso turbato, Shekt, in quel-
la occasione? Sospettoso di qualcosa? Come si spiega allora che
oggi questo fisico osi dire di aver ricevuto precise istruzioni da
parte del Gran Ministro di rendere una versione falsa degli espe-
rimenti eseguiti col suo apparecchio, di non prender nota dei
nomi di coloro che pure aveva sottoposto a trattamento col suo
apparecchio? Perché non ve ne ha parlato quel giorno? Perché lo
fa soltanto ora, dopo, cioè, la comparsa di quello Schwartz sulla
scena?
«E vi chiedo di nuovo: chi è Joseph Schwartz? Quando fu ri-
coverato non sapeva parlare la nostra lingua, non parlava alcuna
lingua conosciuta. Questo l'abbiamo saputo dopo, quando cioè
abbiamo cominciato a sospettare dell'integrità mentale del dottor
Shekt. E abbiamo saputo che Schwartz è stato condotto all'Istitu-
to da un agricoltore che nulla sapeva della sua identità, dei suoi
precedenti rimasti oscuri a tutt'oggi.
«Eppure, questo sconosciuto si dimostra capace di poteri psi-
chici negati agli altri. Col pensiero, riesce a stordire chi vuole
anche a distanza di centinaia di metri... Riesce addirittura ad uc-
cidere, in quel modo! Io stesso sono stato paralizzato da quel
mostro. Mi son visto comandare i movimenti delle mie braccia...
delle mie gambe, Eccellenza. Se l'avesse voluto, sarebbe certa-
mente riuscito a far del mio cervello quanto voleva!
«Ed io sono persuaso che Schwartz ha istillato insani e folli
pensieri nelle menti di costoro, Eccellenza. Ed ecco che adesso
costoro sostengono che io li ho fatti imprigionare, che io ho con-
fessato loro folli piani di rivolta e distruzione dell'Impero, che io
vorrei sostituirmi all'Imperatore... Ebbene, Eccellenza.. Non so-

238/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


no forse stati sottoposti a lungo all'influenza psichica di quello
Schwartz, questi poveri esseri? Non sono stati forse influenzati
psichicamente da quel mostro?»
E il Segretario tornò a sedere calmo e soddisfatto della sua
perorazione.
Arvardan si sentiva come se il cervello gli si fosse trasforma-
to in un ciclotrone. Se lo sentiva girare sempre più forte come in
un gorgo.
Che cosa poteva rispondere... Che Schwartz veniva dal passa-
to?! Che prova ne aveva? La lingua che Schwartz parlava? Ma
quella... la conosceva soltanto lui, Arvardan... E gli avversari
potevano continuare a sostenere che lui... che il suo cervello era
rimasto influenzato dalla volontà di Schwartz. E se fosse stato
proprio così? Se Schwartz fosse effettivamente riuscito a...? Chi
era, in effetti, Schwartz? Come aveva potuto lui, Arvardan, ri-
manere convinto in quattro e quattr'otto dell'esistenza di quel
piano orrendo ai danni dell'intera Galassia?
Si ripropose nuovamente l'angosciosa domanda. Che cosa l'a-
veva convinto all'esistenza della congiura? Un uomo come lui,
un archeologo abituato al dubbio scientifico... si era lasciato
convincere dalle parole di un uomo, o dal bacio di una ragazza?
O era stato... Joseph Schwartz?
Non riusciva a pensare! Non era più capace di pensare!
«Ebbene?» chiese Ennius, impaziente. «Avete nulla da dire,
dottor Arvardan? E voi, dottor Shekt?»
«A che pro lo chiedete loro?» domandò Pola. «Ma non lo ca-
pite che quest'individuo mente? Che si fa giuoco di tutti noi con
le sue falsità, con la sua doppiezza? Credetegli pure e morremo
tutti quanti! E non m'importa più di niente, ormai... Eppure... Si
sarebbe potuto fermarlo!... Si sarebbe potuto salvare tutto quan-
to... E invece... Eccoci qui seduti intorno ad un tavolo a parlare...
a chiacchierare!»
Scoppiò in disperati singhiozzi.
«Saremo dunque ridotti a prestar fede agli strilli di una pove-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/239


ra ragazza isterica, Eccellenza?» fece osservare indignato il Se-
gretario. «Ma sono disposto a fare una proposta... Costoro che
mi accusano, sostengono che questo virus... o che cosa diavolo
dicono... dovrebbe esser lanciato negli spazi alle sei di stama-
ne... Ebbene, rimarrò vostro prigioniero per una settimana. Se
quanto costoro sostengono è vero, tra pochi giorni, anche in Ter-
ra si saprà che un'epidemia si è scatenata sulla Galassia. Se ciò
dovesse verificarsi, in Terra ci sarebbero forze Militari Imperiali
sufficienti a... dominare completamente il pianeta e...»
«Sarebbe un bel cambio davvero! Un'intera Galassia per una
Terra!» mormorò disfatto Shekt.
«Metto su di un piatto della bilancia la mia vita e quella del
mio popolo! Mi offro in ostaggio a testimonianza della nostra
innocenza e sono pronto ad informare la Società degli Anziani
che rimarrò qui di mia spontanea volontà e che si provveda
quindi a mantenere l'ordine sulla Terra ad ogni costo».
E incrociò le braccia sul petto.
«Quest'uomo mi sembra assolutamente in buona fede» mor-
morò Ennius, ormai convinto.
Arvardan non fu capace di sopportare altro. Col volto atteg-
giato gelida, orribile ferocia avanzò lenta-mente verso il Procu-
ratore. Nessuno seppe mai che cosa aveva in animo dì dire o di
fare. A cose fatte non seppe ricordarlo nemmeno lui. Non sareb-
be comunque riuscito a nulla perché Ennius era armato di staffi-
le neuronico. E se ne servì.
Per la terza volta da quando aveva messo piede sulla Terra,
tutto, intorno ad Arvardan disparve in una orribile fiammata, in
un abisso di dolore ed agonìa.
E mentre Arvardan viveva lunghe ore d'incoscienza, si giunse
alla fatale ora "X"…

240/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


XXI
OLTRE L'ORA "X"!

E l'ora fatale scoccò.


Arvardan vide una luce... una luce vaga, indistinta... Ombre
fumose... ombre che si confondevano tra loro, s'agitavano, che si
mettevano a fuoco e formavano un'immagine: un viso e due oc-
chi che lo guardavano...
«Pola!» esclamò Arvardan tornato alla realtà d'un tratto.
«Che ora è?»
Nel chiederlo la mano strinse il polso della fanciulla così for-
te che lei tentò un istintivo movimento per sciogliersi.
«Le sette passate» mormorò. «L'ora "X" è scoccata da un
pezzo».
Il giovane si guardò intorno sbalordito, dal fondo del lettuc-
cio in cui giaceva, dimentico del male che gli intorpidiva ancora
le giunture. Shekt, affondato in una poltroncina lì accanto gli ri-
volse un'occhiata melanconica, triste, ed annuì alla sua domanda
inespressa:
«Ormai è fatta, Arvardan».
«Ennius, dunque...»
«Ennius» interruppe Shekt «non ha voluto rischiare nulla nel-
la partita. Strano, no?» finì con una risata amara.
«Tre poveri diavoli inermi scoprono un orrendo complotto ai
danni dell'umanità intera, tre poveri diavoli inermi gli consegna-
no come in un pacchetto il maggior responsabile della congiu-
ra... si ripete, in sostanza, la classica situazione finale di ogni te-
le-film che si rispetti: quella in cui l'eroe finisce per cogliere la
meritata sudatissima vittoria... e invece niente lieto fine, perché
questa volta gli eroi della vicenda non trovano un cane che sia
disposto a credere alle loro parole! Non è roba da pazzi...?!»
concluse il fisico a stento, trattenendo un singhiozzo.
Arvardan volse il capo da un'altra parte per nascondere una

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/241


smorfia di dolore. E gli occhi di Pola parevano universi cupi, lu-
cidi di lagrime, abissi neri nei quali Arvardan si lasciò annega-
re... Sino a che vi vide riflesse innumeri stelle: innumeri sorgenti
di luce verso le quali si avviavano sibilando, lungo percorsi sa-
viamente calcolati in anticipo, di là dagli anni luce dell'iperspa-
zio, scintillanti missili di cristallo gonfi di morte... Tra poco i
missili avrebbero raggiunto le loro mete... se già non l'avevano
fatto... Trapanate le atmosfere di quei pianeti si sarebbero spa-
lancati ad inondarli d'una pioggia mortifera di virus...
Era finita, ormai.
Non si poteva più far nulla. Nulla... «Dov'è Schwartz?» do-
mandò debolmente Arvardan.
«Non l'hanno ancora ricondotto qui» rispose Pola scuotendo
malinconicamente il capo.
All'improvviso spalancarsi dell'uscio Arvardan si volse di
scatto: ancora non accettava l'idea della morte quanto bastava
per spegnergli ogni speranza.
Ennius... Il volto di Arvardan s'indurì. Egli voltò ostentata-
mente il viso.
Ennius si avvicinò al vecchio ed alla fanciulla, rimase un
istante immobile ad osservarli. I due sapevano che morte violen-
ta, rapida, orribile, attendeva tra breve il Procuratore: morte as-
sai più spaventevole delle poche ore di vita che l'avvenire teneva
in serbo per loro. Profondamente consci della loro inferiorità di
Terricoli, non osarono una parola di rimprovero neppure in quel
momento.
«Dottor Arvardan!» chiamò Ennius battendo una mano sulla
spalla dell'archeologo.
«Eccellenza...» rispose l'archeologo adeguando il tono della
voce a quello dell'altro, con un sarcastico scimmiottare.
«Le sei del mattino sono passate» disse Ennius che dopo aver
prosciolto da ogni accusa Balkis, non era riuscito a chiudere un
occhio: per tutta la notte, pur essendo convinto, in fondo in fon-
do, che gli avversari del Segretario erano completamente pazzi

