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non conosceva la Critica della ragion pratica, fu costretto a leggerla. Fu per lui
una vera rivelazione tanto da scrivere a questo proposito:
«Da quando ho letto la Critica della Ragion Pratica vivo in un mondo nuovo... cose
che non credevo potessero essere dimostrate, per esempio il concetto della libertà
assoluta e del dovere, ora sono provate al mio spirito e io ne sono tanto più
lieto. È inimmaginabile quale rispetto per l'umanità, quale forza ci conferisca la
filosofia, quale benedizione essa sia in una epoca in cui le basi della morale sono
distrutte e la nozione del dovere esclusa da tutti i lessici.»
Dopo aver scritto un'opera intitolata Saggio di una critica di ogni rivelazione, in
cui esponeva abilmente i principi della morale kantiana applicandoli alla religione
rivelata, Fichte si recò a Königsberg per farla leggere a Kant stesso. Quando un
editore pubblicò il lavoro nel 1792, per intercessione di Kant, non vi stampò il
nome dell'autore: questo fece sì che lo scritto fosse scambiato per un lavoro di
Kant stesso. Quando Kant rivelò l'identità dell'autore, Fichte divenne
immediatamente celebre, e due anni dopo sarà chiamato all'Università di Jena.
Nel 1791 intanto, a Danzica, Fichte stava stendendo una difesa degli editti del
governo prussiano che limitavano la libertà di stampa e introducevano la censura:
nel mentre gli furono però negati i permessi per la pubblicazione del Saggio di una
critica di ogni rivelazione. L'indignazione per questa censura fece mutare la
posizione di Fichte di fronte agli editti sulla riduzione della libertà di stampa,
tanto che nel 1793 pubblicò, anonimamente, la Rivendicazione della libertà di
pensiero.
Il periodo a Jena
Fichte fu nominato professore nel 1794 e terrà la cattedra fino al 1798, quando
sarà costretto a dimettersi per le accuse di ateismo e l'opposizione di Friedrich
Heinrich Jacobi, schierato con la teologia ufficiale.[5] Il suo posto sarà preso da
un giovanissimo Schelling, che di lui era stato studente e poi, grazie
all'intercessione di Goethe, coadiutore. Durante il soggiorno a Jena Fichte scrisse
la maggior parte delle opere più importanti di esposizione del suo pensiero, tra
cui i Fondamenti dell'intera dottrina della scienza, la cui prima edizione apparve
nel 1794, ma alla quale ne seguiranno altre, rivedute e ampliate.
Pur avendo fatto proprio il pensiero del filosofo di Königsberg, Fichte criticò la
presupposizione kantiana di un essere posto irrimediabilmente fuori dal soggetto.
Tale esistenza sarebbe un limite non superabile per l'attività dello spirito e
dunque per la sua libertà. Per Fichte la posizione di Kant era ancora dogmatica, e
perciò in parte materialista e fatalista, perché in lui il soggetto è passivo e
assiste da spettatore agli eventi che lo determinano.
Le altre opere di questo periodo sono i Discorsi sulla missione del dotto, breve
saggio del 1794, i Fondamenti del diritto naturale (1796), in cui Fichte prende
posizione a favore del giusnaturalismo, e il Sistema della dottrina morale (1798).
La polemica sull'ateismo
Nel 1799 scoppiò la cosiddetta «polemica sull'ateismo» (Atheismusstreit): nel 1798
Fichte aveva pubblicato sul Giornale filosofico un articolo intitolato Sul
fondamento della nostra credenza nel governo divino del mondo: in esso veniva
sostenuta la tesi per la quale Dio coincideva con l'ordine morale del mondo,
apparendo soltanto come un "dover essere". Nello stesso articolo, inoltre, il
direttore del giornale, Forberg, suo discepolo, aggiungeva che era possibile non
credere in Dio pur essendo religiosi, purché si credesse nel suddetto ordine
morale, secondo un'interpretazione radicale dell'etica di Kant esposta nell'opera
La religione entro i limiti della semplice ragione.
