Sei sulla pagina 1di 30

Trascrizioni Fichte e Hegel

Idealismo tedesco (16/09/2021)


Per comprendere in cosa consista l’idealismo tedesco, una corrente filosofica che diverrà
egemone nel mondo filosofico tedesco, bisogna prima tornare a Kant.
Con Kant ancora vivo (ultimi anni del 700 e primi anni dell’800) si apre un dibattito
accademico tra studiosi di filosofia e professori universitari di Koenigsberg e Berlino. Questo
dibattito verte attorno una questione che Kant aveva affrontato e risolto col suo criticismo,
ma che continua tuttavia a risultare problematica: il problema della rappresentazione, cioè
del fenomeno.
Kant ci dice che tutto ciò che accade nella nostra conoscenza dal punto di vista teoretico è
una sintesi a priori tra materiale empirico e le strutture cognitive della nostra mente (le forme
a priori). La sintesi tra questi due elementi è ciò che Kant chiama fenomeno e che nella
cultura filosofica tedesca viene chiamata “rappresentazione”.
Tuttavia, la soluzione kantiana contiene qualche problema: Kant ci dice che la cosa in sé,
che noi non possiamo conoscere, va pensata come causa del provenire a noi di quelle
modificazioni sensoriali che costituiscono il materiale della sensibilità.
Kant viene criticato per aver cercato di attribuire la categoria della causalità al
noumeno, nonostante avesse affermato che questo non si potesse conoscere tramite
le 12 categorie del nostro intelletto.
Tendenza generale dei critici del pensiero di Kant: se si sciogliesse l’aporia eliminando la
cosa in sé, ci sarebbe bisogno di ipotizzare che esista, fuori dal soggetto, una realtà che è
causa del provenire al soggetto delle sue modificazioni sensoriali? In fondo un dato empirico
non è altro che un qualcosa che è “fatto di pensiero”, che accade nel pensiero.
Come disse Berkley: non c’è bisogno di ipotizzare l’esistenza di una realtà materiale, anzi, la
realtà materiale crea una serie di problemi teologici. Quindi possiamo ipotizzare che
l’unica vera realtà sia il pensiero, l’anima, la psiche, la coscienza; e tutto ciò che
esiste si trova nel pensiero come rappresentazione.
È su questa scia che si muovono alcuni interpreti di Kant, ipotizzando che non sia la cosa
in sé a produrre il materiale della sensibilità, ma sia la coscienza stessa dell’uomo a
determinare la materialità dei fenomeni. Questa interpretazione permette di risolvere il
problema dell’aporia kantiana.
Quando comincia questo dibattito, Kant c’è ancora e non accetta questa interpretazione
degli idealisti. Kant fa in tempo a inserire nella Critica della ragion pura un paragrafo
intitolato “Confutazione dell’idealismo”, come per dire che l’interpretazione degli idealisti
fosse sbagliata.
Tuttavia, come molto spesso accade nel mondo della cultura, le opinioni dell’autore contano
molto meno dello spirito del tempo. Quindi l’interpretazione idealista sarà quella trionfante.

Johann Gottlieb Fichte


Tedesco, 40 anni più giovane di Kant.
Di famiglia molto povera: la leggenda narra che da bambino, per aiutare economicamente la
famiglia fosse costretto a fare il “pastore” delle oche. Un giorno, Un nobile viene a
conoscenza del fatto che questo bambino fosse molto sveglio e decide di pagargli gli studi.
Nel 1790 legge per la prima volta Kant.
Quando Fichte faceva il precettore, ossia l'insegnante di università, un suo studente gli
chiese delle ripetizioni sul pensiero di Kant: fu allora che Fichte ebbe l’occasione di leggere
per la prima volta la Critica della ragion pura.
Fichte si innamora di Kant e trova nei testi kantiani la filosofia che fa per lui .
Quindi, negli anni successivi decide di scrivere un’opera intitolata “Saggio di una critica di
ogni rivelazione”, in cui parla del problema dell’interpretazione razionale della religione, tema
tipicamente illuminista.
Fichte decide di scrivere quest’opera illuminato dal pensiero di Kant. Quando Fichte pubblicò
quest’opera, Kant non pubblicò ancora la sua opera La religione nei limiti della pura ragione.
Infatti, quando Fichte pubblica la sua opera, la gente pensava che appartenesse a Kant. Fu
così che all’età di 30 anni Fichte divenne una celebrità e gli venne offerta una cattedra
presso l’università di Jena.
Nel 1794 comincia a scrivere la sua opera filosofica principale: “Fondamenti della dottrina
della scienza”.
1799: la carriera di Fichte finisce male perchè all’università di Jean scoppia la polemica
sull’ateismo, in cui i docenti universitari discutono sul rapporto tra religione e filosofia. Fichte
prende una posizione molto kantiana, ma anche molto estrema: secondo lui la religione
consisteva nell’ordine morale del mondo ⇒ la religione si risolve in modo razionale.
Molti suoi colleghi lo accusano di ateismo, quindi è costretto a dimettersi da Jena.
Avrà, prima di morire, un ultimo periodo di popolarità.
Nel 1799 viene sostituito a Jena da un idealista tedesco di nome Schelling, finchè la cattedra
verrà presa da Hegel.
Fichte, dopo questa fine della sua carriera accademica ha un altro periodo di grande
popolarità che inizia nel 1806 quando la Prussia venne sconfitta da Napoleone presso Jena.
Quando Napoleone sconfisse i prussiani licenziò tutti i professori universitari di Jena.
Fichte scrive un pamphlet in cui dà voce all’opposizione contro Napoleone e pronuncia un
celebre discorso, intitolato “discorso sulla nazione tedesca” in cui dice che il dominio
francese sulla Prussia è destinato a cadere perché la cultura tedesca è superiore alla cultura
francese. Anche questo periodo di celebrità durò pochissimo perché nel 1814, nel pieno
delle guerre napoleoniche, Fichte muore di un’epidemia scoppiata a Berlino, in cui trascorse
gli ultimi anni di vita.
Fichte è uno degli intellettuali che viene considerato padre dell’ideologia del nazionalismo
tedesco. Tuttavia sarebbe errato considerarlo protonazista.

Fondamenti della dottrina della scienza


È riassumibile in tre principi:
1. l’Io pone sé stesso (“Io” scritto in maiuscolo)
2. L’Io oppone a sé stesso e in sé stesso il non-io
3. L’Io oppone in sé stesso a un io divisibile un non io divisibile.
Il concetto di “Io” è chiaramente kantiano: l’Io penso di Kant è una condizione necessaria
tramite la quale è possibile la conoscenza; se non ci fosse un soggetto della conoscenza,
non ci sarebbe la conoscenza. Questo Io penso è tuttavia inconoscibile, non è possibile
costruire una psicologia razionale. Nel momento in cui si cercasse di descrivere come sia
fatto l’Io penso, si andrebbe oltre i limiti della nostra ragione.
Il “non-io” è la realtà, il contenuto dell’Io.

Fichte (18/09/2021)
1. L’Io pone se stesso
Fichte con il primo di questi tre principi torna a trattare dell'archè, del fondamento,
dell’origine. Afferma che l’Io pone in sé stesso il punto di origine di tutto, e
dunque anche della riflessione filosofica. L’Io non è la coscienza individuale, la
coscienza è il fatto che il nostro sguardo sulla realtà sia sempre situato (ciascuno di
noi, vede, considera, pensa e si rappresenta il mondo da un punto di vista e tutti i
punti di vista compongono un infinito mosaico di rappresentazioni). L’Io è una sorta
di coscienza assoluta fisicamente determinata (io sono qui e ora all’interno del
mio corpo, quindi la mia concezione della realtà è limitata da questo. Se ci
immaginiamo di avere coscienza, la nostra coscienza è sempre situata, anche
quando ci immaginiamo un ipotetico Dio in possesso di una coscienza assoluta, in
realtà ci immaginiamo un soggetto con una coscienza situata). L’Io di Fichte è
l’insieme di tutte le coscienze situate. Se ciò che chiamiamo essere si riconduce alle
nostre rappresentazioni il fondamento di tutto è la facoltà di rappresentazione, ossia
l’Io. Fichte riflette sul fatto che nella storia della filosofia, il principio che sta alla base
di ogni speculazione è il principio di non contraddizione. In realtà il vero principio
originario è l’io pone se stesso, infatti il principio di non contraddizione (a non è b) e il
principio di identità (ogni determinazione è identica a sé stessa) sono secondari,
perché valgono solo nel momento in cui una determinazione è posta, e per essere
posta ha bisogno di qualcuno che la pone, ossia l’Io. Quindi deve esistere qualcosa
di più originario e radicale, questo fondamento è un atto, è un accadere, un fare, un
dinamismo: non “Io è” ma “Io pone se stesso”. Il pensiero è spontaneo, è qualcosa
che sgorga per sua stessa energia facendo accadere se stesso. Questo è il principio
originario di tutto. Solo nel momento in cui l’Io pone se stesso, fa scaturire se stesso,
esisteranno il principio di non contraddizione e di identità, perché da quel momento
esisteranno quelle determinazioni a cui poi si applicano i principi di identità e di non
contraddizione. All’origine c’è un atto, una metafisica dell’atto: il fondamento di ogni
cosa è un’azione, è lo scaturire da se stesso, è l’auto-porsi. Già da Plotino c’era
questo idea che l’origine di tutto è un atto, un atto con cui si autopone, ciò che per
Plotino era l’uno, per Fichte è l’Io, quindi il fondamento di tutto non è una sostanza
come pensava Spinoza ma è un atto. Un’altra cosa che assomiglia molto a questo
atto che pone se stesso è il concetto di libertà. Se quando facciamo un atto libero,
questo venisse da qualcosa che lo precede. L’Io si identifica come una libertà infinita
che scaturisce infinitamente e indefinitivamente. Questo punto di vista è molto
importante per Fichte perché a un certo punto dice che possiamo pensare alla realtà
come all’insieme di tutte le rappresentazioni di questo Io assoluto, quindi la realtà
sarebbe fatta di pensieri, di spirito. Non c’è quindi più bisogno di un substrato
materiale con tutte le aporie che ne derivano, il corpo e l’anima sono una cosa sola,
sono entrambe rappresentazioni. Questo è l’idealismo: fondare tutto nel pensiero. La
vera ragione per cui Fichte asserisce di voler essere idealista è proprio una scelta
dell'idealismo come sistema superiore rispetto a quello che noi chiameremmo
realismo (esiste una realtà e il nostro cervello la recepisce), l’idealismo ha infatti una
superiorità etica. Fichte si forma leggendo Kant, ed è proprio nella critica della ragion
pratica che la superiorità dell’etica idealista viene fuori. L’idealismo comprende una
libertà assoluta, mentre il dogmatismo crea il determinismo, che quindi rende la
realtà irriducibile a noi, che uccide la libertà. Per un idealista non esiste un dato di
realtà che sia invincibile. Dall’idealismo segue che l’Io determina il non-Io, mentre nel
determinismo il non-Io determina l’Io.
2. L’Io pone in se stesso a se stesso il non-Io.
Non c’è niente fuori dall’Io, e dunque esso pone dentro di sé qualcosa che si oppone
all’Io stesso: il non-Io. Per esempio quando sogniamo siamo noi a produrre i
contenuti rappresentativi del nostro sogno, eppure la nostra coscienza non li
riconosce come contenuti prodotti da se stessa. Fichte sta dicendo che è l’Io a
produrre tutte le rappresentazioni e che quindi esse non derivano da una realtà
esterna che effettivamente non esiste, e che queste rappresentazioni a un certo
punto si oppongono all’Io, che non li riconosce più come prodotti da se. C’è
un’immaginazione produttiva inconscia, in cui le rappresentazioni si oppongono all’Io.
L’immaginazione produttiva di Kant era tra sensibilità e intelletto, mentre
l’immaginazione produttiva inconscia di Fichte produce rappresentazioni che la
mente stessa non riconosce come propri prodotti. L’io produce , non solo la parte
formale della conoscenza, (le forme a priori, gli schemi e le categorie) ma anche il
materiale della conoscenza (i fenomeni), solo che l’Io non ne è consapevole.
Perché l’Io pone il non-Io? Lo scopo della produzione dell’Io è una ragione morale.
L’Io è originariamente libertà e per potersi realizzare come tale ha bisogno di
qualcosa che gli si oppone: se l’Io non incontra il mondo, non può realizzarsi
eticamente.
○ Io penso (Kant): Attività ordinatrice delle nostre esperienze. Possibilità
formale di conoscere. L’Io è limitato: io percepisco qualcosa che non sono io.
○ Io puro (Fichte): Attività creatrice delle nostre esperienze. L’io costituisce la
possibilità materiale della conoscenza. L’Io è infinito: si percepisce limitato
solo perché non riconosce che questo limite l’ha posto lui.
3. L’Io pone in se stesso a un io divisibile un non-io divisibile
Divisibile può essere interpretato come limitato. L’Io oppone in se stesso a un Io
limitato un non-Io limitato. L’Io, che è infinito, ponendo in se stesso un non-Io limitato,
perde così la sua infinità, viene quindi limitato dal non-Io limitato. Questo io limitato
siamo noi, ognuno di noi è un Io limitato che si trova davanti un non-Io limitato. C’è
una limitazione reciproca tra Io e non-Io che crea l’individualità. Noi siamo l’effetto
della posizione del non-Io assoluto da parte dell’Io assoluto senza che noi ne siamo
a conoscenza, i due si limitano vicendevolmente: e così si crea la nostra coscienza.
L’Io limitato si trova davanti a due possibili percorsi per ricongiungersi all’infinito:
● Il percorso teoretico: io indago così tanto la realtà da rendermi conto che la
realtà è qualcosa di posto da me, e quindi la realtà corrisponde a come sono
fatto io, segue determinate leggi. In questo caso sto seguendo la natura
razionale del non-Io, ossia riassumendo il non-Io nell’Io.
● Il percorso etico: io posso, attraverso delle azioni, plasmare il mondo a mia
immagine e quindi produrre delle azioni razionali che razionalizzino il mondo.
Entrambi questi percorsi sono infiniti: nessuna conoscenza finita può
riassorbire il non-Io e tornare all’Io infinito, anche perché così non esisterebbe
libertà, perché non ci sarebbe contrapposizione. Il nostro atto è un tendere
all’infinito, come slancio e tensione: questo fa di Fichte (forse giocandocela
con Schelling) il filosofo più romantico.

