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La Commissione Europea ha confezionato una nuova direttiva per il Web contro gli abusi

sessuali e la pedopornografia. L'obiettivo è di inasprire le pene dell’adescamento di minori


su Internet a fini di abuso (il cosiddetto "grooming"), e rendere perseguibile non solo la
visione online di materiale illegale (anche senza downloading) ma anche l'induzione dei
minori all'utilizzo della webcam per mostrare atteggiamenti sessualmente espliciti. Se il
Consiglio UE e il Parlamento europeo si esprimeranno positivamente, gli Stati membri
dovranno correggere le rispettive normative. Il pacchetto prevede anche trattamenti
specializzati per i responsabili di reato, interdizione dalle attività che prevedono contatti
con minori non solo nel paese dove è avvenuta la condanna e blocco più immediato ai siti
web pedopornografici. «Abusare di minori vuol dire perpetrare orrendi delitti contro
bambini e adolescenti, marchiandoli a vita. Sfruttare sessualmente un minore significa
usarlo come un oggetto sessuale arricchendosi sulle sue sofferenze. Scaricare e visionare
materiale pedopornografico su Internet è causa di un aumento dei casi di stupro di minori
proprio per produrre quelle immagini. Tutto quel che sarà possibile fare contro questo
fenomeno, l’UE deve farlo e lo farà», ha dichiarato il commissario europeo agli Affari
interni, Cecilia Malmostroem.

UE, giro di vite contro il pedoporno online 31 marzo 2010

Lo scrittore sudafricano John Michael Coetzee nel saggio “Pornografia e Censura” (1996)
ricorda i principi che regolano la produzione e il consumo pornografico in regime liberale: 1
- ognuno, senza eccezione, ha diritto alla libertà d'espressione; 2 - questa libertà non può
essere limitata a meno che non sia dimostrato che il suo esercizio produce danno agli
interessi degli altri (dove danno va inteso in senso stretto); 3 - la pornografia è comunque
una transazione privata tra chi la produce e chi la consuma.

[…] Il Codice Penale italiano definisce all’art. 528 chi crea la pornografia colui che:
«fabbrica, introduce sul territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in
circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie allo scopo
di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente», mentre all’art. 529 si
afferma che: «Agli effetti della legge penale si considerano osceni gli atti e gli oggetti che,
secondo il comune sentimento, offendono il pudore (c.p. 725, 726). Non si considera
oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di
studio, sia offerto in vendita o comunque procurato a persona minore di anni diciotto».
Dunque osceno e comune senso del pudore sono elementi contrapposti, che esistono
proprio in virtù della loro contrapposizione. Il pudore, sentimento di vergogna, di disagio, di
repulsione è tipico dell’individuo quando questi, contro la sua volontà, si trovi di fronte a
manifestazioni sessuali di altri o quando sia egli stesso oggetto di sguardi durante gli
approcci sessuali. Il pudore diventa senso comune nel momento in cui la società umana
di appartenenza condivide la stessa sensibilità nei confronti della sessualità. L’osceno
sarebbe quindi l’offesa al pudore. Ma di osceno si parla già nell’articolo 527 del c.p.
allorché si afferma: «Chiunque in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico compie
atti osceni (c.p. 529) è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni (c.p. 726). Se il fatto
avviene per colpa (c.p. 43) la pena è della multa da £ 60.000 a £ 600.000». La grande
difficoltà nel definire il comune senso del pudore risiede nel tracciare un limen tra offesa
alla morale pubblica e libertà individuale. Gli articoli 528 e 529 del Codice Penale
convivono e confliggono con l’articolo 21 della Costituzione Italiana che afferma: «Tutti
hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione». Questo era già implicito nell’articolo 2 della Costituzione Italiana
che sancisce i diritti inalienabili di ogni singolo individuo: «La Repubblica sancisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale». La difficile gestione giuridica dell’osceno e del comune senso del
pudore in realtà è la risultante di una difficile gestione culturale di questi. […] (“Osceno e
comune senso del pudore: Antropologia della pornografia”, di D. Stanzani e V. Stendardo).

