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IL COMUNISMO ITALIANO NELLA SECONDA METÀ DEL ‘900

IL COMUNISMO ITALIANO
NELLA SECONDA METÀ DEL ‘900
di Costanzo Preve

1. Prologo

Ha scritto il romanziere turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006
(cfr. Neve, Einaudi, Torino 2004, p. 122): “Mio padre a volte dice che tutto questo gli
ricorda i giorni in cui era comunista. Ci sono due tipi di comunisti: gli orgogliosi, che
intraprendono questa via per educare il popolo e per far progredire il paese; e gli
innocenti, che intraprendono questa via con un sentimento di giustizia ed eguaglianza.
Gli orgogliosi sono assetati di potere, danno consigli a tutti, e da loro arriva soltanto
cattiveria. Gli innocenti invece fanno male soltanto a se stessi, che è l’unica cosa che
vogliono. Mentre in preda al senso di colpa vogliono condividere il dolore dei poveri,
vivono ancora peggio di loro”.
Pamuk parla della terribile generazione dei giovani comunisti turchi degli anni
settanta ed ottanta, che ho conosciuto bene, e che hanno pagato con emarginazione,
morte, esilio e torture, fino a che il popolo ha capito che non erano loro la soluzione,
essendo soltanto una caricatura estremizzata dell’occidentalismo kemalista, e si è
rivolto all’Islam. È evidente che questi “comunisti” non hanno avuto nulla a che fare
con quelli italiani, con i grassi ed ipocriti cooperatori emiliani, con i dirigenti delle
municipalizzate di “sinistra” passati dai duemila ai diecimila euro al mese, e con le
mandrie di “intellettuali di sinistra” mediocri che hanno supplito con la loro
“appartenenza” alla loro povertà creativa. E tuttavia l’esteta Pamuk coglie un punto
essenziale che sfugge alla stragrande maggioranza dei commentatori.
Il comunismo è stato indubbiamente un fenomeno sociale, politico ed ideologico,
ma è stato soprattutto un fenomeno antropologico. Il comunismo ha infatti prodotto
un tipo-umano-medio, così come il valore di scambio della merce capitalistica si basa
sul tempo di lavoro sociale medio incorporato in esso. La politologia contemporanea,
sorta con Hobbes e Locke e poi sviluppatasi con Rousseau, Tocqueville e Weber, non
può assolutamente capirlo, perché si concentra sulle forme di stato e di governo e
sulle corrispondenti istituzioni (e si veda l’approccio politologico più sterile del mondo,
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quello di Norberto Bobbio), anziché studiare il tipo umano medio di massa prodotto da

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un certo tipo di sistema politico. In proposito i frequentatori abituali dei bar stanno
molto al di sopra dei dipartimenti universitari di politologia, in quanto riconoscono
subito da come parla (ed addirittura da come si muove) il comunista, il berlusconiano,
il leghista, il fascista, eccetera. Così come il borghese di Molière parlava in prosa
senza saperlo, così l’ultimo frequentatore dei bar potrebbe descrivere nei più piccoli
particolari il comunista, il democristiano, il leghista ed il berlusconiano, eccetera, senza
essere mai venuto a conoscenza degli “ismi” ideologici di riferimento. Si vedano in
proposito i Caratteri di Teofrasto.
Già, Teofrasto, il migliore allievo di Aristotele. Oggi lo si è dimenticato, ma il pensiero
filosofico greco prestava un enorme interesse alle diverse costituzioni delle poleis,
ma lo faceva perché queste costituzioni erano delle vere e proprie “macchine
antropologiche” di massa. D’altronde, a Platone interessava prima di tutto mostrare
come veniva prodotto timocratico, l’uomo aristocratico, l’uomo oligarchico, l’uomo
democratico e l’uomo tirannico. Risparmio al lettore l’ampia citatologia di riferimento,
perché mi interessa arrivare subito al nocciolo del problema e cioè la progressiva
costituzione storica (in Italia e solo in Italia) del codice antropologico “comunista”,
codice che sopravvive alla dissoluzione del comunismo storico novecentesco
propriamente detto e si trasmette in cloni, mutanti ed androidi posteriori. Si tratta di un
curioso stalinismo postmoderno, stalinista nella forma e postmoderno nel contenuto,
di cui la cosiddetta “sinistra” non può accorgersi, perché chi è nell’occhio del ciclone
non può sapere che c’è il ciclone, ed il problema, in quanto problema, non può essere
la soluzione di se stesso.
Ma facciamo un passo per volta.