Hegel (20/09/2021)
Il terzo dei più importante idealisti è Hegel, il primo come abbiamo visto era Fichte, il
secondo Schelling (che però non studieremo) e infine Hegel. Schelling e Hegel si ritrovarono
allievi in una stessa scuola nel periodo della rivoluzione francese (Furono quasi espulsi
dall’Università di Tubinga per aver innalzato un “albero della libertà”, simbolo degli ideali
della rivoluzione).
Hegel vive a cavallo tra i due secoli, 1770-1831. Nasce a Stoccarda e muore a Berlino,
seppellito a qualche metro da Fichte. La sua formazione superiore avviene tra il 1788 e il
1793 nello Stift di Tubinga (stift = cella monastica). Hegel studia teologia, che all’epoca era
la facoltà che aveva il compito di istruire quelli che sarebbero diventati i pastori della
comunità protestante. Il pastore è un laico, che può avere anche moglie e figli, e che viene
stipendiato dalla comunità per guidarla dal punto di vista spirituale ovviamente Hegel non finì
a fare il pastore protestante, ma quando si laurea diventò precettore. La carriera del
precettore era abbastanza solida, infatti in quell’epoca studiavano solo i ricchi. Non
esistevano ancora le scuole private per la classe benestante, non vi erano licei statali ma
solo scuole di gesuiti. Una via comune era assoldare un precettore che diventava un
membro della servitù della casa. Quindi da un lato Il ruolo sociale era abbastanza infimo, ma
dall’altro era una carriera era rispettabile. In questi anni Hegel scrive delle riflessioni in
ambito teologico che però non vengono mai pubblicate: sono anni in cui su alcuni argomenti
c’è ancora una censura, il clima è abbastanza teso. Le “opere teologiche giovanili” mostrano
una certa continuità nella riflessione di Hegel: nelle opere dell’età più matura prende ed
espande i temi precedentemente trattati.
Arriva a fare la carriera universitaria all’università di Jena. Ovviamente un professore
universitario ha un ruolo molto più prestigioso del precettore privato. Inizia e finisce di
scrivere la “Fenomenologia dello Spirito” ma non l’ha ancora pubblicata nel 1806, anno in cui
a Jena arriva Napoleone. L’esercito prussiano viene pesantemente sconfitto nella famosa
battaglia di Jena. Hegel è affascinato da questa figura, che vede dal vivo. C’è una famosa
citazione tratta da una lettera scritta a un suo corrispondente, in cui viene fuori già la sua
filosofia, Hegel ritiene che la storia non sia una successione di eventi casuali ma contenga
una sua logica e che sia dovere del filosofo studiarla.
“Ho visto l'Imperatore, quest'anima del mondo, uscire dalla città per andare in ricognizione.
È una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto,
stando su un cavallo, si irradia per il mondo e lo domina”.
Nel 1806, una delle prime cose che Napoleone dispone è la chiusura delle facoltà
universitarie, perchè si era perfettamente reso conto che da lì poteva nascere
un’opposizione al suo dominio. Non aveva torto e infatti nell 1807 Fichte pronuncia i famosi
discorsi alla nazione tedesca. Napoleone temeva che i professori tedeschi potessero essere
dei pericolosi sovversivi. Hegel si ritrova licenziato e se ne va da Jena col manoscritto non
pubblicato della fenomenologia dello spirito. Va a fare il professore di liceo e riesce a
pubblicare l’opera. Il suo stile di scrittura non è molto chiaro, il che gli attira molte critiche
(primo fra tutti Schopenhauer). È capace però di coniare frasi ed espressioni di grande
finezza e chiarezza. In questo testo molto complesso, Hegel fa i conti con molti suoi
predecessori. Per definire la concezione dell’assoluto e dell’infinito di Schelling usa una
frase poco carina “l’infinito di Schelling è come la notte in cui tutte le vacche sono nere” .
Rivolge lo stesso linguaggio a Fichte. A Norimberga pubblica la “Scienza della Logica”
Nel 1816 dopo la sconfitta di Napoleone riaprono le università tedesche e Hegel riacquista la
sua cattedra universitaria. Hegel compone l’enciclopedia delle scienza filosofiche come
dispensa per i suoi studenti, questa è anche l’unica opera in cui Hegel ci dà una sintesi di
tutto il suo sistema filosofico. Hegel è un pensatore sistematico, lui dice che non esiste verità
se non in una forma sistematica: la comprensione filosofica del mondo deve essere totale,
totalizzante, e coerente con se stessa. Hegel è l’archetipo del pensatore sistematico.

Hegel (23/09/2021)
Hegel, dopo 10 anni in cui fa il preside di liceo, ma nel frattempo scrive opere molto
importanti, torna all’insegnamento universitario. Nel 1817 pubblica un’opera fondamentale
per la sua dottrina, che è la sintesi del suo pensiero. Un’espressione folgorante sulla sua
dottrina è “Il vero è l’intero”: se esiste una verità sul mondo, allora è una verità sistematica, è
una spiegazione totale del tutto, tanto in profondità quanto in estensione. Quindi il
compendio, la sintesi e il sistema sono anche la forma mentale di Hegel.
Nel 1818, finalmente arriva al vertice della carriera, è chiamato all’università di Berlino, dove
sarà un popolarissimo docente di filosofia. Diventerà anche rettore e vi rimarrà fino alla
morte. Hegel diventa molto famoso, infatti le sue lezioni sono molto affollate.
Questo decennio segna in estrema profondità il secolo. Hegel è un imprescindibile oggetto
di dibattito: o si è hegeliani o si è anti hegeliani. Oltre che ai lineamenti di filosofia del diritto
(1821), a questo periodo risalgono alcune trascrizioni dei suoi corsi, pubblicati postumi
subito dopo la sua morte: lezioni sulla filosofia della religione, sulla storia della filosofia, sulla
filosofia della storia e di estetica (non ha più il significato di “ciò che riguarda le percezioni”
ma indica una riflessione sul concetto di bello). Hegel muore il 14 Novembre 1831.
I fondamenti del sistema
Ci sono tre concetti, tre aspetti fondamentali: l’assoluto come Spirito in divenire, la
dialettica, l’identità tra reale e razionale. Sono tutti termini abbastanza noti, Hegel non è
un grande inventore del linguaggio filosofico.
Hegel si pone il problema dell’assoluto. L’assoluto è incondizionato, è ciò che viene
prima di ogni altra cosa. La sua concezione dell’assoluto è che l’assoluto è spirito,
quindi non è materia, non è sostanza e non è il cosmo stesso. La caratteristica
principale dello spirito è che è sempre mobile, sempre in divenire, è un processo, è un
movimento spontaneo. Esattamente come Fichte aveva detto l’io pone se stesso prima di
essere. Questo spirito, Geist (parola tedesca per coscienza dell’umanità), è un Io che è il
fondamento del cosmo. Non si intende un Io individuale ma una soggettività assoluta:
l’importante è che abbia la caratteristica del dinamismo. Il suo movimento è la sua
spontanea e originaria essenza, è il pensiero che pensa. I predecessori di questa
concezione sono Eraclito e Fichte. Per Eraclito dentro il fluire del tutto c’è una logica, che è
logos, che lui pensava ancora come un fuoco, ma fondamentalmente lui è il primo che
chiama l’essenza del tutto “logos”, quindi qualcosa di intelligibile. Se questi sono i suoi
riferimenti filosofici, ci sono anche concezioni che Hegel attacca pesantemente: Spinoza per
esempio, era un autore che solitamente agli idealisti piaceva molto: Schelling dedica a
Spinoza delle riflessioni molto importanti, scrive addirittura un'opera su di lui. Secondo
Spinoza il mondo lo possiamo intendere sia come una serie di eventi materiali (ordo rerum),
che come un ordine e una correlazione infinita di idee e di pensieri, di percezioni. A Hegel
non piace: l’assoluto di Spinoza è troppo sostanza, è statico. Per Spinoza l’assoluto è il tutto,
è una serie data, è la somma di infinite parti che danno un intero statico e finito. Questo è
esattamente il contrario dello Spirito in divenire di Hegel. Per Hegel lo spirito è il principio
razionale e dinamico, dunque in divenire ma comprensibile. Allo spirito di Spinoza manca
quindi il dinamismo, infatti l’assoluto di Spinoza è razionale ma non dinamico. L’assoluto
deve generare se stesso ovviamente e contiene infinite determinazioni finite. Lo spirito
quindi continuamente supera le sue determinazioni finite, è per questo che è dinamico e non
finirà mai di produrre se stesso. Lo spirito nega la negazione del finito: se il finito è
negatio, lo spirito è la negatio della negatio. Quando tu affermi e definisci un contenuto
determinato, tracci un confine, infatti quello che sta dentro questo confine è la cosa che stai
definendo, ma con l’atto stesso cin cui definisci e affermi quella determinazione, ne definisci
e ne affermi un’altra, che è la sua contraddizione. Non si può definire senza negare. Lo
spirito è il movimento che afferma qualcosa, affermandolo lo nega ma è anche capace
di negare la negazione, e quindi di trascendere l’opposizione, che precedentemente si
era determinata, in un nuovo concetto che sarà più universale, dinamico e vero. Lo
Spirito può procedere all’infinito in questo circolo di affermazione, negazione, superamento.
Il pensiero hegeliano è circolare, è una successione di triangolazioni, di circoli che superano
se stessi.

Hegel (27/09/2021)
Per Hegel il fondamento di tutto è Spirito, questa affermazione ci riporta a Fichte. L’assoluto
è spirito: pensiero, coscienza, soggetto. È in perpetuo fluire, non è una sostanza statica, non
è una somma di dati ma un costante fluire. C’è questa idea del flusso, del divenire della
realtà che ben si adatta ad essere identificata come spirito, anche nella dimensione
individuale lo spirito e il pensiero è quello che non sta mai fermo, è spontaneo. Il dinamismo
del pensiero assoluto è proprio ciò che pone in esso se stesso e la realtà. La realtà altro non
è che lo spirito stesso: non è un insieme di sostanze statiche ma un circolo di processi. Lo
spirito pone qualcosa, ma ponendolo pone la sua contraddizione e poi cerca una via di
uscita da questa contraddizione.
Il secondo punto è la dialettica: Hegel crede di poter determinare il ritmo della vita dello
spirito. Lo spirito pone una determinazione e nell’atto stesso di porlo, lo nega. Hegel qua si
rifà lessicalmente a Spinoza, ma l’idea è antichissima. Se affermi qualcosa lo delimiti, e nel
medesimo momento in cui lo limiti, limiti la sua negazione. Lo Spirito pone sé stesso e poi si
aliena, si nega, si contraddice e poi però supera la sua contraddizione. Questo circolo viene
chiamato dialettica. La dialettica era per Platone la capacità del logos di muoversi attraverso
le idee. Nello schema platonico il mondo delle idee è una piramide logica. La dialettica può
essere ascendente (quando colgo che una determinata idea è un caso di un’idea più
universale) o discendente (è il movimento opposto, quindi “scendo” e divido),ed è un
metodo. Il metodo con cui funziona il nostro pensiero: Hegel mantiene questo significato. Ma
nella sua prospettiva idealistica, la dialettica è anche la legge della realtà, siccome
pensiero e realtà coincidono anche la realtà stessa è dialettica. Tutto ciò che accade,
accade secondo un ritmo triadico (cioè una cosa accade, accadendo si nega e poi supera se
stessa diventando altro, qualcosa di più vero, di più assoluto). La dialettica è anche il
movimento logico con cui cogliamo la realtà, quindi ha questa duplice valenza. Hegel era
convinto che l’assoluto realizza se stesso, scioglie la sua contraddizione e si riafferma come
qualcosa di oltre. Critica la vecchia concezione della dialettica: la concezione platonica
considera le idee come qualcosa di statico, sono essenze statiche che il pensiero riconosce
semplicemente come tale. La dialettica è un processo triadico, è sia un processo proprio
della realtà, nel suo dinamismo, che del pensiero che pensa la realtà, anche perché il
pensiero non è fuori dalla realtà. La triade è costituita da tesi, antitesi e sintesi. Sono
termini usati da Hegel, ma nella sua intera opera li cita una volta sola.
● La tesi: il momento astratto intellettivo. Noi possiamo sempre parlare della
dialettica come il divenire delle cose, della realtà ma anche come la legge del
pensiero che coglie la realtà. La tesi indica che qualcosa accade ed è sé stessa
quando accade, oppure il pensiero coglie la realtà in modo finito e determinato.
Isolare una singola determinazione all’interno del fluire costante della realtà è fare
un’operazione astratta: nel momento in cui determini qualcosa, quel qualcosa si
nega, proprio perché per accadere o essere pensata, una determinazione deve
essere negata: questa è l’antitesi.
● L’antitesi: un momento dialettico o negativamente razionale, cioè qui opera
l’intelletto, quando Hegel parla di intelletto ci parla di una facoltà che ci fa vedere la
realtà in modo parziale e incompleto mentre la ragione riesce a cogliere la realtà in
maniera più vera, più universale. L’intelletto rimane dentro il concetto che ha
affermato, mentre la ragione coglie il suo contrario. Solo nell’ultima fase, la sintesi,
c’è la vera speculazione, in cui cogliamo la sintesi degli opposti, cogliamo quindi una
determinazione più vera e più universale. Poi Hegel applica questo schema in modo
differente: ad esempio con le epoche storiche nella sua filosofia della storia.
Un’epoca storica si definisce, definendosi si definisce la sua negazione, che prima o
poi finirà per mettere finire a quell’epoca storica, e poi la modernità arriverà a rendere
vere le due istanze ma superandole. Hegel definisce l’antitesi come il nostro pensiero
che vive costantemente nel travaglio del negativo, la nostra ragione quando pensa a
qualcosa è immediatamente portata via da essa e allora deve fare la fatica di
superarla.
● Aufhebung, in tedesco, significa superamento e indica la sintesi. È il movimento
del pensiero che viene fuori dalla contrapposizione e al tempo stesso trattiene
elementi sia della tesi che dell’antitesi, quindi sia della determinazione che
della sua negazione. La sintesi, ovviamente si determinerà in altro concetto, più
universale ma sempre un concetto e che quindi poi sarà la tesi di una nuova triade
dialettica: la filosofia di Hegel è un circolo dialettico di triadi.
Il terzo concetto fondamentale della filosofia Hegeliana è che la realtà e il pensiero sono la
medesima cosa: le leggi dell’una sono le leggi dell’altra. La razionalità è il mondo, non c’è
uno iato. Se qualcosa accade è perché sussistevano le condizioni necessarie e razionali per
farlo accadere.
“Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale” perché se qualcosa accade,
vuol dire che esistevano le ragioni sufficienti perché accadesse e si determinasse. C’era
bisogno che accadesse dentro lo sviluppo dell’assoluto, il cui flusso è razionale. Come
conseguenza in Hegel c’è un forte ottimismo della ragione, talmente forte da non essere più
illuminista. L’ottimismo illuminista non è la possibilità totale della conoscenza, ma coltivare il
proprio orticello. In Hegel c’è un ottimismo radicale: tutto ciò che accade è razionale, è
conoscibile. Dall’altro lato è vero anche il contrario, se qualcosa può razionalmente pensarsi,
quel qualcosa è reale (non vuol dire che sia già per forza accaduto), qualcosa che sta già
dentro l’assoluto. Il limite di questa visione di Hegel è che con questo principio sembra
giustificare qualsiasi cosa, anche i crimini più spietati. Hegel verrà criticato molto in futuro
per questa sua concezione. L’irrazionale non è per definizione, quindi anche il concetto
apparentemente più strampalato (come la Shoah), è comprensibile, è accaduta e doveva
accadere, perché la dialettica dell’assoluto l’ha portata ad esistere

