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Umberto Eco- Semiotica e filosofia del linguaggio

Semiotica (Università degli Studi di Bergamo)

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UMBERTO ECO
SEMIOTICA E FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO
Il significante è la parte fisicamente percepibile del segno linguistico: l'insieme
degli elementi fonetici e grafici che vengono associati ad un significato (che
invece è un concetto mentale), che rimanda all'oggetto (il referente, ciò di cui
si parla, un elemento extralinguistico):] tracciando la lettera 'C' su un foglio, si
avrà come segno un semicerchio nero, il cui significante sarà 'c' ed il
cui significato sarà "la terza lettera dell'alfabeto".

Capitolo 1 -Segno e inferenza


I. Morte del segno?
Nella storia del pensiero occidentale la scienza semiotica è sempre
stata collegata come la dottrina dei segni. Si parla di morte del
segno poiché negli ultimi duemila anni si è assistito a una
cancellazione silenziosa di esso, poiché non si voleva considerare la
semiotica come scienza filosofica. Nella seconda metà del
Novecento avviene un’esplosione di interesse analizzando i
problemi di tutti i tipi (fisica, psicologia, biologia) sotto chiave
semiotica.
II. I segni di un’ostinazione
Nel parlare quotidiano e quindi anche nei dizionari, la nozione di
‘segno’ è stata cominciata a essere utilizzata in tantissimi modi
diversi, fin troppi:
i) Inferenze naturali: questo blocco di usi linguistici vede il
segno come un accenno palese da cui trarre deduzioni
riguardo a qualcosa di latente (es: sintomi medici, indizi
criminali ecc..), che fa pensare a un rapporto sineddochico
(segno come una parte di qualcosa che non si mostra per
intero) e metonimico (qualunque traccia visibile lasciata da
un corpo). Questi tipi di segni possono anche essere eventi
naturali, e non per forza qualcosa esso dall’uomo. Quello
che caratterizza questa prima categoria è che si regge sul
meccanismo inferenzale, ovvero il meccanismo di
implicazione filoniana: p>q, ovvero una proposizione
costituita da una connessione valida e rivelatrice del
conseguente, il segno visto come l’evidente antecedente del
conseguente e viceversa.

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ii) Equivalenze arbitrarie: questa seconda categoria vede il


segno come un gesto con l’intenzione di comunicare (fare
un segno di saluto, offrire un segno di pace ecc..). Perché il
segno venga comunicato correttamente serve un codice che
renda capaci sia il mittente che il ricevente di intendere il
segno allo stesso modo: quindi sono riconosciuti come segni
i cartelli stradali, gli emblemi, le insegne ecc.. Di logica sono
riconosciute come segni anche le parole. Il rapporto fra
aliquid (=qualcosa) e ciò per cui sta non si basa
sull’implicazione in questo caso, ma sul rapporto di
equivalenza (p=q: Donna= femme o woman o animale o
femmina o adulto). Dipende inoltre da decisioni arbitrarie
(=convenzionali)
iii) Diagrammi: appartengono a questa categoria i simboli che
rappresentano oggetti e relazioni astratte (formule logiche,
chimiche, fisiche): i diagrammi. Anche se essi di primo
impatto appaiono arbitrari come la seconda categoria, si
differenziano per un motivo: se si prende la parola “donna”
e si cambia il carattere o si pronuncia in modo diverso la
parola è ricooscibile, ma se vengono attuate delle
operazioni a una formula viene modificato il contenuto: se le
operazioni apportate vengono fatte seguendo un codice è
inoltre possibile scoprire nuovi risultati. Questo avviene
perché ci sono delle corrispondenze punto a punto, e anche
se cono arbitrari contengono elementi di motivazione.
Quindi i segni di questa terza categoria obbediscono al
meccanismo dell’implicazione (p>q), anche se sono emessi
da esseri umani e con intenzione di comunicare: al posto di
naturali sono chiamati iconici.
iv) Disegni: chiamati nel linguaggio comune “disegni”,
appartengono a questa categoria “qualunque procedimento
visivo che riproduca oggetti concreti (come il disegno di un
animale) per comunicare l’ggetto corrispondente”. Ciò che
accomuna i disegni ai diagrammi: su entrambi possono
essere fatte operazioni a fine pronostici (es: aggiungere dei
baffi a un disegno per vedere come risulterà).
Ciò che divide i disegni dai diagrammi: i diagrammi
rispondono a delle regole codificatissime mentre il disegno è
molto più spontaneo. Inoltre il diagramma riproduce un
oggetto astratto mentre il disegno uno concreto.

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v) Emblemi: l’uso comune chiama segni pure i disegni che


riproducono qualcosa in forma stilizzata al fine di far
intendere per cosa quel disegno sta a rappresentare (es:
falce con martello per il comunismo) Sono iconici perché
come i diagrammi e disegni ci puoi apportare manipolazioni
che incidono sul contenuto, ma arbitrari poiché conosciti da
tutti. Vengono chiamati simboli ma in maniera diversa dai
diagrammi poiché i diagrammi sono aperti a molti usi
mentre gli emblemi rimandano a una categoria specifica e
definita.
vi) Bersagli: “colpire nel segno, fare un segno dove tagliare”,
sono chiamati segni. In questo caso l’aliquid non è “stare
per” ma piuttosto dive indirizzare un’operazione. Il
meccanismo è di tipo inferenziale, ma più complesso: se ora
P, e se farai z, allora otterrai q.

III. Intensione ed estensione


Due espressioni, secondo Frege, possono riferirsi a uno
stesso oggetto, ma in modo diverso; per es.: le
espressioni «la stella del mattino» e «la stella della sera»
si riferiscono a uno stesso oggetto, poiché a seguito di
una scoperta astronomica è risultato trattarsi della
stessa stella; ne consegue che le due espressioni hanno
lo stesso significato (Bedeutung) o estensione. Tuttavia,
esse si riferiscono allo stesso oggetto in modo diverso; e
questo modo di riferirsi è il loro senso (Sinn) o
intensione. In breve, due espressioni possono avere la
stessa e. (denotazione, significato), ma i. (connotazione,
senso) diversa.
Ci sono troppe cose chiamate segno e diverse tra di loro, ed è
complicato capire se il segno sia di artificio intensionale o
estensionale. In un labirinto in cui tutto può essere segno l’unica
cosa che sembra essere fuori discussione è l’attività di

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significazione, e l’essere umano, quando si trova davanti a un


evento o entità a cui gli esseri umani non sono in grado di dare una
significazione, creano altri eventi fisici, o classi di eventi al fine di
poter dare una significazione a tutto, per sopperire all’assenza dei
segni.

IV. Le soluzioni elusive

Alcuni intellettuali ricongiungono il segno solo alle entità


linguistiche intenzionali al fine di comunicare organizzate in un
sistema con precise categorie, e tutti gli altri fenomeni che non
sono riconducibili ad alcuna categoria della linguistica non sono
considerati segni: sono chiamati piuttosto sintomi, o indizi, facenti
parte di un’altra scienza.
Altri pensano la stessa cosa ma pensano che quest’altra scienza sia
più generale della linguistica e che quindi comprende anche i segni.
Malmberg chiama “simbolo” ogni elemento che rappresenta
qualcos’altro e “segno” unità doppiamente articolate che devono la
loro esistenza all’atto di comunicazione intenzionale= tutti i segni
sono simboli ma non tutti i simboli segni.
La distinzione delle aree viene affrontata anche in maniera più
radicale. Harman dice che il termine significare è ambiguo “Il fumo
significa fuoco in maniera diversa di come combustione significa
fuoco. Inoltre pensa che la teoria di Peirce dei segni non abbia
nessun principio comune tra i tre soggetti che rappresenta:
significato inteso, teoria della prova e teoria della rappresentazione
pittorica”.
Eco contesta questa sua affermazione in tre punti:
- chiedendosi perché allora la gente chiama da sempre “segni”
fenomeni che dovrebbero esser suddivisi in tre gruppi diversi.
- Dicendo che la sua affermazione va contro il consenso universale
della filosofia.
- Mostrando con l’esempio dell’uomo che porta una spilla con una
falce e un martello, che l’esempio è spiegabile con tutte e tre le
teorie di Peirce: significato inteso (se ha la spilla è comunista),
rappresentazione pittorica (la spilla rappresenta la fusione tra
contadini e operai) o prova inferenziale (se porta la spilla, allora è
comunista). Naturalmente lo stesso evento può essere soggetto di

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teorie diversissime: teorie chimiche organiche riguardo al materiale


della spilla, o fisiche riguardo alla gravità di esse. Ma in questo caso
è contemporaneamente oggetto delle tre teorie del significato
poiché esso non sta per sé stesso non sta per la sua composizione
molecolare, bensì sta per quello che sta al di fuori di essa).

V. Le decostruzioni del segno linguistico


In seguito vengono proposte delle critiche riguardo al segno come
segno linguistico:
i) Segno vs. figura: Hjelmslev individua le figure, ovvero i
fonemi, scomporre una parola in parti ancora più piccole e
chiamarle figure (es: n/m/s); con Hjelmslev si apre la
possibilità di individuare figure a livello di contenuto. Egli
infatti afferma che le lingue non possono essere viste come
puri sistemi di segni, bensì come sistemi di figure che
possono costruire dei segni. Hjelmslev sa che non c’è
corrispondenza punto a punto tra figure dell’espressione e
figure del contenuto, poiché i fonemi non veicolano porzioni
minuscole di significato (anche se nella parola tor-o,
cambiando la o con la i cambia il significato di singolarità)
Però le figure del contenuto sono correlate a una data
espressione per via della funzione segnica, ma che con una
diversa funzione segnica sarebbero correlabili ad altri
sintagmi espressivi (sintagma= soggetto o predicato o
complemento ecc…). I segni sono quindi una punta
emergente in un reticolo di aggregazioni e disgregazioni che
possono essere continuamente combinati diversamente. La
proposta di Hjelmslev però non comprende quei tipi di segni
che non sono analizzabili in figure (es: una nuvola che
annuncia un temporale), quindi o non sono segni o sono
segni non analizzabili in figure.
ii) Segno vs. enunciato: Buyssens, a differenza di Hjelmslev,
critica la troppa poca vastità del segno: l’unità semiotica
non è il segno ma piuttosto qualcosa che corrisponde
all’enunciato, che lui chiama “sema”. Egli dice, facendo un
esempio sui cartelli stradali, che un segno non ha
significazione, poiché una freccia messa lì senza esprimere
indicazioni o senza nessun colore non significa nulla: per

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significare qualcosa dovrà essere contestualizzata.


