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L’ITALIA E L’INDIA TRA MITO E STORIA

L’ITALIA E L’INDIA
TRA MITO E STORIA
di Côme Carpentier de Gourdon*

Nell’epopea delle ancor misteriose migrazioni “indoeuropee”, un capitolo


particolarmente stimolante è dato dalla storia dei vincoli millenari tra due penisole:
quella che si protende nell’Oceano che da essa prende il nome e quella che si trova al
centro del Mare Nostrum. Come spesso avviene, la geografia fornisce alle leggende
un’araldica eloquente. Così l’India come l’Italia è saldata al continente da alte montagne
settentrionali, coronate da picchi innevati; all’ombra della catena montuosa, si estende
la regione più densamente popolata di tutto il paese: una larga pianura alluvionale,
irrigata da un lungo fiume (il Gange o il Po) che in un ampio territorio paludoso si getta
nel mare nei pressi di una grande città marittima e commerciale (Kolkata o Venezia,
entrambe porte dell’Oriente). Ci sono regioni montagnose anche nel centro e nel sud;
litorali relativamente rocciosi sul versante occidentale, spiagge diritte e sabbiose su
quello orientale. Sia l’uno sia l’altro “subcontinente”, che in prossimità della punta
meridionale è completato da un’isola (Sri Lanka o la Sicilia), nel corso dei secoli è
stato governato da principi stranieri che vi sono penetrati attraverso i valichi montani
nordoccidentali. Tanto l’India quanto l’Italia sono cosparse di rovine monumentali di
città sacre e leggendarie, abitate da popolazioni etnicamente diverse; le loro capitali
sono città imperiali, fondate dagli dèi, che affondano nel mito le loro radici (Delhi-
Indraprastha, Roma). Una sorge sui residui di sette insediamenti primordiali, l’altra su
sette colli. Il nome dell’Italia (Vitalia) sembra derivare dal nome osco del vitello,
poiché il toro era il simbolo dei suoi primi abitatori, così come la vacca tiene il rango
più elevato fra gli animali sacri agli Ari dell’India.
La mitologia indù ci presenta la terra di Ila, madre di Agni, come il luogo dell’età
dell’oro (satya yuga); analogamente, i Romani ritenevano che in Ausonia l’età dell’oro
fosse fiorita nel Lazio sotto il regno di Saturno. Vediamo che gli Indoeuropei trasportano
i loro miti e riproducono la loro topografia sacra ovunque essi vadano ad insediarsi;
come gl’Indiani, così pure i Romani portarono la loro religione nelle terre più lontane
con cui ebbero contatto: in un caso l’induismo e il buddhismo, nell’altro il culto imperiale
greco-romano seguito dal cristianesimo. Nel primo caso si ebbe un sistema di civiltà
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fondato sulla cosmogonia e sulla mitologia, nel secondo una fede missionaria rivelata

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da una grande figura divinizzata, accessibile a uomini di varie culture e lingue.


