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IV

FRUIZIONE
MESSAGGI AL DI QUA DELL’OPERA

In uno con l’es-posizione, all’essere-opera dell’opera appartiene la deposizione.


Fin dall’inizio, mettemmo senz’altro da parte la produzione per mano dell’artista,
giacché l’essere-opera non può essere afferrato concettualmente a partire dal-
l’essere-generata, bensì, al contrario, l’essere-generata a partire dall’essere-opera.
Ma con deposizione e produzione non intendiamo il medesimo. Per contrassegna-
re il tratto essenziale nell’essere-opera denominato con questo termine, procedia-
mo, corrispondentemente a quanto abbiamo fatto per la «disposizione», dal signi-
ficato corrente. Ogni opera, in quanto essa è, è deposta a partire da pietra, legno,
metallo, colore, suono e lingua. Tutto ciò, impiegato nell’approntamento, lo si
chiama materia. Essa viene condotta entro una forma. Successivamente, tale
scomposizione dell’opera d’arte secondo materia e forma lascia maturare ancora
ulteriori distinzioni secondo argomento, contenuto e configurazione. L’utilizzo
delle determinazioni di materia e forma in riferimento all’opera d’arte è possibile
sempre e in qualsiasi momento, di esso si occupano tutti con facilità e per questo,
da secoli, è divenuto corrente. E tuttavia, tali determinazioni non sono affatto ov-
vie. Esse discendono dall’interpretazione del tutto univoca dell’essente che Plato-
ne e Aristotele fecero valere alla fine della filosofia greca. Secondo di essa, tutto
l’essente possiede ogni volta un suo proprio aspetto, che si mostra nella sua for-
ma. Un essente sta all’interno di tale forma in quanto è approntato a partire da
qualcosa e in vista di qualcosa. Esso può apprestare se stesso in direzione di ciò
che esso stesso è, come tutto ciò che è cresciuto spontaneamente; esso può essere
fabbricato. L’essente in quanto essente è sempre il sussistente approntato. Que-
st’interpretazione dell’essere dell’essente, tuttavia, non solo non è ovvia, ma non è
nemmeno attinta dalla sperimentazione dell’opera d’arte in quanto opera d’arte,
bensì, tutt’al più, dalla sperimentazione dell’opera d’arte in quanto cosa fabbrica-
ta. Di conseguenza, la scomposizione secondo materia e forma è applicabile all’o-
pera sempre e in ogni momento, pur essendo al contempo e altrettanto sicuramen-
te non vera, se almeno in virtù di essa dev’essere colto l’essere-opera dell’opera.
(Martin Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte, 1935, p. 36)

«L’immagine mi dice se stessa» – vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice
consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori. (Che significato a-
vrebbe il dire: «Il tema musicale mi dice se stesso»?) […] È proprio vero che ogni
volta vedo qualcosa di diverso, o invece non faccio altro che interpretare in ma-
La luce e le cose

niera differente quello che vedo? Sono propenso a dire la prima cosa. Ma perché –
interpretare è pensare, far qualcosa; vedere è uno stato. Ebbene, i casi in cui inter-
pretiamo sono facilmente riconoscibili. Quando interpretiamo facciamo ipotesi
che potrebbero anche dimostrarsi false. – «Vedo questa figura come un …» può
essere verificata tanto poco quanto (o soltanto nel senso in cui) può essere verifi-
cata «Vedo un rosso brillante». Dunque sussiste una somiglianza nell’impiego di
«vedere» in questi due contesti. Soltanto, non pensare di aver saputo già fin dal
principio che cosa significhi, qui, «stato del vedere»! Lascia che sia l’uso a inse-
gnartene il significato. Certe cose del vedere ci sembrano enigmatiche, perché
l’intero vedere non ci sembra sufficientemente enigmatico. Chi osserva una foto-
grafia, di uomini, di case, di piante, non sente la mancanza di profondità. Non ci
sarebbe facile descrivere una fotografia come un aggregato di macchie colorate
sul piano, ma la profondità di quello che vediamo nello stereoscopio ci appare in
modo ancora diverso. (Non è per nulla ovvio che, con due occhi, vediamo «in pro-
fondità». Quando le due immagini si fondono in una sola potremmo aspettarci che
ne risulti un’immagine confusa). Il concetto di aspetto è affine al concetto di rap-
presentazione. Oppure: il concetto «ora lo vedo come …» è affine a «ora mi rap-
presento questo». Non ci vuole forse fantasia per sentire una certa cosa come va-
riazione di un determinato tema? E tuttavia, in questo caso, si percepisce qualcosa.
(Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1953, pp. 187 e 279)