2. Il codice gramsciano originario del comunismo italiano

Per cominciare a capire qualcosa del comunismo storico italiano (CSI), da distinguere
accuratamente dal comunismo utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è intenzionale,
in quanto pensare di far diventare la storia una scienza simile a quelle naturali moderne
è una utopia irrealizzabile) e dal modello generale del comunismo storico novecentesco
realmente esistito (un dispotismo sociale egualitario edificato sotto una cupola geodesica
protetta) è meglio non perdersi nel fuorviante chiacchiericcio politologico ed andare
subito a “stringere” il cuore del problema. Ed il cuore del problema sta nella corretta
ricostruzione dei profili filosofici dei due grandi (e grandi “a pari grado”) fondatori del
comunismo italiano, il napoletano Amadeo Bordiga (1889-1970) ed il sardo Antonio
Gramsci (1891-1937). Bordiga si rifaceva alla centralità positivistica del modello
previsionale delle scienze della natura (era un ingegnere che disprezzava con tutto il
cuore la filosofia idealistica), mentre Gramsci era filosoficamente un neo-idealista
integrale (ho detto integrale, non parziale). La pigrizia inerziale dei manuali di storia
della filosofia balbetta da più di mezzo secolo che ci furono due grandi neo-idealisti
italiani, Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Errore. Ce ne furono almeno tre: Giovanni
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Gentile, Benedetto Croce e Antonio Gramsci. Soltanto chi politicizza istericamente la

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filosofia riducendola a militanza politica “colta” non riesce a capire che si possono
fare scelte politiche diverse ed anzi opposte (Gentile fascista, Croce liberale e Gramsci
comunista) pur condividendo l’identico paradigma filosofico. Si pensi alla concezione
della Tecnica da parte di Gunther Anders e di Martin Heidegger. Ma gli esempi
potrebbero essere moltiplicati.
Il modello positivista-meccanicista di Amadeo Bordiga si basava in economia su di
una teoria del crollo del capitalismo ed in filosofia su di una continua, asfissiante e
reiterata polemica contro l’idealismo in tutte le sue forme. Essa è poco nota, perché
Bordiga scriveva spesso in forma anonima e senza firmare (ma il suo stile partenopeo
era inconfondibile, come quello di Totò e di Eduardo De Filippo), ma chi vuole farsene
un’idea può rivolgersi alle scuole di Galvano Della Volpe e di Louis Althusser. L’esito
comunque è prefissato e noto ormai nei più piccoli particolari, un po’ come in una
collaudata reazione chimica: chi pretende di fondare il marxismo su di una base
esclusivamente scientifica (nel senso delle scienze naturali, non della nobile Scienza
della Logica di Hegel) prima o poi si accorgerà che è impossibile, ed allora compierà
un inevitabile suicidio rituale.
Il modello neo-idealistico di Antonio Gramsci era invece un modello di pedagogia
politica. La filosofia della prassi, infatti, si risolve inevitabilmente in una pedagogia
politica organizzata. L’idealismo (parlo dell’idealismo moderno a base storica di Fichte,
Hegel e Marx, non dell’idealismo antico a base geometrico-pitagorica di Platone e
della sua scuola) sostituisce al concetto della verità come certezza e come corretto
accertamento (Cartesio, Locke, Kant, positivismo, teoria del rispecchiamento,
eccetera) un concetto di verità come acquisizione progressiva di una autocoscienza
attraverso il ripercorrere delle vicende dialettiche dell’intera umanità concepita come
un unico soggetto “ideale” (cfr. la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, base
filosofica del comunismo più importante ancora dello stesso Capitale di Marx). In
questo senso l’idealismo (e quindi anche il neo-idealismo di Gramsci) è una grande
pedagogia politica di massa, un processo illuministico di “rischiaramento” che
presuppone sia la famosa Egemonia sia il famoso Moderno Principe.
Il discorso sarebbe lungo ed appena cominciato, ma devo qui chiuderlo per ragioni
di spazio. Ciò che conta è che già in Gramsci il comunismo è concepito come una
gigantesca operazione idealistico-pedagogica di massa.
Aveva ragione Gramsci o Bordiga? La questione è oggi puramente archivistica ed
archeologica. Rispondo in modo telegrafico: se esistesse realmente una tendenza
strutturale immanente al crollo della produzione capitalistica allora avrebbe ragione
Bordiga; ma siccome non esiste, e la prassi umana è essenziale, ed il comunismo non
può risultare che da un contraddittorio processo di auto-educazione umana (ammesso
che sia possibile, ma questa è un’altra storia), allora indubbiamente Gramsci ha ragione
su Bordiga.

