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di Roberto Scarpinato

Premessa
La domanda «Chi ha paura della giustizia?» sembrerebbe avere una risposta semplice. Hanno
da temere dalla giustizia gli ingiusti, coloro che, riconosciuti colpevoli di atti di ingiustizia con i
quali hanno causato sofferenza ai propri simili o danno alla collettività, vengono condannati a
espiare una pena. In uno Stato di diritto gli atti di ingiustizia condannabili sono solo quelli
previsti come reati dalla legge. Tuttavia, se dal piano delle enunciazioni astratte passiamo alla
realtà concreta, dobbiamo prendere atto che esiste un’ampia categoria di ingiusti – nel senso
prima indicato – che ha nulla o poco da temere dalla giustizia. Un’ampia categoria di ingiusti
nei cui confronti gli apparati preposti all’amministrazione della giustizia risultano totalmente o
parzialmente impotenti. Per comprendere le ragioni di questa impotenza, per capire cioè come
funziona in concreto il sistema di giustizia in un paese, non ci si può limitare a esaminare le
leggi penali che prevedono i reati, i codici che disciplinano i processi, l’organizzazione della
magistratura e delle forze di polizia. Si tratta di un metodo che può portare a risultati a volte
assolutamente ingannevoli. Esiste infatti uno scarto molto grande, a volte un abisso, tra legalità
formale (law in book) prevista dalle leggi e legalità reale (law in action). Prima di analizzare la
situazione italiana – ove questo scarto è elevato – fornirò alcuni esempi concreti, facendo
riferimento ad altri paesi. Prendiamo il Messico, paese all’undicesimo posto della classifica
delle più grandi economie del pianeta, dotato di Costituzione rigida e di sistema democratico.
Poniamo che uno studioso volesse conoscere come funziona il sistema di giustizia in Messico
basandosi esclusivamente sullo studio delle leggi penali, delle regole processuali,
dell’organizzazione della magistratura e delle forze di polizia esistenti in quel paese. Dopo la
lettura di ponderosi volumi, quello studioso perverrebbe alla conclusione che il sistema di
giustizia messicano è pienamente in linea con la migliore tradizione giuridica europea e
adeguato alle esigenze di giustizia. Un sistema nel quale gli «ingiusti», i criminali hanno motivo
di avere paura della giustizia. Ma la verità è ben altra. In Messico non esiste alcuna giustizia. La
legalità reale è abissalmente distante da quella formale. Secondo le statistiche ufficiali
governative, tra il 2010 e il 2016, in un paese di 120 milioni di abitanti, 151 milioni di
messicani sono state vittime di un reato, con una media di 1,25 reati per abitante. La percentuale
di impunità è del 96 per cento, solo nel 4 per cento dei casi dunque si perviene a una condanna.
Il risultato – sempre secondo le statistiche ufficiali – è che il 94 per cento dei messicani non
presenta più denuncia per mancanza di fiducia nel sistema giudiziario. In particolare nel corso
del 2016 sono stati commessi 66.842 sequestri di persona ma ne sono stati denunciati solo
1.131. Nel 98 per cento dei casi non vi è quindi stata denuncia. Se si vogliono comprendere le
ragioni per cui in Messico gli «ingiusti» godono di quasi totale impunità, occorre dunque
mettere da parte codici e pandette e analizzare quali sono le cause sociali di questo default della
giustizia, quali sono cioè i veri rapporti di forza sociali in quel paese che determinano l’ordine
reale al di là dell’ordine giuridico astratto. Ho proposto l’esempio del Messico, ma ad analoghe
conclusioni si può pervenire – con gradazioni diverse – per tanti altri paesi, compresi alcuni,
come gli Stati Uniti, percepiti nell’immaginario collettivo come esempio di sistema giudiziario
efficiente. Gli Stati Uniti d’America, che rappresentano meno del 5 per cento della popolazione
mondiale, hanno la popolazione carceraria più numerosa del mondo (circa il 25 per cento).
Secondo un rapporto del dipartimento di Giustizia Usa del 2006, oltre 7,2 milioni di persone
erano in quel momento in prigione o sotto varie forme di custodia, ossia circa 1 americano su
32. Nel settembre del 2014 il Bureau of Justice Statistics del dipartimento di Giustizia ha
pubblicato un interessante rapporto sulle carceri statunitensi, basato su dati aggiornati al 31
dicembre 2013, dal quale risulta che la razza maggiormente rappresentata tra la popolazione
carceraria statunitense maschile (1.412.745 detenuti nel 2013) è quella dei neri (37,2 per cento).
Una sovrarappresentazione indicativa della fondatezza delle proteste dei cittadini statunitensi
neri – che hanno assunto anche la forma di manifestazioni turbolente – che denunciano come il
sistema giudiziario statunitense produca, nel suo funzionamento concreto, esiti non conformi al
principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, operando discriminazioni di razza e di
ceto.
Chi ha paura della giustizia in Italia?
Adottando ora lo stesso metodo di analisi per l’Italia, si perviene a conclusioni molto
interessanti per dare risposta alla domanda «Chi ha paura della giustizia?». Nel 2013 è stato
pubblicato un documentato studio del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del
ministero della Giustizia sulla composizione della popolazione detenuta in carcere in espiazione
definitiva di pena. Da quello studio risultava che 14.970 detenuti, pari al 50 per cento del totale,
erano stati condannati per violazione della legge sugli stupefacenti, 6.069 per omicidio, 5.892
per rapina, 2.250 per furto, 2.221 per estorsione, 2.052 per violenza sessuale, 1.954 per
ricettazione e così via per altri reati di strada. Le voci «reati contro la pubblica
amministrazione» (che comprende i reati di corruzione in senso lato) e «reati economici» (cioè
bancarotte, reati fiscali) non risultavano quotate per l’irrilevanza statistica delle persone
detenute per tali tipologie di reato. Altro dato significativo si ricava da un’audizione alla
Camera dei deputati del ministro della Giustizia, dalla quale risulta che alla data del 13 ottobre
2013 su un numero complessivo di persone in stato di custodia cautelare di 24.744 unità, quelle
che lo erano per reati di corruzione ed economici ammontavano a 31, cioè allo 0,3 per cento.
Per completare il quadro è interessante comparare la composizione della popolazione carceraria
dell’Italia attuale con quella dell’Italia degli inizi del XX secolo. Ebbene, nonostante dagli inizi
del Novecento ai nostri giorni siano cambiate più volte le forme dello Stato – con la transizione
dalla monarchia costituzionale al fascismo e poi alla repubblica – nonostante il succedersi di
eterogenee maggioranze politiche nel corso della storia repubblicana, permane una costante: in
carcere, a espiare effettivamente la pena, oggi come ieri e l’altro ieri finiscono coloro che
occupano i piani più bassi della piramide sociale. Agli inizi del Novecento erano quelli che i
criminologi del tempo definivano elementi pericolosi della classe «oziosa»: ladri, assassini di
strada o autori di omicidi passionali, ricettatori, truffatori, frodatori, esponenti dell’ala militare
delle organizzazioni criminali di allora 1 . Oggi, mutatis mutandis, è più o meno la stessa
categoria antropologica. Oggi come ieri, gli esponenti della classe dirigente e di quella abbiente
detenuti in espiazione definitiva di pena costituiscono un’eccezione. Tenuto conto che il carcere
rappresenta una tra le più rilevanti cartine di tornasole degli esiti concreti della giurisdizione
penale, i dati statistici sembrerebbero avvalorare l’ipotesi di una straordinaria continuità storica
di un duplice volto della giustizia: debole e inefficiente con i potenti, forte ed efficiente con gli
impotenti. Attraverso quali meccanismi si è realizzata questa continuità storica, tenuto conto che
– come accennato – dagli inizi del Novecento ai nostri giorni sono profondamente mutati
l’assetto istituzionale dello Stato, quello socioeconomico e, di riflesso, l’ordinamento penale e
la cultura dei giuristi? La risposta a queste domande richiederebbe una lunga e approfondita
trattazione, che esaurirebbe tutto il tempo a mia disposizione. Procederò quindi per sintesi e
accenni. Ieri – nell’Italia prerepubblicana – l’impunità della criminalità del potere e delle classi
abbienti era garantita dalla subordinazione istituzionale della magistratura al potere politico
all’interno di uno Stato classista ove il potere politico ed economico si concentrava nelle mani
di poco meno del 10 per cento della popolazione. Nell’Italia repubblicana, ove la Costituzione
ha garantito l’indipendenza della magistratura dal potere politico e ha consentito la crescita
democratica del paese, l’impunità dei colletti bianchi si è di fatto realizzata attraverso
meccanismi molto più complessi e sofisticati per comprendere i quali dobbiamo procedere a un
censimento dei grandi assenti nella popolazione carceraria.