La rappresentazione lascia sfuggire il mondo affermato della differenza. La rap-


presentazione non ha che un centro, una prospettiva unica e fuggente, e proprio
per questo una falsa profondità; essa mediatizza tutto, ma non mobilizza e non
muove nulla. Da parte sua, il movimento implica una pluralità di centri, una so-
vrapposizione di prospettive, una concatenazione di punti di vista, una coesistenza
di momenti che deformano essenzialmente la rappresentazione: già un quadro o
una scultura sono dei tali «deformatori» da spingerci a effettuare il movimento,
cioè a combinare una visione radente ed una vista che si tuffa, oppure a salire e
scendere nello spazio intanto che si avanza. È sufficiente moltiplicare le rappre-
sentazioni per ottenere un simile effetto? […] Il prefisso RE- nella parola rappre-
sentazione [in francese: représentation] significa questa forma concettuale del-
l’identico che subordina le differenze. Non è dunque moltiplicando le rappresen-
tazioni e i punti di vista, che si giunge all’immediato definito come «sub-
rappresentativo». Al contrario, è già ogni rappresentazione ben composta che deve
essere deformata, deviata, strappata dal suo centro. Occorre che ogni punto di vi-
sta sia esso stesso la cosa, oppure che la cosa appartenga al punto di vista. Biso-
gna dunque che la cosa non sia nulla di identico, ma che sia smembrata da una
differenza dove svanisce l’identità dell’oggetto visto come dal soggetto che osser-
va. Bisogna che la differenza divenga l’elemento, l’ultima unità, che rinvii dunque
ad altre differenze che mai la identifichino, bensì che la differenzino. Bisogna che
ogni termine di una serie, essendo esso già una differenza, sia posto in un rapporto
variabile con altri termini, e in questo modo costituisca altre serie deprivate di
centro e di convergenza. Occorre, nella serie medesima, affermare la divergenza e
il decentramento. Ogni cosa, ogni essere deve vedere la sua stessa identità inghiot-

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tita nella differenza, ciascuno non essendo altro che una differenza tra differenze.
Bisogna mostrare la differenza che va differenziandosi. Sappiamo che l’opera
d’arte moderna tende a realizzare queste condizioni: in questo senso, essa diviene
un vero teatro, giocando metamorfosi e permutazioni. Teatro senza nulla di fisso,
oppure labirinto senza fili (Arianna si è perduta). L’opera d’arte lascia il dominio
della rappresentazione per divenire «esperienza», empirismo trascendentale o
scienza del sensibile.
(Gilles Deleuze, Différence et répétition, 1968, p. 79)

Il tipo di visione che otteniamo dalle figure è più difficile – e non più facile – da
capire di quello che otteniamo dalla luce ambiente […] le figure sono una parte
fondamentale della vita dell’uomo, come le parole. Sono tremendamente proble-
matiche e infinitamente interessanti […] Una figura è anche una registrazione. Es-
sa consente di immagazzinare, conservare, mettere via per recuperare in un se-
condo tempo, scambiare, gli invarianti che sono stati estratti dall’osservatore –
almeno alcuni di essi. Le figure sono come gli scritti, nella misura in cui possono
essere guardate più e più volte dallo stesso osservatore, e da molti osservatori. I
musei d’arte, come le biblioteche, sono magazzini di conoscenze, che consentono
a queste ultime di accumularsi […] Una figura di che cosa esattamente è la regi-
strazione? Ero solito ritenere che fosse una registrazione della percezione, di quel
che l’autore stava vedendo mentre disegnava occupando un determinato punto di
osservazione […] [L’artista] può registrare cose immaginarie, da quelle probabili
e possibili per giungere sino ai sogni e alle allucinazioni più fantastiche. Può di-
pingere quel che ricorda di cose che possedeva e non esistono più. Può dipingere
finzioni. Ed anche se sta percependo, in qualche maniera vede passato e futuro,
cogliendo più di quel che, nel presente istantaneo, è proiettato sulle superfici. An-
che un fotografo registra un campo di visione, un campione della luce ambiente, e
c’è quindi un’analogia con il guardare con la testa. È una registrazione di quel che
il fotografo ha scelto con la sua attenzione […]. Ogni figura, allora, conserva quel
che il suo creatore ha rilevato e ritiene sia degno di nota. Anche quando dipinge
qualcosa di fantastico, il pittore lo fa ricorrendo a invarianti che ha notato nel cor-
so del suo apprendimento percettivo.
(J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, 1979, pp. 401 e 411)

