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Semiotica figurativa e semiotica plastica*

Algirdas J. Greimas

0. La figuratività

0.1 Semiotica visiva


Se una delle ragion d’essere della semiotica consiste nel chiamare in causa
nuovi campi d’indagine del mondo e nell’aiutarli a costituirsi in discipline au-
tonome nel quadro generale di un’antropologia, si riconoscerà che finora,
malgrado gli sforzi compiuti nel corso degli ultimi decenni, essa è riuscita
piuttosto male a dominare quel vasto campo di significazioni che, in conside-
razione del loro modo d’espressione, si tenta di unificare sotto il termine di vi-
sivo. La teoria del visivo – e ancor meno quella dell’audiovisivo, che è soltan-
to un’etichetta di comodo – è ben lontana dall’essere elaborata e semiotica vi-
siva (o la semiologia dell’immagine), molto spesso, non è che un catalogo di
perplessità o di false evidenze.
È generalmente accettato definire in prima istanza la semiotica visiva per il
suo carattere costruito, artificiale, opponendola così alle lingue "naturali" e ai
mondi "naturali"; due macro-semiotiche al cui interno ci colloca, nostro mal-
grado, la condizione umana. Tale definizione, per quanto evidente, non manca
tuttavia di risultare un po’ artificiosa; come separare, per esempio, la gestuali-
tà "naturale", quella che accompagna i discorsi verbali, dal linguaggio dei sor-
domuti o dei monaci "silenziosi", quando invece le loro forme elementari ri-
sultano dall’analisi identiche? Dove situare questa visualità al tempo stesso
"naturale" – poiché si manifesta, "transcodificata", all’interno dei discorsi ver-
bali – e "artificiale" – in quanto costituisce sotto forma d’immagini, una com-
ponente essenziale del linguaggio poetico costruito?
Si pensa di poter restringere l’oggetto d’indagine definendo la semiotica visiva
attraverso il suo supporto planare, assegnando alla superficie il compito di
parlare dello spazio tridimensionale: le manifestazioni pittorica, grafica, foto-
grafica si trovano allora associate in nome di un comune modo di presenza nel
mondo. Ma una tale semiotica planare comprende, inoltre, i diversi tipi di

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scrittura, i linguaggi di rappresentazione grafici, ecc., lasciando svanire, appe-
na intravista, la specificità del visivo planare.
Anzi, la scelta del termine semiotica per indicare il campo d’esplorazione che
si cerca di stabilire non è ingenua; presuppone infatti che gli scarabocchi che
ricoprono le superfici utilizzate a tal fine costituiscano insiemi significanti e
che le collezioni di questi insiemi, i cui limiti restano da precisare, siano a loro
volta sistemi significanti. Si tratta di un’ipotesi forte che giustifica l’intervento
della teoria semiotica e che, soprattutto, rende insoddisfacente una definizione
che si limiti a considerare la sola materialità delle tracce e delle superfici im-
presse su un supporto.

0.2. Sistemi di rappresentazione


Due tradizioni culturali – una filosofica ed estetica, l’altra logico-matematica
– concorrono a fare del concetto di rappresentazione il punto di partenza ob-
bligato della riflessione sulla visualità. Le configurazioni visive costruite su
delle superfici piane sono rappresentazioni? Queste configurazioni, d’altra
parte, nel momento in cui vengono prodotte, convergono verso uno stesso o-
biettivo e sono rette da un "codice" grazie al quale possono essere "lette"? In
tal caso, questi insiemi sono sistemi di comunicazione (come, per esempio, i
segnali stradali), di formulazione (come gli schemi e i grafi) o di "concezione"
(come i progetti dell’architetto)? E infine, questi sistemi, se riconosciuti come
tali, sono linguaggi? possono parlare d’altro che di loro stessi? Tutte queste
domande, che sembrano implicitamente comportare risposte positive, sono
tutt’altro che banali.
Quando si riflette su di un tipo particolare di manifestazione planare come la
scrittura, si può dire, per esempio, che la lettera /o/ è una figura costruita che
"rappresenta" il suono "o", figura "naturale"? E che cosa significa in questo
caso il termine "rappresenta"? La lettera non è certamente l’icona del suono,
non vi è alcuna somiglianza tra le due figure. La rappresentazione, in questo
caso, non è che la corrispondenza tra l’insieme delle lettere (e delle grafie) e
l’insieme dei suoni o, piuttosto, la corrispondenza tra due sistemi – grafico e
fonico – tale che le unità-figure prodotte da uno dei sistemi possano essere
globalmente omologate alle unità-figure di un altro sistema, senza che alcun
legame "naturale" si stabilisca termine a termine fra i due tipi di figure. Più
che di somiglianza si può parlare di analogia fra i due sistemi, che è tutt’altra
cosa.
Le cose stanno diversamente al momento della costruzione – o dell’utiliz-
zazione – dei sistemi di rappresentazione logici quali, per esempio i linguaggi

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formali. Sebbene questi linguaggi impieghino talvolta lo stesso "alfabeto" del-
la scrittura – è questa una delle ragioni della scelta di tale esempio –
l’organizzazione interna delle figure visive li rende indipendenti: mentre la
scrittura in quanto sistema poggia sulle opposizioni dei tratti grafici ("aste",
"tondi", "uncini", ecc.), i linguaggi formali considerano discriminanti le lettere
che usano. Se, considerata in quanto significante (= piano dell’espressione), la
scrittura si presenta come un sistema grafico, il linguaggio formale non è che
una lista di simboli discreti. Ciò che, tuttavia, conferisce a questa lista lo statu-
to di linguaggio è l’articolazione del suo significato che, soggiacente al grafi-
smo, si trova organizzato in un sistema concettuale coerente.
Abbandonando il raffronto fra i sistemi grafico e fonico – di cui ci siamo ser-
viti per mettere in risalto la loro specificità articolatoria – vediamo che nel ca-
so dei nostri due esempi estremi si può parlare di "sistemi di rappresentazione"
in due sensi opposti: la scrittura si presenta come un dispositivo visivo artico-
lato, pronto a rappresentare qualsiasi cosa (l’universo semantico nella sua tota-
lità); il linguaggio formale appare, al contrario, come un "corpo di concetti",
suscettibile di essere rappresentato in qualsiasi modo (servendosi di diversi
simbolismi). C’è sembrato interessante soprattutto mostrare come uno stesso
alfabeto possa essere utilizzato per due scopi diversi, come uno "stesso" signi-
ficante poteva essere articolato in due maniere differenti e partecipare alla co-
stituzione di due linguaggi diversi.

