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Nel 1790, tornato a Lipsia, uno studente gli chiese lezioni su Kant e poiché Fichte

non conosceva la Critica della ragion pratica, fu costretto a leggerla. Fu per lui
una vera rivelazione tanto da scrivere a questo proposito:

«Da quando ho letto la Critica della Ragion Pratica vivo in un mondo nuovo... cose
che non credevo potessero essere dimostrate, per esempio il concetto della libertà
assoluta e del dovere, ora sono provate al mio spirito e io ne sono tanto più
lieto. È inimmaginabile quale rispetto per l'umanità, quale forza ci conferisca la
filosofia, quale benedizione essa sia in una epoca in cui le basi della morale sono
distrutte e la nozione del dovere esclusa da tutti i lessici.»

(Fichte, da una lettera del 1790[4])

Dopo aver scritto un'opera intitolata Saggio di una critica di ogni rivelazione, in
cui esponeva abilmente i principi della morale kantiana applicandoli alla religione
rivelata, Fichte si recò a Königsberg per farla leggere a Kant stesso. Quando un
editore pubblicò il lavoro nel 1792, per intercessione di Kant, non vi stampò il
nome dell'autore: questo fece sì che lo scritto fosse scambiato per un lavoro di
Kant stesso. Quando Kant rivelò l'identità dell'autore, Fichte divenne
immediatamente celebre, e due anni dopo sarà chiamato all'Università di Jena.

Nel 1791 intanto, a Danzica, Fichte stava stendendo una difesa degli editti del
governo prussiano che limitavano la libertà di stampa e introducevano la censura:
nel mentre gli furono però negati i permessi per la pubblicazione del Saggio di una
critica di ogni rivelazione. L'indignazione per questa censura fece mutare la
posizione di Fichte di fronte agli editti sulla riduzione della libertà di stampa,
tanto che nel 1793 pubblicò, anonimamente, la Rivendicazione della libertà di
pensiero.

Il periodo a Jena
Fichte fu nominato professore nel 1794 e terrà la cattedra fino al 1798, quando
sarà costretto a dimettersi per le accuse di ateismo e l'opposizione di Friedrich
Heinrich Jacobi, schierato con la teologia ufficiale.[5] Il suo posto sarà preso da
un giovanissimo Schelling, che di lui era stato studente e poi, grazie
all'intercessione di Goethe, coadiutore. Durante il soggiorno a Jena Fichte scrisse
la maggior parte delle opere più importanti di esposizione del suo pensiero, tra
cui i Fondamenti dell'intera dottrina della scienza, la cui prima edizione apparve
nel 1794, ma alla quale ne seguiranno altre, rivedute e ampliate.

Pur avendo fatto proprio il pensiero del filosofo di Königsberg, Fichte criticò la
presupposizione kantiana di un essere posto irrimediabilmente fuori dal soggetto.
Tale esistenza sarebbe un limite non superabile per l'attività dello spirito e
dunque per la sua libertà. Per Fichte la posizione di Kant era ancora dogmatica, e
perciò in parte materialista e fatalista, perché in lui il soggetto è passivo e
assiste da spettatore agli eventi che lo determinano.

L'idealismo di Fichte vuole celebrare invece la libertà e l'indipendenza del


soggetto rispetto a ciò che si trova al di fuori di lui, perché l'io «si fa da sé
stesso». Con questo Fichte vuole affermare ancora una volta come lo spirito non è
prodotto né condizionato dall'essere. La sua filosofia dovrà descrivere le varie
tappe con cui l'essere viene prodotto come momento del pensiero.

Le altre opere di questo periodo sono i Discorsi sulla missione del dotto, breve
saggio del 1794, i Fondamenti del diritto naturale (1796), in cui Fichte prende
posizione a favore del giusnaturalismo, e il Sistema della dottrina morale (1798).

La polemica sull'ateismo
Nel 1799 scoppiò la cosiddetta «polemica sull'ateismo» (Atheismusstreit): nel 1798
Fichte aveva pubblicato sul Giornale filosofico un articolo intitolato Sul
fondamento della nostra credenza nel governo divino del mondo: in esso veniva
sostenuta la tesi per la quale Dio coincideva con l'ordine morale del mondo,
apparendo soltanto come un "dover essere". Nello stesso articolo, inoltre, il
direttore del giornale, Forberg, suo discepolo, aggiungeva che era possibile non
credere in Dio pur essendo religiosi, purché si credesse nel suddetto ordine
morale, secondo un'interpretazione radicale dell'etica di Kant esposta nell'opera
La religione entro i limiti della semplice ragione.