Trapesunto – Eccoci nuovamente a discutere dei problemi connessi alla percezione,


ma ora sul versante della fruizione dell’opera. Un ambito, questo, vastissimo, attraver-
so il quale si potrebbe addirittura leggere la storia del pensiero occidentale, da Aristo-
tele a Maurice Merleau-Ponty. Innumerevoli, quindi, gli interrogativi che potrebbero
venire alla memoria. Di getto provo a indicarne alcuni, tentando di ancorare il mio di-
re all’oggetto di questo libro. La fotografia, come qualsiasi altra opera dell’espres-
sione umana, trae il suo motivo nell’essere proposta a qualcuno, nel tentare l’incontro
con un potenziale fruitore. Ma chi è il fruitore? Egli è unico o è molteplice? È una
persona singola o una categoria? È un segmento sociale o l’intera opinione pubblica,
intesa come la concepiva Jürgen Habermas, cioè come luogo in cui si opera un uso

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pubblico e collettivo della ragione e del pensare da cui si generano opinioni che tra-
scendono dal soggettivo ed assumono una loro istanza in sé? Quale organizzazione
dei significati può essere letta dal fruitore? Egli legge quello che emerge da ogni sin-
gola opera o conosce un linguaggio più generale, comune a tutti e specifico a nessu-
no? Che cosa osserva in effetti il fruitore? Vede le intenzioni dell’autore oppure quel-
lo che riesce a vedere partendo da sé, dalla propria esperienza?
Soccamone – Anzitutto, non bisogna mai dimenticare che l’uso delle cose insiste
nella regione della produzione. Voglio dire che l’atto fruitivo, il fatto di porsi di fronte
ad un’opera e di coglierla, leggerla, interrogarla, per scovare la direzione dei segnali
in essa contenuti, tutto ciò comporta un’azione del fruitore verso e sull’opera. Il frui-
tore non è passivo ricettore di una informazione, non è un soggetto disinfettato nella
memoria e nei sentimenti e nelle impressioni emotive. Perfino l’atto di leggere svo-
gliatamente un giornale comporta lavoro, quello materiale della lettura in sé, quello
tecnico della comprensione dell’informazione, quello intellettuale della sua rielabora-
zione e confronto con la propria esperienza e memorizzazione. Figuriamoci che cosa
può accadere se invece di leggere il giornale in metropolitana siamo in una galleria
d’arte e miriamo un’opera figurativa, appositamente presentata alla nostra fruizione,
con la luce adatta ed un’aura ambientale tale da favorire la concentrazione di un os-
servare indagatore e profondo. L’autore ha già interamente compiuto il suo lavoro. Ad
agire, adesso, è il fruitore. Che cosa è di fronte al fruitore? Che cosa è rimasto dell’at-
to generativo dell’autore? Sembra banale, ma non lo è affatto: è rimasta un’immagine;
e basta. Il fondamento di quella fotografia è in sé ed è estraneo all’uso che se ne sta
facendo ora. È il gesto fotografico in sé a partire da sé e che si racchiude in sé. Allora
il fruitore non vede altro che un’immagine, quella immagine. Ne consegue che il frui-
tore vede quello che vuole, che può, o che deve. Quello che vuole, perché è sua l’azio-
ne poietica, attiva, produttiva del cercare nell’immagine interrogandola; quello che
può, perché il solo limite che può presentarsi in questo suo indagare è costituito da se
medesimo, dalla propria coscienza; quello che deve, perché i condizionamenti che
possono intervenire nel suo indagare sono innumerevoli e comunque forti. Sto parlan-
do della sua preparazione individuale, intesa come bagaglio conoscitivo e culturale,
delle inevitabili indicazioni di lettura – quali il titolo della fotografia, il titolo della
mostra o del libro, l’indicazione del luogo ove le fotografie sono state realizzate, il
quando sono state scattate, le informazioni sull’autore, la sua biografia artistica, il suo
vissuto personale (sapere che una data immagine è stata realizzata da un fotografo
giapponese invece che americano, a New York invece che a Parigi, nel 1952 invece
che nel 2002, costituisce già una informazione forte, capace di condizionare il fruitore
nel suo indagare l’immagine). Inoltre, bisogna anche considerare il condizionamento
che può venire dalla percezione, diciamo così, empirica, del contenuto manifesto
dell’immagine e del suo significato abituale. L’orinatoio di Marcel Duchamp è sem-
pre un orinatoio, anche se lui lo intitolò Fountain, ed il suo essere oggettivamente tale
costituisce l’elemento su cui l’autore ha giocato attribuendogli una diversa natura, di-
ciamo soggettiva. Infine, non dimentichiamo che, per quanto preparato e disincantato,
il fruitore sarà sempre tentato dal desiderio di dare una spiegazione all’opera, dal cer-
care di leggervi il suo perché, la causa prima di quello che sta osservando, giungendo
a ricercarne gli effetti all’interno dell’immagine medesima.