242/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


o... vittime dell'influsso psichico altrui, era rimasto a fissare il
cronometro che aveva segnato indifferente gli ultimi istanti di
vita della Galassia.
«Già» disse Arvardan. «Sono passate le sei, eppure le stelle
continuano a brillare come prima, vero?»
«Ma come? Persistete nelle vostre accuse?»
«Tra qualche ora, Eccellenza, morranno le prime vittime. E
non daranno affatto nell'occhio, perché i decessi sono cose nor-
mali, nella vita di tutti i giorni. Tra una settimana, tuttavia, ne
saranno morti a centinaia di migliaia e la percentuale degli
scampati sarà praticamente eguale a zero. La Galassia si troverà
priva di rimedi. Una quantità di pianeti lanceranno nell'etere in
vocazioni disperate di soccorso, annunceranno l'epidemia. Entro
due settimane diecine e diecine di pianeti aggiungeranno la loro
voce al coro delle invocazioni e sarà proclamato intorno a loro
lo Stato d'Assedio. Tra un mese, la Galassia sarà sommersa dal
morbo, sarà agonizzante. Tra due mesi ci saranno sì e no una
ventina di pianeti indenni. Tra sei, la Galassia sarà spenta... Che
cosa farete voi quando leggerete i primi comunicati?
«Inutile rispondermi, perché ve lo dico io... Vi affretterete a
far conoscere in alto luogo che, forse, l'epidemia potrebbe aver
avuto origine sulla Terra... Ma ciò non varrà a salvare una sola
vita umana. Sì... Dichiarerete la guerra agli Anziani. Ma ciò non
varrà a salvare una sola vita umana. Vi consolerete sterminando
sino all'ultimo i Terricoli, ma anche questo non varrà a salvare
una sola vita umana... Ma potreste anche scegliere di fungere da
intermediario tra il vostro Balkis e il Consiglio delle Galassie,
tra il Segretario e quanti di quell'organismo saranno ancòra ri-
masti in vita. E in cambio di un po' d'antitossina, consegnerete al
trionfante carnefice le briciole, i rottami, dovrei dire, dell'Impe-
ro... E forse quell'antitossina non giungerà in tempo per salvare
una sola vita umana!»
«Non vi accorgete di parlare come in un antico melodram-
ma?» sorrise senza convinzione Ennius.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/243


«Dimenticavo! Sono... siamo, anzi, due cadaveri, ma ciò non
ci solleva dall'obbligo di mantenere quel superbo controllo di
noi stessi che è onore e vanto delle creature imperiali: vero?»
«Non credevo che ve la sareste presa tanto per una scarica
dello staffile neuronico!»
«Non è a questo che penso! State tranquillo! Ormai ci sono
abituato, allo staffile. Non lo sento più quasi!»
«Tanto meglio. Così potremo fare il punto della situazione il
più logicamente possibile. Mi avete messo di fronte a un colos-
sale pasticcio. Un pasticcio intorno al quale non posso riferire
con prove di fatto normali, un imbroglio che non mi è lecito
neppure di tacere. Gli altri due che hanno formulato le accuse
sono semplici Terricoli e si può procedere con più disinvoltura,
nei loro confronti. Voi invece siete Galassico. La vostra voce ha
peso, quindi. Io vi proporrei di firmare semplicemente una di-
chiarazione nella quale direte che le accuse le avevate formulate
in un momento in cui vi sentivate... in un momento in cui le vo-
stre facoltà... Be.... Troveremo a tempo e luogo una espressione
soddisfacente per dire che in quel momento vi trovavate sotto
controllo psichico altrui».
«Ma naturalmente! Diremo addirittura che ero ubriaco, paz-
zo, ipnotizzato... In preda a delirio da stupefacenti... Quel che
volete, carissimo...»
«Siate ragionevole! Ma non vedete che Balkis ha ragione?
Dovete trovarvi in condizioni psichiche alterate! Siete un uomo
di Sirio» sussurrò quasi inaudibilmente Ennius «eppure... vi sie-
te innamorato di una ragazza terricola...!»
«Che?!»
«Non urlate in questo modo... Volevo dire questo... Vi sareste
comportato come un indigeno, se foste stato in pieno possesso
delle vostre facoltà mentali? Vi sareste mai sognato di...» Ennius
concluse ammiccando all'indirizzo di Pola.
Per un istante Arvardan rimase paralizzato dallo stupore. Poi
balzò in piedi ed afferrò per il collo la massima autorità imperia-

244/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


le sulla Terra. Ennius tentò invano di liberarsi il collo dalla stret-
ta mortale dell'altro.
«Ah! Dunque è così che la pensate!» ruggì Arvardan. «Prova-
tevi ancora una volta a mancar di rispetto alla signorina e... Non
vale neanche la pena di uccidervi... Levatevi dai piedi... Siete
già morto egualmente!»
«Dottor Arvardan!» tuonò Ennius non appena riuscì a recupe-
rare l'uso delle corde vocali. «Consideratevi in arresto da questo
ist...»
Fu spalancata di colpo la porta e il Colonnello si precipitò an-
sando nella stanza.
«Eccellenza! Eccellenza! La plebaglia terricola circonda
nuovamente il Forte!»
«Che? Non ha conferito coi suoi subordinati, Balkis? Non era
sua la proposta di restare qui in ostaggio per una settimana?»
«Balkis ha conferito coi suoi subordinati e si trova tutt'ora
qui, ma... La plebaglia tumultua nuovamente ai nostri cancelli ed
io sono del parere di aprire immediatamente il fuoco su quelle
canaglie. Volete autorizzarmi a farlo, Eccellenza?»
«Prima di ordinare il fuoco, parlerò a Balkis. Mandatemelo
qui. Quanto a voi, dottor Arvardan... Faremo i conti dopo!»

Balkis entrò tutto sorridente. S'inchinò cerimoniosamente da-


vanti a Ennius, il quale gli restituì un saluto assai meno formale.
«Che cosa succede?» disse il Procuratore. «La vostra gente si
ammassa ancora agli ingressi del Forte! Era stato convenuto di-
versamente, tra di noi! Sono deciso ad evitare inutile spargimen-
to di sangue, ma la mia pazienza ha un limite. Intimate loro che
si disperdano pacificamente!»
«Se ne avrò voglia, lo farò, Eccellenza».
«Se ne avrete voglia?! Fatevela venire e... in fretta!»
«E invece non ci penso affatto, Eccellenza». E sempre sorri-
dendo gioioso, il Segretario alzò un braccio e vociando, prorup-
pe: «Stupida creatura! Avete aspettato troppo e il vostro errore

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/245


vi costerà la pelle! Potrete continuare a vivere, se sceglierete di
diventare mio schiavo! E non vi renderò facile l'esistenza, siate-
ne certo!»
Il fervore selvaggio di quelle minacce lasciò Ennius del tutto
indifferente. Il contegno impassibile del diplomatico di carriera
non lo abbandonò neppure in quegli istanti. Avvertì il colpo, con
un semplice accentuarsi dell'espressione di tristezza dello sguar-
do.
«Possibile che mi sia reso colpevole di così enorme mancan-
za di intuizione? Dunque la storiella del virus... era vera?» pro-
nunciò il Pro-curatore con aria distratta, vagamente meraviglia-
ta. «Comunque, voi stesso... e questo pianeta siete miei ostag-
gi!»
«Lo credete!» urlò l'altro con giubilo selvaggio. «Voi e i vo-
stri, siete miei ostaggi! Il virus che sta disseminandosi per tutto
l'Universo non ha lasciato immune la Terra: l'atmosfera di ogni
guarnigione imperiale, compreso l'Everest, ne è sufficiente-
mente satura, ormai... Noi Terricoli ne siamo immuni, signor
Procuratore... Ma... Come vi sentite, voi? Vi sentite bruciare la
gola. V'ardono forse le tempie? State tranquillo... Non soffrirete
a lungo. E l'antidoto possiamo fornirvelo soltanto noi...»
Per lunghi istanti, Ennius tacque. E il volto gli si fece incre-
dibilmente smunto, terreo.
Poi si rivolse ad Arvardan per dirgli con accento educato e
vibrante: «Dottore... vogliate scusarmi per aver messo in dubbio
le vostre parole. Dottor Shekt... Signorina... vi prego di accettare
le mie scuse».
«Tenetevele, le vostre scuse!» disse Arvardan a denti stretti.
«Merito il vostro furore» riconobbe Ennius. «Intendo tornare
all'Everest per morire accanto ai miei familiari. Ovviamente, ri-
fiuto qualsiasi mercato con questo... individuo e spero, anzi sono
certo, che i miei soldati si batteranno bene e sino all'ultimo re-
spiro. Qui, e in tutte le altre guarnigioni disseminate sulla Terra.
Gran numero di Terricoli ci aprirà certamente la strada dell'Ade