In risposta all'articolo comparve un libello anonimo che accusava Fichte di


ateismo, montando una campagna mirante in realtà a screditarlo. Poco tempo dopo
intervenne lo stesso governo prussiano, proibendo la stampa del giornale; per di
più esso adoperò pressioni sul duca di Weimar affinché fossero presi dei severi
provvedimenti nei confronti di Fichte e di Forberg, minacciando in caso contrario
di proibire ai cittadini prussiani di iscriversi all'Università di Jena. Il governo
di Weimar, sia per timore di far perdere prestigio ad uno dei suoi migliori centri
universitari, sia per il contesto storico che vedeva la Germania dominata
dall'influenza della Prussia, chiese quindi al Senato Accademico dell'università di
formulare un rimprovero ufficiale nei confronti dei due intellettuali.

A quel punto però Fichte rispose con fermezza, scrivendo in data 22 marzo 1799 una
lettera privata ad un membro del governo nella quale minacciava, in caso di
rimprovero, di lasciare la cattedra insieme a molti suoi colleghi. Lanciò inoltre
un Appello al pubblico e raccolse l'appoggio di molti studenti tramite una
petizione. Il governo di Jena, allora, venuto a conoscenza della lettera di Fichte,
la prese come pretesto per "accettare" le sue dimissioni, che il filosofo rassegnò
poco tempo dopo.[6] La richiesta di dimissioni di Fichte era stata caldeggiata
anche da Goethe, che godeva di grande influenza nell'ambiente universitario di
Jena; fu quest'ultimo a proporre, con successo, che la cattedra rimasta vacante
fosse data a Friedrich Schelling (già nominato coadiutore di Fichte proprio con
l'appoggio di Goethe). Si dice inoltre che, in occasione di questo avvicendamento,
Goethe abbia detto:

Tomba di Johann G. Fichte al Dorotheenstädtischer Friedhof


«Per un astro che tramonta un altro ne sorge.»

(Johann Wolfgang von Goethe)

Periodo berlinese
Fichte si trasferì allora a Berlino, dove visse dando lezioni private e frequentò
diversi intellettuali romantici, tra i quali Schlegel, Schleiermacher, Tieck e
Novalis (grande estimatore dell'opera di Fichte). Il 23 ottobre 1799 fu affiliato
alla loggia berlinese "Royal York zur Freundschaft", dalla quale uscirà il 7 luglio
1800 per contrasti interni.[2] Nel 1805 tornò all'insegnamento universitario quando
gli fu offerta una cattedra all'università di Erlangen.

Nel 1806 Fichte era a Königsberg quando Napoleone invase la città: tornato a
Berlino, scrisse i Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), in cui cercava di
risvegliare l'anima del popolo tedesco contro la dominazione napoleonica,
affermando il primato culturale del popolo tedesco. Questa pubblicazione lo rese
nuovamente celebre, favorendo anche la sua nomina, da parte del Re, a professore
ordinario dell'Università di Berlino, di cui fu in seguito eletto rettore.

Morì nel 1814 di colera, contagiato dalla moglie, la quale aveva contratto la
malattia curando i soldati negli ospedali militari. È sepolto nel cimitero di
Dorotheenstadt accanto alla tomba di Hegel.

La Dottrina della scienza


Fichte si propone come Reinhold di dare coerenza e rigore al criticismo kantiano
riconducendolo ad un principio fondamentale. Solo così sarà possibile costruire un
sistema filosofico che contenga le basi di ogni sapere, cioè della scienza. Un tale
sistema sarà appunto Dottrina della scienza, ovvero indagine sulle condizioni che
rendono possibile il sapere.

L'Idealismo critico
Il principio della scienza va ricercato restando nell'ambito del criticismo, cioè
partendo dalla coscienza trascendentale. Questo principio non può essere la
rappresentazione di Reinhold, perché questa si presenta come un fatto privo di
spiegazione. Ogni fatto va invece ricondotto al motivo, alla ragione del suo
costituirsi, ovvero all'atto che lo pone. La filosofia per Fichte è dunque muovere
dal condizionato, cioè dal contenuto della coscienza, per ricercare le condizioni
che la rendono possibile.