REPORT ON OBSCENITY AND PORNOGRAPHY

Nel 1969, dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti


d’America stabilì il principio porno-liberale secondo cui
chiunque nel privato della propria casa poteva vedere e
consumare tutto ciò che gli pareva, il Congresso degli
Stati Uniti incaricò la President's Commission on
Obscenity and Pornography, creata dal Presidente
Lyndon B. Johnson, di studiare la pornografia e
compilare un rapporto su: i problemi costituzionali e
definizionali relativi ai controlli sull’oscenità; il traffico e
la distribuzione di materiali osceni e pornografici; gli
effetti di tali materiali, particolarmente sulla gioventù, e
la loro relazione con il crimine e altre condotte
antisociali. Il rapporto, noto come “Report of the
Commission on Obscenity and Pornography”, pubblicato
nel 1970, raccomandava: una massiccia campagna di
educazione sessuale, il finanziamento di ricerche sugli
effetti della pornografia, la restrizione del possibile
accesso dei bambini a materiali pornografici, mentre si pronunciò contro ogni restrizione
per gli adulti. Stabilì inoltre che l’oscenità e la pornografia non erano da ritenersi problemi
sociali, che non vi era alcuna evidenza che l’esposizione a tali materiali provocasse danni
agli individui e che le iniziative legali e politiche messe in atto creavano problemi più che
risolverli. Il rapporto fu aspramente criticato e rifiutato dal Congresso con una larga
maggioranza. In particolare, il Senato contestò che: non vi fossero evidenze tali da far
ritenere l’esposizione a materiali sessualmente espliciti come possibile causa di
comportamenti criminali sia tra i giovani che gli adulti; che la maggioranza degli americani
adulti ritenesse che si debba permettere a tutti gli adulti di leggere o vedere qualsiasi
materiale sessualmente esplicito; che l’eliminazione delle proibizioni governative riguardo i
materiali sessualmente espliciti indirizzati agli adulti non avrebbero effetti negativi sul
pubblico di altri libri, riviste o film; che non vi fossero evidenze tali da far ritenere
l’esposizione a materiali sessualmente espliciti come possibile influenza negativa sulle
attitudini morali riguardanti il sesso e le condotte sessuali. Infine, esprimeva parere
fortemente contrario ala proposta di abrogazione della legislazione federale, statale e
locale che proibiva la vendita di materiali sessualmente espliciti ad adulti consenzienti. Nel
suo rapporto di dissenso, il senatore Charles H. Keating Jr. accusò la maggioranza della
commissione di promuovere «una posizione di completa anarchia morale». Anche il
Presidente Richard Nixon, succeduto a Johnson nel 1969, rifiutò categoricamente il
rapporto.

THE WILLIAMS COMMITTEE REPORT

Negli anni Settanta, il filosofo Bernard Arthur Owen Williams, definito dal Times il «filosofo
morale inglese più brillante e importante del suo tempo», venne chiamato a presiedere la
Commissione dell'Oscenità e della Censura dei Film. In una relazione del Comitato del
1979, nota come “The Williams Committee Report “, Williams faceva notare che: «Data la
quantità in circolazione di esplicito materiale sessuale e considerate le relative asserzioni
spesso formulate circa i suoi effetti, è sorprendente rilevare nella cronaca dei casi di
violenze e omicidi a sfondo sessuale l'assenza di alcun richiamo alla pornografia come
possibile causa scatenante di tali reati». Williams, influenzato dal pensiero liberale di John
Stuart Mill, si rifece al suo principio di libertà - l'unico caso in cui si può interferire sulla
libertà d'azione è quando la libertà di uno provochi danno a qualcun altro - sviluppando
l'idea della "condizione di danno", in base alla quale «nessuna condotta deve essere
soppressa per legge a meno che non si possa dimostrare che arrechi danno a qualcuno».
Dunque, giunse alla conclusione che nella pornografia non è riscontrabile alcunché di
dannoso: […] il ruolo della pornografia non è determinante nell'influenzare la società [...]
pensarla diversamente in merito significherebbe ingrandire il problema della pornografia a
tal punto da far perdere di vista i problemi ben più gravi che assillano oggi la società […].
La commissione decretò che: fin tanto che i ragazzi fossero protetti dal vedere materiale
pornografico, gli adulti possono ritenersi liberi di leggere e vedere pubblicazioni
pornografiche a loro piacere; le leggi esistenti sarebbero dovute essere sostituite con un
nuovo statuto in modo da restringere la disponibilità dei materiali pornografici, evitando
così di offendere le persone ragionevoli e di renderli accessibili ai bambini; che tali
restrizioni fossero applicate non solo a materiali contenenti nudità e/o sessualmente
espliciti, ma anche quelli in cui siano rappresentate, direttamente o indirettamente, scene
di violenza, di crudeltà e di orrore oppure funzioni sessuali, fecali o urinarie o ancora gli
organi genitali. Riguardo la definizione di pornografia, la commissione stabilì che «una
rappresentazione pornografica presenta due caratteristiche: ha una certa funzione o
intenzione, quella di eccitare sessualmente lo spettatore, e anche un certo contenuto,
l’esplicita rappresentazione di rapporti sessuali (organi, posture, attività, ecc.)». Riguardo
la differenza tra oscenità e pornografia, la commissione indicò la parola “osceno” come un
termine soggettivo che si riferisce alla reazione delle persone alla visione di un dato
materiale, e che «esprime principalmente una versione intensa o estrema di ciò che
abbiamo chiamato offensività, enfatizzando l’elemento maggiormente avversivo in questa
nozione, l’idea che un oggetto possa essere ripugnante o disgustoso». La pornografia,
viene invece considerata dalla commissione «una espressione più oggettiva che si
riferisce ad un certo tipo di scrittura, di raffigurazione, ecc… che tende ad essere oscena,
ma che non necessariamente lo è sempre… che tende ad essere offensiva, ma che non
lo è universalmente… ancor meno deve inevitabilmente essere fortemente offensiva od
oscena». Riguardo il rapporto tra oscenità e arte, il rapporto dice che «l’opera d’arte può
essere percepita come offensiva e anche come esteticamente interessante, ma nel caso
in cui le due percezioni siano distinte. Saranno opere che prima vengono considerate
come offensive, specie da quei spettatori che manterranno una certa distanza, ma che
perderanno questo carattere da coloro che invece si faranno coinvolgere». Tuttavia, la
commissione riconosce che «sarebbe sciocco negare che alcune opere rimarranno
sempre altamente offensive od oscene».
SALO’