Hegel (05/10/2021)
Stavamo osservando e raccontando i contenuti della Fenomenologia dello spirito, opera in
cui Hegel esprime il proprio pensiero in una forma antropologica: Hegel descrive il modo con
cui l’Assoluto si è manifestato nella coscienza del singolo e dell’intera umanità.
Avevamo visto la prima delle due figure: la coscienza.
Che cos’è la coscienza? È un flusso di sensazioni come dicevano gli empiristi?
No, perché i contenuti della nostra mente sono organizzati in strutture la cui origine non è
empirica, e quindi è il nostro intelletto che con le sue forme a priori plasma la realtà (Kant).
Però la conclusione della prima figura è che ogni atto di coscienza è un atto di
autocoscienza: quando noi conosciamo un pezzo di mondo in realtà stiamo conoscendo un
pezzo di noi stessi.
Giungiamo alla seconda figura: l’autocoscienza.
Si tratta di un momento riflessivo, in cui la coscienza si “denaturalizza”: cioè, mentre
originariamente la coscienza sembra uno “stare presso le cose” (la coscienza sembra
sempre una coscienza di qualcosa), l’autocoscienza è un momento riflessivo in cui la
coscienza rientra in sé stessa (mentre conoscevo il mondo in realtà cercavo di capire come
sono fatto io), e quindi si costituisce e scopre sé stessa, accorgendosi di una propria
duplicità, di una propria divisione:
● Da un lato si scopre come soggettività: la coscienza scopre di essere la fonte di
ogni senso, di ogni valore e di ogni realtà ⇒ è la scoperta realistica: la mia mente
crea il mondo. La coscienza è Assoluto.
● Da un altro si accorge di essere oggetto di una coscienza altrui.
Quindi, se da un lato è soggettività assoluta, da un altro è oggetto di un’altra soggettività.
L’incontro di due autocoscienza non può che essere conflittuale. La scoperta della
soggettività altrui è un trauma di guerra.
La socialità, la coesistenza delle autocoscienze è segnata da un conflitto che non ha
fine perché non ha ragioni, ma è proprio essenziale nel concetto di coscienza che scopre di
essere tutto.
Hegel trascina dentro la storia dell’umanità questo concetto e afferma che questo conflitto
tra autocoscienze si è concretizzato nella storia con la divisione tra signoria e servitù.
Abbiamo detto che quando due autocoscienze si incontrano, inevitabilmente si scontrano e
capiterà che una perda e l’altra vinca. Vince chi tiene duro sul punto fondamentale: “Sono io
la fonte di ogni valore”, mentre colui che perde rinuncia nel considerarsi la fonte di ogni
valore.
Nella storia dell’umanità, a un certo punto, si diffonde l’idea che esistano alcuni esseri umani
che valgano più degli altri (nasce l’aristocrazia). Alcuni storici potrebbero delineare le cause
contingenti che portarono alla formazione della nobiltà o dell’aristocrazia, ma Hegel afferma
che l’origine di questo pensiero è fuori dal tempo. Il signore si impone pur di non perdere la
propria autorevolezza.
Però a un certo punto c’è un rovesciamento determinato dall’esperienza del lavoro.
Il lavoro è l’esperienza più umanizzante di tutte, è l’umanizzazione della natura: io
plasmo la natura in modo che sia sempre più corrispondente ai miei bisogni e ai miei
desideri.
Il paradosso è che il signore non lavora più, mentre lo schiavo lavora, ma ricordiamoci che
l’esperienza del lavoro è umanizzante e fa quindi riscoprire all’autocoscienza di essere
origine e valore del tutto (sono io che plasmo il mondo a mia immagine perché risponda ai
miei desideri). Il signore pian piano perde il significato della sua superiorità.
Dunque nascono altre due figure: lo stoicismo e lo scetticismo, che sono figure teoretiche,
ma al tempo stesso storiche. Queste due scuole di pensiero sono i primi tentativi di
emancipazione del servo:
● Gli stoici dicono che tutti gli uomini sono uguali. Tu puoi essere uno schiavo, ma la
tua dignità non dipende da quello, e quindi tu sei libero.
La falla nel sistema stoico è che, nonostante affermi che tutti gli uomini sono uguali,
non vi è un cambiamento effettivo nel sistema delle cose: lo schiavo rimane schiavo
e l’imperatore rimane imperatore.
● lo scetticismo, invece, è più radicale. Lo scettico afferma che nulla è vero.
Hegel dice che la coscienza scettica è in un certo senso una riaffermazione
dell'assolutezza: io giudico che nulla è vero, io sono l’unica fonte di verità e affermo
che nulla è vero. Però questo potere assoluto si ritorce contro sé stesso: è il
paradosso classico dello scetticismo ⇒ se io affermo che nulla è vero allora anche
ciò che dico non è vero, e quindi la coscienza divora sé stessa.
Nasce un’ulteriore figura: la coscienza infelice. Infelice perché è lacerata: da un lato si
sente onnipotente e dall’altro cade nel suo stesso giudizio.
Hegel dice che questa figura ha un corrispettivo storico ⇒ entriamo in epoca cristiana,
perché la coscienza infelice è una coscienza religiosa, che per sopportare questa
contraddizione immagina la parte assoluta e giudicante come entità separata da sé (Dio,
parte giudicante della mente umana alienata). L’alienazione è un processo con cui la mente
umana proietta e considera al di fuori di sé qualcosa che in realtà appartiene a sé stessa.
Dall’altra parte resta la coscienza finita e giudicata nella quale l’umanità continua ad
identificarsi (non è l’uomo a creare Dio ma è Dio che crea l’uomo).
La coscienza è dunque infelice perchè è spezzata in due, non si riconosce più come
coscienza assoluta. Essendo infelice, la coscienza giudicata finirà per cercare Dio, che
è la sua parte alienata.
Dio diventa la proiezione di tutto ciò che l’umanità non può più essere.
È questa proiezione dell’assoluto in qualcosa di esterno a noi che permette la convivenza
relativamente pacifica degli uomini, perché ora nessuna coscienza vuole più prevalere
sull’altra, posto che si consideri Dio l’origine di tutti i valori.
È per questo motivo che la coscienza è infelice, perché è depotenziata. Dio ormai è un ente
diverso da me, e non posso più riportarlo dentro di me.

Hegel (07/10/2021)
La coscienza infelice deve rimarginare la sua radicale ferita, che è la separazione
dall’assoluto. Gli strumenti con cui tenta di farlo sono la devozione e l’ascesi. L’uomo devoto
si sente in comunione con Dio in quanto sottomesso a Dio. L’ascesi nel lessico religioso è
uno stato di grazia in cui l’anima dell’individuo esce da se stessa e si unisce misticamente al
divino. Il limite di questi strumenti è che la meditazione religiosa è sempre strutturalmente
fallimentare perché agisce con metodi non razionali: «Ora, la coscienza infelice [...] non si
relaziona al suo oggetto pensando, ma si limita a procedere, per così dire, in direzione del
pensare, ed è devozione. Il suo pensare, in quanto devoto, rimane un suono indistinto di
campane o una calda nebulosità diffusa, un pensare musicale che non giunge al concetto, il
quale invece sarebbe l’unico modo immanente e oggettivo del pensiero.»
Hegel sta dicendo che la religiosità è sentimentale, è vaga, non ha i caratteri della
razionalità. L’assoluto non è qualcosa che si sente. Se in alcuni aspetti è abbastanza vicino
alle istanze romantiche, qui se ne distanzia molto. È in completa opposizione con il suo
tempo, con la cultura in gestazione nella stessa epoca. Per Hegel il pensare devoto è anche
un pensare musicale, che non giunge al concetto, il quale invece sarebbe l’unico modo
immanente e oggettivo del pensiero. La religione quindi, proprio per come la sua stessa
intrinseca natura, è inadeguata a riconciliare la coscienza finita con la sua parte
infinita.
Sperimentato il fallimento della meditazione religiosa, la coscienza finita cerca un’altra via
che la conduce a diventare ragione, pensiero razionale. La ragione può essere: ragione
osservativa, ragione che agisce o ragione come eticità. Si abbandona così il metodo vago e
fumoso della religione e si torna al pensiero razionale che inizia a indagare apparentemente
qualcosa diverso da sé: il mondo, la natura. Hegel parla di un fenomeno teoretico ma lo cala
nella storia dell'umanità: stiamo parlando di quella che, nell'interpretazione hegeliana, è
l'epoca che viene dopo il medioevo, ossia dopo l'epoca religiosa per eccellenza, che è
l'umanesimo, il rinascimento, la nascita della scienza moderna. È l'epoca della ragione che
osserva la natura, e osservandola vi trova leggi matematiche, la interpreta secondo schemi
e ricorrenze di tipo geometrico. Questo è un modo ingenuo di praticare la ragione, siamo
ancora nel primo momento dialettico, nella tesi: la razionalità ritrova se stessa ma non si
riconosce immediatamente. Le leggi della natura vengono interpretate come appartenenti,
appunto, alla natura, e perciò da noi diverse e distinte, sebbene in realtà la ragione non sta
scoprendo altro che se stessa, quantomeno nella prospettiva idealistica. Dallo studio del
mondo fenomenico inerte essa passa allo studio degli organismi e scopre che ci sono delle
determinazioni della natura che paiono organizzate attorno a leggi di tipo finalistico e non
solo meccanico: gli organismi si sviluppano tendendo a un fine. E poi vi è il vertice delle
scienze con cui la ragione oggettivizza se stessa come entità scientifica da osservare, e
dunque abbiamo la psicologia come scienza.
Finché la ragione resta in questo primo stadio di contemplazione e osservazione, il processo
non è completato. Le ricorrenze razionali riscontrate sono interpretate come appartenenti
all'oggetto che le manifesta, alla natura, alla realtà. Dove è più evidente che la realtà è
qualcosa che il soggetto e la sua coscienza costituiscono, si ha nel secondo momento,
l'antitesi (che non è necessariamente la contraddizione della tesi, nei casi concreti Hegel
applica la dialettica a suo piacimento), in cui la ragione non si limita a contemplare il mondo
ma agisce nel mondo, laddove agire significa compiere delle azioni, degli atti, che sono degli
eventi, dei pezzi di mondo, in tutto e per tutto determinati dalla coscienza.
La tendenza della ragione è quella alla razionalità e all'universalità. Il criterio su cui basare
il giudizio affinché le azioni della ragione siano razionali si compone del piacere, della
legge del cuore e della virtù. Il piacere rimanda alle etiche edoniste, per le quali un'azione
è intrapresa quando il suo effetto reca una soddisfazione; la legge del cuore, di stampo
romantico, indica un individuo così realizzato dal punto di vista della coscienza morale per
cui spontaneamente e naturalmente ogni sua azione è moralmente adeguata; poi vi è l'etica
della virtù di matrice kantiana, in cui la morale si configura come una dura e perpetua lotta
volta a realizzare la virtù. Il criterio della ricerca del piacere sembrerebbe il più immediato e
intuitivo, però il principio del piacere è intrinsecamente non universale, è fallibile, transitorio:
il piacere è l'accendersi di uno stimolo temporaneo, che perderebbe il suo senso se fosse
costantemente presente. La legge del cuore, propria dell'anima bella, tipicamente romantica,
è in un certo senso un'evoluzione dell'etica del piacere, ma anch'essa non può diventare
oggettiva. È una giustificazione dell'agire morale che non può essere condivisa, un'etica del
sentimento non è universale. L'etica kantiana è universale, ma per esserlo diventa vuota:
l'etica di Kant viene descritta come il dovere per il dovere, come formalismo vuoto,
intraducibile in un comando oggettivo e concreto, è puro guscio vuoto dell'universalità. Hegel
ci sta dicendo che l'etica individuale non riesce mai ad essere allo stesso tempo universale e
concreta.
La riconciliazione avviene solo nella dimensione dell'eticità. Se la moralità è la
dimensione etico-morale individuale del singolo che cerca di conformare il proprio agire alla
ragione, l'eticità è il piano pubblico, oggettivo, storico, sociologico, in cui la razionalità
si incarna prima che noi decidiamo di comportarci razionalmente. Queste è una delle
idee più importanti e interessanti della filosofia hegeliana. Il pensiero, la razionalità, lo spirito
non sono innanzitutto una cosa che sta nella nostra testa, ma sono da sempre attorno a noi.
Il mondo è già razionale, la storia è già razionale, contiene delle strutture di razionalità
dentro le quali noi veniamo al mondo, e sono pertanto già nostre non per una nostra
decisione o scelta. La famiglia, l'arte, la storia, la società, lo Stato, il linguaggio, sono già
razionali prima di noi, indipendentemente da noi. Questa prospettiva è quella che permette a
Hegel il superamento delle contraddizioni della moralità. Nel momento in cui il soggetto entra
nella prospettiva per cui la razionalità è fuori di sé, è attorno a sé, lo costituisce come
soggetto pensante e agente, allora le vie della sua ricerca etica risultano già disponibili nel
mondo. Questo consente a Hegel di superare quel problema dell'impossibilità della
contemporanea concretezza e universalità della morale individuale. A una comunità che
condivide l'eticità (e dunque la storia culturale), Hegel dà il nome di Volk, ossia popolo.