All'origine della coscienza Fichte pone l'autointuizione dell'Io, che egli assimila
all'io penso e all'intuizione della legge morale di Kant. Essa deve essere un atto
assolutamente incondizionato, perché se fosse condizionato non sarebbe il principio
primo: è quindi un fondamento che si pone da sé; ed è un atto perché il suo essere
è essenzialmente un porsi. Esso è dunque al contempo un conoscersi e un agire.[7]

Conoscendosi, l'Io si trova nel punto in cui pensante e pensato sono presenti come
la medesima realtà. Soggetto e oggetto vengono cioè a coincidere e non hanno più
una connotazione che li differenzia: è questo il cuore dell'Idealismo di Fichte.

Da una tale coincidenza, Fichte giungerà progressivamente alla conclusione che


tutta la realtà finisce per risolversi nell'Io assoluto. Anche le categorie
dell'intelletto assumeranno un ruolo diverso: mentre per Kant esse avevano lo scopo
di unificare il molteplice, per Fichte hanno lo scopo inverso di moltiplicare l'Io
nella sua unicità. Egli illustra quindi i tre principi fondamentali che regolano
questo reciproco rapportarsi di soggetto e oggetto.

1) L'Io pone se stesso

L'Io pone sé stesso (tesi)


Nella filosofia aristotelica il principio su cui si fondava la scienza era quello
di non contraddizione: «A ≠ non A» (A è diverso da non A). La filosofia moderna e
la stessa filosofia kantiana pongono invece l'accento sul principio di identità: «A
= A» (A è uguale ad A).

Fichte afferma che entrambi i principi sono però da giustificare, in quanto


derivano a loro volta da uno più generale: l'Io. Se non ci fosse l'Io infatti, non
sarebbe possibile affermare i primi due principi. È l'io che pone il legame logico
A = A, e che quindi pone lo stesso A, mentre l'Io non è posto da nessun altro se
non da sé medesimo. Poiché è condizionato solo da sé, l'Io si autopone affermando
«Io = Io».

La concezione comune ci farebbe pensare che prima vengono gli oggetti e


successivamente le funzioni compiute dagli stessi, ma Fichte è categorico nel
rovesciare questa credenza. Ciò che viene comunemente chiamato "cosa", oggetto, non
è altro che il risultato di un'attività. Nella metafisica classica si diceva:
operari sequitur esse («l'azione consegue all'essere»), Fichte ora afferma: esse
sequitur operari («l'essere consegue all'azione»).

L'essenza dell'io consiste proprio in un'attività, di natura autocosciente, che


viene all'essere in quanto si autopone: il suo pensare è creare.[7] L'Io fichtiano
è, quindi, l'intuizione intellettuale che Kant riteneva impossibile all'uomo poiché
coincidente con l'intuizione di una mente creatrice.[8]
L'Io non coincide con il singolo io empirico, ma è l'Io assoluto da cui tutto
deriva. Questa tesi si articolerà in altri due principi che mostrano la
molteplicità degli io individuali e l'inesistenza di un mondo esterno.

2) L'Io oppone a sé un non-io

All'Io si oppone un non-io (antitesi)


Poiché non esiste pensiero senza contenuto, una coscienza pensante si costituisce
come tale solo in rapporto ad oggetti "pensati". Fichte giunge così ad una seconda
formulazione, antitesi della prima: «L'Io pone nell'Io il non-Io», in base al
principio spinoziano omnis determinatio est negatio («ogni determinazione è una
negazione»). Il non-Io rappresenta tutto ciò che è opposto all'Io ed è diverso da
questo. La necessità del non-io è data dal fatto che occorre qualcosa di esterno
perché si attivi la conoscenza.

Una tale realtà esterna, però, non può essere neppure qualcosa di assolutamente
indipendente dal soggetto, perché altrimenti si ricadrebbe nel dogmatismo kantiano
della cosa in sé, di cui le varie polemiche che ne sono seguite hanno mostrato
l'incoerenza: non si può infatti pensare ad un oggetto se non per un soggetto. Ecco
dunque che il secondo principio serve a ricondurre il non-io al suo autore, a
rimuovere la sua estraneità di dato, e a dare un senso alla conoscenza umana, la
quale senza un riferimento logico all'oggetto diverrebbe vacua e inconsistente.

L'attività di «colui che pone» implica d'altronde che qualcosa sia «posto», e
quindi lo scaturirsi di un non-io, così come L'Uno plotiniano generava altro da sé
per autoctisi.[9] Il non-io è ora all'interno dell'Io originario poiché all'infuori
dell'Io non può esistere nulla. Ma il non-io, a sua volta, limita l'io posto nel
primo principio, il quale non possedendo ancora tutto il contenuto della realtà
oggettuale genera l'esigenza di una conciliazione.