Opposizione tra Hjelmslev e Buyssens: il primo è
disinteressato al segno perché è interessato alla lingua
come sistema astratto; il secondo perché è interessato alla
comunicazione come atto concreto. Il sema di Buyssens è
quindi quello che viene chiamato atto linguistico compiuto.
Eco critica la affermazione di Buyssens riguardante il segno
come privo di significato: se fosse così, perché la parola
tavola non verrebbe messa in frasi come “la tavola mangia il
pesce”? Si dovrà dire allora che la parola tavola va rinviata a
istruzioni contestuali che ne regolino l’inseribilità in porzioni
linguistiche maggiori del segno. Il segno quindi deve
continuare a essere identificato come mediana tra sistemi di
figure e la serie indefinita di espressioni linguistiche.
iii) Il segno come differenza: Gli elementi del significante e del
significato si costituiscono in un sistema di differenze (es:
Holz= legno è tutto se non Baum e Wald). La funzione
segnica vive sulla dialettica di presenza e assenza, e in
questo modo tutto l’insieme dei segni si può dividere in un
sistema di fratture, dove identificare la natura del segno
annulla quest’ultimo. Es: Dio e il nulla, codice binario etc.
Per concepire un sistema di opposizioni dove qualcosa viene
identificato come assente, è necessario che qualcosa sia
postulato come presente= senza la presenza di uno non
emerge la assenza dell’altro. In poche parole la fonologia
costruisce un sistema di opposizioni per spiegare il
funzionamento di una serie di presenze fonetiche (esempio:
per riconoscere l’unità emic occorre formularla in qualche
modo come etic: emic-etic).
iv) Il predominio del significante: se del segno si conoscesse
sempre la faccia significante, continuando a sostituire per
creare altri significati, la catena semiotica sarebbe una
catena di significanti: di conseguenza l’universo dei segni si
dissolverebbe con il semplice atto dell’enunciazione. Questa
critica si regge sull’equivoco che non si possono nominare i
significati se non per mezzo dei significanti. Inoltre individua
la natura provvisoria e instabile della funzione segnica, dove
lo stesso contenuto può fare parola anche in un’altra lingua,
mettendo in gioco figure di contenuto oltre che di
espressione.

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v) Segno vs testo: è certo che la catena significante produce


dei testi che generano e possono generare infinite letture e
interpretazioni: i testi sono il luogo dove il senso si produce
e riproduce. Questa critica riprende l’obiezione di Buyssens
amplificandola. Un testo è un apparato che mette in
questione i sistemi di significazione preesistenti rinnovandoli
o distruggendoli. La macchinazione testuale svuota e
arricchisce di figure di contenuto termini che il vocabolario
letterale credeva univoci e ben definiti (per esempio: /leone/
e /re della foresta/: con re della foresta si aggiunge a /leone/
la figura di umanità e a /re/ una figura di animalità). Se non
esistessero segni (espressione e contenuto) prima dei testi,
ogni metafora direbbe solo quello che esprime
letteralmente. Per far si che il testo distrugga, arricchisca o
ricostruisca funzioni segniche, è necessario che nella
funzione segnica ci sia qualcosa che già appare come
gruppo di istruzioni orientato alla costruibilità di segni
diversi
vi) Il segno come identità: secondo questa critica il segno
sarebbe fondato su categorie di somiglianza o identità,
rendendolo corrente con una ideologia del soggetto. Il
soggetto trasferisce le proprie rappresentazioni ad altri
soggetti nel processo di comunicazione. Per fare queste
affermazioni bisogna aver identificato il segno con il segno
linguistico e il segno linguistico con il modello di equivalenza
(p=q). Kristeva definisce il segno come somiglianza, che
riconduce istanze differenziate (oggetto-soggetto/ soggetto-
interlocutore) a un insieme (enunciato-messaggio). Il segno
crea quindi una identificazione di differenze. Peirce pensa
invece che il segno non sia somiglianza, bensì qualcosa
attraverso la conoscenza del quale noi conosciamo qualcosa
in più, istruzione per l’interpretazione.

VI. Segni vs parole


Spesso il segno appare sinonimo di “sintomo, prova, indizio”.
Ippocrate dice che il sintomo è equivoco se non è valutato
contestualmente (se p allora q a patto che concorrano anche y e z):
esiste un codice non univoco, il sintomo fornisce istruzioni per la
sua valutazione a seconda dei contesti. Il termine “segno” non

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viene abbinato al termine “parola”: le parole erano “nome”.


Parmenide, evidenziando l’illusorietà delle rappresentazioni,
afferma che di conseguenza i nomi, etichette per denominare le
rappresentazioni, sono altrettanto fallaci, e vengono poste alle cose
che si pensa di conoscere. Il nome instaura una semi verità con le
cose, occultando la verità stessa. Invece Parmenide, ogni volta che
usa la parola segno, parla di “prove evidenti”: quindi le parole non
sono segni.
Con Platone e Aristotele si pensa già a una differenza tra
significante e significato, e tra significazione (dire che cosa una
cosa è: funzione svolta anche da un solo termine) e riferimento
( dire che una cosa è: funzione svolta solo dagli enunciati).
Aristotele dice che le parole sono simboli delle affezioni dell’anima
(= emozioni, fenomeni passivi della coscienza), e che le lettere sono
simboli delle parole. Dice che le parole e le lettere sono poste per
convenzione, e che quindi diventano simboli, e dice che sono molto
diversi dai versi emessi dalle bestie, che classifica come segni
naturali. La parola simbolo è molto meno forte della parola segno,
poiché il simbolo è come marca da riconoscimento. Per precisare la
differenza tra parole e affezioni dell’anima Aristotele afferma che
parole e lettere sono sicuramente segni delle affezioni dell’anima, e
questo sembra contraddire tutto il discorso precedente. Analizzando
però questa sua affermazione, egli afferma che parole e lettere
sono prove e indizi dell’esistenza delle affezioni dell’anima (ovvero
sono la prova che qualcuno nell’emettere le parole abbia qualcosa
da dire), ma che questo essere indizio delle affezioni non significa
che le parole abbiano lo stesso statuto semiotico delle affezioni. Per
rafforzare l’ipotesi, Aristotele usa la parola /segno/ anche in un altro
contesto, ovvero quando deve stabilire che il verbo, al di fuori di un
enunciato, non stabilisce l’esistenza di qualcosa: neppure il verbo
/essere/ è segno dell’esistenza di qualcosa se preso da solo. Questo
perché il verbo è il significante, l’espressione, la presenza del verbo
è la prova, indizio, sintomo che in quell’enunciato si stia dicendo
qualcosa. Quindi quando Aristotele dice che nemmeno il verbo
essere è segno dell’esistenza di qualcosa, vuole dire che per far si
che il verbo abbia valore segnico è necessario che sia congiunto con
gli altri termini dell’enunciato. Queste affermazioni spiegano in che
senso Aristotele non riteneva affatto dire che parola e segno sono la
stessa cosa.
Egli parla successivamente del segno, dicendo che gli entimemi (=

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sillogismi retorici) si traggono dai verosimili e dai segni. Egli divide il


segno in due categorie:
- Segno necessario: /se ha la febbre, allora è malato/. Il segno
necessario è un’affermazione universale, ma non instaura un
rapporto di equivalenza (non tutti i malati hanno la febbre).
- Segno debole: /Ci sono alcuni che hanno la respirazione alterata e
costoro hanno la febbre/. La conclusione con questo tipo di segno è
solo probabile. La forma logica non è l’implicazione (allora è) ma la
congiunzione. Il segno debole è tale proprio perché il segno
necessario non instaura un’equivalenza: si ottiene il segno debole
convertendo l’affermazione universale ( ci sono alcuni che sono
malati e hanno la febbre). Sono efficaci nelle prove retoriche e negli
esempi.
VII. Gli stoici
Per quanto riguarda il linguaggio verbale, essi distinguono
perfettamente “espressione”, “contenuto” e “referente”.
Per quanto riguarda l’espressione essi distinguono l’emissione della
voce, l’elemento linguistico articolato e la parola vera e propria, che
sussiste solo se correlata e correlabile a un contenuto. Gli stoici
individuano la natura provvisoria e instabile della funzione segnica
(lo stesso contenuto può fare parola in un’altra lingua): sono i primi
a superare l’etnocentrismo linguistico.
Quanto al contenuto, esso non viene più considerato come
un’immagine mentale/idea, bensì lo considerano un incorporale. Un
incorporale è il vuoto, il luogo, il tempo, le azioni, gli eventi. Tra gli
incorporali gli stoici pongono anche il dictum, il dicibile, che è una
categoria semiotica, una proposizione: “Dione cammina”: nel
momento in cui viene espresso è dictum. Il primo problema che si
pone è: se la proposizione “Dione cammina” è incorporale, lo sono
anche “Dione” e “cammina”? Qui gli stoici parlano di dictum
completi e incompleti: quelli completi sono e preposizioni, quelli
incompleti sono le parti. Il soggetto è il dictum per eccellenza, il
caso, poiché era la parte a cui si da più attenzione nelle
proposizioni. Il soggetto è quindi un incorporale.
Ricapitolando, i contenuti sono elementi incorporali espressi dalle
espressioni linguistiche che si legano a produrre enunciati che
esprimono proposizioni. Il dictum completo è quindi
rappresentazione del pensiero e ciò che può essere veicolato dal
discorso.

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Gli stoici quando parlano di segno sembrano riferirsi subito a


qualcosa di immediatamente evidente che porta a concludere circa
l’esistenza di qualcosa non immediatamente evidente; può essere
un segno commemorativo (nasce da un’associazione confermata
precedentemente tra due eventi: sulla base dell’esperienza so che
dove c’è fumo c’è fuoco) oppure un segno indicativo ( rincia a
qualcosa che non è mai stato evidente prima d’ora). In tutti i casi i
segni sembrano sempre degli eventi fisici (es: presenza del latte
che rivela il parto, la nuvola nera che rivela pioggia, la luce che
rivela il giorno…): gli stoici (Sesto) riconoscono che il segno da cui si
trae il senso non è l’evento fisico ma la proposizione in cui è
espresso. Il segno è quindi la proposizione antecedente vera in un
condizionale vero ed è tale da servire a rivelare il conseguente. Di
conseguenza il modello stoico del segno ha la forma
dell’implicazione (p>q) dove le variabili non sono realtà fisiche o
eventi, ma le proposizioni in cui gli eventi sono espressi. Per questo
gli stoici affermano che il segno è un dictum, e quindi un
incorporale. È quindi questo il modo in cui la dottrina del linguaggio
e quella dei segni si saldano nella semiotica stoica. Con questo gli
stoici non dicono che le parole sono segni, bensì che le parole
servono a veicolare tipi di segni.

VIII. Unificazione delle teorie e predominazione della


linguistica
Agostino nel suo elaborato “De Magistro”, tempo dopo riconoscerà
una classificazione dei segni dove i segni linguistici sono una
specie, come le insegne o i gesti.
In questo modo però rimane irrisolto il problema della differenza tra
il rapporto tra espressione linguistica e contenuto ( si suppone sia
retto dal rapporto di equivalenza) e quello tra proposizione-segno e
conseguente significato (implicazione: p>q).
Dal momento in cui Agostino introduce la lingua verbale fra i segni
essa comincia a trovarsi a disagio data la sua forma fortemente
articolata e troppo scientificamente analizzabile per una teoria dei
segni volta a spiegare i rapporti fra eventi naturali generici. La
lingua si propone anche come il sistema semiotico che può
modellizzare meglio tutti gli altri, il modello semiotico per
eccellenza: quando si arriva a questa conclusione il sistema
linguistico è ormai cristallizzato nella sua forma più piatta (quella

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dei dizionari), sistema linguistico come definizione essenziale. Gli


stoici ritenevano che ogni categoria sintattica avesse la sua parte
semantica e che se i dictum completi nascevano da quelli
incompleti dovevano avere contenuto anche le congiunzioni,
preposizioni, pronomi.