Hegel (12/10/2021)
Siamo al punto, nella Fenomenologia dello spirito, nella terza sezione dedicata alla
ragione, in cui Hegel ha analizzato prima la ragione teoretica, la ragione che pensa, che
cerca di comprendere il mondo e che cerca nel mondo sé stessa dopo il fallimento della
coscienza infelice. Anche questa è una dimensione in cui c’è una descrizione puramente
teoretica ma in qualche modo è calata nella storia, nella storia del pensiero, nella storia
collettiva dell’umanità; è il Rinascimento, è la nascita della scienza moderna in cui la ragione
cerca sé stessa nella razionalità delle leggi della natura, che tornano ad essere oggetto di
studio, ma appunto sono intese come qualcosa di “altro” da noi, come leggi intrinseche dei
fenomeni del mondo, della natura stessa. Poi c’è la ragione intesa come moralità, intesa
come “ragion pratica” per dirla alla Kant, la ragione che determina l’agire, che determina
l’azione, che crea pezzi di mondo razionali (cioè le nostre azioni determinate dalla ragione)
però anche lì è una conciliazione che non potrà mai essere compiuta perché quale che sia il
criterio con cui cerchiamo di costruire azioni perfettamente razionali, è sempre un criterio o
incompleto, o inadeguato, o imperfetto o vuoto (come è il formalismo kantiano, “il dovere per
il dovere”). E allora si arriva alla dimensione dell’eticità che è la cosa forse davvero più
interessante che dice Hegel. Qual è la sintesi? Qual è l’aufhebung di questa contraddizione?
Apparentemente anche la coscienza intesa come ragione non riesce a ritrovare sé
stessa, a riconciliarsi con sé stessa, non riesce a rendersi conto di essere l’Assoluto.
La contraddizione viene superata nella figura dell’eticità. L’eticità è la razionalità che
c’è già prima, è già incarnata nel mondo e ci precede, ci porta, ed è in noi perché è tutto
attorno a noi; è già radicata nel mondo, nella sua storia, nelle sue istituzioni, in particolare
nella cultura, nella lingua, negli usi e costumi, nei valori morali (anche qui, la moralità non è
qualcosa che dobbiamo reinventarci da capo tutte le volte che agiamo, è qualcosa che è già
incarnato nei valori, nelle cose che ci insegnano, i nostri vecchi). Insomma, Hegel non ha
tutti i torti, sta descrivendo sicuramente un fenomeno reale, credo che più o meno valga per
chiunque di noi, anche per chi di noi a un certo punto nella vita si ribella radicalmente ai
valori della cultura a cui appartiene o della famiglia a cui appartiene; e, appunto, cosa sta
facendo se non prendendoli seriamente? Non c'è niente di più serio di ciò contro cui ti ribelli,
da cui cerchi di staccarti e cerchi di distaccartene comunque con gli strumenti che quella
tradizione ti ha fornito. Questa ragione come eticità trova un suo luogo di incarnazione in
quello che Hegel chiama volk, popolo. Parola che all'inizio dell'Ottocento iniziava ad
assumere anche grazie a Hegel quei connotati anche un po’ inquietanti, che avrebbe avuto
poi nei due secoli successivi. È chiaro che in qualche modo questa dimensione dell'eticità
va a superare il conflitto tra volontà individuale (quindi la coscienza intesa come
portatrice di moralità, di razionalità morale, la ragion pratica kantiana) e l'opera (cioè il
pezzo di mondo conformato alla ragione); perché in un certo senso questa corrispondenza
qua è presunta, è a monte, è già data; non è da trovare, non è da ricercare come era invece
nella dimensione della moralità. E allora qua Hegel stesso si rende conto che quando lui
inizia a parlare di eticità, già non sta parlando più della coscienza individuale. Sta
parlando di una sorta di coscienza collettiva o come meglio dice lui: geist, spirito. Lo
“spirito” quindi in Hegel è da un lato il nome dell’Assoluto ma è anche il nome che lui usa
per una specifica figura dell’Assoluto, appunto quella in cui la razionalità diventa una sorta di
razionalità collettiva, di razionalità incarnata, già data, già presente, che precede le
deliberazioni, le volizioni, le cognizioni del singolo individuo. È chiaro però che, se lui sta
scrivendo un libro, Fenomenologia dello spirito, la cui intenzione dichiarata è raccontare la
storia della coscienza come luogo in cui si manifesta l’Assoluto, quando poi ci torna in una
fase più matura del suo pensiero in un certo senso dice “qua non siamo già più dentro la
Fenomenologia, perché qui non sto più parlando della coscienza individuale come il punto
nella cui storia, nella cui evoluzione si manifesta l’Assoluto, qui siamo già da un’altra parte,
siamo fuori dalla coscienza individuale”. Certo, la dimensione dello spirito è una
dimensione con cui la coscienza individuale di ciascun individuo è sempre in
relazione, perché ciascuno viene al mondo dentro una tradizione, dentro un popolo, dentro
una storia culturale da cui lui è plasmato (che Hegel appunto chiama spirit). Però siamo già
in una dimensione esterna alla coscienza, che è sempre in relazione con la coscienza ma
che è sopra la coscienza o attorno alla coscienza. E quindi lui prosegue questa analisi;
naturalmente anche qui emergono problemi, contraddizioni, perché ogni figura dello spirito è
contradditoria, altrimenti lo spirito cesserebbe di muoversi, la contraddizione è il motore che
porta lo spirito a produrre determinazioni sempre più nuove. Quindi nella quarta sezione
della Fenomenologia Hegel parla appunto dello spirito, che consiste nelle varie epoche
della storia culturale dell’umanità; quindi parla della grecità, della romanità, della
modernità (che lui identifica in particolare con l’Illuminismo, cioè con quello che era finito di
accadere poco prima che lui scrivesse queste cose), l’Illuminismo è la quintessenza della
modernità, è il punto di arrivo della modernità; e poi naturalmente quello che sta nascendo
dopo, il Romanticismo. Non ci sono due concetti nella storia culturale che si prestano meglio
di Illuminismo e Romanticismo ad essere tesi e antitesi della triade hegeliana. Ci sono poi le
ultime due sezioni. Il grande limite della modernità è, dice Hegel, “l'individuo che si
erge a giudice del tutto". L'individuo con la sua coscienza, con la sua razionalità,
cartesiana, chiara e distinta, giudica il mondo, e il mondo è ciò che io capisco del mondo. Il
punto di approdo di tutto questo è l’Illuminismo, che è la perfetta incarnazione della
modernità perché questo giudizio si estende non solo al mondo contemporaneo ma a tutta la
storia strutturale, l’illuminista è colui che dice “noi dobbiamo giudicare tutto il passato con i
criteri di ora”, coi lumi della ragione. Naturalmente questo giudizio non può che essere un
giudizio di condanna, un giudizio negativo, tutto quello che c’è stato prima è oscurità, è
superstizione, va abbandonato, distrutto. Il problema è che in questo far diventare l’individuo
il giudice e il criterio ultimo di valutazione dell’universo, non si può che generare un conflitto
tra individui, perché io giudico anche te, e se tu non la pensi come me anche per un
dettaglio tu sei condannabile, ed è esattamente l’esito necessario, secondo Hegel, della
modernità che è il terrore, proprio il terrore storico, quello della Rivoluzione Francese, dove
tutti iniziano a ghigliottinarsi l’uno con l’altro in nome di un presunto tradimento della causa
rivoluzionaria fino a che la rivoluzione divora i suoi figli, lo stesso Robespierre. Robespierre
in un certo senso è la quintessenza della modernità. Il giudizio di Hegel è quindi molto
negativo, anti-illuminista. L’Illuminismo vive dentro con tutta la modernità, in una concezione
erronea dell’Assoluto. L’espressione che Hegel usa per descrivere questo esito sanguinario
ma che in qualche modo era già scritto nella natura della modernità e dell’Illuminismo, è “la
furia del dileguare”. In questa affermazione assoluta dell’io come giudice dell’universo c’è la
furia del dileguare, cioè una cosa che non può che portare al nichilismo più Assoluto, la
distruzione di ogni ragionevolezza. L’Illuminismo è il riprodursi, a livello della storia culturale
del mondo collettiva (a livello dello spirito), del conflitto delle autocoscienze: due assoluti non
possono coesistere. Le ultime due parti, la religione e il sapere Assoluto, sono l’evoluzione
di questo percorso; quindi apparentemente si ritorna: il tema della religione lo aveva già
trattato parlando della coscienza infelice.
Il sistema hegeliano
Dopo la Fenomenologia Hegel dal punto di vista personale e esistenziale ha un periodo un
po’ travagliato: ha perso la cattedra (Napoleone aveva chiuso le università), trova lavoro
come precettore, poi come insegnante di liceo, poi come preside e poi finalmente
(Napoleone è caduto e siamo nella fase della restaurazione) riaprono le università e
richiamano Hegel a insegnare. Scrive anche con una funzione proprio didattica, i libri che
scrive in questa seconda fase sono o manuali scolastici per i suoi studenti universitari o i
testi dei corsi che lui teneva. In queste opere Hegel adotta un altro approccio, in realtà i temi
di cui parla sono sempre gli stessi, il metodo è sempre quello della dialettica, il tema è
sempre quello dell’Assoluto e dei suoi rapporti col finito (questa conciliazione
apparentemente impossibile, infinita), ma ne parla in una chiave diversa, se lì c’era il punto
di vista che lui chiamava antropologico, cioè “andiamo a vede come la coscienza individuale
sia il luogo dove l’Assoluto si manifesta e si sviluppa”, qui invece dice “no, vi do la mappa
dall’alto, vi do il sistema del sapere”, cioè l’insieme di tutte le scienze filosofiche, di tutte le
scienze che ci fanno conoscere come funziona il mondo, e delle loro relazioni e articolazioni,
intersezioni, in modo sistematico, cioè in modo completo. È un progetto di un’ambizione
intellettuale sfrenata, si può poi oggi discutere che sia riuscito, fallito, che non abbia
nemmeno lontanamente raggiunto l’obiettivo oppure che sia un relitto superato; noi siamo
post-moderni, e la post-modernità è quella fase della storia del mondo in cui non crediamo
più a nulla sostanzialmente, figuriamoci se crediamo che sia possibile una sintesi di ogni
sapere (contenibile in un libro poi). Se oggi venisse uno qui a venderci un libro, anche
voluminoso, e dicesse che dentro c’è la mappa di tutto quello che è indispensabile e
possibile sapere sull’universo, come minimo lo prenderemmo per un cialtrone. Negli anni ’10
(già con la Scienza della logica) dell’800, quando lui inizia questa fase di scrittura,
elaborazione, la fede che questo progetto potesse andare in porto era decisamente
maggiore tra gli intellettuali. Questo sistema, la forma sistematica della verità (la verità è o
non è sistematica), è composto da tre grandi momenti che corrispondono innanzitutto a una
triade dialettica, quindi una tesi, un’antitesi e una sintesi, ma anche a tre ambiti in cui lo
spirito si manifesta, accade ed è quindi comprensibile, e sono i tre grandi rami delle scienze
filosofiche. Primo aspetto, abbiamo lo spirito dell’Assoluto che si manifesta, si impone,
accade (e quindi al tempo stesso è conoscibile, descrivibile), in termini astratti; banalmente
se io dico “lo spirito”, con una sola parola ho già detto tutto, tutto quello che Hegel ci metteva
dentro, però appunto è una parola, è un’astrazione. Questa prima parte del sistema
hegeliano, in cui l’Assoluto, l’idea, “si dà in sé”, dice Hegel, è quella che viene studiata dalla
scienza filosofica della logica. La logica è lo studio delle determinazioni astratte del
pensiero e quindi dell’essere. La negazione, la contraddizione, della logica astratta è
ovviamente la fisicità del mondo, e allora quella parte del sistema in cui l’idea “esce da sé”,
si aliena, si contraddice, diventa altro, è la parte in cui accadono i fenomeni fisici del mondo:
la natura. La filosofia della natura è la scienza filosofica che se ne occupa. Il terzo momento
è l’aufhebung, la sintesi, il superamento della contraddizione trattenendo gli elementi di
entrambi i poli in contraddizione; quindi è quello che Hegel chiama il “momento del geist”. Lo
spirito è l’idea concreta, ovvero l’idea non più nella sua formulazione astratta, ma incarnata
nel mondo (appunto lo spirito di cui parla già nella Fenomenologia). Sostanzialmente in
questo terzo pezzo del sistema filosofico, la filosofia dello spirito, Hegel va a trattare tutti i
prodotti culturali, quindi le istituzioni, il diritto, la storia, la cultura, la storia dell’arte, le religioni
storiche; sono tutti pezzi di mondo, quindi cose molto concrete, ma che non sono nate sugli
alberi, si è solo portato lo spirito umano. Solo il sistema rappresenta una conoscenza certa,
la verità, e anche la realtà stessa è sistematica, perché si pone in tutte le sue determinazioni
necessarie, quindi o le conosco tutte o mi sto perdendo qualcosa di necessario, non c’è
nulla di superfluo nella realtà; o la verità è totale e sistematica oppure è “quasi verità”, come
essere “quasi incinti”, la verità o è tutta o non è. Naturalmente quei tre momenti, l’idea pura
studiata dalla logica, la natura studiata dalla filosofia della natura, lo spirito studiato dalla
filosofia dello spirito, sono i tre momenti dialettici. Di queste tre grandi scienze filosofiche,
Hegel sostanzialmente trascura la filosofia della natura, che è l’unica di queste tre parti a cui
Hegel non dedica un’opera specifica, scriverà un’opera specifica sulla logica, ne scriverà
molteplici sulla filosofia dello spirito che è quella che gli interessa di più, mentre della natura
lui tratta solo in alcuni capitoli dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Nel
momento in cui fa il manualone riassuntivo per i suoi studenti deve mettercela dentro,
perché è una parte fondamentale del sistema, però non è mai ritornato specificamente su
quella parte.
Logica
Cominciamo dalla Logica, sia in ordine dialettico che cronologico. Hegel tratta la logica
nell’opera Scienza della logica, pubblicata a Norimberga, mentre faceva il professore di
liceo, e aveva meno impegno intellettuale e poteva dedicarsi a scrivere quest’opera,
pubblicata in due parti. Per noi normalmente la logica è la logica formale, addirittura l’algebra
booleana, simbolica, formalizzata; nel 1812 la logica era fondamentalmente una cosa che si
conosceva da millenni: Aristotele, l’Organon aristotelico. La logica è lo studio delle
strutture formali del pensiero, prescindendo dal loro contenuto, io vado semplicemente
a studiare quali sono le strutture attraverso le quali il pensiero si articola in maniera sensata,
in maniera corretta, i formalismo del pensiero che sono poi riempibili con qualsiasi
contenuto, una volta che ho capito cos’è un sillogismo, cos’è un termine medio, quale che
sia il contenuto, la struttura formale dentro cui quel contenuto è declinato è analoga, identica
(ricordiamo le figure del sillogismo, i ragionamenti anapodittici degli stoici, che sono il primo
esempio di logica proposizionale che connette non più termini come il sillogismo aristotelico
ma proposizioni, e sono gli antenati dell’algebra booleana). Quando Hegel si occupa di
logica per lui la logica è questa, uno che vede la Scienza della logica si aspetta di aprire e
trovare questo, in realtà la prospettiva con cui Hegel scrive quest’opera è significativamente
diversa perché per Hegel il pensiero, anche nei suoi formalismi astratti, è già quel pensiero
che coincide con l’essere, con la realtà; quindi la logica di Hegel in realtà è un’ontologia, cioè
è il modo in cui lui va a vedere come anche nei concetti più astratti, nelle idee più astratte, in
cui il nostro pensiero organizza la realtà, e nelle loro connessioni apparentemente formali
ma in realtà sostanziali, stiamo già facendo ontologia, stiamo già descrivendo un mondo,
anche se solo ancora pensato astrattamente, ma pur sempre un mondo. Le categorie e i
concetti che lui analizza nella sua logica sono a tutti gli effetti concetti ontologici, parlerà di
essere, nulla, divenire, sostanza, oltre che dei principi logici formali (la non contraddizione,
l’identità, ecc). È un’ontologia, cioè una scienza dell’essere in quanto manifestazione
dell’Assoluto, quindi al tempo stesso anche una teologia, uno studio, una scienza,
dell’Assoluto che si pone, si realizza nella realtà e nel pensiero, anche se ancora solo in
forma astratta (siamo ancora nel primo momento della conoscenza). “Scienza
dell’autostrutturarsi dell’impalcatura astratta dell’Assoluto”, come se noi nella logica
studiassimo sempre l’Assoluto ma nella sua forma più generica, nella sua struttura più
generale. Hegel dice che è “una scienza di Dio prima della creazione”, come se noi
provassimo a immaginarci Dio prima che Dio faccia alcunché, raccontando quindi qualcosa
di astratto, di puro pensiero: oppure “scienza dell’idea pura, cioè dell’idea nell’elemento
astratto del pensiero”, che presa così uno pensa alla logica aristotelica, ma è molto di più,
anche se già in Aristotele c’era una connessione tra logica e ontologia (le categorie logiche
corrispondono alle categorie ontologiche, la struttura fondamentale del pensiero corrisponde
alla struttura fondamentale della realtà), ma qui siamo a valle di Kant, uno dovrebbe aver
imparato la lezione che fare dell’ontologia è complicato; ma qui Hegel ha detto “siccome è il
pensiero che crea la realtà, torniamo a fare ontologia, l’ho capita la lezione di Kant: l’ho
superato”.