0.3. Rappresentazioni iconiche


All’opposto di una concezione della rappresentazione come quella appena de-
scritta, e che può essere formulata come una relazione arbitraria tra il rappre-
sentante e il rappresentato (poco importa che la corrispondenza si stabilisca fra
sistema e sistema o fra termine e termine), si situa un’interpretazione comple-
tamente diversa della rappresentazione, che potremmo chiamare estetica se
non avessimo perso l’uso di questa parola. L’eredità culturale in questo ambito
è particolarmente pesante, ed è come se, malgrado il mascheramento di certi
termini e la modernizzazione di certi altri, non fossimo riusciti a spostare il
campo della nostra indagine né a cambiarne la problematica.
E questo il caso dell’icona, segno "naturalmente motivato" che rappresenta il
"referente", e dell’iconicità, concetto posto al centro dei dibattiti della semio-
logia dell’immagine, che rinviano altrettanto naturalmente all’antica "imita-
zione della natura". Si sostiene che i sistemi di rappresentazione iconici siano
differenti dagli altri per il fatto che la relazione riconoscibile fra i due modi di
"realtà" non è arbitraria, ma motivata, e presuppone una certa identità, totale o

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parziale, fra i tratti e le figure del rappresentato e del rappresentante. In queste
condizioni – e malgrado secoli di raffinate riflessioni sui concetti di "imitazio-
ne" e di "natura" – l’attività del pittore, per esempio, deve essere intesa come
un insieme di procedure coperte dal termine imitazione e che mirano a ripro-
durre i tratti essenziali della "natura". Come si può constatare, una tale attività
presuppone, da parte del pittore-"imitatore", un’analisi implicita molto appro-
fondita della "natura" e il riconoscimento delle articolazioni fondamentali del
mondo naturale che è chiamato a riprodurre. Considerando il mondo naturale
come il mondo del senso comune, si deve riconoscere che l’operazione di "i-
mitazione" consiste in una notevole riduzione delle qualità di questo mondo;
poiché, da una parte, solo i tratti esclusivamente visivi del mondo naturale so-
no, a rigore, "imitabili", mentre il mondo ci si presenta attraverso tutti i nostri
sensi e, dall’altra, solo le proprietà planari di questo mondo sono, al limite,
"trasponibili" e rappresentabili in superfici artificiali, mentre lo spazio si pre-
senta nella sua profondità interamente occupato da volumi. I "tratti" del mon-
do – le linee e le superfici – così selezionati e trasposti su una tela sono vera-
mente poca cosa in rapporto alla ricchezza del mondo naturale; sono forse i-
dentificabili in quanto figure, ma non in quanto oggetti del mondo.
Assumere il punto di vista del pittore che ri-produce la "natura" forse non faci-
lita la comprensione del fenomeno che ci interessa. Al concetto di imitazione
che, nella struttura della comunicazione, rende conto dell’istanza dell’enun-
ciante, corrisponde quello di "riconoscimento" proprio dell’enunciatario: "imi-
tare", nelle condizioni specifiche appena segnalate, avrebbe senso solo nel ca-
so in cui le figure visive così tracciate fossero presentate a un eventuale spetta-
tore per essere riconosciute come configurazioni del mondo naturale. Ma que-
sto non è "fare pittura".
Posto in questo termini, il concetto di riconoscimento dipende dal problema
più generale della leggibilità del mondo detto naturale. Cos’è "naturalmente"
dato e immediatamente leggibile nello spettacolo del mondo? Supponendo che
siano delle figure (che i tratti provenienti dai diversi sensi contribuiscono a co-
struire), queste non possono essere riconosciute come oggetti, a meno che il
tratto semantico "oggetto" (in quanto opponibile, per esempio, a "processo") –
che è interocettivo e non esterocettivo e non è inscritto "naturalmente"
nell’immagine primaria del mondo – non venga ad aggiungersi alla figura per
trasformarla in oggetto; supponendo di riconoscere successivamente una certa
pianta o un certo animale particolari, le significazioni "regno vegetale" o "re-
gno animale" faranno parte della lettura umana del mondo e non del mondo
stesso.

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È questa griglia di lettura che ci rende il mondo significante, consentendo di
identificare le figure come oggetti, di classificarle, di collegarle fra loro,
d’interpretare i movimenti come processi, attribuibili o meno a dei soggetti, e
così via. Di natura semantica – e non, per esempio, visiva, uditiva o olfattiva –
la griglia di lettura serve da "codice" di riconoscimento che rende il mondo in-
telligibile e utilizzabile. Si comprende, allora, che è la proiezione di questa
griglia di lettura – una sorta di "significato" del mondo – su una tela dipinta
che permette di riconoscere lo spettacolo che si ritiene rappresentato.

0.4. La semiotica figurativa


L’esame superficiale dei problemi posti dall’imitazione e dal riconoscimento
mostra con evidenza che il concetto di rappresentazione, applicato al campo
che cerchiamo di circoscrivere, non può essere interpretato come una relazio-
ne iconica, come un semplice rapporto di "somiglianza" fra le figure visive
planari e le configurazioni del mondo naturale. Se la somiglianza fosse situata
al livello del "significante", le lingue naturali, per il loro piano dell’espres-
sione fonico, ma anche il linguaggio musicale, dovrebbero essere definite ico-
niche e somiglianti in rapporto alla dimensione non più visiva ma uditiva del
mondo naturale. Se di somiglianza si tratta, essa è situata al livello del signifi-
cato, cioè della griglia di lettura comune al mondo e agli artefatti planari. Ma
allora parlare di iconicità non ha più molto senso. Al contrario, il concetto di
griglia di lettura, appena posto, dà luogo a una nuova problematica. È forse
superfluo precisare che, essendo di natura sociale, questa griglia è sottoposta
al relativismo culturale e dunque sufficientemente – ma non infinitamente –
variabile nel tempo e nello spazio. Perciò, essendo ogni cultura dotata di una
"visione del mondo" a lei propria, essa pone anche condizioni variabili al rico-
noscimento degli oggetti e, nello stesso tempo, all’identificazione delle figure
visive come "rappresentanti" gli oggetti del mondo, accontentandosi spesso di
vaghi schematismi, ma esigendo talora un riproduzione minuziosa dei dettagli
"veridici".
In definitiva la questione della figuratività degli oggetti planari ("immagine",
"dipinto", ecc.) si pone soltanto se una griglia di lettura iconizzante viene po-
stulata e utilizzata per l’interpretazione di tali oggetti, cosa che non costituisce
la condizione necessaria per la loro appercezione e non esclude l’esistenza di
altri modi di lettura altrettanto legittimi. La lettura di un testo scritto in france-
se non pone il problema della somiglianza dei suoi caratteri con le figure del
mondo naturale.