11 novembre 1975. La prima Commissione di


Censura, all'unanimità, boccia “Salò o le 120 giornate
di Sodomia”. Il film di Pier Paolo Paolini «porta sullo
schermo immagini così aberranti e ripugnanti di
perversione sessuale che offendono sicuramente il
buon costume e come tali sopraffanno la tematica
ispiratrice del film sull'anarchia di ogni potere». Il
produttore Alberto Grimaldi si appella, ma l'opera
postuma di Pier Paolo Pasolini non potrà essere
proiettata il 20 novembre a Milano dove era prevista la
prima nazionale. In compenso, essendo il film italo-
francese, sarà regolarmente proiettato il 22 novembre
al Festival internazionale di Parigi. Nei giorni che
seguono, molti intellettuali e la stampa, quasi
all'unanimità, insorgono contro la decisione e da più
parti si accusa il Ministro allora in carica, Sarti, di
avere influenzato l'operato della Commissione.
L'ufficio stampa del ministero smentisce e ricorda che
c'è appunto la possibilità di ricorrere entro 20 giorni
alla Commissione di appello. 22 novembre 1975. Il film di Pier Paolo Pasolini, distribuito
dalla United Artists, viene proiettato in una sala affollatissima degli Champs-Elysèes
durante una rassegna ufficialmente dedicata al regista italiano. La proiezione è riservata
alla stampa ma non è possibile frenare l'afflusso dei "non addetti ai lavori". Gli spettatori
applaudono ogni qual volta appare il nome dell'autore durante lo scorrere dei titoli di testa.
Le Monde parla di "trionfi dell'Italia". Giovanni Bertolucci, Gillo Pontecorvo, Francesco
Rosi, Luigi Comencini, Ennio Lorenzini, Liliana Cavani, Pasquale Squitieri, Laura Betti e
Sonia Savange tengono una conferenza stampa contro la censura in Italia. 9 dicembre
1975. Il Salone Pier Lombardo e il Club Turati organizzano a Milano, per un pubblico di
soci e di invitati, una serata dibattito sul tema "la censura in Italia" che termina con la
proiezione del film. Intervengono Piero Ottone, Domenico Pulitano, Giovanni Testori e
Carlo Ripa di Meana. 18 dicembre 1975. 37 giorni dopo il "no" della prima commissione di
censura, “Salò o le 120 giornate di Sodoma” viene assolto in appello. Il film potrà essere
proiettato in Italia senza nessun taglio, con il solo divieto ai minori di 18 anni. La decisione
è presa dopo una discussione che batte un record nella storia della censura italiana:
un'ora e 59 minuti di riunione dei 14 componenti le due commissioni di censura che sono
state chiamate a giudicare l'opera collegialmente, come sempre accade in seconda
istanza. 10 gennaio 1976. Il film viene proiettato nei cinema Majestic, Nuovo Arti e Ritz di
Milano. Il giorno dopo, l'Associazione Nazionale Alpini ne chiede il sequestro. Superato
l'ostacolo della censura ora Salò dovrà passare le maglie della giustizia. 1 gennaio 1976. Il
sostituto procuratore della Repubblica di Milano ordina il sequestro del film: «È osceno
nell'espressione delle componenti figurative e discorsive». Roccantonio D'Amelio, in
quell'occasione rinvia anche a giudizio per direttissima Alberto Grimaldi e quindici giorni
dopo lo condanna, in base all' articolo 528 (oscenità), a due mesi di reclusione. Il film
viene confiscato dopo appena tre giorni di proiezione e scompare dal circuito pubblico.
Passa un anno, durante il quale Alberto Grimaldi ricorre in Corte d'Appello. Nel frattempo,
la vicenda scompare dai giornali. Produttore e magistratura si accordano sul taglio di
quattro sequenze e Grimaldi viene assolto dalla Prima sezione penale della Corte
d'Appello perché il fatto non costituisce reato. Il film è libero di circolare nella nuova
versione "ridotta". Si discute a lungo se sia il caso o meno di far circolare la copia tagliata,
ma Grimaldi decide di sì. 10 marzo 1977. Dopo una vicenda giudiziaria durata 13 mesi,
Salò esce nelle stesse sale di Milano dalle quali era stato sequestrato. Nel frattempo, il
film ha suscitato grande impressione in Francia e in Inghilterra, dove circola liberamente, e
ha vinto, nel maggio 1976, il premio Rizzoli ad Ischia. 11 marzo 1977. A Roma, una
trentina di fascisti assalgono e danneggiano il cinema Rouge et Noir, dove si proietta il
film, gridando che offende la memoria della Repubblica di Salò. Uno dei giovani viene
arrestato, altri tre sono denunciati a piede libero. 6 giugno 1977. Evangelista Boccuni,
pretore di Grottaglie, un comune a circa 20 chilometri da Taranto, sequestra il film con
procedura d'urgenza su tutto il territorio nazionale: «Offende il comune senso del pudore»,
dice il dispositivo. Il produttore invia un esposto al procuratore generale della Cassazione.
Assistito dall' avvocato di Maio, contesta l'operato del magistrato di Grottaglie e minaccia
di costituirsi parte civile in un eventuale procedimento penale per ottenere il risarcimento
dei danni. Mentre accade tutto ciò, Salò viene sequestrato anche a Londra. 26 ottobre
1977. La corte di Cassazione dà incarico alla procura della Repubblica di Potenza di
valutare il comportamento del pretore di Grottaglie. Inizia così un'inchiesta che vede
coinvolti altri produttori e altri magistrati. La storia si conclude il 16 febbraio 1978, allorché
la Corte di Cassazione pronuncia una sentenza secondo cui non solo il film può circolare
liberamente ma può essere reintegrato anche dei quattro tagli effettuati in sede di ricorso
in appello e può quindi esser visto nella sua versione integrale. Ciò nonostante, da quel
giorno, non se ne sa più nulla.