IX. Il metodo istruzionale


Nel “De Magistro” Agostino analizza con Adeodano il verso di Virgilio
“si nihil ex tanta superis placet urbi relinqui” definendo queste otto
parole come otto segni: nihil significa niente, che non sembra
essere né un oggetto né uno stato del mondo. Agostino quindi
definisce “nihil” come un’affezione dell’anima, ovvero lo stato della
mente che riconosce quel qualcosa come assenza. Di conseguenza
Agostino rifiuta “ex” come sinonimo di “de”, ma prendendo
quest’ultimo come una separazione. Tutto ciò per dire che il
significato di un termine sincategorematico (=che assume
significato solo all’interno di un contesto) è un blocco di istruzioni
per le sue possibili inserzioni contestuali e per i diversi esiti in
contesti diversi. Questo è possibile anche con i termini
categorematici (=significazione che ha un significato da sola): con
la parola /corre/ io non mi limito a individuare una porzione di
contenuto in base alle figure che presenta questa significazione
(azione+ fisica+ con le gambe), ma non appena percepisco /corre/
individuo un blocco di istruzioni contestuali dove poterlo collocare:
corre voce che, corre veloce quel campione ecc… dove /corre/ ha
una diversa valenza semantica per ogni esempio. Questo vuol dire
che si ispeziona lo spazio del contenuto per prevedere quale degli
esiti sarà più consono. Il tipo semantico è la descrizione dei contesti
in cui è ragionevole che il termine occorra. Quando un termine
linguistico è di primo livello, ovvero si basa sulla pura equivalenza,
è solo un’implicazione “addormentata”, e il fatto che un dizionario
registri diversi blocchi istruzionali sotto un termine non vuol dire
che non ce ne siano altri. Anche per il riconoscimento di eventi
naturali che poi generano una proposizione-segno, la percezione è
sempre interrogativa e condizionale: se ci sono quei determinati
dati percettivi, allora si può dare un’appropriata interpretazione
percettiva. Esempio di termine di primo livello: nel caso delle semie
sostitutive, ovvero semiotiche in cui il piano del contenuto è
l’espressione di un’altra semiotica (= alfabeto morse: .__ = a), dove

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c’è totale bicondizionalità, se un lettore competente del Morse salta


direttamente alla conclusione che quel segno significa la lettera “a”
egli potrà avanzare previsioni sulla successiva sequenza semiotica,
e quindi la previsione viene autorizzata dal sintagma precedente.
Dunque non c’è differenza di struttura semiotica tra primo e
secondo livello, ma c’è sempre implicazione.

X. Codici forti e codici deboli


L’implicazione filoniana, ovvero quella stoica, non si basava sulla
certezza del legame tra antecedente e conseguente: ad esempio
“se c’è giorno c’è luce” è un’equivalenza bicondizionnale; “se è
giorno allora Dione cammina” è un’implicazione senza validità
epistemologica (= certa). Sesto interpreta alcuni segni come
convenzionali supponendo che si riconoscano in base a un accordo
precedente, e in questo caso il valore epistemologico non
dipenderebbe più da una legge naturale, bensì da una legge
sociale.
Sesto ammette la natura inferenziale dei segni convenzionali, e
infine non riconosce statuto epistemologico ai segni indicativi (es:
non si può affermare che se un uomo cade in povertà è perché ha
dissipato tutte le sue ricchezze). In sintesi, il conseguente è effetto
di un’ipotesi, quindi Sesto ne conclude che i segni indicativi non
esistono, anche se buona parte delle scoperte scientifiche sono
state fatte in base a inferenze ipotetiche di questo genere
(chiamate abduzioni da Peirce).
Aristotele poneva distinzioni di forza epistemologica fra segni
necessari e segni deboli.
Quintiliano, seguendo le classificazioni aristoteliche, avverte che i
segni necessari possono vertere sul passato (se è incinta vuol dire
che è stata con un uomo), sul presente (se c’è vento sul mare sarà
mosso) e sul futuro (se è ferito al cuore morirà); in realtà questi
presunti rapporti temporali non sono nient’altro che dei rapporti
causa effetto, che possono essere di tipo diagnostico (risalire
dall’effetto alla causa) o prognostico (risalire dalla causa ai possibili
effetti). Se le cause non rinviano necessariamente ai suoi effetti
possibili (segno prognostico debole) così nemmeno gli effetti
rinviano necessariamente alle cause possibili (segno diagnostico
debole). È inoltre possibile distinguere tra cause necessarie (es:
l’ossigeno è causa necessaria della combustione) e cause sufficienti

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(lo sfregamento di un fiammifero è solo una possibile causa della


combustione). Il segno debole di Aristotele è segno diagnostico da
effetto a causa sufficiente, anche se ad esaminarlo il segno debole
non manca di necessità, bensì non rinvia a una causa ma a una
classe di cause.
Il segno prognostico da causa a effetto è anch’esso aperto a
inferenze contestuali: un indizio può essere diverso se un’arma
viene trovata in casa di un assassino o un poliziotto.
Quindi tutti i segni prognostici sono deboli per la natura
epistemologica dell’implicazione, mentre quelli diagnostici sono
deboli per la generalità dell’implicazione (=una classe troppo vasta
di conseguenti).
A livello retorico i legami si basano su convenzioni e opinioni
diffuse: Quintiliano cita come verosimile “se Atalanta va a
passeggio con i ragazzi nel bosco probabilmente non è più vergine”:
in una data comunità questa verosimilitudine può essere
convincente quanto un segno necessario, dipende dai codici che
quella comunità da per “buoni”. Questo divario fra certezza
scientifica e certezza sociale costituisce la differenza tra
leggi/ipotesi scientifiche e codici semiotici: sul piano semiotico le
condizioni di necessità di un segno sono fissate socialmente, sia per
codici deboli che per codici forti (un evento può essere un segno
sicuro anche se scientificamente non lo è).

XI. Abduzione e invenzione di codice


L’abduzione, o ipotesi, è ampiamente descritta da Peirce. Se viene
comparata alla deduzione e all’induzione essa da luogo a tre diversi
schemi, dove le caselle con tratto continuo evidenziano gli stati già
verificati mentre
quelle a tratto
tratteggiato sono gli
stadi argomentativi
prodotti dal
ragionamento.
Il processo deduttivo
avviene davanti a una
condizione come
possono essere le equivalenze delle semie sostitutive, quindi con un
rapporto di equivalenza (p=q); In caso non si conoscesse il

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significato di un segno e si dovesse ricostruirlo attraverso


esperienze ripetute, il processo sarebbe di tipo induttivo (es: se un
indigeno chiama x un dato oggetto ogni volta, per induzione
quell’oggetto in quella lingua si chiamerà x). Nel caso in cui
l’induzione sia ostensiva (ovvero diretta a mostrare/dimostrare
qualcosa), Agostino la considera molto fallace: Agostino chiede a
Adeodato come dimostrerebbe la parola camminare e lui dice
“camminando”, e Agostino gli chiede “e se tu stessi già
camminando?” e lui dice “camminerei più veloce per enfatizzare il
gesto”, solo che Agostino mostra che in quel caso potrebbe esserci
un fraintendimento tra camminare e affrettarsi. In caso si
ipotizzasse che il comportamento di Adeodato costituisca
l’interpretazione del termine camminare, e quindi si fosse in grado
di supporre che il risultato sia il caso della regola ipotizzata, si
parlerebbe di abduzione. L’abduzione è quindi il disegno/tentativo
azzardato, di un sistema di regole di significazione alla luce delle
quali un segno acquisterà il proprio significato. Es: Keplero rileva
che l’orbita di Marte passa per i punti x e y. Questi due punti
potrebbero appartenere, tra tutte le figure geometriche, a
un’ellisse. Quindi se l’orbita di Marte fosse ellittica allora il suo
passaggio per x e y (risultato) sarebbe un caso di quella regola. Le
abduzioni devono sempre essere verificate. Appena la regola viene
codificata, ogni successivo evento dello stesso tipo diventa un
segno sempre più necessario. Quel “necessario” appartiene alla
necessità semiotica, poiché come era segno necessario che il
sorgere del sole per gli antichi dipendesse dal movimento solare,
per i moderni è segno necessario che dipenda dal movimento
terrestre. Dipende dal segno come è visto socialmente.

XII. I modi di produzione segnica


Significante=espressione
Significato=contenuto
Viene proposta una
tipologia dei modi di
produzione segnica che
si basa particolarmente
sulla correlazione fra
espressione e contenuto:

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a questo fine viene introdotta la differenza tra ratio facilis e difficilis.


Ratio facilis: una occorrenza è facilmente riconducibile al tipo
espressivo (linguaggio verbale), è riconosciuta come caso del tipo
(es.: produzione di una parola o di un segnale stradale). Il contenuto
“cavallo” viene espresso da diversi tipi espressivi prestabiliti (a
seconda delle lingue) e convenzionalmente collegati al contenuto.
Ratio difficilis: per una data occorrenza manca il tipo espressivo
preformato; la natura dell’espressione è motivata dalla natura del
contenuto: indici gestuali, immagini, tracce. La ratio difficilis regola
operazioni di istituzione di codice; l’invenzione è il caso esemplare
di ratio difficilis. Si presenta quando, per carenza di un tipo
preformato, lo si modella sul tipo astratto del contenuto.
La tavola concernente le tipologie di produzione segnica non
classifica una tipologia di segni, bensì una tipologia di modi di
produrre i segni. Il segno solitamente è il risultato di più modi
produttivi diversi.
i) Tracce: retta da ratio difficilis. Traccia o impronta può
significare: se c’è un dato segno su una superficie
imprimibile, allora vi sarà una data categoria di agenti
impressori; se l’impronta è orientata verso una certa
direzione allora si sa dove sarà andato l’impressore; se
viene riconosciuto il tipo di impronta verrà svelata pure la
classe di impressori.
ii) Sintomi: ratio facilis. Essi rinviano a una causa a cui sono
stati connessi sulla base di un’esperienza più o meno
codificata. Spesso il sintomo rinvia a una classe molto vasta
di agenti, è raro ci sia un’equivalenza del tipo: se respira,
allora vive.
iii) Indizi: ratio facilis. Legano la presenza o l’assenza di un
oggetto a comportamenti possibili del loro probabile
possessore. Di solito rinviano a classi di possessori e per
essere usati significativamente si devono adottare
abduzioni. (es Sherlock Holmes che capisce che Watson è
andato alle poste perché ha del terriccio rosso sotto la
scarpa e di fronte alle poste c’è del terriccio rosso: è indizio
solo che ha del terriccio rosso sotto le scarpe, non che sia
quello di quello specifico luogo) L’indizio diviene rivelativo
solo in base a un’abduzione più vasta, occorre formulare già
ipotesi.

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iv) Esempi, campioni, campioni fittizi: la ostensione (o


dimostrazione) di un oggetto può avere diverse funzioni:
può rinviare a una classe di oggetti di cui fa parte, ad altri
membri di quella classe, rappresentare un comando… se
indico un pacchetto di sigarette posso voler esprimere il
concetto di sigaretta, di fumo, di mercanzia, di ordine di
andare a comprare le sigarette ecc.. Le ostensioni sono
segni deboli che devono essere rinforzati da altre
espressioni con funzione metasemiotica (=che esprimono lo
stesso contenuto). Per i campioni o campioni fittizi valgono
le retoriche di tipo sineddochico o metonimico. Es: l’arte del
mimo.
v) Vettori: ratio difficilis. Possono essere frecce, dita puntate,
intonazioni ascendenti o discendenti ecc.. Diventano
espressivi solo con un oggetto o stato di cose, poiché i
vettori esprimono un blocco di istruzioni per la propria
inserzione contestuale. Data una freccia in vendita in un
negozio, assumerà un certo valore significativo quando
verrà posta per indicare una direzione, o vietarla, o
consigliarla. A seconda dei contesti i vettori possono
assumere, di solito per convenzione, maggiore o minore
necessità.
vi) Stilizzazioni: ratio facilis. Sono gli emblemi, le insegne dove
delle espressioni di tipo riconoscibile costituiscono dei testi
enigmatici. Possono essere anche stilizzazioni rette da codici
forti come gli stemmi o le figure di carte da gioco; altre rette
da codici più deboli aperte a contenuti molteplici, ovvero i
simboli.
vii) Unità combinatorie: ratio facilis. Comprende sia le parole del
linguaggio verbale sia i gesti degli alfabeti cinesici ecc… sia
l’espressione che il contenuto possono essere oggetto di
diverse sintassi combinatorie.
viii) Unità pseudocombinatorie: elementi di un sistema
espressivo non correlati a un contenuto, non in base a un
codice fisso. Sono sistemi simbolici che sono interpretabili
ma non sono biplanari (il possibile contenuto è conforme
all’espressione): in caso vi fosse significato nella mossa
degli scacchi, esso consisterebbe nella serie di mosse
conseguenti alla mossa antecedente. È proprio dei sistemi

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monoplanari far apparire l’antecedente come segno


prognostico del conseguente.
ix) Stimoli programmati: stimoli capaci di suscitare una risposta
non mediata, che risultano significativi dell’effetto previsto
per la persona che li emette ma non per chi li riceve.
Costituiscono un caso di segno debole che dalla causa
attutata permettono di causare un effetto possibile.
x) Invenzioni: casi estremi di ratio difficilis. Un’espressione
viene inventata nel momento in cui viene definito per la
prima volta un contenuto (correlazione non fissata da
nessun codice). In questi casi tramite abduzione l’interprete
cerca di riconoscere le regole di codifica inventate
dall’emittente. Es: invenzioni pittoriche, linguistiche. A volte
regole preesistenti aiutano a capire le nuove codifiche, a
volte l’invenzione rimane a lungo incompresa.
In conclusione: esiste un continuum semiosico che va dalla codifica
più forte a quella più aperta e indeterminata.