Hegel (14/10/2021)
La Logica di Hegel
È forse la parte più ostica del pensiero di Hegel. La logica è la scienza del pensiero puro e
del pensiero astratto, Hegel condivide queste definizioni. Il pensiero, che non è ancora
determinato, non è ancora il pensiero di questo o di quest'altra determinazione, è il
pensiero nelle sue funzioni universali. Hegel condivide apparentemente la concezione
tradizionale della logica, così come concepita da Aristotele. Ma in realtà subito fa capire che
assumendo la prospettiva dell'idealismo, per la quale il pensiero e la realtà coincidono, non
esiste un pensiero puro. Il pensiero è sempre già ontologicamente determinato, è
sempre già essere e descrizione dell'essere. La logica nel sistema hegeliano è sì lo
studio delle strutture generali e formali del pensiero, ma queste non sono solo formali, sono
già anche strutture dell'essere, viste in un momento preliminare e astratto, in un momento
non ancora determinato.

La logica ha una sua scansione organizzata in triadi dialettiche. Si parte dai concetti più
generici e astratti per arrivare via via a concetti sempre più determinati. Già nel suo
svolgimento la logica comincia ad arricchirsi e a concretizzarsi pass per passo: le ultime
determinazioni di cui Hegel tratta sono una determinazione della realtà già più ricca,
determinata e completa rispetto a quelle iniziali. La logica si configura dunque come un altro
modo di pensare all'Assoluto, che si autodetermina partendo da concetti generalissimi e
astrattissimi, ma cominciando a concretizzarsi, a darsi in concetti sempre più ricchi,
determinati e specifici. La prospettiva fondamentale non è dunque variata di molto rispetto
alla trattazione della fenomenologia.
La struttura della logica, di questo Assoluto che pone se stesso in modo astratto, non è
statica alla maniera del mondo delle idee di Platone. Se penso ai concetti, questi non
saranno lì fermi e immobili, ma dialetticamente determinati. è un processo che consente il
passaggio da determinazioni generali a determinazioni sempre più complete. La logica
hegeliana è dinamica, studia un processo dialettico che coincide con il dispiegarsi
dell'assoluto. Si suddivide in tre parti: la logica dell'essere, dell'essenza, del concetto. Il
tema è sempre lo stesso: essere, essenza e concetto sono tre modi di pensare la stessa
cosa, cioè l'assoluto, ma sempre più ricchi, sempre più determinati veri, e concreti. Si va
dall'astratto al meno astratto, sempre ricordando che questo "meno astratto" va
considerato nei limiti dell'astrattezza che concerne la logica tutta, rispetto alla
filosofia della natura oppure a quello dello spirito.

Logica dell’essere
In questa sezione Hegel parla di logica ma anche già di ontologia, infatti il primo concetto
fondamentale è quello dell'essere. Qui Hegel ritorna in maniera critica sui primordi della
filosofia, cita Parmenide ed Eraclito, torna sul problema del cominciamento, delle origini
della filosofia e del sapere, è un pallino di Hegel e di molti pensatori coevi e posteriori. Qui si
tratta delle prime categorie astratta attraverso le quali l'assoluto, cioè la realtà, è stata
pensata e spiegata. La prima triade dialettica fondamentale che parte dal concetto di essere
è: essere, nulla, divenire. La seconda è: il qualcosa, il qualcosa d'altro, e l'infinità.

● La prima triade: Essere, nulla, divenire. Se io dico e penso "essere", dentro


questo concetto dico e penso già tutto. Ho già detto tutto ciò che è possibile dire e
pensato tutto ciò che è possibile pensare, ho denominato la totalità di ciò che è. È un
po' l'idea di fondo del pensiero di Parmenide: "l'essere è". Non posso dire altro,
perchè se lo dicessi trascinerei il non essere dentro l'essere, che è illogico. Questa è
la determinazione, la descrizione più omnicomprensiva di tutto ciò che esiste, ma è
anche la più vuota. Se dico essere, ho detto tutto e non ho detto niente al tempo
stesso. Usando il lessico aristotelico, l'essere è il concetto che ha la più grande
estensione ma la più bassa comprensione. è un insieme dentro il quale sta tutto, ma
non mi dice nulla di ciò che sta all'interno dell'insieme stesso, se non che è. Qui
Hegel usa il procedimento dialettico in maniera leggermente differente dal solito. La
contraddizione dell'essere, che è il nulla, in un certo senso coincide con
l'essere. L'essere è tanto vuoto come concetto che rimbalza in quella che
lessicalmente e logicamente dovrebbe essere la sua antitesi ma che in realtà
coincide con esso. Dire essere significa dire nulla. Hegel afferma qui una cosa
estremamente interessante: la concretezza si trova nell'intermedio, nel
passaggio, nel fluire. Essere e nulla sono astrazioni concettuali, astrazioni del
nostro pensiero. Questo è il tema centrale della logica di Hegel, e lo si ritrova nelle
figure successive. Ciò che è più reale, più vero, è il divenire, è il costante fluire e
l'intrecciarsi dell'essere e nel nulla. Quindi Hegel sposa la visione eraclitea,
preferendola a quella parmenidea. Essere e nulla sono due astrazioni, sono i due
poli talmente antitetici che finiscono per ribaltarsi l'uno nell'altro, mentre il divenire è
un concetto astratto, ma già un po' più concreto, più aderente alla realtà, al vero. Se
descrivo la realtà come divenire sto dicendo qualcosa di più significativo rispetto alle
congetture di Parmenide sull' "essere è e non può non essere" ecc.

● Seconda triade: Dal pensiero dell'essere in senso astratto, si passa al pensiero di


qualcosa, IL qualcosa, ossia la determinazione in senso astratto. Ogni pensiero
determinato, contiene la propria contraddizione, "omnis determinatio est negatio"
(Spinoza). Se penso a un qualunque contenuto determinato e traccio un confine
(peras) all'interno del tutto determinato, definisco qualcosa, ma lo stesso atto logico
con cui affermo quella determinazione mi porta a definire la sua contraddizione. Il
qualcosa trapassa quindi costantemente nel qualcosa d'altro, e questa è la
dimensione della finitezza. Ho delle determinazioni finite che costantemente si
contraddicono, rimandano alla loro contraddizione e negazione.
Si pone a questo punto il problema dell'infinito: tradizionalmente lo si pensa come la somma
di tutte le determinazioni finite. Hegel chiama questo un "cattivo infinito": un infinito così
concepito non è altro che una "fuga del finito", dunque è un modo sbagliato e inconcludente
di pensare all'infinito, è l'infinito di Fichte. Non si può pensare il cattivo infinito, perché
bisognerebbe pensare a tutte le determinazioni finite che lo costituiscono, che sono però in
numero infinito. L'infinito posto da Hegel è da intendere in senso dialettico, non come
giustapposizione di tutte le determinazioni finite, ma come la relazione dialettica che io
colgo tra le determinazioni: esse non sono solo sommate ma sono superate. Il
qualcosa e il qualcosa d'altro diventano entrambe più vere nella loro sintesi dialettica.
L'infinito, in questa prospettiva, va dunque intesa come la sintesi dialettica di tutte le sintesi
dialettiche. La scommessa della filosofia è che lo Spirito (l'Io assoluto) sia concepibile, sia
qualcosa di razionalmente pensabile attraverso la dialettica. Non è un progresso lineare
senza termine, non è trascendente nel senso metafisico ebraico-cristiano, ma è l'insieme di
tutti i processi, il processo di tutti i processi che costituiscono la realtà. Se io lo penso così
ecco che posso tradurre l'infinito in un concetto.

Hegel afferma che l'Assoluto, lo Spirito così concepito è l'unica cosa "non mesta", non triste.
Il finito è sempre triste poiché rimanda alla sua negazione, alla sua morte: «Il finito non
solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non è già soltanto possibile che
perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l’essere delle cose finite, come tale, sta
nell’aver per loro essere dentro di sé il germe del perire: l’ora della loro nascita è l’ora della
loro morte.»

Solo l'infinito inteso come il superamento dialettico di ogni sintesi dialettica, solo il flusso
dell'assoluto è il contrario della mestizia del finito, il quale è non solo ontologicamente ma
anche logicamente connesso al proprio non-essere, alla propria contraddizione. Solo
l'Assoluto, la totalità, solo il circolo dei circoli è eternamente vivo.

Logica dell'essenza
In tedesco, essenza si dice Gewesen, che è il participio passato del verbo essere. In greco è
"Tò tì en eìnai", che tradotto in latino dai medievali suona "Quod quid erat esse". Quando
pensiamo all'essenza, pensiamo di fatto all'essere, ma è l'essere pensato in maniera più
concreta, più determinata. Nelle espressioni nelle tre lingue (che sono le lingue filosofiche
per eccellenza), la parola suggerisce un riferimento o un ritorno al passato, come se l'essere
riflettesse su se stesso e diventasse essenza. L'essere è il passato dell'essenza, come se
ci fosse un dinamismo. È l'essere che esce da se stesso, si concretizza, diventa
essenza che si riconosce come determinazione arricchita del generico essere.

