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Johann Gottlieb Fichte nacque a Ramneau, in Sassonia, nel 1762. Di umilissime origini, da bambino
conobbe la miseria e fu costretto a fare il guardiano di oche per aiutare la famiglia. Per la sua grande
intelligenza si fece notare da un nobile del luogo che gli permise di intraprendere gli studi di teologia
all’università di Jena. Qui, dopo una lettura entusiastica della Critica della Ragion Pura di Kant,
pubblicò uno scritto anonimo dal titolo, Critica di ogni Rivelazione che fu accolto entusiasticamente
negli ambienti accademici credendolo uno scritto di Kant. Intervenuto lo stesso Kant a chiarire
l’equivoco, Fichte divenne celebre e gli fu offerta una cattedra all’università. Questi furono anni
fecondi nei quali concepì e pubblicò le sue opere più famose quali: Fondamenti dell’intera dottrina
della scienza (1794) (cui seguirono una Prima introduzione alla dottrina della scienza (1797) ed una
Seconda introduzione alla dottrina della scienza); i Fondamenti di diritto naturale secondo i principi
1
della dottrina della scienza (1794); e Lezioni sulla missione del dotto (1794). La pubblicazione di
queste opere gli valse maggior fama e purtroppo anche l’invidia dei colleghi, tanto che, in occasione
di una polemica sull’ateismo, nella quale intervenne in difesa delle posizioni di un suo allievo
accusato di sostenere opinioni atee, fu espulso dall’università di Jena.1 Si recò a Berlino dove entrò in
contatto con il circolo romantico dei fratelli Shlegel. Qui visse lavorando come precettore. A
Koenisberg, in occasione di una visita a Kant, incontrò le truppe napoleoniche e questo gli fornì lo
spunto per i suoi Discorsi alla Nazione Tedesca (1808), dove affermava il “primato morale” del
popolo germanico. Nominato, in seguito al successo derivatogli dalla pubblicazione di questi
Discorsi, professore all’università di Berlino e quindi Rettore, morì a soli 52 anni per un’infezione
virale, contratta dalla moglie che assisteva come infermiera i soldati feriti nella guerra contro
Napoleone.
La Filosofia dell’Infinito.
La vocazione filosofica di Fichte è stata occasionata dagli scritti di Kant, del quale si considera,
almeno al principio, un prosecutore. Fichte riconosce al maestro il merito di aver spalancato le porte
ad una rivoluzione gnoseologica, dato che, se nella teoria tradizionale della conoscenza, soggetto e
oggetto avevano pari peso, Kant ha riconosciuto maggiore importanza al soggetto, il quale proietta le
sue leggi nella natura (= rivoluzione copernicana). Kant, però, secondo Fichte, non ha avuto il
coraggio, di compiere fino in fondo il decisivo passo di rottura con la tradizione e ha mantenuto un
oggetto (= la cosa in sé) esistente indipendentemente dal soggetto. Nella sua opera principale,
Fondamenti della Dottrina della Scienza, pur rimanendo nell’ambito del criticismo, Fichte si
propone di superare il dualismo soggetto/oggetto caratteristico della filosofia kantiana.
Sulla scia degli immediati successori di Kant, Fichte ritiene contraddittoria ed illecita l’operazione
kantiana, di presupporre un oggetto fuori dal soggetto che conosce, dandolo per esistente ma non
conoscibile; andando oltre gli immediati successori di Kant, egli ritiene questo oggetto anche e
soprattutto, un limite per quell’Io, che era stato presupposto stesso della filosofia di Kant; un limite
per la sua stessa Libertà, sia in campo gnoseologico e in campo etico. Fichte ritiene sia arrivato il
momento di compiere quel passo non azzardato da Kant e là dove quest’ultimo aveva costruito una
filosofia “del limite”, egli intende costruire una filosofia dell’Illimitato, dell’oltre-limite,
completamente incentrata sull’Io.
Inoltre, mentre Kant aveva tacciato la filosofia a lui precedente di Dogmatismo, in quanto essa aveva
presupposto l’esistenza di leggi all’interno della Natura invece che all’interno dell’Io che conosce,
Fichte sostiene che tutta la filosofia precedente, Kant compreso, sia dogmatica, in quanto ha creduto
1
Fichte era intervenuto in difesa della tesi che l’ateismo non coincide con l’immoralità e che, se l’Etica costituisce il
nucleo essenziale di ogni religione (secondo anche i principi di Kant), si può allora essere religiosi, in altre parole virtuosi,
anche senza credere in Dio.
2
nel dogma dell’esistenza di una cosa-in-sé, di una realtà indipendente dal soggetto umano. La
filosofia precedente alla fondazione dell’idealismo ha pensato che venisse prima l’oggetto, prima il
mondo, prima la realtà materiale, e poi il soggetto; che fosse l’oggetto il principio primo sia della
conoscenza sia della realtà. Invece le cose, per Fichte, stanno esattamente all’opposto.
2
J.G. Fichte, La Dottrina della Scienza, (raccolta delle opere intorno alla Dottrina della Scienza) Laterza Bari 1971.