XIII. Il criterio di interpretanza


La condizione di un segno non è solo quella della sostituzione, ma
anche quella dell’interpretazione. Interpretazione (o criterio di
interpretanza) significa, come diceva Peirce, che ogni interpretante
(segno= espressione o sequenza di espressioni che traduce
un’espressione precedente) ritraduce l’oggetto immediato
allargandone la comprensione. Il criterio di interpretanza fa partire
da un segno per ripercorrere tutto il circolo della semiosi. Es: dico
/padre/ e ho già definito due argomenti: se padre, allora c’è anche
un figlio. L’interpretazione fa andare oltre il segno originario,
mostrando la necessità di una futura occorrenza contestuale di un
altro segno. Di conseguenza impostare un segno solo su un
meccanismo di uguaglianza o similitudine è errato, poiché il segno è
sempre ciò che apre a qualcos’altro.
Interpretare un segno = definire la porzione di contenuto veicolata
dal segno, definire le altre porzioni di contenuto derivate dalla
segmentazione globale del contenuto, definire una porzione
attraverso l’uso di altre porzioni. In questo modo è possibile mettere
in crisi il contenuto definito inizialmente e anche il criterio globale di
segmentazione. Hjelmslev dice che ci sia un continuum

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dell’espressione e un continuum del contenuto. Il continuum di cui i


segni parlano è l’oggetto Dinamico, l’oggetto che motiva il segno
ma non è immediatamente percettibile, poiché ciò che disegna
l’espressione è l’oggetto Immediato, ovvero l’oggetto che il segno
rappresenta, il contenuto. Attraverso la formulazione di oggetti
Immediati e la loro continua ridefinizione per segni successivi, si
cambia di continuo la forma che viene riconosciuta come oggetto
Dinamico.

XIV. Segno e soggetto


Se il segno come uguaglianza e identità è coerente con una nozione
ideologica di soggetto, il segno come momento del processo di
semiosi è lo strumento attraverso il quale lo stesso soggetto si
costruisce e decostruisce di continuo. Il soggetto è ciò che i processi
continui di risegmentazione del contenuto lo fanno essere. Quindi il
soggetto è veicolato dalla dinamica delle funzioni segniche. La
sciena dei segni è la scienza di come si costruisce un soggetto. La
parola o segno che l’uomo usa è l’uomo stesso, poiché se si afferma
che ogni pensiero è un segno, ciò significa che anche l’uomo è un
segno.

Capitolo 2 -Dizionario versus Enciclopedia


Altra questione centrale nella ricerca di Eco è il problema del
significato. In sostanza Eco ha proposto un modello semantico a
istruzioni in formato di enciclopedia. La metafora dell'enciclopedia
serve a Eco per evidenziare la differente struttura interna del
modello di sapere da lui utilizzata che si definisce come una rete di
unità culturali tra loro interconnesse. Il modello a enciclopedia viene
contrapposto a più rigidi modelli semantici a dizionario in cui ogni
significato è semplicemente definito da una serie di unità minime
tra loro interdefinite e autosufficienti (semantica strutturale).
La nozione di enciclopedia è quindi un postulato semiotico o ipotesi
regolativa che non può essere descritta nella sua totalità, ma che
può rendere ragione dei meccanismi di costruzione e negoziazione
del senso nei diversi contesti comunicativi.
I. I significati del significato

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Sono diversi i termini utilizzati in contesti semiotici per descrivere


l’equivalenza di /significato/. Di solito questo termine viene usato in
contesti semiotici ma lo si ritrova anche in molteplici ambiti della
filosofia (come nello studio dell’essere).
i) Il Rinviato: solitamente viene considerato il segno come
aliquid che stat pro aliquo. Quell’aliquid può essere
un’espressione concreta o una classe di espressioni
concrete. Il qualcosa a cui l’aliquid rinvia viene chiamato
provvisoriamente come “Rinviato”. Es: /la regina è femmina/
può essere interpretata dal destinatario in diversi modi,
dove il Rinviato è sempre differente (può essere un
individuo, uno stato di cose, una credenza ecc.) Il Rinviato è
sempre da un’altra parte nel momento in cui l’espressione
viene prodotta.
ii) Riferimento e significato: L’espressione viene fatta circa uno
stato di cose in un dato mondo: es: la regina è femmina può
riferirsi alla regina di Inghilterra come alla regina di Alice nel
paese delle meraviglie. In entrambi i casi si attua un
riferimento (a un individuo e alle proprietà di questo
individuo) a ciò che è il caso in un mondo possibile. Il
riferimento è un tipo di uso che si può fare delle espressioni.
Per usare un’espressione al fine di riferirsi a uno stato nel
mondo si devono assegnare, ad alcune espressioni, degli
individui corrispondenti e attuali in quel mondo. Es: /ad
Alice non piace Toro Seduto/: nel ondo delle Meraviglie Toro
Seduto è un’espressione senza referente, ma non vuol dire
che sia senza Rinviato: il destinatario capisce che Toro
Seduto, in ogni caso, è qualcosa che ad Alice non piace, che
può essere un frutto, o un vestito, o una persona. Si
definisce significato ciò che potrebbe individuare un Rinviato
(individuo, relazione, concetto) in almeno un mondo
possibile. Il non essere riconoscibile come Rinviato in un
mondo possibile rende difficile interpretarne il significato,
perciò è definibile significato di un’espressione anche tutto
ciò che può essere interpretato. Pertanto l’equazione che
collega Rinviato e il suo significato non è un meccanismo di
equivalenza, bensì di inferenza (se p, e se l’espressione
viene considerata nel contesto x comprendendo anche un
insieme di mondi di riferimento, allora q) Quando un aliquid
può essere interpretato ma le sue interpretazioni sono

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vaghe e imprecise e in contraddizione, si ha un tipo di segno


dal significato vago e aperto chiamato simbolo. Quando si
parla di simboli si parla di qualcosa che vale per altri mondi.
iii) Intensione ed estensione: triangolo semiotico, dove y=
espressione (significante), z è una cosa o un stato di cose e
x è il significato. La definizione di
queste identità cambiava a seconda
del contesto filosofico, ma la
differenza tra significato e riferimento
(cosa o stato di cose) è sempre stata
posta: le espressioni semplici non
potevano essere usate come
riferimenti: potevano essere usate come riferimenti solo le
espressioni composte sotto la forma di giudizi, quindi
qualcosa di vero o falso. (es: /c’è un gatto sul tetto/. Solo nel
linguaggio infantile le espressioni semplici possono essere
usate come riferimento, solo se accompagnate da altri
sistemi semiotici come il paralinguistico, dove dici /gatto/
ma indicando il tetto con l’indice). Un riferimento può essere
attuato solo da espressioni complesse (enunciati) ma che
devono essere composte da espressioni semplici (termini).
Quindi in un dato linguaggio, per ipotizzare un significato si
associa a una data classe di espressioni y alcune proprietà
che delimitano il significato di qualcosa (se io dico /c’è un y
sul tetto/ il destinatario capisce che nel mondo di
riferimento c’è qualcosa sul tetto che possiede le proprietà
indicate nell’espressione).
iv) L’equivoco delle Bedeutung: La distinzione tra riferimento e
significato è stata possibile da Frege che ha delineato un
triangolo simile al precedente, ma solo apparentemente:
Frege dice che la Bedeutung è
l’Oggetto a cui il segno si riferisce.
Per Frege una proposizione può
avere solo due oggetti: il Vero e il
Falso, e dice che “tutte le
proposizioni vere avranno la
stessa Bedeutung”, di
conseguenza non sarà con la
Bedeutung che si potrà individuare la differenza fra due
proposizioni. Frege distingue l’Oggetto di una proposizione

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e l’Oggetto di un segno semplice: nel primo caso la


Bedeutung di una proposizione è un valore di verità. Per
quanto riguarda i nomi propri di oggetti individuali, il fatto
che Frege usi il termine /oggetto/ fa pensare che sia
l’oggetto concreto che definisce quel nome, mentre il Sinn
sarebbe il senso, il “modo come quell’oggetto ci viene
dato”. Ma la nozione di oggetto per Frege è molto più vasta:
egli definisce l’oggetto come tutto ciò che cade sotto un
concetto. Ma se si postulasse la frase /il concetto di uomo/
queste parole vanno concepite come costituenti di un nome
proprio, e quindi anche un concetto può diventare oggetto.
In sostanza l’Oggetto è qualsiasi soggetto di giudizio. Frege
pensa che il punto d’incontro delle tre mediane di un
triangolo sia un oggetto, che può essere dato sottoforma di
due sensi diversi. Ma cosa distingue l’Oggetto dai due sensi
in cui è dato? Es: nell’espressione /corpo celeste più lontano
dalla terra/ Frege pensa che essa abbia senso ma non che
abbia una Bedeutung, pichè questa espressione rinvia a un
senso comprensibile poiché i significati lessicali sono
comprensibili, ma il senso-descrizione non circoscrive un
oggetto in maniera possibile: dunque la Bedeutung è
indeterminata. Per parlare di Bedeutung basta quindi che si
possa descrivere un qualsiasi oggetto attraverso una serie
di sensi. La bedeutung assomiglia più a ciò che è
chiamato /significato/ piuttosto che /riferimento/: è l’oggetto
costruibile di un riferimento possibile.
v) Significazione e comunicazione: si possono mettere in atto
processi di comunicazione solo sulla base di sistemi di
significazione. Un riferimento può essere attuato solo in una
condizione dove l’emittente produce un’espressione per un
destinatario in una specifica situazione. Ma oltre a
comunicare per fare asserzioni si comunica anche per altri
atti comunicativi come domande, preghiere ecc… si
comunica per manifestare atteggiamenti proposizionali, di
cui le asserzioni e i riferimenti sono solo una parte. Qualsiasi
atteggiamento proposizzionale può essere inteso come
riferimento solo per il fatto che l’espressione di una
credenza o di un ordine fanno riferimento a mondi possibili.
vi) Significato lessicale e significato testuale: di solito si
comunica per enunciati, principalmente per testi. Testo=

