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Premessa
La domanda «Chi ha paura della giustizia?» sembrerebbe avere una risposta semplice. Hanno
da temere dalla giustizia gli ingiusti, coloro che, riconosciuti colpevoli di atti di ingiustizia con i
quali hanno causato sofferenza ai propri simili o danno alla collettività, vengono condannati a
espiare una pena. In uno Stato di diritto gli atti di ingiustizia condannabili sono solo quelli
previsti come reati dalla legge. Tuttavia, se dal piano delle enunciazioni astratte passiamo alla
realtà concreta, dobbiamo prendere atto che esiste un’ampia categoria di ingiusti – nel senso
prima indicato – che ha nulla o poco da temere dalla giustizia. Un’ampia categoria di ingiusti
nei cui confronti gli apparati preposti all’amministrazione della giustizia risultano totalmente o
parzialmente impotenti. Per comprendere le ragioni di questa impotenza, per capire cioè come
funziona in concreto il sistema di giustizia in un paese, non ci si può limitare a esaminare le
leggi penali che prevedono i reati, i codici che disciplinano i processi, l’organizzazione della
magistratura e delle forze di polizia. Si tratta di un metodo che può portare a risultati a volte
assolutamente ingannevoli. Esiste infatti uno scarto molto grande, a volte un abisso, tra legalità
formale (law in book) prevista dalle leggi e legalità reale (law in action). Prima di analizzare la
situazione italiana – ove questo scarto è elevato – fornirò alcuni esempi concreti, facendo
riferimento ad altri paesi. Prendiamo il Messico, paese all’undicesimo posto della classifica
delle più grandi economie del pianeta, dotato di Costituzione rigida e di sistema democratico.
Poniamo che uno studioso volesse conoscere come funziona il sistema di giustizia in Messico
basandosi esclusivamente sullo studio delle leggi penali, delle regole processuali,
dell’organizzazione della magistratura e delle forze di polizia esistenti in quel paese. Dopo la
lettura di ponderosi volumi, quello studioso perverrebbe alla conclusione che il sistema di
giustizia messicano è pienamente in linea con la migliore tradizione giuridica europea e
adeguato alle esigenze di giustizia. Un sistema nel quale gli «ingiusti», i criminali hanno motivo
di avere paura della giustizia. Ma la verità è ben altra. In Messico non esiste alcuna giustizia. La
legalità reale è abissalmente distante da quella formale. Secondo le statistiche ufficiali
governative, tra il 2010 e il 2016, in un paese di 120 milioni di abitanti, 151 milioni di
messicani sono state vittime di un reato, con una media di 1,25 reati per abitante. La percentuale
di impunità è del 96 per cento, solo nel 4 per cento dei casi dunque si perviene a una condanna.
Il risultato – sempre secondo le statistiche ufficiali – è che il 94 per cento dei messicani non
presenta più denuncia per mancanza di fiducia nel sistema giudiziario. In particolare nel corso
del 2016 sono stati commessi 66.842 sequestri di persona ma ne sono stati denunciati solo
1.131. Nel 98 per cento dei casi non vi è quindi stata denuncia. Se si vogliono comprendere le
ragioni per cui in Messico gli «ingiusti» godono di quasi totale impunità, occorre dunque
mettere da parte codici e pandette e analizzare quali sono le cause sociali di questo default della
giustizia, quali sono cioè i veri rapporti di forza sociali in quel paese che determinano l’ordine
reale al di là dell’ordine giuridico astratto. Ho proposto l’esempio del Messico, ma ad analoghe
conclusioni si può pervenire – con gradazioni diverse – per tanti altri paesi, compresi alcuni,
come gli Stati Uniti, percepiti nell’immaginario collettivo come esempio di sistema giudiziario
efficiente. Gli Stati Uniti d’America, che rappresentano meno del 5 per cento della popolazione
mondiale, hanno la popolazione carceraria più numerosa del mondo (circa il 25 per cento).