Chi non ha paura della giustizia? I complici occulti degli stragisti


Ritornando alla statistica del Dap alla quale ho fatto riferimento, possiamo notare una prima
significativa assenza tra i detenuti in espiazione definitiva di pena, una categoria di criminali
che si colloca ai vertici della graduatoria degli «ingiusti». Mi riferisco ai mandanti politici e ai
complici occulti delle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro paese. Nessuna storia
nazionale europea è segnata da una catena così lunga e ininterrotta di stragi e di omicidi politici,
come quella che ha caratterizzato la storia italiana del secondo dopoguerra. La nascita della
Repubblica italiana è stata tenuta a battesimo da una strage con finalità politiche: quella di
Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 (undici morti e ventisette feriti), che vede interagire
un sistema criminale complesso, composto da settori deviati delle istituzioni, destra eversiva e
alta mafia, e che segna l’inizio della strategia della tensione. Una strategia che da allora scandirà
tutta la successiva storia repubblicana interferendo pesantemente sulla dialettica politica e sugli
equilibri di potere nazionale, e che si snoderà, oltre che in progetti di colpi di Stato, nella
sequenza delle stragi di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, di Peteano del 31
maggio 1972, di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, dell’Italicus del 4 agosto
1974, di Bologna del 2 agosto 1980, del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 e di altre ancora che
tralascio per ragioni di sintesi, giungendo sino alle stragi del 1992 e del 1993. Ebbene,
nonostante gli sforzi profusi, gli esiti di quasi tutti i processi per stragi sono stati talora
fallimentari, talora molto parziali. Per la strage di Piazza Fontana a Milano, non si è mai
pervenuti alla condanna di alcuno. Diciassette morti e ottantotto feriti sono rimasti senza alcuna
giustizia. Per la strage di Brescia a distanza di ben 43 anni si è giunti con sentenza definitiva del
20 maggio 2017 alla condanna solo di due imputati, di cui uno di 84 anni. Per la strage alla
stazione di Bologna sono stati condannati solo tre esecutori materiali e, a distanza di ben 38
anni dai fatti, sono ancora in corso processi a carico di altri imputati, mentre sono iniziate da
circa un anno nuove indagini per individuare i finanziatori di quella strage, alcuni dei quali sono
nel frattempo deceduti. In altri casi ancora i responsabili sono fuggiti all’estero e mai più
tornati. In nessun caso sono stati individuati e condannati i mandanti ultimi delle stragi. Quali
sono le cause di questi esiti parziali e deludenti grazie ai quali i più ingiusti tra gli ingiusti mai
hanno avuto paura della giustizia? I processi hanno accertato che in quasi tutte le stragi le
indagini della magistratura sono state depistate da apparati deviati dello Stato mediante la
soppressione di documenti essenziali, la fabbricazione di prove false o di falsi collaboratori di
giustizia. Testi e complici depositari di segreti scottanti sono stati ridotti al silenzio o con
l’intimidazione o con la soppressione fisica. I depistaggi iniziano sin dalla prima strage politica
della storia repubblicana, quella di Portella della Ginestra alla quale ho già fatto cenno. È stato
processualmente accertato che all’epoca fu redatto un falso rapporto di polizia sulle modalità di
uccisione del capo della banda che aveva eseguito la strage su mandato politico – Salvatore
Giuliano – nel quale si certificava che Giuliano era stato ucciso nel corso di un conflitto a fuoco
con i carabinieri avvenuto nella pubblica via. Fu accertato invece che Giuliano era stato ucciso
nel suo letto durante il sonno dal suo vice e complice Gaspare Pisciotta, al quale per questa
azione omicida era stata promessa l’impunità. Pisciotta venne arrestato e, sentendosi ingannato,
all’udienza del 16 aprile 1951, nel vivo del processo che si svolgeva a Viterbo, alla presenza di
una folla di giornalisti, fece i nomi dei mandanti politici di quella strage, indicando gli incontri
che vi erano stati e le promesse che erano state fatte. Le eclatanti accuse di Pisciotta caddero nel
vuoto. Malgrado le sue esplicite chiamate in correità, nessuna richiesta di procedimento venne
avanzata dal pubblico ministero nei riguardi dei possibili mandanti politici. La Corte d’Assise
nella motivazione della sentenza prese le distanze da quel comportamento omissivo, così
scrivendo: «Non è la Corte investita del potere di esercitare l’azione penale. Essa è un organo
giurisdizionale il quale conosce di un reato in base a sentenza di rinvio, ovvero in base a
richiesta di citazioni, e non può trasformarsi in organo propulsore di quelle attività che sono
proprie di altro organo, il pubblico ministero». In una lettera inviata al presidente della Corte
d’Assise, datata 10 ottobre 1952, Pisciotta scrisse che non si sarebbe mai rassegnato e che sino
all’ultimo respiro avrebbe chiesto un’inchiesta parlamentare. Al testardo Pisciotta, testimone
scomodo dei crimini del potere, l’ultimo respiro venne strozzato in gola il 9 febbraio 1954 nel
carcere dell’Ucciardone con un caffè opportunamente corretto alla stricnina. Insieme a Pisciotta
scomparvero, assassinati o suicidati in un’impressionante scia di sangue, tutti coloro che erano
al corrente dei segreti celati dietro la strage: i banditi intermediari tra Giuliano e le forze di
polizia, quelli che avevano assistito ad alcuni incontri scottanti, l’ispettore di polizia che aveva
mantenuto i contatti. Mi sono soffermato su questa vicenda perché costituisce il prototipo di
tutti i casi di depistaggio che saranno accertati nei processi per le stragi consumate
successivamente. Si tratta di un capitolo oscuro e tragico che ha segnato profondamente
l’evoluzione della storia nazionale. Nel processo per la strage di Piazza Fontana sono stati
condannati per avere depistato le indagini due esponenti dei servizi segreti italiani: il generale
Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna (Sid). Il generale Maletti non è mai finito in
carcere perché nel 1981 è fuggito in Sudafrica dove ha preso la cittadinanza e mai è stato
estradato in Italia. Grazie a uno speciale salvacondotto è rientrato in Italia il 20 marzo 2001 per
testimoniare al processo di Piazza Fontana. Alla domanda perché non avesse trasmesso alla
magistratura le informazioni sugli autori della strage, ha risposto: «Fino al 1974 nessuno ci
aveva spiegato che dovevamo difendere la Costituzione». Nel processo per la strage di Piazza
della Loggia sono state accertate alcune condotte degli apparati istituzionali assolutamente
anomale, contrarie a ogni regola, che hanno intralciato le indagini determinando la soppressione
di prove essenziali per la ricostruzione dei fatti e l’individuazione dei responsabili. Meno di due
ore dopo la strage, fu impartito l’ordine di ripulire frettolosamente con le autopompe il luogo
dell’esplosione, così spazzando via indizi, reperti e tracce di esplosivo prima che un magistrato
o perito potesse effettuare alcun sopralluogo o rilievo. Sparirono misteriosamente pure i reperti
e le tracce di esplosivo prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri, anch’essi di
fondamentale importanza ai fini dell’indagine. Nel processo di primo grado venne condannato
all’ergastolo come uno degli esecutori della strage Ermanno Buzzi, militante della destra
eversiva. Il 13 aprile 1981, poco prima che si accingesse a collaborare con i magistrati, fu
strangolato in carcere da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. È stato accertato che uno degli
esecutori materiali della strage – Maurizio Tramonte – era un informatore del Sid il cui nome in
