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Semiotica figurativa e semiotica plastica

Algirdas J. Greimas*
La figuratività
Semiotiva visiva

È generalmente accettato definire la semiotica visiva per il suo carattere costruito, artificiale,
opponendola alle lingue «naturali» e ai mondi «naturali»; due macro-semiotiche al cui interno ci
colloca la condizione umana.
Tale definizione, per quanto evidente, non manca tuttavia di risultare un po’ artificiosa; come
separare, per esempio, la gestualità «naturale», quella che accompagna i discorsi verbali, dal
linguaggio dei sordomuti o dei monaci «silenziosi», quando invece le loro forme elementari risultano
all’analisi identiche?
Dove situare questa visualità al tempo stesso «naturale» – poiché si manifesta, «transcodificata»,
all’interno dei discorsi verbali – e «artificiale» – in quanto costituisce sotto forma d’immagini, una
componente essenziale del linguaggio poetico costruito?

Si pensa di poter restringere l’oggetto d’indagine definendo la semiotica visiva attraverso il suo
supporto planare, assegnando alla superficie il compito di parlare dello spazio tridimensionale: le
manifestazioni pittorica, grafica, fotografica si trovano allora associate in nome di un comune modo
di presenza nel mondo. Ma una tale semiotica planare comprende, inoltre, i diversi tipi di scrittura, i
linguaggi di rappresentazione grafici, ecc., lasciando svanire, appena intravista, la specificità del
visivo planare.
Anzi, la scelta del termine semiotica per indicare il campo d’esplorazione che si cerca di stabilire non
è ingenua; presuppone infatti che gli scarabocchi che ricoprono superfici utilizzate a tal fine
costituiscano insiemi significanti e che le collezioni di questi insiemi, i cui limiti restano da precisare,
siano a loro volta sistemi significanti. Si tratta di un’ipotesi forte che giustifica l’intervento della
teoria semiotica e che, soprattutto, rende insoddisfacente una definizione che si limiti a considerare
la sola materialità delle tracce e delle superfici impresse su un supporto.

Sistemi di rappresentazione
Due tradizioni culturali – una filosofica ed estetica, l’altra logico-matematica – concorrono a fare del
concetto di rappresentazione il punto di partenza obbligato della riflessione sulla visualità. Le
configurazioni visive costruite su superfici piane sono rappresentazioni?
Queste configurazioni, nel momento in cui vengono prodotte, convergono verso uno stesso obiettivo
e sono rette da un «codice» grazie al quale possono essere «lette»? In tal caso, questi insiemi sono
sistemi di comunicazione (come, per esempio, i segnali stradali), di formulazione (come gli schemi e i
grafi) o di «concezione» (come i progetti dell’architetto)?
E infine, questi sistemi, se riconosciuti come tali, sono linguaggi? Possono parlare d’altro che di loro
stessi? Tutte queste domande, che sembrano implicitamente comportare risposte positive, sono
tutt’altro che banali.

Quando si riflette su di un tipo particolare di manifestazione planare come la scrittura, si può dire,
per esempio, che la lettera /o/ è una figura costruita che «rappresenta» il suono «o», figura
«naturale»? E che cosa significa in questo caso il termine «rappresenta»? La lettera non è
certamente l’icona del suono, non vi è alcuna somiglianza tra le due figure. La rappresentazione, in
questo caso, non è che la corrispondenza tra l’insieme delle lettere (e delle grafie) e l’insieme dei
suoni o, piuttosto, la corrispondenza tra due sistemi – grafico e fonico – tale che le unità-figure
prodotte da uno dei sistemi possano essere globalmente omologate alle unità-figure di un altro
sistema, senza che alcun legame «naturale» si stabilisca termine a termine fra i due tipi di figure. Più
che di somiglianza si può parlare di analogia fra i due sistemi, che è tutt’altra cosa.

Abbandonando il raffronto fra i sistemi grafico e fonico – di cui ci siamo serviti per mettere in risalto
la loro specificità articolatoria – vediamo che nel caso dei nostri due esempi estremi si può parlare di
«sistemi di rappresentazione» in due sensi opposti: la scrittura si presenta come un dispositivo visivo
articolato, pronto a rappresentare qualsiasi cosa (l’universo semantico nella sua totalità); il
linguaggio formale appare, al contrario, come un «corpo di concetti», suscettibile di essere
rappresentato in qualsiasi modo (servendosi di diversi simbolismi).
Ci è sembrato interessante soprattutto mostrare come uno stesso alfabeto possa essere utilizzato
per due scopi diversi, come uno «stesso" significante poteva essere articolato in due maniere
differenti e partecipare alla costituzione di due linguaggi diversi.