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Trapesunto – Nel dare una spiegazione dell’opera, il fruitore potrebbe benissimo


fraintendere i molti segnali che la compongono, cogliere direzioni diverse da quelle
intenzionate dall’autore, cadere vittima degli innumerevoli condizionamenti che hai or
ora esaminato. Dunque, la fruizione dell’opera è qualche cosa di estremamente com-
plesso e al tempo stesso labile, difficile da descrivere e da praticare.
Soccamone – Bene fai a sottolineare il peso che nel frangente della fruizione del-
l’opera possono avere l’equivoco, l’incertezza. È come se il fruitore potesse dare e to-
gliere e ridare un senso all’opera nell’osservarla, perché egli è in ogni istante attraver-
sato da questa stessa osservazione; la direzione indicata da uno dei segnali che abitano
l’opera può essere soppressa e poi riemergere da un altro segnale, che rinvia lo sguar-
do circolarmente senza farlo mai quietare, per poi, finalmente, dire, segnalare univo-
camente. È una questione di punti di vista, dell’autore e del fruitore. Il primo è il pun-
to di vista dal quale si fissa il mondo per selezionare le cose che lo abitano; dal quale
si osserva mentalmente l’immagine immaginata che si intende costruire con le cose
del mondo e con lo spazio che le riunisce e che nella visione immaginativa diviene
l’unica possibile garanzia per dare una coerenza a quelle medesime cose. Dall’altra
parte si pone il punto di vista del fruitore dell’opera che, avendo in passato osservato
cose del mondo analoghe a quelle che sono servite per costruire l’immagine, non può
fare a meno di ricostruire una sua possibile immagine, re-immaginandola; è il punto di
vista di chi osserva l’immagine ormai costruita e finalmente prodotta e resa aperta alla
visione generale, stampata in un libro o appesa in una galleria, e tenta di cogliere la
direzione verso cui i segnali impiantati nell’immagine potrebbero indirizzare lo
sguardo, portandolo, insieme alle percezioni che lo accompagnano, verso l’orizzonte
che, chiudendo l’immagine, la definisce, donandole così il necessario carattere di cosa
finita, ma che, al tempo stesso, necessariamente rinvia ad un altro orizzonte possibile
– ad un’altra immagine.
Trapesunto – Uno dei fenomeni cognitivi più discussi – il che non significa affatto
che sia anche uno di quelli su cui si possono consolidare le migliori e fondate cono-
scenze – è relativo alla formazione delle opinioni e dei concetti in base alla consonan-
za. Si tratta di un tema cruciale, ai fini della descrizione della fruizione dell’opera
d’arte in generale e di quella fotografica in particolare. Non appena si tenta di appro-
fondire questa particolare questione si viene sommersi da una letteratura immensa. E,
in quanto tale, inestricabile. Eppure, avere una chiarezza in più su questo tema, tanto
rilevante e importante, sarebbe di grande utilità. In effetti, un osservatore può facil-
mente essere indotto a classificare oggetti o situazioni o eventi tra loro anche assai di-
versi in un’unica categoria.
Soccamone – Ai fini della creazione fotografica, il problema che tu giustamente ri-
cordi è del tutto irrilevante. Aggiungo anche che la critica che ne suggerisce la pre-
senza argomentando intorno ad un’opera fotografica compie un errore grossolano. Il
fatto che il fruitore di un’immagine destinata alla sua presentazione pubblica – quindi
non alla masticazione giornalistica, ma alla mera presentazione attraverso libri o espo-
sizione in galleria – possa cadere nel tranello della consonanza è una delle infinite
possibilità che la presentazione dell’opera comporta, altrettanto possibile e probabile
quanto la sua peggiore incomprensione, quella che mette una distanza abissale tra
l’opera medesima e il suo potenziale fruitore. La consonanza non c’entra. Molti autori