246/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


prima che abbia inizio la nostra fine... Addio!»
«Fermo. Aspettate! Non andatevene» ammonì una voce. E
lentamente, lentissimamente, Ennius si volse verso il nuovo ve-
nuto.
E lentamente, lentissimamente Joseph Schwartz varcò la so-
glia. Barcollava un poco per la gran stanchezza, la sua fronte era
corrugata.
Il Segretario s'irrigidì in tutto il corpo, arretrò d'un balzo. E
rimase lì a contemplare, pavido e sospettoso, l'uomo che veniva
dal passato.
«È inutile» stridette. «Non vi riuscirà di strapparmi il segreto
dell'antidoto. Ne sono informati soltanto pochi scienziati, e po-
chissimi altri appositamente istruiti a somministrarlo: ma tutti
costoro sono lontani di qui, fuori dalla portata del vostro cervel-
lo. E non riuscirete a raggiungerli in tempo perché l'antitossina
possa ancora agire contro gli effetti del virus!»
«Sono lontani e fuori di portata, infatti» riconobbe Schwartz.
«Ma prima che sia troppo tardi per impiegare l'antitossina li
avremo ammanettati perché non c'è più nessun virus da dissemi-
nare per la Galassia».
Gli astanti non compresero subito la portata della straordina-
ria dichiarazione di Schwartz. Arvardan, anzi, si sentì subito at-
traversare il cervello da un angoscioso pensiero. Che Schwartz
gli avesse effettivamente "fatto qualcosa" al cervello? Possibile
che la faccenda del virus non fosse altro che una spaventosa in-
venzione, una specie di follia collettiva di cui era vittima anche
il Segretario? Ma perché?!
«Presto, Schwartz» impose Ennius invece. «Spiegatevi me-
glio».
«Semplicissimo» disse Schwartz. «Ieri sera, mi sono subito
reso conto che con tutte quelle chiacchiere non si sarebbe com-
binato niente di buono. Allora... ho cominciato ad operare sul
cervello del Segretario. Pian pianino, con somma cautela perché
non se ne accorgesse. E finalmente sono riuscito a fargli chiede-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/247


re al Procuratore che mi buttassero fuori dalla stanza. Era pro-
prio quanto volevo e il resto è stato un giochetto.
«Stordita la mia guardia, ho raggiunto l'aeroporto del Forte
dove, dato il proclamato stato d'emergenza, tutto era sul piede di
guerra e gli aerei erano carichi di bombe e pieni di carburante.
Quanto ai piloti... non avevo che l'imbarazzo della scelta. Ne ho
preso uno e siamo andati a Senloo».
Nel tentativo di parlare il Segretario non riuscì che a fare una
smorfia orribile.
«Ma non eravate capace di costringere un pilota a guidare un
aereo, Schwartz» disse Shekt. «Riuscivate a malapena a farlo
camminare, il "soggetto"!»
«Quando debbo farlo contro la "sua" volontà!» obbiettò Sch-
wartz. «Invece, sapendo dalle mie ispezioni nel cervello del dot-
tor Arvardan che quelli di Sirio odiano ferocemente i Terricoli...
ho cercato tra i piloti uno che fosse nato a Sirio e ho trovato... il
tenente Claudy».
«Il tenente Claudy?» gridò l'archeologo.
«Lui... E a quanto pare... Perbacco!... Lo conoscete bene, ve-
ro, dottor Arvardan?»
«Altroché, Schwartz!... Continuate!»
«Be'... Questo tenente odiava i Terricoli in una maniera addi-
rittura folle. In modo tale da mettere in imbarazzo persino me
che gli leggevo sino in fondo nel cervello. Claudy avrebbe battu-
to moneta falsa pur di accoppare Terricoli. Non so che cosa
avrebbe fatto pur di poterli bombardare. Non lo faceva perché lo
frenava soltanto la disciplina. Con un "soggetto" simile è stata la
faccenda dì un attimo.
«Un semplice "suggerimento" mio e il tenente è balzato a
bordo di un bombardiere. Non s'è neanche accorto che io gli se-
devo al fianco. Alla disciplina non ha più pensato nemmeno per
un istante».
«E Senloo? Come l'avete trovata?» indagò in un sussurro
Shekt.

248/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


«Ai miei tempi» mormorò Schwartz «alla confluenza di due
fiumi sorgeva una stupenda città: si chiamava St. Louis... L'ho
trovata, la vostra Senloo. Era notte, ma quell'oasi buia, immersa
in un mare di radioattività spiccava benissimo... Così doveva
presentarmisi secondo le descrizioni del dottor Shekt. Ho sugge-
rito mentalmente al pilota di gettare un razzo e proprio sotto di
noi ho visto un edificio a cinque raggi... La stessa immagine che
si era formata nel cervello del nostro Segretario. E allora... Dove
c'era quell'edificio abbiamo lasciato una cava voragine nera, fu-
mante... Erano le tre del mattino. Non è partito nessun missile
co1 virus per l'Universo. State tranquilli».
Dalla bocca del Segretario proruppe una specie di ruggito, il
demoniaco grido d'una creatura infernale. Fece un movimento,
quasi per lanciarsi avanti, ma s'afflosciò d'un colpo al suolo.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/249


Dal labbro inferiore gli scendeva un rivolo di saliva schiumo-
sa.
«Non l'ho neanche "toccato"» disse Schwartz, con tono spen-
to. Poi, mentre sbarrava gli occhi sulla figura prona, aggiunse:
«Sono tornato molto prima delle sei, ma non ho potuto interve-
nire prima che fosse scoccata l'ora fatale. Dovevo lasciare che
Balkis si credesse vittorioso. Sapevo che si sarebbe tradito, e se
il Procuratore non ascoltava la sua confessione spontanea non
avrebbe mai voluto crederci... E adesso... eccolo lì».

XXII
IL MEGLIO ANCOR NON È VENUTO

Trenta giorni erano passati dal momento in cui Joseph Sch-


wartz era fuggito da una pista dell'aeroporto di Fort Dibburn.
Trenta giorni erano passati, da quando aveva affrontato la notte
già destinata a vedere la distruzione della Galassia, infischiando-
sene dei segnali d'allarme che squillavano ovunque sul campo,
ignorando gli ordini che l'avevano inseguito e preceduto nell'ete-
re invitandolo a tornare alla base.
Schwartz aveva ignorato quegli ordini ed era tornato soltanto
dopo aver distrutto il Tempio di Senloo.
Ed era divenuto un eroe galassico: ufficialmente. Il nastrino
dell'onorificenza di cui soltanto due uomini prima di lui erano
stati insigniti da vivi e non " alla memoria'', se lo teneva in una
tasca. Era il nastrino dell'Ordine dell'Astronave e Sole di Prima
Classe.
Niente male per un sarto ritiratosi dagli affari.
Naturalmente, soltanto uno sparuto gruppetto di altissimi pa-
paveri sapeva con esattezza che cosa aveva fatto Joseph Sch-
wartz, ma ciò non aveva soverchia importanza. Le sue imprese,
un giorno o l'altro, sarebbero state descritte con fieri accenti lau-

250/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


dativi nei testi di storia. Ed alla storia sarebbero rimaste affidate
per sempre.
Schwartz si dirigeva tranquillamente verso casa Shekt, in
quella notte quieta. E la città era tranquilla intorno a lui, come
era sereno il cielo sfavillante di stelle lucenti sopra il suo capo.
Qua e là, sulla Terra, le ultime bande di Fanatici si battevano fe-
rocemente contro le forze dell'ordine: ma uccisi o imprigionati i
capi del movimento, i Terricoli Moderati non avrebbero tardato
a tenere in pugno la situazione. Con le loro forze soltanto.
I primi immani convogli di terra fertile, normale, erano già
partiti verso il pianeta-madre. Ennius aveva, è vero, offerto ai
Terricoli di emigrare in massa su di un altro pianeta. Ma gli abi-
tanti della Terra non volevano carità da nessuno. Desideravano
unicamente far tornare come prima il loro globo. Volevano rico-
struire il focolare dei loro padri, la culla dell'umanità. Volevano
rompersi le mani a toglier di mezzo le zolle ammorbate per so-
stituirle con altre più sane; volevano veder tornare verdeggianti ì
campi che avevano troppo a lungo ospitato la morte, desidera-
vano veder rifiorire ancora una volta il deserto.
Un lavoro da titani; una fatica che sarebbe durata un secolo...
Non importa! Avrebbe pensato la Galassia a prestar loro il mac-
chinario; avrebbe provveduto la Galassia ad inviare derrate ali-
mentari e terra. Un "ponte iperspaziale" di convogli carichi di
terra buona. E le risorse della Galassia erano così immense, che
di quel piccolo sacrificio l'Impero non ne avrebbe risentito: e ne
sarebbe valsa la pena. Ne sarebbe stata ampiamente ripagata.
Un giorno non lontano, i Terricoli sarebbero tornati ad essere
un popolo tra i popoli, gli abitanti di un pianeta come tutti gli al-
tri: avrebbero osato nuovamente guardare diritto negli occhi tutti
i loro simili, come loro restituiti a dignità ed eguaglianza.
Nel salire i gradini che conducevano alla porta d'ingresso di
casa Shekt, Schwartz si sentiva battere forte il cuore al pensiero
di così meravigliose prospettive. E tra una settimana avrebbe la-
sciato la Terra in compagnia di Arvardan diretto ai grandi mondi