3
descritto come un principio necessario alla ragione per spiegare la realtà e sarà anche definito
“Intuizione intellettuale”. Tale principio non va interpretato come il nostro io soggettivo, singolare,
particolare, ma come il Principio stesso della Soggettività conoscente. La ricerca di un principio
originario risponde ad un bisogno logico della ragione di mostrare a se stessa i propri
fondamenti.
Avendo l’Io il compito della “produzione”, inoltre esso non sarà un Ente (qualcosa che esiste) o un
Fatto (come per Cartesio, per cui l’esistenza di sé è un fatto che si scopre attraverso il pensiero) e
neppure una Funzione (come per Kant) ma un Atto, un’Azione, ossia un’Attività Assoluta.
In breve: L’intero sistema del sapere umano (= della conoscenza che l’uomo ha del mondo) si
fonda su di un Atto che è il principio primo. Essendo primo, tale principio è Spontaneo,
“Incondizionato”(= non condizionato da limiti esterni ossia libero), “Autofondante”(= è
fondamento che si pone da sé), “Autointuitivo” (= non dimostrabile ma solo accettabile, come gli
assiomi fondamentali della matematica).
Per stabilire la Natura di quest’Atto fondante Fichte divide la sua Dottrina della Scienza in tre
“momenti” che sono anche i “tre momenti dell’Io”.
4
Nella filosofia aristotelica ed in quella moderna, compresa quella kantiana, il principio fondante della
scienza, è il “principio di identità”: A = A (A è uguale ad A): “il gatto è il gatto”, “il triangolo è
triangolo”, dal quale deriva necessariamente il secondo, il “principio di non contraddizione”: A ≠ non
A (“A è diverso da non A”). La legge di identità, secondo Fichte, non rappresenta il primo principio
della scienza perché essa implica un principio ulteriore in grado di giudicare (= pensare) tale
principio di identità. È l’Io che giudica di tale principio. Ma l’Io non può porre quel rapporto
identitario se non Pone ( = Stabilisce, fonda) prima se stesso, ossia se non si pone “esistente.
Quell’essere, la cui essenza consiste puramente in questo, che esso pone se stesso come esistente, è
l’Io come assoluto soggetto. In quanto esso si pone è, ed in quanto è, si pone, e l’io perciò è
assolutamente e necessariamente per l’io [la causa di se stesso ]. Ciò che non esiste per se stesso
non è io. Si domanderà certo: che cosa ero io dunque prima che giungessi all’autocoscienza? La
risposta naturale a questa domanda è: io non ero affatto, perché io non ero io. Non si può pensare
assolutamente a nulla, senza pensare in pari tempo il proprio io, come cosciente di se stesso; non si
può mai astrarre dalla propria autocoscienza.
L’io dunque non può affermare nulla, neppure il principio di identità, senza affermare
contemporaneamente la propria esistenza (Io sono). Di conseguenza, il primo principio del sapere
non è il principio di Identità (A=A) ma è l’Io stesso che viene ad essere in quanto si auto-pone.
L’essenza dell’Io consiste dunque nell’essere “Autocoscienza” (Io = Io; io sono io). Ma non solo.
Se l’Io fosse soltanto auto-coscienza questo farebbe dell’io di Fichte un “semplice” Cogito
cartesiano; in realtà esso è anche Auto-posizione. L’Io infatti non è posto da altri, ma da sé
medesimo. L’Io, attraverso l’Intuizione intellettuale che ha di se stesso, è non solo coscienza ma
anche auto-coscienza (= auto posizione, auto fondazione) dunque “creazione”. L’Auto intuizione è
contemporaneamente, un conoscersi e un agire. È attività teoretica e pratica, è pensiero ed azione.
L’autocoscienza del soggetto, in questo modo, è l principio fondamentale, non solo della
conoscenza ma anche dell’essere.
In altre parole: noi possiamo affermare che qualcosa esiste, solo
rapportandolo alla nostra coscienza, ossia facendone,
Kantianamente, un essere-per-noi (oggetto fenomenico). Tale
oggetto è possibile (= esiste) soltanto a patto che diventi oggetto
della coscienza del soggetto. A sua volta la coscienza è possibile,
come elemento di conoscenza, solo a patto che sia Auto-
coscienza (= quando noi siamo consapevoli di essere coscienti).
Quindi → Se la coscienza è il fondamento dell’essere e
l’autocoscienza è fondamento della coscienza = allora
l’autocoscienza sarà anche il fondamento dell’essere.
La metafisica classica sosteneva che operari sequitur esse (= l’azione è conseguenza dell’esistenza,
ossia nessuno può agire se prima non esiste), la nuova metafisica idealistica, ca-po-vol-gen-do
l’antico assioma, afferma che esse sequitur operari, in quanto l’essere (o l’esistenza) dell’Io è il
frutto della sua azione, il risultato della sua at-ti-vi-tà libera. L’io pertanto viene ad essere in quanto
si autopone: l’essenza dell’io consiste proprio nell’essere attività auto-cosciente. Questa
5
prerogativa dell’Io viene detta da Fichte, Tathandlung con la quale Fichte intende significare che l’Io
è al contempo Tat = attività agente e Handlung = prodotto dell’attività stessa.
