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Ringraziamenti

Desidero innanzitutto esprimere la mia gratitudine al Professor


Alberto Mioni per i suoi preziosi insegnamenti e per avermi guidato
con reale partecipazione durante la composizione del mio lavoro.
Preziosissimi sono stati i suoi consigli, la sua preparazione linguistica
e la sua grande cultura. Vorrei anche ringraziarlo per avermi invitato
alla conferenza tenutasi a Pescara nei giorni 20 e 21 febbraio 2009
dal titolo Oralità e Scrittura, in cui ho raccolto importanti spunti di
ricerca.

Ringrazio con affetto anche i miei genitori, i quali mi hanno


sempre incoraggiato e sostenuto durante tutta la durata dei miei studi.
È a loro che vorrei dedicare questo lavoro.

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INTRODUZIONE

È risaputo che lo statuto della grafematica, intesa come disciplina che studia

l’espressione grafica del linguaggio, è ancora scarsamente definito quanto a compiti e

contenuti e che essa non è stata ancora accettata a tutti gli effetti nell’olimpo delle

scienze linguistiche. Se questa situazione è valida nella maggior parte degli ambienti

accademici occidentali, in Italia è particolarmente notevole la scarsità di pubblicazioni e di

ricerche in merito. Probabilmente la supposta facilità dell’ortografia italiana è riuscita a

dare l’illusione alle generazioni di linguisti che si sono susseguite che lingua orale e

lingua scritta, almeno per quanto riguarda l’italiano, andassero a braccetto e che

rimanesse ben poco da dire riguardo alla grafia che non si riducesse a formule come

“<a> si legge /a/”. Non stupisce che la maggior parte degli studi di grafematica invece

provenga da nazioni anglofone o francofone, in cui i problemi di corrispondenza tra lo

scritto e il parlato sono acuiti dall’opacità dell’ortografia di queste due lingue. Per questo

abbiamo sentito l’esigenza di raccogliere, seppur in maniera incompleta ed

estremamente sintetica, i dati emersi dagli studi grafematici nell’ultimo secolo, visto che

nel nostro Paese si tende a parlare di scrittura solo in ambito filologico, storico o didattico.

Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per la storia dei diversi sistemi di scrittura

ma quasi sempre, una volta che si è giunti a parlare della creazione dell’alfabeto greco,

non si procede più in là del suo adattamento latino, dando per scontato che l’alfabeto sia

il sistema di scrittura migliore in assoluto, segno di civiltà e portatore di progresso; gli

studi sincronici poi sono ancora relativamente scarsi rispetto a quelli diacronici. Tuttavia,

grazie a figure come quella di Ignace Gelb, Josef Vachek, Peter T. Daniels, William

Bright e Florian Coulmas (ma anche dell’italiano Giorgio Raimondo Cardona) si sono

compiuti dei passi importanti nella comprensione dell’oggetto di studio scrittura e dei suoi

rapporti con la lingua orale. Sembra assodato che la scrittura, pur essendo una

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tecnologia, condizioni in maniera non indifferente l’evoluzione linguistica e che sia, se

non essenziale, di estrema importanza per la standardizzazione, la diffusione e

l’insegnamento scolastico delle lingue. Il contributo di diversi esperimenti psicolinguistici

ha anche dimostrato la maggiore intuitività di unità come la parola e la sillaba rispetto al

fonema, permettendo di rivalutare scritture logografiche come quella del cinese e le

scritture sillabiche e ridimensionando l’alfabetocentrismo della visione occidentale. Con il

nostro contributo vogliamo quindi cercare di gettare luce sui seguenti problemi: in che

modo la grafematica può essere integrata nella linguistica? Il criterio alfabetico è

veramente superiore a quello sillabico e logografico, e di conseguenza, le ortografie

trasparenti, con corrispondenze regolari tra grafemi e fonemi, sono davvero superiori a

quelle opache, in cui le corrispondenze sono meno prevedibili, oppure anche le ortografie

opache, al pari delle logografie, possiedono dei vantaggi propri? E infine, dato che

qualsiasi decisione venga presa in ambito ortografico non è mai ideologicamente neutra,

si dovrà sempre tenere conto unicamente di fattori linguistici e psicolinguistici o talvolta

bisognerà cedere a compromessi per questioni sociali, economiche e tecniche?

Per procedere nella nostra ricerca, abbiamo strutturato il testo in questo modo:

nel primo capitolo ci preoccuperemo di alcuni problemi di definizione; infatti, essendo la

grafematica una disciplina ancora agli inizi, almeno in ambito accademico, abbiamo

sentito l’esigenza di ridurre le possibilità di confusione per il lettore, spiegando

accuratamente che cosa si intenda quando si parla di sistemi di scrittura, script,

ortografia, grafema, grafo, allografo, ecc. In seguito, accenneremo al problema della

scomposizione in tratti minimi delle unità grafiche e dei diversi punti di vista dai quali si

può abbordare la studio grafematico.

Nel secondo capitolo passeremo brevemente in rassegna i diversi studiosi che

nel corso del XX secolo si sono espressi in materia di scrittura, alcuni contribuendo ad

escluderla dalla sfera degli interessi del linguista, altri tentando faticosamente di

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reintegrarla, a volte con motivazioni decisamente convincenti, altre volte meno.

Dopodiché, tenteremo di abbozzare un quadro generale dei modi in cui la scrittura entra

in relazione con i diversi piani della lingua (lessico e semantica, sintassi e prosodia,

fonologia) nonché con la percezione estetica e i (pre)giudizi sociali dei parlanti.

Il nucleo centrale del nostro contributo viene sviluppato nel terzo capitolo, dove

cercheremo di dimostrare che la superiorità del principio alfabetico non è per niente

scontata e rischia di rivelarsi un pregiudizio etnocentrico. Ci chiederemo dunque non solo

se esista un sistema di scrittura migliore degli altri, ma addirittura se abbia senso porsi il

problema, ovvero se si possano individuare delle caratteristiche di un sistema che si

rivelino in assoluto le migliori.

Infine, nel quarto capitolo metteremo alla prova i risultati ottenuti nel terzo

applicandoli a dei problemi pratici: la creazione di nuove ortografie per lingue

precedentemente solo orali e le proposte di riforma ortografica per le lingue che già

possiedono una tradizione scritta; quello che ne emergerà verrà poi sottoposto ad

un’ulteriore analisi nelle conclusioni.

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I. PROBLEMI DI DEFINIZIONE

1. Scrittura e scritture

Senza dubbio è un’impresa molto ardua dare una definizione esauriente e

onnicomprensiva di SCRITTURA. In questa sede, sia per limiti di spazio e di tempo, sia per

ragioni scientifiche, ci concentreremo, naturalmente, solo su qualche aspetto della

SCRITTURA; nello specifico, di quegli aspetti della pratica scrittoria che entrano in stretta

relazione con il linguaggio umano.

La SCRITTURA è generalmente intesa come una serie di segni grafici disposti su di

una superficie1 in un certo ordine e in una certa sequenza, in modo che questa serie sia

suscettibile di essere interpretata (letta) da un eventuale interprete (lettore) che possa

attribuire dei significati a quei segni. Per potere essere interpretata correttamente, questa

sequenza di segni grafici deve appartenere ad un qualche SISTEMA DI SCRITTURA,

conosciuto e condiviso da perlomeno due utenti: colui che scrive e colui che legge2.

Questa sequenza di segni può trasmettere delle unità di significato (semèmi)

direttamente oppure attraverso un filtro linguistico. Spesso in seno ad una società

linguistica che condivida lo stesso SISTEMA DI SCRITTURA entrambe le pratiche (linguistica

e non linguistica) sono in uso.

Possiamo definire l’oggetto del nostro studio la SCRITTURA-SEGNALE, ovvero un

sistema di segni grafici che “non ristruttur[a] il piano dell’espressione dello schema

linguistico e lasci[a] inalterato quello dei ‘contenuti di segni’ o plerematie, pur

1 Nell’era informatica la necessità di avere una superficie fisica su cui scrivere è venuta meno; consideriamo
superficie qualsiasi tipo di supporto, come quello virtuale dello schermo del computer. Anche l’aria può fare da
supporto, se pensiamo alla scrittura in cielo degli aeroplani.
2 Ovviamente, di solito una scrittura, per essere presa in considerazione, ha ben più di due utenti.
11
manifestando una parziale non-conformità con l’espressione fonica tanto a livello dello

schema grafematico quanto a livello degli usi3”.

Seguendo questa definizione di SCRITTURA, tralasceremo le pittografie e le

ideografie (che con le loro unità grafiche esprimono unità di significato più ampie di quelle

corrispondenti nella lingua orale) e considereremo invece le logografie (i cui significanti

grafici svolgono lo stesso ruolo dei loro omologhi nella lingua orale) e le fonografie

(alfabeti, sillabari, abjad, abugida) 4.

Vediamo di chiarire meglio cosa intendiamo con logografie e fonografie,

seguendo l’uso che propone Florian Coulmas5:

• un SISTEMA DI SCRITTURA può essere innanzitutto pleremico (basato su concetti, su

parole o su morfemi) o cenemico (basato sulla sillaba o sul fonema); detto

diversamente, un sistema pleremico tende a trasporre graficamente unità del piano

del contenuto mentre un sistema cenemico annota unità del piano dell’espressione.

Un sistema pleremico può quindi essere:

o pittografico se i suoi elementi rappresentano un oggetto e la loro

forma grafica ricalca, in modo più o meno stilizzato, la forma di

quell’oggetto; gli elementi di un sistema pittografico sono detti

pittogrammi; si trovano esempi di pittogrammi nella scrittura dell’Antico

Egitto o, senza voler andare troppo lontano, nella segnaletica stradale

o anche banalmente nelle istruzioni per il lavaggio di capi in lavatrice;

esempi:

- w pittogramma egizio rappresentante il sole;

3 Perri, A., “Trasposizione, segnale, meta semiotica (non scientifica). Spunti per una grafematica
(post)hjelmsleviana e per una tipologia semiotica dei segni grafici”, in Janus, n.7, Vicenza, Terraferma, 2007, p.
156.
4 Valeri, V., La scrittura – storia e modelli, Roma, Carocci, 2001, p. 18.
5 Coulmas, F., The writing systems of the world, Oxford, Blackwell, 1989, pp. 38-39.
12
- segnale stradale che si trova in luoghi frequentati

da bambini, come scuole, parchi giochi, ecc. e che invita a fare

attenzione;

- etichetta di un capo

di vestiario;

o ideografico se i suoi elementi rappresentano concetti astratti; gli

ideogrammi di cui è composto hanno solitamente un qualche rapporto

iconico con l’idea che trasmettono ma questa relazione è più

convenzionale rispetto ai pittogrammi; il cinese moderno fa tuttora uso

di ideogrammi, per esempio, il carattere che indica il numero 3 è

composto da tre trattini, 三 sān; l’ideogramma per “su, sopra” è 上 xià,

mentre quello per “giù, sotto” è 下 běn;

o logografico se ad ogni elemento del sistema corrisponde una parola

(se ha senso parlare di parola nella lingua analizzata) o un morfema, in

maniera che la suddivisione dei significati attuata dal sistema di

scrittura sia equivalente a quella operata dalla lingua ad esso legata;

mentre nelle pittografie e nelle ideografie le unità di significato

individuate dai segni grafici possono (e spesso sono) unità più ampie

rispetto a quelle individuate dalla lingua, nelle logografie queste

tendono a coincidere; la scrittura cinese può essere definita, nel suo

insieme, logografica, ma sono logogrammi anche simboli come <&, %,

$, £, 2, ?, @> ecc. in uso in Occidente.

Un sistema cenemico può invece essere:

13
o sillabico, e si parla allora di sillabario; a ciascuna unità grafica

corrisponde una sillaba della lingua corrispondente, di solito di tipo CV;

esempi di sillabari sono i kana giapponesi, la Lineare B o la scrittura

Cherokee (che vediamo rappresentata nella pagina seguente);

o consonantico, o seguendo la denominazione proposta da Peter T.

Daniels, abjad6; questo sistema nota le consonanti ma non le vocali,

anche se esiste la possibilità di aggiungere dei diacritici vocalici per

disambiguare le sequenze consonantiche (si parla allora di abjad

impuro); questo sistema è tipico delle lingue semitiche, le quali

condividono la caratteristica di possedere delle radici lessicali

triconsonantiche da cui si formano i nomi, i verbi e gli aggettivi con

l’inserzione di vocali o con vari metodi. Di conseguenza, per chi

conosce la lingua, è facile ricavare l’ambito semantico di una parola

grafica anche senza la notazione vocalica; es. dall’arabo ‫ذﺑــﺢ‬

(traslitterato: ḏbḥ) si possono derivare: ‫ذَﺑَﺢ‬


ḏabaḥah (egli sacrificò),

ḏabaḥta (tu-masch. sacrificasti), ‫ذَﺑ ﺢ‬


َ‫ذَﺑَﺤْﺖ‬ ḏabbaḥa (egli macellò), ecc.;

6 The world’s writing systems, New York, Oxford University Press, 1996, a cura di Daniels, P. T., Bright, W. Il
nome viene da quello delle prime quattro lettere della grafia semitica.
14
Sillabario Cherokee7.

o alfabetico-sillabico o abugida8; si tratta di un sillabario in cui però

sono chiaramente identificabili gli elementi grafici che notano le

consonanti e quelli che notano le vocali; un esempio è la scrittura

Ge’ez dell’Etiopia, es. <ጠ > sta per /tæ/, <ጡ> per /tu/, <ጢ> per /ti/;

o alfabetico, vengono notate sia le consonanti sia le vocali; la base

può essere fonologica (si prendono in considerazione solo i fonemi,

ovvero le unità foniche con valore distintivo) o fonetica (vengono

annotati anche gli allofoni, nonostante la loro realizzazione sia

prevedibile per chi conosce la lingua trascritta); il primo alfabeto vero e

proprio è stato inventato dai Greci, che hanno adattato il sistema

consonantico fenicio alla struttura dalla lingua greca annotando anche

le vocali. Dall’alfabeto greco si sono poi sviluppati altri alfabeti, tra cui i

7 http://en.wikipedia.org/wiki/Cherokee_syllabary.
8 Anche questa denominazione è proposta da Daniels, P. T. e Bright,W. op. cit.
15
principali sono il latino e il cirillico; es. nella parola latina domus “casa”

a cinque grafemi corrispondo cinque fonemi: /domus/;

o featural writing o grafia di tratti9, si tratta di un alfabeto (vengono

rappresentate sia le consonanti sia le vocali) dove però i segni grafici

vengono raggruppati in quadrati virtuali, divisi secondo le sillabe

foniche o secondo criteri morfologici; inoltre, la forma grafica di alcuni

segni rappresentanti le consonanti richiama iconicamente la posizione

articolatoria necessaria per produrle. L’unica grafia di tratti ampiamente

usata da una comunità linguistica è l’hangŭl, l’alfabeto coreano, es.

ㅎ/h/ㅏ/a/ㄴ/n/ㄱ/ɡ/ㅡ/ɯ/ㄹ/l/ per /hanɡɯl/.

Naturalmente questa classificazione serve a solo a definire delle tendenze di

massima presenti nei vari sistemi di scrittura, perché sembrerebbero non esistere sistemi

puri: coesistono, in tutte le scritture, elementi cenemici e pleremici. A esempio, <h> nella

parola italiana ha veicola un’informazione grammaticale ma non corrisponde a nessun

suono; è quindi un segno pleremico. A nessuno però verrebbe in mente di supporre che

l’italiano utilizzi un sistema di scrittura logografico, perché il criterio soggiacente al

sistema è quello alfabetico; un altro esempio: il carattere cinese <晴> qíng “chiaro” è

composto da <日> rì “sole” e <青> qīng “blu/verde”; il primo elemento, il radicale, indica la

categoria semantica di appartenenza e il secondo, la chiave fonica, serve per la

pronuncia; dobbiamo quindi concludere che la scrittura cinese sia cenemica e non

pleremica? No, perché l’indicazione della pronuncia è solo uno dei metodi utilizzati dalla

scrittura cinese, che è composta, in diversa misura, da pittogrammi, ideogrammi,

composti di ideogrammi e composti fonosemantici (come l’esempio appena visto). Ci

sono anche altri tipi di scrittura misti: la scrittura giapponese implementa tutte le

possibilità date dal suo script, in quanto i sostantivi e le radici dei verbi vengono scritte

9 Cardona, G. R., Mioni, A., opera in pubblicazione.


16
con ideogrammi (kanji di origine cinese), gli infissi e le particelle grammaticali sono scritti

con il sillabario hiragana mentre le parole straniere e le onomatopee con il katakana10. In

piccola parte, anche la serie runica era un sistema misto, dato che ogni segno aveva un

valore fonetico ma conservava anche il valore simbolico corrispondente al proprio nome,

es. <A> poteva valere sia /f/ sia “bestiame”, in quanto il nome della runa era faihu

(“bestiame”, appunto, o “abbondanza”, cfr. tedesco Vieh)11. Secondo William Haas12 il

livello di un sistema di scrittura considerato è il livello più basso nel quale le operazioni di

corrispondenza lingua-grafia operano. Di conseguenza, anche se possono esserci

elementi fonici in un sistema di scrittura logografico (e ci sono sempre), o elementi

logografici in un sistema alfabetico, un sistema logografico rimane tale perché seleziona i

suoi elementi grafici in base a una segmentazione della sostanza del contenuto e un

sistema fonologico rimarrà tale perché il criterio con cui seleziona i suoi elementi si basa

sulle unità foniche pertinenti della lingua da rappresentare, quindi sulla sostanza

dell’espressione.

Una volta chiarito cosa intendiamo con SISTEMA DI SCRITTURA e individuate le

diverse tipologie esistenti, possiamo procedere definendo, sempre seguendo Coulmas13,

SCRIPT e ORTOGRAFIA:

o Uno script (o “tipo” di grafia) seleziona le modalità di espressione

grafica in accordo con la struttura della lingua da rappresentare; per

10 La scrittura giapponese è stata oggetto di diverse descrizioni che la ponevano sotto una cattiva luce a causa
della natura mista del sistema e della complessità dell’uso dei kanji, ma “[t]he Japanese writing system,
however, is associated with a highly literate and successful society, with a rich written tradition which makes full
use of its multi-scriptural potentialities for the creation of nuanced, graphically vital texts. The high degree of
literacy of Japan and the high consumption of published material suggest that the writing system is fully
functional” (Smith, J. S., “Japanese Writing”, in Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., p. 215).
11 Amadasi Guzzo, M. G., Scritture alfabetiche, Roma, Valerio Levi Editore, 1987, p. 180; Molinari, M. V., La
filologia germanica, Bologna, Zanichelli, 1987, pp. 15-18.
12 Haas, W., “Determining the level of a script”, in Trends in Linguistics, Studies and Monographs 24 - Writing in
Focus, a cura di Coulmas, F., Ehlich, K., The Hague, Mouton, 1983, p. 23.
13 Coulmas, F., op. cit.
17
esempio, il latino e il greco, pur condividendo lo stesso sistema di

scrittura, quello alfabetico, utilizzano script differenti: <a, b, c, d, e, …,

z> vs <α, β, γ, δ, ε, ...., ω>; altri tipi di script sono quello cirillico,

quello cinese, quello arabo, ecc.

o Un’ortografia seleziona le possibilità dello script prescelto

seguendo delle procedure uniformate e standardizzate di

corrispondenza tra segni grafici e unità linguistiche. Ad esempio, pur

condividendo il russo e l’ucraino lo stesso sistema di scrittura

[+alfabetico] e lo stesso script [+cirillico] non usano la stessa ortografia:

per es., <в> vale /v/ in russo e /ʋ/-/w/ in ucraino, <г> vale /ɡ/ in russo e

/ɦ/ in ucraino, ecc. Includiamo nell’ambito dell’ortografia anche l’uso,

più o meno standardizzato, dei segni di punteggiatura, degli spazi

bianchi, delle maiuscole, ecc.

2. Unità minime

Fino ad ora abbiamo parlato dei componenti dei vari sistemi di scrittura come di

elementi grafici, ma questo termine è troppo vago e si presta a diverse interpretazioni.

Dagli anni ’50 in poi, è in uso il termine di GRAFEMA, la cui definizione, però, è tuttora

problematica.

Il termine è stato coniato dai linguisti interessati alla scrittura per analogia con il

fonema. Erano gli anni del boom dello strutturalismo e l’approccio strutturalista alla teoria

fonologica stava producendo risultati molto soddisfacenti, specialmente grazie a Roman

Jakobson (1896-1982) e alla Scuola di Praga.

Tuttavia, il modello fonologico, applicato alla scrittura, non è stato assunto come

esempio strutturale ma semplicemente ricalcato meccanicamente, con scarsi risultati

18
euristici14. Fondamentalmente, ci si è limitati a elencare pedissequamente tutte le

corrispondenze grafema-fonema e fonema-grafema di diverse lingue o di stabilire fino a

che punto il grafema e il fonema potessero considerarsi omologhi. In un articolo del 1951,

E. Pulgram (1915-2005)15 stabilisce un parallelo tra fonema e grafema, descrivendo il

grafema come:

• unità distintiva minima di un alfabeto;

• una classe di caratteri;

Pulgram postula poi l’esistenza del grafo, ovvero la realizzazione scritta

momentanea di un grafema, e dell’allografo, variante di un grafema senza valore

distintivo, attuando un chiaro calco semantico del termine allofono.

Come ci fa notare Giorgio Raimondo Cardona (1943-1988)16: “la definizione di

grafema è perfettamente inutile se non è altro che un nome dotto per ‘lettera

dell’alfabeto’”, ed è in realtà in questo senso che ne tratta Pulgram. Vent’anni dopo, il

ceco Hořejší, in un articolo del 197117, sostiene che “le graphème, dans notre conception

n’est donc toujours identique ni à la lettre (…) ni au pendant graphique du phonème en

général (…) ni au pendant graphique d’un seul phonème”. Dopo aver affermato ciò,

Hořejší propone uno studio della lingua scritta come l’elaborazione di una lista di tutti i

grafonemi che la compongono, dove con grafonema si intende un grafema o un gruppo

di grafemi corrispondenti a un fonema della lingua parlata. Oltre alle corrispondenze

grafo-fonologiche, Hořejší prende in considerazione anche la distribuzione “des éléments

parlés des graphonèmes homographes et des éléments écrits des graphonèmes

14 Cardona, G. R., Antropologia della scrittura, Torino, Loescher, 1981, p. 30.


15 Pulgram, E., “Phoneme and grapheme: a parallel”, in Word, n. 7, 1951.
16 Cardona, G. R, I linguaggi del sapere, Roma/Bari, Laterza, 2002, p. 158..
17 Hořejší, W., “Formes parlées, formes écrites et systèmes orthographiques des langues”, in Folia linguistica, n.
V, 1971, p. 186.
19
homographes et homophones (…), cette distribution peut être d’une part positionnelle,

lexicale ou contextuelle, d’autre part obligatoire ou facultative18”.

Possiamo senz’altro riconoscere allo studioso ceco il merito di aver iniziato uno

studio sistematico delle corrispondenze tra scritto e orale, perlomeno nell’ambito della

lingua francese. Tuttavia, un approccio del genere può essere utilmente applicato

all’insegnamento, sia dell’ortografia della lingua materna sia dell’ortografia di una lingua

seconda, ma non pone minimamente le basi per una ricerca approfondita sul

funzionamento interno di un sistema grafico.

Assistiamo inoltre, più che a reali apporti ad una teoria del grafema, a un

moltiplicarsi di definizioni; già Allén19, nel 1965, aveva proposto grafofonema al posto del

grafonema di Hořejší, mentre Hammarström20, in un articolo del 1972, conia il termine

nunziema, sempre per esprimere lo stesso concetto.

Una decina di anni dopo, Cardona21 delinea un quadro molto chiaro riguardo alle

possibilità di analisi e definizione del grafema come unità minima di un sistema di

scrittura. Secondo lui,

a) si può chiamare grafema ogni e qualsiasi elemento grafico distinto, in

qualsiasi tradizione;

b) si può chiamare grafema ogni elemento grafico che corrisponda a un

fonema nella catena parlata;

c) si può cercare di individuare le unità minime in base alle opposizioni

effettivamente valide sul piano grafico.

Cardona propende per la terza soluzione. Naturalmente, una teoria del grafema

rischia di essere poco produttiva se si rimane eccessivamente legati all’alfabetocentrismo

18 Hořejsí, W., op. cit., p. 190.


19 Allén, S., Grafematisk analys som grundval för textedering med särskild hänsyn till Johan Ekeblads brev till
brodern Claes Ekeblad 1639-1655, Göterborg, 1965, pp. 11-53.
20 Hammarström, G., “Graphemes and nuncemes of English”, in Studia linguistica, XXVI, 1972, pp. 14-25.
21 Cardona, G. R., Antropologia della scrittura, Torino, Loescher, 1981, p. 29.
20
della linguistica occidentale. Il trattare esclusivamente caratteri dell’alfabeto latino induce

chiaramente a voler far coincidere a tutti i costi, più o meno inconsciamente, il grafema

con il fonema ad esso associato e a interpretare tutte le deviazioni dalla regolarità come

delle aberrazioni. Inoltre, la ricerca di una corrispondenza sistematica tra i due piani

(fonico e grafico) crea non poche falle metodologiche; prendiamo come esempio

l’imperfetto del verbo francese aller: j’allais, tu allais, il allait, ecc. Come dovremmo

considerare qui le corrispondenze grafia-fonia? Al di là del segno <a> iniziale che

corrisponde senza dubbio al suono [a], come procedere poi? <ll> corrisponde a [l] o uno

dei due segni <l> è da considerarsi muto? E poi, dovremmo arrivare alla conclusione che

in francese il suono [ɛ] può essere reso graficamente, tra gli altri modi, anche come <ais>

e <ait> o è meglio considerare solo il grafema complesso <ai> e attribuire un valore [Ø] a

<s> e <t>? In verità non c’è un vero criterio per stabilire quale interpretazione sia la

migliore, se non quello dell’economia22.

L’analisi di Cardona invece propone di approcciare il problema uscendo

dall’etnocentrismo occidentale, ispirandosi alla consapevolezza metagrafemica23 del

lettore e dello scrivente cinese. Nella scrittura cinese ogni carattere è composto da un

numero limitato di tratti di pennello (da 8 a 72). Non è il solo script a sottintendere una

consapevolezza della composizione in tratti: altri casi sono il pāli, il devanāgarī o la

scrittura araba, le cui lettere sono composte da ustuxvān, “ossa” .

Preso lo spunto da altri tipi di script, si può applicare questa procedura anche allo

script latino, a noi più familiare. In altri campi della linguistica si è dimostrato metodo utile

e fecondo isolare il minimo elemento pertinente dell’ambito analizzato per poi allargare lo

22 Sembra molto più conveniente la seconda possibilità, ovvero quella di considerare solo la sequenza <ai>
come grafonema e attribuire a <t> e <s> un valore morfografico.
23 Perri, A., op. cit., p. 158.
21
spettro d’azione. H. P. Althaus24 scompone tutte le unità dell’ortografia tedesca in 58

elementi consistenti in 12 tratti distintivi, sette posizioni e due simboli  e .

L’operazione di Althaus è molto raffinata ed effettivamente riesce a descrivere

tutte le lettere dell’alfabeto con delle operazioni abbastanza semplici, anche in casi come

<a> e <g> che sembrano particolarmente inadatti ad una scomposizione in tratti. J. Anis,

che tenta una scomposizione in tratti minimi dei grafemi del francese, si trova in difficoltà

di fronte a lettere complesse come <a>, tanto da considerarle come unità non

scomponibili25.

Divisione in tratti ad opera di Althaus 26.

Chiameremo dunque GRAFEMA la più piccola unità pertinente in una convenzione

ortografica data27, quindi la lettera dell’alfabeto (ma anche i segni paragrafematici) nello

24 Althaus, H. P., Graphemik, in Lexicon der germanistischen Linguistik, a cura di Althaus, H. P., Henne, H.,
Wiegand, H. E., Niemeyer, Tübingen, 1973, pp. 118-32.
25 Anis, J., L’écriture, theories et descriptions, Bruxelles, De Boeck-Wesmael s.a., 1988.
26 Althaus, H. P., op. cit.
22
script latino, il carattere nello script cinese, ecc., e TRATTI GRAFEMICI i tratti distintivi che lo

compongono.

Ovviamente, questi tratti minimi sul piano grafico non hanno alcuna

corrispondenza, se non terminologica, con i tratti fonologici individuati dagli strutturalisti

per quanto riguarda i fonemi. Se talvolta esistono delle correlazioni, sono casi limitati. Un

esempio può essere il tratto <ˇ>, ovvero l’háček, introdotto da Jan Hus (1371-1415)

nell’opera De Orthographia Bohemica (1412) per segnalare la palatalizzazione di certe

consonanti in ceco. In questo caso, ad un tratto grafemico X corrisponde un tratto

fonologico Y, ovvero <ˇ> = [+ palatalizzato]. Un altro esempio può essere il segno

dell’umlaut, che nell’ortografia tedesca può apparire su <a, o, u> per indicare

anteriorizzazione della vocale. Così, per esempio, <o> : /o/ = <ö> : /ø/. Nonostante

l’esistenza di casi come questi, in generale non vi è nessuna corrispondenza sistematica

tra la composizione di un grafema e la sua pronuncia, anche se, in diacronia poteva

esserci, e in sincronia possono crearsi dei fenomeni di natura emotivo-estetica per cui,

se in una data lingua al fonema /o/ corrisponde il grafema <o>, il parlante (e scrivente)

nativo può ritrovare una certa somiglianza iconica tra la forma della lettera e la posizione

che la bocca assume per produrre il suono corrispondente.

Però è importante ricordare che, mentre i fonemi (e quindi i tratti fonologici) sono

sempre paragonabili tra loro da lingua a lingua, i grafemi (e quindi i loro tratti grafemici)

non saranno paragonabili tra di loro, sia per ampiezza dell’inventario, sia per

complessità28.

Dobbiamo giungere alla conclusione che l’individuazione dei tratti minimi, sul

piano grafico, non sia altro che un vuoto esercizio di stile? Questi tratti hanno una loro

realtà o li stiamo solamente supponendo nella speranza di applicare produttivamente il

27 Diki-Kidiri, M., “Réflexions sur la graphématique”, in Cahiers d’études africaines, vol. 23, n. 89, 1983, pp. 169-
174.
28 Cardona, G. R., Antropologia della scrittura, Torino, Loescher, 1981, p. 29.
23
paradigma strutturalista? Ebbene, gli studi di psicolinguistica applicati alle abilità di lettura

e scrittura sembrano avvalorare l’ipotesi di una realtà psicologica dei tratti grafemici.

Secondo l’INTERACTIVE INTERACTION MODEL, elaborato da McClelland & Rumelhart 29, sono

presenti, nel riconoscimento della parola scritta, tre stadi: il livello dei tratti, delle lettere e

delle parole. A livello dei tratti, le lettere vengono scomposte in tratti ortografici primari;

ciò è dimostrato dal fatto che lettere che hanno tratti simili vengono confuse più

facilmente tra di loro (es. P-R, E-F, C-G, M-N, ecc.) a causa di un effetto di attivazione

precoce dei tratti che si propaga a tutte le lettere che li contengono. Al livello delle lettere,

esse vengono interpretate come entità astratte, indipendenti dalle loro possibili

realizzazioni grafiche (e questo dato sembra confermare, oltre alla realtà psicologica dei

tratti, anche la realtà psicologica del grafema come distinto dal grafo). Diversi modelli

postulano che avvenga una codifica in parallelo sia della lettera sia della sua posizione

nella parola. Una specifica area dell’emisfero sinistro risponde in maniera specifica più

alle lettere che ad altri stimoli visivi come numeri arabi, figure geometriche, ecc. Al livello

delle parole, una stringa di tratti e di lettere viene riconosciuta come familiare e diventano

disponibili proprietà linguistiche come la fonologia, la morfologia, la sintassi e la

semantica di quella parola.

Tuttavia esiste un altro modello per il riconoscimento della parola scritta, il

MODELLO LOGOGEN di Morton (1979)30, secondo il quale ogni parola ha una

rappresentazione, chiamata logogen che funziona come rilevatore della parola stessa. In

questo modello non vengono prese in considerazione le unità più piccole della parola, ma

ci si basa su una corrispondenza tra la parola intera e il suo logogen. L’individuazione del

logogen non si attiverebbe grazie ai tratti o alle lettere, bensì grazie al contesto sintattico

29 McClelland, J. L., Rumelhart, D. E., “An interactive activation model of context effects in letter perception: Part
1. An account of basic findings”, in Psychological Review, 88, pp. 375-407, citato in Laudanna, A., “Ortografia”
in Linguaggio, strutture e processi, a cura di Laudanna A., Voghera, M., Roma/Bari, Laterza, 2006, pp. 27-47.
30 Morton, J., “The interaction of information on word recognition”, in Psychological Review , n. 76, pp. 340-354.
24
e semantico; per esempio, una parola come cane abbasserebbe la soglia di attivazione di

altre parole semanticamente collegate come abbaiare, gatto, ecc. secondo un fenomeno

conosciuto in psicologia come priming semantico.

I due modelli non sembrano inconciliabili. È ragionevole ipotizzare che, nelle

operazioni di lettura, entrino in campo sia le unità più piccole della parola sia il contesto

sintattico e semantico. Ad ogni modo, questioni di psicologia della lettura (e della

scrittura) saranno approfondite più avanti, qui ci interessa solo postulare la possibilità che

nel riconoscimento della parola scritta i tratti grafemici vengano presi in considerazione.

Tra le possibili applicazioni pratiche di una divisione dei grafemi in tratti, Cardona

proponeva la standardizzazione di nuove scritture, la composizione di nuovi caratteri e la

programmazione di lettori elettronici31. Similmente, Holenstein32 considerava, in un

articolo del 1983, che con l’espandersi della scrittura luminosa, l’uso di monitor e di

congegni a cristalli liquidi, ecc. la divisione delle lettere in tratti minimi, il cui numero fosse

più basso possibile ma che allo stesso tempo consentisse la riproduzione di tutte le

lettere dell’alfabeto mantenendone la riconoscibilità (e, per quanto possibile, l’estetica) si

fosse reso quanto mai necessario. Oggigiorno, con lo svilupparsi della tecnica

informatica, la divisione in tratti negli schermi elettronici è ormai sempre più rara e limitata

ad alcuni orologi digitali. Le nuove tecnologie permettono la visualizzazione di qualsiasi

carattere di qualsiasi script esistente e anche inventato (da cui il proliferare, in internet, di

font disponibili per il download di lingue sia esistenti sia fantastiche), senza dover

ricorrere a una divisione geometrica del segno grafico. Le lettere, diciamo, vengono

visualizzate come unità, non ci appaiono scomposte. Ma ovviamente i due studiosi, al

tempo, non potevano esserne al corrente.

31 Cardona, G. R., I linguaggi del sapere, Roma/Bari, Laterza, 2002, pp. 156-157.
32 Holenstein, E., “Double articulation in writing”, in Coulmas, F., Ehlich, K., op. cit., pp. 45-62
25
Fatto sta che, nella risoluzione di alcuni problemi di riconoscimento di lettere

durante i primi anni dell’apprendimento scolare, prendere in considerazione la

dimensione dei tratti grafici può spiegare alcune confusioni del poor reader33 di natura

non fonologica. Il livello dei tratti nel riconoscimento visivo di una parola può spiegare

perché un bambino confonda <E> e <F> anche se /e/ e /f/ non sono fonemi simili.

Inoltre, se nella pianificazione di una nuova ortografia o nella creazione di un

nuovo sistema di scrittura capiterà (come è già capitato) di dover introdurre ex novo dei

grafemi, sarà saggio tener conto, nella costruzione dei nuovi caratteri, dei tratti già

utilizzati per gli altri grafemi esistenti. Nella creazione dell’Alfabetico Fonetico

Internazionale (1886), il linguista francese Paul Passy (1859-1940) e i suoi collaboratori

hanno probabilmente attuato questo criterio. Quando non era più possibile utilizzare

grafemi già esistenti (come <a, b, c, d…>), caratteri desueti (come <ʃ>) o lettere di altri

script (come le lettere greche <ɛ, ɸ, θ…>), hanno introdotto dei nuovi simboli

assemblando tratti di simboli preesistenti, es. <ɐ, ɒ, ɔ, ɕ, ɖ, ɟ, ɥ, ɮ, ɾ…>, in modo da non

creare un senso di estraneità troppo forte per i futuri utilizzatori dell’alfabeto fonetico.

Di opinione contraria alla nostra è Hall (1911-1997)34, il quale afferma che

“much of the ‘man-in-the-street’s’ repugnance and opposition to phonetic symbols and

transcription comes from his inability to accept or use, as distinctive graphemes, graphs

which for him are non-significant allographic variants, e.g., ɑ and a, ɛ and e, ʃ and s, ŋ

and n”. Secondo noi, invece, sarebbe inutilmente complicato inventarsi dei segni

completamente altri per un sistema di notazione fonetica. Anche chi non è esperto di

trascrizioni fonetiche può infatti intuire con facilità che simboli come <ɐ, ɑ, ɒ>

rappresentano fonemi in qualche modo simili ad /a/ e che <ɘ, ə, ɚ, ɛ, ɜ, ɝ> rimandano

a fonemi in qualche modo imparentati con /e/, e così via.

33 Secondo la terminologia classica della psicolinguistica, il poor reader è chi ha difficoltà di lettura.
34 Hall, R. A. Jr, “A Theory of Graphemics”, in Acta Linguistica, vol. 8, n. 1, 1960, p. 20.
26
3. Grafematica

Da quando esiste la scrittura, esiste anche un forte interesse da parte dell’uomo

per questa tecnologia di sua invenzione. Approcci scientifici allo studio della scrittura si

sono avuti nell’ambito di discipline come l’archeologia, la filologia, la storia, l’antropologia,

la paleografia, ecc. ma il primo a interessarsi in modo specifico alla scrittura di per sé e in

rapporto alle diverse lingue rappresentate è considerato Ignace J. Gelb (1907 – 1985),

storico polacco-americano e assiriologo di una certa fama. Nella sua opera A Study of

Writing, del 1952, propone il nome GRAMMATOLOGIA (grammatology, in lingua originale)

per la disciplina che avrebbe studiato la scrittura con un approccio scientifico. Il termine,

dal greco γραµµα “lettera dell’alfabeto”, è stato accolto da diversi studiosi, tra cui

citiamo Walter J. Ong (1912-2003), Jack Goody e Marshall McLuhan (1911-1980). Nel

1967, il filosofo Jacques Derrida (1930-2004) usa il termine per la sua opera De la

grammatologie, dove se ne serve però con un’altra accezione, quella della decostruzione

di testi letterari. Da allora, a grammatologia si preferisce l’etichetta GRAFEMATICA, e si è

istituita la “tripletta terminologica” grafo – grafema - grafematica parallela a fono – fonema

- fonematica. È vero che in ambito europeo si preferisce dire fonologia piuttosto che

fonematica, ma con grafologia si intende ormai lo studio del carattere e della psicologia di

un individuo in base alla sue produzioni grafiche manuali. Ciononostante il termine si

trova in alcuni autori impiegato come alternativa a grammatologia o grafematica, come in

un articolo di Angus McIntosh (1914-2005) del 1966, “Graphology” and meaning35 (le

virgolette sono indicative della non ufficialità del termine).

Nella storia dello studio della scrittura, l’opera finora più importante è stata

Writing Systems of the World pubblicato nel 1996 a cura di Peter T. Daniels e William

Bright (1928-2006), un volume molto dettagliato che illustra e analizza la maggior parte

35 McIntosh, A., “‘Graphology’ and meaning”, in Patterns of Language – Papers in General, Descriptive and
Applied Linguistics, a cura di McIntosh, A., Halliday, M. A. K., Longmans’ Linguistics Library, London, 1966.
27
dei sistemi di scrittura a noi conosciuti, dalle origini fino ai giorni nostri. Importante anche

il contributo di Florian Coulmas, con The writing systems of the world, del 1989, e Writing

systems: An introduction to their linguistic analysis del 2003.

Definiamo la GRAFEMATICA, nella maniera più semplice possibile, come lo studio

dei sistemi di scrittura che rappresentano sul piano grafico una lingua storico-naturale,

lasciando lo studio dei sistemi di segni grafici non linguistici ad altre discipline, come la

semiotica. Jacques Anis36 distingue tre possibili approcci allo studio della grafematica:

• il fonocentrismo, che tratta la lingua scritta come una

rappresentazione deformata della lingua orale; questo

atteggiamento caratterizza gran parte della linguistica del XX secolo,

in seguito alle posizioni assunte da figure influenti come Ferdinand

de Saussure (1857-1913) e Leonard Bloomfield (1887-1949);

• il fonografismo, che tratta la lingua scritta come una

rappresentazione strutturale della lingua orale, sottolineando anche

le caratteristiche specifiche dell’espressione grafica; questa è la

posizione del già citato Hořejší, di Vladimir Gak, e di Nina Catach

(1923-1997)37 nell’approcciarsi all’analisi sistematica dell’ortografia

francese;

• l’autonomismo, che tratta la lingua scritta come un sistema a sé

stante in interazione relativa con la lingua orale. Quest’ultima è

anche la posizione di Anis nello studio del francese scritto.

Tralasciando la prima posizione, il fonocentrismo, che nei suoi stessi presupposti

ideologici esclude la grafematica dall’ambito degli studi linguistici, ci limiteremo a

distinguere due piani della grafematica:

36 Anis, J., op. cit., p. 77.


37 Hořejší, W., op. cit.; Gak, V. G., L’orthographe du français, Paris, SELAF, 1976; Catach, N., L’orthographe
française, Paris, Nathan, 1980.
28
- la grafematica autonoma;

- la grafematica sistematica (corrispondente al fonografismo di Anis)38.

La prima si interesserà ai seguenti temi:

- sistema di scrittura prescelto (cenemico vs pleremico, logografico vs

fonografico, ecc.);

- verso e ordine sequenziale dei grafemi (destrorso vs sinistrorso vs

bustrofedico, ecc.);

- inventario dei grafemi e loro nome (es. in italiano abbiamo a, bi, ci, di, e,

effe, gi, ecc.);

- presenza o meno di allografi e loro distribuzione (es. greco antico <ς> in

posizione finale ma <σ> in tutti gli altri contesti);

- usi orto-tipografici (distribuzione delle maiuscole vs minuscole, uso del

grassetto vs corsivo vs sottolineato, segni di interpunzione, convenzioni

tipografiche di impaginazione e stampa, convenzioni negli usi manoscritti

con le corrispondenti variabili sociolinguistiche, ecc.);

- funzioni della scrittura nell’ambito sociale in cui viene utilizzata.

La grafematica sistematica si interesserà invece ai rapporti tra il significante

grafico e il significante fonico di una lingua data. Si hanno allora:

- ortografie di tipo fonologico (es. il finlandese, il turco, l’italiano); queste

ortografie annotano tutti (o quasi) i fonemi di una lingua. In linea di

massima, non tengono conto degli allofoni (es. l’italiano non distingue [n]

da [ŋ]) né della forma soggiacente (es. in turco la base kitab- “libro” dà

<kitabı> “libresco” ma <kitap> “libro”);

- ortografie di tipo morfofonologico (es. il tedesco, il nederlandese, il

russo); si preferisce mantenere intatta l’identità di un morfema anche se

38 Cardona, G. R., Mioni, A., op. cit.


29
subisce delle trasformazioni fonologiche superficiali; naturalmente si

trovano varie eccezioni e non è facile stabilire quanto in là debba andare

un processo fonologico perché venga segnalato dalla grafia (es. in

tedesco il plurale di Mann “uomo” è Männer; si preferisce <ä>

all’omofono grafema <e> per mantenere intatta l’immagine grafica della

forma di base; altro es. in nederlandese, weg “strada” si pronuncia /wɛχ/

ma si usa il grafema <g> perché al plurale si ha wegen /weɣən/; però la

parola per “casa”, huis /hœys/, al plurale fa huizen /hœyzən/);

- ortografie di tipo fonetico; in questa categoria possiamo includere, per

esempio, la grafia della lingua yakoma, parlata nella Repubblica

Centrafricana. In yakoma esiste un arcifonema /L/ che può realizzarsi

come [n], [r] o [l] a seconda dei casi, con delle complesse regole

contestuali. [n] e [l] possono anche trovarsi in opposizione distintiva a

inizio di parola. Di conseguenza, si è preferita una grafia fonetica che

annotasse <n>, <r> e <l>39; alla base di questa scelta ci sono ragioni

sociolinguistiche: la lingua yakoma è strettamente correlata con la lingua

ngbandi e la lingua sango e insieme ad esse fa parte del gruppo delle

lingue niger-kordofaniane; un’ortografia di tipo fonetico era necessaria

per permettere l’intercomunicabilità con i parlanti ngbandi e sango e

anche per annotare i numerosi prestiti dal francese.

Un’ortografia può definirsi anche:

- difettiva, se non distingue tutti i fonemi; completa, in caso contrario;

- biunivoca se ad ogni grafema corrisponde un fonema (es. lo yakut, lingua

turcica parlata in Russia), non biunivoca nel caso contrario (la maggior

parte delle ortografie, es. italiano <z>  [ts/dz]);

39 L’esempio è tratto da Diki-Dikiri, M., op. cit., p. 170.


30
- trasparente (in inglese, shallow orthography), se, una volta apprese le

regole di corrispondenza grafema-fonema e fonema-grafema, è sempre

possibile scrivere o leggere una parola, reale o inventata (è il caso

dell’italiano, dello spagnolo, della maggior parte delle lingue slave, ecc.);

- opaca (opaque orthography), se non è possibile stabilire delle regole di

corrispondenza grafema-fonema e fonema-grafema valide in tutti i casi e

in tutti i contesti ed è quindi necessario imparare a memoria l’immagine

grafica di alcune parole; anche se non è logicamente necessario, nella

realtà dei fatti si tratta sempre di ortografie storiche, che riflettono uno

stato della lingua parlata anteriore di qualche secolo rispetto allo stato

attuale (gli esempi più ovvi sono l’ortografia inglese e quella francese, ma

possiamo citare anche il danese, che scrive <og>, la congiunzione “e”,

come secoli fa, pur essendo oggi la pronuncia /ou̯/


); talvolta le ortografie

opache vengono anche chiamate profonde (deep orthographies), come

se riflettessero la forma soggiacente delle parole, lasciando al parlante

nativo il compito di applicare le semplici e naturali regole fonologiche di

trasformazione; a tutt’oggi, non ci risulta che esistano delle ortografie a

base latina che siano sistematicamente profonde, ma ci possono essere

dei casi dove la permanenza di grafemi nella scrittura per ragioni storiche

viene a coincidere con l’effettiva forma soggiacente: es. in francese,

l’aggettivo grand mantiene <d> alla forma maschile anche se la

pronuncia è /ɡʀɑ̃/ ormai da vari secoli; ma questascelta grafica si rivela

vantaggiosa nel momento in cui il femminile è grande /ɡʀɑ̃d/ e nel

momento in cui esistono nel lessico parole come grandeur, grandir,

grandissement, ecc. dove <d> effettivamente corrisponde a /d/ sul piano

fonico.

31
Questa divisione della grafematica (autonoma e sistematica) non vuole essere

assoluta. Per un’analisi esauriente dei sistemi di scrittura è necessaria una

collaborazione tra i due piani, perché spesso non è così facile dividere i due aspetti della

scrittura, quello autonomo e quello in rapporto diretto con la lingua trascritta, come non è

facile trovare un sistema di scrittura che sia totalmente pleremico o totalmente cenemico.

I due livelli si confondono, si accavallano, si fondono. I due tipi di grafematica si possono

perciò convogliare in una grafematica generale, la quale, sommando i risultati di entrambi

gli approcci, possa descrivere i rapporti esistenti tra i diversi livelli della scrittura:

- il livello indipendente dalla lingua (es. direzione, grandezza,

colore dei grafemi, ecc.);

- il livello legato alla lingua ma indipendente dall’espressione

fonica (es. grafemi usati con valore pittografico, ideografico,

logografico o di difficile classificazione; tra questi, i numeri arabi,

simboli matematici, segni di punteggiatura, grafemi alfabetici con

valore diacritico, rebus, abbreviazioni, ecc.);

- il livello legato al piano fonico (rapporti tra grafemi e fonemi).

Inoltre, una visione generale della grafematica è l’unica che ha una qualche

speranza di essere integrata in una teoria linguistica generale e che possa fornire risultati

euristici di qualche interesse. Se ci si sofferma sulla corrispondenza con il piano fonico,

non si può che concludere che qualsiasi sistema grafico si rivela imperfetto e inadatto alla

trascrizione di una lingua. Se invece si analizzano i fenomeni grafici senza tenere conto

dei suoni, si rischia di uscire dai campi di indagine propri della linguistica, perché, se è

vero che la lingua scritta ha un certo grado di indipendenza dalla lingua orale e che “[both

speech and writing] are multimodal, grammatical, productive, semantically universal and

32
dual (in having levels of meaning and nonmeaning) 40”, è anche vero che il contributo

dello studio della lingua scritta indipendentemente da quella orale è stato minimo.

Secondo Justeson41, “[w]riting (…) is indeed a distinct form of language; yet it has

demonstrated linguistic significance only when studied in relation to spoken language.

Put differently, any genuine linguistic significance in writing derives from the relation of

script to speech”. Qualcuno potrebbe obiettare che questa affermazione sia valida solo

per le scritture alfabetiche ma che i sistemi logografici possano essere studiati

indipendentemente dalla lingua orale. Per ribattere, useremo le parole di un linguista

cinese, Zhang Binglin (1869-1936)42, secondo cui la scrittura, pur essendo la

“forme aboutie du langage (…), par opposition à la forme orale, qui n’en est que la

manifestation brute”, è “matériellement issue de l’image” ma la sua essenza è fonetica.

Come ci fa notare anche Sampson43: “no semasiographic script ever used in practice has

approached the degree of generality and flexibility possessed by all spoken languages” e

ancora “in the seventeenth century it was supposed by a number of European

philosophers (…) that Chinese script was a real example of the kind of full

semasiographic system (…). It is quite wrong: Chinese script was created as a means of

representing visually a particularly spoken language, the Chinese language as it existed

at the period when the script was developed”.

Avrebbe senso studiare un sistema di scrittura indipendentemente dal piano

fonico solo se esistesse un sistema pittografico o ideografico puro, altamente

standardizzato e diffuso in una società, in cui ogni tratto grafemico avesse una qualche

40 Greenberg, J., Anthropological Linguistics: An Introduction, New York, 1968, pp. 7-17.
41 Justeson, J. S., “Universals of Language and Universals of Writing”, in Linguistic Studies offered to Joseph
Greenberg, Saratoga, California, a cura di Juilland, A., Devine, A. M., Stephens, L. D., vol. 1, Anma Libri, 1976,
p. 58.
42 Zhang Binglin, citato in Devienne, F., “Considérations théoriques sur l’écriture par deux lettrés chinois au
début du 20ème siècle. Analyse de l’œuvre linguistique de Zhang Binglin (1869-1936) et de son disciple Hunag
Kan (1886-1935)”, in Cahiers de linguistique – Asie Orientale, vol. 30, n. 2, 2001, p. 269-277.
43 Sampson, G., “Chinese Script and the Diversity of Writing Systems”, in Linguistics, n. 32, 1994, pp. 119-120.
33
significanza o perlomeno un valore distintivo in rapporto ad altri tratti e che questi valori

differenziali avessero una correlazione sul piano del contenuto. Per intenderci, una grafia

di tratti come l’hangŭl dove però la corrispondenza fosse sul piano dei tratti semantici e

non delle posizioni articolatorie. È un’evidenza storica, invece, che anche in sistemi di

scrittura che facevano un ampio uso di pittogrammi e ideogrammi, come quello egizio,

erano applicati sistematicamente procedimenti come quello del rebus, basati

sull’omofonia o sulla somiglianza fonetica. Alla luce di queste considerazioni, la nostra

posizione sarà dunque quella di una grafematica generale, o meglio, una grafematica

sistematica integrata dai risultati di una grafematica autonoma.

