Cesare Lombroso, è ricordato come esponente italiano dell’antropologia criminale. Si tratta di un
personaggio molto controverso, che ha ricevuto moltissime critiche. Vissuto a cavallo tra il 1800 e il 1900, Lombroso è considerato il padre della criminologia moderna e uno degli esponenti più rilevanti del Positivismo. La teoria lombrosiana si basava sul concetto di “patologia criminale” secondo cui in alcuni individui lo sviluppo si arrestava ad uno stadio anteriore rispetto allo sviluppo della specie: costoro consentivano di individuare le stigmate fisiche della devianza e dell’atteggiamento criminoso. Lombroso descrive infatti questi soggetti come individui con regressioni allo stato selvaggio. Egli sosteneva di aver scoperto il segreto della criminalità e di aver quindi concepito l’idea dell’atavismo mentre stava esaminando il cranio del brigante calabrese Villella, 1870, la scoperta di una fossetta di alcuni centimetri presente vicino all’osso occipitale, lo portò ad asserire che l’uomo delinquente non era altro che il rappresentante attuale dell’uomo primitivo e dei suoi predecessori. L’errore di Lombroso, risiede nell’affidare il delinquere, non ad un atto cosciente di responsabilità, ma ad una organizzazione fisica e psichica diversa dall’uomo normale, e comune a tutti i criminali. Associare a caratteri atavici, tendenze e manifestazioni criminose, porta Lombroso a stabilire una somiglianza tra criminali, animali, popoli primitivi e selvaggi. Molti dei caratteri che presentano gli uomini selvaggi, continua Lombroso, si ritrovano nei delinquenti nati. Lombroso esemplifica: fronte sfuggente, scarsezza di peli, seni frontali molto sviluppati, la pelle più scura, le orecchie voluminose, i tatuaggi, in una lunga elencazione casistica che è valsa al criminologo numerose critiche. La teoria di aver trovato un dato comune a tutti i criminali , invece, si dimostrò, nel tempo, fallace, poiché non si poteva trovare un tipo di gene o formazione ossea che indicasse senza dubbio chi fosse il criminale e chi no. Molto del suo lavoro fu frainteso perché l’antropologo torinese indagava anche sulle istituzione psichiatriche e sulle istituzioni penitenziarie, cercando di migliorare le condizione dei detenuti e degli utenti dei manicomi.