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catena di enunciati legati da vincoli di coerenza/ gruppi di


enunciati emessi sulla base di più sistemi semiotici (es: nel
linguaggio dei bambini /gatto/ è già un testo perchè si usano
altri sistemi semiotici oltre al linguaggio). I testi esprimono
sia significati diretti che indiretti (il bambino che dice /gatto/
indicandolo magari non vuole indicarlo ma è solo felice di
vedere un gatto). Per comprendere le espressioni semplici
(ovvero veicolate da significato lessicale) basta conoscere la
lingua L. Per comprendere il significato di un testo,
soprattutto indiretto, il destinatario deve mettere in opera
dei processi di cooperazione interpretativa.
Nell’espressione /la regina è femmina/ l’interprete deve
cooperare per selezionare la lingua L di riferimento ma deve
decidere tra le possibilità che la lingua L offre (ovvero
/regina/ come monarca umano femminile o una figura delle
carte da gioco): per questa operazione solitamente il
destinatario confronta l’espressione con un co-testo
determinato.
vii) Significato convenzionale e significato situazionale: ciò che
un’espressione dice convenzionalmente e ciò che
un’espressione vuole realmente dire. In caso una persona in
una data situazione dicesse qualcosa come /il centrattacco
dell’Inter ha dato una bella lezione al terzino della Juve/ in
base alla lingua L si può assegnare un significato
specifico/convenzionale, ovvero: il centrattacco dell’Inter ha
messo il pallone a segno in modo così magistrale da
umiliare il terzino avversario/. Ma occorre ipotizzare che la
lingua L prenda in considerazione per /dare una bella
lezione/ una serie di contesti (contesto= classe di
occorrenze di catene o gruppi di espressione) (co-testo=
occorrenza attuale e specifica di un membro della classe di
espressioni vista dal contesto). L produce contesti, mentre
nell’atto di comunicazione si si producono e interpretano
espressioni in un co-testo. Il destinatario, identificando nel
cotesto dei termini sportivi, capirà che si tratta di un
contesto sportivo, ed esso associerà significati ad
espressioni convenzionalmente. Ma può anche darsi che non
è ciò che l’emittente volesse dire: potrebbe intendere che
non si devono fare certe domande in caso il destinatario gli
abbia fatto una domanda scomoda poco prima; che

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l’emittente è a conoscenza dei traffici di cocaina del


destinatario (e per questo parla di partite e di cifre) ecc..
tutto ciò va al di là del significato convenzionale ipotizzato
dal destinatario
viii) Semantica e pragmatica: per poter assegnare a una
situazione un significato situazionale bisogna comparare il
significato convenzionale con una serie di dati che
appartengono alla situazione data (il tono con cui
l’emittente si pronuncia, ciò che il destinatario sa sulle
caratteristiche dell’emittente ecc.) Ciò fa pensare che in
alcuni casi la comprensione del significato situazionale non
c’entra niente con il problema del significato, che è
competenza della semantica, bensì con il problema della
pragmatica. Pragmatica= studio della dipendenza
essenziale della comunicazione dal parlante e
dall’ascoltatore, dal contesto linguistico ed extralinguistico,
dalla disponibilità delle conoscenze di fondo e dalla buona
volontà dei partecipanti nell’atto comunicativo. In un
contesto di significato situazionale, il destinatario capisce
ciò che intende l’emittente per via di tutti i fattori qui sopra
elencati, quindi della pragmatica. Quindi ci sono due
opzioni: a) la semantica riguarda solo i significati
convenzionali e quindi non sono funzione di tutti i significati
situazionali o indiretti: la semantica di L sarà quindi a
dizionario e darà ragione solo a un significato letterale. b)
non esiste un significato letterale dei termini, e il significato
letterale dipende sempre dai contesti e dalle assunzioni di
fondo che non sono semanticamente rappresentabili.
L’ipotesi di fondo è dover postulare una lingua L che in
qualche modo contenga fra le proprie regole di
significazione delle istruzioni pragmatiche orientate ai
contesti. Ma come è possibile? Bisognerebbe integrare
semantica e pragmatica, ma si dovrebbe intendere la lingua
L non come un dizionario ma come un complesso sistema di
competenze enciclopediche.
ix) Cooperazione testuale ed enciclopedia: un interprete di un
testo si trobva davanti a una manifestazione lineare (catena
di enunciati). In primis deve individuare la lingua L comune
ad emittente e destinatario. Dopodichè il destinatario
ispeziona in maniera superficiale la situazione di

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enunciazione (chi enuncia, quale atto linguistico esegue e in


che circostanze…) Le infinite inferenze sulla situazione non
possono essere previste da L, ma se L è costruito in formato
di enciclopedia il destinatario può stabilire anche il tono,
poiché come competenza enciclopedica L deve contemplare
un dizionario paralinguistico. Può essere che il destinatario
abbia ricevuto un ordine pochè sa che l’emittente è il suo
superiore: l’enciclopedia registra consuetudini come le
regole gerarchiche sotto forma di sceneggiature (o frames),
ovvero schemi d’azione e di comportamento prestabiliti.
Possono esservi anche sceneggiature intertestuali o regole
di genere (riferiti a una certa situazione). Può anche
succedere che il destinatario riconosca che un certo termine
è utilizzato in senso figurato (metafora, metonimia,
sineddoche…): può arrivare a riconoscerlo se paragona il
testo a stati di fatto o tramite le regole linguistiche (es:
/l’auto divorava la strada/ sarà sicuramente figurativo
poiché solo soggetti organici divorano. Per far si che si colga
il senso figurato si deve ovviamente escludere che
l’emittente menta. Il problema non sta nel fatto se queste
regole si possono rappresentare, ma quante se ne possono
rappresentare.
Quindi il significato contestuale va ben oltre il significato
lessicale, a patto che sia provvisto di: a) significati lessicali
in forma di istruzione per l’inserzione contestuale. b)
sceneggiature. Con queste basi si possono elaborare
inferenze che facciano crescere il significato contestuale, a
patto che nella struttura di l questi significati contestuali
siano attualizzabili.

II. Il contenuto
i) Significato e sinonimia: i modi più comuni per registrare il
significato di un termine sono: termine equivalente in
un’altra lingua; la definizione; il sinonimo; convenzione
barre/virgolette basse. In ogni caso tutti questi modi sono
posti sotto il meccanismo di equivalenza bicondizionale. Le
definizioni /significato/ e /sinonimia/ si implicano
reciprocamente e quindi la definizione di significato come
sinonimia è circolare. La circolarità può essere rilevata solo
empiricamente (=non scientificamente). La circolarità

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presume che si possano riconoscere più complessi di dati


della sensazione sotto lo stesso oggetto.
ii) Significato come contenuto: Hjelmslev parte dal principio,
nell’analizzare la semiotica, che una totalità non consiste di
cose ma di rapporti: ciò combacia con
la sua affermazione sul considerare la
semiotica come una funzione
composta da due funtivi: piano
dell’espressione e piano del
contenuto, dove distingue i due
diversi piani come sistemi analizzabili
in entità formali. La forma di uno dei
due piani può essere risolta
organizzando unità di un continuum indifferenziato
generando questo diagramma. La forma dell’espressione
concerne una data porzione di continuum: suoni, colori,
spazio ecc.. in questo modo si costruisce un sistema di
opposizioni. La forma del contenuto struttura altre porzioni
relative all’esprimibile. Immaginare un sistema
dell’espressione (es: sistema fonologico) non è difficile, ma
per quanto riguarda un sistema del contenuto ci sono delle
difficoltà: il modo per semplificarlo è organizzarlo in porzioni
particolari (es: sistemi di colori). Il continuum che si forma
per esprimersi è lo stesso sopra indicato, ovvero unisce il
continuum dell’espressione e del contenuto nella stessa
identità (es: formare del suono per esprimere leggi sui
suoni). Hjelmslev pensa che il continuum abbia già senso da
solo, poiché si riferisce al continuum espressivo e di
contenuto chiamandoli entrambi /mening/ ovvero senso in
danese. Egli da un lato dice che questo senso è una massa
amorfa, dall’altro che rappresenta un universale principio di
formazione.
iii) Le figure del contenuto: per Hjelmslev il segno è un’unità
che consiste di forma del contenuto e forma
dell’espressione. Il presupposto è che se un’espressione è
risolubile in figure così deve essere anche il contenuto. Nella
sua analisi in componenti semantiche, Hjelmslev vuole
ridurre le unità di contenuto in gruppi finiti. Tuttavia
l’inventario dei contenuti delle parole è illimitato (i lemmi di
un lessico di una lingua costituiscono una serie aperta). Egli

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confida però di trovare inventari limitati. In una


combinatoria prodotta da Hjelmslev dove registra dodici
entità di animali (montone percora, porco, scrofa ecc) egli
non distingue tra maschio e femmina, ma solo tra he/she,
che egli afferma, in quanto pronomi, di far parte di un
inventario limitato, mentre le altre figure ad un inventario
illimitato. In conclusione egli necessità di trovare invetari
limitati ma non riesce a garantirli, tranne he/she. Il
dizzionario hjelmsleviano riesce a spiegare alcuni fenomeni
come: sinonimia e parafrasi; similarità e differenza;
antonimia (uomo è antonimo di donna); iponimia e
ipernomia (Quindi iperonimi e iponimi si definiscono in
relazione gli uni con gli altri, dato che una parola è
iperonimo solo rispetto a degli iponimi, e viceversa: per
es., animale è iperonimo di gatto e di cane. Due parole che
sono iponimi di uno stesso iperonimo si dicono co-iponimi.);
ecc…
Tra ciò che è in grado di spiegare il dizionario di Hjelmslev ci
sono anche il contenimento e l’implicitazione semantica,
due fenomeni strettamente connessi: in base al dizionario
ogni termine contiene o comprende certe proprietà e in
forza di questa relazione semantica di contenimento dire
/questa è una pecora/ implicita /questo è un ovino/.
Il dizionario Hjemsleviano lascia irrisolti due problemi: a) se
definisce una pecora come ovino femmina non spiega cosa
sia un ovino. b) non stabilisce come restringere gli inventari
di figure. Su questo secondo problema, un requisito che
sembra irrinunciabile per risolverlo è che vengano
riscontrati un numero finito di primitivi, poiché ogni mente
umana contiene un insieme di concetti semantici che
possono essere combinati in espressioni più complesse.
Haiman suggerisce che i primitivi possono essere individuati
in tre modi:
1) I primitivi sono i concetti più semplici.per un parlante è
più facile comprendere /uomo/ che /mammifero/, e per un
dizionario si è notato sia più facile spiegare /infarto/ che
/fare/. Il rischio è che i concetti primitivi siano più numerosi
dei concetti semplici da definire, e definire una catena
aperta di lemmi con una catena indefinitamente aperta di
primitivi compromette il controllo del dizionario.

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2) I primitivi dipendono dalle nostre esperienze nel mondo:


sono quindi “parole-oggetto” di cui apprendiamo il
significato tramite ostensione (dimostrazioni). A queste si
contrapporrebbero le parole di dizionario che possono
essere definite attraverso altre parole di dizionario. La critica
in questo metodo è che
una parola come
/pentagramma/ per la
maggiornaza dei parlanti
sia una parola di
dizionario, ma per un bambino che ha la carta da parati in
camera a pentagrammi sarà una parola-oggetto. In
sostanza, l’idea di primitivi nasce per spiegare una
competenza linguistica indipendente dalla conoscenza del
mondo, ma in questo modo la competenza linguistica viene
fondata precedentemente su una conoscenza del mondo.
3) I primitivi sono idee innate di stampo Platonico, anche se
nemmeno Platone è riuscito a stabilire quali siano le idee
universalmente innate.
Non rimane che una quarta possibilità: un sistema di
incassamento reciproco tra iponimi e iperonimi dove ogni
coppia di iponimi corrisponde a un solo iperonimo, e ciascun
n numero di iperonimi costituisca a loro volta il livello
iponimico di un solo iperonimo. In questo caso il numero
deve essere per forza finito, arrivando a un iperonimo
patriarca. Esso rappresenta un sistema ordinato e
strutturato gerarchicamente. Purtroppo non funziona come
un buon dizionario per tre motivi:
a) non dice cosa significhino i primitivi
b) non aiuta a distinguere tra gli iponimi
c) non spiega la sinonimia, la parafrasi e la differenza
semantica
In sostanza esso non permette di elaborare definizioni.
Occorre dunque trovare un modo, avendo comunque le
stesse caratteristiche di chiusura che ha la figura sopra, che
riesca ad ottenere allo stesso tempo definizioni
assolutamente reciprocabili con il termine da definire.