Tra i molti paralleli storici c’è il fatto che ciascuna di quelle due regioni,
geograficamente omogenee e chiaramente definite, fin da tempo immemorabile si
trovò frazionata in regni e repubbliche cittadine, anche se ripetutamente essa costituì
l’asse di un vasto impero che abbracciava le sue regioni rivierasche. Infine, tralasciando
molte facili analogie, l’India e l’Italia videro nascere e sussistere le concezioni universali
di religioni congiunte e la preminenza politica delle loro lingue più nobili: il sanscrito e
il latino. Come l’Imperator era anche Pontifex Maximus, così lo Swaraja-Samrat o
il Chakravartin indù-buddhista, se attingeva il più alto grado di saggezza, era Rajarishi
e in quanto tale governava una società che in origine constava delle tre classi tradizionali
della gerarchia indo-ariana: oratores (brahmanas e patres), bellatores (kshatriyas
ed equites) e laboratores (vaishyas e plebs); al di fuori di questi tre ordini, una
quarta cerchia “esterna” di popolazione, spesso di origine straniera, sparsa nelle
campagne e in luoghi desolati ed incolti.
L’origine degli Etruschi rimane fino ad oggi argomento di dibattito tra coloro che li
ritengono autoctoni o in certi casi immigrati dal nord alpino e coloro che accettano la
versione di Erodoto, secondo cui i Tirreni o Rasenni (che popolarono l’Etruria)
sarebbero provenuti dalla Lidia (Arzawa), nell’Anatolia occidentale. Tale connessione
venne rivendicata anche dai discendenti di Enea, il principe dardanide (luvio) che coi
suoi congiunti sisalvò dalla distruzione della metropoli indoeuropea di Troia e vagò per
il mare prima di approdare sulle rive dell’Italia.
Enea di Ilio (Wilusa), figlio di Venere, è al contempo figura di navigatore e semidio
silvano che acquisisce l’immortalità, più o meno come Agni figlio di Ila, il dio vedico
del fuoco, figura celeste, agricola e marittima. Enea (dal greco ainéo, “lodare”) è
degno di lode come Agni; il suo rapporto filiale con Venere, divinità marina e silvana
(Venus sta in relazione con vana, che in sanscrito significa foresta), ci ricorda Shukra,
il mitico rishi vedico in cui si manifesta Venere. Shukra è il sommo sacerdote dei
Bhrigus, un popolo di marinai insediato sulla costa occidentale dell’India; si noti
l’omonimia coi Frigi, quei vicini (di lingua luvia) dei Lidi che, insediati nella parte
occidentale dell’Asia minore, influenzarono i Romani nel corso della storia più recente
di questi ultimi.
Non c’è nulla di rivoluzionario in queste analogie, poiché sono ben note le molteplici
affinità fra i membri più distanziati della grande famiglia indoeuropea. Ascanio, figlio
di Enea, è in origine Skanda, un dio della guerra indo-iranico che viene evocato anche
dal nome di un altro principe troiano: Paride Alessandro o Alaksanda.
Le tre originarie divinità etrusche del Palatino, Tinia, Uni e Menrva (Jupiter, Juno
e Minerva per i Romani) ricordano le grandi triadi indù. Diana, il cui nome procede
dalla stessa radice di diya, la parola sanscrita per “luce”, è un’altra dea del cielo e
delle selve: il suo culto, talvolta orgiastico, richiama le pratiche “della mano sinistra”
dei seguaci della dea madre indiana Parvati-Durga-Kali. Il nome del fratello di Diana,
Apollo (che significa “Signore della mela”) ha relazione con la radice del sanscrito
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phala, “frutto”. I nomi di altre divinità latine, come Giove (Yava), Saturno (figlio di

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Ila, Hel o Helen e di Caelus-Kala), Giano (Jahnu e Gan), Nettuno (Natha-Nethuns)


e Plutone (Prithvi), sono etimologicamente imparentati con analoghi nomi vedici. Le
vestali romane presentano varie analogie con le saptamatrikas dell’India e la forma
circolare del loro tempio evoca i monumenti funebri dedicati alle yoginis del tantrismo
indù.
Come Durga, la sposa di Shiva, ha la chioma ornata dalla luna, così anche Diana
è una dea lunare e si presenta in una triplice epifania: celeste (Luna), terrena (Diana-
Proserpina), infera (Ecate). Il suo bosco sacro di Aricia (nemus aricinum), sulle rive
del lago di Nemi non lontano da Roma, era circondato da un muro; esso evoca il
Naymisharanya (bosco di Nimi) dei sapienti vedici e la terra dei giunchi,
shaunaryavat, dove il fico universale (ashwattha) cresceva vicino al grande lago
Mana. I sapienti dell’India vedica raccoglievano la misteriosa pianta sacra Soma -
che evocava simbolicamente l’acqua e la luna - sulle rive di questo lago; presso i
Latini, chi voleva diventare Rex Nemorensis doveva cogliere il ramo d’oro da
quell’albero che diede ad Enea l’accesso all’aldilà.
Il fico (banyan o pipal) dell’India trova la sua controparte simbolica nella quercia
degli Ittiti, dei Romani e dei Celti. Diana era considerata la “Signora delle fiere” così
come Shiva è “Signore degli animali” (pashupati); era anche la dea delle montagne,
come Parvati, il cui nome significa appunto “montagna”. Il culto di Diana era considerato
non romano e “scitico” ed era tenuto fuori dal pomerium, esattamente come il culto di
Bacco-Iacco. (In sanscrito, Bhaga significa “Signore”, mentre yaksas sono esseri
soprannaturali di cui parla spesso la mitologia indiana). Bacco-Iacco è un’altra divinità
orientale “orgiastica”, i cui legami con l’India rimasero forti fino alla fine dell’età
pagana, come si evince dagli elefanti e dai leopardi descritti nelle sue processioni,
nonché dal komos (kama) dionisiaco.
Si possono tracciare dei paralleli, anche se meno ovvi, tra i due fratelli regali
esiliati nella foresta, Rama e Lakshmana, e Romolo e Remo. Rama e Romolo sono
agricoltori e guerrieri archetipici che conquistano altre città: uno per recuperare la
moglie, l’altro per trovare delle spose per sé e per il suo popolo. Il rapimento di Sita,
che il demone Ravana porta a Lanka, ricorda il mito stagionale del ratto di Proserpina
da parte di Plutone; Sita e Proserpina, come Rea Silvia madre di Romolo e Remo,
sono divinità agrarie che rappresentano la terra fertile. Anche Sita ha due figli, i quali,
allevati da lei nella foresta, assumono più tardi la loro segreta eredità regale e diventano
grandi sovrani, antenati di molte prestigiose dinastie dell’India. Marte, il padre dei
gemelli romani, è affine al vedico Mrityu-Mara o Yama, il Signore della morte,
eufemisticamente designato come Mangala, “di lieto auspicio”.
Radicati in queste origini indoeuropee, i Romani costruirono uno Stato (regnum,
sanscrito rajya) che, al di là di tutte le ovvie differenze, conservò molte istituzioni ed
usanze derivate dai predecessori etruschi ed italici. Il simbolo stesso dell’autorità
regale, il Palatino, deve il suo nome al pastore Pales (Pala in sanscrito).
All’interno del solco tracciato da Romolo, il limes cosmologico analogo al
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lakshmanrekha del Ramayana, venne costruita l’Urbe; su tutto il territorio del futuro