Io = pronome con cui ogni individuo designa se stesso.
Fichte intende con questo termine un’Attività assoluta,
libera e incondizionata in base alla quale ogni
individuo crea se stesso.
La vera novità della dottrina di Fichte sta proprio nel definire l’Io, il soggetto, non più in termini di
Essere, come in tutta la tradizione filosofica precedente, ma in termini di Attività (in senso
dinamico). Infatti, l’affermazione l’“Io pone se stesso” implica di necessità che qualunque soggetto
pensante sia inevitabilmente e costantemente impegnato in un’opera di de-fi-ni-zio-ne di sé; di ciò
che egli è, distinto e separato da ciò che egli non-è.
• È questo il momento in cui l’Io unico si sdoppia pur rimanendo unico. L’io che conosce è
differente dall’io che è conosciuto, anche se entrambi sono il medesimo io.
Pensiamo al mito di Narciso che scoprì se stesso (= si conobbe) guardando la sua immagine riflessa
nell’acqua. Narciso che guarda se stesso è l’Io, Narciso riflesso è il non-io. Sostituendo all’immagine
dello specchio il pensiero, possiamo affermare che Narciso che pensa se-stesso è il soggetto, il se-
stesso pensato è l’oggetto, ossia il non io. Sono i due punti di vista che si riflettono l’uno nell’altro.
Uno è l’oggetto e l’altro il soggetto.
• È questo anche il momento in cui l’Io scopre di essere auto-coscienza, ossia consapevolezza di sé
come oggetto. Il Sé (soggetto) scopre il Sé (oggetto).
Entrambi i momenti, Tesi e Antitesi, è bene sottolineare subito, non sono consequenziali
temporalmente, lo sono logicamente. Essi sono compresenti e necessari alla coscienza, che assume
così una natura contraddittoria e dicotomica. Ciò che chiamiamo “pensiero”, infatti, è, al contempo,
6
sia autocoscienza del soggetto pensante, sia coscienza dell’oggetto pensato. L’auto-determinazione
dell’io, in altre parole implica la determinazione di un opposto, in quanto, come già anticipato nella
sezione introduttiva, non può esistere un principio senza che esista anche il suo opposto. Ogni
affermazione implica una negazione, ogni tesi, un’antitesi; ogni soggetto, un oggetto. In altri
termini, l’Io, non solo pone se stesso, ma contemporaneamente oppone a se stesso qualcosa che è un
non-Io in quanto gli è opposto (è l’oggetto, il mondo, la Natura). Essendo posto dall’Io, tuttavia, il
non- Io è nell’Io.
Non-Io = con non-io Fichte intende per esclusione
immediata tutto ciò che l’Io distingue da se stesso: gli
oggetti, il mondo e la natura nel suo complesso, gli altri
esseri (umani e non). Anche il corpo del soggetto, quale
auto-coscienza, fa parte del non-Io.
Tale non- Io, immediatamente riconosciuto come altro-da-sé dall’Io, è dunque posto dall’Io che deve
riempire la coscienza di un qualcosa che le si opponga per poter essere coscienza di qualcosa. Nel
momento stesso in cui il soggetto si accorge di vedere, di udire e di pensare, si accorge che sta
vedendo, udendo, pensando quindi ponendo qualcosa. Questo qualcosa è il non-Io.
Attenzione: I tre principi non vanno interpretati in senso Cronologico ma Logico. Nel senso che,
con essi, Fichte non intende dire che prima esista l’Io infinito, poi l’ Io che pone il non-io ed infine
7
l’io finito. Con i suoi tre momenti egli vuole affermare che: esiste un Io che per essere tale deve
porre di fronte a sé il non-io, trovandosi così ad esistere concretamente come io finito.
Questi tre momenti, insomma, non vogliono essere una teoria cosmogonica che dia una
spiegazione di come è nato l’universo, sia ben chiaro. Fichte non vuole affermare che In principio
dei tempi vi era un Io creatore che ha posto il non-io e quindi la schiatta dei vari io empirici; e,
soprattutto, i tre principi non stanno tra loro in un rapporto di dipendenza temporale. Questi tre
momenti sono contemporanei e costituiscono soltanto la definizione particolareggiata, ma
simultanea, di un principio unico, il quale è chiamato con tre nomi diversi a seconda dei tre suoi
momenti logici. Il tempo deve essere escluso da tutto il processo di deduzione.3 Fichte non sta
deducendo il nostro mondo da una realtà precedente. Con questa triplice posizione, Fichte ritiene di
aver descritto le condizioni originarie del rapporto soggetto-oggetto che sono alla base, tanto della
conoscenza, quanto della stessa esistenza, dato che se non c’è conoscenza non può esservi certezza
dell’esistenza.
La Triade.