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Una tale lettura iconizzante è tuttavia una semiosi, vale a dire un’operazione
che, congiungendo un significante e un significato, ha come effetto la produ-
zione dei segni. La griglia di lettura, di natura semantica, sollecita dunque il
significante planare e, assumendo dei fasci di tratti visivi di densità variabile,
che costituisce in formanti figurativi attribuisce loro dei significati, trasfor-
mando così le figure visive in segni-oggetto. L’esame più attento dell’atto di
semiosi mostrerebbe con chiarezza che l’operazione principale che lo costitui-
sce è la selezione di un certo numero di tratti visivi e la loro globalizzazione,
la loro percezione simultanea che trasforma il fascio di tratti eterogenei in un
formante, cioè in un’unità del significante, riconoscibile, nel momento in cui
viene inquadrata nella griglia del significato, come la rappresentazione parzia-
le di un oggetto del mondo naturale.
La teoria dei formanti, che, malgrado il desiderio espresso da Hjelmslev, non
si è ancora costituita in linguistica, dovrebbe trovare qui il suo posto. È chiaro
che la costituzione dei formanti, al momento della semiosi, non è altro che
un’articolazione del significante planare, la sua scomposizione in unità discre-
te leggibili, scomposizione operata in vista di una certa lettura dell’oggetto vi-
sivo, ma che non esclude affatto – l’abbiamo visto a proposito della duplice
funzione dell’alfabeto – altre segmentazioni possibili dello stesso significante.
Le unità discrete così costituite a partire dalla sommatoria dei tratti ci sono già
ben note: sono "forme" nel senso della Gestalttheorie, "figure del mondo" nel
senso in cui le intende Bachelard, "figure del piano dell’espressione" secondo
Hjelmslev. E questa convergenza di punti di vista tra preoccupazioni apparen-
temente molto lontane che ci permette di parlare in questo caso di lettura figu-
rativa degli oggetti visivi.
L’insieme dei tratti eterogenei che costituisce la figura che serve da formante
per una tale lettura pone il problema della densità dei tratti e della loro orga-
nizzazione. Per tentare di chiarire il problema potremmo introdurre il concetto
di pertinenza. Si potrebbe dire che una figura possiede una densità “normale”
o, in altri termini, che un formante figurativo è pertinente se il numero di tratti
che riunisce è minimo, cioè necessario e sufficiente per permettere la sua in-
terpretazione come rappresentante un oggetto del mondo naturale. Così le fi-
gure tracciate da Klee nel suo Blumen-Mythos e leggibili come "abeti", "colli-
ne", "astri", ecc. sarebbero caratteristiche della figuratività "normale", "me-
dia", così come la si ritrova nella maggior parte delle culture non europee, ma
anche nei disegni dei bambini, nelle icone utilizzate da diversi codici di rap-
presentazione artificiali, ecc.

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È evidente, tuttavia, che la figuratività intesa come un certo modo di lettura –
e di produzione – delle "superfici costruite" non è necessariamente legata a
una normalità qualsiasi, che può dar luogo a eccessi e a insufficienze. Il desi-
derio di simulare – di far-credere – manifestato da un certo pittore, da una cer-
ta scuola o da una certa epoca porta all’iconizzazione eccessiva; al contrario,
la spoliazione delle figure che tende a rendere più difficile la procedura di ri-
conoscimento –lasciando trasparire, come nell’Improvvisazione di Kandinsky,
solo "oggetti virtuali" – dà luogo all’astrazione. L’iconizzazione e l’astrazione
non sono dunque che gradi e livelli variabili della figuratività.
Dato che questo modo di lettura ha come effetto di produrre la semiosi – crite-
rio che permette di pronunciarsi sulla natura semiotica dell’oggetto esaminato
–, ci troviamo in presenza di una semiotica che potrebbe forse essere definita
come semiotica figurativa. A condizione di precisare che una tale semiotica
non esaurisce la totalità delle articolazioni significanti degli oggetti planari e
che rappresenta soltanto un punto di vista determinato che consiste nel dotarli
di un’interpretazione "naturale", le analisi della figuratività sono giustificate e
costituiscono un campo d’esercizio autonomo.
Se, inversamente, l’approccio figurativo agli oggetti visivi è solo uno strumen-
to parziale – e non imparziale – per la loro comprensione, la figuratività stessa
e gli interrogativi che l’accompagnano sembrano oltrepassare i limiti che il
supporto planare, luogo della loro manifestazione, vuole assegnargli. Tenendo
conto del fatto che le qualità del mondo naturale, selezionate, servono alla co-
struzione del significante degli oggetti planari, ma che appaiono allo stesso
tempo come dei tratti del significato delle lingue naturali, vediamo come i di-
scorsi verbali contengano la propria dimensione figurativa, pur precisando che
le figure che la costituiscono sono figure del contenuto e non dell’espressione.
Si comprende allora come i problemi posti dall’analisi dei "testi visivi" siano
comparabili a quelli dei testi verbali, letterari o meno.
La questione sollevata dall’organizzazione interna delle figure visive, preposte
per essere lette come oggetti del mondo, richiama immediatamente quella del
funzionamento delle immagini e altre metafore e metonimie nei discorsi ver-
bali. Presentando l’iconizzazione come la procedura di persuasione veridittiva,
non ci siamo poi molto allontanati dalla "retorica dell’immagine" suggerita a
suo tempo da Roland Barthes. La problematica dei "motivi", benché mal posta
in entrambi i casi, è comune alla storia dell’arte e all’etnoletteratura, e lo stes-
so si dica della presenza della "messinscena" e delle strutture narrative, rico-
noscibili nell’una come nell’altra.

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Le ricerche figurative costituiscono di conseguenza una componente autono-
ma della semiotica generale, ma non sembrano in grado di poter specificare il
campo particolare che cerchiamo di circoscrivere.

1. Il significante plastico

1.1 Una lingua altra


Quando, assiduo frequentatore dei circoli parigini, Diderot inizia a visitare gli
atelier dei pittori, vi scopre, con grande stupore, un altro linguaggio, una ma-
niera diversa di parlare della pittura. Dovendo fornire descrizioni dei Salons,
decide allora di dividere le sue presentazioni di ogni quadro in due parti: una
parte "ideale" tradizionale e una parte "tecnica", nella quale esalta il "fare"
dell’artista e lo sanziona servendosi di un’assiologia pittorica assai complessa.
Pur praticando, secondo le esigenze dei suoi corrispondenti, un approccio fi-
gurativo, egli riserva un posto non meno importante all’approccio plastico dei
medesimi oggetti. Dopo aver scomposto il dipinto in oggetti "nominabili", do-
po averli riuniti in gruppi e in scene, dopo aver, insomma, interpretato ciò che
il pittore aveva voluto "dire", passa ad altro; e, esaminando attentamente le
tracce lasciate dal pennello sulla tela, cerca di capire ciò che il pittore aveva
voluto "fare", senza mai riuscire – ma neanche provare – ad accostare i due
punti di vista. Il lettore dei Salons si trova a sua volta disorientato, non sapen-
do molto bene se ha a che fare con due soggetti-descrittori di uno stesso dipin-
to o se si tratta di un solo descrittore che tenta di rendere conto di due oggetti
distinti; tant’è vero che un oggetto semiotico, invece di essere un dato, non è
che il risultato di una lettura che lo costruisce.
Questa possibilità di parlare un linguaggio altro si trasforma in necessità
quando si sceglie come corpus da analizzare un certo numero di "superfici",
costruite dopo la – o al momento della – "rottura epistemologica", allorché la
lettura figurativa viene rimessa in questione o addirittura negata. È il caso di
Kandinsky che, attraverso "improvvisazioni" successive, cerca di spogliare il
suo oggetto di ogni traccia figurativa1; ma anche di Klee, che si fa gioco del
figurativo usandolo non per costruire un’immagine del mondo, ma per deco-
struirlo e farne la scena d’un "mondo" a sé2; lo stesso si dica della fotografia di
Boubat, in cui il superamento delle costrizioni tecniche, che realizzano il gra-
do massimo dell’iconicità, è un tentativo di farla parlare in altro modo3; o, an-

1
Cfr. Floch (1985: 39-77) [n.d.c.].
2
Cfr. Thürlemann (1982).
3
Cfr. Floch (1985: 21-38).

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cora, di quel progetto di Mies van der Rohe, che deviato dalla sua funzione
rappresentativa e comunicativa dà luogo, in quanto "superficie", a una lettura
"estetica". Persuaso che questi oggetti possiedano in sé un linguaggio comune
utilizzato per "parlarci", ma anche – e soprattutto – della possibilità di costrui-
re un linguaggio tale da permetterci di "parlarne", il semiologo cerca di istitui-
re un luogo di interrogazione sul come e il perché della loro presenza.