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impero i legionari organizzarono poi gli accampamenti, secondo il modello stabilito


dall’architettura sacra degli Etruschi; una piazza centrale era il punto d’intersezione
di due vie assiali perpendicolari tra loro: la via praetoria (la decumana dei Tirreni) e
la via principalis (il cardo preromano), che corrispondono al rajapatha e al
janapatha del Sulba Shastra indiano.
Per ragioni di chiarezza, possiamo suddividere in quattro periodi la storia delle
relazioni intercorse fra Italia e India: le epoche romana e bizantina, l’età medioevale,
il Rinascimento, i successivi periodi barocco e neoclassico e, infine, il passato
relativamente recente, a partire dall’unificazione dell’Italia.

Roma e Costantinopoli

La conquista della sponda orientale del Mediterraneo diede a Roma un più facile
accesso alle risorse materiali e culturali della Grecia, dell’Egitto e della Siria, che a
loro volta costituirono il tramite per i contatti con l’Asia, sia attraverso l’Iran (Via
della seta) si attraverso l’Arabia (Via delle spezie). L’entità dei commerci che si
svilupparono tra i porti del Mar Rosso (Coptos e Myos Hormos), il delta mesopotamico
e gli empori marittimi dell’India, soprattutto a partire dal 30 a.C, è stata spesso
sottovalutata; tuttavia, come ci mostrano il Periplum Maris Erythraei ed altre relazioni,
tali traffici furono intensi e coinvolgevano centinaia di imbarcazioni commerciali ogni
anni, quando i venti lo permettevano. Tra le più rilevanti importazioni dall’India, sono
attestati il cotone e la seta, il legno di tek, i diamanti, le perle e le spezie.
È certo che in alcune grandi città di entrambe le regioni si formarono consistenti e
prospere colonie mercantili e che la loro influenza culturale e religiosa fu grande.
Siccome i domini orientali di Roma rimasero ampiamente sotto l’influsso ellenistico,
dall’Italia si continuò a guardare all’India principalmente attraverso il prisma delle
interpretazioni greche e attraverso le relazioni redatte fin dall’epoca delle campagne
di Alessandro da diplomatici quali Megastene e da altri viaggiatori. Se Catone, mosso
da considerazioni pratiche d’ordine morale ed economico, si preoccupava per la grave
perdita di ricchezza che sarebbe risultata dall’amore dei suoi concittadini per il lusso
asiatico e in particolare le spezie e le gemme dell’India, altri erano affascinati dalla
spiritualità braminica, dalla cosmologia e dalle leggende dell’Asia meridionale e da
concetti quali la reincarnazione. Un evidente effetto di questa influenza si trova nelle
mode “indianizzanti” manifestamente adottate dalle classi elevate in età tardoimperiale,
nonché nella popolarità di divinità indo-iraniche quali Sabazio, Cibele e Mithra.
Alessandria fu il centro d’irradiazione delle idee e delle filosofie indiane nel
Mediterraneo. D’altro canto, l’influenza della cultura greco-latina è meno facile da
individuare, perché venne assorbita senza troppe difficoltà nella vasta area indiana ed
anche, forse, perché la divisione della società in caste non agevolò la mescolanza
degli stranieri con la popolazione locale. Vi sono comunque elementi che rinviano alle
origini mediterranee di certi gruppi etnici sulla costa occidentale dell’India, dal Gujarat
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al Kerala: in particolare i Kurgi, che vivono nel piccolo Stato meridionale di Mercara,