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/251


centrali della Galassia. Sarebbe stato il solo uomo della sua ge-
nerazione ad aver abbandonato la Terra.
E per un attimo ripensò alla Terra Antica... alla sua Terra.
Morta da tanto tempo.
Eppure... Non erano trascorsi tre mesi e mezzo...
Si fermò in tempo per non suonare il campanello, nel sentirsi
riecheggiare alcune parole nel cervello. Come li sentiva bene i
pensieri altrui, ora... Squillavano come campanellini.
Era il pensiero di Arvardan, naturalmente. E aveva in animo
molto più di quanto avrebbe potuto esprimere sul piano verbale.
«Pola... Ho meditato ed atteso... meditato ed atteso... Ed ora
non voglio più aspettare. Tu vieni con me».
E la ragazza, entusiasta forse più di lui, pronunciava queste
parole, riluttante:
«Non si può, Bel. È impossibile. I miei modi da cavernicola, i
miei vestiti da... Mi sentirei così spaesata, così fuori di posto, nei
vostri grandi mondi. E poi io non sono che una povera Ter...»
«Guai se lo dici. Sei mia moglie e basta. E se ti chiedono chi
sei, risponderai che sei nata sulla Terra e che sei quindi cittadina
dell'Impero. Se vogliono sapere di più li farei tacere dicendo che
sei mia moglie».
«Va bene. Ma che cosa farai dopo aver preso parte al con-
gresso archeologico di Trantor?»
«Che cosa faremo? Cominceremo col prenderci un annetto di
vacanza per fare il giro di tutti i mondi più importanti della Ga-
lassia. Non ce ne lasceremo scappare nemmeno uno: anche se
saremo costretti ad andarci a bordo di un'astronave postale. Ti
godrai lo spettacolo della Galassia e vivrai la più bella luna di
miele che ci si può concedere con gli stipendi di un funzionario
statale».
«E poi...?»
«E poi torneremo in Terra e ci arruoleremo nei battaglioni dei
volontari del lavoro e passeremo i prossimi quarant'anni della
nostra vita a trasportar terra fertile da sostituire a quella radioat-

252/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


tiva».
«Perché lo faresti?»
«Perché...» e qui Schwartz avverti qualcosa nel Contatto
Mentale di Arvardan che somigliava molto ad un profondo so-
spiro «perché ti amo e perché voglio che così sia. Perché sono
un Terricolo pieno d'amor patrio e se non ci credi non hai che da
guardare i miei documenti di naturalizzazione».
«Benissimo...»
E a questo punto la conversazione si interruppe.
Non così il Contatto Mentale, anzi i Contatti! E Schwartz tut-
to contento e rosso rosso in faccia si allontanò in fretta pieno
d'imbarazzo. Aveva tempo, lui! Non c'era che da aspettare qual-
che tempo, e anche i ragazzi si sarebbero calmati un po'.

Attese per strada. E guardò il cielo sopra il suo capo. Era pie-
no di stelle. Ce n'era tutta una Galassia: visibili ed invisibili.
A sé, alla nuova Terra, a tutti quei milioni di pianeti remoti,
ripeté ancora una volta i versi di un poemetto antichissimo che
soltanto lui, tra quadrilioni di esseri a lui simili, conosceva:

"Incanutiamo insieme!
Il meglio deve ancora venire,
L'ultima parte della vita, per la quale fu creata la prima..."

FINE

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/253


254/277 Isaac Asimov Paria dei cieli
I Gialli Mondadori presentano un'avventura di Nero Wolfe

Entra la morte
di Rex Stout

Terza e ultima puntata

Quando raggiungemmo il punto in cui il sentiero aveva una di-


ramazione a destra, verso la casa, mi volsi. «Tutto bene?» doman-
dai a Wolfe.
«Zitto e avanti» mugolò lui.
Mi affrettai ad eseguire. Raggiungemmo la serra: tolsi di tasca
la chiave e la inserii nella toppa: girò come un angelo. Spinsi l'u-
scio con cautela ed entrammo, poi richiusi senza far rumore. Fin lì
tutto era andato per il meglio. Eravamo nel laboratorio. Ma com'e-
ra buio!
Secondo il piano prestabilito, ci togliemmo i soprabiti, bianchi
di neve, e i cappelli, e li lasciammo cadere a terra. Solo in seguito
mi resi conto che il Capo aveva tenuto il proprio bastone, forse con
l'intento di servirsene contro chi volesse strillare o accostarsi a un
telefono. Aprivo ancora la marcia, con Wolfe alle spalle e Saul alla
retroguardia, e mi spinsi attraverso la camera fredda, dove non
faceva freddo affatto. Era molto scomodo procedere in mezzo ai
vasi e ai cassoni e imparai qualcosa che ancora non sapevo: che in
una serra a luci spente, in una notte nevosa le pareti di vetro sono
assolutamente nere.
Riuscimmo a passare senza sciupare nessuna rarità floreale, in-
filammo la camera calda, dove si bolliva addirittura, e penetram-
mo nel tepidario. Quando mi parve d'essere nel centro, rallentai
ancora l'andatura, fermandomi ogni mezzo metro a tastare il fon-
do del cassone, alla mia sinistra. Ben presto sentii la stoffa sotto le

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/255


dita e presi la mano di Wolfe per guidarlo. Lui mi segui per un po',
dopo di che sollevammo insieme la cortina e Saul si curvò e si di-
stese dov'era stato il corpo di Dini Lauer. Non potendo vederlo, mi
assicurai a tastoni che fosse sotto, prima di lasciar ricadere il pan-
no. Poi io ed il Capo muovemmo verso lo spazio aperto, all'estre-
mità dei cassoni.
Ormai eravamo sicuri che nella serra non c'era anima viva, e
avremmo potuto anche bisbigliare qualcosa, ma non avevamo
niente da dirci.
Tirai fuori la pistola dalla fondina a bretella e me la feci scivola-
re in tasca, poi mi diressi risolutamente verso la porta che condu-
ceva nel soggiorno, con Wolfe al fianco. Era a tenuta quasi perfet-
ta, ma all'altezza del suolo penetrava un sottile filo di luce. Il no-
stro problema principale era sapere se l'avevano chiusa a chiave,
dall'altra parte. Ben presto avremmo avuto una risposta: c'era
gente, nel soggiorno, sentivamo delle voci che avrebbero coperto
le nostre manovre.
Impugnai saldamente la maniglia, la girai con delicatezza, poi
spinsi pian piano. Non era chiusa.
«Ci siamo» sussurrai a Wolfe. Spalancai la porta ed entrai.
Alla prima occhiata m'accorsi che eravamo stati fortunati: si
trovavano lì tutt'e tre : Joseph G., figlia e figlio. Bel colpo. Un'altra
fortuna fu il modo con cui accolsero la comparsa della mia pistola.
Uno di loro avrebbe potuto benissimo strillare: invece no, rimase-
ro tutti a bocca aperta, sbalorditi. Sybil era sdraiata sui cuscini
d'un divano, e aveva in mano un bicchiere colmo. Donald era in
poltrona, poco distante e anche lui reggeva un bicchiere. Il papari-
no se ne stava in piedi ed era il solo che si fosse mosso, voltandosi
nel sentire che la porta s'apriva.
«State quieti e non vi sarà fatto del male» dissi alla svelta.
Joseph G. emise uno strano suono, come il principio d'una risa-
ta di scherno. Sybil espresse il suo disprezzo in. parole.
«Non oserete sparare. Non l'osereste mai!»
Wolfe, che mi era accanto, fece per accostarsi al gruppetto ma
tesi il braccio sinistro e lo fermai. Sparare era l'ultima cosa che de-
sideravo, perché uno strillo avrebbe potuto anche non essere udi-

256/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


to dall'agente di guardia, ma uno sparo non gli sarebbe sfuggito di
certo. Mi avvicinai a Joseph G., gli accostai al petto la canna della
mia arma e gli frugai nelle tasche. Altrettanto feci con Donald. Mi
sarebbe piaciuto dare una passatina anche all'abito azzurro da
mezza sera di Sybil, ma difficilmente avrei potuto giustificare la
cosa.
«Tutto bene» dissi a Wolfe.
«Questa è un'azione da criminali» dichiarò Pitcairn. Le parole
erano abbastanza forti, ma io tesi il braccio sinistro e lo fermai.
Il principale scosse il capo. «A me non sembra» obiettò in tono
affabile. «Avevamo la chiave. Ammetto che la pistola del signor
Goodwin complichi alquanto le cose, ma io desidero soltanto un
colloquio con voi. Ve l'ho già chiesto nel pomeriggio e mi è stato
opposto un rifiuto. Ora intendo ottenerlo».
«E invece non l'otterrete» rimbeccò Joseph G. Guardò suo figlio.
«Donald, va' a chiamare l'agente di guardia».
«Richiamo la vostra attenzione sulla mia pistola» feci io. «Posso
usarla tanto per sparare quanto per darvela in testa. Se non avessi
intenzione di servirmene non l'avrei nemmeno tirata fuori».
«Sempre più ridicolo» commentò Sybil, sprezzante. Non s'era
neanche mossa dalla sua comoda posizione. «Ma vi attendete dav-
vero di far conversazione con la pistola spianata?»
«No» ammise Wolfe. «La pistola è una ragazzata, naturalmente.
È soltanto una formalità. Accetterete questo colloquio per motivi
che vi spiegherò in un attimo. Posso sedere?»
«No» risposero padre, figlia e figlio, simultaneamente.
Il Capo andò ad un'ampia poltrona e sedette. «Devo fare a mo-
do mio, perché questo è un caso d'emergenza» annunziò. «Si chi-
nò, slacciò le stringhe della scarpa sinistra e se la tolse. Fece altret-
tanto con la destra, si sfilò le calze bagnate e arrotolò i calzoni in-
zuppati, fin quasi alle ginocchia. Poi si sporse, prese per un angolo
un tappetino poco distante e lo tirò a sé.
«Temo d'essermi bagnato un po'» disse, a mo' di scusa, avvol-
gendosi il tappeto intorno ai piedi.
«Magnifico» approvò Sybil.
«Forse spera che ci manchi il coraggio di cacciarlo fuori a piedi