1.2 Preliminari
Come, in effetti, impossessarsi di un luogo simile e giustificare un tale inter-
rogativo se non facendo tabula rasa di ogni discorso dossologico precedente,
se non erigendo l’ingenuità dello sguardo a postulato scientifico, se non la-
sciando sussistere come unici dati, da una parte, la "materialità" del supporto
occupata da linee e superfici e, dall’altra, 1’"intuizione" dello spettatore, ricet-
tacolo degli "effetti di senso" che raccoglie di fronte a questo spettacolo co-
struito? Sono queste le condizioni necessarie, ma non sufficienti, di una lettura
che si vuole fresca e ingenua; e questo per la semplice ragione che lo sguardo
non è mai ingenuo e l’intuizione mai pura. Così, pur conservando la disponibi-
lità necessaria, è meglio esplicitare il "referente culturale" e porre lucidamen-
te, per servirsene con cognizione di causa, quel minimo epistemologico che si
ritiene possa guidare le prime operazioni esplorative, permettendo in seguito,
come nel nostro caso, delle messe a punto provvisorie. Questo può essere rias-
sunto brevemente.
a) Dire che un oggetto planare costruito produce degli "effetti di senso" è già
postularlo come un oggetto significante che dipende, in quanto tale, da un si-
stema semiotico di cui è una delle possibili manifestazioni. Affermare
l’esistenza di un sistema semiotico non impedisce di riconoscere, nello stesso
tempo, che questo sistema – tanto nei suoi modi d’organizzazione, quanto nei
contenuti che può articolare – ci è sconosciuto. Un tale sistema, dichiarato esi-
stente ma sconosciuto, non può avere alcuna possibilità di essere inteso ed e-
splicitato se non attraverso l’esame dei processi semiotici – dei "testi visivi" –
tramite i quali si realizza; come dire che solo la conoscenza degli oggetti pla-
nari particolari può portare a quella del sistema che li sottende e che, se i pro-
cessi sono all’inizio colti come realizzati, presuppongono il sistema come vir-
tuale e, di conseguenza, rappresentabile soltanto nella forma di un linguaggio
costruito ad hoc.
b) Dire che un oggetto planare è un processo, un testo che realizza una delle
virtualità del sistema, significa implicitamente incominciare a considerare la
superficie che ci è data nella sua materialità come la manifestazione di un si-

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gnificante e, nello stesso tempo, interrogarsi sulla sua articolazione interna in
quanto "possibilità di significare". Nell’analisi precedente dei due diversi mo-
di di usare l’alfabeto abbiamo visto come una griglia concettuale stabilita a
priori permettesse di interpretare le lettere-figure come oggetti compatti e co-
me, al contrario, un testo scritto considerato come significante autonomo po-
teva dar luogo a una sotto-articolazione delle lettere nei loro tratti costitutivi e
rivelare così un’organizzazzione grafematica soggiacente; allo stesso modo,
possiamo chiederci se, accanto alla scomposizione della superficie dipinta, ef-
fettuata grazie alla griglia di lettura figurativa, non si possa operare un’altra
segmentazione del significante che permetta di riconoscere l’esistenza di unità
propriamente plastiche, eventualmente portatrici di significazioni a noi scono-
sciute.
c) In presenza di un testo visivo, considerato come un significante segmentabi-
le, non ci resta a questo punto che enunciare l’ultimo postulato, quello di ope-
ratività, secondo il quale ogni oggetto non è percepibile che attraverso la sua
analisi, vale a dire, più semplicemente, attraverso la sua scomposizione in par-
ti più piccole e la loro reintegrazione nella totalità che queste costituiscono. La
semiotica generale mette a disposizione del semiologo interessato ai problemi
della visualità una strumentazione concettuale e procedurale ricca e diversifi-
cata, senza per questo fornirgli ricette già pronte e, soprattutto, senza costrin-
gerlo a trasporre le procedure linguistiche riconosciute, ma probabilmente po-
co adatte a campi le cui articolazioni significanti appaiono intuitivamente assai
diverse da quelle delle lingue naturali. Poco importa, allora, che l’analisi si a-
pra con il riconoscimento dei tratti minimali la cui combinatoria dà luogo alle
figure e ai formanti plastici, o che cerchi di stabilire innanzitutto "blocchi di
significazione" o "dispositivi", unità di dimensioni più vaste, scomponibili. Si
tratta, in ogni caso, di procedure di segmentazione che poggiano in buona par-
te su operazioni intuitive di cui bisogna, in primo luogo, esplicitare le proce-
dure e formulare le regole d’uso generalizzato. Ciò che conta, a questo stadio
della ricerca, è la comparabilità dei risultati parziali ottenuti e il riconoscimen-
to dei principali campi d’esercizio in cui si raggruppano e si coordinano i pro-
blemi che sorgono strada facendo.

1.3. Il dispositivo topologico


L’esplorazione del significante plastico comincia – generativamente e non ge-
neticamente – con la costituzione di un campo problematico basato sulle con-
dizioni topologiche della produzione così come della lettura dell’oggetto pla-
nare. Quest’oggetto resta insufficientemente definito, anche se si tratta soltan-