“Salò Una Storia Italiana”, di Glauco Benigni, Repubblica, 25 agosto 1985

ULTIMO TANGO A PARIGI

29 gennaio 1976. “Ultimo tango a Parigi”, di Bernardo


Bertolucci, che vede come protagonista Marlon
Brando, viene condannato dalla Corte di Cassazione
ad essere fisicamente distrutto, in ogni sua copia,
negativi compresi, poiché, al termine di un processo
durato quattro anni, si è stabilito che, lungi dal
soddisfare "i requisiti di artisticità", esso consiste in uno
spettacolo osceno, contrario ai principi della morale e
del buon costume. La censura, con la sentenza di
oscenità del 1976, di fatto legittima unicamente una
lettura dell’opera in chiave pornografica, operando una
triplice negazione: del film come opera d’arte, dello
spettatore come individuo capace di leggere il film
come opera d’arte e quindi della ricezione stessa del
film, precludendone la visione e con essa qualunque
decodifica, compresa (paradossalmente) quella di
spettacolo osceno. In seguito al dissequestro del 1987,
si compie invece il percorso opposto, con il
riconoscimento della dignità artistica dell’opera, delle
capacità critiche dello spettatore e dunque della fruizione tout court su grande e piccolo
schermo. Nell’emettere la sentenza di non-oscenità, il giudice istruttore del Tribunale di
Roma, Paolo Coltella, si affida ad una perizia, attestante il valore artistico del film, stilata
da un docente universitario di Metodologia della Critica e dello Spettacolo (Maurizio
Grande) e da due affermati critici cinematografici (Fausto Giani e Claudio Trionfera). Si è
dovuti arrivare alla soglia degli anni Novanta, per stabilire che un giudizio morale nei
confronti di un’opera cinematografica non può prescindere da un giudizio estetico, attento
al messaggio complessivo di quest’ultima al di là delle singole sequenze, che possono
apparire oscene soltanto scindendole dalla funzione che rivestono nell’intero racconto
filmico. Nella tassonomia usata da Alfredo Baldi nel classificare i tagli sui film dal 1947 al
1962, e contenuta nel saggio "20 km di censura", vengono considerate le categorie di
violenza, offesa e vilipendio (a persone, istituzioni o stati), eros (pudore, morale, buon
costume), macabro-impressionante-ripugnante, sociale (droga, prostituzione, miseria),
eros-violenza, istigazione a delinquere - disprezzo della legge, offesa alla religione e ai
suoi ministri, pubblicità, turpiloquio, politico, non individuabile la "ratio". È interessante
notare, scorrendo questo elenco, che (più o meno forzatamente) le scene di “Ultimo
Tango” lo coprono pressoché per intero. Dalla famigerata sequenza di sodomia non
consenziente ai numerosi nudi di Jeanne (Maria Schneider), dal costante linguaggio
scurrile al disprezzo di Paul (Marlon Brando) per i preti, i militari e la società nel suo
complesso, dalla figura della vecchia prostituta (Giovanna Galletti) agli insulti di Paul al
capezzale della moglie defunta (Veronica Lazare), fino ad arrivare all’efferato delitto finale.
Nel 1973, con le leggi sul divorzio e l’aborto dietro l’angolo, in secondo grado (dopo una
prima assoluzione), il film era stato messo sotto sequestro dal Tribunale di Bologna: […]
prevale la tesi della distruzione dei valori morali […] che resta intenzione evidente del
creatore del film […]. Tre anni dopo, la Cassazione conferma in via definitiva la condanna.
Il film ottiene il visto di censura con un taglio di otto secondi (marginali riduzioni nelle
scene del primo amplesso e della sodomia), che verrà reintegrato solamente nell’edizione
DVD in cofanetto, distribuita dalla Eagle Pictures nel 2002 per il trentennale. La
riabilitazione di “Ultimo Tango” rappresenta un segnale decisivo, più che del degrado dei
costumi, di una mentalità più aperta e sensibile alle espressioni originali dell’arte. A questo
proposito, una significativa coincidenza aveva segnato l’uscita di “Ultimo Tango”, nel 1972,
lo stesso anno in cui appare “Gola Profonda” di Gerard Damiano, considerato il primo film
pornografico commerciale moderno. Come rileva Roberto Silvestri [31], senza peraltro
nominare il lungometraggio con Linda Lovelace, i “nude movies” dei decenni precedenti
erano limitati ad oscuri film giapponesi, agli sperimentalismi di Yoko Ono, a qualche
regista underground americano come Russ Meyer e alle rarità in bianco e nero degli anni
Venti e Trenta. In questo senso, si può forse rileggere nel modo più corretto l’interminabile
persecuzione subita da “Ultimo Tango” come un irrazionale tentativo di cancellare un
punto di non ritorno, «una riga oltre la quale sta la terra desolata delle "luci rosse"» [32].
Per rimanere in Italia, basta citare la parabola di Tinto Brass, che dopo film originali e
intelligenti come “Il Disco Volante” (’64) e “Col Cuore in Gola” (’67) sceglie,
deliberatamente e con successo, proprio alla fine degli anni Sessanta, di adottare gli
stilemi pornografici come parte integrante della propria cifra stilistica, fino all’hard-core più
esplicito (“Così Fan Tutte”, 1992). Del resto, la versione integrale di “Ultimo Tango” negli
USA è “X-rated”, cioè bollata esattamente come “blue movie” [33]. Eppure, a ben vedere,
l’opera di Bertolucci rappresenta quasi l’antitesi di un film pornografico. Laddove in
quest’ultimo viene mortificata ogni tappa della sua realizzazione, dal copione al
montaggio, dalla regia alla produzione, dall’interpretazione alla fotografia e via dicendo,
per esaltare l’atto sessuale in sé e per sé, in “Ultimo Tango” il percorso è opposto: gli
amplessi e le nudità della Schneider sono soltanto un tassello del mosaico narrativo. Ha
ragione Fernaldo di Giammatteo, dunque, quanto afferma che «la censura nazionale […]
non s’avvede che la sfida [del film] è ripiegata su se stessa, e non minaccia nessuno. Il
nuovo linguaggio che Bertolucci dispiega sullo schermo […] è il linguaggio dell’inconscio»
[34]. In altre parole, “Ultimo Tango” sconta la classica maledizione di tutte le opere in largo
anticipo rispetto ai propri tempi. La censura almeno in due sensi ha giovato alla pellicola:
oltre ad ingigantirne la popolarità, ha stimolato un’attenzione critica senza precedenti nei
suoi confronti, permettendo alle nuove generazioni di accostarsi ad essa, non come a uno
dei tanti filmetti di contestazione più o meno osé degli anni Settanta, ma come a una
"summa del cinema d’autore" [35], dove confluiscono in modo innovativo le esperienze più
disparate. Chessa richiama quelle della Nouvelle Vague, del cinéma-vérité e del cinema
hollywoodiano, ma l’elenco potrebbe estendersi a Jean Renoir, al neorealismo tout court,
al Fellini de “La Dolce Vita” e di “Otto e Mezzo”, allo stesso Pasolini, ex maestro di
Bertolucci sul set di “Accattone”.