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/257


nudi».
«Si accorgerà del contrario» ringhiò Pitcairn, furente. La sua
voce non era più acuta.
«Gli darò da bere» si offri Donald, alzandosi e deponendo la sua
bibita.
«No» lo fermai io. «State dove siete». Continuavo a tenere in
pugno la formalità.
«Penso che potreste metter via quell'affare, Archie» osservò
Wolfe. «Sapremo subito se sarà il caso di restare o no». Si guardò
intorno poi fissò Joseph G. «Scegliete: o ci consentite di rimanere
finché non saremo disposti ad andarcene, liberi di portare a com-
pimento la nostra inchiesta, oppure tornerò al mio ufficio di New
York...»
«No» contraddisse Pitcairn. Era rimasto in piedi benché il suo
ospite si fosse seduto. «Andrete in prigione, invece».
Wolfe annuì. «Se insistete nel vostro modo di fare ci andrò di
sicuro. Ma il ritorno a New York sarà semplicemente rimandato
fino a quando non avrò pagato la cauzione, cioè di non molto. Una
volta a casa, agirò. Annunzierò d'essere convinto dell'innocenza di
Krasicki, e dirò che intendo liberarlo scoprendo il vero colpevole.
Almeno tre giornali troveranno interessante la cosa e mi offriran-
no la loro collaborazione. Gli abitanti di questa casa saranno og-
getto d'inchiesta e quanto li riguarda diverrà di pubblico dominio.
Tutto ciò che nel loro passato sarà considerato atto a provare la
loro innocenza o colpevolezza, verrà senza dubbio stampato».
«Ah ah » fece Sybil, sdegnosa, sempre nello stesso atteggiamen-
to.
Wolfe la ignorò. «Il male è che tutti hanno un passato» riprese.
«Consideriamo per esempio il signor Hefferan, che ha comperato
nelle vicinanze una casa con terreno. Sono certo che questo nome
non vi giunge nuovo: Hefferan. Dove avrà preso il denaro? Dove
sarà finito un certo membro della sua famiglia, e perché? I giornali
si getteranno su tutti i fatti che potranno pescare, specialmente se
i loro inviati saranno tenuti alla larga. Io sarò lieto di aiutarli: ho
qualche esperienza in fatto d'investigazioni».
Joseph G. fece un passo avanti, poi s'irrigidì. Sybil s'era rizzata a

258/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


sedere.
«Naturalmente questi fatti non potranno essere presentati ad
una giuria, in merito all'assassinio della signorina Lauer, ma po-
tranno aiutare le ricerche non ufficiali. Il pubblico, poi, se ne inte-
resserà senza dubbio moltissimo. Vorrà sapere se Florence Heffe-
ran risente ancora del tentativo di strangolamento da lei subito, e
se i segni sono completamente scomparsi dal suo collo. Gradirà
vedere le sue fotografie: molte fotografie. Vorrà...
«Vecchio e sporco bastardo!» gridò Sybil.
Wolfe scosse la testa: «Non io, signorina. Sono gl'inesorabili
miasmi del delitto».
«Maledetto » sibilò Pitcairn. Tremava dalla rabbia, pur cercan-
do di dominarsi. «Avrei dovuto tirarvi un colpo di pistola, que-
st'oggi. Rimpiango di aver sciupato quell'occasione».
«Ma non l'avete fatto» osservò il Capo «ed io sono qui. Nessu-
no di voi verrà risparmiato: tutti i segreti della famiglia saranno
sciorinati. Se la signorina Hefferan avrà consumato il denaro che
le avete dato e vorrà guadagnarne dell'altro, troverà chi la paghe-
rà generosamente per avere il diritto di pubblicare la storia della
sua vita a puntate. Voi mi capite. Saranno rivelati anche certi par-
ticolari secondari, come l'incorreggibile tendenza di vostra figlia a
litigare e il nomadismo scolastico di vostro figlio. Ha lasciato Yale,
Williams e Cornell perché non gli piaceva il programma di studi o
perché...»
All'improvviso Donald cambiò d'umore. Dopo l'offerta di servi-
re a Wolfe qualcosa da bere era tornato alla sua poltrona e sem-
brava abbastanza tranquillo, ma ad un tratto ne balzò fuori e si
avventò verso il principale. Per tagliargli la strada dovetti fare
qualche passo. Lui mi venne addosso e cercò di piazzare un diretto
nelle vicinanze della mia mascella. Pensai che era meglio tagliar
corto, sicché, invece di farlo ballare un po', gli assestai una botta
sul pugno con la sinistra e col calcio della pistola che tenevo nella
destra lo colpii forte sui reni. Lui traballò, poi si piegò in due e se-
dette per terra. Lo trascurai per tenere a bada gli altri, poco tran-
quillo sul conto dei loro centri inibitori.
«Basta!» gridò una voce, in quel momento. «Fermatevi!»

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/259


Dal tendaggio che scendeva da un'arcata, all'estremità della sa-
la, era uscita una donna che s'avvicinava a passi lenti e stentati.
Sybil lanciò un grido e le corse incontro, seguita da Joseph G. En-
trambi, raggiunta la nuova venuta, la sostennero, uno per lato, fa-
cendole delle rimostranze. Le chiedevano come aveva fatto a
scendere le scale e volevano rimandarla di sopra, ma lei continuò
ad avanzare finché fu ad un passo dal figlio, ancora seduto a terra.
Lo guardò, poi si volse a me.
«Che cosa gli avete fatto?»
«Oh, niente» risposi. «Sarà un po' indolenzito per un giorno o
due».
Donald alzò il viso : «Sto bene, mamma. Ma hai sentito cosa...»
«Ho sentito tutto».
«Ora te ne tornerai di sopra» comandò Joseph G.
La moglie non gli prestò attenzione. Non era gran che, piccola e
grassa, col volto rotondo e inespressivo, ma c'era qualcosa in lei,
specialmente nella voce, che sembrava venire dal profondo.
«Sono rimasta troppo in piedi» disse.
Sybil fece per condurla al divano ma lei preferì una seggiola e
dopo averla girata in modo da trovarsi di fronte a Wolfe sedette.
Donald, che era riuscito a rialzarsi, le andò vicino e le posò una
mano sulla spalla. «Sto bene, mamma» ripeté.
Lei non gli fece caso: stava guardando il Capo.
«Voi siete Nero Wolfe» constatò.
«Sì» rispose lui. «La signora Pitcairn?»
«Proprio. Naturalmente ho sentito parlare di voi, siete così fa-
moso! In circostanze diverse sarei eccitata d'avervi qui. Ero in
ascolto dietro quella tenda ; ho udito tutto quello che avete detto e
sono completamente d'accordo, benché, naturalmente, voi ne sap-
piate tanto più di me, in materia d'investigazioni. Capisco benis-
simo a che cosa ci troveremmo di fronte se dovesse aver luogo
un'inchiesta spietata e minuziosa, ed è naturale che voglia evitarla.
Ho del denaro mio proprio, separato dai capitali di mio marito e
penso che dovremmo avere qualcuno in grado di proteggerci da
cose come quelle da voi descritte : certamente nessuno sarebbe
più adatto di voi. Sono disposta a sborsare cinquantamila dollari.

260/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


Metà sarà versata...»
«Belle, sta' attenta» sbottò Joseph G. Poi subito s'interruppe.
«Ebbene?» domandò lei, tranquilla. Dopo un attimo di silenzio
si volse nuovamente al Capo.
«Sarebbe certamente da sciocchi pretendere che non valga la
pena di fare questo sacrificio. Come avete detto, ognuno ha un
passato, e disgraziatamente questo orribile delitto avvenuto sotto
il nostro tetto, ci espone a tutte le indagini. Metà della somma che
vi ho offerta sarà pagata immediatamente, l'altra metà quando...
ebbene, potremo accordarci».
Le cose cominciavano a mettersi meglio : avevamo la scelta fra
andare in galera o beccare cinquanta bigliettoni.
Wolfe aggrottò la fronte. «Mi sembrava che aveste detto d'aver
sentito le mie proposte» osservò.
«Infatti».
«Allora c'è un equivoco. Mi trovo qui unicamente perché sono
convinto che non è stato Krasicki ad uccidere la signorina Lauer.
Come potrei proteggere lui e voi contemporaneamente? No, mi di-
spiace, signora: è vero che sono venuto a ricattarvi, ma non per
denaro. Ho già fatto il mio prezzo: voglio il permesso di rimanere
qui con il signor Goodwin e di compiere le mie indagini privata-
mente, anziché tornare a New York a provocare quella specie di
terremoto che mi avete udito descrivere. Mi tratterrò meno che
sarà possibile: non desidero stare a lungo lontano da casa mia.
Non pretenderò niente di irragionevole da voi: solo delle risposte
alle mie domande».
«Sporco ricattatore incorruttibile» mormorò Sybil in tono acre.
«Avete detto "meno che sarà possibile"» fece Donald. «Vi da-
remo tempo fino a domani a mezzogiorno».
«No». Wolfe era calmo e deciso. «Non posso fissare un termine,
ma siate certi che non desidero trattenermi a lungo».
«Se fosse necessario, potrei darvi più di quello che ho detto,
molto di più» insisté la signora Pitcairn. «Anche il doppio». Era te-
starda come una donna ed evidentemente non le importava di dar
fondo ai suoi capitali.
«No, signora. Questa sera ho detto al signor Goodwin che la mia

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/261


mente era dominata da un unico scopo e così è. Non sono andato a
casa per la cena; mi sono avventurato attraverso una tempesta di
neve, di notte, su terreno difficile e sconosciuto; sono entrato qui a
forza, spalleggiato dalla pistola del mio aiutante... Ora rimarrò fin-
ché avrò fatto quello che devo, oppure... conoscete l'alternativa.
La signora Pitcairn guardò il marito, la figlia e il figlio. «Ho ten-
tato» mormorò con calma.
Joseph G. sedette e inchiodò lo sguardo al viso di Wolfe.
«Avanti, fate le vostre domande» disse, aspramente.
«Bene». Il principale tirò un gran sospiro. «Vi prego di far veni-
re anche Imbrie e sua moglie. Ho bisogno che siate tutti qui».