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to della sua manifestazione materiale, finché non è circoscritto, delimitato, se-
parato da ciò che non è; è il ben noto problema della cornice-formato o, in
termini semiotici, della chiusura dell’oggetto. Atto deliberato del produttore
che, situandosi lui stesso nello spazio dell’enunciazione "fuori-quadro", in-
staura, attraverso una sorta di débrayage, uno spazio enunciato di cui sarà il
solo responsabile, capace di creare un "universo utopico" separato da
quest’atto; assicurando all’oggetto così circoscritto lo statuto di una "totalità
significante", è anche il luogo a partire dal quale potranno cominciare le ope-
razioni di decifrazione della superficie inquadrata.
Mentre la lettura del testo scritto è lineare e unidimensionale (da sinistra a de-
stra, o viceversa) e permette di interpretare la parola spazializzata come una
sintagmatica appiattita, la superficie dipinta o disegnata non rivela, attraverso
qualche artificio manifesto, il processo semiotico che è supposto esservi in-
scritto. La cornice appare come l’unico punto di partenza sicuro, permettendo
di concepire una griglia topologica virtualmente sottesa alla superficie offerta
alla lettura.
Le categorie topologiche, le une "rettilinee" – come alto/basso o destra/sinistra
– le altre "curvilinee" – periferico/centrale o circoscrivente/circoscritto -, così
come i loro derivati e composti, strutturano, a partire da ciò che non è, l’intera
superficie inquadrata tracciandovi gli assi e/o delemitandovi le aree, assolven-
do così a una doppia funzione, quella di segmentazione dell’insieme in parti
discrete e anche quella di orientamento di eventuali percorsi sui quali si trova-
no disposti i diversi elementi di lettura.
Questo dispositivo topologico, anche se riconoscibile inizialmente nella mate-
rialità della cornice e nella scelta del formato, anche se fondato su una con-
venzione e sottoposto al relativismo culturale, possiede un’esistenza virtuale,
garantita da un contratto logicamente presupposto, stipulato fra l’enunciante-
produttore e 1’enunciatario-lettore. Proiettate sulla superficie, che la ricchezza
e la polisemia renderebbero altrimenti indecifrabile, le categorie topologiche
consentono, dopo l’eliminazione del "rumore", la sua riduzione a un numero
ragionevole di elementi pertinenti, necessari alla lettura.
È forse superfluo aggiungere che il dispositivo, così come lo abbiamo abboz-
zato, è suscettibile di sdoppiarsi: presente al momento dell’attualizzazione
dell’atto d’enunciazione, dove dà luogo a una prima organizzazione spaziale
dell’oggetto semiotico, esso può essere proiettato, interamente o parzialmente,
all’interno della stessa superficie enunciata e costituirvi una nuova griglia,
semi-autonoma, di lettura.

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1.4. La forma plastica
Se l’applicazione del dispositivo topologico permette di intraprendere l’analisi
della superficie inquadrata e rende possibile una prima segmentazione
dell’oggetto in sotto-insiemi discreti, è evidente che la sua descrizione, in
quanto significante visivo, non sarà giudicata soddisfacente finché la sua arti-
colazione non potrà essere formulata in termini di categorie plastiche, isolan-
do così le unità "minimali" del significante le cui combinazioni più o meno
complesse ritroveranno, seguendo un tragitto ascendente, i sotto-insiemi rico-
nosciuti grazie alla scomposizione topologica. La fonologia – proponendo la
riduzione dell’inventario delle articolazioni fondamentali delle lingue naturali
– offre, in questo campo, un modello affascinante che è difficile non seguire.
Partendo dalla constatazione convenzionale che, su una superficie dipinta, si
possano trovare "colori" e "forme", la distinzione fra categorie cromatiche e
categorie eidetiche potrebbe sembrare un semplice mascheramento terminolo-
gico. Un’analisi che cercasse di riconoscere un livello sufficientemente pro-
fondo e astratto in cui potrebbe situarsi una tale distinzione dovrebbe iniziare
dalla superficie manifestata allo stato bruto, ricoperta di "aree" indifferenziate,
per postulare, in seguito, che soltanto lo sguardo del lettore (o, che è la stessa
cosa, l’intenzione implicita del produttore) è in grado di cogliere certe superfi-
ci nella loro funzione isolante e discriminante (in quanto "linee" e "contorni")
e altre, nella loro funzione individuante e integrante (in quanto "superfici pie-
ne"). Una tale distinzione poggerebbe allora su due postulati epistemologici
della semiotica generale: in primo luogo, che la distinzione fra l’eidetico e il
cromatico non attiene alla materialità del significante (al suo livello fonetico),
ma alla sua concezione relazionale (al suo livello fonologico), alla funzione
che il lettore attribuisce a questo o a quel termine in rapporto ad altri; in se-
condo luogo, che il riconoscimento di un termine in quanto unità presuppone
una doppia definizione della stessa, come unità dipendente dal suo carattere
discreto, in quanto distinta da ciò che la circonda, e dalla sua integrità, indivi-
duata in quanto tale. A condizione di considerare il nero e il bianco come dei
"colori" (anche definendoli "non colori"), si potrebbero allora indicare con il
termine di categorie eidetiche quelle incaricate di stabilire l’articolazione delle
diverse unità del significante, e con il termine di categorie cromatiche quelle
dei termini aventi funzione individuante.
A ogni modo queste riflessioni, forse futili per qualcuno a causa della loro
tecnicità e sofisticatezza, non dovrebbero occultare l’importanza del procedi-
mento stesso, che consiste nella scomposizione in unità dette "minimali", sog-
giacenti alla manifestazione, di quelle densità che sono i "colori" e le "forme"

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materialmente inscritte nella superficie, nonché nella loro formulazione in ca-
tegorie, entità di un metalinguaggio univoco – uno dei cui meriti, e non il mi-
nore, consiste nella comparabilità ulteriore delle analisi particolari. Il carattere
"minimale" di queste unità è peraltro assai relativo: invece di puntare
all’ideale fonologico, l’analisi del significante plastico deve accontentarsi
dell’esempio della semantica che, di fronte all’impossibilità di stabilire un in-
ventario ristretto delle categorie semiche che coprirebbero comunque l’intero
universo culturale, si accontenta di considerare le sole categorie pertinenti per
l’analisi di questo o quel micro-universo dato. Le differenze che si osservano
da un’analisi all’altra, nell’inventario delle categorie cromatiche, per esempio,
non hanno altra origine e solo una pratica analitica più estesa permetterà forse
di distinguere progressivamente le categorie dette "primitive" da quelle che
non sono "significative" che per un solo oggetto o un solo corpus. La mancan-
za di un consenso terminologico rigoroso o anche le divergenze teoriche (il
colore si scompone interamente in categorie cromatiche o resta un residuo
"radicale" che rende conto, per esempio, dell’opposizione azzurro/verde?), per
il buon andamento dell’analisi, interessano meno rispetto alla determinazione
netta ed univoca dell’istanza di percezione dei fenomeni plastici. Come la so-
norità può essere colta al momento della gestualità articolatoria che la produ-
ce, ma anche al momento della trasmissione acustica o della ricezione uditiva,
senza che l’omologazione fra queste differenti istanze sia agevole e sicura, a-
nalogamente la visualità e la sua articolazione in categorie dipendono dalla
percezione omogenea imposta. Senza parlare dei malintesi che derivano
dall’applicazione delle articolazioni dello spettro cromatico – di carattere
scientifico e comparabile allo studio acustico della sonorità – all’interpreta-
zione della pittura, sarebbe interessante, e anche necessario, esaminare separa-
tamente, e mettere eventualmente in parallelo, i fenomeni cromatici ed eidetici
così come sono colti non solo dall’istanza della lettura, ma anche della produ-
zione, in cui la "gestualità articolatoria" si presenta come una "maniera di fa-
re" del pittore.
Va da sé che il riconoscimento delle categorie topologiche, cromatiche ed ei-
detiche, che costituiscono il livello fondamentale della forma del significante,
non esaurisce la sua articolazione; queste non sono altro che basi tassonomi-
che, suscettibili di rendere operativa l’analisi di questo piano del linguaggio.
La procedura di costruzione dell’oggetto semiotico consisterà nel determinare
delle combinazioni di queste unità minimali – che chiameremo figure plasti-
che – per ritrovare, in seguito, delle configurazioni ancora più complesse; con-
fermando, così, il postulato generale secondo il quale ogni linguaggio è innan-

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zitutto una gerarchia. Fra queste forme plastiche, di complessità ineguale, oc-
corre tuttavia riservare un posto a parte ai formanti plastici – comparabili ai,
ma distinti dai, formanti figurativi –, organizzazioni particolari del significante
che si definiscono unicamente per la loro capacità di congiungersi con dei si-
gnificati e di costituirsi in segni.
Ma, mentre i formanti figurativi non cominciano a significare, per così dire,
che in seguito all’applicazione della griglia di lettura del mondo naturale, i
formanti plastici sono chiamati a fare da pretesto a investimenti di significa-
zioni diverse, autorizzandoci a parlare di linguaggio plastico e a circoscrivere
la sua specificità.