Secondo un rapporto del dipartimento di Giustizia Usa del 2006, oltre 7,2 milioni di persone
erano in quel momento in prigione o sotto varie forme di custodia, ossia circa 1 americano su
32. Nel settembre del 2014 il Bureau of Justice Statistics del dipartimento di Giustizia ha
pubblicato un interessante rapporto sulle carceri statunitensi, basato su dati aggiornati al 31
dicembre 2013, dal quale risulta che la razza maggiormente rappresentata tra la popolazione
carceraria statunitense maschile (1.412.745 detenuti nel 2013) è quella dei neri (37,2 per cento).
Una sovrarappresentazione indicativa della fondatezza delle proteste dei cittadini statunitensi
neri – che hanno assunto anche la forma di manifestazioni turbolente – che denunciano come il
sistema giudiziario statunitense produca, nel suo funzionamento concreto, esiti non conformi al
principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, operando discriminazioni di razza e di
ceto.
Chi ha paura della giustizia in Italia?
Adottando ora lo stesso metodo di analisi per l’Italia, si perviene a conclusioni molto
interessanti per dare risposta alla domanda «Chi ha paura della giustizia?». Nel 2013 è stato
pubblicato un documentato studio del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del
ministero della Giustizia sulla composizione della popolazione detenuta in carcere in espiazione
definitiva di pena. Da quello studio risultava che 14.970 detenuti, pari al 50 per cento del totale,
erano stati condannati per violazione della legge sugli stupefacenti, 6.069 per omicidio, 5.892
per rapina, 2.250 per furto, 2.221 per estorsione, 2.052 per violenza sessuale, 1.954 per
ricettazione e così via per altri reati di strada. Le voci «reati contro la pubblica
amministrazione» (che comprende i reati di corruzione in senso lato) e «reati economici» (cioè
bancarotte, reati fiscali) non risultavano quotate per l’irrilevanza statistica delle persone
detenute per tali tipologie di reato. Altro dato significativo si ricava da un’audizione alla
Camera dei deputati del ministro della Giustizia, dalla quale risulta che alla data del 13 ottobre
2013 su un numero complessivo di persone in stato di custodia cautelare di 24.744 unità, quelle
che lo erano per reati di corruzione ed economici ammontavano a 31, cioè allo 0,3 per cento.
Per completare il quadro è interessante comparare la composizione della popolazione carceraria
dell’Italia attuale con quella dell’Italia degli inizi del XX secolo. Ebbene, nonostante dagli inizi
del Novecento ai nostri giorni siano cambiate più volte le forme dello Stato – con la transizione
dalla monarchia costituzionale al fascismo e poi alla repubblica – nonostante il succedersi di
eterogenee maggioranze politiche nel corso della storia repubblicana, permane una costante: in
carcere, a espiare effettivamente la pena, oggi come ieri e l’altro ieri finiscono coloro che
occupano i piani più bassi della piramide sociale. Agli inizi del Novecento erano quelli che i
criminologi del tempo definivano elementi pericolosi della classe «oziosa»: ladri, assassini di
strada o autori di omicidi passionali, ricettatori, truffatori, frodatori, esponenti dell’ala militare
delle organizzazioni criminali di allora 1 . Oggi, mutatis mutandis, è più o meno la stessa
categoria antropologica. Oggi come ieri, gli esponenti della classe dirigente e di quella abbiente
detenuti in espiazione definitiva di pena costituiscono un’eccezione. Tenuto conto che il carcere
rappresenta una tra le più rilevanti cartine di tornasole degli esiti concreti della giurisdizione
penale, i dati statistici sembrerebbero avvalorare l’ipotesi di una straordinaria continuità storica
di un duplice volto della giustizia: debole e inefficiente con i potenti, forte ed efficiente con gli
impotenti. Attraverso quali meccanismi si è realizzata questa continuità storica, tenuto conto che
– come accennato – dagli inizi del Novecento ai nostri giorni sono profondamente mutati
l’assetto istituzionale dello Stato, quello socioeconomico e, di riflesso, l’ordinamento penale e
la cultura dei giuristi? La risposta a queste domande richiederebbe una lunga e approfondita
trattazione, che esaurirebbe tutto il tempo a mia disposizione. Procederò quindi per sintesi e
accenni. Ieri – nell’Italia prerepubblicana – l’impunità della criminalità del potere e delle classi
abbienti era garantita dalla subordinazione istituzionale della magistratura al potere politico
all’interno di uno Stato classista ove il potere politico ed economico si concentrava nelle mani
di poco meno del 10 per cento della popolazione. Nell’Italia repubblicana, ove la Costituzione
ha garantito l’indipendenza della magistratura dal potere politico e ha consentito la crescita
democratica del paese, l’impunità dei colletti bianchi si è di fatto realizzata attraverso
meccanismi molto più complessi e sofisticati per comprendere i quali dobbiamo procedere a un
censimento dei grandi assenti nella popolazione carceraria.