A quel punto però Fichte rispose con fermezza, scrivendo in data 22 marzo 1799 una
lettera privata ad un membro del governo nella quale minacciava, in caso di
rimprovero, di lasciare la cattedra insieme a molti suoi colleghi. Lanciò inoltre
un Appello al pubblico e raccolse l'appoggio di molti studenti tramite una
petizione. Il governo di Jena, allora, venuto a conoscenza della lettera di Fichte,
la prese come pretesto per "accettare" le sue dimissioni, che il filosofo rassegnò
poco tempo dopo.[6] La richiesta di dimissioni di Fichte era stata caldeggiata
anche da Goethe, che godeva di grande influenza nell'ambiente universitario di
Jena; fu quest'ultimo a proporre, con successo, che la cattedra rimasta vacante
fosse data a Friedrich Schelling (già nominato coadiutore di Fichte proprio con
l'appoggio di Goethe). Si dice inoltre che, in occasione di questo avvicendamento,
Goethe abbia detto:
Periodo berlinese
Fichte si trasferì allora a Berlino, dove visse dando lezioni private e frequentò
diversi intellettuali romantici, tra i quali Schlegel, Schleiermacher, Tieck e
Novalis (grande estimatore dell'opera di Fichte). Il 23 ottobre 1799 fu affiliato
alla loggia berlinese "Royal York zur Freundschaft", dalla quale uscirà il 7 luglio
1800 per contrasti interni.[2] Nel 1805 tornò all'insegnamento universitario quando
gli fu offerta una cattedra all'università di Erlangen.
Nel 1806 Fichte era a Königsberg quando Napoleone invase la città: tornato a
Berlino, scrisse i Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), in cui cercava di
risvegliare l'anima del popolo tedesco contro la dominazione napoleonica,
affermando il primato culturale del popolo tedesco. Questa pubblicazione lo rese
nuovamente celebre, favorendo anche la sua nomina, da parte del Re, a professore
ordinario dell'Università di Berlino, di cui fu in seguito eletto rettore.
Morì nel 1814 di colera, contagiato dalla moglie, la quale aveva contratto la
malattia curando i soldati negli ospedali militari. È sepolto nel cimitero di
Dorotheenstadt accanto alla tomba di Hegel.
L'Idealismo critico
Il principio della scienza va ricercato restando nell'ambito del criticismo, cioè
partendo dalla coscienza trascendentale. Questo principio non può essere la
rappresentazione di Reinhold, perché questa si presenta come un fatto privo di
spiegazione. Ogni fatto va invece ricondotto al motivo, alla ragione del suo
costituirsi, ovvero all'atto che lo pone. La filosofia per Fichte è dunque muovere
dal condizionato, cioè dal contenuto della coscienza, per ricercare le condizioni
che la rendono possibile.
All'origine della coscienza Fichte pone l'autointuizione dell'Io, che egli assimila
all'io penso e all'intuizione della legge morale di Kant. Essa deve essere un atto
assolutamente incondizionato, perché se fosse condizionato non sarebbe il principio
primo: è quindi un fondamento che si pone da sé; ed è un atto perché il suo essere
è essenzialmente un porsi. Esso è dunque al contempo un conoscersi e un agire.[7]
Conoscendosi, l'Io si trova nel punto in cui pensante e pensato sono presenti come
la medesima realtà. Soggetto e oggetto vengono cioè a coincidere e non hanno più
una connotazione che li differenzia: è questo il cuore dell'Idealismo di Fichte.
Una tale realtà esterna, però, non può essere neppure qualcosa di assolutamente
indipendente dal soggetto, perché altrimenti si ricadrebbe nel dogmatismo kantiano
della cosa in sé, di cui le varie polemiche che ne sono seguite hanno mostrato
l'incoerenza: non si può infatti pensare ad un oggetto se non per un soggetto. Ecco
dunque che il secondo principio serve a ricondurre il non-io al suo autore, a
rimuovere la sua estraneità di dato, e a dare un senso alla conoscenza umana, la
quale senza un riferimento logico all'oggetto diverrebbe vacua e inconsistente.
L'attività di «colui che pone» implica d'altronde che qualcosa sia «posto», e
quindi lo scaturirsi di un non-io, così come L'Uno plotiniano generava altro da sé
per autoctisi.[9] Il non-io è ora all'interno dell'Io originario poiché all'infuori
dell'Io non può esistere nulla. Ma il non-io, a sua volta, limita l'io posto nel
primo principio, il quale non possedendo ancora tutto il contenuto della realtà
oggettuale genera l'esigenza di una conciliazione.