“Ultimo Tango a Parigi Anatomia di un film scandalo”, di Stefano Bombardini

ARTE E OSCENITA’

[…] Secondo la giurisprudenza è atto


osceno qualsiasi manifestazione di
concupiscenza, sensualità, inverecondia
sessuale, compiuta su altri o su se
stesso, che offende così intensamente il
sentimento della morale sessuale ed il
pudore da destare, in chi possa
assistervi, disgusto e repulsione. Con una
norma del genere, il legislatore opera, di
fatto, un rinvio a norme sociali
extragiuridiche, per loro natura mutevoli
da persona a persona. Il legislatore
precisa che l'offesa al pudore deve
essere avvertita "secondo il comune
sentimento", espressione anche questa
piuttosto vaga: il parametro per valutare l'oscenità deve essere ciò che avverte l' “uomo
medio”, non chi è particolarmente pudico né chi è particolarmente impudico. Nel giudicare
sull’oscenità di un’opera artistica, l’iter logico che il giudice deve percorrere consiste quindi
nell’accertare, innanzitutto, se concretamente esiste il carattere osceno, poi, se il valore
artistico prevale sulla tutela del comune senso del pudore. Qui subentra un altro problema:
individuare con esattezza la nozione di arte, compito piuttosto arduo, tanto più che lo
stesso art. 529 c.p. nel definirla è indubbiamente generico (di qui ben si comprendono gli
opposti giudizi espressi su una stessa opera). Parte della dottrina sostiene che tali
incoerenze scaturiscono dall’aver applicato l’estetica crociana ad opere contemporanee.
Infatti, anche se ad essa va riconosciuto il merito di aver teorizzato che l’arte deve essere
valutata in modo autonomo dai condizionamenti morali, per deliberare su opere
contemporanee è indispensabile ricorrere allo strutturalismo, cioè considerare che, a
livello semantico, la parola può essere sostituita dal gesto e da un linguaggio specifico,
quale può essere il sesso. In sostanza, si richiede un’interpretazione prudente
dell’oscenità e la sostituzione del concetto di opera d’arte con quello di messaggio a
funzione estetica: si ritiene che in ciò risiede la soluzione a sentenze inique. Oltre al
carattere artistico, è possibile non giudicare un’opera cinematografica oscena quando
viene proiettata con particolari modalità, tali da non determinare l’offesa al pudore. La
giurisprudenza di merito ha infatti valutato non lesivo del comune senso del pudore un film
erotico alla cui visione gli spettatori si siano consapevolmente e volontariamente
sottoposti. Successivamente, la giurisprudenza ha disposto che la proiezione di pellicole
aventi contenuto osceno, qualora avvenga in sale cinematografiche a ciò destinate, non
viola l’art. 528 c.p. se il genere di proiezione è indicato all’ingresso del locale (sempre che
ne sia impedito l’accesso ai minori degli anni diciotto). L’orientamento della Cassazione ha
trovato seguito nella decisione della magistratura penale di Bologna , la quale ha
dichiarato non ravvisabile l’offesa al pudore nell’ipotesi in cui il film venga proiettato in sala
c.d. a luci rosse, i cui fruitori richiedono la visione di tal genere di spettacolo e pertanto non
possono esserne turbati, salvo che le immagini proiettate «superino gli ordinari limiti di
tolleranza dei frequentatori e contengano estremi di violenza e perversione che
costituiscono un surplus inatteso e raccapricciante». Di particolare interesse è anche
un’altra decisione della magistratura con la quale sono stati ritenuti non punibili, ai sensi
dell’art. 528 c.p., gli autori di un’opera cinematografica oggettivamente oscena quando è
assicurato sia il rispetto del divieto della visione in presenza di minori, sia dalla
pubblicizzazione, attraverso i mezzi di informazione di massa, del genere di film realizzato.
L’impunità è riconosciuta sia perché l’osceno non è offerto al pubblico in modo
indiscriminato, sia perché il giudice di merito, nell’esaminare il rapporto tra arte e oscenità,
aderisce all’indirizzo secondo cui tra di esse vi è conciliabilità, la presenza dell’una non
esclude aprioristicamente l’esistenza dell’altra in una stessa opera. Tale posizione è
motivata dal fatto che l’art 529 c.p., dopo aver precisato al primo comma la nozione di