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III. Pseudo-dizionario da camera per una lingua da


camera
Prendere come esempio una lingua naturale è rischioso poiché il
sistema lessicale di una lingua naturale e le tassonomie scientifiche
si sovrappongono facilmente
(noi chiamiamo /albero/ sia un
olmo sia un pino quando essi
hanno i loro nomi specifici.
L’albero in figura ci fornisce la
rappresentazione di un universo
molto limitato, ma per delineare
un dizionario forte dobbiamo
sempre concepire un universo
molto ridotto, un universo da
camera. Inoltre è molto difficile descrivere accanto ai generi naturali
anche i generi artificiali (sedie, case..), tutti i possibili predicati
(essere freddo o caldo, essere nonno di..) e tutte le possibili funzioni
e ruoli (parentali, politici..) Bisognerebbe risolvere un’alternativa:
a) tutti i termini sono nomi di classi così che ogni termine iponimo
nomina una sottoclasse inclusa nella classe più vasta, mentre quelli
in corsivo sono tutti gli individui che possono essere membri della
classe immediatamente superiore. In questo caso rimarrebbe da
stabilire quali oggetti siamo autorizzati a designare con questi nomi.
b) i nomi in tondo sono nomi primitivi semantici. In questo caso
rimarrebbe da stabilire se essi sono ancora interpretabili a loro volta
e se costituiscono dei primitivi ulteriormente analizzabili. Con
l’albero qui sopra si può dire che ogni iponimo contiene il proprio
iperonimo (se x è un gatto ha la proprietà di essere un “felis catus”
e tutti i “felis catus” hanno la proprietà di essere felidi.
Il vantaggio di questo albero rispetto a quello precedente è che
rende conto di fenomeni come la sinonimia, parafrasi e differenza
semantica: consente quindi di formulare definizioni reciprocabili con
il definiendum, quindi di distinguere senza ambiguità il significato di
un termine. (con questo sistema lessicale se dico gatto dico
mammifero, felide, felis, felis catus, Se nego una di queste si perde
tutto).
Anche se l’albero sembra perfetto c’è da fare un’obiezione: /gatto/ è
un /felis catus/, ma sia felis sia catus sono sinonimi di gatto: la
reciprocità tra definiendum e definiens diventa una sinonimia. Uno

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zoologo chiamerà un gatto così perché per lui “felis” contiene


determinate caratteristiche e “catus” altrettante, ma questo albero
non pretende affatto di dare un significato alle parole, bensì di
classificare dei generi naturali etichettandoli mediante certi nomi.
Le proprietà che ha ogni classe di animali o il singolo animale sono
date semplicemente dal termine che egli usa come etichetta
tassonomica. Questi nomi sono parole del loro linguaggio specifico,
che sono interpretati in maniera scorretta secondo i sostenitori di
una semantica a dizionario. Quindi o le marche non vanno
interpretate e non si definisce il significato, oppure vengono
interpretate ma si perde il modo di limitare il numero.
Un ultimo problema è dato dal fatto che l’interpretazione delle
marche impone l’introduzione della differenza specifica: quella che
distingue un “felis” gatto da un “felis” tigre. Ma in questo caso si
dovrebbero interpretare tutti i termini di differenza e non di tutto
l’albero. È quello che fa l’albero di Porfirio.

IV. L’Albero di Porfirio


IV.1. Definizione, generi e specie
Definire una sostanza significa stabilirne la causa, e occorre
lavorare alla definizione tenendo conto di determinazioni essenziali
(es: on si definisce l’uomo dicendo che corre o che è malato bensì
dicendo che è un animale razionale), in modo che il definiens sia
coestensivo al definiendum. La definizione spiega che cosa significa
il nome di un oggetto o comunque ci sarà un altro discorso
equivalente al nome. Ma per riuscire a trovare questa equivalenza
bisogna trovare un metodo che non permetta equivoci: per questo
esistono i predicabili= modi in cui le categorie possono essere
predicate di un soggetto. Aristotele ne identifica 4: genere, proprio,
definizione e accidente; Porfirio ne identifica 5: genere, specie,
differenza, proprio e accidente. Aristotele non mette la specie
perché la specie è data dal genere più la differenza, e genere più
differenza creano la definizione, quindi secondo la logica aristotelica
se si parla di definizione non ha più senso parlare di specie. Ma in
questo caso non avrebbe senso nemmeno nominare il genere quindi
ha più senso la logica porfiriana che
elimina la definizione per tenere tutto il

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resto.
I predicabili stabiliscono il modo di
predicazione di ciascuna delle
categorie: ci possono quindi essere tot
alberi di Porfirio (uno delle sostanze
che permetta di definire l’uomo come
essere razionale mortale, uno delle
qualità che permetta di definire il
porpora come una specie del genere
rosso e coì via). Non esiste un albero
degli alberi, ma non si esclude che ci
possa essere un numero finito di
inventari finiti.
Secondo Porfirio il genere è ciò a cui è subordinata la specie, e la
specie è ciò che è subordinato al genere; sono due termini relativi
(un genere posto su un nodo alto dell’albero definisce la specie
sottostante, la quale sarà il genere di una specie ancora più
sottostante ecc…) ma non si tratta di un rapporto bicondizionale.
Ma quando Porfirio definisce specie e genere non ha ancora
introdotto una definizione per il definito, creando un albero solo di
specie e generi: in un albero del genere uomo e cavallo non sono
distinguibili. La differenza che sta nell’uomo è la razionalità. La
differenza è fondamentale per la creazione della definizione, visto
che gli accidenti e il proprio non possono farlo. Ci sono diversi tipi di
proprio: uno che occorre in una sola specie ma non tutti i membri
(es: capacità di guarire dell’uomo), uno che occorre in tutti i membri
di una specie ma non solo in quella specie (es: l’essere bipede) o
uno che corre in una sola specie e nel corso di tutta la vita (es:
capacità di ridere dell’uomo). Di base il proprio avrebbe tutte le
caratteristiche per stare nella definizione ma viene escluso poiché
per scoprirlo non basta l’intuizione ma un atto di giudizio.
Per tornare alla differenza, che prende invece parte alla costruzione
della definizione, esse possono essere separabili dal soggetto (es:
essere caldo, muoversi, esser malato) e in questo senso sono
accidenti; ma possono anche essere inseparabili come essere
razionale o immortale. Quest’ultime due sono differenze specifiche
e sono aggiunte al genere per formare la definizione. Le differenze
possono essere divisive (le linee tratteggiate nella figura, ovvero
quelle che dividono il genere) o costitutive (linee continue,
differenze che costituiscono una specie sottostante)

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IV.2. Un albero che non è un albero


Il difetto dell’albero soprastante è che distingue Dio e l’uomo ma
non un cavallo da un asino o l’uomo e un cavallo. Il difetto potrebbe
essere apparente per il fatto che l’albero è
focalizzato sulla figura dell’uomo, ma se si
provasse ad arricchire il lato destro
dell’albero per lasciare spazio alle
distinzioni sopra elencate si complicherebbe di più la figura, poiché
non ci sarebbe più la distinzione tra Dio
e l’uomo. Quindi l’unica alternativa per
risolvere il problema è che la
differenza “mortale/immortale”
venga posta due volte.
Porfirio pensa che questo porre la differenza due volte sia giusto
poiché la stessa differenza si osserva spesso in diverse specie.
Anche Aristotele, tramite la sua definizione del numero tre,
dimostra che una data specie può essere definita dalla
congiunzione di più proprietà che sono differenze. Inoltre dimostra
anche che una volta che queste differenze sono servite a definire il
numero tre è irrilevante che servano altrettanto bene a definire un
altro numero.
IV.3. Un albero di sole differenze
Boezio in uno dei suoi testi afferma che “mortale” può essere una
differenza di “animale irrazionale” e la specie “cavallo” è costituita
dalle differenze “irrazionale” e “mortale”. Sia Aristotele che Boezio
affermano che la differenza ha un’estensione più vasta del
soggetto: questo perché non sono solo gli uomini a essere immortali
(se “mortale” e “uomo” fossero applicabili solo uno in relazione
dell’altro essi sarebbero reciprocabili, e quindi non sarebbe una
differenza ma un proprio. La parola “uomo” è reciprocabile con la
sua definizione per esteso ma non con i piccoli pezzi presi
singolarmente, poiché essi si estendono oltre la specie umana.
Abelardo dice che una data differenza sia predicata di più di una
specie, quindi: la stessa differenza comprende diverse specie; la
stessa coppia di differenze può stare sotto diversi generi; diverse
coppie di differenze occorrenti sotto diversi generi possono essere
espresse con lo stesso nome; non si stabilisce dove sia collocato
nell’albero il genere comune rispetto ai generi subordinati che

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hanno la stessa coppia di differenze. È quindi possibile dire che in


un buon albero devono sopravvivere solo le differenze. Questo
albero presenta delle caratteristiche:
a) Consente la rappresentazione di un universo possibile dove
possono essere previsti e collocati molti generi naturali ancora
ignoti (es: sostanze incorporee come i corpi celesti)
b) Mostra che ciò che consideriamo generi o specie sono solo
semplici nomi che etichettano gruppi di differenze (questo
albero è composto solo di differenze): molti pensatori
medievali erano ossessionati dal penuria nominum, ovvero la
mancanza di items lessicali per etichettare ogni nodo di
differenze. In realtà i nomi per i generi sono insufficienti poiché
sono inutili, dato che un genere è una congiunzione di
differenze. Dal momento che Aristotele non aveva posto nei
predicabili la specie poiché era il risultato della congiunzione
tra genere e una differenza, date queste considerazioni
sarebbe stato giusto levare anche il genere, dato dalla
congiunzione di due differenze. Generi e specie coprono la
vera natura dell’albero, un universo di pure differenze.
c) Non è retto da relazioni di iponimi e iperonimi (in questo albero
non si può stabilire che se qualcosa è mortale allora è
razionale o se è irrazionale allora è un corpo ecc…): dato che
le differenze in questo caso non postulano necessariamente
quelle del nodo superiore, non si può avere un albero finito,
poiché non c’è criterio che stabilisca quanto esso possa essere
ramificabile ai lati o verso il basso. Le differenze sono
accidenti, e gli accidenti sono potenzialmente infiniti. Inoltre le
differenze sono proprietà sintetiche, il che trasforma l’albero
da dizionario a enciclopedia, poiché si compone di elementi di
conoscenza del mondo.
d) Dato che non è retto da relazioni di iponimi o iperonimi, esso
può essere continuamente riorganizzato secondo diverse
prospettive gerarchiche tra differenze che lo costituiscono. In
un albero composto da
sole differenze esse
possono essere
riorganizzate di continuo
secondo la descrizione
sotto la quale il soggetto è considerato. Questo perché l’albero
è una struttura sensibile ai contesti, non un dizionario assoluto.