Il diritto disuguale
Per comprendere appieno come si sia determinata l’anomala composizione della popolazione
carceraria rilevata nello studio del Dap al quale ho accennato all’inizio, nella massima misura
composta solo da soggetti appartenenti alle classi meno abbienti, occorre considerare che, nello
stesso periodo nel quale venivano emanate una serie di leggi che in modi diversi sortivano
l’effetto di evitare il carcere per i reati dei colletti bianchi, venivano emanate altre leggi che
andavano nella direzione esattamente opposta, elevando le pene previste per i reati di strada e
quelli commessi da immigrati irregolari, introducendo nuove fattispecie di reato, allungando i
tempi di prescrizione per i reati commessi dalla criminalità comune, escludendo dalle misure
alternative al carcere talune categorie di criminali comuni eccetera. Ad esempio, mentre veniva
diminuita da cinque a tre anni (poi portati a quattro, ma sempre sotto la soglia utile per le
intercettazioni) la pena per il reato di abuso di ufficio, mentre venivano previsti appena tre anni
di reclusione per il reato di traffico di influenze illecite, per i reati di furto con strappo la pena,
prima prevista da uno a sei anni, veniva elevata da tre a sei anni, e nei casi di furto
pluriaggravato (per esempio furto con strappo di bagagli dei viaggiatori o di cose esposte per
consuetudine alla pubblica fede o reverenza) le pene venivano portate da quattro a dieci anni,
invece che da tre a dieci anni. La pena per i piccoli spacciatori di poche quantità di droghe,
prima fissata da un minimo di un anno a un massimo di sei, veniva elevata in modo
sproporzionato da un minimo di sei a un massimo di venti anni, grazie a una speciale norma
introdotta dalla legge ex Cirielli (la stessa che contemporaneamente «graziava» gli autori di
reati dei colletti bianchi) che vietava al giudice di far prevalere l’attenuante della speciale
tenuità dello spaccio sulla recidiva di cui all’articolo 99, comma 4, c.p. Veniva inoltre previsto
che per tutti i reati – di qualunque tipologia – la pena fosse aumentata se erano stati commessi
da migranti clandestini (decreto legge 23 maggio 2008, n. 92 convertito con modificazioni,
nella legge 24 luglio 2008, n. 125 che introduceva la nuova aggravante prevista dall’art. 61 n.
11 bis c.p.: «L’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio
nazionale»). L’aumento della pena non era determinato dalla gravità della condotta o
dall’intensità del dolo, ma dal semplice stato di irregolarità del soggiorno in Italia. Quindi se un
furto in un supermercato veniva commesso da un italiano o da un rumeno, cittadino europeo, la
pena era x, se lo stesso fatto era commesso da un nigeriano immigrato clandestino era x + y.