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la cercano; oppure cercano la dissonanza; oppure entrambe. Perché nel suo cercare
cose del mondo adatte a costruire l’immagine che ha immaginato, l’autore si muove
nell’intenzione di delineare l’idea di un orizzonte che racchiuda un campo di segnali
capace di dire quello stesso orizzonte. Nello stesso tempo, e grazie proprio alle asso-
nanze, consonanze o dissonanze che le cose del mondo gli hanno offerto e che egli ha
colto e utilizzato per restituirle diverse, l’autore si muove in un mondo che è assolu-
tamente ancora pensabile ma, forse, non più diversamente dicibile.
Trapesunto – Ti stai riferendo alle opere di natura astratta? Ricordo che Arnheim
vedeva nell’arte astratta un conflitto cognitivo, generato dal contrasto tra l’immagine
priva di un significato evidentemente percepibile e il bisogno del fruitore di attribuire
un senso evidente ad ogni cosa, quasi l’uomo fosse costantemente vittima di una pul-
sione esplicante e completante di ogni cosa.
Soccamone – Hai detto bene: esplicante e completante. Ma ne siamo poi sicuri?
L’uomo premoderno di fronte ad un segno di cui non conosceva il significato invoca-
va gli Dei. Poi, con Platone, quindi con Aristotele, infine con Cartesio, il causalismo
ha preso gradualmente ma efficacemente il sopravvento. Il metodo scientifico ha orro-
re dell’incertezza delle cause e dell’incompletezza dei contorni esattamente così come
non tollera la discontinuità ed il Sorprendersi. Questo, anche se molte correnti artisti-
che si sono rifatte proprio a questi meccanismi. Basti pensare ai processi di comple-
tamento dell’immagine nelle opere di Magritte o a quelli di ricostruzione tipici del cu-
bismo, attraverso i quali da pochi dettagli schematizzati è possibile risalire alla figura.
In questi casi è come se, paradossalmente, l’autore lasciasse parte dell’opera incom-
piuta, affidando l’onere di chiudere il cerchio al fruitore, che compie il percorso man-
cante rielaborando nell’intelletto l’immagine incompleta. È del resto della facoltà u-
mana ricomporre e riorganizzare le percezioni. Dice Alberto Oliverio che l’uomo ha
una tale capacità di astrazione, sugli oggetti della realtà concreta, per cui non c’è dif-
ferenza tra vedere e pensare, in quanto, nella percezione, si mettono in moto meccani-
smi di strutturazione ed astrazione della realtà che sono gli stessi del pensiero.
Trapesunto – Le ricerche neurofisiologiche indicano che le aree corticali coinvolte
nella visione, situate in zona occipitale, non sono soltanto la V1, deputata essenzial-
mente all’elaborazione delle informazioni raccolte dalla retina, ma anche alcune aree
limitrofe, in particolare la V4 e la V5. Con la tomografia ad emissione di positroni si
sono trovati indizi secondo i quali nelle aree circostanti a quella tipicamente visiva si
avverte attività connessa alla percezione ed alla rielaborazione dei colori e del movi-
mento. Dalla retina, che potremmo definire come sensore primario, si giunge così ad
un complesso elaborativo molto sofisticato. È come per la tecnica ed il senso: l’occhio
è la tecnica, la macchina fotografica naturale, mentre il senso è nel cervello. Come
conciliare questi risultati, con l’idea di Arnheim, per cui il significato non è né ciò che
l’opera raffigura, né i valori formali che essa incarna, né la vita o il vissuto dell’artista
che l’ha prodotta, né gli elementi storico-stilistici che essa documenta, per cui il signi-
ficato si trasmetterebbe direttamente dallo schema compositivo?
Soccamone – Sarebbe come dire che in una fotografia di una porta ciò che viene
colto dall’osservatore non è la porta ma la “portità”. Bisognerebbe anzitutto mettersi
d’accordo su che cosa esattamente sia lo schema compositivo e se esso davvero esiste.
Ho il fondato timore che muovendosi in questa direzione si finisca con il livellare tut-