Rappresentazioni iconiche
All’opposto di una concezione della rappresentazione come quella appena descritta, e che può
essere formulata come una relazione arbitraria tra il rappresentante e il rappresentato (poco
importa che la corrispondenza si stabilisca fra sistema e sistema o fra termine e termine), si situa
un’interpretazione completamente diversa della rappresentazione, che potremmo chiamare estetica
se non avessimo perso l’uso di questa parola.
E questo il caso dell’icona, segno «naturalmente motivato» che rappresenta il «referente», e
dell’iconicità, concetto posto al centro dei dibattiti della semiologia dell’immagine, che rinviano
altrettanto naturalmente all’antica «imitazione della natura». Si sostiene che i sistemi di
rappresentazione iconici siano differenti dagli altri per il fatto che la relazione riconoscibile fra i due
modi di «realtà» non è arbitraria, ma motivata, e presuppone una certa identità, totale o parziale,
fra i tratti e le figure del rappresentato e del rappresentante. In queste condizioni – e malgrado secoli
di raffinate riflessioni sui concetti di «imitazione» e di «natura» – l’attività del pittore, per esempio,
deve essere intesa come un insieme di procedure coperte dal termine imitazione e che mirano a
riprodurre i tratti essenziali della «natura».

Come si può constatare, una tale attività presuppone da parte del pittore-«imitatore» un’analisi
implicita molto approfondita della «natura» e il riconoscimento delle articolazioni fondamentali del
mondo naturale che è chiamato a riprodurre. Considerando il mondo naturale come il mondo del
senso comune, si deve riconoscere che l’operazione di «imitazione» consiste in una notevole
riduzione delle qualità di questo mondo; poiché da una parte, solo i tratti esclusivamente visivi del
mondo naturale sono, a rigore, «imitabili», mentre il mondo ci si presenta attraverso tutti i nostri
sensi e, dall’altra, solo le proprietà planari di questo mondo sono al limite «trasponibili» e
rappresentabili in superfici artificiali, mentre lo spazio si presenta nella sua profondità interamente
occupato da volumi. I «tratti» del mondo – le linee e le superfici – così selezionati e trasposti su una
tela sono veramente poca cosa in rapporto alla ricchezza del mondo naturale; sono forse
identificabili in quanto figure, ma non in quanto oggetti del mondo.

Assumere il punto di vista del pittore che riproduce la «natura» forse non facilita la comprensione
del fenomeno che ci interessa. Al concetto di imitazione che, nella struttura della comunicazione,
rende conto dell’istanza dell’enunciante, corrisponde quello di «riconoscimento» proprio
dell’enunciatario: «imitare», nelle condizioni specifiche appena citate, avrebbe senso solo nel caso in
cui le figure visive così tracciate fossero presentate a un eventuale spettatore per essere riconosciute
come configurazioni del mondo naturale. Ma questo non è «fare pittura».
Posto in questi termini, il concetto di riconoscimento dipende dal problema più generale della
leggibilità del mondo detto naturale. Cos’è «naturalmente» dato e immediatamente leggibile nello
spettacolo del mondo? Supponendo che siano delle figure (che i tratti provenienti dai diversi sensi
contribuiscono a costruire), queste non possono essere riconosciute come oggetti, a meno che il
tratto semantico «oggetto» (in quanto opponibile, per esempio, a «processo») – che è interocettivo1
e non esterocettivo2 e non è inscritto «naturalmente» nell’immagine primaria del mondo – non
venga ad aggiungersi alla figura per trasformarla in oggetto; supponendo di riconoscere
successivamente una certa pianta o un certo animale particolari, le significazioni «regno vegetale» o
«regno animale» faranno parte della lettura umana del mondo e non del mondo stesso.
1. La sensibilità nei confronti delle informazioni e degli stimoli interni, quali il respiro, il senso di
fame/sazietà, la cognizione del dolore e delle altre
emozioni.
2. La sensibilità agli stimoli che provengono dall'esterno dell'organismo

È questa griglia di lettura che ci rende il mondo significante, consentendo di identificare le figure
come oggetti, di classificarle, di collegarle fra loro, di interpretare i movimenti come processi,
attribuibili o meno a dei soggetti, e così via. Di natura semantica – e non, per esempio, visiva, uditiva
o olfattiva – la griglia di lettura serve da «codice» di riconoscimento che rende il mondo intelligibile e
utilizzabile. Si comprende, allora, che è la proiezione di questa griglia di lettura – una sorta di
«significato» del mondo – su una tela dipinta che permette di riconoscere lo spettacolo che vi è
rappresentato.

La semiotica figurativa
L’esame superficiale dei problemi posti dall’imitazione e dal riconoscimento, mostra con evidenza
che il concetto di rappresentazione applicato al campo che cerchiamo di circoscrivere, non può
essere interpretato come una relazione iconica, come un semplice rapporto di «somiglianza» fra le
figure visive planari e le configurazioni del mondo naturale. Se la somiglianza fosse situata al livello
del «significante», le lingue naturali per il loro piano dell’espressione fonico, dovrebbero essere
definite iconiche e somiglianti in rapporto alla dimensione non più visiva, ma uditiva del mondo
naturale.
Se di somiglianza si tratta, essa è situata al livello del significato, cioè della griglia di lettura comune
al mondo e agli artefatti planari. Ma allora parlare di iconicità non ha più molto senso. Al contrario, il
concetto di griglia di lettura, appena posto, dà luogo a una nuova problematica. È forse superfluo
precisare che, essendo di natura sociale, questa griglia è sottoposta al relativismo culturale e dunque
sufficientemente – ma non infinitamente – variabile nel tempo e nello spazio. Perciò, essendo ogni
cultura dotata di una «visione del mondo» a lei propria, essa pone anche condizioni variabili al
riconoscimento degli oggetti e, nello stesso tempo, all’identificazione delle figure visive come
«rappresentanti» gli oggetti del mondo, accontentandosi spesso di vaghi schematismi, ma esigendo
talora una riproduzione minuziosa dei dettagli «veridici».