Con la legge 5 dicembre 2005, n. 251 per determinate tipologie di reato – ma non quelle in
materia di corruzione e di criminalità economica – veniva previsto l’obbligo per il giudice di
aumentare la pena in misura non inferiore a un terzo per i recidivi, privandolo del potere
discrezionale previsto per la generalità dei reati di dosare la pena, dopo avere valutato una serie
di fattori quali: la gravità in concreto del reato, l’intensità del dolo, la capacità a delinquere
desunta dai motivi a delinquere, dal carattere del reo, dai precedenti penali e giudiziari, dalla
condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato, dalla condotta contemporanea o susseguente,
dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale (legge 5 dicembre 2005, n. 251 di
modifica dell’articolo 99 c.p. sulla recidiva). Si verificava così la strisciante creazione di un
diritto penale della disuguaglianza che si articolava nella sostanziale decriminalizzazione – o
comunque nella minimizzazione – dei delitti tipici degli appartenenti alle classi abbienti
(dall’abuso di potere al falso in bilancio) e nella contemporanea ipercriminalizzazione dei
comportamenti devianti degli appartenenti alle classi popolari: dai ladruncoli a coloro che
trasportano abusivamente lavatrici e frigoriferi da rottamare, dagli immigrati ai piccoli
spacciatori, ai taroccatori di cd e via elencando, che costituiscono, unitamente ai mafiosi
dell’ala militare, la popolazione stanziale delle carceri. Sono stati necessari ripetuti interventi
della Corte costituzionale per eliminare dal nostro ordinamento penale le violazioni più vistose
dei princìpi di uguaglianza e di ragionevolezza. Nel 2010 la Corte dichiarava l’incostituzionalità
dell’articolo 61 n. 11 bis c.p. che aveva introdotto la speciale aggravante connessa alla qualità
personale di immigrato irregolare; nel 2012 quella della norma introdotta dalla legge ex Cirielli
che vietava al giudice di far prevalere la circostanza della «lieve entità del fatto» sulla recidiva
di cui all’articolo 99, comma 4, c.p., facendo lievitare in modo irragionevole sino a vent’anni la
pena anche per il piccolo spaccio; nel 2014 quella della legge Fini-Giovanardi in materia di
stupefacenti che aveva parificato lo spaccio di droghe leggere a quello di droghe pesanti; nel
2015 quella della norma che imponeva come obbligatorio l’aumento della pena in caso di
recidiva per determinati tipi di reato, privando il giudice del potere di determinare
discrezionalmente l’entità della pena avuto riguardo alle specificità del caso. Altre norme sono
cadute a seguito di interventi della Consulta, che hanno riguardato soprattutto l’irrigidimento
dei benefici penitenziari per i recidivi. Nel 2013, a fronte delle progressive condizioni di
degrado e di invivibilità delle carceri italiane, sovraffollate, grazie alle politiche criminali e alle
scelte legislative accennate, pressoché esclusivamente da appartenenti alle classi meno abbienti,
interveniva la Corte europea dei diritti dell’uomo che con la sentenza Torreggiani condannava
l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) per
il trattamento inumano e degradante subìto dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi
nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a
testa a disposizione. Per evitare il pericolo dell’applicazione di gravi sanzioni all’Italia a causa
del perdurare dello stato di degrado nelle carceri per la riduzione degli spazi vitali, è stata
adottata una soluzione all’italiana. È stata emanata in fretta e furia una legislazione cosiddetta
«svuota carcere» che ha ridotto il numero dei detenuti entro i limiti della capienza
regolamentare, allargando, tra l’altro, le maglie delle misure alternative al carcere. La
motivazione ufficiale di questa legislazione era che la finalità rieducativa della pena prevista
dalla Costituzione può essere meglio perseguita con misure alternative finalizzate alla
rieducazione dei condannati piuttosto che con la carcerazione. Principio sacrosanto che,
tuttavia, per essere seriamente realizzato avrebbe richiesto ingenti investimenti e risorse in
modo da far sì che le misure alternative invece di essere piegate solo a fini deflattivi della
popolazione carceraria, potessero assolvere allo scopo prioritario della risocializzazione dei
condannati estromessi dal circuito carcerario, accompagnandoli verso uno standard di vita
accettabile. Ma tali risorse non sono state investite. Mancano gli educatori, gli assistenti sociali,
le offerte di lavoro, scarseggiano i fondi per le proposte formative, soprattutto quelle relative ai
corsi scolastici e ai corsi professionali. Manca più in generale una politica che investa nella
prevenzione indirizzando le risorse verso lo Stato sociale invece che verso lo Stato penale.