La struttura triadica della filosofia di Fichte, articolata nei tre momenti dell’auto-posizione dell’Io
(tesi), dell’opposizione del non-io (anti-tesi) e della determinazione reciproca dell’io e del non-io
(sintesi), costituisce una formula destinata ad avere grande fortuna nella storia del pensiero (passando
per Hegel, per arrivare a Marx fino a Freud). Essa è incentrata sul concetto di “sintesi degli
opposti”. Se la consideriamo alla luce esclusiva delle formule teoretiche, la filosofia di Fichte è
ostica, riducibile ad un vano gioco di concetti vuoti, ma, analizzata alla luce della esperienza
quotidiana di ciascuno di noi, essa coglie l’intima essenza della vita spirituale.
“Provatevi a pensare ad un qualunque atto mentale, senza opposizione, senza critica, senza riflessione
su se stesso. Esso è destinato ad esaurirsi e disperdersi. La natura del nostro spirito è tale che ogni
dire esige un contraddire, ogni tesi suscita un’antitesi, non come punto d’arresto o come un disfare
quel che è fatto, ma come limite fecondo che fa fermentare gli elementi vivi della tesi, permeandoli di
sé”.4 In questo modo la sintesi che deriva da questo lavoro di posizione e di critica della tesi iniziale,
non è la pura e semplice ripetizione della tesi, ma è la riaffermazione di essa, arricchita e rafforzata
dal superamento dell’antitesi. Questo non vale soltanto per l’attività del pensiero teoretico ma anche
per l’attività morale, estetica o religiosa o qualsivoglia altra attività dello spirito umano. Ovunque si
abbia un’attività dello spirito possiamo riconoscere questo schema. Lo spirito vive di opposizione e di
lotta e le sue affermazioni, per trovare conferma finale, debbono passare attraverso le forche caudine
3
Esso è una forma a priori della sensibilità, uno strumento dell'io divisibile o empirico per porre ordine sui fenomeni e
non può in alcun modo essere applicato alla realtà extra fenomenica.
4
Guido De Ruggiero, Storia della Filosofia. “L’età del romanticismo”, Laterza, Bari 1968, vol. I, pp. 175-176.
8
della controprova.5 Lo schema triadico non fa che simboleggiare questo processo vitale, è la magra
formula con cui questo processo viene riassunto. “Rivestendolo” della sua valenza psicologica
possiamo tradurlo e re-interpretarlo alla luce del più complesso linguaggio dello spirito. Potremo,
così, leggere nella “Tesi”, l’esordio, spontaneo, della ricerca teoretica o dell’intuizione artistica o
dell’atto volontario, nella “Antitesi”, il dubbio, l’obiezione, in altri termini il travaglio della
riflessione e della critica, nella “Sintesi”, infine, la riconquista, la sicurezza, soprattutto la certezza di
aver raggiunto un’opinione ponderata, non quella certa e inconfutabile, ma quella maturata
soprattutto grazie al lavoro interiore.
Poniamo l’idea di mollare tutto e partire per la Costarica ad aprire un bar. È la nostra tesi. Da qui il
dubbio, ma-che-sto-facendo? Ma-dove-vai? E i genitori: “Sei impazzito!?!” E il nonno: “Splendido!
Ho qualcosa da parte, se mi prendi con te è tuo”. Questa è L’antitesi. Finché, alla luce di un lungo
travaglio prendo la mia decisione, nel nostro caso faccio una scelta. Sbagliata? Giusta? Questa è la
sintesi che si è arricchita di tutti gli elementi che mi hanno portato a prenderla.
Ed una volta raggiunta la sintesi non creda lo spirito di aver conquistato per sempre la quiete dopo la
travagliata decisione finale. Ogni sintesi segna una pausa di meritato riposo, ma questo non è che una
tregua che prelude ad un nuovo slancio, uno stato di equilibrio instabile in vista di un nuovo
squilibrio che da vita ad un nuova “sfida”.
Questa è la missione dell’Io. Essa, ovviamente, non potrà essere portata a termine poiché se l’Io
riuscisse ad annullare tutti i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere, perché esso esiste solo in quanto
incessante attività, senza la quale subentrerebbe la stasi. Al concetto Statico di “Perfezione”, proprio
della filosofia classica con il quale essa individuava il concetto di divinità, Fichte oppone il concetto
dinamico di “auto-perfezionamento”, di Sforzo di perfezionarsi (Streben).
Idealismo o dogmatismo?
“La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è
un’inerte suppellettile, che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito
dell’uomo che lo fa suo. Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal
lusso raffinato o dalla servitù spirituale non potrà mai elevarsi all’idealismo.”
Fichte nel suo saggio“Prima introduzione alla dottrina della scienza” cerca di dimostrare come la
filosofia non sia, dunque, una costruzione astratta, ma una riflessione sull’esperienza. Un prezioso
momento d’interpretazione dell’esperienza umana che ha come scopo la messa in luce del
fondamento dell’esperienza stessa.
Fare filosofia, significa anche studiarla, condividerla o rifiutarla.
5
Provando e Ri-provando diceva Galileo Galilei (dove il riprovando non sta per “provare una seconda volta”, ma nella
confutazione della prova stessa, solo così si avrebbe la certezza).