In definitiva la questione della figuratività degli oggetti planari («immagine», «dipinto», ecc.) si pone
soltanto se una griglia di lettura iconizzante viene postulata e utilizzata per l’interpretazione di tali
oggetti; cosa che non costituisce la condizione necessaria per la loro percezione e non esclude
l’esistenza di altri modi di lettura altrettanto legittimi. La lettura di un testo scritto in francese non
pone il problema della somiglianza dei suoi caratteri con le figure del mondo naturale.
Una tale lettura iconizzante è tuttavia una semiosi, vale a dire un’operazione che, congiungendo un
significante e un significato, ha come effetto la produzione dei segni. La griglia di lettura, di natura
semantica, sollecita dunque il significante planare e, assumendo dei fasci di tratti visivi di densità
variabile, che costituisce in formanti figurativi attribuisce loro dei significati, trasformando così le
figure visive in segni-oggetto. L’esame più attento dell’atto di semiosi mostrerebbe con chiarezza che
l’operazione principale che lo costituisce è la selezione di un certo numero di tratti visivi e la loro
globalizzazione, la loro percezione simultanea che trasforma il fascio di tratti eterogenei in un
formante, cioè in un’unità del significante, riconoscibile, nel momento in cui viene inquadrata nella
griglia del significato, come la rappresentazione parziale di un oggetto del mondo naturale.

E’ chiaro che la costituzione dei formanti, al momento della semiosi, non è altro che un’articolazione
del significante planare, la sua scomposizione in unità discrete leggibili, scomposizione operata in
vista di una certa lettura dell’oggetto visivo, ma che non esclude affatto – l’abbiamo visto a proposito
della duplice funzione dell’alfabeto – altre segmentazioni possibili dello stesso significante.
Le unità discrete così costituite a partire dalla sommatoria dei tratti ci sono già ben note: sono
«forme» nel senso della Gestalttheorie, «figure del mondo» nel senso in cui le intende Bachelard,
«figure del piano dell’espressione» secondo Hjelmslev. È questa convergenza di punti di vista tra
preoccupazioni apparentemente molto lontane che ci permette di parlare di lettura figurativa degli
oggetti visivi.
L’insieme dei tratti eterogenei costitutivi della figura che serve da formante per una tale lettura pone
il problema della densità dei tratti e della loro organizzazione. Per tentare di chiarire il problema
potremmo introdurre il concetto di pertinenza. Si potrebbe dire che una figura possiede una densità
«normale» o, in altri termini, che un formante figurativo è pertinente se il numero di tratti che
riunisce è minimo, cioè necessario e sufficiente per permettere la sua interpretazione come
rappresentante un oggetto del mondo naturale. Così le figure tracciate da Paul Klee nel suo Blumen-
Mythos e leggibili come «abeti», «colline», «astri», ecc. sarebbero caratteristiche della figuratività
«normale», «media», così come la si ritrova nella maggior parte delle culture non europee, ma
anche nei disegni dei bambini, nelle icone utilizzate da diversi codici di rappresentazione artificiali,
ecc.

È evidente, tuttavia, che la figuratività intesa come un certo modo di lettura – e di produzione – delle
«superfici costruite» non è necessariamente legata a una normalità qualsiasi, che può dar luogo a
eccessi e a insufficienze. Il desiderio di simulare – di far-credere – manifestato da un certo pittore, da
una certa scuola o da una certa epoca porta all’iconizzazione eccessiva; al contrario, la spoliazione
delle figure che tende a rendere più difficile la procedura di riconoscimento – lasciando trasparire,
come nell’Improvvisazione di Kandinsky, solo "oggetti virtuali» – dà luogo all’astrazione.
L’iconizzazione e l’astrazione non sono dunque che gradi e livelli variabili della figuratività.
Dato che questo modo di lettura ha come effetto di produrre la semiosi – criterio che permette di
pronunciarsi sulla natura semiotica dell’oggetto esaminato –, ci troviamo in presenza di una
semiotica che potrebbe forse essere definita come semiotica figurativa. A condizione di precisare
che una tale semiotica non esaurisce la totalità delle articolazioni significanti degli oggetti planari e
che rappresenta soltanto un punto di vista determinato che consiste nel dotarli di un’interpretazione
“naturale”, le analisi della figuratività sono giustificate e costituiscono un campo d’esercizio
autonomo.