codice era Tritone. Sino al 1989 il Sismi, nell’avallare false piste investigative (come una che
portava a Cuba), ha continuato a sostenere che agli atti del Servizio «non esistono ulteriori
documenti dai quali si possano trarre utili elementi di valutazione». Nella motivazione della
sentenza di condanna all’ergastolo i giudici hanno scritto: Lo studio dello sterminato numero di
atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo,
come altri in materia di stragi, è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con
pervicacia da quel coacervo di forze [...] individuabili con certezza in una parte non irrilevante
degli apparati di sicurezza della Stato, nelle centrali occulte di potere che hanno prima
incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema e hanno sviato,
poi, l’intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera
rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua
irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche, visto che sono solo un leader
ultraottantenne e un non più giovane informatore dei servizi, a sedere oggi, a distanza di 41 anni
dalla strage sul banco degli imputati, mentre altri, parimente responsabili, hanno da tempo
lasciato questo mondo o anche solo questo paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci
che hanno connotato la malavita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe. Nel processo per
la strage di Bologna sono stati condannati con sentenza definitiva per depistaggio delle indagini
tre esponenti del Sismi – il generale Pietro Musumeci, il colonnello dei carabinieri Giuseppe
Belmonte, l’agente segreto Francesco Pazienza – e Licio Gelli, capo della loggia massonica P2,
della quale faceva parte anche il generale Musumeci con il numero di fascicolo 487. Il
principale tentativo di depistaggio (ma non l’unico) fu messo in atto sistemando una valigia
carica di armi, esplosivi, munizioni, biglietti aerei e documenti falsi sul treno Taranto-Milano
del 13 gennaio 1981. Pochi mesi prima, lo stesso Musumeci aveva prodotto un dossier falso,
intitolato «Terrore sui treni», con lo stesso fine di deviare le indagini verso una pista
internazionale. L’attività di depistaggio è proseguita, giungendo sino ai nostri giorni, anche
dopo la fine della stagione del bipolarismo internazionale e della guerra fredda. Nella
motivazione della sentenza depositata il 30 giugno 2018 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta
nel processo per la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992, i giudici hanno passato in
rassegna i depistaggi attuati per ostacolare l’accertamento delle responsabilità e dei retroscena
di quella strage, oltre il livello degli esecutori mafiosi. Pochi minuti dopo l’esplosione,
esponenti delle forze di polizia, indicati nominativamente nella sentenza, si impossessarono e
fecero sparire l’agenda rossa nella quale Paolo Borsellino aveva annotato, dopo la strage di
Capaci del 23 maggio, tutte le informazioni che aveva progressivamente acquisito e che lo
avevano indotto a ritenere, come confidò alla moglie Agnese, che dietro le stragi non ci fossero
solo i mafiosi. Dopo la soppressione di quell’importante documento, le indagini furono quindi
depistate mediante la costruzione da parte di taluni esponenti delle forze di polizia di falsi
collaboratori di giustizia che hanno condotto alla condanna all’ergastolo di innocenti. Al
riguardo i giudici hanno scritto: Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di
uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana. […] È lecito interrogarsi sulle
finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero
protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento: […] – ai collegamenti con la
sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che
conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui
svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato a una serie di indagini di estrema delicatezza
e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci; – alla eventuale finalità di occultamento della
responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra «Cosa
Nostra» e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato. In
proposito, va osservato che un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda
rossa di Paolo Borsellino è sicuramente desumibile dalla identità di taluno dei protagonisti di
entrambe le vicende. La sistematicità dei depistaggi nelle indagini sulla criminalità del potere ha
raggiunto livelli tali ed è divenuta una realtà storica talmente evidente che il 5 luglio 2016
l’Assemblea della Camera dei deputati ha definitivamente approvato il disegno di legge che
introduce nel codice penale il reato di frode processuale e depistaggio. Il nuovo delitto, articolo
375, punisce con la reclusione da 3 a 8 anni (aumentata da un terzo alla metà ove ricorrano
determinate aggravanti come, ad esempio, la soppressione e l’occultamento di documenti) il
pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che compia una delle seguenti azioni,
finalizzata a impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale: mutare
artificiosamente il corpo del reato, lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone connessi al
reato; affermare il falso o negare il vero ovvero tacere in tutto o in parte ciò che sa intorno ai
fatti sui quali viene sentito, ove richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di
fornire informazioni in un procedimento penale. Sono stato tra i più fervidi sostenitori della
necessità di introdurre tale specifica fattispecie di reato nel codice penale, spiegando, in
occasione di una mia audizione al riguardo dinanzi alla commissione Giustizia della Camera dei
deputati, che proprio a causa della sua mancanza, si era verificata e continuava a verificarsi
l’impunità di soggetti autori accertati di gravi fatti di depistaggio. Fino ad allora a costoro era
stato infatti possibile contestare solo reati ordinari come favoreggiamento, furto di documenti,
falso materiale, per soppressione o ideologico, calunnia eccetera. Reati ordinari che si
prescrivono in breve tempo e che non si addicono alla peculiare fenomenologia criminale dei
depistaggi, con gravi conseguenze sul piano della prova del dolo. Coloro che operano i
depistaggi infatti non sono animati da interessi o motivazioni di tipo personale, ma agiscono per
interessi superiori sovraindividuali.

Corrotti e corruttori, una lunga storia di impunità


Un’altra categoria di «ingiusti» assente dalla popolazione carceraria è quella dei corrotti e dei
corruttori, i quali sino a oggi pure non hanno avuto motivo di avere paura della giustizia. La
lezione della storia insegna che in Italia la corruzione non è una patologia criminale contingente
legata a una particolare stagione storica, e non è riducibile a una mera sommatoria aritmetica di
cadute individuali, di reati commessi da singole pecore nere nel gregge delle pecore bianche,
ma è piuttosto un fenomeno sistemico di settori significativi delle classi dirigenti nazionali, una
componente strutturale della costituzione materiale del paese dall’Unità d’Italia sino ai nostri
giorni e, come tale, non governabile con i normali strumenti della legalità legislativa e
giudiziale. La tangentopoli italiana prende infatti avvio già nei primi decenni della formazione
dello Stato unitario. Esemplare a questo proposito è il caso dello scandalo della Banca romana
esploso nel 1892, una delle cinque banche nazionali autorizzate a stampare carta moneta per
conto dello Stato. I dirigenti della banca con la copertura dei vertici della politica nazionale,
avevano stampato banconote false, duplicando i numeri di serie per una cifra spropositata.
