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INTERVISTAA PAOLO GUERRIERI

INTERVISTAA PAOLO GUERRIERI*


di Tiberio Graziani e Daniele Scalea

Nel contesto della crisi finanziaria e dei suoi effetti di medio-lungo termine,
quali sono le prospettive dell’Italia? In particolare, come valuta le azioni fino
ad ora intraprese dal Governo?

Nel caso dell’Italia, la combinazione di un elevato indebitamento, una competitività


declinante e una crescita anemica fanno sì che nella prospettiva di un contesto europeo
in cui perdurino i timori sull’effetto contagio derivante dalla crisi della Grecia l’economia
italiana resterà in una posizione di forte vulnerabilità nei prossimi due-tre anni, soprattutto
di fronte a shock negativi che dovessero prodursi in conseguenza delle forti incertezze
che continuano a caratterizzare gli scenari di ripresa mondiale.
Va certamente riconosciuto che l’azione dell’Italia in questi ultimi anni è stata
caratterizzata da particolare prudenza sul fronte della politica di bilancio pubblico, in
direzione diametralmente opposta a quella della Grecia nello stesso periodo. Restano
tuttavia i problemi di un elevatissimo stock di debiti e di una forte perdita di competitività
(in termini di costo del lavoro per unità di prodotto) nei confronti della Germania e di
altri paesi forti dell’area dell’Euro che abbiamo accumulato in tutti questi anni di vita
dell’Euro a causa del deludente andamento della nostra produttività.
Se non verranno affrontati con misure adeguate, entrambi questi processi rischiano
di strangolare la capacità di crescita dell’Italia nei prossimi anni. Il ristagno della
crescita, a sua volta, potrebbe determinare un peggioramento del nostro stock di
debiti e della capacità di farvi fronte. Queste difficoltà, infine, potrebbero indurre una
reazione dei mercati finanziari, spingendo verso l’alto, in una sorta di spirale perversa,
il premio di rischio sui nostri titoli e il costo di rinnovo dei nostri debiti. Le cose a quel
punto diverrebbero estremamente complicate anche per il contesto di turbolenze e
forti incertezze che continueranno a pervadere i mercati internazionali nei prossimi
anni.
È dunque dal ristagno della crescita che potrebbero venire i maggiori rischi per la
nostra economia. Per scongiurarli bisognerebbe fare di tutto per innalzare il nostro
potenziale di crescita sceso al di sotto dell’1% negli scenari del dopo crisi. Ma a
questo riguardo l’azione del Governo è stata e rimane assolutamente carente. Non è
stata varata alcuna politica di qualche efficacia, né dal lato della domanda né da
quello dell’offerta, e soprattutto nessuna riforma di rilievo, anche tra quelle a costo
zero e che da anni vengono invocate. È stata scelta la linea del rigore nelle politiche
di bilancio, ma per il resto si continua ad aspettare e sperare nella ripresa europea e
internazionale. Un po’ poco davvero dal momento che la nostra ripresa – come molti
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temono e sono tra questi – rischia di essere ostacolata dalla bassa produttività e dai

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perduranti fattori di crisi esistenti al nostro interno.

Il grado di competizione tecnologica di un paese altamente industrializzato


è indubbiamente un indice del suo stato di salute. L’Italia in tale ambito non
pare brillare affatto. Secondo gli ultimi rilievi europei sull’innovazione riportati
nell’European Innovation Scorebord 2009, l’Italia, valutata un “moderate
innovator”, presenta una prestazione ed un tasso di crescita inferiori alla
media europea. Quali sarebbero, a suo avviso, le cause principali? E quali le
strategie da adottare per superare il gap con gli altri paese dell’Unione?

Il sistema produttivo italiano, al di fuori dei settori di vantaggio comparato quali


moda, arredo-casa, agroalimentare e, soprattutto, meccanica strumentale, continua a
presentare diffuse debolezze e una forte despecializzazione, a differenza degli altri
maggiori nostri concorrenti, in quasi tutte le attività ove predominano grandi dimensioni
e economie di scala, e ove le spese di Ricerca-Sviluppo sono relativamente più elevate
(chimica, farmaceutica, nuovi materiali, elettronica, informatica). Tra le cause, la fragilità
della struttura industriale italiana nel suo complesso, troppo appiattita sulle piccole e
piccolissime unità. Per quanto dinamica e flessibile, la micro-impresa penalizza la
capacità di innovazione complessiva del sistema produttivo italiano, soprattutto in termini
di specializzazioni, determinandone l’assenza da pressoché tutti i settori più dinamici e
innovativi, rendendo altresì precaria, e comunque sottodimensionata, la sua presenza
all’estero.
Più di recente, prima della crisi, si è verificato un deciso rafforzamento della presenza
di molte imprese italiane, soprattutto quelle di media dimensione, sui mercati
internazionali. Ma restano le fragilità competitive dell’insieme del sistema produttivo
legate alle caratteristiche prima ricordate e che non a caso sono esplose con l’irruzione
dei paesi emergenti (Cina, India, Brasile e altri) nell’economia mondiale. E la crisi ha
aggravato queste fragilità.
Servirebbero profonde ristrutturazioni in grado di favorire un salto di qualità
organizzativo e produttivo allo stesso tempo di molte nostre imprese, soprattutto piccole
e piccolissime. Perché questi processi si sviluppino e abbiano successo sono necessarie
condizioni di contesto favorevoli. A questo riguardo un contributo determinante dovrebbe
venire dall’intervento pubblico, attraverso misure, interventi e politiche economiche
adeguate.
Sarebbero necessarie in primo luogo politiche, soprattutto industriali, rivolte alla
produzione e alla ricerca che aiutino le nostre imprese ad aggregarsi, a innovare, a
internazionalizzarsi. Bisognerebbe promuovere allo stesso tempo i cambiamenti
strutturali necessari per affrontare con successo la concorrenza futura, che vanno
avviati subito anche se avranno effetti inevitabilmente differiti nel tempo. Ne fanno
parte a pieno titolo i cosiddetti ‘nuovi motori’ della crescita e dell’occupazione, come
nel campo delle tecnologie digitali (ICT), della ricerca di base e applicata, dell’ambiente
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e delle tecnologie energetiche alternative.

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