Il significante plastico
Una lingua altra
Quando, assiduo frequentatore dei circoli parigini, Diderot inizia a visitare gli atelier dei pittori, vi
scopre, con grande stupore, un altro linguaggio, una maniera diversa di parlare della pittura.
Dovendo fornire descrizioni dei Salons, decide allora di dividere le sue presentazioni di ogni quadro
in due parti: una parte «ideale» tradizionale e una parte «tecnica», nella quale esalta il «fare»
dell’artista e lo sanziona servendosi di un’assiologia pittorica assai complessa. Pur praticando,
secondo le esigenze dei suoi corrispondenti, un approccio figurativo, egli riserva un posto non meno
importante all’approccio plastico dei medesimi oggetti. Dopo aver scomposto il dipinto in oggetti
«nominabili», dopo averli riuniti in gruppi e in scene, dopo aver, insomma, interpretato ciò che il
pittore aveva voluto «dire», passa ad altro; e, esaminando attentamente le tracce lasciate dal
pennello sulla tela, cerca di capire ciò che il pittore aveva voluto «fare», senza mai riuscire – ma
neanche provare – ad accostare i due punti di vista. Il lettore dei Salons si trova a sua volta
disorientato, non sapendo molto bene se ha a che fare con due soggetti-descrittori di uno stesso
dipinto o se si tratta di un solo descrittore che tenta di rendere conto di due oggetti distinti; tant’è
vero che un oggetto semiotico, invece di essere un dato, non è che il risultato di una lettura che lo
costruisce.

Questa possibilità di parlare un linguaggio altro si trasforma in necessità quando si sceglie come
corpus da analizzare un certo numero di «superfici», costruite dopo la «rottura epistemologica»,
allorché la lettura figurativa viene rimessa in questione o addirittura negata. È il caso di Kandinsky
che, attraverso «improvvisazioni» successive, cerca di spogliare il suo oggetto di ogni traccia
figurativa; ma anche di Klee, che si fa gioco del figurativo usandolo non per costruire un’immagine
del mondo, ma per decostruirlo e farne la scena d’un «mondo» a sé; lo stesso si dica della fotografia
di Boubat, in cui il superamento delle costrizioni tecniche, che realizzano il grado massimo
dell’iconicità, è un tentativo di farla parlare in altro modo.
Persuaso che questi oggetti possiedano in sé un linguaggio comune utilizzato per «parlarci», ma
anche – e soprattutto – della possibilità di costruire un linguaggio tale da permetterci di «parlarne»,
il semiologo cerca di istituire un luogo di interrogazione sul come e il perché della loro presenza.
Preliminari
Come, in effetti, impossessarsi di un luogo simile e giustificare un tale interrogativo se non facendo
tabula rasa di ogni discorso precedente, se non erigendo l’ingenuità dello sguardo a postulato
scientifico, se non lasciando sussistere come unici dati, da una parte, la «materialità» del supporto
occupata da linee e superfici e, dall’altra, l’«intuizione» dello spettatore, ricettacolo degli «effetti di
senso» che raccoglie di fronte a questo spettacolo costruito? Sono queste le condizioni necessarie,
ma non sufficienti, di una lettura che si vuole fresca e ingenua; e questo per la semplice ragione che
lo sguardo non è mai ingenuo e l’intuizione mai pura. Così, pur conservando la disponibilità
necessaria, è meglio esplicitare il «referente culturale» e porre lucidamente quel minimo
epistemologico che si ritiene possa guidare le prime operazioni esplorative, permettendo in seguito,
delle messe a punto provvisorie.
a) Dire che un oggetto planare costruito produce degli «effetti di senso» è già postularlo come un
oggetto significante che dipende da un sistema semiotico di cui è una delle possibili manifestazioni.
Affermare l’esistenza di un sistema semiotico non impedisce di riconoscere, nello stesso tempo, che
questo sistema – tanto nei suoi modi d’organizzazione, quanto nei contenuti che può articolare – ci è
sconosciuto. Un tale sistema, dichiarato esistente ma sconosciuto, non può avere alcuna possibilità
di essere inteso ed esplicitato se non attraverso l’esame dei processi semiotici – dei «testi visivi» –
tramite i quali si realizza; come dire che solo la conoscenza degli oggetti planari particolari può
portare a quella del sistema che li sottende e che, se i processi sono all’inizio colti come realizzati,
presuppongono il sistema come virtuale e, di conseguenza, rappresentabile soltanto nella forma di
un linguaggio costruito ad hoc. b) Dire che un oggetto planare è un processo, un testo che realizza una delle
virtualità del sistema,
significa implicitamente incominciare a considerare la superficie che ci è data nella sua materialità
come la manifestazione di un significante e, nello stesso tempo, interrogarsi sulla sua articolazione
interna in quanto “possibilità di significare”. Possiamo chiederci se, accanto alla scomposizione della
superficie dipinta, effettuata grazie alla griglia di lettura figurativa, non si possa operare un’altra
segmentazione del significante che permetta di riconoscere l’esistenza di unità propriamente
plastiche, eventualmente portatrici di significazioni a noi sconosciute.
In presenza di un testo visivo, considerato come un significante segmentabile, non ci resta che
enunciare l’ultimo postulato, quello di operatività, secondo il quale ogni oggetto è percepibile solo
attraverso la sua analisi, più semplicemente, attraverso la sua scomposizione in parti più piccole e la
loro reintegrazione nella totalità che queste costituiscono. La semiotica generale mette a
disposizione del semiologo interessato ai problemi della visualità una strumentazione concettuale e
procedurale ricca e diversificata, senza per questo fornirgli ricette già pronte e, soprattutto, senza
costringerlo a trasporre le procedure linguistiche riconosciute. Poco importa, allora, che l’analisi si
apra con il riconoscimento dei tratti minimali la cui combinatoria dà luogo alle figure e ai formanti
plastici, o che cerchi di stabilire innanzitutto «blocchi di significazione» o «dispositivi», unità di
dimensioni più vaste, scomponibili. Si tratta, in ogni caso, di procedure di segmentazione che
poggiano in buona parte su operazioni intuitive di cui bisogna, in primo luogo, esplicitare le
procedure e formulare le regole d’uso generalizzato. Ciò che conta, a questo stadio della ricerca, è la
comparabilità dei risultati parziali ottenuti e il riconoscimento dei principali campi d’esercizio in cui si
raggruppano e si coordinano i problemi che sorgono strada facendo.