I principi logici fondamentali attraverso i quali pensiamo all'essere come essenza


sono i grandi principi della logica aristotelica: il principio di identità (A=A), il principio di
non contraddizione (A ≠ non A), il principio di ragione sufficiente o di causalità (una
determinata essenza accede all'essere se sussistono le ragioni sufficienti perché ciò
accada). Questi principi ci consentono di pensare all'essere come essenza, ma Hegel li
critica.
Parte dal principio di identità. A = A. Hegel afferma che questa identità è apparentemente
un principio universale e incriticabile, innegabile, ma è un punto di vista astratto sulla
realtà. Empiricamente la realtà ci dice che ogni cosa è contemporaneamente se stessa e
qualcos'altro. Il principio di identità vale per il finito, ma il finito è mesto, è morto. L'intelletto
è la facoltà del finito, ma Hegel non lo afferma nella visione criticista Kantiana per cui
proprio in virtù di questa applicabilità al mondo reale la conoscenza umana non doveva
esulare dall'intelletto, lo dice invece evidenziandone il limite, l'impossibilità di
conoscere il reale. L'intelletto ci fa pensare alla realtà come a un insieme di essenze
congelate e non comunicanti: ogni cosa è se stessa ed è solo se stessa. Questa è la
negazione della dialettica, che dice esattamente il contrario, ossia che ogni cosa contiene la
sua contraddizione. Hegel sta dalla parte della ragione: essa fa pensare la realtà come un
flusso perpetuo. Siamo formalmente nel campo della logica, ma Hegel sta di fatto facendo
dell'ontologia.
Hegel (16/10/2021)
Hegel ci sta descrivendo come si muove il pensiero e dunque la realtà. Il principio di identità
e in particolare il principio di non contraddizione di cui Aristotele diceva “se a un certo punto
state discutendo con uno che a parole nega il principio di contraddizione, andatevene
perché tanto non ha nessun senso quella conversazione”. Hegel ci dice che in realtà questi
principi sono il cardine del modo in cui l’intelletto, cioè la facoltà del finito cerca di
pensare al mondo andando ad afferrare, a definire, delle determinazioni ben chiare e
distinte che però sono sclerotizzate, fissate, è come se l’intelletto cercasse di
conoscere la realtà scattando una serie di fotografie che congelano ogni
determinazione in sé stessa, contrapposta quindi a ciò che non è sé stessa (il
principio di non contraddizione dice questo). Questo è un punto di vista astratto,
perché la realtà, e quindi il pensiero, è originariamente e intimamente, un flusso, un
fluire, un processo. Una mela è una mela ed è una non mela, sempre, in ogni momento
della sua esistenza, perché è una mela ma è anche un corpo contundente se lo tiro in testa
a qualcuno. È una mela ma è una non mela perché se le do un morso già è in uno stadio
intermedio, sta fluendo dentro un perpetuo divenire. Questi principi che sembravano
assoluti, incriticabili, tanto che se uno li critica chissà cosa ci sta dicendo, sono in realtà
principi vuoti, principi morti, che quindi generano e sorreggono un modo di pensare al
mondo che è inadeguato. Quando Hegel dice che qualcosa non è vero, in realtà tutto è vero;
cioè se questo modo di pensare è accaduto, accade, è stato storicamente definito, allora
questo è uno dei passaggi verso la verità, ma il vero è l’intero, il vero sta dopo, nella sintesi.
Quindi il principio di non contraddizione non è il principio assoluto della logica perché in
realtà la contraddizione è la molla della logica, del pensiero, proprio perché il nostro
pensiero è continuamente buttato fuori da ogni determinazione che essa cerca di porre che il
pensiero si muove: dialegein, la dialettica, pensare muovendosi, pensare attraverso. Quindi
è molto più concreto, molto più vero, questo pensiero che si prende carico e che tiene dentro
di sé questa forza, questa molla, questa spinta della contraddizione, capisce di più della
realtà, che è un flusso, un fluire. Nessuna determinazione è semplicemente sé stessa, lì,
ferma, immobile, fissa, determinata. Il principio di non contraddizione è quindi quello che
riassume il punto di vista della finitezza, quindi dell’intelletto; mentre la contraddizione
dialettica, che continua a superare sé stessa è il punto di vista della ragione. Intelletto e
ragione, verstand e vernunft (in tedesco la contrapposizione tra questi due termini è ancora
più significativa perché hanno la stessa radice). L’unica realtà non contraddittoria è la
totalità, è l’infinito. Solo l’infinito non è contraddittorio, perché tiene dentro di sé e
supera dentro di sé tutte le contraddizioni; però è solo l’infinito, il sistema di tutti i sistemi,
la sintesi di tutte le sintesi, solo quello non è contraddittorio, ogni determinazione finita
invece lo è, esce da sé stessa irresistibilmente. Critica poi il principio di ragion sufficiente,
il terzo principio che lui menzionava come tipico di questa logica dell’intellettuale, quindi
inadeguata a pensare al mondo. Anche qui il principio di causalità funziona nel momento
in cui noi compartimentiamo il mondo in determinazioni finite, e quindi diciamo “questo
causa quest’altro”, dove “questo” e “quest’altro” sono due ben definiti concetti, ben definite
determinazioni. Se tutto è flusso, se tutto è dialettica, se tutto è movimento, tutto causa
tutto e tutto è effetto del tutto. In un certo senso l’unica vera causa di ogni determinazione
è ancora una volta l’infinito, che contiene dentro di sé la ragion sufficiente di sé stesso, e
quindi anche dell’insieme delle proprie determinazioni. Hegel poi dice che è meglio parlare di
un flusso reciproco, azione reciproca: ogni cosa determina ogni altra, in questa logica.
Hegel si è anche attirato molte critiche per queste cose che scriveva, dalla vecchia critica
aristotelica a quella di aver costruito una filosofia antiscientifica, perché il principio di
causalità, di ragion sufficiente, è il cardine del sapere scientifico; causa: ci sono due masse,
conseguenza: si determina una forza di attrazione gravitazionale tra le due masse. Hegel
passa a esaminare una serie di coppie apparentemente contrapposte, contraddittorie, che la
storia del pensiero ha generato, ma seguendo una logica intellettuale, che distingue, che
fissa, che separa; lui qua parla di termini che non sono già più parte della logica pura, ma
sono termine della storia dell’ontologia (essenza-esistenza, sostanza-accidente,
potenza-atto), che ci riportano ad Aristotele o ai dibattiti medievali sull’ontologia. La logica di
Hegel è sempre già un’ontologia, lui dice che queste determinazioni generali esprimono
ovviamente l’essere, è già una riflessione ontologica, non solo formale. Essenza-esistenza,
questa coppia di concetti che conosciamo fin da Aristotele (ma poi in questi termini anche
nel pensiero medievale, la disputa sugli universali). L’essenza sarebbe l’eidos, la forma
sostanziale, l’identità profonda, autentica, di un ente; l’esistenza (exsistĕre, stare
fuori) sarebbe invece l’apparenza nel mondo, l’accadimento nel tempo, nello spazio di
quell’essenza. La tradizione ontologica occidentale ha sempre contrapposto e distinto
questi due concetti: l’essenza è una sorta di natura profonda, latente per certi aspetti, e
l’esistenza è l’apparire nel mondo nella dimensione della presenza, della datità. Questa
contrapposizione è un chiaro esempio, un prodotto dell’intelletto che separa, che distingue,
che sclerotizza, che fissa, perché in realtà in ogni ente reale l’essenza e l’esistenza sono
compenetrate l’una nell’altra, sono fondamentalmente la stessa cosa. Lo stesso vale per
sostanza e accidente, questa è proprio una distinzione aristotelica; questo muro è una ousia,
(il colore azzurrino di questo muro è un accidente di questa ousia); qui replica un po’ questa
dicotomia, l’ousia sarebbe l’identità profonda, salvo che poi arriva Locke e dice che se
togliamo tutte le caratteristiche accidentali con cui definiamo un ente resta un insieme vuoto.
Ma se lì era una critica al concetto di sostanza, qui è una critica alla distinzione intellettuale
tra il concetto di sostanza e il concetto di accidente laddove la realtà è sempre già sintetica,
cioè una sostanza ci si presenta nei suoi accidenti, punto. Potenza e atto, la coppia
fondamentale della fisica aristotelica; anche qui ogni ente è quello che è, in lui la potenzialità
e l’attualità sono compenetrate, sono le polarità astratte di quello che è sempre un flusso
vivo, dinamico, reale. Ciascuno di noi è sempre costantemente in potenza e in atto, in modo
vivo, in modo dinamico. Sostanzialmente qui Hegel sta giocando al gioco di dire che tutti
quelli che sono venuti prima di lui hanno parlato dell’essere in maniera inadeguata (in realtà
non proprio tutti, qualcuno che ne ha parlato in maniera adeguata c’è: Eraclito, per esempio;
lui coglieva l’idea dinamica dell’essere, della realtà, e quindi anche del logos quando pensa
alla realtà).
Arriviamo allora alla terza e ultima parte della logica hegeliana, la logica del concetto. Uno
potrebbe dire “okay Hegel, non dobbiamo pensare alla realtà schematizzandola, fissandola,
in contenuti determinati, separati, l’uno dall’altro. Ma allora come dobbiamo pensare alla
realtà? Qual è la logica giusta, la logica che proponi?”. È quella che lui chiama “logica del
concetto” (begriff). Pensando all’etimologia di concetto (che funziona in italiano, in latino,
cum+capio, in tedesco, be+griffen, col significato di “afferrare insieme”), capiamo che il
pensiero dialettico è quello che riesce a cogliere la fluidità, e la fluidità si esplica nel
concetto, cioè quando noi, il nostro pensiero, le nostre parole, esprimono qualcosa che è
“preso insieme”. È chiaro poi che noi siamo creature finite, quindi l’aspetto intellettuale non
verrà mai eliminato del tutto, alla fine noi ci esprimiamo col pensiero e con parole che dicono
qualcosa e non dicono altro, se io dico “mela” non sto dicendo “pera”; quindi in qualche
modo la dialettica lavora anche con l’intelletto. Nel momento in cui noi cerchiamo però di
comprendere la realtà non tanto come un insieme separato di determinazioni ma come un
flusso in cui le cose sono originariamente, intrinsecamente dinamiche e contraddittorie (nel
senso di spinte fuori, oltre il confine, il peras logico che le definisce), stiamo pensando
secondo concetto, dialetticamente (la modalità con cui possiamo arrivare ai concetti è
proprio quella della dialettica: tesi, antitesi, sintesi, tesi, antitesi, sintesi..., spinti oltre a capire
qualcosa di più). In realtà l’oggetto ultimo della logica è l’assoluto, l’unico vero concetto
esaustivo, vero, è la totalità: il vero è l’intero. È solo nell’infinito, nell’assoluto, che tutto è
“preso insieme”, e quindi è soggetto logico inteso come infinito, assoluto, che è la sua
interpretazione se vogliamo dell’io penso kantiano, è quello che tiene insieme tutte le
determinazioni, è un io che al tempo stesso è assoluto logico, il pensiero, ed è la realtà,
nella totalità delle sue determinazioni che interagiscono tra di loro. Come ci si arriva però lì?
Ci saranno chiaramente dei concetti intermedi, dove c’è ancora un pochino l’intelletto a
definire, a fissare: noi abbiamo bisogno di ragionare attraverso parole, attraverso
argomentazioni, il nostro io individuale non è già quell’io assoluto, il nostro pensiero non è
sintetico, immediato, intuitivo. Il concetto è “forma infinita, creatrice, che racchiude in sé
la ricchezza di ogni contenuto [...], l’assolutamente concreto, e, precisamente, lo è in
quanto contiene in sé in unità ideale l’essere e l’essenza”. Ci saranno tanti filosofi,
contemporanei e successivi ad Hegel (anche molto dopo come i neopositivisti nel ‘900), che
criticheranno Hegel ad esempio su questa definizione del concetto: una supercazzola. Se il
concetto in senso assoluto è l’infinito, che riassume in sé tutte le possibili determinazioni
concrete, è chiaro che poi ci sono degli strumenti logici che ci permettono di tendere
all’infinito, e sono appunto il concetto propriamente detto, il giudizio e il sillogismo. Qui Hegel
torna a parlare di quelle che apparirebbero delle strutture formali, logiche, aristoteliche, e
sono proprio i tre livelli del discorso, del pensiero, della parola che già definiva Aristotele:
Il concetto: io colgo un’idea e la sua definizione
Il giudizio: metto insieme attraverso la copula due concetti, un soggetto e un predicato
Il sillogismo: articolo un ragionamento, concateno tra di loro dei giudizi in un modo che abbia
una validità logica
Questi sono, secondo Hegel, tre modi con cui, in maniera sempre più complessa,
articolatavera, si esplica la logica del concetto: sia che noi proviamo a definire qualcosa, sia
che noi articoliamo dei giudizi, quindi connettiamo soggetti e predicati, sia che noi
costruiamo dei sillogismi, stiamo proprio unendo ciò che dovrebbe essere contraddittorio in
una rigida logica dell’intelletto. Se io costruisco questo giudizio: “questo spruzzino è rosso”,
ho begriffen due cose che a rigor di termini non potrebbero essere incollate insieme, perché
questo spruzzino non è rosso, questo spruzzino è questo spruzzino se vogliamo applicare
rigidamente il principio di identità e di non contraddizione, e non può essere altro: l’essere è
punto (Parmenide). Non posso dire nient’altro se non che questo spruzzino è questo
spruzzino, se inizio a dire che questo spruzzino è rosso, è mio, è sul tavolo, sto dicendo che
questo spruzzino è qualcosa che non è questo spruzzino. Già nel giudizio lavora questa
fluidità, e a maggior ragione nel sillogismo. Il sillogismo permette di concatenare insieme più
giudizi e quindi, con il termine medio che fa da lucchetto, di mettere insieme determinazioni
che di per sé, se dovessi limitarmi al rigido principio di identità e di non contraddizione,
dovrebbero essere lì, una di fianco all’altra, isolate, senza connessione. Il nostro pensiero
connette, mette insieme, begriffe. Hegel dice che il sillogismo è “la forma perfetta della
razionalità pura, in cui la soggettività del pensiero diviene oggettività”. La dialettica quindi
se vogliamo descriverla in termini formali è un’infinita concatenazione di sillogismi
che arriva a connettere ogni determinazione con ogni altra, se avessimo questa roba
qui avremmo l’infinito, l’assoluto. L’idea logica dispiegata sillogisticamente è il concetto
pienamente autorealizzato, cioè è l’assoluto, l’infinito.
Hegel (23/10/2021)
(...) Ma la moralità, come lui aveva già scritto nella Fenomenologia dello spirito, fallisce in
questa sua impresa di plasmare un mondo a immagine della razionalità. E quindi si trapassa
alla figura dell’eticità.
Eticità è l’incarnazione preindividuale o transindividuale della razionalità: non è l’azione che
compi a far diventare razionale il mondo; il mondo è già razionale, e tu sei già dentro il
mondo razionale, fatto di tradizioni, linguaggi e cultura.
C’è naturalmente una profondità in ciò che dice Hegel.
Abbiamo visto come il Diritto si basi sulla trasposizione dall’io psicologicamente inteso all’io
giuridicamente inteso.