Inoltre la banca aveva erogato crediti senza garanzie, e quindi inesigibili, al fior fiore
della nomenklatura del potere del tempo: palazzinari legati alla famiglia reale, parlamentari
della destra e della sinistra, ministri, ex ministri, giornalisti di grido, in totale circa 150 pezzi da
novanta. Il crack a un certo punto divenne inevitabile e iniziò un’indagine penale. Il processo,
apertosi a Roma nel 1894, si concluse dopo sessantuno udienze con l’assoluzione di tutti gli
imputati: i responsabili della banca, un deputato e due funzionari preposti alla vigilanza
dell’istituto. I fatti accertati rimasero dunque senza colpevoli. Nelle indagini era rimasto
coinvolto anche il presidente del Consiglio, su mandato del quale solerti funzionari di polizia
avevano fatto sparire casse di documenti scottanti che coinvolgevano politici e membri della
famiglia reale. L’incipit del processo era stato inoltre preceduto da una riunione tra il
procuratore generale, il procuratore del re e il giudice istruttore che, significativamente, si era
svolta non negli uffici giudiziari ma al ministero dell’Interno. Allo scandalo della Banca
romana, seguirono decine di altri scandali come quello della Banca italiana di Sconto che
coinvolse, oltre a numerosi colletti bianchi, anche quattro senatori del Regno, per i quali il
Senato si costituì in Alta Corte di Giustizia; e poi lo scandalo del Banco di Napoli, quello del
Banco di Sicilia, quelli delle frodi per le forniture militari: tutti conclusisi con assoluzioni
generali. In quegli anni, in una lettera rivolta al re Umberto I, il deputato Giovanni Giolitti
scriveva: «L’assolutoria scandalosa di ladri di milioni ha fatto purtroppo una triste reputazione
al nostro paese, e ha dimostrato alle classi povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i
grossi delinquenti». Parole che potrebbe essere scritte anche oggi, a dimostrazione della
continuità d’impunità della criminalità del potere nel nostro paese. La tangentopoli italiana non
si è mai fermata e ha attraversato il fascismo, la Prima e la Seconda Repubblica giungendo sino
ai nostri giorni. Le storie di oggi sono la replica e la riedizione di quelle di ieri e dell’altro ieri,
anche nei loro esiti: l’eterna impunità assicurata, in un modo o in un altro, a tutti i principali
protagonisti delle vicende corruttive. Nell’Italia prerepubblicana e precostituzionale, l’impunità
veniva assicurata mediante la subordinazione gerarchica del pubblico ministero al ministro della
Giustizia e il controllo politico sui vertici della magistratura. Nella cosiddetta Prima
Repubblica, l’impunità è stata garantita mediante la negazione sistematica delle autorizzazioni a
procedere, il trasferimento della competenza sui processi verso uffici giudiziari diretti da vertici
ritenuti affidabili dal sistema politico (restati nella memoria collettiva con la significativa
denominazione di «porti delle nebbie»), il varo di ben 33 amnistie e indulti, e altri metodi che,
per ragioni di tempo, tralascio. Dopo la breve parentesi storica dei processi di Tangentopoli dei
primi anni Novanta, quando a seguito del collasso del sistema di potere della cosiddetta Prima
Repubblica (conseguente alla caduta del Muro di Berlino e al mutamento degli equilibri
macropolitici internazionali e nazionali) il principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla
legge sembrò potersi trasformare da law in book (principio astratto) in law in action (diritto
vivente), il ripristino dello statuto impunitario dei colletti bianchi è stato attuato, a fronte di un
ordine giudiziario che non appariva condizionabile politicamente o per le vie gerarchiche, a
seguito dell’emanazione di una sequenza di leggi che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo.
Non potendo dilungarmi in una dettagliata esposizione, mi limito a ricordare solo alcuni
passaggi strategici. Nel luglio del 1997 una maggioranza di centro-sinistra, con la convinta
adesione della minoranza di centro-destra, varava una riforma dei reati contro la pubblica
amministrazione che, per un verso, aboliva il reato di abuso di ufficio non patrimoniale e, per
altro verso, modificava la disciplina del reato di abuso di ufficio patrimoniale, rendendo
estremamente difficile la prova della sua consumazione. La pena veniva ridotta da cinque a tre
anni (poi portati a quattro con la riforma della legge 6/11/2012 n. 190) con tre conseguenze:
niente più custodia cautelare per i colletti bianchi, niente più intercettazioni e, infine, termini di
prescrizione accorciati. Il reato di abuso di ufficio, che dovrebbe prevenire e sanzionare l’abuso
del potere pubblico per illegittime finalità private patrimoniali e non – un reato che costituisce
lo strumento tipico per la gestione clientelare dei pubblici uffici, per piegare il potere pubblico
all’interesse privato e per realizzare manovre corruttive – veniva così gravemente depotenziato.
Come documentano le statistiche giudiziarie, le condanne sono crollate da 1.035 nel 2000 a sole
45 nel 2006. Si trattava del primo varco aperto alle mille forme di conflitti di interessi e di
corruzione che si realizzano tramite l’abuso di ufficio. Il Bengodi delle varie parentopoli,
vallettopoli, affittopoli e via elencando, tutto a costo penale prossimo allo zero. Negli anni
seguenti venivano approvate poi una serie di leggi che legalizzavano il conflitto di interessi in
settori strategici, creando un habitat ideale per l’abuso d’ufficio, per la proliferazione della
corruzione, riducendo ulteriormente, anche per tale via, il rischio penale. Esempio emblematico
è la legge obiettivo varata nel 2001 con la quale si stabiliva che negli appalti delle grandi opere
affidate ai general contractors, il direttore dei lavori – cioè colui che deve tutelare gli interessi
dell’amministrazione committente, che quindi ha la responsabilità di accertarsi per conto della
pubblica amministrazione che i materiali corrispondano a quelli previsti in capitolato e che il
progetto venga rispettato e che firma gli stati di avanzamento per i pagamenti – invece di essere
nominato dall’amministrazione pubblica committente, veniva nominato dalla stessa impresa
appaltatrice. In tal modo il controllato poteva nominare a piacimento il proprio controllore con
un plateale conflitto di interessi. In vari processi celebrati in seguito per corruzione per appalti
relativi alle grandi opere è stato accertato che proprio tale normativa ha costituito uno degli
ingranaggi essenziali per la costruzione di ramificate reti corruttive stabilmente insediate in
postazioni strategiche degli apparati istituzionali. Altra riforma legislativa che ha minimizzato il
rischio e il costo penale per i reati di colletti bianchi, è stata la legge 5 dicembre 2005, n. 251,
cosiddetta ex Cirielli, con la quale è stato modificato il regime dei tempi di prescrizione dei
reati. In conseguenza di tale legge, in estrema sintesi, i tempi di prescrizione di una lunga serie
di reati tipici dei colletti bianchi – molti dei quali strumentali alla corruzione e spie rivelatrici
dell’esistenza di reti corruttive – sono stati ridotti ad appena sette anni e mezzo. Negli stessi
anni venivano approvate una serie di riforme processuali che prolungavano i tempi di durata del
processo, rendendo estremamente difficile la definizione di tre gradi di giudizio in sette anni e
mezzo, che possono ridursi anche a quattro o a due o anche a meno, tenuto conto che i termini
di prescrizione iniziano a decorrere non da quando il reato viene accertato, ma da quando viene
consumato e che – caso unico al mondo – non si interrompono con l’esercizio dell’azione
penale o con la sentenza di primo grado, ma continuano a decorrere per tutta la durata del
processo. Grazie alla combinazione prescrizione breve/processo lungo, si creava così una
micidiale falla di sistema che, come una sorta di triangolo delle Bermude, inghiotte nei gorghi
della prescrizione centinaia di migliaia di processi ogni anno. L’operatività di tale falla di
sistema è attestata dal discostamento statistico delle percentuali di prescrizione in Italia, che si
aggirano intorno al 10-11 per cento, rispetto a una media europea che va dallo 0,1 al 2 per cento,
e ciò nonostante le stesse statistiche attestino che la magistratura italiana si colloca ai primi
posti in classifica per produttività. Nel 2012 si sono prescritti 113.671 processi, saliti a 123.249
nel 2013 e a 132.296 nel 2014. Nel decennio successivo all’approvazione della legge Cirielli si
sono verificate 1.468.220 prescrizioni. Sono state così ridotte a meri simulacri di un diritto
penale condannato all’impotenza tutte le fattispecie di reato che costituiscono una trincea
avanzata e un presidio contro il dilagare della corruzione per le quali è prevista una pena sino a
sei anni, nonché molte altre fattispecie tipiche dei colletti bianchi. Mi limito a un breve elenco:
– i reati di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), di omissione di atti di ufficio (art. 328 c.p.), con i
quali si realizzano condotte funzionali alla corruzione e concussione; – i reati di turbata libertà
degli incanti (353 c.p.), di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (353 bis c.p.)
mediante i quali si manipolano le pubbliche gare di appalto; – i reati di truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) mediante i quali si predano i fondi
pubblici destinati allo sviluppo (la pena è stata elevata a sette anni con a legge 17/10/2017 n.