3) L'Io oppone, in sé, a un io divisibile un non-io divisibile

Nell'Io è posto un io divisibile accanto a un non-io divisibile (sintesi): io e


non-io diventano molteplici
Il terzo principio rappresenta così il momento della sintesi. L'Io assoluto è
costretto a porre un "Io" empirico, finito, limitato, e quindi divisibile, da
contrapporre al non-Io, anch'esso divisibile. Solo ciò che è infinito, infatti, non
può essere diviso. Si giunge pertanto alla formulazione: «L'Io oppone, nell'Io,
all'io divisibile un non-io divisibile». L'opposizione tra io e non-io non avviene
in modo netto, ma in maniera dialettica, tale che essi, pur limitandosi l'un
l'altro, si determinano anche a vicenda.

Mentre il secondo principio si limitava a ricondurre il non-io entro l'Io,


lasciandoli però in uno stato di pura contrapposizione, il terzo principio dà luogo
alla loro mediazione, con cui l'Io prende coscienza di essere non solo opposto al
non-io, ma anche limitato da quest'ultimo, suddividendosi nella molteplicità.

La reciproca limitazione dell'io e del non-io consente di spiegare sia i meccanismi


dell'attività conoscitiva sia di quella morale, superando il dualismo kantiano. In
particolare:

L'Io determinato dal non-io fonda l'aspetto dell'attività teoretica.


Il non-io determinato dall'Io fonda, invece, l'attività pratica.
Mentre infatti nella conoscenza l'oggetto precede il soggetto, nell'azione sarà il
soggetto a precedere e determinare l'oggetto, il quale sorge per farsi strumento
della sua libertà.

Spiegazione dell'attività conoscitiva


Sul piano conoscitivo, l'Io si ritrova dunque delimitato dal non-io, attraverso
quel meccanismo che Kant chiamava «immaginazione produttiva», concetto ripreso da
Fichte e identificato con la creazione inconscia da parte dell'Io degli oggetti,
che nella prospettiva kantiana rappresentavano il noumeno o la cosa in sé.
Quest'immaginazione è appunto l'attività che delimita l'Io e che crea il contenuto,
la materia necessaria al processo conoscitivo,[10] ma proprio perché è sottratta
alla coscienza, la materia ci appare come altro da noi: non sappiamo che essa è la
parte inconscia di noi, ce la troviamo «già data». In tal modo, Fichte riesce a
rendere ragione del punto di vista del realismo, che non può essere considerato
erroneo, essendo giustificato dall'azione necessaria e inconscia della stessa
immaginazione produttiva. La superiorità dell'idealismo sul realismo consiste però
nel fatto che il primo riesce a rendere ragione del punto di vista realistico,
mentre il secondo, che presume di essere più vicino al senso comune, non sa
spiegarlo.

L'Io determinato dal non-io (attività conoscitiva): il non-io tende all'infinito a


risolversi nell'Io, cioè nell'autocoscienza pura
Fichte descrive quindi i passaggi con cui la coscienza, progressivamente, si
riappropria del materiale prodotto dall'immaginazione produttiva: ciò avviene per
gradi, attraverso la sensazione, l'intuizione sensibile, l'intelletto, il giudizio,
e infine le idee.[11] In questo processo, l'Io passa da un minimo di passività (la
semplice sensazione), ad un massimo di attività (l'autocoscienza), scoprendo così
che è l'Io ad essere attivo sul non-io, e non viceversa. Accrescendo questa
consapevolezza, è possibile avvicinarsi sempre di più, pur senza mai raggiungerla,
all'autocoscienza pura, cioè alla coscienza dell'Io stesso.

L'idealismo si mostrerà superiore al realismo anche sul piano etico: il primo


infatti comporta la suprema attività e libertà dell'Io, mentre il secondo comporta
la passività dell'Io di fronte agli oggetti. Da qui si può iniziare a comprendere
come l'idealismo per Fichte sia essenzialmente una scelta pratica. Esso non può
essere abbracciato per ragioni puramente teoretiche; l'idealismo infatti può
dimostrare la propria superiorità solo al momento di sceglierlo. Viceversa chi non
comprende e non afferma la propria libertà nell'attività pratica, resterà
inevitabilmente fermo al realismo.