9
Fichte riduce a due i modi di fare Filosofia (in campo teoretico, in campo gnoseologico ed in campo
etico), due sistemi di base, contrapposti l’uno all’altro. Nessuno dei due sistemi riuscirà mai a
confutare direttamente l’altro, poiché nessuno dei due può fare a meno di ritenere “fondamentale” il
proprio principio di partenza, che, essendo un assunto, un assioma, è, di per sé, indimostrabile.
a. Il primo modo è quello “dogmatico”, il sistema che fa del dato oggettivo il punto di partenza.
b. Il secondo è quello “idealistico” opposto al primo che parte dall’Io o soggetto,
“l’intelligenza”, come punto di partenza.
Cosa è mai allora ciò che induce un uomo che voglia fare filosofia a scegliere l’un sistema piuttosto
che l’altro? La scelta tra questi due “massimi sistemi” del mondo deriva da una differenza di
inclinazione personale, da una presa di posizione preliminare in campo etico (dal carattere
insomma).
Il dogmatismo si configura, in gnoseologia, come realismo (esiste prima il mondo, ossia prima
la cosa da conoscere) e in metafisica come materialismo ( il mondo è retto da principi oggettivi
meccanici e determinati). Questa posizione,va da sé, rende problematico parlare della libertà in
campo metafisico.
Al contrario l’idealismo, che si propone come una filosofia che ha come principio di base l’Io
(= fa dell’Io un’attività auto-creatrice, in funzione della quale esistono gli oggetti), finisce per
strutturarsi come una dottrina della libertà.
Queste due filosofie hanno come corrispettivo esistenziale due tipi d’umanità.
Da un lato, infatti, esistono individui che non sono in grado (per carattere, per indole o per
indolenza) di “elevarsi” alla convinzione della propria libertà assoluta e che riconoscono se
stessi solo nel mondo, negli altri (in quello che gli altri fanno di norma). Essi sono
istintivamente attratti dal dogmatismo e dal naturalismo (dal determinismo e dalla servitù
spirituale ai comportamenti più rassicuranti perché comunemente accettati, “in voga”,
“condivisi dai più”).
Dall’altro vi sono individui che hanno il senso profondo della propria libertà ed indipendenza
dalle cose. Questi sono portati a simpatizzare per l’idealismo. Soltanto questa filosofia insegna
che l’essere uomini significa sforzo (Streben) e conquista e che il mondo esiste non per essere
contemplato ma soltanto per essere forgiato dallo Spirito.
La scelta sostanziale, di cui parla Fichte e che lo porta all’Idealismo, è in realtà motivata e ben
fondata anche teoreticamente poiché tutta la sua dottrina della scienza è volta a mostrare che soltanto
partendo dall’Io si riescono a spiegare sia l’Io che le cose.
L’Io è dunque la realtà originaria e assoluta che può spiegare sia se stessa, sia le cose, sia il rapporto
tra se stessa e le cose. Dall’azione reciproca dell’io ( = minuscolo, gli io singoli) e del non-io (= le
cose, il mondo) nascono sia la conoscenza (la rappresentazione) che l’azione morale.
10
La filosofia della conoscenza
L’ affermazione che l’Io produce il non-io appare a prima vista quantomeno strana, soprattutto
esponendola nella sua forma riflessiva: il non-io è un prodotto dell’Io.
Tale dottrina genera un duplice problema non irrilevante:
1) Se il non-io (la natura) è un effetto dell’Io, perché esso appare alla coscienza comune come
qualcosa di sussistente di per sé, anteriore ed indipendente dall’io stesso?
2) Eliminando la consistenza autonoma del non-io, questo non rischia di ridursi a una pura parvenza,
a un sogno?
► Al primo problema Fichte risponde con la teoria dell’Immaginazione produttiva (lo stessa
espressione è di Kant)6 che è l’attività, o l’Atto, attraverso cui l’Io pone (= crea) il non-io. Tale
immaginazione fornisce all’Io il materiale della conoscenza, nel momento stesso in cui l’Io si separa,
si scinde, e crea se stesso creando al contempo anche il non io. Questo atto di immaginazione
polarizzata avviene al di sotto della soglia della coscienza. “Il non-io è dunque immagine prodotta,
non realtà esistente in sé. Ma il soggetto empirico, l’io “finito” attraverso cui l’Io conosce, percepisce
il non-io come realtà del tutto oggettiva, e non ha coscienza della sua affinità con sé: non ha
coscienza che entrambi sono il dispiegarsi dell’attività infinita in due opposte determinazioni
dell’unico principio”.7 Soltanto con la prospettiva idealistica, afferma Fichte, l’uomo ha preso
coscienza della vera natura di sé e del mondo. L’Io non è consapevole di aver prodotto il materiale
della conoscenza (= il non-io), non lo riconosce come auto-prodotto e dunque lo ritiene esistente di
per sé, perché tale produzione avviene sotto la soglia della coscienza (Fichte non lo dice proprio in
questo modo, io preferisco esporlo così per rendere più masticabile il concetto).
► Al secondo problema Fichte ha già risposto asserendo che il non-io, pur essendo prodotto dell'Io,
non è una parvenza ingannatrice ma una realtà per ogni io empirico. È insomma una nuova
prospettiva di osservazione del mondo, un nuovo modo di considerare le cose da un nuovo punto di
vista.
