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Lo scrittore sudafricano John Michael Coetzee nel saggio “Pornografia e Censura” (1996)
ricorda i principi che regolano la produzione e il consumo pornografico in regime liberale: 1
- ognuno, senza eccezione, ha diritto alla libertà d'espressione; 2 - questa libertà non può
essere limitata a meno che non sia dimostrato che il suo esercizio produce danno agli
interessi degli altri (dove danno va inteso in senso stretto); 3 - la pornografia è comunque
una transazione privata tra chi la produce e chi la consuma.
[…] Il Codice Penale italiano definisce all’art. 528 chi crea la pornografia colui che:
«fabbrica, introduce sul territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in
circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie allo scopo
di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente», mentre all’art. 529 si
afferma che: «Agli effetti della legge penale si considerano osceni gli atti e gli oggetti che,
secondo il comune sentimento, offendono il pudore (c.p. 725, 726). Non si considera
oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di
studio, sia offerto in vendita o comunque procurato a persona minore di anni diciotto».
Dunque osceno e comune senso del pudore sono elementi contrapposti, che esistono
proprio in virtù della loro contrapposizione. Il pudore, sentimento di vergogna, di disagio, di
repulsione è tipico dell’individuo quando questi, contro la sua volontà, si trovi di fronte a
manifestazioni sessuali di altri o quando sia egli stesso oggetto di sguardi durante gli
approcci sessuali. Il pudore diventa senso comune nel momento in cui la società umana
di appartenenza condivide la stessa sensibilità nei confronti della sessualità. L’osceno
sarebbe quindi l’offesa al pudore. Ma di osceno si parla già nell’articolo 527 del c.p.
allorché si afferma: «Chiunque in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico compie
atti osceni (c.p. 529) è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni (c.p. 726). Se il fatto
avviene per colpa (c.p. 43) la pena è della multa da £ 60.000 a £ 600.000». La grande
difficoltà nel definire il comune senso del pudore risiede nel tracciare un limen tra offesa
alla morale pubblica e libertà individuale. Gli articoli 528 e 529 del Codice Penale
convivono e confliggono con l’articolo 21 della Costituzione Italiana che afferma: «Tutti
hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione». Questo era già implicito nell’articolo 2 della Costituzione Italiana
che sancisce i diritti inalienabili di ogni singolo individuo: «La Repubblica sancisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale». La difficile gestione giuridica dell’osceno e del comune senso del
pudore in realtà è la risultante di una difficile gestione culturale di questi. […] (“Osceno e
comune senso del pudore: Antropologia della pornografia”, di D. Stanzani e V. Stendardo).
Negli anni Settanta, il filosofo Bernard Arthur Owen Williams, definito dal Times il «filosofo
morale inglese più brillante e importante del suo tempo», venne chiamato a presiedere la
Commissione dell'Oscenità e della Censura dei Film. In una relazione del Comitato del
1979, nota come “The Williams Committee Report “, Williams faceva notare che: «Data la
quantità in circolazione di esplicito materiale sessuale e considerate le relative asserzioni
spesso formulate circa i suoi effetti, è sorprendente rilevare nella cronaca dei casi di
violenze e omicidi a sfondo sessuale l'assenza di alcun richiamo alla pornografia come
possibile causa scatenante di tali reati». Williams, influenzato dal pensiero liberale di John
Stuart Mill, si rifece al suo principio di libertà - l'unico caso in cui si può interferire sulla
libertà d'azione è quando la libertà di uno provochi danno a qualcun altro - sviluppando
l'idea della "condizione di danno", in base alla quale «nessuna condotta deve essere
soppressa per legge a meno che non si possa dimostrare che arrechi danno a qualcuno».
Dunque, giunse alla conclusione che nella pornografia non è riscontrabile alcunché di
dannoso: […] il ruolo della pornografia non è determinante nell'influenzare la società [...]
pensarla diversamente in merito significherebbe ingrandire il problema della pornografia a
tal punto da far perdere di vista i problemi ben più gravi che assillano oggi la società […].