Sicché in buona parte si sono sfollate le carceri, ma contemporaneamente si sono riaffollate le
strade e le città di condannati per nulla rieducati, per nulla reinseriti socialmente e, nella
sostanza, riconsegnati a un destino di emarginazione sociale e di precarietà esistenziale,
anticamera del loro pendolare ritorno al crimine come forma di autosussistenza. Per di più, per i
motivi prima accennati, l’allargamento delle condizioni di applicabilità delle misure alternative
si è risolto in un definitivo salvacondotto dal carcere per i pochi colletti bianchi condannati con
sentenze definitive. Colletti bianchi che si sono ampiamente giovati anche di altre riforme che
hanno fortemente limitato i casi nei quali è possibile applicare la misura della custodia cautelare
in carcere. Tale misura può essere oggi applicata solo per i delitti per i quali è prevista una pena
detentiva non inferiore a cinque anni ed è preclusa per i casi nei quali è prevedibile che verrà
concessa la sospensione condizionale della pena o che verrà irrogata in concreto una pena non
superiore a tre anni. Tali ultime riforme sono state motivate non solo con la necessità di
diminuire il numero delle persone ristrette in carcere, ma anche per la necessità di evitare
asseriti abusi da parte della magistratura nell’uso dell’istituto della custodia cautelare, facendosi
in tal senso espresso riferimento a casi di arresti di imputati eccellenti. E ciò nonostante le
statistiche attestassero, come accennato, che le custodie cautelari in carcere di imputati di reati
tipici dei colletti bianchi riguardavano appena lo 0,3 per cento dell’intera popolazione detenuta.
Il risultato finale del modo di legiferare tratteggiato e delle politiche criminali attuate è un
sistema penale che ormai non riesce più ad assolvere alla sua funzione deterrente e repressiva né
per i colletti bianchi né, in buona misura, per i criminali comuni. Per un verso, grazie al
congegno suicida prescrizione breve/processo lungo, si manda al macero ogni anno una media
di 130 mila processi. Per altro verso, dalle statistiche del dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria relative all’anno 2015 risultano i seguenti dati sulla media dei periodi di
detenzione effettivamente scontati da condannati definitivi: per il delitto di rapina a mano
armata 635 giorni, che si riducono a 441 (meno di due anni) per coloro che vengono ammessi
alle misure alternative; 256 giorni per i condannati per furto; 190 giorni per i bancarottieri
ammessi a una misura alternativa al carcere; 761 giorni per i condannati per il delitto di spaccio
di stupefacenti, ridotti a 580 per coloro che sono ammessi alle misure alternative. A tutto ciò si
aggiunga che le pene pecuniarie inflitte con sentenze definitive di condanna (multe e
ammende), nonché le spese processuali vengono recuperate dallo Stato in misura inferiore al 10
per cento del totale, come risulta dalla Relazione del 7 marzo 2017 della Corte dei Conti-
Sezione centrale di controllo sulla gestione dell’amministrazione dello Stato. In altri termini il
90 per cento dei processi definiti con condanne al pagamento di multe e di ammende si risolve
in un lavoro assolutamente privo di ogni utilità e in un colossale spreco di risorse da parte di un
sistema che, per certi versi, appare simile a un cane che si limita solo ad abbaiare ma non è in
grado di mordere.