34
II. LA GRAFEMATICA TRA LE SCIENZE DEL LINGUAGGIO

1. Lo statuto della grafematica

Nonostante sia stata proposta e caldeggiata da molti, come abbiamo visto nel

capitolo precedente, un’integrazione a tutti gli effetti della grafematica nelle scienze del

linguaggio non è ancora avvenuta. Ormai le pubblicazioni e gli articoli scientifici al

riguardo sono molto numerosi e i contributi vengono da diverse discipline, tra cui, non

ultima, la linguistica; nonostante ciò, non si è ancora delineata chiaramente una disciplina

dello studio della scrittura facilmente identificabile e perciò, apprendibile e insegnabile.

Non stupisce che, almeno in Italia, non vi siano corsi universitari di linguistica che

abbiano come oggetto lo studio della lingua scritta e all’estero, anche se vengono attivati,

rimangono comunque curiose ed interessanti eccezioni44.

Tra i singolari paradossi della grafematica c’è quello di aver già una lunga

tradizione di studi che inizia perlomeno da quando inizia la linguistica così come la

intendiamo oggi (infatti, la linguistica tedesca del 1800 nasce dallo studio di fonti scritte e

i primi studiosi cercavano di ricostruire le forme più antiche delle lingue attraverso

comparazione di grafemi piuttosto che di fonemi; il concetto di fonema non esisteva

ancora); un altro paradosso è quello di avere già sviluppato una terminologia propria e di

aver infuocato accesi dibattiti a proposito dello statuto della lingua scritta in rapporto a

quella orale. Eppure, rispetto ad altre sezioni della linguistica, rimane una parente

povera. Lasciando da parte il nucleo centrale della linguistica (fonetica-fonologia,

morfologia, sintassi, semantica), la grafematica si trova svantaggiata anche rispetto ai

nuovi indirizzi, magari molto più recenti, come la linguistica del testo, la pragmatica, la

sociolinguistica, la psicolinguistica, la neurolinguistica. Tutti questi ambiti hanno già dei

44 Normalmente tutto l’interesse verso la forma scritta delle lingue si esaurisce nelle lezioni di pronuncia, in cui,
preliminarmente all’insegnamento della grammatica, si impartiscono agli studenti regole confuse e spesso
erronee riguardo ai rapporti tra grafia e fonia di una data lingua.
35
loro paradigmi consolidati, esponenti celebri, cattedre sparse per le università di tutto il

mondo. La grafematica ha già una storia, un oggetto di studio ben definito, un suo

armamentario terminologico, scopi, obiettivi e giustificazioni di ogni tipo, ma non ha un

metodo unitario e condiviso. Inoltre, gli studiosi che approcciano la grafematica sembrano

sempre molto più preoccupati di spiegare perché se ne occupano, piuttosto che di

impostare una volta per tutte una démarche d’indagine o di sviluppare una teoria

generale della scrittura che non si riduca a una rassegna storico-archeologica dei diversi

sistemi di scrittura, a una loro classificazione tipologica o a considerazioni filosofiche sul

ruolo della scrittura nel pensiero dell’uomo occidentale. In definitiva, molti sarebbero

d’accordo sull’interesse e l’auspicabilità della grafematica ma pochi o nessuno sembrano

aver deciso come procedere45. Vediamo a grandi linee la situazione dagli inizi del XX

secolo ad oggi.

2. La scrittura deforma, la scrittura rivela

Come abbiamo già sottolineato prima, la linguistica odierna nasce dallo studio e

dalla comparazioni di fonti scritte. Henry Sweet (1845-1912), fonetico e grammatico

inglese, fu uno dei primi a sottolineare che le parole non erano composte di lettere, ma di

unità funzionali di suono, definizione che può essere fatta tranquillamente coincidere con

quella di fonema46. Finalmente gli studiosi interessati al linguaggio umano potevano

affrancarsi dalla pagina scritta: l’avanzare della tecnologia permise agli studi di fonetica di

progredire considerevolmente e fu possibile approcciare lo studio dei suoni della lingua

senza bisogno di basarsi su annotazioni inesatte. I suoni potevano essere registrati,

45 Un interessante quadro sulla grafematica odierna e le sue possibili applicazioni di studio viene delineato da
Barbara Hans-Bianchi in “La competenza scrittoria mediale – Studi sulla scrittura popolare”, in Beihefte zur
Zeitschrift für romanische Philologie, n. 330, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2005.
46 La definizione di fonema viene solitamente attribuita allo studioso polacco Jan Niecislaw Baudouin de
Courtenay (1845-1929).
36
riprodotti, riascoltati, analizzati in spettri e l’oggetto privilegiato divennero le lingue

moderne, non le loro forme ricostruite.

Il tanto celebre passo del linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, citato poi in

tutte le opere che si sono occupate di scrittura, è da contestualizzare in questo periodo

storico, caratterizzato al malcontento verso la linguistica dell’Ottocento e dall’entusiasmo

verso le nuove scoperte della fonetica e della fonologia. Nel famosissimo Cours de

linguistique générale (1916) pubblicato postumo da due suoi allievi, Charles Bally (1865-

1947) e Albert Sechehaye (1870-1946), basandosi sugli appunti delle sue lezioni, si dice

che “lingua e scrittura sono due distinti sistemi di segni; l’unica ragione d’essere del

secondo è la rappresentazione del primo47”; gli utenti di una lingua, però, non riescono a

cogliere bene questa distinzione, perché “il vocabolo scritto si mescola così intimamente

al vocabolo parlato di cui è l’immagine, che finisce con l’usurpare il ruolo principale” e

“l’immagine grafica d’una parola ci colpisce come un oggetto permanente e solido, più

adatto del suono a garantire l’unità della lingua attraverso il tempo (…); per la maggior

parte degli individui le impressioni visive sono più nette e durevoli delle impressioni

acustiche48”. Ad ogni modo Saussure non ha mai affermato che bisognasse ignorare la

scrittura e i suoi legami con la lingua orale, anzi, “benché la scrittura sia in se stessa

estranea al sistema interno, è impossibile fare astrazione da un procedimento attraverso

il quale la lingua è continuamente rappresentata; è necessario invece conoscerne l’utilità,

i difetti e i pericoli49”. Conclude il capitolo con un’interessante dimostrazione degli effetti

della norma ortografica sulla pronuncia, elencando una serie di fenomeni di spelling

pronunciation del francese, ovvero, quel processo per cui l’imporsi dell’immagine grafica

di una parola ne ha modificato la pronuncia. Tra gli esempi, gageure, parola derivata dal

verbo gager /ɡaʒe/ con l’aggiunta del suffisso -ure /yʀ/ e che, a rigor di logica, dovrebbe

47 Saussure, F. de, Cours de linguistique générale, Roma, Laterza, 1987, p. 36.


48 Ibid., p. 37.
49 Ibid, p. 35.
37
essere pronunciata /ɡaʒyʀ/; invece, essendo in francese altamente diffuso il grafonema

complesso (o digramma) <eu> per rendere /ø/ o /œ/, molti hanno cominciato a dire

/ɡaʒœʀ/. Poi Saussure illustra anche l’esempio del cognome Lefèvre /ləfɛvʀ/ che con una

grafia antiquata viene scritto Lefebvre e interpretato Lefébure /ləfebyʀ/. Infatti, nel

Rinascimento, /u/ e /v/ non erano distinte nell’ortografia francese e spesso per segnalare

il valore consonantico del grafema venivano aggiunte delle consonanti mute con valore

diacritico (in questo caso <b> per segnalare che si tratta di /v/ e non di /y/). Una volta

distinte anche sul piano grafico <u> e <v>, la permanenza di grafie antiquate ha potuto

dar adito a questo tipo di fraintendimenti.

Le considerazioni di Saussure, di per sé, hanno il merito di focalizzare

l’attenzione sulla lingua viva e vitale, in risposta ai grammatici pedanti che al tempo

insistevano eccessivamente sul primato della lingua scritta, influenzati da secoli di

tradizione linguistica basata sui modelli del greco e del latino (lingue morte e perciò solo

scritte). L’insegnamento della lingua, sia materna che straniera, a scuola, era basato

sulla norma grafica o su un maldestro compromesso tra considerazioni di carattere fonico

e regole ortografiche.

Molti, per giustificare l’esclusione della scrittura dagli studi di linguistica si sono

aggrappati alle parole di Saussure, insistendo sul fatto che la scrittura non è lingua, ne è

solo la trasposizione o trascrizione. Costoro dimostrano di aver volutamente ignorato

però la raccomandazione dello stesso Saussure al riguardo: dare il giusto peso ai

rapporti tra lingua orale e scritta perché è impossibile ormai prescindere dalla seconda

(almeno in società letterate).

Nel 1933 un altro influente linguista esprime il suo parere sulla scrittura: si tratta

di Leonard Bloomfield nella sua opera Language50. Viene ribadito che la scrittura

50 Bloomfield, L., Language, New York, Henry Holt & co., 1933, p. 17.
38
dovrebbe essere uno specchio del parlato, ma spesso è manchevole in questa sua

funzione e si hanno imperfezioni e deformazioni.

Dopo Saussure e Bloomfield, due mostri sacri dello strutturalismo e della

linguistica, nessuno mette più in discussione il dogma del primato dell’oralità sullo scritto.

Questo primato viene inteso in due sensi: filogeneticamente, dato che nella storia

dell’umanità è emersa prima la facoltà del linguaggio orale e solo in tempi storici recenti

la scrittura; e ontogeneticamente, visto che si impara prima a parlare che a scrivere.

Inoltre, mentre un bambino impara a parlare spontaneamente, senza un insegnamento

esplicito, ciò non si verifica per la scrittura, che viene appresa dopo anni e con dei metodi

specifici. Il parlare, rispetto allo scrivere, viene anche visto nell’ottica naturale vs

artificiale, in quando si parla con il corpo, cioè utilizzando i propri organi fonatori e

articolatori, ma si scrive con degli strumenti: si ha bisogno almeno di un oggetto che

segni o graffi e di una superficie da segnare o graffiare. Infine, tutti gli esseri umani

(esclusi sordomuti, casi patologici e bambini che non sono venuti a contatto con altri

uomini per i primi anni di vita) imparano a parlare e non esistono culture senza la parola;

invece, solo una piccola percentuale delle lingue parlate nel mondo possiede una sua

versione scritta. Il criterio dell’universalità vs accidentalità è considerato la prova definitiva

del primato dell’oralità.

Questi dati di fatto sono senza dubbio innegabili. Gli studiosi che hanno trattato la

scrittura non hanno negato queste realtà, hanno bensì protestato contro l’esclusione della

lingua scritta dagli oggetti di studio della linguistica con la giustificazione della

secondarietà della scrittura.

Già nel 1932 (un anno prima, quindi, di Language di Bloomfield) Agenor

Artymovyč (1879-1935)51, membro del Circolo di Praga, considera che, nelle società

51 Artymovyč, A., “Fremdwort und Schrift”, in Charisteria Guilelmo Mathesio quinquagenario a discipulis et
Circuli Linguistici Pragensis sodalibus oblata, Praga, Pražský Linguistický Kroužek, 1932, pp. 114-118.
39
altamente alfabetizzate, la lingua scritta gode di uno statuto indipendente da quella orale,

dato che esistono parole che un parlante nativo conosce solo nella forma scritta e poi

tenta di trasporre sul piano orale. Basti pensare a tutti i termini specifici di varie discipline

scientifiche, ai neologismi che si incontrano in un testo o a parole desuete mai udite

prima. Artymovyč prende come esempio anche quei casi particolari in cui un individuo

conosce la forma scritta di una lingua straniera ma non sa parlarla.

Un altro membro del Circolo di Praga, Josef Vachek (1909-1996), pubblica nel

1939 un articolo, Zum Problem der geschriebenen Sprache52, che sarà il primo di una

serie di saggi e pubblicazioni riguardo alla lingua scritta. A Vachek dobbiamo una delle

prime definizioni della lingua scritta come distinta dall’orale: “By the term written language

we mean, tentatively, the system of graphical means employed for the purpose of

producing written utterances acceptable in the given language community53” e, riguardo

alla non universalità della scrittura, Vachek pensa che “the situation in the communities

still lacking the written utterances (and the written norms), though found in the majority of

existing cases, cannot be taken for normal or even typical: in such communities – the

number of which, in any case, is constantly diminishing – one has not yet made full use of

the latent possibilities of language. And unquestionably the goal to which language

development has been directed in any community is the highest possible efficiency of

lingual communication and the maximum development of its functional range54”. Per lui,

dunque, anche se la scrittura non è uno degli universali linguistici, dovrebbe essere

considerato uno degli ottimali linguistici. Vachek, analizza i rapporti oralità-scrittura dal

punto di vista del funzionalismo: la lingua parlata e la lingua scritta svolgono ruoli e

52 Vachek, J., “Zum Problem der geschriebenen Sprache” in Travaux du Circle Linguistique de Prague, Prague,
1939.
53 Id., Written language. General problems and problems of English, The Hague, Mouton, 1973, p. 9.
54 Ibid., p. 17.
40
funzioni molto diverse in una comunità linguistica e vanno studiate in questo senso,

senza escludere né l’una né l’altra.

La scrittura quindi, come funzionalmente diversa dalla lingua orale e come fine

ideale dell’evoluzione di una lingua. È innegabile che in società alfabetizzate la scrittura

svolga delle funzioni che la lingua orale non potrebbe svolgere con la stessa efficienza e

viceversa, ma la visione teleologica di Vachek può essere criticabile, perlomeno come

ascientifica. Risolvere la questione della non universalità della scrittura partendo dal

presupposto che le comunità che non conoscono la scrittura dovrebbero farlo non è una

considerazione oggettiva. La storia dell’umanità sembrerebbe provare, in effetti, che

nessuna civiltà che abbia raggiunto certi livelli di organizzazione sociale, tecnologia,

qualità della vita, diffusione della cultura, ecc. ignorasse la scrittura55, ma affermare

l’ottimalità della scrittura potrebbe portare a generalizzazioni pericolose. Vuol dire che le

lingue scritte sono migliori delle lingue solo orali? O che l’inglese, in quando lingua più

diffusa sotto la forma scritta e più parlata come lingua seconda, è migliore del permiano

(lingua uralica parlata da 106.000 persone)? Il punto, secondo noi, è che l’attributo della

non universalità non è di per sé significativo per escludere la scrittura dagli interessi di

studio. Bisogna allora studiare solo ciò che nei fenomeni linguistici e sociolinguistici è

universale? Rimarrebbe ben poco da dire. È un dato di fatto che in alcune culture esiste,

e svolge dei ruoli importantissimi, la pratica della scrittura e che, nonostante esistano

moltissime lingue unicamente orali, è anche vero che si tratta sempre di lingue parlate da

comunità piuttosto esigue numericamente. Le 10 lingue più diffuse al mondo (cinese,

hindi-urdu, inglese, spagnolo, arabo, bengalese, portoghese, russo, indonesiano-malese,

giapponese), che messe insieme sono parlate da 3 miliardi e 276 milioni di persone

(come lingua materna) possiedono tutte una forma scritta da diversi secoli.

55 Un’eccezione potrebbe essere la civiltà Inca. Non si è ancora però riusciti a stabilire se i quipu (combinazioni
di cordicine intrecciate in modi diversi) si possano considerare una forma di scrittura o meno.
41
Anche il filosofo e linguista danese Louis Trolle Hjelmslev (1899-1965) sosteneva

che le opposizioni allo studio della grafematica fossero irrilevanti. Per esempio, secondo

lui, il fatto che la scrittura fosse derivata dal parlato non era di per sé significativo: il fatto

che una sostanza fosse derivata non toglieva che fosse una manifestazione della stessa

forma linguistica. Inoltre faceva notare che non si può mai sapere con certezza assoluta

cosa deriva da cosa: anche se è ragionevole e altamente probabile che l’uomo abbia

conosciuto la parola prima della scrittura, non ne potremo mai essere certi. Ma il fulcro

del pensiero di Hjelmslev trova le sue radici nel postulato saussuriano secondo cui la

lingua è forma, non sostanza. Infatti “the same linguistic form may also be manifested in

writing, as happens with a phonetic or phonemic notation and with the so-called phonetic

orthographies, as for example the Finnish. (…) There can be other ‘substances’ too: we

need only think of the navy flag codes, which can very well be used to manifest a ‘natural’

language, e.g., English, or of the sign language of deaf-mutes56”. In altre parole, non è

l’essere suono che rende una lingua quello che è, ma la sua struttura di relazioni e

interrelazioni interne; pur non essendo innata, spontanea, naturale, la lingua scritta è

comunque manifestazione, con diversa sostanza, della stessa forma linguistica della

lingua orale con cui entra in rapporto.

Nel 1954, durante il Secondo Congresso Internazionale di Studi Classici tenutosi

a Copenhagen nel 1954, Hjelmslev presentò un saggio chiamato Introduction à la

discussion générale des problèmes relatifs à la phonologie des langues mortes, en

l’espèce du grec et du latin, nel quale trattava il problema della ricostruzione fonologica

delle lingue morte basandosi unicamente sulle testimonianze scritte. L’autore definì la

scrittura alfabetica come un’analisi strutturale, seppur non raffinata, degli elementi

dell’espressione necessari a differenziare i significati57. Ma, come fa notare Moretto, “se i

56 Hjelmslev, L., Prolégomènes à une théorie du langage, Paris, Minuit, 1971, pp. 103-104.
57 Moretto, P., “Louis Hjelmslev e la grafematica”, in Janus, n. 3, p. 38.
42
problemi della fonematica delle lingue morte fossero affrontati nei termini posti da

Hjelmslev, si otterrebbero ipotesi descrittive molto diverse o si arriverebbe a enunciarne

una serie di cui si dovrebbe ammettere in partenza la scarsa probabilità58”; questo non

toglie a Hjelmslev il merito di essersi occupato, tra i primi, del problema delle

corrispondenze fonema-grafema delle lingue morte. Tuttavia, la possibilità di un’analisi

linguistica che prescinda dalla sostanza viene solo proposta come ideale programmatico,

ma, usando le parole di Eli Fischer-Jørgensen, allieva del maestro danese, “on tient

compte de la substance à toute étape de l’analyse59”.

Vicino alle posizioni di Hjelmslev è un suo collaboratore e connazionale, H. J.

Uldall (1908-1957). La domanda di fondo è: che cosa si intende quando diciamo che, per

esempio, il danese scritto e il danese orale sono la stessa lingua? Secondo Uldall, quello

che condividono è la stessa forma, ciò che cambia è la sostanza. Con le sue parole, “our

something, that which is common to sounds and letters alike, is a form – a form which is

independent of the particular substance in which it is manifested, and which is defined

only by its functions to other forms of the same order60”. È perciò sbagliato considerare

una o l’altra sostanza come primaria, le due manifestazioni semplicemente coesistono.

Ciò sarebbe provato dal fatto che si può dare manifestazione fonica a una parola scritta

leggendola e si può dare manifestazione grafica a una parola detta scrivendola.

Similmente sembra pensarla anche l’americano Charles Francis Hockett (1916-2000):

“speech and writing are merely two different manifestations of something fundamentally

the same61”.

A questo punto di vista si oppone Jakobson in un saggio sulla fonetica e la

fonologia, dove afferma che “se la sostanza fonica fosse una semplice variabile, allora

58 Ibid., p. 44.
59 Fischer-Jørgensen, E., “Remarques sur le principe de l’analyse phonématique”, in Travaux du cercle
linguistique de Copenhague, n. 5, 1949, p. 231.
60 Uldall, H. J., “Speech and writing”, in Acta linguistica, n. IV, 1944, p. 12.
61 Hockett, C. F., A course in modern linguistics, New York, The Macmillan Company, 1958, p. 4.
43
l’indagine delle invarianti linguistiche esigerebbe effettivamente la sua espunzione. Ma la

possibilità di tradurre la stessa forma linguistica da una sostanza fonica in una sostanza

grafica (…), non prova che la sostanza fonica (…) si[a] [una] semplic[e] variabil[e]62”.

Prosegue poi ribadendo l’universalità dell’oralità rispetto all’accessorietà della scrittura e

paragonando quest’ultima a uno spartito musicale. Il paragone, a nostro parere, regge e

non regge; se è vero che effettivamente sia la scrittura sia la notazione musicale hanno la

funzione primaria di trascrivere dei suoni ed entrambi utilizzano oltre che segni cenemici

(segni per trascrivere direttamente suoni, come i grafonemi e le note) anche segni

pleremici (per esempio, la chiave di sol), l’unica ragion d’essere dello spartito è

effettivamente quello di essere interpretato ai fini di un’esecuzione musicale. Invece

possiamo dire che oggigiorno i testi scritti la cui funzione sia unicamente quella di essere

letti o recitati ad alta voce siano solo una percentuale, nemmeno maggioritaria, della

totalità di essi. In altre parole, non esiste, in ambito musicale, nessun equivalente della

lettura silenziosa. Siamo però d’accordo con Jakobson nel non considerare la sostanza

come una semplice variabile, perché se così fosse la lingua scritta e la lingua orale

dovrebbero essere perfettamente omogenee, cosa che non sono63; verrebbe anche a

meno l’utilità e la necessità di uno studio separato delle due, perché sarebbero identiche.

Evidentemente, la differenza di sostanza gioca un ruolo non trascurabile a livello

linguistico; le due diverse manifestazioni della lingua mantengono un grado di identità

sufficiente per poter affermare che si tratta della stessa forma linguistica, ma le differenze

tra le due possono essere numerose e importanti. La visione glossematica, quindi, pur

ponendo le basi di una teoria della grafematica autonoma con un brillante procedimento

logico, fallisce proprio nel momento i cui imposta i suoi presupposti: se la sostanza non

62 Jakobson, R., “Fonetica e fonologia”, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1976. pp. 91-92.
63 Anche supponendo un caso ideale dove il numero dei grafemi e il numero dei fonemi fosse perfettamente
uguale, sorgerebbero altri problemi riguardo alla notazione delle caratteristiche prosodiche del parlato, del ritmo
di enunciazione, delle differenze di pronuncia dei singoli parlanti e delle diverse varietà regionali, ecc.
44
conta, allora non ha nemmeno senso parlare di una grafematica come contrapposta a

una linguistica dell’oralità.

Più convincente invece l’articolo di Dwight Le Merton Bolinger (1907-1992),

Visual Morphemes64, del 1946. Secondo il linguista americano, la lingua scritta esiste

come una serie di morfemi visivi (i visual morphemes del titolo, appunto)

indipendentemente dalla loro potenziale realizzazione orale. Ciò sarebbe provato, per

esempio, dal confronto con il Braille, grazie al quale un non vedente può leggere e

comprendere delle sequenze linguistiche grazie a dei morfemi tattili. Allo stesso tempo

Bolinger puntualizza che non c’è niente di ascientifico nel postulare l’esistenza di questi

morfemi visivi, giacché effettivamente i movimenti oculari giocano un ruolo importante

nella comprensione e sono l’unico processo fisico apertamente dimostrabile nel processo

di lettura. Sull’importanza dei movimenti oculari si concentreranno poi negli anni

successivi gli studi di psicologia della lettura.

Secondo alcuni studiosi, il rifiuto da parte della linguistica di considerare la

scrittura è un atteggiamento miope e contradditorio; tutta la linguistica occidentale, infatti,

non potrebbe prescindere dal concetto stesso di scrittura e soprattutto, di scrittura

alfabetica. Secondo Walter Jackson Ong la scrittura ristruttura il pensiero; una volta che

essa è venuta alla luce, i processi cognitivi degli esseri umani che la utilizzano vengono

irrimediabilmente modificati. Inoltre essa ha il potere di oggettivizzare il linguaggio; solo

una volta che la parola viene resa un oggetto è possibile analizzarla. “La scrittura (…) è

la più drastica delle (…) tecnologie: [provoca] la riduzione del suono a spazio, la

separazione della parola dal presente immediato e vivo, nel quale possono esistere solo

parole parlate. (…) Le tecnologie sono artificiali ma (…) l’artificialità è naturale per gli

esseri umani65”. Qualche anno prima, anche Marshall McLuhan, nella sua opera più

64 Bolinger, D. L., “Visual Morphemes”, in Language, vol. XXII, n. 4, 1946.


65 Ong W., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 124.
45
celebre, La galassia Gutenberg (1962) aveva trattato, in chiave sociologica, degli effetti

dell’invenzione della scrittura (alfabetica) e della stampa nella vita e nel pensiero umani.

L’alfabeto, dissociando il suono dal referente e portando l’uomo dal “mondo magico

dell’orecchio al mondo neutro della vista66”, creerebbe una sorta di schizofrenia nell’uomo

occidentale moderno. Secondo McLuhan, solo grazie alla diffusione della stampa si è

potuto fissare una norma linguistica e regolarizzare le lingue, ovvero, creare uno

standard. La stampa è responsabile di aver modificato sia la grafia (l’aspetto delle lettere)

sia l’ortografia. Con l’introduzione di segni diacritici, si modificano l’accentuazione e

l’intonazione delle lingue, che tendono ad appiattirsi tutte sul modello lineare della pagina

stampata. E infine, punto assai importante, la stampa “re[nde] possibile la

sgrammaticatura67”, infatti “nessuno ha mai commesso un errore di grammatica in una

società non-alfabetica68”.

Quindi la scrittura non deformerebbe, come sosteneva Saussure, bensì

rivelerebbe, perché senza di essa, senza il suo potere oggettivizzante che permette

all’uomo di astrarre e analizzare, non sarebbe possibile nessuno studio scientifico dei fatti

linguistici. Questo ci porta a concludere però che, pur influenzando sia la lingua sia lo

studio di essa, la scrittura rimane inevitabilmente esterna e aliena alla facoltà del

linguaggio, rimanendo una tecnologia. Ma recentemente si è sottolineato che:

- con il diffondersi della lettura silenziosa i processi linguistici vengono

processati immediatamente attraverso la lettura senza bisogno di un

passaggio fonologico. La psicolinguistica ha dimostrato che nei processi di

lettura e scrittura esiste una via lessicale che mette in relazione direttamente

66 McLuhan, M., La galassia Gutenberg, Roma, Armando, 1976, p. 42.


67 Ibid., p. 305.
68 Ibid., p. 314; McLuhan però non porta nessuna prova a favore di questa affermazione. È plausibile supporre
che presso società non alfabetizzate esista uno standard orale condiviso e che le deviazioni dalla norma
vengano percepite e corrette, specialmente in quei casi in cui possono inficiare la comprensione di un
enunciato, come per esempio la sostituzione o omissione di un fonema o di un tono, una forma verbale
sbagliata, ecc.
46
il lessico mentale con l’output/input ortografico; esisterebbe inoltre un’area

del cervello sensibile, più che ad altri oggetti o figure, proprio ai grafemi69;

- Roy Harris, professore emerito a Oxford, ha evidenziato che “[a]ny serious

consideration of the signature immediately throws into relief the inadequacy

of the claim that writing is simply a substitute for speech. For here there is no

corresponding speech act70”; effettivamente, l’atto di firmare può essere

considerato un atto linguistico, anche se non esiste un corrispettivo orale. La

firma può essere un ottimo esempio di una sostanza propria dell’espressione

grafica, come, per esempio, i vari tipi di saluto come “ciao”, “buongiorno”,

“buonasera” sono tipici dell’oralità;

- Come la firma, anche la punteggiatura pone una serie di problemi al

linguista. Si tratta un sistema di segni non alfabetici, più o meno ideografici,

che funzionano come segni linguistici ma non hanno talvolta corrispondenza

articolatoria71. Ciò non toglie che essi siano segni linguistici, perlomeno nella

stessa misura in cui lo sono le unità prosodiche nel parlato.

Possiamo delineare un quadro, seppur provvisorio, alla luce del dibattito che

abbiamo appena presentato e che continua tuttora in ambito accademico e didattico? Per

ora possiamo limitarci a dire questo: la scrittura è una tecnologia inventata dall’essere

umano per svolgere diverse funzioni. Nel tempo, si è specializzata nell’annotazione della

lingua orale. Tuttavia, proprio a causa della maggiore sofisticatezza del senso della vista

rispetto all’udito, la scrittura ha acquisito un carattere invasivo, facendo sì che l’immagine

grafica delle parole si fissasse nella mente in modo molto più efficace e duraturo rispetto

al suono, sfuggevole per natura. Il ruolo principale della scrittura rimane, a tutt’oggi,

69 Laudanna, A., op. cit.; Ferrand, L., “Evaluation du rôle de l’information phonologique dans l’identification
des mots écrits”, in L’année psychologique, vol. 95, n. 2, 1995, pp. 293-315.
70 Harris, R. Signs of Writing, London/New York, Routledge, 1995, p. 80; un equivalente della firma sul piano
orale potrebbe essere la declinazione delle proprie generalità.
71 Cfr. Catach, N., “La ponctuation”, in Langue française, vol. 45, n. 1, 1980, pp. 16-27.
47
quello di rappresentare il parlato. I grafemi sono quindi segni di segni. Ma sono anche

segni di per sé, ovvero, non stanno solo per unità dell’espressione ma anche per unità di

contenuto. Ci sono inoltre grafemi pleremici che non hanno corrispettivo sul piano

dell’espressione fonica. La scrittura si presenta quindi come la parte del linguaggio più

conservativa e più legata all’extralinguistico, in quanto non può prescindere dal supporto

materiale e da un grado di convenzionalità estremamente elevato, dovuto al suo rapporto

con la tipografia e l’informatica. Non sarebbe scientifico interpretare i processi legati alla

scrittura come aberranti o ottimizzanti, sennò si rischia di assumere lo stesso

atteggiamento dei linguisti dell’Ottocento quando sostenevano la perfezione del sanscrito

o la superiorità delle lingue flessive sulle isolanti. Il linguista dovrebbe solo,

oggettivamente, constatare, descrivere e analizzare quei fenomeni linguistici che si

rivelano sia attraverso entrambe le sostanze dell’espressione considerate (fonica e

grafica) sia unicamente attraverso la sostanza grafica. Se si ambisce a una teoria

generale del linguaggio, non si potrà prescindere da entrambi gli aspetti.

3. Scrittura e livelli della lingua

3.1 Doppia articolazione


Una caratteristica tipica della lingua orale è la doppia articolazione. Questa

particolarità, teorizzata da André Martinet72 (1908-1999), strutturalista francese,

caratterizzerebbe il linguaggio umano in rapporto ad altri tipi di linguaggi, come quelli

artificiali. La prima articolazione del linguaggio consiste nelle unità di significato, i monemi

(come li chiama Martinet) o morfemi (come vengono definiti dai più). La seconda

articolazione invece consiste nelle unità distintive, di per sé prive di significato, ovvero i

fonemi. La lingua scritta sembrerebbe non possedere una doppia articolazione, in quanto

72 Martinet, A., Éléments de linguistique générale, Paris, Armand Colin, 1960.


48
ogni unità grafica che la compone ha un qualche significato. Il fonema /m/ non ha nessun

significato di per sé, svolge una funzione distintiva se contrapposto ad altri fonemi come

/n/, /b/, /l/, ecc. Nelle scritture alfabetiche invece, il grafema <m>, anche in isolamento,

significa sempre qualcosa; può rimandare al fonema /m/, al nome della lettera

dell’alfabeto (come emme), ecc. Nelle scritture sillabiche un grafema rimanda

immediatamente a una sillaba, in quelle logografiche a un morfema. Quindi possiamo

affermare con certezza che la scrittura non abbia una doppia articolazione? In realtà

qualcuno ha provato a dimostrare il contrario. Considerando solo le scritture alfabetiche

si potrebbe concludere che effettivamente non esistano unità puramente distintive. Ma

sappiamo che, nella realtà dei fatti, quasi nessuna ortografia è perfettamente fonologica,

ci sono sempre grafemi utilizzati con funzione distintiva. In italiano scritto ha entra in

opposizione con a; in spagnolo, hecho con echo; in inglese, two si oppone a to, too e toe;

in francese, du si oppone a dû e a due; in tedesco, Rad a Rat; in russo, плод (plod) a

плот (plot); in ceco led a let e così via, gli esempi sarebbero innumerevoli. In questi casi i

grafemi non significano nulla, hanno un qualche valore solo in quanto si differenziano

dagli altri grafemi possibili in quella data posizione. Diciamo quindi che, anche se non è la

norma, nella scrittura alfabetica è possibile la doppia articolazione.

La questione può anche essere affrontata diversamente. Non è necessario

partire da un parallelo forzato tra grafema e fonema, come se l’unica proporzione

possibile fosse morfema: fonema = fonema: grafema. Abbiamo già visto come sia

possibile e auspicabile una divisione del grafema in tratti grafemici più piccoli e come, in

alcuni sistemi di scrittura, l’analisi in tratti faccia parte della consapevolezza

metagrafemica dello scrivente. Sono questi tratti che possono essere interpretati come il

piano della seconda articolazione grafica73. La proporzione va rivista in questo senso:

73 Holenstein, E., op. cit., 45-62.


49
morfema : fonema = grafema : tratto74. Impostando la questione in questo modo, è anche

molto più agevole includere nell’analisi altri tipi di scrittura e non limitarsi, come si è

spesso tentati, a quella alfabetica. Il tratto diventa quindi un’unità priva di significato,

puramente distintiva, mentre il grafema viene a corrispondere con il morfema. Il

significato del grafema può allora essere fonico, in quei casi in cui corrisponde a un

fonema, oppure rimandare a una qualche categoria morfologica o lessicale. Abbiamo già

visto che è possibile una divisione delle lettere dell’alfabeto latino in tratti minimi. In

tipografia questa pratica esiste già da tempo e ogni parte del carattere ha un nome. Ecco

qui sotto un esempio tratto da una tavola del tipografo italiano Pellitteri75.

I grafemi, considerati come unità linguistiche, si ritrovano quindi ad assomigliare

molto di più a dei morfemi che a dei fonemi: sono proprio dei morfemi visivi, come

proponeva Bolinger. Il rapporto tra morfema, fonema e grafema non va però visto come

una gerarchia rigida dove un’unità è superiore all’altra, bensì ci sono dei processi di

corrispondenza morfema-grafema e fonema-grafema talvolta paralleli e talvolta

indipendenti, il rapporto non è orizzontale ma paritetico; a seconda della tradizione

74 Nonostante vi sia una certa simmetria tra tratti fonologici e tratti grafemici per quanto riguarda la definizione,
non vi è alcuna corrispondenza nello script latino tra tratto fonologico e tratto grafemico; questi diversi tipi di
tratto vanno considerati e studiati come entità completamente differenti.
75 Cecchini, M., Fontestesie: L’interpretazione sensoriale del carattere tipografico, tesi di laurea al Politecnico
di Milano, 2005/2006, p. 23.
50
scrittoria considerata e del tipo di rapporto che sussiste col piano orale, si potrà attribuire

un’accezione diversa al significato di doppia articolazione della scrittura.

3.2 I grafemi e il piano del contenuto


Una grafematica generale analizzerà il grafema non solo in rapporto con il suono

che rappresenta ma in base al suo significato. Seguiamo in questa operazione la

proposta di Angus McIntosh di distinguere tra significato linguistico e significato fonico.

Infatti, sia il linguaggio orale sia il linguaggio scritto simbolizzano un’esperienza mentale

ma il linguaggio scritto può anche simboleggiare il linguaggio orale. L’unità significativa

più piccola del sistema orale è il morfema, l’unità più piccola del sistema scritto è il

grafema, che però acquisisce uno statuto submorfemico76. Come ogni morfema in

isolamento possiede un significato linguistico potenziale, così ogni grafema in isolamento

ha un significato fonico (e noi aggiungeremo, anche linguistico) potenziale. Per esempio,

se incontriamo il morfema {mi} in isolamento, basandoci sulle nostre conoscenze

linguistiche, riusciamo a ipotizzare vari significati: potrebbe essere un pronome di 1°

persona singolare, o il nome di una nota musicale; questo se siamo sicuri che si tratti di

un morfema dell’italiano; se fosse spagnolo potrebbe essere un pronome possessivo, e

così via. Allo stesso modo, se incontriamo in isolamento il grafema <j> possiamo

supporre diversi significati fonici potenziali: [j, dʒ, ʒ, x, i…] e questo tenendo conto solo

delle principali lingue europee. L’approccio morfologico risolve anche alcuni problemi

teorici che si incontrano con un’analisi grafo-fonologica. Per esempio, come considerare i

grafemi che compongono i digrammi <sh> e <wh> in inglese? Dal punto di vista della

grafematica sistematica siamo costretti a postulare l’esistenza di grafonemi complessi,

ovvero due o più grafemi semplici che corrispondono sistematicamente ad un fonema sul

piano fonico. Dal punto di vista della grafematica autonoma, possiamo semplicemente

76 McIntosh, A., op. cit., pp. 98-110.


51
prendere atto delle regole grafotattiche di un dato sistema ortografico, senza però riuscire

a stabilire il grado di coesione di una sequenza di grafemi; potremo perciò solo

concludere che in inglese <wh> e <sh> sono sequenze accettabili (o per usare un

termine del generativismo, grammaticali) mentre *<vml> o *<aauu> non lo sono.

McIntosh invece, ed è quello che pensiamo dovrebbe fare una grafematica generale,

propone un parallelo tra le sequenze del tipo <sh> e <wh> sul piano grafico e parole

come understand sul piano semantico. Ci è chiaro il significato fonico di <sh> come ci è

chiaro quello di understand, conosciamo il significato fonico di <s> e di <h> e il significato

linguistico di under e di stand. Tuttavia /ʃ/ non è dato dalla somma di /s/ + /h/ e il

significato di understand non ha niente a che fare con “sottostare” o “stare sotto”, bensì

con “capire, comprendere”. Questo sottolinea anche l’importanza della posizione del

grafema e la natura non solo visiva, ma anche spaziale della scrittura77.

I risultati ottenuti con questo approccio, per quanto ovvi per chi conosce le regole

ortografiche di una data lingua, sono importanti dal punto di vista metodologico. Se si

accetta di considerare i grafemi come morfemi visivi e non come trascrizione di suoni,

bisognerà anche affrancarsi dall’applicazione forzata di modelli della fonologia

strutturalista.

La corrispondenza con il piano dell’espressione fonica, inoltre, è un aspetto della

scrittura che viene imparato molto tardivamente. La prima evidenza è storica. Sono nati

prima sistemi di scrittura pittografici, ideografici e logografici rispetto a quelli a base

fonologica. La seconda evidenza è psicologica. Pulgram78 avverte i sostenitori

dell’anarchia ortografia (un gruppo di linguisti riformatori che proponeva di abolire le

regole dello spelling) che quando si legge si percepiscono delle unità più grandi dei

singoli grafemi, presumibilmente le parole grafiche. Non si legge C-I-T-Y ma CITY e se

77 Harris, R., op. cit., p. 44.


78 Pulgram, E., op. cit., p. 18.
52
qualcuno preferisce scrivere SITI avrà difficoltà ad essere compreso. Le prime

corrispondenze che un bambino è in grado di fare sono quelle tra immagine e significato,

non tra grafemi e suoni. Prima di imparare a scrivere, un bambino riesce già a collegare il

disegno di un albero al referente esterno “albero” o la figura di un quadrato al concetto di

“quadrato”. Solo una volta che ha sviluppato le capacità cognitive necessarie a

discriminare le posizioni spaziali, le forme geometriche, le direzioni, ecc. può iniziare

l’apprendimento della scrittura vera e propria. Una volta cominciato l’insegnamento, sarà

senza dubbio più logico dire, per esempio nel caso del francese, che la sequenza grafica

<eau> sta per “acqua” (in francese /o/) piuttosto che spiegare che esiste il trigramma

<eau> che corrisponde a /o/. Infine, lo stesso fatto che la scrittura cinese, che per quanto

abbia una componente fonica rimane logografica, abbia resistito per tutti questi secoli alla

supremazia dell’alfabeto è la prova che evidentemente chi scrive in cinese non ha

problemi a far corrispondere un significato a un simbolo. Secondo il modello DRC (Dual

Route Cascaded Model of Visual Word Recognition and Reading Aloud79) la via

fonologica per il riconoscimento della parola scritta viene attivata nel caso di parole

difficili, sconosciute e non parole, mentre le parole ad alta frequenza vengono

immediatamente riconosciute come facenti parti del lessico ortografico. Ciò avviene

anche in lingue con ortografie molto trasparenti, come l’italiano. Uno dei pochi aspetti

della pronuncia dell’italiano non prevedibile in base alla grafia è la posizione dell’accento

tonico; in questi casi “high-frequency words, irrespective of stress regularity, are

pronounced (…) fast because they activate word-specific lexical phonology, which

includes specification for stress. (…) According to the DRC model, a lexical route

activating word units operates in parallel with a nonlexical route in which the

79 Coltheart, M., Rastle, K., Perry, C., Langdon, R., Ziegler, J., “DRC: A Dual Route Cascaded Model of Visual
Word Recognition and Reading Aloud” in Psychological Review, vol. 108, n. 1, 2001, pp. 204-256.
53
pronunciation of any letter string is accomplished through GPC80 rules that apply in a

serial, left-to-right fashion. The lexical route is indifferent to grapheme-phoneme

complexities and should access the pronunciation for the word as a whole correctly81”.

3.3 Grafematica e sintassi


Che cosa intendiamo quando parliamo di sintassi applicata alla grafematica?

Possiamo distinguere tra due possibili accezioni:

- La grafematica può indagare sul funzionamento di una sintassi

grafica interna alla scrittura, ovvero dell’ordine con cui i tratti e i

grafemi si dispongono nello spazio;

- Oppure si può verificare il grado di isomorfismo tra sintassi

(nell’accezione comune) della lingua parlata con quella della

lingua scritta.

Entrambi gli approcci possono portare a risultati di un certo interesse.

3.3.1 Sintassi grafica interna


Nelle scritture alfabetiche la sintassi grafica interna può essere fatta

corrispondere con le regole grafotattiche delle diverse ortografie. Si possono attuare

distinzioni tra sequenze grammaticali e agrammaticali di grafemi, per esempio

considerare quali sequenze grafiche sono considerate accettabili da un parlante nativo di

una lingua: in italiano stringhe come <ch>, <gh>, <gli> sono grammaticali, ma gruppi

come *<hc>, *<cha>, *<lgl> non lo sono. Si può considerare il criterio posizionale: in

francese <q> può apparire in posizione finale assoluta, come nelle parole <coq>, <cinq>

ma in italiano <q> può apparire solo se seguita da <u> più un grafema vocalico oppure

da un altro segno <q> (solo in soqquadro); il criterio posizionale può condizionare anche

80 Regole di conversione grafema-fonema.


81 Burani, C., Barca, L., Ellis, A. W., “Orthographic complexity and word naming in Italian: Some words are more
transparent than others” in Psychonomic Bulletin & Review, 2006, vol. 13, n. 2, 2006, p. 347.
54
la forma dei grafemi: in greco antico <・> a fine di parola doveva diventare <・>; nel

Middle English, il grafema <u> passava a <o> davanti ad altri grafemi come <m, n, v, w>

per questioni di distintività della gambe grafiche82. Nell’abjad arabo, dei 28 grafemi

dell’inventario ben 22 ammettono allografi posizionali, a seconda che appaiano in

isolamento, in posizione iniziale, interna o finale83.

Dati più interessanti possono emergere dall’analisi della scrittura cinese ed

egiziana antica: i metodi con cui la scrittura cinese tenta di esprimere i lessemi attraverso

la giustapposizione di caratteri rivela quello che possiamo chiamare una sintassi grafica

propria del cinese, relativamente indipendente dalla sintassi della lingua. I caratteri 共, 和,

国 stanno per, rispettivamente “comune”, “armonia”, “stato” ma giustapposti l’uno dopo

l’altro significano “repubblica”, infatti 中华人民共和国 sta per “Repubblica Popolare

Cinese” [tʂʊŋ˥˥xua˧˥ʐɛn˧˥mɪn˧˥kʊŋ˥˩xə˧˥kuɔ˧˥]. La sintassi grafica del cinese ricalca più i

processi lessicali di formazione delle parole piuttosto che i rapporti sintattici tra gli

elementi della frase, visto poi che si pratica ancora la scriptio continua e risulta

difficoltoso isolare le parole. A livello dei tratti, sappiamo che, nella composizione del

carattere c’è un ordine da seguire nel tracciare i segni e lo stesso vale anche per altri

script, per esempio il devanāgarī, nel quale i tratti per comporre i caratteri vanno disegnati

con una sequenza fissa e con una direzione precisa del tratto.

Un altro esempio di sintassi grafica indipendente dalla lingua parlata lo troviamo

nella scrittura egizia, dove, ad esempio, un simbolo come = era utilizzato come una

categoria semantica, il determinativo per “edificio”, e veniva posto sotto la sequenza

82 Fisiak, J., A short grammar of Middle English – Part One: Graphemics, Phonemics and Morphemics,
Warszawa/London, Polish Scientific Publishers/Oxford University Press, 1968, pp. 15-22.
83 Oltre agli allografi posizionali, esistono in diverse ortografie varianti libere, che potremmo chiamare allomorfi
grafici. Di solito l’alternanza tra diversi grafi è dovuta a ragioni tecniche: per esempio, in tedesco, se si è
impossibilitati a riprodurre l’umlaut, si può utilizzare una <e> diacritica: così <ä, ö, ü> = <ae, oe, ue>; in danese,
<å> alterna con <aa>; in lettone, <č, š, ž> nella scrittura al computer vengono spesso sostituite dai digrammi
<ch, sh, zh>; in esperanto <ĉ, ĝ, ĥ, ĵ, ŝ> alternano con <cx, gx, hx, jx, sx> o con <ch, gh, hh, jh, sh> (il metodo
con <h> è considerato più gradevole), ecc.
55
grafica che corrispondeva alla parola indicante la costruzione (casa, tomba, ecc.). C’era

quindi un senso di lettura (da destra verso sinistra) per le sequenze da rendere

foneticamente e altri sensi di lettura utili alla comprensione grammaticale. Inoltre, simboli

come w, ovvero il sole, erano spesso posti in alto e centrati, indipendentemente dal loro

ruolo grammaticale nella frase, come segno di onorificenza verso il dio Sole84.

3.3.2 Tra sintassi e prosodia: la punteggiatura


In linea generale nella lingua scritta l’ordine delle parole e delle frasi tende a

coincidere con quello della lingua orale. Le differenze sono perlopiù stilistiche,

considerato che:

- l’atto di scrivere presuppone quasi sempre un grado di formalità

maggiore rispetto a un colloquio orale;

- c’è sempre una componente di riflessione prima di accingersi a

scrivere, seppur minima; questo non avviene nel parlato non

sorvegliato.

Difatti, nella produzione di un testo scritto si tende ad usare costruzioni più

complesse, a evitare ripetizioni, ad utilizzare un registro linguistico più elevato, a preferire

l’ipotassi alla paratassi, ecc. La maggiore complessità sintattica nello scritto è

compensata dalla fruibilità illimitata del testo, il quale può essere letto e riletto infinite

volte finché non se ne capisce il senso. Se nel parlato gli snodi sintattici vengono fatti

percepire grazie ai cambiamenti di tono, nella scrittura questa funzione è attribuita ai

segni di punteggiatura. Trascurati dagli studi linguistici e dagli stessi studi grafematici,

essi nascono come indicazione prosodico-tonale per la lettura; in Occidente,

l’affermazione dei principali segni interpuntivi si ha grazie al De Aetna di Pietro Bembo

(1496) dove vengono introdotti la virgola (nella forma che ha attualmente), il punto e

84 Cfr. Cardona, G. R., Mioni, A., op. cit., e Perri, A., op. cit., p. 161.
56
virgola, l’apostrofo per indicare elisione o caduta, gli accenti. Il punto interrogativo è

introdotto in età carolingia e il punto esclamativo nella seconda metà del Trecento85.

Possiamo includere nell’ambito della punteggiatura anche gli spazi bianchi, il capo riga, il

carattere maiuscolo, la distribuzione del testo sul foglio, ecc. Come abbiamo già detto, si

tratta di segni che nascono cenemici ma che si ritrovano oggigiorno ad essere anche

pleremici. Le pause del parlato non corrispondono in maniera sistematica né alla virgole

né ai punti nello scritto. Difficile stabilire quale sia il corrispettivo fonico del punto e virgola

o del trait d’union. Prima dell’invenzione della punteggiatura, i lettori venivano aiutati da

particelle semanticamente vuote come δέ, oὖν, γάρ in greco o –que, ita, sic in latino86.

Queste particelle servivano già, oltre che per guidare la lettura ad alta voce,

all’articolazione logico-sintattica della frase, e questa doppia funzione è stata ereditata

dai segni interpuntivi.

Per quanto riguarda i rapporti con la prosodia, Lepschy & Lepschy87 distinguono

le principali curve intonative in cinque tipologie: (1) tono discendente, (2) tono

ascendente, (3) continuo, (4) discendente-ascendente, (5) ascendente-discendente, a cui

corrispondono (in italiano) le frasi dichiarative (1), le interrogative (2), dichiarative lasciate

in sospeso (3), le concessive (4) e le esclamative enfatiche (5); a seconda della tipologia

di tono e di frase si utilizzano diversi segni interpuntivi: il punto e la virgola di solito

appaiono in frasi del tipo (1) e (3); il punto di domanda in frasi di tonalità (2) per le

interrogative polari e di tonalità (1) per le interrogative aperte; il punto esclamativo in frasi

di tonalità (1) o (5), e così via.

Ma ci possono essere anche interpretazioni differenti. In una frase come <O

vieni, o mi arrabbio> la virgola segnala salita e poi discesa del tono di voce. Invece, in

85 Lepschy, A. L., Lepschy, G., “Punteggiatura e linguaggio”, in Storia della punteggiatura in Europa, a cura di
Mortara Garavelli, B., Bari, Laterza, 2008, pp. 3-21.
86 Geymonat, M. “Antichità greca e latina, cultura bizantina e latinità medievale”, in Mortara Garavelli, B., op. cit.,
p. 28.
87 Lepschy, A. L., Lepschy, G., op. cit.
57
una sequenza come <Questa è la verità – disse> il trattino indica un tono basso continuo

per la parte della frase che lo segue88.

In generale, possiamo dire che nel processo di lettura ad alta voce, la presenza

di un segno di interpunzione indurrà il lettore a fare una pausa più o meno lunga, ma ciò

non toglie che il lettore avrà bisogno di fare pause anche dove non segnalato dal testo.

Nel processo inverso, quello di dettatura, è assai probabile che chi scrive porrà segni di

punteggiatura sia dove siano effettivamente presenti delle pause nel parlato sia dove egli

percepisca che la norma grammaticale li preveda.

Per quanto riguarda i rapporti con la sintassi, la punteggiatura svolge una serie di

funzioni tra le più varie: la virgola può congiungere sintagmi, come nel caso di elenchi

(alla festa verranno Gianni, Maria, Rosa, Carlo…) ma può anche disgiungere (voglio te,

non lui). Le virgolette possono servire a riportare un discorso diretto, a enfatizzare

un’affermazione, a segnalare un uso improprio o metaforico di un termine; i puntini di

sospensione possono indicare un tono continuo sul piano prosodico o l’omissione di un

concetto. In questa funzione assomigliano al punto semplice: sia i puntini di sospensione

sia il punto possono stare per qualsiasi cosa sul piano orale; si pensi alle abbreviazioni:

in F. Fellini <.> può stare per [ederiko]; se nel fare un elenco metto i tre puntini alla fine,

quei tre puntini stanno per tutto ciò che ho scelto di non dire.

La virgola svolge un’altra importantissima funzione a livello sintattico: distingue le

frasi relative appositive da quelle attributive89: il libro, che ho qui con me, ha la copertina

bianca vs il libro che ho qui con me ha la copertina bianca. In questo caso il ruolo della

virgola è sia prosodico sia sintattico. Famoso è poi l’esempio inglese del panda che eats

shoots and leaves vs eats, shoots and leaves: le virgole ci permettono di comprendere se

il panda mangia germogli e foglie o se mangia, spara e se ne va.