osceno, nel secondo ipotizza che un’opera “non si considera”» oscena perché opera d’arte
o di scienza, ma che è intrinsecamente offensiva del pudore in quanto non può essere
procurata a persona minore degli anni diciotto. Con la stessa sentenza è stato disposto
che nel valutare se è “opera d’arte” una pellicola cinematografica che contiene immagini
obbiettivamente oscene, non si può condannare l’autore per aver scelto una tematica
scabrosa, e ciò in virtù della libertà dell’arte (art. 33 Cost.); piuttosto, bisogna accertare se
il regista abbia oltrepassato intenzionalmente e con compiacimento i limiti imposti dallo
svolgimento della delicata tematica, con scene superflue ed eccessive, rispetto a quelle
indispensabili per rendere in modo tangibile l’ambiente storico-sociale che egli ha voluto
rappresentare. Nella sostanza, l’opera a sfondo osceno, per assurgere a dignità di opera
d’arte e non essere giudicata oscena ai sensi dell’art. 528 c.p., deve contenere l’oscenità
nei limiti imposti dall’arte stessa. Di conseguenza è da ritenersi oscena un’opera che si
soffermi, senza alcuna necessità o ragione giustificatrice, su fatti ed episodi della vita
sessuale; ovvero, come sostiene parte della giurisprudenza, un’opera nella quale le
singole situazioni caratterizzate da oscenità sono di segno talmente preminente e
determinante rispetto alla narrazione da imporre un carattere erotizzante all’intera opera,
facendo apparire quest’ultima un semplice pretesto rispetto ad esse. In dottrina è stato
osservato che la prima parte della sentenza in esame, seppure presumibilmente in linea
con l’odierna concezione della vita umana e sociale, non appare altrettanto vicina al
contenuto della norma dell’art. 528 c.p., il quale è finalizzato a contrastare il diffondersi del
malcostume; di conseguenza, sembra ragionevole sostenere che è trascurabile il rispetto
di determinate modalità che regolano l’accesso agli spettacoli, visto che il numero dei
fruitori resta comunque indeterminato. Forse, per ovviare alle incongruenze tra l’art. 528
c.p. e la sua concreta applicazione, sarebbe auspicabile che la norma, considerata ormai
inattuale da più parti, venisse modificata in modo tale da individuare con chiarezza i nuovi
limiti, al di là dei quali si incorre nella lesione del sentimento del pudore. […] (“Rapporti
tra Pubblicazioni e Spettacoli Osceni il Bene Giuridico nella sua Evoluzione
Storica”).
PORNO-GIURISPRUDENZA

L’avvento della pornografia legale, da


“Gola Profonda” in poi, senza alcun
dubbio ha ridefinito la coscienza
collettiva, l’inconscio collettivo,
forzando i limiti del comune senso del
pudore. Due film del regista porno-
filosofo Renato Polselli ben incarnano il
porno-Zeitgeist, il porno-Spirito del
porno-Tempo. In “Rivelazioni di uno
Psichiatra sul Mondo Perverso del
Sesso”, del 1973, Bolsellli, che si firma
con lo pseudonimo Ralph Brown, il
porno-professore Straford illustra ai
suoi porno-studenti un campionario di
deviazioni sessuali: masochismo,
sadismo, zoofilia, necrofilia. Poi commissiona agli stessi una ricerca sul campo. Borselli,
con la scusa e la pretesa di denunciare la diffusione di una mentalità pornografica, crea,
paradossalmente, un film pornografico spazzatura che proprio quella mentalità va ad
alimentare. [...] L'argomento mi affascinava e sentivo molti discorsi sballati in proposito [...]
Dato che avevo un passato di studi psicanalitici, mi dedicai alla cosa e decisi di fare un
film con scarsissimi mezzi, esemplificandovi dentro tutti i casi che avevo studiato [...]
(M.Gomarasca, D.Aramu, “Renato Polselli: il mio cinema blasfemo”, Nocturno Book, n°7,
2001). [...] Anche per questo film venimmo denunciati io, il distributore nazionale, quello
regionale, il padrone della sala e persino l'attacchino, poveraccio, che aveva affisso il
manifesto. Lo ricordo come fosse adesso, si vede, nella locandina, una ragazza seduta, in
mutandine, su una sedia, a seno nudo ma coperto dai lunghi capelli. Nella denuncia si
diceva che il turgore del sesso della ragazza turbava i minori. Pensate l'ignoranza, il
turgore del sesso in una donna [...] (“Moana e le altre”, in Dizionario dei Film Italiani,
Giusti, 2004).