IX

In quegli ultimi minuti, divenuto evidente che saremmo stati


invitati a passare la notte nella casa, mi aveva tormentato una
nuova preoccupazione. Secondo il piano predisposto, subito dopo
aver preso il predominio su di loro, Wolfe avrebbe dovuto condur-
li nella cucina per farsi mostrare il punto in cui Vera Imbrie era so-
lita tenere la scatoletta di pillole sedative; l'apparizione della si-
gnora Pitcairn, secondo me, aveva fatto di quella semplice diver-
sione un vero problema. Come ottenere che una donna con la
schiena fuor di posto lasciasse la seggiola e si trascinasse in cucina
solo per indicare uno scaffale, cosa che avrebbero potuto benissi-
mo fare gli altri tre?
O, per meglio dire, gli altri cinque, contando anche i due Imbrie.
La cuoca era venuta nel soggiorno drappeggiata in una specie di
vestaglia, ma il marito s'era infilata l'uniforme da maggiordomo ed
io pensai che mi piaceva molto di più in tuta. Tutti e due avevano
un aspetto assonnato, spaurito e per nulla entusiasta. Appena fu-
rono arrivati, Wolfe disse che desiderava vedere il luogo dove ma-
dama Imbrie teneva le pillole di morfina, e che avrebbe gradito
d'essere accompagnato da tutti. Pareva che fosse sicuro di poter
capire, dall'espressione delle loro facce, chi era colui che aveva
preso la droga.
Il modo con cui obbedirono mi dimostrò che la mia vena psico-

262/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


logica aveva bisogno d'essere rimessa a nuovo. Colpevoli o inno-
centi, ammesso che l'assassino fosse tra loro, non si permisero di
fare nessuna osservazione e nemmeno protestarono per lo sforzo
che veniva imposto alla signora Pitcairn.
Mentre uscivano dalla stanza, Wolfe, che era sempre a piedi
nudi, si fermò un attimo a parlarmi.
«Archie» disse ad alta voce. «Volete mettere le mie calze ad
asciugare vicino a un radiatore? Potreste appenderle nella serra».
Così fui lasciato indietro. Raccolsi le calze e, appena furono
usciti dalla stanza, scivolai nel tepidario, lasciando la porta aperta.
Mi chinai a sollevare la cortina di stoffa. «Siete sveglio, Saul?» sus-
surrai.
«Pifferi» mi rispose lui.
«Fuori, allora. La signora Pitcairn è con noi. Volate».
Tornai nella stanza di soggiorno, andai alla porta dalla quale
erano usciti gli altri, volgendo le spalle alle voci che sentivo in lon-
tananza, e guardai Saul entrare, camminare in punta di piedi verso
un altro uscio, dalla parte opposta, e scomparire. Poi appesi le cal-
ze su un porta-riviste, vicino alla griglia d'un radiatore, e filai in
cucina.
Erano tutti radunati davanti alla porta aperta d'una credenza.
Dopo aver scambiato un'occhiata con me, Wolfe concluse rapida-
mente quella fase delle indagini e suggerì di tornare nel soggiorno.
Mentre eseguivamo il trasferimento, Sybil tornò ad insistere affin-
ché la signora Pitcairn salisse nella sua camera ma lei non volle
saperne, ed io, dentro di me, l'approvai con calore. Non soltanto
quel rifiuto lasciava piena libertà a Saul, ma gli garantiva ciò di cui
più aveva bisogno: il tempo.
«Ora sentite» incominciò Wolfe quando fu seduto nuovamente
nella poltrona che aveva scelto, con il tappetino intorno ai piedi.
«Se la polizia non sarà completamente soddisfatta circa il signor
Krasicki, gli agenti verranno a farvi delle domande; a voi la cosa
non piacerà, ma non potrete esimervi dal rispondere. Ora siete co-
stretti a rispondere a me per ragioni diverse, ma il risultato è il
medesimo: vi farò delle domande che non vi piaceranno e voi fare-
te del vostro meglio per rispondermi. La polizia calcola sempre

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/263


una larga percentuale di bugie su ciò che le viene detto, ed io pure,
ma questo è affar mio. Chiunque sarebbe capace di risolvere il più
complicato dei casi se tutti dicessero la verità. Vediamo un po': si-
gnor Imbrie, avete mai abbracciato la signorina Lauer?»
«Sì» rispose il maggiordomo senza esitazioni e a voce fin trop-
po alta.
«Ah sì? E dove? Quando?»
«Una volta, in questa stanza, perché mi sembrava che se l'a-
spettasse. Mia moglie ci stava sorvegliando e lei lo sapeva ma io
no, e così ho pensato che valesse la pena di provare».
«È una falsità!» gridò Vera Imbrie, indignata.
Cominciavano già a darsi del bugiardo.
«Ti dico, Vera, che l'unica cosa da fare è parlar chiaro» dichiarò
Imbrie. «Quando gli agenti se ne sono andati ho pensato che tutto
fosse finito, ma questo qui lo conosco e so che è un duro. Mica c'è
da scherzare, con un omicidio. Che ne so io che non mi abbia visto
anche qualchedun altro? Dovevo dirgli che non avevo mai toccato
la ragazza, per poi sentire un altro spiattellare che m'aveva vedu-
to?»
«Ecco il giusto spirito» ridacchiò Sybil con sarcasmo. «Ora con-
fesseremo tutti quanti i nostri peccati. Voi ci avete dato l'esempio,
Neil».
Ma subito dopo il maggiordomo incominciò a mentire. Diceva
che a sua moglie non era importato affatto d'averlo sorpreso con
la Lauer: secondo lui l'aveva considerato uno scherzo innocente.
Si andò avanti per oltre due ore, finché il mio orologio non se-
gnò le tre meno cinque, e non posso dire d'essermi annoiato, per-
ché era interessante vedere Wolfe far rimbalzare la palla dall'uno
all'altro e loro cercare di ribatterla. Benché non mi annoiassi, però
mi sembrava che non si riuscisse ad approdare a nulla, special-
mente quando Wolfe si dilungava in particolari botanici. Un terzo
del tempo lo passò a cercar di scoprire l'atteggiamento di quei
cinque individui nei riguardi delle piante e dei fiori e poi si lanciò
in una discussione con Joseph G. relativa alle begonie barbute. Ca-
pivo benissimo il suo scopo, ma quello che potevano rispondere,
non avrebbe avuto il minimo valore pratico. Finii col pensare che

264/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


volesse semplicemente passare il tempo in attesa di Saul.
Oltre che sulla floricoltura, Wolfe concentrò i suoi sforzi a sco-
prire il carattere e le particolarità di Dini Lauer. Cercò più volte di
suscitare una libera discussione sul conto della morta, ma non vi
riuscì: tutti gli si sottrassero, anche Neil Imbrie.
Quando guardai l'orologio, alle tre meno cinque, Wolfe pronun-
ziò il mio nome.
«Archie, saranno asciutte le calze?»
Andai a tastarle, dissi che non c'era male e gliele porsi. Mentre
se ne infilava una la signora Pitcairn parlò.
«Non preoccupatevi per le scarpe bagnate, dato che dormirete
qui. Vera, ci dev'essere un paio di pantofole...»
«No, grazie» fece lui, con energia. Infilò anche l'altra calza e
raccolse una scarpa. «Le mie calzature sono abbastanza larghe:
c'entrerò anche se sono umide». Vi infilò il piede, spinse con forza
e finalmente riuscì a metterla. Annodò la stringa e si rialzò, per ri-
posarsi. Di lì ad un attimo prese la seconda scarpa. Nella sala il si-
lenzio era pesante, sembrava che il soffitto fosse venuto a premere
sulle nostre teste.
Pitcairn fece uno sforzo per sollevarlo. «È quasi mattina» an-
nunziò. «Sarà meglio andare a letto. Questa è diventata una farsa
ridicola».
Wolfe si mise a sedere, respirando affannosamente per lo sfor-
zo. «È stata una farsa fin dal principio» dichiarò. Si guardò intor-
no. «Ma non sono stato io a renderla tale, siete stati voi. La mia po-
sizione è chiara, logica, invulnerabile. Le circostanze della morte
di Dini Lauer (l'uso della morfina di Vera Imbrie, l'essere al cor-
rente della fumigazione, eccetera), dimostrano chiaramente che il
delitto è stato compiuto da un abitante di questa casa. Convinto
come ero dell'innocenza di Krasicki dovetti pensare che il colpevo-
le fosse uno di voi. Lo penso ancora. Non avevo idea di chi potesse
essere: sono ritornato qui per scoprirlo, e ci rimarrò finché non
l'avrò scoperto, o finché non mi scaccerete, pronti a subire l'alter-
nativa che vi ho descritta. Sono il vostro nemico implacabile. Vi ho
interrogati tutti insieme: ora vi prenderò uno alla volta e comince-
rò con voi, signora Pitcairn. Presto sarà mattina : volete prima fare