Conclusione
Se le linee di ragionamento sin qui svolte appaiono almeno in parte condivisibili, si può
comprendere quanto sia culturalmente inadeguato affrontare i temi della giustizia solo sul piano
di un asettico tecnicismo giuridico o su quello dei miglioramenti organizzativi. Come se i
deficit, le falle di sistema, le disuguaglianze nei trattamenti sanzionatori cui ho accennato
fossero solo il frutto di errate opzioni legislative nell’individuare e apprestare gli strumenti più
adeguati per assicurare un sistema di giustizia equo ed efficiente. In realtà esiste una
connessione profonda e sistemica tra la questione della giustizia e la questione della democrazia
e dello Stato. In sistemi sociali segnati da gravi disuguaglianze, nei quali il potere economico e
quello politico si concentrano in ristrette élite, è illusorio ritenere che le disuguaglianze sociali
non si ripercuotano e riflettano nei concreti esiti dell’amministrazione della giustizia. Tanto più
grande è la forbice delle disuguaglianze sociali, tanto maggiore è lo scarto tra legalità formale
(law in book), che proclama il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge
come pietra angolare dell’ordinamento giuridico, e legalità reale (law in action), che invece
riflette i rapporti sociali di forza che governano l’ordine reale. Il diritto acquisisce infatti
capacità di farsi «ordinamento» della realtà solo se e nella misura in cui ne rispecchia i reali
rapporti di forza, altrimenti è condannato all’impotenza. Non è dunque un caso che in paesi
come il Messico, nei quali massima è la disuguaglianza sociale, massimo sia anche il default del
sistema giustizia, seppure da un punto di vista formale l’ordinamento giuridico sia ineccepibile
e gli apparati organizzativi siano adeguati. E non è un caso che, viceversa, in paesi come quelli
scandinavi, ove lo Stato sociale realizzato ha ridotto e compensato le disuguaglianze di reddito,
il sistema giustizia riesca ad assolvere compiutamente alle proprie finalità, con percentuali
statistiche del crimine assolutamente fisiologiche e, quindi, pienamente governabili con gli
strumenti ordinari della giurisdizione. Sicché in Danimarca, Svezia, Finlandia il tasso di fiducia
nel sistema giustizia si attesta intorno all’80 per cento, a fronte del 4 per cento del Messico, del
14 per cento della Bulgaria e del 36 per cento dell’Italia secondo quanto emerge da uno studio
effettuato nel 2010 dall’Istituto di ricerca sui sistemi giudiziari del Consiglio nazionale delle
ricerche in collaborazione con il Centro studi e ricerche sull’ordinamento giudiziario
dell’Università di Bologna. Il nesso inscindibile tra questione criminale e questione democratica
ha assunto un rilievo particolarmente rilevante nell’attuale fase storica segnata da una crisi della
democrazia in tutti i paesi occidentali. A seguito della sinergia tra vari fattori macrosistemici di
portata storica e di respiro internazionale (fine dell’equilibrio armato tra Unione Sovietica e
Stati Uniti, esplosione di una globalizzazione economica priva di regole, transizione
dall’economia industriale alla new economy dematerializzata, crescita abnorme di un
capitalismo che opera come forza transazionale in grado di imporre la propria egemonia anche
agli Stati eccetera), sono venuti progressivamente meno i peculiari equilibri tra forze sociali
che, dal secondo dopoguerra sino alla caduta del Muro di Berlino, avevano determinato il
compromesso democratico tra capitale e lavoro posto a fondamento dello Stato sociale
liberaldemocratico, come realizzato nelle Costituzioni europee. Da qui, la fine della stagione del
capitalismo democratico e dell’economia sociale di mercato e il trionfo unilaterale di politiche
economiche neoliberiste, espressione di un capitalismo senza patria e senza regole che non è più
disponibile al compromesso democratico e a farsi carico dei costi e degli oneri dello Stato
sociale. L’attuazione di tali politiche – il cui obiettivo è la riduzione sistematica della spesa
sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici e l’asservimento dello Stato alle esigenze degli
attori forti del mercato – ha determinato in quest’ultimo quarto di secolo una crescita