Questo è ciò che la Dottrina della scienza intende chiarire: affermare che l'Io è
il principio primo non significa arrivare già all'Assoluto. Se così fosse, il
pensiero filosofico sarebbe creatore, poiché coinciderebbe con l'assoluto stesso e
con la sua capacità di dedurre da sé ogni altra realtà. L'uomo invece rimane un
essere finito, e la libertà con cui afferma sé stesso si limita a ricostruire nella
teoria le condizioni di possibilità della coscienza, non a riprodurle nella
pratica. In questo senso la filosofia è ben distinta dalla vita: «Vivere è non-
filosofare» e «filosofare è non-vivere».[12] La filosofia, cioè, rispetto
all'esperienza si pone come pensiero puramente negativo: si distacca dalla vita per
poterla spiegare, ma proprio per questo non può surrogarla. In tal modo, sia pure
diversamente da Kant, l'idealismo fichtiano salvaguardia la finitezza dell'uomo nel
suo rapportarsi al dato empirico.
In questo modo, sia pure diversamente da Kant, anche Fichte afferma il primato
della ragion pratica, tanto che la sua filosofia può essere chiamata idealismo
etico. Egli è il filosofo della borghesia nascente, che trasforma il mondo con il
lavoro. Questa trasformazione non è altro che perfezionamento dell'Io stesso. È un
processo di arricchimento, senza il non-Io non sarebbe infatti possibile la storia.
La legge di questa attività è la kantiana legge morale del dovere che impone alla
libera volontà dell'uomo di realizzare la ragione nel mondo. L'etica fichtiana si
basa su un progressivo ricongiungimento all'infinito con l'Io originario, superando
in un certo modo la propria individualità. Il raggiungimento della perfezione
morale è un riconoscersi nell'assoluto, quando l'"Io pone sé stesso" non sarà più
una semplice esigenza, ma realtà.
L'io assoluto, tuttavia, non è ancora per noi una realtà, bensì un compito, un
ideale, che l'azione morale esige, ma che non può essere dimostrato. L'Assoluto è
visto così da Fichte come esigenza fondamentale che costituisce l'essenza dell'Io,
realizzabile solo in una dimensione tendente all'infinito. Quella di Fichte è così
una filosofia dell'infinito, nel quale consiste la sua componente propriamente
romantica. Da ciò tuttavia deriva che l'Assoluto, cioè Dio, non può più essere
pensato come un essere in sé compiuto, ma solo come ideale, ovvero l'ideale
dell'ordinamento morale del mondo. Fu questa l'origine dell'accusa di ateismo che
costrinse Fichte a dare le dimissioni dalla cattedra di Jena. Fichte rispose alle
accuse dicendo di non voler distruggere la religione, ma solo di individuare in
essa il contenuto essenziale, cioè la fede nella realizzabilità di un mondo morale.
Nella Dottrina della Scienza del 1804 Fichte sostiene così che l'Io assoluto è il
fondamento del nostro sapere (e del nostro agire), ma è un Assoluto in sé e non un
semplice dover essere. L'assoluto è per noi inaccessibile, e la filosofia non muove
dall'assoluto ma solo dal sapere assoluto: l'assoluto cioè costituisce la fonte del
sapere e la sua unità più profonda, ma esso è anche il limite del sapere, il punto
in cui questo si annichila. La ragione non può mai uscire da sé stessa per
comprendere la sua origine, che rimane quindi non comprensibile. Dice Fichte: «Il
fondamento della verità non risiede nella coscienza, ma assolutamente nella verità
stessa. La coscienza è soltanto il fenomeno esterno della verità»; in altre parole,
essa è solo emanazione della verità, un indicatore di questa, non la verità stessa.
Nell'Introduzione alla Vita beata, Fichte interpreta il suo idealismo alla luce del
Vangelo di Giovanni: il Logos di cui parla l'evangelista, cioè il Sapere, la
Coscienza divina, è l'immediata e diretta espressione di Dio, che è l'assoluto. Il
Logos è intermediario tra Dio e il mondo, e l'uomo non può unirsi a Dio Padre
direttamente, ma solo tramite il Logos, il mediatore. Per giungere a questa unione
la ragione deve riconoscersi per quello che è, cioè semplice esteriorizzazione
dell'assoluto, fenomeno espressione non di sé, e deve quindi cancellarsi negando sé
stessa. Grazie a questo processo di auto-umiliazione è possibile elevarsi e
giungere alla visione estatica dell'Uno. È evidente l'influsso neoplatonico della
teologia negativa di Plotino su quest'ultima fase dell'idealismo di Fichte, che
voleva comunque essere per lui solo un approfondimento e non una revisione.