La natura, ossia la materia della conoscenza (= il regno dei fenomeni), è interpretata da Fichte come il
prodotto dell’Attività infinita dell’Io puro che, nel suo infinito tendere verso la conoscenza, si scinde
in un soggetto conoscente ed in un oggetto conoscibile. In quest’ottica, il non-io è soltanto lo
specchio, l’immagine riflessa dello stesso Io puro, ed in quanto immagine oggettivata, la natura non
ha per Fichte alcuna autonomia, alcuna legge o forza propria. L’ordine su di essa è posto,
kantianamente, dall’attività conoscente del soggetto mediante l’applicazione delle forme a priori, solo
che, sollevando il velo del fenomeno Fichte non scorge alcuna kantiana cosa-in-se ma, come il
discepolo di Sais, vede l’Io stesso.
6
Per Kant l’immaginazione produttiva è la facoltà che dà origine agli schemi trascendentali
7
Pancaldi, Trombino, Villani, Philosophica, 3°, Marietti, 2007. p. 50.
11
La dottrina Morale
La filosofia per Fichte, per essere tale, deve anche tentare di offrire una spiegazione del mondo
nel suo complesso, rispondendo alla fondamentale domanda del perché esso esista.
Perché “l’Io pone il non-io”, a che scopo? Quale è il motivo dell’esistenza?
Il motivo dell’esistenza, risponde Fichte, è di natura pratica.
L’Io pone il non-io, ed esiste come io-conoscente, solo per poter agire. Noi esistiamo perché
conosciamo (dice Cartesio) ma conosciamo solo perché siamo destinati ad agire (dice Fichte).
L’io pratico costituisce la ragione stessa dell’io teoretico. In questo consiste, per Fichte, il primato,
enunciato da Kant, della ragion pratica sulla ragion teoretica. Noi esistiamo solo per a-gi-re e “Il
mondo esiste solo come teatro della mia azione e per null’altro.”
Ma cosa significa per Fichte agire?
Agire per Fichte significa imporre al non-io la legge morale dell’io, ossia forgiare noi stessi ed il
mondo alla luce di progetti “liberi e razionali”.
L’idealismo di Fichte è un Idealismo Etico più che teoretico.
Il carattere morale dell’azione consiste nel fatto che l’azione stessa assume la forma del “dovere”, di
un Imperativo volto a far trionfare lo spirito sulla materia mediante la sottomissione dei nostri impulsi
egoistici alla nostra ragione e mediante l’estensione della nostra volontà razionale al mondo esterno,
che esiste per essere plasmato dalla nostra azione morale. Questa è la spiegazione definitiva del
perché l’Io abbia necessità del non-io. L’Io, che è costituzionalmente Libertà, per realizzare se
stesso deve agire ed agire moralmente in ottemperanza di un dovere.
Come Kant aveva insegnato, “non c’è moralità là dove non c’è libertà”, Fichte prosegue “non c’è
morale dove non c’è Sforzo, ossia un ostacolo da rimuovere”. Questo ostacolo è costituito dalla
materia, dall’impulso sensibile, dal non-io.8 La posizione del non-io è quindi la indispensabile
condizione affinché l’Io si realizzi nel suo scopo, che è morale.
Fichte riconosce nell’ideale etico il vero significato dell’infinità dell’Io: l’Io è infinito poiché si
rende tale svincolandosi dagli oggetti che esso stesso pone, e pone tali oggetti perché senza di essi
non potrebbe realizzarsi come attività e come libertà.
Lo scopo della vita dell’umanità sulla Terra è quello di conformarsi liberamente alla ragione in
tutte le sue relazioni.9
8
Ricordiamo ancora una volta che non-io è sia il mondo esterno a noi ma anche il nostro corpo, con i suoi appetiti
che spesso regolano le nostre azioni.
9
J.G. Fichte Opere,VII, p. 7.
12
La missione morale del dotto
Da questo deriva la missione sociale dell’uomo ed, in particolare, dell’uomo dotto. Per Fichte, infatti,
il dovere morale è realizzabile dall’io finito soltanto insieme con gli altri io finiti. Nel Sistema della
dottrina morale (1798) egli arriva a “dedurre” filosoficamente l’esistenza degli altri io basandosi sul
principio per il quale la sollecitazione al dovere può venirmi soltanto da esseri al di fuori di me che
siano però, come me, nature intelligenti. In altre parole, se ammetto l’esistenza di altri esseri come
me, io sono obbligato a riconoscere ad essi la stessa prerogativa che mi appartiene, cioè la libertà. In
base a questo principio ogni io finito risulta costretto a porre dei limiti alla propria libertà e
soprattutto ad agire affinché l’umanità nel suo complesso risulti sempre più libera. Farsi liberi e
rendere liberi gli altri ecco il senso dello Streben sociale dell’io.