tumultuosa della curva delle disuguaglianze in tutto l’Occidente. Una curva che, dopo la
chiusura della parentesi democratica che va dalla Costituzione del 1948 alla caduta del Muro di
Berlino, ha riassunto lo stesso andamento che aveva all’inizio del XX secolo, prima
dell’avvento delle Costituzioni democratiche, come ha tra gli altri dimostrato Thomas Piketty
nel suo documentatissimo Il capitalismo del XXI secolo. Oggi, così come avveniva all’inizio
del Novecento, la forbice tra ricchi e poveri si è enormemente dilatata. La ricchezza si concentra
nelle mani del 10 per cento della popolazione, il ceto medio si proletarizza scendendo anno
dopo anno i gradini della scala sociale e aumenta in modo preoccupante il tasso di povertà, con
milioni di persone che hanno serie difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena e non
hanno denaro sufficiente per soddisfare bisogni primari come quello della sanità. La crescita
delle disuguaglianze e la decrescita dei diritti hanno assunto ritmi particolarmente accentuati in
Italia. Il nostro paese si colloca oggi al ventesimo posto per disuguaglianza dei redditi nella
classifica mondiale. Il 20 per cento della popolazione più ricca detiene il 66,41 per cento della
ricchezza nazionale. Ai più poveri va solo lo 0,09 per cento. Un recente rapporto Ocse ha
posizionato l’Italia tra i paesi membri con la maggior disuguaglianza dei redditi da lavoro. La
crescita tumultuosa delle disuguaglianze non ha ricadute solo sulla società civile «legale», ma
anche nell’amplissima e trasversale società civile «illegale». Nelle fasce popolari del crimine
l’ingravescente degrado economico e sociale alimentato dal progressivo deperimento dello
Stato sociale e dalla crescita delle disuguaglianze opera da propellente per il proliferare di una
criminalità di sussistenza che, attraverso forme più o meno gravi di illegalità, cerca di sbarcare
il lunario: dal furto di energia elettrica a quello dei cavi di rame, sino ai furti negli appartamenti,
alle rapine, al contrabbando di sigarette, al piccolo spaccio di droghe leggere e via elencando. A
Palermo, nel corso di alcune indagini antimafia, le microtelecamere predisposte per le
intercettazioni ambientali hanno ripreso scene che vedevano file di persone in attesa di parlare
con il capomafia del quartiere, implorando una raccomandazione per un qualsiasi lavoro per
figli e parenti. A Napoli interi nuclei familiari appartenenti a una fascia sociale che conta 150
mila poveri sopravvivono nelle periferie di Secondigliano e di Scampia grazie al loro
inserimento nella filiera dell’economia criminale della camorra: alcuni si dedicano alla
fabbricazione seriale di falsi di prodotti griffati, altri allo smercio di sigarette di contrabbando o
di droghe, altri ancora ad altre attività di supporto. L’abbandono e il degrado delle periferie
urbane alimenta un serbatoio inesauribile per il reclutamento della manovalanza mafiosa e per
quella delle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti. La rottura di tutti gli ascensori
sociali in grado di garantire in modo legale il proprio miglioramento di status grazie al lavoro e
all’impegno, spinge inoltre migliaia di altre persone a superare ogni remora al cercare
nell’illegalità un’alternativa per un’ascesa economica e sociale. La crescita dell’illegalità nei
piani bassi fa da pendant alla crescita nei piani medio alti, ove segmenti significativi delle classi
dirigenti hanno: a) contribuito ad aggravare il declino economico della nazione, predando in
modo sistematico le risorse e il denaro pubblico destinato agli investimenti per il rilancio
dell’economia e per servizi essenziali dello Stato sociale; b) asservito poteri pubblici a finalità
di arricchimento personale o di ristretti gruppi di interesse, ponendo in essere sofisticate
manovre che dirottano le risorse della nazione dal pubblico al privato; c) proseguito a evadere il
fisco non per necessità, ma per somme milionarie esportate nei paradisi fiscali e a investire nella
speculazione finanziaria, facendo così mancare allo Stato le risorse essenziali per