Questo è ciò che la Dottrina della scienza intende chiarire: affermare che l'Io è
il principio primo non significa arrivare già all'Assoluto. Se così fosse, il
pensiero filosofico sarebbe creatore, poiché coinciderebbe con l'assoluto stesso e
con la sua capacità di dedurre da sé ogni altra realtà. L'uomo invece rimane un
essere finito, e la libertà con cui afferma sé stesso si limita a ricostruire nella
teoria le condizioni di possibilità della coscienza, non a riprodurle nella
pratica. In questo senso la filosofia è ben distinta dalla vita: «Vivere è non-
filosofare» e «filosofare è non-vivere».[12] La filosofia, cioè, rispetto
all'esperienza si pone come pensiero puramente negativo: si distacca dalla vita per
poterla spiegare, ma proprio per questo non può surrogarla. In tal modo, sia pure
diversamente da Kant, l'idealismo fichtiano salvaguardia la finitezza dell'uomo nel
suo rapportarsi al dato empirico.

Spiegazione dell'attività morale


Sul piano morale giunge a soluzione un problema lasciato aperto dalla Dottrina
della Scienza: se l'Io infatti è attività incondizionata, restava da capire che
bisogno avesse di limitarsi e opporre a sé stesso un non-io, se non per un'esigenza
logica rispetto alla quale esso restava comunque superiore. Questo problema viene
risolto da Fichte rifacendosi al primo principio (l'Io pone sé stesso): l'Io, cioè,
poiché è un continuo porre il proprio essere, non è una realtà statica, ma
dinamica. Esplicandosi in una tale attività, occorre che gli sorga contro
un'opposizione, un non-io, perché un'attività è tale solo se consiste nello sforzo
di superamento di un limite.
L'oggetto, cioè il non-io, si presenta così all'uomo, nell'attività pratica, come
l'ostacolo da superare. Il non-io diventa il momento necessario per la
realizzazione della libertà dell'Io. In campo pratico l'io si sforza di superare
questo ostacolo spostando il limite tra io e non io sempre più in là. Quindi in
campo pratico l'io è infinito per il suo sforzo di esserlo (Streben).

L'Io determina il non-io (attività morale): l'Io tende all'infinito a


ricongiungersi col non-io, conformandolo a sé sul piano pratico
Come l'io potrà affermarsi solo in qualità di superatore degli ostacoli, allo
stesso modo l'uomo deve porsi da solo dei limiti e tendere alla perfezione,
attraverso il superamento degli stessi per affermarsi realmente come individuo
libero. La frase che raccoglie questo pensiero è: «Essere liberi è cosa da nulla:
divenirlo è cosa celeste».[13]

In questo modo, sia pure diversamente da Kant, anche Fichte afferma il primato
della ragion pratica, tanto che la sua filosofia può essere chiamata idealismo
etico. Egli è il filosofo della borghesia nascente, che trasforma il mondo con il
lavoro. Questa trasformazione non è altro che perfezionamento dell'Io stesso. È un
processo di arricchimento, senza il non-Io non sarebbe infatti possibile la storia.
La legge di questa attività è la kantiana legge morale del dovere che impone alla
libera volontà dell'uomo di realizzare la ragione nel mondo. L'etica fichtiana si
basa su un progressivo ricongiungimento all'infinito con l'Io originario, superando
in un certo modo la propria individualità. Il raggiungimento della perfezione
morale è un riconoscersi nell'assoluto, quando l'"Io pone sé stesso" non sarà più
una semplice esigenza, ma realtà.

L'io assoluto, tuttavia, non è ancora per noi una realtà, bensì un compito, un
ideale, che l'azione morale esige, ma che non può essere dimostrato. L'Assoluto è
visto così da Fichte come esigenza fondamentale che costituisce l'essenza dell'Io,
realizzabile solo in una dimensione tendente all'infinito. Quella di Fichte è così
una filosofia dell'infinito, nel quale consiste la sua componente propriamente
romantica. Da ciò tuttavia deriva che l'Assoluto, cioè Dio, non può più essere
pensato come un essere in sé compiuto, ma solo come ideale, ovvero l'ideale
dell'ordinamento morale del mondo. Fu questa l'origine dell'accusa di ateismo che
costrinse Fichte a dare le dimissioni dalla cattedra di Jena. Fichte rispose alle
accuse dicendo di non voler distruggere la religione, ma solo di individuare in
essa il contenuto essenziale, cioè la fede nella realizzabilità di un mondo morale.