Il dispositivo topologico
L’esplorazione del significante plastico comincia con la costituzione di un campo problematico basato
sulle condizioni topologiche della produzione così come della lettura dell’oggetto planare.
Quest’oggetto resta insufficientemente definito, anche se si tratta soltanto della sua manifestazione
materiale, finché non è circoscritto, delimitato, separato da ciò che non è; è il ben noto problema
della cornice-formato o, in termini semiotici, della chiusura dell’oggetto. Atto deliberato del
produttore che, situandosi lui stesso nello spazio dell’enunciazione «fuori-quadro», instaura,
attraverso una sorta di débrayage, uno spazio enunciato di cui sarà il solo responsabile, capace di
creare un «universo utopico» separato da quest’atto; assicurando all’oggetto così circoscritto lo
statuto di una «totalità significante», è anche il luogo a partire dal quale potranno cominciare le
operazioni di decifrazione della superficie inquadrata.
Mentre la lettura del testo scritto è lineare e unidimensionale (da sinistra a destra, o viceversa) e
permette di interpretare la parola spazializzata come una sintagmatica appiattita, la superficie
dipinta o disegnata non rivela, attraverso qualche artificio manifesto, il processo semiotico che è
supposto esservi iscritto. La cornice appare come l’unico punto di partenza sicuro, permettendo di
concepire una griglia topologica virtualmente sottesa alla superficie offerta alla lettura.

Le categorie topologiche, le une “rettilinee” – come alto/basso o destra/sinistra le altre “curvilinee”,


– periferico/centrale o circoscrivente/circoscritto -, così come i loro derivati e composti, strutturano,
a partire da ciò che non è, l’intera superficie inquadrata tracciandovi gli assi e/o delimitandovi le
aree, assolvendo così a una doppia funzione, quella di segmentazione dell’insieme in parti discrete e
anche quella di orientamento di eventuali percorsi sui quali si trova- no disposti i diversi elementi di
lettura.
Questo dispositivo topologico, anche se riconoscibile inizialmente nella materialità della cornice e
nella scelta del formato, anche se fondato su una convenzione e sottoposto al relativismo culturale,
possiede un’esistenza virtuale, garantita da un contratto logicamente presupposto, stipulato fra
l’enunciante- produttore e l’enunciatario-lettore. Proiettate sulla superficie, che la ricchezza e la
polisemia renderebbero altrimenti indecifrabile, le categorie topologiche consentono, dopo
l’eliminazione del “rumore”, la sua riduzione a un numero ragionevole di elementi pertinenti,
necessari alla lettura.
È forse superfluo aggiungere che il dispositivo, così come lo abbiamo abbozzato, è suscettibile di
sdoppiarsi: presente al momento dell’attualizzazione dell’atto d’enunciazione, dove dà luogo a una
prima organizzazione spaziale dell’oggetto semiotico, esso può essere proiettato, interamente o
parzialmente, all’interno della stessa superficie enunciata e costituirvi una nuova griglia,
semiautonoma, di lettura.

La forma plastica
Se l’applicazione del dispositivo topologico permette di intraprendere l’analisi della superficie inquadrata e
rende possibile una prima segmentazione dell’oggetto in sotto-insiemi discreti, è evidente che la sua
descrizione, in quanto significante visivo, non sarà giudicata soddisfacente finché la sua articolazione non
potrà essere formulata in termini di categorie plastiche, isolando così le unità «minimali» del significante le
cui combinazioni più o meno complesse ritroveranno, seguendo un tragitto ascendente, i sotto-insiemi
riconosciuti grazie alla scomposizione topologica. Partendo dalla constatazione convenzionale che su una
superficie dipinta si possano trovare «colori» e «forme», la distinzione fra categorie cromatiche e categorie
eidetiche potrebbe sembrare un semplice mascheramento terminologico. Un’analisi che cerchi di
riconoscere un livello sufficientemente profondo e astratto in cui potrebbe situarsi una tale distinzione
deve
iniziare dalla superficie manifestata allo stato bruto, ricoperta di «aree» indifferenziate, per postulare, in
seguito, che soltanto lo sguardo del lettore (o, che è la stessa cosa, l’intenzione implicita del produttore) è
in
grado di cogliere certe superfici nella loro funzione isolante e discriminante (in quanto «linee» e
«contorni»)
e altre, nella loro funzione individuante e integrante (in quanto «superfici piene»). Una tale distinzione
poggia su due postulati epistemologici della semiotica generale: a) la distinzione fra l’eidetico e il cromatico
non attiene alla materialità del significante, ma alla sua concezione relazionale, alla funzione che il lettore
attribuisce a questo o a quel termine in rapporto ad altri; b) il riconoscimento di un termine in quanto unità
presuppone una doppia definizione della stessa, come unità dipendente dal suo carattere discreto, in
quanto distinta da ciò che la circonda, e dalla sua integrità, individuata in quanto tale. A condizione di
considerare il nero e il bianco come dei «colori», si potrebbero allora indicare con il termine di categorie
eidetiche quelle che stabiliscono l’articolazione delle diverse unità del significante, e con il termine di
categorie cromatiche quelle dei termini aventi funzione individuante.