Fichte e la massoneria
L'uomo che si lascia guidare dalla ragione, osserva Fichte, è per sua natura un
massone che si deve assumere il compito di realizzare un organismo internazionale
pacifista che accolga tutti gli uomini indipendentemente dalle possibili differenze
di razza, credenze, usi e costumi. Questo supremo fine sarà attuabile con
l'educazione, primato morale della Massoneria e strumento fichtiano per il
miglioramento sociale e spirituale dell'individuo:
La filosofia politica
La filosofia politica di Fichte nasce nel segno del giusnaturalismo e del
contrattualismo. Lo scopo dello Stato è quello di educare tutti gli uomini alla
libertà, realizzando una "società perfetta" nel senso di essere formata da uomini
"liberi e ragionevoli" tanto da non aver più bisogno di essere governati. Lo scopo
di ogni governo è infatti quello di "rendere superfluo" sé stesso. Si noti come
Fichte sia stato inizialmente attratto dalle teorie liberali del filosofo empirista
inglese John Locke. Da questi Fichte, ispirato dagli eventi della Rivoluzione
Francese, riprende la dottrina del diritto a ribellarsi ad un sovrano che non
rispetti il patto sancito tra lui ed i cittadini: se lo Stato non compie la sua
missione il contratto sociale è sciolto. Si avanza un nuovo concetto di libertà
intesa estensivamente non più soltanto come quella che appartiene ad ogni individuo
che agisca moralmente, (la libertà di scelta, secondo la morale kantiana) ma, come
sostiene Fichte nell'opera sui Fondamenti del diritto naturale, poiché le
manifestazioni materiali dell'Io sono le azioni, in esse l'Io esprime la propria
libertà in una sfera di azioni possibili. La libertà per Fichte è quindi
essenzialmente libertà di pensiero e di scelta. Come accade per la limitazione che
l'Io assoluto subisce dal Non-io, lo stesso avviene per l'io empirico che vede la
sfera delle proprie azioni possibili contrastata dalle azioni altrui. Da qui si
origina il diritto come regolatore delle reciproche libertà. Perché si attui
l'agire morale inteso come autodeterminazione, occorre per Fichte questa
condizione: il diritto.
Il diritto
Il diritto riguarda la libertà considerata come fatto esteriore, oggettività, e non
come atto interiore, soggettivo, nel suo aspetto morale di auto-realizzazione
dell'Io. In questo senso, la libertà consiste nella presa di coscienza della
propria indipendenza dagli altri. Questa avviene solo attraverso il riconoscimento
della libertà altrui: l'uomo finito, infatti, può acquistare coscienza di sé e
della propria indipendenza solo in relazione a una comunità di individui.
Il pensiero di Fichte verrà poi esaltato dalla corrente del pangermanismo, a cui
tra gli altri si rifece Hitler, sebbene Fichte parlasse in realtà di primato
culturale del popolo tedesco, anziché militare o bellico.
Opere
Versuch einer Kritik aller Offenbarung (Saggio di una critica di ogni rivelazione),
1792
Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (Fondamenti dell'intera dottrina della
scienza), versioni del 1794, 1798, 1801, 1804, 1810, 1812
Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten (Lezioni sulla missione del
dotto), 1794
Grundlage des Naturrechts (Fondamenti del diritto naturale), 1796
System der Sittenlehre (Sistema della dottrina morale), 1798
Der geschlossene Handelstaat (Lo Stato commerciale chiuso), 1800
Bestimmung des Menschen (La missione dell'uomo), 1801
Philosophie der Maurerei. Briefe an Konstant (Filosofia della massoneria),[22] 1802
- 1803
Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (I tratti fondamentali dell'età presente),
1805
Anweisung zum seeligen Leben (Introduzione alla vita beata),[23] 1806
Reden an die deutsche Nation (Discorsi alla nazione tedesca), 1807 - 1808
Transzendentale Logik (Logica trascendentale), due corsi di lezione del 1812
Altri scritti minori sono consultabili in appendice a Lettera a Fichte (Jacobi an
Fichte) con testi complementari di Jacobi e di Fichte (1799 e 1816), trad. di A.
Acerbi.[24]