161); – i reati di frode nelle pubbliche forniture (art. 356 c.p.) mediante i quali si realizzano
opere pubbliche con cemento depotenziato, autostrade che crollano per la scarsa qualità dei
materiali costruttivi forniti; – il reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.) mediante
il quale gruppi di pressione e potenti lobby interferiscono nelle decisioni di destinazione delle
risorse pubbliche. Le statistiche attestano che la falla di sistema funziona egregiamente anche
per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione, quali la concussione, la corruzione e
altri reati dei colletti bianchi in materia di criminalità economica e fiscale puniti con pene
superiori ai sei anni. Si tratta infatti di reati che per la loro tipologia e per l’omertà blindata che
caratterizza il mondo della corruzione, vengono scoperti a distanza di diversi anni dai fatti,
sicché il tempo residuo per definire il processo è insufficiente. Con l’introduzione della legge ex
Cirielli si è passati da oltre 1.700 condanne per reati contro la corruzione alle appena 263 del
2010, meno di un quinto. Buona parte dei più eclatanti processi per corruzione che in questi
anni hanno guadagnato la ribalta mediatica hanno svolto in realtà una funzione meramente
catartica e simbolica nei confronti dell’opinione pubblica, coltivando l’illusione di un sistema
penale repressivo in realtà strutturato in modo tale da autocastrarsi dopo i roboanti fragori
mediatici del primo grado del giudizio, in un silenzioso e pressoché sistematico nulla di fatto,
certificato con sentenze di non doversi procedere per intervenuta prescrizione nella fase di
appello o in Cassazione. Nei casi nei quali, nonostante tali gravi ostacoli, si riusciva a pervenire
a una sentenza definitiva di condanna, l’impunità è stata garantita grazie ad amnistie e leggi di
indulto. Emblematica a questo riguardo è la vicenda del provvedimento di indulto varato con la
legge 31 luglio 2006, n. 241. L’approvazione di questa legge è stata motivata esclusivamente
dall’inderogabile necessità di sfollare le carceri sovrappopolate. Sennonché le carceri erano
sovraffollate solo di delinquenti comuni, mentre i colletti bianchi detenuti erano poche decine in
tutta Italia. Quindi non vi era alcun motivo di inserire tra i reati per i quali era concesso l’indulto
anche i reati di corruzione e i reati della criminalità economica. Invece l’approvazione della
legge di indulto è stata subordinata proprio all’inserimento anche di questa tipologia di reati.
Ricordo che un piccolo ladruncolo scarcerato pochi giorni dopo l’emanazione del
provvedimento di indulto, intervistato all’uscita dal carcere, dichiarò: «Ringrazio i grandi ladri
perché grazie a loro anche i piccoli ladri come me possono evitare il carcere». La legge
concesse l’indulto persino per il reato di scambio elettorale politicomafioso di cui all’articolo
416 ter c.p., per il quale non solo a quella data non vi era alcun detenuto, ma in tutto il paese
erano pendenti meno di cinque processi. Infine, nei casi residuali nei quali nonostante tutti gli
ostacoli sin qui accennati si è pervenuti a una sentenza definitiva di condanna, il carcere è stato
evitato mediante la pressoché sistematica fruizione, da parte dei colletti bianchi, delle misure
alternative al carcere, ammesse per tutte le pene sino a quattro anni di reclusione. Le misure
alternative sono state concepite per rieducare alla legalità e risocializzare mediante il lavoro e
l’istruzione criminali comuni provenienti dalle fasce popolari più disagiate e meno acculturate,
oppure soggetti affetti da particolari deficit di socializzazione. Funzione questa che chiaramente
non possono assolvere se applicate a condannati appartenenti alla classe dirigente, altamente
scolarizzati, dotati di reddito elevato e già pienamente inseriti nel mondo del lavoro nei piani
alti della piramide sociale. In tali casi l’ammissione a misure alternative consistenti, ad esempio,
nel recarsi due volte la settimana in un ospizio per dare assistenza ai ricoverati o nel rimettere in
ordine i libri di una biblioteca, si risolve in una sostanziale minimizzazione del costo penale
conseguente ai reati commessi. Il diritto penale continua tutt’oggi a essere pensato e costruito
avendo come paradigma pressoché esclusivo un criminale tipo appartenente alle fasce popolari
socialmente emarginate e di bassa cultura, da risocializzare appunto mediante l’istruzione e il
lavoro. Si rimuove così la realtà, attestata da migliaia di processi, del carattere interclassista del
crimine e del protagonismo al suo interno di una vasta platea di soggetti di elevato status sociale
e culturale, nei confronti dei quali una politica criminale che punti solo su una generalizzata e
indiscriminata illusione correzionalista attuata con i mezzi indicati è condannata all’impotenza.
I colletti bianchi infatti, grazie alle loro risorse di status e culturali, replicano nel campo
dell’illecito lo stesso modus operandi razionale adottato nel campo dell’attività lecita, fondato
su una analisi costi-benefici. L’opzione legale-illegale è correlata alla valutazione comparativa
tra rischio/costo penale da un lato e beneficio economico dall’altro. Ciò che conta in tale
valutazione non è la pena minacciata in astratto, che può essere elevata, ma solo il rischio
concreto di essere scoperti, e l’effettivo costo penale in caso di condanna. Allo stato attuale su
un piatto della bilancia vi è la possibilità di arricchirsi a dismisura con comportamenti illegali,
sull’altro un rischio penale di condanna definitiva molto ridotto per tutti gli ostacoli ai quali ho
accennato e, in ogni caso, un costo penale ampiamente sopportabile se paragonato ai vantaggi
economici realizzati. Alla luce di un siffatto calcolo, i benefici della criminalità dei colletti
bianchi e del profitto sono quindi superiori ai costi.

Gli evasori fiscali e gli esponenti della criminalità economica


Un’altra categoria di grandi assenti nella popolazione carceraria italiana è quella dei condannati
definitivi per reati economici e finanziari, bancarottieri e grandi evasori fiscali. L’anomalia
dell’esiguità statistica di tale tipologia di detenuti in un paese come l’Italia, che si colloca ai
primi posti nella graduatoria delle percentuali di evasione fiscale in Europa, si evidenzia ancor
di più se posta a paragone con le statistiche di altri paesi del continente. Secondo uno studio del
2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal dell’Università di Losanna, il rapporto del
numero di detenuti per reati fiscali tra Italia e Germania è di uno a 55. Nel 2011, gli evasori
nelle carceri italiane condannati con sentenza definitiva erano appena 156, ovvero lo 0,4 per
cento della popolazione carceraria contro una media del 4,1 per cento dell’Unione europea. Una
cifra, quella italiana, prossima a quella della Finlandia, paese ad altissima fedeltà fiscale e di
soli 5 milioni di abitanti a fronte dei 57 milioni dell’Italia. Ragioni di sintesi mi impediscono di
passare in rassegna le leggi approvate in questi anni grazie alle quali i grandi evasori fiscali,
come attestano le statistiche, non hanno motivo di avere paura della giustizia. Mi limito a
ricordare che il decreto legislativo 158/2015 sulla riforma dei reati tributari ha realizzato la
depenalizzazione di alcuni dei più frequenti reati fiscali, alzando in modo consistente la soglia
economica di evasione necessaria per l’integrazione del reato. Inoltre la riforma ha sancito
l’irrilevanza (ai fini dell’integrazione delle dette soglie) dei valori corrispondenti a non corrette
classificazioni o valutazioni di elementi attivi e passivi appostati nel bilancio, ovvero in altra
documentazione rilevante ai fini fiscali. Si è aperto così un varco alle forme più sofisticate di
evasione fiscale realizzate soprattutto dai grandi operatori economici, mediante scorrette e
mirate sopravalutazioni o sottovalutazioni delle poste di bilancio (ad esempio tramite
l’esagerazione o sottovalutazione della stima del magazzino o dell’ammortamento dei crediti o
del valore di immobili e partecipazioni). Nella relazione illustrativa al decreto legislativo
158/2015, si giustificava la riduzione dell’area di rilevanza penale in materia fiscale con
l’esigenza di rendere il paese più attrattivo per gli investimenti di capitali esteri, rafforzandone
in tal modo la competitività a livello internazionale. Al riguardo nella predetta relazione si
leggeva testualmente: «L’attuazione dei princìpi di effettività, proporzionalità e certezza della
sanzione penale è collegata all’obiettivo prioritario del rafforzamento della competitività del
paese a livello internazionale, in modo tale che le pene non siano percepite dal destinatario,
potenziale investitore, nazionale o straniero, come sproporzionate e disincentivanti di nuove
possibili scelte di investimenti». Si tratta di una peculiare declinazione della cosiddetta «legalità
sostenibile», frutto di una cultura economicocentrica che in una valutazione costi-benefici di
breve periodo subordina le ragioni della legalità a quelle dell’economia e agli animal spirits di
un capitalismo finanziario il quale si configura come una potenza transazionale globale in grado
di rinegoziare i propri rapporti con i governi nazionali, imponendo deregolamentazioni o
regolamentazioni di settore di favore a scapito degli interessi nazionali e generali. L’esito finale
della depenalizzazione strisciante conseguente a tale torsione economicocentrica del diritto –
che è stata realizzata con varie tecnicalità giuridiche anche in altri settori del diritto penale
dell’economia, come ad esempio il diritto penale societario e quello fallimentare – è un
complessivo arretramento del criterio di trasparenza, fondamentale salvaguardia delle attività
economiche nelle società più evolute, con gravi cadute del livello della tutela penale e del
contrasto all’economia illegale. Basti considerare, ad esempio, che la depenalizzazione dei reati
tributari ha determinato come immediata conseguenza il crollo statistico dell’applicazione
dell’istituto processuale del sequestro per equivalente che consentiva il recupero di ingenti
somme sottratte al fisco. Se alla procura della Repubblica di Palermo nell’anno giudiziario 2015
l’importo complessivo delle somme sequestrate era stato di euro 28.147.887, nell’anno
giudiziario 2016 questo si è drasticamente ridotto a euro 7.633.292, cioè ad appena un quarto
dell’anno precedente. La scelta della depenalizzazione si è rivelata perdente non solo perché
abbassando il rischio penale si è incentivato ulteriormente il fenomeno già abnorme
dell’evasione fiscale, ma anche perché ha rivelato l’illusorietà di una strategia che affidava il
recupero delle imposte evase solo ai controlli e alle sanzioni amministrative. Al riguardo la
Corte dei Conti ha rilevato: «Il sistema sanzionatorio amministrativo, unito alle ridotte
probabilità di un controllo, appare oggi tale da non favorire l’adempimento spontaneo, essendo
manifesta la convenienza a ottenere l’azione di controllo fiscale piuttosto che versare
autonomamente l’imposta al momento in cui matura l’obbligo fiscale».