Il riconoscimento delle categorie topologiche, cromatiche ed eidetiche, che costituiscono il livello


fondamentale della forma del significante, non esaurisce la sua articolazione; queste non sono altro
che basi tassonomiche, suscettibili di rendere operativa l’analisi di questo piano del linguaggio. La
procedura di costruzione dell’oggetto semiotico consisterà nel determinare le combinazioni di
queste unità minimali – che chiameremo figure plastiche – per ritrovare, in seguito, delle
configurazioni ancora più complesse; confermando, così, il postulato generale secondo il quale ogni
linguaggio è innazitutto una gerarchia. Fra queste forme plastiche, di complessità ineguale, occorre
tuttavia riservare un posto a parte ai formanti plastici – comparabili ma distinti dai formanti
figurativi –, organizzazioni particolari del significante che si definiscono unicamente per la loro
capacità di congiungersi con dei significati e di costituirsi in segni.
Ma se i formanti figurativi non cominciano a significare che in seguito all’applicazione della griglia di
lettura del mondo naturale, i formanti plastici sono chiamati a fare da pretesto per investimenti di
significazioni diverse, autorizzandoci a parlare di linguaggio plastico e a circoscrivere la sua
specificità.

Il significante plastico
Una lingua altra
Quando, assiduo frequentatore dei circoli parigini, Diderot inizia a visitare gli atelier dei pittori, vi
scopre, con grande stupore, un altro linguaggio, una maniera diversa di parlare della pittura.
Dovendo fornire descrizioni dei Salons, decide allora di dividere le sue presentazioni di ogni quadro
in due parti: una parte «ideale» tradizionale e una parte «tecnica», nella quale esalta il «fare»
dell’artista e lo sanziona servendosi di un’assiologia pittorica assai complessa. Pur praticando,
secondo le esigenze dei suoi corrispondenti, un approccio figurativo, egli riserva un posto non meno
importante all’approccio plastico dei medesimi oggetti. Dopo aver scomposto il dipinto in oggetti
«nominabili», dopo averli riuniti in gruppi e in scene, dopo aver, insomma, interpretato ciò che il
pittore aveva voluto «dire», passa ad altro; e, esaminando attentamente le tracce lasciate dal
pennello sulla tela, cerca di capire ciò che il pittore aveva voluto «fare», senza mai riuscire – ma
neanche provare – ad accostare i due punti di vista. Il lettore dei Salons si trova a sua volta
disorientato, non sapendo molto bene se ha a che fare con due soggetti-descrittori di uno stesso
dipinto o se si tratta di un solo descrittore che tenta di rendere conto di due oggetti distinti; tant’è
vero che un oggetto semiotico, invece di essere un dato, non è che il risultato di una lettura che lo
costruisce.

Il testo plastico
Le articolazioni tassonomiche di cui abbiamo appena parlato costituiscono, tuttavia, soltanto uno
degli aspetti dell’analisi degli oggetti planari inquadrati. Il riconoscimento delle categorie e delle
figure plastiche ci informa sul modo d’esistenza della forma plastica soggiacente alla sua
manifestazione in superficie e sulle superfici, ma non ci dice ancora niente riguardo
all’organizzazione sintagmatica di queste forme, la sola che possa permetterci di trattare questi
oggetti come processi semiotici, cioè in quanto testi significanti. L’asse paradigmatico di ogni
linguaggio, che definisce le unità che lo compongono tramite la relazione «o…o» che queste
intrattengono fra loro, permette di registrare la presenza di un tratto sulla superficie esaminata in
rapporto all’assenza del tratto contrario o contraddittorio della stessa categoria – questo permette,
per esempio, di parlare della «tavolozza» di un pittore in opposizione ad «altre tavolozze»; ma è
l’asse sintagmatico, costituito dalle relazioni «e…e», che ci informa circa i modi di co-presenza dei
termini e delle figure plastiche su una stessa superficie-testo.