L'esito religioso dell'idealismo fichtiano


Le polemiche sull'ateismo in aggiunta ad alcuni dissapori con Schelling, che lo
stava via via offuscando e gli contestava inoltre un eccessivo soggettivismo,
contribuirono a una svolta del pensiero di Fichte in una direzione più ontologica e
religiosa, senza che con questo egli abbandonasse il suo precedente punto di vista.
Già nella Missione dell'uomo (del 1800) egli metteva in rilievo come nessun sapere
possa fondare e provare sé stesso: ogni sapere presuppone qualcosa di più elevato
come sua causa; solo la fede può fondare la sua validità, mettendolo al riparo
dalle derive di un idealismo relativista quanto irrazionale.[14]

Nella Dottrina della Scienza del 1804 Fichte sostiene così che l'Io assoluto è il
fondamento del nostro sapere (e del nostro agire), ma è un Assoluto in sé e non un
semplice dover essere. L'assoluto è per noi inaccessibile, e la filosofia non muove
dall'assoluto ma solo dal sapere assoluto: l'assoluto cioè costituisce la fonte del
sapere e la sua unità più profonda, ma esso è anche il limite del sapere, il punto
in cui questo si annichila. La ragione non può mai uscire da sé stessa per
comprendere la sua origine, che rimane quindi non comprensibile. Dice Fichte: «Il
fondamento della verità non risiede nella coscienza, ma assolutamente nella verità
stessa. La coscienza è soltanto il fenomeno esterno della verità»; in altre parole,
essa è solo emanazione della verità, un indicatore di questa, non la verità stessa.

Nell'Introduzione alla Vita beata, Fichte interpreta il suo idealismo alla luce del
Vangelo di Giovanni: il Logos di cui parla l'evangelista, cioè il Sapere, la
Coscienza divina, è l'immediata e diretta espressione di Dio, che è l'assoluto. Il
Logos è intermediario tra Dio e il mondo, e l'uomo non può unirsi a Dio Padre
direttamente, ma solo tramite il Logos, il mediatore. Per giungere a questa unione
la ragione deve riconoscersi per quello che è, cioè semplice esteriorizzazione
dell'assoluto, fenomeno espressione non di sé, e deve quindi cancellarsi negando sé
stessa. Grazie a questo processo di auto-umiliazione è possibile elevarsi e
giungere alla visione estatica dell'Uno. È evidente l'influsso neoplatonico della
teologia negativa di Plotino su quest'ultima fase dell'idealismo di Fichte, che
voleva comunque essere per lui solo un approfondimento e non una revisione.

Le Lezioni sulla missione del dotto


Al dotto è affidata una missione: egli, che ha raggiunto il culmine della sapienza,
è proprio per questo obbligato, moralmente e responsabilmente, poiché per la sua
stessa perfezione culturale possiede maggior coscienza di sé, non solo a diffondere
il suo sapere tra gli uomini indotti, ma a presentarsi come esempio vivente di
razionalità e moralità per tutti gli uomini. La dottrina e la scienza costituiscono
parte essenziale della società, sono esse stesse sociali e quindi il dotto acquista
quasi naturalmente il ruolo di educatore degli uomini come magister communis
(maestro sociale).[15]

Fichte e la massoneria

Lo stesso argomento in dettaglio: Lezioni sulla massoneria.


Lo stesso ideale della missione universale dell'intellettuale nei confronti della
società umana si ritrova nell'adesione di Fichte alla Massoneria su cui l'autore
tedesco condurrà una serie di studi stampati sulla rivista massonica Eleusinie del
secolo XIX tra il 1802 e il 1803, ripubblicati e più ampiamente divulgati nel 1923.
[16] Fichte accetta di buon grado il simbolismo esoterico e il culto del "segreto"
della comunità massonica, e non trova contrastanti l'appartenenza alla società
dello Stato di diritto e a quella particolare società retta da leggi proprie che è
la Massoneria. Fichte ammira soprattutto lo spirito laico che anima i più validi
principi "politici" massonici come l'uguaglianza, la solidarietà, la tolleranza e
il dialogo verso tutta l'umanità.