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sono ritenuti discendenti di legionari romani. Comunità mercantili che prosperarono


sotto l’egida dello Stato romano - Ebrei, Siro-Fenici, Greci, Armeni - continuarono a
far affari ed a viaggiare nell’Asia meridionale come avevano fatto per secoli; alcune
dovettero insediarsi in città portuali come Karachi (Barbaricum), Bharuch (Barygaza),
Khambat (Cambay), Surat, Sopara (Ophir), Vasai (Bassein), Chaul, Kalyan, Calicut,
Cochin, Cranganore (Muziris), Nagapattinam, Mamallapuram, Arikamedu e
Poompuhar (Kaveripattinam) - in alcune delle quali esistevano centri commerciali
romani - e si assimilarono gradualmente alla popolazione indigena.
La geografia e la cultura della regione indiana emersero a poco a poco dalle nebbie
della leggenda e della fantasia, come dimostrano le descrizioni che ci sono fornite da
scrittori greci e latini quali Strabone (libro XV della Geographia), Plinio il Vecchio
(libro VI della Historia naturalis), Diodoro Siculo (libro II della Bibliotheca), Arriano
(Indica), Tolomeo (Geographia) ed altri che integrarono le notizie contenute negli
annali alessandrini con relazioni più recenti.
Crebbe anche l’interesse per il neoplatonismo e per le informazioni concernenti i
sistemi filosofici e religiosi dell’India. Come scrive Gregory Bongard-Levin nell’articolo
India as seen from ancient Europe (“World Affairs”, vol. 8, n. 1, Genn.-Marzo
2004, pp. 128-136), l’avvento del cristianesimo generò ulteriore curiosità sia per il
brahmanesimo sia per il buddhismo. Quest’ultimo fu considerato come qualcosa di
molto vicino alla fede del Messia galileo; esistono indizi secondo cui la diffusione delle
dottrine buddhiste nel Vicino Oriente, dovuta a missionari indiani e persiani, avrebbe
influito in maniera decisiva sulla primitiva evoluzione della nuova religione e, in
particolare, sullo sviluppo della tradizione ascetica di tipo monastico, cenobitico ed
eremitico.
Bongard Levin (ibidem) cita Dione Crisostomo e Apollonio di Tiana, vissuti entrambi
alla fine del I sec. d.C., come maestri e scrittori mistici che descrissero i brahmanas
indiani come immagini di umana perfezione. La biografia redatta da Filostrato e
commissionata nel III sec. da Giulia Domna, la moglie siriana dell’imperatore Settimio
Severo, riferisce che Apollonio visitò l’India, apprese le dottrine brahmaniche e le
diffuse in Egitto, in Etiopia e tra i Greci e i Romani. La stessa Giulia Domna, figlia del
gran sacerdote del dio solare di Emesa (Homs), promosse i culti orientali che venivano
largamente praticati in Siria.
Apollonio, il maestro spirituale neopitagorico e taumaturgo che per via del suo
seguito popolare fu considerato un rivale di Gesù Cristo, potrebbe essere stato uno
dei tramiti attraverso cui l’India trasmise all’Impero romano la propria cultura religiosa
e le proprie concezioni metafisiche. Le notizie relative alle favolose ricchezze dell’India
venivano ad aggiungersi a quelle concernenti la grande sapienza e la virtù delle sue
élites e la generale felicità della popolazione indiana, celebrata, fra gli altri, da Arriano
(ibidem). Questi scrive: “Nessun Indiano è mai uscito dal suo paese per una spedizione
militare, tanto essi sono giusti”. E altrove: “Tutti gl’Indiani sono liberi, nessun Indiano
è schiavo... Gl’Indiani non hanno schiavi” - frasi che dovettero suonare utopiche alle
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società dell’ecumene mediterraneo, basate sulla schiavitù.

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