1.5. Il testo plastico


Le articolazioni tassonomiche di cui abbiamo appena parlato costituiscono,
tuttavia, soltanto uno degli aspetti dell’analisi degli oggetti planari inquadrati.
Il riconoscimento delle categorie e delle figure plastiche ci informa sul modo
d’esistenza della forma plastica soggiacente alla sua manifestazione in super-
ficie e sulle superfici, ma non ci dice ancora niente riguardo all’organiz-
zazione sintagmatica di queste forme, la sola che possa permetterci di trattare
questi oggetti come processi semiotici, cioè in quanto testi significanti. L’asse
paradigmatico di ogni linguaggio, che definisce le unità che lo compongono
tramite la relazione "o…o" che queste intrattengono fra loro, permette di regi-
strare la presenza di un tratto sulla superficie esaminata in rapporto all’assenza
del tratto contrario o contraddittorio della stessa categoria – questo permettte,
per esempio, di parlare della "tavolozza" di un pittore in opposizione ad "altre
tavolozze"; ma è l’asse sintagmatico, costituito dalle relazioni "e…e", che ci
informa circa i modi di co-presenza dei termini e delle figure plastiche su una
stessa superficie-testo.
Parlando della distinzione da stabilire fra le categorie cromatiche e le catego-
rie eidetiche, abbiamo proposto di definire queste ultime per il loro carattere
discreto, per la funzione distintiva di cui sarebbero incaricate. Se le categorie
cromatiche possono essere considerate come costituenti (Thürlemann) – la su-
perficie dipinta non è inizialmente che uno spazio coperto da zone indistinte –,
le categorie eidetiche sono costituite – le zone, per la loro contiguità, si deli-
mitano reciprocamente. Per poter affermare la co-presenza di unità del signifi-
cante, bisogna che prima sia riconosciuto il loro carattere discreto: le riflessio-
ni sulla contiguità, sui bordi netti e sugli orli sfumati (Floch e Alkan), costitui-
scono il primo passo verso la costituzione del testo plastico. Abbiamo già sug-
gerito un tale passo quando abbiamo proposto di considerare certe zone nella

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loro funzione isolante e discriminante, e certe altre nella loro funzione indivi-
duante e integrante.
Il passo successivo concerne la definizione di unità sintagmatiche definite
contrasti. In linguistica, il termine "contrasto" serve soprattutto ad indicare la
relazione "e…e", costitutiva dell’asse sintagmatico. Pur essendo della stessa
natura, il contrasto plastico si definisce come la co-presenza, sulla stessa su-
perficie, di termini opposti (contrari o contraddittori) della stessa categoria
plastica (o di unità più vaste, organizzate nella stessa maniera). Se la categoria
è presente nel testo, un po’ al modo dell’antifrasi, per esempio attraverso uno
dei suoi termini (in assenza degli altri), il contrasto si caratterizza, alla maniera
dell’antitesi, per la presenza, sulla stessa superficie, di almeno due termini del-
la stessa categoria, contigui o meno. Questa organizzazione contrastiva del te-
sto offre all’analisi un vantaggio considerevole: permette di riconoscere le ca-
tegorie assieme ai loro termini presenti su una sola superficie, senza il ricorso
preliminare alle procedure di comparazione fra diversi oggetti. La distinzione
fra categorie plastiche e contrasti plastici resta tuttavia di capitale importanza
e indispensabile sul piano operativo.
Un’organizzazione testuale di questo genere è lontana dall’essere specifica del
solo linguaggio plastico, risulta invece, per buona parte, a fondamento del
funzionamento dei discorsi narrativi: la "mancanza", segnalata all’inizio del
racconto, richiama a distanza, costituendo in questo modo una "molla dram-
matica", la "liquidazione della mancanza" che sopprime la tensione narrativa.
Inoltre, com’è noto, è attraverso la proiezione del paradigmatico sull’asse sin-
tagmatico che Roman Jakobson ha a suo tempo definito l’essenza del linguag-
gio poetico. L’accostamento fra plastico e poetico non sembra accidentale: ci
ritorneremo.
La ricorrenza di categorie plastiche che si realizza attraverso la ripresa di un
termine categoriale tramite il suo contrario (o contraddittorio), va distinta da
un altro tipo di ricorrenza discorsiva, nota in semiotica con il termine di ana-
fora, che consiste nell’iterazione e nella ripresa di uno stesso termine, impie-
gato però in un contesto diverso o, che è la stessa cosa, in una diversa configu-
razione. Queste ricorrenze del simile e del diverso, del medesimo e dell’altro,
costituiscono una vera e propria trama che ricopre la superficie costruita; rico-
noscibili sotto forma di tensioni e isotopie d’attesa, esse predispongono già a
una lettura globalizzante.
Quel che sembra ancora mancare, affinché tutte le condizioni di lettura si rea-
lizzino è tuttavia il suo orientamento, concetto mal definito – o indefinibile? –,
fonte di preoccupazioni epistemologiche sia in logica sia in linguistica.