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/265


un sonnellino?
La signora cercò di sorridere: «Temo di aver commesso uno
sbaglio quando vi ho offerto del denaro perché ci proteggeste dal-
la pubblicità» disse con voce ferma. «Vi devo aver fatto cattiva im-
pressione. Se mi avete frainteso... chi è quell'uomo?»
Saul Panzer aveva sollevato la tenda dietro alla quale lei stessa
era stata nascosta qualche ora prima. Era puntualissimo, perché
aveva ordine di fare il suo ingresso alle tre in punto, a meno che
non avesse ricevuto un segnale.
Quasi tutti i presenti potevano vederlo senza doversi voltare
ma Wolfe, nella sua poltrona ad alto schienale, dovette sporgersi.
Donald s'era alzato in piedi: anche Joseph G. ed Imbrie fecero per
muoversi verso il nuovo venuto.
Li precedetti: «State queti» invitai. «È venuto con noi e non
morde».
Cominciarono a far domande, ma Wolfe li ignorò. «Avete trova-
to qualcosa?» domandò a Panzer.
«Sì, signor Wolfe».
«Di utile?»
«Mi pare di sì». E Saul gli tese un foglio ripiegato.
Wolfe lo prese. «Archie, la pistola» comandò.
L'avevo già tirata fuori. Non mi piaceva vederli vicino al Capo
che esaminava la scoperta di Panzer. Appoggiai la canna sul petto
di Joseph G. «Un altro po' di formalità» dissi. «Indietro, amico».
Non mancò di protestare ma si spostò, e gli altri anche. Mi misi
in modo da averli tutti di fronte. Wolfe aveva spiegato il foglio e
stava leggendo. Saul era alla sua destra e anche lui aveva estratto
la pistola.
Il principale alzò la testa: «Devo spiegarvi l'avvenuto» disse.
«Questo è Saul Panzer, che lavora per me. Quando siamo andati
tutti in cucina, è entrato qui dalla serra, è salito al piano superiore
ed ha incominciato a cercare. Non ero sicuro che la polizia fosse
stata accurata». Agitò il foglio. «Questo prova che avevo ragione.
Dove l'avete trovato, Saul?»
«Nel letto degli Imbrie, sotto il materasso».
Vera e Neil si misero a parlare tutt'e due insieme: il marito si

266/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


fece avanti ma il mio braccio lo fermò.
«Quieto, quieto» lo calmai. «Non ha detto chi ce l'ha messo, ma
solo dove l'ha trovato».
«Che cos'è?» domandò la signora Pitcairn con voce tremante.
«Ora ve lo leggerò» rispose Wolfe. «Come vedete, si tratta d'un
foglio. È scritto in inchiostro, da mano che mi sembra femminile.
Porta la data del 16 dicembre ; ieri, no avant'ieri, perché è già pas-
sata la mezzanotte. Dice:
«Caro signor Pitcairn,
credo che non potrò mai chiamarvi Joe come vorreste. Mi sono
decisa a mettere per iscritto la mia richiesta e spero che vorrete
fare altrettanto con la risposta. Come vi ho detto, penso che non
dovreste regalarmi meno di ventimila dollari. Siete stato molto ca-
ro e affettuoso, ma anch'io lo sono stata e credo proprio di meri-
tarmeli.
«Poiché ho deciso di lasciare la casa e sposarmi, credo che non
mi farete aspettare il versamento più d'un giorno o due. Vi attendo
nella mia camera questa notte, alla solita ora, e spero che ci trove-
remo d'accordo su tutto».
Wolfe alzò nuovamente il capo. «È firmato Dini» concluse. «Na-
turalmente può essere autenti...»
«Non l'ho mai vista!» strillò Vera Imbrie. «Non ho mai...»
Ma il resto della sua frase andò perduto. Da parte mia non la
degnai d'un'occhiata. Le facce di tutti loro erano state interessanti
da osservare, durante la lettura della missiva, ma alla terza frase
fu evidente che in Donald si stava verificando qualcosa di speciale.
Dapprima il suo viso si gelò, poi si coprì d'un cupo rossore, mentre
la bocca si apriva lentamente.
«Dunque è per questo che non me l'hai lasciata sposare!» gridò
e si scagliò addosso a suo padre.
Io avevo la pistola, d'accordo, ma doveva servire per difendere
noi, non uno di loro. Le donne erano incapaci di muoversi e Neil
Imbrie avrebbe dovuto essere più grosso e più svelto per poter
fermare quel ciclone.
Joseph G. cadde in ginocchio, più per l'urto che per aver ricevu-

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/267


to i colpi di cui il figlio lo tempestava. Donald infieriva su di lui a
pugni e calci: «Pensavi che non fossi un uomo!» urlava. «Ma io so-
no stato con lei, l'ho amata! Sono stato il primo, capisci? Non me
l'hai lasciata sposare e voleva andarsene, ma ora so tutto! Male-
detto! Ho ammazzato lei e posso ammazzare anche te! Lo posso!»
Sembrava che facesse sul serio, così decisi di fermarlo e lo im-
mobilizzai. Anche Saul venne a darmi una mano.
«Figlio mio» gemette la signora Pitcairn.
Wolfe la guardò. «Anche Krasicki ha una madre, signora» bor-
bottò. Non l'avrei creduto capace di dire una cosa simile.

Alle sei del pomeriggio seguente ero in ufficio, alla mia scriva-
nia, intento a sistemare qualche cosuccia, quando sentii l'ascenso-
re discendere dalla serra e un attimo dopo Wolfe entrò, si acco-
modò nella sua diletta poltrona, suonò per ordinare la birra e
s'appoggiò allo schienale, con un sospiro di profonda soddisfazio-
ne.
«Come se la cava Andy?» domandai.
«Considerando quello che ha passato, meravigliosamente».
Misi certe carte in un cassetto, poi feci girare la mia scranna per
guardarlo in faccia.
«Stavo proprio pensando che se non fosse stato per voi, Dini
Lauer a quest'ora sarebbe forse ancora viva» incominciai, in tono
inoffensivo. «Ben Dykes m'ha detto un'ora fa al telefono che Do-
nald ha ammesso di averla uccisa proprio perché voleva andarse-
ne e sposarsi. Se non aveste offerto ad Andy questo posto, e relati-
va pecunia, probabilmente lui non avrebbe mai avuto il denaro
sufficiente per chiederle di sposarlo, o meglio, lei non avrebbe ac-
cettato. Sicché, in un certo senso, si può dire che siete stato voi ad
ucciderla».
«Voi potete dirlo» concesse il Capo, togliendo il tappo alla bot-
tiglia di birra che Fritz gli aveva portato.
«Comunque» continuai «m'ha detto Dykes che quello scimmiot-
to di Noonan sta ancora cercando di convincere il procuratore di-

268/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


strettuale a denunziarvi per aver distrutto una prova: la lettera
che avete scritto firmandola con il nome di Dini».
«Bah» il principale si versò la birra facendo attenzione alla
schiuma. «Non era una prova. Nessuno ha visto cosa c'era su quel
foglio. Avrebbe potuto benissimo essere bianco. Io non ho fatto
che recitarlo ad alta voce».
«Eh, lo so che nessuno può farvi niente. Donald ha spiattellato
ogni cosa: ha detto che Dini è stata il suo primo ed unico romanzo
e che i suoi l'avevano minacciato di diseredarlo se l'avesse sposa-
ta. Le aveva chiesto di non accettare Andy, ma lei aveva riso. Allo-
ra l'ha invitata a bere della birra con lui e le ha messo la morfina
nel bicchiere, poi ha trasportato il corpo nella serra per gettare i
sospetti su Krasicki. Inoltre Vera Imbrie ha dichiarato di aver assi-
stito a qualche furtiva effusione di quei due».
Wolfe depose il bicchiere vuoto e si pulì le labbra con il fazzo-
letto. «Le sue affermazioni potranno essere utili» ammise, com-
piacente.
«Utile non è la parola giusta» brontolai io. «Vorreste dirmi cosa
diavolo avreste fatto se, quando avete letta la lettera, loro si fosse-
ro semplicemente messi a ridere?»
Si versò dell'altra birra. «Sapevo che uno di loro camminava sul
filo del rasoio: uno o più. Pensavo che una buona scossa avrebbe
fatto parlare il colpevole, chiunque fosse. Per questo ho detto a
Saul di dichiarare che la lettera era stata trovata nella camera de-
gli Imbrie: anche loro dovevano ricevere il colpo in pieno. Se si
fossero limitati a ridere, avrei saputo che bisognava eliminare dal-
la rosa dei sospetti Pitcairn e il figlio, e sarebbe sempre stato qual-
cosa, perché fino a quel momento avevo potuto eliminare solo An-
dy che...»
S'interruppe bruscamente, respinse la poltrona e s'alzò: «Santo
cielo» gorgogliò «ho dimenticato di parlargli di quella Miltonia!» e
trottò verso l'ascensore.
Io m'alzai e andai in cucina per conferire con Fritz.

FINE
.

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/269


270/277 Isaac Asimov Paria dei cieli
Curiosità Scientifiche

La minacciosa vita dei ghiacciai

Ci siamo occupati nel numero precedente delle varie forze che mo-
dificano tanto profondamente la faccia del nostro pianeta, livellando e
cancellando definitivamente attraverso l'erosione, per esempio, catene
di montagne altissime, nate da moti di corrugamento della crosta terre-
stre di entità gigantesca. Abbiamo visto come l'acqua e il vento possano
col tempo attraverso il processo di erosione annullare l'opera di queste
forze incontenibili. Ma forse molti non si sono soffermati a riflettere
sulla incredibile potenza erosiva che hanno i ghiacciai. Grazie alla loro
immensa massa, i ghiacciai modificano radicalmente la fisionomia,
spesso l'intera forma. di grandi sistemi montuosi.