88 Catach, N., “La ponctuation”, in Langue française, vol. 45, n. 1, 1980, pp. 16-27.
89 Serianni, L., Prima lezione di grammatica, Roma/Bari, Laterza, 2007, p. 123.
58
A causa del suo scarso statuto normativo, la punteggiatura ha la tendenza a

piegarsi ai gusti e alle scelte stilistiche dello scrivente e anche alle diverse convenzioni

che cambiano da lingua a lingua e a volte anche da editore a editore. In Europa, le

differenze più evidenti tra le diverse lingue, che in generale condividono l’inventario dei

segni e le norme basilari di distribuzione, sono le seguenti:

- lo spagnolo prevede <¿> all’inizio di una frase interrogativa e <?>

alla fine di essa; lo stesso procedimento viene attuato per le

esclamative: <¡> precede la frase e <!> la chiude;

- in greco, il punto di domanda non è <?> ma <;>, mentre al posto

dei due punti e del punto e virgola si usa <·>;

- in tedesco tutti i sostantivi devono avere la lettera maiuscola;

- in francese uno spazio bianco deve precedere e seguire

obbligatoriamente il punto e virgola, i due punti, il punto di

domanda, il punto esclamativo e le virgolette;

- la forma delle virgolette è diversa in Italia, in Francia, in

Germania e in Scandinavia: “amore” vs « amour » vs „Liebe“ vs

”kærlighed”;

- In danese una frase completiva deve essere introdotta

obbligatoriamente da una virgola: jeg synes, vi skal sige ”du” til

hinanden, “penso che dovremmo darci del tu”; in questo senso

un segno paragrafematico svolge una funzione equivalente a

quella di una congiunzione <,> = “che”.

Nel Vicino Oriente, possiamo segnalare che:

- l’arabo e il farsi, che si scrivono da destra verso sinistra, usano

come punto di domanda <‫ >؟‬invece di <?>, mentre l’ebraico, che

59
pur condivide lo stesso ductus, mantiene <?> come nelle lingue

occidentali;

- il sanscrito non ha conosciuto punteggiatura fino al Seicento,

secolo in cui si introdusse una barra orizzontale <|> per

segnalare la fine di una stanza ritmica e <||> per segnalare la fine

di un verso;

Vediamo anche alcune particolarità di lingue dell’Estremo Oriente90:

- la tradizione cinese condivide alcuni segni con l’Occidente: <, ! ?

; : ( ) [ ] > anche se con una forma leggermente diversa. Sono in

uso poi <。> con un valore equivalente al nostro punto, <「...」 ,

﹁...﹂ , “...” > come diversi tipi di virgolette, mentre <《... 》>

viene usato solo per citare titoli di libri; i puntini di sospensione

devono essere sei e occupare lo stesso spazio di due caratteri;

non è prevista differenza di spaziatura tra caratteri e tra parole;

- in Giappone, la forma e l’uso delle virgolette è simile a quelli che

si hanno in Cina ed esiste un punto centrale

・> (中黒 nakaguro) usato per la separazione tra parole.


<・

<〽> (庵点 ioriten o 歌記号 utakigō) serve a indicare l’inizio di

una canzone o della parte di un attore in un copione.

L’interpunzione è la parte della lingua scritta che più è influenzata dalla tipografia:

molte convenzioni grafiche sono nate per esigenze legate a questioni di carattere estetico

o economico, per esempio le virgolette sarebbero state inventate nel XVII secolo per

risparmiare sul costoso carattere corsivo91.

90 http://en.wikipedia.org/wiki/East_Asian_punctuation.
91Catach, N., “La ponctuation”, in Langue française, vol. 45, n. 1, 1980, pp. 16-27.
60
Tipici della punteggiatura sono anche, in tempi recenti, usi espressivi come la

ripetizione dei segni interrogativi ed esclamativi: <??????>, <!!!!!!!>, <?????!!!!!> e

l’interrobang <‽>, segno nato dalla sovrapposizione di <?> e <!>. I segni di punteggiatura

possono comporsi tra di loro perdendo il loro valore originario e dando forma a dei veri e

propri pittogrammi92, chiamati emoticon, ampiamente diffusi nella scrittura degli SMS e di

internet: <due punti> + <parentesi sinistra> = :) sono felice vs <due punti> + <parentesi

destra> = :( sono triste. Sintomo della loro diffusione e standardizzazione è il fatto che il

correttore di Word trasforma queste sequenze automaticamente in ☺ e .

Ricapitolando, l’interfaccia della sintassi di una lingua orale con la lingua scritta si

ha nell’ordine delle parole grafiche, nella distribuzione degli spazi bianchi,

nell’organizzazione del testo sulla pagina e soprattutto nell’uso dei segni di

punteggiatura. Questi segni sono anche in relazione stretta con le curve prosodiche della

lingua orale e con l’espressività desiderata da chi scrive. I segni interpuntivi condividono

con i numeri arabi e altri logogrammi (<£, $, %, &…>) il fatto di essere interlinguistici, ma

a differenza di questi ultimi sono più che altro ideogrammi, in quanto corrispondono non

tanto a parole o a morfemi ma a concetti grammaticali astratti o ad interi sintagmi (per

esempio, una virgola può corrispondere alla frase: “Mentre leggi, in questo punto fai una

pausa”); si tratta tuttavia di ideogrammi particolari in quanto alcuni di essi possono

combinarsi tra di loro per formare dei pittogrammi, il cui inventario è tuttora aperto.

3.4 Grafemi e fonemi


Abbiamo già trattato più volte nel testo la questione dei rapporti tra i grafemi di un

dato sistema di scrittura e i fonemi della lingua che trascrive ed è anche il punto di vista

principalmente affrontato dalle opere di grafematica. Nonostante la scrittura intrattenga

delle relazioni con tutti i piani della lingua, quello dell’espressione fonica è senz’altro

92 Nel caso si perda l’iconicità del simbolo, si può trattare di ideogrammi.


61
privilegiato. In qualsiasi tradizione culturale, la motivazione soggiacente al sistema di

scrittura utilizzato è che esso possa essere riprodotto foneticamente, o, detto altrimenti e

più semplicemente, letto ad alta voce. Procediamo quindi a definire i grafemi in base al

loro rapporto con il piano fonematico:

- un grafema può essere ambiguo se in un dato sistema

ortografico può corrispondere a più di un fonema e non sia

possibile prevedere il suo valore senza prima conoscere la

parola; ci sono ortografie che non possiedono grafemi ambigui,

come il finlandese, e altre dove essi sono molto numerosi: <a, e,

i, o, u, c, g> sono ambigui in inglese, per elencare solo i grafemi

semplici; tra i digrammi, anche <ch, gh, th> sono ambigui; pur

corrispondendo nella maggior parte dei casi, rispettivamente, a

/tʃ, ɡ, θ/, ci sono parole dove <ch> vale /k/, <gh> vale /f/ o /Ø/ e

<th> /ð/ o /t/; nelle grafie semitiche una radice triconsonantica

senza i diacritici vocalici e decontestualizzata può essere

interpretata in diversi modi, tutti plausibili; in ebraico, inoltre, <‫>ש‬

in assenza di puntazione può valere /s/ come /ʃ/; l’esistenza di

grafemi ambigui o di sequenze ambigue obbliga chi impara a

leggere e scrivere una data lingua a memorizzare l’entrata

lessicale grafica nella sua interezza;

- un grafema può essere bivalente ma non ambiguo se può

corrispondere a più di un fonema ma il suo valore può essere

previsto in base al contesto posizionale; è il caso di <c, g> in

italiano, francese, spagnolo, portoghese e rumeno (tutte lingue

romanze); così, se <c, g> si trovano davanti a <e, i> valgono

rispettivamente /tʃ, dʒ/ in italiano e rumeno, /s, ʒ/ in francese e

62
portoghese, /θ, x/ in castigliano e /s, x/ in spagnolo americano

mentre valgono /k, ɡ/ in tutte le altre posizioni; in russo i grafemi

<т, д> hanno una pronuncia palatalizzata [tʲ, dʲ] davanti a <е, ё,

и, ю, я, ь>, dentale-alveolare [t, d] negli altri casi;

- un grafema è monovalente o univoco se corrisponde sempre e

solamente a un solo fonema; è il caso della maggior parte degli

elementi di molte ortografie trasparenti europee, come il lituano,

l’ungherese, il ceco, lo slovacco;

Questo suddivisione è valida naturalmente solo per gli alfabeti e per gli abjad. Nel

caso dei sillabari un grafema verrà considerato monovalente se corrisponde sempre e

solo a una sillaba, ambiguo se può corrispondere a più sillabe, polivalente ma non

ambiguo se in base al contesto è possibile stabilire a quale sillaba corrisponde. Nel

devanāgarī, per esempio, tutti i grafemi sono monovalenti.

Per quanto riguarda le scritture logografiche o quelle miste, i rapporti tra grafema

e fonema sono mediati dal morfema ad esso corrispondenti, quindi bisognerà stabilire il

grado di affidabilità di un grafema, ovvero la regolarità con cui rappresenta sempre lo

stesso morfema. In questi sistemi è sempre necessario conoscere il morfema

rappresentato. Una categorizzazione dei grafemi in base al loro valore fonico sarebbe

priva di senso, in quanto la loro funzione primaria non è rimandare a dei fonemi ma a dei

morfemi, lasciando poi che sia il parlante a tradurre foneticamente i morfemi che già

conosce.

L’operazione opposta, ovvero partire dai fonemi per arrivare ai grafemi, ci

consente di compiere ulteriori distinzioni:

- ci sono fonemi che vengono notati sempre in maniera univoca

nella scrittura, quindi, ad esempio, /ð/ sarà sempre <ð> in

islandese e <th> in inglese;

63
- ci sono fonemi che possono essere notati in modi diversi, ma a

seconda del contesto fonico si può prevedere come verranno

trascritti; in italiano /k/ può essere trascritto <c>, <q> o <ch> ma

<q> può apparire solo seguita da <u>, mentre il digramma <ch>

non può mai essere seguito da <a, o, u> e da consonante, solo

<c> può; diremo allora che questo fonema viene annotato in

maniera contestuale;

- altri fonemi possono essere annotati in vari modi, senza che si

possa ricavare una regola; /s/ in francese corrisponde alle

seguenti grafie: <c, ç, s, sc, ss, x>; alcune possibilità possono

escludersi in base al contesto (es. <ç> appare solo davanti a <a,

o, u>) ma altre no (es. se non si conosce già la parola, non si può

prevedere che /sjɑ̃s/ si scriveràscience e non *sience, *sciense,

*sciensce, *siense, ecc.).

4. Aspetti estetici e iconici

Nello studio della scrittura è necessario ricordarsi che non si sta trattando (solo)

di unità linguistiche astratte, ma che c’è anche una componente visiva. Tutto ciò che

possiede una realtà fisica concreta e può perciò essere visto dall’essere umano, provoca

una qualche reazione nel momento in cui viene percepito. Aarni Penttilä (1899 – 1971)

affermava, in un articolo del 1970, che “[d]ie Einwirkung der geschriebenen Sprache

(meistens durch das Lesesprechen) auf die gesprochene Sprache bildet ihr eigenes

interessantes Kapitel der Sprachwissenschaft. (…) Die Erklärung derjenigen Züge, in

denen die geschriebene Sprache sich von der gesprochenen Sprache unabhängig

gezeigt hat (z. B. nachdem die Schrifttradition sich gebildet hat). Es sei hier besonders

64
auf das Bestehen der Schriftästhetik hinzuweisen93 [corsivo nostro]”. L’estetica della

parola scritta e della lettera gioca un ruolo non indifferente nello sviluppo dei sistemi di

scrittura. Se la lingua parlata intrattiene dei rapporti privilegiati con la musica attraverso il

canto, la lingua scritta li intrattiene con le arti figurative. La forma attuale dei grafemi

dell’alfabeto latino, greco e cirillico è un’evoluzione della forma originaria dei segni della

scrittura fenicia, che un tempo avevano un valore pittografico. L’esempio più celebre è la

Ἂλφα greca che deve, oltre che l’aspetto, anche il nome all’Aleph < >, lettera fenicia

che rappresentava iconicamente un bue; in seguito, ruotando, le due corna del bue sono

diventate le gambe dell’alfa. Alcuni ideogrammi cinesi rivelano ancora la loro origine

pittografica: 木 mù vuol dire “albero” ed effettivamente ne richiama la forma; in generale,

moltissime scritture (probabilmente, tutte quelle di invenzione non recentissima) trovano

la loro origine nella pittografia e quindi nel disegno.

Anche dopo la diffusione dell’alfabeto, i grafemi hanno comunque conservato, in

potenza o in atto, un qualche valore estetico. Entriamo però qui nel regno della

soggettività, in quanto non è possibile (né sarebbe scientifico) affermare la bellezza o

meno di un carattere. Nella maggior parte dei casi, si sente dire che una scrittura è bella

quando è esotica, sconosciuta, incomprensibile e possibilmente complicata da riprodurre:

da qui, la moda degli ultimi anni di richiedere tatuaggi che riproducano caratteri di

scritture orientali o simboli tribali.

4.1 Submorfemi grafici e grafie di prestigio


L’aspetto estetico, d’altronde, non è stato ignorato dalla linguistica nemmeno per

quanto riguarda la fonetica. Il linguista britannico John Rupert Firth94 (1890-1960) ha

coniato il termine fonestemi per indicare quei fonemi o serie di fonemi che tendono ad

93 Penttilä, A., “Zur Grundlagenforschung der geschrieben Sprache”, in Acta Universitatis Upsaliensis. Acta
Societatis linguisticae Upsaliensis, vol. 2.2, Uppsala, 1970, p. 55.
94 Firth, J. R., “The Use and Distribution of Certain English Sounds”, in English Studies, n. 17, pp. 8-18.
65
avere un qualche valore semantico (pur non essendo morfemi) o un qualche valore

iconico, com’è il caso delle onomatopee. Esempio di alcuni fonestemi dell’inglese sono

onomatopee come crash, bang, splash, ma anche singoli fonemi come /b/ in una serie di

parole dal significato sgradevole come barriers, bulge, bursting, banged, beaten,

battered, bruised, blister, bashed95. Similmente Leonard Bloomfield96 isola nella serie

lessicale inglese glow, glare, gleam, gloaming, glimmer, glint l’elemento fonico [ɡl] che

rimanderebbe al campo semantico della luce. Per queste entità linguistiche, uno dei

maggiori teorici della morfologia naturale, Wolfgang U. Dressler, propone, invece di

fonestema, il nome di submorfema, che definisce come la parte di un morfema dotata di

significato97.

Esistono submorfemi anche nello scritto? Secondo Bolinger sì; la sequenza

grafica <ea>, a suo parere, in inglese, suggerirebbe stranezza, goffaggine,

sconvenienza, anormalità e perciò viene spesso utilizzata con fini umoristici in grafie

come: it’s all Greak to me (Greak invece della forma standard Greek)98. La coppia di

grafemi <gh> legherebbe parole come ghost99, ghastly, ghoulish, aghast. Il grafema <h>

quindi, avrebbe una funzione unicamente espressiva, visto che la pronuncia di <gh> in

questa serie lessicale è semplicemente [ɡ].

Anche il suffisso vezzeggiativo –eau del francese può rientrare in questa

categoria. Se sul piano fonico è effettivamente un morfema a tutti gli effetti, utilizzato

nella formazione di parole che indicano il cucciolo di un animale, come lionceau,

95 Magnus, M., Gods of the Word: Archetypes in the Consonants, Truman State University Press, 1999.
96 Bloomfield, L., op. cit., p. 245.
97 Dressler, W. U., “Sketching Submorphemes within Natural Morphology”, in Naturalists at Krems, a cura di
Méndez Dosuna, J., Pensado, C., Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca, pp. 33-41, cfr. anche
Thornton, A. M., Morfologia, Roma, Carocci, 2007, pp. 64-65.
98 Bolinger, D. L., op. cit., p. 336.
99 Sembrerebbe che la grafia attuale <ghost> si debba allo scrittore William Caxton (1415/1422-1492), il
quale, dopo aver passato molto tempo nei Paesi Bassi, avrebbe acquisito alcuni aspetti della pronuncia
olandese. Quindi con quel <gh> voleva probabilmente rendere [ɣ], cfr. Mitton, R., English Spelling and the
Computer , Longman, London/New York, 1996, pp. 9-22.
66
éléphanteau, ecc. non vi è effettivamente nessuna ragione, in sincronia, per scrivere

<eau> e non <au>, <o>, <ot>, ecc. Evidentemente la sequenza <eau> è diventata un

submorfema grafico, in quanto non è solo il fonema /o/ a cui rimanda ad attribuire un

significato alla parola, ma è proprio il fatto che sia stato scelto proprio quel trigramma e

non un’altra possibile trascrizione. Un particolare tipo di submorfema grafico può essere

considerato anche l’accento circonflesso in francese. Questo segno diacritico svolge

diverse funzioni: se posto su <a> indica una vocale posteriore e lunga /ɑː/, su <e> una

vocale aperta e lunga /ɛː/ e su <o> una vocale chiusa e lunga100 /oː/; ma svolge anche

una funzione distintiva in coppie come mu / mû, cru / crû, du/dû, mur/mûr, ecc. e una

funzione etimologica per segnalare la caduta di una [s], per esempio nella parola bête

[bɛːt], un tempo [bɛstə]. Tuttavia l’accento circonflesso compare in alcune parole senza

nessuna giustificazione apparente; si tratta sempre di parole abbastanza ricercate, di

origine dotta o il cui significato sia considerato in qualche modo di ordine elevato:

monôme, binôme, icône, trône, grâce. Forse a causa del suo apparire spesso in parole di

origine greca e latina, forse proprio a causa della sua forma che richiama quella di un

cappello (chapeau, come viene talvolta chiamato affettuosamente dai francesi), il

circonflesso è diventato quello che potremmo definire un grafema di prestigio. Non a

caso gli oppositori alla riforma ortografica tentata in Francia nel 1990 si sono aggrappati

con forza in particolare alla conservazione del circonflesso, che rischiava di scomparire

da <i> e <u> e da diverse parole101. D’altronde, la storia dell’ortografia francese è piena

di episodi di sacralizzazione di particolari grafie, giungendo talvolta a dei livelli

sorprendenti, es. nel XVII secolo il circolo letterario femminista delle Preziose desiderava

riformare l’ortografia del francese attenendosi a un criterio fonologico e una delle accuse

100 Nella parlata colta parigina la lunghezza vocalica tende a non essere più distintiva.
101 Cerquiglini, B., L’accent du souvenir, Paris, Éditions de Minuit, 1981, p. 73.
67
che muoveva all’ortografia tradizionale era quella di aver acquisito un carattere fallico, a

causa della moltiplicazione di lettere allungate come <h, b, f, ʃ>102.

D’altronde, qualsiasi conservazione di lettere mute o inutili per questioni

etimologiche promuove immediatamente questi grafemi allo status di submorfemi grafici.

Parole di origine dotta che contengono radici come psycho-, philo-, thalasso-, aesthes/t-

nell’ortografia inglese, francese e tedesca mantengono elementi grafici volutamente

conservativi e ridondanti come <y, ch, ph, th, ae…> che, al di là di complicare le

corrispondenze grafema-fonema della lingua, funzionano subito come segnalatori di un

certo registro linguistico. Come il circonflesso, diventano grafemi di prestigio. Grafemi

tipici di lingue straniere di una certa influenza economica e/o culturale sono dei buoni

candidati a investirsi di questo significato. In italiano assistiamo sotto i nostri occhi a un

pullulare di grafie tipiche dell’inglese, a partire da nomi di persona come Jenny, Thomas,

Samantha, o da insegne come minymarket invece di minimarket103. Il grafema <k>, nella

scrittura veloce, specialmente quella informatica e degli SMS, sembra ai più un valido

sostituto dell’italiano <ch>; per quanto sia vero che <k> fosse diffuso anche nel Medio

Evo, è evidente che il suo ritorno in voga sia dovuto all’inglese e non a reminescenze

classiche. Da segnalare come l’introduzione di grafemi stranieri omofoni di grafemi

nazionali provochi trattamenti diversi anche a livello morfofonologico: si dice l’uovo e

l’uomo ma il whisky, il walkman anche se la pronuncia italiana della prima lettera di tutte

e quattro le parole è sempre [w].

L’esistenza di grafie prestigiose emerge con chiarezza quando si tratta di fornire

di un sistema ortografico lingue in precedenza solo orali. Si tratta quasi sempre di popoli

che erano stati colonizzati da qualche potenza europea. In Sudamerica, sia gli Otomi sia i

Quechua hanno preteso che i loro sistemi di scrittura non solo assomigliassero il più

102 Id., La genèse de l’orthographe française (XII – XVII siècles), Paris, Unichamp Essentiel Honoré
Champion, 2004, p. 133.
103 Cardona, G. R., I linguaggi del sapere, Roma/Bari, Laterza, 2002, p. 163.
68
possibile a quello spagnolo ma che ne conservassero le stesse alternanze grafiche104.

Ovviamente ci sono anche episodi opposti: se c’è ostilità verso gli ex colonizzatori, si

vorrà eliminare il più possibile qualsiasi somiglianza con l’ortografia della lingua

dominante: è il caso di alcuni gruppi tribali in Camerun che hanno rifiutato l’uso di grafemi

con valori simili a quelli del francese105. In Romania, lo script ufficiale è cambiato più volte

a seconda del tipo di governo, cirillico se filosovietico e latino in caso contrario. Nel 1860

fu definitivamente adottato il latino. Rimase solo il problema della lettera <â> /ɨ/: dal 1904,

in base all’etimologia, questo suono si trascriveva talvolta <â>, come in când < lat.

quando, talvolta <î>, come in a înţelege < lat. intelligere. Nel 1954 la Romania socialista

abolì la lettera <â> a favore di <î>, ma per molti scrivere Romînia, romîn invece di

România, român nascondeva l’origine romanza dei rumeni, che andava invece

evidenziata. Nel 1966 una riforma reintrodusse <â> solo per queste due parole. Infine,

nel 1991, la dittatura comunista fu rovesciata e la generalizzazione di <î> venne vista

come un lascito del vecchio regime. L’ortografia venne controriformata e oggi si scrive

nuovamente înţelege ma când106. Il grafema <â> quindi ha due significati: uno fonico, [ɨ],

e uno ideologico, che potrebbe più o meno essere reso come: “vogliamo evidenziare che

questa parola viene dal latino”.

Le grafie dotte, arcaicizzanti o xenofile acquisiscono spesso, agli occhi della

persona comune, un valore estetico, più che ideologico. Le ragioni per cui determinate

parole si scrivono come si scrivono si perdono velocemente nel tempo, ma il fissarsi di

una determinata forma grafica diventa tutt’uno col suo significato e viene percepita come

104 Nida, E. A., “Practical Limitations to a Phonemic Alphabet”, in Orthography Studies, London/Amsterdam,
United Bible Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a cura di Smalley, W. A., pp. 22-30.
105 Berry, J., “The Making of Alphabets’ Revisited”, in Advances in the Creation and Revision of Writing
Systems, a cura di Fishman, J. A., The Hague/Paris, Mouton, 1977, p. 5.
106 Schlösser, R., Le lingue romanze, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 113-114.
69
bella. Esemplificativo è l’aneddoto secondo cui l’Ariosto avrebbe detto che “chi leva la H

all’huomo non si conosce uomo e chi la leva all’honore non è degno di onore107”.

Un ruolo molto importante nella percezione estetica dei grafemi lo giocano i

diversi usi tipografici. Come fa notare Cecchini nella sua tesi di laurea108, la celebre

poesia Mattina di Giuseppe Ungaretti acquisisce sfumature di significato diverse a

seconda del carattere tipografico (v. immagine alla pagina precedente109). Cecchini

chiama queste percezioni sensoriali e sinestetiche del carattere tipografico fontestesie,

dalla parola inglese font. Effettivamente, possiamo supporre che in una comunità

linguistica che condivida gli stessi usi scrittori, si sviluppi una sorta di competenza

tipografica, per cui ci si abitua a conferire un determinato significato a un dato font110.

L’esempio che cita Cecchini è quello della diversità tra le insegne delle panetterie in

Europa Meridionale e quelle nei paesi del Nord Europa: in Italia e Spagna, “i caratteri

sono morbidi ed eleganti”, suggerendo “leggerezza, naturalità, morbidezza. In Norvegia e

Germania, il pane si compra quasi solo nei supermercati. Le panetterie vendono tipi di

pane particolare e il pattern tipografico scelto è più robusto, ‘croccante’111”.

107 Giraldi, C., “Dei Romanzi”, in Scritti Estetici, rist. Milano, Daelli, vol. I, 1864, pp. 141-142, citato da Migliorini,
B., Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani, 1994, pp. 347-350.
108 Cecchini, M., op. cit., p. 25.
109 Ibid.
110 In quest’ottica, il Times New Roman potrebbe essere il font di base non marcato.
111 Ibid., p. 29.
70
4.2 Distintività grafica
Oltre all’estetica, ci sono anche altre caratteristiche dei grafemi che si basano

sulla percezione visiva e contribuiscono alla formazione degli script. Si tratta del criterio di

distintività. La scrittura cinese mantiene un grado molto alto di distintività tra i vari grafemi

che la compongono, mentre le lettere delle scritture alfabetiche non compaiono sulla

pagina scritta con la stessa evidenza e prominenza112. L’alfabeto, pur essendo il sistema

più economico, è anche quello i cui elementi si differenziano scarsamente tra loro. Nella

storia della scrittura si sono perciò trovati diversi stratagemmi per ovviare a questa

insufficienza dell’alfabeto. Un esempio significativo è l’uso, in molte ortografie, del

grafema <y>. In inglese appare in posizione finale al posto di <i> perché la forma di <y> è

molto più saliente, grazie alla sua linea discendente obliqua. Quest’uso si consolidò

durante il periodo del Middle English, per segnalare la fine di parola. <y> diventò

allografo di <i> anche davanti a lettere che potevano causare facilmente confusione,

ovvero <m, n, v, w>113. Decisioni simili furono prese in Francia, anche se oggigiorno è più

evidente nei toponimi (Ivry, Vichy, Nancy) piuttosto che nei nomi propri (Henri, Marie) e

nei sostantivi (mari). La pratica, molto diffusa in Europa, di distinguere parole omofone

con l’uso di un accento diacritico rientra in questa necessità di distinzione; non a caso,

normalmente è la parola lessicale a ricevere l’accento grafico, mentre quella

grammaticale rimane non marcata; in caso di due parole grammaticali, viene marcata

quella il cui significato è meno astratto, es. italiano <è> vs <e>, <dà> vs <da>, <lì> vs

<li>, <ché> vs <che>, <dì> vs <di>, ecc.; portoghese <péla> vs <pela>; <pólo> vs

<polo>; <pára> vs <para>; <pôr> vs <por>; <pêra> vs <pera>; <côa> vs <coa>, ecc.;

spagnolo <dé> vs <de>; <él> vs <el>; <más> vs <mas<; <mí> vs <mi>; <sé> vs <se>;

112 Berry, J., op. cit., p. 11.


113 Fisiak, J., op. cit. pp. 15-22.
71
<sí> vs <si>; <té> vs <te>; <tú> vs <tu>, <cuánto> vs <cuanto>; <qué> vs <que>114 ecc.

Un’eccezione: in francese si mette l’accento su <à> preposizione invece che su <a> voce

del verbo avere (l’opposto dell’italiano, che marca con un <h> diacritico la voce verbale).

4.3 Iconicità dei grafemi


Possiamo infine chiederci se i grafemi alfabetici possiedano un qualche valore

iconico che li renda più adatti di altri a formare certe parole o a rimandare a certi suoni.

Secondo la fonosemantica, il fonema /r/ suggerisce movimento, mentre /s/ qualcosa

come scivolare, strisciare, scorrere. Similmente, potremmo ipotizzare un certo potenziale

di iconicità anche di alcuni grafemi e di alcune parole grafiche. Per esempio, una scrittura

alfabetica sarà più iconica di una sillabica per quanto riguarda la resa della lunghezza di

una parola. Ancora meno iconica sarà una scrittura logografica, che però,

potenzialmente, potrà esserlo di più per quanto riguarda il concetto a cui la parola si

riferisce. Il carattere cinese 日rì rimanda più facilmente della sequenza <sole>

dell’italiano all’idea di “sole”, ma <sole> esplicita la presenza dei quattro fonemi necessari

per esprimere il concetto “sole”. La lingua indonesiana esprime il plurale duplicando la

parola: orang “uomo”, orang-orang “uomini”115, che però talvolta si trovava scritto orang2.

Il criterio di velocità di scrittura qui è inversamente proporzionale al principio dell’iconicità

di ricostruzione116 postulato da Dressler e altri studiosi della morfologia naturale.

Nonostante quello che si potrebbe supporre, l’abitudine, in alcune ortografie (italiano,

finlandese, ecc.), di segnalare la lunghezza consonantica con il raddoppiamento del

grafema corrispondente non ha un elevato grado di iconicità, tanto che gli errori

ortografici in questo ambito permangono lungo tutto il cammino scolastico e anche oltre e

114 Cfr. Fontinha, R. F., Epítome de gramática portuguesa elementar, Porto, Editorial Domingo Barreira, 1946,
pp. 32-39, e Gómez-Torrego, L., Gramática didáctica del español, Madrid, Zanichelli, 2002, pp. 416-478.
115 Thornton, A. M., op. cit., p. 164.
116 Secondo questo principio, sono più naturali le forme nelle quali la struttura del significante è in qualche modo
parallela a quella del significato (cfr. Dressler, W. U., Mayerthaler, W., Panagl, O., Wurzel, W.U., Leitmotifs in
Natural Morphology, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, 1987).
72
uno studio sull’apprendimento del finlandese scritto dimostrerebbe che i bambini, nella

notazione delle geminate, devono aiutarsi con la struttura morfologica delle parole: hanno

più probabilità di scrivere correttamente le consonanti doppie nelle desinenze di caso

piuttosto che nelle radici lessicali117.

Un altro tipo di iconicità può essere collegato alle posizioni articolatorie

necessarie per produrre i suoni della lingua. Esemplare in questo senso è il già citato

hangŭl. In verità questo tipo di scrittura è iconico in due sensi: i grafemi corrispondenti

alle consonanti richiamano delle posizioni articolatorie, mentre la disposizione dei grafemi

in dei quadrati virtuali rimanda all’organizzazione in sillabe del parlato. Vediamo alcuni

esempi:

- ㄱ [k], ㅋ [kʰ], le consonanti velari rappresentano la parte inferiore

della lingua che tocca il velo del palato;

- ㄴ [n], ㄷ [t], ㅌ [tʰ], ㄹ [ɾ, l], le consonanti coronali raffigurano la

punta della lingua che tende verso gli alveoli;

- ㅁ [m], ㅂ [p], ㅍ [pʰ], le consonanti labiali rimandano alle labbra

che si incontrano;

- ㅅ [s], ㅈ [tɕ], ㅊ [tɕʰ], le consonanti sibilanti rappresentano una

veduta di lato del dente;

- ㅇ [ʔ, ŋ], ㅎ [h], le consonanti glottali raffigurano la gola;

- I caratteri si dispongono in blocchi sillabici: sarami, cioè “uomo”,

viene scritto <sa> - <ram> - <i>, dove <i> è isolato perché è una

terminazione di caso118.

117 Lehtonen, A., “Sources of Information Children Use in Learning to Spell: The Case of Finnish Geminates”,
in Handbook of Orthography and Literacy, Oxford/New York, Routledge, 2006, a cura di Malatesha Joshi, R.,
Aaron, P. G., pp. 63-80.
118Anselmo, V., La traslitterazione del coreano, Napoli, Istituto Universitario Orientale, Seminario di
Yamatologia, 1973, p. 5.
73
Ovviamente per lo script latino (come per quello greco e cirillico) non si possono

trovare simili corrispondenze sistematiche. In diacronia, l’iconicità di alcuni caratteri

riguarda la loro origine pittografica. In sincronia, possiamo prudentemente supporre che

alcuni grafemi possano suggerire qualcosa sulla loro pronuncia o comunque sembrare

più adatti di altri a rappresentare un determinato suono:

- <o>, che in moltissime lingue sta per /o/, può far pensare, in

modo simile alle consonanti labiali dell’hangŭl, alla posizione

della bocca per emettere il suono; lo stesso per <v> nelle

tradizioni ortografiche dove sta per /v/: la sua forma può ricordare

l’atto di appoggiare i denti sul labbro inferiore; nella scrittura

corsiva, anche <a > può ricordare l’apertura della bocca per

pronunciare /a/;

- la forma di <s> può far pensare a concetti come “serpente,

sibilare, scivolare, scorrere”, venendo a coincidere con il

fonosimbolismo tipico di /s/;

- la forma minuta e poco marcata di <i> rispetto a tutte le altre

lettere dell’alfabeto può facilitare l’associazione con il suono

anteriore /i/; questa iconicità viene meno, per esempio, in

inglese, dove spesso sta per /aɪ/;

- anche se non rimandano direttamente al suono rappresentato,

possiamo individuare una certa coerenza interna nella

somiglianza grafica tra <b> e <p>, entrambe labiali; <c> e <g>, in

varie lingue entrambe velari o entrambe palatali; <i> e <j>,

entrambe rappresentanti suoni palatali (tranne che in spagnolo);

<m> e <n>, tutt’e due nasali, <s> e <z>, entrambe sibilanti, <u>,

<v>, <w> tutt’e tre labiali;

74
- nelle ortografie delle lingue scandinave, <i> sta per /i/, <u> per

/u/ e <y> per /y/; sul piano grafico, <y> sembra una buona

soluzione per rappresentare una via di mezzo tra <i> e <u>;

- possiamo ipotizzare anche un certo nesso tra l’uso molto

generalizzato dei grafemi <j> e <y> per rappresentare il glide /j/ e

il fatto che essi possiedano una linea discendente che trasmette

un senso di taglio o velocità.

Naturalmente si tratta di supposizioni e le eccezioni sono numerosissime: per

esempio, la somiglianza tra <p> e <q>, <c> e <e>, <F> e <E>, <N> e <Z>, ecc. non

sembra aver nessun riscontro sul piano fonosemantico. A nostro favore però, possiamo

citare il caso dell’insegnamento del castigliano in Argentina nel XIX secolo: nell’area del

Rio de la Plata si era diffuso lo yeísmo, ovvero la neutralizzazione dei due fonemi dello

spagnolo /j/ e /ʎ/ a favore del primo. Il rehilamiento tipico dell’area argentina aveva poi

portato la pronuncia da /j/ a /ʃ~ʒ/. Ebbene, gli insegnanti cercavano di censurare il “brutto

vizio” di pronunciare il digramma <ll> come /ʃ~ʒ/, ma nessun tentativo in questo senso

veniva fatto per <y>. Evidentemente, il fatto che <ll> richiamasse <l> spingeva alla

restaurazione di una pronuncia artificiale lateralizzata, mentre la forma di <y> non

suggeriva niente di tutto questo119. In italiano, la serie palatale sonora è indicata con una

certa coerenza: <g, gi, gli, gn> con <g> che veicola i tratti di [+ sonoro, + palatale];

ancora più coerente è la scelta dell’ortografia portoghese, che usa <h> in modo

consistente come indice di palatalizzazione: <ch, lh, nh> per /ʃ, ʎ, ɲ/; non stupisce invece

che in francese e in spagnolo, lingue dove i fonemi palatali sono particolarmente instabili,

l’ortografia non sia coerente: <ch, y~ll, ñ> in castigliano per /tʃ, j~ɟ~ʝ~ʎ, ɲ/ e <ch, j, il~ill~ll,

gn> in francese per [ʃ, ʒ, j, ɲ~nʲ].

119 Elizaincín, A., Malcouri, M., Coll, M., “Grafemática histórica: seseo y yeísmo en el Río de la Plata”, in
Estudios de grafemática en el dominio hispano, a cura di Blecua, M. J., Gutiérrez J., Sala L., Salamanca,
Ediciones Universidad de Salamanca, 1998, p.81.
75
Ad ogni modo, sarebbe interessante uno studio che indaghi sull’esistenza di un

possibile richiamo iconico tra forma di un grafema e il suono che rappresenta, ma, a

nostra conoscenza, non è ancora stato fatto. Oltre a questo, sarebbe anche da

considerare l’ottimalità di alcune forme rispetto ad altre: probabilmente esistono grafemi

più facili da memorizzare, cognitivamente più adatti ad essere usati per la

comunicazione. Cardona cita uno studio di Clark & Clark al riguardo: “Una forma sarà

una Gestalt ottimale se è chiusa, simmetrica, ammette pochi mutamenti di contorno, ecc.

(…) Una lingua può non avere alcun nome per designare delle forme; qualora però ne

abbia, l’ipotesi cognitiva vuole che essa dia nome alle forme ottimali. Un test (…) con due

gruppi di Dani, che non possiedono alcun nome di base per le forme geometriche, ha

dimostrato che essi apprendevano più rapidamente i nomi delle configurazioni ottimali120”.

A nostro avviso, comunque, nella progettazione di riforme e pianificazioni di

ortografie, nuove o tradizionali, non si è tenuto mai sufficientemente conto del significato

estetico, emotivo, iconico e simbolico che la comunità di scriventi attribuisce ai grafemi

che utilizza. Però, capita spesso che proposte ortografiche scientificamente ineccepibili e

attente anche a risvolti sociolinguistici e alla storia dei diversi paesi coinvolti, vengano

rifiutate dalla comunità linguistica in nome di attaccamenti irrazionali a determinate grafie.

Un’analisi più approfondita di questi fenomeni sociali non potrà ignorare l’aspetto estetico

e iconico della scrittura.

120 Clark, H. H., Clark, E. V., Psychology and language, Brace and Jovanovich, New York, 1977, citato da
Cardona, G. R., I linguaggi del sapere, Roma/Bari, Laterza, 2002, p. 94.
76
III. ALFABETOCENTRISMO E FONOCENTRISMO

1. Democraticità e ottimalità dell’alfabeto

Secondo Thomas Sebeok (1920-2001)121, la facoltà del linguaggio, inizialmente,

nell’homo sapiens, corrispondeva alla facoltà di modellazione primaria della realtà, cioè

un’analisi dell’ambiente che lo circondava. La nostra specie finì poi con riadattare il

linguaggio a scopi comunicativi con una serie di manifestazioni (più o meno lineari):

prima il parlato, poi lo scritto, ecc. Similmente, la scrittura conosce un’evoluzione negli usi

e nelle applicazioni, che variano sia cronologicamente sia a seconda delle diverse

società. La visione occidentale di tale evoluzione è teleologica122: si interpreta la storia

della scrittura come un miglioramento che a partire dalla pittografia trova l’apice della

perfezione nell’alfabeto greco; il principio alfabetico è considerato allo stesso tempo

causa ed effetto di un elevato grado di civilizzazione e di sviluppo cognitivo; di

conseguenza, sistemi diversi dall’alfabeto (es. quello cinese) sono considerati inferiori e

le ortografie opache (come l’inglese) inferiori a quelle trasparenti (es. finlandese,

spagnolo, ceco, ecc.).

Questo punto di vista è già presente ed esplicito nell’opera di Ignace Gelb, A

Study of Writing, dove lo studioso vede la storia della scrittura come un’evoluzione

lineare: dal principio logografico si passerebbe, inevitabilmente, a quello sillabico, per poi

approdare a quello alfabetico123. La posizione di Gelb è stata criticata da moltissimi

studiosi in quanto semplicistica. Peter T. Daniels124 in particolare, nell’introduzione al suo

Writing Systems of the World, sostiene che non si può parlare di evoluzione nel caso

delle scritture, casomai di miglioramento. Il termine “evoluzione” non è applicabile a

121 Sebeok, T., A sign is just a sign, Milano, Spirali, 1998, p.78.
122 Cardona, G. R., op. cit., 1981, p. 34.
123 Gelb, I., A Study of Writing, Chicago, Chicago University Press, 1952 (ristampa 1963), pp. 236-240.
124 Daniels, P., Bright, W., op. cit., pp. 3-17.
77
prodotti della mente umana. Non è necessario, ma solo possibile, che da un sistema

ideografico si passi a uno logografico e poi sillabico e poi alfabetico. Oltre a questo, non è

detto che il principio alfabetico (e perciò fonologico) sia in assoluto la scelta migliore che

si possa fare nella progettazione ed elaborazione di una scrittura. Richard L. Venezky

(1938-2004), in un suo lavoro sull’ortografia inglese, afferma che “[the fact] that homo

sapiens is somehow more at ease with a one-letter one-sound system has often been

assumed, but no evidence has ever been produced to substantiate this limitation on

man’s mental capacities125”. Anche Coulmas fa notare che “[o]ne of the commonplaces of

the Western tradition which is seldom called into question is the notion that the Greco-

Latin alphabet constitutes the end and the pinnacle of the development of writing. In

Western scholarship it has been called ‘a key to the history of mankind’ (David

Diringer)126 and ‘democratic’ as opposed to ‘theocratic’ scripts. I call this commonplace

‘alphabetocentrism’. From a Near- and Far-Eastern point of view its validity is not so

evident. Japanese kana, for example, is much simpler and more elegant than almost all

scripts using an alphabetic notation. The system is so simple that children can be

expected to have mastered it before they enter elementary school. There is no need to

teach it there127”. L’atteggiamento dominante tra gli studiosi occidentali descritto da

Coulmas può essere rintracciato anche in Ong, il quale nutre una tale fiducia

nell’ottimalità dell’alfabeto da pronosticare che “non c’è dubbio che i caratteri [cinesi]

verranno sostituiti dall’alfabeto [latino], non appena tutta la popolazione della Repubblica

Popolare Cinese conoscerà la medesima lingua128”; più avanti, insiste sulla democraticità

del principio alfabetico, in quanto può essere utilizzato per trascrivere lingue diverse,

125 Venezky, R. L., The Structure of English Orthography, The Hague/Paris, Mouton, 1970, p. 120.
126 Diringer, D., The Alphabet: A Key to the History of Mankind, New York, Funk & Wagnalls, 1880.
127 Coulmas, F., “Back to the Future: Literacy and the Art of Writing in the Age of Cyberspace”, articolo
presentato al IX Congresso Internazionale dell’Associazione Italiana di Linguistica Applicata (AITLA), Pescara,
20 febbraio 2009, pp. 6-7.
128 Ong, W., op. cit., p. 130.
78
facilmente apprendibile anche da bambini molto piccoli e cita lo studio di un certo

Kerckhove129 secondo cui l’alfabeto favorirebbe anche l’attività dell’emisfero cerebrale

sinistro130. Ma questa presupposta democraticità dell’alfabeto, nella realtà dei fatti, è un

reale deterrente per affermarne la superiorità? Ed è veramente democratico?

Probabilmente nelle basi sì. Vengono isolate delle unità fonologiche in una lingua data

per ottenere un repertorio di grafemi di un numero relativamente basso e perciò

facilmente memorizzabile; questi grafemi si combinano poi in innumerevoli modi,

permettendo di trascrivere tutte le parole della lingua scelta e anche di trascrivere lingue

straniere. Effettivamente, per quanto riguarda la trasposizione di parole di altre lingue,

l’alfabeto si dimostra senz’altro più funzionale di qualsiasi altro sistema; tra gli universali

della scrittura di Justeson131 troviamo al punto [7] che “[a]lphabets are more likely to

represent loan-word phonemes separately than are syllabaries [corsivo nel testo

originale]”. Tra gli altri “pregi” dell’alfabeto elencati da Justeson, troviamo che gli alfabeti

distinguono gli allofoni molto più spesso di quanto non facciano i sillabari (punto [9]) e

che i sillabari tendono, più degli alfabeti, a non rappresentare tutti i fonemi di una lingua

(punto [11]). Fin qui i fatti sembrano dare ragione agli alfabetocentristi, anche se ci si può

chiedere se sia davvero tutto così semplice. Innanzitutto, se è vero che, proprio per la

sua struttura, l’alfabeto è più adatto a trascrivere fonemi di diverse lingue, è anche vero

che, una volta che ve ne sia la necessità, qualsiasi cultura trova il modo per

rappresentare i prestiti lessicali: in Cina si usa la trascrizione latina ufficiale, l’hànyŭ

pīnyīn 汉语拼音 “traslitterazione della lingua degli Hàn” per le parole di origine straniera,

mentre per il lessico nativo resiste la scrittura tradizionale; in Giappone è in uso il

katakana 片仮名, sillabario preposto alla trascrizione di parole straniere, soprattutto di

origine inglese, e di nomi propri intraducibili (ciò comporta ovviamente un’inevitabile

129 Kerchkove, D. de, “A theory of Greek tragedy” in Sub-stance, Madison, University of Wisconsin, 1981.
130 Ong, W., op. cit., p. 133.
131 Justeson, J. S., op. cit.
79
approssimazione fonetica, es. William Shakespeare diventa ム・シェイクスピア , ovvero

Wiriamu Sheikusupia); nelle culture come quella ebraica o quella araba, è sufficiente

aggiungere la notazione vocalica all’abjad in uso. Per quanto riguarda la maggiore facilità

di apprendimento dell’alfabeto rispetto ad altri sistemi di scrittura, la semplicità sta tutta

nel basso numero di grafemi. Infatti, il criterio alfabetico poggia sul principio della

segmentazione fonologica, che di per sé, non sarebbe naturale per l’essere umano.

Sempre secondo Daniels, “[i]t is no coincidence that the two oldest writing systems,

Sumerian and Chinese, are both logosyllabic and both recorded languages of basically

monosyllabic structure – that is, in both languages morphemes generally comprise a

single syllable. (…) When it then emerged (…) that Mayan glyphs constitute a script

remarkably similar to the Sumerian and the record a language also of a similar typology,

then this began to look less and less coincidental132” e ancora “investigations of language

use suggest that many speakers do not divide words into phonological segments unless

they have received explicit instruction in such segmentation comparable to that involved

in teaching an alphabetic writing system. (…) alphabetic writing is based on a

phonological unit that is arguably not a natural unit 133”. Contro l’ideale di un’ortografia

fonetica con un rapporto grafema-fonema di corrispondenza 1:1, Vachek dichiara che

“the phonetic (…) transcription (…) is not capable of ‘speaking to the eyes’ as quickly and

distinctly as the task of the written norm demands it. (…) considerations of economy

cannot rank as EXCLUSIVE criteria of correct interpretation of language facts, (…) [one

must consider the] importance of the factor of redundancy for the efficiency of the

132 Daniels, P. T., “The syllabic origin of writing and the segmental origin of the alphabet”, in The Linguistics of
Literacy, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, 1992, a cura di Downing, P., Lima,
S. D., Noonan, M., p. 83. In realtà il sumero è classificato tradizionalmente come una lingua agglutinante e
non isolante come il cinese. Quello che può aver portato Daniels ad affermare la somiglianza tra le strutture
sillabiche delle due lingue è che entrambe tendono a mantenere ben distinti i morfemi lessicali da quelli
grammaticali e che tutt’e due hanno un’alta incidenza di omofoni monosillabici.
133 Ibid., p. 111.
80
process of perception and understanding of the message communicated (…) 134”; tra gli

psicolinguisti, possiamo citare Gleitman & Rozin quando affermano che “[y]oung children

(…) are aware of language as meaning units, only later aware of the phonological and

syntactic substrata of language135”. Insomma, se a livello mnemonico richiede meno

fatica memorizzare un basso numero di caratteri, a livello cognitivo è più naturale

segmentare la propria lingua in unità di significato piuttosto che in unità fonologiche;

prendendo in considerazione il piano fonico, è la sillaba, e non il fonema, l’unità più

saliente e intuitiva136. Alla luce di questi dati, un sistema sillabico sarebbe più facilmente

apprendibile di un sistema alfabetico, in quanto rappresenterebbe un buon compromesso

tra numero di grafemi da memorizzare e naturalezza delle unità individuate; inoltre, il fatto

che un sillabario tenda più di un alfabeto a sottorappresentare i fonemi e ad evitare di

rappresentare gli allofoni, non è necessariamente un aspetto negativo. Un eccesso di

informazione fonologica può distrarre il lettore dal rapporto diretto che sussiste tra la

parola grafica e il significato a cui essa rimanda e, considerando che nella maggior parte

dei casi gli utenti di un dato sistema di scrittura conoscono la lingua rappresentata, essi

saranno in grado di ricavare da soli la pronuncia, senza bisogno di indicazioni fonetiche

inutilmente dettagliate. Qualcuno potrebbe obiettare che la scrittura alfabetica rimane

comunque più democratica delle altre in quanto non c’è bisogno di conoscere tutte le

parole di una lingua per sapere come bisognerà trascriverle, cosa che invece succede,

per esempio, in Cina: quanti più caratteri uno conosce, quanto più colto viene

134 Vachek, J., Written language. General problems and problems of English, La Haye, Mouton, 1973, p. 22.
135 Gleitman, L., Rozin, P., “The structure of acquisition in reading”, in Reber, A. S., Scarborough, D. L.,
Towards a psychology of reading, Hillsdale, New Jersey: Lawrence Erlbaum Associates, 1977, citato da
Martlew, M., “The development of writing: Communication and Cognition”, in Coulmas, F., Ehlich, K., op. cit., p.
261.
136 Come dimostrerebbe poi l’affermazione di Coulmas riguardo alla facilità di apprendimento dei kana
giapponesi, v. nota 127. Nonostante tutti riconoscano la sillaba come unità del linguaggio, l’affermazione della
sua importanza nella teoria fonologica è stata controversa lungo tutto il XX secolo; una trattazione molto
esauriente al riguardo si trova in Vogel, I., La sillaba come unità fonologica, Bologna, Zanichelli, 1982.
81
considerato, visto che ad ogni concetto corrisponde un carattere o una coppia di caratteri;

ma la discriminazione in base al livello di scolarizzazione è possibile anche in molte

ortografie alfabetiche: quelle storiche, come l’inglese e il francese, fanno un grande uso

di lettere etimologiche: saper scrivere psychologie in francese o psychology in inglese

rimanda a una conoscenza, reale o solo supposta, della parola greca dalla quale deriva,

ψυχή, ma anche in ortografie relativamente trasparenti come l’italiano, sarà necessario

un certo grado di istruzione per sapere come scrivere scienza, specie, fattispecie,

prospiciente (parole che mantengono il grafema <i> del latino, inutile in italiano) o come

pronunciare gnosi, gnostico, glicerina, glicine (parole che contengono sequenze di

grafemi ambigue come <gn> e <gli>) o pudico, pedagogo, infido (parole che non

segnalano l’accento tonico e tendono a essere pronunciate sdrucciole invece che piane);

quelle di recente formazione, come alcune ortografie di lingue africane o amerindie,

vogliono spesso mantenere le stesse complicazioni delle lingue di cultura europee;

Alberto Mioni riporta come i due africanisti francesi M. Houis e P. Lacroix, durante due

conferenze promosse dell’UNESCO nel 1966 per la standardizzazione di alcune lingue

dell’Africa Occidentale in cui vennero proposte da esperti diverse ortografie fonologiche,

si sentirono chiedere da alcuni delegati africani: “Perché queste grafie non hanno tutte

quelle belle lettere inutili e quelle regole complicate che ci sono in francese e in inglese e

che permettono di distinguere le persone istruite da quelle ignoranti?137”. A quanto pare,

se c’è la volontà di discriminare, qualsiasi sistema di scrittura scelto può servire bene allo

scopo, che sia esso logografico o alfabetico.

