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D’Annunzio: la vita privata, le imprese, i rapporti col

fascismo

D’Annunzio può essere considerato il primo “influencer” della società di


massa, ma con un apparente paradosso di fondo: disprezzava le masse... Così
come disprezzava il mercato (in nome dell’arte pura), e tuttavia meglio di
chiunque altro fu in grado di comprenderne e sfruttarne tutte le potenzialità
promozionali.
Non ci stupiscono quindi le sue numerose collaborazioni come “pubblicitario”
e la sua capacità di sfruttare tutti i media a disposizione: dai giornali al teatro
al cinema.
Ogni canale di comunicazione di massa era buono per il suo esibizionismo
sfrenato, che lo portò precocemente a costruirsi la figura del “divo”, del poeta
“vate”.
Una figura dietro la quale si celava in realtà anche un D’Annunzio
“crepuscolare”, malinconico, preda delle proprie inquietudini.

L’influenza dannunziana si concretizzò in un vero e proprio


“dannunzianesimo”: da intendersi non soltanto come fenomeno letterario, ma
come vero e proprio fenomeno di costume, fondato sul modello del “vivere
inimitabile”, fuori dalla norma comune, al di là di ogni limite, secondo il
concetto (centrale nell’Estetismo) del fare della vita stessa “un’opera d’arte”,
del poeta-artista che al tempo stesso è artefice e protagonista del proprio
capolavoro (in Inghilterra era il modello del “dandy” incarnato da Oscar Wilde).
Lussi raffinati, sensazioni preziose, avventure erotiche, ma anche imprese
militari: con D’Annunzio l’esteta si trasforma in “superuomo”, nel momento in
cui diventa poeta-soldato.

La sua parabola esistenziale durò circa 75 anni: dall’Unità di Italia alla vigilia
della IIGM.
Nato a Pescara (Abruzzo) nel 1863, morì a Gardone (sul lago di Garda) nel
1938.
Era di 8 anni più giovane di Pascoli, altro volto del Decadentismo italiano: due
figure antitetiche e tuttavia complementari, anche per il modo in cui
interpretarono in maniera personale la poetica simbolista di derivazione
francese e la lezione della classicità.

D’Annunzio non sarebbe stato “D’Annunzio” se avesse mantenuto il suo nome


reale: Gabriele Rapagnetta. Era stato già il padre ad adottare il più nobile
cognome D’Annunzio dallo zio adottivo: il padre era un agiato possidente
terriero, ma era anche un dongiovanni e uno scialacquatore (caratteristiche
che lascerà in eredità al figlio).
Mandò il figlio a studiare (e a “toscanizzarsi”) presso l”aristocratico collegio
Cicognini di Prato, e Gabriele si mise in mostra fin da subito per il suo genio e
la sua sregolatezza.

All’età di 16 anni pubblicò la sua prima raccolta poetica, “Primo vere” (di
ispirazione carducciana),a spese del padre. Il suo talento fu riconosciuto subito
dalla critica ma D’Annunzio sapeva che non poteva bastare e seppe sfruttare i
meccanismi autopromozionali del marketing, diffondendo la falsa
notizia (fake news) della sua morte, a seguito di una caduta da cavallo, poco
prima della pubblicazione della nuova edizione della sua raccolta d’esordio,
garantendosi in questo modo immediato successo.

Negli anni Ottanta si trasferì a Roma, dove si iscrisse a Lettere, ma frequentò


più che altro le redazioni dei giornali e i salotti aristocratici mondani, facendo
parlare di sè per le sue opere (permeate di una sensualità scandalosa) e per la
sua vita privata di seduttore (costretto a un matrimonio riparatore con una
duchessa da cui aveva avuto un figlio).

Nel 1889 pubblicò “Il piacere”, il primo (e il più famoso) dei suoi tanti romanzi.
Aveva 26 anni (Verga pubblicava in quell’anno il suo “Mastro don Gesualdo”,
mentre Pascoli stava per pubblicare “Myricae”).

D’Annunzio dovette però abbandonare Roma per sfuggire ai creditori, e


trascorse gli anni ‘90 a Napoli, dove pubblicò nuovi romanzi e raccolte
poetiche, ma soprattutto scoprì la filosofia di Nietzsche e la musica di Wagner
(autori che verranno strumentalizzati dal nazionalsocialismo tedesco). Intrecciò
nuove relazioni ed ebbe una figlia con una principessa siciliana.

Tra i continui trasferimenti, avvenne l’incontro con la Duse, che avvicinò


maggiormente D’Annunzio al mondo del teatro.
Si trasferirono nella villa La Capponcina (vicino a Firenze), dove condussero
una vita sfarzosa e dispendiosa (da principi rinascimentali).
Lì D’Annunzio compose i suoi capolavori poetici (i primi tre libri delle Laudi), e
il romanzo “Il fuoco” (la cui protagonista femminile, Foscarina, é ispirata alla
Duse). La relazione finì e D’Annunzio ebbe tante nuove amanti.
La villa fu requisita e il poeta fu costretto a fuggire in Francia, dove venne
accolto con onori dai salotti parigini e circoli intellettuali (incontra Gide e
Proust).
Lavorò a opere teatrali in francese e collaborò con il Corriere della Sera.

