architettura istituzionale suggellava l’armonia interna alla città. Gli aquilani ot-
tenevano nel 1355 di potersi governare con il cosiddetto ‘Reggimento ad Arti’,
le cui magistrature rappresentavano i settori sociali di maggiore rilevanza: mer-
canti, pellettieri, metallieri, giudici e notai, nobili (anch’essi organizzati in arte).
Questa riforma del governo cittadino era stata concessa dalla regina Giovanna
I su richiesta degli aquilani stessi, dopo che il conte di Montorio Lalle (I) Cam-
poneschi era stato ucciso da Filippo di Taranto su mandato regio, a causa della
sua propensione verso il ramo durazzesco della casa regnante. Il Camponeschi
era stato il vincitore delle lotte di fazione che erano scoppiate a L’Aquila dalla
fne degli anni Trenta del secolo XIV, ed era diventato signore di fatto della
città. Nel vuoto politico determinato dalla sua scomparsa, gli aquilani – secondo
Buccio – elaborarono una proposta politica di grande spessore, con l’intento di
creare una struttura istituzionale rispondente alla articolazione sociale e ai ruoli
di ciascun gruppo. In questo clima di pace ristabilita, che prevedeva anche il
rientro dei fuorusciti, Buccio di Ranallo, già autore di una Leggenda di Santa
Caterina in versi, decideva di dare avvio alla sua cronaca, con l’intento morale-
didascalico cui si è accennato.
Nel panorama della produzione storiografca dell’Italia tardomedievale, que-
sta opera costituisce senza dubbio un unicum, per un insieme di motivi. In primo
luogo, Buccio di Ranallo sceglie di comporre una cronaca politica interamente
in versi, e lo fa adottando una struttura polimetrica, composta di 1.249 quartine
intercalate da 21 sonetti, tutti di contenuto ammonitorio. Inoltre l’Autore utiliz-
za una forma metrica in disuso come le quartine monorime di alessandrini, di
contro alla più diffusa terzina o alla ottava che andava diffondendosi alla metà
del Trecento. In secondo luogo, differentemente da altre cronache prodotte nel
Mezzogiorno tardomedievale, l’orizzonte geografco dell’opera è strettamente
ancorato alla dimensione cittadina. La prospettiva assunta dall’Autore rimane
aquilana anche quando sono trattati episodi di storia politica generale, tanto
che le vicende degli stessi sovrani appaiono essere solo uno sfondo sul quale si
stagliano quelle locali, cui l’Autore conferisce talvolta un potere condizionante
eccessivo. Ad esempio, secondo Buccio di Ranallo la battaglia di Tagliacozzo si
risolse in un successo per Carlo I d’Angiò solo grazie all’intervento degli aquilani,
contattati segretamente dal re in persona (strr. 97-137, pp. 31-44).
Al di là degli eccessi, comuni a tanta cronachistica tardomedievale, la crona-
ca di Buccio possiede un valore rilevante come fonte storica. L’opera è infatti rite-
nuta sostanzialmente affdabile dagli storici e, soprattutto, costituisce in molti casi
l’unica fonte a disposizione per l’indagine sulla città de L’Aquila dalla fondazione
ai decenni centrali del Trecento. Questa cronaca, a parte la testimonianza su fatti
e personaggi aquilani e non, ci offre uno spaccato della società, dell’economia
e della mentalità di un centro urbano del Mezzogiorno angioino alla metà del
secolo XIV. Il punto di vista dell’Autore è quello dell’intera cittadinanza aquilana,
della quale diventa voce tanto autorevole da permetterci di considerare la cronaca
«l’autobiografa critica di una collettività per bocca di un suo membro», come è
stata defnita da De Matteis (p. xv). Sebbene le autorità cittadine non abbiano
mai riconosciuto la cronaca come ‘storia uffciale’ de L’Aquila, affdandosi ad
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PieRluigi TeRenzi