Non contento, Polselli si supera con “Oscenità”, del 1980:


in una riunione che dovrebbe essere una specie di terapia
di gruppo, un gruppo di persone che hanno "approfittato"
della bella Mireille spiegano le loro ragioni perverse,
mediate dall'aiuto dello psichiatra Ravaioli. Segue
immancabile excursus sui comportamenti perversi. Nel
film, oltre i dialoghi barocchi pseudo-psicanalitici che
sfociano nel ridicolo, si assiste all'accoppiamento di una
prostituta con un mulo, a stupri, frustate, a pannocchie
usate come dildo, pisciate, luci psichedeliche, pedofilia, in
un crescendo di oscenità del tutto gratuite che il regista
tenta pateticamente di giustificare come il resoconto
visuale di una indagine freudiana, con una carica perfino
femminista. [...] Venne respinto dalla censura perché,
come tanti altri miei lavori, portava avanti un discorso
contro il potere e contro i tabù che quest'ultimo è
interessato a perpetuare e consolidare all'interno della
società. In particolare in Oscenità [...] mi scagliavo contro
l'oscurantismo della Chiesa Cattolica, ma la censura, come ho già detto, mi bocciò il film e
io fui costretto a modificarlo e a farne un prodotto “femminista”, a favore delle donne e del
diritto a non essere vessate dal maschio" (da Nocturno, in Dizionario del Cinema Italiano,
Giusti, 2004).

Il contrasto alla diffusione della pornografia è un concetto entrato a far parte del nostro
codice penale solo recentemente, con la legge 3 agosto 1998 n. 269 (“Norme contro lo
sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno ai minori,
quali nuove forme di riduzione in schiavitù”), che, nel recepire la normativa internazionale,
sancisce l’obbligo, per il nostro Paese, di proteggere i minori contro ogni forma di
sfruttamento e di violenza sessuale, al fine di assicurarne la sanità dello sviluppo fisico,
psicologico, spirituale, morale e sociale. Il complesso di norme penali mira dunque,
almeno in teoria, a preservare il minore contro «l’aggressione subdola e dilagante della
perversione sessuale e del suo sfruttamento a fini di lucro». La legge si è resa necessaria
per cercare di contrastare la preoccupante portata generale del fenomeno rafforzando i
diritti dei minori. Il legislatore afferma che «alla base della legge vi è infatti un dato di
civiltà che vogliamo comunicare: essa non prevede solo l’individuazione di nuove pene
per nuovi reati. È una concezione della persona che la guida: “la persona è un fine e mai
un mezzo”». Si sottolinea, in particolare, come lo sfruttamento sessuale dei bambini
possa essere qualificato come una nuova forma di schiavitù, ed essere ricondotto al diritto
internazionale. In precedenza, la pornografia era valutata in base alla nozione di comune
sentimento del pudore, inteso come un bene “collettivo”, soggetto al mutare del tempo e
dei costumi, e, ovviamente, alla difesa della libertà individuale (il famoso Primo
Emendamento), per cui qualsiasi comportamento, se tenuto con riservatezza e senza
esercitare violenza nei confronti del prossimo, è lecito e non ha alcuna rilevanza penale.
[…] in un sistema democratico, il concetto penalistico di buon costume, assunto dalla
Costituzione come limite alla libertà di manifestazione del pensiero, non può identificarsi
con una determinata dottrina etica, ma deve coniugarsi con la libertà di ciascuno in
materia sessuale […] “il comune sentimento del pudore” si può tradurre in norma
incriminatrice soltanto nella misura in cui la detenzione di materiale pornografico comporti
un limite intollerabile alla libertà dalle molestie provocate dal dover assistere, contro la
propria volontà, ad atti o rappresentazioni di contenuto osceno […] la Corte Costituzionale
in proposito dichiara che «l’osceno attinge il limite dell’antigiuridicità penale, quindi della
sua stessa punibilità, solo quando sia destinato a raggiungere la percezione della
collettività, il cui sentimento del pudore può solo in tal modo essere posto in pericolo o
subire offesa» […]. La Corte Costituzionale dunque non riscontra capacità offensiva e
lesiva del comune senso del pudore in atti o in oggetti che, pur avendo in sé un significato
osceno, si esauriscono nella sfera privata e non costituiscono oggetto di comunicazione
verso un numero indeterminato di persone.