137 Mioni, A., “Conoscenze, memorie e riti della scrittura e della parola. Continuando il viaggio di Giorgio R.
Cardona”, articolo presentato al IX Congresso Internazionale dell’Associazione Italiana di Linguistica Applicata
(AITLA), Pescara, 20 febbraio 2009, p. 7n.
82
2. Scrittura e percezione del linguaggio

Il principio alfabetico riserva tutta l’attenzione al fonema, in quanto unità del

linguaggio privilegiata (a scapito della sillaba, del morfema, della parola). Tra i linguisti,

coloro che sostengono la superiorità del principio alfabetico sono spesso anche quelli che

liquidano il problema della scrittura come esterno al campo di studio della linguistica e

che hanno visione fonocentrica dei fenomeni del linguaggio. Se la scrittura non svolge

nessun’altra funzione se non quella di annotare la lingua orale, quale sistema può essere

migliore di quello alfabetico e quale ortografia migliore di quella trasparente, nella quale a

ogni grafema corrisponde uno e un solo fonema e viceversa? Eppure, nella pratica,

sembrerebbero non esistere ortografie perfettamente fonologiche. Per di più, ortografie

miste come quella inglese e francese, difettive come l’abjad arabo, a base logosillabica

come lo script cinese, sono tra le scritture più diffuse e conosciute al mondo. Inoltre

bisogna ribadire che per molti il fonema non è un’unità intuitiva e che sarebbe proprio

l’invenzione dell’alfabeto ad aver modificato la percezione del linguaggio presso i popoli

che hanno cominciato a farne uso. Il concetto stesso di fonema, fondamentale nella

linguistica odierna, la stessa che esclude la scrittura dai suoi ambiti di interesse, non

sarebbe potuto essere teorizzato senza l’influsso costante dell’alfabeto: “segmentation

ability as a human skill may have been a direct result of (rather than an impetus to) the

Greek development of alphabetic writing. Thus, the existence of alphabetic writing can

not be taken eo ipso as an evidence for the cognitive naturalness of the segmentation

that it reflects. (…) we as linguists feel that, because we can describe linguistic system in

terms of phonemic segments, we must do so. (…) [E]very technical linguistic tradition that

refers to segments arose in an alphabetic milieu (…). In contrast, the indigenous Chinese

linguistic tradition (…) has as phonological primitives syllables initials and finals, that is,

onsets and rhymes. This analytical division is not supported by the logographic Chinese

83
orthography, a lack which strengthens the force of the analysis 138”. Tutta la tradizione

linguistica occidentale sarebbe stata influenzata quindi dal sistema di scrittura utilizzato.

La visione costante di una serie di simboli corrispondenti a fonemi della lingua, disposti

spazialmente secondo un ordine consecutivo avrebbe suggerito l’idea che anche la

comunicazione orale fosse lineare e segmentale; solo recentemente, infatti, trovandosi a

disagio nell’analizzare i fenomeni prosodici e le lingue tonali, la fonologia ha elaborato

teorie autosegmentali che analizzano il flusso del parlato come una compresenza di

elementi diversi, non come una serie sequenziale. Una volta assimilato e interiorizzato il

funzionamento del proprio script, è difficile scindere il piano grafico e il piano fonico e si

tende a interpretare la scrittura come una rappresentazione fedele della lingua orale,

venendo così a formarsi una visione ingenua dei rapporti tra orale e scritto: è come se il

valore fonico dei grafemi fosse intrinseco, cosicché, per esempio, per un italiano sia

normale che <i> si pronunci /i/ e che veda come una stranezza che in inglese quella

stessa lettera si chiami /aɪ/; si tenderà a credere che ad ogni segno di punteggiatura

debba corrispondere una pausa e che, siccome si scrive un grafema dopo l’altro, così i

fonemi si dispongano uno dopo l’altro. Si penserà poi che, con la stessa facilità con cui si

possono scomporre le parole grafiche così si possano separare i fonemi. In realtà diversi

138 Faber, A., “Phonemic segmentation as epiphenomenon: Evidence from the history of alphabetic writing”, in
Downing, P., Lima, S. D., Noonan, M., op. cit., p. 127.
84
esperimenti hanno dimostrato che la percezione del fonema, pur avendo una certa realtà

psicologica, segue sempre quella della sillaba di cui fa parte139. Il fonema non è scindibile

dalla sillaba, chiunque può verificare questo fatto empiricamente: registrando la propria

voce in un computer e utilizzando un software140 per il trattamento elettronico dello

spettro vocale, si potrà ottenere un grafico in cui sarà possibile identificare una porzione

di spettro corrispondente alla parte consonantica della sillaba e un’altra porzione

corrispondente alla parte vocalica; facciamo un esempio: se pronunciamo /ba/, otterremo

un grafico come

quello che vediamo

qui di fianco. Il

software ci permette

di evidenziare solo

una parte del grafico

e di ascoltare il suono

corrispondente; ci

accorgiamo però che non ci è possibile udire distintamente qualcosa che assomigli a /b/

o ad /a/ in isolamento: o sentiamo /ba/ oppure uno strano riverbero elettronico. Quindi, a

livello fonetico, una sillaba non è scomponibile, lo è solo a livello di astrazione. Usando

una metafora visiva, è come se parlassimo di colori: sappiamo che il verde si ottiene

unendo blu e giallo, ma non per questo, vedendo qualcosa di verde, riusciamo a

scomporlo in due pigmenti diversi. Gli studi sulla consapevolezza fonologica che hanno

confrontato più lingue non sono molto numerosi ma quelli di cui siamo in possesso

sembrano confermare l’idea secondo cui “the phonological awareness of syllables,

139 Foss, D. J., Swinney, D. A., “On the Psychological Reality of the Phoneme: Perception, Identification and
Consciousness” in Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, n. 2, 1973, pp. 246-257.
140 Uno dei più semplici e diffusi è PRAAT.
85
onsets and rimes precedes the development of phonological awareness of phonemes 141”.

Diversi esperimenti confermano questa posizione; nel 1974, Liberman chiese a un

gruppo di bambini nordamericani anglofoni dai 4 ai 6 anni di riconoscere gruppi di parole

formate da una sillaba o da un fonema (es. dog, I), da due sillabe o da due fonemi

(dinner, my), da tre sillabe o tre fonemi (president, book). Il 46% dei bambini di 4 anni, il

48% dei bambini di 5 anni e il 90% di quelli di 6 anni dimostrò di possedere

consapevolezza fonologica della sillaba; solo i bambini di 6 anni avevano già imparato a

leggere e a scrivere. Invece, lo 0% dei bambini di 5 anni, il 17% di quelli di 5 anni e il 70%

di quelli di 6 anni dimostrò di possedere una consapevolezza fonologica del fonema142.

Un esperimento simile svolto da Cossu143 nel 1988 su un campione di bambini italiani ha

dato risultati simili.

Il principio alfabetico, dunque, ha senz’altro dei vantaggi dal punto di vista

dell’economia dell’inventario, ma non riflette la realtà fonologica meglio di un sillabario.

Secondo Miller, sia la sillaba sia il fonema fanno parte della competenza linguistica

implicita del parlante, ma solo la sillaba fa parte anche della competenza esplicita e

questo spiegherebbe l’ubiquità, presso le diverse culture, dei sillabari e la relativa scarsità

degli alfabeti (come creazioni spontanee)144. Daniels fa notare che tutti i sistemi di

scrittura recentemente inventati e non influenzati dal modello alfabetico occidentale

hanno seguito un percorso che li ha portati da essere logografie a essere sillabari (ma

mai alfabeti)145. Un simile dibattito si ha anche in psicolinguistica: secondo Booth146 e i

141 Goswami, U., “Orthography, Phonology and Reading Development: A Cross-Linguistic Perspective”, in
Malatesha Joshi, R., Aaron, P. G., op. cit., p. 463.
142 Liberman, I. Y., Shankweiler, D., Fischer, F. W., Carter, B., “Explicit syllable and phoneme segmentation in
the young child”, in Journal of Experimental Child Psychology, n. 18, 1974, pp. 201-212.
143 Cossu, G., Shankweiler, D., Liberman, I. Y., Katz., L. E., Tola, G., “Awareness of phonological segments and
reading ability in Italian children”, in Applied Psycholinguistics, n. 9, 1988, pp. 1-16.
144 Miller, D. G., op. cit., p. 103.
145 Daniels, P. T., “The Invention of Writing”, in Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., p. 585; un’eccezione è
l’alfabeto N’ko, v. nota 274.
86
suoi collaboratori, la consapevolezza fonologica è indispensabile per imparare a leggere

e a scrivere, ma secondo Morais e la sua équipe147 è la scrittura che rende possibile

affrontare la scomposizione del suono in unità minime, come emergerebbe dalle

performance molto peggiori di adulti portoghesi non alfabetizzati rispetto ad altri

recentemente alfabetizzati in compiti di aggiunta o sottrazione di fonemi da parole orali.

Se accettiamo l’ipotesi che lo script utilizzato influenzi i giudizi linguistici dei parlanti,

questo dovrebbe portarci a riscontrare livelli di consapevolezza fonologica diversi in

culture che utilizzano scritture diverse. Un articolo di Cho & McBride dimostrerebbe che

per i bambini coreani, nell’imparare a scrivere nella loro lingua materna (e quindi

utilizzando l’hangŭl), la consapevolezza sillabica giocherebbe un ruolo centrale, mentre,

quando gli stessi bambini si ritrovano ad imparare l’inglese come seconda lingua, allora

spostano l’attenzione sul fonema148. Il disporsi dei grafemi in quadrati virtuali

corrispondenti (quasi sempre) alle sillabe tipico dell’hangŭl potrebbe influenzare le

strategie cognitive degli utenti e i loro giudizi metalinguistici; allo stesso tempo,

bisognerebbe evitare una visione eccessivamente grafocentrica, in quanto può essere

anche la stessa struttura linguistica in gioco a far scattare strategie fonologiche diverse:

una lingua indeuropea come l’inglese, che presenta spesso gruppi consonantici

complessi, si presta meglio ad analisi fonologica, in contrasto con lingue come il coreano

e il cinese, con una struttura sillabica più semplice. Nella linguistica cinese, problemi

relativi a singoli fonemi sono stati discussi solo dopo il contatto con il pensiero linguistico

occidentale; durante il periodo classico, la relazione tra parola, morfema, carattere e

sillaba era molto spesso 1:1:1:1. Vista la situazione, non era necessario inserire uno

146 Booth, J. R., Perfetti, C. A., Mac Whinney, B., “Quick, automatic and general activation of orthographic and
phonological representations in young readers”, in Developmental Psychology, n. 35, 1999, pp. 3-19.
147 Morais, J., Cary L., Alegria J., Bertelson P., Does awareness of speech as a sequence of phoneme arise
spontaneously?, in Cognition, n. 7, 1979, pp. 323-331.
148 Cho, J-R., McBride-Chang C., “Levels of Phonological Awareness in Korean and English: A 1-Year
Longitudinal Study”, in Journal of Educational Psychology, vol. 97, n. 4, 2005.
87
spazio per dividere le parole, in quanto esso equivaleva allo spazio tra i caratteri. Tuttora

in Cina è in uso la scriptio continua, ma la lingua è diversa rispetto al passato, in quanto

esistono moltissime parole che sono almeno bisillabiche149. Nei loro giudizi

metalinguistici, i parlanti sono fuorviati dalla scrittura nell’individuare le parole di una

frase, in quanto tendono a far corrispondere, ancora, la parola con il carattere, anche se

adesso ci sono buone ragioni morfofonologiche per attuare una segmentazione

differente. Noam Chomsky e Morris Halle, nella loro opera The Sound Pattern of English

(1968), forse per un eccesso di zelo nel ricercare una regolarità sistematica nell’ortografia

inglese, particolarmente opaca, arrivano a dire che essa è una rappresentazione ottimale

della forma soggiacente del lessico inglese. Per esempio, a loro parere, la grafia della

parola courage, con <c> invece di <k>, è giustificata dalla forma soggiacente coræge in

quanto c è un simbolo che appare in una classe designata di forme the sottostanno a

certi processi fonologici e sintattici (ovvero i prestiti greci e latini)150. Secondo noi, invece,

qui il rapporto è stato rovesciato. La parola courage si scrive così per ragioni innanzitutto

storiche, e in sincronia mantiene una grafia etimologizzante per questioni di prestigio. È

la visione dei due linguisti a essere influenzata dall’ortografia, non quest’ultima a essere

motivata dalla forma soggiacente da essi postulata.

Se però è certo che la scrittura influenza la visione metalinguistica degli utenti, in

modo più o meno corretto e più o meno decisivo, ma è anche vero che qualsiasi sistema

di scrittura che sia stato inventato nel corso della storia non avrebbe visto la luce se non

ci fosse stata preliminarmente una riflessione linguistica. Se i Greci non avessero

posseduto un concetto molto simile a quello di fonema, come avrebbero potuto isolare i

fonemi della loro lingua? E che dire dell’elegante e sofisticata analisi fonologica

soggiacente alla struttura del devanāgarī? Secondo Miller, nella creazione della Lineare

149 Coulmas, F., “Writing and literacy in China”, in Coulmas, F., Ehlich, K., op. cit., pp. 240-248.
150 Chomsky, N., & Halle, M., The sound pattern of English, New York/Evaston/London, Harper & Row
Publishers, 1968, pp. 47-49.
88
B e del sillabario cipriota si sarebbe tenuto conto della Scala di Sonorità151, mentre

l’ordine dei simboli nella serie runica (fuqarkgwhnij[pzstbemlVod) seguirebbe il

principio dell’ordine articolatorio: prima le labiali <f> e <u>, poi la dentale <þ>, le centrali

<a> e <r>, le velari <k> e <g> e poi l’ordine ricomincerebbe, sempre nella sequenza

labiale – dentale – centrale – velare (con alcune caselle vuote)152:

LAB DENT CENTR VEL


fu þ ar kg
w x
ni jæ
p zst
b e
m l ŋ
o d

Secondo altri, invece, l’ordine della serie runica sarebbe legato a delle tecniche di

memorizzazione (es. cantilene, filastrocche, acrostici, ecc.) , un po’ come l’ordine seguito

dalla scrittura fenicia e quindi dall’alfabeto greco. Al di là che l’ipotesi di Miller sia esatta o

meno, quello che lo studioso vuole dimostrare è che la capacità dell’essere umano di

analizzare il linguaggio non è così limitata da dover essere per forza successiva

all’invenzione di un sistema di scrittura e completamente soggiogata da esso. Una

segmentazione fonologica piuttosto che sillabica è di certo più sofisticata e meno

immediata, ma non impossibile, altrimenti non si sarebbe mai arrivati alla creazione di un

alfabeto. Ad ogni modo, anche Miller concorda sulla maggiore salienza della sillaba e

infatti afferma che “[s]ince (…) syllables are readily accessible (explicit/conscious) to very

young children, the maximally natural, advantageous, non-pictographic/non-logographic

script would be a syllabary without the disadvantages of a syllabary, i.e., one that can

represent [stra] in some more efficient way than sa-ta-ra. (…) [A] good writing system

151 Miller, D. G., op. cit., p. xv.


152 Ibid., p. 70.
89
would allow for onset and rhyme (nucleus plus coda) representations of the syllable

structure of words (plus a way of representing phrases). One of the closest to the ideal of

representing at least onset clusters is the Indic devanāgarī script153”.

3. Vantaggi
Vantaggi e svantaggi dei diversi sistemi di scrittura

Dobbiamo quindi concludere che il prestigio che l’alfabeto si è conquistato nei

secoli successivi alla sua prima apparizione è dovuto solamente a pregiudizi etnocentrici,

approcci linguistici e cognitivi falsati dal sistema di scrittura occidentale e alla supremazia

anglosassone nel campo dei software e del World Wide Web? Effettivamente, fino a poco

tempo fa, lo script latino veniva considerato come lo script neutro, non marcato, l’unico da

prendere in considerazione nel caso della formazione di nuove ortografie per le

popolazioni che ne avevano bisogno. Le ragioni, talvolta ideologiche, erano soprattutto

economiche: prima della diffusione su larga scala del computer e di internet, lo script

latino era l’unico che non poneva problemi tipografici. Alcune scelte ortografiche si

devono a questioni puramente economiche: per esempio, in malgascio, /i/ finale è notata

<y> perché le tipografie dei missionari adottarono questa convenzione per servirsi dei

piombi di <y>, che non sapevano come impiegare altrimenti154. Oggigiorno, grazie alla

diffusione dei font, è virtualmente possibile adottare qualsiasi script o inventarlo ex novo.

Oltre a questo, se qualche tempo fa in rete predominavano le pagine in script latino, ora

entrano in concorrenza con numerosi siti che usano lo script cinese, giapponese, cirillico,

ecc. Al di là del prestigio culturale, dunque, rimane qualche pregio all’alfabeto? Noi

crediamo di sì. Il fatto che la sillaba sia un’unità percettiva più saliente è assodato, quindi

uno script ideale, se esiste, dovrebbe basarsi su di essa. Ma i sillabari hanno sempre

posto diversi problemi: innanzitutto, dovrebbero rappresentare tutte le sillabe di una

153 Ibid., pp. 104-105.


154 Mioni, A., “Conoscenze, memorie e riti della scrittura e della parola. Continuando il viaggio di Giorgio R.
Cardona”, articolo presentato al IX Congresso Internazionale dell’Associazione Italiana di Linguistica Applicata
(AITLA), Pescara, 20 febbraio 2009, p. 5n.
90
lingua. Per le lingue che hanno prevalentemente sillabe di tipo CV, l’inventario di

sillabogrammi necessari potrebbe essere ancora gestibile, ma per lingue indeuropee

come il tedesco o il russo ci vorrebbero inventari sconfinati. Il devanāgarī usa dei grafemi

per le singole vocali e dei grafemi per le consonanti con vocale inerente /ə/ (traslitterata

<a>); per segnalare sillabe dove la vocale non è /ə/, si serve di diacritici o aste da porre

sopra, sotto, prima o dopo il

grafema consonantico, a

seconda della vocale da

rappresentare. Per le sillabe complesse come CCV o CCCV si serve di legature , ovvero

simboli derivati dall’unione di due o più grafemi consonantici, ma come si può notare

dall’immagine qui sopra, non è sempre facile ricostruire il modo in cui sono stati

composti: il grafema per /ktə/ è dato da k e t, quello per /hmə/ da H e m, il riconoscimento

non è immediato. Inoltre, combinando insieme i 36 simboli consonantici di base, si arriva

ad avere un inventario di 1296 legature, un numero quindi non indifferente155. Un altro

metodo è quello di porre, in basso a destra del grafema consonantico, un segno

chiamato virāma, per segnalare il fonema consonantico in isolamento, es. t` /t/, mentre t

/tə/. In modo simile funziona anche l’abugida Ge’ez dell’Etiopia. Gli abugida, rispetto ai

sillabari dell’antichità, hanno il vantaggio di mantenere riconoscibili gli elementi in comune

tra le diverse sillabe, ovvero, una volta considerato un sillabogramma specifico, si può

chiaramente individuare quale parte di esso riconduca alla consonante e quale parte alla

vocale. La Lineare B (che era un vero sillabario, non un abugida) non attuava questa

tecnica, ad esempio i simboli per /ka, ke, ki, ko, ku/ non avevano niente a che fare,

visivamente, gli uni con gli altri.

Per quanto sofisticati, gli abugida sembrano, almeno a noi occidentali, delle

soluzioni più complicate del nostro alfabeto. Il vantaggio di avere un numero ridotto di

155 Masica, C. P., The Indo-Aryan languages, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 161-162.
91
grafemi da imparare a memoria e il non dover ricorrere a complicate notazioni, poco

visibili, poco salienti e poco distinguibili, per segnalare vocali, omissioni di vocali, gruppi

consonantici, ecc. non è indifferente. L’abugida ha il vantaggio di rappresentare le sillabe

e non i fonemi ma è un sistema di scrittura poco flessibile quando si tratta di trascrivere

parole che non fanno parte della struttura della lingua ad esso legata. Inoltre, come

l’alfabeto, utilizza dei grafemi poco salienti e come un sistema logografico, ha spesso

moltissimi simboli di cui tenere conto. I sistemi a base logografica hanno il problema

dell’ampiezza dell’inventario. Mentre un bambino europeo normalmente impara a leggere

e scrivere abbastanza bene tutte le parole della sua lingua entro la fine della scuola

elementare, un bambino cinese, per imparare a padroneggiare l’intero sistema grafico,

impiega diversi anni; un bambino giapponese ci mette considerevolmente meno, ma

deve essere in grado di memorizzare non un solo sistema, ma ben tre: i kanji, gli

hiragana e i katakana, oltre che, più avanti, l’alfabeto latino per l’apprendimento della

lingua inglese. Uno dei vantaggi della scrittura cinese è il suo essere interdialettale: la

Repubblica Popolare Cinese è frammentata linguisticamente in una miriade di dialetti

diversi, non sempre mutualmente comprensibili, ma tutti riescono a comunicare grazie al

sistema di scrittura che condividono, che è lo stesso (con alcune differenze) per tutti.

Questa è una delle ragioni che ha permesso la conservazione dello script cinese fino ad

oggi, d’altronde, “[a]n exclusively sound-related writing system is of little value to the

person who does not understand the language written by that system156”. Se il principio

alfabetico è quello più adatto quando si tratta di trascrivere parole di lingue diverse dalla

propria, quello logografico funziona meglio per mantenere l’unità culturale in una nazione

in cui non tutti condividono la stessa lingua (le differenze dialettali sono più che altro a

livello fonologico; la struttura morfologica e sintattica rimangono grossomodo le stesse).

Fra tutte le soluzioni mai inventate per trascrivere una lingua, probabilmente quella più

156 Coulmas, F., “Writing and literacy in China”, in Coulmas, F., Ehlich, K., op. cit., p. 246.
92
sofisticata ed elegante è il già citato hangŭl coreano, che unisce i pregi dell’alfabeto con

quelli di un sillabario: è un alfabeto, in quanto a ogni fonema corrisponde un simbolo, ma

le lettere vengono organizzate in blocchi. Così si otterrebbe una rappresentazione del

parlato molto più realistica ed iconica di quanto non si abbia con i singoli grafemi degli

alfabeti occidentali. Come è stato già spiegato, i segni consonantici dell’hangŭl (o almeno

alcuni di essi) hanno una forma che richiama la loro pronuncia, ma per ora nessuno si è

ancora espresso, per quanto sappiamo, sulla reale utilità di questa scelta; le forme sono

ormai così stilizzate che difficilmente se ne terrà conto nella lettura. L’hangŭl inoltre è in

grado di rendere graficamente, in modo elegante, anche sillabe complesse (es. ssang ,

balp ), non sarebbe perciò eccessivamente legato al proprio linguistic fit come invece i

sillabari e gli abugida, con qualche aggiustamento potrebbe trascrivere anche parole

inglesi come crest, struggle, stranded, ecc. Fatto sta che a tutt’oggi l’hangŭl è utilizzato

solo in Corea, dove peraltro coesiste con una serie di ideogrammi cinesi. Quando fu

inventato, nel XV secolo, fu inizialmente rifiutato dall’élite aristocratica, perché la sua

maggiore facilità di apprendimento rispetto alla scrittura cinese rischiava di far perdere ai

nobili la loro superiorità culturale, in quanto il saper scrivere non sarebbe più dipeso da

faticosi anni di studio, come accadeva con gli ideogrammi, bensì sarebbe bastato molto

meno tempo e molto meno sforzo. L’hangŭl si diffuse solamente sotto la dominazione

giapponese, come sintomo di un moto nazionalista e identitario della popolazione

coreana; non quindi per i suoi pregi intrinseci, ma per questioni politiche157.

Se concludiamo che l’hangŭl sia lo script migliore, quello che più si avvicina

all’ideale, non dobbiamo dimenticare che si tratta pur sempre di un alfabeto, anche se è

un featural writing ed è organizzato in blocchi, e in quanto alfabeto, viene rappresentato

(idealmente) ogni fonema della lingua. Ma è proprio necessaria tutta questa informazione

157 Oggigiorno, in Corea del Nord si utilizza solo l’hangŭl, mentre in Corea del Sud è ancora in uso un numero
limitato di logogrammi di origine cinese.
93
fonologica? Non basterebbe una componente logografica e una chiave, un indizio per la

pronuncia, come per esempio succede in un sistema misto come quello giapponese? La

questione comincia a somigliare sempre di più a un vicolo cieco, o meglio, ad un labirinto

senza uscita. In fondo, qualsiasi sistema di scrittura venga scelto, ci sono dei pro e dei

contro non indifferenti e il fatto stesso che esistano e vengano utilizzati tutti i giorni da

migliaia di persone giustifica la loro strutturazione interna: se vengono usati, è perché

funzionano, è perché le persone sono in grado di memorizzarli, di manovrarli, di

riprodurli. È difficile giudicare in assoluto un dato sistema di scrittura, perché sono in

gioco criteri diversi che spesso entrano in opposizione tra loro. Ne considereremo

quattro:

• Criterio di massima distintività;

• Criterio dell’ampiezza dell’inventario;

• Criterio della facilità di riproduzione;

• Criterio della massima naturalezza.

Secondo il primo criterio, quello della massima distintività, lo script latino sarebbe

uno dei meno funzionali, in quanto le differenze tra i diversi caratteri non sono molto

evidenti ed è facile confondere l’uno con l’altro; lo stesso si potrebbe dire per l’abjad

arabo. Tutto al contrario, gli ideogrammi cinesi, i geroglifici egizi o i simboli maya si

distinguerebbero tra loro con molta facilità, grazie anche al loro carattere più o meno

figurativo. Si confrontino sequenze come <aeiou> vs <乸乹乻事> vs <dhoplm> vs

<ancdejag>.

Secondo il secondo criterio, ovvero l’ampiezza dell’inventario, l’alfabeto latino, il

cui numero di grafemi si aggira tra i 20 e i 40, a seconda dell’ortografia considerata,

sarebbe il più veloce da memorizzare, mentre ci vogliono diversi anni per imparare le

migliaia di caratteri del cinese.

94
Secondo il criterio della facilità di riproduzione, la semplicità dei grafemi utilizzati

viene considerata come uno dei fattori più importanti. Anche in questo campo, gli alfabeti

risultano essere i più semplici (almeno nelle loro varianti a stampa e maiuscole; il corsivo

manoscritto presenta già qualche complicazione in più).

Infine, con criterio della massima naturalezza intendiamo lo sforzo cognitivo

necessario al trasferimento dal piano orale a quello scritto e viceversa richiesto dallo

script. Basandoci sui dati psicolinguistici più recenti, abbiamo già visto come, per un

individuo l’associazione più semplice sia quella immagine grafica – concetto o parola; un

po’ meno semplice è quella immagine grafica – morfema, ancora meno semplice

immagine grafica – sillaba e infine, la più difficile: immagine grafica – fonema. Più sale il

livello di astrazione, più aumenta lo sforzo cognitivo richiesto. Da questo punto di vista,

l’alfabeto sarebbe quindi il sistema più complicato e la pittografia quello più semplice.

Ciononostante, a nessuno verrebbe in mente di proporre un sistema pittografico durante

un’ipotetica riforma ortografica, perché ovviamente ci sono anche gli altri tre criteri da

considerare. Difficile scegliere quale di questi sia il più importante e probabilmente non si

può dare un responso oggettivo, il grado di maggiore o minore semplicità dipenderà

anche dalle attitudini e dalle strategie cognitive dei diversi individui.

A questi quattro criteri possiamo aggiungere due ulteriori variabili:

• il punto di vista del lettore vs il punto di vista dello scrivente;

• il punto di vista del parlante nativo vs il punto di vista del parlante non

nativo.

Quando si legge, infatti, si percepisce la parola, se questa è già conosciuta, come

un’unità di significato, una “visual Gestalt158”. Che il disegno della parola sia composto dai

tratti che compongono un ideogramma o da lettere dell’alfabeto, poco importa per il

lettore, fintanto che il suo lessico ortografico mentale viene attivato dal riconoscimento

158 Miller, D. G., op. cit., p. 108.


95
della parola. Quando si scrive invece, la faccenda è diversa, specialmente nelle

logografie e nelle ortografie opache. Per chi legge, i criteri di massima distintività e

massima naturalezza sono estremamente utili, mentre chi scrive probabilmente si trova

più a suo agio con un numero di simboli ridotto e di facile riproduzione159. Allo stesso

modo, per un parlante nativo non sarà necessaria un’informazione fonologica dettagliata,

basterà un’indicazione, anche vaga, e in base al contesto sarà in grado di ricavare la

parola; ad esempio, Bentin160 avrebbe dimostrato che in ebraico le decisioni lessicali non

sono basate su un’analisi fonologica dettagliata: “lexical decisions for the unvoweled

ambiguous strings [a]re faster than lexical decisions for either of their voweled (…)

alternatives. (…) lexical decisions for Hebrew unvoweled words occu[r] prior to the

process of phonological disambiguation161”. Per una persona che non conosce la lingua

trascritta ma conosce lo script utilizzato, l’informazione fonologica potrà essere ancora

minore (basti pensare all’esempio fatto poco fa della frammentazione dialettale in Cina),

mentre per chi sta imparando la lingua trascritta come L2 un’indicazione dettagliata della

pronuncia sarà desiderabile; tenere conto anche delle esigenze dei parlanti non nativi

però sembra un lusso che difficilmente ci si potrà permettere nel riformare o creare

un’ortografia. Si focalizzerà tutta l’attenzione, quindi, sul parlante madrelingua. A questo

punto rimane il dubbio se andare incontro alle esigenze di chi legge o di chi scrive.

L’ideale sarebbe ovviamente un compromesso, ma alcuni dati extralinguistici ci fanno

propendere dalla parte del lettore, infatti, come dice Sampson, “[a]ny literate adult, even a

professional author, reads far more than he writes; so if (…) the ideal script for a reader is

a somewhat unphonemic script, (…) the balance of advantage has been tending to move

159 Cfr. Sampson, G., Writing systems, London, Hutchinson, 1985, pp. 204-213,
160 Bentin, S., Bargai, N., Katz, L., “Orthographic and Phonemic Coding for Lexical Access: Evidence from
Hebrew”, in Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory & Cognition, n. 9, 1984, pp. 353-368.
161 Bentin, S., Frost, R., “Processing Lexical Ambiguity and Visual Word Recognition in a Deep Orthography”, in
Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory & Cognition, n. 25, 1987, pp. 13-23, citato da Frost, R.,
“Orthography and phonology: The psychological reality of orthographic depth”, in Downing, P., Lima, S. D.,
Noonan ,M., op. cit. p. 262.
96
towards the reader and away from the writer: extra trouble in writing a single text can now

be massively repaid by increased efficiency of very many acts of reading that text. (…) [I]t

is worth spending more time nowadays to learn an orthography, if the extra time is the

cost of acquiring a system that is relatively efficient once mastered, because the period

during which the average individual will enjoy mastery of an orthography is now longer

than it used to be162”. Possiamo trovarci pienamente d’accordo con la posizione di

Sampson, anche se il quadro delineato dallo studioso può funzionare solo se

contestualizzato in realtà come quella europea e nordamericana, ovvero situazioni in cui,

generalmente, esiste un benessere economico abbastanza diffuso e la scolarizzazione è

accessibile a tutti anche a livelli superiori. Ma basta pensare all’Africa perché l’ago della

bilancia si sposti decisamente dalla parte dello scrivente: un’ortografia troppo complicata

da imparare, con un livello di logografia piuttosto alto, richiederebbe un investimento di

tempo e di denaro eccessivo per un bambino africano medio. La scelta finora adottata

nella maggior parte dei casi in territorio africano, ovvero quella di attenersi a scritture a

base principalmente fonologica, a nostro parere, è pienamente giustificata. Ulteriori

complicazioni si hanno per il fatto che spesso ai bambini africani viene insegnato a

leggere per prepararli all’apprendimento delle lingue di comunicazione principali, che

sono quasi sempre l’inglese e il francese. Le ortografie di queste due lingue, per quanto

l’insegnamento tradizionale si ostini a considerarle a base fonologica (per poi procedere

con elenchi di eccezioni e casi particolari), consistono in sistemi misti, con componenti di

diversa misura di tipo morfofonologico, logografico ed estetico. Si tratta insomma di

quelle che abbiamo definito nel primo capitolo ortografie opache. Generalmente

considerate come delle aberrazioni dovute al conservatorismo grafico, sono state

recentemente rivalutate alla luce di dati linguistici e psicolinguistici. Vedremo ora le loro

162 Sampson, G., Writing systems, London, Hutchinson, 1985, p. 212.


97
caratteristiche principali e le confronteremo con quelle di ortografie trasparenti,

limitandoci ai sistemi di scrittura alfabetici.

4. Ortografie opache e ortografie trasparenti

4.1 L’ortografia dell’inglese


In tutta la letteratura scientifica a proposito dei problemi posti dall’ortografia, sia in

ambito squisitamente linguistico, sia in ambito sociolinguistico e psicolinguistico,

l’ortografia inglese è in assoluto la più studiata e documentata, tanto che la maggioranza

dei modelli di riconoscimento e di produzione di parole scritte sono basate sull’inglese e

poi applicati, spesso senza i dovuti aggiustamenti, ad altri sistemi ortografici.

Sicuramente questo fatto è dovuto all’espansione dell’inglese nell’ultimo secolo, ormai

divenuto la lingua franca mondiale, tanto da essere ormai materia di studio obbligatoria in

tutti i sistemi scolastici. La sua conoscenza è ormai un sine qua non per trovare lavoro

all’estero e anche per l’esercizio di molte professioni nel proprio paese. Claude Hagège

individua, tra le ragioni del successo dell’inglese (a scapito del francese, che ha perso il

suo ruolo di lingua di cultura europea) l’assenza di diacritici163 e anche Josef Vachek

sottolinea la “sobrietà” dello spelling inglese164. Naturalmente, l’assenza di accenti,

cediglie, dieresi, ecc. si paga in lettere superflue, grafie diverse su base lessicale per

distinguere gli omofoni e spelling etimologici; ciononostante, scrivere in inglese può

essere considerato ottimale secondo il criterio della facilità di riproduzione, sia che si tratti

di scrittura informatica (non c’è bisogno di particolari tipi di tastiera o di inserire caratteri

speciali con complicate combinazioni di tasti) sia che si tratti di scrittura a mano (non c’è

bisogno di staccare la penna dal foglio, se non per lo spazio tra le parole; scrivendo in

una qualche lingua slava, invece, sarà necessario fermarsi molte volte per aggiungere

segni diacritici; Nina Catach segnala che in francese, negli usi privati, spesso gli accenti

163 Hagège, C., Le français et les siècles, Paris, Odile Jacob, 1987, pp. 226-232.
164 Vachek, J., Written language. General problems and problems of English, La Haye, Mouton, 1973 p. 49.
98
sono neutralizzati in un unico diacritico, l’accento piatto, o addirittura abbandonati165).

Un’altra ragione dell’abbondanza di studi sull’ortografia inglese (rispetto, per esempio, a

quella italiana) è la sua oggettiva difficoltà, non solo per gli stranieri che si trovano a

doverla imparare come ortografia seconda, ma anche per i madrelingua. La visione più

diffusa e condivisa presso gli stessi inglesi è che ci fosse un qualche periodo storico,

perso ormai nella leggenda, in cui l’inglese possedeva un’ortografia fonologica; ma

quell’età dell’oro è ormai lontana e oggigiorno l’English spelling è semplicemente un

caotico coacervo di grafie irrazionali166. Questo quadro non è poi così lontano dalla realtà.

Le fonti storiche in nostro possesso sembrerebbero dimostrare che prima dell’invasione

normanna la grafia inglese fosse più stabile e più vicina alla realtà fonologica. Più o meno

in concomitanza con l’inizio del periodo che viene convenzionalmente chiamato Middle

English, i manoscritti avrebbero cominciato a riflettere pronunce regionali e convenzioni

grafiche del francese167. Allo stesso tempo, alcuni suoni andavano scomparendo o

modificandosi ma la grafia non teneva conto di tali cambiamenti, es. nella parola night il

digramma <gh> serviva per rappresentare il fonema /x/ che però cominciava a

scomparire (modificandosi prima in /ç/); il sistema era poi instabile, a /x/ potevano

corrispondere, sul piano grafico, <h, з, g, зh, gh, ch>; inoltre la lettera yogh <з>, che

talvolta appariva come <ʒ>, oltre che per /x/ poteva stare anche per /j/, solo dopo il 1300

venne rimpiazzata, a seconda dei casi, da <gh> o da <y>168. I prestiti dal francese non

furono eccessivamente perturbanti, inizialmente; i francesismi introdotti in inglese durante

il Medio Evo sono perfettamente anglicizzati nella grafia: royal, gentle, chance, danger

mentre quelli risalenti al Rinascimento e ai secoli successivi non vengono adattati:

165 Catach, N., “À propos de l’accent plat”, in Liaisons-HESO, n. 19-20, 1992.


166 Sampson, G., Writing systems, London, Hutchinson, 1985, p. 194.
167 Mitton, R., op. cit., pp. 9-22.
168 Fisiak, J., op. cit., pp. 15-22.
99
cordon, vogue, moustache, clique, salon169. Sempre in questo periodo, si acquisirono usi

grafici come <ch> per indicare /tʃ/ (al tempo aveva questo valore anche in francese, oggi

invece vale /ʃ/) e <cw> venne sostituito da <qu>. L’aggiunta di grafemi superflui non fu

dovuta solo all’invasione francese, ma anche ai copisti e agli scribi: questi erano pagati a

seconda della quantità di inchiostro che utilizzavano e perciò avevano ogni interesse

nell’aumentare il loro salario infarcendo i testi di lettere superflue170. Uno standard

ortografico comune si ottenne in Gran Bretagna intorno al 1400, ma proprio in quel

momento iniziò un particolare fenomeno linguistico che durò per altri due secoli

conosciuto come il Great Vowel Shift. In breve, si ebbe un innalzamento di tutte le vocali,

secondo questo schema:

[iː] > [ɪi̯] > [əi̯] > [ʌi̯] > [aɪ̯],time


es. [tiːm] > [taɪm];

[eː] > [iː], es. see [seː] > [siː];

[ɛː] > [eː] > [iː], es. east [ɛːst] > [iːst];

[aː] > [æː] > [ɛː] > [eː] > [eɪ], es. name [naːm] > [neɪm];

[æj] > [æːi] > [ɛːi] > [ɛː] > [eː] > [eɪ], es. day [dæj] > [deɪ];

[uː] > [ʊu̯] > [əu̯] > [ɑu̯] > [aʊ̯],house


es. 171 [huːs] > [haʊs];

[oː] > [uː], es. moon [moːn] > [muːn];

[ɔː] > [oː] > [oːu̯] > [oʊ̯] > [əʊ̯], stone
es. [stɔːn] > [stəʊn];

know
[ɔu̯] > [ou̯] > [oː] > [oːu̯] > [oʊ̯] > [əʊ̯], es. [nɔu] > [nəʊ];

es. law [lɑu] > [lɔː];


[ɑu̯] > [ɑːʊ̯] / [ɔːʊ̯] > [ɑː] / [ɔː] > [oː] > [ɔː],

[eu̯] / [iu̯] / [ɛu̯] > 172 , es. new [neu] > [njuː];
[juː]

[a] > [æ], es. that [ðat] > [ðæt];

[o] > [ɔ] > [ɒ], es. fox [foks] > [fɒks];

169 Mitton, op. cit., pp. 9-22.


170 Sampson, G., Writing systems, London, Hutchinson, 1985, p. 199. cfr. nota 182.
171 La grafia <ou> per /uː/ è mutuata dal francese.
172 [juː] può talvolta evolvere in [uː] in certi contesti che variano tra inglese britannico e inglese nordamericano.
100
[ʊ] > [ɤ] > [ʌ], es. cut [kʊt] > [kʌt].

Il Great Vowel Shift spiega in gran parte come mai i grafemi vocalici dell’inglese

hanno oggi dei valori così diversi rispetto a quelli che hanno in tutte le altre lingue

europee e si sono ritrovati a corrispondere, a seconda dei casi, alla free pronunciation o

alla checked pronunciation dei fonemi vocalici (ovvero, alla pronuncia rilassata o a quella

tesa). Nella maggior parte dei casi la free pronunciation viene segnalata con un grafema

diacritico <e>: si confrontino mat /mæt/ vs mate /meɪt/, bit /bɪt/ vs bite /baɪt/, con /kɒn/ vs

tone /təʊn/, ecc. Questo uso diacritico di <e> ha però fatto sì che si creasse una

mancanza di isomorfismo tra la sillaba grafica e la sillaba fonica, in quanto spesso parole

di due sillabe grafiche corrispondono a una sola sillaba fonica, es. make /meɪk/, take

/teɪk/, fake /feɪk/.

Per giunta, a partire dal Rinascimento fino al XVIII secolo, vennero introdotte in

numero cospicuo una serie di grafie etimologizzanti di origine greca e latina, che

andarono a sostituire grafie fonologiche già in uso: così cors divenne corpse, langage

divenne language, doute divenne doubt, samon divenne salmon, ecc. Questioni estetiche

e tipografiche modificarono la lunghezza di alcune parole: si aggiungevano o toglievano

<e> per aggiustare i margini di riga: doe, goe, heere vs do, go, here. Una volta che si

stabilì uno standard tipografico, gli insegnanti ebbero finalmente un modello ortografico

da insegnare agli alunni e con la diffusione dell’istruzione elementare, la padronanza o

meno dello spelling diventò la maniera più facile e veloce per misurare il livello di

scolarizzazione di un individuo (e di conseguenza, divenne possibile anche la

discriminazione in base al livello culturale) 173.

Nell’ultimo secolo molti studiosi hanno studiato a fondo l’ortografia inglese per

cercare di capire se vi fosse o meno un principio di organizzazione interna. Richard

Venezky nel 1970 pubblica The Structure of English Orthography, opera dove egli tenta

173 Mitton, R., op. cit., p. 19.


101
una descrizione sistematica della lingua scritta inglese. La trattazione fa emergere due

punti interessanti:

• La grafia della forma base di un lessema tende a essere fonologica,

mentre nei composti e nei derivati è più che altro morfofonologica; per

esempio, nella serie sign, signing, signify si mantiene intatta la forma di

base <sign> ignorando l’alternanza fonologica /saɪn/ ~ /siɡn/174;

• Nella pronuncia di parole monosillabiche, le regole di conversione

grafema-fonema sono relativamente semplici; la complessità cresce con

parole polisillabiche ma monomorfemiche e aumenta ancora con parole

polimorfemiche: bisogna tenere conto dell’accento tonico, della classe

morfologica, delle regole fonotattiche e spesso anche grafotattiche175;

Più avanti si riflette sul fatto che molti educatori insistano sul principio che i primi

approcci all’insegnamento alla lettura dovrebbero vertere sulle corrispondenze regolari

tra grafemi e fonemi. I risultati portati dagli psicologi al riguardo sono spesso

contraddittori. Venezky sottolinea che “in the unpredictable class [of patterns], the low-

frequency patterns should not be presented as letter-sound or sound-letter patterns since

this may encourage transfer to inappropriate situations176”. Infatti, quando si tratta di

ortografie opache, l’apprendimento di modelli di corrispondenza fonema-grafema (e

grafema-fonema) può indurre a generalizzazioni erronee; il bambino potrebbe

interiorizzare che l’ortografia funziona sempre allo stesso modo e si potrebbe ostinare a

cercare una corrispondenza sistematica che non c’è.

Altri studiosi hanno sottolineato come l’apparente caos dell’ortografia inglese

risulti, senza ovviamente che questo fosse previsto, spesso utile. L’esempio più diffuso è

quello della distinzione degli omofoni, come write vs rite vs right vs Wright; quattro parole,

174 Venezky, R. L., op. cit., p. 120.


175 Ibid.
176 Ibid., p. 127.
102
rispettivamente un verbo, un sostantivo, un aggettivo (e sostantivo) e un cognome, che si

pronunciano tutte /raɪt/ ma che la grafia permette di distinguere. In questo modo, come

dei morfemi visivi, per usare il termine di Bolinger, queste parole grafiche parlano

direttamente all’occhio evitando possibilità di confusione nel processo di comprensione

del testo. Come avevamo già accennato, Chomsky & Halle177 trovavano l’ortografia

inglese una buona rappresentazione della forma soggiacente dei lessemi. Un’ortografia

ottimale, secondo loro, dovrebbe essere profonda, ovvero avere un’unica

rappresentazione per ogni entrata lessicale. Secondo quest’ottica, l’ortografia spagnola

sarebbe in qualche modo inferiore a quella inglese: la coniugazione del verbo pedir

“chiedere” è soggetta ad un’alternanza morfofonologica per cui il suono /e/ della base

{ped-} diventa /i/ in posizione tonica, ottenendo un paradigma di questo tipo: pido, pides,

pide, pedimos, pedís, piden. Essendo questa trasformazione del tutto regolare e

prevedibile per un madrelingua, un’ortografia profonda scriverebbe sempre <ped->178. Si

potrebbe anche concordare con Chomsky & Halle, se davvero l’ortografia inglese fosse

profonda, ma questa asserzione non può essere accettata acriticamente in base a un

numero di esempi scelti ad hoc. In primo luogo, sembra poco credibile che un parlante

nativo inglese possieda una competenza così fine e dettagliata di tutti i processi

fonologici profondi della propria lingua; in secondo luogo, ci sono numerosissimi casi

dove la presunta profondità dell’ortografia inglese viene meno: si scrive infatti speak ma

speech, collide ma collision, see ma sight, ecc. Albrow179 propone una divisione del

lessico inglese in due classi, di cui la prima convoglia le parole di origine germanica e la

seconda quelle di origine romanza; la prima classe, nei processi di derivazione,

selezionerebbe un numero ridotto di suffissi: -er, -ly, -ship, mentre la seconda avrebbe a

disposizione una scelta maggiore: -ic, -ical, -ity, -orious, ecc. Inoltre, nella prima classe i

177 Chomsky, N., Halle, M., op. cit.


178 Sampson, G., Writing systems, London, Hutchinson, 1985, p. 200.
179 Albrow, K. H., The English writing system: Notes toward a description, London, Schools Council, 1972.
103
grafemi vocalici <a, e, i, o, u> indicherebbero vocale lunga (se precedono una

consonante in parole polisillabiche) nella prima classe e vocale breve nella seconda

(dove invece la lunghezza vocalica verrebbe indicata da digrammi come <ai, ee, ou,

ecc.>). Albrow fa anche notare come la lunghezza delle parole sia in qualche modo

legata al loro status morfosintattico: le parole lessicali devono essere formate da almeno

tre grafemi, mentre quelle grammaticali possono accontentarsi di uno o due, cfr. see,

bee, odd, cliff vs me, be, a, at, if; il suono [ɪ] viene reso con <i> in un morfema lessicale e

con <e> in uno grammaticale, cfr. solid vs wanted. La teoria di Albrow, per quanto

affascinante, ha diversi punti deboli: rimangono inspiegate differenze grafiche come

ribald vs ribbon, entrambe parole di origine germanica dove <i> ha lo stesso valore ma

nella prima parola, irregolare, /b/ è reso da <b> e nella seconda, regolare, da <bb>; per di

più, la selezione dei suffissi non è così coerente, ad esempio, nella parola partnership il

primo elemento partner, viene, attraverso il francese antico partenaire dal latino (partitio,

partitionis) mentre il suffisso –ship è tipicamente anglosassone. Infine, il criterio della

lunghezza delle parole per determinare la categoria grammaticale di appartenenza non

può essere applicato in maniera sistematica; si pensi a casi come hat, bed, bin, pie

(morfemi lessicali) in contrasto con around, about, very, from (morfemi grammaticali di

maggiore lunghezza grafica).

Una soluzione che mette d’accordo molti esperti della materia è invece quella di

considerare l’inglese scritto come un sistema che inizialmente era fortemente a base

fonologica, pur con tutte le oscillazioni del caso, e che poi lentamente è andato

acquisendo un carattere parzialmente logografico. Quello che si ottiene è qualcosa che

assomiglia alla scrittura giapponese, in cui alcuni elementi servono a richiamare l’entrata

lessicale (componente logografica = i kanji) e altri servono a dare indicazioni sulla

pronuncia (componente fonologica = i kana). Questa tendenza dell’ortografia inglese

potrebbe essere considerata come un adattamento della scrittura al cambiamento delle

104
sue funzioni: una notazione fonologica era assolutamente necessaria in un periodo

storico dove la ragion d’essere di un testo scritto era quella di essere letto ad alta voce;

con la diffusione della lettura silenziosa, questa necessità è andata ridimensionandosi:

“[t]he fluent reader reads English or French or German efficiently only insofar as he treats

the written language as if it were ideographic: ‘Kun-reading, rather than ‘on-reading’180”.

4.2 L’ortografia
L’ortografia del francese
Un altro immenso capitolo della storia degli studi di grafematica è dedicato al

francese scritto. La storia dell’ortografia francese è legata in diversi modi a quella

dell’inglese; prima di tutto, come abbiamo visto, il francese è responsabile di molti dei

cambiamenti grafici avvenuti in territorio anglosassone, sia direttamente, con l’invasione

normanna, sia indirettamente, grazie al prestigio della cultura francese durante gran parte

dell’Età Moderna. Le storie delle due ortografie poi hanno diversi punti in comune. Anche

il francese avrebbe conosciuto una sorta di periodo ideale, intorno al XII secolo, dove la

grafia rifletteva la realtà fonetica con semplicità e precisione. Si trattava di “une graphie

des jongleurs”181, poeti, cantori e buffoni di corte che, vista la loro professione, erano

interessati a una trascrizione pratica e veloce dei testi di cui si servivano, caratterizzati da

un’organizzazione del discorso tipicamente orale. Nel momento in cui il francese si

sostituì al latino nella vita pubblica, gli scribi cominciarono ad aggiungere nei testi ufficiali

lettere superflue per aumentare i loro guadagni182, esattamente come succedeva in

Inghilterra. Fournier a questo riguardo si dimostra scettico e commenta: “que pouvaient

représenter, au prix de tout cela, quelques lettres superflues de plus ou moins? (…) Et

180 Berry, J., op. cit., p. 10; Berry si riferisce alla possibilità, nella scrittura giapponese di leggere un kanji
secondo la On-yomi (la lettura cinese) o secondo la Kun-yomi (la lettura giapponese), in cui quest’ultima
considera il kanji globalmente come collegato direttamente al morfema lessicale, mentre la prima si basa sulla
resa fonologica (un’approssimazione della pronuncia cinese antica di quel carattere).
181 Fournier, P., “Sur l’origine des complications de l’orthographe française”, in Le français moderne, n. 8,
1940, p. 258.
182 Beaulieux, C., Histoire de l’orthographe française, tome I : La formation de l’orthographe, Paris, Champion,
1927, p. 47.
105
cela d’autant plus que les scribes (…) les farcissaient, ces écritures, d’abréviations,

même au risque d’en pas toujours faciliter le déchiffrement183”; probabilmente il guadagno

era più in prestigio che in denaro. Importante fu anche l’influenza del latino: da una parte,

la lingua di Roma aveva svolto e continuava a svolgere una funzione di coesione

culturale importantissima e inevitabilmente era difficile che la grafia latina non

influenzasse quella delle neonate lingue romanze; dall’altra, c’era anche una volontà

cosciente ed esplicita di dimostrare la derivazione del francese dal latino e perciò

ostentare la presenza di lettere etimologiche non più pronunciate era un modo per

conferire al francese lo stesso prestigio del suo antenato. Tra i problemi principali

dell’ortografia francese dalle origini ad oggi possiamo elencare i seguenti:

- l’alternanza tra gli accenti grafici e lettere superflue per segnalare

il timbro di una vocale; l’accento circonflesso venne introdotto per

permettere l’eliminazione di una <s> muta ereditata dal latino che

serviva a indicare la lunghezza vocalica; l’accento grave, oltre a

svolgere una funzione distintiva, serve su <e> a indicare la

pronuncia /ɛ/ ma entra in concorrenza con la convenzione di

raddoppiare la consonante seguente, quindi troviamo casi come

fidèle per /fidɛl/ ma nette per /nɛt/;

- il francese, /E/ in sillaba aperta può realizzarsi come [e], [ɛ] o [ə],

mentre in sillaba chiusa è sempre [ɛ]; esiste però una e media

che si trova a metà tra [e] e [ɛ] e che di solito appare prima di

una sillaba contenente [ə]; lo schwa, suono instabile per

eccellenza, fa sì che la sillaba precedente possa realizzarsi come

aperta o come chiusa, creando quindi esitazione tra un timbro

distintamente aperto o chiuso. L’Accademia francese nota questa

183 Fournier, P., op. cit., p. 261.


106
e media come <é> (che normalmente sta per [e]), nonostante la

pronuncia tenda maggiormente verso [ɛ]; es. médecin “medico”,

in cui la seconda <e> corrisponde a uno schwa che spesso cade

nel parlato, rendendo la sillaba precedente chiusa e perciò

provocando l’apertura della vocale: [medəsɛ̃] passadunque a

[mɛdsɛ̃];

- la grafia dei suoni palatali assenti in latino come /ʎ/ e /ɲ/ ha

oscillato, per vari secoli, tra diverse soluzioni: <il, ll, ille, y> per il

primo suono e <ign, ingn, ngn, gn, n, ni> per il secondo; oggi /ʎ/

si è neutralizzato in /j/ e le grafie che lo rappresentavano entrano

perciò in concorrenza con quelle già in uso per /j/, mentre il

digramma <gn> si è affermato; ciononostante, rimangono forme

ambigue come oignon, che si legge [oɲɔ̃] e non *[waɲɔ̃], come

sarebbe regolare, perché <ign> va considerato come un

grafonema unico; inoltre, negli ultimi tempi, si è presentata

un’oscillazione nella pronuncia tra [ɲ] e [nʲ~nj~ni];

- fino alla Rivoluzione francese, il digramma <oi> poteva

corrispondere a diverse pronunce, che andavano da [ɛ] a [wɛ]

fino all’attuale [wa];

- il francese possiede sedici fonemi vocalici, di cui quattro nasali:

/ɑ̃/, /ɛ̃/, /ɔ̃/, /œ̃/; nella grafia, /ɑ̃/ puòersi


rend
come <an, am, en,

em>, /ɛ̃/ come <in, im, yn, ym>, /ɔ̃/ come <on,m>
o e /œ̃/ come

<un, um>, per non citare poi tutti i casi eccezionali; inoltre, nella

parlata dei parigini colti, la distinzione tra /ɛ̃/e /œ̃/ è venuta

meno, facendo sì che le grafie <in, im, yn, ym, un, um>

diventassero tutte omofone;

107
- in generale, si fa un largo uso di grafie distintive utilizzando

grafemi muti e lettere etimologiche (cinq184 vs sein vs sain vs

seing vs saint, pronunciati tutti [sɛ̃]); queste ultime sono pres


enti

anche in molte grafie di prestigio (philosophie, xénophobie), a

volte senza giustificazione storica (lys dal latino lilium; nénuphar

dall’arabo ninufar).