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IV.4. Le differenze come accidenti e come segni


Le differenze sono accidenti e gli accidenti hanno un numero
indefinito. Le differenze sono qualità (non è casuale che mentre i
generi e le specie sono chiamate con dei nomi le differenze sono
aggettivi). Ma quali sono le differenze essenziali e quali no? La
differenza specifica significa accidente essenziale. Esistono delle
differenze essenziali, ma non si sa cosa siano. Le differenze
specifiche non sono le differenze essenziali, ma sono dei segni di
quest’ultime, degli indizi. Tommaso capisce che le differenze sono
accidenti, ma non può mettere in crisi tutta la possibile natura
dell’albero poiché tutto il Medio Evo è dominato dalla persuasone
che l’albero mimi la realtà. Ma oggi si può dire che l’albero dei
generi e delle specie, comunque venga costruito, si dirama in infiniti
accidenti (o differenze) non gerarchizzabili. Il dizionario si dissolve
in una serie illimitata e disordinata di elementi di conoscenza. Il
dizionario è quindi un’enciclopedia mascherata. La vera differenza
sta nel come gli accidenti vengono raggruppati e costituiscono
l’albero.
V. Le semantiche a enciclopedia
V.1. Il principio di interpretanza
Secondo Peirce, ogni segno esprime immediatamente un oggetto
Immediato (il suo contenuto), per rendere accessibile un Oggetto
Dinamico: l’Oggetto immediato è come l’Oggetto Dinamico viene
dato dal segno, è la cosa in sé. L’Oggetto Immediato rende ragione
di un oggetto già implicito nell’Oggetto Dinamico. Se si vuole
stabilire il significato di un segno, ovvero rappresentare l’Oggetto
Immediato, bisogna tradurlo tramite un Interpretante (solitamente
chiamato come il significato del segno): di conseguenza il
significato di un segno è il segno in cui esso deve venire tradotto,
ed è la traduzione di un segno in un altro sistema di segni.
Questa traduzione di un segno (espressione) in un’altra espressione
è il processo di interpretazione. Un segno è qualcosa che sta a
qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto e capacità. Crea nella
mente di quella persona un segno equivalente o anche un segno più
sviluppato. Questo segno che esso crea è detto interpretante dle
primo segno.
Tutto questo ragionamento è il processo di semiosi illimitata di
Peirce che cerca di interpretare un’espressione traducendola anche
in altri segni in modo che faccia conoscere qualcosa in più. Es: in

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una semantica strutturata l’interpretante visivo di /gatto/ è


l’immagine di un gatto. L’inferenza “se gatto allora animale che
miagola se gli pesti la coda” caratterizza il significato di /gatto/. La
catena degli interpretanti è quindi infinita se non indefinita. La
nozione di interpretante è feconda perché mostra come i processi
semiotici, tramite spostamenti continui, che riferiscono un segno ad
altri segni o catene di segni, circoscrivono i significati senza mai
arrivare a “toccarli” direttamente, ma rendendoli accessibili tramite
unità culturali. Gli interpretanti sono dati oggettivi: non dipendono
necessariamente dalle rappresentazioni mentali dei soggetti e sono
collettivamente verificabili: un rapporto di interpretazione è
registrato dall’intertestualità: che un gatto sia un felis catus,
l’animale di Pinocchio, l’animale cantato da Baudelaire sono tutte
interpretazioni di /gatto/ che sono registrate, poste in diversi testi
facenti parte di quella grande biblioteca che è l’enciclopedia.
Ognuna di queste interpretazioni definisce in parte che cos’è un
gatto. L’enciclopedia dovrebbe istruire sul come interpretare nel
modo più efficace l’espressione /gatto/ nei contesti più plausibili.
Ogni interpretazione inoltre è volta a essere interpretata: se dico
che il gatto era l’animale prediletto dalle streghe dovrò interpretare
anche /strega/ e /prediligere/.
In sostanza ogni espressione può essere soggetto a interpretazione
e strumento per interpretare un’altra espressione.
V.2. Struttura di un’enciclopedia
L’enciclopedia è l’insieme registrato di tutte le interpretazioni,
concepibile come la libreria delle librerie. Essa non è descrivibile
nella sua totalità per vari motivi:
- La serie di interpretazioni è indefinita e inclassificabile
- L’enciclopedia come la totalità di interpretazioni presenta anche
quelle contraddittorie
- Introducendo continuamente nuove segmentazioni del continuum
l’enciclopedia si trasforma nel tempo non potendo fare una
rappresentazione globale fedele di essa
- L’enciclopedia come sistema oggettivo delle sue interpretazioni
cambia da utente a utente
Peirce diceva che “il significato di una proposizione abbraccia ogni
sua ovvia necessaria deduzione”, ovvero che ogni unità semantica
implica tutti gli enunciati in cui può essere inserita(= tutte le
inferenze che autorizzano l’immissione sulla base delle regole

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enciclopediche). Tuttavia le modalità di possesso culturale dei dati


enciclopedici sono diverse: se un tizio sa che un gatto è un felino, ci
sarà qualcun altro che non lo sa ma sa qualcosa che l’altro non sa.
Quindi dal punto di vista sociosemiotico ci sono diversi livelli di
possesso dell’enciclopedia, chiamate enciclopedie parziali.
Quando un interprete deve interpretare un testo, non è obbligato a
conoscere tutta l’enciclopedia ma solo la porzione necessaria per
comprendere quel testo. L’interprete di un testo, sulla base dei
segnali contenuti in quel testo, decide quale sia il formato di
competenza enciclopedica necessario. In questo modo, non si userà
mai un testo di Omero per descrivere le leggi atomiche: ogni lettura
omerica in questo contesto potrebbe essere un’allegoria. Se ci fosse
qualche “segnale” che autorizzasse la lettura in chiave allegorica si
potrebbe fare. Quindi l’enciclopedia è un’ipotesi regolativa in base
alla quale, quando si interpreta un testo, il destinatario si costruisce
la sua porzione di enciclopedia che gli consente di assegnare al
testo o all’emittente determinate competenze semantiche. Lo
schema dell’enciclopedia non avrà mai una struttura ad albero:
spesso un oggetto che rientra in una classe per delle date
caratteristiche rientra in un’altra classe per altre caratteristiche.
Dunque il modello di struttura dell’enciclopedia sarà il rizoma. Il
rizoma è il modello di enciclopedia semiotica dove ogni punto può e
deve essere connesso con tutti gli altri: nel rizoma non vi sono punti
o posizioni, ma solo linee di connessione. Un rizoma può essere
spezzato in un punto e riprendere seguendo la linea: è smontabile e
rovesciabile. In ogni rizoma può essere ritagliata una serie indefinita
di alberi parziali. Il rizoma non ha centro. L’idea dell’enciclopedia
come rizoma nasce appunto dall’inconsistenza dell’albero.
V.3. Rappresentazioni enciclopediche locali
I tentativi di rappresentazione nella semantica intensionale
contemporanea possono essere o a dizionario o a enciclopedia. I
tentativi a dizionario sono inutili dal punto di vista comunicativo per
la loro inconsistenza. Ma non esistono nemmeno modelli di
competenza enciclopedica globale.
Nessun albero porfiriano può disciplinare in modo univoco tutti i
campi o sottosistemi che esprimono relazioni di senso: le coppie
opposizionali presentano infatti strutture logiche diverse:
i) Bene vs male: antonimia secca (uno annienta l’altro)

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ii) Marito vs moglie è opposto per complementarietà ( si è


marito della persona che ci è moglie)
iii) Vendere vs comperare opposizione di conversità (io vendo a
chi compra)
iv) Sopra vs sotto e più grande vs più piccolo sono opposizioni
relative: generano scale proporzionali, opposizione non
binaria
v) Lunedì vs martedì vs mercoledì è un continuum graduato,
opposizione non binaria
vi) Cm vs m vs km sono continui graduati ma gerarchicamente
Queste opposizioni variano a seconda del contesto.
Si sono inoltre studiati i “fuzzzy concepts”, concetti sfumati, ovvero
che nell’uso comune del linguaggio noi non attribuiamo mai una
stessa proprietà a diverse entità di contenuto con la stessa forza.
Es: la gallina è un uccello e l’aquila pure. Ma tra i due noi diremo
che l’aquila è più uccello della gallina.
Quale può essere un criterio per una competenza dizionariale
ideale? Es: a mezzanotte, in una villetta, la moglie guarda fuori
dalla finestra e dice preoccupata al marito /c’è un uomo in giardino/.
Prima di parlare il marito dovrebbe costruire la porzione di codice
che gli serve per rispondere, formulando un albero porfiriano
parziale ad hoc. Egli seleziona quale sia la rappresentazione
semantica di /uomo/ più adeguata al contesto. Alla moglie in quel
momento non interessa che l’uomo sia un essere razionale, se non
nel senso che si intende capace di intenzioni pericolose, né che sia
un bipede, se non nel senso che possa correre verso di loro, né che
sia un maschio adulto se non per
la forza che possa avere. Infine
entra in gioco anche il frame o
sceneggiatura altamente
codificata per cui un uomo che
gira di notte in un giardino può
significare qualcosa di brutto. Se
il marito ritiene che la moglie stia parlando sulla base di queste
rappresentazioni stereotipe, dovrà cancellare queste ultime,
congetturando un albero ad hoc di differenze in modo da trovare il
modo migliore per rassicurarla (es: negando uomo e affermando
cane o albero o giocattolo)

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Se però il marito non agisce con questa forza congetturale e utilizza


solo la lingua, quest’ultima è resa debole dalla sua complessità.
L’enciclopedia è l’ipotesi regolativa che consente al marito di
contrattare la porzione di dizionario che gli serve. L’enciclopedia
come sistema globale c’è, altrimenti le rappresentazioni locali come
questa non avrebbero successo.
V.4. Alcuni esempi di rappresentazioni enciclopediche
Alcuni lessicologi decidono di utilizzare pacchetti di proprietà ad hoc
per rappresentare un solo sottosistema semantico. Questi tipi di
rappresentazione ripropongono ciò che era già stato studiato da
Peirce, ovvero che il significato di un termine dovesse essere
rappresentato attraverso riferimenti ad altri termini con i quali
contestualizzare.
Su questa linea di ragionamento c’è anche chi propone un modello
semantico che tenga conto delle selezioni contestuali (elementi di
uno stesso sistema semiotico) e circostanziali (elementi di sistemi
diversi):
contesto x: p1 e p2
/Espressione/ contesto y: p1 e p3
circostanza z: p4 e p5
In questo esempio p1, ….., pn sono differenti proprietà che vengono
assegnate a seconda dei contesti e delle circostanze.
Questo modello presuppone che:
a) Le proprietà non siano primitivi semantici ma interpretanti,
ovvero espressioni che possano a loro volta essere
rappresentate
b) I contesti e le circostanze non siano infinite ma siano quelli che
si ritengono parte della competenza enciclopedica media
dell’emittente o del destinatario (es: /cane/ si può pensare che
la competenza media consideri il contesto zoologico, quello
astronomico e quello “armi da fuoco”, dove in ognuno di questi
contesti /cane/ significa una cosa diversa.
Questo modello ulteriormente raffinato tiene conto di connotazioni
e denotazioni: es: /cane/ nel contesto zoologico denota
animale+mammifero+carnivoro+rabbioso+che ringhia, ma solo se
queste proprietà vengono attualizzate si può decidere di dare a
/cane/ una connotazione di “animale spregevole”. Per far sì che il