3. Il codice togliattiano del comunismo italiano dopo il 1945 (picismo)


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Palmiro Togliatti (1893-1964) è stato colui che ha determinato in modo essenziale


il codice pedagogico-culturale del partito comunista italiano (1943-1991). Il lettore si
stupirà nel leggere questa periodizzazione (1943-1991), anziché quella più nota (1921-
1991). A parte il fatto (non rilevante) che dal 1921 al 1943 è esistito il PCdI (partito
comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale, 1919-1943), e solo dal 1943 è
esistito il PCI (partito comunista italiano), si tratta di cogliere un fatto molto importante,
che prescinde dalle irrilevanti sigle, pascolo per storiografi pedanti privi di intelligenza
filosofica.
Personalmente, preferirei per non far confusione usare il termine comunismo per
indicare l’intera traiettoria del comunismo storico novecentesco realmente esistito
(da non confondere con la simulazione del chiacchiericcio dei salotti romano-
romaneschi, dove il signor Magri parlava con la signora Rossanda), e il termine
“picismo” per indicare invece il concreto PCI dal 1943 al 1991, produttore di un
profilo antropologico di massa la cui “lunga durata” braudeliana non si è ancora esaurita
(anche se è in progressivo esaurimento). La mia considerazione intuitiva del
comunismo come fenomeno storico complessivo sta nel motto “ci voleva, anche se
non si potevano prevedere i danni collaterali”. La mia considerazione intuitiva del
picismo come fenomeno antropologico è grosso modo quella di don Abbondio ne I
Promessi Sposi “le ho viste io quelle facce!”. E con questo il lettore avrà capito
come la penso in proposito.
Ma torniamo alle cose serie. Togliatti capì subito che nell’Italia occupata dagli
eserciti inglese e americano qualsiasi rivoluzione comunista era impossibile, e disprezzò
sempre (a mio avviso, giustamente) i confusionari che parlavano di “momento buono”.
Non ci fu mai in Italia un momento buono (vedi Grecia 1946-1949, eccetera). Ci
voleva la famosa “guerra di posizione” di Gramsci, estrapolata dalla prima guerra
mondiale e dalle sue trincee. Ma la guerra di posizione, trasportata nella società,
presuppone una strategia di pedagogia politica. Il materialismo dialettico e le sue
stupide (ed inesistenti) leggi dialettiche comuni sia alla natura che alla storia era del
tutto inutile. Ci voleva una forma di storicismo, che anche se si travestiva da
materialismo (nel senso che Dio non ha fatto il mondo, ma come insegna Darwin il
mondo si è fatto da solo), era semplicemente il buon vecchio neo-idealismo integrale
di Antonio Gramsci.
In termini essenziali, si trattava di un neo-idealismo storicistico di “sinistra”, che
presupponeva l’ideologia del progresso e si basava sul presupposto che la borghesia,
in quanto classe parassitaria, fosse incapace di sviluppare le mitiche forze produttive.
Una teoria forse più plausibile di quella della terra piatta, ma non di molto. Collochiamoci
nel 2010, e cerchiamo di sostenere che il capitalismo è stato incapace di sviluppare le
forze produttive. Qualunque osservatore vi dirà che invece le ha sviluppate benissimo,
sino al punto di rendere credibile addirittura una “decrescita” ben gestita.
Sarebbe però inutile continuare a sparare sulla Croce Rossa. Chi non ha mai
peccato scagli la prima pietra. Il problema sta altrove, e sta nella dinamica decennale
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di socializzazione antropologica risultante da un progetto (originariamente gentiliano-