Ghiacci fossili
I ghiacci si formano ovunque si trovino le così dette nevi eterne,
perché essi debbono la loro origine prima a estesi banchi nevosi, grandi
masse di neve, cioè, ammonticchiata e compressa fino a consolidarsi in

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/271


scintillanti lame di ghiaccio. Quando un campo di neve, molto in alto
sul fianco di una montagna, abbia raggiunto uno spessore di una tren-
tina di metri, comincia a scivolare verso i piedi della montagna in forza
del suo stesso peso; perché sebbene il ghiacciaio sia un solido cristalli-
no, ha tuttavia la proprietà di scorrere e fluire come una sostanza pla-
stica.
A misura che il ghiacciaio scivola via dal riparo della parete montuo-
sa dove il campo di neve s'era originariamente formato, un vasto cre-
paccio si apre alle sue spalle, che si riempie di neve fresca nell'inverno.
Neve che d'estate si scioglie. A mano a mano che il ghiacciaio avanza
verso il fondo valle, il ghiaccio che s'era consolidato a contatto con la
parete della montagna, ne strappa grandi segmenti di roccia. Ogni anno
ripetendosi questo processo da cava di pietre, il ghiacciaio alla fine si
sarà scavato un "circo" o anfiteatro, a un capo, così profondamente inci-
so che il suo letto diverrà un giorno, mutato il clima, il bacino di nume-
rosi laghetti alpini. Numerosi circhi spesso attorniano una sola vetta
montuosa, dandole l'aspetto aspro e tormentato del Cervino o della ca-
ratteristica Teton Range, nel Wyoming.
L'azione erosiva di un ghiacciaio in movimento è stata paragonata a
quella combinata di un aratro, di una lima e d'una slitta. Scivolando giù
per una valle, il ghiacciaio rivolta il suolo a mo' di un aratro, spingendo-
lo innanzi a sé e lungo i suoi fianchi. Frattanto, dai cornicioni rocciosi,
soprastanti, frammenti di roccia spaccati dal gelo precipitano lungo le
pareti rocciose sulla vasta groppa del ghiacciaio. Finché questi massi
divengono una parte costitutiva della massa glaciale. A mano a mano
che l'immensa fiumana congelata scivola verso il basso, schiaccia i
frammenti di roccia sul fondo del suo letto, incidendolo, limandolo,
piallandolo. Nello stesso tempo, i suoi fianchi irregolari, tutti punte
aguzze, durissime. cozzando contro sporgenze e asperità rocciose, a po-
co a poco le corrodono, le pareggiano. le portano via. Tanto che alla fi-
ne tutte le valli di origine glaciale acquistano un profilo caratteristico.
Ma l'opera d'erosione a cui oggi possiamo assistere è una miniatura
in confronto a quello che poterono fare le immense distese di ghiaccio
che hanno ricoperto più volte in passato più d'un quarto di tutte le terre
emerse del pianeta.
Diffuse compattamente su milioni di chilometri quadrati con uno
spessore di molte centinaia di metri, queste immense distese di ghiac-
cio ricoprivano montagne e vallate e nell'alterna vicenda di successive
avanzate e ritirate trasformarono la faccia della terra su una scala colos-

272/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


sale. Altopiani come quelli della Scozia e dell'Irlanda, catene come quel-
le, sul continente americano, degli Adirondacks, delle Green Moun-
tains, delle White Mountains erano completamente avvolte nei ghiacci.
Schiacciate sotto questo peso veramente enorme, esse alla fine emerse-
ro da sotto la coltre di ghiaccio senza le complicate cicatrici lasciate dai
ghiacciai delle valli, non rilievi rocciosi a lama di coltello, e nemmeno
picchi a piramide o circhi e anfiteatri, ma piuttosto cime arrotondate,
dai fianchi lisci, groppe rocciose a schiena d'asino. Gli effetti delle im-
mense banchise di ghiacci fossili furono soprattutto di carattere abrasi-
vo, opera di smussamento d'intere masse montuose anzi che di torreg-
gianti sculture a pilastri e guglie tronche.
Oltre questo rimpasto, rimodellamento degli altopiani da parte delle
banchise di ghiacci, si verificò anche la creazione di migliaia di fiumi e
di laghi in Europa, nell'Asia settentrionale e nel continente nordameri-
cano. Nell'America del Nord, per esempio, i ghiacciai ampliarono e ap-
profondirono i bacini rocciosi dei Grandi Laghi colmandoli poi con l'ac-
qua dei loro ghiacci disciolti, e deviarono fiumi come l'Ohio e il Missou-
ri dal loro corso originario, costringendoli a seguire quello attuale.

Inondazioni apocalittiche
Quando i ghiacciai si sciolgono, si lasciano estesi depositi alle spalle,
aspri crinali di massi, formazioni di sabbie e fanghiglie dette morene, e
basse colline a forma di dorso di cucchiaio, dette drumlin.
E non si creda che gli effetti della coltre di ghiacci preistorici
sull'ambiente umano siano del tutto cessati, ché se ne vedono chiara-
mente le tracce nelle banchise ghiacciate che si vengono via via con-
traendo sui milioni di chilometri quadrati della Groenlandia e del con-
tinente antartico. Gli otto milioni di chilometri cubici di ghiaccio im-
magazzinati nelle calotte polari stanno lentamente sciogliendosi, resti-
tuendo le loro acque imbrigliate in ghiacci antichissimi ai mari circo-
stanti, il cui livello si eleva ininterrottamente. Continuando questo pro-
cesso di fusione, molte delle regioni continentali a carattere di basso-
piano, su tutto il pianeta, verranno gradualmente inondate, trasfor-
mandosi in fondo sottomarino, come è già avvenuto con ricorrente re-
golarità in un passato geologicamente non lontano.

La California cammina

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/273


Conoscendo attraverso quali processi montagne e vallate nascono e
si distruggono, il geologo può oggi ricapitolare l'evoluzione di ogni
forma della crosta terrestre e prevederne il probabile futuro. E si può
dire che tutta la superficie terrestre continua ad essere in movimento.
La terraferma non esiste. L'uomo vive su un oceano di onde rocciose,
rapprese, in moto costante, lentissimo. Tutto il paesaggio delle terre
abitate subisce un lentissimo processo di trasformazione sotto i nostri
stessi occhi. La California, per esempio, come pure tutto il resto della
parte occidentale degli Stati Uniti è in continuo movimento. Grandi
spostamenti di rocce si ripetono frequentemente lungo le principali li-
nee di frattura, causando terremoti e sollevamenti della superficie roc-
ciosa. Recentemente si è appurato che tensioni lineari si erano venute
accumulando lungo la grande linea di frattura di San Andreas fin dal
tempo del terremoto di San Francisco del 1906. Movimenti orizzontali
sono particolarmente manifesti. Attualmente tutta la massa di terra ca-
liforniana a occidente della linea di frattura si muove in direzione nord-
ovest alla velocità media di cinque centimetri all'anno. Cosa che fa pre-
vedere come molto probabile uno slittamento dell'intero rilievo roccio-
so in un avvenire non lontano, con un altro disastroso terremoto come
quello di mezzo secolo fa.
Inoltre, moti più sottili della crosta terrestre – vasti sollevamenti lo-
cali, lenti sprofondamenti, incurvamenti – trasformano impercettibil-
mente estesissime regioni delle terre abitate. I monti Baldwin, per
esempio, nella pianura di Los Angeles, si sollevano ad arco alla media di
un metro per secolo. I campi petroliferi della Valle San Joaquin si eleva-
no di un metro e trenta centimetri ogni secolo. Tutta la California si
muove, si rimpasta, cambia lentamente la sua faccia. Se gli attuali moti
di elevazione delle sue montagne continueranno per due milioni di an-
ni (periodo di tempo insignificante, dal punto di vista geologico: lo stes-
so più o meno che è stato necessario alle Alpi per raggiungere la loro
attuale altezza) da Los Angeles si godrà – ammesso che fra due milioni
di anni esista ancora una città chiamata Los Angeles – lo spettacolo di
una catena montuosa alta quanto l'Imalaia.
Ma quanto avviene in California si verifica in quasi tutte le zone
continentali del pianeta. L'intera Francia si abbassa verso nord, lascian-
dosi lentamente sommergere dalle acque della Manica, mentre tutta la
zona meridionale si solleva dalle acque del Mediterraneo e del Golfo di
Biscaglia. Verrà il giorno in cui il Mare del Nord avrà invaso tutta la
Francia settentrionale dalla frontiera belga a Brest. Anche la penisola

274/277 Isaac Asimov Paria dei cieli


italiana è sottoposta a lenti moti oscillanti che modificano tutta la sua
linea costiera. La costa svedese sul Baltico si solleva in media di mezzo
centimetro all'anno. Fra diecimila anni, se questo moto continuerà inin-
terrotto, tutta l'acqua del Baltico sarà stata rovesciata nel Mare del
Nord da questo sollevamento del fondo e il Baltico ritornerà ad essere
l'arida pianura che fu in tempi geologicamente non lontani.
Un milione di anni fa, quando l'uomo cominciò la sua incomprensi-
bile carriera di animale "sapiente" sulla Terra, la Valle Padana era un
immenso acquitrino, ultima traccia del vasto golfo nel quale ondeggiava
l'Adriatico, l'Italia fumava ancora dalle bocche d'innumeri vulcani e
Francia e Inghilterra costituivano un'unica penisola dove le acque della
Manica non s'erano insinuate a fare dell'Inghilterra un'isola.
Come apparirà la faccia della Terra di qui a un milione di anni ai no-
stri lontani, e certamente più saggi, discendenti?

Biblioteca Uranica 20

Urania n. 20 - 20 luglio 1953 277/275

Potrebbero piacerti anche