Lo scoppio della Prima guerra mondiale segnò una svolta decisiva: D’Annunzio
rientrò in Italia e diventò il leader dello schieramento interventista. Il 4 maggio
1915 tenne un celebre discorso interventista in occasione dell’inaugurazione
del monumento garibaldino di Quarto (per le fattezze di Garibaldi lo scultore
Baroni si era ispirato all'attore genovese Bartolomeo Pagano, camallo del
porto di Genova diventato celebre per aver interpretato il personaggio di
Maciste nel film “Cabiria” di Pastrone, alle cui didascalie aveva lavorato lo
stesso D’Annunzio).
Quando l’Italia entrò in guerra con il Patto di Londra, D’Annunzio si arruolò
volontario: aveva già 52 anni.
La sua guerra non fu quella di logoramento, di posizionamento, delle trincee.
La sua guerra avvenne nei cieli, a bordo dei primi velivoli.
Nel 1916 fu ferito a un occhio e fu costretto a un periodo di semi-cecità
(scrisse il meditativo “Notturno” su diecimila striscioline di carta).
L’incidente non gli impedì tuttavia di mettersi in mostra con le famose imprese
del “poeta soldato”: la beffa di Buccari e il volo su Vienna, due atti temerari e
provocatori nei confronti del nemico, sfruttando le “armi” della propaganda.

Al termine del conflitto fu uno dei più accesi sostenitori della “vittoria
mutilata” (suo era lo slogan “O Italia o morte”).
L’impresa di Fiume, occupata dal settembre 1919 al dicembre 1920 (il “natale
di sangue”), fu una vera e propria sfida allo Stato e come tale verrà presa ad
esempio da Mussolini (aveva applaudito l’impresa di Fiume ma restando “alla
finestra”, senza dare alcun contributo).
Il famoso drammaturgo e poeta tedesco Bertolt Brecht scrisse che non si era
mai visto un poeta prendere una città con l’esercito (“legionari”) e governarla.
D’Annunzio si pose come “duce” di una “rivoluzione” reazionaria, che incluse
una propria carta costituzionale e un’estrema libertà (anche la libertà sessuale,
l’emancipazione femminile, l’uso di droghe come la cocaina, ecc.).

Ma fu successivamente scalzato da un “duce” politicamente più abile (di 20


anni più giovane): Benito Mussolini.
Il fascismo esaltò D’Annunzio come “padre della patria”, si appropriò di molti
suoi slogan, cerimoniali, delle sue pose, della sua retorica, della sua immagine,
ma lo mise da parte e lo stesso D’Annunzio (vecchio e stanco, sempre più
ossessionato dalla decadenza fisica) si ritirò nella villa di Gardone, nella
“prigione dorata” del “Vittoriale degli italiani” (una casa-museo agli antipodi
rispetto alla casa-mausoleo di Pascoli).

I rapporti con Mussolini furono sempre problematici, alternando pochi


momenti di collaborazione a molti momenti di crisi.
Erano due personaggi molto diversi: D’annunzio il poeta esteta, il vate,
Mussolini il politico realista.
Di D’Annunzio era solito dire che era come un dente guasto: o lo si estirpa o lo
si ricopre d’oro.
Erano stati accomunati prima dall’interventismo, e poi dalla rivendicazione
della “vittoria mutilata”.
D’Annunzio era un modello per le nuove generazioni, un mito per la gioventù
italica (“Giovinezza” era l’inno del fascismo).
D’Annunzio stava organizzando una manifestazione analoga alla marcia su
Roma di Mussolini, che pare avesse giocato d’anticipo e mandato delle lettere
a D’Annunzio per chiederne l’appoggio, adulandolo ma invitandolo a starsene
buono. Di “duce” poteva essercene solo uno.
D’Annunzio restò scioccato dal delitto Matteotti (“fetida ruina”), diventando
quasi una figura di riferimento per gli oppositori al regime (prima che fossero
messi a tacere), ma rifiutò e restò in una situazione un po’ “borderline”. Era
stanco, deluso. La situazione era anche molto incerta.
Fu sempre molto critico nei confronti dell’alleanza con Hitler, che considerava
un “pagliaccio feroce”, un plebeo folle. D’Annunzio del resto non amava molto
la cultura germanica, si sentiva più “francese”.
L’ultimo incontro con Mussolini avvenne nel 1937 (l’anno prima della morte di
D’Annunzio) e anche in quell’occasione ebbe probabilmente modo di criticare
l’alleanza con Hitler.

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