Hegel, nell’opera Lineamenti della filosofia del diritto dice alcune cose interessanti inerenti al
tema del diritto. Hegel commenta ogni singolo uso giuridico dell’epoca e afferma che ogni
passato giuridico abbia una propria razionalità: tutte le istituzioni giuridiche sono portatrici di
una certa razionalità. Ad esempio, Hegel passa in rassegna il diritto di manomorta, che era il
diritto per cui le istituzioni ecclesiastiche avevano il diritto di avere una parte dell’eredità di
chi moriva.
Tutte le osservazioni che fa Hegel sono molto interessanti:
Hegel ragiona sul fatto che il concetto di persona giuridica si evolva in due principi
fondamentali:
● il concetto di habeas corpus: diritto di proprietà del proprio corpo.
Storicamente nasce quando nel mondo anglosassone uno dei diritti che vengono
rivendicati nei confronti di re (che tendono ad essere dispotici), è il diritto a non
essere incarcerati prima di un processo appropriato.
Hegel dice che in realtà dovrebbe essere istituita una legge opposta a questa.
(In Italia esiste un’istituzione chiamata carcerazione preventiva: la legge prevede che
in alcuni specifici casi, una persona che è solo accusata in un processo possa
essere detenuta. Sono casi in cui, teoricamente, dovrebbero essere rari.)
● la natura del contratto: Un contratto è un accordo giuridico ⇒ è il convenire di due
volontà. ll contratto è una struttura oggettiva che converge le due volontà dei singoli.
Tuttavia il contratto è sì reale, ma è astratto ⇒ non ha la forza di far accadere ciò che
è scritto sul foglio di carta.
Il contratto è precario, accidentale, formale.
Il problema è che tutte le leggi del diritto sono come i contratti ⇒ di per sé, l’illecito non fa
accadere immediatamente la pena. Quindi, sulla legge intesa come contratto formale è
sempre sospesa la possibilità dell’illecito: è come se la soggettiva si prendesse una vendetta
sull'oggettività; l’intenzione individuale è più forte della legge stessa.
Hegel dice che il diritto è, in un certo modo, una universalizzazione concreta della
volontà generale (si sente un'eco quasi rousseauiana) e quindi il criminale è colui che
erge la propria volontà individuale contro l’universalità della legge, cioè la volontà di
tutti. Ma attenzione, la possibilità che ciò accada è sempre aperta.
Incidentalmente questa la ragione che, in un certo senso, giustifica la pena.
Che cos’è la pena? Formalmente è la condanna al reo (cioè al criminale); dialetticamente,
invece è la negazione della negazione (Aufhebung) ⇒ c’è il contratto (tesi), tu l’hai violato
(antitesi) e io ti faccio un culo così (sintesi, aufhebung): in un certo senso è la
reintegrazione del reo all’universalità.
A questo punto Hegel dice una cosa veramente interessante: si chiede infatti chi abbia il
diritto alla pena in queste situazioni. Hegel afferma che chi ha veramente il diritto alla pena
non è la vittima del crimine, ma il criminale stesso.
Infatti, attraverso la pena, è come se il reo si reintegrasse all’universalità, alla volontà
generale.
Hegel va dunque contro i principi dell’Illuminismo (in particolar modo contro Cesare
Beccaria).
Quello che fa Hegel è un ragionamento molto simile al pensiero cattolico: il peccatore,
tramite il supplizio, è come se si reintegrasse alla comunità, anche in maniera
trascendentale.

Hegel (26/10/2021)
Siamo nello spirito oggettivo.
Lo spirito oggettivo riguarda la razionalità incarnata, fuori di noi: nel mondo, nella
cultura, nella storia. La prima incarnazione dello spirito oggettivo è il Diritto.
Abbiamo studiato che il diritto è la trasposizione, sul piano oggettivo, della personalità
psicologica, che diventa quindi personalità giuridica.
Però il diritto è sempre formale: è certamente un’incarnazione più concreta della razionalità
rispetto alla razionalità intesa in senso psicologico, però è pur sempre formale ⇒ la
razionalità espressa dalle leggi non tutela sé stessa, perché è sempre aperta la possibilità
dell’illecito.
Quindi, il passaggio alla moralità è significativo perché è l’interiorizzazione della
legge: la legge non è più estrinseca a me, ma viene interiorizzata in modo tale non
perdere il passaggio all’oggettività dello spirito ⇒ la moralità non è più
semplicemente l’io psicologico che vaga alla ricerca del criterio dell’azione; il criterio
dell’azione ci precede: la moralità che noi professiamo ci viene insegnata, o la
ritroviamo (magari in un testo sacro).
Questo ritorno della legge nella soggettività è, al tempo stesso:
● Un passaggio di tipo teoretico
● Un passaggio di tipo storico, incarnato in un’epoca storica.
Un esempio è dato dal cristianesimo (che ha messo al centro di tutto la moralità) e la
conseguente modernità ⇒ epoca della coscienza; la riflessione sull’azione, lo scrupolo
morale, il confronto con una legge che deve essere interiorizzata.
Hegel dopo dirà che la moralità è fallimentare ma al tempo stesso necessaria per
l’evoluzione dello spirito. La coscienza morale è un santuario inviolabile (qui riprende
Agostino): è fondamentale avere nella nostra spiritualità una sorta di giudice ultimo davanti
alla razionalità. Riprende quindi alcuni temi affrontati nella Fenomenologia: i vari criteri che
possono guidare la nostra azione morale, approdando alla conclusione che nessun criterio
morale possa garantire un’assoluta razionalità, neanche la formalità morale di Kant (l’etica
più profondamente razionale è un’etica vuota).
Questo perché il limite della moralità è che, ritornando in sè stessa, lo spirito perde
oggettività, si isola dal mondo.
Il superamento della moralità sta nell’eticità, che è scienza speculativa dei doveri
concreti: si occupa di comprendere come, al nostro spirito, si presentino dei doveri pieni di
contenuto (e non solo dei doveri formali). Non è la mia coscienza che mi dice cosa devo
fare, ma me lo dice il mondo, la storia, la tradizione che mi precede, la cultura dentro cui
sono immerso: i valori a cui noi conformiamo il nostro agire morale sono già lì, non siamo noi
a ricrearli da 0. Non è il nostro io morale che ricrea da zero i principi morali, ma esistono già
al di fuori di noi. L’eticità si struttura in tre istituzioni:
1. Famiglia: è la prima e originale incarnazione dell’eticità. Per famiglia, Hegel intende
proprio la famiglia “tradizionale”: genitore-figli. Questo è il primo ambito fondamentale
dentro cui uno viene al mondo e dal quale l’individuo apprende le strutture della
propria razionalità.
2. Società: sembrerebbe essere la negazione, una disgregazione dell’unità familiare ed
etica. E’ un tutti contro tutti; fondamentale per conseguire tutto ciò che non viene
prodotto all’interno della Famiglia.
3. Stato

Famiglia
Rappresenta la compattezza etica.
I valori in cui si incarna l’eticità nella famiglia sono:
● il matrimonio: per Hegel il matrimonio non è una questione di sentimento. Il
matrimonio si basa sull’amore, ma l’amore non è un sentimento: è l’amore etico è
una scelta etica, una condivisione di valori ⇒ critica dell’amore romantico
Il matrimonio non è contrattuale, a differenza di quanto pensava Kant.
● gestione del patrimonio: il patrimonio è ciò che serve alla famiglia per stare bene.
Esiste un diritto di patrimonio, una decisione di chi ha l’ultima parola sulla gestione
del patrimonio (per Hegel, è il padre). La gestione del patrimonio deve essere
conseguito in funzione del benessere della famiglia, quindi ha un valore etico.
● educazione dei figli: la famiglia è il luogo dove “accade” la generazione dei figli. Il
patrimonio e i figli rappresentano quindi l'oggettivazione del matrimonio etico.
Società
La società è il momento in cui la compattezza etica del matrimonio si rompe ⇒ si può
dire che sia il momento dialetticamente negativo (antitesi).
La società nasce dai bisogni che non possono essere soddisfatti solamente dalla famiglia.
Banalmente è dunque una ragione economica, di interesse: se io sono un padre che fa il
fornaio, devo lavorare per poter comprare le scarpe a mio figlio, dato che non sono in grado
di produrre da solo le scarpe. Ciò che guida la società è dunque il sistema dei reciproci
bisogni.
All’interno della società vi è un meccanismo di autoregolazione: ci sono dei bisogni, e
qualcuno deve agire in modo da poter rispondere a questi bisogni. Costui lo farà sì per
interesse personale, ma, al tempo stesso, questo perseguimento degli interessi personali
beneficerà gli altri.
La società si regge sull'interdipendenza economica e, tutto questo, è un elemento della
razionalità. Si tratta di una razionalità contabile, meno compatta di quella della famiglia, ma è
comunque una forma di razionalità.
Per Hegel, non c’è bisogno di nessuna regolamentazione superiore, perchè nel momento in
cui ipotizzassimo l’esistenza di un ente superiore che regoli questo sistema di
interdipendenza, saremmo già fuori dalla società ⇒ la società si fonda sul fatto che si
autoregola: alla domanda corrisponde un’offerta. ⇒ mano invisibile di Adam Smith.
La divisione della società in classi riguarda sempre questo ambito. Per Hegel le classi sono
aggregati di persone che operano alla risposta dello stesso bisogno.
Anche l’amministrazione della giustizia appartiene sempre all’ambito della società.
La società che Hegel si immagina è una società corporativa, in cui tutti coloro che
rispondono allo stesso bisogno sono solidali ⇒ idea delle corporazioni medievali.
Stato
Lo Stato rappresenta la sintesi (aufhebung), il superamento ⇒ è vasto come la società ma
è compatto come la famiglia; è universale (a differenza della famiglia) ed è inoltre
eticamente coeso come la famiglia.
È un organismo etico lo Stato.

Hegel (28/10/2021)
La concezione Hegeliana dello Stato.
Si tratta di uno dei punti più discussi e contestati della filosofia hegeliana. Dalla concezione
dello Stato discende la concezione della storia.
Lo Stato è per Hegel la terza figura dell'eticità, che è a sua volta la terza figurazione dello
spirito oggettivo. Dopo famiglia e società lo Stato è la terza istituzione. Se la famiglia è la
figura della compattezza etica, se la società è l'antitesi, quindi la dispersione, della
mancanza di compattezza etica, regolata dal conflitto e dall'opposizione degli
interessi, lo Stato è compatto come la famiglia eticamente, ma è universale come la
società, abbraccia e ingloba ogni singolo individuo. Quello a cui sta pensando Hegel è
lo Stato naturale. Hegel è prussiano, sta vivendo a Berlino, sta parlando dello Stato
prussiano fondamentalmente.
Dal punto di vista dialettico lo Stato è il momento sintetico e positivo. Hegel vuole indicare è
che in un certo senso la concezione dello Stato precede e viene prima, sta a fondamento,
dell'individuo. Lo Stato è per Hegel l'incarnazione oggettiva della razionalità universale. è lo
Stato che fonda l'individuo. Noi crediamo in determinati valori, rispettiamo le leggi ecc.,
perchè siamo cittadini, sudditi, parte di quella comunità e di quello Stato. È lo Stato il
fondamento ontologico dell'individuo, è il superamento del contrattualismo di Kant e
Rousseau, ma anche del giusnaturalismo, secondo cui la forma o la conformazione del
giusnaturalismo statale deriva da alcuni valori o diritti che appartengono originariamente
all'individuo. Il diritto alla sicurezza fisica in Hobbes, il diritto alla proprietà di Locke ecc.
Anche nel giusnaturalismo l'individuo viene prima dello Stato, è la natura del primo che
determina la natura del secondo. In Hegel avviene esattamente il contrario, c'è un
rovesciamento di quest'ottica. Hegel è molto critico di tutta la tradizione politica a lui
precedente. C'è però una connessione con l'antichità, con Aristotele. Egli definiva la
dimensione pubblica, sociale e politica come una dimensione originaria, da cui ogni
individuo trae la sua stessa essenza. Una delle definizioni che Aristotele dà dell'uomo è
quella di animale politico, che dunque è uomo solo nella dimensione politica e sociale. Hegel
è molto più vicino a Aristotele che non a Kant, Rousseau, Locke, Hobbes ecc.
È lo stato secondo Hegel che esprime una volontà razionale sua, che trascende
l'individuo. è una razionalità oggettiva che prende corpo nelle azioni politiche, ed è
consapevole: lo Stato sa di essere questa incarnazione oggettiva della razionalità. Lo
Stato è un ordinamento razionale della realtà, che si articola in tre direzioni: il diritto statale
interno (l'ordinamento razionale riguarda la struttura interna dello Stato), il diritto statale
esterno (gli stati sono molteplici, c'è un tentativo di ordinamento delle relazioni
internazionali) e infine c'è la storia del mondo, perché lo Stato inteso in questo modo è il
vero motore della storia, è quello che fa procede e sviluppare la storia.
● Il primo momento, quello del diritto interno, si suddivide in:
○ Universalità: L'universalità rappresenta il potere legislativo. Lo Stato ordina
se stesso con leggi valide per tutte, con valore universale
○ Particolarità: perchè l'azione dello Stato deve articolarsi in circostanze
concrete e determinate. Questa è la caratteristica del potere esecutivo.
○ Individualità: La sintesi di tutto questo, la vera incarnazione oggettiva del
diritto statale è la figura del monarca, che incarna al tempo stesso
l'universalità, nel rappresentare i sudditi e lo Stato, ma è un individuo, con
una sua volontà e intelligenza particolare.
Hegel è personalmente coinvolto in questa visione: sta parlando della monarchia
prussiana. Hegel sta quasi dicendo che il monarca trae il suo potere dall'essere
l'incarnazione della ragione nel suo più alto stato, è una persona che si identifica
nello Stato, in cui lo Stato si identifica. Si potrebbe dire che sia una concezione del
diritto divino: essendo per Hegel il divino la razionalità empirica e immanente delle
cose. Questa struttura è il massimo grado di sviluppo del diritto statale interno. è una
sorta di obiettivo verso cui tutti i sistemi politici evolvono. Qui si apre una questione,
poi lungamente dibattuta dopo la morte di Hegel. Tra i suoi studenti e colleghi, si
comincia a creare una spaccatura tra chi inizia a usare Hegel in senso conservatore
e chi in senso progressista. Ci sarà chi dice "non plus ultra": la monarchia
costituzionale è la massima e più progressiva forma di diritto. Ci sarà anche chi usa
Hegel per affermare che ogni determinazione è sempre la tesi genererà un'antitesi
per essere superata. Bisogna guardare al contenuto di ciò che ha scritto, a una
fotografia che lui ha scattato della realtà che aveva davanti agli occhi, oppure alla
forma, al metodo, all'evolversi dialettico di qualsiasi determinazione, anche storica.
● Il diritto statale esterno è il secondo momento della triade, quello dell'antitesi. Nel
momento in cui lo Stato si relaziona con altri Stati si ha un momento negativo.
Non c'è più unità etica. Gli Stati tornano ad essere individui in
contrapposizione tra loro. Il diritto statale esterno corrisponde al momento della
società per quanto riguardava gli individui: ogni individuo va a interagire sulla base
dei propri interessi con gli altri. Questo deriva dal fatto che ogni stato è sovrano di se
stesso: Hegel legge e trasfigura filosoficamente la sovranità Westfaliana, in cui si
diffonde l'idea della ragione di Stato e dell'indipendenza di ciascuno Stato dagli altri.
Questo concetto della sovranità è ancora oggi vigente. Ogni Stato è dunque un
individuo che entra in relazione con gli altri individui in nome di nessuna legge
superiore. Le istanze di cui l'individuo è portatore sono assolute, e dunque anche
quelle dello Stato. Queste istanze possono accidentalmente collimare con quelle di
qualcun altro, ma solo, appunto, accidentalmente. Hegel svolge una critica al diritto
internazionale, al giusnaturalismo ecc., andato avanti verso l'illusione che le nazioni
sovrane potessero generare un livello di armonia superiore. Era stato Kant a
suggerire la possibilità di una federazione europea, con cui Hegel si scontra. Lo
Stato è già Dio nella storia, è un assoluto. Gli Stati nel rapporto tra di loro sono homo
homini lupos. C'è un parallelo con Hobbes. Questo non significa che il rapporto con
lo Stato debba necessariamente essere conflittuale. Può capitare che gli Stati
vadano tra loro d'accordo. C'è una critica all'idea liberalista, alla pace perpetua
kantiana. Non è possibile per Hegel istituire qualcosa che incarni il livello della
razionalità, della storia, superiore a quella dello Stato che possa risolvere i conflitti tra
gli Stati: " Non c'è alcun pretore, al massimo arbitri o mediatori tra stati, e anche
questi soltanto in modo accidentale, cioè secondo volontà particolari." I conflitti tra gli
Stati sono necessari, sono il motore del divenire storico, del progresso storico. Qui si
apre la questione della Storia.
● Hegel dice che la storia è la manifestazione dell'accadere della ragione
assoluta. La razionalità, l'assoluto, lo spirito, che si incarna nella storia del mondo e
la svolge secondo le sue logiche, viene definito così: spirito del mondo, Weltgeist. Il
Weltgeist si muove, evolve, il mondo non è organizzato rispetto agli umani nello
stesso modo in cui lo era nel passato. La storia si muove, cammina. I soggetti che la
fanno muovere sono gli Stati. In ogni epoca c'è uno Stato che domina gli altri. Ogni
popolo ha il proprio Volksgeist, l'insieme dei valori di cui un popolo è portatore e di
cui è incarnazione. In ogni epoca storica, tramite il conflitto tra gli Stati, c'è uno Stato
che domina, che diventa dominante, che impone al mondo il suo Volksgeist. Questo
dominio è ciclico, non fisso, capita a ogni popolo con il proprio Volksgeist, quando
questo è il più vicino all'assoluto tra tutti i popoli. La storia è un meccanismo
dominato dal logos, dalla ragione, dallo spirito. Gli stessi popoli dominanti non
impongono la cultura dopo aver imposto il dominio: per Hegel avviene il contrario. È
perché la cultura in quel momento è in sincronia con lo spirito del mondo che
costruiscono un impero, che vincono la battaglia, ecc. Questa è lo storicismo
hegeliano. Storicismo è un nome generico per indicare il poter individuare una
logica e una necessità nello sviluppo delle vicende storiche. Il soggetto della
storia del mondo è l'assoluto, che sfrutta i popoli dominanti, i quali nel dominare altro
non fanno che servire la ragione universale. Lo stesso vale per gli individui cosmici,
che incarnano lo spirito del mondo, come Napoleone (celebre la frase di Hegel
quando lo vede uscire per andare alla battaglia di iena). L'idea che si realizza
progressivamente nella storia è quella di libertà, è verso l'affermazione di questa che
noi ci muoviamo nella storia. Esiste una finalità immanente nella storia, non c'è una
finalità trascendente esterna alla storia, un Dio che interviene attivamente nelle
vicende del cosmo e dell'uomo: la finalità è la libertà, che è intrinseca nel cosmo. Gli
individui e i popoli dominanti che in un epoca hanno dominato e imposto il loro spirito
in realtà agiscono pensando di portare avanti i propri fini. I fini che l'azione collettiva
consegue non sono mai quelli che chi ha agito si era posto. Nella storia accade altro
che non è posto da chi agisce. Hegel dà a questo fenomeno il nome di astuzia della
ragione. Napoleone crede di agire per se stesso ma agisce per la ragione, per dei fini
a lui sconosciuti, equivocati.
La storia del mondo è la progressiva affermazione della libertà. Si passa dal
dispotismo orientale in cui solo il monarca è libero, all'eticità greca aristocratica, in cui
pochi sono liberi, fino al diritto romano, in cui tutti sono liberi ma astrattamente
(indipendentemente dall'origine), e poi l'idea viene interiorizzata nel cristianesimo, nel
mondo barbaro che invade Roma e diventa il nuovo motore della storia.
I romani conquistano la Grecia perchè la loro visione del mondo era più avanzata,
più libera.