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modello funzioni, bisogna volta per volta disegnare porzioni di


enciclopedia (anche sconnesse) che possano esprimere le proprietà
assegnabili, in modo tale che una proprietà significhi, per
connotazione, un’altra proprietà.
Putnam sviluppa queste idee elaborando il concetto di
rappresentazione stereotipa: la forma della descrizione di un
significato di una parola dovrebbe essere una sequenza finita e
includere determinati punti:
- Le marche sintattiche della parola in questione (es. acqua)
- Le marche semantiche della parola (es. liquido)
- Una descrizione di un tratto stereotipo additivo se c’è (es.
incolore, trasparente)
- Una descrizione dell’estensione (es. H2O)
L’estensione dipende da un rapporto con l’essenza di questo genere
naturale e si suppone che quando i parlanti parlano di acqua si
riferiscano a qualcosa che in natura è h2o.
Lo stereotipo rappresenta quello che sinteticamente il parlante
assegna al contenuto di /acqua/. Viene assegnato “liquido” alle
marche semantiche e “incolore agli stereotipi poiché l’acqua è un
liquido per definizione, mentre in generale può essere sporca o
colorata.
Teoria TESWEST di Petofi: teoria della struttura del testo e struttura
del mondo. Nella teoria è presente un lexicon, cui suo interno si
trova un thesaurus. Mentre la definizione lessicale di un termine (es.
uccello) comprende informazioni fonologiche, lessicali e sintattiche,
il thesaurus è costituito da componenti più complessi:
- SY (sinonimi): pollame
- ISF ( sintagmi più ampi di cui l’item è componente semantico):
uccello migratore
- FIELD (campo o gruppo tematico): animali
- BT (termini più vasti): logico: vertebrati; tutto: essere vivente;
parte: becco, ala
- COL (termini collaterali): mammiferi, rettili
- EC (termini empiricamente connessi): nido, aria, albero, acqua
Si tratta quindi di una registrazione di tutti i possibili interpretanti
del termine analizzato (uccello), e di tutte le selezioni contestuali e
circostanziali. Si tratta di una semantica a istruzioni

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A proposito di una semantica a istruzioni, ci sono stati diversi


tentativi di rappresentazione dei termini sincategorematici (=
congiunzioni, avverbi ecc..). Con una semantica a dizionario è
difficile stabilire quali siano le proprietà che si possono assegnare a
espressioni come /tuttavia/ e /invece/, ma con una semantica a
istruzioni, che è fondata su meccanismi inferenziali, il contenuto di
un’espressione sincategorematica coincide con le operazioni di
cooperazione contestuale che il destinatario attua per far
funzionare l’espressione.
Es: /invece/: essa quando è seguita da /di/ ha funzione di
preposizione ed esprime sostituzione. Quando non è seguita da /di/
ha una funzione di opposizione. Una volta che viene stabilito il
topic, quindi il contesto, si sa come si può utilizzare /invece/. Questa
rappresentazione consente di fare inferenze contestuali: la
competenza enciclopedica provvede il destinatario degli elementi
necessari per attualizzare il significato del termine sulla base di
altre inferenze co-testuali.
Fenomeno della presupposizione: ci sono alcune presupposizioni
definite “lessicali” che sono veicolate dall’impiego di una data
espressione (non si può usare il termine /pulire/ senza presupporre
che prima qualcosa fosse sporco). Per stabilire il potere
presupposizionale di un termine bisogna sapere che ciò che il
termine presuppone non viene eliminato quando è preceduto da
una negazione: /Maria non ha pulito la stanza/ nega che Maria abbia
pulito la stanza, ma continua a presupporre che la stanza fosse
sporca.
Nel caso /Giovanni ce l’ha fatta a prendere il treno/ dove si
presuppone che l’abbia preso, e /Giovanni non ce l’ha fatta a
prendere il treno/, dove si presuppone che non l’abbia preso,
sembra che il potere presupposizionale del termine venga eliminato
dalla negazione. In realtà qui la vera presupposizione sta
nell’intenzione che il soggetto aveva di prendere il treno, che anche
se non è riuscito a prenderlo mantiene comunque l’intenzione di
volerlo prendere.
V.5. Utilità del dizionario
Il fatto che sia teoricamente impossibile concepire un dizionario di
primitivi universali strutturati in modo da formare un insieme finito
apre due punti fondamentali:

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1) Non vuol dire che ogni volta che si vuole realizzare una
rappresentazione di una porzione locale di enciclopedia non si
possa e non si debba ricorrere a una rappresentazione
strutturata a marche dizionariali; nell’esempio fatto in
precedenza su una situazione comunicativa marito-moglie si è
dovuto ricorrere ad un’organizzazione ad albero strutturata a
marche dizionariali per esempio. L’organizzazione a dizionario
è quindi il modo per rappresentare localmente l’enciclopedia.
Nella distinzione delle proprietà dell’acqua riportata sopra,
tutte le proprietà riportate a riguardo sono traducibili in un
albero. Tuttavia c’è da chiedersi perché nessun dizionario,
dopo aver detto che l’acqua è un liquido, non dice anche che
ha la proprietà di bagnare, che non può raccogliersi ecc.
Questo perché la nozione di “percepibilità” è racchiusa nella
proprietà “sostanza fisica”, menzionata nel dizionario. Tutte le
proprietà che vengono comprese dalle marche dizionariali
sono proprietà fattuali, informazioni che vengono sottintese
poiché già accettate dalla comunità di parlanti. È la stessa
funzione che hanno gli iperonimi in un sistema lessicale. Le
marche concettuali sono quindi abbreviazioni lessicali che
comprendono pacchetti di proprietà fattuali. Ci sono infiniti
contesti dove vengono messe in discussione le proprietà di
/acqua/, /uomo/ o /cane/, ma non le proprietà di essere un
liquido, un essere umano o un animale. L’acqua resterà
sempre un liquido fino a quando non verrà fatto un discorso
dove si mette in discussione la natura dei liquidi. Quindi un
dizionario viene organizzato ogni volta che si vuole
circoscrivere l’area di consenso entro la quale un discorso si
muove.
2) Non vuol dire che ci siano ragioni culturali per cui certe marche
o proprietà enciclopediche. In un dato contesto, non debbano
essere usate come “più dizionariali” delle altre:
tendenzialmente non vi sono ragioni per cui privilegiare certe
marche rispetto ad altre, ma ci sono determinate marche come
/essere vivente/ o la distinzione tra generi e accidenti che sono
radicate nel modo di pensare delle persone e della civiltà. Non
è per questo che non possono essere messe in discussione, è
che per discuterle si dovrebbe mettere in discussione tutto il
modo di pensare e di parlare, quindi è più comodo darle per
indiscutibili. In contesti funzionali o poetici, però, attraverso

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strategie metaforiche o simboliche, si tende a mettere in


discussione anche queste distinzioni. Quindi anche se in una
prospettiva enciclopedica ogni proprietà ha il diritto di essere
privilegiata a seconda dei contesti, alcune proprietà sono più
indipendenti dal contesto, più costitutive, che vengono attivate
in tutti i contesti. Questa resistenza dalle proprietà non
dipende solo dalla forza dei sistemi culturali e credenze e
opinioni, bensì anche dalla misura in cui un determinato
discorso intende cimentarsi nella distruzione di tale credenza.
VI. Significato e designazione rigida
Ci sono espressioni che sembrano inanalizzabili in termini di
contenuto, ma analizzabili solamente in riferimento ad un altro
oggetto: segni deittici come /questo/, gesti di puntamento o
indicazione ecc. Sono quelli che Peirce chiamava indici (=
acquisiscono e identificano il proprio Rinviato solo quando sono
connessi fisicamente con un oggetto o stato del mondo). Si è detto
che indici non verbali e verbali sono rappresentabili, anche se
l’indice non viene sempre associato a uno stato del mondo (es. se
dico /questo/ e indico qualcosa ciò che il destinatario capisce è il
significato dell’espressione, anche se non capisce il riferimento).
Per quanto riguarda i nomi propri, noi rappresentiamo il contenuto
dei nomi propri sottoforma di descrizioni definite: il nome /Giovanni/
è fortemente sinonimico, ma quando viene messo dentro un
discorso l’emittente lo riferisce a un’entità del proprio universo.
Viene definito l’oggetto mediante sensi complementari, individuo
l’estensione del termine determinando le sue intensioni. E lo stesso
avviene per i nomi di personaggi storici.
Questa posizione è stata messa in discussione da Kripke tramite la
cancellazione delle descrizioni definite: ipotizzando inferenze
controfattuali su Aristotele (ovvero ipotizzare, in un mondo
alternativo, che egli non abbia fatto ciò che ha fatto, e quindi non
sia ciò che in questo mondo è), si potrebbe ancora parlare di
Aristotele? La teoria kripkiana dice che, pur togliendo tutte le
caratteristiche ad Aristotele, si parlerebbe sempre di una certa
entità spazio-temporale che il nome /Aristotele/ designa
rigidamente. Un nome è un designatore rigido perché si collega a
un oggetto preciso, che è stato così denominato e la cui
denominazione si è protratta nei secoli attraverso una catena di
designazioni: questa teoria è stata definita teoria causaleIl
presupposto è che sia una teoria basata sul tramandare

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determinate essenze in rapporto con i nomi da persona a persona


sottoforma di credenza. In questo caso questa teoria
distruggerebbe una semiotica, poiché non vi sono significati, ma
solo catene di riferimenti e reazioni mentali alle catene di
riferimenti. I sostenitori della teoria causale pensano che essa sia
valida per i generi naturali (gatti, pesci, uccelli e individui come
Aristotele) ma non lo sia per generi non naturali (vescovo o
scapolo).
Secondo Putnam, il concetto di designazione rigida si basa si su
catene di riferimenti, ma in maniera più flessibile. Supponendo di
trovarsi con Franklin che ti spiega che cosa sia l’elettricità, da lì in
poi utilizzerai “elettricità” riferendosi sempre a quell’evento
introduttivo, anche se si dimenticasse dove e quando lo si è udito.
Se si insegnasse il termine a qualcun altro dicendogli cosa significa
ma senza menzionare il vincolo causale (dell’incontro con Franklin),
la presenza del termine nel vocabolario di entrambe le persone
sarebbe comunque causalmente connesso a quell’evento (l’incontro
con Franklin). L’obiezione sta nel fatto che per spiegare un
significato bisogna ricorrere alle descrizioni, come ha fatto Franklin
in quel dato giorno. Ciò che permette la comunicazione tra Putnam
e Franklin è che tutti noi siamo capaci, attraverso descrizioni, di
configurare un oggetto Immediato, interpretato in dati di
enciclopedia. E anche dell’esistenza dell’evento introduttivo dove
Franklin spiega l’elettricità se ne parla attraverso interpretanti. In
sostanza ciò che viene battezzato non è una cosa ma è una
descrizione enciclopedica. Ci può essere solo una decisione legale
che collega una fonazione a una descrizione enciclopedica.
La teoria della designazione rigida inoltre non distingue nomi propri
tra di loro come /Aristotele/ o /Achille/, solo in funzione della
descrizione culturale che viene stabilita al nome si possono
riconoscere le differenze.
Il secondo modo di intendere la designazione rigida è che la catena
ininterrotta di designazioni sia traducibile in una catena storica di
descrizioni in termini di contenuto ( la prima persona che nomina
Aristotele parlando a una seconda persona dirà che per Aristotele
intende un certo personaggio che ha conosciuto il giorno prima; e la
terza persona dirà che è un personaggio di cui gli ha parlato una
persona che lo ha conosciuto il giorno prima e così via). Sarebbe

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quindi un termine non tecnico per indicare processi di trasmissione


di una conoscenza enciclopedica per descrizione di proprietà.

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