Il 15 ottobre 2009, dopo aver ceduto una confezione di plastica in cambio di una
banconota, Stefano Cucchi viene fermato dai Carabinieri e portato immediatamente
in caserma. A seguito di una perquisizione, vengono ritrovate numerose confezioni di
vari stupefacenti. Per questo motivo è decisa la custodia cautelare; in tale data Cucchi
non ha alcun trauma fisico, ma pesa 43 chilogrammi per 162 cm di altezza.
Il giorno dopo si tiene l’udienza. Già durante il processo ha difficoltà motorie e
mostra evidenti ematomi agli occhi. Nonostante ciò, il giudice fissa una nuova udienza
per il mese successivo e stabilisce la permanenza cautelare al carcere di Regina Coeli.
Dopo l'udienza le condizioni di Cucchi peggiorano al punto tale da essere visitato
presso l'ospedale Fatebenefratelli. Numerose lesioni, ecchimosi e fratture sono segnate
sul referto; viene richiesto il ricovero, ma Cucchi rifiuta.
Il 22 ottobre 2009, egli muore all'ospedale Sandro Pertini. Al momento del decesso
pesa solamente 37 chilogrammi. I familiari non hanno subito notizie del figlio, se non
quando un ufficiale giudiziario si reca presso la loro abitazione per richiedere
l'autopsia.
La morte di Stefano Cucchi apre numerosi interrogativi: il personale carcerario nega
di avere esercitato violenza, d’altro canto la famiglia ha sete di risposte.
Tutti i coinvolti, sia direttamente, sia in quanto osservatori, sono rimasti in silenzio per
moto tempo, finché il carabiniere Riccardo Casamassima ha consentito di riaprire il
caso nell’ottobre 2018 tramite la sua testimonianza. A lui si è aggiunto Francesco
Tedesco, uno degli imputati, che ha ammesso il pestaggio ed ha ricostruito gli eventi.
Adesso, per aver fatto giustizia, entrambi subiscono minacce dai loro superiori.
Di Stefano ne esistono tanti: uomini che hanno pagato con la vita l’abuso e la
negligenza altrui. Tutte queste vicende evidenziano, però, le pessime condizioni delle
carceri italiane. Si tratta di luoghi in cui il reo non può migliorare se stesso né
ricominciare dal punto in cui ha sbagliato, mai applicando tutte le legislazioni in
vigore. Quotidianamente ci viene insegnato che “sbagliando si impara”, ma cosa
manca ad un detenuto al punto da non meritare tale possibilità?
Proprio all’indomani dell’Unità d’Italia si aprì la questione delle strutture detentive.
Con l’aumento della popolazione e della criminalità, l’inadeguata capienza si unì al
problema delle condizioni igieniche e della fatiscenza delle strutture. Dal 1861 al
2018, numerosi intellettuali si sono espressi riguardo a quale modello adottare per
riformare le carceri.
Secondo alcuni bisogna cercare un punto di equilibrio tra la gravità del reato e la
tipologia della pena che deve essere inflitta. L’articolo 27 della Costituzione afferma
che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato. Pasquale Stanislao Mancini
aggiunge che le sanzioni penali offrono un’opportunità per promuovere la
rigenerazione morale dei condannati.
Secondo altri, invece, il carcere deve drasticamente prevenire, o meglio eliminare, il
pericolo che il soggetto possa causare in futuro all’interno della società. Le donne
politiche Carfagna e Bonino credono che il carcere preventivo sia utile per salvare
delle vite. In particolare, questa misura cautelare soddisfa la richiesta di giustizia da
parte del popolo. Spesso la detenzione preventiva è considerata un modo per
opprimere i detenuti ed è la causa principale dell’abuso di potere e dei conseguenti
omicidi. Nello stesso caso Cucchi, Vincenzo Nicolardi in una comunicazione
radiofonica disse: “Magari morisse”. Eliminare il percolo coincide con il fare giustizia
in modo autonomo: Stefano fu considerato un reietto e, dunque, poteva essere
cancellato tranquillamente dalla società.
E l’articolo 1 e 6 dell’ordinamento penitenziario? Perché non vengono attuati? Essi
impongono un trattamento rieducativo attuato rispondendo ai bisogni di ciascun
individuo e il reinserimento del soggetto anche attraverso i contatti con l’ambiente
esterno.
In alcune prigioni lo spazio minimo per detenuto è inferiore ai 3 metri quadrati, ossia
la soglia minima stabilita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. In molte celle non
vi sono le docce, vi è l'assenza di cartelle cliniche e la scarsità di educatori.
Il carcere deve rappresentare uno strumento di formazione, di consapevolezza di sé e
dei reati. Non è più un castigo, né emarginazione. Esso è mezzo di educazione
all’adeguamento delle norme giuridiche vigenti.
Vittorio Andreoli crede che “il carcere debba essere un luogo di rieducazione e avere,
dunque, le caratteristiche delle istituzioni educative, attente a tirar fuori dallo studente
ogni elemento che gli permetta di diventare più utile alla società. Il carcere come
camicia di forza, come immobilità per non far del male è pura follia, è antieducativo.
Non appena viene tolto il gesso, c'è subito una voglia di correre e di correre contro la
legge. Senza considerare l'assurdo di un luogo dove si accumula la criminalità, che ha
un potere endemico maggiore di un virus influenzale.”