L'uomo che si lascia guidare dalla ragione, osserva Fichte, è per sua natura un
massone che si deve assumere il compito di realizzare un organismo internazionale
pacifista che accolga tutti gli uomini indipendentemente dalle possibili differenze
di razza, credenze, usi e costumi. Questo supremo fine sarà attuabile con
l'educazione, primato morale della Massoneria e strumento fichtiano per il
miglioramento sociale e spirituale dell'individuo:

«La Massoneria è, secondo le nostre ricerche, un'istituzione destinata a cancellare


l'unilateralità della cultura dell'uomo nella maggiore società e ad elevare questa
cultura ... a cultura universale e puramente umana. Ci siamo domandati quali sono
le parti e gli oggetti della cultura umana che si devono ricevere in questa
associazione; e abbiamo risposto: la cultura alla Religione, come cittadino di un
mondo invisibile, la cultura per lo Stato, come cittadino di una data parte del
mondo visibile, infine l'educazione per la capacità e l'abilità di dominare la
natura priva di ragione, quali esseri razionali. E ancora abbiamo chiesto: quali
sono i mezzi dell'associazione, per comunicare questa cultura ai suoi membri? E
rispondiamo: l'insegnamento e l'esempio.[17]»

La filosofia politica
La filosofia politica di Fichte nasce nel segno del giusnaturalismo e del
contrattualismo. Lo scopo dello Stato è quello di educare tutti gli uomini alla
libertà, realizzando una "società perfetta" nel senso di essere formata da uomini
"liberi e ragionevoli" tanto da non aver più bisogno di essere governati. Lo scopo
di ogni governo è infatti quello di "rendere superfluo" sé stesso. Si noti come
Fichte sia stato inizialmente attratto dalle teorie liberali del filosofo empirista
inglese John Locke. Da questi Fichte, ispirato dagli eventi della Rivoluzione
Francese, riprende la dottrina del diritto a ribellarsi ad un sovrano che non
rispetti il patto sancito tra lui ed i cittadini: se lo Stato non compie la sua
missione il contratto sociale è sciolto. Si avanza un nuovo concetto di libertà
intesa estensivamente non più soltanto come quella che appartiene ad ogni individuo
che agisca moralmente, (la libertà di scelta, secondo la morale kantiana) ma, come
sostiene Fichte nell'opera sui Fondamenti del diritto naturale, poiché le
manifestazioni materiali dell'Io sono le azioni, in esse l'Io esprime la propria
libertà in una sfera di azioni possibili. La libertà per Fichte è quindi
essenzialmente libertà di pensiero e di scelta. Come accade per la limitazione che
l'Io assoluto subisce dal Non-io, lo stesso avviene per l'io empirico che vede la
sfera delle proprie azioni possibili contrastata dalle azioni altrui. Da qui si
origina il diritto come regolatore delle reciproche libertà. Perché si attui
l'agire morale inteso come autodeterminazione, occorre per Fichte questa
condizione: il diritto.

Il diritto
Il diritto riguarda la libertà considerata come fatto esteriore, oggettività, e non
come atto interiore, soggettivo, nel suo aspetto morale di auto-realizzazione
dell'Io. In questo senso, la libertà consiste nella presa di coscienza della
propria indipendenza dagli altri. Questa avviene solo attraverso il riconoscimento
della libertà altrui: l'uomo finito, infatti, può acquistare coscienza di sé e
della propria indipendenza solo in relazione a una comunità di individui.

Il diritto è tale se è garantito dallo Stato che innanzitutto dovrà assicurare al


cittadino la sussistenza del proprio corpo; senza di esso e cioè senza la
possibilità di disporre di mezzi materiali l'uomo non potrà usufruire degli
originari diritti che gli appartengono per natura. Questo è dunque il dovere
essenziale dello Stato: assicurare a tutti corporeità e conservazione. Altri
diritti naturali sono per Fichte la libertà ed il lavoro, dal quale deriva la
proprietà.

Lo stato commerciale chiuso


Nell'opera successiva, Lo Stato commerciale chiuso, lo Stato assume un'ulteriore
funzione integrativa, che gli conferisce l'aspetto di uno stato socialistico, privo
però dell'afflato cosmopolitico. Lo stato deve innanzitutto garantire il lavoro su
cui si basa il benessere e l'eliminazione della povertà. Per questo il governo
interverrà d'autorità a stabilire i vari settori lavorativi, in modo che il numero
dei componenti non sia né superiore né inferiore alla quantità di beni prodotti:
così avviene per gli artigiani e i commercianti, mentre il numero di lavoratori
addetti alla produzione agricola si stabilisce automaticamente in base alla
quantità di terre coltivabili. L'obiettivo è quello di rendere autosufficiente
economicamente lo Stato, che si configurerà come stato commerciale chiuso, in modo
da eliminare i conflitti tra gli individui, le classi e gli Stati. Perché questo
accada occorre però che si realizzino tre condizioni: che lo Stato