Al di là delle corrispondenze tra grafemi e fonemi, uno degli aspetti più salienti

dell’ortografia francese, in rapporto alla lingua orale con cui è in relazione, è il piano

grammaticale e in particolare quello morfologico; infatti, scrivere in francese richiede

molte più conoscenze grammaticali che parlare in francese, o meglio, richiede

conoscenze grammaticali differenti. Da secoli ormai, nel francese orale, la morfologia

verbale e nominale si è estremamente semplificata. Per quanto riguarda i sostantivi,

spesso non c’è differenza tra singolare e plurale e solo l’articolo, il contesto o l’accordo

grammaticale possono disambiguare il numero del sostantivo; alcuni sostantivi non si

differenziano nemmeno tra maschile e femminile; nella coniugazione verbale, le prime tre

persone e la sesta hanno quasi sempre la stessa desinenza (e spesso questa coincide

con la marca –Ø). Nel francese scritto, invece, la forma maschile e femminile dei

sostantivi è quasi sempre distinta, il plurale è indicato sempre da <s> finale (che talvolta

viene pronunciato [z] in liaison), la coniugazione verbale mantiene le marche di persona

molto più che all’orale. Vediamo alcuni esempi: ami “amico” /ami/, amie “amica” /ami/185, il

genere grammaticale cambia, nell’orale non viene segnalato ma nello scritto invece

abbiamo una <e> marca del femminile; nemmeno l’articolo determinativo può aiutare a

disambiguare nell’orale, in quanto in entrambi i casi si ha /lami/, mentre nello scritto l’ami

184 Cinq si pronuncia [sɛ̃k] in posizione prevocalica, [sɛ̃


] in posizione preconsonantica; seing è ormai una parola
desueta in francese moderno.
185 In alcune parlate del sud della Francia <e> finale viene resa come [ə] nella pronuncia e c’è quindi differenza
tra maschile e femminile.
108
vs l’amie; con l’articolo indeterminativo invece la differenza si percepisce anche nell’orale:

un ami vs une amie = /œ̃(n)ami/ vs /ynami/; al pluraleles amis “gli amici” vs les amies “le

amiche”, nell’orale è sempre /lezami/; il presente indicativo di parler, verbo regolare della

prima coniugazione, allo scritto distingue le desinenze di tutte le persone (la prima

persona e la terza però coincidono): je parle, tu parles, il parle, nous parlons, vous parlez,

ils parlent, ma nell’orale è molto diverso: /paʀl(ə)/ alla prima, seconda, terza e sesta

persona, /paʀlɔ̃/ e /paʀle/ rispettivamente per laquarta e la quinta; /paʀle/ inoltre è

omofono di parler infinito, di parlé participio passato maschile singolare, parlés participio

plurale maschile, parlées participio plurale femminile. In morfologia, nell’ambito di modelli

ad entità e disposizioni, si è dovuto postulare per il francese un particolare tipo di morfi, i

morfi sottrattivi, per riuscire a spiegare le differenze tra maschile e femminile di molti

aggettivi: /pla/ al maschile diventa /plat/ al femminile, /bɑ/ al maschile diventa /bɑs/ al

femminile, ecc. Piuttosto di supporre l’esistenza di un numero sconfinato di desinenze

femminili, si è considerato più economico per il sistema concludere che il maschile si

formi per troncamento dell’ultima consonante del femminile. In un modello a entità e

processi si parte invece dall’ipotesi che la forma del femminile coincida con la forma

soggiacente del morfema lessicale e che il maschile derivi da essa con un processo di

troncamento186. Tutti questi problemi non si pongono invece allo scritto, visto che il

femminile si distingue dal maschile per l’aggiunta del grafema <e> (con eventuale

raddoppiamento del grafema precedente): <plat> maschile, <platte> femminile, <bas>

maschile, <basse> femminile, ma anche <grand> maschile, <grande> femminile, ecc.

Questa diversità notevole tra la morfologia orale e la morfologia scritta del francese ha

portato alcuni ad affermare che l’ortografia francese corrispondesse alla grammatica

normativa o che addirittura fosse un'altra lingua, distinta dal francese orale, ipotizzando

una situazione di diglossia nella comunità linguistica francofona. Nina Catach, ispirandosi

186 Thornton, A. M., op. cit., pp. 76-77.


109
ai lavori di Hořejší e di Gak ha cercato di delineare, ed è stata la prima a farlo in maniera

così sistematica, la struttura dell’ortografia francese nella sua interezza. Dalle sue

ricerche sarebbe emerso che il francese scritto non sarebbe un sistema, ma un

plurisistema, in cui sono presenti phonogrammes, morphogrammes, logogrammes e

idéogrammes187. I primi, corrispondenti ai grafonemi di Hořejší, si possono organizzare in

una serie di arcigrafemi: A, E, I, O, U, EU, OU, AN, IN, ON, UN, ILL, Y, OI, OIN, P, B, T,

D, C, G, F, V, S, Z, X, CH, J, L, R, M, N, GN. Questi arcigrafemi permetterebbero di

leggere l’80-90% dei grafemi del francese, ma il 10-20% composto dalle varianti

allografiche riesce da solo a perturbare l’intero sistema. I morfogrammi sarebbero dei

grafemi con valore morfologico (che possono avere anche un valore fonologico, ma non

necessariamente); i più importanti sarebbero <e> (marca del femminile) e <s> (marca del

plurale); i logogrammi sarebbero delle sequenze grafiche che vanno considerate nella

loro interezza, come temps, corps, août, ecc. il cui aspetto grafico è spiegabile in

diacronia, ma difficilmente in sincronia; l’unica soluzione è considerarli come unità; casi

come questi sono abbastanza numerosi in francese: rispetto alle altre lingue romanze, il

francese ha subito delle trasformazioni fonologiche molto più profonde che hanno

semplificato gran parte del lessico, ottenendo un alto numero di parole monosillabiche e

di omofoni; inoltre, la norma grafica tradizionale del francese tende verso la brevità: la

parola francese ha in media quattro lettere, non di più; anche questo dato concorre a

spiegare l’abbondanza delle ridondanze grafiche: c’è bisogno sia di distinguere omofoni

con grafemi diversi sia di distinguere tra di loro possibili omografi, pur mantenendo la

brevità della parola grafica. Con ideogrammi, infine, Catach intende i segni di

punteggiatura e altri segni paragrafematici188.

187 Catach, N., “Que faut-il entendre par système graphique du français?”, in Langue française, vol. 20, n. 1,
1973, pp. 30-44.
188 Ead., “La ponctuation”, in Langue française, vol. 45, n. 1, 1980, p. 16-27.
110
La particolarità dell’ortografia francese ha creato ovviamente vari problemi per il

suo insegnamento, che tradizionalmente è diviso tra i sostenitori del metodo sintetico e

tra i partigiani del metodo globale; i primi evidenzierebbero la base fonologica

dell’ortografia francese e insisterebbero sull’insegnamento delle corrispondenze regolari

tra fonemi e grafemi, i secondi invece partirebbero dalla frase grafica come unità da

scomporre successivamente189. Come dice Tétart, “à ce niveau la simplicité structurelle

n’est pas forcément synonyme de facilité. (…) Simplicité de structure et facilité de

compréhension sont ici dans un rapport proportionnellement inverse. (…) [I]l est illusoire

(…) de présenter les sons du français en procédant concomitamment à des synthèses

graphiques190”.

In qualsiasi modo vengano presentate, l’ortografia inglese e l’ortografia francese

sono complesse e per essere apprese richiedono tempo e dedizione, in misura molto

maggiore di quanto avvenga per ortografie trasparenti come il finlandese, l’italiano, lo

spagnolo, ecc. La più complessa tra le due sembrerebbe essere quella dell’inglese, in

quanto in francese le regole di conversione grafema-fonema sono abbastanza regolari

(una volta che si ha la forma scritta di una parola, è facile risalire alla sua pronuncia), il

difficile sta nel procedimento inverso, ovvero partire dalla forma orale e arrivare alla sua

forma scritta; in inglese invece entrambi i processi richiedono conoscenze logospecifiche

(si pensi alla differenza tra but, cut, gut, nut in cui <u> sta per /ʌ/ e put dove sta per /ʊ/).

Ma se si tratta davvero di due sistemi ortografici così inutilmente complicati, difficili,

etimologizzanti, perché si mantengono ancora, nel XXI secolo, epoca in cui, grazie

all’elettronica e all’informatica i problemi di una riforma ortografica sarebbero molto minori

rispetto a solo un secolo fa? A tutt’oggi, i sostenitori delle riforme sono riusciti ad ottenere

ben poco: in francese, la regolarizzazione e cancellazione di alcuni accenti, in inglese

189 Tétart, J.-P., “À propos de la lecture à l’école élémentaire”, in Langue française, vol. 13, n. 1, pp. 95-114.
190 Ibid., p. 96.
111
nordamericano, grazie al lessicografo Noah Webster (1758-1843), oggi si può scrivere

color, flavor, savior senza <u>, traveler con una sola <l>, defense con <s> al posto di

<c>, center invece di centre191 ma la struttura generale dell’ortografia inglese rimane

immutata. Questo conservatorismo è dovuto solo della “pigrizia” tipica dell’essere umano

o ci sono altre ragioni? Possiamo ipotizzare che un’ortografia opaca possieda dei

vantaggi rispetto a un’ortografia trasparente? E soprattutto, il fatto che il francese e

l’inglese non “scrivano come leggono” è dovuto solo a ragioni extralinguistiche o ci sono

anche ragioni strutturali, che stanno anche alla base delle differenze tra queste due

lingue e altre lingue ad esse imparentate ma con ortografie più trasparenti? Cercheremo

di approfondire questi problemi analizzando anche alcune caratteristiche di ortografie

universalmente riconosciute come di facile apprendimento.

4.3 Alcune ortografie trasparenti

4.3.1 Il finlandese
Nella letteratura scientifica, l’esempio più ricorrente di ortografia trasparente è

senza dubbio il finlandese192. Questa lingua ugrofinnica si avvicina moltissimo, nello

scritto, all’ideale dei fonocentristi secondo cui ci dovrebbe essere una corrispondenza 1:1

tra grafema e fonema, senza grafemi ambigui o con diversi valori in base al contesto;

l’unica eccezione è il digramma <ng> che serve a notare /ŋː/, ma non è un grande

problema, in quanto non sarebbero possibili letture alternative della sequenza di grafemi

<n> + <g> (per un parlante nativo). Il finlandese utilizza nel suo alfabeto anche alcune

lettere ridondanti che vengono impiegate per trascrivere parole straniere o in nomi propri:

<c, å, q, x, w, z, š, ž> compaiono principalmente in prestiti non adattati, mentre a <b, f> si

preferiscono spesso le grafie <p> e <hv>; <g> è presente in vocaboli nativi solo come

191 http://en.wikipedia.org/wiki/Noah_Webster.
192 Hakulinen, L., The structure and development of the Finnish language, The Hague, Mouton, 1961, pp. 5-
17; cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Finnish_language.
112
parte del digramma <ng>, in tutti gli altri casi si tratta di prestiti. In finlandese, sia la

lunghezza vocalica sia quella consonantica hanno valore distintivo e questo aspetto

viene reso puntualmente anche nella grafia: muta vs muuta vs mutta vs mutaa vs

muuttaa, rispettivamente: “fango”, “altro (partitivo)”, “ma”, “fango (partitivo)”, “cambiare”.

Come si è ottenuto un tale sistema ortografico, così vicino a quella che potrebbe essere

una trascrizione fonologica? Innanzitutto bisogna sottolineare che la lingua finlandese è

parlata da più o meno 6 milioni di persone (un numero quindi abbastanza contenuto), con

frammentazioni dialettali minime e che quasi tutti i parlanti sono distribuiti tra la Finlandia

e la Svezia. Dopodiché, di una certa importanza è senz’altro la relativamente tarda

apparizione di una tradizione letteraria in Finlandia: prima del XIX secolo la letteratura

finlandese era praticamente inesistente: la Bibbia e i libri giuridici erano solo in latino o in

svedese. Il primo tentativo di dare un’ortografia al finlandese fu attuato da Mikael Agricola

nel XVI secolo, basandosi su convenzioni dello svedese, del tedesco e del latino, ma un

vero standard fu raggiunto solo nel 1880, dopo che il finlandese aveva subito diverse e

importanti trasformazione fonologiche (/ð/, /θ/ e /ɣ/ erano passati a /d/, /ts/ e /v~Ø/). Nella

sua forma orale, la lingua standard possiede 13 consonanti e 8 vocali, con una media di

96 consonanti ogni 100 vocali, contro 108 ogni 100 dell’italiano, 117 ogni 100 del greco

antico, 122 ogni 100 dello spagnolo, ecc. Anche in posizione finale in sillaba atona le

vocali conservano il loro valore pieno. Il principio dominante nella formazione delle parole

è quello di evitare qualsiasi fonema di difficile articolazione o che richieda uno sforzo da

parte degli organi articolatori (un riflesso di questa caratteristica è anche l’armonia

vocalica). Una sillaba non comincia mai con un gruppo consonantico. Questo limita molto

le risorse fonologiche e il numero delle radici monosillabiche. Gli unici gruppi consonantici

possibili a fine sillaba sono /lk, lt, lp, ls, rk, rt, rp, rs, nk, nt, np, ns/. Generalmente la

consonante della sillaba seguente è la stessa della precedente e questo non rende

necessaria l’articolazione di tre consonanti di seguito. Nel sistema fonologico nativo del

113
finlandese mancano le sonore /b, d, ɡ/, anche se ultimamente /d/, per influsso di prestiti

(e della grafia) si sta imponendo, mentre le occlusive sorde sono pronunciate in maniera

così lieve che i popoli germanici vicini le interpretano come sonore (in effetti, sembra che

ci sia una breve sonorità all’inizio e alla fine dell’emissione). Con la tendenza dei parlanti

più colti a pronunciare <b, d, g> come /b, d, ɡ/, le occlusive sorde sono diventate di

conseguenza più tese, per mantenere i diversi fonemi distinti. Infatti, visto che moltissime

opposizioni morfologiche sono segnalate dalla lunghezza vocalica e consonantica, la

pronuncia del finlandese richiede una precisione maggiore rispetto a quella di altre lingue

europee (tranne che nelle sillabe finali portatrici di caso, dove la lunghezza non conta

mai). Se confrontiamo la struttura del finlandese con quella del francese e dell’inglese,

risulta evidente che:

• pur usando tutt’e tre le lingue lo script latino, il finlandese ha solo 21

fonemi, contro 36 dell’inglese (in base alla Received Pronunciation) e 37

del francese;

• mentre il finlandese è parlato da 6 milioni di persone in Finlandia e

Svezia, 205193 milioni di persone parlano il francese, oltre che in Francia,

in Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Canada, Haiti, in molti stati africani,

ecc. Ancora più numerosi sono gli anglofoni (tra chi lo parla come prima

lingua e chi lo parla come seconda si arriva intorno al miliardo e 351

milioni194) e numerose anche le nazioni dove l’inglese è lingua ufficiale

(Gran Bretagna, Irlanda, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda,

ecc.);

193 Contando sia i parlanti madrelingua (64 milioni) sia coloro che lo parlano come L2 (141 milioni).
194 396 milioni di madrelingua e 955 milioni che lo parlano come L2; non consideriamo in questa sede gli 83
milioni di persone che parlano creoli o pidgin a base inglese e i 34 milioni che parlano creoli o pidgin a base
francese.
114
• il francese e l’inglese hanno una tradizione scritta che risale agli inizi del

Medio Evo, il finlandese ha cominciato ad avere una sua letteratura nel

1800;

• da quando possiedono una forma scritta, l’inglese e il francese hanno

subito moltissime trasformazioni fonologiche, soprattutto in ambito

vocalico, e ciò ha provocato una particolare instabilità del sistema.

Praticamente qualsiasi vocale dell’inglese, in contesto di atonie, può

realizzarsi come [ə] e fenomeni simili si hanno in francese; una delle

conseguenze più evidenti è il moltiplicarsi di casi di omofonia; il fissarsi di

una tradizione ortografica in Finlandia, invece, è coinciso con l’affermarsi

di uno standard linguistico orale; inoltre la pronuncia del finlandese è

caratterizzata da una precisione che manca alle altre due lingue, da

timbri vocalici ben definiti e stabili (anche in posizione finale) e dalla

mancanza di gruppi consonantici complessi (numerosi invece in inglese e

presenti in francese);

• gli unici monosillabi CV con vocale breve in finlandese sono: me, te, he,

se, ne, ja, jo, no, he, ka (rispettivamente: “noi, voi, essi, esso, loro, e, già,

bene, ehi, oh”); in inglese e in francese sono estremamente più

numerosi.

Per adesso ci limiteremo a esporre questi dati. Prima di giungere a delle

conclusioni, preferiamo prendere in considerazione anche altre ortografie trasparenti, con

una storia meno recente di quella del finlandese.

4.3.2 L’italiano
L’italiano, come molte altre lingue, tra cui il tedesco e il sopraccitato finlandese,

deve la sua standardizzazione orale all’imporsi di una norma scritta uguale per tutti,

creata artificialmente mischiando caratteri di dialetti diversi. Esemplare è il caso di


115
Alessandro Manzoni (1785-1873), che nella seconda stesura del suo scritto Fermo e

Lucia (che sarebbe poi diventato I Promessi Sposi), avvertì l’esigenza di “sciacquare i

panni nell’Arno”. Si ottenne perciò il cosiddetto fiorentino emendato, ovvero un italiano

scritto basato sulla parlata fiorentina spogliata delle caratteristiche locali troppo

accentuate (come la gorgia) e con influssi lombardi. Se adesso l’ortografia italiana è

piuttosto stabile, questo è un fatto relativamente recente. Dal 1200 al 1400 si assiste

nella produzione scritta della penisola a un alternarsi di grafie in concorrenza dovuto sia

alla mancanza di uno standard grafico condiviso sia alle profonde differenze dialettali che

hanno sempre caratterizzato l’Italia e che continuano a farlo tuttora: <k> alternava con

<c> per rendere /k/, mentre a /ɡ/ potevano corrispondere i grafemi <k, g, q>. Il toscano

occidentale trascriveva /ts/ con <th>, come in vethosa (oggi vezzosa), ma si trovavano

anche <tz> e <cz>. Nel 1300 <k> cominciava a comparire sempre di meno, mentre

prendevano piede <c> e <ch>, con ipercorrettismi come chane per cane. /ɲ/ veniva resa

con <gn> ma anche con <ngn> e <ni>, mentre /ʎ/ appariva trascritta in modi diversi, es.

figlio, figlo, filglio; la variante <lgl> potrebbe essere giustificata dal fatto che in italiano /ʎ/

intervocalico è lungo e polisillabico. Solo Lucca e Pisa distinguevano /z/ da /s/ scrivendo

<z>; nella zona padana <ce, ci> valevano /tse, tsi/, mentre a Genova sihavo si leggeva

/stʃavo/; al sud, <cz> stava per /ts/ e /tʃ/, mentre la scomparsa di <k> aveva reso <ch>

ambiguo, in quanto poteva stare sia per /k/, sia per /tʃ/195. Nel Quattrocento furono

introdotte grafie di tipo etimologico (come accadde in Francia e Gran Bretagna nello

stesso periodo): <ch, ph, th, y>. Sempre durante il Rinascimento, l’umanista Gian Giorgio

Trissino (1478 – 1550) propose di distinguere graficamente /e/ da /ɛ/ e /o/ da /ɔ/

aggiungendo all’alfabeto le lettere greche <ε> e <ω> 196. Trissino voleva anche

differenziare <j> da <i>, <u> da <v>, introdurre <ç> per indicare /ts/ (mentre <z> avrebbe

195 Migliorini, B., Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani, 1994, pp. 146-147 e pp. 206-207.
196 Ibid., pp. 259-260 e pp. 335-336.
116
indicato solo /dz/). Queste proposte non ebbero seguito (i/j e u/v furono distinte solo nel

Seicento). Nel periodo compreso tra il 1300 e il 1700 la lingua insegnata a scuola era

unicamente il latino, tuttavia il prestigio del toscano cominciò a diffondersi in tutta Italia,

tanto che è un’impresa difficile stabilire il reale valore di alcune grafie dei diversi volgari

italiani, perché vanno considerati sia gli influssi del prestigio del latino (grafemi etimologici

e pseudo-etimologici), sia la volontà da parte dei letterati di avvicinarsi al modello

toscano, sia, infine, le peculiarità proprie del dialetto dello scrivente. Per esempio, in una

lettera del poeta milanese Gaspare Visconti indirizzata a Francesco Gonzaga e scritta nel

1496, sono compresenti elementi eterogenei; i saluti sono in latino: “Illustrissimo et

excellentissimo domino (…) Excellentie Illustrissime Domini Vestri humilimus servitor197”,

le forme può e suoi sono dittongate come in toscano ed è presente anche

l’ipercorrettismo puotesse invece di potesse, mentre i tratti tipicamente lombardi si

colgono nella preposizione de al posto di di, nei pronomi atoni ridondanti el e la per la

ripresa del soggetto, e poco altro198. Fu verso l’Ottocento che l’ortografia cominciò a

prendere la forma che ha tuttora e con l’Unità d’Italia, la diffusione della scolarizzazione

e, più tardi, l’avvento della radio e della televisione, si raggiunse un’inedita omogeneità

linguistica, anche se nel parlato si mantenevano delle forti differenze da regione a

regione. Pur avendo la fama di “leggersi come si scrive”, l’italiano è meno trasparente di

altre ortografie europee: mantiene alcuni resti storici, come <q> in molte parole di origine

latina che contenevano la sequenza /kw/, o come <i> non pronunciata in parole come

scienza, efficiente, deficiente, cielo, ecc. L’accento tonico, pur essendo variabile in

italiano, viene indicato solo sulle parole polisillabiche tronche (e su alcuni monosillabi con

valore distintivo); questa mancanza di segnalazione può creare problemi soprattutto in

sequenze come –cia, -gia, che sono suscettibili di essere lette sia [tʃia, dʒia] sia [tʃa, dʒa].

197 Lettera riportata da Bongrani, P., Morgana, S. S., “La Lombardia”, in L’italiano nelle regioni. Lingua
nazionale e identità regionali, a cura di Bruni, F., Torino, UTET, 1992, pp. 84-142.
198 De Blasi, N., Piccola storia della lingua italiana, Napoli, Liguori, 2008, pp. 54-55.
117
Il gruppo <gl> sta per /ʎ/ davanti a <i>, ma diventa <gli> davanti a qualsiasi altra vocale e

vi sono parole, di solito di ambito scientifico, in cui <gli> vale /ɡli/, es. glicerina. Il gruppo

<gn> sta per /ɲ/ ma in parole di origine greca o tedesca può anche valere /ɡn/, come in

gnosi, Gneiss. Non è segnalata la distinzione tra timbro aperto e timbro chiuso di <e> se

non in finale assoluta: è /ɛ/ vs perché /perˈke/ma pesca /ˈpɛska/ (frutto) e pesca /ˈpeska/

(sport). Lo stesso vale per le due letture possibili di <o>. Non vengono distinti dalla grafia

nemmeno /i/ da /j/, /u/ da /w/, /s/ da /z/, /ts/ da /dz/. Normalmente l’ortografia segnala la

geminazione consonantica, ma vi sono eccezioni: quando appaiono tra due vocali, si dà

per scontato che <gli>, <gn> e <sc(i)> stiano per suoni lunghi; nel suffisso di origine

latina –zione il suono reso da <z> è lungo, ma viene considerato errore grave scrivere *<-

zzione>. Parole come camicia, ciliegia, pioggia, buccia, al plurale, non pongono problemi

nell’orale ma nello scritto ci si è chiesti se conservare o meno la <i> diacritica; è prevalsa

una regola artificiale per cui <i> rimane quando è preceduta da una sola consonante e

scompare quando è preceduta da due; così camicie, ciliegie ma piogge, bucce.

Sorvoleremo su altri problemi minori (citeremo solo qual è, spesso scritto *qual’è ma

oggigiorno l’apostrofo scompare nella scrittura elettronica grazie al correttore di Word199,

e *un pò invece di un po’, anche questo corretto da Word ma tollerato dal suggeritore, il

T9, di moltissimi telefoni cellulari durante la composizione di SMS). Ad ogni modo, il

funzionamento generale dell’ortografia italiana si basa su una relazione abbastanza

immediata tra grafia e fonia e un parlante nativo sa quasi sempre come scrivere o come

leggere una parola nuova che non conosce, l’unica difficoltà rimane l’accento tonico non

segnalato (la qual cosa rende più semplice la scrittura della lettura, al contrario del

francese e dell’inglese). Tra le lingue romanze, che oltre l’origine dal latino condividono

anche l’uso dello stesso script, l’italiano è quella che meno si è allontanata

fonologicamente (dopo il sardo) dall’antenato comune. Mentre il portoghese ha dovuto

199 Cfr. Serianni, L., op. cit.


118
introdurre una pletora di segni diacritici, lo spagnolo ha dovuto aggiungere al suo

inventario alfabetico anche <j, ñ, x, y>, il rumeno <â, ă, î, ş, ţ> e il francese ha reso

fortemente labile il rapporto tra fonemi e grafemi, l’italiano ha avuto la fortuna di

possedere un alfabeto che ancora gli si adattava bene. Definire l’ortografia italiana

difettiva da un punto di vista strettamente formale è esatto, ma le differenze fonologiche

non riflesse dalla scrittura non sono pertinenti per tutti i parlanti. /ɛ/ e /e/ entrano in

opposizione distintiva in un numero molto ristretto di vocaboli (es. t[ɛ] “bevanda” e t[e]

“pronome di seconda persona singolare”), e lo stesso vale per /o/ e /ɔ/ (cólto e còlto), /s/

e /z/ (ri[s]entire nel senso di “sentire di nuovo” e ri[z]entire nel senso di “avere a male,

soffrire”), /ts/ e /dz/ (ra[tːs]a nel senso di “genere, stirpe” e ra[dːz]a “tipo di pesce”).

Queste distinzioni inoltre, già poco numerose, non sono condivise dalla maggior parte dei

parlanti nativi. La maggior parte dei dialetti italiani ha un sistema fonologico a cinque

vocali (/a/, /E/, /i/, /O/, /u/); alcuni, come il veneto, ne hanno di più ma con distribuzioni

diverse da quelle del toscano. Il toscano, inoltre, è l’unico in cui la distribuzione di /s/ e di

/z/ non è prevedibile in base alla posizione, infatti ha ca[s]a ma ro[z]a; al Nord, invece, /s/

si realizza [z] solo in posizione intervocalica e davanti a consonante sonora, mentre al

sud si ha [z] solo nell’ultimo caso (come allofono davanti a consonante sonora). Anche la

realizzazione di <z> varia da regione a regione, senza che questo crei problemi nella

comunicazione. Un’ortografia eccessivamente fonologica, basata sullo standard del

toscano, rischierebbe di imporre una pronuncia artificiale e di discriminare (più di quello

che già fa) i parlanti che più si allontanano dal sistema fonologico toscano; alla luce di

questo, la scelta dell’italiano di non segnalare queste differenze (come invece proponeva

Trissino) si rivela funzionale o tale è diventata200. Il problema della frammentazione

dialettale tocca molto profondamente l’ortografia, infatti uno degli errori più frequenti nella

scrittura (anche di adulti) riguarda la segnalazione delle consonanti doppie: per esempio,

200 Non ci è dato sapere cosa sarebbe successo se la proposta di Trissino fosse stata accettata.
119
un parlante veneto tenderà a segnalarle meno del dovuto, in quanto il suo dialetto (o il

suo italiano regionale) mal tollera le consonanti geminate, mentre magari un laziale

potrebbe essere tentato di notare come geminate anche consonanti che non lo sono

secondo la norma grafica. Altri errori dovuti a differenti sostrati dialettali possono

riguardare la resa grafica di suoni palatali: alcuni parlanti possono confondere <li> con

<gli>, <ni> con <gn>, <si> con <sc(i)>, ecc. Inoltre, il fatto che l’insegnamento dell’italiano

durante il ciclo elementare si basi quasi esclusivamente su un criterio fonetico/fonologico

induce i bambini a una notazione ipercorretta dei fenomeni fonetici e possono insorgere

difficoltà in quanto la grafia è talvolta estremamente precisa, talvolta no; ad esempio,

errori come *<nb, np> invece di <mb, mp> dimostrano che il bambino considera il fonema

e non l’allofono (/n/ davanti a consonante labiale si trasforma naturalmente in [m]),

mentre altri errori, come quelli di segmentazione sbagliata, mostrano che il bambino

scrive ciò che sente, es. *lagenda, *ledicola, invece di l’agenda, l’edicola)201. A differenza

di altre ortografie più o meno trasparenti, l’italiano non si è posto negli ultimi tempi

problemi riguardo a possibili riforme e la tendenza degli ultimi anni è quella di accogliere

nel lessico moltissimi prestiti non adattati, specialmente di provenienza anglosassone,

con un conseguente imporsi di grafemi estranei al sistema come <j, k, w, x, y> e un

utilizzo molto massiccio di <h>, relegato in italiano a funzioni di diacritico. Negli usi privati,

soprattutto dei più giovani, <k> concorre con <ch> per segnalare /k/ o /kː/; <j> viene

talvolta usato, specialmente al centro e al sud, al posto di <gli>, es. er mejo per “il

meglio”, con una grafia che prova a rendere la pronuncia di Roma202. <x> acquisisce un

201 Cfr. Bozzo, M. T., Pesenti E., Siri S., Usai M. C., Zanobini, M., CEO – classificazione degli errori ortografici,
Trento, Erickson, 2000, pp. 101-108.
202 Questo impiego di <j> per /j/ risale però ad abitudine grafiche desuete dell’italiano, in quanto <j> aveva
questo valore fino agli inizi del XX secolo, v. nomi come Jacopo o toponimi come Jesi, Jesolo. Casi in cui <j>
sta per /dʒ/ si hanno solo in prestiti inglesi come jack, jam session, jeans, jolly, joker o in nomi propri come
Jessica. Persistono anche alcuni francesismi in cui <j> rende /ʒ/, come j’accuse, abat-jour. Quando invece si
tratta di <g>, la pronuncia oscilla tra l’inglese e il francese: stage, che andrebbe letto [staʒ], alla francese, viene
spesso interpretato come inglese e pronunciato [steɪdʒ] (parola che esiste in inglese ma che sta per
120
valore logografico, in quanto sta per la preposizione “per”, ma appare anche in altre

parole con valore fonico [per], secondo il principio del rebus (esattamente come nella

scrittura egizia): xdonare, xdono, coxta per perdonare, perdono, coperta. <y> diventa il

grafema per eccellenza dei diminutivi e vezzeggiativi: Susy, Mary, Roby, Tony entrano in

concorrenza con grafie più italiane come Susi, Mari, Robi, Toni; questa preferenza per

<y> rivela senz’altro il prestigio dell’inglese, lingua da cui viene l’abitudine di usare <y> al

posto di <i> in fine di parola e conferma il valore estetico di <y>, in quanto, grazie alla sua

forma più saliente, si presta meglio a usi affettivi (come per gli ipocoristici).

Ad ogni modo sembrerebbe che a differenza della Finlandia, paese dove

l’ortografia trasparente correla con un grado di alfabetizzazione della popolazione che si

aggira intorno al 100% e con un apprendimento veloce e senza complicazioni delle

regole di scrittura e lettura, l’Italia viva una situazione assai differente e nonostante da

sempre nei programmi scolastici si ponga al centro degli interessi l’insegnamento

dell’ortografia, il livello medio delle competenze ortografiche degli studenti si andrebbe

abbassando di generazione in generazione e si avrebbero frequenti episodi di

analfabetismo di ritorno203.

4.3.3 Altre ortografie trasparenti


Tra le lingue che utilizzano lo script latino, molte hanno un’ortografia vicina alla

realtà fonologica. Simile all’ortografia italiana è quella spagnola, in quanto si tratta di un

sistema tendenzialmente trasparente ma con alcuni residui etimologici. Lo spagnolo, a

differenza dell’italiano, non mantiene il digramma <qu> per trascrivere /kw/ ma preferisce

usare <cu> in tutti i casi (mentre l’italiano ha quando ma cuoio); <qu> viene quindi usato

“palcoscenico”); vintage, espressione molto di moda negli ultimi anni per indicare indumenti, automobili e
accessori degli anni ’50, ’60 e ’70 tornati in voga, in Italia ha una pronuncia molto curiosa, un misto
anglofrancese [vinˈtæ(d)ʒ], quando l’inglese sarebbe [ˈvɪntɪdʒ] e il francese [vɛ̃ˈtɑʒ]; in prestiti a
dllo spagnolo,
dove <j> starebbe per /x/, la pronuncia corretta viene considerata affettata e di solito <j> non viene letto, es. il
cocktail Mojito, in spagnolo [moˈxito], si preferisce chiamarlo in italiano [moˈito].
203 Giscel (a cura di), Educazione linguistica democratica a trent'anni dalle 10 Tesi, Franco Angeli, Milano, 2007.
121
per /k/ davanti a <e, i>; mentre l’italiano per il suono /ɲ/ usa il digramma <gn> lo spagnolo

ha un solo grafema, <ñ>. Lo spagnolo ha due grafemi perfettamente omofoni, <b> e <v>,

la cui distribuzione è prevedibile solo conoscendo l’etimologia della parola; etimologica è

anche la conservazione di <h>, che non corrisponde a nessun fonema e indica una /f/

latina, poi caduta, come in hierro (dal latino ferru(m)) o un /h/ latina come in haber; <h>

ha anche una funzione diacritica nel distinguere parole omofone: hecho, echo; a, ha, ah;

deshecho, desecho; hojear, ojear; haya, aya; rehusar, reusar; herrar, errar; honda, onda;

hizo, izo. Si conserva <x> con valore di /ks/, anche se nella pronuncia spontanea la

sequenza fonica si semplifica spesso in [s], mentre l’introduzione tardiva di parole di

origine latina contenenti la sequenza grafemica <sc + i, e> ha portato a una pronuncia

artificiale204 /sθ/ (si confrontino gli esiti conocer, decender, nacer, in cui il suono /s/ è

caduto, con piscina, ascensor in cui si conserva)205. Fuori dalla Spagna (e anche in

alcune zone di essa) <s>, <z> e <c + e, i> sono omofoni e stanno per /s/ (mentre in

castigliano standard <z> e <c + e, i> stanno per /θ/). Tendenzialmente, /x/ si indica con

<g> davanti a <e, i> e con <j> in tutti gli altri casi ma ci sono eccezioni alla regola. Il

fonema /ʎ/ ormai è in recessione e tende a neutralizzarsi con /j/, cosicché le grafie <ll> e

<y> trascrivono ora lo stesso suono.

A differenza dell’italiano, l’accento tonico viene sempre notato graficamente a

meno che non si tratti di una parola piana; in conseguenza a questo, quando legge, uno

spagnolo sa sempre come pronunciare una parola (può avere dei dubbi nella scrittura,

nel caso di fonemi come /b/, /j/, /x/, /s/). È importante sottolineare due aspetti notevoli

dell’ortografia spagnola:

1. serve a trascrivere una lingua parlata da circa 390 milioni di persone in

Spagna, Messico, America Centrale e in America del Sud (escluso il

204 Si tratta di un caso di spelling pronunciation (v. il paragrafo 5.1 di questo capitolo).
205 Morreale, M., “La (orto)grafía como tropiezo”, in Blecua, M. J., Gutiérrez J., Sala L., op. cit., pp. 189-197.
122
Brasile), svolgendo un ruolo coesivo per le diverse varianti locali; queste

varianti comunque non si distanziano eccessivamente dallo standard

castigliano (almeno a livello fonologico), per cui la lingua scritta viene

percepita in tutti paesi ispanofoni come vicina all’orale;

2. nonostante la sua matrice fonologica, ci sono state nella storia diverse

proposte di riforma, per esempio, quella voluta da Andrés Bello in

Sudamerica, che ebbe inizialmente successo ma poi si ritornò allo

standard della Real Academia Española, o quelle mai entrate in vigore di

Juan Ramón Jiménez e di Gabriel García Márquez. Fatto sta che di tanto

in tanto la Real Academia, nelle edizioni del suo dizionario, fa piccoli

aggiustamenti per migliorare l’ortografia. Recentemente i digrafi <ch> e

<ll>, che venivano considerati lettere dell’alfabeto, hanno perso il loro

status indipendente. Sampson fa notare che “if your script is almost

perfectly phonemic, then you see its graphemes as devices for

representing sounds and you perceive the respects in which they fail to

do so as striking and curable imperfections206”; questo spiegherebbe

come mai in ambito ispanofono sia più semplice attuare riforme rispetto a

casi di lingue con ortografie opache o non alfabetiche.

Altre ortografie (a base latina) considerate trasparenti sono:

• l’albanese, in cui a ogni grafema corrisponde un fonema e

viceversa e sono in uso alcuni digrammi: <gj, ll, nj, rr, sh, th, xh,

zh>;

• il basco, che usa l’alfabeto latino più il simbolo <ñ> preso dallo

spagnolo e qualche digramma;

206 Sampson, G., Writing systems, London, Hutchinson, 1985, p. 207.


123
• alcune lingue slave, come il ceco, lo slovacco, il polacco, il

croato. Queste lingue fanno tutte uso di diversi diacritici sulle

consonanti come sulle vocali, di diversi digrammi, e riescono a

descrivere in maniera quasi sempre univoca e senza ambiguità il

loro sistema fonologico. Il croato si distingue dal serbo per delle

piccolissime differenze, ma il serbo usa (anche) l’alfabeto cirillico;

il fatto di poter usare diversi script per la propria lingua che per

giunta condividono alcuni grafemi (<A, B, C, E, H, M, O, P, T, Y>,

con valori fonologici talvolta diversi) è spesso un fattore di

disturbo nei processi di lettura dei serbocroati207;

• l’estone e l’ungherese, lingue ugrofinniche come il finlandese.

L’estone considera lettere dell’alfabeto anche grafemi vocalici

con l’umlaut, a differenza del tedesco, e li pone verso la fine della

serie alfabetica, probabilmente per influenza delle lingue

scandinave; l’ungherese fa un largo uso di digrammi e possiede

anche un trigramma (<dzs>, per /dʒ/);

• il rumeno, lingua romanza, ha un’ortografia che ricorda molto

quella italiana (per l’alternanza velare/palatale di <c> e <g>); una

delle difficoltà nella scrittura è la già citata conservazione

etimologica di <â>;

• il turco, classificato, pur con qualche riserva, come lingua altaica,

è stato scritto con script differenti nei secoli: l’orkhon, il cirillico,

l’arabo, greco, armeno, ecc. L’ortografia a base latina in vigore

oggi è stata voluta da Mustafa Kemal Atatürk nel 1928 per

207 Frost, R., op. cit., pp. 258-259.


124
questioni ideologiche. I grafemi sono quelli dello script latino di

base più qualche carattere speciale.

Tra le lingue che utilizzano l’alfabeto cirillico, hanno delle ortografie trasparenti,

tra le altre, il bulgaro e il serbo. Il georgiano utilizza un proprio alfabeto, chiamato

mkhedruli, apparso per la prima volta in un’iscrizione in una chiesa in Palestina nel 430

d.C. È composto da 33 lettere, corrispondenti ai 33 fonemi della lingua georgiana208.

4.4 Ortografie morfofonologiche


La definizione di ortografia morfofonologica si avvicina molto a quello che

sarebbe l’ideale di un’ortografia profonda, ovvero un sistema ortografico che non tenga

conto solo della fonologia superficiale di una parola ma della sua forma soggiacente.

Abbiamo visto che nelle ortografie opache si danno casi in cui la forma scritta di una

parola coincide con la sua forma soggiacente, per esempio grand in francese, ma ci sono

ortografie dove questo procedimento viene attuato in maniera più sistematica. Gli esempi

tipici sono il tedesco e il russo, il primo usa lo script latino e il secondo quello cirillico. Una

volta imparante le regole per leggere e scrivere il tedesco non si incontrano particolari

difficoltà (il 96% dei monosillabi in tedesco può essere letto senza problemi una volta

appresa la regola209), ma non tutte le regole di conversione grafema-fonema possono

applicarsi in tutti i casi, alcune regole vanno applicate solo dopo altre. L’ordine con cui

queste regole vanno applicate dipende soprattutto dai processi di formazione e

derivazione delle parole. Uno dei criteri principali di cui si tiene conto è quello della

massima somiglianza, per cui un morfema lessicale tende a non modificarsi nello scritto

anche se la sua pronuncia all’orale cambia, in questo modo l’ortografia tedesca “tends to

prevent certain morphological changes since it keeps alive the native speaker’s

208 Holisky, D. A., “The Georgian Alphabet”, in Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., p. 367.
209 Ziegler, J. C., Perry, C., Coltheart, M., “The DRC model of visual word recognition and reading aloud: An
extension to German”, in European Journal of Cognitive Psychology, n. 12, 2000, pp. 413- 430.
125
knowledge about those derivational relations, which could easily be lost if this knowledge

had to be based on the sound system alone210”. L’uso del diacritico per segnalare

l’umlaut è uno dei modi in cui si applica il criterio della massima somiglianza: Haus,

Häuser, Auge, Äugen. Ci si potrebbe chiedere perché non si applica lo stesso principio

anche nel caso dell’ablaut; il punto è che, se lo si facesse, si svuoterebbero

completamente di significato i grafemi vocalici, perché qualsiasi segno potrebbe stare per

qualsiasi fonema, si pensi a casi come: trinke – trank – getrunken; ci sarebbe bisogno di

notazioni estremamente complesse211. L’ortografia tedesca condivide con quella russa

l’abitudine di non segnalare l’assordimento delle consonanti sonore in posizione finale,

per mantenere l’identità delle singole parole ed evitare di rendere omografe parole già

omofone. Il russo e il tedesco condividono anche, dal punto di vista linguistico, la

tendenza a formare parole abbastanza lunghe. In russo i valori dei fonemi vocalici si

modificano in base alla posizione dell’accento tonico nella parola. In particolare, /a/ e /o/

passano a [ʌ] o a [ə] in base alla loro distanza dalla sillaba accentuata, ma questo non

viene riflesso nella grafia. Nella morfologia nominale, il grafema che indica

palatalizzazione chiamato segno dolce <ь> (мягкий знак [ˈmʲæxʲkʲi znak]) viene aggiunto

alle basi in sibilante solo al femminile, per distinguerlo dal maschile. Tuttavia, sia

l’ortografia tedesca sia quella russa mantengono anche delle componenti prettamente

etimologiche e storiche che non riescono a essere spiegate con il criterio

morfofonologico. Inoltre ci sono anche casi dove è prevalso il criterio fonologico, creando

delle asimmetrie nel sistema, per esempio, perché in tedesco si scrive Mann e Männer

ma alt e Eltern? Come tutte le ortografie che hanno una lunga storia, il tedesco e il russo

sono frutto della sedimentazione degli usi di diversi ideatori, riformatori, scrittori, ecc. che

talvolta hanno seguito un criterio (consciamente o meno) e talvolta un altro. Un’eventuale

210 Eisenberg, P., “Writing system and morphology. Some orthographic regularities of German”, in Coulmas, F.,
Ehlich, K., op. cit., p. 66.
211 Ibid., passim.
126
riforma dovrebbe tenere conto di queste incongruenze, ma invece sembra più necessario

aggrapparsi a sottigliezze come la scelta tra <ss> e <ß>.

Anche l’ortografia coreana inizialmente era altamente fonologica e gradualmente,

dopo la riforma Gabo del 1894 e quella della Hangŭl Society del 1933, è diventata

morfofonologica come oggi. Ad esempio, la frase “un uomo che non può” si scrive oggi

, la cui trascrizione è [mos ha nɯn sa ram i]; nella pronuncia, il suono [s] di

mos, incontrando il suono [h] di ha si trasforma in un’occlusiva aspirata [tʰ] ma questo

non influisce sulla scrittura212.

4.5 Opacità vs Trasparenza


Purtroppo, per questioni di tempo e di spazio non ci è possibile approfondire il

discorso sulla trasparenza delle ortografie anche per sistemi di scrittura diversi

dall’alfabeto213. Tuttavia, alla luce di alcuni dati emersi, possiamo perlomeno tentare di

trarre qualche conclusione, almeno per quanto riguarda le ortografie considerate.

Confrontando le due ortografie continuamente citate come esempi negativi di

sistemi inutilmente complicati, l’inglese e il francese, con l’ortografia considerata,

all’unanimità, come semplice e funzionale, il finlandese, avevamo sottolineato delle

differenze sostanziali riguardo alla storia e alla struttura delle tre lingue. In primo luogo, la

recente formazione di una tradizione scritta in Finlandia si contrappone

212 http://it.wikipedia.org/wiki/Hangul#Ortografia.
213 Un’ortografia opaca non è alfabetica è, per esempio, quella della lingua khmer, un abugida il cui
funzionamento riprende quello degli script indiani; il primo elemento grafico tracciato rappresenta una
consonante, le vocali vengono indicate con dei simboli a destra, a sinistra, sopra o sotto il grafema
consonantico; la consonante si scrive per prima anche nel caso in cui il diacritico vocalico venga posto alla sua
sinistra (il ductus è da sinistra a destra). Come l’inglese e il francese, il khmer ha un sistema vocalico molto
complesso (non si è ancora raggiunto un accordo riguardo al numero di fonemi vocalici), i grafemi vocalici
possono avere valori diversi (nel caso specifico del khmer, due, a seconda del grafema consonantico a cui
sono legati) e la pronuncia si è allontanata molto dalle fasi più antiche della lingua. Le parole di origine sanscrita
o pāli seguono delle regole di pronuncia proprie. Un esempio dell’opacità dell’ortografia è data dalla grafia del
nome della Cambogia: កមពុ ជ, traslitterato kambujā, pronunciato [kampuciə] ma viene scritto oggi Cambodia,

riprendendo una forma desueta per ragioni politiche (cfr. Schiller, E., “Khmer Writing”, in Daniels, P. T., Bright,
W., op. cit., pp. 467-473).
127
all’abbondantissima produzione letteraria francese e inglese. Questo ha impedito il

crearsi di grafie etimologiche, storiche e/o prestigiose in finlandese, in quanto non c’è uno

standard di riferimento anteriore al XIX secolo; che dire invece dei moltissimi grandi

autori ed editori della tradizione francofona e anglofona, le cui scelte grafiche si sono

imposte agli occhi dei lettori per secoli? In secondo luogo, si può considerare il numero

dei locutori. Come abbiamo già sottolineato, uno dei vantaggi delle scritture logografiche

in situazioni con milioni di parlanti, magari con divergenze nella pronuncia dovute ai

diversi dialetti, è quella di permettere l’intercomunicabilità tra tutti i membri della comunità

linguistica al di là delle differenze fonologiche superficiali; è il caso dello script cinese.

Allo stesso modo, si può supporre che l’opacità dell’ortografia inglese e francese abbia

un qualche vantaggio, visto il numero notevole di parlanti e le significative differenze nella

pronuncia. Non essendoci delle corrispondenze sistematiche tra fonemi e grafemi, i

milioni di persone che parlano la stessa lingua possono utilizzare il loro sistema di

scrittura come se fosse logografico (o perlomeno in parte tale). Pensiamo invece ad altre

lingue che come il finlandese hanno un’ortografia quasi perfettamente fonologica:

albanese, bulgaro, ceco, slovacco, croato, serbo, estone, rumeno, ungherese, ecc. si

tratta quasi sempre di lingue con comunità di parlanti medie o piccole; fa eccezione il

turco, con 50 milioni di parlanti. Dell’italiano, che pure ha 60 milioni circa di parlanti,

abbiamo sottolineato come l’ortografia basata sul toscano sia fonte di diversi errori

ortografici a causa delle divergenze dialettali. Un vero caso eccezionale è l’ortografia

spagnola, che è riuscita a rimanere piuttosto trasparente nonostante una lunga e ricca

tradizione letteraria in lingua spagnola, la diffusione in diverse nazioni e l’altissimo

numero di parlanti nativi. Di conseguenza, ci deve essere anche un’altra ragione che

favorisce il mantenimento della trasparenza ortografica, si tratta del linguistic fit

dell’alfabeto latino. Lo spagnolo, come il finlandese e l’italiano, possiede dei suoni

vocalici con timbri chiaramente definiti e che non sono troppo lontani da quelli che

128
probabilmente possedeva il latino. Invece il francese e l’inglese hanno un numero di

fonemi vocalici estremamente superiore a quello dei grafemi vocalici di base; molte

lingue risolvono questi problemi con dei diacritici, ma nel caso del francese e dell’inglese

non solo si avrebbe bisogno di un numero di segni diacritici non indifferente, ma sarebbe

un’operazione difficile anche perché la diversità tra le diverse vocali è spesso molto

sottile e soggetta a diverse interpretazioni a seconda della classe sociale del parlante e

della sua regione d’origine. Le lingue slave hanno meno difficoltà in questo senso in

quanto, notoriamente, si tratta di lingue dove sono presenti molte più consonanti che

vocali e sopportano sequenze consonantiche molto complesse; nelle lingue slave, inoltre,

una parola è in media molto più lunga che in inglese e francese, e lo stesso vale per il

tedesco, l’italiano e le lingue ugrofinniche. L’inglese e il francese si sono trovati quindi a

dover far fronte alle differenze di pronuncia di milioni di parlanti, alla frammentazione

dialettale interna, a un sistema fonologico molto instabile con dei timbri vocalici poco

distinti tra di loro con diversi fonemi che tendono a neutralizzarsi in [ə] e un sistema

lessicale ricco di casi di omofonia e di parole molto brevi. La distintività necessaria

affinché queste lingue continuassero a funzionare come sistemi di comunicazione si è

mantenuta prima di tutto grazie all’istituzione scolastica. Da qui, l’attaccamento tipico

degli inglesi e dei francesi alla loro ortografia, in quanto vista come uno strumento di

discriminazione di significati, esattamente come gli ideogrammi per il popolo cinese.

