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CHIESA E STATO

CHIESA E STATO
di Alessandra Colla

“Libera Chiesa in libero Stato”: ecco tutto quello che generazioni di italiani sanno,
o ricordano, di Camillo Benso conte di Cavour (1).
Lungi dall’averle pronunciate in punto di morte (avvenuta il 6 giugno 1861, dopo
una vita spesa al servizio dei Savoia più che dell’Italia), il Cavour le disse poco prima,
il 27 marzo 1861, intervenendo al Parlamento italiano con un discorso memorabile
sfociato nella proclamazione di Roma capitale del neonato Regno d’Italia.
Molto ci sarebbe da dire, al riguardo: ma per non passare sotto le forche caudine
dell’ingabbiamento ideologico basterà appellarsi all’insospettabile Émile Zola, che così,
nel 1896, compendiava le premesse e i risvolti pratici dell’unificazione d’Italia:
«[…] Il conte di Cavour, da fine politico, lavorava da tempo all’indipendenza
e preparava il Piemonte al ruolo decisivo che esso avrebbe dovuto giocare. [...]
In quella ruvida e scaltra Casa Savoia, il sogno di realizzare l’unità d’Italia a
vantaggio della monarchia piemontese veniva da lontano, maturando lentamente
da anni. […] Si trattava ora di prendere possesso di Roma, di farne una capitale
moderna, la sola degna di un grande regno […] . Era una questione d’orgoglio:
bisognava mostrare al governo sconfitto del Vaticano ciò di cui l’Italia era
capace, e quale splendore avrebbe irraggiato la nuova Roma, la terza Roma
che avrebbe superato le prime due, l’imperiale e la papale […] . L’orgoglio,
l’ambizione di superare in splendore la Roma dei Cesari e quella dei papi, la
volontà di assecondare il destino della Città Eterna facendone ancora una volta
il centro e la regina della terra: furono essi a dare inizio all’opera di ricostruzione,
ma fu la speculazione che la portò a termine. […] Una torma di speculatori
provenienti dall’Italia settentrionale si abbatté su Roma, la più ambita e la più
facile delle prede. […] La popolazione romana aveva ormai superato i
quattrocentomila abitanti, e sembrava restare stazionaria: il che non impedì
che innumerevoli quartieri nuovi spuntassero come funghi. Ma per quale popolo
a venire si costruiva con questa furia? In virtù di quale aberrazione non si
EURASIA

riusciva ad aspettare l’arrivo dei nuovi abitanti, preferendo approntare migliaia


di alloggi per le famiglie che forse sarebbero arrivate, chissà, domani? L’unica

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DOSSARIO

giustificazione stava nell’essersi detti, nell’aver supposto, nell’aver stabilito


come verità indiscutibile che la terza Roma, la capitale trionfante dell’Italia,
non poteva avere meno di un milione di anime. […] A Roma si era costruito a
credito, e soprattutto con denaro straniero. Si stima che l’enorme somma
inghiottita assommasse a un miliardo circa, e che quattro quinti fossero denaro
francese. Di fronte al pericolo concreto di una bancarotta generale, dovette
intervenire lo Stato: una semplice crisi edilizia divenne uno spaventoso disastro
finanziario, un rischio di rovina nazionale — un miliardo buttato via, Roma
imbruttita, ingombra di rovine fresche e imbarazzanti, migliaia di alloggi vuoti
e abbandonati, in attesa di quei cinque o seicentomila abitanti a lungo sognati
e non ancora giunti. Del resto, era lo Stato stesso a pensare in grande. Si trattava
di creare dal nulla un’Italia trionfante, di farle compiere in venticinque anni il
percorso di unità e grandezza che le altre nazioni hanno impiegato secoli per
consolidare. Così, ecco dovunque un’attività febbrile, spese inaudite, canali,
porti, strade, ferrovie, opere pubbliche immani in ogni città. S’improvvisava, si
organizzava la grande nazione, senza fare neanche quattro conti» (2).
Zola, s’è visto, scriveva nel 1896, cioè per così dire a botta calda. Ora siamo nel
2010, e il prossimo anno si festeggerà il centocinquantesimo anniversario dell’unità
d’Italia: ma non sembra che le cose siano molto cambiate da allora.
La “terza Roma” non ha ereditato nessun pregio dalle Urbes che la precedettero
- anzi, come certi sciagurati rampolli di dinastie dai lombi troppo guasti, assomma in sé
tutte le pecche di entrambe. E poi, siccome la Gestalttheorie insegna che il tutto è
più che la somma delle parti, ci ha messo del suo. (Se si dovesse indicare il momento
preciso in cui ciò avvenne, lo si potrebbe forse fissare convenzionalmente negli ultimi
mesi del 1943, quando giochi di portata inimmaginabile cominciarono ad essere fatti
oltreoceano e oltremanica: ma si finirebbe ben al di là dei limiti di questo scritto).
Oggi come oggi, lo status di Roma sembra essere irrimediabilmente quello di “doppia
capitale”: capitale dello Stato italiano, e al tempo stesso capitale della Cristianità.
Anomalia singolare, già avvertita ai tempi di Cavour - «Sono oramai circa due lustri
da che sentiamo formolato così un quesito: Roma è dei Romani, o è dei cattolici?»
(3) - e che sta all’origine della cosiddetta “questione romana”, alla quale si credette
di aver trovato una soluzione soddisfacente con i Patti Lateranensi siglati l’11 febbraio
1929 (4).
In realtà, fu proprio allora che l’attribuzione della sovranità territoriale allo Stato
del Vaticano, costituito per l’occasione, aprì la strada ad altri e non meno complessi
problemi relativi alla gestione dei rapporti fra i due Stati e delle relative competenze;
e non era stato un buon profeta Carlo Boncompagni, deputato al Parlamento e Ministro
plenipotenziario di Vittorio Emanuele II, nello scrivere che «Roma capitale, solleva
naturalmente la grande questione del potere temporale del Papa, una di quelle
questioni di cui, disse un giorno l’onorevole Cesare Cantù, che un secolo le
solleva ed un altro le risolve» (5).
EURASIA

Già il termine stesso di “concordato” prestava da tempo il fianco ad alcune fondate

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