produca tutto quanto di cui ha bisogno,


distolga i cittadini dai beni che non può produrre, oppure imponga il monopolio nei
casi d'importazione dei beni mancanti,
raggiunga i suoi confini naturali e che sia padrone delle terre che gli
appartengono per natura. Se così non fosse esso è giustificato nel fare la guerra a
chi usurpa le sue risorse naturali.
I Discorsi alla nazione tedesca

Lo stesso argomento in dettaglio: Nazionalismo tedesco.


Nei Discorsi alla nazione tedesca scritti e pronunciati in pubblico nell'inverno
tra il 1807 e il 1808, quando ancora i francesi occupavano la Prussia dopo le
vittorie napoleoniche di Jena e Auerstädt, Fichte sembrò avanzare un progetto
pedagogico teso al rinnovamento sia spirituale che materiale del popolo tedesco.
[18] Lo scopo apparentemente educativo servì alla libera circolazione dell'opera di
cui i francesi non identificarono la pericolosità politica.[19] Il nuovo modello di
educazione che vi era esposto consisteva in un compito affidato al popolo tedesco,
ritenuto l'unico tra tutti gli europei ad aver conservato intatte le sue
caratteristiche nazionali originarie e naturali, ed inoltre la cui lingua era
l'unica priva di barbarismi, e il cui Stato il solo dove la religione non avesse
influito sulla politica. Questo per Fichte è comprovato dal fatto che la lingua
tedesca è l'unica ad essersi conservata pura nel corso dei secoli, mantenendo così
intatta la cultura germanica. Questo non è avvenuto invece per l'Italia e la
Francia dove la lingua, a causa delle dominazioni straniere, si è imbarbarita dando
luogo a dialetti bastardi. Il popolo tedesco ha così conservato non solo la purezza
della lingua ma anche quella del sangue e quindi della stirpe che li caratterizza
come il popolo per eccellenza: lo stesso termine deutsch vuol dire infatti popolare
o volgare, nel senso riferito al vulgus, il popolo appunto.

I tedeschi quindi sono gli unici ad avere un fattore unificatore spirituale e


materiale che li caratterizza come stirpe, nazione.[20] La stessa storia culturale
tedesca con le grandi figure di Lutero, Leibniz, Kant, dimostra la sua superiorità
spirituale che ne fa una nazione eletta, a cui è stato affidato il compito di
espandere la sua civiltà agli altri popoli. E guai se essa fallisse! Si legge
infatti nella XIV e ultima lezione, dal titolo Conclusioni generali: «Perciò non
c'è nessuna via di uscita: se sprofondate voi, sprofonda l'intera umanità, senza
speranza di ripristinarsi in futuro».[21]

Il pensiero di Fichte verrà poi esaltato dalla corrente del pangermanismo, a cui
tra gli altri si rifece Hitler, sebbene Fichte parlasse in realtà di primato
culturale del popolo tedesco, anziché militare o bellico.

Opere
Versuch einer Kritik aller Offenbarung (Saggio di una critica di ogni rivelazione),
1792
Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (Fondamenti dell'intera dottrina della
scienza), versioni del 1794, 1798, 1801, 1804, 1810, 1812
Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten (Lezioni sulla missione del
dotto), 1794
Grundlage des Naturrechts (Fondamenti del diritto naturale), 1796
System der Sittenlehre (Sistema della dottrina morale), 1798
Der geschlossene Handelstaat (Lo Stato commerciale chiuso), 1800
Bestimmung des Menschen (La missione dell'uomo), 1801
Philosophie der Maurerei. Briefe an Konstant (Filosofia della massoneria),[22] 1802
- 1803
Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (I tratti fondamentali dell'età presente),
1805
Anweisung zum seeligen Leben (Introduzione alla vita beata),[23] 1806
Reden an die deutsche Nation (Discorsi alla nazione tedesca), 1807 - 1808
Transzendentale Logik (Logica trascendentale), due corsi di lezione del 1812
Altri scritti minori sono consultabili in appendice a Lettera a Fichte (Jacobi an
Fichte) con testi complementari di Jacobi e di Fichte (1799 e 1816), trad. di A.
Acerbi.[24]

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