E per realizzare pienamente questo scopo si richiede la mobilitazione di chi ne possiede la maggior
consapevolezza teorica, cioè dei “dotti”. Fichte sostiene nelle Lezioni sulla missione del dotto (1794)
che gli intellettuali non devono rimanere isolati nelle loro torri della scienza, ma devono essere
“persone pubbliche” con precise responsabilità sociali e morali. Essi, anzi, esistono in funzione della
società e devono adoperarsi per migliorarla. Il dotto deve essere l’uomo migliore del suo tempo, deve
farsi “maestro” e “educatore” perché se il fine supremo di ogni uomo è il perfezionamento di sé,
quello dell’uomo dotto è il perfezionamento morale di tutto il genere umano.
La filosofia politica.
Il pensiero politico di Fichte passa attraverso fasi diverse, influenzate inevitabilmente dagli eventi
storici a lui contemporanei, dalla rivoluzione francese all’invasione napoleonica della Germania.
All’inizio del suo percorso politico Fichte parte da concetti socialmente “spinti”, mostra di
condividere una visione contrattualistica e Rousseauiana dello stato, soprattutto in chiave libertaria.10
Simpatizzando con gli eventi della rivoluzione francese, Fichte afferma che scopo dello Stato è
l’educazione alla libertà di cui è corollario inevitabile il diritto alla rivoluzione. Nel caso in cui lo
stato non permetta l’educazione alla libertà, infatti, ciascuno è legittimato a rompere il contratto
sociale (anche con la rivoluzione) e di firmarne un altro che sia in grado di fornire migliori garanzie
civili (= formare un nuovo assetto politico). Il sistema politico auspicato da Fichte, nella fase
giovanile del suo pensiero, è un sistema in cui la proprietà deve essere il frutto del lavoro produttivo,
un sistema nel quale chi non lavora non deve mangiare.11 Un atteggiamento ponderatamente
“rivoluzionario” che contempla una forma di comunismo dei beni prodotti.
Inoltre, nella parte dedicata alla politica delle Lezioni sulla missione del dotto, Fichte scorge il fine
ultimo della vita comunitaria in una “società perfetta”, un insieme di esseri ragionevoli e liberi e
considera lo stato come semplice mezzo in funzione di essa, finalizzato al proprio annientamento,
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J.G.Fichte, “Rivendicazione della libertà di pensiero”. Comparso anonimo nel 1793.
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J.G.Fichte, “Contributo per rettificare il giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese”. Comparso anonimo nel 1793.
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in quanto lo scopo di ogni governo dovrebbe essere quello di rendere superfluo il governo.
Ovviamente Fichte ritiene questa proposizione anarchica, una situazione-limite, fondamentale però in
termini di prospettiva morale.
Nei Fondamenti del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza (1794), Fichte si
esprime in altri termini e si sofferma sull’importanza dello stato, che deve farsi garante dei tre diritti
originari e naturali dell’individuo la libertà, la proprietà e la conservazione di sé che possono essere
assicurati soltanto da una forza superiore all’individuo, ossia dalla collettività degli individui che
costituisce l’organismo statale. Lo stato, in questa nuova prospettiva, lungi dall’eliminare il diritto
naturale, serve a garantirlo e a realizzarlo.
Questo punto di vista è corretto e completato nello Stato commerciale chiuso (1800) dove il filosofo
afferma che lo stato deve, non solo farsi garante dei diritti originari, ma anche rendere impossibile la
povertà, garantendo a tutti i cittadini lavoro e benessere. Polemizzando contro il liberismo ed il
mercantilismo, Fichte, propone una sorta di statalismo socialista ed autarchico, autosufficiente sul
piano economico. Per svolgere i suoi compiti in tutta libertà ed efficienza, regolando secondo
giustizia la distribuzione dei redditi e dei prodotti, lo stato deve organizzarsi come un tutto chiuso,
senza contatti con l’estero (eccezion fatta per gli intellettuali che devono muoversi per motivi di
studio), sostituendo in tal modo all’economia liberale del mercato ed al commercio di scambio
mondiale un’economia statale pianificata e l’isolamento economico totale degli stati. Tale chiusura
commerciale, continua Fichte, è possibile però solo a patto che lo Stato abbia all’interno dei suoi
confini tutto ciò che gli occorre per la fabbricazione dei prodotti necessari e là dove questo manchi lo
stato può avocare a sé il commercio estero e farne un monopolio. Questa autarchia economica e
sociale ha il vantaggio di evitare gli scontri tra gli stati, che nascono sempre dal contrapporsi degli
interessi commerciali.
L’opera di Fichte sul piano politico, un ibrido di teorie libertarie, individualiste e stataliste, esprime la
sovrapposizione di due concezioni dello stato, quella liberale classica e quella socialista e, sebbene
risulti un’irrealizzabile congerie di utopie, esprime un esigenza storica reale, consistente nella
necessità di un intervento attivo dello stato moderno nella vita sociale, volto ad evitare le ingiustizie,
la povertà e la disoccupazione.