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gramsciano) di pedagogia politica.


Può sembrare a prima vista orribile e mostruoso, ma se si guardano le cose al di
fuori della occhialeria ideologica si vedrà che la struttura ideologica ed organizzativa
del PCI (partito comunista italiano) è stata costruita sulla base del modello del PNF
(partito nazionale fascista). Le due corrispondenti (e complementari) tifoserie
ideologiche potranno anche alzare lamentosi squittii di indignazione virtuosa, ma i fatti
sono sempre più “duri” degli squittii ideologici identitari. Non intendo affatto negare,
ovviamente, che nella falsa coscienza necessaria degli agenti storici, e cioè in questo
caso dei militanti del PCI, il modello politico cui si pensava soggettivamente in buona
fede di aderire era il modello comunista sovietico, quello bolscevico-staliniano (con la
sola differenza che la tradizione cattolica italiana impediva di mummificare i dirigenti
defunti). Ma la lunga durata della storia italiana novecentesca non lasciava dubbi in
proposito. Era il modello popolare della “sinistra” del PNF che veniva proseguita
sotto altra forma, tenendo fermo il culto del capo che ha sempre ragione (qui la
trasposizione fra Mussolini e Togliatti era addirittura palese, ed una delle funzioni
sistemiche del mantenimento istituzionale dell’antifascismo in progressiva assenza di
fascismo era proprio quella di nascondere questo parallelismo inquietante dietro una
cortina fumogena di drammatizzazione partigiana ed antifascista).
Avviso ai naviganti. Non vorrei che il lettore distratto, prevenuto, pio e politicamente
corretto pensasse che questo mio sobrio parallelismo fra il PNF di Mussolini ed il PCI
di Togliatti fosse finalizzato ad una apologia dell’occidentalismo imperialistico liberale
(ribattezzato oggi virtuosamente “giudaico-cristiano” non c’è limite alla sfacciataggine)
contro il cosiddetto totalitarismo ideologico novecentesco fascista-comunista. Non è
questa la mia intenzione, e vorrei subito dissipare simili eventuali fraintendimenti. Il
mio giudizio complessivo sull’occidentalismo imperialistico liberale è addirittura peggiore
(peso le parole, e so quello che dico) del mio giudizio sul fascismo (italiano) e sul
comunismo (sovietico). Non è ovviamente questa la sede per argomentare il mio
giudizio, e rimando allora frettolosamente il lettore a due testi recenti in cui
sostanzialmente mi riconosco (cfr. L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro,
Il Prato, Saonara 2009; M. Badiale-M. Bontempelli, Civiltà Occidentale, Il Canneto,
Genova 2009). Mi scuso per questo avviso ai naviganti, ma non vorrei essere frainteso
su di un punto tanto essenziale.
Tornando però alla recente storia italiana, per non fare confusione è meglio stabilire
una periodizzazione, rivolta soprattutto non tanto alla sfera politica di superficie, con
gli irrilevanti faccioni di politici e di politicanti, quanto alla profondità antropologica
che è il mio vero ed unico obbiettivo conoscitivo.

4. Il ventennio dell’alleanza emancipativa: 1948-1968

Secondo lo storico italiano Claudio Pavone la Resistenza italiana 1943-1945 è in


realtà stata l’intreccio inestricabile di tre componenti diverse: una guerra di liberazione
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nazionale, una guerra di classe ed una guerra civile. Personalmente sono d’accordo,

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