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to verso un’eccessiva semplicità. A voler sempre tutto chiarire, a voler sempre dire da
dove ogni cosa inizia e per qual causa, a voler in ogni frangente indicare il senso di
ogni evento, si finisce con il diluire e ammorbidire ogni contrasto e ogni dissonanza.
Come un mettere ordine nel caos dell’immediatezza per costruire un cosmo ove tutto
è regola e prevedibilità. Credo sia opportuno prendere le distanze da simili atteggia-
menti, così come anche dalle teorie della schematizzazione care a Ernst Gombrich.
Rimane, credo, che una psicologia dell’espressione non risolve i problemi che mette
in causa. Si ferma molto prima di arrivare vicino ad essi, quando si costituisce come
procedura coerente che organizza le caratteristiche rappresentative. L’elenco delle ca-
ratteristiche possibili è inesauribile. Ce n’è sempre una possibile in più e che si dimen-
tica. È la logica classificatoria del sapere scientifico, che presuppone il reticolo del già
noto e la previsione dei processi, che si riversa in un ambito che non è conoscibile se-
condo quello schema, perché trascende la proiezione schematica e si rifugia proprio in
quello che chiamiamo arte, una cosa che non si può e forse non si dovrebbe nemmeno
tentare di definire. Bastano le emozioni che suscita, le intuizioni che permette di libe-
rare, le possibilità ulteriori che suggerisce.
Trapesunto – Proprio secondo l’approccio psicologico di molti autori, il valore e-
spressivo di un’opera starebbe nell’equilibrio, nel bilanciamento, nella gerarchia, nel-
l’ordine delle componenti, nell’assenza di ambiguità. Questo mentre molti altri stu-
diosi, riferendosi ad un approccio di tipo estetico, vedono l’espressività dell’opera in
azione attraverso l’ambiguità, la polivalenza, la capacità di sommergere di significati
possibili ogni osservatore fino a sottrarsi alla logica del significato. Sono due poli di
un dilemma che ha attraversato perfino l’esperienza di singoli studiosi. Pensiamo ad
Arnheim, ancora una volta, che nel 1962 diceva che non bisogna spingere l’in-chiesta
sul significato più lontano del punto cui avrebbe condotto l’evidenza diretta, accessi-
bile agli occhi, e vent’anni dopo sosteneva che l’artista organizza la ricca rete di rela-
zioni con quanto potrebbe chiamarsi la sua intelligenza intuitiva, e la ricchezza della
struttura formale riflette una corrispondente profusione di significati.
Soccamone – Forse, un’immagine fotografica andrebbe compresa dal suo interno,
andrebbe ri-prodotta dal fruitore per poter essere colti dal Sorprendersi. Bisogna con-
venire con Manfredo Massironi che la psicologia dell’arte ha fallito. Colpa dell’ina-
deguatezza degli strumenti teorici di cui la psicologia disponeva – scrive Massironi ne
L’osteria dei dadi truccati – a fronte del mondo di percezioni ed emozioni che l’arte
genera nelle persone. La psicologia non poteva non avventurarsi in questo cammino
così ricco di stimoli e che pienamente attiene proprio all’animo umano, ma lo ha fatto
attraverso tali e tante e necessarie semplificazioni da non cogliere infine quasi nulla di
fondato.

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