Il diritto disuguale
Per comprendere appieno come si sia determinata l’anomala composizione della popolazione
carceraria rilevata nello studio del Dap al quale ho accennato all’inizio, nella massima misura
composta solo da soggetti appartenenti alle classi meno abbienti, occorre considerare che, nello
stesso periodo nel quale venivano emanate una serie di leggi che in modi diversi sortivano
l’effetto di evitare il carcere per i reati dei colletti bianchi, venivano emanate altre leggi che
andavano nella direzione esattamente opposta, elevando le pene previste per i reati di strada e
quelli commessi da immigrati irregolari, introducendo nuove fattispecie di reato, allungando i
tempi di prescrizione per i reati commessi dalla criminalità comune, escludendo dalle misure
alternative al carcere talune categorie di criminali comuni eccetera. Ad esempio, mentre veniva
diminuita da cinque a tre anni (poi portati a quattro, ma sempre sotto la soglia utile per le
intercettazioni) la pena per il reato di abuso di ufficio, mentre venivano previsti appena tre anni
di reclusione per il reato di traffico di influenze illecite, per i reati di furto con strappo la pena,
prima prevista da uno a sei anni, veniva elevata da tre a sei anni, e nei casi di furto
pluriaggravato (per esempio furto con strappo di bagagli dei viaggiatori o di cose esposte per
consuetudine alla pubblica fede o reverenza) le pene venivano portate da quattro a dieci anni,
invece che da tre a dieci anni. La pena per i piccoli spacciatori di poche quantità di droghe,
prima fissata da un minimo di un anno a un massimo di sei, veniva elevata in modo
sproporzionato da un minimo di sei a un massimo di venti anni, grazie a una speciale norma
introdotta dalla legge ex Cirielli (la stessa che contemporaneamente «graziava» gli autori di
reati dei colletti bianchi) che vietava al giudice di far prevalere l’attenuante della speciale
tenuità dello spaccio sulla recidiva di cui all’articolo 99, comma 4, c.p. Veniva inoltre previsto
che per tutti i reati – di qualunque tipologia – la pena fosse aumentata se erano stati commessi
da migranti clandestini (decreto legge 23 maggio 2008, n. 92 convertito con modificazioni,
nella legge 24 luglio 2008, n. 125 che introduceva la nuova aggravante prevista dall’art. 61 n.
11 bis c.p.: «L’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio
nazionale»). L’aumento della pena non era determinato dalla gravità della condotta o
dall’intensità del dolo, ma dal semplice stato di irregolarità del soggiorno in Italia. Quindi se un
furto in un supermercato veniva commesso da un italiano o da un rumeno, cittadino europeo, la
pena era x, se lo stesso fatto era commesso da un nigeriano immigrato clandestino era x + y.
Con la legge 5 dicembre 2005, n. 251 per determinate tipologie di reato – ma non quelle in
materia di corruzione e di criminalità economica – veniva previsto l’obbligo per il giudice di
aumentare la pena in misura non inferiore a un terzo per i recidivi, privandolo del potere
discrezionale previsto per la generalità dei reati di dosare la pena, dopo avere valutato una serie
di fattori quali: la gravità in concreto del reato, l’intensità del dolo, la capacità a delinquere
desunta dai motivi a delinquere, dal carattere del reo, dai precedenti penali e giudiziari, dalla
condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato, dalla condotta contemporanea o susseguente,
dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale (legge 5 dicembre 2005, n. 251 di
modifica dell’articolo 99 c.p. sulla recidiva). Si verificava così la strisciante creazione di un
diritto penale della disuguaglianza che si articolava nella sostanziale decriminalizzazione – o
comunque nella minimizzazione – dei delitti tipici degli appartenenti alle classi abbienti
(dall’abuso di potere al falso in bilancio) e nella contemporanea ipercriminalizzazione dei
comportamenti devianti degli appartenenti alle classi popolari: dai ladruncoli a coloro che
trasportano abusivamente lavatrici e frigoriferi da rottamare, dagli immigrati ai piccoli
spacciatori, ai taroccatori di cd e via elencando, che costituiscono, unitamente ai mafiosi
dell’ala militare, la popolazione stanziale delle carceri. Sono stati necessari ripetuti interventi
della Corte costituzionale per eliminare dal nostro ordinamento penale le violazioni più vistose
dei princìpi di uguaglianza e di ragionevolezza. Nel 2010 la Corte dichiarava l’incostituzionalità
dell’articolo 61 n. 11 bis c.p. che aveva introdotto la speciale aggravante connessa alla qualità
personale di immigrato irregolare; nel 2012 quella della norma introdotta dalla legge ex Cirielli
che vietava al giudice di far prevalere la circostanza della «lieve entità del fatto» sulla recidiva
di cui all’articolo 99, comma 4, c.p., facendo lievitare in modo irragionevole sino a vent’anni la
pena anche per il piccolo spaccio; nel 2014 quella della legge Fini-Giovanardi in materia di
stupefacenti che aveva parificato lo spaccio di droghe leggere a quello di droghe pesanti; nel
2015 quella della norma che imponeva come obbligatorio l’aumento della pena in caso di
recidiva per determinati tipi di reato, privando il giudice del potere di determinare
discrezionalmente l’entità della pena avuto riguardo alle specificità del caso. Altre norme sono
cadute a seguito di interventi della Consulta, che hanno riguardato soprattutto l’irrigidimento
dei benefici penitenziari per i recidivi. Nel 2013, a fronte delle progressive condizioni di
degrado e di invivibilità delle carceri italiane, sovraffollate, grazie alle politiche criminali e alle
scelte legislative accennate, pressoché esclusivamente da appartenenti alle classi meno abbienti,
interveniva la Corte europea dei diritti dell’uomo che con la sentenza Torreggiani condannava
l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) per
il trattamento inumano e degradante subìto dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi
nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a
testa a disposizione. Per evitare il pericolo dell’applicazione di gravi sanzioni all’Italia a causa
del perdurare dello stato di degrado nelle carceri per la riduzione degli spazi vitali, è stata
adottata una soluzione all’italiana. È stata emanata in fretta e furia una legislazione cosiddetta
«svuota carcere» che ha ridotto il numero dei detenuti entro i limiti della capienza
regolamentare, allargando, tra l’altro, le maglie delle misure alternative al carcere. La
motivazione ufficiale di questa legislazione era che la finalità rieducativa della pena prevista
dalla Costituzione può essere meglio perseguita con misure alternative finalizzate alla
rieducazione dei condannati piuttosto che con la carcerazione. Principio sacrosanto che,
tuttavia, per essere seriamente realizzato avrebbe richiesto ingenti investimenti e risorse in
modo da far sì che le misure alternative invece di essere piegate solo a fini deflattivi della
popolazione carceraria, potessero assolvere allo scopo prioritario della risocializzazione dei
condannati estromessi dal circuito carcerario, accompagnandoli verso uno standard di vita
accettabile. Ma tali risorse non sono state investite. Mancano gli educatori, gli assistenti sociali,
le offerte di lavoro, scarseggiano i fondi per le proposte formative, soprattutto quelle relative ai
corsi scolastici e ai corsi professionali. Manca più in generale una politica che investa nella
prevenzione indirizzando le risorse verso lo Stato sociale invece che verso lo Stato penale.