Grafie storiche, etimologiche e arbitrarie sono state trasformate dai parlanti in mezzi per

distinguere le parole tra di loro e accedere al proprio lessico mentale, dove la pronuncia,

anche se non indicata con precisione dalla scrittura, viene recuperata in fretta; all’orale gli

omofoni creano meno problemi in quanto è quasi sempre possibile chiedere al proprio

interlocutore di disambiguare sequenze suscettibili di diverse interpretazioni, cosa che

invece è difficile (e atipica) per lo scritto214. Non è perciò così scontato che un’ortografia

214 L’omofonia tra due parole di diverso significato può talvolta dare luogo a fenomeni di reinterpretazione, per
129
fonologica svolga meglio la sua funzione di un’ortografia opaca, nel caso dell’inglese e

del francese. Questa però non vuole essere una capitolazione davanti ai fatti o

un’apologia del conservatorismo grafico; la nostra ipotesi non contesta il fatto che

un’ortografia fonologica sarebbe più semplice da imparare di una opaca, semplicemente,

l’evoluzione di queste due lingue ha reso lo script latino sempre meno adatto alla loro

notazione; come reazione a questo fatto, gli utenti dello script hanno cominciato ad

attuare delle strategie di lettura e scrittura differenti rispetto agli utenti di un’ortografia

fonologica. Un’ortografia opaca, tra i suoi mille difetti, possiede anche alcuni pregi tipici

delle scritture logografiche pur avendo un numero di caratteri molto contenuto

(soprattutto l’inglese, che non usa diacritici). Al contrario, l’italiano e lo spagnolo, non

allontanandosi eccessivamente dalla struttura fonologica del latino, hanno mantenuto il fit

della loro lingua madre, e casualmente, anche il finlandese, pur non essendo imparentato

al latino, si è rivelato altamente compatibile con l’alfabeto di questa lingua.

Riassumendo, possiamo dire che c’è un’alta probabilità che un’ortografia

alfabetica sia opaca se:

• esiste una tradizione letteraria molto antica;

• la lingua trascritta è estremamente diffusa e possiede numerose varianti

locali (un’eccezione è il danese, che ha un’ortografia opaca ma è parlato

da 5 milioni di persone);

• i fonemi della lingua trascritta sono molto più numerosi dei grafemi a

disposizione;

• la lingua ha subito molti cambiamenti fonologici proprio durante il fissarsi

di uno standard ortografico;

cui i due significati, inizialmente distinti, vengono fatti confluire nello stesso ambito semantico; è il caso, in
inglese, di sight e site (“vista” e “sito”); anche ear “spiga”, parola omofona e omografa di ear “orecchio” ma con
una diversa etimologia, è state reinterpretata come orecchio della pianta.
130
• la lingua possiede un sistema vocalico relativamente instabile, con vocali

dittongate, centralizzate, schwa, ecc.;

• la lingua possiede frequenti casi di omofonia e molti monosillabi;

Al contrario, un’ortografia alfabetica tende a essere trasparente o comunque a

mantenere un alto grado di vicinanza con la realtà fonologica se:

• lo standard ortografico è stato introdotto in tempi relativamente recenti;

• la lingua ha una struttura fonologica relativamente stabile, con la

maggioranza delle vocali pure;

• il numero di fonemi e il numero dei grafemi non differisce

eccessivamente;

• la lingua trascritta non ha molte varianti o non è molto diffusa fuori dal

territorio nazionale (eccezioni sono il turco, lo spagnolo, l’italiano);

• la lingua ha pochi casi di omofonia e la maggior parte del lessico è

composta da parole almeno bisillabiche;

• la lingua ha accettato una notazione sottospecificata, in cui alcuni fonemi

si neutralizzano nella grafia.

5. Effetti dell’ortografia e del suo insegnamento

5.1 Spelling Pronunciation o effetto “Buben”


Si è già avuto modo di accennare nel testo che la scrittura influenza alcuni

processi cognitivi e che a seconda del sistema di scrittura utilizzato, i giudizi

metalinguistici possono cambiare. Ma la scrittura, o più precisamente, l’ortografia e il suo

insegnamento scolastico possono influenzare non solo i giudizi linguistici, ma anche la

pronuncia di determinate parole. I primi a sottolineare questo potere della grafia

sull’oralità sono stati Saussure e Bloomfield. Dei casi elencati da Saussure abbiamo già

citato gageure e Lefebvre; il linguista ginevrino faceva anche notare come i parlanti

131
francesi più colti pronunciassero l’ultima consonante di sept e di vingt, che era

scomparsa all’orale da qualche secolo215. Anche Bloomfield, nella sua opera Language,

cita diversi casi di spelling pronunciation. In un’opera del 1935, Vladimir Buben216,

linguista ceco, cercava di spiegare parte dell’evoluzione fonologica del francese

ipotizzando un’influenza dell’ortografia sulla pronuncia, che lui chiamava orthographisme

o pronunciation orthographique. In suo onore, Blanche-Benveniste e Chervel hanno

battezzato questo fenomeno “effetto Buben”217. Alla spelling pronunciation accenna

anche Bolinger218 nel 1946 ed è il soggetto di un interessante articolo di Levitt pubblicato

nel 1978219. Come fanno notare Chevrot & Malderez220, negli attuali studi di linguistica,

anche diacronica, l’effetto Buben è stato trascurato; viene invece ripreso come campo

d’indagine in ambiti come la sociolinguistica, per spiegare alcune variazioni diastratiche,

diafasiche e diamesiche nella pronuncia, e nella psicologia cognitiva, come argomento a

favore di un’interattività funzionale tra il sistema di trattamento della forma scritta delle

parole e il sistema di trattamento della loro forma orale221. In fonologia, potremmo definire

l’influsso dell’ortografia sulla pronuncia come un processo di fortizione. Secondo

Dressler, Mayerthaler e altri studiosi della morfologia naturale222, le lingue sarebbero

continuamente sottoposte alla pressione di due forze opposte: la lenizione e la fortizione.

La prima sarebbe la tendenza del parlante a diminuire lo sforzo articolatorio, es. latino

amatu(m) > amato > ama[d]o > ama[ð]o = spagnolo amado “amato”; la seconda

215 Saussure, F. de, op. cit., p. 43.


216 Buben, V., Influence de l’orthographe sur la prononciation du français moderne, Genève, Droz, 1935.
217 Blanche-Benveniste, C., Chervel, A., L’orthographe, Paris, Maspero,1978.
218 Bolinger, D. L., op. cit.
219 Levitt, J., “The Influence of Orthography on Phonology: a Comparative Study (English, French, Spanish,
Italian, German)”, in Linguistics, n. 208, The Hague, Mouton, 1978.
220 Chevrot J.-P, Malderez, I., “L’effet Buben: de la linguistique diachronique à l’approche cognitive (et retour)”,
in Langue française, vol. 124, n. 1, 1999, pp. 104-125.
221 Ehri, L., “Apprendre à lire et écrire des mots”, in L’apprenti lecteur, a cura di Rieben, L., Fayol, M., Perfetti, C.
A., Delachaux & Niestlé, 1989, pp. 231-266; Perfetti, C. A., “Représentation et prise de conscience au cours de
l’apprentissage de la lecture”, in Rieben, L., Fayol, M., Perfetti, C. A., op. cit., pp. 61-82.
222 Dressler, W. U., Mayerthaler, W., Panagl, O., Wurzel, W.U., op. cit.
132
consisterebbe nel tentativo di ottimizzare la percettibilità uditiva dell’ascoltatore mediante

l’accuratezza articolatoria223. Nelle lingue di solito prevalgono i processi lenitivi, ma

l’istituzione ortografica e il suo insegnamento scolastico possono fermare la lenizione e

addirittura far regredire il processo a stadi precedenti, soprattutto attraverso l’esercizio

del dettato224. Fondamentalmente, l’effetto Buben, a livello fonologico, consiste

principalmente in processi di regressione o di innovazione. Si ha regressione quando un

fonema, un tempo pronunciato e poi caduto, viene restituito alla pronuncia per influsso di

una lettera muta; si ha innovazione quando, a causa dell’uso di lettere diacritiche o di

reinterpretazioni di sequenze grafiche compare un suono che prima non c’era; in

sincronia, ad ogni modo, andranno entrambi considerati come innovazioni. Vediamo degli

esempi: in inglese, /h/ iniziale stava andando scomparendo dalla pronuncia di diversi

vocaboli, tra cui i pronomi personali he, him, his, hit (= it), hem (= them); l’insegnamento

scolastico ha però sempre cercato di ripristinare la pronuncia di <h>, riuscendoci con he,

him, his; it è sfuggito al processo e per hem si ha oggi una forma colloquiale ‘em, ma la

forma standard è un them di origine scandinava225. In francese, la parola lais “lascito”,

che si pronunciava /lɛ/, durante il Rinascimento è stata erroneamente associata con il

latino legatus e si è cominciato a scriverla legs, con il risultato che oggi i più pronunciano

/lɛɡ/ con l’apparizione di un fonema /ɡ/ che non c’era mai stato prima che la grafia della

parola venisse modificata. La maggior parte della letteratura scientifica al riguardo si

basa sulle ortografie dell’inglese e del francese, ma il fenomeno può apparire anche in

altre ortografie opache e in ortografie morfofonologiche e fonologiche. Levitt226 cita

esempi presi dal tedesco, dallo spagnolo e dall’italiano e la restaurazione nella pronuncia

delle consonanti occlusive sonore in finlandese si può probabilmente attribuire alla norma

223 Ibid.
224 Mioni, A., Elementi di morfologia generale, Padova, Unipress, 2006, p. 131n.
225 Ibid.
226 Levitt, J., op. cit.
133
grafica che mantiene nell’uso <b, d, g>227; in danese la pronuncia dei grafemi <v> e <d>

è estremamente variabile e può differire considerevolmente a seconda del contesto,

formale o informale; per esempio, Hovedstaden, la regione in cui si trova Copenhagen, è

normalmente resa come [huːð̩ʔstɛð̩n̩] ma la pronunci


a degli speaker radiofonici o

televisivi è molto più vicina all’ortografia: [huʋəð̩ʔstɛð̩ən]. L’ortografia può anche avere

conseguenze che non vanno a influire direttamente sul piano fonologico, ma sul piano

semantico: a varianti della stessa parola, omofone ma non omografe, si tende ad

attribuire un significato diverso in base alla scrittura; in questi casi, Bolinger parla di

biforcazione: in inglese “grigio” all’orale è /ɡreɪ/ ma può essere scritto <gray> o <grey>; la

presenza di due diverse rappresentazioni grafiche ha generato la convinzione, per alcuni

parlanti, che si tratti di due sfumature diverse dello stesso colore e si è registrata una

tendenza a preferire <grey> quando si parla del colore con un’accezione positiva, <gray>

quando l’accezione è negativa228. Sempre secondo Bolinger, si può parlare invece di

costellazione quando un certo spelling viene associato a certi contesti, perlopiù

prestigiosi; per esempio, in inglese c’è alternanza nella grafia tra <-er> e <-or> per

rendere il suffisso /-əː/; ebbene, si tenderebbe a preferire <-or> con parole a cui si

attribuisce uno status più elevato. Secondo Levitt229, l’introduzione del digramma <th> in

parole di origine greca e latina durante il Rinascimento avrebbe causato la

fonologizzazione di un allofono: fino al XVII [θ] e [ð] erano allofoni dello stesso fonema

che si realizzava sonoro in posizione intervocalica e sordo nelle altre posizioni;

l’introduzione della grafia <th> in posizione intervocalica (ether, atheist, sympathy,

pathetic) con pronuncia sorda, avrebbe creato delle coppie minime del tipo either vs

ether, fonologizzando l’opposizione; in verità l’autore attribuisce eccessiva importanza

alla grafia e dimostra i limiti di un’analisi grafocentrica: la distinzione fonologica di /θ/ e /ð/

227 Hakulinen, L., op. cit.


228 Bolinger, D. L., op. cit., p. 336.
229 Levitt, J., op. cit., p. 47.
134
si ebbe durante il periodo del Middle English: a causa della semplificazione delle

consonanti lunghe, le spiranti intervocaliche [f, s, θ] si trovarono in diretta opposizione

con le loro controparti sonore [v, z, ð] che acquisirono lo status di fonemi indipendenti230;

inoltre, a causa della caduta delle vocali finali, si crearono coppie minime come teeth /tiːθ/

“denti” e teethe /tiːð/ “mettere i denti”; [ð] in posizione iniziale apparve più tardi in parole

grammaticali atone come the, there, ecc. Per assurdo, proprio quando i due foni

interdentali si distinsero in due fonemi diversi, la grafia si unificò in <th>, abbandonando

<þ> e <ð>. Levitt cita poi anche il caso in cui, quando due grafonemi diversi

rappresentano lo stesso fonema, la pronuncia tende a differenziarsi: l’esempio è la

distinzione tra wail e whale: nella Received Pronunciation queste due parole sarebbero

identiche fonologicamente, /weɪl/, ma a causa della grafia <wh> sarebbe passato a [ʍ],

oltre che per l’influsso della pronuncia irlandese e scozzese231; anche qui è difficile

stabilire il reale ruolo svolto dall’ortografia nella pronuncia, perché risulta impossibile

provare quale fattore in gioco abbia avuto più peso; accanto alla pronuncia standard

coesistono una serie di pronunce concorrenti, alcune più innovative, altre più

conservative, e prima o poi una di queste alternative può prevalere sullo standard,

specialmente se riceve l’avvallo dell’ortografia, ma questo non prova che sia quest’ultima

la causa scatenante di un cambiamento fonologico. Con quest’ottica si può spiegare

anche la situazione di [e~ɛ], [o~ɔ], [s~z] e [ts~dz] in italiano; lo standard toscano vorrebbe

che queste varianti fossero fonemi ma in quasi nessuna variante regionale questo

avviene con regolarità e le parole in cui questa distinzione è operativa sono veramente

poche. Per Levitt è stata la mancanza di distinzione nell’ortografia a contribuire in modo

decisivo alla perdita di queste opposizioni nel parlato232, ma probabilmente vale l’inverso:

la non-universalità di queste distinzioni nel variopinto panorama linguistico italiano ha

230 Fisiak, J., op. cit., pp. 59-60.


231 Levitt, J., op. cit., p. 49.
232 Ibid., p. 59.
135
fatto sì che non si considerasse necessario rappresentare in maniera diversa foni che per

la maggior parte dei parlanti sono allofoni e non fonemi. In tedesco c’è una tendenza,

nelle famiglie più istruite, a incoraggiare i bambini a pronunciare Vater e Mutter come

[fatɛr] and [mʊtɛr], al posto delle varianti più naturali in [-ər] o in [-ɐ]; similmente, nomi

propri femminili si vedono restituire una [-a] finale al posto di [-ə], come Mari[ə] che passa

a Mari[a]. I due fenomeni sembrano collegati, ma nel primo caso è più facile ipotizzare un

influsso dell’ortografia, mentre nel secondo è difficile dimostrare che <Marie> possa

indurre a pronunciare [maʀia] al posto di [maʀiə]; entrambi i casi invece possono essere

spiegati in base a un bisogno linguistico, il primo per armonizzare i sostantivi in <-er> con

i loro paradigmi, es. Vater con väterlich, il secondo per ripristinare una distinzione tra il

maschile e il femminile perlomeno in un ambito come quello dei nomi propri dove il

genere sessuale è motivato e non solo grammaticale233. Potremmo concludere che

l’influenza dell’ortografia entri in gioco solo quando questo coincida con dei bisogni

linguistici già presenti. Questa idea la troviamo anche in Vachek, quando parla del

digramma <oi> in inglese: parole come joint e point erano pronunciate con [əi] nel XVIII

secolo, come dimostrano le rime joins-refines, toil-compile, poison-surprise on. Ma

perché non hanno subito lo stesso processo anche love, come (ovvero perché si

pronunciano con [ʌ] e non con [ɔ])234? Perché alla lingua “conveniva”: il digramma <oi> in

inglese è avvertito come indice di forestierismo; nel Middle English l’originale dittongo

inglese [ui] passò a [əi] e così <oi/oy> straniero e <oi/oy> originario si fusero nella

pronuncia; per continuare a distinguere le due componenti lessicali (germanica e

romanza) dell’inglese, si è proceduto a diversificare la pronuncia in base alla grafia,

233 In fenomeno simile si è avuto in francese, lingua in cui, per esempio, una volta che i due nomi propri André
(maschile) e Andrée (femminile) hanno cominciato a essere pronunciati nello stesso modo, si è diffusa la
variante Andréa per il femminile.
234 A Vachek sfuggiva forse l’origine di queste grafie: love e come si scrivono con <o> e non con <u> per un uso
del Middle English di notare /u/ con <o> davanti a <v> e <m> che a causa della loro forma potevano dare luogo
a confusione nella lettura.
136
mentre love e come fanno parte dello strato nativo del lessico inglese e non c’era

necessità di differenziarli stilisticamente. Similmente, la restaurazione della pronuncia di

[ŋ] è dovuta alla necessità di riempire la casella vuota nella serie [p, b, m – t, d, n – k, ɡ,

ŋ]235. Anche in francese la restituzione sul piano fonico della pronuncia di diverse

consonanti prima mute ha impedito la proliferazione di casi di omofonia: sens vs sang; os

vs eau; donc vs dont; tous vs tout; nef vs nez; moeurs vs meurt; but vs bu; sept vs c’est,

ces, ses; soit (congiunzione) vs soit (verbo); finir vs fini, finis, finit (la prima parola di ogni

serie ha ora l’ultima consonante pronunciata). Non possiamo dire quindi che l’ortografia

influenzi sistematicamente la pronuncia, altrimenti si dovrebbe raggiungere l’ideale

agognato da molti di una lingua dove si legge come si scrive; in caso di necessità però,

essa fornisce delle possibilità discriminatorie alla lingua e, in presenza di più alternative,

sancisce l’accettabilità sociale di una forma piuttosto che un’altra. I tedeschi del Nord

pronunciano sprechen con [s] invece di [ʃ], in accordo con il locale Plattdeutsch e con la

grafia, facendo sì che anche nella Germania meridionale questa variante sia considerata

elegante, mentre pronunciare Schneider e schwimmen con [s] è considerato comico

perché lo spelling <sch> esige [ʃ]236. Casi simili a questo sono quelli della liaison in

francese; essa nascerebbe come metodo per evitare lo iato, dispendioso a livello

articolatorio, così vous êtes viene letto [vuzɛt] e non *[vuɛt]; ma quando la liaison, nella

pronuncia, viene ampliata anche a casi dove non c’è la sanzione dell’ortografia (ovvero

quando il suono che lega una parola all’altra non ha una controparte grafica), essa non

viene considerata socialmente accettabile e diventa un indice di bassa istruzione: così lo

iato viene tollerato se esso combacia con la grafia (à eux [aø]), mentre una liaison come

ce n’est pas à moi [sənɛpɑtamwa] è considerata dialettale-colloquiale (cfr. casi come y a-

t-il dove invece la grafia indica [t] con <-t->). Un fatto che è sfuggito ai più è che quasi tutti

235 Vachek, J., Written language. General problems and problems of English, The Hague, Mouton, 1973, pp.
41-48.
236 Levitt, J., op. cit., p. 52.
137
i neologismi ricavati artificialmente da radici greche e latine sono, alla fin fine, casi di

spelling pronunciation, in quanto queste parole non erano mai state pronunciate prima

della loro invenzione in ambito letterario o tecnico-scientifico e la loro resa orale viene

ricavata dal valore dei grafemi che le compongono, per analogia con altre parole dove

quegli stessi grafemi sono impiegati, oppure cercando di mantenere la supposta

pronuncia originale (è il caso di <ch> che in grecismi e latinismi viene fatto corrispondere

con /k/ in inglese e francese, invece che prendere il suo valore abituale; la pronuncia più

corretta sarebbe /x/, ma questo fonema non appartiene a nessuna delle due lingue).

L’effetto Buben, o spelling pronunciation, che dir si voglia, è senz’altro uno degli

aspetti più interessanti dei rapporti tra fonologia e ortografia; tuttavia non bisogna né

attribuirgli un ruolo eccessivo, né ignorarlo, né liquidarlo come un’aberrazione come

faceva Saussure. A livello linguistico, talvolta, si può ripercorrere all’indietro la storia

dell’evoluzione fonetica per ristabilire una ridondanza perduta che permetta di diminuire

l’ambiguità di omofonie o l’instabilità fonologica di alcuni elementi; a livello

sociolinguistico, una pronuncia modellata sull’ortografia svolge la funzione di segnalare il

proprio livello d’istruzione e la propria dimestichezza con un certo tipo di registro

linguistico. I dati di Chevrot & Malderez dimostrano però che sono molto più numerosi i

casi in cui la forma (o diverse forme) orali prevalgono sulla forma scritta piuttosto che il

contrario, infatti la maggior parte del lessico viene appreso dal bambino prima nella forma

orale e poi nella forma scritta; “si l’effet Buben existe malgré la robustesse des

acquisitions orales, c’est parce que la solution consistant à aligner la graphie sur la

séquence de phonèmes, bien que moins coûteuse sur le plan cognitif, l’est davantage sur

le plan social. (…) la coïncidence de fait entre formes phonologiques longues, graphies et

138
variantes orales valorisées garantit qu’une partie des prononciations orthographiques

seront acceptables au regard des normes de l’oral237”.

5.2 Trasparenza e opacità ortografica in ambito didattico


Dopo aver trattato dell’insegnamento dell’ortografia concentrandoci sugli effetti

che può avere sulla pronuncia, ne parleremo analizzando le differenze che possono

emergere a seconda del tipo di ortografia che deve essere appresa.

Intuitivamente risulta spontaneo ipotizzare una maggiore facilità di

apprendimento delle ortografie trasparenti rispetto a quelle opache. Estremizzando, ci si

dovrebbe aspettare che gli stati anglofoni sfornino ogni anno miriadi di semianalfabeti

mentre quelli ispanofoni possano vantare studenti tra i migliori del mondo. Ovviamente

non è tutto così semplice e immediato e le varianti in gioco sono numerose e spesso

difficilmente oggettivabili. Il vantaggio principale delle ortografie trasparenti rispetto a

quelle opache è che richiedono meno tempo per essere apprese e ciò permetterebbe agli

allievi di concentrarsi maggiormente su altri aspetti della lettura, come la comprensione

del senso generale del testo, ecc. Gli ottimi risultati degli studenti finlandesi

sembrerebbero confermare l’esistenza di una correlazione tra ortografia trasparente e

livello scolastico; ma in un loro recente studio, Hagtvet, Helland e Lyster238 mostrano una

classifica del rendimento scolastico delle diverse nazioni e ne risulta che, se

effettivamente in prima posizione troviamo la Finlandia, al secondo posto ecco gli Stati

Uniti, nazione dove si parla l’inglese (e dove perciò l’ortografia è profondamente opaca),

caratterizzata da una grande varietà linguistica e culturale. In posizioni relativamente alte

troviamo la Svezia e la Norvegia, che possiedono un’ortografia solo parzialmente

regolare, e la Danimarca, dove l’ortografia è opaca.

237 Chevrot, J.-P, Malderez, I., op. cit., p. 122.


238 Hagtvet, B., Helland, T., Lyster, S.-A. H., “Literacy Acquisition in Norwegian”, in Malatesha Joshi, R.,
Aaron, P. G., op. cit., pp. 15-30.
139
Insomma, non è detto che il fatto di possedere un’ortografia “semplice” sia di per

sé predittivo per il successo scolastico; esso piuttosto va messo in relazione con una

serie di variabili tra cui la complessità dell’ortografia non è certo tra le più importanti: l’età

in cui inizia la scolarizzazione, i metodi di insegnamento, la preparazione degli

insegnanti, il livello socioculturale dei discenti, la distanza delle varietà parlate dagli

scolari rispetto allo standard, ecc. Inoltre, il fatto che si riscontrino problemi di correttezza

ortografica, talvolta seri, anche in scolari italiani o spagnoli ci induce a concludere che

scrivere (e leggere) siano delle abilità complesse sempre e comunque e che delle

difficoltà possano sorgere con un sistema quasi perfettamente fonetico come con un

sistema logografico. Il bambino deve imparare ad associare a dei concetti linguistici una

forma grafica fissa e predeterminata e dei fonemi a dei grafemi, deve essere in grado di

fare generalizzazioni, di sapere come comportarsi nel caso di parole mai udite, mai lette

o mai scritte prima, ecc. Spesso si pensa, superficialmente, che nel caso di ortografie

trasparenti, l’insegnamento della scrittura e della lettura si limiti all’esposizione

dell’inventario delle corrispondenze grafema-fonema e fonema-grafema e di una serie di

eccezioni, se esistenti. Invece, studi sull’apprendimento del finlandese e dell’italiano

scritto dimostrano che la consapevolezza fonologica gioca un ruolo molto importante nei

primissimi tempi ma poi vanno prese in considerazione tutta una serie di altre capacità

140
cognitive239. Insomma, i bravi lettori non hanno problemi ad assimilare né grafie

perfettamente fonologiche (es. <rana> /rana/) né grafie contestuali (es. <cela> vs <cala>,

anche se ci mettono più tempo a elaborarle) né grafie logografiche (es. <ha> /a/), mentre

chi ha problemi di lettura può averli tanto nelle ortografie opache che in quelle trasparenti.

Inoltre, sembra che, per quanto complicata possa essere un’ortografia, le parole ad alta

frequenza vengano comunque riconosciute senza mediazione fonologica (guarda caso,

sono spesso le parole ad altra frequenza ad avere uno spelling irregolare). Frith240

presenta un modello di acquisizione lettura/scrittura con l’attivazione di 3 strategie:

logografica, alfabetica, ortografica. La strategia logografica comporta l’istantaneo

riconoscimento di parole familiari, identificando gli elementi grafici salienti e ignorando

l’ordine delle lettere e i fattori fonologici; la strategia alfabetica presuppone la conoscenza

e l’uso di fonemi e grafemi singoli e delle loro corrispondenze e consente la lettura di

parole nuove e di non parole; la strategia ortografica comporta l’analisi istantanea delle

parole nelle loro unità ortografiche senza conversione fonologica, dove le unità

ortografiche sono intese idealmente coincidenti con i morfemi. Purtroppo il modello di

Frith, come la maggior parte dei modelli di acquisizione delle conoscenze ortografiche, si

basa sull’inglese e non ci è ancora chiaro quanto esso possa adattarsi ad altre lingue.

Tuttavia, in base ad alcuni primi tentativi di confronto tra l’apprendimento di ortografie

opache e ortografie trasparenti, emergerebbe che, almeno nelle prime fasi, le tappe siano

comuni; soprattutto, la consapevolezza fonologica sarebbe importante per tutti coloro che

devono apprendere un sistema di scrittura alfabetico, in quanto l’esposizione a una

shallow orthography non è di per sé sufficiente a fornire al bambino l’abilità di

decodifica241. Elbro, in un articolo sull’ortografia del danese, presenta un modello opposto

239 Müller, K., Brady, S., “Correlates of Early Reading Performance in a Transparent Orthography”, in Reading
and Writing: An Interdisciplinary Journal n. 14, Kluwer Academic Publishers, Netherlands, 2001, pp. 757-799.
240 Frith, U., Beneath the surface of developmental dyslexia, London, Lea, 1985, pp. 301-330.
241 Müller, K., Brady, S., op. cit.
141
a quello di Frith, nonostante si tratti sempre di un sistema opaco. Vengono individuati

quattro stadi nell’apprendimento ortografico: a) corrispondenza regolare grafema-fonema;

b) corrispondenza grafema-fonema dipendente dal contesto; c) apprendimento di

elementi con valore morfologico; d) apprendimento di scritture logospecifiche (proprie di

una sola entrata lessicale)242. Se la fase logografica in Frith è quella di base, in Elbro è

l’ultimo livello, quello in cui ci si arrende all’impossibilità di stabilire relazioni regolari tra

fonemi e grafemi e si memorizza la parola grafica come un’unità inanalizzabile. Noi ci

sentiamo più vicini alle posizioni di Frith, in quanto sia la filogenesi sia l’ontogenesi della

scrittura sembrerebbero provare che il bambino ha più facilità ad associare un’immagine

e un significato piuttosto che un’immagine e un suono. Il modello di Elbro sembra

riflettere di più un certo tipo di approccio didattico, probabilmente il più diffuso, al

problema dell’insegnamento dell’ortografia. In virtù del principio che idealmente dovrebbe

sottostare al sistema di scrittura alfabetico, si presentano tutte le corrispondenze

grafema-fonema e solo quando questo non è più possibile si danno i casi particolari di

corrispondenza grafemi-morfemi e grafemi-parole. Se questo tipo di approccio può dare i

suoi frutti con una lingua e un’ortografia come il finlandese, risulta perlomeno poco

economico quando si ha a che fare con ortografie anche solo leggermente più irregolari.

Innanzitutto, la scarsa intuitività del concetto di fonema renderebbe necessaria una sua

introduzione più avanti, quando il bambino ha già preso dimestichezza con la pratica

scrittoria e ha già sviluppato altre complesse capacità cognitive (non a caso la scuola

dell’obbligo inizia a 7 anni in Finlandia); come abbiamo già avuto modo di accennare, poi,

il fissarsi sulle corrispondenze grafemi-fonemi nell’ambito di ortografie opache può

indurre a generalizzazioni erronee, visto il grande numero di eccezioni e casi

242 Elbro, C., “Literacy Acquisition in Danish: A Deep Orthography in Cross-Linguistic Light”, in Malatesha
Joshi, R., Aaron, P. G., op. cit., pp. 31-46.
142
particolari243. L’insegnamento, per essere efficace, dovrebbe cercare di essere più

naturale possibile e, nel caso particolare dell’apprendimento della lingua scritta, sarebbe

desiderabile che esso ricalcasse quanto più possibile l’apprendimento della lingua orale.

Nel caso delle ortografie opache, l’approccio più vantaggioso potrebbe essere quello

globale, selezionando come unità di partenza la parola grafica e la frase; si potrà poi

lasciare che l’apprendente ricavi da solo le regole più semplici e regolari, imitando in

questo modo il processo naturale deduttivo con cui si impara a parlare; uno studio

sull’insegnamento dell’inglese scritto come L1 a un bambino giapponese sordomuto ha

dimostrato che è possibile imparare a leggere e scrivere anche senza un insegnamento

alfabetico esplicito244. La maggior parte degli errori di ortografia, infatti, deriva dalla

mancanza di isomorfia tra scritto e parlato, perché viene insegnato che questa isomorfia

c’è e deve essere individuata a tutti i costi. Con un approccio globale, invece, le parole

più irregolari e ad alta frequenza verrebbero direttamente associate ai concetti che

veicolano, senza che si venga distratti dall’apparente corrispondenza grafemi-fonemi; il

principio del minimo sforzo poi, tipico degli esseri umani, permetterebbe anche, in un

secondo momento, l’applicazione delle regole di conversione grafemi-fonemi più evidenti

e regolari. Non si tratterebbe quindi di un’espunzione del principio fonologico e il

passaggio a un insegnamento a base logografica, ma soltanto un tentativo di

“naturalizzare” l’apprendimento di un’abilità che di per sé non è naturale. La natura mista

fono-morfo-logografica di molte ortografie le rende complesse ma un’impostazione

didattica fonocentrica può far sì che l’apprendimento richieda ancora più tempo del

dovuto, in quanto spesso invece che aiutare l’alunno, lo depista. Ovviamente sarebbe

necessario prendere in considerazione, caso per caso, come miscelare le diverse

componenti nell’insegnamento, in quanto, se per l’inglese un approccio globale è

243 Venezky, R. L., op. cit., p. 127.


244 Steinberg, D.D., Harper, H., “Teaching written language as a first language to a deaf boy”, in Coulmas, F.,
Ehlich, K., op. cit., p. 332.
143
senz’altro utile, non possiamo affermare lo stesso per l’italiano e altre lingue con una

struttura fonologica e lessicale simile. Invece, nel caso di parole composte, sarà meglio

attuare una divisione in morfemi piuttosto che insegnare una parola globalmente. Dopo

un approccio globale iniziale, si potrà procedere con una didattica basata sulla sillaba245

piuttosto che sul fonema, ovvero, pur mantenendo un sistema di scrittura alfabetico, che

per varie ragioni abbiamo dimostrato essere vantaggioso, lo si tratterà come se fosse un

sillabario, in quanto la sillaba è l’unità fonica più intuitiva e più facile da cogliere per un

bambino; questa idea non è assolutamente rivoluzionaria, in quanto veniva già attuata in

molte scuole elementari in Italia nel XX secolo e come metodo didattico veniva utilizzato

anche dai Venetici e dagli Etruschi: l’alfabetario di Reitia prova che, pur usando la lingua

venetica un alfabeto, questo veniva insegnato come se fosse un sillabario, attraverso la

tecnica della puntuazione sillabica. La tavola segnalava tutte le sillabe aperte di tipo CV.

Il problema era indicare le sillabe di tipo diverso e si procedeva perciò isolando le

consonanti e le vocali che non facevano parte della sequenza CV. C’era però bisogno di

fornire una regola apposita per i gruppi C + sonante: invece di elencare le sillabe aperte

CrV, ClV, CnV, si usava un metodo più economico: si davano le giunzioni Cl, Cr, Cn

senza le vocali, che avrebbero portato a ripetizioni. Questo tipo di insegnamento si

rivelava vantaggioso perché comportava una semplificazione: per scrivere bastava

conoscere le sillabe elementari CV, applicando poi una regola di isolamento per le lettere

prese singolarmente che era la puntuazione. Ciò permetteva, senza un esercizio

appropriato, la scrittura di qualsiasi sillaba246.

Questo potrebbe essere un buon compromesso. Precedentemente, avevamo

esposto il seguente problema: l’alfabeto è il sistema più economico e più “esportabile” in

quanto ha un numero contenuto di caratteri e può, eventualmente, trascrivere qualsiasi

245 Nel caso dell’inglese, soprattutto sulla sillaba grafica.


246 Prosdocimi, A. L., “Puntuazione sillabica e insegnamento della scrittura nel venetico e nelle fonti etrusche”,
in ΑΙΩΝ, n. 5, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1983, p. 122-123.
144
lingua, ma il principio alfabetico è il meno intuitivo, se comparato con quello sillabico o

logografico. Insegnare l’ortografia partendo da unità come la parola e poi la sillaba (quindi

trattando l’alfabeto prima come un sistema logografico e poi come un sillabario), per poi,

una volta presa dimestichezza con la pratica di leggere e scrivere, arrivare al fonema,

potrebbe rivelarsi il metodo allo stesso tempo più naturale e più conveniente.

145
146
IV. PIANIFICAZIONI
PIANIFICAZIONI E RIFORME

1. Problemi generali

La linguistica viene comunemente definita una disciplina scientifica poiché studia

i fenomeni legati al linguaggio con un metodo scientifico ma non è assolutamente una

scienza esatta: di fronte alla massa amorfa e caotica delle produzioni singole di miliardi di

parlanti, essa non può che fare previsioni, postulare modelli o formulare ipotesi, ma

raramente può giungere a dimostrare delle verità inconfutabili. Questo stato di cose non

dipende tanto dai paradigmi di analisi, i quali diventano sempre più raffinati, quanto dalla

natura stessa dell’oggetto di studio, il linguaggio, che sfugge a qualsiasi

schematizzazione rigida e a qualsiasi affermazione dogmatica.

La scrittura invece, essendo una tecnologia, per quanto sui generis, si presta a

essere inventata, pianificata, modificata, razionalizzata e perfezionata. L’essere umano, o

più nello specifico, il linguista, può, attraverso la scrittura, tentare di dare ordine e

coerenza a un sistema che di per sé non è né ordinato né coerente: la lingua. Infatti, se

risulta difficile, se non impossibile, imporre a una comunità linguistica di usare, da un

giorno all’altro, un fonema X al posto di un fonema Y o di modificare l’ordine sintattico

fondamentale, sembra più semplice e ragionevole pensare di migliorare il sistema di

scrittura in vigore sostituendo o eliminando un grafema, riformando un’ortografia,

cambiando uno script, fornendo una popolazione analfabeta o semianalfabeta di una

scrittura propria. Ciononostante, nella maggior parte dei casi, la pianificazione linguistica

(language planning247) e le riforme ortografiche incontrano numerosi problemi e solo un

247 Il language planning si può dividere in corpus planning e status planning. Il corpus planning si occupa della
grafizzazione di una lingua (scelta del sistema di scrittura, dello script e dell’ortografia), della standardizzazione
(scelta della varietà dialettale da elevare a lingua dell’insegnamento scolastico) e della modernizzazione del
lessico (spesso una lingua deve creare una serie di neologismi per definire entità esterne di recente
invenzione). Lo status planning si riferisce principalmente al prestigio della varietà linguistica e alle sue funzioni
147
numero ristretto di essi è di natura prettamente linguistica. Infatti sono dei fattori sociali,

emotivi, economici e tecnici che il più delle volte rendono queste operazioni difficili e

tortuose. Dal punto di vista linguistico ci si aspetterebbe che l’ortografia riflettesse al

meglio la struttura della lingua da trascrivere, rispettando il suo esprit; si è già parlato più

volte precedentemente del linguistic fit di un dato script e dei diversi criteri che possono

essere presi in considerazione per la formazione di un’ortografia (principio fonetico,

fonologico, morfofonologico, logografico, misto…); si è anche accennato agli accesi

dibattiti riguardo alla superiorità del sistema alfabetico rispetto ad altri tipi di scrittura,

all’importanza delle unità da selezionare come salienti (fonema, sillaba, morfema…), al

rapporto tra ortografia trasparente e opaca e la loro relazione con l’apprendimento della

lettura e della scrittura, ecc. Ebbene, tutte queste variabili vanno prese in considerazione

ogni qualvolta si desideri procedere con la creazione di una nuova ortografia per lingue

che non hanno mai conosciuto una forma scritta e con la riforma di un sistema ortografico

già esistente (passaggio da uno script a un altro o mantenimento dello script ma riforma

delle regole ortografiche). Il linguista che terrà conto scrupolosamente di tutti questi

aspetti nella creazione o riforma del suo sistema ortografico, si troverà poi a fare i conti

con la cruda realtà: scoprirà che anche il sistema di scrittura più perfetto mai congegnato

può essere totalmente inutile se non viene socialmente accettato e se la sua

distribuzione e riproduzione si rivelino poco agevoli o eccessivamente costose sul piano

economico. Nel caso di un’ortografia tradizionale che viene riformata, l’attaccamento

degli utenti alle regole imparate a scuola può essere un impedimento alla riforma; nel

caso di nuovi sistemi di scrittura, l’atteggiamento dei parlanti nativi verso la lingua del

colonizzatore può essere decisivo nell’accettare o meno l’ortografia proposta: a seconda

del prestigio della lingua di dominio, potranno voler mantenere nella propria ortografia usi

(lingua ufficiale o meno, lingua dell’amministrazione, della scuola, della cultura, della scienza, ecc.). cfr. Cooper,
R., Language planning and social change, Cambridge, UP, 1989.
148
e regole dell’ortografia della lingua colonizzatrice, oppure potranno volersene allontanare

il più possibile. Nella scelta di uno script piuttosto che un altro, una variabile importante

sarà la religione della maggioranza: lo script cirillico rimanda subito alla religione

ortodossa, l’ebraico all’Ebraismo, l’arabo all’Islam, il devanāgarī all’Induismo, quello latino

all’Occidente248, ecc. Dal punto di vista pratico ed economico, l’invenzione di nuovi

caratteri o l’uso di diacritici o di simboli poco diffusi saranno scoraggiati dalla difficoltà di

riproduzione: anche oggi, nell’era informatica, se è vero che è diventato molto facile

procurarsi qualsiasi tipo di font, è anche vero che, specialmente nel secondo e terzo

mondo, è auspicabile armonizzarsi con il repertorio di grafemi più diffuso e reperibile.

Senza avere nessuna pretesa di esaustività, presenteremo ora alcuni problemi

nella creazione di nuovi sistemi ortografici e nella riforma di sistemi già esistenti e

tenteremo poi di armonizzare i dati che emergeranno con quelli già esposti nei capitoli

precedenti e di trarre delle conclusioni generali.

2. Creazione di nuove ortografie

Esiste, a tutt’oggi, una letteratura molto consistente riguardo alla pianificazione

linguistica e alla grafizzazione di lingue solo orali; nella maggior parte dei casi però, viene

completamente ignorata una questione a nostro parere abbastanza rilevante: qual è la

necessità di fornire una lingua di uno standard ortografico? Linguisti e studiosi di solito

liquidano il problema molto velocemente, aderendo a una visione semplicistica e

etnocentrica della scrittura (alfabetica): quest’ultima avrebbe permesso ai popoli

occidentali di progredire culturalmente, socialmente ed economicamente grazie al suo

potere di oggettivizzare il pensiero, di accumulare conoscenze e di permettere la

comunicazione a distanza (nel tempo e nello spazio). I popoli dell’oralità, di cui facevano

e fanno parte molte etnie dell’Africa, delle Americhe, dell’Asia e dell’Oceania, per

248 Nei Balcani in particolare l’adozione dello script latino corrisponde di solito alla fede cattolica o protestante
della comunità, contrapposta alla fede ortodossa (associata allo script cirillico) e a quella islamica (script arabo).
149
migliorare la loro condizione ed entrare nella storia devono essere messi in condizione di

utilizzare la scrittura, infatti, secondo la visione occidentale, “history starts with writing.

Any event taking place prior to the use of writing (…) is dismissed as ‘prehistorical’. The

criterion of transmission of knowledge through the written medium has certainly been

used to disqualify Africa [for example] as a place where any meaningful history could

have occurred (…). It is believed that oral people cannot store and pass on significant

information through the ages (…). Some have argued that for a nation to do well

economically a certain percentage (40%) of its population must be literate249”. Ci

sarebbero quindi delle strette correlazioni tra alfabetizzazione da una parte e progresso

scientifico, economico, sociale e culturale dall’altra, oltre al fatto che la scrittura

stimolerebbe le capacità cognitive dell’individuo e lo libererebbe dalla superstizione e

dalla magia. Tuttavia, la storia ci insegna che le eccezioni esistono e non sono nemmeno

così rare. In Africa “per secoli non [si] ebbe scrittura, ma altri sistemi mnemotecnici. La

scrittura non è una tappa necessaria per il funzionamento di un’organizzazione umana

complessa, anche statale; dove nasca l’effettiva esigenza di una comunicazione

duratura, questa non deve necessariamente essere soddisfatta da una scrittura del tipo a

noi familiare. (…) [I]n Africa (…) la maggior parte del sapere (…) è stato affidato alla

trasmissione orale: genealogie, cronache, diritto, regole di comportamento, istruzioni

scientifiche e linguistiche. Lo spazio da coprire con lo scritto rimaneva molto esiguo e a

coprirlo si è provveduto con sistemi grafici bi- e tridimensionali con un’accentuata

componente pittografica e simbolica: i sistemi di segni divinatori delle popolazioni

dell’ansa del Niger, i sistemi di scarificazioni facciali e corporee, gli oggetti con scene in

rilievo (i bastoni-messaggio o rècadi del regno del Dahomey, nell’odierno Benin), i vasi di

249 Mazama, A., “An Afrocentric Approach to Language Planning”, in Journal of Black Studies, vol. 25, n. 1,
1994, pp. 8-9, cfr. Goody, J., Watt, I., “The consequences of literacy”, in Literacy in traditional societes, a cura di
Goody, J., Cambridge, Cambridge University Press, 1977, pp. 27-68; Prieswerk, R., Perrot, D., Ethnocentrism
and history: Africa, Asia and Indian America in Western textbooks, New York, NOK, 1978, p. xxi; Graff, H., The
labyrinths of literacy: Reflections on literacy past and present, London, Falmer, 1987, p. 64.
150
ceramica con i coperchi figurati di Cabinda, ecc.250”; la civiltà Inca avrebbe raggiunto

livelli di civiltà considerevoli pur non avendo un vero e proprio sistema di scrittura

(oggigiorno l’opinione più diffusa è che i quipu fossero più che altro degli aides-mémoire);

in Svezia e in Scozia la quasi totalità della popolazione era stata alfabetizzata prima del

XIX secolo e ciononostante regnavano la fame e la povertà251; non bisogna poi

dimenticare che la scrittura stessa si è sempre prestata, nella storia, a rivestire il ruolo di

elemento magico intorno al quale proliferavano leggende e credenze di ogni tipo (si pensi

al ruolo delle rune nell’ambiente germanico), per non parlare poi del valore sacrale

acquisito nei secoli dalla Bibbia o dal Corano. Il motore che ha spinto generazioni di

missionari a insegnare a leggere e a scrivere negli stati colonizzati è stata la volontà di

permettere alle popolazioni indigene di comprendere le Sacre Scritture e quindi di

convertirsi al Cristianesimo; la preoccupazione principale infatti, nella standardizzazione

delle lingue native orali, era quella di poter tradurre la Bibbia e solo secondariamente

quella di creare un sistema in armonia con la struttura linguistica presa in esame.

Coerentemente con questo atteggiamento, si è quasi sempre impiegato lo script latino.

Secondo Mazama, l’alfabetizzazione in Africa (e potremmo aggiungere, anche in altre

aree del secondo e terzo mondo) è stata attuata come una colonizzazione mentale, come

un’imposizione di modi di pensiero e di vita occidentali, senza tenere conto delle

peculiarità dei diversi popoli, della loro visione del mondo e della loro cultura.

Possiamo trovarci d’accordo con Mazama sulla necessità di spostare la

questione dell’alfabetizzazione verso un asse meno filooccidentale; tuttavia, l’utilità della

scrittura per lo sviluppo di un sistema sociale moderno è innegabile; risulta difficile

immaginare l’esistenza stessa di un sistema di istruzione o di un’organizzazione sanitaria

prescindendo dalla scrittura, e anche se fosse possibile, la globalizzazione e la necessità

250 Cardona, G. R., Mioni, A., op. cit.


251 Graff, H., op. cit., p. 65.
151
quotidiana di comunicare in tempi relativamente brevi a distanze molto ampie con gruppi

di persone diversi ed eterogenei rendono necessario l’uso di un sistema grafico di

comunicazione. La scrittura inoltre permette di non dover più ricordare a mente gli eventi

della storia e del presente, liberando la memoria252.

Considerato che la standardizzazione di una lingua orale è un cammino lento,

difficile e dispendioso in tempo, energie e denaro, non sarebbe consigliabile lasciare che

le lingue native restassero solamente parlate ed utilizzare come lingue di comunicazione

grafica quelle degli ex-colonizzatori? Quindi, per esempio, lo spagnolo in Sudamerica,

francese, inglese, tedesco, olandese e portoghese in Africa, ecc.? Agli inizi del Medio

Evo in Europa nessuno ormai parlava più latino come lingua materna, ma era l’unica

lingua usata nei documenti ufficiali e religiosi; e a tutt’oggi, l’insegnamento della forma

scritta della lingua materna in Africa è quasi sempre vista come una tappa per

l’apprendimento della lingua dominante253 (è il caso, per esempio, della Akan Unified

Orthography, emanata nel 1978 dal Bureau of Ghana Languages per i dialetti asante,

akuapem e fante; l’Akan Unified Orthography ha il limite di essere stata concepita fin

dall’inizio come un provvisorio passaggio verso l’apprendimento dell’inglese scritto254).

Secondo Mioni “chaque langue dont l’emploi écrit n’est pas sporadique, doit avoir une

orthographe régulière, fixée par des conventions bien adaptées à sa structure et à son

252 Secondo Cardona la memoria ha due dimensioni: la profondità e l’estensione. Alcuni popoli, come i Tuareg,
riescono a ricordare gli eventi almeno dell’ultimo secolo della loro storia, dando ad ogni anno un nome diverso,
a seconda dell’evento più saliente che l’ha caratterizzato (esempio di profondità della memoria). Invece i
Maenge (popolo della Papua Nuova Guinea) ricordano al massimo i nomi dei genitori e della nonna materna
ma hanno una memoria che si sviluppa in estensione: riescono ad enunciare tutte le relazioni di parentela di un
villaggio di 200 persone (Cardona, G. R., La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, Bari, Laterza, 1985, pp.
21-24)
253 D’ora in poi chiameremo esolingua la lingua degli ex colonizzatori che gode di particolare prestigio presso
una o più comunità linguistiche e/o che svolge la funzione di lingua franca tra popoli che parlano idiomi diversi.
254 Guerini, F., “La grafia unificata dei dialetti Akan (Akan Unified Orthography): costi e benefici
dell’armonizzazione ortografica”, articolo presentato al IX Congresso Internazionale dell’Associazione Italiana di
Linguistica Applicata (AITLA), Pescara, 20 febbraio 2009.
152
emploi255”; idealmente è difficile opporsi a questa posizione: la grafizzazione di una lingua

permette la sua standardizzazione, la sua diffusione, il suo insegnamento, la

pubblicazione di opere di letteratura, di quotidiani, di riviste, di saggi e conferisce

prestigio alla variante scritta rispetto a quelle puramente orali. Mazama può anche avere

ragione nell’affermare che la diffusione della scrittura nel terzo mondo da parte dell’uomo

bianco occidentale è un’opera di colonizzazione spirituale, ma per come stanno i fatti al

giorno d’oggi, non si può prescindere dalla necessità della comunicazione intra-nazionale

e inter-nazionale e questa non può avvenire senza lo stabilirsi di uno standard grafico

accettato da tutti. L’uso dell’esolingua come lingua di comunicazione, anche se di solito256

non favorisce la creazione di una identità nazionale, può avere i seguenti vantaggi: a)

riduce le spese economiche legate alla pianificazione linguistica e alle tecnologie

necessarie per la stampa e l’insegnamento; b) favorisce immediatamente i rapporti

culturali e commerciali con gli altri stati che parlano la lingua di prestigio; c) non pone il

problema della scelta di una variante dialettale come standard e della sua

decodificazione nello scritto. Nella maggior parte dei casi si preferisce comunque

alfabetizzare i popoli nella loro madrelingua (o nella lingua franca che più possa

avvicinarsi ad essa), e questo perché si pensa che sia più facile imparare a leggere e a

scrivere nella propria lingua piuttosto che in un’altra. Una volta alfabetizzati, il processo di

apprendimento di un’altra ortografia è più veloce. Le ragioni per la creazione di uno

standard ortografico della lingua materna sono quindi di diversa natura, la prima è

ideologica: favorire l’indipendenza culturale e l’autodeterminazione del popolo, la

255 Mioni, A., Problèmes de linguistique, d’orthographe et de coordination culturelle au Burundi, Napoli, Istituto
Universitario Orientale, 1970, pp. 12-13.
256 L’Africa ha subito, da parte dei paesi coloniali, una spartizione territoriale arbitraria, che non ha tenuto conto
dei confini etnici e geografici ma solo degli interessi economici delle diverse potenze europee. Ciò ha provocato
la formazione di nazioni dove etnie diversissime si sono trovate a convivere e l’unità nazionale si è potuta
raggiungere talvolta solo grazie all’introduzione della scolarizzazione per mezzo di un’esolingua.
153
seconda è pratica: facilitare l’interiorizzazione del funzionamento della scrittura per poi

permettere un più veloce apprendimento di altre ortografie.