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L’ipotesi, accattivante a prima vista e generalmente ammessa al momento at-
tuale per rendere conto della lettura delle superfici costruite, consiste nel po-
stulare la linearità della lettura, identificabile con il percorso seguito dallo
sguardo durante il processo di percezione; non vi sarebbe che da filmare i mo-
vimenti effettuati dagli occhi durante l’esplorazione di un dipinto perché
l’intera sua sintassi – o almeno la sua sintagmatica – ci sia rivelata. Ma a parte
il fatto che simili esperimenti di laboratorio sembrano ancora poco concluden-
ti, non si vede, sul piano teorico, la necessità di ammettere che la lettura linea-
re continua sia il solo modo di comprensione della superficie. Pur ammetten-
done il principio, la si può benissimo considerare limitata a percorsi parziali
(imposti, per esempio, da variazioni di contrasto), prevedendo al tempo stesso
dei "salti anaforici" che hanno la funzione di connettere diversi percorsi fra di
loro. Si può soprattutto, riservando comunque un posto alla lettura orientata,
tener conto della possibilità, riconosciuta, di letture simultanee dei termini,
delle catture di dispositivi dotati di organizzazioni categoriali. Un inventario
abbastanza vasto di questi assi e questi dispositivi si è a poco a poco costituito;
non ci resta che suggerirne la collocazione. Parlando del dispositivo topologi-
co che si innesta in seguito all’atto di enunciazione plastica, siamo stati indotti
a conferirgli, accanto alla sua funzione di segmentazione, un ruolo di orienta-
mento della lettura; in effetti, i diversi assi che questo proietta sulla superficie
possono essere considerati come altrettanti inviti a riunire le figure che vi sono
situate in insiemi significativi. Segnali d’orientamento, d’altra parte, possono
essere riconosciute in diverse figure plastiche, pur rimanendo degli elementi
inerenti alla loro organizzazione. Questo è valido tanto per le figure eidetiche
(dove la categoria appuntito/arrotondato può orientare la lettura) quanto per le
figure cromatiche (la categoria non-saturo/saturo, di carattere graduato, che
comporta un’intensità "orientata"). Le categorie e i formati figurativi possono
essere, invece, presi in considerazione e sfruttati come indicatori d’orienta-
mento del testo plastico. Lo stesso vale per le categorie la cui funzione princi-
pale sembra essere quella d’iconizzazione del figurativo, come la categoria
chiaro/scuro o i diversi dispositivi incaricati di produrre degli effetti di "pro-
fondità". A questo bisogna aggiungere lo sfruttamento diretto della griglia di
lettura del mondo naturale: così, il riconoscimento della figura "pianta" pre-
suppone la conoscenza del fatto che la pianta cresce verticalmente. Malgrado
la parvenza d’ordine che si crede di riconoscervi, sarebbe pericoloso vedervi
delle procedure applicabili quasi meccanicamente, e non un catalogo aperto
all’attenzione dell’analista.

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2. Per una semiotica plastica

2.1 Semiotica semi-simbolica


L’ipotesi che presiede all’insieme delle nostre analisi – conforme anche alla
constatazione intuitiva generalmente ammessa – consiste nel considerare gli
oggetti plastici come oggetti significanti. Il problema non sta dunque
nell’affermare che il significante plastico, di cui abbiamo appena riconosciuto
alcuni principi d’organizzazione, "significa", ma nel cercare di capire come
significa e che cosa significa.
La posizione assai ragionevole del semiologo è consistita nel confessare in
partenza la sua ignoranza riguardo i modi di significazione di questi oggetti –
riconoscendone tutt’al più gli "effetti" di senso che ne scaturiscono e che si è
in grado di intuire, di interpretare – e nel cercare di formularne le regolarità.
Un tale procedimento è tuttavia lontano dall’essere ingenuo; postulare il pote-
re di interpretare è già adottare una certa posizione secondo la quale il signifi-
cante plastico costituisce di per se stesso una semiotica monoplanare, ma in-
terpretabile, così come sono interpretabili i linguaggi formali, il gioco degli
scacchi e altri sistemi di simboli.
D’altro canto, l’interpretazione, per intuitiva che sia, non consiste soltanto nel
formulare gli "effetti di senso" nei termini di un metalinguaggio particolare,
ma, nello stesso tempo, nel compararli e opporli fra di loro elaborando, al li-
mite, un sistema di significati parallelo e coestensivo al sistema di simboli che
si cerca di descrivere.
Così, per esempio, la descrizione del dispositivo plastico che produce l’effetto
di senso "pesantezza" porterà naturalmente a interrogarsi sul dispositivo che
dà luogo all’effetto "leggerezza". Si tratterà allora di sapere se la figura che
rappresenta la "leggerezza" è comparabile a quella che rappresenta la "pesan-
tezza". I simboli a e b di un linguaggio formale, se rappresentano entrambi per
esempio, classi logiche, sono, sul piano del significante, indipendenti l’uno
dall’altro. Sarebbe diverso se le figure del significante sa e sb avessero per si-
gnificato "pesantezza" e "leggerezza" o, meglio ancora, se due termini di una
stessa categoria, sl e s2, potessero essere omologati con l’opposizione pesan-
tezza/leggerezza. Una tale semiotica potrebbe allora essere definita non più
simbolica, ma semi-simbolica, per il fatto che queste due correlazioni parziali
fra i due piani del significante e del significato si presentano come un insieme
di micro-codici, comparabili, per esempio, al micro-codice gestuale del sì/no.
Se si accetta di riservare il termine di semiotiche semi-simboliche a questo tipo
di organizzazioni della significazione – definite dalla conformità fra i due pia-

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ni del linguaggio riconosciuta non fra gli elementi isolati, come nel caso delle
semiotiche simboliche, ma fra le loro categorie –, ci si accorgerà che queste
organizzazioni si ritrovano non solo nel linguaggio gestuale (dove si incontra,
per esempio, la disgiunzione/congiunzione omologata al movimento delle ma-
ni sull’asse della lateralità, effettuato in senso opposto, o l’attrazione/re-
pulsione espressa attraverso i movimenti del busto e delle braccia sull’asse
prospettico, ecc.), ma anche nelle lingue naturali e, in modo particolare, in
quella loro elaborazione secondaria che è il linguaggio poetico (tramite le ca-
tegorie prosodiche come quelle dell’intonazione frastica, la rima e il ritmo).
Non risulterà allora strano scoprire che le categorie plastiche che fanno parte
del dispositivo topologico siano comparabili a queste categorie gestuali e pro-
sodiche, e che anch’esse siano omologabili alle articolazioni categoriali dei
contenuti. Così, non si esiterà a omologare alto/basso a euforia/disforia, a ri-
conoscervi, con il tratto "orientamento", un micro-codice elevazione/caduta o
a vedere nelle diagonali possibili interpretazioni di ascesa/discesa. Poco im-
porta sapere se tali omologazioni poggiano su convenzioni culturali o se sono
di natura universale; è il principio stesso di questo modus significandi che con-
ta, e non la natura dei contenuti investiti.
Non sarebbe pertanto impossibile spingersi più avanti – i semiologi di cui par-
lo lo fanno servendosi dei risultati delle loro analisi – e affermare, in uno sfor-
zo di generalizzazione, che certe opposizioni dei tratti plastici siano legate a
certe opposizioni delle unità del significato e che si trovino dunque ad essere
omologabili, come, per esempio:

appuntito: arrotondato :: terrestre: celeste (Klee)

oppure

in rilievo: appiattito :: nudo: ornato (Boubat).

Una tale constatazione, che tende a definire la semiotica plastica come un ca-
so particolare della semiotica semi-simbolica, porta naturalmente a interro-
garsi sullo statuto semiotico degli elementi del significato che sono così omo-
logati alle categorie del significante plastico. Il numero ancora limitato di ana-
lisi concrete non permette di trarne conclusioni definitive. Si può affermare
tuttavia che siamo di fronte a categorie che dipendono dalla forma – e non dal-
la sostanza – del contenuto e che, pur sembrando derivare dalla lettura figura-
tiva degli oggetti plastici, possiedono una grande generalità e si presentano

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come delle categorie astratte del significato: così, l’opposizione terre-
stre/celeste rinvia agli universali figurativi terra/aria; l’opposizione nu-
do/ornato costituisce l’asse principale della dimensione vestimentaria della
cultura; quella di animato/inanimato, che in Klee si trova omologata
all’opposizione linee/superfici, è ammessa fra i primitivi linguistici.