l’assolvimento delle sue finalità di riequilibrio delle disuguaglianze e di sostegno economico
delle fasce più povere della popolazione. L’illegalità impunita dei piani alti contribuisce ad
alimentare, come in un rapporto di causa effetto, quella dei piani bassi, dando vita a una spirale
perversa nelle cui volute si perdono giorno dopo giorno la credibilità della classe politica, la
fiducia nelle istituzioni, il sentimento della coesione sociale, consegnando ciascuno a una
perdente solitudine e a una rabbia impotente che rischia di scaricarsi su capri espiatori offerti
come valvola di sfogo da abili manipolatori. La questione giustizia in Italia non può dunque
essere tematizzata riducendola solo a un problema di efficienza e di resa produttiva degli
apparati, ma è questione ad altissimo coefficiente di politicità, giacché il sistema di giustizia è il
punto più visibile e concreto in cui si manifesta il tasso di democrazia reale di un paese, la
credibilità delle istituzioni e la coesione sociale. In questa difficile fase di transizione credo che
tutti coloro che hanno a cuore il futuro della nostra democrazia possano contare su una risorsa e
una bussola di orientamento preziose: la nostra Costituzione. Sino a quando essa resterà in vita,
sapremo sempre da dove ricominciare e in quale direzione muoverci per il futuro. Sarà sempre
possibile far cancellare dalla Corte costituzionale l’ennesima legge che viola valori fondanti,
che uno schieramento politico approva e l’altro schieramento tiene in vita. Sarà sempre
possibile opporre una linea Maginot, un baluardo al dilagare di politiche neoliberiste finalizzate
a svuotare di contenuti i diritti sociali conquistati in decenni di dure lotte sociali e a trasferire,
attraverso sofisticate ingegnerie istituzionali, le leve fondamentali per le politiche economiche e
di bilancio fuori dagli Stati nazionali e dai loro organi di rappresentanza democraticamente
eletti – parlamenti e governi – concentrandoli in organi sovranazionali privi di legittimazione
democratica – Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale
– fautori del pensiero unico liberista e della supremazia dei mercati, cioè delle concentrazioni
oligopolistiche di capitale che dominano i mercati. Non è un caso che la Costituzione del 1948
nel corso dell’ultimo quarto di secolo sia stata al centro di ripetuti attacchi, nel tentativo di
delegittimarla definendola ora comunista, ora un ostacolo alla governabilità del paese, e di
ripetuti tentativi di stravolgerne parti essenziali mediante leggi di revisione costituzionale
approvate da maggioranze politiche di diversi schieramenti. Leggi di revisione respinte da
referendum popolari nel giugno 2006 e nel dicembre 2016 che hanno dimostrato come il nostro
popolo sia più consapevole del valore della nostra Costituzione e del modello di società in essa
insito di quanto lo siano larghe componenti della classe politica. E per chi come me è affetto da
inguaribile patriottismo costituzionale, è motivo di consolazione e di speranza che questo nostro
popolo nonostante tutto non abbia lasciato cadere nel vuoto le storiche parole pronunciate da
Piero Calamandrei durante i lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947: Io mi
domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra
Assemblea costituente. [...] Credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da
questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno che in questa
nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi
scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma
sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle
nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle
sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai
giovinetti partigiani. [...] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità,
come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per
restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più
difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A
noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e
oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini,
alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo
tradirli.
(27 novembre 2018)