Una volta appurata questa necessità, i language planners si trovano a dover

operare una serie di scelte: innanzitutto, quale varietà linguistica sarà la base per lo

standard? Quale sistema di scrittura (alfabetico, sillabico o logografico)? Sarà meglio

inventare uno script ex novo o usarne uno già esistente? Nel caso ne venga scelto uno

già esistente, come ovviare alle possibili deficienze del sistema? Introducendo digrammi,

diacritici o nuovi simboli? Nel caso si opti per un alfabeto, ci si limiterà unicamente al

criterio fonografico o sarà auspicabile introdurre informazioni anche di tipo morfologico e

lessicale? O al contrario, sarà meglio rendere la notazione estremamente precisa e

segnalare anche fenomeni fonetici? E come porsi nei confronti della lingua di prestigio

dell’ex-colonizzatore? Di tutti questi problemi si sono occupati diversi studiosi, tra cui

William A. Smalley (1923 – 1997), linguista, antropologo e missionario. Lavorò per diversi

anni per l’American Bible Society e fu autore di vari libri a proposito dell’alfabetizzazione;

a lui i Hmong del Laos devono il loro attuale alfabeto. Per Smalley, nella creazione di un

nuovo sistema di scrittura, è necessario seguire cinque criteri:

1. Massima motivazione per l’apprendente;

2. Massima rappresentazione della lingua orale;

3. Massima facilità di apprendimento;

4. Massima possibilità di trasferimento da un’ortografia all’altra;

5. Massima facilità di riproduzione 257.

Come ci fa notare Coulmas, è interessante che il primo criterio di Smalley non sia

di natura linguistica, ma sociale, infatti “a systematically elegant orthography is worthless

257 Smalley, W. A., “How Shall I Write This Language?”, in Orthography Studies, London/Amsterdam, United
Bible Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a cura di Smalley, W. A., p. 34.
154
if it is rejected by the community for extrasystemic reasons258”. I linguisti impegnati nella

creazione di sistemi ortografici commettono spesso l’errore di considerare unicamente o

principalmente questioni di carattere linguistico, quando gran parte dell’accettabilità di un

sistema dipende dalle reazioni emotive dei futuri utenti; queste reazioni hanno ben poco

a che fare con la struttura della lingua e riguardano solitamente questioni di prestigio,

volontà di somiglianza o dissomiglianza nei confronti di altre tradizioni ortografiche. In

Laos, Africa, Haiti e in America Latina l’influenza dei bilingui più istruiti attribuisce

prestigio alla cultura dominante occidentale facendo sì che i neo-alfabetizzati vogliano

imparare una scrittura quanto più simile possibile a quella della lingua di prestigio259. In

Bolivia i gruppi etnici che parlano la lingua aymara vogliono che gli allofoni di /u/ e /i/,

rispettivamente [o] e [e], vengano rappresentati dall’ortografia con dei grafemi distinti

perché così avviene in spagnolo260; possedere un numero inferiore di caratteri

renderebbe l’ortografia aymara meno prestigiosa di quella spagnola261. Gli Zuni (o Zuñi),

popolazione amerindia di agricoltori che vive in New Mexico, hanno scelto, tra le varie

ortografie possibili proposte, quella che più si avvicinava al modello inglese, lingua che

sapevano già leggere e scrivere262. L’inglese è la lingua di prestigio che più influenza le

scelte dei popoli africani, ai quali poco importa in fondo se l’ortografia della propria

258 Coulmas, F., The Writing Systems of the World, Oxford, Blackwell, 1989, pp. 226-227.
259 Berry, J., op. cit., p. 5.
260 Un caso simile si è avuto in tagalog, lingua parlata nelle Filippine. Originariamente il sistema vocalico
possedeva solo tre fonemi, /a/, /i/ e /u/ ma l’introduzione di parole spagnole e kapampangan (lingua
austronesiana) ha finito con fonologizzare anche gli allofoni /ɛ/ e /o/, perciò la grafia riflette un sistema a cinque
vocali.
261 Sjoberg, A., “Writing, Speech and Society: Some Changing Interrelationships”, in Proceedings of the Ninth
International Congress of Linguists, The Hague, Mouton, 1964, pp. 892-897.
262 Walker, W., “Notes on Native Writing Systems and the Design of Native Literacy Programs”, in
Anthropological Linguistics, n. 11, 1969, pp. 148-166. Questo tipo di ortografie vengono solitamente chiamate
etnofonemiche. Un’altro esempio di ortografia etnofonemica è quella scelta per il creolo a base francese di Haiti,
cfr. Hall, R. A. Jr, Pidgin and Creole Languages, Ithaca/New York, Cornell University Press, 1966. Il termine
ethnophonemic riferito alle ortografie sembra essere stato suggerito da William Wonderly, del Summer Institute
of Linguistics, come riporta Kenneth L. Pike (“The Problem of Unwritten Languages in Education”, negli atti del
Meeting of Experts on the Use of Vernacular Languages, Paris, Unesco House, 1951).
155
madrelingua non è ottimale, visto che il desiderio più impellente è quello di assorbire la

cultura occidentale attraverso la padronanza dell’inglese: “English (…) has a tremendous

prestige as the language through which modern scientific, technological, commercial,

literary and cultural knowledge is acquired. Very good listening, reading and writing skills

and habits are acquired early in a child’s education in this language. (…) All this tended to

limit the written functions of African languages. (…) [M]any people (…) assume that

African languages are basically oral means of communication within the ethnic group

concerned. (…) There is no or little political (…) pressure to improve the writing systems

of many African languages in the continent263”. Situazioni simili a quella africana si hanno

oggi in diverse parti del mondo, sia le istituzioni sia gli stessi parlanti non vedono l’utilità

di sviluppare una literacy nella proprio lingua madre quando questa sarà di impiego

limitato nella vita di tutti i giorni e preferiscono concentrarsi sull’acquisizione di

conoscenze e abilità sempre più approfondite nella lingua della cultura e della tecnologia.

Questo si collega direttamente al quarto criterio di Smalley, quello della massima

trasferibilità; se una volta imparato a leggere e a scrivere, si sa già che si applicheranno

queste abilità principalmente all’inglese, al francese, allo spagnolo, ecc. si ha tutto

l’interesse a utilizzare lo stesso script e delle regole ortografiche simili a quelle delle

lingue culturalmente dominanti. È per questo che nella quasi totalità dei casi si opta per lo

script latino e per il principio alfabetico (anche se non necessariamente si vuole

un’ortografia fonologica, essendo l’inglese e il francese, per esempio, ortografie opache);

lingue dell’ex Unione Sovietica sceglieranno l’alfabeto cirillico, anche se non imparentate

genealogicamente con il russo, per far sì che l’apprendimento della lingua russa sia poi

più semplice264. Nel 2002 il parlamento russo ha approvato una legge per cui tutte le

263 Abdulaziz, M. H., “Standardization of the Orthographies of Kenyan Languages”, in Language Standardization
in Africa, a cura di Cyffer, N., Schubert, N., Weier, H.-I., Wolff, E., Hamburg, Helmut Buske Verlag, 1991, p. 193.
264 Fishman, J. A., “Advances in the Creation and Revision of Writing Systems”, in Fishman, J. A., op. cit.,, p.
XIII.
156
lingue ufficiali della Federazione Russa dovranno usare l’alfabeto cirillico, provocando un

forte dissenso in regioni come il Tatarstan, dove si parla il tataro, una lingua turcica, e in

Carelia, regione adiacente alla Finlandia dove si parla il careliano265, simile al finlandese.

I tatari e i careliani protestano perché sostengono che avere una scrittura differente,

rispettivamente, dal turco e dal finlandese, renderà difficile mantenere i legami culturali

con queste lingue; ritengono inoltre che il procedimento messo in atto dal governo russo

violi i diritti umani fondamentali e la costituzione russa, che prevedrebbe che tutti i popoli

possano preservare la loro lingua madre e creare le condizioni per il suo studio e

sviluppo. Il governo russo ribatte che insegnare le lingue della Federazione usando

scritture differenti minerebbe l’unità della Russia ed escluderebbe dalla cultura e

dall’informazione coloro che non padroneggiano l’alfabeto cirillico. Per giunta, limitandoci

al caso tataro, manca un centro culturale che possa coordinare la latinizzazione

dell’ortografia, in quanto la maggior parte della popolazione è sparsa tra Europa e Asia e

solo una piccola percentuale vive in Tatarstan266; infine, se ragioni di carattere linguistico

hanno giustificato in passato il passaggio di molte lingue turciche dall’abjad arabo

all’alfabeto, vista l’importanza delle vocali per queste lingue, non vi sono reali differenze

di linguistic fit tra lo script latino e quello cirillico267. Ci troviamo dunque in un ambito

assolutamente extralinguistico, che ha a che fare con dinamiche politiche e sociali. I tatari

vogliono distinguersi dai russi e invocare la loro vicinanza etnica e culturale alla Turchia,

265 Il careliano però, a differenza del tataro, ha sempre usato lo script latino. Il tataro è stato scritto invece con
l’alfabeto orkhon, con l’abjad arabo, in caratteri latini e poi in cirillico.
266 Il termine tataro è molto vago. Nel XIX secolo definiva in generale le lingue altaiche (turco, mongolo, ecc.). In
questa sede ci riferiamo al tataro di Kazan’, parlato in Tatarstan e in parte della Repubblica della Baškiria, e ai
dialetti di Astraxan’, Kasimov, Mišer, Turinsk, Išim, Tura, Jalutorovsk, Barabinsk, Tobol’sk e Tjumen’, parlati in
Uzbekistan.
267 Sebba, M., “Ideology and alphabets in the former USSR”, in Language Problems and Language Planning, n.
30, John Benjamins, 2006, pp. 99-125.
157
con un atto di distalità verso il russo e di prossimalità verso il turco268. In India, Tibet,

Filippine, Indonesia e Indocina sono in uso oggi una quantità considerevole di abugida

diversi, con pochissime differenze tra loro (brahmi, kharoshthi, devanāgarī, gujarātī,

gurmukhi, bengali, oriya, sinhala, kannada, telugu, tamil, tibetano, ecc.269) ma ogni

comunità linguistica ha voluto affermare la propria identità, diversità e unicità

mantenendo un proprio sistema distinto da quello delle comunità vicine270. Infine, non tutti

i popoli neo-alfabetizzati hanno voluto uno script simile a quello dei colonizzatori e usano

tutt’oggi un proprio sistema di scrittura inventata ad hoc: è il caso degli Inuit del Quebec

che usano l’abugida Inuktitut (uuBvV[R), script ricavato dal missionario anglicano

Edmund Peck adattando il sillabario Cree, creato precedentemente da un altro

missionario, James Evans, per le lingue ojibwa e cree del Canada. L’invenzione

dell’Inuktitut e del Cree è stata incoraggiata dal successo del sillabario Cherokee271; la

nascita di questo sillabario è particolarmente degna di nota in quanto creato da Sequoya,

un parlante nativo americano (e non un linguista o un missionario) che non sapeva né

leggere né scrivere ma che aveva intuito le potenzialità della scrittura. Uno script di

recente invenzione (1815-1833) in Africa è il sillabario Vai, in Liberia, creato da Mɔmɔlu

Duwalu Bukɛlɛ272. Il sultano Njoya, intorno al 1895, creò lo script Akauku per la lingua

268 Prendo i due termini da Mioni, A., “Conoscenze, memorie e riti della scrittura e della parola. Continuando il
viaggio di Giorgio R. Cardona”, articolo presentato al IX Congresso Internazionale dell’Associazione Italiana di
Linguistica Applicata (AITLA), Pescara, 20 febbraio 2009, p. 7.
269 Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., pp. 371-440. Alcune differenze tra i diversi abugida potrebbero essere
dovute al diverso supporto materiale, per es., il tamil, che ha un ductus circolare, si scriveva su foglie di palma
battuta.
270 Mioni, A., “Conoscenze, memorie e riti della scrittura e della parola. Continuando il viaggio di Giorgio R.
Cardona”, articolo presentato al IX Congresso Internazionale dell’Associazione Italiana di Linguistica Applicata
(AITLA), Pescara, 20 febbraio 2009, p. 7.
271 V. nota 7.
272 L’idea di inventare una scrittura per la lingua del suo popolo sarebbe arrivata a Sequoya in sogno.
Similmente, Cardona racconta che una notte un uomo sarebbe apparso al sultano Njoya, inventore dello script
Bamum nel Camerun, dicendogli “Re, prendi una tavoletta e disegnaci una mano d’uomo, poi lava il disegno e
bevine l’acqua”; successivamente l’uomo sconosciuto avrebbe cominciato a disegnare dei simboli sulla
tavoletta. Al suo risveglio, Njoya chiamò a raccolta i suoi sudditi e disse loro: “Se disegnerete molte cose
158
Bamum del Camerun; l’Akauku ha la particolarità di essere stato nato come

ideografico/logografico e di essere poi diventato un sillabario in brevissimo tempo,

quando Njoya era ancora in vita273. È notevole che oltre a modificare la forma dei

simboli, quasi tutti274 questi inventori di nuove scritture abbiano scelto il principio sillabico

e non quello alfabetico, dando alla luce sillabari e abugida ed evidenziando ancora di più

la distanza dal modello occidentale. Al di là di una volontà di differenziarsi, ci sono buone

probabilità che questa scelta dipenda anche dalla maggiore intuitività della sillaba rispetto

al fonema di cui abbiamo ampiamente trattato nei capitoli precedenti.

A parte questi pochi esempi di sistemi di scrittura creati dal nulla, in generale si

tenderà a tenere sempre conto delle culture confinanti, “[e]ven if a linguist takes a strictly

scientific stance to the effect that the systematically relevant entities of the language be

converted into writing, and only these, should be rendered graphically (…), even then the

linguist will tend not to be at odds with the pre-established and widely accepted

systems275”. A volte, alcuni grafemi vengono impiegati in modi completamente nuovi e

insoliti: la traslitterazione dell’armeno in caratteri latini elaborata da Hübschmann usa <j>

per /dz/ e <ǰ> per /dʒ/, scelta coerente visto che <s> sta per /s/, <š> per /ʃ/, <c> per /ts/ e

<č> per /tʃ/; i problemi nascono dal fatto che nessuno che abbia una qualche familiarità

con un alfabeto a base latina riconoscerebbe intuitivamente il valore di <j> in armeno276.

Tornando ai criteri di Smalley, il criterio di massima trasferibilità va ricollegato

anche ai problemi economici e tecnici che si sarebbero potuti incontrare distanziandosi

diverse e darete a loro un nome, farò un libro che parli senza che lo si debba ascoltare”. Una cosa simile
sarebbe successa a Mɔmɔlu Duwalu Bukɛlɛ, l’inventore del sillabario Vai in Liberia (Cardona, G. R., Storia
universale della scrittura, Milano, Mondadori, 1986, pp. 95-96; Dalby, D., “A Survey of the Indigenous Scripts of
Liberia and Sierra Leone: Vai, Mende, Loma, Kpelle and Bassa”, in African Language Studies, n. 8, 1967, pp. 1-
51).
273 Daniels, P. T., “The Invention of Writing”, in Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., pp. 583 – 584.
274 Un’eccezione è Soulemayne Kante che inventò l’alfabeto N’ko per le lingue mande dell’Africa occidentale
(Singler, J. V., “Scripts of West Africa”, in Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., p. 593).
275 Winter, W., “Tradition and innovation in alphabet making” in Coulmas, F., Ehlich, K., op. cit., p. 227.
276 Ibid. Esiste un’altra ortografia in cui <j> vale /dz/, quella del malgascio.
159
eccessivamente dal modello tipografico occidentale, per esempio, “the Bamako Meeting

on the Use of the Mother Tongue for Literacy (February 28-March 25, 1966, UNESCO

sponsored) (…) recommended that new writing systems be similar to those of unrelated

but important languages for the learners (…) but it also warned of ‘possible repercussions

of a technical and economic nature277”. Al giorno d’oggi le difficoltà tipografiche si sono

molto ridimensionate, viste le possibilità fornite dall’informatica; ciononostante le lingue

neo-grafizzate che usano uno script non latino sono relativamente poche e quelle che

non usano un alfabeto ancora meno. Una delle eccezioni più considerevoli è avvenuta in

Algeria; dopo l’indipendenza del paese, i popoli berberi rappresentavano un terzo della

popolazione e parlavano la lingua kabyle. Gli attivisti berberi sono riusciti a riportare in

uso, per la scrittura della loro lingua, lo script libico-berbero di origine punica, impiegato

anche dalle popolazioni Tuareg e chiamato Tifinagh (la versione adattata al kabyle viene

chiamata Neo-Tifinagh; il nome letteralmente significa “i simboli punici278”). Oggi il Neo-

Tifinagh è lo script ufficiale per le lingue berbere in Marocco279.

Il secondo criterio, la massima rappresentazione del parlato, sembra stare a

cuore molto di più ai linguisti e ai language planners piuttosto che all’uomo comune, e,

anche quando c’è accordo tra la popolazione e i creatori della nuova ortografia, rimane

problematico stabilire in che senso e fino a quale livello vada rappresentato il parlato. Si

pongono i seguenti problemi:

• Scelta del sistema di scrittura;

• Scelta dello script;

277 Bowers, J., “Language Problems and Literacy”, in Language Problems of Developing Nations, a cura di
Fishman, J. A., Ferguson, C. A., Das Gupta, J., New York, Wiley, 1968, pp. 381-401, citato da Fishman, J.,
“Advances in the Creation and Revision of Writing Systems”, in Advances in the Creation and Revision of
Writing Systems, The Hague/Paris, Mouton, 1977, p. xiii.
278 Pasch, H., “Competing Scripts: the introduction of the Roman alphabet in Africa”, in International Journal of
the Sociology of Language, vol. 2008, n. 191, 2008, pp. 65 – 109.
279 http://en.wikipedia.org/wiki/Neo-Tifinagh; O’Connor, M., “The Berber Scripts”, in Daniels, P. T., Bright, W., op.
cit., pp. 112 – 115.
160
• Scelta del dialetto da elevare a varietà standard (o di eventuali forme di

compromesso);

• Scelta della quantità di informazione lessicale, morfologica e fonologica

da segnalare nell’ortografia.

Come abbiamo già visto, solitamente il sistema di scrittura e lo script dipendono

dalla lingua culturalmente più influente: alfabeto cirillico per lingue dell’ex Unione

Sovietica, abjad arabo per lingue di molti popoli di fede islamica, alfabeto latino per le

lingue di ex colonie europee, ecc.

Per la scelta del dialetto Sadembouo propone diversi criteri, tra cui280:

i. il numero dei parlanti: sarà ovvio preferire le varietà molto diffuse

rispetto a quelle meno parlate; la difficoltà può nascere dal fatto

che i dialetti non hanno dei confini netti ma di solito si

distribuiscono lungo un continuum linguistico in cui non è sempre

semplice attuare una segmentazione. Naturalmente come

dovranno considerarsi sia i parlanti madrelingua sia coloro che

parlano la data lingua come L2;

ii. il sostegno del pubblico: il dialetto scelto come standard dovrà

godere di un certo prestigio;

iii. il grado di comprensibilità; la varietà scelta dovrebbe,

idealmente, avvicinarsi a una sorta di koinè linguistica, quindi

non possedere dei tratti troppo marcati o troppe idiosincrasie, per

poter essere compresa dal maggior numero di parlanti.

Il sostegno del pubblico e il grado di comprensibilità dipendono però da diversi

fattori: quella che potrà essere una varietà prestigiosa per un gruppo potrà non esserlo

280 Cfr. Sadembouo, E., “Préalables à la standardisation des langues africaines”, in Cyffer, N., Schubert, K.,
Weier, H.-I., Wolff, E., op. cit., pp. 21-33.
161
per un altro. Inoltre, c’è una comprensibilità oggettiva, data dalla vicinanza di strutture

linguistiche tra due varietà, e una comprensibilità soggettiva che dipende dall’attitudine

del parlante; infatti spesso si capisce ma si finge di non capire in base agli atteggiamenti

e ai pregiudizi che si possono avere verso un determinato gruppo che parla una varietà

linguistica diversa. Sarà anche da prendere in considerazione la ristrutturazione di una

varietà rispetto a un’altra: poniamo il caso di due varietà diverse della stessa lingua (A),

una più innovativa (B) e l’altra più conservativa (C); nella progettazione dell’ortografia di A

sarà preferibile favorire coloro che parlano B, perché per loro sarebbe più difficile

ricostruire le forme lessicali soggiacenti, avendo subito più cambiamenti fonologici,

mentre per chi parla la varietà C basterà applicare delle semplici regole di cancellazione

in determinati contesti.

Ci sono casi dove la scelta della varietà dialettale da elevare a lingua standard è

molto ardua, tuttavia, come suggerisce Nida, “it is not advisable to ‘make up’ an artificial

dialect. Such attempts are rarely, if ever, successful281”. Nella storia delle lingue europee

ci sono stati vari casi di varietà artificiali che sono diventate lo standard per

l’insegnamento scolastico; gli esempi più lampanti sono l’italiano e il tedesco: il primo è

basato su una forma di fiorentino emendato che corrisponde più o meno alla parlata di

Firenze del XIV secolo; il secondo è basato sulla traduzione che fece Martin Lutero della

Bibbia tra il 1522 e il 1534, basandosi sulla sächsische Kanzleisprache (lingua

burocratica standard usata in Sassonia) che univa elementi dei dialetti nordorientali e

centrorientali della Germania del tempo. Fino al 1800 il tedesco standard era solo una

lingua scritta; i tedeschi la imparavano quasi come se fosse una lingua straniera

cercando di pronunciarla attenendosi quanto più possibile all’ortografia; un fenomeno

molto simile ha caratterizzato l’Italia tra il XIX e il XX secolo. Tuttavia, se questo è

avvenuto in Italia e in Germania, è stato grazie al prestigio delle varianti scelte (la

281 Nida, E. A., op. cit., p. 26.


162
produzione letteraria toscana da un lato, la Bibbia dall’altro) e a politiche scolastiche e

sociali attuate su ampia scala e in un lasso di tempo molto lungo. Un esempio più recente

è quello del Rumantsch Grischun, il romanzo grigionese, lingua artificiale creata dal

romanista zurighese Heinrich Schmid nel 1982 a partire dalle cinque varietà esistenti del

ladino dei Grigioni. Il Rumantsch Grischun contiene il maggior numero possibile di tratti

comuni delle diverse varietà. L’esperimento in questo caso è stato un successo e

“l’accettazione [del romanzo grigionese] è talmente vasta che (…) è ormai usato

occasionalmente anche nella sfera privata e addirittura come lingua letteraria282”, oltre

che nella stampa, nell’amministrazione e nel settore dei servizi. È importante sottolineare

che in area retoromanza c’erano state, fin dal Medio Evo, diverse tradizioni scritte e che

quindi la grafizzazione non è stata una novità.

Una situazione del genere non potrebbe crearsi presso società dove non esiste

una produzione letteraria degna di nota oppure dove essa è del tutto assente. Il ruolo di

modello di riferimento è di solito assunto dalle lingue dominanti (lingue europee, arabo,

cinese, ecc.), non da una particolare varietà dialettale.

Una volta scelto il dialetto da promuovere a lingua letteraria, altri problemi

sorgono dalle difficoltà di insegnare a leggere e a scrivere una varietà a persone che ne

parlano un’altra. Secondo Nida, può essere saggio, in questi casi, introdurre

preliminarmente alcuni materiali didattici direttamente nel dialetto dei parlanti e poi, una

volta apprese le regole di base della lettura e della scrittura, passare al dialetto scelto

come standard283. Secondo Sadembouo invece, “l’on peut être tenté dans certains cas,

d’accepter un second dialecte standard dans une langue, comme une mesure de

transition vers le standard. Mais c’est une attitude dangereuse. Quelques exemples au

Cameroun n’ont pas été concluants. Notamment sur le daba. L’on se dessaisit

282 Schlösser, R., op. cit., p. 105.


283 Nida, E., op. cit., p. 26.
163
difficilement d’un acquis : toujours au Cameroun, on assiste aujourd’hui à une remontée

de la ‘littérature’ bulu284”.

Tutti si trovano d’accordo però sull’importanza della scelta di una sola variante

per permettere l’unificazione linguistica e culturale della popolazione. La maggiore o

minore differenza tra i diversi dialetti sarà anche alla base delle scelte ortografiche che

verranno attuate. Per esempio, in una realtà linguistica dove vi sono varietà molto diverse

per quanto riguarda il numero e il tipo di toni, sarà sconsigliato indicare questi ultimi

puntualmente nell’ortografia, perché quella che può essere una notazione estremamente

precisa per un dialetto, può essere parzialmente inaccurata per un altro.

Per quanto riguarda la creazione di un’ortografia, per un linguista il criterio da

seguire sarà generalmente quello fonografico, con una corrispondenza 1:1 fonema-

grafema. Tuttavia possono esserci delle buone ragioni per deviare da questo principio285.

Per esempio, “[i]f the allophonic range of a phoneme is such that the choice of one

symbol is highly nonrepresentative for a large number of commonly found allophones, a

subphonemic approach may be advisable as long as no overlap with the graphic

representations of other phonemes results. On the other hand, a morphophonemic point

of reference may be preferable to a phonemic one. If, for instance, there is an area of

recurrent variation in the phonetic shape of forms which would require the introduction of

several phoneme-based orthographic renderings for several occurrences of the same

form, and if this variation could be covered adequately by a small number of realization

rules (…), then a morphophonemically based transcription is definitely preferable to a

phonemically oriented one286”. Non bisogna dimenticare però che raramente le analisi

fonologiche di una data lingua sono attuate da persone che la parlano come nativi, nella

284 Sadembouo E., op. cit., p. 32. La lingua daba e la lingua bulu sono varietà parlate in Camerun; la lingua bulu
è stata usata come lingua franca da parte dei missionari e dei colonizzatori per scopi commerciali, educativi e
religiosi, ma oggigiorno è sempre meno diffusa.
285 Winter, W., op. cit., p. 229.
286 Ibid.
164
quasi totalità dei casi sono linguisti o missionari che incontrano spesso difficoltà nel

cogliere alcune caratteristiche funzionalmente importanti della lingua da trascrivere. Per

esempio, i missionari anglofoni non hanno notato le vocali lunghe nell’ortografia di una

lingua come il khmuˀ287, in cui ci sono diverse coppie minime del tipo /pat/ “anatra” e /paːt/

“fetta”. Se la propria ortografia di riferimento non distingue alcune caratteristiche

fonologiche, quali possono essere la lunghezza, il tono, la nasalizzazione, la

glottalizzazione, ecc. si tende ad evitarne la segnalazione anche nella nuova ortografia in

formazione288. Nella progettazione di una nuova ortografia, da un punto di vista

scientifico, bisognerebbe cogliere quali sono gli aspetti fonologicamente rilevanti per la

lingua in questione e annotarli in modo coerente; normalmente invece ci si è limitati a

segnalare, per esempio, la lunghezza vocalica o il tono solo quando questo serviva per

evitare ambiguità; secondo Smalley, “this type of approach is rarely the best, [because]

(…) the reader never makes the proper habit of association and the symbols are of little

or no value to him289”, visto che i simboli vengono impiegati in maniera incostante. Se

l’approccio fonologico (o morfofonologico) è senz’altro preferibile a quello fonetico, ci

sono casi in cui, per ragioni sociolinguistiche, si può optare per una

iperdifferenziazione290: la distinzione grafica di allofoni può aiutare ad avvicinarsi alle

abitudini grafiche della lingua di prestigio (come il già citato caso degli aymara che

vogliono mantenere <e> e <o> allo scritto, nonostante nella loro lingua [e] e [o] siano

allofoni di /i/ e /u/, per adeguarsi all’ortografia dello spagnolo) o a permettere

l’intercomprensibilità con le lingue vicine (come in yakoma, dove i tre allofoni [l], [n] e [r]

287 Lingua appartenente alla famiglia Mon-Khmer e parlata nel Laos settentrionale e in parte del Vietnam.
288 Smalley, W. A., “How Shall I Write This Language?”, in Orthography Studies, London/Amsterdam, United
Bible Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a cura di Smalley, W. A., p. 40.
289 Ibid., p. 41.
290 Smalley la chiama overdifferentiation, v. Smalley, W. A., “Writing Systems and Their Characteristics”, in
Orthography Studies, London/Amsterdam, United Bible Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a
cura di Smalley, W. A., p. 9.
165
vengono distinti nella scrittura per adeguarsi agli usi delle popolazioni confinanti e della

lingua di prestigio, in questo caso il francese).

Sempre riguardo alla rappresentazione del parlato, un problema che pochi si

sono posti è quello della scelta della forma di parlato da rappresentare: Dressler

distingue in tutte le lingue del mondo uno stile di enunciazione più accurato (lento) e uno

stile più veloce (allegro). A seconda dello stile, la resa fonologica può essere molto

diversa: le stesse regole fonologiche vengono applicate localmente e facoltativamente

nello stile lento, globalmente e obbligatoriamente nello stile allegro (per es. in tedesco

geschnitten “tagliato” può essere pronunciato [ɡəʃnitən] nella forma più accurata fino a

diventare [kʃni̢tn̝] nella parlata veloce di Vienna)


291. La fonologia ha dedicato la quasi

totalità dei suoi studi allo stile lento e le ortografie sono normalmente basate su di esso,

causando spesso fenomeni di ipercorrettismo: “[i]n the elicitation of the most careful

speech styles, one ends up with unnatural, frequently hypercorrect forms, in which

spelling pronunciations are inevitable: they cannot be eliminated in a speech community

where there are no illiterates. How far one ought to go in proclaiming the psychological

reality of orthography with respect to the graphemic influence on phonological

representation is still not clear292”. Dovremmo allora concludere che sarebbe meglio

basare la grafia sulla pronuncia dello stile allegro? Assolutamente no. Gli esiti fonici del

parlato veloce variano moltissimo da parlante a parlante e si modificano molto

velocemente nel tempo, un’ortografia basata sulle forme dello stile allegro diventerebbe

obsoleta nel giro di pochi anni. Come sempre l’ideale sta nel mezzo, in una forma di

compromesso tra lo stile estremamente accurato e quello molto veloce e informale

(sempre prendendo un esempio tedesco, la parola Sprecher “parlante, portavoce”, ha un

esito lento [ʃpʀeçɛʁ], uno allegro [ʃpʀeçʁ̩] e uno medio [ʃpʀçəʁ]. La grafia attuale

291 Dressler, W. U. “Approaches to Fast Speech Rules”, in Phonologica, Dressler and Mares, 1972, pp. 219-234.
292 Ibid., p. 221.
166
ovviamente è basata sulla forma lenta ma forse la soluzione ideale sarebbe quella di

scegliere come riferimento per l’ortografia un compromesso tra il lento e l’allegro, – in

fondo, grafie inglesi come isn’t, aren’t, wouldn’t sono dovute senz’altro all’imporsi di forme

dello stile medio/allegro su quello lento).

Oltre al piano fonologico, qualche informazione di natura lessicale può rivelarsi

vantaggiosa nella progettazione di un’ortografia. Questo aspetto si lega anche al terzo

criterio di Smalley, quello della massima facilità di apprendimento: abbiamo visto nel

terzo capitolo che un’ortografia totalmente fonologica non è per forza più facile e intuitiva

rispetto a una che veicola anche informazioni di carattere morfolessicale; ciò che rende

difficili le ortografie storiche come l’inglese e il francese o morfofonologiche come il russo

e il tedesco è il fatto che le informazioni morfolessicali non vengono implementate

seguendo un metodo coerente e costante, e questo a causa di ragioni storiche. Invece,

nella creazione di un’ortografia questo può essere possibile: si può per esempio decidere

di rappresentare le radici lessicali sempre nello stesso modo, se esse sono soggette a

modificazioni fonologiche facilmente prevedibili dal parlante nativo. Si può anche

decidere di distinguere parole omofone con aggiunte di grafemi muti o di diacritici, se

questo non appesantisce troppo l’immagine grafica della parola e non entra

eccessivamente in contrasto con le possibilità tecniche a disposizione. Bisognerà però

prestare attenzione a non rendere il sistema eccessivamente complicato, perché, se in

nazioni altamente scolarizzate si hanno a disposizione diversi anni per imparare a

leggere e a scrivere, in certe zone dell’Africa, dell’Asia, del Sudamerica e dell’Oceania i

bambini non possono dedicare troppo tempo all’istruzione, in quanto le necessità

economiche della famiglia li costringono a lavorare a un’età molto acerba. Il tempo da

dedicare all’istruzione può andare dai pochi mesi a un massimo di due anni293.

293 Smalley, W. A., “How Shall I Write This Language?”, in Orthography Studies, London/Amsterdam, United
Bible Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a cura di Smalley, W. A., p. 33.
167
Nonostante non sia in assoluto e sotto tutti i punti di vista il sistema più semplice,

un’ortografia fonologica trasparente, almeno a livello di corrispondenza basica suono-

simbolo, sarà senz’altro il più veloce da imparare, in assenza di tempo e di risorse

economiche. Da un punto di vista scientifico un sillabario sarebbe preferibile a un

alfabeto perché si colloca ad un livello di astrazione più basso e accessibile nei

primissimi anni d’età, tuttavia la scelta dipenderà anche dalla struttura della lingua in

questione, perché un sillabario, in rapporto a un alfabeto, richiederà inevitabilmente un

numero molto superiore di grafemi. Se una lingua è formata principalmente da sillabe del

tipo CV e queste non sono eccessivamente numerose, l’idea di un sillabario può essere

presa in considerazione; in tutti gli altri casi, sarà più conveniente optare per il criterio

alfabetico294. Anche lingue che permetterebbero una trascrizione efficiente attraverso un

sillabario vengono spesso scritte con un alfabeto, perché i criteri della massima

motivazione e della massima facilità di trasferimento sono più importanti, per la persona

comune, rispetto a quelli della rappresentazione del parlato e della facilità di

apprendimento. Voorhoeve ci porta l’esempio della lingua sranan, parlata in Suriname, ex

colonia olandese. Lo sranan ha una struttura sillabica di base CV ma molto spesso, nel

parlato veloce, le vocali cadono e si formano gruppi consonantici anche complessi (suma

> sma, susu > ssu, kaba > kba, ecc.). L’ortografia tradizionale non ha mai segnalato

questo fenomeno e la soluzione più elegante sarebbe l’utilizzo di un sillabario, “for in

syllable writing the word image does not alter if we elide the syllable vowel295”. Tuttavia in

Suriname questa soluzione sarebbe impossibile, perché la lingua della cultura,

dell’istruzione e dell’amministrazione è l’olandese, lingua germanica che utilizza lo script

latino. Lo script arabo, grazie al suo legame inscindibile con la religione islamica e il

Corano, è stato utilizzato per la notazione di lingue dalla struttura diversissima, come lo

294 Coulmas, F., The Writing Systems of the World, Oxford, Blackwell, 1989, p. 232.
295 Voorhoeve, J., “Spelling Difficulties in Sranan”, in Orthography Studies, London/Amsterdam, United Bible
Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a cura di Smalley, W. A., p. 64.
168
spagnolo, il malesiano, lingue del Medio Oriente, del Nord Africa, del Pakistan, ecc.

Curiosamente, nell’adattare la scrittura araba a queste lingue si sono aggiunti diversi

segni consonantici grazie all’uso di punti posti sopra o sotto i simboli già esistenti ma si è

fatto poco o niente per segnalazione vocalica, la cui assenza è l’ostacolo principale al

linguistic fit dello script per lingue non semitiche296. Una volta constatato che la scelta del

sistema di scrittura da adottare dipende quasi sempre da ragioni extralinguistiche, di

natura sociale, economica ed emotiva, la facilità di apprendimento dipenderà

dall’approccio didattico adottato: innanzitutto, motivando gli studenti, facendo loro capire

che una volta appreso a leggere a scrivere, essi potranno accedere alla cultura della

lingua di prestigio; in secondo luogo, presentando gradualmente i diversi livelli della

lingua rappresentati dalla scrittura: prima la parola come unità grafica, in seguito la sillaba

e il morfema, poi il fonema e le unità soprasegmentali (il fatto che uno script sia di per sé

logografico, sillabico o alfabetico non impedisce una descrizione indipendente delle unità

da esso rappresentate). Sarebbe controproducente, per esempio, ignorare le componenti

logografiche e morfografiche presenti nelle diverse ortografie, anche se l’ortografia

insegnata è perfettamente trasparente, perché, se una volta che si è imparato a leggere

e a scrivere la propria lingua materna ci si ritrova a dover imparare, per esempio,

l’inglese, il francese, il russo, l’arabo o il cinese, ci si accorgerà che il principio fonografico

1:1 non è più valido e si dovranno postulare unità di corrispondenza più ampie tra il piano

dell’espressione e il piano del contenuto.

Per quanto riguarda l’ultimo criterio elencato da Smalley, quello della facilità di

riproduzione, molte cose sono cambiate rispetto a pochi decenni fa. Le difficoltà che un

tempo sorgevano nella riproduzione di caratteri diversi da quelli latini ora sono superate.

Non conta più che le lettere latine siano in numero molto minore e più lineari rispetto, per

296 Smalley, W. A., “The Use of Non-Roman Script for New Languages”, in Orthography Studies,
London/Amsterdam, United Bible Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a cura di Smalley, W. A.,
pp. 73-74. cfr. Kaye, A. S., “Adaptations of Arabic Script”, in Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., pp. 743-764.
169
esempio, ai simboli del devanāgarī. Nell’era del computer, migliaia di caratteri diversi

possono essere riprodotti occupando poca memoria, digitandoli direttamente sulla

tastiera o attraverso l’ausilio di tastiere virtuali. Anche difficoltà legate alla correttezza

ortografica vengono considerevolmente ridotte, grazie ai correttori automatici, al

posizionamento del testo, alla distribuzione in paragrafi e alla possibilità illimitata di

ritornare su quanto si è scritto e correggere297. Come fa notare Mitton, “[that is] what a

computer spelling corrector offers: you use whatever spelling system seems to you most

natural for writing, and the computer converts it into the standard system for reading298”.

Non è detto però che l’accesso alle tecnologie informatiche sia possibile a tutta la

popolazione e probabilmente la maggior parte delle persone, quando produrrà dei testi

scritti, lo farà a mano. Per questo, è meglio evitare di rendere una scrittura

eccessivamente pesante dal punto di vista grafico, riducendo al minimo i segni diacritici;

questi infatti tendono a essere abbandonati nella scrittura veloce, creando delle

ambiguità non indifferenti quando poi si va a rileggere il testo (è una delle difficoltà

maggiori nella notazione dei toni nelle lingue tonali; Coulmas ci riporta l’esempio del

vietnamita, che impiega più di dieci segni diacritici tra quelli per notare il timbro vocalico e

quelli per notare i toni: “[i]n handwritten script they are easily and often omitted; and in

print they make for a cluttered appearance299). Quindi, nella scelta tra un digramma e un

segno diacritico, nonostante da un punto di vista scientifico sia preferibile il secondo, dal

punto di vista della facilità di riproduzione è meglio il primo. Ad ogni modo, quello che

favorirà più di ogni altra cosa la facilità di riproduzione sarà l’armonizzazione con gli usi

grafici già diffusi nella comunità, ovvero quelli della lingua dominante o dell’ortografia

tradizionale già esistente, almeno in un primo periodo, nell’attesa che una situazione di

297 Fiormonte, D., traduzione inglese di passi scelti tratti da L’influenza del computer sulla scrittura: Ipotesi ed
esperimenti, tesi di laurea all’Università “La Sapienza” di Roma, aprile 1994, p. 8.
298 Mitton, R., op. cit., p. 39.
299 Coulmas, F., The Writing Systems of the World, Oxford, Blackwell, 1989, p. 237.
170
maggiore stabilità culturale, economica e linguistica favorisca un miglioramento

dell’ortografia.

Alla luce di questi dati, possiamo concludere provvisoriamente che:

• nella progettazione di un nuovo sistema ortografico l’accettazione da

parte dei futuri utenti è il traguardo fondamentale a cui si deve puntare;

questioni squisitamente scientifiche e linguistiche possono essere

trascurate se le caratteristiche della nuova ortografia servono a motivare

l’apprendente; infatti, “we should note a significant difference between

what is the linguist’s normal position with respect to a language to be

committed to writing and the position of the layman: (…) [for a linguist]

unambiguity and maximum explicitness will be high on his scale of

values. [for example] (…) Semitic writing system is quite inadequate from

the point of view of an outside linguist (…) but it has served its purpose

seemingly to the full satisfaction of the native users of the system300”. Il

prestigio dell’ortografia della lingua dominante e le nozioni

precedentemente (e faticosamente) apprese valgono di più della

consistenza interna del sistema;

• Se, nell’adattare un sistema di scrittura a una lingua, l’inventario dei

grafemi si esaurisce, si possono attuare diverse soluzioni, tra cui l’uso di

digrammi e trigrammi, l’impiego di diacritici (questo meno preferibile per

questioni di facilità di riproduzione e di velocità di scrittura),

l’assegnazione di valori nuovi a lettere inutilizzate (come per esempio,

<c>, <q> e <x> in Xhosa e Zulu, che identificano rispettivamente il click

dentale, alveolare e laterale; le lingue tribali della Tailandia, che

utilizzano l’abugida Thai, hanno adattato i grafemi meno utilizzati alle

300 Winter, W., op. cit., p. 232.


171
proprie esigenze301), l’introduzione di simboli dell’Alfabeto Fonetico

Internazionale (per es., in Africa, <ʔ> è usato in abidji, lingua kwa e in

senufo, lingua voltaica, entrambe della Costa d’Avorio; <ʋ> e <ɩ> sono

presenti negli alfabeti dell’abidji, dell’agni sanvi, del bété, del bisa, del

dagara, del dida, del godié, del kabiyɛ, del kasɩm, del kroumen tépo, del

lama, del lokpa302, ecc.; <ɛ>, <ɔ> e <ŋ>, diffusissimi in tutta l’Africa,

possono alternare rispettivamente con <e, ȩ, ah>, <o, ò, ọ, oh, or, ö>,

<ng, n’g, ng’, ṅ, ŋm>)303;

• Dopo aver individuato l’inventario fonologico di una lingua, lo si

confronterà con quello di altre lingue che utilizzano lo stesso script che si

intende adattare alla lingua da trascrivere e con il numero di simboli

disponibili; in questo modo si potrà calcolare il linguistic fit della grafia

prescelta e la possibilità di trasferimento con altre ortografie simili; nel

caso sorgano dubbi riguardo a possibili varianti grafiche per determinate

parole o caratteristiche specifiche della lingua (come i toni, la lunghezza

vocalica, ecc.) sarà importante il giudizio dei parlanti: Venezky suggeriva,

nel 1970, di preparare alcuni esperimenti per testare le preferenze

ortografiche dei parlanti nativi; per quanto dispendioso e laborioso questo

progetto potesse essere, per Venezky sarebbe stato un passo avanti

nella creazione di nuove ortografie, in quanto non solo in linea con le

301 Smalley, W. A., “The Use of Non-Roman Script for New Languages”, in Orthography Studies,
London/Amsterdam, United Bible Society/North-Holland Publishing Company, 1964, a cura di Smalley, W. A.,
pp. 81-83.
302 L’agni sanvi è una lingua kwa della Costa d’Avorio, il bété, il dida e il godié sono lingue krou della Costa
d’Avorio, il bisa una lingua mande del Burkina Faso, il dagara e il kasɩm sono lingue voltaiche del Burkina Faso,
il kabiyɛ una lingua voltaica del Togo, il kroumen tépo è una lingua isolata della Costa d’Avorio, il lama e il lokpa
sono lingue voltaiche parlate rispettivamente in Togo e in Benin; per approfondimenti, v. Hartell, R. L.,
Alphabets des langues africaines, Dakar, UNESCO-SIL, 1993; il materiale è reperibile anche online nel sito del
centro LLACAN (Langage, Langues et Cultures d’Afrique Noire), all’indirizzo http://sumale.vjf.cnrs.fr/.
303 Cfr. Coulmas, F., The Writing Systems of the World, Oxford, Blackwell, 1989, p. 231.
172
teorie sociolinguistiche del tempo ma anche con l’importanza attribuita

alle intuizioni del parlante nativo dalla grammatica generativo-

trasformazionale304. Difficilmente però i giudizi di parlanti analfabeti o

scarsamente alfabetizzati si baserebbero sulla migliore o peggiore resa

della lingua nello scritto, probabilmente si concentrerebbero sulla

somiglianza con le abitudini grafiche della lingua di prestigio.

• Senza l’esistenza di un certo numero di pubblicazioni e di una letteratura

invitante, è difficile che avvenga una reale diffusione dell’alfabetizzazione

in lingua materna; se l’input non è sufficiente, si tenderà a essere insicuri

riguardo alle regole ortografiche, anche se il sistema adottato è

estremamente semplice e non genera particolari problemi nella lettura305.

Citiamo un esempio preso da Pasch: “[w]ith regard to Sango, neither the

co-existence of Catholic and Protestant orthographies nor the neglect of

tone marking is a serious problem for the readability of texts. A problem

is rather the general lack of interesting texts, and in particular of texts in

the official orthography. Without model texts authors cannot get sufficient

input of that orthography to be competent in it306”.

Non è un caso che nel trattare i criteri di Smalley non si sia seguito l’ordine in cui

lo studioso li aveva enunciati. A nostro parere, se idealmente la rappresentazione del

parlato dovrebbe essere, insieme alla massima motivazione dell’apprendente, uno dei

fattori più importanti, pensiamo che nell’attuale situazione sociopolitica la massima

trasferibilità e il prestigio delle lingue di cultura mondiali abbiano la meglio. Crediamo

inoltre che la motivazione nel diventare alfabetizzati nella propria lingua materna sia

304 Venezky, R. L., “Principles for the Design of Practical Writing Systems”, in Anthropological Linguistics, n. 12,
1970, pp. 256-270.
305 Pasch, H., op. cit.
306 Ibid.
173
strettamente legata alla possibilità di passare, in breve tempo, a saper leggere e scrivere

in inglese, francese, arabo o qualsiasi altra lingua culturalmente dominante. Per di più,

bisogna considerare che, per quanto riguarda la facilità di apprendimento, si dovrà tenere

conto più dei criteri dell’ampiezza dell’inventario e della facilità di riproduzione, piuttosto

che dei criteri della massima distintività e della massima naturalezza (v. capitolo III,

paragrafo 3); ovvero, vale la pena di scegliere un alfabeto piuttosto di un sillabario e di

preferire una notazione imperfetta, riducendo al minimo i diacritici e il numero dei grafemi,

perché il tempo che le popolazioni non alfabetizzate hanno a disposizione è molto minore

rispetto agli standard europei, nordamericani, cinesi e giapponesi e se il materiale scritto

nella propria lingua non è sufficiente per stimolare costantemente la lettura, si rischia che

si creino episodi di analfabetismo di ritorno. I criteri scientifici devono, ancora una volta,

piegarsi alle necessità economiche e sociali.

3. Riforme ortografiche

Se non è facile creare una tradizione ortografica dove essa sia assente o poco

diffusa, lo è talvolta ancora di più riformare un’ortografia già esistente. In fondo, non è un

fatto sorprendente. In una società non ancora totalmente alfabetizzata l’influenza di

tradizioni scrittorie vicine può essere forte, ma i parlanti nativi non hanno ancora

associato le parole della loro lingua a delle forme scritte stabili, mentre in società

altamente scolarizzate, una volta imparato a leggere e a scrivere, il parlante non

sofisticato tende a pensare la relazione tra una parola e la sua immagine grafica come

naturale e necessaria, almeno quanto lo è quella tra la parola e i fonemi che la

compongono. La storia delle riforme ortografiche è però molto varia: si danno casi dove il

processo non incontra particolari ostacoli e altri casi dove, nonostante innumerevoli

proposte, si è ottenuto ben poco. In generale, un problema che può sembrare poco

rilevante può dare inizio a veri e propri dibattiti, spesso dalle tinte molto accese. Una

riforma ortografica può essere drastica e consistere nel cambiamento dello script in uso
174
(è il caso del turco, che è passato dall’abjad arabo all’alfabeto latino) oppure essere di

portata minore e andare a toccare solo alcune regole ortografiche (uno dei casi più

recenti riguarda il tedesco). Come nella creazione di nuove ortografie, anche nelle riforme

sembrano avere molto peso la motivazione degli utenti e il prestigio di determinate

varietà, mentre questioni prettamente linguistiche, che di solito riguardano soprattutto la

fedeltà alla realtà fonologica della lingua, sembrano essere di minore interesse per i

parlanti. Di grande importanza sono anche questioni emotive ed estetiche: per esempio,

l’islandese conserva <y> nonostante questo grafema sia omofono di <i>. Per la maggior

parte degli islandesi, la scomparsa di <y> altererebbe l’aspetto dei testi scritti in maniera

inaccettabile. Non ha creato invece problemi l’abolizione della distinzione tra <æ> e <œ>

a favore del primo simbolo perché “in that case, the look of the writing was

unchanged307”. La gamba grafica di <y> è considerata dai parlanti come un fattore

importante nel riconoscimento dell’immagine grafica delle parole e la conservazione

dell’ortografia mantiene accessibili i testi in antico nordico, ancora intelligibili per gli

islandesi moderni. Le scelte ortografiche possono a volte riflettere posizioni ideologiche:

nei Paesi Bassi, molti fiamminghi scrivono <k> e non <c> in parole come kultuur perché

<c> rimanda troppo agli usi grafici del francese; al contrario, i nederlandofoni

preferiscono scrivere cultuur perché kultuur richiamerebbe troppo l’ortografia tedesca308.

Normalmente si sente la necessità di attuare una riforma ortografica in due casi:

1) per adeguare l’aspetto grafico della lingua a un generale rinnovamento culturale; 2)

l’ortografia in uso viene avvertita come inutilmente complicata o eccessivamente

conservativa e si avverte l’esigenza di renderla più in armonia con la lingua trascritta

nella sua fase attuale. Un caso del primo tipo è quello della già citata riforma attuata nel

307 Pind, J., “Evolution of an Alphabetic Writing System: The Case of Icelandic”, in Malatesha Joshi, R., Aaron,
P. G., op. cit., p. 12.
308 Geerts, G., Broeck, J. van den, Verdoodt, A., “Successes and Failures in Dutch Spelling Reform”, in
Fishman, J. A., Advances in the Creation and Revision of Writing Systems, The Hague/Paris, Mouton, 1977, p.
234.
175
1928 in Turchia da Kemal Atatürk, un carismatico leader nazionalista. La riforma fu un

successo grazie alla capacità di Atatürk di convincere la popolazione della bontà della

sua iniziativa: egli decise di non inimicarsi inutilmente il potere religioso dell’Islam,

tradizionalmente legato allo script arabo; il passaggio allo script latino veniva attuato in

nome del fatto che quest’ultimo si adattava meglio alla lingua turca rispetto allo script

arabo. Infatti in turco l’armonia vocalica gioca un ruolo molto importante e le vocali sono

otto; lo script a base araba distingueva invece solo tre vocali lunghe, /aː/, /iː/ e /uː/. La

questione poteva essere risolta facendo degli aggiustamenti al sistema già in uso, ma in

realtà l’obiettivo di Atatürk era quello di avvicinarsi alla cultura occidentale e di

emanciparsi dalla sfera di influenza araba (ci fu anche una riforma nel lessico, in cui

prestiti di origine araba e persiana vennero sostituiti da parole derivate da radici lessicali

turche). Bisogna anche sottolineare che al tempo in cui la riforma fu attuata solo una

piccola parte della popolazione turca era alfabetizzata, dunque non veniva richiesto un

grande sforzo nel passaggio da un tipo di grafia all’altra309. Oggigiorno l’ortografia turca è

estremamente trasparente, con una corrispondenza quasi perfetta tra fonemi e grafemi.

Usi tipici del turco sono l’impiego di <c> per /dʒ/, di <ç> per /tʃ/ e la distinzione tra <i>, che

vale /i/ e la cui versione maiuscola è <İ>, e <ı>, che sta per /ɯ/. Un caso particolare è

quello del grafema <ğ> che stava per /ɣ/ ma ora serve a segnalare, in posizione

intervocalica, l’allungamento della vocale precedente ed è muto. La sua conservazione

nello scritto è giustificata perché il fonema /ɣ/ è scomparso dalla lingua standard ma si

conserva in molti dialetti; i casi in cui la caduta di /ɣ/ ha comportato l’allungamento della

vocale precedente sono gli unici in cui la lunghezza vocalica è distintiva.

Un altro fenomeno di ampia portata culturale che ha toccato anche questioni

legate all’ortografia è avvenuto il secolo scorso in Cina. Nel 1954 il Ministero

dell’Istruzione della Repubblica Popolare Cinese formò una commissione per lavorare

309 Coulmas, F., The Writing Systems of the World, Oxford, Blackwell, 1989, pp. 243-244.
176
alla riforma dell’ortografia cinese. Lo scopo era di trascrivere la lingua utilizzando lo script

latino. Quello che ne uscì fu l’hànyŭ pīnyīn, basato su alcuni sistemi precedentemente

adottati. Oggigiorno l’hànyŭ pīnyīn è il sistema più diffuso per la scrittura del cinese in

caratteri latini e svolge diverse funzioni: serve per l’insegnamento scolastico della

pronuncia standard del mandarino, per la trascrizioni di nomi cinesi in assenza di font

adeguati e per l’inserimento di caratteri cinesi in computer e telefoni cellulari. I grafemi o i

gruppi di grafemi di questo sistema si distinguono in due categorie: quello degli iniziali,

unità che possono apparire solo a inizio sillaba, e finali, unità che possono apparire solo

a fine sillaba. Le consonanti occlusive e affricate in cinese non si distinguono tra sorde e

sonore ma tra aspirate e non aspirate; i grafemi che normalmente nella tradizione latina

servono per indicare le consonanti sonore vengono quindi impiegati per le consonanti

non aspirate, mentre quelli che normalmente servono a indicare le consonanti sorde sono

impiegati per le consonanti aspirate, ad es. <d> sta per /t/ e <t> sta per /tʰ/310. Per

indicare i toni, che nel cinese mandarino standard sono cinque, si usano quattro diacritici

posti sui grafemi vocalici (il tono neutro non è indicato da nessun segno), per es. mā

“madre” ha un tono alto stabile, má “canapa” ha un tono ascendente, mǎ “cavallo” ha un

tono prima discendente e poi ascendente, mà “rimproverare” ha un tono discendente, ma

è una particella interrogativa e ha un tono non distintivo. Oltre alla creazione di

un’ortografia latina standard per il cinese, il premier Zhōu Ēnlái si proponeva anche la

standardizzazione e semplificazione dei caratteri cinesi e la promozione, a livello

nazionale, della varietà linguistica standard. Così, molti hànzì311 estremamente complessi

sono stati semplificati diminuendo il numero di tratti di cui erano composti, spesso

adottando ufficialmente forme manoscritte che erano già diffuse negli usi privati.