Hegel (30/10/2021)
Lo storicismo è logica immanente della storia e spiega la storia con la progressiva
affermazione dell'idea di liberatá. Uno dei lasciti è una chiara interpretazione di alcune
epoche storiche: l'Illuminismo è l'evoluzione necessaria del cristianesimo (Nietzsche). La
modernità è l'epoca del primato della coscienza, ma che comincia prima dell'Illuminismo.
Spirito assoluto
È la realizzazione stessa dello spirito, nonché lo spirito che pone se stesso come
proprio oggetto (eco aristotelica). Esistono tre modalità con cui l'umanità storicamente
tenta questo processo. La filosofia dello spirito assoluto è l'autoconsapevolezza dell'idea. Le
tre figure sono rappresentate del metodo:
L'arte è intuizione sensibile dell'assoluto. È una forma dello spirito che cerca di realizzare
un'intuizione immediata dell'assoluto, quindi espressione in forma sensibile. L'estetica è il
darsi in forma grafica dell'universale, che cerca di farsi particolare: l'aspetto della
comprensione dell'assoluto da parte dell'artista è fondamentale. C'è una sotto triade che
incarna tre momenti: arte simbolica, arte classica, arte romantica (da cristianesimo in
avanti). L'arte simbolica è quella delle grandi civiltà pre-greche (Egitto e Oriente in
particolare) ed è segnata da una sproporzione; la loro arte è povera perché propri di una
cultura non ancora in grado di comprendere il logos, l'assoluto. Il senso estetico è più
sviluppato del contenuto concettuale. Dove questo rapporto tra capacità tecnica e
conoscenza concettuale è perfettamente equilibrato è nell'arte classica: l'arte greca è
pulita ed elegante (non è vero, erano colorati). La sproporzione si riapre nell'arte
romantica (cioè tutto quello che viene dopo la grecità) perché interviene nella storia del
pensiero la comprensione della coscienza. È di segno opposto rispetto a quella simbolica: la
comprensione dell'assoluto è troppo maggiore rispetto alla tecnica pittorica e la
forma sensibile non rispecchia la profondità del concetto. Hegel vede la direzione che
l'arte avrebbe preso, l'arte non ha più niente da dire. C'è un limite intrinseco nella
rappresentazione dell'infinito. L'arte diventa filosofia nella modernità.
Hegel definisce una tassonomia delle arti per importanza: della forma d'arte meno astratta a
quella più astratta (architettura → scultura, che perde utilità → pittura che perde una
dimensione → musica → poesia entrambe forme uditive ma la poesia tende al concetto).

Hegel (02/11/2021)
Il contenuto della Religione è sempre l’assoluto, mentre la forma è quello della
rappresentazione, del racconto, del mito.
C’è una coerenza nella concezione hegeliana della religione dai suoi scritti giovanili a
quando era vecchio.
Noi raccontiamo l’assoluto attraverso i miti.
Scritti giovanili
1795: Religione popolare e cristianesimo ⇒ distinzione tra:
● Religione popolare (che lui identifica nel mondo greco), che è pubblica (che d°
forma ai riti della polis), soggettiva (non dogmatica), “del cuore” (sentimentale) e
armonica (gli dei non sono percepiti come qualcosa di completamente s un altro
piano rispetto a noi, ma c’è un’armonia tra umano e divino).
● Religione positiva (cristianesimo) (deriva da postum ⇒ religione “posta”,
dogmatica): è l’antitesi della precedente. È una religione privata, oggettiva,
dell’intelletto, eteronoma (il divino si impone a noi e ci dà dei dogmi che dobbiamo
rispettare).

1795: Vita di Gesù è tentativo di rileggere il racconto evangelico in chiave di interpretazione


razionale. Qui Hegel è ancora kantiano (la vicenda di Cristo altro non è che la trasposizione
della moralità kantiana).
Qui distingue:
● Ebraismo: che è una religione eteronoma, caratterizzata da un Dio che detta la sua
legge divina proveniente dall’alto.
● Cristianesimo non è più religione dell’eteronomia ma è religione di riappropriazione
dell’autonomia.
Questo è considerato il testo originario di una corrente teologica, chiamata la teologia
iberale, cioè un approccio teologico che tende a dare un’interpretazione razionale e etica del
cristianesimo. Ancora oggi il dibattito teologico più interessante è quello tra
un’interpretazione assolutamente critica della religione e un’interpretazione in chiave etica e
antropologica della religione.
1796: La positività della religione cristiana.
Nella prima opera dice che il cristianesimo è una religione positiva ma nella seconda opera
riconosce l’è braisco come religione positiva e il cristianesimo come religione autonoma.
In quest'opera conferma la sua seconda lettura.
La religione positiva è l’ebraismo e la cosa pericolosa è che potrebbe rendere essenziale
l’accidentale
Il cristianesimo nasce come rottura dell’eteronomia ebraica, come critica alla sua
positività. Tutta la legge cristiana si basa sul “ama il prossimo tuo come ami te stesso”.
Tuttavia, i discepoli del cristianesimo trasformano la religione cristiana in positiva.
Come dice Hegel, i discepoli di Cristo sono peggiori dei discepoli di Socrate, perché mentre i
discepoli di Socrate non hanno trasformato l’insegnamento critico di Socrate in una dottrina
eteronoma, i discepoli di Cristo l’hanno fatto.

1798: Lo spirito del cristianesimo e il suo destino.


Cos’è il destino? E’ un termine che Hegel usa per indicare lo sviluppo dell’essenza di un
fenomeno.
Il destino di qualcosa è già descritto nell’essenza di un oggetto.
Il cristianesimo è un tentativo di superamento dell’ebraismo, che rappresenta la coscienza
infelice, in nome dell’amore. E’ però una liberazione mancata perchè anche l’amore diventa
un comando e quindi la riconciliazione non può avvenire se non come comando (“ama il tuo
prossimo come ami te stesso”).
Tutte queste riflessioni poi vengono ripresi da Hegel nel suo Sistema. La religione si articola
in tre figure:
● Grecità: immediata, ma ingenua, unità tra uomo e Dio. Ingenua perché nel divino
capisce molto poco.
● Ebraismo: a un approfondimento della comprensione del divino corrisponde una
lacerazione, la coscienza infelice ⇒ eteronomia: la religione è un insieme di codici
Dio che impone all’uomo, il quale deve obbedire.
● Cristianesimo: sintesi. E ricco e profondo come l’ebraismo ma cerca di essere
immediato, ma non ingenuo, come la grecità.
Il problema è che la religione non può superare se stessa e fallisce nella riconciliazione
proprio perchè la rappresentazione di questa non è concettuale ma viene raccontata tramite
i miti.
L’unico modo per raggiungere l’assoluto, che è logos, è agire per via razionale, tramite
l’intelletto e non tramite i miti.

Filosofia
Se l’essenza dell’assoluto è razionale, è evidente che l’unico modo per afferrare l’idea di
assoluto è la filosofia, la terza forma dell’assoluto.
La filosofia è la conoscenza concettuale dell’assoluto ed è il luogo in cui si verifica la
verità di arte e religione.
Hegel fa un asacco di riflessioni sulla filosofia e sulla storia della filosofia che è lo sviluppo
logico dell’Idea. Anche la storia dell’idea non è causale ma segue un filo logico. Nasce così
l’ideale storicistico. La storia che facciamo ora ha ancora i tratti provenienti dalla concezione
di Hegel, introdotta nelle scuole italiane dal ministro della pubblica istruzione Giovanni
Gentile nel 1925.

Hegel (04/11/2021)
Hegel della filosofia dice che non è una disciplina specifica, ma è “l’apprendere in
pensieri il proprio tempo”, quindi la totalità del presente e comprendere la realtà in tutti i
suoi aspetti.
La filosofia non cambia il mondo, ma per Hegel questa non è assolutamente una
diminuzione della filosofia. La filosofia arriva sempre dopo rispetto il mondo che va, viaggia e
dirama.
E quindi un'autocoscienza del divenire spirituale e storico.
La filosofia deve avere una forma sistematica, perchè l’Assoluto è un sistema. Il sapere
non è parcellizzabile in micro saperi autonomi l’uno con l'altro. Ogni dettaglio della realtà è
necessario e correlato agli altri, e nulla sarebbe comprensibile se non nella totalità.
“Il vero è l’intero” ⇒ è solo la coscienza della totalità che ci fà capire le parti, perchè le
singole parti hanno significato solo se costituiscono l’intero.
Questa osservazione diventa un principio metodologico: nasce in parallelo, in quest’epoca,
la visione dell’ermeneutica. L’interpretazione filosofica di qualunque testo (qualunque cosa è
testo, le facce che stiamo facendo, il tono della voce, ecc.) deve sempre partire dalla
fruizione della totalità del testo, non è mai la somma delle intuizioni parziali.
Per Hegel poi questo sistema ha una corrispondenza nella metafisica, il vero è l’intero nel
senso che è l’assoluto.

Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata,
e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire,
ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far
del crepuscolo»
Citazione da Lineamenti di filosofia del diritto:

● grigio su grigio: è come se dicesse che la filosofia fosse un pò noiosa, perchè arriva
sempre dopo il mondo, sempre dopo ciò che succedono le cose ⇒ è come se
colorasse di grigio il grigio. La filosofia non genera cambiamento.
● nottola di Minerva: la civetta di Minerva era l’animale sacro di Minerva, la dea della
sapienza. La civetta della filosofia spicca il volo alla fine del giorno ⇒ vuol dire che il
giorno è già accaduto, la realtà è già accaduta, ed è proprio in questo momento che
la civetta della filosofia spicca il volo, non anticipando gli eventi ma dopo che sono
avvenuti.

Potrebbero piacerti anche