Sicché in buona parte si sono sfollate le carceri, ma contemporaneamente si sono riaffollate le
strade e le città di condannati per nulla rieducati, per nulla reinseriti socialmente e, nella
sostanza, riconsegnati a un destino di emarginazione sociale e di precarietà esistenziale,
anticamera del loro pendolare ritorno al crimine come forma di autosussistenza. Per di più, per i
motivi prima accennati, l’allargamento delle condizioni di applicabilità delle misure alternative
si è risolto in un definitivo salvacondotto dal carcere per i pochi colletti bianchi condannati con
sentenze definitive. Colletti bianchi che si sono ampiamente giovati anche di altre riforme che
hanno fortemente limitato i casi nei quali è possibile applicare la misura della custodia cautelare
in carcere. Tale misura può essere oggi applicata solo per i delitti per i quali è prevista una pena
detentiva non inferiore a cinque anni ed è preclusa per i casi nei quali è prevedibile che verrà
concessa la sospensione condizionale della pena o che verrà irrogata in concreto una pena non
superiore a tre anni. Tali ultime riforme sono state motivate non solo con la necessità di
diminuire il numero delle persone ristrette in carcere, ma anche per la necessità di evitare
asseriti abusi da parte della magistratura nell’uso dell’istituto della custodia cautelare, facendosi
in tal senso espresso riferimento a casi di arresti di imputati eccellenti. E ciò nonostante le
statistiche attestassero, come accennato, che le custodie cautelari in carcere di imputati di reati
tipici dei colletti bianchi riguardavano appena lo 0,3 per cento dell’intera popolazione detenuta.
Il risultato finale del modo di legiferare tratteggiato e delle politiche criminali attuate è un
sistema penale che ormai non riesce più ad assolvere alla sua funzione deterrente e repressiva né
per i colletti bianchi né, in buona misura, per i criminali comuni. Per un verso, grazie al
congegno suicida prescrizione breve/processo lungo, si manda al macero ogni anno una media
di 130 mila processi. Per altro verso, dalle statistiche del dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria relative all’anno 2015 risultano i seguenti dati sulla media dei periodi di
detenzione effettivamente scontati da condannati definitivi: per il delitto di rapina a mano
armata 635 giorni, che si riducono a 441 (meno di due anni) per coloro che vengono ammessi
alle misure alternative; 256 giorni per i condannati per furto; 190 giorni per i bancarottieri
ammessi a una misura alternativa al carcere; 761 giorni per i condannati per il delitto di spaccio
di stupefacenti, ridotti a 580 per coloro che sono ammessi alle misure alternative. A tutto ciò si
aggiunga che le pene pecuniarie inflitte con sentenze definitive di condanna (multe e
ammende), nonché le spese processuali vengono recuperate dallo Stato in misura inferiore al 10
per cento del totale, come risulta dalla Relazione del 7 marzo 2017 della Corte dei Conti-
Sezione centrale di controllo sulla gestione dell’amministrazione dello Stato. In altri termini il
90 per cento dei processi definiti con condanne al pagamento di multe e di ammende si risolve
in un lavoro assolutamente privo di ogni utilità e in un colossale spreco di risorse da parte di un
sistema che, per certi versi, appare simile a un cane che si limita solo ad abbaiare ma non è in
grado di mordere.

Conclusione
Se le linee di ragionamento sin qui svolte appaiono almeno in parte condivisibili, si può
comprendere quanto sia culturalmente inadeguato affrontare i temi della giustizia solo sul piano
di un asettico tecnicismo giuridico o su quello dei miglioramenti organizzativi. Come se i
deficit, le falle di sistema, le disuguaglianze nei trattamenti sanzionatori cui ho accennato
fossero solo il frutto di errate opzioni legislative nell’individuare e apprestare gli strumenti più
adeguati per assicurare un sistema di giustizia equo ed efficiente. In realtà esiste una
connessione profonda e sistemica tra la questione della giustizia e la questione della democrazia
e dello Stato. In sistemi sociali segnati da gravi disuguaglianze, nei quali il potere economico e
quello politico si concentrano in ristrette élite, è illusorio ritenere che le disuguaglianze sociali
non si ripercuotano e riflettano nei concreti esiti dell’amministrazione della giustizia. Tanto più
grande è la forbice delle disuguaglianze sociali, tanto maggiore è lo scarto tra legalità formale
(law in book), che proclama il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge
come pietra angolare dell’ordinamento giuridico, e legalità reale (law in action), che invece
riflette i rapporti sociali di forza che governano l’ordine reale. Il diritto acquisisce infatti
capacità di farsi «ordinamento» della realtà solo se e nella misura in cui ne rispecchia i reali
rapporti di forza, altrimenti è condannato all’impotenza. Non è dunque un caso che in paesi
come il Messico, nei quali massima è la disuguaglianza sociale, massimo sia anche il default del
sistema giustizia, seppure da un punto di vista formale l’ordinamento giuridico sia ineccepibile
e gli apparati organizzativi siano adeguati. E non è un caso che, viceversa, in paesi come quelli
scandinavi, ove lo Stato sociale realizzato ha ridotto e compensato le disuguaglianze di reddito,
il sistema giustizia riesca ad assolvere compiutamente alle proprie finalità, con percentuali
statistiche del crimine assolutamente fisiologiche e, quindi, pienamente governabili con gli
strumenti ordinari della giurisdizione. Sicché in Danimarca, Svezia, Finlandia il tasso di fiducia
nel sistema giustizia si attesta intorno all’80 per cento, a fronte del 4 per cento del Messico, del
14 per cento della Bulgaria e del 36 per cento dell’Italia secondo quanto emerge da uno studio
effettuato nel 2010 dall’Istituto di ricerca sui sistemi giudiziari del Consiglio nazionale delle
ricerche in collaborazione con il Centro studi e ricerche sull’ordinamento giudiziario
dell’Università di Bologna. Il nesso inscindibile tra questione criminale e questione democratica
ha assunto un rilievo particolarmente rilevante nell’attuale fase storica segnata da una crisi della
democrazia in tutti i paesi occidentali. A seguito della sinergia tra vari fattori macrosistemici di
portata storica e di respiro internazionale (fine dell’equilibrio armato tra Unione Sovietica e
Stati Uniti, esplosione di una globalizzazione economica priva di regole, transizione
dall’economia industriale alla new economy dematerializzata, crescita abnorme di un
capitalismo che opera come forza transazionale in grado di imporre la propria egemonia anche
agli Stati eccetera), sono venuti progressivamente meno i peculiari equilibri tra forze sociali
che, dal secondo dopoguerra sino alla caduta del Muro di Berlino, avevano determinato il
compromesso democratico tra capitale e lavoro posto a fondamento dello Stato sociale
liberaldemocratico, come realizzato nelle Costituzioni europee. Da qui, la fine della stagione del
capitalismo democratico e dell’economia sociale di mercato e il trionfo unilaterale di politiche
economiche neoliberiste, espressione di un capitalismo senza patria e senza regole che non è più
disponibile al compromesso democratico e a farsi carico dei costi e degli oneri dello Stato
sociale. L’attuazione di tali politiche – il cui obiettivo è la riduzione sistematica della spesa
sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici e l’asservimento dello Stato alle esigenze degli
attori forti del mercato – ha determinato in quest’ultimo quarto di secolo una crescita
tumultuosa della curva delle disuguaglianze in tutto l’Occidente. Una curva che, dopo la
chiusura della parentesi democratica che va dalla Costituzione del 1948 alla caduta del Muro di
Berlino, ha riassunto lo stesso andamento che aveva all’inizio del XX secolo, prima
dell’avvento delle Costituzioni democratiche, come ha tra gli altri dimostrato Thomas Piketty