Parlando della distinzione da stabilire fra le categorie cromatiche e le categorie eidetiche, abbiamo
proposto di definire queste ultime per il loro carattere discreto, per la funzione distintiva di cui
sarebbero incaricate. Se le categorie cromatiche possono essere considerate come costituenti – la
superficie dipinta non è inizialmente che uno spazio coperto da zone indistinte, le categorie
eidetiche sono costituite – le zone, per la loro contiguità, si delimitano reciprocamente. Per poter
affermare la co-presenza di unità del significante, bisogna che prima sia riconosciuto il loro carattere
discreto: le riflessioni sulla contiguità, sui bordi netti e sugli orli sfumati, costituiscono il primo passo
verso la costituzione del testo plastico. Abbiamo già suggerito un tale passo quando abbiamo
proposto di considerare certe zone nella loro funzione isolante e discriminante, e certe altre nella
loro funzione individuante e integrante.
Il passo successivo concerne la definizione di unità sintagmatiche definite contrasti. In linguistica, il
termine “contrasto” serve soprattutto ad indicare la relazione «e…e», costitutiva dell’asse
sintagmatico. Pur essendo della stessa natura, il contrasto plastico si definisce come la co-presenza,
sulla stessa superficie, di termini opposti (contrari o contraddittori) della stessa categoria plastica (o
di unità più vaste, organizzate nella stessa maniera). Se la categoria è presente nel testo, un po’ al
modo dell’antifrasi, per esempio attraverso uno dei suoi termini (in assenza degli altri), il contrasto si
caratterizza, alla maniera dell’antitesi, per la presenza, sulla stessa superficie, di almeno due termini
del-la stessa categoria, contigui o meno.

La ricorrenza di categorie plastiche che si realizza attraverso la ripresa di un termine categoriale


tramite il suo contrario (o contraddittorio), va distinta da un altro tipo di ricorrenza discorsiva, nota
in semiotica con il termine di anafora, che consiste nell’iterazione e nella ripresa di uno stesso
termine, impiegato però in un contesto diverso o, che è la stessa cosa, in una diversa configurazione.
Queste ricorrenze del simile e del diverso, del medesimo e dell’altro, costituiscono una vera e
propria trama che ricopre la superficie costruita; riconoscibili sotto forma di tensioni e isotopie
d’attesa, esse predispongono già a una lettura globalizzante.
Quel che sembra ancora mancare, affinché tutte le condizioni di lettura si realizzino è tuttavia il suo
orientamento.
Semiotica semi-simbolica
L’ipotesi che presiede all’insieme delle nostre analisi, consiste nel considerare gli oggetti plastici
come oggetti significanti. Il problema non sta dunque nell’affermare che il significante plastico, del
quale abbiamo appena riconosciuto alcuni principi d’organizzazione «significa», ma nel cercare di
capire come significa e che cosa significa.
La posizione del semiologo consiste nel confessare in partenza la sua ignoranza riguardo i modi di
significazione di questi oggetti e nel cercare di formularne le regolarità. Un tale procedimento è
tuttavia lontano dall’essere ingenuo; postulare il potere di interpretare è già adottare una certa
posizione secondo la quale il significante plastico costituisce una semiotica monoplanare. D’altro
canto, l’interpretazione, per intuitiva che sia, non consiste soltanto nel formulare gli «effetti di
senso» nei termini di un metalinguaggio particolare, ma nel compararli e opporli fra di loro
elaborando un sistema di significati parallelo e coestensivo al sistema di simboli che si cerca di
descrivere.

Così, per esempio, la descrizione del dispositivo plastico che produce l’effetto di senso «pesantezza»
porterà naturalmente a interrogarsi sul dispositivo che dà luogo all’effetto «leggerezza». Si tratterà
allora di sapere se la figura che rappresenta la «leggerezza» è comparabile a quella che rappresenta
la «pesantezza». I simboli a e b di un linguaggio formale, se rappresentano entrambi per esempio
classi logiche, sono sul piano del significante indipendenti l’uno dall’altro. Sarebbe diverso se le
figure del significante sa e sb avessero per significato «pesantezza» e «leggerezza» o, meglio ancora,
se due termini di una stessa categoria, sl e s2, potessero essere omologati con l’opposizione
pesantezza/leggerezza. Una tale semiotica potrebbe allora essere definita non più simbolica, ma
semisimbolica, per il fatto che queste due correlazioni parziali fra i due piani del significante e del
significato si presentano come un insieme di micro-codici, comparabili al micro-codice gestuale del
sì/no. Se si accetta di denominare semiotiche semisimboliche questo tipo di organizzazioni della
significazione – definite dalla conformità fra i due piani del linguaggio riconosciuta non fra gli
elementi isolati, come nel caso delle semiotiche simboliche, ma fra le loro categorie –, ci si accorgerà
che queste organizzazioni si ritrovano non solo nel linguaggio gestuale (dove si incontra, per
esempio, la disgiunzione/congiunzione omologata al movimento delle mani sull’asse della lateralità,
effettuato in senso opposto, o l’attrazione/re-pulsione espressa attraverso i movimenti del busto e
delle braccia sull’asse prospettico, ecc.), ma anche nelle lingue naturali e, in modo particolare, in
quella loro elaborazione secondaria che è il linguaggio poetico (tramite le categorie prosodiche
come quelle dell’intonazione frastica, la rima e il ritmo).