310 Questo metodo sembra molto più conveniente di quello utilizzato dal sistema di trascrizione Wade-Giles (in
uso per gran parte del XX secolo), in cui le consonanti aspirate e non aspirate venivano distinte con un
apostrofo: <p, p’; t, t’; k, k’, ch, ch’> (cfr. pīnyīn <b, p; d, t; g, k; zh, ch>).
311 Nome dei caratteri in cinese, kanji è il nome giapponese.
177
Ovviamente, la scrittura degli hànzì semplificati diventa più veloce e agevole, ma allo

stesso tempo diminuisce la distintività. Ovviamente la riduzione del numero di varianti

possibili per uno stesso carattere è estremamente vantaggiosa, ma non si può affermare

lo stesso con la stessa sicurezza per quanto riguarda l’uso di hànzì semplificati.

Nonostante Mao Tse Tung312 abbia preconizzato l’abbandono degli hànzì a favore

dell’hànyŭ pīnyīn per promuovere l’alfabetizzazione in tutto il territorio cinese e linguisti

come Wáng Lì e Liú Shūxiāng313 abbiano espresso opinioni favorevoli all’affiancamento

dell’hànyŭ pīnyīn alla scrittura tradizionale con lo scopo di una graduale sostituzione di

quest’ultima, per come stanno ora le cose sembra difficile immaginare un cambiamento

così drastico. Dato il grandissimo numero di parlanti, è difficile predire gli effetti che una

tale rivoluzione culturale potrebbe avere: l’uso di un’ortografia fonologica basata sul

cinese mandarino aumenterebbe le divisioni sociali e linguistiche o invece, nel giro di

qualche anno, imporrebbe un’unica varietà permettendo l’unificazione linguistica? Quello

che è certo che la diffusione della scolarizzazione, iniziata in Cina già nel 1910, ha fatto

imparare la pronuncia standard alla maggior parte della popolazione, ma evidentemente,

nonostante la maggiore facilità di apprendimento dei caratteri latini sia evidente,

perlomeno in termini di tempo e di denaro, i vantaggi di un sistema di scrittura logografico

vengono ancora sentiti in maniera molto forte (discriminazione di significati al di là di

differenze fonologiche314) e per giunta l’abbandono dei caratteri tradizionali sarebbe

avvertito da molti come una perdita culturale immensa e una capitolazione di fronte

all’invadente modello occidentale.

La riforma ortografica del turco e del cinese sono stati segnali molto importanti

dell’apertura di queste due culture verso l’Occidente, anche se nel primo caso l’alfabeto a

312 Mao Tse Tung è la grafia con cui tradizionalmente questo nome appare nei testi italiani, ma seguendo
l’hànyŭ pīnyīn la translitterazione corretta sarebbe Máo Zédōng.
313 Coulmas, F., The Writing Systems of the World, Oxford, Blackwell, 1989, p. 247.
314 Sembrerebbe tuttavia che, rispetto al cinese classico, il cinese moderno abbia molti meno omofoni perché
ormai moltissime parole sono almeno bisillabiche.
178
base latina è stato adottato con successo in tutti gli ambiti della vita pubblica, mentre nel

secondo caso l’hànyŭ pīnyīn conosce ancora degli usi settoriali ed è lungi dal divenire il

sistema di scrittura ufficiale, se mai lo diverrà315. Il passaggio da uno script all’altro, con

tutte le componenti sociali, politiche, ideologiche ed emotive legate alla scrittura, è

senz’altro un cambiamento molto forte. Anche riforme di portata minore hanno però

ricevuto resistenze. L’inglese ha conosciuto nella sua storia diverse proposte di riforma:

per citarne solo alcune, il sistema Shavian di Kingsley Read nel 1959, composto da 48

grafemi completamente creati ex novo (vista la rottura totale con le abitudini grafiche

precedenti, c’erano poche probabilità che il sistema venisse accolto con successo); il

sistema proposto dallo svedese Axel Wijk, chiamato Regularized English (anche questo

del 1959), che comprendeva i grafemi standard dell’inglese ma rimuoveva tutte le

eccezioni, utilizzando solo i pattern di corrispondenza grafema-fonema regolari e

lasciando il 90% delle parole con il loro aspetto tradizionale; l’ITA (Initial Teaching

Alphabet), concepito da Sir James Pitman come ortografia di passaggio prima di

insegnare quella tradizionale per far acquisire familiarità ai bambini con la scrittura e la

lettura; una volta che fu introdotto in alcune scuole inglesi negli anni ’60, effettivamente, i

bambini imparavano prima a leggere e a scrivere e nel passaggio all’ortografia standard il

verificarsi di seri deficit di lettura era raro; tuttavia, a causa della mancanza di sostegno

politico ed economico, il progetto abortì; alcune tracce di riforma persistono in Australia,

dove alcuni quotidiani usano la SR1 (Spelling Reform One), un tipo di ortografia

moderatamente riformata che, per esempio, fa corrispondere /ɛ/ sempre e solo a <e> (es.

dead > ded)316. Tra i pochi che riuscirono ad apportare alcuni cambiamenti nell’ortografia

inglese ci fu il già citato Noah Webster, statunitense vissuto tra il XVIII e XIX secolo, il

315 Alcuni problemi nascono dal fatto che i diacritici per indicare i toni scompaiono nell’uso internazionale del
pīnyīn; per questa ragione, due province cinesi i cui nomi differiscono solo per la tonalità, vengono distinte
raddoppiando in un caso il grafema vocalico: così Shǎnxī viene scritto Shaanxi e Shānxī diventa semplicemente
Shanxi.
316 Sampson, G., Writing systems, London, Hutchinson, 1985, pp. 195-197.
179
quale fu aiutato dal clima di crescente nazionalismo dell’epoca e dalla volontà di

emancipazione dall’influenza britannica. Tuttavia, quelle di Webster non furono proposte

particolarmente innovative, facevano parte delle oscillazioni tipografiche già presenti in

Gran Bretagna. A parte qualche semplificazione (come color invece di colour), l’aspetto

dell’ortografia inglese non è sostanzialmente diverso da quello di qualche secolo fa. Lo

stesso vale per il francese: i riformatori riuscirono nel XVI secolo a introdurre gli accenti

grafici per distinguere i diversi valori di /E/, ovvero [e], [ɛ] e [ə]317, permettendo anche

l’eliminazione di diverse <s> mute, sostituite dall’accento circonflesso per segnalare la

lunghezza vocalica (ormai perduta), ma da quel momento poco è stato fatto. Il 3 maggio

1990 l’Accademia francese approvò delle rettifiche ortografiche che furono pubblicate nel

Journal officiel de la République française. Le modifiche erano molto moderate e

toccavano all’incirca 2000 vocaboli; ciononostante sono state rifiutate o ignorate dalla

maggior parte della popolazione, specialmente in Francia, mentre l’accoglienza in Belgio

e in altri stati francofoni è stata leggermente più calorosa. Fondamentalmente queste

rettifiche consistono nella regolarizzazione degli usi dell’accento grave su <e>, dell’uso

dell’accento acuto in parole straniere e prestiti e nell’abolizione dell’accento circonflesso

su <i> e <u>, tranne che nei casi dove questo svolga la funzione di diacritico lessicale

(es. la distinzione tra du “del” e dû “dovuto” si mantiene, ma connaître e brûler potrebbero

essere scritti oggi connaitre, bruler). Sembrerebbe che “le fait de pouvoir écrire plus

facilement et simplement ne justifi[e] pas l’abandon des signes diacritiques, auxquels [on]

trouv[e] un certain charme318”. Nel 2004 è stata pubblicata una brochure chiamata Le

millepatte sur un nénufar. Vadémécum de l’orthographe recommandée, per incitare

l’applicazione della riforma del 1990. L’edizione del dizionario Le Petit Robert del 2009

317 Secondo le regole attuali dell’ortografia francese, [e] si rappresenta con <é>, [ɛ] con <è>, <ê> o <e> in
sillaba grafica chiusa, [ə] con <e> in sillaba grafica aperta senza nessun diacritico.
318 Ousselin, E., “Aux accents, citoyens ! la résistance à la réforme de l’orthographe”, in The French Review,
vol.77, n. 3, 2004, p. 492.
180
incorpora tutti i cambiamenti proposti dalla riforma, a fianco della grafia tradizionale e

molte pubblicazioni online belghe scrivono oggi seguendo la nuova ortografia: questo può

essere un segno che in futuro la riforma, con il sostegno di tutta la Francofonia, potrebbe

prendere piede del tutto.

In Germania la riforma ortografica iniziata nel 1995, per decisione del

Kultursministerkonferenz, è diventata un vero e proprio caso nazionale (e internazionale,

considerando gli stati germanofoni come Austria, Svizzera, Liechtenstein, ecc.), arrivando

anche in tribunale. La riforma fu introdotta il primo agosto 1998, in coincidenza con il

primo giorno dell’anno scolastico e fu deciso un periodo di transizione della durata di

sette anni in cui la norma ortografica tradizionale sarebbe stata considerata obsoleta ma

non scorretta (mentre il correttore automatico di Word l’ha adottata quasi subito) 319. La

riforma in sé è molto moderata e riguarda principalmente sei ambiti: la regolarizzazione di

alcune corrispondenza fonema-grafema (Känguruh si semplifica in Känguru, “canguro”);

regolarizzazione nella divisione o unione di certi morfemi allo scritto (radfahren diventa

Rad fahren, “andare in bicicletta”; prima della riforma si scriveva radfahren ma Auto

fahren “guidare l’automobile”); uso del trait d’union (Hair-stylist può essere scritto oggi

anche Hairstylist); riduzione e semplificazione di molte regole riguardanti la

punteggiatura; semplificazione delle regole dell’andare a capo (prima della riforma Zucker

veniva diviso in Zuk-ker, oggi invece Zu-cker)320. Se da alcuni la riforma fu accolta senza

troppi problemi, da altri fu vivacemente respinta e attaccata. Nel 1996 Rolf Gröschner,

professore di legge all’Università di Jena, e sua figlia, al tempo quattordicenne,

intrapresero una lotta contro la riforma arrivando addirittura a presentare le loro lamentele

alla Corte Costituzionale Federale. Secondo loro, la riforma andava contro i diritti

costituzionali garantiti dalla legge tedesca: la riforma avrebbe attaccato l’integrità

319 Johnson, S., “On the origin of linguistic norms: Orthography, ideology and the first constitutional challenge to
the 1996 reform of German”, in Language in Society, n. 31, 2002, p. 549.
320 Ibid., p. 556.
181
linguistica, requisito base per il libero sviluppo della personalità. Inoltre, un altro articolo

della costituzione tedesca assicura che l’arte, la scienza, la ricerca e l’insegnamento

sono liberi; secondo Gröschner questa libertà gli sarebbe stata negata se la riforma fosse

stata imposta dall’alto. Infine, visto che sua figlia avrebbe imparato un’ortografia

fondamentalmente diversa da quella appresa da lui a scuola, gli veniva tolto il diritto di

educarla come voleva. La figlia stessa aggiunse che il dover modificare le regole che

aveva appreso fino ad allora andava contro il libero sviluppo della sua personalità, dato

che si trovava costretta ad abbandonare delle abitudini grafiche ormai immagazzinate da

anni nel suo lessico mentale. La Corte rifiutò le ragioni di Gröschner e di sua figlia,

asserendo che una riforma riguardante lo 0,5% della lingua scritta non poteva essere

considerata di importanza fondamentale nella pratica pedagogica321. Gröschner non fu

però il solo a opporsi alla riforma e a tutt’oggi la questione è dibattuta, tanto che tra i

quotidiani tedeschi più venduti, solo il Deutsche Presse Agentur e il Reuters aderiscono

completamente all’ortografia riformata, mentre, per esempio, Die Zeit segue delle regole

proprie, a metà strada tra le vecchie convenzioni e le nuove322.

Nell’ultimo secolo sono state proposte e applicate altre riforme ortografiche: in

Russia, dopo la Rivoluzione, il russo standard fu promosso con una riforma ortografica;

furono abolite grafie etimologiche e dei grafemi inutili scomparvero dall’alfabeto. Tuttavia

la forma presa come standard non era basata sullo stile negligente (ritmo allegro) della

pronuncia dei proletari (la vecchia pronuncia moscovita), bensì sullo stile diligente lento,

vicino agli usi di quelle classi alte contro cui si era scagliata la Rivoluzione323. In

Indonesia, alcune grafie influenzate dall’olandese, ex lingua coloniale, sono state

321 Ibid., passim.


322 http://en.wikipedia.org/wiki/German_spelling_reform_of_1996.
323 Mioni, A., “Le macrocause dei mutamenti linguistici e i loro effetti”, in Linguistica storica e sociolinguistica. Atti
del Convegno della Società Italiana di Glottologia, a cura di Cipriano, P., d’Avino, R., Di Giovine, P., Roma,
1998, p. 140.
182
riformate dopo il 1972324: <oe> è passato a <u> per indicare /u/, <tj> è passato a <c> per

indicare /tʃ/, <dj> è passato a <j> per indicare /dʒ/ e <j> è passato a <y> per indicare /j/.

In Giappone, nel 1946, l’uso dei kana è stato riformato, eliminando alcuni caratteri

obsoleti e allineando la grafia alla pronuncia moderna. In Norvegia, la cui lingua ufficiale,

il bokmål, è basata sul danese scritto, ci sono state numerose riforme nel corso del XX

secolo, per l’esattezza nel 1907, 1917, 1938, 1941, 1981 e l’ultima nel 2005. La

situazione norvegese è degna di nota in quanto esiste, oltre al bokmål, un altro standard

ortografico, il nynorsk; il primo è più conservativo e più vicino al danese scritto, il secondo

è più innovativo e vicino ai dialetti norvegesi. Durante i primi anni della scuola elementare

gli allievi possono scegliere se imparare il bokmål o il nynorsk, ma una volta attuata la

scelta viene chiesto loro di essere coerenti; dopo le scuole medie inferiori sono però

tenuti a conoscere entrambe le varietà. La percentuale degli alunni che viene educato in

bokmål si aggira tra l’85% e il 90%325.

La quasi totalità delle riforme ortografiche hanno visto schierarsi da una parte i

conservatori o grafocentristi e dall’altra i riformatori o fonocentristi; curiosamente, le

motivazioni addotte dall’uno o dall’altro gruppo per sostenere le proprie posizioni sono

comuni a tutti i vari dibattiti; Geerts326, in un articolo in cui tratta in particolare della riforma

dell’ortografia del nederlandese, li riassume con efficacia:

• Argomento dell’abitudine: coloro che si oppongono alla riforma

sottolineano che, per quanto una grafia possa essere irrazionale e

ingiustificata, sia estremamente difficile modificare le abitudini grafiche

324 La riforma ha portato all’unificazione grafica in Indonesia, Malaysia, Singapore e Brunei, stati dove si parla,
con leggere differenze, una stessa lingua.
325 http://en.wikipedia.org/wiki/Spelling_reform; vedi anche Tuttle, E., “Adaptations of the Roman Alphabet”, in
Daniels, P. T., Bright, W., op. cit., pp. 633 – 651, e Gundersen, D., “Successes and Failures in the Reformation
of Norwegian Orthography”, in Fishman, J. A., Advances in the Creation and Revision of Writing Systems, The
Hague/Paris, Mouton, 1977, pp. 247-266.
326 Geerts, G., Broeck, J. van den, Verdoodt, A., op. cit., pp. 201-206.
183
una volta apprese; i riformatori ribattono che si tratta solo di una

questione di tempo;

• Argomento estetico: si tratta di un argomento irrazionale eppure molto

importante in queste questioni; ci si oppone a una riforma perché

l’ortografia tradizionale appare più bella ed elegante; in verità anche qui

si tratta di abitudine visiva, perché è difficile poter dimostrare

razionalmente, per esempio, che rhyme sia più bello da leggere di rime;

• Argomento della corruzione: cambiare l’ortografia impoverirebbe la lingua

e sarebbe indice di pigrizia; a questo argomento si può facilmente

ribattere con la stessa accusa, infatti può essere indice di pigrizia anche

voler conservare a tutti i costi un sistema non più efficiente;

• Argomenti della tradizione e dell’etimologia: cambiare l’immagine grafica

della lingua nasconderebbe i legami con la tradizione letteraria

precedente e con l’etimologia dei diversi vocaboli; i riformatori rispondono

che difficilmente un libro del passato diventerà illeggibile solo per

questioni di carattere grafico: la lingua evolve anche per quanto riguarda

la sintassi e il lessico e se si è veramente interessati alla comprensione

di un’opera del passato al giorno d’oggi ci sono tutte le conoscenze

storiche per poterla apprezzare; inoltre, conservare elementi etimologici

nella grafia può essere di qualche interesse per gli studiosi della lingua,

per i filologi, i linguisti, gli insegnanti, ecc. ma per il parlante comune non

è altro che un inutile fardello; per di più, la maggior parte dei vocaboli non

reca di solito indizi della sua etimologia e questo fatto non è mai

sembrato creare problemi di alcun tipo;

• Argomento dell’omografia: una riforma ortografica rischia di aumentare il

numero degli omografi se ci si basa solo sulla fonologia; in realtà, quasi

184
nessuna ortografia distingue puntualmente gli omofoni e sono presenti

diversi omografi che non creano nessun problema, in quanto il contesto

da solo già è sufficiente a disambiguare; inoltre, non è detto che una

riforma non possa mantenere in alcuni casi diacritici o grafemi con

funzione distintiva per la discriminazione dei significati;

• Argomento dell’immagine grafica: i conservatori insistono sul fatto che la

scrittura non è solo un modo di trascrivere i suoni, ma si lega

direttamente ai significati delle parole; modificando l’aspetto di una

parola, si rischia di modificarne anche il significato; anche in questo caso

i riformatori ribattono che, nel giro di poco tempo, ci si abitua alla nuova

immagine grafica327;

• Argomento finanziario: i conservatori sottolineano il costo, in tempo e

denaro, che una riforma richiederebbe; i riformatori sostengono che la

diminuzione del tempo necessario per apprendere a leggere a scrivere

negli anni ripagherebbe la spesa;

• Argomento pedagogico: per i riformatori, con un’ortografia più semplice,

gli insegnanti potrebbe dedicare più tempo a trattare altre tematiche,

perché l’apprendimento dell’ortografia sarebbe più rapido; inoltre, nella

pratica del dettato, si eliminerebbe l’insorgere di suoni fantasma, ovvero

la lettura ipercorretta da parte degli insegnanti di grafemi normalmente

non pronunciati; i conservatori ribattono che un’ortografia con qualche

difficoltà rafforza la capacità di studio e di analisi e la coscienza

metalinguistica. È poi da definire meglio il concetto di semplicità quando

si parla di un’ortografia (come abbiamo visto nel capitolo III, la questione

327 Un certo tipo di poesia basata principalmente su “giochi grafici” (es. Apollinaire, Futurismo, ecc.) con una
riforma radicale perderebbe immediatamente accessibilità.
185
è tutt’altro che pacifica e si presta a essere considerata da diversi punti di

vista);

• Argomento sociale: uno spelling difficile può aumentare la

discriminazione in base allo status sociale, in quanto le classi più

svantaggiate, avendo meno tempo da dedicare allo studio, svilupperanno

meno abilità di lettura e scrittura; i conservatori sostengono che, anche

semplificando l’ortografia, la società continuerà comunque a discriminare

in base al livello socioculturale;

• Argomento delle culture confinanti: cambiare radicalmente l’aspetto

grafico di alcune parole può oscurare i legami con le altre tradizioni: per

es., se in francese si scrivesse *émer invece di aimer gli italiani, gli

spagnoli e i portoghesi probabilmente non riconoscerebbero più la

parentela con amare e amar; questo argomento è molto simile a quello

etimologico: l’interesse nel riconoscere legami e somiglianze con altre

lingue può riguardare una piccola fetta della popolazione (studiosi,

filologi, ecc.), ma è di scarsa rilevanza per il parlante medio.

Bisognerebbe concludere poi che nell’orale è impossibile cogliere

somiglianze con altre lingue genealogicamente vicine? Questa sembra

una posizione difficile da sostenere.

A seconda della nazione e del periodo storico gli argomenti che prevalgono sugli

altri variano considerevolmente. Tuttavia, in linea generale, affinché si abbia un reale

cambiamento in ambito linguistico, normalmente questo cambiamento deve avvenire

prima di tutto nella società, non a caso due delle riforme citate, quella in Turchia e quella

in Cina, corrispondono a dei periodi estremamente significativi per la storia di queste due

nazioni. Come dice Gramsci in un celebre passo dei suoi Quaderni del carcere, “[o]gni

volta che affiora, in un modo o nell'altro, la questione della lingua, significa che si sta

186
imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe

dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la

massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale328”.

328 Gramsci, A., Quaderni del carcere (Quaderno 29), 1935 (rist. Torino, Einaudi, 2007).
187
188
CONCLUSIONE

Giunti al termine del nostro studio e consapevoli di avere trattato solo

superficialmente alcune tematiche che andrebbero approfondite, tenteremo di trarre

alcune conclusioni e di dare delle risposte alle domande che ci eravamo posti

inizialmente.

Innanzitutto abbiamo cercato di mettere ordine tra i diversi termini impiegati,

talvolta incoerentemente, nella letteratura scientifica a proposito della scrittura. Così

abbiamo distinto i sistemi di scrittura in due tipologie: quelli pleremici, che traducono

graficamente unità del piano del contenuto, e quelle cenemici, che invece annotano unità

del piano dell’espressione. Tra quelli pleremici, avevamo elencato le pittografie, i cui

elementi richiamano in modo più o meno iconico i referenti esterni a cui essi si

riferiscono; le ideografie, le cui unità grafiche corrispondono a dei concetti astratti e la cui

iconicità è minore rispetto alle pittografie; le logografie, in cui normalmente a ogni segno

grafico corrisponde un morfema o una parola della lingua trascritta. Tra quelli cenemici

avevamo individuato i sillabari, in cui a ogni simbolo corrisponde una sillaba fonica; gli

abjad, che rappresentano obbligatoriamente solo le consonanti ma non le vocali (che

possono in caso essere rese con dei diacritici); gli abugida, sillabari in cui è possibile

identificare quale parte del simbolo grafico corrisponde alla consonante e quale parte

corrisponde alla vocale; gli alfabeti, in cui vengono rappresentate da simboli diversi sia le

consonanti sia le vocali; le grafie di tratti, alfabeti in cui la forma di alcuni simboli richiama

le posizioni articolatorie necessarie a produrre i fonemi corrispondenti.

Nonostante questa schematizzazione, siamo stati costretti a puntualizzare che

non esistono sistemi di scrittura puri e in qualsiasi tradizione scrittoria sono presenti

elementi pleremici e cenemici e talvolta è difficile anche stabilire se un simbolo grafico

viene interpretato dal lettore in un modo o nell’altro. Abbiamo poi voluto definire anche il

189
significato di script, inteso come tipo di grafia; nel mondo sono diffusi moltissimi script

diversi che spesso condividono lo stesso sistema di scrittura ma variano in base

all’aspetto grafico dei simboli utilizzati (ad es., il devanāgarī e il Ge’ez sono due script

diversi ma sono entrambi abugida);. Con ortografia abbiamo inteso invece l’insieme di

regole convenzionali di corrispondenza tra segni grafici e unità linguistiche.

Ci siamo poi posti il problema delle unità minime del sistema grafico e abbiamo

cercato di vedere se era possibile stabilire un parallelo con le unità minime della

fonologia. Infatti finora, nella visione occidentale alfabetocentrica, è stato naturale

applicare i paradigmi della fonologia strutturalista alla grafematica, ma spesso questa si è

rivelata un’operazione euristicamente poco valida. Le corrispondenze possono esserci

sul piano terminologico, per cui grafema richiama fonema e i tratti grafemici richiamano i

tratti fonologici, ma mentre le diverse lingue del mondo condividono diversi fonemi e i

tratti fonologici sono universali, i grafemi e le diverse tradizioni grafiche differiscono

enormemente ed essendo legate a supporti materiali non sono sottoposti alle stesse

limitazioni fisiologiche del piano fonico329. È quindi importante considerare le unità minime

della grafematica in maniera indipendente da quelle della fonologia, perché, per esempio,

i tratti grafemici possono avere corrispondenze articolatorie solo in una grafia di tratti

come l’hangŭl ma non in tutte le altre tradizioni, dove vanno invece considerati, ad

esempio, per la loro importanza nella lettura (per la discriminazione dei diversi grafemi) o

per le loro applicazioni pratiche (creazione di nuovi simboli in armonia con quelli già

esistenti, scrittura elettronica, ecc.).

Per le stesse ragioni per cui è importante considerare le unità minime in maniera

indipendente dal piano fonico sarà necessario postulare, oltre ad una grafematica

sistematica (che studi i rapporti tra lingua scritta e lingua orale) anche una grafematica

329 Ci sono anche delle limitazioni fisiologiche proprie della scrittura, legate ai movimenti della mano, alla luce,
all’accessibilità e reperibilità del supporto materiale, ecc.
190
autonoma (che studi la scrittura indipendentemente dalla lingua). I risultati delle due

grafematiche saranno però di interesse relativo se non verranno successivamente

integrati in una terza grafematica, generale, che tenga conto, oltre che dei risultati delle

prime due, anche degli aspetti della scrittura legati al linguaggio ma indipendenti

dall’espressione fonica. Coloro che nell’ultimo secolo si sono schierati contro

l’integrazione della grafematica nella linguistica (Saussure, Jakobson, Bloomfield, tra gli

altri) hanno di solito sempre preso in considerazione solo la grafematica sistematica,

sottolineando come la scrittura, non riproducendo fedelmente il parlato, deformasse la

lingua. I linguisti interessati alla scrittura hanno invece evidenziato come, anche nei

sistemi alfabetici, fossero presenti elementi pleremici utili nei processi di comprensione

durante la lettura; contro l’argomento della non-universalità della scrittura, Vachek ha

parlato della sua ottimalità, ovvero dell’auspicabilità, per una lingua, di avere un giorno

una propria controparte scritta. Hjelmslev e i suoi sostenitori hanno ripreso l’affermazione

di Saussure secondo cui la lingua non è sostanza ma forma, per negare la necessità di

limitarsi allo studio dell’espressione fonica. Tuttavia, affermare che lingua scritta e lingua

orale differiscono solo per la diversa sostanza può essere un argomento

controproducente, in quanto non ci sarebbe alcun interesse nello studiarle

separatamente se fossero pressoché identiche. Il parallelo tra grafema e fonema va

quindi abbandonato: secondo la nostra grafematica generale, i grafemi sono composti da

tratti grafemici, il cui numero varia a seconda dello script. Questi tratti grafemici

corrispondono alla seconda articolazione della scrittura, mentre il grafema corrisponde

alla prima articolazione. Il grafema può avere un significato linguistico, come nel caso dei

logogrammi o di lettere dell’alfabeto latino usate con funzione diacritica, oppure un

significato fonico, come la maggior parte dei grafemi delle ortografie trasparenti o

l’accento grafico in italiano. Filogeneticamente e ontogeneticamente, l’essere umano

tende ad attribuire a un grafema o ad una sequenza di grafemi prima un corrispettivo sul

191
piano del significato e poi un corrispettivo sul piano fonico, come proverebbero diversi

modelli psicolinguistici, come il modello di acquisizione lettura/scrittura di Frith330. I segni

di punteggiatura sono quelli che meglio si prestano a dimostrare la doppia natura dei

grafemi, infatti questi segni sono suscettibili, quasi in tutte le tradizioni scrittorie, di essere

interpretati sia come pleremici sia come cenemici, in quanto legati sia a categorie logiche

e sintattiche sia alla prosodia del discorso orale.

Nonostante queste evidenze, gli studiosi occidentali hanno sempre concepito

l’alfabeto come il sistema di scrittura ideale, in quanto, possedendo un numero minore di

unità, secondo il criterio dell’economia, permette di scrivere un numero potenzialmente

infinito di parole memorizzando solo qualche decina di caratteri. Secondo Gelb, infatti,

nella storia, i sistemi di scrittura sono passati da una fase pittografica ad una alfabetica

(attraversando fasi ideografiche, logografiche e sillabiche), senza possibilità di tornare

indietro. Se è vero che la maggior parte dei sistemi di scrittura sono nati con una forte

componente pittografica e ideografica e poi sono andati avvicinandosi sempre di più al

criterio fonologico, diventando sillabari, abugida o alfabeti, è anche vero che la stessa

esistenza di ortografie opache, un tempo trasparenti, dimostra che è possibile un ritorno

a un principio logografico, o almeno la compresenza di elementi fonografici e logografici.

Ma perché i diversi sistemi di scrittura tendono al criterio fonografico e perché si danno

casi di ritorno parziale alla logografia? La spinta iniziale verso il fonografismo può essere

spiegata, forse, con la necessità che un popolo incontra durante la sua storia di

comunicare con altri popoli che parlano lingue diverse e usano scritture diverse; infatti,

come è stato già detto, l’alfabeto è il sistema più funzionale quando si tratta di trascrivere

suoni estranei alla propria lingua; anche Coulmas sottolinea l’importanza del passaggio

330 Vedi nota 238.


192
da una lingua all’altra dei sistemi di scrittura come principale fattore di sviluppo331.

Un’altra spinta verso il fonografismo può essere stata data dalla supposta maggiore

velocità di apprendimento dell’inventario dei grafemi a base fonografica: in una data

società, solo l’élite aristocratica potrà avere il tempo di dedicare molti anni alla

memorizzazione di centinaia di logogrammi o ideogrammi, mentre molti potranno, in

molto meno tempo, imparare gli elementi di un sillabario, di un abugida o di un alfabeto.

Come interpretare quindi le forti componenti logografiche presenti nelle ortografie

opache? Aberrazioni del sistema? Ritorno al passato? Possiamo provare a formulare

alcune ipotesi: in primo luogo, fenomeni come l’opacizzazione di un’ortografia sono

piuttosto recenti e si danno in società altamente alfabetizzate e con una lunga tradizione

storica (o con una parziale ristrutturazione fonologica compiutasi nel tempo), dove la

lettura silenziosa è molto diffusa (si pensi ai casi delle società anglofone e francofone):

non essendo necessaria un’immediata conversione dei grafemi in fonemi, si tende ad

applicare un criterio di lettura più veloce e naturale, ovvero quello che fa corrispondere

unità grafiche con unità di significato; in secondo luogo, il fatto che le scritture tendano a

trasformarsi da maggiormente pleremiche a maggiormente cenemiche non è

probabilmente un processo definitivo e regolare, è più facile supporre che, pur

modificandosi, non abbandonino mai del tutto le potenzialità logografiche iniziali e

l’esistenza di scritture come quella giapponese dimostra che è possibile implementare

tutte le potenzialità date dal medium scrittorio. Il cambiamento della natura dei rapporti

grafia-fonia non va quindi interpretato come una regressione, bensì come una

compresenza di diversi elementi e potenzialità che, a seconda del periodo storico, della

situazione sociale di un dato popolo, degli usi pubblici o privati della scrittura,

dell’evoluzione della struttura linguistica, ecc. vengono espressi con maggiore o minore

331 Coulmas, F., “Theorie der Schriftgeschichte”, in Schrift und Schriftlichkeit. Ein interdisziplinäres Handbuch
internationaler Forschung / Writing and its Use, vol. 1, a cura di Günther, H., Ludwig, O., Berlin/New York, De
Gruyter, 1994, p. 262.
193
frequenza. In fondo, come abbiamo già messo in evidenza, non esistono sistemi di

scrittura puri (lo dice lo stesso Gelb: “There are no pure writing systems”332), il processo

che va dalla pittografia alla fonografia andrebbe quindi visto più come una tendenza

piuttosto che come una legge naturale333. Coloro che, nel XIX secolo, sostenevano che le

lingue evolvevano necessariamente da una fase isolante verso una fase flessiva

passando per una fase agglutinante, avrebbero dovuto fare i conti oggi con il caso

dell’inglese, lingua inizialmente flessiva (come per es. il tedesco) che tende ad avere una

morfologia quasi isolante (con pochi tratti agglutinanti) che l’avvicina a quella del cinese;

possiamo tracciare un interessante parallelo con l’ortografia della lingua inglese, che

nasce come altamente fonologica durante il Medio Evo e tende oggi verso la logografia

(anche se il rapporto grafemi-fonemi non è ancora del tutto perduto), fatto che, al di là

delle apparenze, abbiamo dimostrato avere anche dei vantaggi. Infatti abbiamo visto,

confrontando la situazione dell’inglese e del francese con quella di altre lingue che hanno

ortografie più trasparenti, che la loro struttura interna, la diffusione geografica e la

frammentazione dialettale favoriscono l’uso di un’ortografia con un’alta percentuale

logografica, rispetto a lingue come il finlandese in cui il sistema fonologico e il minor

numero di parlanti facilitano l’uso di un’ortografia trasparente.

Abbiamo poi individuato quattro criteri per giudicare l’ottimalità dei diversi sistemi

di scrittura: i criteri della massima distintività, dell’ampiezza dell’inventario, della facilità di

riproduzione e della massima naturalezza. L’alfabeto è il sistema migliore per quanto

riguarda l’ampiezza dell’inventario (pochi elementi da memorizzare) e la facilità di

riproduzione (scarsa complessità dei caratteri) ma sistemi logografici come quello cinese

risultano molto più efficaci secondo il criterio della massima distintività (le unità grafiche si

differenziano molto tra di loro) e secondo quello della massima naturalezza (in quanto

332 Gelb, I., op. cit., p. 199.


333 Hans-Bianchi, B., op. cit., p. 34.
194
supponiamo che sia più semplice associare una figura a un concetto, a una parola o a un

morfema piuttosto che un’unità come il fonema). Per il lettore saranno di grande

importanza la distintività e la naturalezza, mentre per lo scrivente conteranno di più la

facilità di riproduzione e l’ampiezza dell’inventario; in generale però, l’uomo comune

legge nel corso della sua vita molto di più di quanto scriva e l’era informatica diminuisce

sempre di più le difficoltà di riproduzione. Dovremmo quindi liquidare l’alfabeto e

preconizzare un ritorno (o un aumento) della componente logografica, che pure non è

assente da nessun sistema? In realtà, bisogna considerare altri fattori che nella pratica

risultano più importanti dei criteri qui appena esposti, ovvero il prestigio culturale dello

script e l’insegnamento scolastico: l’Occidente ormai vede l’alfabeto latino come parte

integrante della sua cultura e sarebbe impensabile farne a meno; allo stesso tempo,

anche in tradizioni culturali come quella cinese o quella indiana, che usano scritture

proprie, è diventato necessario conoscere i caratteri latini, quanto meno per comunicare

in inglese, lingua franca mondiale; dal punto di vista della didattica, è sempre preferibile

un sistema che possa essere memorizzato rapidamente ed è un dato di fatto che le

logografie e le ortografie opache richiedano molto più tempo delle fonografie e delle

ortografie trasparenti per essere apprese. Un eccesso di informazione lessicale può

rendere un sistema eccessivamente complicato; il sistema più economico e allo stesso

tempo più naturale sembra essere il sillabario (o meglio, l’abugida), poiché la sillaba è più

intuitiva del fonema e i simboli da memorizzare non sarebbero numerosi quanto quelli di

una scrittura logografica. Ciononostante, non tutte le lingue hanno una struttura sillabica

semplice e la presenza di sillabe estremamente complesse porterebbe a notazioni molto

complicate (come nel devanāgarī) o all’aumento eccessivo del numero di caratteri: in casi

come questi forse non resta che arrendersi all’alfabeto.

Nell’ultimo capitolo, trattando della creazione di nuove ortografie, ci siamo

innanzitutto chiesti se l’alfabetizzazione di popolazioni del secondo e terzo mondo fosse

195
veramente necessaria e auspicabile o se si trattasse solamente di un ennesimo esempio

di colonizzazione mentale da parte del mondo occidentale verso altre culture,

concludendo che, al di là dei singoli episodi storici, la scrittura può veramente servire

come strumento di civilizzazione e di miglioramento delle condizioni di vita,

principalmente per la comunicazione a lunga distanza nel tempo e nello spazio e per la

memorizzazione e catalogazione di eventi e oggetti. Una volta appurato questo, abbiamo

passato in rassegna alcuni tentativi di grafizzazione di lingue dell’Africa, dell’Asia,

dell’Oceania, dell’America Latina e anche dell’Europa (come il romancio dei Grigioni). In

alcuni casi, l’introduzione di ortografie alfabetiche a base fonologica (o al massimo

morfofonologica) è stata un successo che non ha incontrato particolari ostacoli, in altri

casi invece i parlanti nativi non sofisticati hanno rifiutato sistemi scientificamente

ineccepibili, avanzando delle pretese apparentemente irrazionali. Smalley elencava, nel

1964, cinque criteri da seguire per la creazione di una nuova ortografia, in ordine di

importanza: massima motivazione per l’apprendente, massima rappresentazione della

lingua orale, massima facilità di apprendimento, massima possibilità di trasferimento con

ortografie di lingue geograficamente o culturalmente confinanti, massima facilità di

riproduzione. Giustamente Smalley considera la motivazione come il fattore più

importante, ma secondo noi essa è strettamente legata al quarto criterio, quello della

massima possibilità di trasferimento, infatti sembrerebbe che la maggior parte delle

popolazioni recentemente alfabetizzate veda l’apprendimento della scrittura come una via

d’accesso alle lingue economicamente, politicamente e culturalmente importanti, come

inglese, spagnolo, francese, tedesco, olandese per le ex colonie europee, l’arabo per gli

stati di fede islamica, il russo per i popoli dell’ex Unione Sovietica, ecc. Per questo

normalmente si vuole utilizzare lo stesso script e mantenere nella propria ortografia le

stesse caratteristiche dell’ortografia della lingua di prestigio. Naturalmente, si danno

anche casi in cui i parlanti vogliono distinguersi dalla lingua degli ex colonizzatori a causa

196
di atteggiamenti negativi nei confronti di questi ultimi o addirittura, per mostrare la propria

unicità, decidono di introdurre sistemi di scrittura creati ex novo (es. Cherokee, Cree,

Inuktitut, Vai, Akauku, N’ko, ecc.) o riprendono sistemi molto antichi (es. il Tifinagh per le

lingue berbere in Marocco, l’antica grafia mongola per soppiantare l’alfabeto cirillico in

Mongolia, ecc.). Il secondo criterio di Smalley, la rappresentazione del parlato, sembra

essere più rilevante per i linguisti che per i parlanti comuni, mentre la facilità di

apprendimento e di riproduzione sono comunque legate al primo e al quarto criterio, in

quanto l’apprendimento è favorito soprattutto dalla motivazione e dalle necessità

comunicative e la riproduzione sarà tanto più semplice quanto più si allinea agli usi delle

culture dominanti, che normalmente hanno il controllo della tecnologia (e quindi della

stampa).

Ricapitolando, quando si tratta di questioni legate alla scrittura sono sempre in

gioco diversi fattori. I principali sono tre: quello linguistico, quello sociale e quello tecnico-

economico. Nell’ambito delle riforme ortografiche, esattamente come nell’ambito della

creazione di nuove ortografie, i criteri che renderebbero un’ortografia ottimale dal punto di

vista linguistico spesso non coincidono, ma addirittura si scontrano, con i criteri che la

renderebbero ottimale da un punto di vista sociale ed economico. Un sistema di scrittura

efficiente, pur basandosi in larga misura sulla componente fonica del linguaggio,

dovrebbe contenere anche delle informazioni di livello più alto, morfologico e/o lessicale e

possibilmente dare una certa rilevanza alla sillaba piuttosto che al fonema. Se questo

traguardo non può essere raggiunto nella struttura interna dello script, è auspicabile che

si sottolinei l’importanza della sillaba, del morfema e della parola perlomeno durante

l’insegnamento scolastico.

Qualsiasi affermazione si faccia in merito a fenomeni sociali non può però mai

essere dogmatica: in situazioni socioeconomiche particolarmente svantaggiate, il tempo

da dedicare alla scolarizzazione è molto ridotto e anche se non è il sistema in assoluto

197
ottimale, un’ortografia trasparente a base alfabetica è senz’altro veloce da apprendere,

tanto più che si tratta spesso di comunità linguistiche non troppo numerose, in cui quindi i

vantaggi della componente logografica sarebbero minimi. In questi casi dunque,

nell’insegnamento ci si potrà limitare a un approccio fonografico, illustrando le

corrispondenza grafema-fonema dell’ortografia adottata. Tuttavia, dato che la

motivazione è fondamentale per l’apprendimento334, non basterà che un sistema sia

coerente, esso dovrà anche permettere un accesso immediato alle ortografie delle lingue

di prestigio, di cultura, di importanza sociale ed economica; per questo ci saranno

deviazioni dal principio fonografico per armonizzarsi con determinati usi di altre

ortografie. Il sistema dovrà anche essere di facile riproduzione tecnica, visto le scarse

risorse economiche dei paesi in via di sviluppo (ma è anche spesso il caso di piccole

realtà regionali che magari vogliono rivitalizzare un dialetto dotandolo di un’ortografia

standard).

Per quanto riguarda la riforma di ortografie già esistenti, sembra valere questo

principio: maggiore è la componente logografica di un dato sistema, maggiore sarà

l’attaccamento dell’utente a esso; questo per diverse ragioni: un’ortografia non

trasparente richiede più tempo e più memoria per l’apprendimento; una volta appresa, la

si abbandonerà malvolentieri (è il caso dell’inglese ma anche del cinese); se nelle

ortografie trasparenti le riforme possono avvenire regolarmente (si pensi allo spagnolo),

visto che si tratta di modificare delle relazioni tra un grafema e un fonema, nelle ortografie

opache e nelle logografie il cambiamento si situa ad un livello più alto, quello del lessico:

modificare l’immagine grafica di una parola richiede uno sforzo cognitivo molto maggiore

rispetto all’omissione o alla sostituzione di un singolo grafema o di un segno

paragrafematico. Possiamo aggiungere che, talvolta, la persona comune sembra sapere

molto meglio del linguista che il linguaggio non è suono. L’attaccamento spesso giudicato

334 Bettoni, C., Imparare un’altra lingua, Roma/Bari, Laterza, 2007, pp. 145-147.
198
irrazionale a una data grafia può essere anche interpretato come la prova del fatto che la

scrittura viene considerata dall’uomo comune come linguaggio, non come mero sistema

di trascrizione; il non desiderare che la propria ortografia sia al 100% fonologica non è

per forza una visione miope, ma può essere il sintomo della necessità (e dell’utilità) che

la rappresentazione della lingua tramite lo scritto non si fermi solo al livello della sostanza

fonica ma che si ponga in relazione anche con il piano del contenuto. Un’ortografia può

benissimo venire riformata affinché diventi più semplice da insegnare e da imparare, ma

se a quel punto manca il sostegno popolare, la lingua scritta perde di prestigio e viene

perciò meno la motivazione per l’apprendimento, il gioco sarà valso la candela? Non si

può ragionare in vacuo, bisogna sempre prendere in considerazione la portata sociale e

politica di una riforma. Anche se spesso i problemi intorno ai quali si discute possono

sembrare estremamente triviali, come la scelta di un grafema al posto di un altro, essi

sono di estrema importanza, perché l’ortografia, “[s]ince it is an artefact (…) is more

susceptible to deliberate intervention than other subsystems. Nevertheless spelling habits

are hard to change because, concrete as they are, they constitute the most obvious part

of language to which loyalty can be tied335”. L’ideale a cui un’ortografia dovrà puntare

sarà quello di possedere una coerenza interna e di manifestare adeguatamente la lingua

da rappresentare, sia sul piano fonologico, sia sul piano morfolessicale (la percentuale

maggiore o minore della componente fonografica e morfologografica dipenderà dalla

tradizione precedente, dalle possibilità tecniche, economiche e sociali, dalla struttura

della lingua in questione, ecc.). Nel caso un tentativo di miglioramento del sistema grafico

non venisse sostenuto dalla comunità di parlanti per ragioni di carattere extralinguistico,

si dovrà scendere a compromessi, cercando di diminuire la portata della riforma e

possibilmente mettendo in luce alcuni aspetti linguistici che possono sfuggire alla

maggior parte dei parlanti, per convincerli della bontà delle proposte di cambiamento. Se

335 Coulmas, F., The Writing Systems of the World, Oxford, Blackwell, 1989, p. 260.
199
anche in quel caso la riforma non dovesse avere successo, questo significherebbe che

evidentemente il sistema in uso, con tutti i suoi difetti, fornisce la motivazione necessaria

affinché venga imparato, utilizzato e insegnato. A quel punto sarà compito del sistema

scolastico impostare l’insegnamento ortografico nel modo migliore, puntando sulle unità

intuitivamente più salienti del linguaggio e descrivendo il sistema di scrittura per quello

che è, evitando, per esempio, di trattare un’ortografia come quella dell’inglese come se

fosse trasparente o regolare. Infine sarebbe auspicabile esportare quell’atteggiamento

clemente che si ha tipicamente verso le deviazioni dallo standard nell’orale (fintanto che

rimane possibile l’intelligibilità) anche nello scritto, ambito in cui solitamente si tende ad

essere molto più severi di fronte alla variazione; questo perché normalmente le ortografie

si basano sullo stile di enunciazione lento-accurato, scelta che poi si riflette in fenomeni

di fortizione e di spelling pronunciation. Come la lingua orale conosce diverse varianti sul

piano diafasico che la rendono più o meno adeguata a determinate situazioni

comunicative, così anche all’espressione scritta della lingua dovrebbe essere concesso

un margine di variazione possibile, sia a livello stilistico sia a livello delle unità minime

(grafemi). Questo naturalmente sarà possibile solo con un approccio diverso

all’insegnamento, meno correttivo-punitivo e più aperto verso le produzioni spontanee dei

singoli parlanti (e scriventi).

Rispondiamo quindi ai tre quesiti fondamentali della nostra tesi: l’alfabeto è

veramente il sistema di scrittura migliore? La risposta è no, non lo è in assoluto, ma

questo semplicemente perché non sembra esistere un sistema di scrittura che

corrisponda a tutti i criteri di ottimalità che abbiamo enunciato; ci sono delle variabili

extralinguistiche, di estrema importanza, come il prestigio, l’abitudine, il tempo da

dedicare alla scolarizzazione, ecc. che rendono l’alfabeto il sistema più elastico e diffuso,

anche se da un punto di vista prettamente scientifico sappiamo che il principio alfabetico,

attribuendo la massima importanza al fonema, si colloca ad un livello di astrazione

200
decisamente alto che non lo rende più facilmente apprendibile di altri sistemi. E le

ortografie trasparenti, sono migliori di quelle opache? Da un punto di vista puramente

teorico, non necessariamente, in quanto, se un sistema logografico come quello cinese o

misto come quello giapponese sono appresi da milioni di persone, lo stesso può

accadere (e accade) per le ortografie opache; il problema è che, a causa della loro

origine fonografica, vengono spesso insegnate come se vi fosse ancora una

corrispondenza regolare tra fonemi e grafemi, invece di evidenziare le informazioni

morfologiche e lessicali in esse presenti. E infine, come dovrebbe essere integrata la

grafematica nella linguistica? Detto in altre parole, la grafematica è o non è un livello di

analisi indipendente della lingua? La nostra risposta è sì, nelle società che conoscono e

utilizzano la scrittura, lo è; per i parlanti nativi l’aspetto grafico è un fattore determinante

tanto nel cambiamento linguistico quanto nella regolamentazione della lingua e

l’immagine grafica di una parola può acquisire un’importanza uguale o superiore a quella

fonica.

Teoricamente, la grafematica, all’interno della linguistica, dovrebbe essere posta

all’uscita della fonologia, almeno nei suoi presupposti iniziali; tuttavia, diversi esempi

hanno dimostrato che non è sempre così; il piano dell’espressione scritta, specialmente

nelle logografie e nelle ortografie opache, si pone in relazione con dei livelli più alti

(morfologia, sintassi, lessico), alcune volte mantenendo un contatto con il piano fonico,

altre volte perdendolo completamente.

Una volta appurato questo, lo studio grafematico, posto in collaborazione con la

psicolinguistica e la sociolinguistica (soprattutto quest’ultima) potrà portare dei contributi

notevoli alla maggiore conoscenza dei fenomeni linguistici (nel senso più ampio del

termine). Essendo l’espressione grafica della lingua una delle componenti più esterne e

più soggette a fattori extralinguistici, materiali e sociali, ed essendo sempre stata

associata, nella storia, ad aspetti religiosi, estetici, magici e ideologici dalle diverse

201
culture, una teoria della grafematica generale non potrà non tenere conto degli aspetti

sociali del linguaggio, oltre che dei rapporti tra i grafemi e i diversi piani della lingua e tra

le produzioni scritte e i loro supporti materiali.

Se poi negli anni a venire alla scrittura verrà veramente data l’importanza che si

merita tra le scienze del linguaggio, questo non possiamo saperlo. Per adesso, ci

limitiamo a sperare di aver contribuito, seppur modestamente, a gettare luce su un

problema che, soprattutto in Italia, viene trascurato da troppo tempo.

202
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INDICE

RINGRAZIAMENTI p. 5

INTRODUZIONE p. 7

I. PROBLEMI DI DEFINIZIONE p. 11
1. Scrittura e scritture p. 11
2. Unità minime p. 18
3. Grafematica p. 27

II. LA GRAFEMATICA TRA LE SCIENZE DEL LINGUAGGIO p. 35


1. Lo statuto della grafematica p. 35
2. La scrittura deforma, la scrittura rivela p. 36
3. Scrittura e livelli della lingua p. 48
3.1 Doppia articolazione p. 48
3.2 I grafemi e il piano del contenuto p. 51
3.3 Grafematica e sintassi p. 54
3.3.1 Sintassi grafica interna p. 54
3.3.2 Tra sintassi e prosodia: la punteggiatura p. 56
3.4 Grafemi e fonemi p. 61
4. Aspetti estetici e iconici p. 64
4.1 Submorfemi grafici e grafie di prestigio p. 65
4.2 Distintività grafica p. 71
4.3 Iconicità dei grafemi p. 72

III. ALFABETOCENTRISMO E FONOCENTRISMO p. 77


1. Democraticità e ottimalità dell’alfabeto p. 77
2. Scrittura e percezione del linguaggio p. 83
3. Vantaggi e svantaggi dei diversi sistemi di scrittura p. 90
4. Ortografie opache e ortografie trasparenti p. 98
4.1 L’ortografia dell’inglese p. 98

216
4.2 L’ortografia del francese p. 105
4.3 Alcune ortografie trasparenti p. 112
4.3.1 Il finlandese p. 112
4.3.2 L’italiano p. 115
4.3.3 Altre ortografie trasparenti p. 121
4.4 Ortografie morfofonologiche p. 125
4.5 Opacità vs trasparenza p. 127
5. Effetti dell’ortografia e del suo insegnamento p. 131
5.1 Spelling pronunciation o effetto “Buben” p. 131
5.2 Trasparenza e opacità ortografica in ambito didattico p. 139

IV. PIANIFICAZIONI E RIFORME p. 147


1. Problemi generali p. 147
2. Creazione di nuove ortografie p. 149
3. Riforme ortografiche p. 174

CONCLUSIONE p. 189

BIBLIOGRAFIA p. 203

SITOGRAFIA p. 215

INDICE p. 216

217
218
219
220
221

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