nel suo documentatissimo Il capitalismo del XXI secolo. Oggi, così come avveniva all’inizio
del Novecento, la forbice tra ricchi e poveri si è enormemente dilatata. La ricchezza si concentra
nelle mani del 10 per cento della popolazione, il ceto medio si proletarizza scendendo anno
dopo anno i gradini della scala sociale e aumenta in modo preoccupante il tasso di povertà, con
milioni di persone che hanno serie difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena e non
hanno denaro sufficiente per soddisfare bisogni primari come quello della sanità. La crescita
delle disuguaglianze e la decrescita dei diritti hanno assunto ritmi particolarmente accentuati in
Italia. Il nostro paese si colloca oggi al ventesimo posto per disuguaglianza dei redditi nella
classifica mondiale. Il 20 per cento della popolazione più ricca detiene il 66,41 per cento della
ricchezza nazionale. Ai più poveri va solo lo 0,09 per cento. Un recente rapporto Ocse ha
posizionato l’Italia tra i paesi membri con la maggior disuguaglianza dei redditi da lavoro. La
crescita tumultuosa delle disuguaglianze non ha ricadute solo sulla società civile «legale», ma
anche nell’amplissima e trasversale società civile «illegale». Nelle fasce popolari del crimine
l’ingravescente degrado economico e sociale alimentato dal progressivo deperimento dello
Stato sociale e dalla crescita delle disuguaglianze opera da propellente per il proliferare di una
criminalità di sussistenza che, attraverso forme più o meno gravi di illegalità, cerca di sbarcare
il lunario: dal furto di energia elettrica a quello dei cavi di rame, sino ai furti negli appartamenti,
alle rapine, al contrabbando di sigarette, al piccolo spaccio di droghe leggere e via elencando. A
Palermo, nel corso di alcune indagini antimafia, le microtelecamere predisposte per le
intercettazioni ambientali hanno ripreso scene che vedevano file di persone in attesa di parlare
con il capomafia del quartiere, implorando una raccomandazione per un qualsiasi lavoro per
figli e parenti. A Napoli interi nuclei familiari appartenenti a una fascia sociale che conta 150
mila poveri sopravvivono nelle periferie di Secondigliano e di Scampia grazie al loro
inserimento nella filiera dell’economia criminale della camorra: alcuni si dedicano alla
fabbricazione seriale di falsi di prodotti griffati, altri allo smercio di sigarette di contrabbando o
di droghe, altri ancora ad altre attività di supporto. L’abbandono e il degrado delle periferie
urbane alimenta un serbatoio inesauribile per il reclutamento della manovalanza mafiosa e per
quella delle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti. La rottura di tutti gli ascensori
sociali in grado di garantire in modo legale il proprio miglioramento di status grazie al lavoro e
all’impegno, spinge inoltre migliaia di altre persone a superare ogni remora al cercare
nell’illegalità un’alternativa per un’ascesa economica e sociale. La crescita dell’illegalità nei
piani bassi fa da pendant alla crescita nei piani medio alti, ove segmenti significativi delle classi
dirigenti hanno: a) contribuito ad aggravare il declino economico della nazione, predando in
modo sistematico le risorse e il denaro pubblico destinato agli investimenti per il rilancio
dell’economia e per servizi essenziali dello Stato sociale; b) asservito poteri pubblici a finalità
di arricchimento personale o di ristretti gruppi di interesse, ponendo in essere sofisticate
manovre che dirottano le risorse della nazione dal pubblico al privato; c) proseguito a evadere il
fisco non per necessità, ma per somme milionarie esportate nei paradisi fiscali e a investire nella
speculazione finanziaria, facendo così mancare allo Stato le risorse essenziali per
l’assolvimento delle sue finalità di riequilibrio delle disuguaglianze e di sostegno economico
delle fasce più povere della popolazione. L’illegalità impunita dei piani alti contribuisce ad
alimentare, come in un rapporto di causa effetto, quella dei piani bassi, dando vita a una spirale
perversa nelle cui volute si perdono giorno dopo giorno la credibilità della classe politica, la
fiducia nelle istituzioni, il sentimento della coesione sociale, consegnando ciascuno a una
perdente solitudine e a una rabbia impotente che rischia di scaricarsi su capri espiatori offerti
come valvola di sfogo da abili manipolatori. La questione giustizia in Italia non può dunque
essere tematizzata riducendola solo a un problema di efficienza e di resa produttiva degli
apparati, ma è questione ad altissimo coefficiente di politicità, giacché il sistema di giustizia è il
punto più visibile e concreto in cui si manifesta il tasso di democrazia reale di un paese, la
credibilità delle istituzioni e la coesione sociale. In questa difficile fase di transizione credo che
tutti coloro che hanno a cuore il futuro della nostra democrazia possano contare su una risorsa e
una bussola di orientamento preziose: la nostra Costituzione. Sino a quando essa resterà in vita,
sapremo sempre da dove ricominciare e in quale direzione muoverci per il futuro. Sarà sempre
possibile far cancellare dalla Corte costituzionale l’ennesima legge che viola valori fondanti,
che uno schieramento politico approva e l’altro schieramento tiene in vita. Sarà sempre
possibile opporre una linea Maginot, un baluardo al dilagare di politiche neoliberiste finalizzate
a svuotare di contenuti i diritti sociali conquistati in decenni di dure lotte sociali e a trasferire,
attraverso sofisticate ingegnerie istituzionali, le leve fondamentali per le politiche economiche e
di bilancio fuori dagli Stati nazionali e dai loro organi di rappresentanza democraticamente
eletti – parlamenti e governi – concentrandoli in organi sovranazionali privi di legittimazione
democratica – Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale
– fautori del pensiero unico liberista e della supremazia dei mercati, cioè delle concentrazioni
oligopolistiche di capitale che dominano i mercati. Non è un caso che la Costituzione del 1948
nel corso dell’ultimo quarto di secolo sia stata al centro di ripetuti attacchi, nel tentativo di
delegittimarla definendola ora comunista, ora un ostacolo alla governabilità del paese, e di
ripetuti tentativi di stravolgerne parti essenziali mediante leggi di revisione costituzionale
approvate da maggioranze politiche di diversi schieramenti. Leggi di revisione respinte da
referendum popolari nel giugno 2006 e nel dicembre 2016 che hanno dimostrato come il nostro
popolo sia più consapevole del valore della nostra Costituzione e del modello di società in essa
insito di quanto lo siano larghe componenti della classe politica. E per chi come me è affetto da
inguaribile patriottismo costituzionale, è motivo di consolazione e di speranza che questo nostro
popolo nonostante tutto non abbia lasciato cadere nel vuoto le storiche parole pronunciate da
Piero Calamandrei durante i lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947: Io mi
domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra
Assemblea costituente. [...] Credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da
questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno che in questa
nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi
scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma
sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle
nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle
sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai
giovinetti partigiani. [...] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità,
come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per
restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più
difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A
noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e
oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini,
alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo
tradirli.
(27 novembre 2018)

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