L’occupazione napoleonica della Prussia costituisce l’occasione dell’evoluzione definitiva della
filosofia politica di Fichte, in senso nazionalistico. Nei celebri Discorsi alla Nazione tedesca (1808),
una delle opere più singolari che siano mai apparse sulla scena filosofica, Fichte vela le sue intenzioni
polemiche sotto il pretesto del tema educativo. La complessità del mondo moderno, afferma l’autore,
richiede da parte dello stato una “nuova” azione pedagogica capace di trasformare radicalmente, in
chiave etica, la stessa struttura psicologica dei cittadini. In virtù del suo carattere peculiare, che egli
identifica nella lingua nazionale, soltanto il popolo tedesco è in grado di promuovere la “nuova
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educazione”. Soltanto il popolo tedesco ha mantenuto integra ed incontaminata la propria lingua,
scevra da influenze straniere, non come gli spagnoli, gli italiani e i francesi che possiedono lingue
ibride, lingue neolatine mescolatesi con quelle degli innumerevoli popoli che hanno abitato sulle loro
terre. In conseguenza di ciò i tedeschi sono anche gli unici ad avere una patria nel senso più alto del
termine e a costituire un’unità organica nella quale i singoli si riconoscono. Coniugando il discorso
patriottico con quello nazionalistico Fichte proclama che soltanto la Germania, sede della grande
riforma di Lutero, patria di Leibniz e di Kant, epicentro della nuova arte romantica e della nuova
filosofia idealistica, risulta la nazione “eletta” tra le altre a divenire per gli altri popoli ciò che il
filosofo vero è per gli altri uomini: una forza trainante, una “guida” ed un “faro” per l’intera umanità.
Tale “missione”, da parte della Germania, risulta essere così importante che se essa fallisse l’intera
umanità pe-ri-reb-be. (Urca!) Non vi sono vie d’uscita: Se voi cadete, l’umanità intera cade con voi,
senza speranza di riscatto futuro.12
Tali espressioni non devono trarre in inganno il lettore attento. Noi dobbiamo abituarci a
contestualizzare i nostri autori.
Fichte scrive con talento enfatico e con impeto oratorio, per i nostri gusti un po’ troppo retorico, ma
dobbiamo ricordarci la situazione in cui furono scritti questi discorsi. Il nuovo spirito romantico, che
spingeva alle irrefrenabili esplosioni sentimentali, l’insofferenza per l’invasione napoleonica
(Napoleone, oltre ad essere l’invasore, aveva tradito le aspettative di molti giovani intellettuali
tedeschi che avevano accolto con favore ed entusiasmo la Rivoluzione Francese) e la guerra che ne
derivò, il carattere personale, generoso ed impulsivo del nostro filosofo, sono alcuni degli elementi
che possono aiutarci a ridimensionare l’impulso ribellistico nei confronti di simili affermazioni. 13
In oltre è bene fare subito qualche osservazione.
A) Il “primato” che Fichte assegna al popolo germanico non è di tipo politico, né militare; quando
parla di primato, lo intende soltanto in senso culturale e spirituale. Ed il ruolo che la Germania
deve giocare è quello dell’esempio.
B) L’interesse che il popolo tedesco deve aver a cuore è non quello privato, ma quello dell’umanità
nella sua interezza.
C) Il fine educativo della “Germania maestra” deve consistere nella promozione di valori quali la
ragione e la libertà.
Queste osservazioni, doverose, dovrebbero servire a scagionare Fichte dalle accuse mossegli in
seguito ad un’interpretazione (testualmente scorretta) dei Discorsi che è stata fatta in senso
pangermanista o razzista. Ciò non toglie che, tali discorsi, abbiano esercitato la loro maggiore
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J.G.Fichte, Reden an die deutsche Nation, Berlin, 1807-1808, trad. it., Discorsi alla nazione tedesca, Utet, Torino 1965,
p. 269.
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Non dimentichiamoci che Fichte, pur di difendere un amico di cui condivideva le posizioni, non aveva esitato a lasciare
un’importante carriera universitaria a Jena, così come non ci pensò due volte a dire a svariati padri di famiglia cosa
pensasse dei loro metodi educativi nei confronti dei figli, ai quali faceva da precettore quando era a Berlino.
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influenza storica proprio in questo senso. È proprio in senso, non soltanto patriottico, ma
apertamente razzista ed aggressivo che il contesto dei Discorsi e parole come “missione”, “primato
del popolo integro”, sono divenute parole-chiave dello sciovinismo tedesco, portato ben presto a
trasformare la “supremazia” spirituale della nazione tedesca di Fichte in una “supremazia” razziale e
di potenza destinata a sfociare nel nazismo del Terzo Reich.
Diciamo che in questa fase politica del suo pensiero, Fichte tende ad accentuare la missione
educatrice dello stato, ed in particolare dello stato tedesco ed a risolvere l’io empirico nel Noi
spirituale della Nazione.
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Negli scritti successivi, di carattere più divulgativo, i temi religiosi si fanno più marcati.
Nell’Introduzione alla vita beata, il pensiero può raggiungere la ri-ve-la-zio-ne di Dio, la possibilità
della sua esistenza o la sua immagine; il vero essere di Lui rimane però al di là. In altre parole,
l’esistenza di Dio si identifica con l’autocoscienza dell’uomo; ma il modo in cui essa deriva
dall’Essere di Dio è e rimane un mistero inavvicinabile.
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