La commissione decretò che: fin tanto che i ragazzi fossero protetti dal vedere materiale
pornografico, gli adulti possono ritenersi liberi di leggere e vedere pubblicazioni
pornografiche a loro piacere; le leggi esistenti sarebbero dovute essere sostituite con un
nuovo statuto in modo da restringere la disponibilità dei materiali pornografici, evitando
così di offendere le persone ragionevoli e di renderli accessibili ai bambini; che tali
restrizioni fossero applicate non solo a materiali contenenti nudità e/o sessualmente
espliciti, ma anche quelli in cui siano rappresentate, direttamente o indirettamente, scene
di violenza, di crudeltà e di orrore oppure funzioni sessuali, fecali o urinarie o ancora gli
organi genitali. Riguardo la definizione di pornografia, la commissione stabilì che «una
rappresentazione pornografica presenta due caratteristiche: ha una certa funzione o
intenzione, quella di eccitare sessualmente lo spettatore, e anche un certo contenuto,
l’esplicita rappresentazione di rapporti sessuali (organi, posture, attività, ecc.)». Riguardo
la differenza tra oscenità e pornografia, la commissione indicò la parola “osceno” come un
termine soggettivo che si riferisce alla reazione delle persone alla visione di un dato
materiale, e che «esprime principalmente una versione intensa o estrema di ciò che
abbiamo chiamato offensività, enfatizzando l’elemento maggiormente avversivo in questa
nozione, l’idea che un oggetto possa essere ripugnante o disgustoso». La pornografia,
viene invece considerata dalla commissione «una espressione più oggettiva che si
riferisce ad un certo tipo di scrittura, di raffigurazione, ecc… che tende ad essere oscena,
ma che non necessariamente lo è sempre… che tende ad essere offensiva, ma che non
lo è universalmente… ancor meno deve inevitabilmente essere fortemente offensiva od
oscena». Riguardo il rapporto tra oscenità e arte, il rapporto dice che «l’opera d’arte può
essere percepita come offensiva e anche come esteticamente interessante, ma nel caso
in cui le due percezioni siano distinte. Saranno opere che prima vengono considerate
come offensive, specie da quei spettatori che manterranno una certa distanza, ma che
perderanno questo carattere da coloro che invece si faranno coinvolgere». Tuttavia, la
commissione riconosce che «sarebbe sciocco negare che alcune opere rimarranno
sempre altamente offensive od oscene».
SALO’
ARTE E OSCENITA’
Il contrasto alla diffusione della pornografia è un concetto entrato a far parte del nostro
codice penale solo recentemente, con la legge 3 agosto 1998 n. 269 (“Norme contro lo
sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno ai minori,
quali nuove forme di riduzione in schiavitù”), che, nel recepire la normativa internazionale,
sancisce l’obbligo, per il nostro Paese, di proteggere i minori contro ogni forma di
sfruttamento e di violenza sessuale, al fine di assicurarne la sanità dello sviluppo fisico,
psicologico, spirituale, morale e sociale. Il complesso di norme penali mira dunque,
almeno in teoria, a preservare il minore contro «l’aggressione subdola e dilagante della
perversione sessuale e del suo sfruttamento a fini di lucro». La legge si è resa necessaria
per cercare di contrastare la preoccupante portata generale del fenomeno rafforzando i
diritti dei minori. Il legislatore afferma che «alla base della legge vi è infatti un dato di
civiltà che vogliamo comunicare: essa non prevede solo l’individuazione di nuove pene
per nuovi reati. È una concezione della persona che la guida: “la persona è un fine e mai
un mezzo”». Si sottolinea, in particolare, come lo sfruttamento sessuale dei bambini
possa essere qualificato come una nuova forma di schiavitù, ed essere ricondotto al diritto
internazionale. In precedenza, la pornografia era valutata in base alla nozione di comune
sentimento del pudore, inteso come un bene “collettivo”, soggetto al mutare del tempo e
dei costumi, e, ovviamente, alla difesa della libertà individuale (il famoso Primo
Emendamento), per cui qualsiasi comportamento, se tenuto con riservatezza e senza
esercitare violenza nei confronti del prossimo, è lecito e non ha alcuna rilevanza penale.
[…] in un sistema democratico, il concetto penalistico di buon costume, assunto dalla
Costituzione come limite alla libertà di manifestazione del pensiero, non può identificarsi
con una determinata dottrina etica, ma deve coniugarsi con la libertà di ciascuno in
materia sessuale […] “il comune sentimento del pudore” si può tradurre in norma
incriminatrice soltanto nella misura in cui la detenzione di materiale pornografico comporti
un limite intollerabile alla libertà dalle molestie provocate dal dover assistere, contro la
propria volontà, ad atti o rappresentazioni di contenuto osceno […] la Corte Costituzionale
in proposito dichiara che «l’osceno attinge il limite dell’antigiuridicità penale, quindi della
sua stessa punibilità, solo quando sia destinato a raggiungere la percezione della
collettività, il cui sentimento del pudore può solo in tal modo essere posto in pericolo o
subire offesa» […]. La Corte Costituzionale dunque non riscontra capacità offensiva e
lesiva del comune senso del pudore in atti o in oggetti che, pur avendo in sé un significato
osceno, si esauriscono nella sfera privata e non costituiscono oggetto di comunicazione
verso un numero indeterminato di persone.