Non risulta strano scoprire che le categorie plastiche che fanno parte del dispositivo topologico siano
comparabili a queste categorie gestuali e prosodiche, e che anch’esse siano omologabili alle
articolazioni categoriali dei contenuti. Così, non si esiterà a omologare alto/basso a euforia/disforia,
a riconoscervi, con il tratto «orientamento», un micro-codice elevazione/caduta o a vedere nelle
diagonali possibili interpretazioni di ascesa/discesa. Poco importa sapere se tali omologazioni
poggiano su convenzioni culturali o se sono di natura universale; è il principio stesso di questo
modus significandi che conta, e non la natura dei contenuti investiti.
Non sarebbe pertanto impossibile spingersi più avanti e affermare che certe opposizioni dei tratti
plastici siano legate a certe opposizioni delle unità del significato e che si trovino dunque ad essere
omologabili, come, per esempio:
appuntito: arrotondato : terrestre: celeste
oppure
in rilievo: appiattito : nudo: ornato.
Una tale constatazione, che tende a definire la semiotica plastica come un caso particolare della
semiotica semisimbolica, porta a interrogarsi sullo statuto semiotico degli elementi del significato
che sono omologati alle categorie del significante plastico. Si può affermare tuttavia che siamo di
fronte a categorie che dipendono dalla forma – e non dalla sostanza – del contenuto e che, pur
sembrando derivare dalla lettura figurativa degli oggetti plastici.

Linguaggio poetico
È dunque come se la lettura del testo plastico consistesse in una doppia scissione; certi significati
postulati al momento della lettura figurativa si trovano separati dai loro formanti figurativi per
servire da significati a formanti plastici in via di costituzione; nello stesso tempo certi tratti del
significante plastico si distaccano dai formanti figurativi in cui si trovano integrati e, obbedendo ai
principi d’organizzazione autonomi del significante, si costituiscono in formanti plastici. Più che a una
«sovversione» del figurativo, assistiamo alla nascita di un linguaggio secondo.
Ma è il funzionamento del linguaggio poetico all’interno della semiotica letteraria che può meglio
chiarire la natura seconda del linguaggio plastico. Mentre il testo letterario, indifferente al suo
significante, ma preoccupato della rappresentazione-trasmutazione figurativa del mondo naturale e
umano, è in grado di parlarne in tutti i sensi, l’organizzazione poetica seconda che si sovrappone a
questo testo si fa carico del significante fino a quel momento relegato nella sua funzionalità
primaria, articolandolo in maniera tale da riprodurre le stesse forme fondamentali che caratterizzano
il significato al suo livello profondo di lettura, dando così luogo a una lettura poetica fondata
sull’omologazione dei nuovi formanti poetici a significati rinnovati. Stando così le cose, è la semiotica
poetica in quanto tale, forte di un’organizzazione strutturale e di un modo di significazione propri,
che dovrebbe essere considerata come un linguaggio autonomo e specifico, che abolisce le frontiere
convenzionalmente stabilite fra i diversi campi di manifestazione.

Strutture mitiche
Altre «corrispondenze» – riconoscibili solo ad analisi ultimata – risultano sorprendenti. Quando Lévi-
Strauss intraprende il primo esame di un testo mitico – il mito di Edipo –, si trova in una situazione
simile a quella del semiologo di fronte a un testo plastico: il testo, letto in superficie, sembra
prestarsi a una lettura «figurativa» evidente e allo stesso tempo sprovvista di senso, tant’è la
distanza fra la perennità dei miti e l’insignificanza del loro senso apparente. Il semiologo si riconosce
nel procedimento che adotta. Fondato sulla convinzione intuitiva dell’esistenza di una significazione
diversa, più profonda, la lettura “verticale” alla quale procede gli permette di riconoscere delle
ricorrenze «anaforiche» di determinate grandezze del racconto e delle opposizioni di «contrasti» fra i
termini in questione; mentre la narrazione, nella sua figuratività eccessiva, appare invece come un
«rumore» che occorre superare per poter isolare le articolazioni principali dell’oggetto e postulare in
seguito una concezione mitica atemporale di questa struttura di base che renda conto della
significazione globale del testo.
Questa struttura mitica di base consiste nella messa in correlazione di due categorie semantiche
riconosciute grazie alla loro presenza sintagmatica, alla maniera dei contrasti plastici, nel testo e
manifestate da formanti mitici raggruppati, separati dal loro contesto figurativo. Non c’è dunque
niente di strano nel fatto che simili pratiche operative giungano a risultati comparabili, che la
significazione di Blumen-Mythos di Klee (Thürlemann) poggi su di una struttura di base identica; al
contrario, la concezione acronica della significazione, a partire da un dispositivo categoriale, risulta
anche più “naturale” quando si tratta di oggetti plastici rispetto al caso dei testi mitici verbali la cui
lettura lineare accentua la temporalità. La superficie plastica chiusa appare come predisposta alle
manifestazioni mitiche.

Al di là di queste costrizioni del significante, l’identità strutturale dei due modi di significazione può
apparire con evidenza ancora maggiore. Mentre sembra «naturale» che la lettura simultanea del
senso profondo dell’oggetto mitico possa essere destabilizzata, dando luogo agli sviluppi narrativi
che lo figurativizzano, lo stesso fenomeno di narrativizzazione si osserva negli oggetti plastici:
facendo apparire l’uccello e il fiore desiderato, trasformando l’intera tela in un busto di donna (Klee).
Questi racconti sdoppiati e opposti, esaurita la loro finalità, concorrono allora alla costruzione di
quelle grandi figure ambivalenti di mediazione – caratteristiche del pensiero mitico, secondo Lévi-
Strauss – che sono la donna-fiore di Klee, che permette di conciliare l’uomo con il cosmo.

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