2.2. Linguaggio poetico


È dunque come se la lettura del testo plastico consistesse in una doppia scis-
sione; certi significati postulati al momento della lettura figurativa si trovano
separati dai loro formanti figurativi per servire da significati a formanti plasti-
ci in via di costituzione; nello stesso tempo certi tratti del significante plastico
si distaccano dai formanti figurativi in cui si trovano integrati e, obbedendo ai
principi d’organizzazione autonomi del significante, si costituiscono in for-
manti plastici. Più che a una "sovversione" del figurativo, assistiamo a un pro-
cesso di autodeterminazione, alla nascita di un linguaggio secondo.
Questo fenomeno di scissione è illustrato, in modo perentorio, dall’analisi del
progetto architettonico di Mies van der Rohe proposta da Vergniaud, che mo-
stra come un oggetto funzionale di comunicazione sociale possa trasformarsi
in oggetto "estetico" esaltando le virtù dell’ortogonalità. E quel che accade an-
che nella scrittura che, già parzialmente deviata dalla sua funzionalità dalle
connotazioni che si vogliono gradevoli dei caratteri di stampa, recentemente
studiati da Lindekens, è suscettibile di produrre oggetti calligrafici dotati di vi-
ta propria.
Ma è ancora il funzionamento del linguaggio poetico all’interno della semioti-
ca letteraria che può meglio chiarire la natura seconda del linguaggio plastico.
Mentre il testo letterario, indifferente al suo significante, ma preoccupato della
rappresentazione-trasmutazione figurativa del mondo naturale e umano, è in
grado di parlarne in tutti i sensi, l’organizzazione poetica seconda che si so-
vrappone a questo testo si fa carico del significante fino a quel momento rele-
gato nella sua funzionalità primaria, articolandolo in maniera tale da riprodur-
re le stesse forme fondamentali che caratterizzano il significato al suo livello
profondo di lettura, dando così luogo a una lettura poetica fondata sull’omolo-
gazione dei nuovi formanti poetici a significati rinnovati. Stando così le cose,
è la semiotica poetica in quanto tale, forte di un’organizzazione strutturale e di
un modo di significazione propri, che dovrebbe essere considerata come un
linguaggio autonomo e specifico, che abolisce le frontiere convenzionalmente
stabilite fra i diversi campi di manifestazione. Poiché la sostanza del signifi-
cante entra in gioco solo secondariamente, le distinzioni fra il poetico visivo,

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letterario, o musicale, potrebbero essere osservate soltanto in seguito, dopo il
riconoscimento della poeticità di questo o quel testo. Il suggerimento di Thür-
lemann secondo cui "la prosa del mondo è trasformata da Klee in poesia", ces-
sando di essere una metafora, mostra, al contrario, la vera posta della semioti-
ca, desiderosa di dare il suo contributo alla ormai antica problematica della
"corrispondenza delle arti".

2.3. Strutture mitiche


Altre "corrispondenze" – riconoscibili solo ad analisi ultimata – risultano u-
gualmente sorprendenti. Quando Lévi-Strauss intraprende il primo esame di
un testo mitico – il mito di Edipo –, si trova in una situazione simile a quella
del semiologo di fronte ad un testo plastico: il testo, letto in superficie, sembra
prestarsi a una lettura "figurativa" evidente e allo stesso tempo sprovvista di
senso, tant’è la distanza fra la perennità dei miti e l’insignificanza del loro
senso apparente. Il semiologo si riconosce inoltre nel procedimento che adotta.
Fondato sulla convinzione intuitiva dell’esistenza di una significazione diver-
sa, più profonda, la lettura "verticale" alla quale procede gli permette di rico-
noscere delle ricorrenze "anaforiche" di determinate grandezze del racconto e,
nello stesso tempo, delle opposizioni di "contrasti" fra i termini in questione;
mentre la narrazione, nella sua figuratività eccessiva, appare invece come un
"rumore" che occorre superare per poter isolare le articolazioni principali
dell’oggetto e postulare in seguito una concezione mitica atemporale di questa
struttura di base che renda conto della significazione globale del testo.
Questa struttura mitica di base consiste, come sappiamo, nella messa in corre-
lazione di due categorie semantiche riconosciute grazie alla loro presenza sin-
tagmatica, alla maniera dei contrasti plastici, nel testo e manifestate da for-
manti mitici raggruppati, separati dal loro contesto figurativo. Non c’è dunque
niente di strano – ma soltanto a posteriori – nel fatto che simili pratiche opera-
tive giungano a risultati comparabili, che la significazione fondamentale del
nudo di Boubat (Floch) o di Blumen-Mythos di Klee (Thürlemann) poggi su di
una struttura di base identica; al contrario, la concezione acronica della signi-
ficazione, a partire da un dispositivo categoriale, risulta anche più "naturale"
quando si tratta di oggetti plastici – condannati, in apparenza almeno, per il lo-
ro significante, a una staticità che lo sguardo dello spettatore cerca di vincere –
rispetto al caso dei testi mitici verbali la cui lettura lineare accentua la tempo-
ralità. La superficie plastica chiusa appare come predisposta alle manifesta-
zioni mitiche.

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Al di là di queste costrizioni del significante, l’identità strutturale dei due mo-
di di significazione può apparire con evidenza ancora maggiore. Mentre sem-
bra "naturale" che la lettura simultanea del senso profondo dell’oggetto mitico
possa essere destabilizzata, dando luogo agli sviluppi narrativi che lo figurati-
vizzano, lo stesso fenomeno di narrativizzazione si osserva negli oggetti pla-
stici: autorizzando i racconti della donna che si sveste e "si naturalizza" o si
veste e "si culturalizza" (Boubat), facendo apparire l’uccello e il fiore deside-
rato, trasformando l’intera tela in un busto di donna (Klee). Questi racconti
sdoppiati e opposti, esaurita la loro finalità, concorrono allora alla costruzione
di quelle grandi figure ambivalenti di mediazione – caratteristiche del pensiero
mitico, secondo Lévi-Strauss – che sono la donna seminuda di Boubat, che
sussume e media la cultura e la natura, o la donna-fiore di Klee, che permette
di conciliare l’uomo con il cosmo.

* Da : Algirdas J. Greimas, “Sémiotique figurative et sémiotique plastique”, Actes Sémioti-


ques – Documents, 60, 1984; trad. it. di Emilia Corsanego e Tarcisio Lancioni, in Leggere
l’opera d’arte. Dal figurativo all’astratto, a cura di Lucia Corrain e Mario Valenti, Bolo-
gna, Esculapio 1991, pp. 33-51. Questo saggio è stato pensato e scritto come introduzione a
un volume collettivo, mai pubblicato, sulla visualità. Le opere di Klee, Kandinskij, Boubat
e van der Rohe di cui qui parla G. erano oggetto degli altri supposti contributi al volume,
poi pubblicati a parte.

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