Secondo criteri tutt’altro che rigoristici, volti a favorire una mera politica porno-economica,
la dottrina porno-giuridica individua il “palesemente osceno” solo nelle rappresentazioni
relative ad atti sessuali completi e scoperti: il nudo integrale, anche se rappresentato in più
soggetti, anche se riprodotto in atteggiamenti “sguaiati”, non è da considerarsi né “osceno”
né “indecente”. […] Ormai la fattispecie di nuova creazione relativa al «palesemente
osceno», così come interpretata dalla magistratura di merito, sta determinando la
completa eliminazione di ogni rigorosità […] Tutto ciò opera nella società un processo
involutivo da considerarsi come l’inizio della più vergognosa liberalizzazione del
“malcostume”, nel più provocante dispregio di fondamentali principi contenuti nella Carta
costituzionale […]. Per quanto riguarda le norme di protezione del senso del pudore dei
minori e della loro morale, stabilito che il minore è influenzato da complessi rapporti sociali
e da informazioni particolarmente diffuse, l’orientamento della Cassazione ha confermato
quanto sostenuto dalla porno-giurisprudenza, ovvero che «la moderna sensibilità dei
minorenni deve essere valutata in relazione ad una realtà sociale in continua evoluzione e
i cui cambiamenti condizionano la personalità degli adolescenti». La S.C. (Cass., sez . VI,
14 ottobre 1975) ha quindi precisato che «l’offesa al pudore del minore deve essere
vagliata con riferimento all’adolescente medio dei tempi moderni, cioè a quel giovane che
conduca una normale vita familiare e di relazione, libero sia da eccessi di moralismo, sia
da riprovevoli sfrenatezze. Tale apprezzamento non deve però avvenire presupponendo
che la mentalità e la psicologia dei giovani mutino a tal punto da rimanere totalmente
investite da tendenze riprovevoli». Per quel che riguarda la tutela del diritto alla privacy e
il correlativo diritto alla libertà sessuale del singolo possessore di materiale pornografico,
l’art. 600 quater c.p. identifica la condotta di detenzione di materiale pornografico nei
seguenti termini: «Chiunque al di fuori delle ipotesi previste nell’art. 600 ter,
consapevolmente si procura o dispone di materiale pornografico prodotto mediante lo
sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto è punito con la reclusione fino a tre
anni o con la multa non inferiore a tre milioni».
Ancora oggi, punire il mero detentore di materiale pornografico va contro la tradizione del
nostro diritto penale, che ha sempre tendenzialmente rispettato la privacy del domicilio dei
cittadini ed ha dunque tendenzialmente permesso ogni attività, senza vittime in carne ed
ossa, che si svolgesse nell’intimità del focolare domestico. La stessa logica porno-liberale
che in materia di prostituzione conduce alla punibilità di sfruttatori, agevolatori,
favoreggiatori della prostituzione stessa, ma non del cliente della prostituta. Una tale
logica non sembra condivisibile: se un fenomeno del “vizio” viene ritenuto degno di essere
represso penalmente, occorre colpirlo in tutte le direzioni e a tutti i livelli, pena l’inefficacia
dello strumentario penale. Di conseguenza, se si vuole punire la “prostituzione come tale”,
lo si deve fare anche sanzionando penalmente il cliente; se si vuole punire la “pornografia
come tale”, si deve punire anche il detentore in quanto tale. La legge n.269/98, pur
perseguendo, tra le varie finalità, quella di contrastare la pornografia, in realtà non si
preoccupa di dare una definizione generale di essa. […] A distanza di sei anni
dall’emissione della legge n. 269/98, né la giurisprudenza né la dottrina si trovano
concordi nell’accogliere una definizione unitaria di ciò che è pornografico […] Pur essendo
stata decantata dalla stampa come legge contro la pedofilia […] in concreto essa non
offre, al fine di proteggere il minore, una tutela del tutto esauriente. Ad esempio non
colpisce coloro che introducono o immettono in rete il materiale pornografico, non
incrimina il cliente che soggiace con il minore, e, per di più, le pene previste per coloro che
cedono ad altri, anche a titolo gratuito, materiale pedo-pornografico, sono le stesse pene
detentive che sanzionano i reati fiscali. La legge inoltre non prevede, ad esempio, che il
provider, cioè colui che offre spazi gratuiti o a pagamento per costruire pagine web, adotti
un codice di autodisciplina o autoregolamentazione per rilasciare gli spazi, così come non
è contemplata la possibilità che possa esistere un registro telematico dei proprietari di
queste pagine web. L’assenza di forme di controllo consente di rimanere nell’anonimato
ovvero di aprire un sito web anche a nome di un’altra persona, tanto più che difficilmente
al momento della registrazione, per ottenere lo spazio viene richiesto un documento
d’identità comprovante le generalità del richiedente […] essa non prevede che il pedofilo
già condannato possa essere schedato, né che la persona già indagata venga schedata
ed inserita in una banca dati messa a disposizione della magistratura inquirente e delle
forze dell’ordine, né tanto meno che le foto dei bambini che si trovano in internet possano
essere catalogate. Nonostante i contenuti della Raccomandazione n.190/99, non si può
non rimproverare al nostro legislatore […] la mancata configurazione nel nostro
ordinamento penale delle fattispecie dei reati di pedofilia e di pedofilia in internet, né il non
adoperarsi con azioni di prevenzione per combattere e contrastare questa ormai troppo
dilagante piaga […] se da una parte con la legge 269/98 si è provveduto ad acconsentire
ed attrezzare le forze di polizia di strumenti atti e validi per la creazione di siti trappola, allo
scopo di individuare e contrastare i siti dei pedofili, paradossalmente, con la stessa legge,
non si consente alle stesse forze di polizia di poter conservare le prove e il corpo del reato
[…] (“Rapporti tra Pubblicazioni e Spettacoli Osceni il Bene Giuridico nella sua
Evoluzione Storica”).
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