Secondo criteri tutt’altro che rigoristici, volti a favorire una mera politica porno-economica,
la dottrina porno-giuridica individua il “palesemente osceno” solo nelle rappresentazioni
relative ad atti sessuali completi e scoperti: il nudo integrale, anche se rappresentato in più
soggetti, anche se riprodotto in atteggiamenti “sguaiati”, non è da considerarsi né “osceno”
né “indecente”. […] Ormai la fattispecie di nuova creazione relativa al «palesemente
osceno», così come interpretata dalla magistratura di merito, sta determinando la
completa eliminazione di ogni rigorosità […] Tutto ciò opera nella società un processo
involutivo da considerarsi come l’inizio della più vergognosa liberalizzazione del
“malcostume”, nel più provocante dispregio di fondamentali principi contenuti nella Carta
costituzionale […]. Per quanto riguarda le norme di protezione del senso del pudore dei
minori e della loro morale, stabilito che il minore è influenzato da complessi rapporti sociali
e da informazioni particolarmente diffuse, l’orientamento della Cassazione ha confermato
quanto sostenuto dalla porno-giurisprudenza, ovvero che «la moderna sensibilità dei
minorenni deve essere valutata in relazione ad una realtà sociale in continua evoluzione e
i cui cambiamenti condizionano la personalità degli adolescenti». La S.C. (Cass., sez . VI,
14 ottobre 1975) ha quindi precisato che «l’offesa al pudore del minore deve essere
vagliata con riferimento all’adolescente medio dei tempi moderni, cioè a quel giovane che
conduca una normale vita familiare e di relazione, libero sia da eccessi di moralismo, sia
da riprovevoli sfrenatezze. Tale apprezzamento non deve però avvenire presupponendo
che la mentalità e la psicologia dei giovani mutino a tal punto da rimanere totalmente
investite da tendenze riprovevoli». Per quel che riguarda la tutela del diritto alla privacy e
il correlativo diritto alla libertà sessuale del singolo possessore di materiale pornografico,
l’art. 600 quater c.p. identifica la condotta di detenzione di materiale pornografico nei
seguenti termini: «Chiunque al di fuori delle ipotesi previste nell’art. 600 ter,
consapevolmente si procura o dispone di materiale pornografico prodotto mediante lo
sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto è punito con la reclusione fino a tre
anni o con la multa non inferiore a tre milioni».

Ancora oggi, punire il mero detentore di materiale pornografico va contro la tradizione del
nostro diritto penale, che ha sempre tendenzialmente rispettato la privacy del domicilio dei
cittadini ed ha dunque tendenzialmente permesso ogni attività, senza vittime in carne ed
ossa, che si svolgesse nell’intimità del focolare domestico. La stessa logica porno-liberale
che in materia di prostituzione conduce alla punibilità di sfruttatori, agevolatori,
favoreggiatori della prostituzione stessa, ma non del cliente della prostituta. Una tale
logica non sembra condivisibile: se un fenomeno del “vizio” viene ritenuto degno di essere
represso penalmente, occorre colpirlo in tutte le direzioni e a tutti i livelli, pena l’inefficacia
dello strumentario penale. Di conseguenza, se si vuole punire la “prostituzione come tale”,
lo si deve fare anche sanzionando penalmente il cliente; se si vuole punire la “pornografia
come tale”, si deve punire anche il detentore in quanto tale. La legge n.269/98, pur
perseguendo, tra le varie finalità, quella di contrastare la pornografia, in realtà non si
preoccupa di dare una definizione generale di essa. […] A distanza di sei anni
dall’emissione della legge n. 269/98, né la giurisprudenza né la dottrina si trovano
concordi nell’accogliere una definizione unitaria di ciò che è pornografico […] Pur essendo
stata decantata dalla stampa come legge contro la pedofilia […] in concreto essa non
offre, al fine di proteggere il minore, una tutela del tutto esauriente. Ad esempio non
colpisce coloro che introducono o immettono in rete il materiale pornografico, non
incrimina il cliente che soggiace con il minore, e, per di più, le pene previste per coloro che
cedono ad altri, anche a titolo gratuito, materiale pedo-pornografico, sono le stesse pene
detentive che sanzionano i reati fiscali. La legge inoltre non prevede, ad esempio, che il
provider, cioè colui che offre spazi gratuiti o a pagamento per costruire pagine web, adotti
un codice di autodisciplina o autoregolamentazione per rilasciare gli spazi, così come non
è contemplata la possibilità che possa esistere un registro telematico dei proprietari di
queste pagine web. L’assenza di forme di controllo consente di rimanere nell’anonimato
ovvero di aprire un sito web anche a nome di un’altra persona, tanto più che difficilmente
al momento della registrazione, per ottenere lo spazio viene richiesto un documento
d’identità comprovante le generalità del richiedente […] essa non prevede che il pedofilo
già condannato possa essere schedato, né che la persona già indagata venga schedata
ed inserita in una banca dati messa a disposizione della magistratura inquirente e delle
forze dell’ordine, né tanto meno che le foto dei bambini che si trovano in internet possano
essere catalogate. Nonostante i contenuti della Raccomandazione n.190/99, non si può
non rimproverare al nostro legislatore […] la mancata configurazione nel nostro
ordinamento penale delle fattispecie dei reati di pedofilia e di pedofilia in internet, né il non
adoperarsi con azioni di prevenzione per combattere e contrastare questa ormai troppo
dilagante piaga […] se da una parte con la legge 269/98 si è provveduto ad acconsentire
ed attrezzare le forze di polizia di strumenti atti e validi per la creazione di siti trappola, allo
scopo di individuare e contrastare i siti dei pedofili, paradossalmente, con la stessa legge,
non si consente alle stesse forze di polizia di poter conservare le prove e il corpo del reato
[…] (“Rapporti tra Pubblicazioni e Spettacoli Osceni il Bene Giuridico nella sua
Evoluzione Storica”).

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